Troppo giovani, troppo vecchi. Il pregiudizio sull’età 9788858106570

In base all’età si decide chi deve studiare, chi deve votare, chi deve guidare, chi deve lavorare, chi deve smettere di

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Troppo giovani, troppo vecchi. Il pregiudizio sull’età
 9788858106570

Table of contents :
Indice......Page 157
Frontespizio......Page 3
Esergo......Page 5
1. L'età: un criterio molto speciale......Page 9
1. Le caratteristiche dell’adultità......Page 18
2. Più umano degli altri?......Page 22
4. L’attivismo dei quarantenni, il doppio percorso dei cinquantenni......Page 24
5. Ma gli adulti esistono ancora? Chi non cresce e chi non vuole crescere......Page 26
3. Le dimensioni del pregiudizio: credenze, sentimenti e azioni......Page 29
1. A cosa servono gli stereotipi......Page 31
2. Il primato dell’affettività......Page 35
3. Il pregiudizio moderno: come stanarlo......Page 37
4. Le molteplici forme della discriminazione......Page 40
4. Quant’è bella giovinezza.........Page 43
1. Bambini: tra iperprotezione e disattenzione......Page 44
2. Adolescenti: tra eccesso di indulgenza e autoritarismo......Page 48
3. Giovani: l’adolescenza infinita......Page 52
4. Biasimare la vittima? Il caso italiano......Page 54
5. Gli anziani tra emarginazione e gerontocrazia......Page 60
1. Variazioni sul tema......Page 63
2. Atteggiamenti sfavorevoli ai più anziani......Page 66
3. Chi sono le persone con più pregiudizi verso gli anziani?......Page 69
4. Gli incredibili effetti del «priming» legato all’età e come contrastarli......Page 72
5. Quando lo stereotipo dell’anziano può essere vantaggioso......Page 77
6. Eccesso di zelo......Page 78
7. Pregiudizi, discriminazione e lavoro......Page 80
8. Il caso della politica: «ageism» parlamentare e gerontocrazia......Page 86
6. Età e genere: due pesi e due misure?......Page 90
1. Il doppio standard......Page 91
2. Doppio standard e mondo del lavoro......Page 94
3. Doppio standard e comunicazione di massa......Page 97
4. L’immagine della donna anziana......Page 100
5. Invecchiare naturalmente?......Page 103
1. La rappresentazione dei più giovani nei media......Page 105
2. Gli anziani nella pubblicità......Page 110
3. Come l’immagine degli anziani proposta dai media può influenzare il pubblico......Page 114
4. Gli anziani nei programmi per bambini e il caso dei biglietti d’auguri......Page 119
8. I perché dell’«ageism» e alcune strategie per contrastarlo......Page 122
1. Tre possibili spiegazioni......Page 123
2. Si può combattere l’«ageism»?......Page 125
3. Come l’immaginazione può ridurre gli stereotipi negativi......Page 127
4. Attenuare i pregiudizi reciproci tra le generazioni: contatti veri e immaginati......Page 129
1. La diversità come risorsa......Page 135
2. Una società per tutte le età......Page 138
Riferimenti bibliografici......Page 142

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Universale

Angelica Mucchi Faina

Troppo giovani, troppo vecchi Il pregiudizio sull’età

Editori Laterza.

Universale Laterza 936

Angelica Mucchi Faina

Troppo giovani, troppo vecchi Il pregiudizio sull’età

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione marzo 2013

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0657-0 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. Epicuro (Samo, 341 a.C.-Atene, 271 a.C.) Lettera a Meneceo

Troppo giovani, troppo vecchi Il pregiudizio sull’età

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L’età: un criterio molto speciale

Nel 2009, l’ingegner Eugenio Borghetti creò un caso e accese un certo dibattito sul «Corriere della Sera». Pieno di energia e in ottima forma fisica – andava in bicicletta, in palestra, insomma stava benone – scrisse una lettera al giornale in cui raccontava la sua esperienza di settantenne che voleva rendersi utile agli altri. La cosa risultò impossibile: «Volevo donare il sangue: non posso... mi rispondono che dopo i sessant’anni il sangue non è più buono. Volevo lavorare sulle ambulanze: troppo anziano». Si iscrisse allora a un corso di volontari di base della Protezione civile, ottenne l’attestato e lo spedì alle varie sedi: nessuna risposta. Venne infine a sapere che per gli ultrasessantacinquenni non c’era niente, troppo vecchio per il volontariato. L’ingegnere ci rimase male: per la prima volta, a settant’anni, si era sentito «come uno che chiede l’elemosina»1. «Che assurdità», commentò il giorno dopo sullo stesso giornale lo psicologo ottantatreenne Marcello Cesa Bianchi, intervistato da Giusi Fasano. «Purtroppo 1 

Cfr. «Corriere della Sera», 12 giugno 2009.

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c’è la tendenza diffusa a credere che conti la questione cronologica più di quella fisica e psicologica. Non è così. Non esiste un modello standard legato a un’età. È assurdo anche solo pensarlo perché la variabilità individuale è notevolissima, come capisce chiunque». «E i regolamenti nei quali è incappato l’ingegnere monzese?», chiese la giornalista. «Sono due mondi che non si parlano», rispose Cesa Bianchi. «Da una parte c’è un numero crescente di persone che, come lui, hanno passato i sessanta-settanta e che vogliono sentirsi attivi, utili, che vogliono crescere, contribuire e imparare ancora. Dall’altra, la propensione a pensare che non siano in grado di farlo. Non è vero. La vecchiaia non è un destino predefinito, è un’avventura esistenziale da inventare. Si può essere creativi fino all’ultimo istante di vita». Altri noti e meno noti lettori non più giovani si fecero sentire: Gillo Dorfles suggerì altre attività da fare nel tempo libero, Umberto Veronesi sostenne che «andare in pensione già a sessantacinque anni è come nascondere un patrimonio sotto il materasso», Gianfranco Finamore si chiese «perché bisogna per forza sentirsi utili?», mentre Salvatore Scargiali affermò che «l’energia degli anziani è superiore a quella di molti giovani». Vennero espresse posizioni diverse, unite però dal desiderio di affermare con forza che essere anziani non significa essere “una scarpa vecchia”, da buttare, e che l’età non può essere un criterio primario di valutazione. Invece l’età è proprio un criterio di giudizio primario: pochi millisecondi sono sufficienti per identificare approssimativamente – magari in modo erroneo – l’età e il genere di un individuo. Queste prime informazioni vengono utilizzate per categorizzare le persone e come guida per il comportamento interpersonale. E gli ­4

stereo­tipi legati all’età sono ancora più potenti di quelli, già forti, legati al genere. Questo libro parla di ageism, un termine inglese intraducibile che fa riferimento al pregiudizio e alla discriminazione basati sull’età. In generale, il pregiudizio si attiva nei confronti di persone appartenenti a una categoria2 diversa dalla propria (altra etnia, altro genere, altro orientamento sessuale, ecc.). L’età è una categoria molto particolare perché le persone cambiano la loro appartenenza categoriale nel corso del tempo e lo fanno involontariamente. La specificità dell’ageism, ciò che lo rende diverso da altre forme di pregiudizio, è il fatto che ogni essere umano lo può prima o poi subire, ne può diventare la vittima poiché colpisce durante diverse fasi del ciclo di vita. Il caso dell’ingegner Borghetti, appena citato, rappresenta un esempio di pregiudizio verso i più anziani. Ma l’ageism può riguardare anche i più giovani, compresi i bambini e gli adolescenti, e per questo motivo è stato definito come un fenomeno intergenerazionale (North e Fiske, 2011). Ogni fascia d’età è potenzialmente oggetto di un pregiudizio basato soprattutto – come cercherò di dimostrare – sulla premessa implicita che il prototipo dell’essere umano, l’esemplare che ne rappresenta al meglio le caratteristiche, è l’adulto di sesso maschile3. L’uomo adulto costituisce il termine di confronto, il punto di riferimento cognitivo rispetto al 2   In questo testo userò i termini categoria e gruppo in maniera interscambiabile, non ripetendo ogni volta entrambi, per evitare eccessive lungaggini ma ben consapevole del fatto che i due costrutti non sono equivalenti. 3  Tutte le persone che hanno raggiunto la maggiore età sono considerate adulte. Per semplicità, però, mi riferirò ai giovani adulti come giovani, alle persone di età intermedia come adulti e a quelli che l’hanno superata come anziani.

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quale gli altri esseri umani sono considerati in qualche modo manchevoli, difettosi, insomma, imperfetti. All’art. 3 della Costituzione italiana si legge: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Si noterà che l’età non è presa specificamente in considerazione, non si è pensato fosse necessario, nel 1947, indicarla come possibile fonte di disuguaglianza. Non c’è da stupirsi: non solo la politica, ma anche le scienze sociali hanno tardato a riconoscere che l’età può costituire un’importante prerogativa da cui emanano benefici o danni psicologici e sociali. Solo negli ultimi decenni studi su pregiudizi e stereotipi legati all’età compaiono a fianco di quelli legati all’etnia, al genere, alla nazionalità e all’orientamento sessuale se pur, ancora oggi, in misura minore. La discriminazione, la segregazione e anche l’eliminazione fisica perpetrate in base all’età della vittima hanno invece una lunghissima storia. Nell’antichità, l’infanticidio era molto frequente. Nella Sardegna nuragica o nella Cantabria (Pittau, 1991) – e anche, in epoche meno remote, in alcune società come gli Inuit canadesi Takamiut, i Mataco del Gran Chaco boliviano o i Murngin australiani (Neuberg, Smith e Asher, 2000) – era pratica corrente sia uccidere che abbandonare i bambini, o i vecchi, o entrambi. In lotta perenne per la sopravvivenza, questi gruppi erano spinti dalla necessità di limitare il nutrimento a coloro che contribui­ vano maggiormente al lavoro fisico, erano in grado di sostentarsi e, al caso, di difendere se stessi e il gruppo dai nemici. L’ingombro di questi “pesi” era soprattutto sentito dalle popolazioni nomadi, per le quali la capa­6

cità di spostarsi autonomamente costituiva un’esigenza primaria. Al contrario, nella maggior parte delle società stanziali a tradizione orale, in cui era sentita la necessità di insegnare e tramandare conoscenze e cultura, gli anziani erano oggetto di rispetto reverenziale e di grande considerazione in virtù della loro saggezza e memoria storica. Nella nostra società, infine, dove si guarda più al futuro che al passato e dove la conoscenza e la trasmissione culturale si avvalgono in gran parte di strumenti tecnologici e informatici, gli anziani tornano a essere percepiti prevalentemente come un peso. Il loro sapere non conta più, appare obsoleto. Riaffiorano così vecchi pregiudizi e ne nascono di nuovi. Fino a quando si è giovani, quando si diventa vecchi? I criteri e i pareri si diversificano: un demografo utilizzerà parametri differenti da uno psicologo, perché tali sono i loro punti di vista e le loro finalità. Inoltre, l’aspetto fisico, l’attività svolta, le abitudini di vita valgono da punto di riferimento per decifrare l’età e spesso contano più di un criterio meramente anagrafico. Lo stesso convenzionale criterio anagrafico, del resto, è mutato nel tempo in relazione alle aspettative di vita, cosicché, per esempio, il concetto di giovane si è assai allungato invadendo anche sfere che fino a qualche decennio fa erano considerate parte dell’età matura (Livi Bacci, 2008). Lo stesso può essere detto per l’anziano: oggi chi ha sessant’anni si sente, e giustamente, di mezza età perché i centenari abbondano. Si aggiunga che i giudizi sull’età cambiano in rapporto ai contesti di riferimento: se un giocatore di calcio è ritenuto anziano già a trentacinque anni, un senatore di quarant’anni è considerato giovane. Secondo Neugarten (1968) le persone si creano ­7

aspettative piuttosto precise circa il timing degli eventi nel loro ciclo di vita, una specie di “orologio sociale” che dice loro se sono “in tempo” o “fuori tempo”. La percezione di essere fuori tempo – ossia di agire, sentirsi e pensare in modo discordante rispetto alla propria età anagrafica – provoca uno stato di malessere poiché abbassa il livello di autostima. Effetti simili possono manifestarsi quando si crea una discrepanza tra i tempi in cui ci si aspetta che accadano determinati fatti e i tempi in cui questi si realizzano. Varie ricerche hanno riscontrato, per esempio, che una donna che diviene nonna anzitempo, così come una persona che perde prematuramente un genitore, manifestano livelli più alti di stress rispetto a coloro che vivono le stesse esperienze quando se le aspettano. L’età appare come una prerogativa di primaria importanza non solo nella percezione degli altri, ma anche nella valutazione di se stessi, poiché è uno dei fattori che la gente usa per differenziarsi dagli altri e stabilire a quale categoria appartiene. Si definisce come age identity – in italiano identità legata all’età – quella parte del concetto di sé che è legata all’appartenenza a una determinata categoria di età. Per decidere quale sia la propria categoria di appartenenza si considerano generalmente tre dimensioni dell’età (Montepare e Zebrowitz, 1998): una più strettamente psicologica (percezioni in merito alle proprie abilità cognitive e motivazioni a imparare cose nuove), una fisica (percezioni circa la propria apparenza e salute) e una sociale (percezioni riguardanti le proprie attività sociali, i propri interessi e il trattamento che gli altri ci riservano). A seconda di come si percepiscono rispetto a queste tre dimensioni, le persone hanno più o meno desiderio di rimanere in una determinata fase della vita o di abbandonarla. Per esempio, si è visto ­8

che i giovani con un’identità di età psicologica e sociale più vecchia hanno – rispetto agli altri coetanei – un maggior desiderio di abbandonare il loro gruppo di età e di passare a quello successivo perché si aspettano che comporterà maggiori responsabilità, libertà personale e autonomia. Variazioni culturali nell’ambito di queste aspettative possono spiegare perché in certi paesi (come gli Stati Uniti) siano maggiormente incoraggiate l’acquisizione di autonomia e fiducia in se stessi a differenza di altri paesi (come il Giappone). Tornerò su questa distinzione in riferimento all’Italia. A livello teorico, e non solo, è poi importante distinguere i gruppi di età dalle generazioni. Una generazione non è accomunata solo dall’età, ma anche dal fatto che i suoi membri hanno vissuto le stesse condizioni di socializzazione e gli stessi eventi storici (Mannheim, 1952). Per esempio, le persone nate nel secondo dopoguerra, tra il 1945 e il 1964 – i cosiddetti baby boomers – stanno ora entrando a far parte della categoria degli anziani, ma per la loro esperienza e la loro storia presentano caratteristiche, atteggiamenti e comportamenti in parte diversi da quelli degli anziani che li hanno preceduti. L’essere cresciuti in un periodo di sviluppo economico e aver poi vissuto, in modo diretto o indiretto, l’esperienza del Sessantotto, degli anni di piombo, e così via, li ha profondamente segnati e differenziati rispetto ai propri genitori, cioè alla generazione che ha vissuto la guerra. Certi stereotipi, certi pregiudizi possono riguardare non genericamente una classe di età – i più anziani – ma essere collegati alla specifica generazione che in quel momento la rappresenta. Tutte queste differenze, in rapporto a criteri, contesti e generazioni, rendono il discorso sui pregiudizi collegati all’età estremamente complesso, poiché non ­9

è possibile una delimitazione universalmente condivisa delle classi d’età che dei pregiudizi costituiscono il bersaglio. Una recente ricerca (Abrams, Vauclair e Swift, 2011) ha analizzato quali siano le classi d’età a cui le persone fanno riferimento per definire giovani e vecchi. Si tratta di uno studio molto importante per il nostro tema – vi farò riferimento spesso – perché ha preso in esame gli atteggiamenti verso l’età, in particolare verso la tarda età, basandosi su un campione rappresentativo delle persone con più di quindici anni di ventotto Stati europei (purtroppo l’Italia non è tra questi)4. Ebbene, da questa indagine è emerso che mediamente gli intervistati collocano a sessantadue anni l’inizio della vecchiaia e poco sotto i quarant’anni la fine della giovinezza. Tuttavia, i confini tra le età cambiano in modo sostanziale da un paese all’altro. Per esempio, per i norvegesi si è giovani fino a trentaquattro anni, mentre per i greci fino a cinquantadue; in Turchia l’inizio della vecchiaia è posto mediamente a cinquantacinque anni, mentre in Grecia a sessantotto. Questa ricerca ha anche confermato un fenomeno già altre volte rilevato: la percezione circa i confini tra le classi d’età varia in relazione all’età della persona intervistata. Più precisamente: tanto più le persone invecchiano, tanto più tendono a spostare avanti nella vita la fine della giovinezza e l’inizio della vecchiaia. Tutti questi scostamenti, attribuibili alle differenze individuali, alla cultura, alle abitudini di vita e forse anche alla lingua, mettono in luce come qualsiasi classificazione sia opinabile. Inoltre, l’età è una variabile con4  La ricerca è stata effettuata elaborando dati raccolti dall’European Social Survey (quarta tornata, 2008). Il campione era composto da circa cinquantacinquemila persone.

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tinua e, come tale, ridurla a un insieme di categorie è del tutto arbitrario. Le categorie, infatti, non sono neutre: come hanno illustrato egregiamente vari esperimenti in psicologia sociale (a partire da Tajfel e Wilkes, 1963), l’uso delle categorie spinge a sottovalutare le differenze interne a ciascuna categoria e a sopravvalutare le differenze tra di loro. Per esempio, se definisco “anziani” coloro che hanno superato i sessant’anni, tenderò impropriamente a considerare chi ha sessantadue anni più simile a una persona di settanta che a una di cinquantanove. Tuttavia le categorie – con i limiti di cui si è detto e di cui invito chi legge a tenere conto – ci facilitano la vita perché riducono la complessità e, in questo caso, rendono più comprensibile il ragionamento che intendo fare. Pertanto non mi voglio sottrarre a una, se pur flessibile, ripartizione sebbene sia consapevole della sua arbitrarietà. In questo libro, considerando adulti coloro la cui età è compresa tra i trentacinque e i sessantacinque anni, definirò più giovani coloro che sono al di sotto di questa fascia d’età e più anziani coloro che ne sono al di sopra. In queste tre categorie – che corrispondono grosso modo alla visione tripartita del ciclo di vita che le persone comunemente hanno – possono essere individuati diversi sottotipi che presentano caratteri specifici e nei confronti dei quali esistono aspettative sociali (e pregiudizi) differenti. Prenderò quindi in considerazione questi tre gruppi d’età, le sottocategorie relative e le attuali relazioni tra queste, ovvero gli atteggiamenti e i comportamenti intergenerazionali.

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La supremazia dell’adulto

«Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse». Questa affermazione di Henri Estienne, pensatore francese del Cinquecento, è diventata proverbiale e riassume in breve il concetto che sia i giovani sia i vecchi sono considerati deficitari, manchevoli. Le loro carenze sono differenti ma l’ageism li riguarda entrambi. Sono due facce di una stessa medaglia? Le caratteristiche e le motivazioni che sottendono il pregiudizio verso i giovani e verso gli anziani sono in parte diverse, ma sono accomunate dal fatto di essere basate sul confronto perdente con il modello di riferimento, l’essere umano per eccellenza, nella sua piena espressione: la persona adulta (e di genere maschile, come vedremo più avanti). 1. Le caratteristiche dell’adultità La supremazia dell’adulto si basa su una serie di fattori diversi ma profondamente legati. Innanzitutto si ritiene che la personalità degli adulti sia più solida e completa di quella dei giovani e degli anziani: gli adulti sono più decisi e diretti, più orientati al raggiungimento di ­12

risultati, più capaci di cogliere le opportunità presenti nel contesto, più coscienziosi ed emotivamente stabili di quanto non siano gli appartenenti agli altri gruppi d’età (Roberts, Walton e Viechtbauer, 2006). In secondo luogo, gli adulti rappresentano la categoria d’età maggiormente inserita nel sistema produttivo. Sono gli adulti che forniscono la maggior parte del sostegno economico nelle famiglie, e sono anche ritenuti coloro che danno le migliori prestazioni, perché coniugano energia e competenza. Pertanto, rispetto ai più giovani e ai più anziani, gli adulti godono in genere di uno status più alto, ossia di una posizione superiore nella gerarchia sociale. La relazione tra età e status è così di tipo curvilineare: lo status cresce progressivamente dall’infanzia all’età adulta per poi decrescere fino alla grande vecchiaia (Fiske, 2010). Le differenze tra adulti e giovani/anziani in termini di status sono percepite in dimensioni quali potere, agiatezza, rispetto, influenza, prestigio e competenza (Cuddy e Fiske, 2002; Garstka, Hummert e Branscombe, 2005). L’egemonia degli adulti, così come la loro maggiore capacità di socializzare e di piacere, sono dichiarate sia da coloro che fanno parte di quella categoria sia da coloro che appartengono alle altre fasce d’età. Gli adulti sanno bene che la loro età ha caratteristiche specifiche, sono consapevoli della loro posizione e del loro ruolo nella struttura sociale, sanno di rappresentare la regola, gli esseri umani per eccellenza e di essere loro a prendere la maggior parte delle decisioni in una società controllata in prevalenza da loro pari. Gli adulti sono anche più orientati alla dominanza sociale (Pratto et al., 1994), ossia mostrano un maggior desiderio di mantenere le differenze gerarchiche dei differenti gruppi sociali, differenze che li avvantaggiano rispetto ai più giovani e ­13

ai più anziani. Allo stesso tempo, però, si identificano poco con la loro categoria d’età e tendono ad attribuire i risultati che ottengono alle proprie capacità personali e non all’appartenenza al gruppo d’età privilegiato (Garstka, Hummert e Branscombe, 2005). Gli adulti hanno, inoltre, visioni dei giovani e degli anziani molto più stereotipate di quanto questi ultimi non abbiano degli adulti e quindi, nonostante la loro scarsa identificazione con la propria fascia d’età, desiderano mantenere una separazione netta tra la propria generazione e quelle dei più giovani e dei più vecchi. Una ricerca condotta presso l’università di Utrecht ha rilevato le opinioni che gli adulti hanno dei giovani e, viceversa, le opinioni che i giovani hanno degli adulti (Meeus, cit. in Meeus e Crocetti, 2009). I risultati hanno indicato che gli adulti hanno valutato molto positivamente il proprio gruppo e negativamente quello dei giovani, mentre i giovani hanno giudicato gli adulti più positivamente dei propri coetanei. Gli adulti, quindi, hanno espresso opinioni sui giovani più negative di quelle che i giovani hanno espresso sugli adulti. Come succede sovente a chi appartiene a gruppi di alto status, essi hanno mostrato di preferire le persone della loro età allo scopo di giustificare la vigente distribuzione del potere e il mantenimento dello status quo. Questa difesa dei privilegi della propria categoria appare incoerente con un’altra caratteristica degli adulti riscontrata più volte dalla ricerca, quella di attribuirsi meno anni di quelli che si hanno effettivamente. Mentre i giovani sono portati a percepirsi più vecchi rispetto alla loro età effettiva, le persone al di sopra dei quarant’anni tendono a sentirsi più giovani di quanto non siano (Rubin e Berntsen, 2006). In altre parole, la loro età soggettiva è inferiore a quella anagrafica. L’ideale ­14

delle persone adulte sembra dunque quello di godere di tutti i privilegi dell’età di mezzo pur rimanendo giovani. Ideale per loro, naturalmente, ma non per gli altri che giudicano assai male il loro giovanilismo e soprattutto risentono di questa asimmetria di potere. La prima conseguenza di tale supremazia di status, infatti, è che sia i giovani sia gli anziani si percepiscono più discriminati degli adulti in base all’età. Si è rilevato che le persone “scoraggiate”, ossia quelle che non lavorano e hanno rinunciato a cercare un posto di lavoro, perché convinte di non trovarlo, sono nel nostro paese circa un milione e mezzo, un numero più che doppio rispetto alla media europea. Ebbene, tra i principali motivi del loro sconforto vi è la convinzione di non trovare lavoro perché troppo giovani o troppo vecchi1. Queste persone pensano quindi di non avere l’età giusta – l’età di mezzo – per far parte del mondo del lavoro. Poiché l’età è un fattore importante per definire lo status sociale, la ricerca psicosociale è ricorsa spesso alle categorie d’età per studiare i diversi effetti prodotti da gruppi di status alto e basso. Una delle prime ricerche su questi temi riscontrò, per esempio, che una raccolta di fondi per finanziare la ricerca medica era assai più fruttuosa se a richiederlo era una persona di trentotto anni anziché di diciannove (Jackson e Latané, 1981). Negli studi sul pregiudizio, poi, gli atteggiamenti verso gli adulti sono spesso considerati come misure di controllo e comparati con quelli verso gli anziani per verificare il livello di pregiudizio nei confronti di questi ultimi. Il presupposto implicito è che gli adulti non sia­ 1  Istat, Scoraggiati in Italia e in Europa, http://www3.istat.it/dati/ catalogo/20110523_00/grafici/3_5.html, 27 maggio 2011, dati di fonte Eurostat, Labour Force Survey.

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no un target di pregiudizio o che, comunque, lo siano meno degli anziani. Ma è proprio vero che l’adultità è il periodo della vita più fecondo? Prendiamo il caso della scienza. Una ricerca condotta in Canada su un campione vastissimo di professori universitari ha mostrato che la produttività – intesa in termini quantitativi – cresce molto tra i ventotto e i quaranta, più lentamente tra i quarantuno e i cinquanta, per poi decrescere in modo graduale fino alla pensione. Tuttavia, il numero medio di articoli molto citati e pubblicati in riviste prestigiose aumenta progressivamente nel corso degli anni, cosicché i ricercatori tra i cinquantacinque e i settant’anni forniscono un contributo molto significativo alla scienza, poiché producono più lavori di forte impatto (Gingras et al., 2008). Da questa ricognizione non sembra quindi che i ricercatori dell’età di mezzo siano così determinanti: i giovani hanno una spinta propulsiva più forte di loro, mentre gli anziani pubblicano lavori di maggior rilevanza. 2. Più umano degli altri? Se l’adulto è considerato il prototipo dell’essere umano, è necessario precisare quali sono le caratteristiche dell’“umanità”. Si tratta di un problema non da poco, oggetto da sempre della riflessione di filosofi e scienziati. Kagan (2004), uno psicologo dello sviluppo, ha sostenuto che per individuare queste caratteristiche si può procedere in due modi: identificando i caratteri che costituiscono l’essenza, il nocciolo della natura umana – anche se possono essere in parte comuni ad altre specie – oppure per via comparativa, ossia individuando i fattori che sono unicamente umani, non riscontrabili in nessun altro essere vivente. I tratti considerati ine­16

renti alla natura umana hanno a che fare soprattutto con emozionalità, calore interpersonale, flessibilità e vitalità, tutte caratteristiche che emergono in uno stato precoce dello sviluppo, possono riscontrarsi anche in altre specie animali – seppure in misura inferiore – e sono comuni alla maggior parte degli esseri umani, a prescindere dalla loro appartenenza culturale (Haslam, 2006). Come prerogative unicamente umane, invece, le persone indicano soprattutto l’intelligenza (la capacità di ragionare, pensare, ecc.), il linguaggio, la socievolezza e i sentimenti (o emozioni secondarie, per esempio il rancore, l’ammirazione, la nostalgia, il rimorso) (Leyens et al., 2000). Si tratta di caratteristiche che si distribuiscono diversamente all’interno della popolazione, anche in ragione dell’età. Da un lato, si è visto che l’immagine stereotipata dei bambini li rappresenta, come le altre specie animali, mancanti degli attributi unicamente umani (Loughnan e Haslam, 2007). Si ritiene, in genere, che questi tratti vengano progressivamente acquisiti durante il processo di socializzazione, processo che nelle sue varie fasi scandisce il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Dall’altro lato, lo stereotipo negativo degli anziani, legato all’idea di senescenza, implica un crescente deterioramento delle capacità cognitive e relazionali, quindi di aspetti fondamentali dell’“umanità”. L’invecchiamento2, inoltre, è visto come un graduale riavvicinamento alla condizione infantile – “la seconda infanzia” – e comporta un progressivo degrado, se non una perdita, degli attributi esclusivamente umani. È soprattutto l’individuo adulto, quindi, a impersonare l’umano nella sua pienezza. 2  Se pur riluttante, traduco il termine aging con “invecchiamento” in mancanza di un termine più neutro, meno connotato negativamente.

