Tramonto di un'Epoca. Dagli splendori della "Belle Epoque" al dramma di Sarajevo

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Tramonto di un'Epoca. Dagli splendori della "Belle Epoque" al dramma di Sarajevo

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Barbara W. Tuchman

Tramonto di un'Epoca · Dagli splendori della "Belle Epoque" al dramma di Sarajevo

LE SCIE ARNOLDO MONDADORI EDITORE

LE SCIE

Barbara W. Tuchman

TRAMONTO DI UN'EPOCA Dagli splendori della «Belle Époque» al dramma di Sarajevo Traduzione di Marilena Damiani con 29 illustrazioni fuori testo

ARNOLDO l\lONDADORI EDITORE

Della stessa autrice Nella collezione Le Scie Uno specchio lontano Nella collezione Le Palme Uno specchio lontano

© Barbara W. Tuchman /962, /963, /965 © The Macmillan Compa'!Y /966 © Arnoldo Mondadori Editort 1969 Titolo dell'opera originale The Proud Towa I edi;:.ione mar;:,o 1969 Nuo~·a edi;:.ione mar;:,o /982

TRAMONTO DI UN'EPOCA

PREFAZIONE

L'epoca storica i cui ultimi anni .costituiscono l'argomento di questo libro non morì di vecchiaia né di morte accidentale, ma esplose in una crisi finale che costituisce uno dei fatti più importanti della storia. Nessun cenno a questa crisi appare nelle pagine che seguono poiché, non essendosi ancora verificata, non faceva parte dell'esperienza dei protagonisti di questo libro. Ho cercato di attenermi esclusivamente ai fatti allora noti. La Grande Guerra del 1914-19 I8 divide, come una striscia di terra bruciata, quell'epoca dalla nostra. Annientando tante vite che avrebbero potuto incidere sugli anni successivi, distruggendo le speranze, trasformando le idee, lasciando inguaribili ferite di delusione, essa creò un abisso psicologico e materiale tra due epoche. Questo libro tenta di scoprire le caratteristiche del mondo che generò la Grande Guerra. Non è il libro che avevo intenzione di scrivere quando mi misi al lavoro. I preconcetti caddero a uno a uno man mano che procedevo nelle mie ricerche. Il periodo non "fu né una età dell'oro né una Belle Époque, a parte la crosta sottile rapprGsentata dalla classe privilegiata. E non fu un'epoca dominata esclusivamente dalla fiducia, dall'innocenza, dal benessere, dalla tranquillità, dalla sicurezza e dalla paçe. Tutte queste caratteristiche erano certamente presenti. La gente era realmente più fiduciosa nei valori e nei simboli, più ingenua nel senso che nutriva maggiori speranze nell'umanità di quanto avvenga oggi, sebbene non fosse più pacifica né- se si escludono i pochi privilegiati godesse ài un maggiore benessere. Il nostro errore è di credere che allora non esistessero anche dubbio e paura, fermento, protesta, odio e violenza. Siamo stati sviati dalla stessa gente di quell'epoca che, voltandosi indietro a guardare oltre il baratro della guerra, ha visto la prima metà della propria vita come sfumata da una tenue foschia crepuscolare di pace e sicurezza. Eppure questa vita non sembrava loro altrettanto dorata mentre la vivevano giorno per giorno. I loro nostalgici

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ricordi hanno condizionato la nostra visione dell'era che precedette la Grande Guerra, ma io posso offrire al lettore un'informazione che si fonda su una ricerca precisa: tutte le dichiarazioni di quanto fosse bella allora la vita, fatte da persone vissute in quel periodo, sono posteriori al 1914. Il fenomeno di una malattia così grave come la Grande Guerra non può uscire da un'età dell'oro. Forse lo credevo quando mi misi all'opera, ma poi mi sono resa conto che non era così. Sentivo, tuttavia, che l'origine del conflitto non andava ricercata nella grosse Politik di ciò che Isvolskij aveva detto a Aehrenthal e sir Edward Grey a Poincaré; in quel tortuoso strascico di trattati di riassicurazione, di Duplici e Triplici Alleanze, crisi marocchine e intrighi balcanici che gli storici hanno diligentemente seguito nelle loro ricerche sull'origine della guerra. Era necessario che questi fatti e questa successione di avvenimenti venissero esaminati, e noi che veniamo dopo ci sentiamo in debito verso gli esaminatori; ma la loro opera è compiuta. Io sono d'accordo con Sergej Sazonov, il ministro degli Esteri russo all'epoca dello scoppio della guerra, che alla fine, dopo una serie di indagini, esclamò: «Basta con questa cronologia!». Il filone della grosse Politik è stato sfruttato. Inoltre è ingannevole perché ci lascia riposare sulla facile illusione che sono «loro», i cattivi statisti, a essere sempre responsabili della guerra, mentre «noi», popolo innocente, siamo semplicemente manovrati. Ma è un errore. Le cosiddette origini, diplomatiche della Grande Guerra sono solo il grafico della temperatura del paziente; esse non ci dicono nulla sulla causa che ha provocato la febbre. Per cercare le cause recondite e le forze più profonde si deve operare entro la cornice di un'intera società e cercare di scoprire ciò che ha spinto la gente alla guerra. Io ho cercato di concentrarmi sulla società, anziché sullo stato. Il potere politico e le rivalità economiche, per quanto importanti, non m'interessano. Il periodo di tempo descritto in questo libro fu essenzialmente il momento culminante di un secolo che aveva assistito al più frenetico succedersi di avvenimenti mai verificatosi nella storia. Dopo le guerre napoleoniche, ultima esplosione di una diffusa volontà bellica, la rivoluzione industriale e quella scientifica avevano trasformato il mondo. Agli inizi dell'Ottocento l'uomo poteva contare solo sulla propria forza fisica e su quella degli animali, sulla potenza del vento e dell'acqua, in condizioni non molto diverse da quelle del Duecento; ora invece entrava nel XX secolo, con tutte le sue conquiste nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, della produzione, dell'industria bellica, potenziate al massimo dall'energia meccanica. La società industriale offrì all'uomo nuove possibilità e gli aprì nuovi orizzonti, generando al con-

Prefazione

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tempo nuove forme di prosperità e di indigenza; determinò l'aumento della popolazione e l'inurbamento, acuì i contrasti fra le classi e i gruppi sociali, allontanò l'uomo dalla natura e gli tolse il piacere del lavoro individuale. La scienza gli schiuse nuove frontiere del benessere, mentre lo privò deHa fede in Dio. Quando l'uomo uscì dal XIX secolo, i vantaggi offertigli dal progresso erano pari ai disagi che esso comportava. Sebbene il termine.fin de sièc/e significhi in genere decadenza, in realtà la società, alla svolta del secolo, era sottoposta alla tensione di tutte le energie che si erano andate accumulando nel periodo precedente. Stefan Zweig, che nel 1914 aveva trentatré anni, era convinto che lo scoppio della guerra non «avesse niente a che fare con le idee, e ben poco con le frontiere. Non posso spiegarla altrimenti che con un eccesso di forze, una tragica conseguenza del dinamismo interno che si era accumulato durante quarant'anni di pace e ora cercava uno sfogo violento». Nel tentativo di descrivere l'aspetto del mondo d'anteguerra, ho seguito un criterio estremamente selettivo. Nel terminare questo libro mi rendo conto che potrei riscriverlo completamente - conservando lo stesso titolo - trattando argomenti del tutto diversi; e ancora, che potrei farne anche una terza stesura, sempre senza ripetermi. Potrebbero esservi dei capitoli sulla letteratura dell'epoca, sulle sue guerre, la cinonipponica, la ispano-americana, la boera, la russo-nipponica, la balcanica; sull'imperialismo; sulla scienza e la tecnologia; sugli affari e sul commercio; sulle donne; sulla monarchia; sulla medicina; sulla pittura; su tutti i vari argomenti che possono interessare uno storico. Avrebbero potuto esservi capitoli su re Lepoldo II dei belgi, Cechov, Sargent, The Horse o l'acciaio degli Stati Uniti, tutti argomenti presenti nei miei schemi originari. Avrei voluto scrivere un capitolo su qualche tipico funzionario o proprietario di negozio, rappresentanti la oscura anonima borghesia, ma non me ne è mai capitato a tiro uno. Credo di dovere al lettore una parola sul mio criterio di selezione. In primo luogo mi sono limitata al mondo anglosassone e all'Europa OCL{dentale, da cui derivano direttamente la nostra esprienza e cultura, lasciando da parte l'Europa orientale che, per quanto importante, appartiene a una tradizione a sé stante. Nella scelta degli argomenti il criterio sul quale mi sono basata era che essi potessero essere realment,e rappresentativi dell'epoca in questione e avessero esercitato il loro influsso prima del 1914, e non dopo. Questa considerazione ha escluso l'automobile e l'aeroplano, Freud e Einstein e i movimenti da essi rappresentati. Ho scartato anche gli outsider, benché costituissero un argomento allettante. Mi rendo conto che quanto segue non offre una conclusione definiti-

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va, ma sarebbe inutile trarre dellr gcnc-ralizzazioni dagli c-lrmrnti etcrogrnri chr costituiscono un 'epoca. So anchr che quanto s), e quelli che stavano al governo non pote,·ano non sentirle. Piantato saldamente a sbarrare il sentiero del cambiamento radicale, impegnato in una lotta prudente, oculata e tuttavia appassionata, in difesa dell'ordine prestabilito, era un pari, cancelliere a vita dell'Uniwrs:tà di Oxford, che a\'eva occupato due volte la carica di ministro degli Esteri e due \'Ohe quella di ministro per l'India, e ora era primo ministro per la terza \'Olta. Si tratta\·a di Robert Arthur Talbot Gascoync-Cecil, lord Salisbury, nono conte e terzo marchese della casata. Lord Salisbury era un tipico esponente della sua classe ma, al tempo stesso, non ne recava i segni caratteristici (per quanto, in fondo, la libertà di distinguersi dagli altri fosse di per se stessa una caratteristica di classe). Era alto uno e no\'antacinque, e da gio\'ane era magro, curvo e miope, coi capelli eccezionJlmente neri per un inglese. Ora, a sessantacinque anni, quell'cccessh·a magrezza si era trasformata in corpulenza, le spalle erano di,·entate massicce e più curve che mai, e la grossa testa calva, coronata da una folta e ricciuta barba grigia, sembrava inclinarsi per il peso ccccssÌ\'O. l\lalinconico, profondamente intellettuale, affetto da sonnambulismo e soggetto a crisi depressive che lui defini,·a «burrasche di nen·i•>, caustico, pri\'o di tallo, distrailo, infastidito dalla gente e amante della solitudine, dotato di una mente acuta, scettica e indagatrice, era stato definito l'Amleto della politica inglese. Sprezzante delle com·enzioni, si rifiutava di vivere in Downing Street. Era molto de\'Oto e a,·e,·a uno spiccato interesse per la scienza. Ogni mattina soleva assistere nella sua cappella privata alla funzione religiosa, e m·eva allestito un laboratorio chimico in cui compiva esperimenti solitari. l!"!_canalò le acque del fiume a Hatficld per dotare la sua tenuta di energia elettrica, e lungo le ,·ecchic travi della sua casa installò uno dei primi impianti di luce elettrica dell'Inghilterra: e quando i fili della corrente s'accendevano di scintille e crepitavano di scariche, i membri della famiglia li bombardarnno di cuscini, continuando poi a chiacchierare e a discutere com·era costume dei Cccii. Lord Salisbury non si occupa,·a affatto di sport e anche la gente lo

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interessava assai poco. Il suo distacco era accentuato da una miopia così forte che una \'Dita gli capitò di non riconoscere un membro del suo stesso Gabinetto, e un'altra ,·olta perfino il proprio maggiordomo. Al termine della guerra boera prese in mano una ltogralìa del re Edoardo e, fissandolo assorto, osscn·ò: « Po\'cro Bullcr [ riferendosi al comandante supremo all'inizio della guerra J, che disastro hai combinato». In un'altra circostanza, fu visto dilungarsi in una discussione di carattere militare con un pari di grado inferiore al suo, com·into di rirnlgcrsi al feldmaresciallo lord Robcrts. Lord Salisbury non a\'c\'a particolare considerazione neppure per il cavallo, che era considerato !'«alter ego» dell'aristocratico inglese, il compagno più prezioso. Carnlcare era per lui un semplice mezzo di locomozione, per il quale il ca\'allo era un «accessorio necessario ma estremamente scomodo». '.'\on si dedica\'a neppure alla caccia. Quando il Parlamento intcrrompc,·a le sedute, non si rcca,·a al :'\orda far strage di galli cedroni nelle brughiere e a cacciare cen·i nelle foreste scozzesi, e quando il protocollo richicde,·a la sua presenza a Balmoral, non partecipava alle gite a cayallo e «si rifiutava recisamente,» scri,·crn il segretario privato della regina Vittoria, sir Hcnry Ponsonby, «di ammirare il paesaggio e la sel\'aggina». Ponsonby avc,·a l'incarico di mantenere la sua stanza a temperatura «tiepida» con un minimo di 16 gradi. Altrimenti lord Salisbury si ritirava a trascorrere le \'aCanzc in Francia, dove posscdc\'a una ,·illa a Bcaulicu, in Ri,·icra, e do,·c poteva adoperare il suo francese impeccabile e immergersi nella lettura del Conte di .\/011/ecristo. l'unico libro, come disse una volta a Dumas figlio, che gli permettesse di dimenticare la politica. La sua dimestichezza con lo sport si limita\'a al tennis, ma in età più avanzata ideò un insolito esercizio, che consistc,·a nel percorrere in triciclo St.James's Park di primo mattino, o i sentieri, opportunamente lastricati, del parco della sua proprietà a Hatfìeld. Per la circostanza portava una specie di sombrero e un corto mantello senza maniche con un foro al centro, che lo faceva sembrare un monaco; lo accompagnava un giovane cocchiere che aveva il compito di spingerlo sulle salite. Come arrivavano a una discesa, ordinava al giovane di cc montare dietro di lui» e allora il primo ministro, le mani del cocchiere sulle spalle, il mantello al vento e i pedali che gira,·ano vorticosamente, rnlarn giù per il pendio. Hatficld, trentacinque chilometri a nord di Londra, ncll'Hcrtfordshirc, era la dimora dei Cccii da quasi trecento anni, dacché Giacomo I nel 1607 l'aveva ceduta al suo ministro Robcrt Cccii, primo conte di Salisbury, in cambio di una casa dei Cccii di cui il re si era incapriccia-

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to. Era la residenza reale in cui la regina Elisabetta I aveva trascorso l'infanzia e dove, una volta ascesa al trono, ella aveva tenuto il suo primo consiglio e aveva nominato suo ministro William Cccii, lord Burghley. La Long Gallcry, dalle pareti a pannelli intarsiati e il soffitto rivestito di foglia d'oro, misura\'a cinquantacinque metri di lunghezza. Il Marblc Hall, celebre per il pavimento di marmo bianco e nero, col soffitto dorato e decorato e gli arazzi di Bruxelles, brillava come un forziere di gioielli. Alle pareti della sala da pranzo rossa di re Giacomo erano appesi ritratti di famiglia a grandezza naturale, opere di Romncy, di Rcynolds e di Lawrcncc. La biblioteca si estendeva per tutta l'altezza della galleria e conteneva 10.000 volumi rilegati in cuoio e pergamena. In altre stanze erano conservate le Caskct Lcttcrs di Maria Stuarda, intere serie di armature catturate agli uomini dcll'Armada spagnola, la culla del re decapitato, Carlo I e i ritratti di Giacomo I e di Giorgio Ili. All'esterno vi erano siepi di tasso tagliate a forma di bastioni merlati e giardini dei quali Pcpys scrisse di non aver mai visto in vita sua «fiori tanto belli né ribes tanto grossi». Nell'atrio erano appese bandiere strappate a Waterloo e donate a Hatfield dal duca di Wellington, che era un fedele servitore e un devoto ammiratore della madre del primo ministro, la seconda marchesa. In suo onore Wellington, durante le campagne militari, indossava la giubba da caccia degli Hatfield Hounds. La prima marchesa fu ritratta da sir Joshua Rcynolds, e andò a caccia fino al giorno della sua morte, all'età di ottantacinque anni: mezzo cicca e legata alla sella, si faceva accompagnare da uno staflicrc che, quando il cavallo si avvicinava a una siepe, gridava: «Salti, dannazione, salti, signora!». Fu questa personalità eccezionale a rinvigorire il sangue dei Cccii che, dopo Burghlcy e suo figlio, non avevano prodotto altri esempi di intelligenza superiore. Al contrario, la prevalente mediocrità delle generazioni successive era stata variata soltanto, secondo un Cccii vissuto in età più recente, da esempi di «straordinaria stoltezza». Ma il secondo marchese dimostrò di essere uomo forte e capace, con uno spiccato senso di dovere civico, e fece parte di parecchi governi conservatori della metà del secolo. Il suo secondo figlio, che portava come il padre il nome di Robcrt, fu primo ministro nel 1895. A sua volta, questi generò cinque figli che si distinsero: uno divenne generale, uno vescovo, uno ministro, uno membro del Parlamento per la contea di Oxford e un altro si meritò il titolo di pari per i servizi resi allo stato. «Per gli uomini, come per i cavalli,» commentò lord Birkenhcad a proposito dei Cccii «c'è parecchio da dire a favore del principio di ereditarietà.» Nel 1850, a Oxford, i contemporanei del giovane Robcrt Cccii erano

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convinti che avrebbe finito per diventare primo ministro a causa o a dispetto delle sue opinioni intransigenti, .che non si preoccupò mai di moderare. I suoi discorsi giovanili erano noti per la loro insolente violenza; non era, come disse Disraeli, «un uomo che misurasse le parole». «Salisbury» divenne sinonimo d'imprudenza politica. Una volta giunse a paragonare gli irlandesi agli ottentotti per la loro incapacità di autogovernarsi, e parlò di un candidato indiano al Parlamento come di «quel negro». Secondo lord Morley era sempre un piacere leggere i suoi discorsi perché «contenevano immancabilmente qualche indiscrezione piccante, piacevole a ricordarsi». Non si sa con certezza se tali indiscrezioni fossero del tutto accidentali, poiché, sebbene lord Salisbury pronunciasse i suoi discorsi senza consultare appunti scritti, egli li aveva preparati in precedenza cd essi gli uscivano chiari e perfettamente costruiti. A quel tempo l'arte oratoria era considerata uno degli strumenti principali di uno statista, e chiunque leggesse un discorso scritto era considerato con commiserazione. Quando parlava lord Salisbury, «ogni frase,» diceva uno dei suoi colleghi «sembrava tanto essenziale, articolata e vitale per il discorso, quanto le membra del corpo lo sono per l'atleta». Quando si presentava davanti a un pubblico che non lo interessava, Salisbury era assai goffo; ma alla Camera Alta, dove si rivolgeva ai suoi pari, era perfettamente a suo agio. Parlava con voce sonora, con sapienti passaggi d'intonazione dalla più glaciale ironia al più sferzante sarcasmo. Una volta un liberale di recente nobiltà prese la parola per arringare la Camera dei Lord col tono solenne e reboante tipico del suo partito; Salisbury chiese al vicino chi fosse l'oratore, e appena ne seppe il nome replicò in tono chiaramente udibile: «Credevo fosse morto». Ascoltare gli altri gli veniva subito a noia, e lo dimostrava con un espressivo dondolio della gamba che, a chi lo osservava, pareva dire: «Quando finirà?». A volte, invece, sollevando i tacchi dal pavimento, imprimeva alle gambe un tremolio che poteva durare anche mezz'ora. A casa, quando era stanco degli ospiti, quel tremolio scuoteva il pavimento e faceva scricchiolare i mobili, e alla Camera i colleghi del primo banco si lamentavano perché faceva venir loro il mal di mare. Se le sue gambe nervose si fermavano, si mettevano in moto le lunghe dita, che si trastullavano senza posa con un tagliacarte oppure tamburellavano sulle ginocchia o sul bracciolo della poltrona. Non pranzava mai fuori e raramente dava dei ricevimenti, a parte uno o due, di carattere ufficiale, nella sua casa di città in Arlington Street e qualche garden-party a Hatficld. Evitava il Carlton, il club ufficiale dei conservatori, a favore del Junior Carlton, dove gli era

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riscn·a10 un tarnlo speciale e nella cui biblioteca erano appesi alle pareti cartelli con la scritta «silenzio». Lavorava dalla mattina fino all'una di notte, e dopo cena si rimetteva allo scrittoio come se iniziasse una nuova giornata. I suoi abiti erano trasandati e spesso sciatti. Portava calzoni e panciotto di un grigio funereo, sotto una giacca frusta di panno nero. Tuttavia era molto meticoloso per quel che riguardava il taglio della barba, e dirigeva attentamente le operazioni sulla poltrona del barbiere, pignoleggiando sul taglio mentre «artista e soggetto guarda\'ano attentamente nello specchio per giudicare i risultati». Sebbene fosse mordace e sarcastico, Salisbury esercitava sui colleghi e s·1i suoi pari un fascino personale che, come diceva uno di loro, «non era cc~to un vantaggio trascurabile nella condotta degli affari». Dedicava un'attenzione scrupolosa agli interessi del partito, ai quali sacrifica\'a perfino la sua libertà. Una volta stupì tutti accettando un invito al pranzo tradizionale dei sostenitori del partito, offerto dal Leader della Camera dei Comuni. Si informò precedentemente sulla vita di ogni ospite, e a pranzo affascinò il suo vicino di tavola, un noto agrario, con le sue profonde conoscenze sulla rotazione delle colture e l'allevamento del bestiame, e più tardi conversò affabilmente con tutti gli ospiti. Prima di andarsene chiamò il suo segretario e gli disse: «Credo di averli serviti tutti, sebbene non sia riuscito a identificare quello che, secondo lei, sarebbe una persona molto acuta». Gladstonc, il suo avversario politico più accanito, lo definiva «un grande gentiluomo, quando non è in pubblico». Nella vita privata era un personaggio piacevole e pieno di comunicativa, del tutto in contrasto con l'immagine ufficiale che egli dava di sé. A Salisbury non interessava il consenso popolare, poiché, dato che il popolo era ignorante, le sue opinioni erano per lui prive di valore. Ignorava il pubblico, e non possedeva, né cercava di coltivarlo, quel tocco personale che fa di un capo politico una inconfondibile personalità agli occhi dell'uomo della strada e gli vale soprannomi come «Pam» o «Dizzy», oppure il «Grande Vecchio». Lord Salisbury fu sempre chiamato dalla stampa e perfino da «Punch» soltanto lord Salisbury. Non tentò mai di nascondere il suo disprezzo per ogni tipo di folla, «compresa la Camera dei Comuni». Dopo essere stato trasferito alla Camera dei Lord, non tornò mai più alla Camera dei Comuni né per assistere ai dibattiti dalla Pcers' Gallery, né per scambiare quattro chiacchiere coi deputati nel Lobby, e se in un discorso alla Camcr.t dei Lord era costretto a riferirsi a essi, assumeva un tono sprezzante, con sommo divertimento di coloro che erano venuti dalla Camera dei Comuni per ascoltarlo. Ma questa era solo una posa esteriore destinata a sottolineare la sua profonda coscien-

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za di patrizio. In realtà, non aveva spirito di classe, era indifferente agli onori e a qualsiasi forma di riconoscimento. Lui era uno dei grandi Cccii, tutto qui, e fin dalla nascita si portava nel sangue e nelle ossa la consapevolezza di essere atto al governo: non vedeva quindi motivo di cedere questo diritto ad altri. Era entrato alla Camera dei Comuni all'età di ventitré anni, eletto a pieni voti da una circoscrizione elettorale controllata dalla sua famiglia (prassi comune per i figli dei nobili); durante i quindici anni trascorsi alla Camera dei Comuni era stato rieletto cinque volte dalla stessa circoscrizione, e poi era stato membro della Camera dei Lord per ventisette anni: aveva quindi ben poca esperienza nel procurarsi suffragi. Più che «verso» il popolo, si sentiva responsabile «di» esso, e lo considerava sotto la sua tutela. Se provava rispetto per qualcuno, era solo per chi stava in alto: i sovrani. Riveriva la regina Vittoria, più anziana di lui di una decina d'anni, sia come suddito che come uomo, in segno di omaggio verso la sua femminilità. Per lei mitigava la sua asprezza, anche se a Balmoral non riusciva a nascondere la noia. La regina a sua volta gli faceva visita a Hatficld e aveva di lui la massima considerazione, come disse al vescovo Carpcntcr: «Se non il più importante, è uno dei più importanti tra i miei ministri», èomprcso Disraeli. Salisbury, che non amava stare in piedi, era l'unico al quale lei permetteva di sedersi. Diversissimi tra loro, salvo il comune senso di comando, la piccola vecchia regina e l'alto, massiccio primo ministro pro\'avano, l'una per l'altro, un reciproco rispetto e una stima profonda. Nelle questioni di stato di secondaria importanza, come nel vestire, Salisbury era piuttosto sbrigativo. La volta in cui due ecclesiastici dal nome simile si presentarono come candidati allo stesso vescovato vacante, egli nominò quello che non gli era stato raccomandato dall'arcivescovo di Canterbury, e quando ci si lamentò con lui di questo fatto rispose: «Sono convinto che andrà bene ugualmente». Prestava la massima attenzione solo alle questioni più serie, prima fra tutte la conservazione dell'autorità aristocratica e del potere esecutivo, non per il proprio interesse, ma perché la riteneva l'unico elemento capace di mantenere la nazione compatta contro le nascenti fÒrze della democrazia, che, secondo lui, «dividevano il paese in tanti frammenti infidi e nemici fra loro». Le lotte di classe e la mancanza di religione rappresentavano per lui i mali peggiori e per questa ragione detestava il socialismo; non tanto perché esso rappresentava una minaccia alla proprietà, quanto perché predicava la lotta di classe e perché aveva basi materialistiche, che

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significavano per lui una negazione dei valori spiriturali. Non negava la necessità di riforme sociali, ma credeva che esse potessero essere raggiunte mediante la collaborazione e le pressioni dei partiti esistenti. La legge sull'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro a favore degli operai, per esempio, fu presentata e approvata col suo appoggio nel 1897, nonostante l'opposizione di alcuni membri del suo partito che vi vedevano una limitazione all'iniziativa privata. Lord Salisbury combatté contro tutte le proposte destinate a incrementare il potere politico delle masse. A trent'anni, quand'era ancora un figlio cadetto e non si aspettava di ereditare il titolo, espresse le sue teorie politiche in una trentina di articoli che vennero pubblicati sulla «Quarterly Review» agli inizi del decennio 1860-'70. A quel tempo, contro le crescenti istanze di una riforma per estendere il diritto di voto, lord Robcrt Cccii, poiché tale era allora, dichiarò che era compito del partito conservatore proteggere i diritti e i privilegi della classe dei possidenti come l'unico baluardo contro la forza delle masse. Estendere il diritto di voto significava, secondo lui, concedere al proletariato non soltanto una voce in Parlamento, ma una voce preponderante che avrebbe dato a «semplici numeri un potere inadeguato». Deplorava le lusinghe dei liberali alla classe dei lavoratori, «quasi questi fossero diversi dagli altri inglesi», quando in realtà l'unica differenza consisteva nel fatto che essi erano meno istruiti e più poveri; inoltre, diceva, «quanto minori sono i mezzi, tanto maggiore è il pericolo che si abusi del diritto di voto». Era convinto che la democrazia fosse pericolosa per la libertà, poiché in un regime democratico «le passioni non sono l'eccezione, ma la regola», ed era «assolutamente impossibile» affidare una politica obiettiva e illuminata a «uomini la cui mente non aveva l'abitudine del pensiero e la disciplina dello studio». Estendere il diritto di voto ai meno abbienti e aumentare le tasse ai ricchi, scriveva, avrebbe portato a una rottura definitiva tra il potere e ogni senso di responsabilità; «i ricchi avrebbero pagato le tasse e i poveri avrebbero fatto le leggi». Non credeva nell'uguaglianza politica. C'era la massa, diceva, e c'erano i capi «naturali». «La ricchezza, in qualche nazione il lignaggio e ovunque il potere intellettuale e culturale distinguono l'uomo che, in condizioni normali, una comunità sceglie per affidargli il proprio governo.» Questi µomini hanno a disposizione tempo e ricchezza «affinché la lotta per il potere non sia contaminata dalla sordida cupidigia ... Essi sono l'aristocrazia di un paese nel senso più alto della parola ... È essenziale che i governanti di una nazione siano scelti fra loro» e che, in quanto class~, essi conservino quella «supremazia politica che spetta loro di diritto, grazie alle loro capacità fuori del comune».

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Era così convinto di queste «capacità superiori>> che nel 1867, quando il governo conservatore adottò ta seconda legge sulla riforma elettorale, che raddoppiava l'elettorato e accordava il diritto di voto agli operai, Salisbury, trentasettenne, si dimise, dopo un anno di carica al governo, piuttosto che partecipare a quello che egli considerava un tradimento e una rinuncia ai principi conservatori. Lord Cranborne (questo era il titolo assunto da lord Robert Cccii in seguito alla morte del fratello maggiore, avvenuta nel 1865 ), vide con orrore il mutamento nella linea politica del suo partito, mutamento escogitato da Disracli con chiara mossa politica per sconfiggere i liberali e aderire maggiormente alla realtà del momento. A costo di rovinarsi la carriera, diede le dimissioni da ministro per l'India e in un discorso grave e amaro alla Camera si scagliò contro la politica dei capi del partito, lord Derby e Disraeli. Supplicò i deputati di non fare, per ottenere vantaggi politici, ciò che li avrebbe definitivamente distrutti come classe. «La ricchezza, l'intelligenza, la forza della comunità, tutto ciò che vi ha dato quel potere che vi rende tanto orgogliosi del vostro paese e che conferisce tanta importanza alle deliberazioni di questa Camera, saranno totalmente sopraffatti nel confronto numerico.» Ne sarebbero derivate questioni in cui gli interessi dei datori di lavoro e degli operai si sarebbero scontrati, questioni che si sarebbero potute risolvere solo con la forza politica, «e in tale conflitto di forze politiche voi state opponendo uno schiacciante numero di lavoratori a una sparuta minoranza di datori di lavoro». Questo scontro «ridurrà alla nullità politica e all'estinzione le classi che finora hanno contribuito così generosamente alla grandezza e alla prosperità del paese». Un anno dopo, alla morte del padre, egli entrò alla Camera dei Lord come terzo marchese di Salisbury. Nel 1895, dopo quasi trent'anni, i suoi principi non si erano minimamente modificati. Poiché non aveva fiducia nel progresso né fede nell'avvenire, si dedicò con cupo accanimento a conservare l'ordine prestabilito. Convinto che «la nobiltà, priva del potere di cui era originariamente il simbolo, fosse una mistificazione», lord Salisbury, fintanto che rimase al governo, combatté accanitamente ogni ulteriore attacco contro il potere di quella classe, di cui la nobiltà era ancora il simbolo vivente. Avvertendo l'avvicinarsi del nemico, si batté contro la nuova era. Le pressioni della democrazia incalzavano, ma non avevano ancora schiacciato la figura dell'uomo che lord Curzon aveva definito «quello strano, potente, impenetrabile, brillante, paralizzato peso morto al comando». I componenti della classe dirigente, per nulla turbati dalla mente

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troppo riflessiva, troppo previdente di lord Salisbury, in genere non si preoccupavano eccessivamente per l'avvenire; il presente era così piacevole. Alla fine dell'Ottocento, durante gli ultimi anni del regno della regina Vittoria, !'«età del privilegio», benché attaccata su vari fronti e già pericolante in alcune delle sue strutture, era ancora, apparentemente, in una condizione di stabilità. Ai privilegiati, la vita sembrava «sicura e comoda ... La pace regnava nel paese». Indubbiamente il bilancio redatto da sir William Harcourt nel 1894, approvato dai liberali durante il governo di lord Rosebery, l'inetto successore di Gladstone, fece tremare molti. Esso introdusse le tasse di successione, stabilendo- qui stava il peggio- un principio scalare in base al quale si pagava dall' l per cento per patrimoni di cinquecento sterline all'8 per cento per patrimoni di oltre un milione di sterline. Aumentò anche l'imposta sul reddito, da uno a otto pence per sterlina. Per mitigare il colpo e distribuire equamente gli oneri, esso impose anche una tassa sulla birra e sugli alcoolici, affinché le classi operaie, che non pagavano tasse sul reddito, contribuissero all'erario; tuttavia, ciò non servì ad attenuare il «rullo di tamburo» delle tasse di successione. L'ottavo duca di Devonshire predisse un'era, «che non credo possa protrarsi oltre la durata della mia vita», in cui le grandi proprietà, come la sua di Chatsworth, sarebbero state chiuse unicamente a causa delle «inesorabili necessità finanziarie della democrazia». Ma nel 1894 un evento più importante e, dal punto di vista dei conservatori, più felice, li compensò per il bilancio. Gladstone si ritirò dal Parlamento e dalla vita politica. Già ottuagenario, il suo ultimo tentativo di far approvare l'Home Rule fu bocciato alla Camera dei Lord da un'assemblea di pari indignati, riunitisi per l'occasione in numero di gran lunga superiore al consueto. Egli aveva irrimediabilmente diviso il suo partito; a ottantacinque anni era giunto alla fine della sua carriera. Con la vittoria dei conservatori, l'anno seguente, vi fu l'impressione generale, riportata dal «Times», che l'Home Rule, «quel seme piantato da Gladstone nella nostra vita politica, che ha minacciato di avvelenare l'intero organismo» fosse stato, almeno per il momento, accantonato. L'Inghilterra, quindi, poteva dedicarsi completamente alla pace e al lavoro. Le «influenze determinanti» erano ben salde nel paese. Le «influenze determinanti»: non era questa un'espressione del conservatore «Times» ma, strano a dirsi, proprio di Gladstone, che apparteneva alla piccola nobiltà terriera e non se ne dimenticò mai, né mai abbandonò la radicata convinzione che i beni comportassero delle responsabilità. Possedeva una proprietà di settemila acri a Hawarden,

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con duemilacinquecento fittavoli, che gli fruttava una rendita annua tra le dieci e le dodicimila sterline. In una lettera al nipote che doveva ereditare il patrimonio, il grande statista lo incitò a ricuperare le terre perdute a causa dei debiti delle generazioni precedenti, riportando Hawarden al suo antico ruolo di «autorità dominatrice» nella contea, poiché, come diceva, «la società non può permettersi di rimanere senza una guida efficace». Nessun duca sarebbe riuscito a esprimersi meglio. Questo era esattamente il punto di vista dei conservatori possidenti, che erano i suoi avversari più accaniti, ma coi quali, in fondo, condivideva la fede nelle «capacità superiori» che si trasmettono ereditariamente insieme con la proprietà terriera, convinto che esse fossero necessarie al paese. Tale credo era esattamente l'opposto dell'idea prevalente nei più moderni Stati Uniti, dove l'umile origine rappresentava già di per sé una potenziale virtù. Soltanto chi si era fatto da sé portava il segno esteriore del suo valore, mentre gli uomini di condizione privilegiata erano per lo più o stupidi o viziosi, se non entrambe le cose insieme. Invece gli inglesi, la cui evoluzione era avvenuta più lentamente attraverso generazioni di classi abbienti al governo, pensavano che se una sola famiglia deteneva il monopolio prolungato dell'istruzione, del benessere e del potere politico, ciò era solo una logica conseguenza delle «capacità superiori» dei suoi membri. Essi erano atti al governo, professione che, in Inghilterra più che altrove, era considerata la più nobile e la meglio adeguata a un gentiluomo. Fare da segretario privato a uno zio ministro, o a un altro parente, poteva costituire una seria preparazione per il Gabinetto dei ministri o semplicemente una conveniente occupazione per un gentiluomo, come era il caso di Schomberg McDonnell, segretario privato di lord Salisbury, fratello del conte di Antrim. Anche la diplomazia offriva una carriera brillante, spesso a persone di talento. Il marchese di Dufferin and Ava, ambasciatore d'Inghilterra a Parigi nel 1895, imparò da solo la lingua persiana e sul diario di quell'anno scrisse che oltre a leggere undici commedie di Aristofane in greco, aveva imparato a memoria 24.000 parole da un dizionario persiano, «8000 perfettamente, 12.000 discretamente, e 4000 in modo imperfetto». Il servizio militare in uno dei reggimenti d'élite della Guardia o degli Ussari o dei Lancieri era una carica altrettanto ambita dai giovani ricchi e nobili, sebbene attraesse i meno dotati intellettualmente. I meno ricchi finivano nel clero o nella Marina, mentr~ la magistratura e il giornalismo attraevano solo coloro per i quali la conquista del potere era una dura necessità. Ma il Parlamento, soprattutto, era la naturale, ambita sfera per l'esercizio delle «superiori capacità». Un seggio in Parlamento era l'unico modo

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per entrare a far parte del Gabinetto e ciò sig~ificava la possibilità di conquistare potere e prestigio, nonché l'onore di divenire membro del Consiglio della corona e, al culmine della carriera, un titolo nobiliare. Il Consiglio della corona, composto di 235 leader per i vari settori, pur espletando delle funzioni di etichetta puramente formali, era il simbolo e\'idcnte di ciò che contava nel paese. Un titolo nobiliare era ancora considerato il magico manto che distingueva un uomo dai suoi simili. Le cariche ministeriali erano altamente ambite ed erano oggetto di laboriose manovre sotterranee. A ogni cambiamento di governo, niente assorbiva tanto l'attenzione della società britannica quanto il complicato gioco della sua formazione. Circoli e salotti brulicavano di pettegolezzi, si formavano e si disfacevano cricche e alleanze, e i vincitori ne uscivano fieri, cinti del lauro della fortuna. La vittoria richiedeva lunghe ore di larnro, sebbene quasi mai una profonda conoscenza del ministero. La funzione di un ministro non era quella di eseguire un la\'oro, ma di badare a che esso fosse fatto: comportandosi, cioè, come faceva nell'amministrare le sue proprietà personali. Particolari come i punti decimali, 1 che lord Randolph Churchill, quand'era Cancelliere dello Scacchiere, trascurava chiamandoli «quei dannati puntini», non lo riguarda\'ano affatto. Quasi tutti i membri del go,·crno Salisbury - per non dire tutti usufruivano di terre, ricchezze e titoli ereditati: la loro partecipazione al gO\·erno non mirava quindi a ottenere vantaggi economici. Infatti, secondo il loro punto di vista, era giusto e necessario che gli affari pubblici \'cnissero amministrati, come diceva lord Salisbury, da uomini insensibili alla «contaminazione della sordida cupidigia». Una carriera parlamentare, che naturalmente non era retribuita, non offriva possibilità di guadagno, brnsì di prestigio. La Camera dei Comuni era il centro della capitale, dell'impero, della società; il suo ambiente era il migliore del regno. Gli uomini erano spinti a entrar\'i dall'ambizione, oltre che dal senso del dovere; per di più, era una specie di meta predestinata. In Parlamento i figli si susseguivano ai padri, e talvolta ne face\'ano parte contemporaneamente. J ames Lowthcr, Deputy Speaker della Camera dei Comuni dal 1891 al 1905, e in seguito Speaker, proveniva da una famiglia che a,Tva rappresentato le circoscrizioni elettorali del Westmorland quasi inintcrottamcnte per sci secoli. Suo nonno e suo bisnonno a\'e\'ano avuto un seggio in Parlamento per mezzo secolo ciascuno, e suo padre per \Tnticinque anni. Il rappresentante di una contea in 1 Ricordiamo che in inglese- i dc-cimali sono se-parati dagli interi da punti, anziché da ,·irgolr. [.\".d.R.]

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Parlamento era di solito qualcuno la cui dimora era nota nel raggio di cento chilometri come «thc Housc», 1 la cui famiglia era celebre nel distretto da parecchie centinaia d'anni, e che a sua volta era conosciuto fin dalla nascita. Poiché le spese della candidatura, l'elezione e il mantenimento di una circoscrizione elettorale erano a carico del deputato medesimo, il privilegio di rappresentare il popolo in Parlamento era un lusso limitato quasi esclusivamente alla classe che poteva permetterselo. Dei 670 membri della Camera dei Comuni nel 1895, 420 erano gentiluomini che vivevano di rendita, proprietari terrieri, funzionari e avvocati. Tra di essi vi erano ventitré primogeniti di nobili, oltre ai loro innumerevoli figli, cadetti, fratelli, cugini, nipoti e zii, incluso lord Stanlcy, crede del sedicesimo conte di Derby che, dopo i duchi, era il più ricco pari d'Inghilterra. Come giovane membro del governo, Stanlcy era costretto a fare una politica di corridoio, a blandire o a importunare i vari membri per convincerli a votare una legge, sebbene a lui personalmente non fosse permesso l'ingresso nella Camera durante le votazioni. Era come se fosse, scrisse un osservatore, «un valletto di alta classe». Vedere «questo crede di un grande e storico nome e di una vasta fortuna svolgere questo lavoro alquanto servile» era la prova sia di un forte senso del dovere politico che delle lusinghe offerte dalla carriera politica. La classe dirigente non allevava soltanto capi. Essa produceva, come ogni altra classe, anche gli incapaci e gli spostati, i cattivi o semplicemente gli stupidi. Oltre ai primi ministri e conquistatori d'imperi aveva i suoi parassiti e sfaccendati, i suoi logori «Reggie» e «Algie», messi in caricatura da «Punch» mentre discutevano di panciotti e cravatte, i suoi ufficiali della Guardia dalle lunghe gambe e dalla conversazione limitatissima, i suoi fannulloni che dissipavano il patrimonio in bagordi o al gioco o alle corse, come pure una grigia schiera di mediocri che non concludevano nulla né in bene né in male. Perfino Eton aveva i suoi «amorfi», ragazzi che, secondo le parole di un ctoniano, erano «semplicemente degli clementi inutili ... se non proprio pessimi, per lo meno assai limitati, e probabilmente degenerati». Sebbene un «amorfo» a Eton potesse, trent'anni dopo, diventare membro del Consiglio della corona, alcuni restavano amorfi per tutta la vita. Uno dei nipoti di lord Salisbury, Cccii Balfour, scomparve in Australia per aver falsificato un assegno e morì laggiù, si disse, alcoolizzato. Nonostante simili incidenti, le famiglie privilegiate non avevano 1

Cioè, la «casa» e la «Camera dei Comuni». [.\".d.R.]