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3. Il predominio dell’adultità maschile Fino a ora si è considerata la centralità dell’adulto senza fare uno specifico riferimento al genere della persona. Ebbene, se l’adulto è l’essere umano di default (Fiske, 2010), è sempre di default che l’essere umano è di genere maschile. L’uomo costituisce “la normalità” e quindi, in assenza di specifiche informazioni, si assume implicitamente che un individuo sia maschio (e che sia bianco; Pratto, Korchmaros e Hegarty, 2007). È una lunga storia: basti ricordare che fino all’inizio del Novecento la nozione di cittadino, titolare dei diritti politici, si identificava completamente nel maschio adulto (Brunelli, 2006). Va aggiunto che la tradizionale tendenza a considerare l’uomo come il prototipo, il modello dell’essere umano, è facilitata nella nostra lingua in cui è comunemente accettato l’uso del cosiddetto maschile generico, ossia di termini di genere maschile – “l’uomo”, “l’adulto” – in riferimento a persone di entrambi i generi. Tale consuetudine è da molto tempo avversata dalle femministe che la considerano discriminatoria per le donne, in quanto ne nasconde la presenza e ne perpetua la marginalità sociale. La ricerca ha confermato quest’idea, verificando ripetutamente le conseguenze negative del maschile generico per le donne (rassegne in Falk e Mills, 1996; Mucchi Faina, 2005). Resta il fatto che generalmente l’essere umano è pensato al maschile, soprattutto quando il suo status è elevato come nel caso dell’adulto. 4. L’attivismo dei quarantenni, il doppio percorso dei cinquantenni La categoria degli adulti, così come è stata qui definita (tra i trentacinque e i sessantacinque anni), è vasta e ­18

multiforme. Da molti punti di vista sono i più giovani di questa fascia d’età, le persone sotto i cinquant’anni, a essere favoriti: in genere, hanno oramai acquisito la necessaria esperienza e competenza nel loro ambito, sono nel pieno delle forze e quindi disposti a ritmi di lavoro serrati. Il giudizio particolarmente favorevole nei confronti dei quarantenni è molto diffuso, soprattutto nel mondo del lavoro: in un’indagine in cui è stato richiesto a settecento amministratori delegati di aziende americane un parere sulla produttività dei dipendenti, questi hanno individuato il picco di produttività a quarantatré anni (Munch, cit. in McCann e Giles, 2002). Tuttavia, le posizioni di potere, soprattutto in Italia, sono occupate prevalentemente da cinquantenni. Prendiamo il caso della politica. La Costituzione prevede per i senatori un’età minima di quarant’anni. Tuttavia meno del 10% dei senatori è di età inferiore ai cinquant’anni3. Poiché nell’intenzione dei padri costituenti il Senato doveva preminentemente svolgere la funzione di “organo di riflessione”, appare abbastanza comprensibile che l’anzianità dei suoi componenti – così come quella del suo elettorato – ne costituisca il carattere distintivo, nonostante oggi, nei fatti, non svolga più questa funzione. Ma anche alla Camera, dove l’età minima richiesta è venticinque anni, i cinquantenni predominano: sono il 40% contro il 24% dei quarantenni4. All’interno della fascia d’età privilegiata, dunque, i più anziani sembrerebbero avere la meglio, almeno nel nostro paese. Tuttavia non è così. L’Italia si posiziona 3  Senato della Repubblica, Statistiche della XVI Legislatura, dati aggiornati al dicembre 2012. 4  Camera dei deputati, statistiche parlamentari, dati aggiornati al dicembre 2012.

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agli ultimi posti della graduatoria europea riguardo al tasso d’occupazione delle persone tra i cinquantacinque e i sessantaquattro anni (36%), a una distanza di circa dieci punti percentuali in meno rispetto alla media comunitaria e ben lontana dall’obiettivo europeo del 50% (i dati si riferiscono al 2010, Istat, http://noi-italia.istat. it, 2012). Si è quindi di fronte a un doppio percorso: chi ha raggiunto una posizione di prestigio la tiene ben stretta, anche quando entra a far parte della categoria degli anziani. Chi invece non ha avuto questa fortuna esce dal mondo del lavoro precocemente: è infatti la fascia dei 55-65enni quella che lavora meno in Italia. Nel mondo del lavoro, pertanto, i cinquantenni sono considerati anziani, come vedremo nel quinto capitolo. Si capisce così come “troppo giovane” e “troppo vecchio” siano due valutazioni molto elastiche, relativamente indipendenti dall’età anagrafica. 5. Ma gli adulti esistono ancora? Chi non cresce e chi non vuole crescere Lo psicoanalista Massimo Recalcati segnala sulla «Repubblica» l’allarmante declino degli adulti nella nostra società: «La celebre distinzione tra le età della vita [...] oggi è saltata: possiamo vestirci a sessant’anni come a trenta, consumare gli stessi prodotti, parlare quasi la stessa lingua». Esiste infatti «una divaricazione interna alla generazione degli adulti tra coloro che assumono il peso dei loro atti e coloro che invece vogliono continuare a giocare con la vita come se fosse una playstation»5. In altre parole, molti adulti non accettano pienamen  «la Repubblica», 19 febbraio 2012.

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te la loro età, rifiutano di crescere, continuano a comportarsi come bambini o adolescenti – soffrono della cosiddetta sindrome di Peter Pan. «Se la vecchiaia è tabù, ormai anche adulto sembra quasi una parolaccia», afferma Benedetta Tobagi sullo stesso giornale e il cinema rispecchia questa ricerca della giovinezza a tutti i costi: «Nel 2000, il gladiatore Russell Crowe incarna un concentrato di coraggio, responsabilità, temperanza, forza d’animo e spirito di servizio verso la collettività, insomma un archetipo d’eroe adulto. Quasi un canto del cigno: da quel momento sugli schermi prolifera una tipologia di uomo narciso, egoista, debole, irresoluto, [...] per cui è stato coniato il termine “adultescente”». Eppure, in un mondo che sogna l’eterna giovinezza, cercare di apparire giovani è un’aspirazione ampiamente diffusa anche tra chi non è adultescente. Per soddisfare questo desiderio, molte persone sono disposte a spendere ingenti somme di denaro non solo in prodotti cosmetici ma anche in impegnativi interventi di chirurgia plastica, in terapie ormonali e in altro ancora. Ebbene, per gli adulti rifiutare il proprio ruolo e la propria età comporta non solo un costo economico, ma anche un costo sociale. In una serie di esperimenti si è visto, infatti, che i giovani valutano negativamente le persone, uomini o donne, che tentano di apparire giovani quando non lo sono più (Schoemann e Branscombe, 2011). Ma perché i giovani non apprezzano chi vuol sembrare come loro? Innanzitutto, chi pretende illegittimamente di appartenere a un gruppo che non è il suo è visto dai membri di quel gruppo non solo come un imbroglione, ma anche come una minaccia. L’appartenenza a un gruppo sociale, infatti, fornisce a coloro che ne fanno parte un’identità significativa – al caso un’identità legata all’età – che li aiuta a mettere ordine e interpretare ­21

il mondo che li circonda. Chi cerca di entrare in un altro gruppo, travalicando i limiti del proprio, costituisce una potenziale minaccia per i membri di quel gruppo poiché mette in pericolo la specificità della loro identità. Coloro che si sentono minacciati, soprattutto se tengono particolarmente alla loro appartenenza, tendono a difendersi mostrando un atteggiamento negativo e denigratorio nei confronti del trasgressore (Jetten, Spears e Postmes, 2004). Si è visto inoltre, e questo è particolarmente interessante, che la valutazione da parte dei giovani è ancor più negativa se la persona che aspira ad apparire come loro è al di sotto dei quarant’anni – e ha quindi più alte probabilità di riuscire nel suo intento – che se è sessantenne. La persona che appartiene a una fascia d’età contigua, infatti, si presenta più minacciosa per l’identità poiché ha maggiori probabilità di far sfumare, o scomparire, i confini tra una categoria e l’altra.

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Le dimensioni del pregiudizio: credenze, sentimenti e azioni

Nella definizione di un antesignano degli studi sul tema, Gordon Allport, il pregiudizio è considerato come un atteggiamento negativo il cui target è un gruppo o una persona in quanto appartenente a quel gruppo (Allport, 1954)1. Il termine ageism è nato in riferimento al pregiudizio nei confronti delle persone anziane (Butler, 1969), ma in questo contesto farò riferimento al pregiudizio basato sull’età non solo nei confronti degli anziani, ma anche delle persone giovani2. Il motivo è duplice: da una parte, varie ricerche mostrano che i giovani si sentono sottovalutati e discriminati come gli anziani, se 1   Il testo di Allport riguarda primariamente il pregiudizio etnico. Nonostante l’autore avesse ben presente la possibilità di pregiudizi positivi, egli si concentrò su quelli negativi reputando che nei confronti dei gruppi etnici fossero assai più diffusi e nocivi. 2   Per persone giovani intendo, come si vedrà, non solo i giovani adulti ma anche i bambini e gli adolescenti. Ovviamente l’ageism può riguardare tutte le età e quindi anche l’età di mezzo, esattamente come il pregiudizio può attivarsi verso categorie e gruppi di status alto. Tuttavia, in questo contesto intendo focalizzarmi su coloro che ne subiscono le peggiori conseguenze sia a livello personale sia a livello istituzionale.

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non di più (Snape e Redman, 2003); dall’altra parte, essi sono spesso oggetto, particolarmente in Italia, di un trattamento che li penalizza e ne riduce le possibilità di sviluppo. Il pregiudizio verso i più anziani e quello verso i più giovani, anche se sono entrambi collegati a identità d’età sottovalutate, non hanno però lo stesso peso e le stesse conseguenze, se non altro perché un giovane sa di esserne vittima temporanea, in quanto prima o poi entrerà a far parte del gruppo d’età più apprezzato, mentre l’anziano sa che se lo porterà dietro per sempre, fino alla fine. È necessario qui sottolineare che tenere conto dell’età non è necessariamente una forma di ageism: a volte ci sono buone e sacrosante ragioni per comportarsi in ragione dell’età. Spesso si pensa che, per contrastare il pregiudizio, si debba partire dalla premessa che siamo tutti uguali. Ma non è così e, a volte, per garantire a tutti simili condizioni è necessario mettere in atto trattamenti differenziati. In genere, riferendosi a una diversità di trattamento, si allude a una privazione, a circostanze e azioni che riducono le opportunità di una persona, le sottraggono qualcosa e la pongono in posizione di inferiorità: attribuire una retribuzione inferiore alle donne rispetto agli uomini per lo stesso lavoro, per esempio, o non consentire il voto a cittadini stranieri che da anni vivono e lavorano regolarmente in un pae­ se. Anche cedere il posto in autobus a chi ha evidenti difficoltà a stare in piedi è un trattamento speciale: in questo caso, però, non si priva la persona di qualcosa ma le si offre qualcosa in più, la possibilità di sedersi. È quindi un’azione additiva, non sottrattiva. Distinguere tra trattamenti propri e impropri non è sempre semplice: come vedremo, anche i comportamenti additivi non sono esenti da problemi, soprattutto se non richiesti. ­24

Ma per il momento mi limito a dire che l’ageism è un pregiudizio nei confronti di una specifica categoria d’età che ha, o può avere, un impatto dannoso su questa categoria nel suo insieme e su chi ne fa parte. Quando si parla di pregiudizio si fa comunemente riferimento a tre diverse dimensioni che sono, almeno parzialmente, collegate tra loro (Brown, 1995): la dimensione cognitiva – stereotipi e credenze –, quella affettiva – emozioni e sentimenti – e quella comportamentale – intenzioni e azioni ostili e discriminatorie. Vediamo molto brevemente questi aspetti. 1. A cosa servono gli stereotipi Per riuscire a vivere e destreggiarsi in un mondo complicato e spesso confuso, gli esseri umani hanno bisogno di ridurne la complessità: quando si è subissati da stimoli e informazioni di ogni tipo si perde la capacità di valutarli e anche solo di rilevarli. Di conseguenza, le persone fanno ricorso a una serie di espedienti cognitivi che le aiutano a interpretare ciò che le circonda e, in particolare, a formarsi un’opinione sugli altri. Tra gli strumenti che svolgono questa funzione vi sono gli stereotipi, credenze e informazioni semplificate circa le caratteristiche che accomunano i membri dei diversi gruppi sociali. Gli stereotipi hanno quindi, innanzitutto, una funzione conoscitiva. Molti stereotipi sono largamente condivisi all’interno di gruppi e culture: sono appresi molto presto, nella prima infanzia, e, come le altre conoscenze collettive che fanno parte del patrimonio culturale, si trasmettono ed evolvono tramite il linguaggio e la comunicazione. Tuttavia gli stereotipi sono tendenzialmente stabili, molto resistenti al cambiamento, anche perché ci forni­25

scono un’utile chiave di lettura degli avvenimenti e dei comportamenti altrui quando questi ci appaiono ambigui e siamo incerti su come interpretarli. Se pure possono contenere qualche verità, gli stereo­ tipi costituiscono spesso generalizzazioni eccessive o contengono esagerazioni. Manchiamo necessariamente di accuratezza quando imputiamo uno stereotipo a un gruppo sociale nel suo insieme – poiché di sicuro vi saranno, in quel gruppo, persone a cui la nostra etichetta non si attaglia – o se giudichiamo qualcuno in base allo stereotipo del gruppo a cui appartiene. Per esempio, una ricerca americana ha verificato che la gente è convinta che le persone anziane condividano caratteristiche quali: amare i passatempi, essere particolarmente interessate alla famiglia, essere generose e amichevoli con gli altri. Al contrario, alle persone giovani viene attribuita determinazione, intelligenza, maturità emozionale (Hummert, 1990). È evidente che non tutti gli anziani sono generosi né tutti i giovani intelligenti ma, fino a prova contraria, la gente (negli Stati Uniti) tende ad attribuire queste caratteristiche a chi appartiene alle due categorie. Pur con i limiti di cui si è detto, gli stereotipi costituiscono un elemento importante del sistema cognitivo, poiché agevolano la nostra conoscenza del mondo. Ma gli stereotipi svolgono anche un’altra funzione, quella di giustificare pregiudizi e discriminazione. Essi possono, infatti, essere utilizzati per spiegare perché certi gruppi sono oggetto di atti individuali o di norme sociali discriminatori. Per esempio, la norma per la quale i minori di diciotto anni non possono votare è giustificata dal fatto che questi sono considerati non sufficientemente maturi e non ancora in grado di decidere in merito a questioni importanti. Vedremo nel prossimo capitolo, invece, che ­26

già a sedici anni si possiedono abilità cognitive – ossia capacità di ragionare, elaborare informazioni e prendere decisioni – equivalenti a quelle di un adulto. Gli stereotipi che sono largamente diffusi all’interno di una società si attivano spesso in modo automatico, ossia senza che la persona rifletta su di essi o abbia intenzione di farne uso. Gli individui che sono consapevoli di questa “spontaneità” dello stereotipo, e delle sue possibili conseguenze negative per la persona che ne è il bersaglio, possono farvi fronte impegnandosi in sistemi di controllo “a posteriori”. Essi possono cercare, per esempio, di formarsi impressioni più specifiche sull’individuo che ha attivato lo stereotipo o di correggere la valutazione che si è attivata in loro automaticamente (per un approfondimento su questo tema, cfr. Arcuri e Cadinu, 2011). Queste correzioni richiedono però un notevole sforzo cognitivo che non sempre le persone hanno voglia o sono in grado di fare. Inoltre, cercando di sopprimere gli stereotipi si può attivare un effetto paradosso, detto di rimbalzo, per il quale gli stereotipi indesiderati tendono a ricomparire con maggiore energia successivamente, quando le persone hanno abbassato la guardia (Macrae et al., 1994). Per fortuna, coloro che, sulla base del loro sistema di valori, sono seriamente intenzionati a controllare i propri stereotipi sono anche meno soggetti all’effetto rimbalzo. Ma su che base si formano gli stereotipi sociali? Secondo il Modello del Contenuto degli Stereotipi (Fiske et al., 2002), essi ruotano intorno a due dimensioni: la competenza (per esempio, capace, sicuro, indipendente) e il calore (amichevole, sincero, gentile). Di solito la gente, quando valuta un gruppo diverso dal proprio, individua un rapporto inverso tra competenza e calore. In altre parole, un gruppo esterno è in genere percepito ­27

come capace o simpatico ma non capace e simpatico. Secondo questa teoria, inoltre, le relazioni che si instaurano tra i gruppi umani variano in rapporto a due fattori fondamentali: lo status sociale relativo (più alto o più basso) e il tipo di interdipendenza (di tipo cooperativo o competitivo). Gli stereotipi di competenza sono in genere assegnati ai gruppi di status più alto del proprio, mentre quelli di calore sono assegnati a gruppi con i quali non siamo in competizione (e che pertanto non ci appaiono come una minaccia per il nostro gruppo). In sostanza, più alto è percepito lo status e maggiore è la competenza attribuita al gruppo, mentre più forte è la competizione e più basso ne è stimato il calore. In merito al nostro tema, dalle ricerche è emerso che gli anziani vengono considerati più caldi che competenti, gli adulti più competenti che caldi e i giovani mediamente caldi e competenti. Gli stereotipi hanno una grande rilevanza non solo perché costituiscono una base cognitiva e una giustificazione di pregiudizi e discriminazioni, ma anche perché possono influenzare direttamente il comportamento di chi ne è oggetto. È questo il fenomeno denominato minaccia dello stereotipo (Steele e Aronson, 1995), per il quale una persona ottiene uno scarso risultato in un compito, non a causa delle sue insufficienti capacità, ma perché il gruppo a cui appartiene è considerato, sulla base di uno stereotipo, come mancante di quelle capacità. La persona si sente minacciata perché teme che la sua prestazione confermi lo stereotipo e, di fatto, agisce in modo da confermarlo. In altre parole, la profezia si autoadempie (Merton, 1949). Vedremo più avanti come la minaccia dello stereotipo possa agire con grande efficacia proprio rispetto all’età. ­28

2. Il primato dell’affettività Conoscere le credenze e gli stereotipi circa un determinato individuo o gruppo non sempre ci permette di cogliere quale sia l’atteggiamento che essi sottendono. Allport (1954, p. 184) ha proposto uno strano confronto che illustra bene la possibile ambiguità: Perché tante persone ammirano Abramo Lincoln? Vi possono dire che è perché era parsimonioso, laborioso, avido di conoscenza, ambizioso, rispettoso dei diritti dell’uomo medio e particolarmente abile nel cogliere le opportunità. Perché tante persone provano antipatia per gli ebrei? Vi possono dire che è perché sono parsimoniosi, laboriosi, avidi di conoscenza, ambiziosi, rispettosi dei diritti dell’uomo medio e particolarmente abili nel cogliere le opportunità.

Sapere cosa qualcuno pensa o crede, dunque, non è sufficiente per prevedere come agirà: è necessario anche sapere cosa questa persona sente. È quello che viene definito primato dell’affettività, dei sentimenti e delle emozioni. Rispetto agli stereotipi, i sentimenti permettono non solo di interpretare le parole, ma anche di fare previsioni più precise e dirette su quali siano le intenzioni delle persone e i comportamenti che queste potrebbero mettere in atto. Le emozioni e i sentimenti, inoltre, spesso costituiscono la base fertile su cui crescono e si consolidano gli stereotipi: il fastidio o l’ansia che spesso provocano “i diversi” – ossia coloro che per qualche aspetto (etnia, orientamento sessuale, disabilità fisica o psichica) si scostano dalla maggioranza della popolazione – facilitano il ricorso a stereotipi e credenze negative. Le emozioni, quindi, sono legate al comportamento successivo ancor più degli stereotipi stessi. Per esempio, sulla base della reazione emotiva che una ­29

persona manifesta nei confronti di un gruppo sociale, quale un gruppo etnico o religioso, possiamo prevedere se questa persona ha intenzione di incontrare o di evitare membri di questo gruppo (Stangor, Sullivan e Ford, 1991). Naturalmente anche in questo caso i gruppi d’età si differenziano dagli altri: se qualcuno prova insofferenza per gli anziani o per i bambini, è difficile che riesca a tenerli completamente fuori dalla sua vita, se non altro perché spesso questi fanno parte della sua stessa famiglia. Sentimenti diversi possono attivarsi quando si ritiene che il gruppo esterno rappresenti una minaccia per se stessi o per il proprio gruppo. La percezione di minaccia da parte di un gruppo diverso dal proprio può assumere tre forme principali (Stephan e Stephan, 1996): è di tipo realistico, quando il gruppo mette in pericolo la sicurezza, la stabilità sociale o la salute delle persone; è più specificamente di tipo economico, quando il benessere materiale e il reddito di un gruppo possono dipendere da quelli di un altro; è infine di tipo simbolico, quando vengono messi in discussione i valori, le credenze, le tradizioni, lo stile di vita. Questi tre tipi di minaccia possono entrare in gioco nelle relazioni tra differenti gruppi di età e possono preludere a sentimenti e a comportamenti discriminatori di vario tipo. Per esempio, la minaccia realistica, quale quella rappresentata da un gruppo di giovani visibilmente eccitati e violenti, può provocare un sentimento di paura nei più anziani che tenderanno a evitare di incontrarli, magari cambiando strada. Diversamente, la convinzione che le persone più anziane, rimanendo al lavoro fino a un’età avanzata, siano responsabili della loro disoccupazione può provocare rabbia o disprezzo nei giovani che si ­30

percepiscono ingiustamente esclusi e può facilitare da parte loro l’espressione di ingiurie e invettive. 3. Il pregiudizio moderno: come stanarlo Il pregiudizio assume oggi spesso una fisionomia diversa da quella che aveva in passato. Poiché è considerato disdicevole, non socialmente apprezzato e desiderabile, esprimere pregiudizi nei confronti di gruppi minoritari e svantaggiati, le persone tendono a manifestare la propria adesione alle norme sociali di correttezza, imparzialità e giustizia reprimendo o nascondendo la propria ostilità nei confronti di questi. Tuttavia, il pregiudizio può permanere, se pur in forme più sottili, mascherate e meno visibili. Per questo motivo la ricerca ha messo a punto una serie di strumenti che permettono di scavalcare la desiderabilità sociale e di far emergere i reali atteggiamenti delle persone. In uno dei primi studi che hanno percorso questa strada, un gruppo di partecipanti bianchi nordamericani è stato collegato a una finta macchina della verità che, gli era stato detto, fosse in grado di rilevare i loro reali sentimenti nei confronti dei diversi stimoli che sarebbero stati proposti (Jones e Sigall, 1971). Con questa procedura, i ricercatori hanno supposto che le persone, per paura di essere smascherate, avrebbero ridotto al minimo la loro tendenza a rispondere secondo le aspettative sociali. Infatti è successo proprio questo: quando lo stimolo proposto era un gruppo minoritario – i neri americani – la reazione di quelli che erano stati collegati alla macchina “svela bugie” nei confronti di quel gruppo è stata assai più negativa di quella di altri partecipanti che non erano stati collegati a quell’attrezzatura. Più di recente, sono state messe a punto alcune tec­31

niche tese a cogliere forme ancor più nascoste, automatiche e spesso inconsapevoli di pregiudizio. Una tecnica molto utilizzata è il priming: vengono mostrate parole o immagini che provocano, in modo automatico, l’attivazione di tratti e valutazioni che sono presenti in memoria in relazione con queste parole o immagini. In tal modo, come vedremo meglio in seguito, utilizzare l’immagine di una persona anziana come prime faciliterà la successiva entrata in azione di stereotipi e valutazioni collegati con gli anziani. Un’altra tecnica ora molto utilizzata è l’Implicit Association Test (Iat; Greenwald, McGhee e Schwartz, 1998), una procedura che misura la forza dell’associazione tra una parola-target (per esempio, il nome di un gruppo minoritario) e una serie di attributi di opposta valenza (per esempio, piacevole o spiacevole), misurando il tempo che una persona impiega per rispondere (Sì o No) quando la parola viene presentata in associazione con ciascun attributo. L’idea di base è che la risposta sarà tanto più rapida quanto più il concetto e l’attributo sono percepiti come coerenti. Quindi, se il gruppo in questione è oggetto di pregiudizio, la persona risponderà più rapidamente all’attributo “spiacevole” che all’attributo “piacevole”. Questa tecnica permette di rilevare una reazione negativa, definita come pregiudizio implicito, anche quando non è espressa apertamente e si attiva in modo automatico. Naturalmente non tutti i gruppi e le categorie sociali sono protetti nella stessa misura dalla norma sociale di correttezza e quindi non sempre il pregiudizio è implicito. Per esempio, è considerato accettabile, o addirittura apprezzato, esprimere ostilità nei confronti del “nemico” in situazione di forte conflitto (Opotow, 1994) o nei confronti di coloro che sono percepiti co­32

me altamente minacciosi per la società, come nel caso dei terroristi. Al contrario, è ritenuto particolarmente riprovevole e socialmente indesiderabile esprimersi negativamente o mostrare avversione nei confronti di persone appartenenti a categorie considerate deboli o vulnerabili. L’ageism, soprattutto nei confronti degli anziani e dei bambini, rientra nella categoria dei pregiudizi che sono considerati inaccettabili (Mucchi Faina et al., 2009). Pertanto, le persone tendono a mettere in atto varie strategie per controllarlo o per nasconderlo. Tra le forme di controllo, manifestare ambivalenza – ossia un atteggiamento al contempo in parte positivo e in parte negativo – sembra un sistema efficace perché permette di esprimere apprezzamento, in sintonia con la desiderabilità sociale, senza negare l’insofferenza che lo accompagna. Per esempio, dire di un bambino che è “vivace ma snervante” o di un anziano che è “saggio ma noioso” è un modo per rendere accettabile e mitigare la valutazione negativa espressa dal secondo attributo. Il problema consiste nel fatto che una persona ambivalente, quando si verificano situazioni che in qualche modo la contrariano, tenderà a far emergere la sua ostilità dimenticando la parte positiva della sua valutazione. Ho detto all’inizio che il pregiudizio si basa in genere su un atteggiamento negativo. Tuttavia esiste un tipo di pregiudizio sottile, anch’esso particolarmente pertinente nei riguardi dell’età, che appare come un atteggiamento positivo e che – proprio per questo motivo – è ancor più insidioso: il paternalismo. Il pregiudizio paternalistico (Cuddy e Fiske, 2002) si manifesta come benevolenza, disponibilità e comprensione nei confronti di una persona ma ne sottolinea, al tempo stesso, l’inferiorità, la mancanza di capacità. Questo atteggiamento può avere effetti devastanti, in quanto non solo ­33

provoca un calo del livello di autostima della persona che ne è l’oggetto, ma diminuisce addirittura il livello della sua prestazione. In pratica, quando un individuo è fatto oggetto di questo tipo di benevolenza tende a convincersi delle proprie scarse capacità e a comportarsi di conseguenza, affidandosi a chi gli appare più competente e determinato. 4. Le molteplici forme della discriminazione Un aspetto fondamentale del pregiudizio è il suo esito, ossia la condotta che viene messa in atto nei confronti dell’individuo o del gruppo che ne è l’oggetto. Le azioni di rifiuto e discriminazione possono avere gradi diversi in intensità e gravità: dall’evitamento, l’ostracismo o l’offesa, all’aggressione e al maltrattamento, fino ad arrivare – la storia lo insegna – allo sterminio. La discriminazione può essere più o meno percepibile da un osservatore esterno, ossia può essere diretta o indiretta. La discriminazione diretta agisce esplicitamente su chi ne è l’oggetto. È il caso, per esempio, di un’istituzione che proibisce l’ingresso in una scuola o tiene in stato di segregazione i membri di un gruppo, come nel caso dell’apartheid attuata per tanti anni nel Sud degli Stati Uniti e in Sud Africa. Ma si pensi anche, senza ricorrere a casi così drammatici, agli alberghi e ai locali pubblici che non accettano bambini e ragazzi (ne esistono molti, in giro per il mondo). Oppure alla regola, assai diffusa tra gli autonoleggiatori, di proibire l’affitto di un’automobile a chi ha meno di ventuno anni o più di settanta, anche se è in possesso di regolare patente di guida. Ma discriminazione diretta si ha anche quando un’offerta di lavoro esclude esplicitamente tra i possibili aspiranti chi è più giovane o più vecchio di una ­34

certa età. Nonostante sia formalmente proibito (D.lgs. n. 216/2003)3, è facile ancora oggi trovare inserzioni di questo tipo sui giornali italiani. Anche se vi sono casi in cui porre limiti di età è ampiamente giustificabile – Romeo e Giulietta non potrebbero essere interpretati sulla scena da due ottantenni – spesso questo criterio costituisce una misura immotivata, adottata in palese violazione del diritto alle pari opportunità. Si ha discriminazione indiretta, invece, quando un trattamento apparentemente neutro mette le persone appartenenti a un particolare gruppo in situazione di svantaggio4. Per esempio, un annuncio di lavoro in cui 3   «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro». Nel testo si specifica che «per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale» (art. 1). Inoltre si afferma (art. 3) che tale principio «si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato [...], con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni». 4   Così sono definite (art. 2) le due forme di discriminazione nel D.lgs. n. 216/2003: «a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata

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si richiede la laurea e un’esperienza lavorativa almeno decennale esclude de facto la maggioranza dei trentenni, considerando l’età media particolarmente elevata (26,9) dei laureati italiani (dati Alma Laurea riferiti al 2010). religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone». Non compare qui la discriminazione diretta e indiretta fondata sul genere perché già oggetto di apposita legge (n. 125/1991).