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dubbi sul loro innato diritto a governare e, in fondo, non ne aveva neppure il resto del paese. Essere pari, scriveva nel 1895 un loro esemplare pittoresco, lord Ribblesdale, «è sempre una cosa importante». Noto come «l'Antenato» per via della sua aria Regency, Ribblcsdale era il prototipo del patrizio, tanto chejohn Singer Sargent, glorificatore della stirpe, si offrì di fargli il ritratto. Dipinto a grandezza naturale, nel costume di Gran Maestro di caccia della regina, nella lunga giacca da cavallerizzo, il cappello a cilindro, gli stivali lucenti, il Ribblesdale di Sargent fissava il mondo con un'arroganza, uno stile e una sicurezza quàle nessun uomo in tempi più moderni avrebbe potuto ostentare. Quando il quadro fu esposto al Salon de Par=r e.Ribblcsdale andò a vederlo, fu seguito di sala in sala da un'ammirata folla francese che, riconoscendo il soggetto del ritratto, lo indicava bisbigliando: «Ce

grand diable de milord anglais». L'apertura della settimana delle corse ad Ascot, quando lord Ribblesdale guidava la processione reale lungo il verde ippodromo, in giacca verde scuro con la cintura dorata, era uno spettacolo indimenticabile. Come rappresentante liberale alla Camera dei Lord, membro attivo del consiglio di contea della città di Londra e membro del consiglio d'amministrazione della National Gallery, anch'egli ebbe la sua parte di potere. Come molti della sua classe, era dotato di un'enorme comunicativa col personale addetto al servizio degli sport e delle proprietà dei nobili. Quando la regina premiòj. Miles, uno staffiere dei Cacciatori, con una medaglia in onore dei cinquant'anni di servizio, Ribblesdale si precipitò a casa sua per congratularsi con lui e si trattenne per «il tè e quattro chiacchiere con la signora Miles». Come egli stesso scrisse del gentiluomo medio, «il benessere di cui gode fin dall'infanzia favorisce la formazione di un temperamento allegro ... Essere soddisfatti di se stessi può essere indice di egoismo o di stupidità, ma raramente desta antipatia, anzi spesso è proprio il contrario». Malgrado la tendenza di certa stampa liberale a vedere nei nobili degli esseri «avviliti a forza di battere i talloni e chinare la fronte» essi conservavano ancora, secondo Ribblesdale, il rispetto delle loro contee. Immedesimandosi coi problemi della loro gente, curandone gli interessi, mantenendo rapporti cordiali coi fittavoli, i contadini e i commercianti, difficilmente avrebbero potuto «perdere il prestigio di un antico nome e di una tradizionale esperienza». Tuttavia, malgrado questo quadro rassicurante, anche Ribblesdale avvertì i lontani fermenti e trent'anni dopo scelse come motto per le sue memorie l'affermazione di Chateaubriand: «Ho difeso quel forte amore per la libertà che è proprio di un'aristocrazia, la cui ultima ora è suonata».

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L'estate era il periodo in cui la stagione londinese era all'apice e l'alta società si divertiva e faceva mostra di sé nel suo pieno splendore. Secondo un nobile parigino, pareva che «nei mesi di giugno e luglio una schiera di dèi e di dcc scendesse dall'Olimpo in Inghilterra». Essi sembravano «vivere in una nuvola dorata, e spendevano le loro ricchezze con la stessa naturalezza con cui le foglie diventano verdi». Nella scia del principe di Galles, seguiva una «schiera di candidi cigni, i cui lunghi colli sorreggevano delicate teste gemmate», che portavano i nomi di lady Glcnconner, della duchessa di Lcinster e di lady Warwick. La duchessa, che morì giovane intorno al 1880, era, secondo l'espressione di lord Ernest Hamilton, «divinamente alta ... di una bellezza talmente abbagliante da sembrare quasi irreale». Colei che ne ereditò lo scettro, la contessa di Warwick, la «più deliziosa signora di Londra», era innamorata del principe di Galles e fu la causa di un noto scandalo in cui lord Charlcs Bcrcsford per poco non colpì il suo futuro sovrano. In un giornale dell'epoca, fu descritta come «una dea dalla figura opulenta, drappeggiata in veli fluttuanti, dalla bellezza altera e luminosa, la cui fama era penetrata nei più profondi recessi di quel placido paese». Era una «bellezza>>, un titolo magico a quei tempi, che conferiva a colei che lo portava una vasta rinomanza. «Alzati, Daisy,» le gridava sua madre quando la loro nave attraccava dopo una burrascosa traversata del Mare d'Irlanda «la folla ti sta aspettando.» Nei palazzi di Berkeley e Bclgravc Squarc era un costante andirivieni. Nessuno, a meno che fosse moribondo, se ne stava in casa. La giornata iniziava alle dicci con una galoppata al parco e terminava con un ballo alle tre del mattino. C'era un certo punto privilegiato, a Hyde Park, tra l'Albcrt e il Grosvcnor Gatc, dove l'élite dell'alta società sapeva di poter incontrare i suoi pari per la cavalcata mattutina o per la corsa in carrozza pomeridiana fra l'ora del tè e quella del pranzo. Londra conservava ancora il suo aspetto georgiano. Le case e le piazze che prendevano nome dalle famiglie che vi abitavano erano tutte smaglianti di fiori: Dcvonshirc House e Lansdowne Housc, Grosvenor Square e Cadogan Piace. Splendidi equipaggi affollavano le strade. Le dame guidavano le loro «vittorie», con a fianco un cocchiere impettito, che di tanto in tanto dava una frustatina supplementare ai cavalli, mentre passavano sotto gli sguardi ammirati degli uomini affacciati alk finestre dei club, che sospiravano e bisbigliavano tra loro: «Che spettacolo, vedere una bella donna guidare una coppia di cavalli ben appaiati per le vie di Londra!». Lungo un'altra strada arrivava al trotto la Guardia reale in giubba scarlatta e calzoni bianchi, su cavalli neri con briglie e cavezze lucenti e tintinnanti. Slanciate sagome di carrozzelle a

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due ruote trasportavano i noti profili degli statisti e dei frequentatori di club nel loro giro di visite alle grandi famiglie o ai club di Pali Mali e di Piccadilly: il Carlton per i conservatori, il Reform per i liberali, l'Athenaeum per la gente di classe, il Turf per gli sportivi, il Travellers' o il White's, il Brooks's o il Broodle's per gli incontri tra gente avente gli stessi interessi. Gli affari del governo e dell'impero si discutevano nel «migliore club di Londra», la Camera dei Comuni, che funzionava tutto l'anno. La sua biblioteca, la sala da fumo e la sala da pranzo, i servitori, i valletti e le cantine, tutto era della qualità più adatta alla professione di gentiluomo. Dame dai cappelli a grandi tese e dalle gonne a strascico sorbivano il tè coi deputati e i ministri sulla terrazza sovrastante il Tamigi, donde potevano ammirare l'episcopale dignità di Lambeth Palacc al di là del fiume, e discutere di avanzamenti politici. Alle tavole sontuosamente addobbate dei pranzi privati, con un cameriere alle spalle di ogni commensale, i gentiluomini in cravatta bianca e frac conversavano con le signore dalle candide spalle avvolte in nuvole di veli, le acconciature elaborate cosparse di stelle e diademi. La conversazione non era casuale, ma un'arte «in cui l'abilità conferiva prestigio». All'opera, resa di moda dalla sua energica patronessa, lady dc Grey, Ncllie Mclba cantava duetti amorosi con la pura, angelica voce da soprano, assieme allo splendido idolojean dc Reszke. Nel palco reale spiccava - visione splendente in uno scollato abito di velluto lady Warwick, con «solo qualche brillante sul mefistofelico abito scarlatto», e con una aigrette scarlatta nei capelli. Ben presto iniziava una lotta serrata di lorgnettes per vedere cosa indossasse lady dc Grey, che le contendeva la palma dell'eleganza. Più tardi, ai ricevimenti di quest'ultima, chiamati «la bohème col diadema», tra gli ospiti era facile incontrare Mmc Melba in persona, il principe di Galles e, prima del fatale 1895, Oscar \\Tilde. Tutte le sere vi erano ricevimenti ufficiali o balli che si protraevano fino all'alba. In cima a una vasta scalinata, la duchessa di Devonshire o lady Londonderry, le due arbitre dell'alta società, scintillanti di gioielli, ricevevano una schiera brillante di ospiti, mentre un maggiordomo annunciava con voce stentorea un'orgia di titoli: «Sua Grazia ... Sua Altezza ... Il molto onorevole ... Lord e lady ... Sua Eccellenza l'ambasciatore di...». Giù nella piazza illuminata, un valletto aveva l'incarico di chiamare a gran voce le carrozze dei gentiluomini che si congedavano. L'alta società era divisa in vari settori, i cui limiti spesso coincidevar:o e i cui membri si mescolavano. Alla testa della società gaudente - il gruppo di Marlborough House- si trovavano il sigaro e la pancetta, la

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faccia prognata da Hannover incorniciata da una corta barba grigia, la figura opulenta eppure regale del principe di Galles. Ecletticr>, socievole, estremamente annoiato (come tutti coloro che soffrivano a causa della piatta monotonia del regime austero imposto da sua madre) il principe apriva la sua cerchia aristocratica a una varietà di clementi eterogenei, purché fossero belli, ricchi o divertenti: americani, ebrei, banchieri o agenti di cambio, perfino qualche industriale, esploratori o altre celebrità dell'epoca. Il principe frequentava chiunque: tra i suoi amici personali figuravano alcuni tra gli uomini più illustri della nazione, come l'ammiraglio sir John Fisher, cd era un'infame- calunnia asserire che non leggeva mai. Certo, preferiva Marie Corelli a qualsiasi autore contemporaneo; tuttavia lesse il primo libro di Winston Churchill, The Malakand Field Force, col «massimo interesse», e inviò premurosamente all'autore un commento elogiativo in cui dichiarava òe la costruzione e lo stile erano nell'insieme eccellenti. Ma, tutto sommato, nella sua cerchia, gli intellettuali e i letterati non erano graditi e l'intelligenza poco apprezzata, poiché, secondo lady Warwick, l'alta società, o quel particolare settore di essa, «non voleva essere costretta a pensare». Era una società amante dei piaceri, irresponsabile, superficiale e prodiga. I nuovi venuti, soprattutto gli ebrei, erano poco graditi, «non perché fossero antipatici come persone, anzi, alcuni di loro erano simpatici e persino brillanti, ma perché avevano cervello e s'intendevano di finanza». Ciò era doppiamente seccante perché quella società non aveva tanto voglia di far soldi, quanto di spenderli. Alla destra della società frivola c'erano gli «incorruttibili», i rigidi, i reazionari, fortemente consci del loro rango: famiglie di antico lignaggio che consideravano la cerchia del principe di Galles «volgare», e se stessi come coloro che tenevano su il tono dell'alta società. Ogni famiglia era circondata da una schiera di parenti di campagna, di condizione inferiore, che facevano la loro comparsa a Londra una o due volte ogni vent'anni per mettere in mostra una figlia da marito, ma che per il resto vivevano ancora nel clima del Settecento. Alla sinistra c'erano gli «intellettuali» o le «menti», che si raccoglievano in adorazione intorno al loro astro, Arthur Balfour, nipote di lord Salisbury, l'uomo più brillante e più celebre di Londra. Era un gruppo di persone particolarmente colte, consapevoli della propria intelligenza cd estremamente sicure di sé. Godevano della compagnia reciproca allo stesso modo in cui persone eccezionalmente belle godono nello specchiarsi. «Voi tutti sedete intorno a questa tavola per parlare delle vostre menti» osservò lord Charles Beresford a un pranzo nel 1888. «Ebbene, vi chiamerò le "menti"», e così ru. Ammiraglio, brillante

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ornamento del gruppo del principe di Galles, lord Charlcs non apparteneva a questi intellettuali, benché avesse sposato una donna stravagante che portava un diadema con gli abiti da pomeriggio e che ru ritratta da Sargcnt con due paia di sopracciglia, perché, come spiegò laconicamente il pittore, ne aveva effettivamente due, uno vero e l'altro disegnato sopra con la matita. Le «menti» seguivano la carriera politica, e quasi tutte facevano parte del Gabinetto di lord Salisbury. Uno dei più notevoli tra loro era Georgc Wyndham, che aveva scritto un saggio sui poeti francesi e l'introduzione al Plutarco di North, e dopo essere stato segretario privato di Balfour, era stato nominato·sottoscgrctario al ministero della Guerra nel 1898, nonostante il commento di disapprovazione di lord Salisbury: «Non mi piacciono i poeti». Gcorgc Curzon, sottosegretario al ministero degli Affari Esteri, e in seguito viceré dell'India, era anch'egli una «mente», come pure St. John Brodrick, che doveva diventare ministro della Guerra. Entrambi erano credi di titoli nobiliari e protestarono invano contro la loro sorte predestinata di deputati alla Camera dei Lord. Altri appartenevano al gruppo dei Tcnnant: Alfrcd Lyttclton, campione di cricket, futuro ministro delle Colonie, che era il vedovo di Laura Tcnnant; lord Ribblesdale che era il marito di Charlotte Tcnnant; e la spregiudicata terza sorella Margot, al cui matrimonio col dimissionario ministro dell'Interno, il liberale Asquith, erano stati testimoni due cx primi ministri, Gladstonc e lord Roscbcry, e due foturi primi ministri, Balfour e il testimonio dello sposo. Un membro di grande successo era Harry Cust, crede della baronia di Brownlow, letterato e atleta dotato d'intelligenza brillante cui, grazie alla sua reputazione, e malgrado non avesse esperienza in quel campo, venne offerto a un pranzo il posto di direttore del «Pall Mail Gazette»; egli accettò immediatamente e ricoprì la carica per quattro anni. L'amore per le donne - sulle quali esercitava un fascino irresistibile- gli rovinò fatalmente la carriera. L'alta società era ristretta e omogenea e la sua condicio sine qua non era la terra. Perché un estraneo potesse penetrarvi, era essenziale, come prima cosa, che acquistasse una proprietà e vi si stabilisse, sebbene neppure questo garantisse sempre il successo. Quando John Morlcy, allora ministro di Gabinetto, andò a visitare Skibo, dove Andrcw Carncgic aveva costruito una piscina, condusse con sé un investigatore e gli chiese la sua opinione. «Ebbene, signore» rispose con saggezza l'investigatore «a mc pare di fiutare il parvenu». Nel «brillante e potente corpo», come lo chiamava Winston Churchill, delle duecento grandi famiglie che governavano l'Inghilterra da

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generazioni, tutti si conoscevano, o erano imparentati tra loro. Poiché le circostanze e gli agi imponevano ai nobili di continuare la stirpe, essi formavano grandi famiglie; cinque o sci figli, era un fatto comune; sette o otto, un po' insolito, e nove o più, raro ma non impossibile. Il duca di Abcrcorn, padre di lord Gcorgc Hamilton, all'epoca del governo Salisbury, aveva sci figli e sette figlie; il quarto barone di Lyttclton, cognato di Gladstonc e padre di Alfred Lyttelton, aveva otto figli e quattro figlie; il duca di Argyll, ministro per l'India sotto Gladstonc, dodici figli. Come risultato dei matrimoni di tanti fratelli, e dei numerosi secondi matrimoni, ognuno era imparentato con dozzine di altre famiglie. Le persone che s'incontravano ogni giorno nei salotti, alle corse e a caccia, a Cowes per la regata, alla Royal Academy, a corte o in Parlamento, il più delle volte s'incontravano col secondo cugino, o con lo zio del cognato, o con la sorella del patrigno, o col nipote della zia acquisita. Quando un primo ministro formava un governo, era quasi inevitabile, e non per questioni di nepotismo, c)le alcuni tra i componenti del suo Gabinetto fossero imparentati con lui o tra loro. Nel governo del 1895 lord Lansdowne, ministro della Guerra, era sposato con una sorella di lord Gcorge Hamilton, ministro per l'India, e la figlia di Lansdowne era sposata col nipote cd crede del duca di Devonshire, che era Lord Prcsident of the Council. I governanti della nazione, diceva un tale, «si conoscevano intimamente tra loro a prescindere da Wcstminster». Erano stati a scuola insieme, in uno dei due college principali, il Christ Church di Oxford o il Trinity College di Cambridge. Quelli erano vivai di primi ministri: vedi Rosebcry e Salisbury al Christ Church, e i loro immediati successori Balfour e sir Hcnry Campbell-Bannerman al Trinity College. Tutta\'ia, la serra della scienza politica era Balliol, il cui potente direttore, Bcnjaminjowett, dedicava con passione il suo talento didattico a discepoli intelligenti, «la cui posizione sociale potesse metterli in grado di ottenere alte cariche nell'amministrazione pubblica». Christ Church, noto semplicemente come «the Housc», era il College della ricca aristocrazia terriera. Durante l'adolescenza degli uomini che governarono intorno al 1890, fu diretto dal decano Liddell, uomo dotato di bellezza singolare, di modi raffinati e di uno straordinario savoir-faire, la cui figlia Alice era molto ammirata da un oscuro professore di matematica, un certo Charles Dodgson. 1 Le principali attività della «Housc» erano la caccia alla \'olpe, le corse, una specie di cricket 1 Cioè-, Charks Lutwiclgl' Dudgsun ( 1832-1898). più nutu suttu lu psl'udunimo di Lcwis Carrull, autore di .-llict ntl pnm dtllt mtrariglit. [.\'.d.R.)

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dilettantesco e «infiniti pranzi prelibati in compagnia dei migliori commensali del mondo>>. Quando questi gentiluomini nell'età avanzata scrissero le loro memorie, le prime pagine erano zeppe di note che identificavano, nei vari Charles, Arthur, Willìam e Francis dei giorni di scuola dell'autore, il «futuro capo di Stato Maggiore dell'impero» o il «futuro vescovo di Southampton» o lo «Speaker della Camera» o !'«ambasciatore ad Atene», secondo il caso. Attraverso anni di familiarità, essi si conoscevano intimamente e potevano chiedersi reciproci favori. Quando nel 1898 Winston Churchill, a ventitré anni, volle partecipare alla spedizione nel Sudan nonostante la ferma opposizione del comandante in capo, sir Herbert Kitchener, il suo progetto non restò irrealizzato. Il nonno di Winston, settimo duca di Marlborough, era stato collega di Salisbury sotto Disraeli, e lord Salisbury, come primo ministro, ascoltò benevolmente il giovane e gli promise il suo appoggio. Poiché l'intervento era urgente, Winston ricorse al segretario privato, sir Schomberg McDonnell, «che aveva conosciuto e frequentato in società fin da ragazzo». Lo trovò che si stava vestendo per un pranzo e quando seppe il motivo della visita, quell'uomo cortese disse: «Me ne occuperò immediatamente» e uscì tralasciando il pranzo. Così si risolvevano le questioni. Il modello secondo il quale i gentiluomini venivano educati era identico, e il suo obiettivo non era necessariamente lo spirito scientifico o la mente rigorosa, ma «una dignità» aristocratica che conferiva a chi la possedeva il diritto di appartenere alla nobiltà inglese e gli infondeva la fede incrollabile che quello fosse il bene più alto dell'uomo sulla terra. Come tale, questa dignità obbligava colui che ne era il depositario a mantenersi al suo livello. Ogni studente dì Eton, nella sua camera, aveva appeso il famoso quadro di lady Butler sul disastro di Majuba Hill, in cui figurava un ufficiale che correva alla morte con la spada sguainata, al grido di «Floreat Etona!». Da qui derivava probabilmente, come hanno rilevato alcuni, la preponderanza del coraggio sulla strategia negli ufficiali inglesi. Tuttavia, essere un etoniano significava «assorbire un senso di facile superiorità e lasciarsi cullare dalla coscienza di possedere una supremazia assoluta». Protetti da questa armatura, coloro che la indossav~no erano pienamente sicuri del loro mondo e compiangevano chiunque ne fosse escluso. Una volta che sir Charles Tennant e un suo compagno di golf stavano preparandosi a tirare, e vennero interrotti bruscamente da uno sconosciuto che li aveva sorpassati e stava poggiando la palla sul supporto, sir Charles così calmò il compagno che stava per espio-

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dere furibondo: «Non si arrabbi con lui: magari non è un vero gentiluomo, poveretto!». Questa magica condizione era invidiata e imitata con zelo dall'aristocrazia continentale (tranne forse dai russi, che parlavano francese e non imitavano nessuno). I nobiluomini tedeschi sposavano dame inglesi e indossavano cappotti di tweed, mentre in Francia la vita ddl'haut monde gravitava intorno alJockcy Club, i cui membri giocavano a polo, bevevano whisky e si facevano ritrarre in tenuta di caccia da Hdleu, l'equivalente francese di Sargent. Non a caso il loro ammirato modello era immaginato in termini equestri. Il gentiluomo inglese era inconcepibile senza il suo cavallo. Fin da quando il primo uomo a cavallo acquistò altezza e velocità (e, con l'invenzione delle staffe, un maggior potere di lotta) il cavallo distinse il dominatore dal dominato. L'uomo a cavallo era il simbolo di dominio, e in nessun altro ambiente al mon. Era questa qualità, diceva Balfour, che Hartington possedeva «più di chiunque altro», che gli dava grande ascendente sul pubblico, lo rendeva indispensabile al governo e, sia al consiglio di Gabinetto che in Parlamento o sulle pubbliche tribune, «gli dava una posizione dominante in qualsiasi assemblea». Il duca avrebbe preferito trovarsi altrove, poiché intraprese il duro lavoro e si sobbarcò alle ore di sacrificio inerenti alla sua carica più per dovere che per vocazione. Però era ricompensato dalla fede che la regina e il paese riponevano in lui come una delle colonne su cui si fondava lo stato. «La regina non può concludere questa lettera» gli scriveva Vittoria nel 1892 «senza esprimere al duca ... quanta fiducia abbia nelle sue capacità di mantenere la sicurezza e l'onore del suo vasto impero. Tutti dobbiamo unirci»- la lettera terminava con questa semplice dichiarazione di fiducia - ((in questo grande compito.» Il duca ((si univa» senza eccessivo entusiasmo. «Mai adirato, sebbene spesso annoiato», secondo un amico; «prende le cose con estrema disinvoltura», secondo un altro. Alcuni sostenevano che la sua apatia fosse pigrizia, altri invece che fosse una ben calcolata riluttanza ad alfrettare i tempi; in ambedue i casi era sottolineata dall'abitudine di andarsene a dormire lasciando tutto a mezzo. Perfino i propri discorsi lo annoiavano, e una volta, parlando sul bilancio indiano, s'interruppe, si protese verso il collega più vicino, e solfocando uno sbadiglio, bisbigliò: «È maledettamente noioso». ,.

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La sua unica passione erano le corse, sebbene mantenesse anche per passione, abitudine o indolenza, non si sa - una relazione con «una delle più belle donne d'Europa», com'era, quando i due si conobbero, la prepotente, ambiziosa Louise, duchessa di Manchester, tedesca di nascita. Il suo primo marito l'aveva delusa, dissipando le sue sostanze; tutta\'ia questi, fedele alle consegne della sua casta, aveva rinunciatoo era stato persuaso a rinunciare- a qualsiasi azione legale, permettendo che la moglie e lord Hartington se la spassassero insieme, conservando una posizione sociale inattaccabile. Quando Manchester morì, la sua vedova sposò l'ex lord Hartington, che aveva appena ereditato il titolo di duca di Dcvonshirc. Nota come la «doppia duchessa», continuò a usare i suoi talenti eccezionali per il suo scopo principale: fare dd marito il primo ministro di Gran Bretagna. Il duca non le da\'a l'aiuto necessario. Non era uno di quegli uomini, in cui l'ardente ambizione per le cariche più alte elimina qualunque altra aspirazione. Quando, dopo che egli ebbe guidato i liberali unionisti fuori del partito, lord Salisbury gli offrì due volte la carica nel suo governo, lord Hartington rifiutò di nuovo, poiché non era ancora preparato ad affrontare la coalizione. Tuttavia nel 1895, essendosi accentuata la frattura fra liberali moderati e radicali, e poiché l'abitudine di ,·otarc d'accordo coi conservatori aveva gettato un ponte tra i due partiti, il duca assieme ad altri quattro liberali unionisti entrò nel go\'crno Salisbury. Si trattava del go\'crno conservatore - anzi unionista- che entrò in carica nel 1895. A \\'indsor ci si aspettava che si verificasse una situazione difficile quando il duca e gli altri cx liberali, giunti come membri del ministero Salisbury a ricevere la conferma dell'incarico, sarebbero usciti passando da\'anti agli cx colleghi di partito. Per evitare ogni imbarazzo, il segretario pri\'ato della regina dispose con fine diplomazia che i liberali uscenti consegnassero i sigilli alle undici di mattina, mentre i nuovi ministri aspettavano in un'altra sala che i predecessori se ne andassero. Tutto sarebbe filato liscio se non fosse stato per il duca, che, in ritardo come al solito, sbagliò sala e s'incontrò coi vecchi colleghi che stavano uscendo, i quali lo bersagliarono di frecciate sui suoi nuo\'i amici. «Nessuna faccia era più adatta della sua a una situazione difficile» scrisse un testimone, poiché il duca, assolutamente imperturbabile, «passò tra loro a bocca spalancata e con gli occhi semichiusi». I Cavcndish discendevano da un antenato che era stato ChicfJ usti ce ofthc Court ofKing's Bcnch durante la rivolta contadina del 1381. Suo figlio John era l'uomo che aveva ucciso Wat Tyler, gesto per cui era

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stato fatto cavaliere sul posto da Riccardo II, mentre il padre veniva trascinato altrove dalla folla e decapitato per vendetta. Con profondo senso del dovere, se non con entusiasmo, i Cavendish, attraverso i secoli, avevano contribuito al governo del paese. Il quarto duca fu per breve tempo primo ministro, dal 1756 al 1757, mentre Pitt e Newcastle si battevano tra loro, ma si dimise non appena poté essere sostituito. Suo fratello, lordjohn Cavendish, fu due volte Cancelliere dello Scacchiere, meritandosi l'elogio di Edmund Burke «per la profonda integrità ... e il perfetto disinteresse»; Burke tuttavia sperava che lord John volesse «risolversi a partecipare regolarmente agli affari» e si concedesse soltanto «una ragionevole parte di caccia alla volpe», e nient'altro. Il quinto duca si distinse per aver sposato l'incantevole Georgiana, duchessa di Devonshire, che Gainsborough ritrasse in un alone di luce contro uno sfondo temporalesco, e Reynolds dipinse ridente con un pargoletto lungovestito sulle ginocchia. La sua bellezza, il suo fascino irresistibile erano eccezionali, così come erano eccessivi i suoi debiti di gioco, che costarono al marito un milione di sterline. Fortunatamente, i Cavendish erano una delle due o tre famiglie più ricche del regno. Quando l'amministratore dovette con rammarico informare il quinto duca che il suo erede, il lord Hartington del momento, era > il duca rispose: «Meglio così: lord Hartington avrà una quantità di denaro da spendere». Nel duca del 1895, né la fortuna, né la posizione di figlio maggiore, né la riluttanza a impegnarsi , né il desiderio di seguire le proprie inclinazioni per le corse dei cavalli erano sufficienti a soffocare «certi istinti politici ereditari». Sentiva di «avere con lo stato un debito che doveva pagare». Questa sensazione, che non sfuggiva a coloro che lo conoscevano, aveva le sue radici non solo nelle proprietà di famiglia, ma anche nella coscienza di possedere delle «capacità superiori». Suo padre, studioso di matematica e di lettere, celebre come il duca «letterato», Io aveva educato a casa. In seguito era stato al Trinity College di Cambridge, e nonostante quella vita pigra, sportiva, brillante tra gli studenti universitari nobili, lord Hartington fu l'unico del suo gruppo a laurearsi con lode in matematica. Entrò in Parlamento a ventiquattro anni e ottenne la sua prima carica di governo a trenta. Suo fratello, lord Frederick Cavendish, abbracciò egli pure la carriera politica e nel 1882 fu assassinato in Phoenix Park a Dublino, il giorno stesso in cui aveva assunto le sue funzioni di ministro per l'Irlanda. L'uccisione di un ministro inglese da parte di ribelli irlandesi suscitò un'impressione grave come la morte del generale Gordona Khartum. Probabilmente a causa dell'assassinio del fratello, o per altre ragioni meno chiare, il duca

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prese l'abitudine di portarsi sempre appresso una pistola carica, e questa era fonte di preoccupazione perenne per la sua famiglia. «Le perdeva in continuazione e ne acquistava sempre di nuove» scrisse suo nipote «e cc n'erano in giro non meno di una ventina, a Devonshire House, quando morì.» Con l'avvento della duchessa, una infaticabile padrona di casa, i ricevimenti a Devonshire divennero i più sontuosi dell'alta società. Tutti gli anni, all'apertura del Parlamento, il duca e la duchessa davano un gran ricevimento. Tutti gli anni, il giorno del Derby, Dcvonshirc Housc, piena di rose e di fiori raccolti nei giardini del duca, era lo scenario di uno splendido ballo. Prima del ballo, il re offriva un pranzo ai membri del Jockcy Club a Buckingham Palace, mentre la regina partecipava al pranzo della duchessa. Nell'anno del Giubileo, il 1897, il ballo mascherato dei Dcvonshire fu il ricevimento più celebre e sfarzoso dell'epoca. A Chatsworth nel Dcrbyshire, sede dei Cavendish da quattrocento anni, i ricevimenti raggiungevano il massimo dello splendore con la visita annuale del principe e della principessa di Galles (o, in seguito, del re e della regina). Tutti i regali capricci venivano prevenuti e soddisfatti, non esclusa la presenza dell'amante del re, la signora Kcppel, scintillante di brillanti, con la quale, secondo la principessa Daisy di Plcss «il re gioca il suo bridge in una sala separata, mentre nelle altre sale anche gli altri invitati, naturalmente, stanno giocando a bridge». Costruito col marmo dorato della zona, Chatsworth era circondato da un parco del XVI I I secolo, progettato da Capability Brown. Il fasto era dappertutto. Cascate gorgogliavano su una scalinata di pietra alta duecento metri, copiata dai giardini del Rinascimento italiano. Un salice piangente di rame, mediante un ingegnoso meccanismo, versava acqua da ogni foglia. Le pareti erano adorne di elaborate e raffinate ghirlande di fiori e frutta scolpite in legno. La biblioteca e la collezione di quadri e sculture erano situate su una scala principesca come quella dei Medici e amministrate quasi come beni pubblici. Addetti alle dipendenze del duca le tenevano aperte agli studiosi e agli intenditori, facevano nuovi acquisti e prestavano liberamente i tesori artistici alle esposizioni. I Memling di Chatsworth andarono a Bruges, i suoi Van Dyck ad Anversa, e durante tutto l'anno la casa era aperta al pubblico, che affollava i saloni in massa. Il duca amava questo spettacolo e aveva l'abitudine di mischiarsi fra i visitatori, ignaro di essere riconosciuto, «domandandosi il perché la domestica che faceva da guida, e l'intero gruppo, si fossero fermati improvvisamente, fissandolo». Benché le corse per lui fossero più importanti dei libri, una volta sbalordì il suo

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bibliotecario che sta,·a mostrandogli la prima edizione del Paradiso perduto, sedendosi e leggendolo ad alta voce dal primo verso con gran diletto, finché la duchessa non entrò, e, stuzzicando il duca col suo parasole, osscn·ò: «Se legge poesie non andrà più a fare la passeggiata». Era oppresso dallo sfarzo e odiava ogni pomposità. Quando il re decise di farlo «Gran Comandante del nuovo ordine vittoriano» il duca, «con la sua aria indolente», chiese al segretario privato del re, sir Frcdcrick Ponson by, che cosa avrebbe dovuto farsene di «quella roba». «!\lai \'isto nessuno meno ansioso di ricevere un ordine cavalleresco. Scmbra\'a solo preoccupato perché gli avrebbe reso l'abbigliamento più complicato.» Alle prove generali per l'incoronazione di re Edoardo, nel 1902, in cui i pari in finanziera e con la corona in testa facevano un effetto assai comico, il duca arri\'Ò in ritardo come al solito e, con la mano destra in tasca e un 'espressione di profonda noia che gli trapelava dal viso, ciondolò intorno all'impalcatura obbedendo alle istruzioni del presidente del collegio araldico. Gli piacevano i vecchi vestiti sciatti e sformati, non si prcndc\'a mai la minima pena per gli ospiti, ignorando di proposito coloro che si dimostravano noiosi, e una volta, mentre un oratore alla Camera dei Lord stava declamando sui «momenti più importanti della vita», il duca aprì un attimo gli occhi per commentare col dcino: «li mio momento più importante fu quando il mio porcello vinse il primo premio alla fiera di Skipton». Il suo club preferito, dopo il Turf, era il Tran·llers', noto per la sua esclusività e per l'atmosfera di «solenne tranquillità» nella quale la lettura, il riposo e la meditazione avevano il sopra\'\'cnto sulla con\'crsazione. Per lo sgradevole compito di parlare nelle pubbliche riunioni, si era esercitato secondo un metodo che una \'Olta rivelò al giovane \\'inston Churchill, quando parteciparono insieme a una riunione sul libero scambio a l\lanchcstcr. «Ti senti ncr\'Oso, \\'inston?» chiese il duca e, alla risposta affermativa, gli disse: «Anch'io un tempo, ma ora, ogniqualvolta salgo su una tribuna, mi guardo intorno e sedendo mi dico: "Mai visto una simile massa di maledetti idioti in vita mia", e allora mi sento molto meglio». Se vole,·a, sapc\'a essere «il migliore della compagnia ... delizioso a parlargli», purché le condizioni fossero favorevoli. Nel 1885, arrivò a un pranzo stanco e affamato, dopo una lunga giornata in una riunione di comitato; come si vide presentare le prime portate, piatti francesi molto decorativi ma assai inconsistenti, im·ece dei cibi sostanziosi che piacevano a lui, sprofondò in un cupo silenzio. Quando infine arrivò il roastbecf, esclamò ad alta \'OCC: «E\'vi\'a, finalmente qualcosa da mangiare!», e solo allora si unì alla conversazione. Un ospite, lo scrittore \\'ilfrcd \ \'ard, notò che ogniqual\'Olta il suo punto di vista divergeva da

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quello di Gladstone, pure presente, lord Hartington «metteva il dito sulle incoerenze del discorso che la retorica di Gladstone tendeva a nascondere». Diciotto anni dopo, Ward incontrò di nuovo il duca all'ambasciata britannica a Roma e, trovandosi di fronte un volto impassibile, gli rammentò il luogo del loro precedente incontro. «Ma certo che mi ricordo. Non c'era niente da mangiare!» esclamò il duca. Le inadeguate pietanze francesi, come disse Ward, scrisseJohn Morley, e ((Suscitò nei suoi amici un piacere difficilmente superato nella politica dei nostri giorni». Fece di lui un personaggio estremamente popolare e gli valse la fama di ((Bloody» Balfour in Irlanda, mentre in Inghilterra veniva considerato il futuro capo naturale del suo partito. Nel 1891, quando W. H. Smith diede le dimissioni da leader della Camera, Balfour gli successe col consenso unanime. Come ministro per l'Irlanda, il suo assoluto disprezzo per il pericolo personale aveva rivelato un coraggio, o una mancanza di paura, che i suoi contemporanei non avrebbero mai sospettato. George Wyndham, che allora aveva la carica di segretario privato di Balfour, scriveva da Dublino che l'ammirazione degli irlandesi lealisti nei suoi confronti era diceva Balfour «è la differenza tra la giovinezza e l'età della ragione: io sono la ragione.» Balfour aveva alle spalle la lunga abitudine di appartenere alla haute; Joe era il capitano d'industria che si era fatto da sé. Era inevitabile che non potessero «fondersi». Per il momento la collaborazione tra Chamberlain e i suoi nuovi colleghi era leale. Quando si sospettò che dietro l'irruzione dijameson ci fosse la sua mano, e i liberali formularono accuse furibonde, il governo serrò le file intorno a lui e un comitato d'inchiesta parlamentare non riuscì a trovare niente di preciso a carico del ministro delle

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Colonic.Joe ne uscì illeso, sempre più potente e pi~ aggressi,·o. «Non so quale dei nostri molteplici nemici dovremmo sfidare,» scrisse a Salisbury in seguito al tclcgran:ima di Kruger «comunque slìdiamone qualcuno.» Come ministro incaricato delle trattative con la Repubblica boera, che diventava sempre più ostile, il suo metodo preferito, riferì Balfour a Salisbury, era «la generosa applicazione di sostanze irritanti». l\kntrc queste stavano sortendo il loro effetto, una vecchia sconfitta fu rivendicata: nel 1898 Kitchencr riprese Khartum e innalzò la bandiera ir.glcsc sulla tomba del generale Gordon. Più oltre sul Nilo, a Fashoda, una spedizione militare francese infiltratasi nel Sudan si incontrò con gli inglesi, e dopo un breve periodo di indecisione, durante il quale i francesi presero atto della realtà delle cose, si ritirò senza sparare un colpo. L'impopolarità britannica aumentava assieme al prestigio. Poi arrivò la guerra boera. L'esercito inglese, al quale gli anni di splendido isolamento avevano conferito una certa rigidità, venne dichiarato perfettamente in grado di affrontare la guerra di Crimea, ma lì incontrò una serie di sconfitte. I boeri, si scoprì poi, possedevano cannoni della Krupp, e i loro artiglieri erano spesso tedeschi o francesi. Il presidente Krugcr a\'e\'a adoperato i risarcimenti per i danni dell'incursione di Jamcson per comprare pezzi d'artiglieria, mitragliatrici Maxim e interi magazzini di carabine e munizioni per la battaglia decisiva. Durante la «settimana nera» del dicembre 1899, lord l\lcthucn fu sconlìtto a l\lagersfontcin, il generale Gatacrc a Stormberg, e sir Rcdvers Buller, il comandante in capo, a Colcnso, con una perdita di undici cannoni, lasciando in carica Kimberlcy e Ladysmith. In patria, la gente era sbalordita, incredula. Il duca di Argyll, che era vicino alla morte, non si rimise più dal colpo e morì mormorando i versi di Tcnnyson sul duca di Wellington: «Colui che non· perse mai un cann~ ne inglese». Con la settimana nera finì l'ultimo periodo in cui gli inglesi si sentivano i padroni assoluti della terra. La più chiara dimostrazione si ebbe quando il Kaiser, pochi mesi dopo, fu in grado d'insistere con successo per assegnare un comandante tedesco alla spedizione punitiva contro i Boxer di Pechino. Certo, la spedizione era formata per lo più da truppe tedesche, poiché :e principali forze britanniche erano già sul posto, ma Salisbury obiettò per principio. Era una caratteristica inglese, anche se irragionevole, disse all'ambasciatore tedesco, «non tollerare il comando di uno straniero». Però in quel momento non poteva affrontare un conflitto che poteva risolversi in un aiuto per i boeri, e fu costretto ad accettare. Durante il nuovo anno, con ·nuova energia, rinforzi e un nuovo /

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comandante in capo in sostituzione del disastroso Buller, la guerra tornò gradualmente sotto il controllo britannico. Mafeking fu riconquistata nel maggio 1900, suscitando in patria un entusiasmo delirante; lord Roberts entrò in Pretoria nel giugno e il I" settembre fu proclamata l'annessione del Transvaal, con la convinzione che r,::stassc solo da fare completa pulizia. In un accesso di rinnovata sicurezza di sé e ottimismo, i conservatori chiesero un nuovo mandato per quelle che furono chiamate le elezioni «cachi» in ottobre. Servendosi dello slogan: «Ogni seggio vinto dai liberali è un seggio vinto dai boeri», tornarono tranquillamente in carica. ~la sebbene il patriottismo fosse ancora il sentimento dominante, c'era anche una corrente antimilitarista, originata non solo dai fautori della «Piccola Inghilterra>> - di tradizione gladstoniana - ma anche, questa volta, dalla sensazione che la causa per la quale ci si batteva non fosse poi tanto nobile: il luccichio delle miniere d'oro del Rand, un'aura di capitalismo rapace, la possibilità di intensificare i traffici aumentando i vantaggi economici. L'opposizione alla guerra diede modo di distinguersi a un giovane parlamentare, David Lloyd George, il quale, sebbene non si spingesse fino a opporsi all'annessione, propose delle trattati\'e che ponessero fine alla guerra. Erano in molti, all'interno e all'estrrno del governo, ad aspettare l'avvento del secolo XX con delle «illusioni perdute» che non si sarebbero mai ritrovate. Lady Salisbury, poco prima di morire nel novembre del 1899, disse a un giovane parente: «La nuova generazione può criticarci quanto vuole; ma riusciranno mai a raggiungere la perfezione che abbiamo conosciuto noi?». L'anno 1900, anziché il 1899, aveva stabilito l'astronomo di corte, dopo a,·er molto vagliato i pro e i contro, era il centesimo e ultimo anno del XIX secolo. Il momento del suo passaggio era ormai prossimo; la fine del secolo più denso di speranze, di nuovi fermenti, di progresso, del secolo più operoso e più ricco che il mondo avesse mai conosciuto. Tre settimane dopo la sua chiusura, il 24 gennaio 190 l, !a regina Vittoria morì, accentuando l'impressione generale della fine di un'era. Lord Salisbury, stanco della carica, voleva andarsene anche lui, ma sentirn di non poterlo fare finché la vittoria, ancora incerta in Sudafrica, non fosse stata raggiunta. Finalmente essa arrivò, nel giugno del 1902, e il 14 luglio lord Salisbury si ritirò. Di nuovo si ebbe la sensazione oscura che qualcosa stesse finendo: un'autorità, un personaggio, una tradizione erano finiti. Un giornale parigino, «Le Temps», ancora scottato per l'umiliazione di Fashoda, scrisse: «Ciò che finisce oggi col congedo di lord Salisbury è un'intera epoca storica. Per colmo d'ironia

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egli lascia un'Inghilterra democratizzata, imperializzata, colonializzata e volgarizzata, proprio tutto ciò che è antitetico al conservatorismo, alla tradizione aristocratica e alla HiJth Clwrch per i quali si è battuto. È l'Inghilterra di Chamberlain, e non, malgrado la sua presidenza nominale, di Balfour». La regina Vittoria, -lord Salisbury e l'Ottocento se n'erano andati. Un anno prima di morire, la regina, tornando col suo panlilo da una visita in Irlanda, soffrì il mal di mare. Dopo che un'ondata particolarmente violenta ebbe sferzato l'imbarcazione, chiamò il suo medico, che stava in attesa, e gli disse, nell'inconscia eco di un lontano predecessore: «Salga subito, sir James, e porga all'ammiraglio le mie congratulazioni, però gli dica che non deve accadere mai più». Ma le onde non si arrestarono.

II L'IDEA E L'AZIONE Gli anarchici: 1890-1914

La \"isionc di una società senza stato, senza governo, senza leggi, senza alcuna forma di proprietà; una società in cui, spazzate via le istituzioni corrotte, l'uomo fosse libero di essere buono come Dio voleva; tale visione era tanto allettante che fra il 1894 e il 1914 sci capi di stato furono assassinati in suo nome. Essi furono: il presidente francese Carnot nel 1894, il primo ministro spagnolo Canovas nel 1897, l'imperatrice Elisabetta d'Austria nel 1898, il re Umberto di Savoia nel 1900, il presidente americano l\lcKinley nel 1901 e un altro primo ministro spagnolo, Canalcjas, nel 1912. N cssuno di loro poteva essere definito un tiranno. Le uccisioni erano gesti di uomini disperati e delusi, per richiamare l'attenzione sull'idea anarchica. Non c'era nessun «eroe» nel movimento che distrusse queste vite. La protagonista era I' «Idea»: un' «utopia di romantici disperati», come la definì uno storico della rivolta. Aveva i suoi teorici e pensatori, uomini d'intelletto, sinceri e zelanti, che amavano l'umanità, e aveva anche i suoi strumenti, poveri ometti che la sfortuna, lo sconforto oppure l'ira, la degradazione e la disperazione della povertà rendevano sensibili all'Idea fino a esserne dominati e spinti all'azione. Costoro diventavano gli assassini. Tra i due gruppi non vi erano contatti. I teorici costruivano sui quotidiani e nei pamphlet meravigliosi modelli di carta dell'era anarchica, lanciavano tirate piene di odio e invettive contro la classe dirigente e il suo disprezzato alleato, la borghesia; davano fiato alle trombe di una >. « Noi sappiamo che ciò che è ingiusto nella nostra società non è che l'operaio lavori dieci o quattordici ore, ma che esista un padrone.» Il più importante tra i nuovi capi anarchici era il principe Petr Kropotkin, aristocratico di nascita, geografo di professione e rivoluzionario per convinzione. La sua fuga sensazionale dopo due anni di prigione nella cupa fortezza di Pietro e Paolo, nel 1876, gli aveva conferito un'aureola di eroismo, mantenuta viva poi durante gli anni di esilio in Svizzera, Francia e Inghilterra dall'abitudine incorreggibile di predicare instancabilmente a favore della causa rivoluzionaria. La fede di Kropotkin nell'umanità, malgrado una vita di dure esperienze, era inesauribile e incrollabile. Dava l'impressione, disse il giornalista inglese Henry Nevinson, che lo conosceva bene, che «desiderasse stringere al petto l'umanità intera per riscaldarla». La bontà trapelava dalla sua nobile calvizie, circondata da uno stretto anello di ispidi capelli castani; una gran barba gli incorniciava il mento. Era molto piccolo, «con un corpo che pareva sopportare a fatica il peso della testa massiccia». Erede dei principi di Smolensk che, secondo la tradizione di famiglia, appartenevano alla dinastia dei Ruryk, che aveva regnato

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sulla Russia prima dei Romanov, Kropotkin prese posto in quella gran schiera di nobili russi «presi dai rimorsi», che si sentivano colpevoli di appartenere a una classe che aveva oppresso il popolo per secoli. Era nato nel 1842. Dopo aver prestato servizio fra i cosacchi in Siberia, dove aveva studiato la geografia della regione, era diventato segretario della Società Geografica, per la quale, nel 1871, aveva esplorato i ghiacciai della Finlandia e della Svezia. Nel frattempo era diventato membro di un comitato rivoluzionario segreto, e poiché fu scoperto, venne arrestato e imprigionato. Dopo la sua fuga nel 1876, l'anno della morte di Bakunin, andò in Svizzera, dove lavorò con Elisée Reclus, il geografo francese anarchico egli pure, alla monumentale opera sulla geografia del mondo. Kropotkin scrisse il volume sulla Siberia e, con Rcclus, fondò e diresse per tre anni «Le Révolté», che dopo esser stato soppresso rinacque a Parigi come «La Révoltc» e divenne il giornale anarchico più noto e di lunga vita. La sua oratoria polemica, appassionata e convincente, il prestigio della sua fuga dalla più terribile prigione russa, la sua attività con gli anarchici svizzeri del Giura, che lo avevano fatto espellere dalla Svizzera, il tutto coronato dal suo titolo di principe, fecero di lui il successore riconosciuto di Bakunin. In Francia, dove si era trasferito nel 1882, la tradizione della Comune aveva dato vita a un movimento anarchico molto attivo, che aveva un forte nucleo a Lione. Un'irruzione della polizia e una bomba di rappresaglia che aveva causato un morto, furono seguite dall'arresto e dal processo di cinquantadue anarchici, fra cui Kropotkin, sotto accusa di appartenere a una lega internazionale per l'abolizione della proprietà, della famiglia, della patria e della religione. Condannato a cinque anni di carcere, Kropotkin ne scontò tre, poi ottenne la grazia dal presidente Grévy e andò a stabilirsi, con moglie e figlia, in Inghilterra, l'eterno rifugio degli esiliati politici di quell'epoca. In una piccola casa di Hammersmith, una residenza decorosa e triste dei sobborghi londinesi, egli continuò a scrivere ardenti inni alla violenza per «La Révolte», articoli eruditi per riviste geografiche e per il «Nineteenth Century», a intrattenere visitatori radicali in cinque lingue, a tenere conferenze in un circolo anarchico posto in una cantina nei pressi di Tottenham Court Road, a suonare il piano, a dipingere, ad affascinare col suo temperamento mite e i modi gentili tutti quelli che lo conoscevano. «Era amabile fino alla santità,» scrisse Gcorge Bernard Shaw «con la sua barba folta e l'espressione simpatica avrebbe potuto essere un pastore delle "Delectable Mountains". La sua unica debolezza era la mania di profetizzare una guerra entro una quindicina di giorni. E in fondo aveva ragione.» Questa debolezza era infatti una

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manifestazione dell'ottimismo dì Kropotkin, poiché per lui la guerra era la tanto attesa catastrofe che doveva distruggere il vecchio mondo e aprire la strada al trionfo dell'anarchia. La «decadenza galoppante» degli stati stava alfrettando il trionfo. «Non può essere lontano» scriveva. «Tutto collabora ad avvicinarlo sempre più.» Questo gentile signore, vestito tradizionalmente con la finanziera nera da gentiluomo vittoriano, era un inflessibile apostolo della necessità della violenza. Il progresso dell'uomo verso la perfezione era impedito, scriveva, dall'«inerzia di coloro che hanno un preciso interesse a conservare immutate le condizioni attuali». Il progresso aveva bisogno di una scossa violenta «che scaraventasse l'umanità fuori dalle sue rotaie su una nuova strada ... La rivoluzione diventava una necessità imprescindibile». Lo spirito di rivolta deve essere risvegliato nelle masse da una costante «propaganda all'azione». Questa frase, che diventò simbolo della violenza anarchica, fu usata per la prima volta da un socialista francese, Paul Brousse, nel 1878, anno che vide quattro attentati contro teste coronate: due a Guglielmo I di Germania, uno al re di Spagna e uno al re d'Italia. «L'Idea è in marcia» scriveva Brousse «e noi dobbiamo cercare di iniziare la propaganda dell'azione. La strada verso la rivoluzione passa attraverso il petto dei re!» L'anno seguente, a un congresso anarchico nel Giura svizzero, Kropotkin si batté con particolare impegno per la propaganda dell'azione, sebbene fosse un po' meno esplicito sul metodo da usare. Sebbene non incitasse mai al delitto, egli continuò, durante l'ultimo decennio del secolo, a incitare alla propaganda mediante «discorsi e scritti. La spada, la pistola, la dinamite». Dalle pagine di «La Révolte» lanciò un appello agli «uomini di coraggio desiderosi non solo di parlare, ma anche di agire; uomini puri che preferivano il carcere, l'esilio e la morte a una vita in contrasto con i loro principi; uomini audaci, consapevoli che per vincere bisogna osare». Gli uomini di quella tempra dovevano formare un'avanguardia rivoluzionaria molto prima che le masse fossero pronte, e in mezzo ai «discorsi, alle proteste e alle discussioni» dovevano compiere «l'azione di rivolta». «Una singola azione» scrisse Kropotkin in un'altra circostanza «vale assai di più, ai fini della propaganda, che un migliaio di libelli.» Le parole si «disperdono nell'aria come il suono delle campane». È necessaria l'azione «per suscitare l'odio contro gli sfruttatori, per schernire i governanti, per metterne in mostra le debolezze, e soprattutto per ridestare lo spirito di rivolta». Le azioni da lui invocate con parole sublimi dalle pagine del giornale vennero compiute, ma non da lui. Nell'ultimo decennio del secolo, quando era sulla cinquantina, Kro-

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potkin, pur continuando a predicare la necessità della rivolta, mitigò lie\'emente il suo entusiasmo per l'azione individuale. Sehbene «lo spirito rh·oluzionario ottenga grandi vantaggi attraverso atti di eroismo indi,·idualr,» scrisse su «La Ré\'Olte» del marzo 1891 «non sono questi atti eroici a fare le ri\'oluzioni. La ri\'Oluzione è soprattutto un movimento di massa ... Le istituzioni radicate durante secoli di storia non possono essere distrutte da pochi grammi di esplosivo. Il tempo delle azioni di questo genere è passato cd è giunto il momento in cui l'idea anarchica e comunista de\'e penetrare le masse». Le sconfessioni, tuttavia, non hanno quasi mai la forza delle affermazioni originarie. A Londra, in un ristorante di Holborn, durante lo sciopero dei minatori del 1893, Kropotkin ebbe una discussione con Ben Tillctt e Tom l\1ann, due tenaci sindacalisti. «Dobbiamo distruggere! Dobbiamo abbattere! Dobbiamo liberarci dai tiranni!» urlava Mann. «No!» disse Kropotkin col suo accento straniero e gli occhi da scienziato che brillavano dietro le lenti. «Dobbiamo costruire nel cuore degli uomini. Dobbiamo instaurare il regno di Dio.» Aveva già tracciato le grandi lince di questo regno. Dopo la rivoluzione - che secondo lui avrebbe impiegato fra tre e dnquc anni per rovesciare i governi, distruggere le prigioni, le fortezze e i bassifondi, espropriare le terre, le industrie e tutte le forme di proprietà - alcuni volontari avrebbero fatto l'inventario di tutte le scorte di viveri, le abitazioni e i mezzi di produzione, e si sarebbero distribuite tra la folla delle liste stampate. Ognuno avrebbe preso ciò che gli serviva tra le cose che esistevano in abbondanza, e ciò che scarseggiava sarebbe stato razionato. Tutta la proprietà sarebbe stata proprietà comune. Ognuno avrebbe avuto dagli spacci collctti\'i ,·ivcri e merci a seconda delle sue necessità, e avrebbe avuto il diritto «di decidere da solo che cosa gli occorreva per una \'ita confortc\"Ole». Eliminate le eredità, sarebbe scomparsa anche l'avidità. Tutti i maschi sani avrebbero stretto «contratti» con la società attra\'erso i propri gruppi e le proprie comunità, mediante i qùali si sarebbero impegnati a compiere un lavoro quotidiano di cinque ore, dall'età di ventuno fino a circa quarantacinque o cinquant'anni, scegliendo un lavoro di proprio gradimento. In cambio, la società avrebbe garantito loro il diritto di servirsi di «case, negozi, strade, trasponi, scuole, musei, eccetera». Non vi sarebbe stato bisogno di imposizioni o penalità, poiché la gente avrebbe assolto i propri impegni per lo spontaneo bisogno di «collaborazione, sostegno e comprensione» col prossimo. Era un sistema che doveva funzionare perché ragionc\'Olc (ma perfino Kropotkin doveva accorgersi alla fine che la ragionevolezza è ben di rado fra i moventi dell'attività umana).

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Shaw, col suo inesorabile buon senso, colpì il punto debole in un trattato fabiano intitolato Tht lmpossibilities of Anarchism, pubblicato nel 1893 e ristampato parecchie volte durante i dicci anni successivi. Se l'uomo è buono e le istituzioni cattive, si chiedeva, se l'uomo sarà di nuorn buono non appena le istituzioni corrotte cesseranno di opprimerlo, «da dove hanno avuto origine la corruzione e l'oppressione sotto le quali ora geme?». Tuttavia il fatto che Shaw provasse l'impulso di scri\'crc questo trattato rappresentava un omaggio alla forza dclrldca. Il problema più complesso del programma anarchico era la necessità di stabilire l'esatta corrispondenza tra il valore dei beni e quello dei scr\'izi resi. Secondo le teorie di Proudhon e di Bakunin, ognuno doveva essere pagato in natura in proporzione a quello che produceva. Ma ciò richiedc\'a un'istituzione che stabilisse i valori r facesse i calcoli, un'autorità dunque, il che era anatema per l'anarchia «pura». Secondo Kropotkin e l\lalatcsta, sarebbe bastato che ognuno lavorasse spontanramentc per il bene della comunità, e poiché ogni lavoro sarebbe stato piaecrnle e dignitoso, ognuno avrebbe contribuito liberamente e liberamente ancbbc prelevato ciò che gli serviva dalle riserve della comunità, senza bisogno di fare tanti conti. A ripro\'a, Kropotkin sviluppò la sua teoria del «reciproco aiuto» per dimostrare che l'anarchia aveva una base scientifica nelle leggi della natura. La tesi di Darwin, sosteneva Kropotkin, era stata pervertita dai te-orici del capitalismo. In realtà la natura non era una belva feroce dalle zanne insanguinate, animata in ogni essere vivente dall'istinto di soprawivcrc a prezzo della vita dei suoi simili; al contrario, essa si rcggcrn sull'istinto del singolo di presen·arr la specie mediante la «mutua assistenza». Kropotkin indicava come esempio le formiche, le api, i ca\'alli selvatici e le mandrie, che formano un cerchio quando vengono attaccati dai lupi, e infine la vita dell'uomo mcdic\'alc, basata sulla proprietà collrttirn dei campi e dei villaggi. Egli ammirava cnormcmrnte il coniglio che, sebbene indifeso e senza capacità particolari, sopran·ivc e si moltiplica. Il coniglio era per lui il simbolo della capacità di sopran-i\'cnza dei miti che, come diceva un altro predicatore prima di lui, avrebbe ereditato la terra. Sebbene Kropotkin non avesse mai abbandonato l'ardente desiderio di una totale distruzione del mondo borghese, quel mondo non poteva astenersi dall'onorarlo. Era uno scienziato tanto illustre ... e per di più era un principe. Quando si rifiutò di entrare nella Royal Geographic .Society perché era posta sotto il patrocinio del re, fu inviato ugualmente all'annuale pranzo della società, e quando si rifiutò di partecipare al

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brindisi del presidente della società «per il re!», il presidente si alzò prontamente con un nuovo brindisi: «Viva il principe Kropotkin», e l'intera compagnia si levò per unirvisi. Quando visitò gli Stati Uniti nel 1901 e tenne una conferenza al Lowell lnstitute di Boston, fu ricevuto dall'élite intellettuale della città, e a Chicago fu poi ricevuto dalla signora Potter, che non voleva essere da meno. L'«Atlantic Monthly» comprò le sue memorie e i suoi libri furono stampati dagli editori più rispettabili. Qua:1do uscì Mutuai Aid, la «Review ofReviews» lo definì «un sano, allegro, delizioso libro che fa bene leggere». A parte Kropotkin, il pensiero anarchico aveva raggiunto uno sviluppo notevole in Francia. Nella vasta schiera, di cui facevano parte uomini seri e uomini frivoli, i capi erano Elisée Reclus e Jcan Grave. Reclus, dal volto di una cupa bellezza, incorniciato da una barba scura, come un Cristo bizantino, era il profeta del movimento. Aveva combattuto sulle barricate della Communc e marciato verso la prigione lungo la strada insanguinata di Versailles. Proveniva da una famiglia di studiosi e, oltre al suo lavoro di geografo, dedicò anni interi a spiegare e predicare il sistema anarchico attraverso i libri e i giornali che diresse a più riprese con Kropotkin e Grave. Durante le lezioni alla Nouvelle Univcrsité di Bruxelles, dove fu per un certo tempo titolare della cattedra di geografia, egli esercitava sugli ascoltatori, scrisse uno di essi, >, e perfino di

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tendenze marxiste. Una volta fu ferito da un anarchico italiano appartenente all'ala estremista degli anli-organi::.::.atori. 1 Mai scoraggiato nonostante tanti tentati\'i falliti, l\lalatcsta era sempre fresco di prigione, appena entrato o appena uscito, sempre reduce da qualche fuga drammatica o da un'avventura disperata, perennemente in esilio senza una casa o magari una stanza sua, cd era sempre, come disse Kropotkin, «così come lo abbiamo visto l'ultima volta, con lo stesso amore per il prossimo, la stessa mancanza di odio per i nemici o i carcerieri». L'ottimismo era la caratteristica saliente di quei capi. Erano certi che l'anarchia do\'essc trionfare perché era una causa giusta, che il sistema capitalistico sarebbe fallito perché era ormai marcio, e con l'avvicinarsi della fine del secolo awertivano anche l'appressarsi di una misteriosa scadenza. «Tutti stanno aspettando la nascita di un nuovo ordine di cose» scrisse Rcclus. «Il secolo che ha \'isto scoperte così grandi nel campo della scienza non può finire senza darci conquiste ancora più grandi. Dopo tanto odio desideriamo ardentemente di amarci l'un l'altro e per questa ragione siamo nemici della proprietà privata e sprczzatori della legge.» Kropotkin, osser\'ando con occhi benevoli il mondo che lo circondava, tro\'a\'a O\'unquc segni incoraggianti. Il numero crescente di m'lsei, biblioteche e parchi gratuiti, per esempio, gli sembrava un progresso verso il giorno dell'anarchia, quando tutta la proprietà privata sarebbe finalmente di\'cntata pubblica. Le strade e i ponti a pedaggio non stavano di\'cntando liberi? Le autorità municipali non stavano fornendo acqua e illuminazione gratis? L'idea anarchica s~condo la quale la società del futuro non sarebbe stata più tenuta insieme dal governo ma dalla «libera associazione di uomini in gruppi» stava, secondo lui, rice\'cndo una conferma da associazioni còme la Croce Rossa Internazionale, i sindacati e perfino i consorzi di armatori e di ferrovie (che in America vcni\'ano denunciati come trusls da riformatori di tipo assai di\'crso). L'anarchia alla fine del secolo, quale era concepita da uomini come Kropotkin, ~lalatcsta, Jcan Grave e Reclus, aveva forse raggiunto, secondo le parole di uno dei suoi storiografi, «una splendida grandezza morale>>, ma solo a costo di un considerevole distacco dalla realtà. Questi uomini avevano soficrto più di una volta la prigione a causa delle loro idee. Kropotkin stesso aveva perso i denti in seguito ai maltrattamenti subiti in carcere. Non erano uomini della torre d'avorio se non per il fatto che le loro teste erano in torri d'avorio. Erano capaci 1

In italiano nrl

1c-sl0.

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di concepire progetti di uno stato di armonia universale solo perché ignoravano la realtà del comportamento umano e I~ testimonianza della storia. La loro smania rivoluzionaria nasceva direttamente dalla loro fede nell'umanità, che , erano convinti, avcvaJolo bisogno di un esempio luminoso e di una scossa brusca per avviarsi verso l'età dell'oro. Proclamavano la loro fede ad alta voce. Spesso con conseguenze fatali. La nuova era della violenza anarchica si aprì in Francia subito dopo il centenario della Rivoluzione francese. Si instaurò allora il regno della dinamite, dei pugnali e dei colpi di pistola che durò due anni, uccise uomini insignifiçanti e uomini grandi, distrusse proprietà, bandì ogni sicurezza, seminò il terrore e poi crollò. II segnale fu dato nel 1892 da un uomo il cui nome, Rava,hol, sembrava «spirare odio e rivolta». Il suo atto, come quasi tutti quelli che lo seguirono, fu un gesto di vendetta per i compagni che avevano sofferto per mano dello stato. Il l" maggio dell'anno precedente, a Clichy, un sobborgo operaio di Parigi, una dimostrazione operaia capeggiata da les anarchos, che inalberavano bandiere rosse con scritte rivoluzionarie, fu caricata dalla polizia a cavallo. Nella mischia restarono feriti leggermente cinque poliziotti e gravemente tre capi anarchici. Trascinati alla stazione di polizia, gli anarchici furono sottoposti, ancora sanguinanti e con le ferite aperte, a un passage à tabac di scatenata ferocia; dovettero passare tra due ali di poliziotti tra calci, pugni e colpi con le canne delle pistole. Al loro processo, Bulot, il pubblico ministero, formulò l'accusa che uno degli imputati, il giorno prima della manifestazione, aveva invitato gli operai a parteciparvi armati dicendo: «Se arriva la polizia, non abbiate paura di ucciderli come cani perché lo sono; abbasso il governo! Vive la révolution!». In base a ciò Bulot chiese per tutti e tre la pena di morte; dato che non era stato ucciso nessuno, era una pena sproporzionata che avrebbe fatto meglio a non chiedere. Ebbe solo l'effetto di mettere in moto un treno carico di dinamite. Per il momento Benoist, il presidente del tribunale, assolse un imputato e condannò gli altri due rispettivamente a cinque e a tre anni di reclusione, il massimo ammissibile per quel reato. Sci mesi dopo il processo la casa di Benoist sul Boulevard St. Germain fu distrutta da una bomba. Due settimane dopo, il 27 marzo, un'altra bomba fece saltare la casa di Bulot, il pubblico ministero, in Rue dc Clichy. Tra le due esplosioni la polizia aveva fatto circolare una descrizione del criminale sospetto, uno smilzo ma muscoloso giovane sulla ventina, con la faccia ossuta e giallastra, i capelli castani e la

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barba, un 'aria malaticcia e una cicatrice rotonda tra il pollice e l'indice della mano sinistra. Il giorno della seconda esplosione, un uomo di aspetto corrispondente a questa descrizione andò a pranzare al Restaurant Véry in Boulrvard Magenta, dove parlò a lungo con un cameriere di nome Lhérot dell'esplosione di cui nessuno, nel quartiere, aveva ancora avuto notizia. Manifestò inoltre idee anarchiche e antimilitariste. Lhérot si insospettì ma non disse nulla. Due giorni dopo l'uomo tornò e stavolta Lhérot, notando la cicatrice, avvertì la polizia. Quando arrivarono ad arrestarlo, il giovane smilzo divenne improvvisamente un gigante dalla forza di un forsennato, e ci vollero dicci uomini e una lotta terribile per catturarlo. Era Ravachol. Aveva adottato il nome di sua madre preferendolo a Kocnigstcin, il nome del padre, che aveva abbandonato la moglie e quattro figli, lasciando Ravachol all'età di otto anni come sostegno della famiglia. A diciott'anni, dopo aver letto l'ebreo errante di Eugène Sue, aveva perso la fede religiosa e abbracciato le idee .:!egli anarchici e aveva cominciato a partecipare alle loro riunioni. Per questo venne licenziato, assieme al fratello minore, dal suo impiego di commesso di lavanderia. Nel frattempo, la sorella minore morì e la maggiore mise al mondo un figlio illegittimo. Sebbene Ravachol trovasse altri impieghi, essi non rendevano abbastanza da salvare la sua famiglia dalla miseria. Di conseguenza, dovette ricorrere a espedienti illeciti, ma con una certa fierezza di principi. I poveri dovevano derubare i ricchi «per evitare di vivere come bestie», disse in prigione. «Morire di fame è vile e degradante. Ho preferito diventare ladro, fa!sario, assassino.» In effetti era stato tutto ciò, e anche violatore di tombe. Al suo processo, il 26 aprile 1892, egli dichiarò che il suo movente era stato quello di vendicare gli anarchici di Clichy percossi dalla polizia, «che non avevano avuto nemmeno un po' d'acqua per lavarsi le ferite» e ai quali Bulot e Bcnoist avevano dato il massimo della pena, sebbene la giuria avesse richiesto il minimo. I suoi modi erano risoluti e i suoi occhi avevano lo sguardo penetrante che esprime una profonda convinzione interiore. «Volevo imporre un clima di terrore per costringere la società a prestare attenzione a coloro che soffrono» disse, riassumendo in una sola frase interi volumi di teorie anarchiche. Mentre la stampa lo descriveva come una figura di sinistra violenza e astuzia, un «colosso di forza», molti testimoni dichiaravano che aveva dato denaro alla moglie di uno degli anarchici incarcerati di Clichy e comprato vestiti per i suoi bambini. Alla fine del processo, durato un giorno solo, fu condannato ai lavori forzati a vita. !\la il caso Ravachol era appena incominciato. Il cameriere Lhérot, nel frattempo, stava ottenendo fama di eroe

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raccontando a clienti e giornalisti la storia della cicatrice, del riconoscimento e dell'arresto. Come risultato attirò uno sconosciuto vendicatore che fece esplodere una bomba nel Restaurant Véry, uccidendo non Lhérot ma suo cognato, il signor Véry, proprietario del ristorante. L'azione fu esaltata da ((Le Père Peinard», un giornale anarchico dedito al gergo più grossolano, col macabro doppio senso di «Vérilication!». Nel frattempo la polizia aveva scoperto un'intera serie di reati di Ravachol, compresa la violazione di una tomba, per impadronirsi dei gioielli di un cadavere; l'assassinio di una vecchia spilorcia novantaduenne, sua padrona di ~asa, il duplice assassinio di due vecchie che avevano un negozio di ferramenta-delitto che gli aveva reso quaranta soldi - e di un altro negoziante, che non gli aveva reso niente. «Vedete questa mano?» pare avesse detto Ravachol. ccEssa ha ucciso altrettanti borghesi quante sono le sue dita.» E durante quel tempo egli era vissuto tranquillamente, in una pensione, insegnando a leggere alla figlioletta dell'affittacamere. Il processo per questi delitti iniziò il 21 luglio in un'atmosfera di terrore causata dalla bomba del vendicatore al Restaurant Véry. Tutti si aspettavano che il Palais dej ustice saltasse per aria; l'edificio venne circondato da truppe, ogni ingresso fu sorvegliato, e i giurati, i giudici e gli avvocati andavano in giro scortati da agenti di polizia. Alla sentenza di morte, Ravachol disse che ciò che aveva fatto era per ccl'idea anarchica», e soggiunse le parole profetiche: «So che sarò vendicato». Davanti a questo personaggio straordinario, che era un mostro di crudeltà, ma anche il protettore e vendicatore dei deboli e degli sventurati, la stampa anarchica si trovò divisa. Ne «La Révolte» Kropotkin ripudiò Ravachol come un rivoluzionario «non autentico», un «istrione da opéra bouffe». Queste azioni, scrisse, «non costituiscono il costante lavoro quotidiano di preparazione, oscuro ma immenso, che la rivoluzione richiede. Essa ha bisogno di uomini diversi da Ravachol. Questi lasciamoli allajìn de siècle borghese, di cui sono il prodotto». E parimenti Malatesta, nel giornale letterario anarchico «L'En Dehors», ripudiò il gesto di Ravachol. Il guaio era che Ravachol apparteneva in gran parte - ma non completamente-a quella classe di anarchici individualisti che avevano un scrio teorico nel tedesco Max Stirner e un centinaio di seguaci del culle de moi. Essi manifestavano un estremo disprezzo per ogni sentimento borghese e imposizione sociale, riconoscendo soltanto il diritto individuale «a vivere anarchicamente», il che comprendeva furti, rapine e qualsiasi altro reato che servisse allo scopo del momento. S'interessavano di se stessi, e non della rivoluzione. Le azioni violente di questi

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«Borgia in miniatura», che di solito finivano in scontri armati con la polizia e si spacciavano per «anarchiche», contribuirono ad accrescere il terrore e l'ira della popolazione, che non sapeva distinguere il filone genuino originario dalle forme aberranti. Ravachol era l'una e l'altra cosa insieme. C'era in lui una vena autentica di pietà e di solidarietà per gli oppressi della sua classe, che indusse un giornale anarchico a paragonarlo a Gesù Cristo. L'I I luglio, calmo e senza pentimenti, Ravachol salì al patibolo, gridando alla fine: « Vive /'anarchie!». Immediatamente il risultato fu chiaro. Diventò improvvisamente un martire anarchico, e un eroe popolare nel mondo della vita clandestina. «La Révoltc» si ricredette. «Sarà vendicato!» proclamò, aggiungendo la sua spinta al ciclo di vendette che si stava delineando. «L'En Dehors» aprì una sottoscrizione per i figli di un complice processato assieme a Ravachol. Tra i sottoscrittori c'erano il pittore Camillc Pissarro, il commediograro Tristan Bernard, il poeta socialista belga Emile Verhacren e Bernard Lazare (che ben presto sarebbe stato un protagonista del caso Dreyfus ). Il verbo ravacholiser che significava «spazzar via il nemico», diventò di uso corrente, e una canzonetta popolare, chiamata La Rt.vacholt~ cantata sul motivo di la Carmagnole, aveva questo ritornello:

Verrà, verrà Ogni borghese la sua bomba avrà L'importanza assunta da Ravachol non era dovuta alle sue bombe ma alla sua esecuzione. Nel frattempo, la violenza scoppiò al di là dell'Atlantico. L'anarchia, che rifiutava ogni restrizione in campo sessuale, come in qualsiasi altro campo, aveva le sue storie d'amore; una di queste, che doveva avere un effetto esplosivo sul movimento americano, ebbe inizio nel 1890 a una commemorazione dei martiri di Haymarket, in cui l'oratore era l'esiliato tedesco Johann Most, con la faccia storta e il corpo deforme, che dirigeva il settimanale anarchico «Freihcit» di New York. Un incidente infantile che gli aveva deturpato il viso, un'infanzia solitaria e tormentata trascorsa vagandc di luogo in luogo, a volte affamato, a volte occupato nei più strani lavori, erano il naturale alimento della sua animosità contro la società. In Most tale sentimento si sviluppò con la forza della gramigna. In Germania egli imparò il mestiere di rilegatore, scrisse articoli pieni di odio per la stampa rivolu-

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zionaria e intorno al 1870 fu eletto deputato al Reichstag. Mandato in esilio per istigamento rivoluzionario, si era rifugiato prima in Inghilterra, dove divenne anarchico, fondò il suo giornale battagliero e accolse la notizia dell'assassinio di Alessandro II nel 188 I con un tale entusiasmo che si beccò diciotto mesi di carcere. Quando i suoi compagni, durante il periodo di reclusione, applaudirono con altrettanto entusiasmo l'assassinio di lord Frederick Cavendish per mano degli irredentisti irlandesi di Dublino, la tradizionale tolleranza inglese si sentì infine oltraggiata; «Freiheit» venne soppresso e Most, quando uscì, se ne andò col suo giornale e la sua passione negli Stati Uniti. L'istigazione e la ferocia di «Freiheit» continuarono indomite, e un lettore disse che gli sembravano «lava sprigionante fiammate di ridicolo, disprezzo e diffidenza ... e spirante odio». Dopo aver lavorato segretamente per un certo tempo in una fabbrica di esplosivi del New Jersey, Most pubblicò un manuale per la fabbricazione delle bombe e spiegò dettagliatamente e senza mezzi termini su «Freiheit» l'uso della dinamite e della nitroglicerina. II suo scopo, come il suo odio, era generico e diretto verso la distruzione dell'«attuale classe dirigente» mediante un'incessante azione rivoluzionaria. A Most non importava niente della giornata lavorativa di otto ore, quella «dannata cosa», come la definiva lui, che, una volta conquistata, sarebbe servita soltanto a distrarre le masse dallo scopo reale: la lotta contro il capitalismo per la creazione di una nuova società. Nel 1890 Most aveva quarantacinque anni, statura media, folti capelli grigi che incorniciavano una grossa testa, la cui parte inferiore era storta verso sinistra a causa della mascella deforme. Uomo aspro, amaro, era tuttavia così eloquente e appassionato, quando parlava a una commemorazione, che la sua bruttezza veniva dimenticata. Tra i suoi ascoltatori c'era una donna che rimase colpita dai suoi occhi azzurri «pieni di comprensione» e dall'odio-amore che emanava dalle sue parole. Emma Goldman, un 'ebrea russa di ventun anni, immigrata di recente, dotata di un carattere ribelle e di un animo infiammabile, si lasciò trasportare da lui. Quella sera si trovava in compagnia di Aleksandr Berkman, un ebreo russo come lei, che viveva negli Stati Uniti da meno di tre anni. Le persecuzioni in Russia e la povertà sofferta in America avevano suscitato nei due giovani esaltanti idee rivoluzionarie. L'anarchia diventò il loro credo. II primo lavoro di Emma negli Stati Uniti fu un impiego di cucitrice in una fabbrica: dieci ore e mezza al giorno per due dollari e mezzo la settimana. La sua camera costava tre dollari al mese. Berkman proveniva da una famiglia di condizioni leggermente

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più elevate, che in Russia era stata sufficientemente ricca da permettersi dei domestici e da mandare il ragazzo al ginnasio. Ma poi erano sopraggiunti i rovesci economici; lo zio preferito, un uomo di sentimenti rivoluzionari, era stato preso dalla polizia cd era scomparso, e Sasa (Alcksandr) era stato espulso da scuola per un tema in cui esaltava l'ateismo e il nichilismo. Ora, all'età di vent'anni, aveva «il collo e il torace di un gigante», una fronte alta e pensosa, occhi intelligenti e un'espressione severa. Dalla «tensione e pauroso eccitamento» del discorso di Most sui martiri, Emma trovò «sollievo» tra le braccia di Sasa, e in seguito il suo entusiasmo la spinse anche tra quelle di Most. La tensione di questa relazione non si dimostrò molto diversa da quella di un qualsiasi triangolo borghese. Nel giugno del 1892 a Homestead, in Pennsylvania, il sindacato degli operai delle acciaierie scioperò per protestare contro una riduzione dei salari effettuata dalla Carnegie Stecl Company. La ditta aveva ridotto i salari nel dclibcr.ato tentativo di distruggere il sindacato e, aspettandosi battaglia, fece erigere una staccionata sormontata da filo spinato, dietro la quale aveva intenzione di far funzionare la fabbrica con trecento crumiri reclutati dall'agenzia Pinkcrton. Essendo diventato un filantropo, Andrcw Carncgic si ritirò silenziosamente dalla scena e andò a pesca di salmoni in Scozia, lasciando il suo direttore, Henry Clay Frick, a combattere contro i lavoratori organizzati. Nessuno poteva farlo con maggior competenza, e maggior volontà di lotta. Era un uomo di quarantatré anni, di bcll'aspctto, con un paio di folti baffi neri che si confondevano con la corta barba nera; aveva maniere gentili e distinte e occhi che potevano diventare improvvisamente «freddi come l'acciaio». Frick proveniva da una famiglia benestante della Pennsylvania. Vestiva sobriamente di blu scuro e non portava mai gioielli. Una volta che si era sentito offeso per una caricatura fattagli sul «Leader» di Pittsburgh, aveva detto alla sua segretaria: «Questo non va. Non va affatto. Cerchi il proprietario di questo giornale e lo compri». I crumiri reclutati da Frick per mandare avanti la fabbrica dovevano entrare nello stabilimento il 5 luglio. Furono traghettati attraverso il Monongahcla in barche blindate e già stavano per approdare, quando gli scioperanti attaccarono con cannoni, fucili, dinamite e olio bollente. La giornata di battaglia finì con dieci morti, settanta feriti, e gli uomini della Pinkerton scaraventati fuori dalla fabbrica dai lavoratori sanguinanti ma trionfanti. Il governatore della Pennsylvania mandò ottomila guardie nazionali, la regione era in fermento, e Frick, fra il fumo, la morte e il fragore, presentò un ultimatum in cui ribadiva il suo rifiuto di

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trattare con il sindacato e manifestava l'intenzione di assumere operai estranei ai sindacati e di licenziare e cacciare di casa i lavoratori che si rifìuta\'ano di tornare al lavoro. «Homestead! Devo andare a Homestead!» gridò Berkman quella sera memorabile in cui Emma irruppe in casa sventolando il giornale. Era, sentivano, «il momento psicologico per l'azione ... l'intero paese era indignato con Frick e un colpo diretto contro di lui, ora, avrebbe attirato l'attenzione del mondo intero». Gli operai scioperavano non soltanto per sé ma «per tutto il mondo, per una vita libera, per l'anarchia», sebbene non lo sapessero. Per il momento erano soltanto «ciecamente ribelli», ma Bcrkman si assunse il compito di «illuminare» la lotta e impartire «la visione dell'anarchia, la sola cosa che potesse dare al malcontento un cosciente scopo rivoluzionario». L'eliminazione di un tiranno non solo era giustificata, ma era «un atto di liberazione, significava ridare la vita a un popolo oppresso». Era il «più alto dovere» e la «prova del fuoco per ogni vero rivoluzionario» morire per questa causa. Berkman prese il treno per Pittsburgh deciso a uccidere Frick, ma a sopravvivere quanto bastava «a difendere la sua causa in tribunale». Poi, in prigione sarebbe «morto di propria mano, come Lingg». Il 23 luglio si diresse all'ufficio di Frick, dove fu introdotto dopo aver presentato un biglietto sul quale aveva scritto: «Agente di una agenzia di collocamento di New York». Frick stava discutendo col suo vicepresidente, John Leishman, quando Bcrkman entrò, estrasse la pistola e sparò. I I proiettile ferì Frick sulla parte sinistra del collo, sparò di nuovo e lo ferì a destra, e quando sparò per la terza volta, il braccio gli venne deviato da Leishman, cosicché fallì completamente la mira. Frick, sanguinante, si era rialzato e gettato contro Bcrkman che, attaccato anche da Lcishman, cadde a terra trascinando con sé i due uomini. Liberando una mano, l'anarchico riuscì a estrarre un pugnale dalla tasca e colpì Frick al fianco e alle gambe per ben sette volte prima di essere finalmente trascinato fuori da un vicesceriffo e da altri che si erano precipitati nella stanza. «Lasciatemelo vedere in faccia» mormorò Frick, terreo in viso, la barba e i vestiti inzuppali di sangue. Lo sceriffo afferrò la testa di Berkman per i capelli, e gli occhi di Frick e del suo aggressore s'incontrarono. Alla stazione di polizia rinvennero addosso a Bcrkman due capsule di fulminato di mercurio, dello stesso tipo di quelle usate da Lingg per suicidarsi (alcuni dissero che gliele trovarono in bocca). Frick sopravvisse, lo sciopero fu stroncato dalla Guardia nazionale, e Bcrkman finì in prigione per sedici anni.