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Quant’è bella giovinezza...

Con l’etichetta “giovane” ci si riferisce comunemente in Italia alle persone di età inferiore ai trentacinque anni. Si tratta di una categoria talmente disomogenea che va distinta in sottotipi: anche intuitivamente ci si rende conto della enorme diversità degli atteggiamenti e dei comportamenti che vengono messi in atto nei confronti dei bambini, degli adolescenti e dei giovani in senso stretto, quelli che vengono definiti come maggiorenni. La carta per i diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite accomuna bambini e adolescenti sotto la vetusta etichetta “fanciulli”, utilizzata per tradurre l’inglese children che appunto comprende le persone che hanno meno di diciotto anni. Di solito, bambini e adolescenti non sono considerati come bersagli del pregiudizio, ma subito si può notare che il sostantivo “minori” – con cui abitualmente ci si riferisce a queste classi di età – contiene già in nuce un atteggiamento parzialmente distorto poiché, come è stato fatto rilevare da coloro che operano nel campo, sottolinea uno stato di inferiorità. Minore rispetto a cosa? Agli adulti, appunto, che co­37

stituiscono il termine di paragone con cui confrontare capacità e azioni. E i giovani? Quando si dibatte di discriminazione giovanile ci si riferisce a una specifica classe di età o piuttosto a una generazione, a questa generazione di giovani? E si fa riferimento ai giovani italiani o ai giovani di ogni paese? I giovani italiani sono bamboccioni, come affermò qualche anno fa un ministro della Repubblica suscitando accorate proteste, o si tratta di un pregiudizio? Sono questi gli argomenti che si approfondiranno ora, anche se le ricerche nel campo sono scarse, anzi scarsissime, sia in Italia sia all’estero. La ricerca sull’ageism, infatti, ha considerato principalmente gli anziani come target, forse perché dei pregiudizi nei confronti dei più giovani c’è meno consapevolezza. 1. Bambini: tra iperprotezione e disattenzione L’idea di “parità di trattamento”, che è centrale rispetto ad altre forme di pregiudizio come il sessismo e il razzismo, appare assai poco pertinente in riferimento all’ageism, soprattutto a quello nei confronti dei bambini. Come possono essere trattati nello stesso modo degli adulti? Diversamente dalle categorie basate sul genere o sull’etnia, i bambini hanno capacità mentali e fisiche limitate, passano progressivamente da una situazione di completa dipendenza a fasi successive in cui le loro possibilità e responsabilità aumentano e in cui richiedono gradualmente maggiori spazi e minor controllo. L’ageism­non può quindi essere chiamato in causa perché essi sono trattati diversamente dagli adulti. E, infatti, non di questo si tratta. ­38

Nei confronti dei bambini, l’ageism1 può manifestarsi in due principali forme (Westman, 1991): è istituzionale, quando i sistemi sociali ignorano i loro diritti e i loro interessi; è individuale, quando non vengono considerati come persone e non sono rispettati i loro specifici “compiti di sviluppo”, ossia quei compiti che sono il presupposto di una crescita soddisfacente e che, se non avvengono nei tempi giusti, compromettono il sano sviluppo dell’individuo (Havighurst, cit. in Palmonari e Crocetti, 2011). Riguardo al primo tipo, è a partire dal Settecento che si comincia a considerare il bambino nella sua specificità e differenza, come una persona a tutti gli effetti e non solo come essere umano potenziale (Ariès, 1960), ed è dal secolo scorso che bambini e adolescenti sono diventati soggetti di diritto (Petrillo, 2005). Dagli anni Novanta, in particolare, comincia a farsi strada l’idea di considerare i bambini come veri e propri attori sociali: è allora che si sviluppa la critica alla concezione tradizionale dell’infanzia come condizione passiva caratterizzata da vulnerabilità e incompetenza. È il concetto stesso di socializzazione, inteso come processo di adattamento del bambino ai valori e alle norme dominanti, di mera integrazione nel mondo degli adulti, a essere messo sotto accusa (Alanen, 2004). Si denunciano l’invisibilità dei bambini, la loro marginalità nell’ordinamento sociale, le varie forme di discriminazione indiretta a cui sono soggetti: mancano, per esempio, informazioni statistiche sulle loro vite e le loro esperienze, non sono presi in considerazione se non 1   In riferimento ai pregiudizi, alla mancanza di rispetto, ai comportamenti discriminatori nei confronti dei più giovani e alla loro subalternità rispetto agli adulti, è spesso usato il termine adultismo. Per evitare confusioni e sottolineare le similarità tra il modo in cui sono pensati e trattati i giovani e gli anziani ho preferito utilizzare il termine ageism in entrambi i casi.

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in rapporto alle istituzioni sociali (la famiglia, il welfare, la scuola). «L’infanzia viene discriminata nelle statistiche – scrive il sociologo Giovanni Sgritta – perché lo è all’interno della società [...] La rimozione dell’infanzia nella realtà rappresentata dalle statistiche rispecchia la sua mancanza di potere nella società che a sua volta non è che il riflesso [...] dell’“indifferenza strutturale” con cui la società si rapporta di norma all’infanzia» (2004, p. 52). Quando si osservano i bambini, spesso si rivolge l’attenzione a quello che diventeranno («Cosa farai da grande?») piuttosto che a quello che sono o fanno nel presente. Queste critiche e queste discussioni, se pur a volte con toni eccessivamente esasperati, attivano un dibattito politico-culturale e inducono una sempre maggiore sensibilizzazione riguardo alla marginalità sociale dell’infanzia. Si giunge così, attraverso varie tappe successive, alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1990 che sancisce il principio di non-discriminazione e, infine, a un importante e più recente atto che colloca il bambino in posizione centrale nella società: la pubblicazione, nel 2000, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Nella Carta si fa esplicito riferimento al bambino e ai suoi diritti e si proclama che «in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente» (art. 24). Se formalmente l’ageism di tipo istituzionale parrebbe oggi superato nel nostro continente, rimangono ancora, comunque, forti barriere che impediscono di tener conto degli interessi dei bambini. Tuttora ci si impegna molto blandamente nel creare per loro un ambiente sociale sicuro e nel controllare che il sistema ­40

commerciale e quello mediatico non li sfruttino e non li manipolino. E comunque, quando gli interessi degli adulti e quelli dei bambini entrano in conflitto, sono gli interessi dei primi a prevalere, come se i secondi non fossero persone a tutti gli effetti. Trascurare gli interessi dei bambini perché li si considera inferiori agli adulti è lo stesso che trascurare gli interessi di quegli adulti che vengono considerati di status inferiore in base al loro genere o alla loro etnia. È tuttora presente, inoltre, e largamente diffuso, l’ageism di tipo individuale. Già Maria Montessori, all’inizio del Novecento, aveva messo in guardia da quelli che definiva pregiudizi universali nei confronti dei bambini, ma soprattutto dalla presunzione degli adulti di sapere sempre cos’è meglio per loro. Il pregiudizio nei confronti dei bambini si manifesta proprio quando si pensa che non meritino altro che quello che gli adulti gli danno o desiderano per loro e che essi debbano unicamente soddisfare e compiacere i genitori. Ancora oggi i bambini, a causa della loro mancanza di autosufficienza e della loro dipendenza dagli adulti, sono spesso considerati come proprietà dei genitori, esseri umani incapaci e incompleti e non come persone da ascoltare e rispettare. Se abusi e violenze di ogni tipo continuano a essere perpetrati nei confronti di molti, troppi di loro – dal maltrattamento fisico o psicologico fino alle forme più aberranti di sfruttamento sessuale –, i comportamenti maggiormente diffusi oscillano tra la trascuratezza e l’iperprotezione. Da una parte, anche in ragione delle necessità economiche che costringono i genitori ad assenze prolungate e della forte carenza di sostegni istituzionali al lavoro di cura, spesso non vengono soddisfatti i bisogni primari dei bambini in termini di affetto, protezione, incoraggiamento e accudimento. ­41

Accade così che, privati di ogni attenzione, essi siano abbandonati a loro stessi e passino gran parte della giornata per strada o a casa, in solitudine, smanettando in rete o seduti davanti alla televisione. Dall’altra parte, la critica al tradizionale modello repressivo e autoritario di educazione – a cui si unisce spesso un latente senso di colpa per il poco tempo che si può dedicargli – ha prodotto una diffusa incapacità da parte degli adulti di porre limiti all’azione e ai desideri dei bambini. Così, molti genitori, o a causa delle condizioni disagiate in cui vivono, o dei ritmi defatiganti a cui sono sottoposti, o sulla base di un’idea distorta del loro ruolo, trascurano ogni azione di contenimento, accondiscendendo a qualsiasi richiesta dei figli ed evitando loro anche quelle contrarietà che sono indispensabili in un processo di crescita (Fruggeri, 2005). Inoltre, gli adulti che sono vincolati dai tempi di lavoro ma non vogliono per questo rinunciare a una vita di relazione, richiedono spesso ai bambini di adeguarsi ai loro tempi e al loro stile di vita. Così, pretendendo troppo o troppo poco, le reali necessità dei figli passano in secondo piano o vengono fraintese; in entrambi i casi essi non vengono rispettati nella loro specificità: o li si tratta come adulti – che non sono – inducendo in loro un forte sentimento di inadeguatezza, o ne si enfatizza la dipendenza, considerandoli incapaci di superare autonomamente qualsiasi ostacolo gli si presenti e bloccando così il loro processo di autonomizzazione. 2. Adolescenti: tra eccesso di indulgenza e autoritarismo Rispetto agli adolescenti, poi, l’atteggiamento è fortemente ambivalente. Se, da una parte, a livello istituzio­42

nale, essi hanno ottenuto e si tende a concedere loro sempre maggiori spazi decisionali sui temi che li riguardano (la rappresentanza e l’auto-giustificazione scolastica) e anche su temi di rilevanza sociale (vedi la proposta di abbassare l’età del voto dai diciotto ai sedici anni), dall’altra parte permane un’immagine dell’adolescente come persona problematica e ribelle. L’adolescenza è considerata un’“età ingrata”, gli adolescenti non sono “né carne né pesce”, molte persone li temono, e quindi li evitano, perché li percepiscono come eccessivamente esuberanti, spesso irrispettosi e aggressivi, comunque imprevedibili e sostanzialmente immaturi. Giudicare gli adolescenti sulla base di questi stereotipi, considerando forti tensioni e tormenti come normali in adolescenza, può avere vari effetti negativi. Innanzitutto, può condurre a non fornire un aiuto e un trattamento appropriato a quei ragazzi che realmente presentano i sintomi di disturbi psicologici, sulla base dell’idea che «passerà, si tratta di una fase» (Arnett, 1999). La maggioranza degli adolescenti non presentano gravi difficoltà psicologiche, ma in coloro che le manifestano spesso insorgono seri problemi nell’età adulta. Inoltre, queste credenze stereotipate possono indurre i genitori ad adottare strategie educative o eccessivamente permissive e comprensive – perdonando e tollerando qualsiasi azione dei figli – o, al contrario, di tipo autoritario tese a prevenire le difficoltà reali o presunte che la condotta dei loro figli potrebbe presentare. Inoltre, il comportamento di adolescenti fortemente disturbati e violenti può essere attribuito, con una impropria generalizzazione, all’intera categoria, cosicché vengono presi provvedimenti che penalizzano di fatto anche quei ragazzi che non presentano nessun particolare sintomo di irrequietezza. Numerosi sono i casi in cui la condotta ­43

di pochi ha indotto a punizioni per tutti, innocenti compresi. Basta entrare in internet per accorgersi di quante volte gli studenti si lamentino perché l’intera classe è stata punita a causa del comportamento improprio di uno o due di loro: «Invece di colpirne uno per educarne cento – leggo su un blog – ne colpiscono cento per educarne uno». Due ulteriori fattori possono rafforzare stereotipi e pregiudizi nei confronti degli adolescenti. Innanzitutto l’uso dei nuovi strumenti digitali, la rapidità con cui imparano ad adoperarli e, soprattutto, il linguaggio gergale e abbreviato che utilizzano nel comunicare tra loro con questi mezzi accrescono negli adulti la sensazione che i giovanissimi costituiscano un mondo a parte, difficilmente decifrabile. Genitori e insegnanti hanno spesso l’impressione, a volte anche a ragione, che la rete virtuale abbia ben più peso, nella vita delle nuove generazioni, dell’interazione e del dialogo con gli adulti. Tutto questo non può che aumentare le incomprensioni e i giudizi affrettati. Il secondo fattore è costituito dal divario che si è venuto a creare, in modo sempre più accentuato, tra maturità fisica e sociale. Poiché oggi, nelle società occidentali, lo sviluppo puberale avviene prima di quanto non succedesse in passato, mentre l’assunzione di ruoli adulti si verifica più tardi, lo stigma adolescenziale tende a prolungarsi nel tempo. Sebbene non mi risultino ricerche comparative sul tema, questi pregiudizi potrebbero essere più limitati nelle società più tradizionali, in cui i riti di passaggio segnano in modo preciso l’entrata nell’età adulta. Ma è proprio vero che gli adolescenti sono psicologicamente immaturi, o meglio, meno maturi degli adulti? Si tratta di una affermazione apparentemente scontata: ­44

fino a pochi anni fa era denominato “di maturità” l’esame conclusivo della scuola superiore, esame che ancora oggi è chiamato così dalla maggior parte della gente. Questa prova è di solito affrontata a diciotto/diciannove anni, in concomitanza con l’ingresso nella maggiore età. Pertanto l’assunto implicito è che prima di quella età le persone non siano mature. Ma a quale maturità ci si riferisce? Una recente disputa su questo tema ha chiamato in causa l’American Psychological Association (Apa), accusata di aver espresso in proposito due pareri apparentemente contraddittori. In un articolo pubblicato sull’organo dell’Associazione, un gruppo di psicologi dello sviluppo impegnati da anni nella ricerca in questo campo hanno chiarito l’equivoco, sottolineando la necessità di distinguere la maturità cognitiva dalla maturità psicosociale (Steinberg et al., 2009). Le abilità cognitive (quali il ragionamento logico o la capacità di elaborare le informazioni) di un sedicenne sono equivalenti a quelle dell’adulto, mentre non lo sono le sue capacità psicosociali (quali la percezione del rischio, la resistenza all’influenza dei coetanei). Pertanto, hanno concluso i ricercatori, l’adolescente ha la maturità necessaria a prendere decisioni riguardanti problemi medici o legali – per esempio, decidere se condurre a termine o interrompere una gravidanza – valutandone i costi e i benefici e avvalendosi anche del parere di adulti esperti. Al contrario, nelle situazioni che suscitano alti livelli di emotività, in cui si ritrovano in gruppo e lontani dagli occhi degli adulti – il tipo di circostanze in cui gli adolescenti compiono la maggior parte degli atti dannosi per loro stessi o per gli altri – essi si dimostrano senz’altro meno maturi degli adulti. Sentirsi esclusi, non considerati e “infantilizzati” è ­45

particolarmente doloroso per gli adolescenti e perciò, quando si percepiscono oggetto di discriminazione, si verifica in loro non solo un calo dell’autostima ma anche un aumento dell’ansia, dei sintomi di depressione e dei malesseri fisici (Huynh e Fuligni, 2010). Questi effetti così negativi appaiono comprensibili se si pensa che molti dei problemi a cui gli adolescenti devono far fronte riguardano i rapporti con gli altri, in particolare con i coetanei e con i genitori. Un’indagine dell’Eurispes (2010) ha mostrato che la paura principale, in questa fase della vita, è proprio quella di non mostrarsi all’altezza delle aspettative, di deludere genitori e amici, di fare brutta figura. 3. Giovani: l’adolescenza infinita Spontaneamente, senza che le persone siano sollecitate a utilizzare le categorie d’età, l’immagine di una persona giovane non suscita in genere stereotipi negativi, neanche a livello implicito (Wheeler e Fiske, 2005). Tuttavia, in uno studio in cui è stato richiesto a un campione di tutte le età (giovani compresi) di elencare le caratteristiche principali delle persone giovani, le prerogative citate con più frequenza sono state “pigre”, “scortesi” e “egocentriche”, insomma una serie di attributi prevalentemente negativi (Trzesniewski e Donnellan, 2009). Nella stessa ricerca, il termometro dei sentimenti – uno strumento utilizzato per indicare in che misura una persona o una categoria è gradita – ha segnalato che il gradimento dichiarato aumenta parallelamente all’età: i meno graditi sono gli adolescenti e poi i giovani, gli adulti e infine, più graditi di tutti, i più anziani. Per quanto riguarda questi ultimi, è molto probabile che le persone si siano sentite in dovere di attenersi alla norma ­46

sociale di correttezza – per la quale non è bene esprimere giudizi o sentimenti negativi verso le categorie considerate più deboli – mentre, per quello che riguarda i più giovani, tale norma appare controllare molto meno le valutazioni esplicite delle persone. In pratica, criticare i giovani è ampiamente tollerato. La ricerca su vasta scala di Abrams e colleghi, di cui si è già detto (Abrams, Vauclair e Swift, 2011), ha mostrato che nella maggior parte dei paesi europei l’atteggiamento nei confronti dei giovani è meno positivo dell’atteggiamento nei confronti dei più anziani. Del resto, la consapevolezza di essere messi ai margini e poco considerati è ben presente nei giovani e non solo tra gli studenti. In un’indagine condotta in Gran Bretagna, focalizzata sulla percezione di discriminazione in un gruppo di oltre seicento dipendenti di un’amministrazione distrettuale, i rispondenti di età inferiore ai trent’anni hanno dichiarato di percepirsi discriminati sul lavoro in ragione dell’età più di quelli di oltre cinquant’anni. Sono proprio le persone più giovani, quindi, quelle che si sentono più svantaggiate dall’età (Snape e Redman, 2003). La percezione di discriminazione dei giovani ha trovato conferma anche in una ricerca sperimentale (Garstka et al., 2004). Da questo studio è emerso però che, a differenza degli anziani, i giovani non sembrano risentirne particolarmente in termini psicologici: la sensazione di essere oggetto di discriminazione non incide in modo rilevante sul loro benessere e sulla loro autostima. Questo risultato è ricondotto dai ricercatori al fatto che i giovani vivono come imminente e inevitabile il passaggio alla categoria degli adulti, che conferirà loro un innalzamento di status e quindi segnerà la fine della loro esperienza di discriminazione. Al contrario di ­47

quella dei più anziani, infatti, la loro disparità di status e trattamento è transitoria e destinata ad estinguersi entro breve tempo. 4. Biasimare la vittima? Il caso italiano La ricerca di cui si è appena detto è stata effettuata negli Stati Uniti, con studenti dall’età media di diciotto anni. Spostiamo ora la nostra attenzione sui giovani italiani. Se è vero che, almeno nel mondo occidentale, l’ingresso nell’età adulta è oggi posticipato rispetto al passato – a causa di vari fattori tra cui i più lunghi percorsi di formazione e la progressiva posticipazione dell’età in cui si formano le nuove famiglie e si mettono al mondo i figli – la situazione italiana appare comunque peculiare. Il demografo Livi Bacci (2008) l’ha definita “sindrome del ritardo” per indicare che nel nostro paese il periodo di transizione verso l’età adulta è più lungo, troppo lungo. Senza addentrarmi in una disamina dei fattori istituzionali, sociali e culturali che hanno prodotto l’attuale situazione, mi preme invece rilevare che all’eccessivo prolungamento dell’età giovanile si accompagna un problema specifico di questa generazione di giovani: quello di trovarsi di fronte a sbarramenti di vario tipo che si frappongono al loro ingresso nel mondo del lavoro, delle professioni, della politica, in breve, che impediscono la loro entrata nel mondo adulto. I dati nazionali, a questo proposito, sono sempre più sconfortanti. Nel 2012 il rapporto annuale dell’Istat segnala una marcata diminuzione degli occupati appartenenti alle classi d’età più giovani: sono quattro su dieci i giovani tra i venticinque e i trentaquattro anni che vivono ancora nella famiglia d’origine e il 45% dichiara di restare in famiglia perché non ha un lavoro o, comunque, non ­48

guadagna abbastanza per mantenersi autonomamente. I Neet2 – giovani tra i quindici e i ventinove anni che non studiano, non lavorano, insomma non fanno apparentemente niente – sono oltre due milioni. Chi il lavoro ce l’ha vive spesso in uno stato di precariato e instabilità e quindi di grande incertezza circa il proprio futuro. «I giovani italiani – hanno sintetizzato Ambrosi e Rosina (2009, p. 51) – sono una risorsa poco utilizzata e scarsamente valorizzata nel nostro paese. La condizione di svantaggio risulta evidente sia rispetto alle generazioni precedenti sia rispetto ai coetanei che vivono nel resto del mondo occidentale». Nel settembre del 2011 è stata eletta come primo ministro in Danimarca Helle Thorning-Schmidt, la prima donna nella storia del paese a ricoprire quella carica. Le persone che la neo-eletta ha voluto al governo avevano un’età media di quarantatré anni e due di queste, chiamate a dirigere due ministeri molto importanti, quello del Fisco e quello della Salute, avevano rispettivamente ventisei e ventotto anni. Per noi italiani, nel momento in cui scrivo, tutto questo appare un mondo di marziani. L’ambito della politica è certamente uno di quelli in cui i giovani italiani entrano con più difficoltà e in cui, coloro che sono riusciti a entrare, si sentono più svalutati: «Si chiede sempre un ricambio della classe politica, salvo poi tacciare come inesperti i giovani a cui vengono affidati ruoli di rilievo – ha dichiarato un giovane assessore milanese – [...] occuparsi di politica, nel nostro Paese è molto difficile se hai trent’anni, c’è sempre qualcuno pronto a dire che sei stato messo lì per 2  Un acronimo per “Not in Education, Employment or Training”.

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non disturbare, perché sei controllabile, se sei donna perché sei attraente»3. I giovani si sentono discriminati. Da una ricerca condotta in Emilia-Romagna a cui hanno preso parte adolescenti e giovani (tra i quattordici e i ventisei anni, in prevalenza studenti) e riguardante la loro partecipazione sociale e politica, emerge un quadro inquietante: il refrain dei partecipanti, ossessivamente ripetuto, è che gli adulti «non ci ascoltano», «non ci prendono sul serio». È diffusa la sensazione di essere considerati solo «se fa comodo», sennò «c’è proprio un disinteresse totale per quello che facciamo, di quello che viviamo, siamo abbandonati a noi stessi». La bassa partecipazione e lo scarso interesse dei giovani per la politica, da loro stessi riconosciuto, costituisce per gli adulti un’ottima giustificazione per mantenerli ai margini. Agli occhi dei giovani, dalle descrizioni che hanno fatto, la società appare cieca e sorda nei loro confronti. Essi si sono mostrati ben consapevoli, hanno osservato le ricercatrici, «di non avere attualmente opportunità di incidere sulla realtà che li circonda; i politici e chi ha in mano il potere sono anziani, distanti dai giovani, incapaci di ascoltarli e di comprendere i loro bisogni, interessati a mantenere il potere e corrotti. Ritengono che tra gli adulti prevalga una rappresentazione negativa dei giovani (propensi al rischio e non competenti) alimentata intenzionalmente dai media» (Albanesi, Cicognani e Zani, 2011, p. 171). La discriminazione dei giovani, nella società italiana di oggi, è prevalentemente di tipo istituzionale: politiche (per esempio, la mancanza di un sussidio che faciliti l’autonomia economica) e pratiche (la iperprotezione 3  Intervista di Armando Stella a Pierfrancesco Maran, «Corriere della Sera», 30 agosto 2011.

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familiare, la precarietà del lavoro) non consentono ai più giovani di inserirsi a pieno titolo nel mondo adulto. Ma questa discriminazione, è interessante notarlo, si accompagna a un atteggiamento in apparenza positivo: viene continuamente ribadita la loro ingiusta esclusione dal mondo del lavoro, il lungo periodo di precariato che li aspetta dopo una ancor più lunga preparazione, si mostra comprensione ed empatia per la loro situazione, ma poi li si considera immaturi, non in grado di assumere responsabilità, di diventare autonomi. I giovani, ha osservato il sociologo Ilvo Diamanti sulla «Repubblica» del 13 febbraio 2012, fino a ieri erano il simbolo del futuro, del progresso, del rinnovamento, mentre oggi sono passati di moda. I bamboccioni esistono, ammettiamolo francamente: in un’indagine condotta dalla Commissione Europea nel 2007 sui giovani tra i quindici e i trent’anni, gli italiani sono quelli che si sono dichiarati più d’accordo con l’affermazione “Voglio le comodità senza le responsabilità” (Palmonari e Crocetti, 2011). Naturalmente, come tutti gli stereotipi, anche quello dei giovani italiani nullafacenti e mammoni è una generalizzazione impropria. Se è vero che oltre il 30% degli studenti universitari è fuori corso, molti tra loro lavorano per mantenersi agli studi. Ma, soprattutto, sarebbe sbagliato attribuire la responsabilità dell’attuale situazione principalmente ai giovani: sono figli di una generazione, quella dei cosiddetti baby boomers, che è stata estremamente permissiva, li ha vezzeggiati, ma al tempo stesso gli ha tarpato le ali. I giovani della generazione precedente hanno goduto di un clima sociale a loro favorevole e sono stati protagonisti in un momento di grande trasformazione del paese. Allora i giovani erano di moda, di gran moda. I più brillanti, poi, hanno raggiunto alte cariche nella ­51

politica, nell’economia, nei media e, quel che è peggio, non hanno nessuna intenzione di andarsene. Quella di oggi invece, scrive sempre Diamanti, «è una generazione di giovani che faticano a crescere. Perché gli adulti e gli anziani (ammesso che qualcuno sia ancora disposto a dichiararsi tale) li vogliono così: eterni adolescenti. E i giovani – una parte di loro, almeno – si adeguano a questo status. A questo limbo»4. L’ingresso dei giovani nel mondo della politica e del lavoro preoccupa la generazione di mezzo: «I cinquantenni temono che il rapido inserimento dei più giovani provochi una svalutazione del proprio capitale umano – hanno rilevato con acume psicologico gli economisti Boeri e Galasso –, fa male trovarsi di fronte qualcuno di più preparato, più veloce nel risolvere i problemi, anche se meno esperto. Si rischia il posto in squadra. Si finisce in panchina» (2007, p. 115). Ecco quindi che vengono messe in atto azioni e strategie tese a ritardare questi nuovi ingressi. Pertanto, la prospettiva di passaggio alla categoria degli adulti non appare ai giovani italiani altrettanto imminente come sembra apparire ai giovani americani. Né gli può risultare inevitabile un miglioramento di status: la loro mobilità sociale è oggi fortemente ostacolata dall’ingombrante generazione di mezzo che rimane abbarbicata a confortevoli poltrone che non intende in alcun modo abbandonare (Ambrosi e Rosina, 2009). Il risultato è che, al contrario di quanto emerso nella ricerca americana, la percezione di essere discriminati ha, per i giovani italiani, esiti psicologici notevoli: «È certamente legittimo, in questo scenario, parlare di una vera e propria depressione giovanile, spe  «la Repubblica», 20 gennaio 2012.

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cificamente italiana. Una condizione che crea un più o meno sottile disagio, scetticismo, inquietudine, tanto che varie recenti indagini hanno messo in evidenza come i trentenni oggi siano più infelici dei pensionati e degli anziani che vivono soli» (Ambrosi e Rosina, 2009, p. 41).

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Gli anziani tra emarginazione e gerontocrazia

Arriviamo ora al nocciolo della questione, perché è sul pregiudizio nei confronti degli anziani che si sono soprattutto concentrati gli studi sull’ageism. I motivi per cui sono gli anziani ad essere al centro dell’attenzione sono sostanzialmente due. Innanzitutto stiamo assistendo, nella maggior parte delle nazioni sviluppate, a un invecchiamento progressivo della popolazione, fenomeno dovuto alla diminuzione delle nascite e all’aumento contemporaneo della speranza di vita. Poiché il peso numerico degli anziani nella società sta crescendo ed è destinato ad aumentare ancor più in futuro, è indispensabile cercare di facilitare in ogni modo un rapporto armonico tra questa e le altre categorie d’età. In secondo luogo, nonostante i giovani si sentano discriminati più degli anziani, si tratta per loro di un’esperienza transitoria, destinata a terminare nel momento in cui entreranno a far parte del mondo degli adulti e che per questo, come abbiamo visto, incide in modo meno rilevante sul loro benessere e sulla loro autostima (Garstka et al., 2004)1. 1

  Riguardo a questo confronto non ho trovato però dati italiani.

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Per i più anziani, invece, si tratta di una condanna definitiva, destinata a cessare solo con la morte. Il termine ageism è stato coniato negli anni Sessanta da Robert Butler, uno psichiatra gerontologo che vinse qualche anno dopo il premio Pulitzer con il libro Why Survive? Being Old in America, in cui descriveva la condizione degli anziani negli Stati Uniti. Butler raccontò di essersi accorto di come gli anziani fossero oggetto di atteggiamenti ostili e discriminazione quando, in una cittadina del Maryland, venne proposta dagli organi distrettuali la costruzione di una casa popolare per i cittadini anziani. I residenti contrastarono con forza questo progetto sostenendo che comportava un aumento delle tasse, costi supplementari, svalutazione delle proprietà, e così via. Butler però si rese conto che le preoccupazioni finanziarie erano solo in parte le ragioni dell’ostilità dei residenti e che la profonda irritazione mostrata dai giovani e dagli adulti era dovuta soprattutto alla repulsione personale che quelle persone provavano nei confronti dell’invecchiamento, delle malattie, delle invalidità e, in definitiva, della morte. Da allora l’interesse per l’ageism si è sviluppato in varie discipline e in vari ambiti, in particolare quelli del lavoro e della salute. Ancora oggi, tuttavia, è un pregiudizio assai meno indagato rispetto a quello nei confronti di altre categorie (come quelle basate sul genere o sull’etnia). In un libro dedicato a sfatare cinquanta grandi miti della psicologia popolare appare, tra i primi, il seguente: «In genere la vecchiaia comporta un aumento dell’insoddisfazione e un deterioramento delle facoltà mentali» (Lilienfeld et al., 2010, p. 68 dell’ed. it.). Facendo ricorso a una serie di esempi tratti dal cinema, dai cartoni animati per bambini e da interviste a studenti universitari, gli autori mostrano come questo pregiu­55

dizio sia indotto fin dall’infanzia e diventi parte della disinformazione collettiva. Facendo poi riferimento alle ricerche sul tema, spiegano che si tratta di luoghi comuni ampiamente condivisi ma non scientificamente fondati. È vero che, intervistate in proposito, le persone sia di trenta sia di settant’anni pensano che i più anziani siano meno felici dei più giovani – e quindi confermano il pregiudizio. Tuttavia, per quello che li riguarda personalmente, i settantenni si dichiarano più felici dei trentenni. Si tratta di un dato riscontrato in molte ricerche: nella ottava decade della vita, non solo la gente si dice più felice, ma prova meno sentimenti negativi, aumenta quelli positivi o li mantiene invariati, e si considera complessivamente più soddisfatta di sé e di quello che fa. Si è anche visto che, mentre sono normali con il passare degli anni una lieve perdita di memoria, dimenticanze e difficoltà nel ricordare le parole, forme gravi di demenza non sono conseguenze inevitabili dell’invecchiamento, così come non lo sono un forte declino dell’intelligenza, delle abilità linguistiche e della capacità di apprendimento. «Ho perso un po’ la vista, molto l’udito – ha dichiarato Rita Levi Montalcini – alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente»2. Nonostante gli psicologi sappiano bene che l’aumentare degli anni non comporta ineluttabilmente il decadimento cognitivo, prevale ancora il pregiudizio – a volte condiviso dagli anziani stessi – per cui dopo una certa età è impossibile imparare.

2  Dall’intervista di Paolo Giordano, 100 anni di futuro, in «Wired», 1, marzo 2009.

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1. Variazioni sul tema Se è vero che tutte le classificazioni basate sull’età sono flessibili, quella degli anziani è una categoria particolarmente fluttuante. Scrive una lettrice al «Corriere della Sera»: «Perché meravigliarsi se un settantenne “qualunque” viene considerato troppo vecchio per potersi rendere utile? Nelle notizie di cronaca una donna di cinquant’anni che viene investita o rapinata diventa “l’anziana signora”. Etichette che una volta date è difficile cambiare. Ciò naturalmente vale per illustri sconosciuti. Per gli altri invece, politici, cantanti, imprenditori, persone di successo, l’età diventa sinonimo di esperienza, saggezza, saper vivere... e anzi essere giovani è, se non una colpa, quanto meno uno svantaggio» (Silvana Mandelli, 16 giugno 2009). La signora ha proprio ragione: esistono criteri assai diversi, e alcuni anche molto discutibili, per valutare l’anzianità delle persone. Del resto, la categoria degli anziani è anch’essa, come le altre categorie d’età, distinguibile in svariati sottotipi. I sottotipi delle categorie si formano quando le persone ricevono informazioni che sono incongruenti con lo stereotipo della categoria globale; essi consentono di mantenere in vita lo stereotipo complessivo senza inserire nuove informazioni discordanti. Una ripartizione classica della categoria degli anziani (Brewer, Dull e Lui, 1981) fa riferimento a tre principali sottotipi: la nonna (descritta come una donna dedicata agli altri, gentile, serena e affidabile), lo statista senior (uomo intelligente, competitivo, aggressivo e intollerante) e la vecchia/il vecchio (individuo, di entrambi i sessi, rappresentato come sorpassato, debole, inattivo e solitario). Le ricerche indicano che le prime due categorie comportano anche (ma non solo) tratti ­57

positivi, mentre le persone che utilizzano la terza hanno un atteggiamento decisamente negativo verso gli anziani. Sebbene altre tipologie più o meno convincenti siano state proposte – per esempio, il burbero reazionario alla John Wayne, la matriarca/il patriarca liberal – è a questi tre sottotipi che generalmente fanno riferimento gli stereotipi più utilizzati. Si è già detto che il contenuto degli stereotipi può essere ricondotto a due principali dimensioni: il calore e la competenza (Fiske et al., 2002). Ai diversi possibili incroci tra queste due dimensioni si accompagnano tipi diversi di pregiudizio. Prese nel loro insieme, le persone più anziane sono considerate calde ma incompetenti: ne deriva un pregiudizio paternalistico, basato su un sentimento di simpatia e, al tempo stesso, di compassione. Ma, se facciamo riferimento ai sottotipi, è la nonna che rispecchia maggiormente lo stereotipo globale degli anziani: una donna benvoluta, che possiede grandi capacità relazionali, ma manca completamente di tratti legati alla competenza, quali indipendenza, intelligenza e sicurezza di sé. Il vecchio/la vecchia, invece, manca sia di competenza sia di calore. Le persone vedono questo sottotipo come chiuso, triste e passivo. Suscita rabbia e risentimento perché è visto come la causa della sua malinconica sorte. Infine, lo statista è un uomo attivo ma poco sensibile, ispira rispetto, trasmette competenza ma non calore e quindi è in netto contrasto con lo stereotipo generale (Cuddy e Fiske, 2002). Gli stereotipi sono credenze semplificate, e a volte molto approssimative, circa quelle caratteristiche di un gruppo sociale che consideriamo tipiche di tutti gli appartenenti a quel gruppo («le nonne sono dedite alla famiglia»). Ma vi sono stereotipi che non hanno mera­58

mente una funzione descrittiva e indicano anche quale comportamento i membri di un determinato gruppo devono mettere in atto per evitare di essere rifiutati o derisi («le nonne devono essere dedite alla famiglia»). Questi stereotipi prescrittivi sono particolarmente tenaci e aprono le porte al pregiudizio e alla discriminazione nei confronti di chi li disattende. North e Fiske (2010, 2011) hanno individuato tre dimensioni prescrittive intergenerazionali per mezzo delle quali i più giovani si vogliono assicurare che gli anziani «stiano al loro posto». La prima dimensione riguarda la successione e prescrive che i più anziani debbano cedere il controllo attivo delle risorse desiderabili. In pratica, dovrebbero essere disponibili a condividere la loro ricchezza con i più giovani e a ritirarsi dal lavoro. La seconda dimensione riguarda l’identità: i più anziani non dovrebbero cercare di fare quello che fanno i più giovani e non dovrebbero andare nei luoghi da questi frequentati: niente nuove tecnologie, niente Facebook o Twitter, ma neanche happy hour o discoteca. La terza dimensione, infine, riguarda il consumo: i più anziani dovrebbero ridurre lo sperpero passivo di risorse comuni, non sovraccaricando il sistema sanitario di onerose cure mediche, non ingombrando le strade perché guidano troppo piano, non occupando posti speciali sugli autobus e sui treni. Una ricerca ha appurato che gli anziani che si attengono a queste prescrizioni sono valutati in modo particolarmente positivo dai più giovani non solo in termini di calore ma anche di competenza, mentre quelli che derogano da queste norme sono considerati in modo decisamente severo e suscitano sentimenti negativi.

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2. Atteggiamenti sfavorevoli ai più anziani Diversamente da quello che avviene per altri bersagli di pregiudizio – gruppi etnici, religiosi, e così via – non esistono gruppi che dichiarino esplicitamente odio o ostilità nei confronti degli anziani o si coalizzino per avversarli. Non esistono neanche termini per designare questa avversione come invece esistono, per esempio, per definire l’ostilità verso le donne (misoginia, maschilismo). Esprimere apertamente un atteggiamento sprezzante nei confronti dei più anziani è considerato politicamente scorretto e pertanto le persone evitano di farlo. Tuttavia è più che tollerato mostrare forme di insofferenza nei loro confronti: affermare «che ci si deve armare di pazienza» quando si ha a che fare con uno di loro o che un altro «è testardo come un mulo», non scandalizza nessuno – guarda caso, queste stesse espressioni vengono usate anche nei confronti di bambini e adolescenti – così come sono consentite tra amici battute o appellativi umoristici riferiti all’età avanzata e ai suoi corollari. Inoltre, anche quando non è espresso apertamente, l’ageism permane a livello implicito e, quello che è più interessante, in tutte le generazioni. Nosek, Banaji e Greenwald (2002) hanno effettuato una ricerca raccogliendo i dati attraverso un sito web da loro creato. Si è tenuto conto dei risultati relativi a oltre sessantamila rispondenti, un numero di persone straordinariamente alto per una ricerca psicologica3. Sono state utilizzate 3  Complessivamente alla ricerca hanno partecipato oltre seicentomila persone di tutte le età. L’altissimo numero dei rispondenti è dovuto soprattutto al fatto che le informazioni sul sito sono state diffuse da varie trasmissioni di importanti network statunitensi. Per esempio, il sito è stato visitato da oltre centocinquantamila persone nei cinque giorni successivi a due programmi sul pregiudizio, trasmessi

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una misura esplicita e una implicita di pregiudizio nei confronti di diverse categorie di persone tra cui due riferite all’età (vecchi e giovani). Con la misura esplicita si chiedeva semplicemente ai rispondenti se preferissero i giovani o i vecchi, mentre come misura implicita è stata utilizzata una versione semplificata dello Iat (Implicit Association Test). Lo Iat, come si è detto, è uno strumento che consiste nel misurare i tempi di risposta ottenuti appaiando la categoria oggetto dell’atteggiamento (al caso giovane/vecchio) con una dimensione valutativa (buono/cattivo). L’idea è che la risposta sarà tanto più rapida quanto più la categoria e l’attributo sono percepiti come coerenti tra loro. In questo caso si misurava la differenza tra il tempo impiegato per rispondere, premendo appositi tasti di un computer, alle associazioni di nomi o fisionomie di giovani/anziani con parole di valenza positiva o negativa. Per esempio, i tempi di risposta all’associazione tra un nome ora in disuso come Gertrude – o l’immagine di una persona anziana – e l’attributo cattivo, oppure all’associazione tra un nome moderno come Cindy – o l’immagine di una persona giovane – e l’attributo buono, erano confrontati con quelli impiegati per rispondere alle associazioni inverse, ossia Gertrude + buono o Cindy + cattivo. La differenza tra il tempo di risposta alle prime associazioni, considerate coerenti, e il tempo di risposta alle seconde, considerate incoerenti, costituiva la misura dell’atteggiamento implicito verso gli anziani rispetto ai giovani. Tre i risultati più interessanti (Levy e Banaji, 2002). Innanzitutto l’ampiezza dell’effetto: l’atteggiamento implicito verso gli anziani è risultato più negativo dell’atteggiamento che le perrispettivamente dalla Nbc e da Discovery Channel (Nosek, Banaji e Greenwald, 2002).

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sone hanno espresso verso tutte le altre categorie prese in esame. In secondo luogo, l’atteggiamento implicito è risultato molto più negativo di quello esplicito, in linea con l’idea che “non sia bene” esprimere pregiudizi nei confronti dei più anziani. Infine, l’andamento dell’atteggiamento esplicito è apparso assai diverso da quello dell’atteggiamento implicito: mentre il primo è risultato meno negativo al crescere dell’età dei rispondenti (fino a diventare leggermente positivo nelle persone di settanta e più anni), l’atteggiamento implicito non è variato in funzione dell’età: sia anziani sia giovani hanno espresso un atteggiamento più negativo verso gli anziani e uno più positivo verso i giovani. Si conferma, quindi, l’idea che il pregiudizio verso gli anziani sia inconsciamente condiviso anche dai diretti interessati. Un’interpretazione in chiave evoluzionista del­ l’ageism­ implicito è stata proposta da due psicologi canadesi (Duncan e Schaller, 2009). Essi sono partiti dall’idea che l’ageism possa essere almeno in parte interpretato come una risposta automatica volta a evitare di contrarre malattie infettive. Percepire segnali che indicano malattia (per esempio, accessi di tosse, lesioni della pelle, ecc.) provoca in genere un sentimento di disgusto e facilita comportamenti di evitamento. Nello stesso modo, ogni notevole deviazione dalle norme morfologiche tipiche della nostra specie può essere interpretata come il segnale di una possibile malattia e quindi produrre avversione. Quando le persone invecchiano, la loro apparenza fisica si discosta progressivamente – nei segni e nelle proporzioni del viso, nel colore e nella quantità di capelli, nel colorito della pelle, e così via – dal prototipo della specie umana (l’adulto). Di conseguenza, i ricercatori hanno pensato che la mera visione di persone anziane faciliti l’associazione anziani-malattia, suscitan­62

do una reazione implicita di rigetto soprattutto da parte di chi si ritiene particolarmente vulnerabile al contagio di malattie infettive. Si è supposto, inoltre, che la stessa reazione negativa possa manifestarsi anche in coloro a cui la minaccia di germi patogeni è artificialmente resa saliente (mostrando loro, per esempio, una serie di diapositive raffiguranti germi e batteri annidati nelle spugne di cucina o simili). Per verificare queste ipotesi i ricercatori hanno condotto una ricerca con studenti universitari di origine europea e asiatica. I risultati, ottenuti utilizzando lo Iat, hanno confermato le previsioni per le persone di origine europea ma non per le persone di origine asiatica. Tale differenza può essere spiegata su base culturale: mentre nella cultura occidentale le credenze riguardo alle malattie sono focalizzate sulla trasmissione di germi e quindi sulle possibili cause esterne, la medicina cinese tradizionale è olistica e attenta soprattutto alle cause interne. Per questo motivo i segnali del contesto che connotano la vulnerabilità nella cultura occidentale (la spugna impregnata di batteri) possono non avere avuto lo stesso impatto minaccioso per i partecipanti di origine orientale. Secondo i ricercatori, comunque, se l’ageism implicito deriva in parte da una manovra tesa a evitare le malattie, la reazione negativa verso gli anziani potrebbe amplificarsi nelle situazioni in cui aumenta la vulnerabilità al contagio (come nei viaggi in paesi ad alto rischio di malattie infettive, o nei primi mesi di gravidanza). Un’interessante ipotesi tutta da verificare. 3. Chi sono le persone con più pregiudizi verso gli anziani? Per cercare di capire in che misura il contesto sociale e i fattori psicologici influenzano gli atteggiamenti verso ­63

l’età e l’esperienza di discriminazione legata all’ageism, Abrams, Vauclair e Swift (2011) hanno condotto un’analisi dei dati raccolti sul tema dall’European Social Survey, un’indagine periodica nata con l’intento di fotografare e spiegare l’interazione tra l’evoluzione delle istituzioni in Europa e gli atteggiamenti, le credenze e i comportamenti delle diverse popolazioni. I ricercatori sono partiti dal presupposto che l’ageism, oltre a derivare dal modo in cui la gente percepisce e categorizza gli altri (“i giovani”, “i vecchi”) o da pervasivi stereotipi sociali, può essere dovuto alla percezione che il potere e lo status delle persone più anziane siano inferiori a quelli delle altre categorie d’età o, ancora, al timore che i più anziani possano rappresentare una minaccia per coloro che sono più giovani. Una ricerca condotta in Gran Bretagna (Abrams, Eilola e Swift, 2009) ha infatti mostrato che i più anziani sono visti attualmente dai più giovani soprattutto come una minaccia di tipo economico, poiché sono ritenuti responsabili delle loro difficoltà lavorative sulla base, per esempio, dell’idea che venga data la preferenza all’assunzione o al mantenimento in ruolo dei lavoratori più anziani invece che alla formazione dei più giovani. Gli anziani sarebbero invisi, dunque, soprattutto perché trasgrediscono a quella che North e Fiske (2010) hanno denominato prescrizione di successione. Lo studio europeo ha anche esaminato la possibile influenza di una serie di fattori individuali (quali l’età, il genere, l’etnia, il livello di scolarizzazione, l’area urbana o rurale di residenza) e di altri legati alla situazione socio-economica dei singoli Stati (prodotto interno lordo, età della pensione, tasso di disoccupazione, proporzione della popolazione over 65, e così via). I risultati hanno mostrato, innanzitutto, che esiste un generale favoritismo per il proprio gruppo d’età e ­64

che man mano che le persone invecchiano il loro atteggiamento verso le persone anziane diventa più favorevole. Rispetto ai fattori individuali, le donne mostrano meno pregiudizio e valutano l’ageism un problema più serio rispetto agli uomini, mentre le persone più istruite sono particolarmente consapevoli dell’ageism ma non pensano di esserne toccate personalmente, e coloro che si considerano più poveri manifestano più ageism di coloro che si considerano più benestanti. Chi vive in città tende ad anticipare l’inizio della vecchiaia rispetto a chi vive in zone rurali, ha un atteggiamento più negativo nei confronti degli over 70 e meno rapporti con loro. Gli atteggiamenti si differenziano quindi anche in ragione dell’area di residenza: in città la fretta, la confusione, il bombardamento di stimoli di ogni tipo fanno sì che le persone badino soprattutto ai fatti propri, si preoccupino di difendersi dal mondo circostante, siano meno attente agli altri e più diffidenti nei confronti del prossimo, anziani compresi. Per quello che riguarda, infine, i fattori legati all’economia e alla politica delle singole nazioni, si è visto che gli Stati in cui esiste una visione più positiva degli anziani – sia in termini di status sia riguardo al loro contributo all’economia nazionale – sono quelli con il più alto prodotto interno lordo, in cui si va in pensione più tardi e in cui vi è un’alta percentuale di popolazione anziana. Inoltre, mentre in genere la tolleranza verso la diversità e verso le minoranze diminuisce con l’aumentare della disuguaglianza di reddito (Andersen e Fetner, 2008), nei confronti degli anziani si è constatato il contrario: nei paesi in cui è maggiore la disuguaglianza economica si è riscontrato un minor grado di ageism. Una possibile spiegazione di questo fenomeno è che in questi paesi esista una proporzione più alta di anziani che hanno ­65

un elevato tenore di vita e che sia quindi più saliente lo stereotipo dell’anziano che gode di uno status alto, di prestigio e di potere. È questa una magra consolazione per il nostro paese, uno degli Stati Ocse in cui l’indice di Gini, che misura la disuguaglianza sociale, è recentemente cresciuto di più (Perri, 2011). I risultati dello studio di Abrams, Vauclair e Swift (2011) suscitano due considerazioni importanti. Innanzitutto l’età anziana sembra rappresentare un problema soprattutto per coloro che hanno meno risorse economiche e godono di minori vantaggi sociali: si manifesta così un doppio percorso dell’invecchiamento che produce l’emarginazione dei più deboli e la supremazia dei più forti. In secondo luogo, da quest’indagine emerge che la dilazione dell’età pensionabile può produrre un effetto positivo sugli atteggiamenti nei confronti degli anziani, sulla percezione del loro status e sulla loro inclusione sociale. È probabile che ritirarsi dal lavoro e ricevere una pensione attivino maggiormente nell’anziano stesso e nell’immaginario collettivo gli stereotipi legati alla senescenza e aprano la strada alle loro conseguenze negative. Ma su questo punto non esistono, a quel che mi è dato di sapere, ricerche specifiche. 4. Gli incredibili effetti del «priming» legato all’età e come contrastarli L’ageism può avere un impatto sui processi cognitivi, sui comportamenti e perfino sulla salute delle persone più anziane, anche senza che queste ne siano consapevoli. Utilizzando la tecnica del priming (ne abbiamo parlato nel cap. 3) si è visto come sia potente la minaccia dello stereotipo. In uno studio, un gruppo di persone anziane che, a loro insaputa, erano state esposte al prime di ­66

stereotipi negativi dell’anziano (per esempio, incompetente, debole)4 hanno avuto, in un successivo test di memoria, una prestazione assai peggiore rispetto a un altro gruppo equivalente che era stato esposto al prime di stereotipi positivi degli anziani (saggio, giudizioso) (Levy, 1996). Inoltre, si è osservato che il prime aveva influenzato altri fattori, tra cui la valutazione che queste persone avevano della propria memoria – risultata migliore con il prime positivo – e la visione non solo di se stesse ma dell’anzianità in genere. In merito a quest’ultima, nello stesso studio i partecipanti sono stati divisi in due gruppi che hanno ricevuto un prime differente: in un gruppo si trattava di stereotipi negativi, legati al concetto di senescenza, nell’altro di stereotipi positivi, connessi al concetto di saggezza. Successivamente tutti i partecipanti sono stati invitati a leggere una storia che riguardava una donna di settantatré anni, di nome Margaret, storia che conteneva una serie di informazioni ambigue che potevano essere interpretate in vari modi. Si diceva, per esempio, che Margaret era andata a stare a casa della figlia, che partecipava a riunioni che si tenevano al college, che aveva avuto una dimenticanza, ma si tralasciava volutamente di fornire spiegazioni per questi fatti. Ai partecipanti è stato poi chiesto di riscrivere a memoria la storia letta e di esprimere la loro opinione su Margaret, dicendo che con questo compito si voleva misurare la loro capacità di ricordare e non – come in realtà era – la loro visione dell’invecchiamento. Si è constatato che il prime aveva fortemente condizionato la rappresentazione di Margaret. Coloro che erano stati esposti al prime positivo hanno immaginato che 4  Queste parole venivano proiettate sullo schermo di un computer a una velocità tale da impedire il loro riconoscimento consapevole.