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Tutto ciò lasciò il paese annichilito, ma questo fu nulla in confronto allo choc che subirono gli ambienti anarchici quando, su ((Frciheit)) del 27 agosto, Johann Most, l'apostolo della violenza, rinnegò il proprio passato e sconfessò il tentato tirannicidio di Bcrkman. Disse che l'importanza dell'azione terroristica era stata sopravvalutata e non poteva suscitare la rivolta in una nazione il cui proletariato non aveva coscienza di classe, e parlando di Berkman, divenuto un eroe agli occhi degli anarchici, si espresse in termini di disprezzo. Quando ripeté questo punto di vista verbalmente, durante una riunione, una femmina furiosa si alzò tra il puhhlico. Era Emma Goldman, armata di un frustino, che balzò sull::i tribuna e si avventò sull'ex amante colpendolo in viso e sul corpo. Lo scandalo fu tremendo. lnduhhiamente, sia il gesto di ~lost che quello della ragazza furono in parte determinati dai loro sentimenti personali. Forse Most aveva preso esempio da Kropotkin e da Malatesta, che già nel caso Ravachol avevano messo in discussione il valore degli atti di violenza. ~la Berkman non era Ravachol; era chiaro che un sentimento di gelosia per il più giovane rivale, sia in amore che nel mo,·imcnto rivoluzionario, aveva animato Most. Il suo attacco stizzoso contro un compagno anarchico che si era dimostrato disposto a morire in nome dell'azione fu un tradimento sensazionale dal quale il mo\'imcnto anarchico in America non si riprese mai completamente. Ciò non ebhc alcun elfctto sulla gran massa del pubblico, che si accorgeva soltanto degli attentati degli anarchici. Il terrore della società per la forza disgregatrice proycnicntc dal suo stesso interno cresce\'a a ogni attacco. L'anno dopo i fatti di Homcstead, il terrore tornò a scoppiare quando il gm·ernatorc dell'Illinois,.John P. Ahgcld, graziò i tre prigionieri superstiti di Haymarket. Ahgeld era un indi,·iduo strano, duro, appassionato, nato in Germania e portato negli Stati Uniti all'età di tre mesi, che aYc\'a a\'uto un'infanzia di stenti e di duro larnro manuale. A\'c\'a combattuto durante la guerra ci\·ilc a sedici anni, a,·cva studiato legge, era di,-cntato procuratore distrettuale, giudice e inlìnc go\'ernatore; a\'C\'a accumulato una fortuna in beni immobili cd era un liberale addirittura fanatico. Si era proposto di ,·cndicarc le ingiustizie compiute dalla corte marziale non appena a,-csse avuto il potere in mano, e a questo suo proposito non era estraneo un certo malanimo contrÒ il giudice Gary. ;\;on appena fu eletto goYcrnatore iniziò la re,·isione dei \'erbati del processo e il 26 giugno del 1893 concesse la grazia in un documento di 18.000 parole, in cui alfcrma\'a la illegalità del Yerdctto originario. Dimo'ltrò che la giuria era stata influenzata e che fin dal principio era stata scelta in modo che la condan-

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na fosse sicura. Dimostrò anche che il giudice era prevenuto contro gli imputati e poco propenso a condurre un processo regolare e che, proprio per ammissione del procuratore distrettuale, non c'erano prove effettive contro nessuno degli imputati. Questi fatti non erano ignoti e nell'anno trascorso tra il verdetto e l'impiccagione molti influenti cittadini di Chicago, turbati dalla sentenza di morte, si erano adoperati privatamente per ottenere la grazia; infatti erano riusciti a far commutare la pena per i tre imputati che erano rimasti in vita. Ma quando Altgeld rivelò pubblicamente gli imbrogli della legge, scosse la fede del pubblico in una delle istituzioni fondamentali della società. Se avesse graziato gli anarchici per puro atto di generosità, nessuno avrebbe reagito. Così invece fu bersagliato dalla stampa, dai pastori sui loro pulpiti, da personaggi influenti di ogni genere. Il «Biade» di Toledo disse che aveva incoraggiato «la rovina della civiltà». Il «Sun» di New York, offeso, si espresse così:

Oh wild Chicago ... Lift up your weak and guilry hands From oul lhe wreck of slales And as the crumbling towers fa// down, Wrilt ALTGELD on your gales! 1 Alle elezioni successive, Altgcld fu sconfitto e perse la carica. Vi furono anche altri motivi oltre alla grazia, ma è certo che non tornò mai più in carica prima di morire, nel 1902, all'età di cinquantacinque anni. Contemporaneamente a questi fatti esplose in Spagna l'era della dinamite. Là iniziò con maggior ferocia, continuò tra eccessi e crudeltà sempre crescenti e durò più che in qualsiasi altra nazione. La Spagna è un paese disperato, con un senso tragico della vita. Le sue montagne sono nude, le sue cattedrali tenebrose, i suoi fiumi si seccano durante l'estate; uno dei suoi re si costruì il proprio mausoleo funebre per abitarlo in vita. Lo sport nazionale di quel paese non è un gioco ma un rituale del pericolo e dello spargimento di sangue. I suoi caratteri particolari furono ben espressi dalla spodestata regina lsaballa II, la quale, durante una visita alla capitale nel 1890, scrisse alla figlia: «Madrid è triste e tutto è più innaturale che mai». Era logico che in Spagna la lotta titanica tra Marx e Bakimin per il 1 «Oh sd\'aggia Chicago... / Alza le tue deboli colpevoli mani/ Dalla rovina degli stati/ e mentre le torri sgretolate crollano, / scrivi ALTGELD sulle tue porte!» [N.d. T.]

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controllo del movimento operaio dovesse concludersi con la vittoria della tendenza anarchica. Tuttavia in questo paese, dove tutto si fa sul scrio, gli anarchici si organizzarono, e il risultato fu che essi presero radice e il loro potere durò fino ai nostri giorni. Come la Russia, la Spagna era un calderone in cui gli clementi rivoluzionari bollivano sotto il coperchio ermetico dell'oppressione. La chiesa, i possidenti, la Guardia Civil, tutti i difensori dello stato si adoperavano per tener chiuso il coperchio. Sebbene la Spagna avesse le Corles e una parvenza di sistema democratico, in realtà la classe operaia non aveva i mez,.i legali per ottenere riforme e mutamenti come in Francia e in Inghilterra. Era perciò tanto più forte la tendenza all'anarchia e ai suoi metodi violenti. Ma a differenza dell'anarchia «pura», la forma spagnola era costretta al collettivismo perché l'oppressione era troppo pesante per concedere speranze all'azione individuale. Nel gennaio del 1892 si verificò un fatto che, come la faccenda del 1° maggio a Clichy, doveva inaugurare un tragico ciclo di azioni, rappresaglie e vendette. La rivolta contadina era endemica nel sud, dove immensi latifondi di proprietari sempre lontani erano coltivati da contadini che lavoravano tutto il giorno per un boccone di pane. Quattrocento di loro si sollevarono e armati di forconi, falci e le poche armi da fuoco che erano riusciti a trovare, marciarono sul villaggio di Jcrcz dc la Frontcra, in Andalusia, per liberare cinque compagni condannati all'ergastolo per complicità in un'azione sindacale avvenuta dicci anni prima. L'insurrezione fu prontamente repressa dalle forze militari, e quattro dei suoi capi condannati alla garrotta, una forma spagnola di esecuzione capitale, in cui la vittima viene legata con la schiena a una palo e poi strangolata con un cerchio di ferro che il boia stringe dal di dietro con una manovella di legno. Zarzuela, uno dei condannati, morì gridando al popolo: «Vendicateci!» Uno dei baluardi del governo spagnolo era il generale Martincz dc Campos, le cui forze avevano restaurato la_monarchia nel 1874. Aveva poi sconfitto i carlisti, represso una delle prime insurrezioni cubane e aveva ricoperto le c~richc di primo ministro e di ministro della Guerra. Il 24 settembre 1893 stava passando in rassegna una parata di truppe a Barcellona quando, dalla prima fila della folla, un anarchico di nome Pallas, che era stato in Argentina con Malatesta, gettò una bomba e poi una seconda, uccidendo il cavallo del generale, un soldato e cinque spettatori, ma mancando la vittima designata, che fu scaraventata sotto il corpo del suo cavallo e se la cavò solo con qualche ammaccatura. Pallas, come confessò orgogliosamente, aveva progettato di uccidere il generale e «tutto il suo stato maggiore».

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Condannato a morte dalla corte marziale, gridò: «Accetto! Cc ne sono a migliaia che continueranno la mia opera!». Gli fu permesso di salutare i suoi bambini, ma, per qualche barbaro motivo, non gli fecero \'edere né la moglie né la madre. Condannato alla fucilazione nella schiena, un'altra variante spagnola di esecuzione, ripeté il grido dell'Andalusia: «La \'cndctta sarà terribile!». Essa arrivò nel giro di poche settimane, sempre nella capitale della Catalogna e, dato il numero dei morti, fu il più letale colpo di mano degli anarchid. L'8 nm·cmbrc 1893, quasi in coincidenza con l'anni\'crsario di Haymarkert, si inaugura\'a la stagione lirica del Teatro Lycco e il pubblico, negli sfa\'illanti abiti da sera, stava ascoltando il Guglielmo Teli. Durante questo dramma della sfida ai tiranni, vennero lanciate due bombe dal loggione: una esplose uccidendo di colpo quindici persone, l'altra restò inesplosa, minacciando di scoppiare da un momento all'altro. Ciò pro\'ocò un pandemonio, «terrore e panico», urla, strilli e una corsa forsennata verso le uscite, durante la quale «le persone lotta\'ano come bel\'c braccate, senza rispettare né sesso, né età». In seguito, quando i feriti vennero riportati fuori, con gli splendidi abiti stracciati e il sangue_ colante sui candidi sparati inamidati, la folla ammassata all'esterno «malediceva sia gli anarchici che la polizia», secondo un cronista. Altre sette persone morirono in seguito alle ferite riportate, facendo salire il numero delle vittime a un totale di ventidue morti e cinquanta feriti. La risposta del go\'crno fu altrettanto \'iolcnta. La polizia fece irruzione in tutti i posti - club, case pri,·atc o luoghi di riunione- in cui le risultasse si annidasse lo scontento sociale. Centinaia, migliaia di persone furono arrestate e gettate nelle prigioni di l\lontjuich, una fortezza a duecento metri sul li\'cllo del mare, i cui cannoni domina\'ano il porto e la città di Barcellona, condannando al fallimento qualsiasi ri\'olta di quella ei1tà, ribelle per tradizione. Le prigioni erano talmente piene che gli ultimi arrestati do\'cllcro \'cnir custoditi incatenati dentro le na\'i da guerra ancorate nel porto sottostante. Poiché il colpc,·olc non salta,·a fuori, in quanto nessuno era disposto a dichiararsi responsabile di tante morti, si ricorse alle più crudeli torture per estorcere una confessione. I prigionieri ,-cnirnno torturati con ferri arrm-cntati o costretti a frustate a camminare per trenta, quaranta, cinquanta ore consecutive, o altre simili procedure tipiche della terra dell'Inquisizione. l\lcdiantc questi sistemi furono estorte informazioni che portarono, nel gennaio del 189-t-, alrarrcsto di un anarchico, Santiago Sal\'ador, il quale confessò di essere responsabile del deli110 del teatro dell'opera, commesso per \'endicarc Pallas. Al suo arresto i suoi compagni anarchici di Barcellona

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reagirono subito con un'altra bomba, che uccise due innocenti. Il governo rispose condannando a morte sci prigionieri, ai quali erano state estorte alcune dichiarazioni mediante la tortura, e che furono uccisi in aprile. Sah-ador, che aveva tentato invano di suicidarsi con la pistola e il veleno, fu processato separatamente in luglio e giustiziato in no\'embre. L'orrendo episodio dell'attentato al teatro dell'opera in Spagna impressionò le autorità di tutto il mondo, tanto che persino gli inglesi si chiesero se fosse giusto lasciare che gli anarchici predicassero apertamente le loro dottrine. Quando, tre giorni dopo l'attentato, gli anarchici inglesi tennero la loro tradizionale riunione commemorativa per i martiri di Haymarkct, ci fu un'interpellanza parlamentare sulla condotta del ministro dell'Interno, il liberale Asquith, che a\'cva concesso l'autorizzazione, dato che tali riunioni do\'evano essere prima approvate dal ministero dell'Interno. Asquith tentò di far accantonare la questione, minimizzandola, ma ,-enne «schiacciato», secondo un cronista, dal capo dell'opposizione, Balfour; col suo· tono languido, questi insinuò che il diritto di gettare bombe non era un argomento da trattarsi in pubblici dibattiti, e che non lo si poteva sostenere col pretesto che la società era male organizzata. Sia che fosse stato convinto dalle parole di Balfour, sia che i morti spagnoli a\'esscro pro\'ocato in lui un ripensamento, Asquith comunque cambiò opinione e pochi giorni dopo annunciò che, poiché «la diffusione della dottrina anarchica era pericolosa all'ordine sociale», non sarebbero state più permesse pubbliche riunioni di anarchici. A quel tempo gli anarchici londinesi erano per lo più russi, polacchi, italiani e altri esiliati che gra\'itavano intorno al circolo anarchico «Autonomie»; c'era poi un secondo gruppo, composto di immigrati ebrei che vivevano e larnravano miseramente nell'East End, pubblicavano un giornale in lingua yiddish, «Ocr Arbeiter-Fraint», e si riunivano in un club chiamato «Internazionale», a \\"hitcchapcl. La classe operaia inglese, alla quale gli atti di violenza individuale venivano meno spontanei che agli slavi e ai latini, non era, nel complesso, particolarmente interessata. Uno dei pochi «portatori di fiaccola» era l'intellettuale \\'illiam l\lorris, ma egli era interessato soprattutto alla propria interpretazione personale di uno stato utopistico, e poiché la sua influenza si era attenuata alla fine del 1880, perse il controllo del «Commonwealth», il giornale da lui fondato e diretto che passò ad anarchici più impegnati, plebei e ortodossi. Un altro giornale, «Frecdom», era l'organo di un gruppo attivo il cui vate era Kropotkin, e un terzo, chiamato «The Torcl1», diretto dalle due figlie di \\'illiam Rosset-

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ti, pubblicava gli articoli di Malatesta, Faure e di altri anarchici francesi e italiani. Nel 1891, con la pubblicazione di TheSoul of Man UnderSocialism, uno strano proselite svolazzò un po' intorno al movimento come una splendida farfalla, e poi volò via. L'autore del saggio era Oscar Wildc. Era stato molto colpito dalla personalità di Kropotkin e intravide un'autentica libertà per l'artista in una società in cui «autorità e costrizioni fossero naturalmente eliminate». Nonostante il titolo, egli muoveva al socialismo le stesse obiezioni degli anarchici ortodossi, cioè che era improntato all'«autoritarismo». Se i governi devono essere armati di potere economico, «se, in altre parole, dobbiamo giungere a tirannie industriali, allora questa condizione dell'uomo sarà peggiore della prima». L'ideale di Wildc era il socialismo fondato sull'individualismo, e quando questo avesse liberato la vera personalità dell'uomo, l'artista sarebbe stato finalmente autonomo. Nel frattempo in Francia gli attentati non avevano avuto tregua. L'8 novembre 1892, durante uno sciopero di minatori contro la Société dcs Mincs dc Carmaux, una bomba venne depositata negli uffici parigini della società, in Avcnuc dc l'Opéra. Scoperta dal portinaio, venne portata fuori sul marciapiede e trasportata con cautela da un agente alla stazione di polizia più vicina, in Ruc dcs Bons Enfants. Mentre l'agente la portava dentro, essa esplose violentemente, uccidendo altri cinque agenti che si trovavano nella stanza. Essi furono ridotti a brandelli, sangue e frammenti di carne schizzarono tutt'intorno, pezzi di gambe e di braccia giacevano dappertutto. I sospetti della polizia si concentrarono su Emilc Hcnry, fratello minore di un noto oratore radicale e figlio di Fortuné Hcnry, che era fuggito in Spagna dopo essere stato condannato a morte durante la Communc. Quando furono ricostruiti i movimenti di Emile Hcnry durante quel giorno, risultò impossibile che avesse potuto trovarsi in Avcnuc dc l'Opéra all'ora giusta, e per il momento non vi fu nessun arresto. La bomba nella stazione di polizia gettò Parigi nel panico, nessuno sapeva dove sarebbe caduta la prossima. Chiunque avesse rapporti con la legge o la polizia era quasi considerato un appestato dai vicini, e in qualche caso veniva addirittura sfrattato dal padrona di casa. La città, scrisse un turista inglese, era «completamente paralizzata» dal terrore. Le classi più ricche «rivivevano i giorni della Comune. Non si azzardavano ad andare a teatro, al ristorante, nei negozi eleganti di Ruc dc la Paix, né a cavalcare al Bois dove gli anarchici potevano nascondersi dietro a ogni albero». Circolavano voci terribili: gli anarchici avevano

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minato le chiese, versato acido prussico nelle cisterne della città, si nascondevano sotto i sedili delle carrozze, pronti a balzare addosso ai passeggeri per derubarli. In periferia erano stati adunati forti contingenti di truppe, pronte a marciare sulla città, i turisti se ne andavano, gli alberghi erano deserti, gli autobus vuoti, i teatri e i musei sprangati. Era comunque un periodo di rancore e di disgusto. La repubblica aveva appena evitato il colpo di stato di Boulanger che fu subito messa alla gogna dalla rivelazione del marcio connesso con lo scandalo di Panama e con il traffico ufficiale delle onorificenze. Dal 1890 al 1892, giorno dopo giorno, venne dipanandosi in Parlamento la lunga catena di prestiti illegali, concessioni, fondi segreti a cui si era fatto ricorso per finanziare l'impresa di Panama, e alla fine risultarono coinvolti 194 deputati. Anche Georges Clemenceau risultò colpevole di connivenza e perse il seggio nelle elezioni successive. Man mano che s'indeboliva il prestigio dello stato, fioriva l'anarchia. Gli intellettuali flirtavano con essa. La recondita antipatia per il governo e le leggi che esiste nella maggior parte degli uomini, in alcuni è più vicina alla superficie. Come l'uomo grasso ha dentro di sé un ometto magro che grida per uscire, ogni uomo rispettabile ha un piccolo anarchico dentro di sé, e tra gli artisti e gli intellettuali dell'ultimo decennio del secolo, il suo debole grido si faceva udire spesso. Il romanziere Maurice Barrès, che nel corso della sua vita aveva tentato di trovare in tutti i partiti politici una tribuna per il suo talento, esaltò la teoria anarchica nel suo L 'ennemi des lois e in Un homme libre. Il poeta Laurent Tailhade salutò la futura società anarchica come un «periodo benedetto», in cui l'aristocrazia sarebbe stata quella dell'intelletto e l'«uomo comune avrebbe baciato le orme dei poeti». L'anarchia letteraria diventò una moda tra i simbolisti, come Mallarmé e Paul Valéry. Lo scrittore Octave Mirbeau fu attratto dall'anarchia perché aveva in orrore l'autorità. Detestava chiunque portasse l'uniforme, poliziotti, bigliettai, fattorini, portinai, domestici. Per lui, diceva il suo amico Léon Daudet, un proprietario era un pervertito, un ministro era un ladro, avvocati e finanzieri gli davano il voltastomaco, aveva tolleranza solo per i bambini, i mendicanti, i cani, certi pittori e scultori e le ragazze molto giovani. «Credeva fermamente che si potesse eliminare la miseria dal mondo» disse un suo amico: «il fatto che esistesse ancora provocava il suo odio». Tra i pittori, Pissarro contribuì a «Le Père Peinard» con alcuni disegni, e parecchi brillanti illustratori parigini, fra cui Théophile Steinlen, espressero sui giornali anarchici l'orrore per le ingiustizie sociali, a volte addirittura, come quando rappresentarono il presidente

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francese con i pantaloni del pigiama sporchi, sotto forme che sarebbe stato difficile pubblicare negli anni posteriori. In quel periodo compan-cro parecchi fogli del genere, giornali effimeri come «L'anticristo», «La nm·clla aurora», «Bandiera nera», «L'umanità nuo\'a», «Gli incorruttibili», «Sans-culotte», «Terra e libertà», «Vendetta». I ,·ari gruppi si darnno nomi quali «La lega degli antipalrioti» o «I liberatori,, e si riuni\'ano in sale poco illuminate, con file di panche come unico mobilio, do\'e gli affiliati esprimevano il loro disprezzo per lo stato, parla,·ano di ri\'oluzione, ma non si davano mai un'organizzazione effeui,·a, non accetta,·ano capi, non facevano piani, non prcnde\'ano ordini. Ai loro occhi lo stato, col suo panico per il caso Ra,·achol e con tulio il marciume ri,·clato dalla faccenda di Panama, era già un ammasso di ro\'ine . .'.\"cl marzo del 1893 un uomo di trentadue anni, August Vaillant, tornò a Parigi dall'Argentina, do\''era andato con la speranza d'iniziare una nuo\'a ,·ita oltreoceano, senza però riuscire ad affermarsi. Figlio illegiuimo, a,-c,·a dicci mesi quando sua madre aveva sposato un tale che si era rifiutato di mantenere il bambino. Questi era stato affidato a genitori adotti,·i e a dodici anni \'i\'e\'a da solo a Parigi, do\'e faceva i mrsticri più disparati, rubacchia\'a, chiede\'a l'elemosina. In qualche modo riuscì a frequentare le scuole e a tro\'are un impiego. Per un certo tempo diresse un scllimanale di brè,·e \'ita intitolato «L'Union Socialiste», ma ben prc-sto, come altri diseredati, incominciò a gra\'itare intorno ai circoli anarchici. Come segretario di una «Fédération des groupes indépcndants», ebbe alcuni contatti con esponenti anarchici, tra cui Sébastien Faure, la cui «\'oce armoniosa e carezze\'ole», le cui belle frasi e maniere eleganti inducevano chiunque a credere nell'era anarchica, fintanto che lo ascoha\'a. Vaillant si sposò, si divise dalla moglie, ma tenne con sé la figlia, Sidonie, e si prese un'amante. Poiché non era un lihc-rtino, tenne unita la sua famigliola sino alla fine. Dopo il te111atirn fallito in Argentina, tentò di rifarsi una vita a Parigi, e come il contemporaneo Knul Hamsun, che allora \'agabondava affamato per le \'ie di Oslo, pro,·ò l'umiliazione- delle «frequenti ripulse, delle promesse ,·aghc, dei "no" secchi, delle speranze deluse e degli sforzi inutili», fino all'ultima frustrazione, quando non ebbe più \'estiti decenti da mettere pc-r presmtarsi a un larnro . .'.\"on potendo permettersi un paio di scarpe, Vaillant porta,·a un paio di galosce scovate tra i rifiuti. Infine tro\'Ò un la\'oro in una raffineria di zucchero con una paga di tre franchi al giorno, troppo poco per mantenere tre persone. Triste e umiliato di \'C'dcrc sua figlia e la sua donna patire la fame, disilluso da un mondo così di\'crso da quello che a\'rebbc \'oluto, decise

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di farla finita. Non se ne sarebbe andato silenziosamente, ma con un «grido di tutta quella classe» come scrisse la notte prima del suo gesto «che avanza i suoi diritti e un giorno assai vicino unirà l'azione alle parole. Per lo meno morrò con la soddisfazione di sapere che ho fatto ciò che potevo per affrettare l'avvento di una nuova era». Incapace di uccidere, Vaillant concertò un gesto che aveva un certa logica. Egli vedeva nel Parlamento, teatro di continui scandali, il simbolo del male che affiiggeva la società. Fabbricò una bomba con una casseruola piena di chiodi e con un'innocua carica di esplosivo. Nel pomeriggio del 9 dicembre 1893 se la portò appresso nella galleria aperta al pubblico della Camera dei Deputati. Un osservatore vide una figura alta e scarna con una faccia pallida alzarsi in piedi e gettare qualcosa nella sala sottostante in cui era in corso il dibattito. La bomba di Vaillant detonò col rombo di un cannone, schizzando frammenti di metallo addosso ai deputati, ferendone parecchi, ma non uccidendo nessuno. L'impressione, non appena si riseppe la notizia, fu enorme, e fu resa memorabile da un intraprendente giornalista. Quella sera, a un pranzo offerto dal giornale «La Piume», questi chiese a un gruppo di celebrità fra cui Zola, Verlaine, Mallarmé, Rodine Laurent Tailhade, la loro opinione sul fatto. Tailhade rispose con una frase solenne e squisitamente ritmata: «Qu'importe les viclimes si le gesle est beau?». Pubblicata su «Le Journal» il mattino seguente, l'osservazione doveva essere presto rievocata in macabre circostanze. Quella stessa mattina Vaillant si costituì. Tutta la Francia capì il suo gesto e molti, non solo gli anarchici, simpatizzarono con lui. Per colmo d'ironia, i simpatizzanti facevano parte dell'estrema destra, le cui forze antirepubblicane (monarchici, gesuiti, aristocratici, capitalisti e antisemiti} disprezzavano lo stato borghese per loro motivi personali. Edouard Drumont, autore di La France juive e direttore de «La libre parole», impegnato a inveire contro gli ebrei coinvolti nello scandalo di Panama, scrisse un articolo dal titolo altisonante: Fango sangue e oro-Da Panama all'anarchia. «Gli uomini dall'animo nobile» diceva «sono nati dal sangue di Panama.» La duchessa d'Uzès, entrata a far parte di una delle famiglie ducali più importanti, si offrì di dare una casa e un'educazione alla figlia di Vaillant (che però questi preferì lasciare alla protezione di Sébastien Faure}. Inferocito, deciso a finirla una volta per sempre con gli anarchici, il governo passò all'azione per soffocarne la propaganda. Due giorni dopo la bomba di Vaillant, la Camera votò all'unanimità due leggi per cui diventava reato stampare qualsiasi istigazione- diretta o «indiretta» ad atti terroristici, o associarsi allo scopo di commettere tali atti.

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Sebbene fossero note come /es lois scélérates, non erano provvedimenti illogici, dato che la propaganda all'azione era in realtà la causa prima degli attentati. La polizia fece irruzione nei caflè e nei luoghi di riunione degli anarchici, furono emessi duemila mandati di cattura, furono dispersi circoli e gruppi; «La Révolte» e «Le Père Peinard» dovettero cessare le pubblicazioni, e i capi anarchici lasciarono il paese. 1110 gennaio, Vaillant fu processato dinar.zi a cinque giudici in toga rossa e tocco nero coi bordi dorati. Accusato di tentato omicidio, insisté di aver solo avuto intenzione di ferire. «Se avessi avuto intenzione di uccidere, avrei usato una carica più forte, e riempito il recipiente di pallottole; invece, ho usato soltanto chiodi.» Il suo avvocato, Maitre Labori, destinato al dramma e alla violenza di uno scandalo assai più famoso, lo difese con vigore, come un exaspiré de la misère. Era il Parlamento, disse Labori, che era compevolc per non aver posto rimedio «alla miseria che opprimeva un terzo della nazione». Malgrado gli sforzi di Labori, Vaillant fu condannato a morte. Per la prima volta nel XIX secolo, veniva pronunciata una sentenza di morte contro una persona che non aveva ucciso. Processo, verdetto e sentenza furono concentrati in un unico giorno. Quasi immediatamente le petizioni di grazia cominciarono a bersagliare il presidente Sadi Carnot, compresa quella di un gruppo di sessanta deputati guidati da Abbé Lemire, uno di quelli che erano stati feriti dalla bomba. Un ardente socialista,J ules Breton, predisse che se Carnot «si fosse dichiarato favorevole alla condanna a morte, non un solo uomo in Francia lo avrebbe pianto se un giorno fosse stato lui stesso vittima di un attentato». Come istigazione al delitto, questa frase costò a Breton due anni di prigione; era il secondo commento sul caso Vaillant che, per una strana coincidenza, si sarebbe realizzato. Il governo non poteva perdonare un attacco anarchico allo stato. Carnot si rifiutò di concedere la grazia e Vaillant fu giustiziato senza indugio il 5 febbraio 1894, mentre gridava: «Morte alla società borghese! Viva l'anarchia!». Il susseguirsi di attentati prese un ritmo sempre più veloce. Solo sette giorni dopo che Vaillant era stato ghigliottinato, fu vendicato da un colpo tanto irragionevolmente crudele che la popolazione provò l'impressione di vivere in un incubo. Stavolta la bomba fu scagliata non contro i rappresentanti della legge, della proprietà o dello stato, ma contro l'uomo della strada. Essa esplose nel caflè Terminus alla Gare St. Lazare in mezzo a un gruppo di «tranquilli, anonimi cittadini riuniti in un callè a bere una birra prima di andare a letto», come scrisse «Le Journal». Vi furono un morto e venti feriti. Il terrorista aveva agito,

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come si seppe in seguito, in base a una folle logica tutta sua. Prima ancora che avesse luogo il processo le vie di Parigi rimbombarono di altre esplosioni: in Rue St.Jacques una bomba uccise un passante, una in Faubourg St. Germain non fece danni, una terza esplose nella tasca dijean Pauwels, un anarchico belga, mentre entrava nella chiesa della Madclcine. Egli restò ucciso e si venne a sapere poi che era lui l'autore degli altri due attentati. Il 4 aprile 1894, una quarta bomba esplose in un locale di lusso, il Restaurant Foyot, e, sebbene non uccidesse nessuno, accecò Laurent Tailhade, che si trovava lì per caso e soltanto quattro mesi prima aveva esaltato «il bel gesto,, senza pensare alle vittime. L'isterismo della popolazione crebbe a tal punto che quando, durante una rappresentazione teatrale, uno scenario nel retro cadde con fragore, metà del pubblico si precipitò all'uscita gridando: (, in complesso la rivolta passionale dell'anar1 • Così forono dc-nominati in Amc-rica - ne-I primo dc-cc-nnio dc-I se-colo - ciuc-p;li scrittori e p;10rnalisti che- anacca\"ano sulla stampa le ,·arie- in)!;iustizie sociali e sostc-nc-rnno la nc-cc-ssità di una riforma. Il tc-rminc- fu coniato ne-I 1906 dal prc-sidc-nte Thc-odorc- Roose\"C'h. con rifc-rimc-1110 a un p

trattato di annessione con il ministro americano, che il presidente Harrison si affrettò a mandare al Senato in febbraio. Essendo stato sconfitto alle nuove elezioni dall'ex presidente Cleveland, che doveva entrare in carica il 4 marzo, Harrison chiese in Senato la procedura d'urgenza nella speranza di ottenerne la ratifica prima che il nuovo presidente entrasse in carica. La manovra era troppo scoperta e il Senato la sventò. Nemico di qualsiasi forma di espansione, Cleveland era un uomo che assomigliava a Rerd sia nell'assoluta integrità che nella figura fisica. Una volta, essendo stato scambiato per Cleveland in una stanza in penombra, Reed disse: «Grazie, ma non ditelo a Grover! È già anche troppo fiero del suo bell'aspetto». Dopo una settimana di presidenza, Cleveland revocò dal Senato il progetto di annessione, con grande preoccupazione del giovane amico di Reed, Roosevelt, che era molto addolorato di «dover ammainare la bandiera», come diceva lui. Il movente degli annessionisti era l'interesse economico. Ci volle Mahan per trasformarlo in una questione d'importanza nazionale. Nello stesso mese di marzo in cui Cleveland revocò il trattato, Mahan pubblicò un articolo sul «Forum» intitolato le Hawaii e il nostro futuro potere marittimo, in cui dichiarava che il dominio dei mari era la base principale della potenza e della prosperità delle nazioni e che, di conseguenza, «è urgente prendere possesso, quando si può farlo di diritto, di quelle posizioni marittime che contribuiscono ad assicurare il predominio». Le Hawaii «attirano l'attenzione dello stratega»; esse «occupano una posizione di importanza eccezionale ... e influenzano potentemente i commerci e il controllo militare del Pacifico». In un altro articolo pubblicato dall'«Atlantic Monthly» nello stesso mese, Mahan prospettò la necessità impellente, per il futuro della potenza marittima americana, del proposto Canale di Panama. Le solenni dichiarazioni del capitano Mahan erano espresse in tono talmente autorevole, da far apparire indiscutibile tutto ciò che diceva. Aveva già scritto The lnjluence oJSea Poweron History, in cui erano riunite tutte le precedenti conferenze tenute alla Scuola Navale di Guerra nel 1887, che fu pubblicato nel 1890. L'effetto sull'ambiente navale all'estero, se non in patria, fu immediato e profondo, e anche in America, sebbene avesse impiegato tre anni a trovare un editore, attirò l'attenzione di molte persone impegnate nella politica nazionale. Theodore Roosevelt, che a ventiquattro anni aveva scritto The Naval Warof 1812ed era stato perciò invitato a parlare alla Scuola Navale di Guerra, divenne discepolo di Mahan. Quando Tlie lnjluence of Sea Power on History venne pubblicato, lo lesse «da cima a fondo» e scrisse a Mahan di essere

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con\'into che sarebbe di\'entato «un classico della letteratura navale». \\"ahcr Hines Pagc del «Forum» e Horace E. Scudder dell'«Atlantic l\lonthly», editori nei giorni in cui i periodici erano arene vitali di opinioni, in\'itarono l\lahan a collaborare ai loro giornali. Harvard e Yale gli conferirono la laurea ad honorem. Neppure i suoi colleghi tradizionalisti si opponevano alle novità. Il suo predecessore alla Scuola .'.\a\'ale di Guerra, l'ammiraglio Stephen Luce, che aveva scelto l\lahan come successore quando egli era stato assegnato al comando della notta del '.\ord Atlantico, portò la nona a Newport affinché gli ufficiali potessero sentire le conferenze di quest'uomo nuovo che, predisse Luce, a,-rebbe fatto per la scienza navale ciò chejomini ai giorni di .'.\apoleone aveva fatto per la scienza militare. Dopo la prima conferenza, Luce si alzò e dichiarò: «Eccolo, si chiama Mahan!». l\lahan a,·eva scoperto il concetto chiave del potere marittimo: chiunque sia padrone dei mari è arbitro della situazione. Come Jourdain che parlò in prosa per tutta la vita senza rendersene conto, anche questa era una verità che era stata valida per lungo tempo senza che i suoi fruitori ne fossero consci; la formulazione di Mahan era perciò sbalorditiva. Il primo libro venne seguito e confermato da un secondo, Tht lnjluence of Sea Power on tlle French Revolution, pubblicato nel 1892. Il concetto originario gli era giunto «dall'interno» quando, leggendo la Storia di Roma di l\lommsen, era «rimasto colpito da quanto sarebbero state di\'erse le cose se Annibale avesse potuto invadere l'Italia dal mare ... o se avesse potuto, dopo lo sbarco, stabilire una linea di comunicazione diretta con Cartagine via mare». Mahan si rese subito conto che il «controllo dei mari era un fattore storico che non era mai stato sistematicamente apprezzato cd espresso». Era «una di quelle percezioni che trasformano in luce il buio interiore». Per mesi e mesi, mentre era in licenza, nel 1885, prima di prendere servizio alla Scuola Navale di Guerra, egli aveva frequentato la succursale della biblioteca di New York in Astor Piace, seguendo la sua pista attraverso la storia con crescente esaltazione e con tutte le facoltà «vive e scattanti». Negli Stati Uniti la costruzione di navi da guerra adatte non alla sola difesa costiera era, per tradizione, considerata un sacrilegio contro l'idea originaria dcli' America come nazione che poteva vivere senza aggressione e additare al mondo un nuovo futuro. In Europa le nazioni che avevano esercitato il potere sui mari per secoli furono improvvisamente rese consapevoli da l\lahan di ciò che possedevano. Un commentatore che si firmava «N'auticus» osservò che il dominio dei mari, come l'ossigeno, a\'eva innucnzato il mondo attraverso i secoli, ma che come la natura e il potere dell'ossigeno non erano stati compresi prima di

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Priestley, «così sarebbe successo per il potere marittimo, se non fosse stato per l\lahan». Destinato al comando della na\'e ammiraglia del Comando ~a vale in Europa nel 1893 (contro la propria \'olontà, poiché aHehhe preferito stare in patria e continuare a scri\'ere), l\lahan fu rice\'uto in Inghilterra con onori senza precedenti. Venne in\'itato dalla regina a un pranzo ufficiale a Osborne, pranzò con il principe di Galles e fu il primo straniero invitato dal Royal Yacht Squadron, che diede un pranzo in suo onore, con cento ospiti, tutti ammiragli e capitani. A Londra,John Hay, che si trO\'a\'a in \'isita là, gli scrisse che «tutte le persone intelligenti» sta\'ano aspettando di dargli il hem·enuto. Lord Rosehery, allora primo ministro, lo in\'itò a un pranzo pri\'ato al quale presero parte solo lui e John l\Iorley, e rimasero a chiacchierare fino a mezzanotte. Conobbe Balfour e Asquith, andò a far \'isita a lord Salisbury a Hatficld e pranzò di nuo\'o con la regina a Buckingham Palace. Con una toga rossa sopra l'uniforme e la spada, ricè\'ette una laurea in diritto ci\'ile a Oxford e una laurea in legge a Cambridge. Fu l'unico a rice,·ere la laurea da entrambe le università nella stessa settimana. Dopo un rapido viaggio nel Continente, dove, munito di guida turistica, ombrello e cannocchiale, ricostruì l'itinerario di Annibale, fu accaparrato dal suo discepolo più entusiasta, Guglielmo II, che lo invitò a pranzo a bordo del suo panfilo, l' Hohtnz_olltrn. Con un effetto che do\'e\'a ripercuotersi sulla storia mondiale, The lnjlumce of Sea Pou•er on History a\'e\'a insinuato nella mente del Kaiser l'idea che il futuro della Germania stesse nel mare. Dietro suo ordine, ogni na\'e della l\larina tedesca do\'e\'a a\'ere a bordo una copia del libro di l\lahan e le copie personali del Kaiser in inglese e in tedesco erano ampiamente sottolineate e fitte di note marginali e punti esclamati\'i. «Sto ora non leggendo, ma dirnrando il libro del capitano l\Iahan e sto cercando d'impararlo a memoria» comunicò il Kaiser a un amico mediante un telegramma nel 1894, mentre l\Iahan era in Europa. «È un libro di prim 'ordin·e, classico in ogni senso. L'ho messo a bordo di tutte le mie navi e \'iene costantemente citato da tutti i miei capitani e ufficiali.» I giapponesi erano non meno interessati. The lnjluence of Sea Pou·er on History \'enne adottato come un libro di testo nelle scuole na\'ali e militari giapponesi, e tutti i libri succcssi\'i di l\Iahan \'ennero tradotti in giapponese. La naturale conseguenza della tesi di l\Iahan era la necessità perentoria di s,·iluppare la flotta americana, che a quel tempo \'egeta,·a nello stato di trascuratezza in cui era sempre stata abbandonata. Come disse il ministro della l\larina di Clc\·eland, \\'illiam C. \\'hite, nel 1887, essa non era né abbastanza forte per combattere né abbastanza \'elocc per

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fuggire, e a giudizio di l\lahan, non la si potc\'a confrontare nemmeno con la l\larina del Cile, e ancor meno con quella spagnola. Nel 1880, quando si aprirono serie discussioni sul Canale di Panama, che senza un'adeguata potenza na\'ale a\'rcbbc costituito più un pericolo che un \'antaggio, l\Iahan a,·c\'a scritto: di Godkin, i principali organi antimilitaristi erano l'«Herald» di Boston, il «Sun» di Baltimora, e il «Republican» di Springfield; altri due giornali repubblicani, l'«Evcning Transcript» di Boston e il «Leader» di Filadelfia, diedero anch'essi il loro appoggio. Da parte degli antimperialisti vi era un forte senso di riluttanza, scaturito dal difficile rapporto con la popolazione negra dopo la guerra civile, ad accettare nuovi cittadini di colore. Non potevano derivare nient'altro che guai, scrisse aspramente Godkin sul «Natiom•, da «regioni abitate da razze inreriori e ignoranti>• con cui l'America non aveva niente in comune «nient'altro se non ciò che giovava agli avventurieri politici e alla corruzione». Cari Schurz si valse dello stesso argomento contro il Canale, dicendo che «una volta iniziata onestamente una carriera di espansionismo» gli imperialisti si sarebbero battuti affinché il Canale rosse fiancheggiato da ambo le parti da territorio americano e avrebbero preteso di annettere terre «con una popolazione di tredici milioni di ispano-americani mescolati con sangue indiano», che avI"ebhero invaso il Congresso con venti senatori e cinquanta o sessanta deputati. Le Hawaii, dove gli orientali soverchiavano numericamente i bianchi, rappresentavano la stessa minaccia. Gli antimperialisti non avevano accolto tra loro i populisti e i seguaci di Bryan e coloro che presto sarebbero stati noti come i progressisti. Mentre questi gruppi si opponevano all'esercito permanente, alla grande llotta navale e agli intrighi internazionali cd erano in teoria antimpe-

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rialisti, antimilitaristi e antieuropei, essi erano a un tempo pervasi da una gran febbre di combattere la Spagna come un crudele tiranno europeo che solTocava la libertà alle porte degli Stati Uniti. Bryan inrnca\'a la guerra con la stessa passione di Roosevelt, e in uno slancio di esibizionismo, sebbene non con altrettanto tempismo, sì era fatto nominare colonnello del 3" Volontari del Nebraska, troppo tardi però per partecipare all'azione cubana. Il più turbolento di tutti era un gio\'ane avvocato di lndianapolis, già celebre a trentasei anni come oratore politico, che do\'eva presto diventare capo dei progressisti. La brama imperialistica, la crescente tendenza al nazionalismo che si esprime\'ano in termini di espansionismo trovarono in Albert Beveridge il porta\'oce più acuto e brillante. Come Bryan, egli possedeva quel pericoloso talento per l'oratoria che può simulare l'azione e perfino il pensiero. La guerra ispirava a Beveridge slanci di eccitazione. «Siamo una razza di conquistatori» dichiarò a Boston in aprile, ancor prima della \'ittoria di l\lanila. «Dobbiamo obbedire all'impulso del nostro sangue e occupare nuovi mercati e, se necessario, nuovi territori ... Nei piani infiniti dell'Onnipotente ... le civiltà decadute e le razze decadenti» dovevano scomparire «dinanzi alla più alta civiltà delle specie più nobili e \'iriti». I fautori del pangermanesimo a Berlino e Joseph Chamberlain in Inghilterra parlavano anch'essi della missione della razza superiore, teutonica o anglosassone, ma Beveridge non a\'eva niente da imparare da loro; aveva idee proprie. Egli vide negli C\'enti attuali «il progresso di un popolo potente e delle sue libere istituzioni» e la realizzazione del sogno «che Dio aveva ispirato» a JelTerson, Hamilton, John Bright, Emerson, Ulysses S. Grant e altre «menti imperiali»; il sogno «dell'espansione americana finché tutti i mari fioriscano di quel fiore della libertà, la bandiera della grande repubblica». l'ì'on era tanto la libertà quanto il commercio che Beveridge \'ede\'a dietro a quella bandiera. Le fabbriche americane e le terre americane, diceva, producevano più di quanto gli americani potessero consumare. «Il destino ha segnato il nostro indirizzo politico; il commercio mondiale deve essere e sarà nostro ... Copriremo l'oceano con la nostra l\larina mercantile. Costruiremo una notta militare che sarà la misura della nostra grandezza ... La legge americana, l'ordine americano, la civiltà americana si instaureranno su quelle coste finora insanguinate e ottenebrate, ma, d'ora in avanti, rese belle e radiose dall'opera di coloro che sono ispirati da Dio.» Beveridge si lasciava talmente trascinare dai suoi sogni di grandezza che la spada da lui agitata scintillava in maniera troppo evidente. Parlava del Pacifico come «del vero campo delle nostre operazioni. Là

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la Spagna ha un impero nelle isole Filippine ... Là gli Stati Uniti hanno una flotta potente. Le Filippine sono, logicamente, il nostro primo bersaglio». Durante l'estate, mentre altri si arruolavano ,·olontari per andare a combattere a Cuba, e si ammalavano di febbre gialla (ne morirono oltre cinquemila), la partecipazione personale di Bc\'cridgc all'appello del sangue rimase puramente retorica. Si limitava a ri,·crsarc la sua rabbia sugli antimperialisti. «Cuba non è confinante? Porto Rico non è confinante? Le Filippine non sono confinanti? ... Dcwcy, Sampson e Schlcy le renderanno limitrofe e la velocità americana, i cannoni americani, il cuore, il ccr\'cllo, il coraggio americani le renderanno limitrofe per sempre! ... Chi osa fermarci adesso, ora che finalmente siamo un unico popolo, forte abbastanza per qualunque compito, grande abbastanza per qualunque gloria il destino possa concederci?» L'anno succcssi\'O Bcvcridgc venne eletto senatore. «Siamo un grande popolo» dichiarò Doolcy. «E, meglio ancora, sappiamo di esserlo.» Thcodorc Roosevelt durante quei mesi era al fronte. Sebbene ricoprisse un'alta carica, da tempo aveva pensato di lasciarla, in caso di guerra, per il servizio atti\'o. Uomini come lui, scrisse pri\'atamcntc a un_amico, essendo stati tacciati di essere «sciO\·inisti da salotto ... qualunque sia il mio prestigio, sfumerebbe se non applicassi le dottrine che ho cercato di predicare». Diede le dimissioni da sottosegretario della Marina immediatamente dopo ~Ianila, rifiutò il comando di un reggimento rnlontario di cavalleria, che gli venne offerto dal ministro della Guerra Algcr, ma chiese di prestare servizio come tenente colonnello a condizione che il comando fosse allìdato al suo amico colonnello Lconard \\'ood dell'esercito regolare. Così fu fatto. Il 24 giugno, due mesi dopo, egli era in azione a Sanj uan Hill. 113 luglio il combattimento di terra era finito, l'esuberante «rude ca,·alicrc» era un eroe e in no\'cmbrc \'enne eletto trionfalmente governatore di New York. Nel frattempo, in. un Congresso scosso dalla guerra, i sostenitori dell'annessione delle Hawaii tornarono alla carica. Ancora incapaci di dominare due terzi del Senato, avc\'ano deciso di ricorrere all'annessione mediante una delibera congiunta delle due Camere che richiedeva soltanto una semplice maggioranza. La delibera era stata portata al Senato il 16 marzo, ma Rced era riuscito a impedire che passasse alla Camera durante le agitazioni d'aprile. Il suo comando assoluto, commentò il «Post» di Washington il 15 aprile, face\'a di lui «l'antagonista più pericoloso della vita pubblica». Era infatti l'unico uomo che Be\'eridgc non osasse sfidare. Quando venne incaricato di scrivere a Rced per convincerlo a non opporsi all'espansionismo, Bc,·cridgc rispose:

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«Credo che ogni mio sforzo contro la volontà di quell'uomo sarebbe assolutamente inutile». Ma quando la guerra si estese al Pacifico, anche Reed durò fatica a mantenere il suo ferreo controllo. Esasperato, egli disse a Champ Clark del Missouri che si augurava che Dcwcy «salpasse immediatamente da quel luogo. Se non lo farà, ci procurerà guai a non finire». Gli annessionisti protestavano che se gli Stati Uniti non si prendevano le Hawaii, lo avrebbe fatto la Gran Bretagna, oppure il Giappone, che stava già complottando per acquistarne il controllo incoraggiando l'aillusso di sudditi giapponesi sussidiati dal governo. Inoltre le isole erano proprio sulla rotta americana. «Ci servono le Hawaii, quanto, se non di più, ci serviva la California» disse McKinley al suo segretario, Gcorge Cortelyou il 4 maggio. «È un chiaro destino.» Il 4 maggio la delibera venne presentata alla Camera. Recd la respinse per tre settimane malgrado le crescenti pressioni. La scusa che il controllo delle Hawaii era necessario per la sconfitta spagnola nel Pacifico rappresentava, a suo parere, un puro e semplice pretesto concepito dagli imperialisti e dal trust dello zucchero. In questo, Reed era in disaccordo con il presidente, con quasi tutto il suo partito al Congresso e con gli amici all'esterno. «Ora l'opposizione viene esclusivamente da Reed, che ha tutti i nervi tesi nello sforzo di sconfiggere coloro che vogliono le Hawaii» scrisse Lodge a Roosevelt. Reed arrivò perfino al punto di assicurarsi l'appoggio dei democratici. Quando il futuro Speaker della Camera, Champ Clark, che era un buon amico malgrado fosse un democratico, chiese a Reed di metterlo nel comitato per il Bilancio, Rced lo pregò di andare piuttosto al comitato per gli Affari esteri, dove gli serviva l'aiuto di Clark in quanto era «un uomo che crede come mc e che è un combattente». «Se la mette così,» rispose Clark, commosso «le resterò vicino.» Accettò di sacrificare il posto che aveva tanto agognato per aiutare l'avversario irriducibile del proprio partito. Nel partito di Reed, l'irrequietezza cresceva. Il 24 maggio i deputati repubblicani della Camera fecero l'insolita mossa di firmare una petizione in cui chiedevano di poter esaminare la politica del loro partito in una riunione ad alto livello. Tutto ciò per cui Recd si era battuto nella sua lotta contro il «quorum» muto si ritorse contro di lui. La premessa fondamentale di quella lotta e dei «regolamenti di Reed» era che la volontà del Parlamento, così com'era espressa dalla maggioranza, dovesse prevalere. Rccd sapeva che dalla sua posizione inattaccabile e con la sua profonda conoscenza delle tecniche procedurali poteva, con la collaborazione di Clark, parare il colpo delle Hawaii, ma non poteva

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cambiare i sentimenti della gente. Egli sapeva che il suo stesso partito, il partito di maggioranza, voleva l'annessione e che la Camera era in complesso favorevole. Facendo appello a tutta la propria autorità avrebbe potuto ostacolare la delibera, ma così facendo avrebbe annullato la sua conquista precedente: quella riforma che assicurava alla Camera un'effettiva autonomia, di modo che nessun trucco di procedura, né le decisioni arbitrarie di uno Speaker, potessero ostacolare la volontà della maggioranza. Il senso della battaglia per il «quorum» veniva ora messo alla prova e, con tragica ironia, proprio contro di lui. Doveva scegliere tra il proprio odio contro la politica espansionistica e il suo dovere di Speaker; da una parte, le sue convinzioni più profonde, dall'altra, i «regolamenti di Reed». C'era un'unica scelta per lui. Poiché conosceva troppo bene il valore di quello che aveva realizzato durante il Cinquantunesimo Congresso, egli s'inchinò davanti alla maggioranza. Il dibattito si aprì l' l l giugno, e il 15 giugno la delibera passò con una maggioranza di 209 voti contro 91, praticamente con l'unanime appoggio dei repubblicani. Reed non era sul suo seggio. Il deputato Dalzell, che lo sostituiva, annunciò prima della votazione: «Lo Speaker della Camera è assente a causa di un'indisposizione. Sono stato incaricato da lui di dire che se fosse presente voterebbe No». Reed, disse il «~ation», era «assolutamente solo» in seno al suo partito. «Il coraggio di opporsi a una follia collettiva, soprattutto di mettersi contro il proprio partito, è una virtù politica talmente rara che non possiamo permetterci di rifiutare il nostro tributo all'uomo che dimostra di possederla.» L'annessione delle Hawaii venne formalmente sanzionata il 7 luglio, quattro giorni dopo che la guerra di Cuba si era conclusa con la battaglia navale di Santiago. Là la flotta spagnola, cercando di forzare il blocco americano, fu distrutta dalla superiore potenza di fuoco delle ultime cinque navi da guerra costruite dagli Stati Uniti: l'Indiana, l'Oregon, la Massachusetts, la Iowa e la Texas. Due settimane dopo, con la resa di Santiago, il dominio spagnolo ebbe termine, sconfitto non dai ribelli cubani, ma dagli Stati Uniti. Quando si arrivò ai negoziati di pace, tutta la passione dedicata durante gli ultimi tre anni alla causa della libertà cubana, tutte le dichiarazioni del Congresso che favorivano il riconoscimento dell'indipendenza della repubblica di Cuba ma negavano l'intenzione di annetterla diventarono un serio ostacolo per le «necessità» del senatore Lodge. Prendere Cuba come il frutto di una conquista era impossibile, per quanto allettanti fossero i suoi vantaggi strategici e mercantili, ma almeno l'isoletta di Porto Rico era a loro disposizione. Costretta a rinunciare a Cuba e a cedere le adiacenze, la

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Spagna venne eliminata dall'emisfero occidentale. Il grado dell'indipendenza di Cuba e la natura dei suoi rapporti con gli Stati Uniti vennero discussi alla presenza di truppe dell'esercito di occupazione americano. Il risultato fu il Platt Amendment del 1901, che stabiliva un protettorato americano di fatto. Nel frattempo le condizioni preliminari per la pace vennero firmate a Washington il 12 agosto, lasciando il compito di negoziare la ancor più intricata questione delle Filippine ai membri della commissione arbitrale che dovevano incontrarsi a Parigi per concludere una sistemazione definitiva. Facendo un bilancio della guerra, Lodge poteva dire con soddisfazione: «Siamo diventati una delle più grosse potenze del mondo e io credo che abbiamo suscitato in Europa un'impressione duratura». Le parole che Mahan scrisse alla signora Roosevelt sullo stesso argomento erano ancora più pompose: «La gioconda giovinezza del nostro popolo è ora finita per non tornare mai più, e d'ora in poi ci stanno dinanzi le preoccupazioni e le ansie della maturità». In patria gli antimperialisti, attraverso assemblee, proteste, discorsi, articoli, petizioni e pubbliche conferenze stavano cercando di impedire alla nazione di appropriarsi dell'arcipelago del Pacifico che sembrava attirarli come la fatale mela del giardino dell'Eden. Cari Schurz insisté perché McKinley rinunciasse alle Filippine, conferendone il mandato a un piccolo stato come il Belgio o l'Olanda, affinché gli Stati Uniti potessero restare «la grande potenza neutrale del mondo». La Francia stava vivendo . Il presidente McKinley, dopo un periodo di preghiera e meditazione, era giunto alla decisione auspicata dai suoi consiglieri e dai sostenitori del suo partito: le Filippine dovevano essere tenute. A Parigi, i membri della commissione spagnola dovettero capire che l'epoca delle trattative era finita; il dominio era un dato di fatto. Bisognava piegarsi o affrontare una nuova guerra. Venne offerto, per rendere accettabile l'inevitabile, un pagamento in contanti di venti milioni di dollari. Il IO dicembre fu firmato il trattato di Parigi, che cedeva la sovranità delle Filippine agli Stati Uniti; i venti milioni di dollari avrebbero seguito la ratifica. «Abbiamo comprato dicci milioni di malesi ancora sull'albero a due dollari l'uno» osservò acidamente Reed, e con rara lungimiranza aggiunse: «E nessuno sa quanto ci costerà coglierli». Sebbene ormai se lo aspettassero, Aguinaldo e i suoi uomini seppero della transazione con angoscia e amarezza: molti di loro non riuscivano a credere che i loro liberatori e alleati si fossero trasformati in nuovi conquistatori. Senza un esercito organizzato, né armi moderne, si prepararono a combattere ancora, pur aspettandosi una sconfitta. La violenta corrente antimperialista degli Stati Uniti era loro nota e vi era ancora la speranza che il Senato non ratificasse il trattato. 115 dicembre 1898, alla riapertura della sessione invernale, il Congresso fu dominato dalle lotte per il trattato, più violente di quelle per le Hawaii. Ogni voto contava. Per raccogliere i loro due terzi, i n;pubblicani, guidati da Lodge in funzione di organizzatore, dovettero ricorrere a tutti gli artifici, tutti gli argomenti, tutte le vie per esercitare pressioni sui loro deputati e sui democratici più malleabili, mentre gli antiespansionisti si battevano per tenere in pugno un numero di senatori sufficiente a raggiungere un terzo più uno. Alla Camera alcuni deputati

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proposero a Reed una coalizione di democratici e di repubblicani antimperialisti, allo scopo di far passare una delibera della Camera contro il trattato che avrebbe portato alla sconfitta in Senato. Sebbene ormai non fosse un segreto in certi ambienti di Washington che Reed «disprezzava» il governo, egli rifiutò. Finché ne fosse rimasto il pilota, non intendeva condurre la rivolta contro di esso. Il suo compito di Speaker era pieno di amarezze. «Reed è terribilmente aspro» scrisse Lodge a Roosevelt. «In privato dice cose tremende contro il governo e la sua politica, perciò sono costretto a evitarlo perché lo ammiro e confesso che il suo atteggiamento è per me oltremodo penoso e deludente.» Il pubblico non era contento dell'avventura filippina e si trovava incerto sull'atteggiamento da seguire. Democratici e populisti in particolare avevano sentito la guerra di Cuba come un'impresa in nome della causa della libertà. Ora, per qualche maligno sortilegio del destino, la guerra si era trasformata in un sistema per imporre, per diritto di conquista, la sovranità su un popolo riluttante. L'America era diventata la nuova Spagna. In questo infelice momento, una persuasiva esortazione venne rivolta al paese da due uomini dotati della stessa straordinaria sensibilità per la storia in atto. Il 1° febbraio 1899, S. S. McClure pubblicò sul suo giornale un'esortazione in versi di Rudyard Kipling, rivolta agli americani in quel momento di confusione:

Take up the White Man's burden Send Jorth the besi ye breed, Go bind your sons lo exile To serve your captives' need; To wait in heavy harness On jluttered folk and wild, Your new-caught sullen peoples, Halj devii and half child... Take up the White Man's burden The savage wars of peace, Fili full the mouth of Famine And bid the , sickness cease ... Ye dare noi stoop less- 1 1 Sobbarcatevi al fardello dell'uomo bianco / spingete avanti i vostri figli migliori, / condannate i vostri figli all'esilio / per soddisfare i bisogni dei vostri conquistati; / per servire, carichi d'armi e bagagli,/ genti agitate e sel\·agge / tristi popoli appena conquistati/ metà diavoli e metà bambini ... / Sobbarcatevi al fardello dell'uomo bianco/ alle selvagge guerre della pace, / riempite la bocca alla fame / mettete fine alle malattie ... / :\:on pote1e alTroniare di meno ... » [N.d. T.]

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Per ristabilire il senso di una giusta causa, Kipling aveva colto la combinazione perfetta del nobile destino e della missione altruistica. Ristampata e citata migliaia di volte, la poesia si diffuse nel paese nel giro di una settimana, raggiungendo lo scopo di riconciliare gli esitanti con la missione imperiale. A Washington sembrò che gli avversari del trattato potessero avere la meglio, poiché ai repubblicani mancava un voto per raggiungere i due terzi necessari alla ratifica. Improvvisamente, William Jennings Bryan arrivò a Washington e con grande stupore dei suoi seguaci li incitò a votare per il trattato. Come capo del partito democratico, egli aveva la ferma intenzione di essere lui «l'alfiere» del 1900, perciò si rendeva conto della necessità di assumere una nuova bandiera. Considerando che non poteva vincere basandosi di nuovo sulla lotta per la circolazione dell'argento monetato, era ben pronto a rinunciarvi in favore dell'imperialismo, nuova corona di spine. Era sicuro che l'annessione delle Filippine sarebbe stata fonte di tanti guai da fornire un argomento esplosivo per la campagna elettorale ... eppure andava realizzata. Di conseguenza disse ai colleghi di partito che non sarebbe stato di nessuna utilità far fallire il trattato. Quello straordinario ragionamento stupì e scosse perfino quei legislatori che ne facevano una questione di principio. Pettigrew, il senatore «dell'argento» del South Dakota, era talmente furibondo che alla fine gli disse che non avrebbe dovuto venire a Washington con tale proposito. Si arrivò a un momento di precario equilibrio in cui la questione più importante dai tempi della Secessione dipendeva dai voti di uno o due senatori incerti. Alcuni si sentirono convinti quando Bryan dichiarò che la ratifica del trattato avrebbe significato la fine della guerra. A questo punto, con la votazione in lista per il 6 febbraio, con l'esito incerto, con entrambe le parti che sollecitavano e contavano ansiosamente ogni possibile «sì» o «no», i filippini insorsero. Le loro truppe attaccarono le linee americane intorno a Manila nella notte del 4 febbraio. A Washington, sebbene la notizia intensificasse la frenetica speculazione, nessuno poteva sapere con certezza quali effetti avrebbe avuto. Una petizione dell'ultimo minuto, firmata dall'ex presidente Cleveland, dal rettore Eliot di Harvard e da altri ventidue uomini d'importanza nazionale, fu indirizzata al Senato per protestare contro il trattato, a meno che esso non comprendesse un provvedimento contro l'annessione delle Filippine e di Porto Rico. «In conformità con i principi sui quali è stata fondata la nostra repubblica, abbiamo il dovere di riconoscere i diritti degli abitanti ... all'indipendenza e al governo autonomo» essa diceva, e poneva in rilievo che se, come aveva

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dichiarato una volta McKinley, la violenta annessione di Cuba sarebbe stata «una criminale aggressione secondo il nostro codice morale», l'annessione delle Filippine non era certo di meno. Il testo era irrefutabile ma non olfriva possibilità di ottenere cariche importanti, di percorrere carriere politiche o d'altro genere che offrivano invece Lodge e Bryan. Nella votazione del 6 febbraio in Senato, il trattato conquistò 57 voti contro 27, col margine di un voto. Fu «la più dura, serrata battaglia ch'io abbia mai visto,» disse Lodge. Per quel che riguardava il risultato, il punto sul quale furono tutti d'accordo era che Bryan aveva dato un colpo decisivo alla votazione. Non s'era ancora finito di contare i voti, che già nelle Filippine 59 americani erano morti, 278 feriti e circa 500 filippini erano periti. Il prezzo di aver messo le mani sulla Malesia stava cominciando a farsi sentire. «Il modo in cui la nazione ha rinnegato i propri antichi principi è disgustoso» scrisse Williamjames in una lettera privata. Ufficialmente, egli scrisse all'«Evening Transcript» di Boston: «Ora siamo impegnati apertamente a distruggere la cosa più sacra dell'umanità: lo sforzo di un popolo lungamente oppresso dalla schiavitù» per raggiungere la propria libertà e costruirsi il proprio destino. La cosa più triste per uomini comejames è quella di aver abbandonato il sogno americano.L'America, scrisse Norton, «ha perso la sua eccezionale posizione di guida del progresso e della civiltà, e ha assunto il ruolo di una delle nazioni avide e egoiste dei nostri giorni». Per molti altri la consapevolezza dei cannoni americani che sparavano sui filippini era oltremodo penosa. La rabbia degli antimperialisti aumentò e i loro membri raggiunsero il mezzo milione, con ramificazioni della Lega a Boston, a Springfield, a New York, a Filadelfia, a Baltimora, a Washington, a Cincinnati, a Cleveland, a Detroit, a St. Louis, a Los Angeles, a Portland nell'Oregon. «Stiamo tradendo tutto ciò in cui abbiamo creduto» scrisse Moorficld Storey. «Questa grande libera terra che per oltre un secolo ha offerto rifugio agli oppressi di tutti i paesi, si è ora volta all'oppressione.» Ancora riluttante a rinunciare, egli sperava nella presidenza di Reed, che Roosevelt aveva definito «l'uomo più influente del Congresso». Scrivendo al senatore Hoar, Storey lo supplicò di «convincere Reed a impegnarsi come doveva. È molto pigro e manca di aggressività nelle grandi questioni. Se volesse, io credo che potrebbe realmente essere il prossimo presidente». Era troppo tardi. La pigrizia di Reed era quella di un uomo per il quale la lotta era diventata amara. Altri il cui principale interesse stava in campi non politici potevano soffrire così profondamente senza essere

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distrutti. !\la l'intera vita di Rccd era stata dedicata al Congresso, alla politica, all'esercizio del gO\·crno rappresentativo, a condizione che fosse esercitato verso un (ìnc in cui lui credeva. Il suo partito e la sua patria erano ora tesi in una direzione per la quale egli provava profondo disgusto e s(ìducia. Parlargli di espansionismo, disse un giornalista, era come «stro(ìnarc un (ìammifcro» e suscitava «un linguaggio sulfureo». La marca si era ri\'oltata contro di lui; non poteva dominarne il flusso, né d'altra parte voleva abbandonar\'isi. Come per il suo paese, era arrivato per lui il momento della scelta. Poteva mantenere la carica di Speaker per un'altra legislatura, ma già la Camera dimostrava chiaramente di considerarlo troppo ostile al governo per poterlo rappresentare ufficialmente in Parlamento. Joc Cannon e altri tra i vecchi alleati erano resi ostili dal suo aucggiammto e dalle sue critiche al presidente, ma nessuno osava spodestarlo. Il presidente era troppo debole per esporsi apertamente ad appoggiare qualche altro candidato. Rccd sapeva di poter mantenere il comando, ma si sarebbe ritrovato «con le spalle al muro» contro una muta di cani rabbiosi ai suoi piedi. Diventò «lunatico e sgradevole», in quei giorni, e brusco con i vecchi colleghi che, secondo lui, lo abbandonavano. Conservare la carica di Speaker della Camera significava condurre nelle Filippine una politica che gli ripugnava. Significava continuare a essere il portavoce del partito di Lincoln, che era stato il suo per tanto tempo, e che ora, scostandosi dal pensiero di Lincoln, aveva scelto «di perdere indegnamente l'ultima migliore speranza della terra». Al suo vecchio amico e segretario Ashcr Hinds egli disse: «Ho cercato, forse non sempre con successo, di accordare gli atti della mia vita pubblica con la mia coscienza, ma ora non ci riesco più». Per lui lo scopo e il senso della vita nell'arena politica non esistevano .più, aveva scoperto la tragedia dell'umanità: essere capace di concepire il progetto della felicità, ma non riuscire poi a realizzarlo. Nel febbraio del 1899, dopo la votazione sul trattato, Reed fece la sua scelta. Sebbene egli non avesse ancora detto nulla ufficialmente, incominciò ad apparire sui giornali la notizia che aveva intenzione di ritirarsi dalla politica. Quando i giornalisti gli chiesero le ragioni della sua ostilità nei confronti della politica filippina e del progetto di legge sul Canale del Nicaragua, respinse le loro domande con un'espressione di «stanchezza e disgusto». In aprile, dopo la chiusura del Cinquantacinquesimo Congresso, autorizzò l'annuncio ufficiale della sua rinuncia alla vita politica. L'incredibile si dimostròvcro: lo Speaker della Camera Rced si sarebbe ritirato dal Congresso e, dopo una vacanza in

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Europa, avrc-bhe esercitato la professione di a,Tocato a :'\ew York,come socio principale della dilla Simpson, Thacher e Barnum. «Il Congresso senza Tom Reed! Chi può immaginarlo?» esclamò un editoriale del «Tribune» di :'\ew York. Dappertullo si provava una sensazione di panico, come se fosse stata rimossa una delle pietre miliari nella storia della civiltà, lasciando un enorme ,·uoto. Il «Times», che non era mai stato uno dei suoi sostenitori, dedicò alla «perdita nazionale» un 'intera colonna di articolo di fondo. Dichiarò che «doveva esserci qualcosa che non anda,·a» se un uomo simile era cosi.rello ad abbandonare la vita politica per la professione privata. Il corrispondente del «Times» a \\"ashington definì l'an·enimento «una calamità» per il Congresso, per il livello al quale si sarebbe rido110 dopo la defezione dello Speaker. Godkin, sull'«Ewning Post», deplorò la rinuncia alla ,·ita politica di quel raro fenomeno, «un uomo maturo e razionale». Reed da parte sua non offrì nessuna spiegazione ufficiale del suo gesto, tranne ciò che disse nella lettera di commiato ai suoi elettori del l\laine: «La carica, se è solo un distinti\'o da appuntare all'occhiello, è una cosa prh·a di \'alorc». Circondato dai giornalisti al l\lanhattan Hotel di ~ew York, che insistevano nel dire che il pubblico \'Ole\'a sapere qualcosa da lui, rispose: «Il pubblico? Non m'interessa, il pubblico». Girò sui tacchi e si allontanò. Le operazioni militari nelle Filippine crebbero di importanza e di crudeltà. Contro l'ostinata guerriglia dei filippini, l'alto comando statunitense ri,·ersò reggimenti, brigate, di\'isioni, finché un contingente di 75.000 uomini - ben quattro volte superiore a quello impiegato nell'azione di Cuba - fu impegnato nelle isole. I filippini tende\'ano imboscate, bruciavano, assali\'ano, massacravano; qualche volta seppelli\'ano \'id i prigionieri. Gli americani rispondevano con altrettante atrocità, bruciando interi \'illaggi e uccidendo ogni abitante quando un soldato americano \'eniva trovato con la gola tagliata, applicando «la cura dell'acqua» e altre torture per ottenere informazioni. Erano a cinquemila chilometri da casa, esasperati dal caldo, dalla malaria, dalle piogge tropicali, dal fango e dalle zanzare. Cantavano: «l\laledetti, maledetti, maledetti filippini, ci\·ilizzateli con una forca». Gli ufficiali di tanto in tanto ordinavano di non far più prigionieri. Vincevano tulle le scaramucce contro un nemico che si rinno\'a\'a continuamente. Una spedizione puniti\'a che non riuscì a catturare Aguinaldo, ma catturò il suo giovane figlio, fu una grossa notizia per la stampa. Quella mattina Reed, entrando nel suo ufficio, disse con finta sorpresa al c0llega: «Come, la,·ora oggi? Crede,·o che festeggiasse l'avvenimento.

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Ho letto sui giornali che l'esercito americano ha catturato il bambino cli Aguinaldo e, secondo le ultime notizie, è sulle tracce della madre». Aguinaldo cercava di guadagnar tempo nella speranza che in America i sentimenti antimperialisti riuscissero a far ritirare le truppe già stanche del loro compito. Più continuava la guerra, più le proteste degli antimperialisti si facevano \'iolentc. Il programma da loro approvato al Congresso di Chicago nell'ottobre del 1899 chiedeva «un'immediata cessazione della guerra contro la libertà». Gli antimperialisti raccolsero i casi più gravi di violenza americana nelle Filippine, nonché i più celebri discorsi ispirati alla brama imperialistica, e ne dilfuscro la conoscenza tra la gente, mettendo in luce il contrasto tra quegli episodi e la vuota retorica sulla missione dell'uomo bianco. Distribuivano libelli sovvenzionati da Andrcw Carncgie, e quando il capo csccutirn della Lega, Edward Atkinson, chiese al ministro della Guerra il permesso di mandare i libelli nelle Filippine ottenendo un netto rilìuto, li mandò ugualmente. Impaziente di porre fine alla guerra, di placare quei «tristi popoli appena conquistati» e di governare con onore, il go\'crno mandò sul posto varie commissioni incaricate di indagare sulle atrocità commesse, di scoprire ciò che i filippini desideravano veramente - tranne il gm·crno autonomo, che era quello che volevano clfettivamcnte - e di decidere quale rosse la rorma di amministrazione civile più adatta a loro. l'\ell'aprilc del 1900 il timido, gentile, massiccio giudice \\'illiam Howard Tart fo inviato sul posto per rondare un governo ci\'ile, armato di un documento steso dal nuovo ministro della Guerra, Elihu Root, che accordava alle Filippine un certo grado di autonomia interna. Dato che né i filippini né gli americani erano pronti ad abbandonare la lotta, il tentativo era prematuro, ma Tart non cedette, deciso a gm·crnare nell'interesse del «piccolo fratello bruno» non appena gli rosse possibile. Quando gli amici in patria, preoccupati per la sua salute, lo sollecitarono a mandare notizie, Tart inviò un cablogramma a Elihu Root raccontando di essere andato a fare una corsa a ca\'allo e di sentirsi bene. «Come sta il cavallo?» diceva il cablogramma che Root gli indò di rimando. Nonostante le difficoltà, non vi erano ripensamenti né esitazioni tra i repubblicani circa la nuova avventura nella quale l'America si era lanciata. La legge per la costruzione del Canale del Nicaragua era al Senato e così pure Albcrt Bcveridgc, più alleato che mai con l'Onnipotente. «Noi non rinunceremo alla nostra parte nella missione della nostra razza, cui Dio ha affidato la civilizzazione del mondo» disse 1'8 gennaio del 1900. Egli informò i senatori che Dio era andato prcparan-

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do i «popoli inglesi e teutonici» alla missione per un migliaio di anni. Qualcuno, nella generazione di Bcvcridgc, trovò ripugnante la nuova immagine dell'America. Sentendo il rumore dcll'«ignobile battaglia» arrivare «cupamente sui mari del Pacifico», William Vaughn Moody scrisse la sua Ode in tempo di esitazione, che apparve sull'«Atlantic Monthly» nel maggio del 1900. Siamo ancora la «nazione nobile come l'aquila», chiedeva, oppure:

Sha/1 some /ess /ordly bird be set apart? Some gross-billed wader where the swamps are fat? Some gorger in the sun? Some prowler with the bat? 1 Questa era la coscienza dei pochi, condivisa anche da Godkin che, nella sua delusione, disse una cosa strana e assai lungimirante per quei tempi: «Lo spirito militaristico» scrisse a Moorfield Storcy nel gennaio del 1900 «si è impossessato delle masse alle quali è passato il potere.» Mentre scadeva il primo anno di guerra e le forze impiegate in operazioni belliche erano sempre molto numerose, era prossimo un evento che avrebbe potuto portare alla fine del conflitto: le elezioni presidenziali. Gli antimperialisti e Aguinaldo avevano posto tutte le loro speranze in questo. La prima stranezza fu una improvvisa popolarità dell'ammiraglio Dcwcy, in parte ispirata dal fatto che molti democratici disperavano di riuscire a trovare un candidato che non fosse Bryan. Dopo aver esaminato la questione cd esser giunto alla conclusione che «la carica di presidente non era poi così difficile da ricoprire», l'ammiraglio annunciò di essere disponibile, ma poiché i suoi discorsi non ispiravano fiducia cd egli sembrava incerto nelle questioni politiche di partito, la sua candidatura cadde. Bryan si profilava all'orizzonte. Gli antimperialisti si trovarono in un dilemma angoscioso. ivfèKinley rappresentava il partito dell'imperialismo, Bryan, secondo le parole di Cari Schurz, era il «genio malefico della causa dcll'antimperialismo», odiato per il suo tradimento nella questione del trattato e temuto per il suo radicalismo. Nel gennaio del I 900 Schurz s'incontrò con Carncgie, Gamaliel Bradford e il senatore Pcttigrew al Plaza Hotel di New York per tentare di organizzare un terzo partito affinché il popolo americano non fosse «costretto da due vecchi partiti incancreniti a 1 «Dobbiamo scegliere qualche uccello meno nobile?/ Un trampoliere dal lungo becco, là do\'e le paludi sono ricche di pesci?/ Un uccello da preda alla luce del sole? Un rapace, quando \'Ola il pipistrello?» f.'\".d.T.]

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scegliere tra due mali». Carnegie sottoscrisse immediatamente 25.000 dollari, e gli altri misero insieme una cifra uguale. Poco tempo dopo, alcuni membri del trust dell'acciaio, con i quali Carnegie stava allora trattando la vendita della sua società, gli dissero che se avesse ostacolato McKinlcy, l'affare non sarebbe andato in porto. Prererendo la United States Steel a un terzo partito, Carnegie ritirò il suo appoggio, si riprese i suoi soldi e. si ritirò dal gioco. Schurz e gli altri, tuttavia, tennero un Congresso della Libertà a I ndianapolis, nel q ualc chiesero a Reed di essere il loro candidato, ma né Rced né nessun altro accettarono l'inutile compito di guidare un partito fantasma. A Kansas City nel luglio accadde l'inevitabile: ru decisa la candidatura di Bryan. Fondando la sua campagna sull'imperialismo, Bryan percorse il paese con lo stesso ardore di prima. Non era proprio una bella figura, :na il suo magnetismo, la sua passione e la sua sincerità riuscirono a far leva sul popolo e attraversarono perfino il Pacifico. In Bryan - colui che aveva deciso la sconfitta degli oppositori al trattato di Parigi- i filippini riposero tutta la loro fiducia. «Il grande Partito democratico degli Stati Uniti vincerà le prossime elezioni» promise Aguinaldo in un proclama. «L'imperialismo fallirà il suo folle tentativo di sottometterci con la forza delle armi.,, Il grido di guerra dei suoi soldati ru: «Aguinaldo-Bryan!)). Nel programma formulato a Chicago in previsione delle elezioni, gli antimperialisti avevano detto: «Noi ci proponiamo di contribuire alla sconfitta di qualsiasi persona o partito che si batta per la sopraffazione di qualsiasi popolo)). Non c'era niente da fare, come scrisse un amico all'ex presidente Cleveland, bisognava «tapparsi il naso e dare il voto a Bryan)), L'atteggiamento di questi elettori nei confronti del candidato democratico valse loro il soprannome di gruppo dei «Tappati il naso e vota». Entrambi i candidati erano così sgraditi al «Nation» che esso si rifiutò di sostenere sia l'uno che l'altro, prerercndo, come commentò un lettore, «non mettersi a cavallo della staccionata e criticare entrambi». I repubblicani non avevano simili problemi. Sebbene prererissero essere chiamati espansionisti anziché imperialisti, erano fieri della situazione comunque la si volesse definire e credevano nella meta proposta. Sincero come sempre, Lodge scrisse: «Manila con la sua splendida baia è la perla dell'Oriente ... ci aprirà i mercati della Cina ... Dobbiamo esitare a fare vigliaccamente quello che Dante chiama "il gran rifiuto''?)), Da quando il ministro Hay aveva formulato il programma politico della «porta aperta», i mercati cinesi erano un'idea fissa degli americani. Durante l'estate della campagna elettorale, l'assedio delle legazioni a Pechino a opera dei Boxer e la parte avuta dagli americani nell'organizzazione della spedizione di soccorso misero in

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riliern l'importanza del ruolo svolto dall'America. L'esponente più abile e convincente dell'imperialismo era il nuovo vicepresidente di l\lcKinley, Theodore Roosevelt, che prese il posto del presidente come capo della campagna elettorale. Incerto della vittoria, poiché il «vassoio ricolmo di ogni ben di Dio» era più uno slogan che un fatto, egli si batté così vigorosamente e infaticabilmente che agli occhi del pubblico e dei caricaturisti il Rough rider' coi denti in mostra, il pincc-nez e l'inestinguibile entusiasmo apparve come il vero candidato. Egli derise lo spettro del militarismo come «un fantasma inesistente», insisté che l'espansionismo non poteva «minacciare in nessun modo le nostre istituzioni o la nostra politiéa tradizionale», e che il problema ~on era «se ci espanderemo, poiché lo abbiamo già fatto, ma se ci restringeremo». La nazione ascoltò migliaia di discorsi e lesse migliaia di articoli di giornali che davano fondo a tutti gli argomenti pro e contro l'imperialismo, a tutti gli aspetti della guerra nelle Filippine. Essa apprese, grazie agli sforzi degli antimperialisti, più cose sulla condotta delle truppe di quanto il pubblico di solito venga a sapere in tempo di guerra. Venne così appurato che le truppe americane avevano usato le pallottole dumdum, così incondizionatamente disapprovate (tranne che dagli inglesi) alla Conferenza della Pace dell'Aja dell'anno prima. Alla fine il popolo americano, come quello inglese nelle elezioni «cachi» dello stesso anno, approvò il partito degli aggressori. Ciò che un popolo crede in un qualunque momento può essere meglio valutato da ciò che fa. l\lcKinlcy e Roosevelt furono eletti col 53 per cento dei voti e con un margine più largo di quello ottenuto da Bryan nel 1896. L'espansione e la conquista furono accettate e la rottura con la tradizione americana confermata. Ancora in guerra con le Filippine, l'America entrò nel XX secolo. Per Aguinaldo, dopo le elezioni, non c'era più niente da sperare. Egli si ritirò sulle montagne a combattere ancora, venne catturato con uno stratagemma nel marzo 190 I e durante la prigionia firmò un giuramento di fedeltà agli Stati Uniti insieme a un proclama in cui esortava il suo popolo alla cessazione della resistenza: «C'è già stato abbastanza sangue, abbastanza lacrime, abbastanza desolazione». Il professor Norton diede voce all'elegia dell'antimperialismo. «Ho raggiunto la conclusione» scrisse a un amico nel mese della cattura di 1 Ro111/.I, ridrrs {letteralmc-nte: rudi carnlieri) era il soprannome di un celebre reggimento americano di ca,·alleria che combatté nella guerra ispano-americana del 1898 agli ordini dell'allora colonnello Theodore Roose\'elt. [.\'.d.R.)

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Aguinaldo «di essere stato troppo idealista nei riguardi dell'America, di aver riposto troppo in alto le mie speranze, di essermi formato un'immagine troppo bella di ciò che avrebbe potuto diventare. Mai nazione avrà di nuovo le stesse possibilità di elevare il livello della civiltà». Sci mesi dopo avvenne l'attentato di Czolgosz e il posto di l\tcKinley fu preso da Roosevelt, «quel maledetto cowboy», come disse Mark Hanna quando apprese la notizia. Non era un'osservazione acuta. Il nuovo presidente quarantatreenne era l'architetto di un'epoca nuova. Reed scrisse una lettera d'augurio ma lo scambio fu puramente formale e l'abisso restò. Vivendo a New York, Reed fece lega con l\tark Twain che per gusti, mentalità e sarcasmo gli era affine. Furono ospiti insieme a bordo del panfilo del multimilionario Henry H. Rogers per una lunga crociera della quale sopravvive l'epica leggenda che Reed vinse ventitré mani di poker di seguito. Di tanto in tanto si recava a Washington, una volta per discutere un caso davanti alla Corte Suprema, alTascinando i giudici col suo incomparabile stile di oratore. Non tornò mai in Parlamento, però rivide i vecchi amici nell'ufficio del comitato per il Bilancio. Per ordine del medico dovette perdere venti chili, ma la sua salute destava qualche preoccupazione. Nell'estate del 1902 egli fu l'animatore della celebrazione del centenario di Bowdoin, dove si divertì moltissimo, come forse non gli sarebbe più capitato in vita sua, com'ebbe a dire lui stesso. In dicembre ritornò ancora una volta a Washington e mentre si trovava nella Sala del Comitato al Campidoglio, si sentì male improvvisamente. Fu constatato che si trovava all'ultimo stadio di una nefrite cronica. Cinque giorni dopo, il 6 dicembre 1902, egli morì all'età di sessantadue anni. Joe Cannon, suo successore alla Camera, disse di lui: «Mai ho trovato in un uomo politico un tale connubio di intelligenza e di coraggio». Con queste due qualità e le sue «leggi personali», Reed si era mantenuto saldo sul suolo paludoso della politica, intransigente fino all'ultimo, raro esemplare di una specie non comune, l'Uomo Indipendente.