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Margaret svolgesse un ruolo chiave nella famiglia, fosse andata dalla figlia per rispondere a reali necessità, fosse una persona vitale e attiva, e hanno attribuito la sua dimenticanza momentanea alla mancanza di sonno. Nel descrivere Margaret, un partecipante ha scritto: «Una tipica nonna [...] preoccupata per il benessere dei suoi figli e dei suoi nipoti». Quelli esposti al prime negativo, invece, hanno pensato l’esatto contrario: Margaret è stata vista come una persona dipendente dalla figlia e bisognosa del suo aiuto. Un partecipante ha scritto: «Vecchia e smemorata come è naturale per la maggior parte delle persone anziane» e un altro, ancor più semplicemente, «Malattia di Alzheimer!». In successive ricerche si è constatato che, rispetto al prime positivo, quello negativo promuove negli anziani una scrittura più incerta e confusa, in situazioni stressanti attiva più forti risposte fisiologiche – pressione del sangue, battito cardiaco e conduttanza cutanea – e riduce la voglia di vivere, rafforzando la tendenza a rifiutare interventi medici tesi al prolungamento della vita. Tutti questi risultati inducono a pensare che i differenti effetti che gli stereotipi legati all’età hanno sulle persone più anziane possano essere interrelati e rinforzarsi a vicenda. L’uso del priming ha anche permesso di osservare che, quando è resa saliente una categoria sociale oggetto di stereotipi, si attivano specifici comportamenti anche in coloro che non appartengono alla categoria stereotipata. Non mi riferisco, qui, a comportamenti discriminatori, bensì al fatto che le persone tendono a mettere in atto azioni congruenti con lo stereotipo che viene attribuito alla categoria che è stata resa saliente. Anche in questo caso la categoria degli anziani appare paradigmatica. Gli stereotipi convenzionali descrivono ­68

gli anziani come più lenti, fisicamente e mentalmente, rispetto al resto della popolazione e l’immagine di un individuo anziano attiva in genere la rappresentazione di una condotta caratterizzata da lentezza. Di conseguenza, le persone sono inclini a comportarsi in linea con questa rappresentazione, ossia più lentamente. In un famoso studio (Bargh, Chen e Burrows, 1996) i partecipanti – studenti universitari – sono stati invitati uno alla volta in laboratorio per effettuare un compito in cui dovevano costruire delle frasi utilizzando una serie di parole. Per metà dei partecipanti si trattava di parole che erano connesse con lo stereotipo degli anziani – ma senza un particolare riferimento alla lentezza – mentre per l’altra metà si trattava di parole neutre che non avevano a che fare con l’età. Completato il compito, il ricercatore ringraziava lo studente e lo invitava a uscire utilizzando l’ascensore situato in fondo a un corridoio. A quel punto un’altra persona, senza farsi notare, registrava il tempo che lo studente impiegava per andare dalla porta del laboratorio all’ascensore. Ebbene, gli studenti che erano stati esposti al prime degli anziani hanno impiegato più tempo a raggiungere l’ascensore, rispetto a quelli esposti al prime neutro: lo stereotipo dell’anziano aveva stinto su di loro. Si è poi constatato che il prime della categoria anziani produce risposte più lente anche in compiti di altro genere, per esempio di tipo lessicale. In una ricerca si è attivato questo prime chiedendo ai partecipanti di valutare se le persone che comparivano in una trentina di fotografie erano anziane o non lo erano. In seguito, le persone dovevano effettuare il compito principale che consisteva nel decidere se le serie di lettere che apparivano sullo schermo del computer costituivano o no parole realmente esistenti. Si è visto che le persone esposte ­69

al prime hanno impiegato più tempo per svolgere questo compito rispetto alle persone che non sono state esposte al prime (Kawakami, Young e Dovidio, 2002). Se questi effetti automatici sui comportamenti delle persone sono inconsapevoli, è naturale a questo punto chiedersi se e come è possibile contrastarli. Si è visto da tempo che gli stereotipi e i pregiudizi che si attivano automaticamente, se sono in conflitto con le credenze e i valori della persona, possono essere da questa controllati in modo da sopprimerne gli effetti (Devine, 1989). Tuttavia le ricerche di cui si è parlato più sopra, prese nel loro insieme, sembrano mostrare che l’attivazione di stereotipi può ripercuotersi direttamente sui comportamenti, in una sequenza automatica su cui poco si può incidere. Se le persone possono essere indotte a comportarsi in modo stereotipato senza rendersene conto, ciò significa che il loro sistema di credenze e valori non è sempre in grado di controllare i loro comportamenti. Si tratterebbe quindi di risultati piuttosto sconfortanti per chi è interessato alla riduzione dei pregiudizi. Alcune ricerche, tuttavia, hanno individuato possibili strategie per interrompere questa sequenza. Una tecnica che appare promettente consiste nell’incoraggiare le persone a utilizzare molteplici categorizzazioni. Secondo Langer e Imber (1980), per ridurre i pregiudizi è più efficace ampliare il numero delle categorizzazioni piuttosto che cercare di ridurle o eliminarle (sostenendo, per esempio, che «siamo tutti uguali»), poiché aumentando il numero delle categorie diminuisce l’importanza attribuita a ciascuna di esse. Per verificare se l’uso di più categorie poteva anche prevenire i comportamenti automatici attivati dagli stereotipi, è stata condotta una ricerca riguardante gli anziani (Djikic, Langer e Stapleton, 2008). Si sono adottate una ­70

procedura e una misura simili a quelle utilizzate da Bargh, Chen e Burrows (1996) e ci si è basati, come in quello studio, sullo stereotipo di lentezza legato alla vecchiaia. Dopo aver indotto il prime della vecchiaia, ai partecipanti è stato chiesto di categorizzare una serie di fotografie di persone. A seconda delle condizioni sperimentali, i partecipanti sono stati invitati a suddividere in gruppi le fotografie sulla base di una sola categoria (o l’età o il genere) o di quattro categorie (l’età, il genere, l’etnia e la piacevolezza). Terminato il compito di categorizzazione, il ricercatore ha chiesto loro di spostarsi in una stanza diversa del laboratorio per proseguire l’esperimento, mentre un altro ricercatore, di nascosto, misurava il tempo che queste persone impiegavano per spostarsi dalla prima alla seconda stanza. Ci si aspettava che l’effetto di lentezza indotto dal prime-vecchiaia sarebbe stato meno forte quando le categorizzazioni erano state molteplici e che, pertanto, le persone che avevano utilizzato quattro categorizzazioni avrebbero impiegato meno tempo a raggiungere la seconda stanza di quelli che avevano utilizzato una sola categorizzazione. I risultati hanno confermato l’ipotesi, indicando che un maggiore impegno cognitivo – qual è l’uso di più categorizzazioni basate su molteplici dimensioni – può ridurre l’effetto del prime provocando una diminuzione dell’attivazione automatica dei comportamenti collegati allo stereotipo degli anziani. 5. Quando lo stereotipo dell’anziano può essere vantaggioso Cosa succede agli anziani che fanno parte anche di un altro gruppo che è target di stereotipi? Una ricerca canadese ha esaminato come si configurano gli stereotipi ­71

relativi a individui che appartengono a due categorie stigmatizzate: quella dei più anziani e quella dei neri (Kang e Chasteen, 2009). L’immagine stereotipata dei neri, in Nord America, li descrive come aggressivi e ostili; in contrasto, le persone più anziane sono stereotipate – lo si è visto – come smemorate, fragili e incompetenti ma, al tempo stesso, calde e simpatiche. Questi due gruppi, quindi, differiscono notevolmente: uno suggerisce ostilità e aggressività, l’altro debolezza e calore. Allora, come sarà valutato un uomo nero anziano? La ricerca ha verificato che l’incrocio fra le due categorie ha inibito gli elementi degli stereotipi che contrastavano tra loro: la debolezza e la cordialità legate allo stereotipo degli anziani hanno prevalso, impedendo l’attivazione dell’ostilità e dell’aggressività legate allo stereotipo dei neri. Pertanto il doppio stereotipo è risultato vantaggioso per i neri anziani poiché li ha tutelati dall’attivazione dello stereotipo dei neri ostili. 6. Eccesso di zelo Aiutare una persona anziana che mostra difficoltà ad attraversare la strada è senz’altro meritorio, come lo è qualsiasi azione di soccorso nei confronti di una persona bisognosa di sostegno. Ma anche questi comportamenti ben intenzionati non sono esenti da problemi perché è sempre possibile cadere nella trappola del sovra-aiuto: certi interventi premurosi possono provocare senza volerlo effetti negativi nell’altro. In uno studio condotto con un gruppo di anziani istituzionalizzati (Whitbourne, 2009) si è visto che quando il personale provvedeva abitualmente alle loro cure quotidiane – rasandoli, vestendoli e lavandoli – i residenti diventavano meno capaci di adempiere personalmente ­72

a queste funzioni. Quando invece il personale è stato addestrato a rinforzare l’indipendenza di queste persone, aiutandole solo quando era necessario, la loro autosufficienza nella cura di sé è aumentata enormemente. L’aiuto più efficace è quello che aumenta la capacità di chi lo riceve di operare in modo autonomo, non quello di chi ne prende il posto nello svolgimento dei suoi compiti (Leone, 2009). Non sempre, dunque, le buone intenzioni producono benefici effetti, esattamente come non sempre – lo abbiamo visto – essere oggetto di un atteggiamento positivo protegge dalla discriminazione. L’eccesso di zelo può manifestarsi non solo nelle azioni ma anche nella comunicazione. Le persone adattano il proprio modo di parlare allo stile del loro interlocutore e, in genere, questo adattamento facilita la relazione. Tuttavia a volte, pur con le migliori intenzioni, il tentativo di adattarsi può provocare l’effetto opposto. È quello che accade quando le persone più giovani comunicano con le persone più anziane, adattando il loro stile comunicativo più agli stereotipi legati all’età che alla persona con cui interagiscono: se pensano che gli anziani siano sordi alzano la voce, se pensano che siano lenti parlano lentamente, se pensano che siano mentalmente ritardati ripetono la stessa cosa più e più volte e usano un vocabolario semplificato, se pensano che siano fisicamente dipendenti si rivolgono a loro come parlerebbero ai bambini. Quest’ultima forma di sovra-adattamento è stata definita linguaggio condiscendente o infantilizzazione, una forma di ageism che consiste nell’utilizzare nei confronti delle persone più anziane un modo di esprimersi che ne sottolinea la dipendenza e il bisogno d’aiuto (Ryan, Hummert e Boich, 1995). Si infantilizza quando ci si rivolge a una persona ­73

anziana chiamandola per nome o “caro/a” o dandole familiarmente del tu, anche se familiare non è affatto. Quest’ultimo tipo di trattamento, che è stato rilevato sovente da parte del personale sanitario negli ospedali e nei servizi sociali non è solo avvilente – poiché provoca un calo del livello di autostima – ma anche nocivo, perché può danneggiare la prestazione cognitiva di chi ne è l’oggetto. In tal modo, infatti, si può rinforzare l’auto-stereotipo delle persone anziane e causare un peggioramento della loro memoria e delle loro capacità intellettuali nelle situazioni in cui queste sono loro richieste. Utilizzare un linguaggio paternalistico con una persona anziana, inoltre, può svalutarla agli occhi degli altri: in uno studio si è visto che gli abitanti di una comunità hanno valutato gli anziani che erano stati trattati in modo paternalistico come meno competenti di quelli che non lo erano stati (la Tourette e Meeks, 2000). È questo un esempio particolare dell’effetto “blaming the victim”, per il quale la vittima di un comportamento improprio è considerata in parte responsabile del comportamento che è stato messo in atto nei suoi confronti. L’infantilizzazione, infine, si può manifestare anche quando si parla con qualcuno a proposito di un anziano e lo si definisce “adorabile” o “tenero”, termini con i quali abitualmente ci si riferisce ai bambini in culla e ai piccoli animali domestici. 7. Pregiudizi, discriminazione e lavoro La discriminazione basata sull’età rappresenta oggi il maggior ostacolo per chi vuole trovare un’occupazione. Una ricerca condotta in ventotto paesi del mondo – tra Europa, Estremo Oriente, Nord e Sud America – ha mostrato che, mentre fino a pochi anni fa il genere e ­74

l’etnia costituivano le cause più rilevanti di pregiudizio nei confronti dei lavoratori, oggi il loro posto è stato preso dall’ageism (Kelly Services, 2006). Il livello della discriminazione in base al genere risulta essere circa la metà di quello basato sull’età. «Questo è uno strano Paese, in cui si pensa che una persona che ha poco più di 50 anni sia da considerare persa per il mercato del lavoro: è un’assurdità». Sono parole di Elsa Fornero5, ministro del Lavoro nel governo Monti. In realtà non si tratta di una particolarità italiana: nel mondo del lavoro si è già considerati vecchi a cinquant’anni – in molti paesi il tasso di discriminazione nei confronti di chi ha più di cinquant’anni raggiunge punte del 70% e oltre – ma già le persone di quarantacinque anni denunciano difficoltà nel trovare lavoro o nel cercare di cambiarlo. E poiché il lavoro costituisce una parte così importante della vita delle persone, si capisce perché in tutta Europa le persone tra i cinquanta e i sessantaquattro anni siano quelle che più considerano la discriminazione in base all’età come un problema rilevante (Abrams, Vauclair e Swift, 2011). L’età costituisce una barriera anche nella vita lavorativa di tutti i giorni6. In una ricerca svolta in Svizzera presso una business school, si è visto innanzitutto che, rispetto ai più giovani, i cinquantenni sono stati considerati più caldi ma meno competenti, in linea con lo ste  «Corriere della Sera», 15 gennaio 2012.   Dallo studio internazionale (Kelly Services, 2006), i livelli di sessismo e ageism nei confronti di chi già lavora risultano essere più o meno equivalenti. Tuttavia, un’indagine condotta dall’Osservatorio Diversity Management della Sda Bocconi nel 2012 segnala che in Italia l’età costituisce la maggiore causa di discriminazione non solo in ingresso, ma anche quando si ha già un posto fisso («Corriere della Sera», 9 febbraio 2012). 5 6

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reotipo degli anziani (Krings, Sczesny e Kluge, 2011). Si è chiesto poi a un gruppo di studenti di valutare il curriculum di due persone ugualmente qualificate, una di ventinove anni e una di cinquanta, in vista dell’assunzione di un agente di viaggio, un lavoro considerato neutro dal punto di vista dell’età. Il più giovane è stato di gran lunga preferito, ma quello che maggiormente stupisce è che il candidato più anziano è stato discriminato anche quando nella descrizione del lavoro a cui aspirava si richiedevano in modo esplicito requisiti legati non alla competenza ma al calore, quali la capacità di instaurare buoni rapporti interpersonali, di lavorare in gruppo, di partecipare a incontri con persone di altri settori. Secondo gli autori, il cinquantenne – essendo stato descritto come persona qualificata – è apparso incoerente con lo stereotipo di bassa competenza legato ai più anziani. Di conseguenza, è stato svalutato anche in termini di calore. Infatti, Cuddy, Norton e Fiske (2005) hanno trovato che un anziano pensionato descritto come molto incompetente, ossia in linea con lo stereotipo classico, è stato percepito come più caldo dello stesso pensionato descritto come più competente e quindi in modo contrastante con lo stereotipo. Nello stesso modo, un lavoratore anziano che non si comporta secondo lo stereotipo di incompetenza potrebbe essere percepito come meno caldo. Nella ricerca svizzera si è anche visto che la parte negativa dello stereotipo è più robusta di quella positiva: se i lavoratori più anziani si comportano in modo da contraddire lo stereotipo negativo del loro gruppo, la parte positiva dello stereotipo diminuisce (sono considerati meno caldi) senza che diminuisca la parte negativa (sono sempre considerati incompetenti). Pertanto, i lavoratori più anziani che dimostrano competenza rischiano di essere penalizzati due volte: ­76

possono essere trattati con minore considerazione e anche risultare meno graditi. È una credenza diffusa che la prestazione di un lavoratore decresca in funzione dell’età, e quindi che i lavoratori più anziani siano meno produttivi di quelli più giovani. Tuttavia, un gran numero di studi empirici e rassegne sul tema indicano che il rapporto tra prestazione lavorativa ed età del lavoratore è scarso, se non inesistente. Una rassegna dei lavori che hanno approfondito questo tema ha messo in luce che, utilizzando le usuali misure di rendimento sul lavoro, non si riscontrano differenze dovute all’età (Waldman e Avolio, 1986). Naturalmente dipende dagli ambiti, ma molti pregiudizi in proposito vanno sfatati: i lavoratori più anziani sono produttivi quanto quelli più giovani, hanno capacità di apprendimento solo leggermente inferiori, hanno alti livelli di affidabilità, flessibilità e voglia di imparare. Le differenze nella prestazione dovute all’età non appaiono neanche in lavori nei quali il limite d’età è stabilito dalla legge (come, per esempio, nell’aviazione). In uno studio che ha preso in considerazione un campione di aziende i cui dipendenti avevano tutti almeno cinquant’anni, si è constatato che tali aziende avevano registrato profitti più alti, e assai meno turnover, assenteismo e inesattezze nell’inventario delle merci rispetto a organizzazioni con dipendenti più giovani (Segrave, cit. in Rupp, Vodanovich e Credé, 2006). Impiegando criteri oggettivi, dunque, l’età anagrafica non sembra produrre effetti di rilievo sulla prestazione individuale. Al contrario, se si considerano i giudizi dei supervisori, la prestazione dei lavoratori più anziani ottiene in genere una valutazione più bassa rispetto a quella dei più giovani. Ma come si manifesta il pregiu­77

dizio nella pratica quotidiana del lavoro? Quali sono le forme di discriminazione a cui i lavoratori più anziani sono soggetti? Un primo indicatore riguarda la valutazione e l’attribuzione degli errori da parte dei superiori. Nei confronti dei più anziani si ha meno pazienza, meno tolleranza. Inoltre, quando un anziano commette un errore, lo si attribuisce a caratteristiche stabili della persona – mancanza di competenza, perdita di memoria – e questo sfocia spesso in raccomandazioni e rimproveri più severi (minaccia di trasferimento, di retrocessione o richiesta di dimissioni). Lo stesso errore, quando a compierlo è un giovane, è attribuito a fattori transitori, come una disattenzione momentanea, o esterni, legati alla specifica situazione, per esempio alla difficoltà del compito. Inoltre, la persona viene redarguita con minore severità e le si consiglia più spesso di farsi aiutare ricorrendo a sostegni e consigli esterni per superare gli ostacoli incontrati nel lavoro (Rupp, Vodanovich e Credé, 2006). Un secondo indicatore di pregiudizio nei confronti dei più anziani è la progressiva riduzione di incarichi e responsabilità. Quando una persona mostra qualche segno di stanchezza, piuttosto che cercare di rimotivarla, magari assegnandole compiti diversi o più interessanti, si procede proprio in senso opposto, disinvestendo su di lei e alleggerendo le sue incombenze. In tal modo è facile che questa si convinca di essere inutile, sorpassata; l’autostima, l’impegno e il coinvolgimento nel lavoro calano sensibilmente e si innesca così una spirale perversa che porta a un calo effettivo della prestazione. Un terzo indicatore di ageism è l’esclusione da percorsi formativi, di aggiornamento professionale (Reio e Sanders-Reio, 1999). Basandosi sul presupposto che per un individuo anziano sia assai difficile ap­ ­78

prendere l’uso di nuove tecnologie o nuovi modi di lavorare, non si ritiene che sia il caso di investire tempo e denaro su persone che ne trarranno un così scarso (e breve) beneficio. In realtà, la maggior parte degli studi confermano che i più anziani, nonostante la loro più bassa scolarizzazione, sono quasi altrettanto capaci di apprendere dei più giovani. Tuttavia permangono ancora notevoli differenze dovute all’età: in Gran Bretagna, per esempio, se nel lavoro il gap tra giovani e anziani tende a diminuire rispetto al passato, si è visto che i lavoratori più anziani sono ancora svantaggiati in termini di formazione e che questa, anche quando viene loro offerta, tende a essere di qualità inferiore rispetto a quella che ricevono i più giovani. Forse per questo motivo i lavoratori più anziani, anche quelli che hanno partecipato a corsi di aggiornamento, non ritengono che la formazione assicuri loro particolari benefici né per migliorare la qualità del lavoro che svolgono né in termini di promozione. Pertanto la loro motivazione ad apprendere appare bassa e la scarsa offerta di formazione è considerata un problema marginale. Riferendoci in particolare all’Italia, le differenze di scolarizzazione tra più e meno giovani all’ingresso nel mondo del lavoro sono maggiori che in altri paesi: ancora nel 2000, i cinquantacinque-sessantaquattrenni avevano in media completato 6,8 anni di scuola, a fronte dei 10,9 anni di scuola dei venticinque-trentaquattrenni (Frigo, Angotti e Bernardini, 2006). Pertanto, la formazione dei lavoratori più anziani, soprattutto con basse qualifiche, dovrebbe essere particolarmente incoraggiata. Al contrario, uno studio condotto dall’Isfol sulla formazione continua dei lavoratori over 45 ha verificato che corsi di aggiornamento specificamente rivolti a questi lavoratori non sono previsti dalla maggioranza delle imprese ­79

e non figurano tra le priorità aziendali – soprattutto nel settore privato – nonostante leggi dello Stato e direttive europee li abbiano esplicitamente sollecitati. Pertanto, alla base delle scarse aspettative dei lavoratori anziani potrebbe esserci il clima culturale determinato da una così bassa propensione delle imprese a investire su di loro. In Gran Bretagna come in Italia, quindi, si viene a creare un circolo vizioso: le scarse aspettative da parte dell’azienda giustificano un basso investimento che, a sua volta, genera demotivazione. Si è visto, invece, che le aziende che hanno introdotto training innovativi rivolti specificamente ai lavoratori più anziani, e ce ne sono – per esempio General Electric, Motorola e 3M –, hanno ottenuto ottimi risultati e grandi soddisfazioni (McCann e Giles, 2002). È proprio la possibilità che gran parte dei cinquan­ tenni siano esclusi definitivamente dal mercato del lavoro, possibilità tutt’altro che remota se non si attivano politiche appropriate a riguardo, che ci fa capire come “troppo giovane” e “troppo vecchio” siano due valutazioni molto elastiche, relativamente indipendenti dall’età anagrafica. 8. Il caso della politica: «ageism» parlamentare e gerontocrazia Alcuni anni fa, il parlamentare europeo svedese Nils Lundgren, che aveva allora sessantotto anni, fu criticato per la sua età da alcuni politici dell’opposizione che gli consigliarono di ritirarsi e di adeguarsi a uno stile di vita più appropriato per i pensionati. Lundgren si difese scrivendo un articolo su un giornale in cui ricordava che alcuni tra i politici che hanno esercitato maggiore influenza nella storia avevano ben più di sessantacinque ­80

anni: Winston Churchill divenne primo ministro per la seconda volta a settantasette anni e si ritirò a ottantuno, Ronald Reagan ne aveva settantaquattro quando fu rieletto presidente degli Stati Uniti. Succede quindi che, in Svezia, avere sessantotto anni sia considerato un motivo sufficiente per ritirarsi dalla politica e che un parlamentare di quell’età si senta in dovere di difendere e giustificare la propria posizione. Un’indagine dell’università di Göteborg, condotta tramite un questionario postale, ha mostrato che questa opinione è molto diffusa in quel paese: nonostante la grande maggioranza dei rispondenti abbia mostrato un atteggiamento favorevole alla partecipazione attiva degli anziani nella società e alla creazione di nuovi spazi dove giovani e anziani si possono incontrare, una parte consistente degli stessi si è detta contraria alla presenza degli over 65 in parlamento (Tornstam, 2006). Questa opinione appare in sintonia con la norma, più o meno esplicitata, che le persone più anziane devono farsi da parte e lasciare spazio ai giovani. In Svezia, poiché si considera logico e normale smettere di lavorare a sessantacinque anni, si ritiene che la stessa regola debba valere anche per i parlamentari7. Tornstam (2006), il ricercatore che ha condotto l’analisi, definisce questo fenomeno come ageism parlamentare e afferma, non 7   Il limite dei sessantacinque anni, che pur prevale oggi nel mercato del lavoro, è contrastato dall’Unione Europea. Le direttive dell’Unione, infatti, considerando il pensionamento obbligatorio a un’età fissa e valida per tutti come una forma di discriminazione, stanno cercando di incoraggiare i paesi membri a rendere l’età pensionabile più flessibile, ossia variabile in ragione dei diversi tipi di lavoro e di prestazioni richieste e della volontà dei lavoratori. In tal modo le persone non vivrebbero più la pensione come una barriera strutturale invalicabile imposta dall’esterno (Abrams, Vauclair e Swift, 2011).

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senza ragione, che se la stessa percentuale di persone avesse sollecitato una norma per la quale nessuna donna può essere membro del parlamento si sarebbe scatenata una rivolta popolare. Un’esclusione sulla base dell’età è invece molto più accettata e considerata normale. Del resto, già da molti anni si è constatato che l’ageism influenza le scelte di voto più del sessismo e del razzismo (Sigelman e Sigelman, 1982). Se nel Nord Europa si favoriscono i giovani, qualche volta a scapito dei più anziani, diametralmente diversa appare l’attuale situazione italiana. Nella XVI Legislatura (dati aggiornati al febbraio 2012), il 27% dei deputati e il 48% dei senatori hanno più di sessant’anni, mentre i ministri del governo Monti, in carica nel momento in cui scrivo, hanno un’età media di sessantaquattro anni. Sulle ragioni di questa situazione ho già abbondantemente detto in precedenza. Va aggiunto, per inciso, che non è sempre stato così, perché in passato si sono avute eccellenti prove contrarie: Giulio Andreotti fu eletto deputato a ventinove anni e divenne ministro degli Interni a trentacinque. Nonostante l’attuale quadro gerontocratico, anche in Italia abbiamo assistito a casi di ageism parlamentare. L’art. 59 della Costituzione prevede come membri del Senato – di diritto e a vita – gli ex presidenti della Repubblica e altre cinque persone che si sono distinte per «altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Si tratta, quasi inevitabilmente, di persone anziane. Queste nomine sono state concepite come un riconoscimento dell’attività svolta, senza dubbio, ma sono state anche pensate con la convinzione che la grande esperienza di queste persone potesse tornare utile alla presa di decisione collettiva. Ebbene, quando il voto dei senatori a vita gioca a favore della ­82

propria parte politica, gli altri senatori non lo mettono minimamente in discussione. Al contrario, quando essi votano diversamente da come si auspica – insomma quando, esprimendo il loro parere, favoriscono la parte avversaria – vengono tacciati di non essere equi e imparziali come dovrebbero. La polemica si trasferisce subito anche sul web dove c’è chi difende “i vecchietti” e chi si scaglia contro “i vecchiacci”. Si solleva allora la questione della legittimità del loro voto, legittimità che insigni giuristi hanno continuamente ribadito. Sottesa alla polemica c’è l’idea, più o meno esplicitata, che l’età li renda poco lucidi e manipolabili con facilità. Esattamente le stesse etichette che vengono destinate ai giovani quando aspirano a salire sugli scranni.

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Età e genere: due pesi e due misure?

Si è sostenuto, soprattutto in ambito clinico, che con l’avanzare degli anni l’importanza attribuita al genere delle persone diminuisce progressivamente perché l’età diviene talmente prioritaria da oscurare femminilità e mascolinità. La tarda età sarebbe quindi caratterizzata da una specie di convergenza androgina in base alla quale gli stereotipi di genere, e il sessismo a essi collegato, cedono il posto agli stereotipi e ai pregiudizi legati all’età che accomunano donne e uomini. Una ricerca sull’immagine della mascolinità dell’uomo anziano ha però smentito la presunta percezione di androginia (Thompson, 2006). Infatti, chiedendo ai (giovani) partecipanti all’indagine di descrivere un uomo anziano, si è constatato che genere ed età erano entrambi basilari nella loro rappresentazione. Le descrizioni, inoltre, hanno penalizzato le donne segnalando la persistenza, anche in tarda età, di un ben documentato stereotipo negativo legato al genere: quando si è chiesto di descrivere “un uomo anziano” confrontandolo con “una donna anziana”, all’uomo è stata attribuita una quantità molto maggiore di caratteristiche positive e assai inferiore di negative. ­84

I risultati della ricerca citata non stupiscono: l’abbondanza dei termini spregiativi utilizzati per descrivere le donne più anziane – strega, befana o, nella migliore delle ipotesi, tardona – e le immagini che questi epiteti evocano non hanno altrettanti corrispondenti maschili. In effetti, mentre in genere uomini e donne giovani o di mezz’età sono considerati ugualmente gradevoli, le donne più anziane sono percepite come meno gradevoli dei loro coetanei (Deutsch, Zalenski e Clark, 1986) e sono considerate anche meno competenti, meno intelligenti, meno equilibrate e meno indipendenti (Canetto, 2001). Alcuni di questi stereotipi possono essere collegati alla diversa longevità delle persone dei due sessi: vivendo più a lungo, le donne sono più soggette a sindromi – quali la malattia di Alzheimer – che comportano dipendenza e declino cognitivo. Inoltre, le loro necessità e la loro debolezza sono maggiormente visibili perché con più probabilità vivono da sole e in situazione di indigenza. La dipendenza e i problemi cognitivi degli uomini sono meno manifesti, perché questi spesso possono contare sull’assistenza di mogli più giovani o possono permettersi aiuti retribuiti. 1. Il doppio standard Se le donne più anziane sono considerate inferiori agli uomini dal punto di vista dell’autonomia e del pensiero, esse sono invece valutate più positivamente per quanto riguarda la capacità di accudimento, il calore e la sensibilità, tutte percezioni coerenti con l’immagine della nonnina amorevole. Tuttavia questo stereotipo apparentemente benevolo può dar luogo, più che all’aumento della gradevolezza che viene attribuita alla persona, all’aspettativa che questa si dedichi con spe­85

ciale abnegazione agli altri e alla disapprovazione delle donne che non si conformano a questo tipo di modello. Gli stereotipi di cui si è detto sono solo un aspetto del cosiddetto doppio standard, espressione usata in riferimento al fatto che le aspettative variano in rapporto alla categoria a cui una persona appartiene e che tali aspettative inducono a privilegiare una categoria a scapito dell’altra. È stata la scrittrice femminista Susan Sontag (1999) ad utilizzare per prima questa definizione riguardo all’età delle donne e degli uomini rilevando che, nel mondo del lavoro, il rapporto tra l’apparire e il successo è valutato diversamente a seconda del genere. Secondo Sontag, il successo degli uomini si misura sulla base di ciò che fanno, mentre quello delle donne soprattutto sulla base di come appaiono. L’essere fisicamente attraenti, quindi, incide sulla vita di una donna molto più che su quella di un uomo. Mentre gli uomini con l’età hanno sempre più probabilità di ottenere grandi soddisfazioni nel lavoro, poiché aumenta la loro competenza e quindi il loro successo, per le donne avviene il contrario. La bellezza femminile, che è identificata con la giovinezza, diminuisce con il passare degli anni e, di conseguenza, le donne perdono parallelamente di considerazione sociale1. Il divario tra donne e uomini si è sicuramente accentuato da quando si è sviluppato il mercato di prodotti cosmetici e di pratiche anti-età (quali centri benessere, interventi di chirurgia plastica, ecc.). Sebbene anche gli uomini stiano oggi diventando un ghiotto target del settore, questo mercato si è rivolto in via prioritaria alle 1  Fanno eccezione, naturalmente, le donne che conquistano posizioni di grande prestigio, perché vincono un premio Nobel (Rita Levi Montalcini) o perché sono capi di governo (Indira Gandhi).