IV «A ME LA LOTTA!» Francia: 1894-1899

Verso la fine del secolo scorso un inglese, sir Almeric Fitzroy, segretario del duca di Dcvonshirc, coniò la frase famosa, «l'eterno fascino della Francia», per esprimere il debito che tutti i figli della civiltà occidentale avevano verso la nazione dalla quale «veniva l'impulso che dissolveva il vecchio mondo prossimo alla morte e dava vita e passione al presente.» Per due anni, dall'estate del 1897 all'estate del 1899, quel vecchio mondo in dissoluzione parve sussultare negli spasimi dell'agonia. La Francia, lacerata da un travaglio che riapriva vecchie ferite, divideva la società e consumava pensiero, energia e onore, piombò in uno dei grandi periodi d'agitazione della storia. Durante quei «due interminabili anni» di lotta per ottenere la revisione del processo di un singolo individuo ingiustamente condannato, «la vita restò come sospesa» scrisse Léon Blum, futuro capo del governo, allora ventenne. Era come se, durante «quegli anni di tumulto, di autentica guerra civile ... ogni cosa convergesse su un singolo punto, come se sentimenti intimi e relazioni pcsonali fossero stati interrotti, sovvertiti, ridimensionati ... L'affare Dreyfus fu una crisi umana, meno estesa e meno prolungata nel tempo, ma non meno violenta della Rivoluzione francese». L'affare Drcyfus «avrebbe diviso perfino gli angeli» scrisse il conte dc Vogué, che aveva opinioni opposte a quelle di Blum. «Al di sopra dei motivi ignobili e delle passioni animalesche, gli animi più elevati di Francia si scagliavano l'uno contro l'altro con uguale nobiltà di sentimenti, esasperati dal pauroso conflitto.» I protagonisti avvertivano nella tempesta· che li colpiva un senso di grandezza. La decadenza era esorcizzata dalla violenza dei loro sentimenti ed essi erano di nuovo consci di «alti principi e inesauribili energie». Erano spinti tanto dall'odio, dal male e e dalla paura quanto dal coraggio e dallo spirito di sacrificio. La lotta era epica: in palio era la vita stessa della repubblica. Ognuna delle sue parti combatteva per un'idea, la sua idea della Francia. Da un lato la Francia della contrari-

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voluzionc e dall'altra la Francia del 1789. Da un lato l'ultima speranza di arrestare tendenze sociali progressiste e restaurare gli antichi valori, dall'altro la volontà di riscattare l'onore della repubblica e di salvarlo dalle grinfie della reazione. I revisionisti, che si battevano per un nuovo processo, vedevano la Francia come fonte di libertà, terra di luce, maestra della ragione, codificatrice di leggi, e l'idea che proprio lei potesse aver perpetrato un'ingiustizia cd essersi resa complice di un errore giudiziario era per loro insopportabile. Combattevano per la giustizia. Gli avversari dichiaravano di battersi in nome della Patrie per la salvezza dell'esercito, scudo protettore della nazione, e della chiesa, guida e maestra delle anime. Essi si riunirono sotto il nome di nazionalisti e nelle loro schiere uomini sinceri si trovarono fianco a fianco con i demagoghi e dovettero cedere di fronte ai loro metodi brutali e privi di scrupoli e al loro gioco sleale, cosicché il mondo li guardò con stupore e disprezzo e la fama della Francia ne sofTrì. Bloccati dalla reciproca ferocia e dall'impegno inderogabile, i contendenti non potevano più tirarsi indietro, per quanto la lotta stesse dividendo la nazione e incoraggiasse le mire del nemico alle frontiere, soggette ogni giorno a crescente pressione. «Eravamo eroi» proclamò Charles Péguy, che esaltava e trasformava i movimenti politici dei suoi giorni in termini mistici ereditati da Giovanna d'Arco. Nel 1910 scrisse: «L'affare Dreyfus può solo essere spiegato dal bisogno di eroismo che periodicamente domina questo popolo, questa razza ... che domina un'intera generazione nostra. Ciò vale anche per le altre grandi prove: le guerre ... quando scoppia una grande guerra o una grande rivoluzione ciò significa sempre che un grande popolo, una grande razza ha bisogno di'scoppiarc perché ne ha abbastanza, in particolare ne ha abbastanza della pace. Significa sempre che una grande massa sente cd esperimenta un bisogno violento, un misterioso bisogno di grande movimento .•. un improvviso bisogno di gloria, di storia, che provoca un'esplosione, un'eruzione ... ». I valori e le forze che Péguy vedeva nell'affare Dreyfus erano grandi perché erano quelli di quel tempo e di quell'esperienza. Esso faceva sentire gli uomini più grandi del vero. Il casus belli fu la condanna di un ufficiale ebreo dell'esercito accusato di tradimento a favore della Germania; lo scopo della battaglia era da una parte di evitare, dall'altra di ottenere la revisione del processo. A causa della sua debolezza, il governo impegnò tutte le forze dalla parte dei suoi cosiddetti distruttori per fortificare e appoggiare il verdetto originario. Non era il governo stabile, rispettabile, solidamente costituito, di cui tanto si vantavano gli inglesi, bensì un governo insicuro,

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debolmente radicato nella pubblica fiducia, deriso e sulle difensive. Due volte, dopo il 1789, la repubblica era stata sconfitta dal ritorno della monarchia. Risorta dopo il 1871 come la Terza Repubblica, la Francia era rinata, prosperava, aveva un impero. Coltivava le arti, vantava la capitale più colta d'Europa e aveva innalzato, nel centenario della Rivoluzione, la struttura più alta del mondo, l'ardita, incredibile torre che si elevava sulla Senna, simbolo della vitalità e del genio della Francia. Tuttavia la nazione era in perenne contraddizione con se stessa, travagliata all'interno dagli inconciliabili, indomiti sostenitori dell'ancien régime e del Secondo impero, oppressa all'esterno dalla forza superiore della Germania e dalla sensazione che la partita non fosse ancora conclusa tra loro, meditando una revanche senza i mezzi per realizzarla. Nel 1889, lo scontento della repubblica giunse a una crisi decisiva col tentato colpo di stato del generale Boulanger, appoggiato da tutti gli clementi controrivoluzionari che formavano la grande destra: la chiesa, le duecento famiglie dell'industria e dell'alta finanza, l'aristocrazia spodestata, i monarchici, i seguaci e i simpatizzanti di questi gruppi. Il tentativo di Boulanger finì in un fiasco, reso memorabile dall'osservazione del capo del governo, Charles Floquet: «Alla sua età, generale, Napoleone era già morto». Ciononostante, questo tentativo scosse la repubblica e stimolò sia le speranze che le frustrazioni della destra. L'arresto, il processo e la condanna del capitano Alfred Dreyfus- un ufficiale di artiglieria addetto allo Stato Maggiore - che ebbe luogo tra l'ottobre e il dicembre del 1894, non erano frutto di un deliberato complotto ordito alle spalle di un innocente. Erano il risultato di un ragionevole sospetto rafforzato da alcune prove indiziarie, dall'avversione personale e da un istintivo pregiudizio razziale. C'era la prova che qualche ufficiale di artiglieria dello Stato Maggiore aveva svelato alla Germania segreti militari. Dreyfus, oltre a rispondere a queste caratteristiche, era ebreo, eterno straniero. Duro, silenzioso, freddo e scorretto fino all'esagerazione, era privo di amici, di opinioni o di sentimenti visibili, e il mondo «ufficiale» con cui compiva il suo dovere era già stato sfavorevolmente notato. Queste caratteristiche apparvero addirittura sinistre non appena i sospetti caddero su di lui. Il suo aspetto, che non aveva nulla di notevole, sembrava la perfetta maschera della spia. Di media statura e corporatura snella, capelli castani e media età (36 anni), aveva una voce incolore, un volto privo di caratteristiche, la cui unica nota di rilievo era un pince-nez senza montatura, il tipico genere

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di occhiali del suo milieu. Si vide subito in lui il colpevole e, non avendo né movente né prove materiali, gli ufficiali incaricati dell'inchiesta, e in particolare il maggiore Henry e il colonnello du Paty dc Clam, li costruirono artificiosamente. Sicuri di aver a che fare con un vile traditore che aveva venduto i segreti della difesa militare al tradizionale nemico, si sentivano giustificati a scovare tutto ciò che occorreva per la sua condanna. Il dossier da loro raccolto, che in seguito doveva essere noto come «il fascicolo segreto», era abbastanza convincente da indurre i capi di Stato Maggiore a credere sinceramente nella colpevolezza di Dreyfus, ma era privo di prove legali. Sapendo questo, e avendo a che fare con un caso particolarmente delicato perché vi era coinvolta la Germania, e temendo d'altro canto il ricatto della stampa, l'allora ministro della Guerra, generale Mercicr, e il governo di cui era membro permisero che il processo contro il capitano Dreyfus si svolgesse a porte chiuse. Quando i cinque giudici militari esposero i loro dubbi, venne loro mostrato il fascicolo segreto, che però non fu dato in visione alla difesa. Convinti da questi documenti, i giudici pronunciarono un verdetto unanime di colpevolezza. Poiché la pena di morte per i reati politici era stata abolita nel 1848, la sentenza fu l'ergastolo. A causa del rifiuto del condannato di confessare e la persistenza a voler sostenere la propria innocenza, egli venne confinato all'Isola del Diavolo, una delle tre isole di reclusione al largo della costa sudamericana, riservate ai criminali peggiori. Un'arida scogliera lunga tre chilometri e larga cinquecento metri venne sgombrata da tutti tranne che dalle guardie per sistemare Dreyfus da solo, in una capanna di pietra, sotto perenne sorveglianza. L'unanimità del tribunale militare sembrò confermata dalla notizia divulgata dalla stampa che Dreyfus aveva confessato. Passando di giornale in giornale, questa notizia parve acquistare la forza di un giudizio ufficiale e soddisfece il pubblico. Durante i tre anni successivi si fecero grandi sforzi sia per scoprire sia per nascondere la verità. La lunga penosa lotta per un riesame, o «revisione», del processo, come si diceva allora, ebbe origine dai dubbi di alcune persone che diffidavano dei processo a porte chiuse e sospettavano un errore giudiziario. Basandosi sul fatto che il materiale non era stato mostrato alla difesa, essi sostennero l'illegalità del processo e accumularono indizi che sembravano indicare il vero colpevole, un dissipato ufficiale di origine straniera, il maggiore Ferdinand WalsinEsterhazy. Gli ufficiali originariamente responsabili di aver montato le prove contro Drcyfus, di fronte a queste ricerche e a queste accuse, tentarono di rafforzare la traballante sentenza. Il maggiore Henry, addetto al controspionaggio, che per natura aveva sempre avuto a che

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fare con la falsificazione di documenti e simili procedimenti extralegali, contraffece una lettera attribuendola a un addetto militare italiano, il maggiore Panizzardi, il quale l'avrebbe indirizzata a un suo collega tedesco; in detta lettera si incriminava Dreyfus, e su questo documento riposò la causa dell'esercito. Ogni mossa nella campagna di revisione provocava nuovi tentativi dello Stato Maggiore di far arenare il caso e coprire le vecchie falsificazioni nell'archivio segreto fabbricandone di nuove. Gli ufficiali divennero cospiratori. Vi furono incontri segreti, minacce e ricatti, relazioni clandestine tra Paty de Clam e Esterhazy, camuffamenti con barbe finte e occhiali scuri, nonché imprese melodrammatiche di vario genere: l'esercito, ormai invischiato in una serie di atti ingiustificabili, non poteva più affrontare la revisione del processo. Chiunque si battesse per la revisione o osasse porre in dubbio la legalità della condanna di Dreyfus diventava ipso facto nemico dell'esercito e di conseguenza nemico della Francia. L'ambiente dell'esercito non era politicizzato, né particolarmente clericale, non esclusivamente monarchico o aristocratico, e non necessariamente antisemita. Sebbene molti dei suoi ufficiali fossero tutte queste cose insieme, l'esercito come corpo faceva parte della repubblica, non ne era l'antagonista come la chiesa. Nonostante i sentimenti antirepubblicani di alcuni ufficiali, esso accettava il suo ruolo di strumento dello stato. La repubblica, dato che aveva bisogno dell'esercito, si adoperava per renderlo un organismo più serio, e professionalmente più preparato, di quanto non fossero i reparti da operetta del Secondo impero, che dalla Crimea a Sedan si erano lar.ciati all'assalto con più impeto che competenza militare. In complesso, il corpo degli ufficiali era ancora dominato dai graduati di St-Cyr che provenivano in gran parte da famiglie patrizie ancora mentalmente chiuse contro le idee della Rivoluzione. Il suo culto era quello di una classe distinta dai civili, poco o per niente conscia di quello che stava succedendo nel resto della nazione. Era un club che difendeva degli ufficiali inglesi, che non portavano mai la divisa fuori servizio, gli ufficiali francesi prima del 1900, non indossavano mai altri indumenti. Mal pagati, promossi con lentezza, relegati in cupe guarnigioni di provincia per lunghi periodi, avevano, come unica ricompensa, il prestigio, gli onori, i privilegi della casta; in breve, la stima di cui godevano. E questa stima era grande. La gente poneva l'esercito al di sopra della politica; era per loro la nazione, era la Francia, era la grandezza della Francia. Era l'esercito della Rivoluzione come era stato quello dell'impero. Era l'esercito di Valmy del '92, che aveva fatto esclamare a Goethe: «Da oggi si apre una nuova era nella storia del mondo!». Era

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Tramonto

,_i un'epoca

l'esercito di l\larcngo, Austcrlilz, \\'agram; la Grande Armie che La\·issc chiama\'a con orgoglio «uno degli strumenti di guerra più pcrfclti che la storia abbia mai \'isto»; l'esercito della corazza e della sciabola, del képi e dei pantalons rouges, di Sebastopoli e del I\IalakolT, di l\[agcnta e di Solferino; l'esercito che a\'c\'a fatto della Francia il più grande potere militare d'Europa lino all'ascesa della Prussia; l'esercito della tragedia e della gloria; l'esercito delle «ultime cartucce» a Scdan, della furibonda carica di cavalleria che a\'cva fauo gridare all'imperatore tedesco: «Oli, /es brai-es gens!». Venticinque anni dopo, sotto l'onnipresente ombra della Germania, l'esercito era sia il difensore della nazione che strumento di rem11d1e. Era il mezzo per restaurare un giorno la gloria nazionale. Gli uomini si lc\'avano il cappello quando passa\·ano il colonnello e la bandiera di un re.~gimcnto. Secondo le parole di un personaggio che Anatole France mette in burletta - senza però falsare la rappresentazione del carattere - l'esercito «è tutto ciò che resta del nostro glorioso passato; ci consola del presente e ci dà speranze per il futuro». L'esercito era !es braves gens. !\cl corso dcll'alTarc Drcyfus esso di\'cnnc prigioniero dei propri alleati: clericali, monarchici, antisemiti, nazionalisti, e tt1lli i gruppi antircpubblicani che a\'cvano fallo della sua gloria il grido di battaglia della propria causa. Preso nella trappola della sbrigativa condanna di Dreyfus, e delle falsilìcazioni e macchinazioni dei suoi ufficiali per stabilirne la colpc\'olezza, l'onore dell'esercito di\·cnnc sinonimo di conferma del verdetto originario. Era un forte da difendere contro la revisione. L'opposizione contro la riapertura del processo si fonda\'a sull'argomento che rc\'isione signilìcava-_ discredito dell'esercito e un esercito screditato non poteva combaltcrc la Germania. «Revisione significava guerra», proclamò il monarchico «Gazettc dc France», e una guerra combaltuta con un esercito disorganizzato è la «Débacle», il nome dato alla sconlìtta del 1870. Come potevano i soldati combattere sollo ufficiali che erano stati additali al loro disprezzo? chiedeva il monarchico conte d'Hasson\'illc. Sebbene gli sembrasse «intollerabile» l'idea di un innocente in prigione, e la campagna antisemita «disgustosa», ciononostante la campagna per Drryfus contro l'esercito era peggiore perché distruggeva la fiducia negli ufficiali. Questa paura di ciò che avrebbe potuto succedere se l'esercito fosse sta lo indebolito dalla slìducia imimorì la Camera e fece ri\'oltare la popolazione contro la revisione del processo. L'esercito era la loro garanzia di pace. «La Francia ama la pace e preferisce la gloria» era stato detto, e anche questo sentimento era minacciato dalla revisione. Poiché insinuava dubbi sull'infallibilità

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dello Stato Maggiore, la revisione equivaleva a un sacrilegio contro la gioire militaire e chiunque la chiedesse era lilotedesco se non traditore. Ingannato dalla complessità dei documenti, facsimili, processi e fascicoli segreti, il popolo non poteva conciliare l'idea di contraffazioni preparate deliberatamente per condannare un uomo innocente con l'idea dell'esercito che per lui significava parate, uniformi, stivali, spalline, fucili e bandiere. Come si potevano immaginare quegli ufficiali che sfilavano cavalcando fieramente, con la spada in pugno, al suono della musica e dei tamburi, chini sui tavoli di polverosi uffici intenti a falsificare manoscritti e a mettere insieme pazientemente lettere con l'aiuto della colla e delle forbici? Non c'era niente di coraggioso né di militare in questo, e di conseguenza non potevano essere altro che calunnie. Il popolo era animato da sentimenti patriottici e repubblicani, e credeva a quello che leggeva sui giornali, amava l'esercito e odiava gli «altri» - sans patrie, incendiari, mangiapreti, «dreyfusard» - che, gli avevano insegnato, avevano giurato di distruggerlo. Perciò il popolo gridava « Vive l'Armée» e « Vive la République», «Abbasso i dreyfusard», «Abbasso gli ebrei», «A morte i traditori», « Vive Merciem e qualsiasi altra formula magica che potesse servire a eliminare il male e a rafforzare la sua fede. L'esercito era rappresentato, nell'alfare Dreyfus, dal generale Auguste Mercier che, ministro della Guerra nel 1894, aveva ordinato l'arresto di Dreyfus e in conseguenza di questo atto era diventato l'idolo dei sostenitori dell'esercito e il simbolo della sua causa. Ai ricevimenti dell'haut monde le signore si alzavano in piedi quando il generale Mercier faceva il suo ingresso nella sala. Sessantunenne, alto, snello e accurato nella persona, aveva lineamenti marcati, il naso ricurvo incorniciato da un paio di baffi dalle punte rivolte all'insù, alla «Kaiser», e occhi inespressivi, abitualmente semichiusi, tranne quando si spalancavano per un gelido sguardo diretto. Veterano delle campagne del Messico e della battaglia di Metz del 1870, quando nel 1893 venne fatto ministro della Guerra, lo Stato Maggiore salutò in lui l'uomo d'armi che non aveva niente a che fare con la politica. Quando l'anarchico Vaillant gettò la bomba alla Camera, Mercier rimase seduto in mezzo al fumo e al trambusto senza muovere un muscolo, tranne che per acchiappare una scheggia rimbalzata dal seggio dietro al suo e porgerla al deputato là seduto, dicendo con voce inespressiva: «Può riprenderla». Fermo di carattere, risoluto e riflessivo, riservato e corretto di modi, era sempre garbato e, quando la lotta si faceva feroce, non abbandonava mai l'uso del Monsieur anche se gli altri usavano sale béte oppure ce salaud come appellativo dell'odiato avversario.

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Tramomo di im'epoco

Nel 1894, trovandosi di fronte a un tradimento all'interno del suo Stato l\laggiore e rendendosi conto della debolezza delle pro\'e raccolte contro Dreyfus, ne a\'e\'a ordinato l'arresto nella speranza di ottenere una confessione. Dato che questa non \Tni\'a, e mentre gli ufficiali incaricati delle indagini sta\'ano disperatamente cercando le pro\·e per con\'alidare l'accusa, l'arresto era stato rivelato al giornale antisemita «La libre parole», che alfermò che Dreyfus non sarebbe stato processato perché l\lcrcier era al soldo degli ebrei. Sotto lo stimolo di questo e di altri giornali, l\lcrcier ave\'a con\'ocato il commrntatore militare del «Figaro►> e gli a\'eva detto ciò che crede\'a sinceramente: che aveva avuto fin dal principio «prove che grida\'ano ad alta voce il tradimento di Dreyfus ►>, e che la sua «colpe\'olezza era assolutamente certa». In questo modo, ancor prima del processo, a\'eva impegnato l'esercito a sostenere la colpevolezza di Dreyfus e a\'e\'a bloccato i termini del processo su posizioni che non avrebbero mai più potuto essere smosse. Tutti compresero subito l"importanza della questione. «Oggi si de\·e essere o per l\lcrcier o per Dreyfus; io sono per l\lcrcier>► disse il suo aiutante parlamentare, il generale Riu, ai giornalisti. «Se Dreyfus viene assolto, l\lcrcier se ne va ►> scrisse il direttore monarchico Cassagnac nell' «Autorité» e, dato che l\lcrcicr era membro del governo, aggiunse: «Se Dreyfus non è colpevole allora lo è il governo». E da quel momento ciascuno ripetendo la scelta non faceva che approfondire la frattura. Al processo, fu il generale Mcrcier a dare la sua autorizzazione affinché il fascicolo segreto fosse messo a disposizione dell'accusa e rifiutato alla difesa, fatto che rese illegale il processo. Riconoscendo in pieno l'irrimediabilità di ciò che aveva fatto, Mercier tenne duro per due anni, nonostante le crescenti prove di contralfazione e false dichiarazioni, sostenendo con sempre maggiore arroganza la colpevolezza di Dreyfus. Dato che questi era stato condannato in base a prove false, riaprire il processo avrebbe significato il disonore del ministero della Guerra, dello Stato Maggiore e suo proprio. In breve, come disse un collega, se in una revisione del processo «il capitano Dreyfus fosse assolto, il generale Mercicr diverrebbe il traditore». Attraverso ogni riapertura delle indagini, ogni riesame delle testimonianze, il processo Esterhazy, il processo Zola, l'inchiesta della Corte d'appello, il processo finale di Rennes, egli respinse le forze della revisione e difese la fortezza del falso verdetto. Altezzoso, arrogante, impassibile, senza mai perdere il sangue freddo perfino quando la struttura da lui costruita gli crollava sotto i piedi, egli ricordò a un osservatore un personaggio dell'Inferno di Dante che si guardava attorno con disdegno, «quasi avesse lo inferno in gran dispitto>>.

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Ogni forza, tranne la \'erità, sta\'a dalla sua parte. Ogni volta che i drcyfusard esibivano nuove pro\'e, certi di ottenere questa volta per forza la revisione del procc-sso, esse veni,·ano sopprc-sse, annullate, eliminate o confutate da nuo\'e contralTazioni da parte dell'esercito, appoggiato dal go\'erno, da tutti i bien-pensants, cioè i fedeli benpensanti inlluenzati dalla chiesa, e dai tuoni e fulmini dei quattro quinti della stampa. Fu la stampa a montare l'alTare Dreyfus e a rendere, così, impossibile ogni accordo. Multiformi, virulenti, turbolenti, letterari, pieni di in\'enti,·a, personali, pri\'i di coscienza e spesso crudeli, i quotidiani parigini costitui\'ano l'elemento più vivace e più importante della \'ita pubblica. Ne uscivano da \'enticinque a trc-nta contemporaneamente. Essi rappresenta,·ano ogni concepibile sfumatura di opinioni, autodelìnendosi repubblicani, conservatori, cattolici, socialisti, nazionalisti, bonapartisti, legittimisti, indipendenti, assolutamente indipendenti, cattolico-conservatori, monarchico-conservatori, liberal-repubblicani, re-pubblicano-socialisti, repubblicano-indipendenti, repubblicano-progressisti, repubblicano-radical-socialisti. Alcuni erano giornali del mattino; altri della sera; alcuni a\'evano supplementi illustrati, quattro o sci pagine- dedicate, oltre che alle solite questioni politiche e agli alTari esteri, alle notizie dell'lwut monde, dell'ippica, della moda, del teatro e dell'opera, dei concerti, delle arti ligurative, mostre e notizie dell'accademia. Tutti gli scrittori più quotati, tra i quali Anatole France-, Jule Lemaitre, l\[aurice Barrès, l\larcel Pré\'ost, vi contribuivano con articoli e critiche letterarie; i loro romanzi uscivano a puntate in fondo alla prima pagina. Sulle questioni più importanti uscivano editoriali lirmati pieni di appassionate in\'ettive. I giornali erano pane, \'ino e companatico della vita quotidiana di Parigi. Dai giornali dipendevano tutte le carriere più importanti e anche molte di quelle secondarie. Tutti, dagli accademici agli anarchici alTamati, ne traevano guadagni supplementari. Eminenti personaggi politici fuori carica si volgevano al giornalismo per combattere le loro battaglie politiche e per trarne guadagno. In quattro e quattr'otto chiunque fosse dotato di energia, appoggi finanziari e opinioni da difendere poteva fondare un quotidiano. Il talento giornalistico non era un requisito indispensabile e tutti, nell'ambiente politico-letterario di Parigi, potevano scrivere, e lo facevano d'impulso, rapidamente, copiosamente. Colonne di opinioni, di critiche, di controversie colavano come acqua. «Le Temps», olimpico e autore\'olc, era in testa a tutti gli altri. Le sue pagine fuori misura venivano lette da tutti coloro che partecipavano alla vita pubblica, le sue critiche decidevano il destino di un lavoro teatrale, i suoi editoriali

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sugli a(Tari esteri, scritti da André Tardicu, a\·c\·ano una tale innucnza che il ministro degli Esteri tedesco, \'On Bi.ilow, osscn·ò: «\'i scmo tngrandi potenze in Europa ... più il signor Tardicu». «Le Tcmps» fu il solo giornale che si mantenesse al di sopra della mischia, sebbene tendesse gradualmente verso la revisione. «Le Figaro», che lo scgui\'a per importanza, si dimostrò \·ulnerabilc. Il suo direttore, Fcrnand dc Rodays, dopo a\'cr sentito Dreyfus gridare forte la sua innocenza in occasione della degradazione militare, gli credette. Tre anni dopo egli pubblicò la pri~a prorn contro Esterhazy, insieme con i primi articoli di Zola. Sebbene fosse padre e suocero di uniciali, i colleghi della stampa nazionalista, furibondi, lo denunciarono come traditore dell'esercito e organizzarono una campagna perché gli abbonati abbandonassero «Le Figaro». La direzione cedette e dc Rodays fu buttato fuori; i pcttrgolczzi parigini dissero che a\-c\·a riccrnto 400.000 franchi per appoggiare Dreyfus e che la direzione a\'ern dornto sganciarne 500.000 per liberarsi di lui. I ricatti della stampa nazionalista, scrisse Zola, che ne subì le più pesanti conseguenze, anliggcvano la Francia come «un \'Crgognoso morbo che nrssuno ha il coraggio di curare». I seminatori di zizzania erano i giornali finanziati da prirnti che a\'C\'ano interessi particolari o quelli diretti da uomini cli \·iolcnti principi o del tutto privi di principi. C'era Erncst Judet del «Petit Journal» che conducc\'a la campagna per infamare Clcmcnccau con il fango di Panama e che, quando Clcmenceau di\'ennc primo ministro nel 1906, fortificò la sua \·illa di :'\cuilly come per difenderla contro un assedio. Oi\'orato da un perenne terrore dei massoni, J udct girava con una ri\'Oltclla carica e un bastone piombato che pesava cinque chili. \'i era il \'Ccchio monarchico, Paul dc Cassagnac, che introdusse nel giornalismo la moda delle maldicenze e dell'insulto, e attaccava tutti e lutto senza curarsi della coerenza. C'era Arthur l\lcyer, un ebreo con\"crtito, figlio di un sarto, nipote di un rabbino? ardentr boulangista e monarchico, che era il direttore del «Gaulois», sprcializzato nri fatti dcll'/w11/ monde. Era il giornale letto dall"ambientc dri Gurrmantrs. La incondizionata adozione da parte di l\lcycr drllc opinioni e prrgiudizi di quel mondo richicdcrn un certo coraggio e una pcllr dura, poiché lui non era un Charlcs Swann che si mimctizza\·a nell'ambiente, ma an'\"a il tipico aspetto dell'ebreo nelle caricature antisrmitc. Ciononostante a\'C\"a sposato una del «Faubourg», la squattrinata figlia dd contr di Turenne; era stato accettato nella cerchia della duchessa d'Uzrs. rra di\'cntato amico, consigliere e conlìdrntr dell"ultimo prrtendrntc al trono, il con tè di Parigi, e lanciato una moda maschile con il taglio clellc sue giacche sportÌ\·c e con il nodo delle sue crarnttr.

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Hcnry, conte dc Rochefort, dell'«lntransigcant», era il tipo di giornalista che tende alla maldicenza proprio senza alcun principio morale; quanto più disordinate erano le sue teorie, tanto più brillante e mordace era la sua penna. Un costituzionale «anti» definito da un amico «un reazionario che non se ne rendeva conto», un cinico dallo sguardo acuto, un «aristos» dalla bianca barbetta appuntita e dalla risata esuberante, Rochcfort riuniva nella sua persona tutte le tendenze, non importa se contrastanti, della Terza Repubblica. Le sue Aventures de ma vie riempirono cinque volumi. Era stato tutto; da antagonista di Napoleone III a alleato del generale Boulangcr e la sua colonna quotidiana formava la delizia della parte più impressionabile cd eccitabile del pubblico. Avvicinato dai primi drcyfusard con l'idea che gli sarebbe piaciuto dimostrare l'innocenza di un condannato che tutti ritenevano colpevole, Rochcfort era stato cordiale, ma era stato dissuaso da quell'avventura dal suo capo, Erncst Vaughan, col pretesto che l'opinione pubblica non avrebbe tollerato una irriverenza nei confronti dell'esercito. Rochcfort trovò il partito opposto altrettanto interessante, e quando Vaughan cambiò idea, essi litigarono, con lo storico risultato che Vaughan se ne andò per fondare il proprio giornale, «L'Aurorc», con l'intento di dare ai drcyfusard un organo di stampa che fino a quel momento era loro mancato. Rochcfort gli rese la pariglia, pubblicando la storia più dannosa di tutto l'affare Drcyfus. Egli informava i suoi lettori dell'esistenza di una lettera del Kaiser a Drcyfus che il presidente della repubblica era stato obbligato a restituire all'ambasciatore tedesco, conte Miinstcr, çon la minaccia di guerra, ma non prima che fosse stata previdentemente fotografata. «L'I ntransigcant» affermava con «assoluta certezza», basata sulle rivelazioni di un alto personaggio militare, che questo era «il documento-segreto» in base al quale Drcyfus era stato condannato. Il pubblico era talmente confuso dalle mistificazioni e dagli intrighi suscitati da tutto l'affare Drcyfus che la storia fu creduta in pieno. Essa soffocava con i suoi argomenti gli sforzi per la revisione del processo. Avvalorava la tesi che revisione significava guerra. Durante tutto l'affare Dreyfus per l'opinione pubblica non contò mai ciò che era realmente accaduto, ma ciò che andavano diffondendo la stampa nazionalista e le voci appena sussurrate. Effettivamente c'era stato un intervento del conte Miinster, ma per negare ufficialmente ogni contatto con Drcyfus: agli occhi del pubblico questo episodio assunse l'aspetto di un potenziale ultimatum. I generali, le cui opinioni erano, per validi motivi, dominate dal problema della Germania, si servirono di questa versione

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come pretesto per non riaprire il caso e si espressero in maniera così convincente da convincere se stessi. Il generale Mercier dichiarò di essere rimasto lino a mezzanotte con il presidente e il primo ministro dopo l'intervista con il conte Munster, aspettando «di sapere se l'esito sarebbe stato guerra o pace». Il generale BoisdelTre, capo di Stato Maggiore, disse rabbiosamente alla principessa Matilde Bonaparte, che sosteneva l'innocenza di Dreyfus: «Come può dire una cosa simile a me che ho visto e tenuto nelle mie mani le lettere di Dreyfus all'imperatore della Germania?». Furiosa la celebre ospite gridò: «Se ha visto quelle lettere non possono essere che apocrife. Non potrà mai farmi credere una cosa simile!». Al che BoisdelTre uscì furibondo dalla stanza e la principessa, con un sospiro di sollievo, esclamò: «Quel animai, ce général!». Diventava sempre meno chiaro il confine tra la verità e quello che la gente prendeva per vero. Le numerose dichiarazioni del governo tedesco di non aver mai avuto alcun contatto con Dreyfus furono ignorate col pretesto che Berlino non poteva conoscere i nomi delle spie con cui avevano a che fare i suoi agenti. D'altra parte, i giornali nazionalisti dipingevano una Germania offesa al punto da minacciare guerra a causa della condanna di Dreyfus nonostante le dichiarazioni ufficiali tedesche. Qualunque tendenza pro-revisione venne dichiarata una vile sottomissione alle pressioni della Germania e una prova del potere del «Sindacato». Questo «Sindacato» era una pura invenzione della stampa antisemita e raccoglieva in sé tutto ciò che la destra odiava. Si diceva che fosse un'associazione segreta degli ebrei, una nera e sinistra cricca le cui forze erano mobilitate per far revocare la condanna di Dreyfus e incriminare un cristiano in vece sua. Tutti gli sviluppi del caso contrari ai desideri dei nazionalisti venivano attribuiti al «Sindacato». Qualsiasi persona importante o degna di rispetto che si proclamasse a favore della revisione era al soldo del «Sindacato». I nazionalisti dicevano che dal 1895 esso aveva speso dicci milioni di franchi per corrompere i giudici ed esperti grafologi e suborn:ue giornalisti e ministri. Dicevano che i suoi fondi olferti dai grandi banchieri ebrei erano depositati nelle camere di sicurezza di una banca internazionale di Berlino. Dicevano che il suo consulente tedesco fosse il pastore Gunthcr, cappellano personale del Kaiser. Lo scopo di questa cricca era di distruggere la fede della nazione nell'esercito, rivelare i segreti militari, privare la Francia di ogni difesa e poi aprire le porte al nemico. I vignettisti rappresentavano questa cricca come un grassone dai lineamenti tipicamente ebraici, inanellato e con tanto di cate-

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na d'orologio in vista, con un'espressione di maligno trionfo sul volto, mentre con un piede schiacciava il collo di una prostrata Marianne. Man mano che aumentava l'importanza dell'affare Dreyfus, il «Sindacato» si dilatava agli occhi dei nazionalisti fino a diventare una mostruosa lega non soltanto di ebrei, ma di massoni, socialisti, stranieri e di tutte le altre persone di sentimenti ostili. Si diceva che attingesse i suoi fondi presso i nemici della Francia, che si servivano di Dreyfus come di un pretesto per screditare l'esercito e dividere la nazione. Anche l'umiliazione patita a Fashoda per opera dell'Inghilterra fu considerata una macchinazione del . Come nativo dcli' Alsazia, che dopo il 1871 aveva scelto di vivere in Francia, era stato nominato senatore a vita ed era considerato l'incarnazione della provincia perduta. Di famiglia nobile e ricca, dignitoso e sobriamente elegante, rappresentava l'aristocrazia della repubblica. Quando un cronista della «Libre parole» andò a intervistarlo e si sedette su una poltrona, «il duca de Saint-Simon» in persona, si disse, «non avrebbe potuto essere più scandalizzato» di Scheurer-Kestner, offeso dal fatto che un redattore di simile giornale fosse riuscito a penetrare nella sua casa. Quando apprese che l'esercito aveva soppresso le prove che dimostravano che l'uomo esiiiato nell'Isola del Diavolo era innocente e che il vero autore del documento usato per condannarlo era Esterhazy, restò inorridito. Questa prova era stata scoperta da un ufficiale dell'esercito, il colonnello Picquart, che era stato nominato capo del controspionaggio qualche mese dopo la condanna di Dreyfus. Quando fece conoscere la sua scoperta al capo e al vicecapo di Stato Maggiore, i generali BoisdetTre e Gonse, questi opposero un fermo rifiuto sia ad accusare Esterhazy che a rilasciare Dreyfus. Poiché Picquart insisteva, Gonse gli chiese perché ritenesse così importante richiamare Dreyfus dall'Isola del Diavolo. «Ma, generale, egli è innocenteh> rispose Picquart. Gli fu detto che ciò era «irrilevante», il caso non poteva essere riaperto, il generale Mercier era coinvolto e le prove contro Estèrhazy non erano definitive. Quando Picquart suggerì che le cose avrebbero potuto andare peggio se la famiglia Dreyfus, che stava svolgendo delle indagini, avesse scoperto la verità, Gonse rispose: «Se lei non dice nulla, nessuno lo saprà».

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Picquart lo fissò incredulo. «È abominevole, generale. Io non mi porterò nella tomba questo segreto» disse, e lasciò la stanza. Abituato alla disciplina militare, leale e obbediente verso i superiori quanto tutti gli altri ufficiali, privo di rancori personali, schivo di quella notorietà che avrebbe spinto altri protagonisti dell'alfare Dreyfus, Picquart, pur sapendo che rischiava di giocarsi la carriera, agì allora e in seguito per puro rispetto della giustizia. Era per di più antisemita e una volta, quando gli avevano chiesto di prendere con sé Reinach, che era ufficiale di riserva, per le manovre, si era opposto dicendo: «Non posso sopportare quell'ebreo». Dreyfus non gli interessava più di Reinach. Era il fatto che l'esercito potesse condannare coscientemente un innocente a disgustarlo. Dato che non rinunciava a esercitare le sue pressioni, fu trasferito in un reggimento di fanteria in Tunisia. Soggetto alla disciplina dell'esercito, egli non poteva fare rivelazioni pubbliche, però durante una licenza fece un breve ritorno a Parigi, durante il quale rivelò i fatti a un amico-avvocato e lasciò un rapporto sigillato da consegnare, nell'eventualità della sua morte, al presidente della repubblica. Successivamente, quando la sua rivelazione fu resa nota, egli venne richiamato, processato e condannato per cattiva condotta, congedato dall'esercito, e in seguito arrestato e incarcerato per un anno. Nel frattempo la sua dichiarazione era stata riferita dal suo avvocato a Scheurer-Kestner, suo amico personale, che la rese immediatamente di dominio pubblico, dichiarando l'innocenza di Dreyfus ai colleghi senatori e chiedendo una revisione del processo. Egli inchiodò il governo, assillò i ministri della Guerra e della Giustizia, intervistò ripetutamente il primo ministro e il presidente. Essi risposero evasivamente e si sbarazzarono di lui promettendogli «un'inchiesta». Nel maggio del 1898 ci sarebbero state le elezioni, vale a dire otto mesi dopo. Una revisione del processo avrebbe sollevato un putiferio da parte dei seminatori di zizzania e provocato una pubblica inchiesta negli affari dell'esercito, che, una volta iniziata, avrebbe potuto portare chissà dove, con effetti negativi sia sulla Russia, con cui la Francia aveva appena stipulato un'alleanza militare, sia sulla Germania. Le questioni di stato, estere e interne, superavano in valore una questione di giustizia verso un uomo solitario in un'isola remota. Per di più il senso della giustizia non è così chiaro per coloro che occupano cariche pubbliche come lo è per i cittadini privati. I ministri si lasciarono persuadere dallo Stato Maggiore in base alla lettera contraffatta dal maggiore Henry, sulla quale non avevano motivo di nutrire dubbi - che Dreyfus, tutto sommato, doveva essere colpevole ed Esterhazy probabilmente complice, o che doveva esserci qualche disgraziata complicazione che non

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giustificava le terribili conseguenze cui avrebbe portato una riapertura del processo. Scheurer-Kestner si accanì invano. A quel proposito egli pubblicò una lettera sul «Temps», in cui informava il pubblico che esistevano documenti «che dimostrano l'innocenza del capitano Dreyfus», e chiedeva un'inchiesta formale del ministro della Guerra «per stabilire la colpevolezza di un altro». Contemporaneamente il «Figaro» pubblicò alcune lettere di Estcrhazy a un'amante respinta, fra cui, in facsimile, una scritta durante il periodo boulangista, che esprimeva disprezzo per il proprio paese in termini sorprendenti. «Se mi dicessero che potrei morire domani come capitano degli ulani, sciabolando francesi, sarei perfettamente felice» aveva scritto, soggiungendo che desiderava vedere Parigi sotto «il rosso sole della battaglia, presa d'assalto e consegnata al saccheggio di 100.000 soldati ubriachi». Queste straordinarie espressioni di odio per la Francia, redatte nella calligrafia del bordereau 1 dal quale dipendeva la condanna di Dreyfus, apparve ai dreyfusard come un miracolo. Credettero che la battaglia fosse vinta, ma dovettero imparare, come scrisse Reinach, che «la giustizia non scende dal ciclo; bisogna conquistarla». I giornali della destra dichiararono immediatamente che le lettere erano state contraffatte a opera del «Sindacato». Esterhazy stesso, giocatore incallito e pieno di debiti, speculatore in borsa, fatuo e brillante farabutto, che aveva sposato la figlia di un marchese, uomo dalla faccia olivastra e cadaverica e dal naso ricurvo, con un paio di baffi neri da magiaro, le «mani da brigante» e l'aria, come scrisse un osservatore, «di uno zingaro elegante e infido o di una grande belva feroce, sempre all'erta e padrona di sé», veniva ora trasformato dalla stampa nazionalista in un eroe la cui innocenza era un articolo di fede. Nella stessa misura, Scheurer-Kestner venne vilipeso e il pubblico incoraggiato a fare dimostrazioni nel giorno in cui doveva pronunciare una dichiarazione al Senato. Alto, diritto, pallido, con la fronte alta, la barba bianca e l'aria austera di un ugonotto del Cinquecento, egli si avviò verso la tribuna con passo cadenzato, come se stesse salendo al patibolo. Fuori, nel nebbioso pomeriggio invernale, la folla gremiva i giardini del Lussemburgo, gridando contro un uomo di cui non sapeva niente. Egli lesse il suo appello alla ragione con voce lenta f' grave ai senatori di opinione contraria che punteggiarono il suo discorso con 1 Il documenw rim-cnuw nel cestino della caria straccia dell'addr110 militare che costitui\'a il capo d'accusa originario. Contene,·a un elenco delle informazioni romite al nemico. [.\'.d.•4. J

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risate e commenti insultanti. Come ricorclìi loro chr rra l'ultimo clrputato clctrAlsazia francrsc-cosa che in altri trmpi li ancbbc commossiru accolto dal più grliclo silenzio e, quando ebbe finito, occhiate ostili accompagnarono il suo ritorno dalla tribuna. Un mese dopo, nrlle rielezioni autunnali dc-i membri del Srnato, egli non venne riproposto per la vicrprcsidcnza, carica che aveva ricoperto per quasi tutta la durata della repubblica. La sua battaglia ottenne il formidabile appoggio cli Clemenccau, il distruttore del go\'erno, l'lwmme sinistre, come lo chiama\'ano i conscr\'a• tori, temibile nel dibattito, nell'opposizione, nd giornalismo, nella com·ersazionc e nei duelli con la pistola o la spada. Egli si batté a duello con Paul DéroulèdC' pC'r Panama e con Drumont per l'anarc Drryfos. l\lcdico cli prorcssione, faceva anche il critico teatrale (come tale diffuse la conoscenza di lbscn) cd era amico intimo cli Claudc l\lonct, la cui opera, scrisse nel 1895, guida\'a il senso \'isi\'o dell'uomo «verso una più sottile e penetrante visione del mondo». Egli incaricò Toulousc-Lautrec di illustrare uno dei suoi libri e Gabriel Fauré cli musicare una delle sue commedie. «Solo gli artisti sono sulla strada giusta>> disse alla line della sua \'ita. «Forse perché essi sanno dare una certa bellezza a questo mondo; dargli una ragione è impossibile.» Dopo Panama, Clemenceau era rimasto escluso dal Parlamento e da ogni carica politica. Persuaso da Schcurcr-Kcstner che la \'erità sul caso Dreyfos era diversa dalla versione ufficiale, \'ide l'opportunità che questa grande causa gli offriva e l'afferrò al rnlo. Tutta\'ia non ru solo l'ambizione politica a stimolarlo. Secondo lui, la minaccia della Germania era il fatto dominante della vita politica. «Chi,» si chiedeva indignato per la visione di Esterhazy degli ulani prussiani che sciabolavano i francesi ◄> scrisse lord Esher «che tutta la loro legislazione verrà annullata dalla Camera dei Lord e che più presto si alzeranno per battersi meglio sarà.» Balfour, seguendo il modo di ragionare di suo zio, temeva che i conservatori si lasciassero provocare a commettere errori. Egli disse immediatamente a lord Lansdowne, capo conservatore alla Camera dei Lord, che la strategia del governo sarebbe stata di presentare progetti di legge con provvedimenti più estremi del necessario, lasciando alla Camera dei Lord il compito di modificarli o respingerli, l'uno dopo l'altro, fino a mettersi automaticamente in stato di accusa. Allora i liberali avrebbero fatto appello al paese per ottenere il mandato di limitare il diritto di veto della Camera Alta. Mai prima, avvertì, i conservatori erano stati chiamati a svolgere «un compito così importante , così delicato e così difficile insieme». Nel dibattito sul progetto di legge sull'istruzione i Lord non si attennero a nessun criterio di prudenza e la loro foga non si smorzò neppure quando ricevettero dalla Camera dei Comuni un progetto di legge sul voto plurimo, destinato a porre fine all'antica usanza secondo la quale chi possedeva terre in più di una circoscrizione elettorale aveva diritto a più di un voto. «Qualcosa succederà» disse Lloyd George, stropicciandosi quasi visibilmente le mani. Ci sarà presto un'a grande partita di calcio su quel campo, ve lo posso assicurare.» In dicembre, le sue previsioni e i timori di lord Salisbury si avverarono: la Camera dei

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Lord respinse sia il progetto di legge sull'istruzione che quello sul voto plurimo. Tuttavia non si oppose all'altro progetto di legge, forse ancora più sgradevole, sulle vertenze sindacali, anche se i liberali sarebbero stati ben contenti che lo facesse. Il progetto, revocando la decisione della Taff Vale, era stato presentato alla Camera dei Comuni cd era passato contro la vera volontà del governo, superando le obiezioni di parecchi ministri, a causa delle pressioni laburiste alle quali si erano uniti anche i deputati radicali. «Non potevamo opporci al gran numero di deputati che si erano impegnati ad appoggiarlo» ammise Haldanc, il liberale ministro della Guerra. Cautamente guidati da Lansdownc, i conservatori lasciarono passare il progetto di legge perché non desideravano disgustare la classe lavoratrice e cementarne l'unione con i liberali. Basandosi sul rifiuto degli altri due progetti, Asquith disse che la situazione era «intollerabile» e che bisognava trovare il modo «di far prevalere la volontà del popolo, espressa attraverso i deputati che lo rappresentavano». La sua minaccia era esplicita e la Camera dei Lord stava svegliandosi. La sede che ospitava i 544 lord ereditari inglesi - fra cui ventidue duchi-, i vescovi e i pari nominati a vita era una sala alta, rivestita di quercia scura, lunga trenta metri, -in cui correvano due file di banchi imbottiti di cuoio rosso. Le vetrate istoriate recavano i ritratti dei re d'Inghilterra sin dai tempi della conquista normanna. Le pareti e i soffitti erano decorati con modanature gotiche e insegne araldiche. Tra le finestre, le statue dei baroni della Magna Charta, ignari fondatori del sistema parlamentare, guardavano torvi il frutto della loro opera. A un'estremità della sala, sotto un baldacchino dorato, vi erano due troni, per il re e la regina, fiancheggiati da alti candelabri ritti come guardie sull'attenti. Sotto il trono il Gran Cancelliere presiedeva seduto sul Woolsack, uno stallo quadrato imbottito. Lungo la navata c'erano degli scanni trasversali per i principi della casa reale e i pari non appartenenti ai partiti. Dagli affreschi murali numerosi sovrani e giudici ritratti in episodi della storia inglese facevano sentire la loro fosca presenza. La luce era discreta, il tono generale di dignitosa sonnolenza. Ora la prospettiva di una battaglia incominciava a riempire i banchi, solitamente occupati da no11 più di una cinquantina di pari. Lansdowne incitava i suoi seguaci a parlare, prestava loro attenzione quando lo facevano, ne appoggiava gli sforzi con le maniere amabili da gran signore che lo distinguevano. Lord Curzon arricchiva i dibattiti con discorsi «talmente superiori a quelli dei colleghi che è molto difficile credere che fosse mai in errore». Il nuovo Gran Cancelliere dei liberali,

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lord Loreburn, prestava la sua presenza animatrice e offriva alla Camera il tributo di essere sempre completamente sveglio quando si trovava sul Woolsack. Era l'ex sir Robert Reid, uno scozzese noto come «il battagliero Bob», un famoso giocatore di cricket che aveva giocato nella squadra di Oxford, radicale fortemente contrario ai liberali imperialisti e «ardente oratore» alla Camera dei Comuni, che ora teneva conferenze ai membri dell'opposizione «in tono tale da far quasi piangere quei peccatori» e avanzava «la proposta più discutibile con la più incantevole plausibilità». Con il ritmo di un Gibbon e la galanteria di quel lord Tolloller che s'inchina a lord Mountararat in lolanthe, lord Curzon riconosceva che lord Loreburn era «la personificazione della cortesia, l'incarnazione della forza di persuasione e la glorificazione della dignità». Sui banchi trasversali sedeva imbronciato l'ex primo ministro liberale, lord Rosebery, che si era dimesso dalla direzione del partito; quando Campbell-Bannerman era subentrato al suo posto lui, come imperialista e avversario dell'Home Rute, aveva annunciato: «Dichiaro esplicitamente e una volta per tutte che non posso prestar servizio sotto quella bandiera». Noto sin dai tempi di Eton per l'intelligenza brillante, l'intuito e il fascino, Rosebery-che aveva vinto il Derby e sposato a una ricca Rothschild - era troppo abituato al successo per scendere a compromessi, e restava, secondo una frase di Morlcy, «un cavallo scuro in un recinto aperto». Quando era di cattivo umore guardava di traverso gli amici e li fulminava con mordace sarcasmo; quando esercitava il suo fascino sapeva circondarsi di ammirazione. La sua instabilità aveva indotto la gente a perdere la fiducia in lui, e faceva venire in mente ad A. G. Gardiner la storia di un contadinotto a cui era stato chiesto se a Wordsworth piacevano i bambini; quello aveva risposto: «A lui piacevano, ma era lui che non piaceva molto a loro». Durante gli anni della crisi dell'Home Rulc, Rosebery era stato capo del movimento di riforma della Camera dei Lord, proponendo qualche modifica del principio ereditario, e per ben tre volte era tornato alla carica, nella speranza che l'autoriforma avrebbe parato gli attacchi al diritto di veto. Il movimento di riforma era ora rinato sotto la guida di lord Curzon. Perfino Churchill, che amava avere una mano in tutto, disse la sua in un articolo per il «Nation» intitolato: Come convivere con i pari. Egli proponeva un sistema mediante il quale i pari dovevano essere scelti a ogni nuova legislatura in modo da rispecchiare la stessa maggioranza della Camera dei Comuni, non superando comunque il numero di 250. Ciò avrebbe escluso «elementi frivoli, letargici, ignoranti o disprezzabili». La maggior parte delle riforme proposte contempla-

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va qualche sistema mediante il quale i pari avrebbero eletto tra di loro quelli particolarmente adatti per abilità o meriti acquisiti. Molti però preferivano il semplice principio che una volta aveva spinto lord Melbourne a dire che gli piaceva l'Ordine della Giarrettiera ,) e l'interdipendenza tra i due problemi «fu chiara in modo inequivocabilC)). Lo volesse o no, il governo era ora costretto a condurre la battaglia (ìno in fondo: doveva cioè ottenere la nomina di nuO\·i pari o per lo meno la promessa del sovrano di procedere a nuove nomine. Da questo momento in poi la tensione crebbe (ìno a un apice mai più raggiunto dopo le lotte del 1832, quando ,·enne varata la legge sulla riforma elettorale. Asquith presentò formalmente il progetto di legge parlamentcare nel febbraio 1910, annunciando che, se i pari li• .1,·esscro respinto, avrebbe consigliato la Corona a muovere i passi ncu:ssari. Ne seguì uno scompiglio di negoziati e intrighi, di pressioni e di consigli al re, di contrattazioni tra i partiti e all'interno dei partiti, di visite e consultazioni nelle case di campagna, di abboccamenti con l'arci,-cscorn di Canterbury. Quasi inosservato, il bilancio, causa di tutto ciò, fu approvato, come Lansdowne aveva promesso se i liberali avessero vinto le elezioni. !\la nel frattempo il bilancio era dimenticato, sostituito dal progetto di legge sulla riforma parlamentare, che portava con sé l'ombra ridicola di

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cinquecento pari artificiali. Sebbene esso assorbisse per mesi gli sforzi, le passioni e la massima abilità politica della Corona, dei ministri e dell'opposizione, in realtà era una causa spuria. Non recava in sé alcuna questione basilare di diritto e di giustizia umana, come l'affare Dreyfus. I liberali sostenevano che la lotta era causata dal potere dei pari di bocciare le decisioni dei Comuni, anche se poi di fatto, come aveva ammesso lo stesso Herbert Samuel, «essi lasciavano passare quasi tutte le nostre legislazioni sociali» tranne il progetto di legge sull'istruzione e quello sulle licenze di vendita degli alcoolici, il primo dei quali era stato un guazzabuglio di compromessi che non soddisfaceva nessuno e l'altro appena una questione di minor conto, per la quale non valeva la pena di scomodare la costituzione inglese. Ciò che spingeva i liberali all'attacco era la necessità di vendicarsi per il fallimento del loro programma e per aver venduto il loro onore agli irlandesi. Essi si sentivano giustificati perché giudicavano la Camera dei Lord, come disse Masterman, un'istituzione capace soltanto di «permettere cambiamenti che essa disapprovava profondamente quando vi era costretta dalla paura ... Non sa fare altro che modificare, controllare o distruggere l'opera altrui. Non ha un solo suggerimento costruttivo da offrire a un popolo dinanzi a difficili problemi». Ciò che spronava i conservatori alla loro resistenza altrettanto rabbiosa era la determinazione di conservare intatto l'ultimo baluardo del privilegio. Perdere il veto o perdere la maggioranza conservatrice alla Camera dei Lord significava perdere l'ultima possibilità di tenere sotto controllo la marcia delle classi assedianti. Essi consideravano il raggiungimento del potere da parte del popolo, scrisse Masterman che vedeva anche il loro punto di vista, come il diluvio universale. «Per loro la nostra civiltà è come un pezzetto di terra redenta in mezzo al deserto, conservata come per miracolo di decennio in decennio)), mentre l'avvento del popolo «è sentito come un'irruzione della folla in un giardino tranquillo, che strappa i fiori dalle radici ... e dissemina il piacevole paesaggio di carta straccia e bottiglie rotte». Tuttavia la resistenza dei conservatori venne indebolita da una scissione nelle loro schiere. Come leader del partito, Balfour seguiva la politica di evitare a tutti i costi la nomina di nuovi pari in numero tale da portare alla Camera dei Lord una stabile maggioranza liberale. Questo, a suo vedere, era una «rivoluzione)>. La perdita del veto, vale a dire, l'accettazione del progetto di legge sulla riforma parlamentare, gli sembrava un male minore. Contrario a questo punto di vista era invece un gruppo di pari che stava incominciando a formarsi e che prese il nome di «Diehard», come un famoso reggimento. Il suo simbolo e campione era quel «vecchio gallo

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da combattimento», lord Halsbury, e il suo attivo organizzatore era lord Willoughby dc Brokc, diciannovesimo barone della sua stirpe, uno dei diciotto membri della Camera dei Lord il cui titolo risaliva a prima del 1500. Prima di entrare alla Camera dei Lord aveva fatto parte della Camera dei Comuni, e, oltre all'intuito politico, possedeva una «sconfinata energia e un profondo talento per l'oratoria impetuosa e piena d'ironia». A quarantadue anni aveva una personalità piena di sottile fascino; l'ultimo desiderio di suo padre sul letto di morte era stato che il figlio facesse tutto ciò che poteva «per impedire che le automobili venissero adoperate per la caccia», mentre il suo bisnonno «non si era mai stancato di votare contro la legge sulla riforma elettorale e morì più di una silc-nziosa morte nell'ultima trincea, o meglio, nell'ultimo corridoio del Parlamento, in difesa dell'ordine esistente». Willoughby dc Broke considerava l'industrialismo e la democrazia forze che avevano «agito in modo malefico sul complesso della nazione», parlava con metafore di caccia e di corse e correva di qua e di là come un segugio a caccia dei Backwoodsmen. In una lettera circolare indirizzata a loro, lord Halsbury incitò ogni pari a «parlare liberamente in nome del vostro ereditario diritto costituzionale e a respingere fermamente ogni attacco contro di esso». Mentre tutte queste manovre si agitavano intorno al trono, il re Edoardo morì improvvisamente e inaspettatamente. I conservatori di estrema destra dichiararono che la malvagità del governo ne aveva causato la morte e considerarono i liberali dei regicidi. Tutti ebbero l'impressione che un'ancora se ne fosse scivolata via e che un certo ordine di cose fosse scomparso. La gente sentiva che in un certo senso la grossa familiare figura si era frapposta fra l'Inghilterra e il cambiamento di potere, tra l'Inghilterra e le minacce esterne. Era molto popolare una canzone cantata dalla domestica in Pellissier's Follies del 1909:

There'll be no wo'ar As long as there's a king like good King Edward There 'Il be no wo 'ar For 'e 'ates that sort of llling! Mothers needn 't u•or~JI As long as we've a king like good King Edward. Peace wilh 'Onner /s his Moller So God Sive the King! 1 1 «:-o;on ci sarà guerra/ lineh> e «combattenti». Curzon aveva accettato i punti di vista di Balfour, ma il vecchio lord Halsbury sosteneva arcignamente che lui «avrebbe chiesto la votazione formale, anche da solo, piuttosto che arrendersi». Balfour fu incitato a convocare un'altra riunione del Gabinetto ombra, ma stava incominciando a sentirsi profondamente irritato per l'atteggiamento «teatrale» dei «Diehard», specialmente di quelli di estrazione borghese come Smith e Chambcrlain. Tutto ciò che poté fare fu di scrivere una lettera aperta sul «Times» diretta a un «pari perplesso», consigliandolo di cedere alla necessità di approvare la legge. I «combattenti» risposero che il progetto di riforma parlamentare avrebbe istituito il governo monocamerale e loro non potevano esimersi dalla responsabilità «di una rivoluzione concentrata mediante l'astensione». Per aprire la loro campagna essi organizzarono un grande banchetto in onore di lord

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Halsbury, per il quale le richieste di biglietti d'invito superarono le capacità della sala. Trii brindisi e i discorsi bellicosi, lord Halsbury, che appariva «molto solTcrente, ansioso e stanco», espresse la determinazione del proprio gruppo di combattere fino in fondo e riscosse straordinari consensi ... Lord Milncr, il cui «al diavolo le conseguenze» si può dire abbia segnato l'inizio degli eventi, faceva naturalmente parte della compagnia. Tra gli altri oratori, Austcn Chambcrlain accusò Asquith di aver «ingannato l'opposizione, intrappolato la Corona e imbrogliato il popolo». Il 24 luglio, giorno in cui il primo ministro doveva fare il suo annuncio ai Comuni, il gruppo che appoggiava i «combattenti» in quella Camera, capeggiato da lord Hugh Cccii e da F.E. Smith, organizzò una protesta che culminò in una scena di violenza inaudita. Tutta la rabbia e la frustrazione di una classe sulle difensive esplose in una dimostrazione di odio e di isterismo. Smith vi partecipò per il gusto dell'offensiva, lord Hugh per appassionata sincerità. In lui si concentrava tutta l'avversione dei Cccii per qualsiasi cambiamento, senza però il loro freddo scetticismo, così tipico in suo cugino Arthur. Tutte le sue convinzioni erano ardenti. Nella moderna società materialista, nell'abbandono degli ideali religiosi e nell'allontanamento della democrazia dai suoi leader «naturali» egli vedeva solo la rovina totale. Alto e curvo, come suo padre da giovane, con un lungo viso cupo, egli aveva l'abitudine paterna di agitare e muovere le lunghe mani e aveva l'aspetto e il contegno di un Savonarola. Churchill, al cui matrimonio nel 1908 egli era stato testimonio, scrisse: «In Cccii ho incontrato per la prima volta un vero conservatore, un uomo uscito dal Seicento)). Nella conversazione privata egli era «così pronto, arguto e imprevedibile che era un vero piacere ascoltarlm), e alla Camera egli poteva tenere i deputati «assorti in un silenzio di tomba per oltre un 'ora)) con un discorso sulla differenza tra i sostenitori di Erasto e i seguaci della chiesa Alta. Considerato da Asquith «il migliore oratore della Camera dei Comuni e di qualsiasi altro posto)), egli era, per le sue idee e per le sue virtù oratorie, un Albcrt dc Mun inglese. Una volta, quando Gladstonc visitò Hatficld, Hugh, che allora era un bambino, irruppe nella sua stanza da letto e lo colpì con i pugni gridando: «Sci un uomo cattivo!)), «Come posso essere un uomo cattivo se sono amico di tuo padre?» chiese Gladstone, che non per niente aveva dominato migliaia di dibattiti. Ma l'avversario non era uno che si lasciasse abbindolare; lui andava diritto al sodo: «Mio padre ti taglierà la testa con una grossa spadah> fu la sua risposta.

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Ora la spada era sguainata contro Asquith. Alle tre del pomeriggio, in una Camera già ronzante di eccitazione, con tutti i posti occupati e i deputati che gremivano le corsie, riuniti a sciami come le api, e le gallerie affollate di spettatori, il primo ministro fece il suo ingresso, eccitato e un po' nervoso. I liberali si alzarono in piedi agitando il testo dell'ordine del giorno e acclamarono per tre minuti, provocando «feroci reazioni» nell'opposizione, che a sua volta acclamò l'arrivo di Balfour. Quando Asquith prese la parola fu interrotto, prima di poter pronunciare una sola frase comprensibile, da grida di «Traditore!>) e «Rcdmond!)), con riferimento alla spada irlandese che gli pendeva sul capo, seguito da un costante mormorio: «Votazione ... !)) che cominciava, cresceva e svaniva, e ogni volta che Asquith apriva becco, ricominciava daccapo. Ritto sul banco dell'opposizione al di sotto della corsia, lo sguardo ardente, il corpo ossuto e golfo che oscillava al ritmo delle grida, il viso terreo e contratto da una «violenta passione)), Hugh Cccii gli stava di fronte, animato da un fanatismo che gli permetteva di credere che qualunque tattica, anche se indegna, fosse giustificata in nome della causa. Asquith guardava gli avversari urlanti con disprezzo e meraviglia; poi i suoi occhi si posarono su Cccii cd egli rimase a fissarlo affascinato, come quando si guarda una tigre che va su e giù nella sua gabbia. Nelle gallerie alcune signore, prese dall'eccitazione del momento, s'erano messe ritte in piedi sui sedili. Sir Edward Grcy, il viso cupo, si avvicinò ad Asquith come per proteggerlo. Balfour, seduto mollemente sul banco dell'opposizione, osservava i suoi seguaci con un'aria di sbalordito disgusto. Parecchie volte Asquith tentò di leggere una dichiarazione, ma non riusciva a farsi intendere attraverso le grida di «Vota ... zione!)), «Chi ha ucciso il re?)► e «Dittatore!)). Le poche parole che riuscì a far sentire ottennero l'unico risultato di infuriare i suoi avversari e di suscitare ulteriori grida. Nonostante gli sforzi dello Speaker, i dimostranti non la smisero. Per tre quarti d'ora Asquith restò in piedi, poi, «pallido di rabbia ►>, ripiegò il foglio e sedette. Quando Balfour si alzò per parlare i liberali non ricambiarono l'offesa, ma quando si alzò F. E. Smith, che si riteneva fosse l'istigatore della violenta opposizione dei conservatori, scoppiò un pandemonio. Esagerare l'intensità delle passioni alla Camera quel pomeriggio, scrisse il corrispondente del «Times», sarebbe stato impossibile. Ancora una volta lo Speaker fu impotente, e infine, dopo due ore di seduta trascorse tra urla ininterrotte e un grido isolato dai banchi dei laburisti: «Tre urrà per la rivoluzione sociale!)►, egli, per la prima volta nella storia, sciolse la seduta «per disordini in aula». Gli schiamazzi e le ingiurie della «scenata di Cccii», come fu in

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srguito drfinita, shalordirono tutti. !\lai prima di quel momrnto un primo ministro rra stato trattato con tanta irri\'rrrnza. i.a stampa trahocrì> di commrnti indignati r di lettere pro r contro. !\folti ritennero rhr la dimostrazionr fosse dirrtta tanto contro Balfour che contro Asquith. Blunt narrè> rhr F. E. Smith, Grorge \\"yndham e Brndor (il dura di \\"rstminstrr) rrano «molto lieti prr la confusione rhr erano riusciti a crrarr r ritrnrvano di a,-rr forzato la mano a Balfour». Il giorno surcessi\'O, la pµhblicazione del discorso di Asquith ne sottolinrò la irrr,·ocahilità r i lradrr consrrrntori dovrttero affrontare la possihilit;1 rhr i ri\'filuzionari scatrnassero cla\Tero qurlla «rirnluzionc» chr Balfour \'olrva r\'ilarc a ogni costo: la creazionr di una maggioranza lihrralr permanrntr alla Camrra dri Lord. Sr i «Dirhard» a\'rssero raccolto p:ù di srt1an1arinque \'oli, sarehbrro stati nominati i nuo\'i pari ... a meno chr il go\'crno non bluffitsse. Sta\'a bluffando? !\folti continua\'ano a crederlo, nrssuno potc\'a esserne certo. E nessuno sapc\'a con certezza quanti pari a\Tebbero \'Otato con i «Diehard». In questa situazionr crucÌale Lansdownc e gli «elusi\"i» dO\-cttero affrontare la terribile necessità di trovare un certo numero di pari conservatori disposti a sacrificare i propri principi, se non l'onore, per votare con il go\'crno a fa,·orc del progetto che aborrivano. Di quanti sarebbe stato necessario il sacrificio e quanti a\'rebbero avuto il coraggio di compierlo, all'ultimo momento? Era un'altra penosa incertezza della situazione. Il IO agosto, il giorno in cui si doveva bere la cicuta, la temperatura raggiunse un valore record di trentotto gradi e la situazione a Westminster era anche più calda, poiché, a differenza di precedenti crisi politiche, il risultato era incerto. Alle quattro del pomeriggio la Camera dei Lord era piena fino all'ultimo posto; le gallerie erano gremite e i pari stavano nelle corsie e sulle soglie. Portavano finanziere, cra\'atte annodate alla Ascot, ghette e panciotti chiari e, dopo la sosta per il pranzo, molti si ripresentarono in frac e cravatta bianca. I «Diehard» portavano all'occhiello bianchi rametti di erica mandati dalla duchessa di Somcrset, mentre molti degli «elusivi» portavano una rosa rossa. Quando Halsbury si avviò al suo posto, con l'aria di un cavaliere che scende in campo, parve quasi di udire un tintinnio di speroni. Facendo appello alla coscienza, egli chiese che il progetto di legge venisse respinto. Lord Curzon parlò a nome della maggioranza, dopodiché sedette «pallido di rabbia», mentre lord Selborne balzava in piedi e «con voce stridula e gesti drammatici» rinnovava il proposito di combattere fino all'ultimo sangue. Nuova ansia si diffuse per il discorso del

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leader liberale, lord Crcwc, la cui allusione alla «congenita riluttanza» del re e la cui triste conclusione, «l'intera faccenda, devo ammetterlo con franchezza, mi è odiosa», rafforzò la convinzione che il governo stesse bluffando. Si trnncro ansiosi conteggi. Di sci pari seduti alla s•cssa tavola durante le pause per il pranzo - due dei quali, lord Cadogan e lord l\liddleton, erano cx deputati del Gabinetto conservatore- nessuno aveva deciso come votare. Quando, nel riunirsi, uno dei pari ccpronti al sacrificio», lord Campcrdown, annunciò la propria decisione di votare per il governo, il duca di Norfolk, furibondo, rispose che se un pari conservatore avesse votato per il progetto di legge, egli e il suo gruppo avrebbero votato per i «Dichard». Lord Morlcy, il cui titolo risaliva ad appena tre anni addietro, si sentì «profondamente commosso» quando fu obbligato a rendere esplicite le minacce del governo di fare seguire una eventuale sconfitta del progetto di legge da «una massiccia nomina di nuovi pari». Su richiesta, egli ripeté la dichiarazione. Una cappa di piombo calò sulla Camera. L'arcivescovo di Canterbury esortò i deputati a non provocare una legge che avrebbe reso la loro Camera e la nazione intera una «manica di buffoni». Lord Roscbcry, i cui tentennamenti avevano confuso tutti, ma che si riteneva si sarebbe astenuto, balzò improvvisamente in piedi da uno dei banchi trasversali e in qucll'«ultimo, breve e forse più penoso discorso» della sua vita annunciò che avrebbe votato per il governo. Dato che, qualunque fosse il risultato, la Camera dei Lord quale lui l'aveva conosciuta sarebbe scomparsa, non ne avrebbe mai più varcato la soglia in vita sua, e mantenne la parola. Alle dicci di sera, in un clima di «intensa cccitaziono>, si incominciarono a formare i gruppi per la votazione. I pari che volevano astenersi e che riuscirono a trovare un po' di spazio, sgusciarono sui gradini del trono, dove poterono assistere senza votare, mentre il resto di coloro che volevano astenersi lasciarono la Camera, al seguito di lord Lansdownc. I due gruppi, mentre si raccoglievano per sfilare lungo i due corridoi a lato della Camera, apparvero agli attenti osservatori delle gallerie circa uguali di numero. Il conteggio fu eseguito da scrutinatori muniti di mazze bianche, con cui davano un colpetto sulla spalla di ciascun pari man mano che rientrava dal corridoio nella sala comune, dov'era raccolto il suo gruppo. Lentamente le file si ricomposero, mentre dalle porte aperte si sentivano gli scrutatori che contavano a voce alta: «Uno, due, tre, quattro ... ». La cosa durò un quarto d'ora, che parve un'ora intera. Durante una accidentale interruzione dell'uscita dei pari favorevoli al governo, l'intrepido lord Halsbury fu sentito mormorare: «Ecco, lo sapevo che li avremmo sconfitti!». Lord Morley aspettava con ansia

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di veder apparire i vcsco\'i, certo che essi avrebbero votato per il governo. La processione terminò. Gli scrutatori consegnarono i conteggi a lord Hcrschcll, che porse il risultato al Gran Cancelliere. I,n quel profondo silenzio lord Lorcburn si alzò dal seggio di Gran Cancelliere, scosse all'indietro le bande della parrucca e in tono chiaro annunciò il risultato: 131 \'Oli favorevoli al progetto di legge; 114 contrari; maggioranza, 17. Incapace di contenere la propria emozione lady Halsbury fischiò forte dalla galleria delle signore. Nessun grido di giubilo salì dai vincitori, salvo che dagli osservatori dei Comuni, che si precipitarono alla loro Camera con la notizia, accolti da grida di trionfo. I pari se ne andarono immediatamente e cinque minuti dopo il loro atrio era vuoto. Trentasette pari conservatori, oltre a due arcivescovi e undici vescovi, avevano votato per il governo, r quelli di loro che aJJparvcro quella sera in una tumultuosa riunione al Carlton Club forano salutati da grida di «Vergogna!» e «Giudeo!». «Si sono rotti gli argini della rivoluzione» proclamò il «Daily Mail» di lord NorthclilTc il mattino seguente, ma l'acqua non straripò. Una volta abolito il diritto di veto della Camera dei Lord, il progetto di legge sull'Home Rule aveva via libera e il governo lo presentò puntualmente all'assemblea successiva. Ma si vide allora quanto fittizia fosse la vittoria ottenuta sulla Camera dei Lord. L'opposizione all'Home Rule cambiò semplicemente terreno e, presentandosi sotto la veste della rivolta dell'Ulster, provocò una nuova crisi ancora più acuta, di fronte alla quale il progetto di legge sulla riforma parlamentare perse ogni importanza. Ci volc\'a ben altro che l'abolizione del diritto di veto per liberare la politica inglese dall'incubo dell'Irlanda! Qualche settimana dopo sir Edward Grey, rivolgendosi a Winston Churchill, osservò: «Che anno notevole è stato questo: il caldo, gli scioperi, e ora la situazione internazionale». «!\la come» disse Winston «ti sci dimenticato della riforma parlamentare?», e un amico, che aveva riferito la conversazione, soggiunse: «Se l'era dimenticata anche lui, come tutti gli altri». La mattina seguente la votazione alla Camera dei Lord, l'ondata di caldo e lo sciopero dei trasporti, che minacciava di diventare uno sciopero generale, «un pericoloso focolaio di rivoluzione sociale», assorbirono l'attenzione della nazione. Un pari affiitto non riusciva a trovare «nessuna prova che la crisi costituzionale avesse agitato il paese». Nello stesso giorno un provvedimento di forse maggiore importanza passò alla Camera dei Comuni: un progetto di legge sulla retribuzione dei deputati, mediante il quale ognuno di loro, da allora in poi, avrebbe ricevuto uno stipendio annuo di 400 sterline. Il progetto era stato

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lungamente combattuto dai conscn·atori e dccisamrntc appoggiato dai laburisti, i quali \'Cdcvano nella mancata retribuzione dei parlamrntari un mezzo per togliere alla classe lavoratrice il diritto di farsi rapprrscntarc in Parlamento da uomini del suo stesso rango sociale. La retribuzione era particolarmente necessaria, dato che la sentenza di Osborne aveva proibito l'uso dei fondi dei sindacati per compcnsarr i drputati. Per i suoi oppositori, la retribuzione dei deputati scgnarn la fine della politica come professione gentilizia e, come tale, era «più disastrosa» persino della riforma parlamentare. Essa a,·rcbbc fatto pullulare una nuova e «intollerabile specie di politicanti professionisti,» deplorò Austcn Chambcrlain. Avrebbe rimosso l'«ultimo ostacolo all'affiusso di banali awcnturieri» disse il «Timrs», allora di proprietà di quel supremo a\'vcnturicro che era lord :'\orthclilfc, e avrebbe incoraggiato la corsa alle cariche pubbliche, «ora efficientemente occupate da uomini che possono permettersi di essere disinteressati». Per i patrizi, che erano liberi da brame di guadagno e partecipavano al governo per un senso di civismo, il discorso era ,·alido ma ormai antiquato; le necessità della vita erano cambiate anche per loro, e del resto i nobili non si erano mai mostrati disinteressati nel difendere i pridlcgi d'ella loro casta. La retribuzione dei deputati segnò un altro punto nel passaggio di potere. Accadde quello che era logico a\'\'cnissc: «Balfour si dimise dal partito conservatore, che aveva presieduto alla Camera dei Comuni per vent'anni. Il suo annuncio, fatto 1'8 novembre 191 I al ritorno da una vacanza a Bad Gastcin, provocò «sensazione nel mondo della politica». Sebbene fosse già in atto un movimento mirante ad abbatterlo - il cui slogan era quello di Bl\IG (Balfour musi go, ossia «Balfour dc,·c andarsene») - ispirato dall'ala nuova sotto l'influenza di F. E. Smith e di Austen Chambcrlain, ci si aspettava che egli combattesse per mantenere la propria posizione. l\la lo stadio finale della crisi del veto, la lotta selvaggia e priva di significato, la preferenza dei «combat,cnti» per l'azione innanzi tutto, la crescente influenza di a,·,-cnturicri come Smith, che egli detestava, e la sfida al suo potere dimostrata dalla golfa tattica della «scenata di Cccii», avevano portato Balfour a una posizione di scontrosa indilfcrcnza. Quasi per compiere un gesto di disprezzo egli non aveva voluto aspettare il risultato finale della votazione alla Camera dei Lord, ma era partito il giorno prima per Bad Gastcin. Durante il suo soggiorno tra «le cascate, i pini e i precipizi» egli rifletté sulle cose e raggiunse una decisione. Aveva sessantatré anni, il suo interesse per la filosofia era ancora forte e l'idea di do,·cr tornare ad alfrontarc la lotta per mantenere il controllo, prima del suo partito, poi del paese, contro l'orientamento della nUo\'a era, non lo attirava alfatto.

Passaggio di poteri

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Egli apparteneva a una tradizione in cui il governo era una funzione dei patrizi, mentre ora, come disse nel discorso con cui presentò le dimissioni, gli impegni degli amministratori e dei legislatori erano diventati così pesanti che gli affari dello stato dovevano venire affidati a coloro che erano preparati «a essere politici e nient'altro che politici, intenti solo a far funz'lonare la macchina del governo come professionisti». L'irruzione della folla in un giardino tranquillo, come Mastcrman aveva definito l'avvento del popolo, era in cammino, e Balfour era troppo filosofo per combatterla. Il suo posto non fu occupato da nessuno dei due aspiranti più qualificati, Walter Long, che rappresentava l'aristocrazia terriera, e Austen Chamberlain, che si eliminarono a vicenda; bensì da Bonar Law, un industriale dell'acciaio di Glasgow, canadese di nascita, che leggeva regolarmente i giornali, si nutriva di cercali, latte e budino di riso cd era spalleggiato da un altro avventuriero, il suo collega canadese Max Aitkcn, futuro lord Beaverbrook. Il ritiro di Balfour scatenò un torrente di commenti da parte della stampa e di pettegolezzi politici; Asquith offrì il suo impeccabile tributo al «membro più illustre del più grande corpo deliberante del mondo». Gcorgc Wyndham, più acido benché più schietto, ritenne che il rifiuto della lotta da parte di Balfour fosse in carattere con la sua personalità, essendo originata dall'indifferenza derivante da una «visione troppo scientifica della politica». «Egli sa» disse Wyndham «che c'è già stata un'era glaciale e che cc ne sarà un'altra.»

VIII LA MORTE DI JAURÈS I socialisti: 1890-1914

Il socialismo era internazionale. Il suo nome come movimento organizzato, «Seconda Associazione internazionale dei lavoratori», lo diceva. Il suo inno, l' lntemadonale, lo confermava e prometteva inoltre che «domani "internazionale" sarebbe stata la razza umana». Il congresso in cui il movimento era stato fondato, nel 1889, era presieduto da un francese e un tedesco, Edouard Vaillant e Wilhclm Liebknecht. I suoi membri più autorevoli rappresentavano i partiti socialisti di trentatré nazioni o sedicenti nazioni, fra cui la Germania, la Francia, l'Inghilterra, l'Austria, l'Ungheria, la Boemia, la Russia, la Finlandia, l'Olanda, il Belgio, la Spagna, l'Italia, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, la Serbia, la Bulgaria, l'India, il Giappone, l'Australia e gli Stati Uniti. La sua bandiera era di un vivido rosso, simbolo del sangue di ognuno. La sua tesi fondamentale era che la solidarietà di classe dei lavoratori annullava le frontiere nazionali in una divisione orizzontale della società. Il suo giorno di festa era il Primo Maggio per dimostrare la fratellanza universale. Il suo slogan era: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!». Che i minatori, i braccianti, i contadini, i domestici e altri componenti della classe lavoratrice, nel cui interesse il socialismo esisteva, si sentissero o no «internazionali», i loro capi credevano nell'internazionalismo e, in base a questa convinzione, agivano. Al loro congresso socialista che ebbe luogo ad Amsterdam nel 1904, durante la guerra russo-nipponica, il delegato russo e quello giapponese, Plechanov e Katayama, si trovarono seduti fianco a fianco. Quando i due si strinsero la mano, tutti i 450 delegati balzarono in piedi in uno scoppio di applausi. Quando poi Plechanov e Katayama tennero due discorsi consecutivi in cui dichiararono che la guerra era stata imposta alle loro nazioni dal capitalismo e che il popolo giapponese non aveva nulla contro quello russo e viceversa, essi furono ascoltati in «un silenzio quasi religioso» e sedettero fra gli applausi.