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consumatrici, spingendole a intraprendere sforzi di ogni tipo per combattere i danni del tempo. L’onnipresente pubblicità che enfatizza l’importanza di rimanere e, soprattutto, apparire giovani agisce contro un’immagine positiva dell’età più avanzata e, in particolare, contro l’invecchiamento delle donne. Il doppio standard riguarda anche i limiti tra le categorie di età: una donna entra prima sia nella mezza età sia nella vecchiaia (Seccombe e Ishii-Kuntz, 1991). Quando Hillary Clinton concorse alle primarie del Partito Democratico per la presidenza degli Stati Uniti, la diffusione di una sua fotografia che, priva di ombreggiature e ritocchi, ne sottolineava le rughe e le occhiaie – ossia l’età matura – scatenò da parte degli oltranzisti della parte avversaria una specie di caccia alla strega. Vi sembra il caso, dissero, che il nostro paese abbia un presidente donna e, per di più, vecchia? Come facciamo ad apparire come un paese vincente, se questa è l’immagine di noi che proponiamo al mondo? La stessa ruga che viene letta come segno di carattere e determinazione quando appare sul volto di un uomo è considerata come indice di inesorabile e patetica decadenza quando appare sul viso di una donna. Ecco allora che una donna di sessant’anni – più giovane dell’allora presidente Bush – non doveva far mostra del suo vero viso, se voleva entrare in lizza per la presidenza degli Stati Uniti. In effetti, una ricerca condotta on line da alcuni sociologi dell’università dell’Iowa sembra indicare che, se fosse stata più giovane, Clinton avrebbe avuto maggiori possibilità di battere Obama. Lo studio (Kelley et al., 2011), basato su un campione rappresentativo di tutte le età, ha rilevato che gli americani considerano l’età ottimale per un leader quarantaquattro anni se si tratta di una donna e quarantotto se è un uomo. Il contributo ­87

delle donne al lavoro comincia a diminuire – secondo gli intervistati – a cinquantanove anni, mentre quello degli uomini due anni dopo. Secondo i ricercatori, queste diverse aspettative hanno aiutato Barack Obama e penalizzato Hillary Clinton. Quest’ultima ha giustamente fatto valere, durante la campagna, le sue importanti credenziali e la sua esperienza, e questo l’ha di certo aiutata. Tuttavia, non si è verificato il contrario, ossia che la mancanza di altrettanta esperienza penalizzasse l’avversario. Una donna di limitata esperienza, invece, non sarebbe stata neanche presa in considerazione2. 2. Doppio standard e mondo del lavoro Il fatto che le donne siano considerate anziane prima del tempo e che il picco della loro carriera sia anticipato rispetto a quello degli uomini è stato riscontrato in altre ricerche effettuate in ambito lavorativo (Itzin e Phillipson, 1995). Si è visto che le donne più giovani, se da un lato risultano avvantaggiate rispetto ai coetanei da questa maggiore velocità dell’ascesa, dall’altro lato si sentono maggiormente sotto pressione e presentano alti livelli di stress perché il loro percorso professionale è più ripido e hanno meno tempo per dimostrare e far valere le loro capacità. Questa anticipazione, inoltre, può gravemente penalizzare le donne più anziane che, avendo già superato quella che è considerata l’età ottimale, incontrano grossi ostacoli in termini di progressione di carriera. Anche per questo motivo – ha sostenuto Lovaglia, uno dei ricercatori dell’Iowa – le donne ricorrono 2  http://news-releases.uiowa.edu/2008/july/073008leadershipage.html.

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così frequentemente alla chirurgia plastica: non si tratta solo di vanità, esistono concrete ragioni professionali per volere apparire giovani3. Questa accelerazione del percorso lavorativo, in particolare della fase discendente, non riguarda solo le posizioni apicali. In un’indagine svolta tra gli impiegati di una grossa azienda britannica di servizi finanziari (Duncan e Loretto, 2004), si è visto che la percezione di un declino più precoce delle capacità lavorative delle donne rispetto agli uomini riguarda sia i lavori manuali sia quelli impiegatizi e che questa percezione è condivisa dalle donne stesse. Le impiegate hanno fatto propria, interiorizzandola, questa convinzione e pensano anche loro che, per superare le barriere legate all’età, devono cercare di apparire giovani più a lungo possibile. Dalla ricerca è emerso inoltre che i dipendenti più giovani denunciano trattamenti sfavorevoli che sono differenti a seconda del genere: mentre gli uomini rimarcano soprattutto problemi di tipo economico, lamentandosi di scarse retribuzioni e indennità, le donne riferiscono di trattamenti negativi dovuti all’età e, più in generale, di barriere alla promozione. Non va dimenticato, infatti, che il raggiungimento di posizioni apicali riguarda solo un ristretto numero di donne: le altre rimangono bloccate dal cosiddetto “soffitto di cristallo”, uno sbarramento invisibile che ne frena l’ascesa. 3   L’anticipazione di carriera delle donne dirigenti rilevata nei pae­si anglosassoni, comunque, non sembra rispecchiare la situazione italiana. Una ricerca di Federmanager su uomini e donne in carriera, basata su un campione rappresentativo di dirigenti industriali, ha constatato che da noi lo sviluppo di carriera delle donne è più lento, non più veloce: per diventare dirigenti le donne impiegano più tempo (11-20 anni) rispetto agli uomini (6-10 anni) (http://www.o2-ossigeno.org/o2/?p=25, reperito on line il 3 gennaio 2013).

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Un caso di doppio standard nel lavoro che ci riguarda da vicino – e che per molti anni è stato considerato come un trattamento equo – è il pensionamento anticipato delle donne rispetto agli uomini. Si trattava di un’anomalia italiana che è ora in via di aggiustamento non tanto perché ci si è resi conto che costituiva una forma di discriminazione, quanto per ridurre l’eccessivo peso economico del sistema previdenziale e per far fronte alle pressioni della Corte di Giustizia europea, che nel 2008 ha condannato l’Italia per questo. «Ciò che deve preoccupare – dichiarò all’epoca la senatrice Emma Bonino – non è solo il fatto di essere messi all’indice dall’Europa su di una questione che non dovrebbe neppure essere di attualità in uno Stato moderno, come la disparità di trattamento uomo-donna, ma che in Italia esista una legge che stabilisce che una donna debba avere meno anni di contributi di un uomo, comportando così una discriminazione retributiva a tutti gli effetti»4. La pensione anticipata per le donne è stata sempre giustificata come una forma di tutela e di compensazione a posteriori per la sperequazione dei salari e per il doppio lavoro (fuori e dentro casa) che esse svolgono. In realtà – e nonostante la posizione favorevole assunta in proposito da certe femministe e da alcuni sindacati – questo apparente vantaggio è doppiamente penalizzante. In primo luogo, la donna – che già fa carriera con maggiore difficoltà e riceve mediamente salari inferiori rispetto all’uomo – con percorsi lavorativi più corti finisce per percepire una pensione più bassa dei suoi coetanei. Pertanto, come rilevato anche in un rapporto   «la Repubblica», 13 novembre 2008.

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del Cnel (2010), le donne risultano maggiormente esposte al rischio di povertà anche perché, vivendo in media più a lungo degli uomini, con più probabilità possono trascorrere l’ultima parte della loro vita in condizioni di invalidità. In secondo luogo, questa “compensazione” diventava un alibi utile per riversare totalmente sulle donne pensionate la gestione della casa – spesso non solo della propria ma anche di quelle di genitori e figli – e il lavoro di cura (accudimento dei nipoti quando i loro genitori sono al lavoro, aiuto ai più anziani non autosufficienti, e così via) a cui i servizi sociali non sono in grado di far fronte. Ancora una volta si dava per scontato che le donne invecchiassero prima, che dopo una certa età il loro contributo al mondo produttivo diventasse superfluo e che, pertanto, dovessero rendersi utili aiutando il resto della famiglia. Se è pur vero che ancora oggi il lavoro domestico è svolto soprattutto dalle donne, l’uscita anticipata dal lavoro retribuito perpetuava e consolidava questa disparità, invece di contrastarla. «Riconoscere tempo, denaro e contributi a chi ne ha bisogno perché, donna o uomo, svolge un’attività preziosa – ha scritto la sociologa Chiara Saraceno – sembra più efficiente e più equo che regalare tempo a basso prezzo ex post e in modo generico alle donne in quanto donne. Non si parlerebbe più di “donne” e “uomini”, ma di chi fa anche attività di cura e chi no»5. 3. Doppio standard e comunicazione di massa L’utilizzo del doppio standard in relazione all’età è particolarmente evidente nei mass media. I giornalisti tele-

  «La Stampa», 22 novembre 2008.

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visivi, per esempio, possono differenziarsi in larga misura per il loro aspetto esteriore e i loro eventuali segni di maturità – quali rughe o capelli grigi – contribuiscono ad aumentarne l’autorevolezza. Al contrario, alle giornaliste è richiesto di apparire adeguandosi a un canone assai più ristretto, enfatizzando la propria giovinezza. Se un unico standard fosse applicato a uomini e donne nel giornalismo televisivo – è stato osservato (Wolf, 1991) – la maggior parte degli uomini perderebbero il lavoro. In genere, i personaggi femminili che appaiono nelle fiction televisive sono più giovani di circa una decina di anni rispetto ai personaggi maschili. Uno studio che ha analizzato il contenuto dei serial apparsi in prima serata sulle quattro principali reti americane nel corso di una stagione, ha riscontrato che la maggior parte dei personaggi femminili aveva un’età inferiore ai trentacinque anni, mentre gli uomini appartenevano a due gruppi d’età principali: 18-34 anni e 35-54 (Glascock, 2001). Le donne, insomma, rimangono congelate nei loro venti o trent’anni e, nei rari casi in cui superano i quaranta, appaiono portatrici di problemi assai più gravi dei loro corrispondenti maschili, compreso un calo delle capacità mentali o fisiche (Lauzen e Dozier, 2005). Il doppio standard è presente anche nel cinema. In uno studio condotto negli anni Novanta sui film di maggior successo (Bazzini et al., 1997), si è visto che le donne più vecchie erano presentate sotto una luce particolarmente negativa: in confronto agli uomini erano percepite meno amichevoli, meno intelligenti, meno buone, meno sane e meno attraenti. Un’analisi condotta più di recente sul contenuto di 100 film commerciali negli Stati Uniti ha verificato la persistenza del doppio standard rispetto all’età (Lauzen e Dozier, 2005). Complessivamente, i personaggi maschili sono risultati di gran ­92

lunga superiori come numero rispetto a quelli femminili (73% contro 27%) e nella maggioranza tra i trenta e i quarant’anni, mentre quelli femminili – ancora una volta – hanno dieci anni in meno. Le persone con più di sessant’anni sono molto sottorappresentate, indipendentemente dal genere; tuttavia, agli uomini di quaranta, cinquanta e sessant’anni sono attribuiti ruoli di autorità e potere in misura assai maggiore che alle donne loro coetanee. La ricerca ha anche verificato che gli uomini di tutte le età sono descritti come persone che si pongono precisi obiettivi e si impegnano per raggiungerli, mentre gli obiettivi delle donne sono poco rappresentati e, comunque, compaiono progressivamente sempre meno quanto più l’età del personaggio aumenta. Un’evidente differenza di genere riguarda anche il modo in cui è descritta dal cinema la sessualità degli anziani, le rare volte in cui questa appare. In un’indagine condotta in Svezia (Bildtgard, 2000), si è constatato che gli uomini, anche quando soffrono delle peggiori invalidità (instabilità fisica, incontinenza) vengono considerati ancora come possibili partner sessuali. Niente di simile per le donne: molto di rado sono ritratte come sessualmente attive e comunque, in questi rari casi, rispecchiano l’immagine stereotipata di donna piacente, in salute e molto ben conservata. In linea con gli stereotipi più tradizionali, sono soprattutto gli uomini a mostrare intraprendenza, mentre le donne vengono descritte in modo più passivo. Per le donne anziane appare più importante apparire giovani che agire da giovani, mentre per gli uomini anziani vale la regola opposta. Inoltre, mentre in termini di incontri sessuali è frequente la combinazione uomo anziano-donna giovane, non ci sono esempi della situazione contraria. Gli uomini sembrano avere diritto alla sessualità più a lungo delle donne: la ­93

donna anziana, in questi film, è descritta soprattutto come casalinga che si occupa dei nipoti, mai come oggetto di desiderio sessuale: «qui – suggerisce il ricercatore – è all’opera un pregiudizio su quando le donne smettono di essere interessate al sesso o, almeno, su quando devono perdere questo interesse» (Bildtgard, 2000, p. 176). È in atto, in questo caso, uno stereotipo prescrittivo d’identità (North e Fiske, 2010), legato sia all’età sia al genere: dopo una certa età le donne devono rinunciare al sesso. Marcate differenze di genere sono state riscontrate dalle ricerche che hanno analizzato il contenuto delle pubblicità televisive in diversi paesi del mondo. Per esempio, risultati molto simili sono stati ottenuti in Giappone (Prieler et al., 2011) e in Italia (Leone et al., 2009). In entrambi i casi si è rilevata la scarsa visibilità delle persone più anziane in generale e delle donne in particolare. Il doppio standard si manifesta in vari modi: innanzitutto compare dai contesti in cui la persona è collocata – la donna all’interno dell’ambiente familiare, l’uomo in luoghi di lavoro o, comunque, diversi dalla casa. In Giappone, le donne sono associate prevalentemente a prodotti di tipo cosmetico, mentre gli uomini a cibi e bevande. In Italia, alla donna, se appare da sola, si affida soprattutto la rappresentazione della malattia, dell’indebolimento fisico, mentre l’uomo è spesso una persona elegante, di prestigio o impegnata attivamente nel sociale. Questi risultati confermano ancora una volta che l’incrocio di età e genere fa leva, nei media, su stereotipi e pregiudizi largamente condivisi. 4. L’immagine della donna anziana Mostrare il corpo di una donna matura sembra essere un vero tabù, trattandosi di un’immagine che appare ­94

molto raramente. Storicamente, la rappresentazione delle donne più anziane nel mondo occidentale è stata duplice: sono state descritte come persone protettive e amorose o come deboli e indifese, come orribili megere o come adorabili nonnine. L’immagine visiva si differenzia a seconda dei periodi: per esempio, nelle raffigurazioni dell’antica Grecia, una società ossessionata dalla giovinezza e dalla bellezza quasi quanto la nostra, le donne più anziane appaiono ridicolizzate o patetiche; al contrario, i busti dell’età romana mostrano rispetto per l’immagine delle donne più anziane – probabilmente perché in quella società molte di loro erano potenti – ma senza bisogno di idealizzarle, non nascondendo rughe e grinze. Due famosi ritratti del primo Cinquecento ci propongono rappresentazioni della donna anziana. Il primo, di Albrecht Dürer, è noto come Avarizia, e mostra una vecchia donna grottesca e rugosa – con i capelli lunghi e scomposti sulle spalle, un sorriso sdentato e un seno cadente che fuoriesce dal vestito – che tiene in mano un sacco pieno di monete d’oro. L’immagine suscita un particolare turbamento in quanto evoca, nel vestiario e nella posa, il tipico ritratto di una fanciulla sorridente con in braccio un fascio di fiori. Ma che differenza! Il pittore ha rappresentato la donna con sguardo spietato e chi la osserva pensa di trovarsi di fronte a una persona cupida e maligna. Il secondo quadro, La vecchia di Giorgione, rappresenta invece una donna – forse la madre del pittore – con un aspetto dimesso e uno sguardo pieno di profonda tristezza. La donna tiene in mano un foglio con la scritta “Col tempo” e il quadro appare così simboleggiare il dolore e la decadenza fisica che si accompagnano alla vecchiaia. In entrambi i casi, quindi, i ­95

pittori hanno rappresentato la tarda età con l’immagine di una donna e l’hanno descritta in modo impietoso. Nei secoli più vicini a noi e fino agli anni Settanta del secolo scorso, le donne più anziane sono rappresentate nell’arte soprattutto come custodi dei valori tradizionali, simbolizzando la stabilità e fedeltà ai doveri familiari. L’immagine si fa quindi più benevola, ma pur sempre estremamente stereotipata. Solo negli ultimi decenni, varie fotografe e pittrici hanno cercato di superare le figure convenzionali, di rappresentare in molteplici modi il corpo femminile e di esplorare la grande varietà di emozioni che le donne più anziane possono provare, comprese quelle legate alla sessualità. Per esempio, la fotografa Melanie Manchot – sfidando i canoni tradizionali di bellezza che hanno sempre teso a occultare la nudità delle donne più anziane – ha esposto in una mostra a Londra una serie di grandi ritratti di sua madre, mostrandone il corpo senza veli e senza nascondere gli evidenti segni dell’età. Queste rappresentazioni delle donne sfidano senza dubbio le immagini più ricorrenti, ma il loro impatto sugli stereotipi più diffusi è praticamente nullo. Ben diversa è l’influenza esercitata dalle immagini proposte dalla pubblicità. Da quando ci si è resi conto che il pubblico più anziano può rappresentare un appetibile nuovo mercato, il repertorio di immagini usate per vendere beni e servizi – come prodotti di bellezza, vacanze e centri benessere – si è ampliato in modo da attirare questa fascia d’età. Se, fino al secolo scorso, nella rappresentazione visiva delle donne anziane si alternava l’immagine di persone sciatte e sconsolate a quella di bonarie nonnine, nel nostro secolo predominano le immagini che propongono uno stile di vita affascinante e senza età. Si ricorre a piccoli trucchi per far diventare mag­96

giormente appetibile l’articolo: sulle riviste femminili la pubblicità mostra spesso modelle che sono più giovani delle donne a cui si rivolgono. Quando poi appaiono modelle più anziane, queste sono state ringiovanite con ritocchi chirurgici o digitali al fine di rendere credibili i benefici anti-età del prodotto pubblicizzato. Queste immagini “positive” rappresentano un modo di vivere che è raggiungibile solo da chi è in possesso di sufficienti risorse economiche e culturali. Pertanto, si rivolgono solo alle donne appartenenti alla fascia medio-alta della popolazione. 5. Invecchiare naturalmente? Si è visto che apparire giovani non è per le donne un optional: invecchiare e non avere più un aspetto giovanile le penalizza, più ancora che nella vita privata, nel lavoro, nella politica, nei mass media. Non c’è quindi da stupirsi che utilizzino in grande quantità cosmetici anti-rughe, tinture per capelli e che ricorrano sempre più spesso a interventi di chirurgia plastica. Una ricerca condotta negli Stati Uniti (Clarke e Griffin, 2007) ha verificato un’ulteriore complicazione di questo sforzo di mantenimento definito blandamente come beauty work: il risultato deve apparire naturale, ossia tale che sia difficile o impossibile cogliere il tempo, la fatica e il denaro che ha comportato. In quest’indagine, basata su una serie di interviste in profondità con donne tra i cinquanta e i settant’anni, si è però constatata una differenza tra le intervistate più giovani e quelle più anziane. Secondo queste ultime, l’invecchiamento comporta prevalentemente l’accettazione armoniosa e senza trucchi di un fatto naturale e dei cambiamenti fisici collegati. La maggior parte di loro considera importante ­97

un approccio positivo all’età più avanzata, cercando di rifiutare le norme di bellezza imposte dall’ageism, che enfatizzano l’apparenza come valore e che svalutano il loro status sociale. Non tutte, tuttavia, si sono dette capaci di adeguarsi a questo ideale percepito. Al contrario, la maggior parte delle cinquantenni considera l’invecchiamento come un fatto spiacevole, o addirittura inaccettabile, a cui bisogna resistere. Queste donne aderiscono in pieno all’ideale di bellezza proposto dall’ageism, affermano di voler gestire il processo di invecchiamento e considerano che non intervenire sul proprio corpo costituisca una capitolazione morale e fisica alla devastazione del tempo. Alcune hanno anche affermato che, senza interventi estetici, il loro aspetto sarebbe stato incongruente con l’identità e l’età che sentono di avere. Questa differenza tra le età non può essere attribuita solo al fatto che le più giovani sono baby-boomers – e quindi appartengono a una generazione particolarmente vitale e ambiziosa, che si considera intramontabile: queste donne sono in gran parte ancora attive nel lavoro e quindi si adeguano alle prescrizioni sociali dell’apparire perché percepiscono maggiormente i rischi della discriminazione. In questo modo, tuttavia, fanno propri e contribuiscono a tenere in vita il doppio standard dell’età e i dettami dell’ageism.

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L’età nei mass media

Sebbene sia ancora aperto il dibattito sugli effetti della comunicazione di massa nella trasmissione di stereotipi e pregiudizi, il valore relativo attribuito alle diverse categorie sociali è simbolicamente espresso dalla loro assenza – o più o meno forte presenza – sui giornali e sugli schermi televisivi o cinematografici, oltre che dalla qualità dei caratteri che vengono descritti. Questo è vero, naturalmente, anche per le categorie d’età. Alcune ricerche che hanno analizzato i programmi di prima serata negli Stati Uniti hanno rilevato che la distribuzione per genere ed età dei personaggi non corrisponde affatto alla loro distribuzione nella popolazione americana. La maggior parte dei ruoli rappresentati ha un’età compresa tra i venticinque e i quarantacinque anni, mentre sono molto meno presenti persone che hanno meno o più di quell’età (Lauzen e Dozier, 2005). 1. La rappresentazione dei più giovani nei media Per quello che riguarda i bambini, le ricerche si sono soprattutto occupate dell’influenza esercitata sulla loro ­99

visione del mondo dai media e dagli stereotipi transitati attraverso i programmi a cui sono esposti – cartoni animati, film e pubblicità. Poche ricerche, invece, hanno approfondito quale immagine dei bambini e degli adolescenti venga veicolata dai media e queste poche concordano nel sottolineare la scarsa visibilità dei più giovani al di fuori dei programmi a loro espressamente dedicati. Un’indagine condotta da ricercatori dell’università di California per conto di Children Now, un’organizzazione che opera per sensibilizzare l’opinione pubblica ai problemi dell’infanzia, ha preso in esame l’immagine degli under 18 nei servizi giornalistici di sei televisioni locali negli Stati Uniti (Children Now, 2001). Complessivamente si è rilevata la scarsa presenza dell’infanzia nelle notizie: solo il 10% si riferisce a questa fascia d’età. Circa la metà di queste notizie, inoltre, è focalizzata su eventi criminosi di cui i giovanissimi sono stati vittime, mentre assai più rare sono informazioni che attengono ad altri aspetti della loro vita quali la salute, lo stile di vita, l’educazione o le politiche sociali ed economiche per l’infanzia. A conclusioni simili si è giunti anche in Italia in una ricerca commissionata dalla Regione Emilia-Romagna – dal titolo, davvero illuminante, Il bambino che non c’è – che è stata condotta monitorando in due periodi, a distanza di qualche mese, i telegiornali di sei emittenti locali (Corecom-Emilia Romagna, 2011). Anche in questo caso si è constatato che l’immagine dei bambini e degli adolescenti veicolata dai media è soprattutto associata a eventi drammatici come episodi di cronaca nera a forte impatto emotivo. I telegiornali dedicano uno spazio molto ridotto ai bambini, al loro mondo e alla loro vita quotidiana e ancor meno è lo spazio in cui ai bambini è data la parola, chieden­100

do loro commenti o racconti su fatti che li riguardano direttamente. Nonostante la loro scarsa visibilità nell’informazione, i bambini compaiono sovente nei programmi d’intrattenimento soprattutto con lo scopo di accattivare i grandi. L’utilizzo dei bambini a fini di audience è stato più volte denunciato come una forma di utilizzazione impropria. Nel 2010, la contemporanea presenza sugli schermi televisivi italiani di ben tre programmi in cui i bambini erano protagonisti cantando e imitando la gestualità degli adulti ha suscitato l’indignazione delle associazioni dei genitori e dell’Osservatorio sui diritti dei minori. Quest’ultimo ha chiesto la sospensione immediata di queste trasmissioni facendo riferimento al Codice di autoregolamentazione Tv e minori, in cui si prevede di «non utilizzare i minori in grottesche imitazioni degli adulti». Dal nostro punto di vista, questo tipo di programmi costituisce una forma di ageism istituzionale: si consente che i media sfruttino e manipolino i bambini creando in loro quello stesso bisogno di apparire e di notorietà che il sistema mediatico ha indotto in molti adulti. In tal modo si trascurano completamente i loro “compiti di sviluppo”, ossia lo svolgimento di quei compiti che sono specifici di quella fase della vita e che consentono al bambino una crescita equilibrata. Per quello che riguarda gli adolescenti, invece, nei media ricorre con frequenza lo stereotipo legato alla loro inquietudine e turbolenza. Il periodo dell’adolescenza, in questa veste “tempestosa”, è stato oggetto di film, serie televisive e romanzi che descrivono lo smarrimento e la sofferenza di adolescenti conflittuali e problematici. Nella realtà questi casi, lo si è già detto, costituiscono una minoranza – sembra che solo il 20% degli adolescenti passi attraverso una fase di grande tumulto – e ­101

sono limitati alle culture occidentali o occidentalizzate (Lilienfeld et al., 2010). Va detto, comunque, che anche l’immagine dell’adolescente difficile può essere presentata in modo più o meno stereotipato, può sollecitare una riflessione sulla difficoltà di questa fase della vita o, al contrario, riproporre sterili luoghi comuni e interpretazioni estremamente semplificate. Un esempio di come i media possano trasmettere rappresentazioni diverse dell’adolescenza problematica ci viene da uno studio in cui sono stati presi in esame tre prodotti mediatici: un film, Juno, una serie televisiva, La vita segreta di una teen­ager americana, e una sorta di fiction-documentario, 16 and pregnant (Gasparini, 2009). Raccontano tutti la storia di una sedicenne che deve far fronte a una gravidanza precoce, un fenomeno che, soprattutto nei paesi anglosassoni, è oggi diffuso in modo preoccupante. Il film Juno mantiene i toni della commedia, alternando drammaticità e ironia, utilizzando il linguaggio e lo slang tipici del mondo giovanile e rendendo così il racconto estremamente verosimile. È evidente che la protagonista opera la sua inconsueta scelta finale – quella di affidare il proprio bambino a un’altra donna rimasta sola – con molta sofferenza e che questa esperienza ha segnato in modo profondo la sua vita. Nella sua apparente leggerezza, il film stimola la riflessione degli spettatori mettendo in luce la complessità del problema e della decisione che la ragazza si trova ad affrontare. Diversamente, la serie televisiva La vita segreta di una teenager americana utilizza un registro altamente drammatico, ma tutta la vicenda viene rappresentata in modo molto stereotipato e poco verosimile, semplificando estremamente il problema: la ragazza è circondata da persone che la aiutano e le vogliono bene, ogni difficoltà viene risolta con facilità e tutto finisce per il ­102

meglio. Il messaggio forte che si vuole trasmettere è che, rientrando nelle regole, attenendosi al sistema di valori dominante tutto può essere risolto e perdonato. Infine, nel terzo prodotto, che si propone come un’inchiesta di attualità sul problema delle gravidanze precoci, è privilegiata la forma – simile al videoclip – rispetto al contenuto. Utilizzando lo stile del racconto “confessione”, ci si avvale di forme narrative diverse (riprese dal vero, piccole sceneggiature, disegni animati) e si finisce per fare della gravidanza precoce un tema mediale nello stile dei reality-show. In questo caso è la struttura stessa del prodotto a nascondere gli aspetti più drammatici, poiché sembra rispondere più alle logiche dei prodotti seriali di tipo intimista e confidenziale che non all’intento di sensibilizzare gli spettatori – presumibilmente coetanei delle protagoniste – riguardo alla complessità e gravità del tema affrontato. In conclusione, è proprio il prodotto apparentemente più leggero, il film Juno, a stimolare maggiormente la riflessione su un tema così complesso e sulle possibili inquietudini dell’età adolescenziale, affrontando la spinosa questione in maniera meno stereotipata, più obiettiva e spregiudicata. Se agli adolescenti sono riservati un’attenzione e un interesse limitati, ai giovani che hanno superato quella fase è invece dedicato dai media un largo spazio. Numerose sono le trasmissioni che si avvalgono di un contorno di donne giovani, bellissime, ipersessualizzate, quasi sempre silenti, che mostrano ammiccanti il loro corpo perfetto. Quella immagine di donna-oggetto che in tempi non lontani era stata denunciata dai movimenti delle donne come umiliante e degradante diviene oggi un esempio per molte ragazze che, indotte a confrontarsi con questo modello quasi sempre irraggiungibile ma molto ambito, provano un profondo senso di malessere ­103

e di inadeguatezza (su questo tema, cfr. Volpato, 2011). Ma numerosi sono anche i talk-show di tipo ludico, soprattutto nella televisione commerciale, in cui sono presenti i giovani – in questo caso di entrambi i sessi – o sono trattati temi che li riguardano. Un’analisi sociologica compiuta in Italia alcuni anni or sono ha messo in luce che in questi programmi la realtà giovanile è presentata sulla base di cliché stereotipati (“la naturalezza”, “la spontaneità”) e che ai giovani vengono genericamente attribuite caratteristiche quali l’incertezza decisionale, la non responsabilità, il desiderio d’indipendenza, di trasgressione e, soprattutto, di far mostra di se stessi (Lalli, 2002). 2. Gli anziani nella pubblicità Una rassegna delle ricerche condotte in vari paesi, ma soprattutto negli Stati Uniti, sull’immagine degli anziani nella pubblicità ha verificato innanzitutto che, anche in questo ambito, le persone più anziane – soprattutto se donne o appartenenti a gruppi minoritari – sono sottorappresentate rispetto alla loro reale presenza nella popolazione (Zhang et al., 2006). Quando appaiono, sono presentate in posizioni secondarie o periferiche e solamente in relazione alla promozione di servizi (legali, finanziari, assicurativi, sanitari), medicine, cibi/ bevande, salute/bellezza e prodotti per la casa, mentre sono completamente assenti nelle pubblicità di prodotti di prestigio, quali automobili e dispositivi informatici. Dall’analisi emerge comunque che negli ultimi decenni gli anziani sono generalmente rappresentati in modo positivo, probabilmente per non alienarsi il mercato di quella fascia d’età o per non evocare sentimenti negativi nei consumatori. Tuttavia, mentre la pubblicità com­104

merciale riferita ad altre classi d’età si basa sul richiamo a una nutrita serie di valori – tra cui la modernità, il successo, l’indipendenza, il piacere, la tecnologia –, i valori proposti quando compaiono gli anziani sono molto limitati (salute, utilità ed economia). Secondo gli autori della rassegna, questa concentrazione su pochi valori può rinforzare la percezione negativa dell’invecchiamento – enfatizzando, per esempio, il rapporto tra invecchiamento e malattia – anche quando gli anziani sono rappresentati in una luce positiva. Inoltre, il contrasto tra immagini positive (anziani sorridenti) e stereo­tipi negativi (promozione prevalentemente di prodotti legati alla salute) fornisce un messaggio ambivalente che si presta a essere decodificato nei modi più svariati. Pertanto è meglio non avere una visione troppo ottimistica rispetto a come l’invecchiamento è presentato nella pubblicità: la scarsa presenza, i valori e le categorie di prodotti a cui sono associati gli anziani comunicano l’idea che sono poco importanti e che il loro contributo alla società è trascurabile. Una ricerca condotta in Germania ha analizzato come viene presentata la partecipazione sociale degli anziani nelle pubblicità di prima serata. Si è confermata anche in questo caso la sottorappresentazione degli anziani, nonostante l’invecchiamento crescente della popolazione e il grande dibattere sul crescente potere del cosiddetto “mercato grigio” (Kessler, Schwender e Bowen, 2009). Si è rilevato tuttavia che, quando sono presenti, gli anziani occupano più spesso dei giovani ruoli di primo piano, anche se sono ripresi da una maggiore distanza, probabilmente per evitare che vengano resi troppo visibili i segni dell’età. L’immagine degli anziani è comunque positiva: sono tratteggiati come aperti alle esperienze, vitali, impegnati e integrati in reti sociali ­105

non solo – e non prevalentemente – familiari. Ritraendoli in modo così fortemente positivo si cerca di catturare l’attenzione, ma anche di convincere gli spettatori più anziani che acquistando un determinato prodotto possono allontanarsi dallo stereotipo negativo. Questo stile di vita felice e spensierato è riservato a chi gode di buona salute fisica e mentale: non compare mai la grande vecchiaia, un periodo spesso caratterizzato dall’inizio di gravi infermità. L’età molto anziana è mostrata raramente nei media e, quando appare, è per promuovere la fornitura di cure piuttosto che per vendere prodotti. Particolarmente interessante per il nostro tema appare una ricerca condotta in Gran Bretagna, nella quale si è potuto rilevare l’evoluzione temporale dell’immagine degli anziani e degli stereotipi a loro collegati e si è analizzato uno dei pochi casi in cui gli anziani sono stati i protagonisti, i personaggi centrali di una pubblicità rivolta a persone di tutte le età (Williams, Ylänne e Wadleigh, 2007). L’indagine ha preso in considerazione la campagna riguardante un solo prodotto – la margarina Olivio – che è stata condotta a mezzo stampa dal 1996 al 2003 da un’azienda alimentare multinazionale, la Unilever. Questa campagna ha ottenuto un grande successo in tutto il Nord Europa, facendo registrare un forte aumento delle vendite della margarina soprattutto tra i consumatori più giovani. La comunicazione che si voleva far passare collegava Olivio allo stile di vita mediterraneo, particolarmente caro alla popolazione anglosassone perché associato a vacanze, sole, riposo, dieta ricca di pesce e verdure accompagnata da un buon bicchiere di vino. Mediterranei erano quindi – soprattutto italiani – anche gli anziani rappresentati. I ricercatori hanno individuato quattro diverse fasi della campagna e mostrato come, nel corso del tempo, gli anziani ­106

appaiano sempre meno in ruoli tradizionali e sempre più come persone speciali. Nella prima fase, la pubblicità si concentra su longevità e salute: viene mostrata, per esempio, l’immagine di una robusta signora sorridente che, tenendo tra le braccia un cesto di frutta e ortaggi, appare accingersi a preparare un pranzo speciale per i suoi familiari: la classica nonna affettuosa. Nelle fasi successive, i singoli anziani rappresentati sono chiamati per nome (Maria, Rosanna, Roberto) – un modo per renderli particolari e allontanarli dagli stereotipi della categoria – e appaiono impegnati in attività inconsuete e anticonvenzionali: Maria esegue esercizi ginnici zen che la rendono più simile a una hippie new age che a una nonna italiana, Rosanna guida a tutta velocità una macchina sportiva, e così via. Nell’ultima fase, infine, gli anziani sono presentati in pose romantiche, mentre si allude sottilmente a una sessualità presentata in forma dolce e gentile. Il testo utilizza un gergo molto moderno, usato generalmente dai giovani, per suggerire un’associazione fra questo nuovo vocabolario e le persone anziane. In conclusione, i tradizionali ruoli centrati sulla famiglia che hanno caratterizzato la prima fase della campagna sono stati sostituiti nel corso del tempo da immagini più audaci che configurano le persone più anziane come sane, dinamiche, moderne e anche sessualmente attive. I pubblicitari, quindi, sono diventati più sensibili al problema dell’ageism, facendo attenzione a proporre immagini non solo positive, ma anche meno stereotipate. E in Italia? Una ricerca che ha passato al vaglio la pubblicità commerciale alla televisione e nella stampa (Leone et al., 2009) ha evidenziato anche da noi, come altrove, che le persone anziane sono scarsamente presenti nelle immagini pubblicitarie: queste appaiono ­107

molto di rado nella comunicazione cartacea e in misura di poco superiore in quella televisiva. Questa limitata presenza è sorprendente se si tiene conto dell’invecchiamento crescente della popolazione italiana e del contributo economico che nel nostro paese le persone più anziane danno al reddito in molte famiglie. Gli individui appartenenti a questa fascia d’età sono oggi forti consumatori e i pubblicitari ne sono ben consapevoli. Tuttavia, molti prodotti destinati a questo target, per esempio i cosmetici anti-invecchiamento, evitano di mostrare persone d’età avanzata perché potrebbero suscitare tristezza e, di conseguenza, risultare controproducenti. Si preferisce quindi, anche per prodotti destinati alle persone anziane, ricorrere a immagini di persone più giovani, dalle pelli levigate. Nel teatro della pubblicità, hanno concluso le ricercatrici, le persone anziane possono entrare dall’ingresso del pubblico pagante, non certo dalla porta degli artisti. 3. Come l’immagine degli anziani proposta dai media può influenzare il pubblico L’immagine positiva dell’invecchiamento che in tempi recenti prevale nella pubblicità può costituire un modello per le persone anziane che guardano la televisione, rendendole più consapevoli delle opportunità che hanno e sollecitandole a sfruttare a pieno le loro capacità. Lo spettatore, però, può prendere seriamente in considerazione il modello proposto solo se si considera in qualche modo affine alla persona rappresentata e se pensa che la situazione che viene descritta sia simile alla sua. Se invece avverte reali limitazioni, o pensa di appartenere a un’altra categoria di anziani, quella descritta dagli stereotipi negativi – ossia di essere un individuo ­108

solo, improduttivo, rigido –, quell’immagine spumeggiante può risultare irrealistica e controproducente, provocare un effetto opposto e venire rifiutata. La stessa duplicità è ipotizzabile riguardo agli effetti sulle persone più giovani di questa immagine che rappresenta gli anziani come dinamici, senza problemi e immersi in una fitta rete di relazioni sociali. Da una parte, questa rappresentazione può creare aspettative positive, e produrre analoghe conseguenze, circa il loro futuro: si è visto, per esempio, che le persone con una percezione più positiva del proprio invecchiamento vivono circa sette anni in più di quelle che ne hanno una percezione meno positiva (Levy et al., 2002). Dall’altra parte, un ritratto positivo dei più anziani connesso con il lancio dei cosiddetti prodotti anti-età può convincere i più giovani che comprando un determinato prodotto potrebbero ritardare – o addirittura interrompere – il processo d’invecchiamento. Inoltre, anche se le persone più anziane non sono necessariamente più sole delle altre, un ritratto troppo positivo della loro futura vita sociale può alla fine coglierli impreparati, sia dal punto vista psicologico sia da quello finanziario, quando dovranno affrontare personalmente le inevitabili perdite di persone care, di amici – e spesso anche di reddito – che l’invecchiamento comporta. Infine, una visione troppo rosea della vecchiaia può indurre le persone più giovani a reagire negativamente di fronte a persone anziane che nella vita reale non hanno quella soddisfacente rete di relazioni sociali che è descritta dai media. In particolare, i giovani spettatori possono attribuire la discordanza tra l’anziano ideale proposto dai media e le persone anziane che li circondano all’inadeguatezza di queste ultime, piuttosto che riflettere criticamente su come l’invecchiamento nella vita reale differisca dal ­109

mondo idealizzato della pubblicità televisiva (Kessler, Schwender e Bowen, 2009). A parte la pubblicità, comunque, la televisione costituisce tuttora una fonte influente di stereotipi negativi riguardo all’età avanzata. Per esempio, i personaggi più anziani sono spesso rappresentati nei programmi televisivi in ruoli comici che sottolineano la loro incompetenza fisica o mentale. In Italia, un programma che ha avuto un certo successo proponeva come protagoniste una serie di donne anziane – dette “velone” – che si esibivano in mosse e balletti tipici delle giovani “veline” diventando oggetto delle risate generali, e di un ageism benevolente (nella migliore delle ipotesi) da parte del presentatore. Il problema è rilevante: come si è già visto, gli stereotipi negativi sono in grado di condizionare sfavorevolmente un’ampia gamma di prestazioni cognitive e fisiche delle persone più anziane e sono proprio queste persone a essere particolarmente esposte all’influenza della televisione perché vi passano davanti molte ore della giornata. Nel nostro paese, per esempio, il tempo di consumo della televisione per la popolazione anziana è quasi il doppio della media nazionale, con sei ore e venti minuti, secondo fonte Auditel (Vidali, 2003). Per molti, soprattutto per i più anziani tra gli anziani che hanno ridotto il numero di contatti sociali e di amicizie, la televisione diventa uno strumento a cui affidarsi per immaginare e interpretare la realtà sociale. Esiste dunque il rischio che assorbano quello che vedono con poca resistenza e poco senso critico e quindi facciano propri anche gli stereotipi e i pregiudizi più o meno espliciti che li riguardano. In una ricerca-azione su questo tema (Donlon, Ashman e Levy, 2005), si è partiti dall’idea che solo una visione consapevole possa prevenire quel legame potente che esiste tra ciò che le ­110

persone vedono in Tv e ciò che credono o fanno, e che una maggiore consapevolezza aiuti a difendersi da pregiudizi e stereotipi negativi che si attivano in modo più o meno automatico. Si è innanzitutto ipotizzato che una maggiore esposizione alla televisione produca nei più anziani un’immagine più negativa dell’invecchiamento. È stato poi effettuato un intervento con un gruppo di persone anziane teso a sensibilizzarle riguardo alla scarsa presenza sullo schermo della loro fascia d’età e alla modalità stereotipata con cui questa viene abitualmente presentata. Ai partecipanti è stato chiesto di registrare su un apposito diario i programmi televisivi seguiti durante una settimana e il tempo di esposizione. Mentre per metà di questi – il gruppo di controllo – il compito terminava qui, all’altra metà – il gruppo a cui veniva rivolto l’intervento – è stato chiesto anche di valutare come i personaggi più anziani erano presentati rispondendo a domande tipo: «Qual è il personaggio anziano che l’ha colpita di più?», «In che programma è apparso?», «Secondo lei, quanti anni aveva?», «Era in buona salute fisica?», «Era in buona salute mentale?», «Aveva un ruolo marginale o centrale?». Queste domande erano tese a sensibilizzare i membri del gruppo-intervento e a sollecitare il loro senso critico. Alla fine della settimana, tutti i partecipanti hanno risposto a un questionario riguardante la loro percezione sulla frequenza con cui i personaggi più anziani comparivano in televisione, il modo in cui venivano descritti alla televisione e la loro visione dell’invecchiamento. Si chiedeva inoltre se avessero intenzione di vedere in futuro la televisione in misura uguale, maggiore o minore rispetto a quanto la vedevano prima di completare il diario. I ricercatori hanno innanzitutto constatato l’esistenza di un rapporto diretto tra il tempo di consumo tele­111

visivo delle persone anziane e i loro stereotipi negativi dell’invecchiamento: il tempo passato davanti alla televisione aveva influenzato l’immagine che essi hanno dell’età anziana più di altri fattori quali la loro stessa età, il livello di istruzione, l’autovalutazione del proprio umore (in termini di depressione) e del proprio stato di salute. L’intervento, comunque, ha prodotto un notevole effetto poiché i partecipanti al gruppo in cui è stato effettuato hanno mostrato maggior senso critico, riguardo alla televisione e alla sua fruizione, rispetto a quelli del gruppo di controllo. Infatti, non solo hanno espresso maggiormente l’intenzione di vedere meno televisione in futuro, ma sono anche apparsi più consapevoli della scarsità del tempo dedicato a personaggi anziani e del fatto che quando apparivano venivano descritti, soprattutto nelle commedie leggere, in termini negativi. La consapevolezza generata dall’intervento ha riguardato una molteplicità di aspetti. Per esempio, un uomo di settantuno anni ha rilevato che nei telegiornali «quando le persone sono intervistate su temi diversi, i più anziani sono esclusi», mentre un altro, di ottantuno, ha sostenuto che gli anziani nei programmi televisivi «non dovrebbero essere così spesso oggetto di scherzi». Anche la scarsa presenza è stata prontamente rilevata: una donna di sessantotto anni che ha guardato la Tv per più di quarantacinque ore ha affermato: «Ho la sensazione che siamo stati ignorati. Ho la sensazione che non esistiamo». Mentre questi risultati hanno messo in luce che l’intervento ha notevolmente ridotto il consumo acritico di televisione, non sono stati rilevati cambiamenti positivi riguardo all’immagine dell’invecchiamento, che è risultata simile nei due gruppi. Questo risultato non stupisce se si tiene conto del fatto che gli stereotipi negativi sull’età sono introiettati fin dall’in­112

fanzia nella nostra società, ossia ben prima che siano direttamente rilevanti per la persona, si rinforzano ulteriormente durante il corso della vita e si attivano spesso in modo inconsapevole. È quindi difficile che le persone, quando ne diventano target in età avanzata, li riconoscano coscientemente come stereotipi e siano in grado di prenderne le distanze. 4. Gli anziani nei programmi per bambini e il caso dei biglietti d’auguri È noto che la capacità di distinguere la realtà dalla fantasia è acquisita dai bambini via via che aumentano le loro abilità cognitive e sociali. La socializzazione dei bambini non avviene solo per mezzo degli adulti e degli amici ma anche attraverso la televisione, in particolare attraverso i cartoni animati e gli spettacoli trasmessi dai canali a loro dedicati. È anche in questo modo che i più piccoli imparano a conoscere quali sono i comportamenti accettabili e appropriati: la televisione fornisce un insieme di regole basilari su come ci si deve comportare in certe situazioni e nei confronti di certi gruppi di persone. Inoltre, poiché l’esposizione ripetuta a immagini stereotipate trasmesse dalla Tv alimenta credenze, luoghi comuni e valori che influenzano la visione della realtà, gli atteggiamenti e le idee degli spettatori, è supponibile che i bambini esposti a rappresentazioni stereotipate delle persone anziane possano far propria una visione distorta di come queste persone sono nella realtà. Di fatto si è constatato che un’idea negativa dei più anziani è già presente nei bambini all’inizio delle elementari (Isaacs e Bearison, 1986), forse alimentata da certe favole. È sulla base di queste considerazioni che molti ricercatori hanno ­113

esaminato in che misura queste immagini stereotipate sono presenti nei programmi per l’infanzia. La prima ricerca in questo ambito, condotta circa trent’anni fa sui programmi d’animazione del sabato mattina dei tre maggiori network americani (Bishop e Krause, 1984), verificò che pochissima importanza e attenzione era dedicata a personaggi anziani. I ricercatori conclusero che nei cartoni animati televisivi, così come nei libri per l’infanzia, le persone anziane erano presentate in modo incompleto, erano marginali, non apparivano come necessarie o rilevanti rispetto all’azione che si sviluppava intorno a loro. Ricerche più recenti hanno cercato di verificare se sono avvenuti cambiamenti e miglioramenti nel corso del tempo riguardo a come le persone più anziane sono rappresentate, descritte e mostrate dalla televisione a un pubblico di bambini. Analizzando i programmi trasmessi sui nuovi canali satellitari dedicati ai bambini (Robinson e Anderson, 2006) e, in particolare, i film d’animazione prodotti dalla Disney (Robinson et al., 2007), i ricercatori hanno rilevato che gli anziani sono ancora sottorappresentati e marginali e che, come in altri programmi, sono soprattutto bianchi e di sesso maschile. Complessivamente i personaggi anziani sono descritti in modo più positivo (amichevole, intelligente, felice) che negativo, ma caratteristiche mentali (scontroso, arrabbiato, pazzo) e fisiche (grasso, brutto) di tipo negativo sono molto presenti (più del 40%). I ricercatori hanno quindi concluso che, anche se predominano i personaggi anziani positivi, la presentazione e reiterazione da parte dei media di certi caratteri stereotipati negativi può indurre i bambini a pensare che queste rappresentazioni sono accettabili e normali. Di fatto, sebbene la televisione e i programmi d’animazione non costituiscano l’unica ­114

fonte di trasmissione di questi stereotipi, essi possono contribuire a radicare nei bambini credenze e atteggiamenti difficili da contrastare. Vorrei segnalare, infine, una ricerca singolare che è stata effettuata in Canada analizzando il contenuto dei messaggi dei biglietti d’auguri che – nei paesi nordici molto più che da noi – le persone mandano abitualmente a parenti e amici per il loro compleanno e che contengono spesso battute e facezie varie riguardanti l’età (Ellis e Morrison, 2005). Poiché questi biglietti sono prodotti preconfezionati e diffusi su larga scala, i ricercatori li hanno considerati come un tipo di comunicazione particolarmente interessante perché in grado di fornire informazioni sull’identità sociale, il temperamento, le intenzioni e le aspettative sia di chi li invia sia di chi li riceve. Si è rilevato, analizzando in particolare i biglietti di compleanno, che la maggior parte dei messaggi testuali presentava l’avanzare dell’età in modo negativo. Tale negatività non variava in funzione dell’età anagrafica né del genere della persona a cui il messaggio era indirizzato; al contrario, era proprio il processo di invecchiamento in sé ad apparire in una luce prevalentemente negativa. Questo risultato conferma come l’eterna giovinezza sia il sogno irrealizzabile della nostra società.

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I perché dell’«ageism» e alcune strategie per contrastarlo

Ho cercato di mostrare come i più giovani e i più anziani siano bersaglio di stereotipi, pregiudizi e discriminazioni a causa di un confronto perdente con l’individuo maschio adulto, considerato il prototipo dell’essere umano. È sulla base di questo confronto che vengono legittimate le differenze di status tra gruppi e che all’adulto viene attribuito uno status più alto: tutte le persone che si scostano da questo modello rappresentano deviazioni dalla norma implicitamente condivisa a livello sociale e, pertanto, sono giudicate incomplete, manchevoli di alcuni aspetti importanti dell’“umanità” (Fiske, 2010). La marginalizzazione dei più giovani non avviene necessariamente sulla base di stereotipi negativi, perché molti dei tratti che li caratterizzano sono considerati particolarmente desiderabili. Questa categoria possiede una qualità assai apprezzata, ambita e invidiata dalle altre generazioni – la giovinezza, appunto. Proprio per questo essi sono considerati scomodi e minacciosi dagli adulti che sanno di dover, prima o poi, lasciare a loro il campo. Di conseguenza, quando possibile, i giovani sono tenuti in posizione di stallo. ­116

Al contrario, i tratti che contraddistinguono i più anziani sono assai poco apprezzati e, nonostante l’esistenza di una norma sociale che lo vieta, molti di loro sono oggetto di giudizi denigratori e di comportamenti ingiusti. Non tutti, però, perché coloro che occupano posizioni di prestigio rappresentano un’eccezione che ha una apposita denominazione: gerontocrazia. Come si è già detto, comunque, la percezione di essere discriminati ha effetti più negativi per gli anziani che per i giovani perché questi ultimi, al contrario dei primi, hanno la possibilità di superare la loro attuale posizione quando entreranno a far parte del mondo privilegiato degli adulti (Garstka et al., 2004). 1. Tre possibili spiegazioni Riconoscere agli adulti una supremazia in termini di status e di potere avvantaggia indubbiamente gli adulti stessi e penalizza, di conseguenza, le altre età. Ma quali benefici questa categoria ottiene dalla svalutazione delle altre? I vantaggi sono almeno tre (Zebrowitz e Montepare, 2000). Il primo è quello di accrescere e consolidare il Sé. Screditando gli altri come “troppo giovani” o “troppo vecchi”, le persone dell’età di mezzo rafforzano i propri sentimenti di potere e competenza. In secondo luogo gli adulti, come tutti i gruppi che godono di uno status alto, sono interessati a mantenere il sistema sociale qual è (Ellemers et al., 1992). Giovani e anziani in molte occasioni risentono della loro condizione di basso status: vengono loro negate opportunità di lavoro, spesso non sono finanziariamente indipendenti e non possono permettersi una vita autonoma. Gli stereotipi denigratori degli adulti nei confronti di giovani e anziani provvedono a spiegare, legittimare e ­117

mantenere nel tempo il loro privilegio e la posizione subordinata delle altre due categorie d’età. Infine, il pregiudizio serve ad arginare la paura della morte. È questa l’interpretazione fornita dalla Terror Management Theory (Greenberg, Pyszczynski e Solomon, 1986). La teoria parte dall’assunto che gli umani condividono con gli altri esseri viventi l’istinto di autopreservazione ma sono, al tempo stesso, consapevoli della propria vulnerabilità e mortalità. Poiché questa consapevolezza può provocare una paura indicibile, un vero e proprio terrore, si cerca di far fronte alla situazione in vari modi e, in particolare, allontanando o svalutando chi ci ricorda la nostra caducità. Giovani e anziani costituiscono per gli adulti una minaccia perché le categorie d’età, a differenza di altre quali l’etnia e il genere, sono permeabili, ossia sono categorie di cui è possibile – anzi inevitabile – oltrepassare i confini, ma in una sola direzione. Da una parte, i giovani ricordano agli adulti che loro – volenti o nolenti – giovani non sono più, e che, in un futuro non lontanissimo, saranno sostituiti, dovranno arretrare e cedere la conduzione dei giochi. Dall’altra parte, gli anziani rappresentano una potente minaccia perché ricordano agli adulti che comunque – anche se sono ricchi e famosi, anche se hanno stili di vita corretti ed evitano di esporsi a situazioni di rischio – fatalmente invecchieranno e moriranno. Gli anziani sono minacciosi, e qui sta una peculiarità del pregiudizio nei loro confronti rispetto ad altri tipi di pregiudizi, perché percepiti troppo simili, uniti da un destino comune, non perché troppo diversi (Martens et al., 2004). In genere, la consapevolezza di un destino comune rafforza il senso di appartenenza a una collettività e può migliorare la relazione tra gruppi. In questo caso, invece, provoca rifiuto e avversione. Gli anziani ­118

costituiscono un simbolo vivente del tempo che passa e gli adulti sanno che, in anni non così lontani, entreranno anch’essi a far parte di quella categoria. Ciò comporta guardare in faccia, affrontare il problema della propria morte. Per rimuovere e allontanare da sé questo pensiero si svaluta, si respinge o si evita chi non ce lo fa dimenticare. 2. Si può combattere l’«ageism»? I pregiudizi sono tutti difficili da scalzare, ma l’ageism lo appare particolarmente perché spesso, come abbiamo visto, è considerato legittimo o espresso in modo inconsapevole. Tuttavia, cercare di ridurre e arginare questo fenomeno è fondamentale soprattutto per due motivi. In primo luogo l’ageism, diversamente da altri pregiudizi, concerne una parte non minoritaria della popolazione, impedisce l’interazione serena tra persone di età diversa e crea ostacoli nei rapporti tra generazioni, rapporti che sono destinati a diventare sempre più frequenti. Portatori di pregiudizi d’età non sono solamente gli adulti: come spesso succede ai gruppi di status basso, tra giovani e anziani possono manifestarsi forti pregiudizi reciproci (“la lotta tra poveri”). Poiché l’allungamento dell’età lavorativa e l’auspicabile accelerazione dell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro preludono a una maggiore necessità e frequenza di incontri e rapporti intergenerazionali, l’ageism merita un’attenzione particolare. In secondo luogo l’ageism, poiché influenza negativamente la visione sociale del processo di invecchiamento, provoca nelle persone che ne sono vittime, soprattutto in quelle più anziane, una serie di effetti psicologici – e non solo – di tipo negativo. Le persone più anziane ­119

possono interpretare gli stereotipi associati alla loro categoria come modelli delle aspettative sociali o come informazioni prescrittive rispetto a come una persona dovrebbe invecchiare. Di conseguenza, possono essere incoraggiate, più o meno apertamente, a comportarsi in modo coerente con queste credenze. Questi processi rinforzano la veridicità degli stereotipi d’età, innescano un circolo vizioso e alimentano l’ageism. Tenendo conto che, secondo le previsioni del Censis (2010), nel 2030 in Italia gli over 65 saranno più di un quarto della popolazione, la necessità di procurare a queste persone condizioni di vita soddisfacenti, creando un clima sociale sereno e per loro adeguato, costituisce un impegno inderogabile da affrontare in tempi brevissimi. Che fare dunque? Si tratta innanzitutto di cercare di ridurre il peso degli stereotipi negativi, in modo che le conseguenze che da questi possono derivare sia per chi ne è portatore sia per chi ne è vittima siano ridotte al minimo. Ma non basta. Il pregiudizio si fonda non solo sugli stereotipi ma anche sul senso di minaccia che le persone dell’altro gruppo possono rappresentare. Questa minaccia può avere una base realistica – per esempio, i giovani pensano che i più anziani occupino illegittimamente spazi che spettano a loro – o essere di tipo simbolico – gli anziani temono che i più giovani mettano a rischio il loro sistema di valori, le loro abitudini, le loro credenze. Entra poi in gioco un altro fattore, l’ansia intergruppi, ossia l’emozione che si prova prima o durante l’interazione con membri di un gruppo estraneo quando si pensa che queste persone possano in qualche modo ferirci, umiliarci o ridicolizzarci (Stephan e Stephan, 1996). Solo agendo sui diversi fattori – stereotipi, minacce ed emozioni – si può realisticamente pensare a una riduzione del pregiudizio e a un migliora­120

mento dei rapporti tra i gruppi d’età. Vediamo ora quali strategie sono suggerite dalle ricerche in proposito. 3. Come l’immaginazione può ridurre gli stereotipi negativi Psicologi e neuropsicologi hanno da tempo constatato che l’immaginazione può provocare le stesse risposte emotive dell’esperienza reale, cosicché immaginare persone o situazioni può determinare effetti significativi sulle nostre percezioni e sui nostri atteggiamenti. Tra le pratiche volte alla riduzione del pregiudizio, l’immaginazione svolge quindi un ruolo importante. Un primo modo di sollecitare l’immaginazione a questo fine è quello di richiedere ai giovani di proiet­ tarsi nel proprio futuro. Nonostante i più giovani tendano ad associare alla vecchiaia soprattutto stereotipi negativi (Hummert, 1990), la situazione si ribalta quando pensano a se stessi nel futuro: in uno studio in cui sono stati invitati a immaginare se stessi all’età di settant’anni, ossia a descriversi come appartenenti alla categoria degli anziani, hanno utilizzato più stereotipi di tipo positivo (circondati da nipoti, saggi, benestanti) che di tipo negativo (soli, deboli, incapaci) (Remedios, Chasteen e Packer, 2010). In un secondo esperimento si è stimolato un maggior uso di stereotipi negativi richiedendo di pensare non a quello che speravano di essere a settant’anni, bensì a quello che temevano di diventare. I partecipanti hanno effettivamente utilizzato un maggior numero di stereotipi negativi, ma hanno richiamato soprattutto fattori dovuti alle circostanze (ospedale, malattia) piuttosto che caratteristiche personali (triste, sgradevole). Questo risultato è in sintonia con un meccanismo ben noto in psicologia sociale, il giudizio ten­121

denzioso a favore del Sé, per il quale le persone sono inclini ad attribuire alla situazione e non a se stessi la responsabilità di eventi negativi che li riguardano. Tale tecnica di autodifesa viene messa in atto non solo nel presente, ma anche nell’immaginazione del proprio futuro. Ma pensare (positivamente) a se stessi nel futuro può influire sul pregiudizio nei confronti degli anziani in genere? Dipende dal valore che le persone attribuiscono al fatto di essere più giovani. Coloro che danno molta importanza e si identificano fortemente con la loro categoria d’età vedono la vecchiaia come particolarmente minacciosa perché comporta l’uscita e la definitiva esclusione dalla categoria attuale a cui tengono. Proiettarsi nel futuro, per costoro, è quindi un’operazione sgradita che peggiora il loro atteggiamento nei confronti degli anziani. Al contrario, le persone per le quali la propria appartenenza d’età è meno importante pensano soprattutto a proteggere se stesse sia nel presente sia nel futuro e quindi mostrano un minore pregiudizio nei confronti di quella categoria d’età (Packer e Chasteen, 2006). Il secondo modo di utilizzare l’immaginazione per la riduzione del pregiudizio è quello di assumere il punto di vista, la prospettiva dell’altra persona, mettersi nei suoi panni. Per esempio, in uno studio è stata mostrata a un gruppo di studenti la fotografia di un signore anziano, seduto su una poltrona vicino a un porta-riviste e gli è stato chiesto di descrivere la tipica giornata di quella persona (Galinski e Moskowitz, 2000). A metà dei partecipanti è stato detto di immaginarsi nei panni dell’uomo, di assumerne il punto di vista, mentre all’altra metà – il gruppo di controllo – questo non è stato detto. Si è visto che l’assunzione di prospettiva non so­122

lo migliora l’atteggiamento nei confronti dell’altro, ma produce una riduzione degli stereotipi e del pregiudizio nei riguardi dell’intera categoria a cui l’altro appartiene, al caso gli anziani. Vari esperimenti hanno confermato questo risultato individuando anche un importante limite del procedimento: il pregiudizio si riduce solo se la persona ha un alto livello di autostima (Galinski e Ku, 2004). Poiché è la sovrapposizione tra sé e l’altro a produrre l’effetto, l’altro e il suo gruppo ne traggono vantaggio solo se si ha una valutazione positiva del Sé. In altre parole, considerare positivamente se stessi porta a considerare meglio anche gli altri. 4. Attenuare i pregiudizi reciproci tra le generazioni: contatti veri e immaginati Una strategia che ha una lunga tradizione e che appare in grado non solo di ridurre i pregiudizi reciproci, ma anche di arginare i gravi effetti che la minaccia dello stereotipo produce sui più anziani è costituita dal contatto intergenerazionale. Allport (1954), lo psicologo che per primo avanzò l’ipotesi che il contatto tra gruppi potesse ridurre considerevolmente il pregiudizio, sostenne anche che il contatto, per ottenere questo auspicabile effetto, richiedeva una serie di precondizioni: per esempio, i gruppi dovevano avere uguale status, dovevano impegnarsi in azioni cooperative per raggiungere obiettivi condivisi e, soprattutto, la lotta al pregiudizio doveva essere sostenuta dalle istituzioni sociali. È evidente che tali condizioni ottimali non sempre si verificano e, quindi, il dibattito sull’ipotesi del contatto e sui suoi limiti in termini di efficacia si è protratto per più di cinquant’anni. Una rassegna che ha preso in esame ben cinquecento studi condotti sul tema (Pettigrew ­123

e Tropp, 2006) ha però aperto la strada a una nuova ondata di ottimismo: si è visto infatti che l’effetto del contatto nella riduzione del pregiudizio è decisamente consistente, e che tale effetto si riscontra anche nei casi in cui le condizioni ideali auspicate da Allport non si verificano. Per quello che riguarda il pregiudizio intergenerazionale, e in particolare quello reciproco tra giovani e anziani, il contatto frequente e protratto nel tempo – quale quello tra nonni e nipoti – appare essere un’arma potente per contrastarlo. Se il rapporto tra genitori e figli è spesso conflittuale, quello tra nonni e nipoti lo è molto meno ed è generalmente positivo. In genere, anzi, i nipoti costituiscono per gli anziani una delle più accessibili e meno ansiogene occasioni d’incontro con la generazione dei più giovani, e viceversa. Che questo tipo di contatto faciliti il rapporto positivo tra generazioni è stato dimostrato non solo dalla ricerca sperimentale (Harwood et al., 2005), ma anche dalla larga inchiesta europea che ho più volte nominato (Abrams, Vauclair e Swift, 2011). Si è visto, infatti, che coloro che sono in frequente contatto con persone della generazione reciproca pensano di avere molto più in comune con loro di quelli che non hanno altrettanti contatti. Quindi incoraggiare positivi contatti intergenerazionali appare la strada più promettente per la riduzione del pregiudizio nei confronti di ogni età. Perché il pregiudizio diminuisca, tuttavia, non è sufficiente che il membro di un gruppo entri in contatto o stabilisca un rapporto con un membro dell’altro gruppo. In questo caso, anche se la relazione interpersonale risulta soddisfacente, la persona dell’altro gruppo può essere considerata semplicemente come una “eccezione che conferma la regola”, mentre il pregiudizio nei con­124

fronti del gruppo rimane complessivamente inalterato. È necessario, invece, che l’atteggiamento positivo possa allargarsi al gruppo nel suo insieme. Una strategia che sembra facilitare tale generalizzazione è quella per cui tra singoli individui appartenenti ai due gruppi – nel nostro caso tra una persona più giovane e una più anziana – si stabilisce un rapporto nel quale le appartenenze alle diverse categorie d’età non sono dimenticate ma, al contrario, rese salienti, per esempio parlandone liberamente durante l’interazione (Brown e Hewstone, 2005). In tal modo, la valutazione positiva dell’altra persona ha più probabilità di essere generalizzata all’intero gruppo perché la sua categoria d’appartenenza non può essere dimenticata. Non sempre, però, si ha l’occasione di incontrare il membro dell’altro gruppo e di poter instaurare un rapporto e, di conseguenza, questo può apparire un grosso limite all’utilizzo del contatto come pratica per la riduzione del pregiudizio. Le ricerche mostrano tuttavia che l’atteggiamento può diventare più positivo non solo quando avviene un contatto diretto, ma anche quando si attuano modalità indirette di contatto. Una prima modalità, definita contatto esteso, si verifica quando una persona viene a sapere che membri del suo gruppo hanno amici nell’altro gruppo, anche se non ne ha personalmente. Questa semplice informazione migliora le aspettative riguardo a una possibile interazione futura: se un giovane, per esempio, viene a sapere che un amico ha stabilito un soddisfacente rapporto con una persona anziana e ne ricerca la compagnia, può essere incuriosito e spinto a cercare a sua volta un dialogo con persone di quell’età. L’amico, quindi, può diventare un esempio, un modello di comportamento, e aprire la strada a un ­125

contatto intergenerazionale che prima era evitato o rifiutato dai coetanei. Più di recente, si è riscontrato l’effetto di un tipo di contatto ancora più indiretto, il contatto immaginato. Ancora una volta è l’immaginazione che sembra costituire un valido strumento per la riduzione del pregiudizio. Si è infatti ipotizzato che, quando non esiste neanche la possibilità di un contatto esteso e nessuno della nostra rete sociale ha amici nel gruppo esterno, la semplice simulazione mentale di un contatto tra gruppi potesse produrre gli stessi benefici del contatto diretto, se pur in misura minore. È quanto hanno verificato alcuni studi a cui hanno preso parte studenti universitari: un gruppo di loro a cui è stato chiesto di immaginare l’incontro con una persona anziana – una persona sconosciuta che rivelava aspetti interessanti e inaspettati – ha mostrato successivamente un minore favoritismo per i giovani rispetto ad altri partecipanti a cui è stato chiesto di immaginare un panorama o ad altri che hanno semplicemente parlato tra loro di una persona anziana (Turner, Crisp e Lambert, 2007). In un successivo esperimento si è visto che il contatto immaginato produce effetti non solo a livello esplicito, ma migliora anche gli atteggiamenti impliciti (misurati con il solito Iat) dei giovani nei confronti degli anziani (Turner e Crisp, 2010). Questi diversi tipi di contatto risultano efficaci soprattutto perché hanno la capacità di ridurre l’ansia che, come si è detto, costituisce uno dei maggiori ostacoli alla riduzione del pregiudizio. Comunque il contatto immaginato non sostituisce gli incontri reali: «Il valore del contatto immaginato – hanno rilevato Turner e Crisp – sta nella sua capacità di incoraggiare le persone a cercare il contatto, a rimuovere le inibizioni associa­126

te con i pregiudizi esistenti, a predisporre le persone all’incontro con l’altro con la mente aperta» (2010, p. 222). Si tratta solo di un primo passo verso la riduzione del pregiudizio, ma è un passo importante perché ha la possibilità di aprire un percorso che, utilizzando le diverse strategie di contatto, può migliorare le relazioni tra gruppi. Ma entrare in contatto, reale o immaginario, con un gruppo non produce solo un miglioramento degli atteggiamenti nei confronti di quel gruppo. Un contatto positivo, moderando l’ansia, può ridurre la minaccia dello stereotipo e migliorare la prestazione. Abrams, Eller e Bryant (2006) hanno condotto una ricerca in cui hanno esaminato l’effetto del contatto intergenerazionale e della minaccia dello stereotipo sulle prestazioni cognitive di un gruppo di anziani. I partecipanti, la cui età media era di settantacinque anni, hanno svolto una serie di compiti che misuravano alcune capacità cognitive, quali memoria, comprensione e facilità verbale. Prima di effettuare il compito, a una parte dei partecipanti è stato detto che le capacità cognitive declinavano con l’età e che la loro prestazione sarebbe stata confrontata con quella di un gruppo di giovani. Era questa una condizione di forte minaccia. Con l’altra parte dei partecipanti non è stato fatto nessun riferimento all’età né si è detto niente a riguardo delle capacità cognitive (condizione di debole minaccia). A tutti è stato poi chiesto di indicare in che misura avessero contatti positivi con persone giovani. Dai risultati si è visto che, come sempre, la minaccia dello stereotipo ha peggiorato la prestazione, ma non quella di coloro che avevano dichiarato di avere i rapporti intergenerazionali più positivi. Questi ultimi, infatti, hanno provato meno ansia: di conseguenza hanno mostrato un minor pregiudizio ­127

intergenerazionale e sono stati meno toccati personalmente dalla minaccia. In una successiva ricerca (Abrams et al., 2008) si è osservato che il contatto produceva lo stesso effetto positivo anche nella prestazione riguardo a calcoli matematici, altro compito in cui gli anziani sono considerati generalmente poco abili. Ma, ancor più interessante, si è visto che è sufficiente che il contatto sia immaginato perché le persone diventino meno vulnerabili alla minaccia dello stereotipo. Quando si è chiesto alle persone di immaginare l’incontro con una persona giovane sconosciuta, l’ansia è diminuita e, di conseguenza, la performance è migliorata. In pratica, chiedere di immaginare l’interazione con un giovane produce un immediato effetto positivo, mentre tale effetto non si riscontra, come abbiamo visto (Turner, Crisp e Lambert, 2007), quando si chiede semplicemente di ragionare sul gruppo (per esempio, i giovani) in generale.

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L’età: un criterio da abbandonare?

L’età e la sua suddivisione in tre fasce principali costituiscono un principio fondamentale nella nostra società: in base all’età si decide chi deve studiare, chi deve votare, chi deve guidare, chi deve lavorare, chi deve smettere di lavorare e tante altre cose complementari. È quindi un criterio semplice e funzionale. Ma considerando che al tempo stesso è fonte di stereotipi, pregiudizi e discriminazione, è necessario domandarsi se sia possibile abbandonare l’uso di tale criterio. Il problema è complesso e va affrontato da una duplice prospettiva, quella dei processi cognitivi individuali e quella istituzionale. 1. La diversità come risorsa A livello individuale, ci si può chiedere se la categorizzazione in base all’età sia evitabile e sostituibile. La risposta è negativa: la categorizzazione per età (giovane/ adulta/anziana) fa parte, in modo pressoché automatico, delle prime impressioni che ci formiamo quando incontriamo una persona. Classificare i singoli individui in determinate categorie è un processo cognitivo basila­129

re che ci permette di organizzare rapidamente il mondo intorno a noi, di ridurne la complessità. Pertanto delle categorie non è possibile, né sarebbe vantaggioso, fare a meno. Allo stato attuale della ricerca, inoltre, la categorizzazione appare essere una condizione necessaria ma non sufficiente al manifestarsi dei pregiudizi e della discriminazione nei confronti di un gruppo esterno (Park e Judd, 2005). La tendenza a sopravvalutare il proprio gruppo, fenomeno pervasivo nella nostra cultura1, favorisce notevolmente, ma non comporta in automatico la svalutazione o discriminazione degli altri (Brewer, 1999). Se risulta inattuabile eliminare la categorizzazione tripartita, sempre arduo – ma potenzialmente fattibile – appare invece incoraggiare le persone di tutte le età a pensare che nessun gruppo d’età sia più rappresentativo degli altri e possa essere eretto a prototipo della categoria sovraordinata degli umani. Il prototipo dell’essere umano non può essere ricondotto a un solo tipo di essere umano: occorre concepire un modello assai più articolato e sfaccettato, che contenga le qualità di ciascuna età – e di entrambi i generi – e che tenga conto di molteplici dimensioni. Ciascun gruppo d’età, non solo quello degli adulti, possiede propri punti di forza e tutti, compresi gli adulti, hanno punti di debolezza. Allora, piuttosto che sentirsi minacciati o impauriti dalle nostre differenze, dobbiamo imparare a comprendere e ad apprezzare ciò che di unico esiste in ogni età. Non si tratta di confrontare e contrapporre le specifiche prerogative – l’energia dei più giovani, la saggezza dei più anziani – ma di coniugarle, di metterle insieme, in modo 1  Pare che tale fenomeno non sia presente in ugual misura nelle culture asiatiche, per esempio in Giappone (Heine e Lehman, 1997).

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tale che le persone di ogni età possano trarre un senso di positiva soddisfazione dalla propria appartenenza di gruppo. Si potrà così riconoscere che le persone dei vari gruppi d’età sono differenti senza, con questo, arrivare a stabilire una gerarchia in base alla quale un gruppo è meglio degli altri ma cercando, al contrario, di valorizzare questa diversità. L’elogio della diversità è diventato quasi un luogo comune. L’importanza e il valore della diversità all’interno di ogni tipo di gruppo sociale – dalla squadra operaia alle imprese artistiche, al consiglio dei ministri – sono ormai noti e conclamati. Nella pratica, tuttavia, la diversità è ancora spesso considerata un intralcio e un’inutile complicazione che si cerca in ogni modo di evitare. È indubbio che il coordinamento tra persone che sono diverse sia in termini demografici sia per competenze e capacità è un’operazione che richiede tempo e che, per questo, è spesso considerata come uno spreco di tempo, senza considerare l’arricchimento che ne può derivare. Né la diversità è una panacea per tutti i problemi: le ricerche su questo tema hanno ottenuto risultati misti (Bodenhausen, 2010). Da una parte, si è visto che la diversità può migliorare la qualità delle performance dei gruppi di lavoro. Tale miglioramento è dovuto al fatto che, quando persone differenti – per età, genere, cultura, capacità o altro – siedono allo stesso tavolo, il gruppo si trova ad affrontare il proprio compito da molteplici prospettive. Inoltre, la presenza di posizioni diverse, anche se minoritarie, sollecita tutti gli altri a pensare in modo più articolato con un vantaggio complessivo per lo svolgimento del compito. Dall’altra parte, però, si è visto anche che all’interno di gruppi eterogenei si possono sviluppare dinamiche intergruppi basate su stereotipi reciproci – del genere “noi donne”, ­131

“voi uomini” oppure “noi giovani”, “voi anziani” – che conducono a un peggioramento complessivo della performance poiché distraggono dal compito principale (van Knippenberg, De Dreu e Homan, 2004). Quindi, riguardo al nostro tema, questa duplice possibilità costituisce un nodo cruciale dell’incontro tra generazioni: il semplice “contatto” rischia di rivelarsi fallimentare se apre la strada al conflitto invece che all’incontro fruttuoso. Non è questo il luogo in cui approfondire il complesso tema della gestione della diversità. Ricordo solo che, tra i vari fattori che possono influire sull’esito complessivo, gioca un ruolo fondamentale quello che i membri del gruppo pensano della diversità stessa, ossia se essi sono o non sono convinti che possa contribuire positivamente al funzionamento del gruppo. Liberarsi di stereotipi minacciosi per se stessi e per gli altri, avere consapevolezza delle proprie prerogative positive, sentirsi “alla pari” e aprirsi verso gli altri sono quindi precondizioni che facilitano il successo dell’incontro. 2. Una società per tutte le età Gli psicologi hanno cercato di comprendere come e in che misura sia possibile intervenire sugli aspetti cognitivi e affettivi dell’ageism. Ma se è vero – come sosteneva Allport (1954) e come credo anch’io fermamente – che qualsiasi lotta alla discriminazione ha bisogno di un sostegno istituzionale per essere efficace, si tratta ora di fare i conti anche con una serie di regole formali che utilizzano l’età come criterio. È quindi importante capire se l’uso dell’età a livello istituzionale possa dar luogo a forme di discriminazione. È discriminatorio il pensionamento obbligatorio per i piloti d’aereo a sessant’anni (lo pratica la Lufthansa) o è invece una prudente pre­132

cauzione contro un possibile declino delle capacità e l’aumentato rischio di malesseri improvvisi?2 È giusto che votino per il Senato solo le persone che hanno più di venticinque anni? La lotta alla discriminazione basata sull’età ha il potenziale vantaggio di essere di primario interesse non solo per facilitare la pacifica convivenza e combattere l’ingiustizia sociale, ma anche per i benefici economici che può comportare. Infatti, insieme ad altri interventi – quali, per esempio, l’innalzamento dell’età pensionabile o gli incentivi fiscali alle imprese che assumono persone giovani e anziane –, la lotta alla discriminazione costituisce uno strumento per immettere o riammettere nel mondo del lavoro categorie di popolazione la cui partecipazione è considerata insufficiente e che possono costituire una valida risorsa per far fronte alla competizione economica internazionale (Poli, Lefrançois e Caradec, 2009). A livello istituzionale, comunque, la lotta all’ageism e alla discriminazione basata sull’età è attraversata da una tensione tra trattamento differenziale e trattamento preferenziale. Da una parte è riconosciuto che non siamo tutti uguali, e quindi va favorito l’incontro e la collaborazione tra le diverse generazioni. Dall’altra parte, storicamente, le misure che sono state prese in merito all’età hanno riguardato in prevalenza politiche di protezione sociale per le persone stesse e per gli altri (proibizione di lavorare prima dei sedici anni, divieto di guidare mezzi pubblici dopo i settanta,   La Corte di Giustizia europea ha stabilito che il pensionamento obbligatorio dei piloti di linea all’età di sessant’anni, come praticato da Lufthansa, costituisce discriminazione in base all’età e che all’equipaggio di volo deve essere permesso di lavorare, anche se con alcune limitazioni, fino all’età massima legale di sessantacinque anni. 2

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tariffe agevolate per i giovani e i senior) basate su specifiche – ancorché instabili – soglie tra un’età e l’altra. In tal modo, la traiettoria dell’esistenza è stata di fatto segmentata in tre tempi. Solo più di recente si è pensato al possibile carattere discriminatorio di politiche sociali che utilizzano il principio delle soglie d’età, riconoscendo che si tratta di un criterio rigido e generico che favorisce stereotipi e pregiudizi e che dovrebbe essere rimpiazzato da altri. Ma quali? Le proposte che sono state fatte e i modelli già adottati – per esempio in Finlandia – tendono prevalentemente a sottolineare la necessità di strumenti che siano più neutri rispetto all’età e che, adottando la prospettiva dell’intero ciclo di vita, tengano in conto e rispettino maggiormente i percorsi individuali. Ciò significa non solo permettere una maggiore flessibilità in entrata e in uscita dal mondo del lavoro, ma distribuire i tempi di formazione, lavoro e inattività lungo tutto l’arco dell’esistenza. Si tratta di «despecializzare le età e inventare una nuova gestione della diversità di età» (Guillemard, 2006, p. 18). Secondo questa logica, sarebbero le qualità, le competenze e le energie – non l’età – a definire il ruolo di ciascuno (Poli, Lefrançois e Caradec, 2009). In un primo momento la valorizzazione della diversità, di cui si è detto prima, può apparire in contrasto con la proposta di preferire, a livello istituzionale, altri criteri che siano meno rigidi delle categorie d’età. Tuttavia, poiché l’età – diversamente dal genere e dall’etnia – è una variabile continua, le categorie di cui ci serviamo sono relativamente fluide, i confini tra una e l’altra cambiano in relazione a numerosi fattori quali la necessità di chi le utilizza, i contesti di riferimento, l’aspetto esteriore della persona, e così via. Inoltre, anche se a ogni gruppo d’età sono attribuite caratteristiche specifiche, esistono varia­134

zioni sostanziali riguardo a come queste caratteristiche sono distribuite all’interno di ciascun gruppo ed esistono numerose aree di sovrapposizione tra i diversi gruppi (Park e Judd, 2005). Pertanto, attribuire un minore peso alla variabile età a livello istituzionale aiuterebbe a minimizzare le possibili conseguenze negative della categorizzazione e a estendere il modello prototipico degli umani oltre i confini della sola adultità. Si tratta di un cambiamento epocale e di un lavoro gigantesco, ma forse non impossibile, e ciascuno può fare la sua parte. Agli psicologi sociali spetta un compito non da poco: la lotta all’ageism che alimenta ed è alimentato dall’attuale tripartizione. E disintegrare il pregiudizio, pare abbia detto Einstein, è più difficile che disintegrare un atomo.

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Frontespizio Esergo 1. L'età: un criterio molto speciale 2. La supremazia dell'adulto 1. Le caratteristiche dell’adultità 2. Più umano degli altri? 3. Il predominio dell’adultità maschile 4. L’attivismo dei quarantenni, il doppio percorso dei cinquantenni 5. Ma gli adulti esistono ancora? Chi non cresce e chi non vuole crescere

3. Le dimensioni del pregiudizio: credenze, sentimenti e azioni 1. A cosa servono gli stereotipi 2. Il primato dell’affettività 3. Il pregiudizio moderno: come stanarlo 4. Le molteplici forme della discriminazione

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4. Quant’è bella giovinezza...

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5. Gli anziani tra emarginazione e gerontocrazia

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6. Età e genere: due pesi e due misure?

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1. Bambini: tra iperprotezione e disattenzione 2. Adolescenti: tra eccesso di indulgenza e autoritarismo 3. Giovani: l’adolescenza infinita 4. Biasimare la vittima? Il caso italiano

1. Variazioni sul tema 2. Atteggiamenti sfavorevoli ai più anziani 3. Chi sono le persone con più pregiudizi verso gli anziani? 4. Gli incredibili effetti del «priming» legato all’età e come contrastarli 5. Quando lo stereotipo dell’anziano può essere vantaggioso 6. Eccesso di zelo 7. Pregiudizi, discriminazione e lavoro 8. Il caso della politica: «ageism» parlamentare e gerontocrazia 1. Il doppio standard 2. Doppio standard e mondo del lavoro 3. Doppio standard e comunicazione di massa 4. L’immagine della donna anziana 5. Invecchiare naturalmente?

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7. L’età nei mass media

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8. I perché dell’«ageism» e alcune strategie per contrastarlo

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9. L’età: un criterio da abbandonare?

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Riferimenti bibliografici

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1. La rappresentazione dei più giovani nei media 2. Gli anziani nella pubblicità 3. Come l’immagine degli anziani proposta dai media può influenzare il pubblico 4. Gli anziani nei programmi per bambini e il caso dei biglietti d’auguri

1. Tre possibili spiegazioni 2. Si può combattere l’«ageism»? 3. Come l’immaginazione può ridurre gli stereotipi negativi 4. Attenuare i pregiudizi reciproci tra le generazioni: contatti veri e immaginati 1. La diversità come risorsa 2. Una società per tutte le età

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