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Tramonto di un'epoca

Il socialismo predicava anche la lotta di classe e la sua fatale conseguenza, la distruzione del capitalismo. Il sentimento era reciproco. Tra i conscrYatori, il termine «socialista» evocava immagini di sangue e di terrore, come «giacobino» ai vecchi tempi. Durante il quarto di secolo che seguì la sua nascita a Parigi nel 1889, durante il centenario della Rivoluzione francese, la Seconda Internazionale ispirò una crescente apprensione nella classe dirigente. Quando Viktor Adler, il capo socialista austriaco, indisse per il Primo Maggio uno sciopero generale di una giornata e una dimostrazione massiccia in tutto il territorio dell'impero per dare la misura della forza compatta dei la\'Oratori, Vienna fu «paralizzata dal terrore». Quando poi Adler annunciò che un corteo di lavoratori sarebbe sfilato lungo i viali alberati del Prater, di solito percorsi solamente dalle carrozze delle persone facoltose, i ricchi e i loro alleati tremarono, temendo che la plebaglia appiccasse fuoco alle loro case, saccheggiasse i negozi e commettesse inimmaginabili atrocità nel corso della marcia. I negozianti calarono le saracinesche, i genitori proibirono ai bambini di uscire di casa, la polizia fu appostata a ogni angolo di strada e furono chiesti rinforzi di truppe. La borghesia vedeva pararsi dinanzi ciò che Hrnry Gcorgc avc\'a definito in Progress and Poverty «l'immensa bocca dell'inferno spalancata sotto la società civilizzata». Essi erano consci della nascente minaccia del «regno della povertà contro il regno della ricchezza». Quando fu fondata la Seconda I ntcrnazionale, la giornata lavorativa di dodici ore per sette giorni alla settimana crà normale per la mano d"opera non organiZlata. Il riposo domenicale e la giornata lavorativa di dirci e di nove ore erano privilegi duramente conquistati dalla mano d"opera specializzata e organizzata in unioni sindacali, ma questa rappresentarn appena un quinto delle masse lavoratrici. Nel 1899 Edwin l\larkham, colpito dalla curva, brutale figura dcli' Uomo con la rasis, Virginia di, 238 Cavaignac, Godefroy, 225, 226, 228, 229, 241, 243 Cavendish, lord Frederick, 52, 64, 91 Cavendish, lord John, 52 Cavendish, sir John, 51 èechov, Anton, 9,214,316,348,354 Cecil, lord Hugh, 39, 427-30, 434, 480 Chamberlain, sir Austen, 58, 398, 428, 429, 434, 435 Chamberlain, Houston Stewart, 270 Chamberlain, Joseph, 12, 68-69, 72, 169, 210, 381-82, 386, 387, 394 Chambord, Henri, conte di, 207 Channing, Walter, 120 Chaplin, Henry, 1° visconte Chaplin, 32-35, 38, 50, 56, 57, 60, 394, 417 Charpentier, Gustave, 342 Chateaubriand, Gustave, 342 Chateaubriand, François de, 25 Childers, Erkine, 410 Chipman, uomo politico, 139 Choate,Joseph M., 136,308, 312-13 Chopin, Frédéric, 366 Christiani, Fernand de, 236 Churchill, lord Randolph, 22, 62 Churchill, sir Winston, 28, 29, 54, 56, 63,64,381,397,399-402,405,407409, 418,425,426,429,433 Cipriani, Amilcare, 442, 446 Clark, Champ, 137, 171 Clark, sir George, 300 Clarke, sir Edward, 68 Clemenceau, Georges, 101, l06, 194, 200, 204, 207, 213, 214-18, 222, 225, 228, 231, 232, 241, 243-45,

268, 298, 369, 388, 439, 453, 473, 474,482 Cleve, Gt>orge, 132 Cleveland, Grover, 40-43, 130, 137, 144, 146, 149, 155, 156, 159, 160, 168, 176, 182, 294, 455 Clynes, John Robert, 446 Cole, G. D. H., 415 Coleridge, 1° barone, 48 Colombo, Cristoforo, 269, 414 Combes, Emile, 244 Connaught, duca di, 60 Connaught, duchessa di, 60 Conrad,Joseph, 316 Coppée, François, 224, 225 Corelli, Marie, 28 Corneille, Pierre, 221 Cornwallis-West, signora, 426 Cortelyou, George, 171 Covert, uomo politico, 139 Cranborne, lord, vedi Salisbury, 3° marchese di Crewe, lord, 400, 432 Crisp, Charles, 139, 143 Cromwell, Oliver, 64 Crooks, Will, 391 Crozier, William, 283, 284 Cullom, senatore, 150, 155 Curzon, George N., 1° marchese, 20, 29,60,404,405,419,427,428,431, 432 Curzon, lady, 426 Cust, Harry, 29, 60, 382 Czolgosz, Leon, 118-21, 184

Daimler, Gottlieb, 292 D'Annunzio, Gabriele, 222, 347 Dante, 182, 192 Darrow, Clarence, 159 Darwin, Charles, 35, 59, 84, 296 Darwin, Sara, 33 Daudet, Léon, l01, 218-20, 225 Davidson, Emily, 412 Debs, Eugene V., 455-57, 474-76

Indice dei nomi

Debs, Theodore, 456 Debussy, Claude, 218, 341-43, 367-69 Degas, Edgar, 218, 220 Delhriick, Hans van, 448 De Leon, Daniel, 456,457,464,468, 474, 475, 480 Delius, Frederick, 341, 345 Demanges, avvocato, 228 Depew, Chauncey, 32, 33 Derby, 15° conte di, 20 Derby, 16° conte di, 24 Derby, 17° conte di, 24 Déroulède, Paul, 204, 224, 230, 23335, 242, 244, 479 Desborough, lady, 60 Deschanel, Paul, 498 Desmoulins, Camille, 216 Devonshire, 4° duca di, 51, 52 Devonshire, 5° duca di, 51, 52 Devonshire, 8° duca di, 12, 21, 30, 32, 48-53, 55, 61,185,381,427 Devonshire, 5• duchessa di, 53 Devonshire, 8 Ua duchessa di, 27 Dewey, George, 165-6 7, 170, 171, 181, 263 Diaghilev, Sergej, 364-69, 370-72, 375 Diederichs, ammiraglio van, 263, 332,333 Disraeli, Benjamin, 1° conte di Beaconsfield, 16, 18, 20, 31, 41, 45 Dodgson, Charles, 30, 30 n Dole, Sanford, 143 Dooley, Mr., 166, 170 Dostoevskij, Fedor, 209, 316 Douglas, lord Alfred, 44, 346 Dreyfus, Alfred, 91, 114, 115, 185-89, 190-206, 208, 209, 2 I0-23, 225-29, 231-33, 235-37, 239-45, 273, 274, 276, 289, 318, 421, 451, 452, 458, 469,478,491, 492 Dreyfus, Charles, 394 Dreyfus, Mathieu, 200, 245 Drumont, Edouard, l03, 198, 199, 204,208,215,224,234,245 Duclaux, Emile, 218, 231

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DutTerin and Ava, l" marchese di, 22 Dumas, Alexandre, figlio, 15, 222 Dumas, Alexandre, padre, 14, 59 Duncan, lsadora, 365 Duran, Carolus, 224

Eden, sir William, 39 Edison, Thomas Alva, 134 Edoardo VII, re d'Inghilterra, 14, 26, 29, 33, 34, 39, 44, 49, 56, 60, 66, 151, 2IO, 258,260,266,267, 274, 293, 297-99, 301-03, 307, 308, 329, 4IO, 411,418,420,422,422 n, 423 Ehrlich, Paul, 262 Einstein, Albert, 9, 292 Elcho, lord Hugo, conte di Wemyss,61 Elcho, lady Mary, 60, 62, 69 Elgar, sir Edward, 342 Elena di Savoia, regina d'Italia, 465 Eliot, Charles W., 161-62, 176, 272, 295, 302 Elisabetta, imperatrice d'Austria, 73, 113, 114, 115, 249, 260, 353 Elisabetta, regina di Romania, vedi Sylva, Carmen Elisabetta I, regina d'Inghilterra, 11, 15 Emerson, Ralph W., 118, 131, 169 Endicott, William, 168 Engels, Friedrich, 450,457,459,460, 483 Enrico V, re di Francia, 207 n Ernst, Max, 327 Ernst, Philip, 327, 340 Eschilo, 355 Esher, 2° visconte, 36, 66, 69, 267, 300, 403, 407, 409 Essex, lord, 60 Esterhazy, Ferdinand W., 189, 192, 194,202-04,213-15,223,225,234, 241 Esteve, Pedro, 118 Estournelles de Constant, barone d', 274,278,285,287,288,296,369

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Tramonto di un'epoca

Eulenberg, Philipp zu, 260-61, 307, 356-58 Euripide, 355 Everett, 296

Farben, I. G., 261 Faure, Félix, 100, 234, 268 Fauré, Gabriel, :204 Faure, Sébastien, 102, 103, 106, 108, 109,231 Fawcett, l\lillicent, 380 Federico il Grande, 359 Fenéon, Félix, 108 Ferrer, Francisco, 123, 485 Ferry, J ules, 205 Fielden, anarchico, 266 Fisher, sir John, 1° barone Fisher di Kilverstone, 28,267,275,276,280, 282-84, 293, 298, 300, 307, 410 Fitzroy, sir Almeric, 185, 393 Flaubert, Gustave, 211 Floquet, Charles, 187 Fokine, Michel, 366, 367 Forain,Jean Louis, 220,222,224,369 France, Anatole, 190, 193, 215, 218, 220, 223, 224-26, 231, 244, 245, 299,369,405 Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria, 113, 259, 321, 354 Francke, Kuno, 262, 476 Franz Ferdinand, arciduca, 494 Freud, Sigmund, 9, 291, 349 Frick, Henry Clay, 93-4, 110 Fry, sir Edward, 307-10 Fry, William P., 150

Gainsborough, Thomas, 52 Galles, principe, vedi Edoardo VII; Giorgio V Galliffet, Auguste de, 206, 209, 221, 232, 237-39, 243, 244, 245 Gambetta, Léon, 201, 238, 273 Gardiner, Alfred, 398, 399, 405, 416

Garibaldi, Giuseppe, 442-43 Garvin, James L., 390 Gary,Joseph, 77, 95 Gatacre, generale, 70 George, Henry, 438 George, Stefan, 316, 318, 3j3 Giacomo I, re d'Inghilterra, 11, 15 Gibson, John, 490 Gide, André, 218 Gilman, Lawrence, 340, 345, 375 Giorgio lii, re d'Inghilterra, 11, 15, 49 Giorgio V, re d'Inghilterra, 400,423, 427 Giovanna d'Arco, 186, 234 Gladstone, Herbert, 392, 393 Gladstone, William E., 12, 17, 21, 29, 30, 45, 47,50, 55,58,59, 69,400, 402,407,429 Gleichen, conte, 301, 302 Glenconner, lady, 26 Gluck, Christoph W., 331 Gobineau, Joseph de, 198 Godkin, Edwin L., 151, 153, 154, 168, 179, 181,249,298 . Goethe,Johann W. von, 132,189,481 Gohier, Urbain, 205 Goldman, Emma, 92-5, 119, 122,250 Goltz, Kolmar von der, 270 Gompers, Samuel, 151, 168,174,457, 458,486 Gonse, generale, 201, 213 Gooch, George P., 424 Gordon, Charles, 49, 52, 70, 266 Gor'kij, Maksim, 124, 347 Gould, Anna, 209 Gourmont, Remy de, 452 Gracy, Edward, 394 Grafton, 7° duca di, 58 Grant, Ulysses S., 167, 169 Grave,Jean,85,87, 108,109,118,454 Grayson, Victor, 409 Greffulhe, Elisabeth de, 232, 309 Greffulhe, Henri de, 208, 210 Grévy, François, 81

Indice dei nomi

Grey, sir Edward, visconte Grey di Fallodon, 8, 60,299,301,303,305, 310-11, 410, 430, 433 Grey, lady de, 27, 60 Grieg, Edvard, 243, 322, 331, 343, 345 Grimaux, professore, 218 Grosscup, Peter, 174, 455 Guérin, J ules, 215, 230, 234, 242 Guesde, J ules, '227, 230, 238, 289, 450-52, 454, 463, 468, 470, 479, 482,491, 498 Guglielmo I, Kaiser, 82, 332 Guglielmo II, Kaiser, 35, 42, 70, 115, 146, 160, 195, 196, 205, 232, 249, 255, 256, 258-62, 263, 267, 268, 2i"3, 275, 286, 287, 290, 292, 29498, 301, 302, 304, 305, 316, 318, 327-34,338,341,353,357-60,370, 373, 409, 447, 448, 465, 48U, 485, 490,498 Guglielmo, Kronprin;:., 358, 373, 374 Guilbert, !vette, 212 Giinther, pastore, 196 Guyot, Yves, 232

Haas, Charles, 21 O Haase, Hugo, 493-96, 498 Haber, Fritz, 329 Hahn, Reynaldo, 368 Haig, sir Douglas, 1° conte, 36 Haldane, Richard, 1° visconte, 300, 302,304,404,410,413,420 Hale, Edward E., 296 Halévy, Daniel, 217 Halévy, Elie, 217, 222 Halsbury, 1° conte di, 47, 418, 422, 429, 431, 432 Halsbury, lady, 433 Hamilton, lord Ernest, 26, 49 Hamilton, lord George, 30 Hamilton, sir Ian, 424 Hamsun, Knut, 102 Hiindel, George F., 66, 331

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Hanna, Mark, 157-60, 456, 458 Hanslick, Eduard, 321, 323, 326 Harcourt, sir William, 21 Harden, Maximilian, 357, 358 Hardie, Keir, 388-93, 425, 448, 456, 468,485,487,489,492,494-95,498 Hardy, Thomas, 45,316,424 Harris, Frank, 44, 57 Harrison, Benjamin, 130, 137, 143, 144, 148, 295 Hartington, lord, vedi Devonshire, 8° duca di Hasse, Ernst, 263 Hauptmann, Gerhart, 224, 316, 330, 348, 351, 374 Haussonville de Giéron, JosephOthenin-Bernard d', 190 Hay, John, 146, 149, 182, 263, 275, 285-98, 298 n Haywood, William («Big Bill»), 474, 475,480 Hearst, William R., 112, 160, 164 Hegel, Georg W.F., 460 Helfferich, Karl, 373 Henderson, Arthur, 391 Henley, W. E., 45, 268 Henry, Emile, 100, 105, 106, 120 Henry, Fortuné, 100, 188, 202, 213 Henry, Hubert, 228, 232, 233, 241, 249 Henry, Madame, 233, 241, 242 Henry, Patrick, 159 Henty, George A., 24:1 Herr, Lucien, 200,223,226,227,238 Herschell, 2° barone, 433 Hervé, Gustave, 479-81, 484 Herz, Cornelius, 199 Herzen, Alexander, 76 Herzl, Theodor, 199, 394 Hicks-Beach, sir Michael, 1° conte St. Aldwyn, 56 Hill, David B., 152 Hillquit, Morris, 457, 458 Hinds, Asher, 178 Hoar, George, 135, 167, 177

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Tramonto di un'epoca

Hobhouse, Leonard Trelawney, 413, 414 Hobson,John A., 385,413,414 Hofmann, Joseph, 360 Hofmannsthal, Hugo von, 347, 352, 353,355,356,362-64,370,371,372 Hohenlohe-Schillingsfurst, Chlodwig von, 263 Hòlbein, Hans, 417 Holls, Frederick, 287 Holstein, Friederich von, 264, 294, 357 Hope, Anthony, 424 Housman, Alfred E., 271 Howells, William D., 168 Hugo, Victor, 219, 454 Hulsen-Haeseler, conte, 358 Humperdinck, Engelbert, 322 Hunekt.r, James, 326 Hunter, Robert, 443 Huntington, Collis P., 157 Huxley, Thomas Henry, 382 Huysman, Camille, 464 Huysmans, Joris K., 2!0 Hyndman, Henry M., 44, 387, 391, 468

lbsen, Henrik, 43,204,224,255,316, 320, 34 7, 449 Iglesias, Pablo, 442 Indy, Vincent d', 224, 342 Isabella Il, regina di Spagna, 96 Ivan il Terribile, 368, 376 lsvolskij, Aleksandr, 8, 300, 366, 369, 379

Jackson, Andrew, 130 James, Henry, 58, 60, 72, 77, 343, 348, 4!0 James, William, 58, 152, 153, 168, 177, 235 Jameson, dottor, 43, 46, 68, 69 Jaurès,Jean, 200,207,208,214,223,

226-29,230-34,238,245, 285,287, 437,449, 451-54, 458, 463-65, 46770, 472, 473, 479-83, 485-87, 49098 J ebb, lady, 58, 59 Jefferson, Thomas, 130, 151, 169 Jilinskij, generale, 274, 280, 284 Johnson, Samuel, 64 Jomini, Antoine H., 145 Jordan, David S., 168 Jouaust, colonnello, 240 Jouhaux, Léon, 495,498 Jowett, Benjamin, 30 J udet, Ernest, 194 J usserand, J ules, 295

Kaliaev, 126 Kama, Madame, 480 Karnebeck, Hermann van, 279 Karsavina, Tamara, 366, 367, 376 Kautsky, Karl, 449, 456, 459, 460, 462, 463, 464, 472, 477, 478, 481, 483 Keppel, signora, 53 Kerohant, Hervé de, 232 Kessler, Harry, 370, 372 Kipling, Rudyard, 41, 45, 67, 68, 175, 176,248,269,316,373,417,439 Kitchener, lord Herbert, 31, 70, 250 Knollys, sir Francis, 1° visconte, 395, 396 Knox, Philander, 295 Knox, reverendo, 33 Kock, Robert, 262 Kraft-Ebing, Richard von, 347 Kollontaj, Aleksandra, 480 Kropotkin, Petr, 80-85, 87, 90, 95, 99, IOO, !06, !08, 124, 390, 415 Kruger, Oom P., 43, 70, 294 Krupp, Friedrich A., 260, 290, 357 Kuropatkin, Aleksej, 256

Labori, Fernand, !04, 215, 216, 242

Indice dei nomi

Lac, padre du, 206 Lafargue, Paul, 463 Lansdowne, 1° marchese di, 48 Lansdowne, 3° marchese di, 48 Lansdowne, 5° marchese di, 12, 30, 48,49,402,403,404,406,420,423, 428,431,432 La Rochefoucauld, Aimery de, 210 La Rochefoucauld, Sosthène de, 208 Lassalle, Ferdinand, 443, 448, 457 Lauderdale, 8° conte di, 58 Lavisse, Ernest, 190, 232 Lazare, Bernard, 91, 200, 228 Ledebour, Georg, 466 Légrer, Fernand, 365 Legien, Cari, 486, 495 Leinster, 4 Ua duchessa di, 26 Leishman, John, 94 Lemaitre, Jules, 193, 222-25, 234, 244,369 Lemire, Abbé, 104 Lenau, Nicholas, 321 Lenin, Vfdi Ul'janov, Vladimir I. Leone XIII, 116, 198, 206, 207~ 268 Leopoldo II, re del Belgio, 9, 268, 278, 290 Le Queux, William, 410 Liddell, Alice, 30 Liddell, Henry G., 30 Liebermann, Max, 316, 328 Liebknecht, Kart, 466, 481, 498 Liebknecht, Wilhelm, 249, 437, 44648, 459,463,466 Lincoln, Abraham, 151, 178 Lingg, Louis, 78, 94 Lipton, sir Thomas, 424 Liszt, Franz, 319, 320, 322, 342 Lloyd George, David, 71, 379, 380, 393, 398, 399, 40 I, 403, 406-08, 410,412,415,416,417,419,420; 423, 424 Lodge, Henry C., 133, 134, 137, 14849, 154, 158, 161, 162, 163, 165, 166, 171-73, 174, 177, 182 Londesborough, 2° conte di, 33

513

London, Jack, 80 Londonderry, 6" marchesa di, 27 Long,John D., 163 Long, Walter, 1° visconte, 56, 435 Longuet, Jean, 496 Loreburn, sir Robert Reid, 1° conte di, 405,433 Loubet, Emile, 234, 236, 239, 307, 369 Louys, Pierre, 219 Lowell,James R., 152, 153 Lowther,James, 1° visconte Ullswater, 23, 420 Loynes, conte di, 223 Loynes, contessa di, 222-25 Luce, Stephen, 145 Lucheni, Luigi, 113-15 Lucy, sir Henry, 65 Ludwig-Viktor, arciduca, 358 Luger, Karl, 354 Lugné, Poe, Aurélien-François, 346 Luigi Il, re di Baviera, 113, 317 Luigi Filippo, conte di Parigi, 210 Lutero, Martin, 452 Luxemburg, Rosa, 464,466,469,480, 483,484,494,498 Luynes, 10° duca di, 199, 210 Luynes, duchessa di, 210 Lyttelton, Alfred, 29, 30, 394 Lyttelton, 4° barone di, 30 Lyttelton, May, 59, 395

McClure, S. S., 163, 175 MacDonald, Ramsay, 391,392,425, 480,498 Mc Donnell, sir Schomberg, 22, 31 McDougall, William, 415 McKenna, Reginald, 407 McKim, Charles F., 344 McKinley, William, 73, 119-20, 122, 135,136,140, 157-60, Ì63-66, 171, 173,174,177, 181-84,272,294,456 Macaulay, Thomas B., 65, 132 Maeterlinck, Maurice, 43, 347

514

Tramonto di un'epoca

Mahan, Alfred T., 143-49, 152, 160, 162, 163, 164, 165, 166, 270, 273, 281-84,288,289,293,305,307,311 Mahler, Frau, 336 Mahler, Gustav, 336, 337, 342, 345, 354 Malatesta, Errico, 79, 84, 86, 87, 90, 95, 97, 100, 106,108,117, 121 Mallarmé, Stéphane, 43, IOI, 103, 316,341 Manchester, 7° duca di, 51 Manchester, duchessa, vedi Devonshire, 5• duchessa di Manet, Edouard, 43 Mann, Heinrich, 332, 333 Mann, Thomas, 83, 365 Mann, Tom, 390, 425, 426 Manning, Henry, cardinale, 267 ~farchand, colonnello, 233 Margherita di Savoia, regina d'Italia, 117 Markham, Edwin, 438, 439 Marlborough, 7° duca di, 31 Marlborough, 9° duca di, 426 Mushall von Bieberstein, Adolph, 308, 309, 310, 312 Martens, Feodor, 274,278,304, 307, 308, 309 Martinez de Campos, Arsenio, 97 Marx, Eleanor, 460 Marx, Karl, 75, 86, 96,257,385,386, 440, 445, 446, 447, 450, 452, 454, 457, 459-63, 467,469,471,498 Massenet, J ules, 335 Massimiliano, imperatore del Messico, 113 Massine, Léonide, 375 Masterman, Charles, 385, 411, 413, 421,427,435, Matisse, Henri, 365 Mazzini, Giuseppe, 197 Mehring, Franz, 466,491, 498 Meilhac, Henri, 222 Melba, Nellie, 27, 79, 211 Melbourne, 2° visconte, 406

Méline, Félix, 225, 226, 234 Memling, Hans, 53, 129 Mensdorff, Albert von, 60 Mercier, Auguste, 188, 191, 192, 196, 201,213,215,234, 240-43, 245 Methuen, 3° barone, 60, 70 Meyer, Arthur, 194, 225, 240 Michelham, I• baronessa, 426 Michelson, colonnello, 308 Midleton, 1° conte di, vedi Brodrick, St. John Miles, J ., 25 Millerand, Alexandre, 208,227, 237-39, 453,458,459,462,463,464,467,470 Milner, 1° visconte, 267, 418, 429 Miquel, Johannes von, 441 Mirbeau, Octave, 101,219,225,231, 369 Mistral, Frédéric, 224 Moltke, Kuno von, 336, 358 Mommsen, Theodor, 145, 277, 333, 448 Monet, Claude, 204, 218 Money, L. Chiozza, 382, 383 Monod, Gabriel, 218 Montaigne, Miche! de, 462 Montesquiou, contessa di, 233 Montesquiou, Robert di, 209 Monteux, Pierre, 366, 370, 372 Moody, William V., 181 Morès, marchese di, 199 Morgan, J. P., 302 Morgan, John T., 150 Morley,John, 1° visconte, 16, 29, 60, 64, 146, 378, 388, 405, 407, 432 Morris, Lewis, 131 Morris, sir Lewis, 45 Morris, William, 45, 99, 386 Morton, Levi Parsons, 166 Most,Johann, 91, 92, 93, 95, 119 Mozart, Wolfgang A., 319,362,363, 364,376 Muller, Paul, 489 Mun, Albert de, 205-09, 211, 213, 227, 429, 454

Indice dei nomi

l\lunster, Georg, 195, 196, 274, 279, 282, 286-87, 289, 307 Mura\·ev, l\lichail, 256, 258, 259, 261, 264, 272, 304 l\lurray, Gilhert, 424 Musorgskij, l\lodest P., 366 l\lussolini, Benito, 480

Napoleone I, imperatore dei francesi, 145, 187,276,293,319, 345, 353, 373, 390 !\apoleone II I, imperatore dei francesi, 195 Nelidov, Aleksandr, 307, 3IO, 313 Nevinson, Henry, 80, 269 Newcastle, duca di, 48, 52 Newman, Ernest, 327, 340, 342, 346 Newton, lord Thomas, 2" barone, 47 Nicola I, zar di Russia, 75 Nicola Il, zar di Russia, 124, 125, 126, 247-50, 259-61, 272, 273, 287, 299,301,305,365,448,471 Nietzsche, Friedrich W.,43, 225,271, 290, 323-25, 332, 338, 349, 359, 396,479 Nieuwenhuis, Domela, 309 Nijinskij, Vaslav, 364-70, 372, 375, 426 Noailles, Anna de, 209, 223, 243, 364 Nobel, Alfred, 250, 251, 254, 302 Nordaux, Max, 43, 325 Norfolk, 15° duca di, 417,432 Northcliffe, visconte, 433, 434 Norton, Andrews, 153 Norton, Charles E., 153-54, 167, 177, 183, 324 Norton, J ohn, 153 Norton, Eliot, Catherine, 153 Noske, Gustav, 478, 479, 480, 481

Offenbach, Jacques, 222 Olney, Richard, 41, 150, 252, 435, 455 Onslow,4°contedi,417

515

Orléans, Louis Philippe duca d', 198, 211, 223, 230, 234, 235 Orléans, Henri, principe d', 215 Overtoun, lord, 384

Page, \Valter H., 145, 163 Paget, lady, 46 Pallas, anarchico, 97, 98 Palmer, signora, 85, 266 Palmerston, 3" visconte, 41, 49, 135 Panizzardi, maggiore, 189, 215, 225, 228 Pankhurst, Emmeline, 380 Pardinas, Manuel, 123 Paris, Gaston, 220 Pasteur, Louis, 218, 219 Paty de Clam, colonnello du, 188, 189,213,221 Pauncefote, sir J ulian, I O barone, 252, 275, 279, 286, 307, 312 Paur, Emil, 343 Pauwels, Jean, l05 Pavlova, Anna, 366, 426 Peel,sir Arthur, )"visconte Peel, 60,275 Péguy, Charles, 186,200,218,222, 228 Pettigrew, uomo politico, 176, 181 Picasso, Pablo, 365 Picquart, George, 201,215,220,221, 225, 228, 232, 233, 239, 241, 244, 245, 493 Pingree, governatore, 158 Pissarro, Camille, 91, l01 Pitt, William, 52, 294 Planck, Max, 292 Plehve, Wenzel von, 125, 127 Plechanov, Georgij, 467, 477, 480 Pless, Daisy de, 39, 53 Poe, Edgar A., 355 Pohl, Max, 331 Poincaré, Raymond, 8, 212 Poiret, sir Frederick, 367 Pollock, sir Frederick, 424 Poniatowski, Stanislas, 199

516

Tramonto di un'epoca

Ponsonby, Arthur, 40 Ponsonby, sir Frederick, 54 Ponsonby, sir Henry, 14 Portland, 6° duca di, 39 Potter, signora, vedi Palmer, signora Pozzi, proressore, 222 Prévost, Marce!, 193, 222 Friestley, Joseph, 146 Primrose, Nei! W., 426 Proctor, Redfield, 165 Proudhon, Pierre, 75, 76, 79, 84, 85 Proust, Marce!, 67, 209, 215, 217, 222,232,243,365,368 Proust, Robert, 217 Puccini, Giacomo, 341 Pulitzer, Joseph, 160 Puvis de Chavannes, Pierre, 218

Queensberry, 9° marchese di, 44 Quelch, Harry, 481

Rabelais, François, 223 Rachmaninov, Sergej, 366 Racine, Jean, 223, 366, 452 Radziwill, Anton, 205 Radziwill, Marie, 205, 214, 239, 243 Raff, Joseph J., 320 Raffalovic, M., 282 Rambaud, ministro, 218 Rane, Arthur, 201, 222, 228 Rathenau, Emi!, 329 Rathenau, Walther, 374 Ravachol, anarchico, 88, 91, 95, 10609, 120,220 Ravel, Maurice, 369, 372 Rayleigh, 3° barone, 59 Rayleigh, lady, 65 Reade, Charles, 132 Reclus, Elisée, 81, 85, 87, I06, I08, 218,450 Reclus, Paul, 108 Reed, Thomas, 129, 130, 132-44, 147, 150, 155-60, 163-66, 170-72, 174,

175, 177-79, 182, 184, 287, 448 Regis, Emanuel, 120 Reid, sir Robert, vedi Loreburn, 1° conte di Reinach, barone di, 199 Reinach, Joseph, 20 I, 202, 208, 215, 216, 220, 222, 223, 227, 232-34, 236,241,242,244,245 Reinhardt, Max, 346, 347, 356, 374 Réjane, 222 Renan, Joseph-Ernest, 219 Reszke, Jean de, 27 Reuter, colonnello, 374 Reynolds, sir Joshua, 15, 52 Rhodes, Cedi, 43, 267 Ribblesdale, lord Thomas, 25, 29, 47, 60,271,418 Riccardo II, re d'Inghilterra, 52 Richet, Charles, 279 Rich ter, Hans, 318 Ridley, sir Matthew White, 1° visconte, 56 Riis, Jacob, 78 Rimskij-Korsakov, Nikolaj, 366-67, 376 Ripon, 1° marchese di, 400 Ritter, Alexander, 319, 320, 322K Roberts, lord~ 14, 33, 71 Roberts, Morley, 42 Robespierre, Maximilien-Marie-Isidore de, 223 Rochefort, Henri de, 195, 21 I, 223-24 Rockereller, John D., 290 Rodays, Fernand de, 194 Rodin, Auguste, 109, 325, 365, 369 Roentgen, Wilhelm C., 262 Roerich, Nicholas, 366 Rogers, H. H. 184 Rogers, Henry W., 173 Roget, generale, 235 Rolland, Romain, 221,227,269,326, 337-39, 343, 345, 347 Roosevelt, Theodore, 119, I 21, 122 n, 130, 136, 142, 144, 148, 149, 150, 154, 156, 157, 158 n, 159, 161, 162,

Indice dei nomi

164, 165, 166, 169, 170, 171, 175, 177, 183, 184, 197, 294-98, 301, 302-04, 305, 307, 312, 313, 318, 354, 456 Root, Elihu, 141, 180,298, 303, 306, 310, 312, 313 Rosebery, 5° conte, 21, 29, 30, 32, 34, 47,56, 146,378,400,405,417,419, 426, 432 Rossetti, William, 99-IOO Rostand, Edmond, 221 Rothschild, lord Nathan Meyer, 1° barone, 405, 417 Rothschild, Adolfe de, 32, 113 Rousseau, Jean-Jacques, 85 Rowntree, B. Seebohm, 382 Rubinstein, Ida, 366, 375 Rufus, William, 48 Runciman, Walter, 1° visconte, 407 Russell, Bertrand, 424 Russell, lord John, 49 Russell, uomo politico, 134 Russell di Killowen, barone, 240, 243 Rutland, 8° duca di, 33,416,417

Sachs, Hans, 345 Sagan, principe di, 209 Saint-Saens, Camille, 372 Saint-Simon, duca di, 201 Salisbury, 1° conte di, 15 Salisbury, t• marchesa di, 15 Salisbury, 3" marchesa di, 71 Salisbury, 2° marchese di, 16, 21 Salisbury, 3" marchese di, 13, 14, 1621, 22-24, 28-31, 32, 34, 37, 39, 40, 41, 42, 44-46, 48, 49, 51, 55-58, 66, 68-70, 146, 153,154,255,259,264, 265, 275, 276, 324, 377, 378, 390, 402, 403, 418 Saljapin, F. I., 366, 376 Salvador, Santiago, 98 Samuel, sir Herbert, 1° visconte, 379, 390,407, 421, 424 Sandringham, principe di, 38

517

Sargent, John Singer, 9, 25, 29, 32, 142, 343 Satow, sir Ernest, 307 Savonarola, Gerolamo, 356, 429 Sazanov, Sergej, 8 Scheidemann, Philipp, 490, 491 Scheurer-Kestner, Auguste, 201-04, 215,220,228,232,241 Schiller, Johann Ch. F., 330, 492 Schilling, Emil, 119 Schnitzler, Arthur, 347, 352, 354 Schonberg, Arnold, 336, 342 Schuch, Ernst von, 350-52, 361 Schumann, Robert, 219, 317, 320, 321 Schumann-Heink, Ernestine, 360 Schurz, Cari, 122, 151, 162, 164, 168, 173, 181, 182, 298 Schwartzkopf, Gross von, 280, 283 Scudder, Horace E., 145 Selborne, 2° conte di, 428, 431 Selenka, Madame, 279 Sergej, granduca, 125, 126 Sert, José Maria, 375 Shackleton, David, 391, 468 Shakespeare, William, 365 Shaw, George Bernard, 81, 84, 123, 271,316, 347, 349, 362, 385, 386, 415, 446, 447 Shelley, Percy 8., 449 Sibelius,Jean, 317,323,341,342 Sidgwick, Henry, 59 Siegel, capitano, 282 Simmel, Georg, 359, 360 Simon, sir John, visconte Simon, 402 Sipjagin, ministro, 124 Sitwell, sir George, 39 Sitwell, famiglia, 37 Smith, Frederick E., 1° conte di Birkenhead, 15, 401-02, 426-29, 430, 434,453 Smith, Whilliam H., 55, 64 Snowden, Philip, 1° visconte, 417 Sofocle, 355 Solages, marchese di, 450

518

Tramonto di un'epoca

Somerset, lord Arthur, 44 Somerset, 153 duchessa di, 431 Sorel, Georges, 109, 307, 425, 479 Soudeikine, Sergej, 366 Soveral, marchese di, 60, 307, 427 Specht, Richard, 364 Speck von Sternberg, Hermann, 312 Spender, John A., 424 Speyer, Edgar, 333, 342, 343, 424 Spies, August, 78 Spring-Rice, sir Cecil A., 197 Staal, barone de, 274, 278, 281, 286, 307 Stanley, lord, vedi Derby, 17° conte di Stapfer, Paul, 220 Stead, W. T., 66, 265, 266, 268, 269, 275,278-80,287,288,305,309,310 Steinlen, Théophile, IOI Stengel, barone von, 274, 275 Stevenson, Robert L., 316 Stirner, Max, 90 Stokes, Anson Ph., 443 Storey, Moorfield, 167, 177, 181 Strachey, Lytton, 365 Straus Halévy, Madame, 221, 222 Strauss, Franz, padre di Richard, 318 Strauss, Franz, figlio di Richard, 365 Strauss, Johann, 364 Strauss, Richard, 222, 315-27, 33337, 336 n, 337-48, 350-52, 354,356, 357, 360-64, 368, 370-72, 374, 376 Strauss de Ahna, Pauline, vedi Ahna, Pauline de Stravinskij, Igor, 366-71, 376 Strindberg, August, 224, 347 Strutt,John, vedi Rayleigh, 3° barone Sudermann, Hermann, 224, 348, 349 Sue, Eugène, 454 Sutherland, 2° duca di, 58 Suttner, Bertha von, contessa Kinsky, 250-52, 274, 277, 279, 281, 286,287,297,304,305,309 Svjatopolk-Mirskij, principe, 125 Sweney, uomo politico, 142 Swinburne, Algernon Ch., 44

Sylva, Carmen, 113, 279 Synge, John M., 365 Sztaray, contessa, 115

Taft, William H., 180,439 Tailhade, Laurent, I01, 103, I05 Taine, Hippolyte-Adolphe, 219 Tardieu, André, 193 Tarrida del Marmol, 111 Tennant, sir Charles, 31 Tennant, Charlotte, 29 Tennant, Harold J., 424 Tennant, Laura, 29 Tennant, Margot, 29, 58, 61 Tennyson, Alfred, 45, 70, 136, 309 Terry, Ellen, 368 Tetuan, duca di, 273 Thackeray, William M., 132, 135, 136 Thiers, Louis A., 2 IO Thomas, Theodore, 343 Thomson, sir John J., 262 Thyssen, Fritz, 261 Tiffany, Louis, 344 Tillett, Benjamin, 83, 390, 425, 489 Tillman, Benjamin ( «Pitchfork Ben»), 168 ' Tintoretto, 342, 373 Tolloller, lord, 405 Tolstoj, Lev, 43, 209, 250, 295, 316, 347 Tornielli, conte, 307-09 Tornielli, contessa, 236 Toulouse-Lautrec, Henry de, 204 Tracy, Benjamin, 148 Treitschke, Heinrich von, 262, 270 Trevelyan, sir George O., 389, 424 Trockij, Lev, 449,472,480,491,492 Trotter, Wilfred, 415 Trueblood, Benjamin, 279 Tsudzuki, diplomatico giapponese, 308 Turenne, conte di, 194 Turgenev, Ivan, 209

Indice dei nomi

Twain, l\lark, 168, 184 Tweedmouth, 2" barone, 400, 407 Tyler, Wat, 51

Ul'janov, Aleksandr, 123 Ul'janov, Vladimir I., 124,467,480, 483,484 Ulmberto I, re d'Italia, 73, 82, I 1315, 117, 118 Uzès, duca d', 199, 210 Uzès, duchessa d', I03, 194

Vaillant, August, !02-05, I07, 191 Vaillant, Edouard, 437, 450, 452, 463,487 Vaillam, Sidonie, I02, I03, 104 Valéry, Paul, IOI, 234 Vandervelde, Emile, 446, 449, 450, 451, 461, 464, 467-71, 481, 483, 487, 492, 493-96, 498 Van Gogh, Vincent, 219 Vaughan, Ernest, 195, 213 Veblen, Thorstein, 384 Verhaeren, Emile, 91 Verlaine, Paul, I03 Visconti Venosta, Emilio, 259 Vittoria, regina d'Inghilterra, 14, 18, 21,39,46,50-53,59,66-68, 72,146, 243, 264, 283, 290, 383, 409 Vittorio Emanuele III, re d'Italia, 304,465 Vittorio Napoleone, principe, 210 Viviani, René, 227,453,463,471,496 Vladimir, granduca, 125, 209, 366 Vogiié, Melchior de, 185, 209, 224, 226 Vollmar, Georg von, 482 Voltaire, François-Marie A. de, 215

Wagner, Cosima, 66, 317, 322 Wagner, Richard, 43, 270, 315-22, 336, 345, 375

519

Wagner, Siegfried, 3 I 7 Waldeck-Rousseau, René, 237-40, 244,458 Wallas, Graham, 377, 415, 460, 499 Walpole, Horace, 426 Ward, Wilfred, 54, 55 Warwick, 5a contessa di, 26-28, 40, 258,267 Washington, George, 148 Webb, Beatrice, 383-87, 390, 394, 401,415,418,420 Webb, Sidney, 1° barone Passfield, 57,387,415 Weber, Karl M. von, 333, 345 Wedekind, Frank, 348, 349, 490 Weizmann, Chaim, 394 Wellington, duca di, 11, 15, 58, 70 Wells, Herbert G., 63, 316, 380, 384, 411,415 Westminster, 2° duca di, 30, 59, 431 Weyler, Valeriano, I IO, 112 Wharton, Edith, 60, 131 Wheeler, «Fighting Joc», 140 White, Andrew D., 272-74, 277,278, 279, 281, 285-89, 302, 307 White, Gilbert, 394 White, Daisr, 61 White, Henry, 61, 304 White, William C., 147 Wilde, Oscar, 27, 43-45, IO0, 209, 290, 316, 346, 349, 350, 352, 353, 357, 358 Wildenbruch, Ernest von, 330 Williams, Hwfa, 427 Willoughby de Broke, I9° barone, 65, 418, 422, 428 Wilson, Havelock, 489 Windsor, lady, 46 Witte, Sergej, 205, 256, 257 Wolf, Hugo, 342 Wolzogen, Ernest von, 347 Wood, Leonard,-170 Wood, William, 455 Worth, Charles, 39 Wright, Frank L., 365

520

Tramonto di un'epoca

Wiillner, Ludwig, 339 Wyndham, George, 29, 35, 64, 396, 397, 428, 431, 435 Wyndham, sir Percy, 61, 197

Yeat!., William B., 270,290,316, 365

Zarzuela, anarchico, 97 Zetkin, Clara, 480 Zola, Emile, 43, 76, 103, 147, 192, 194, 211-17, 218-20, 222-28, 235, 236,241,245,316,347,444,450 Zorn, Philipp, 274, 287, 307 Zurlinden, generale, 236 Zweig, Stefan, 293, 494

ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI

Lord Ribblesdale ritratto dajohn Singer Sargent (1902). Per concessione della Tait Gallery, Londra Lord Salisbury. Radio Timts Hullon Piclurt library Le sorelle Wyndham (lady Elcho, la signora Tennant e la signora Adeane) ritratte da Sargent (1899). Ptr concessione del Melropolilan Mustum of Ari, Wolft Fund, 1927

La redazione del giornale «La Révolte». Il principe Petr Kropotkin. Brown Brolhm Gaetano Bresci uccide a Monza Umberto I di Savoia. Il giornale anarchico francese «Le Père Peinard» cui collaborarono, tra gli altri, Pissarro e Steinlein. Thomas B. Reed. Luigi Lucheni dopo l'assassinio dell'imperatrice Elisabetta d'Austria. I pugnali di Caserio e di Lucheni. Alfred T. Mahan. Brown Brolhtrs Charles W. Eliot. Brown Brolhtrs La folla durante il processo a Zola (da un disegno di Théophile Steinlen). Un'allegC'ria dell'affare Dreyfos (disegno di Forain). Il «Sindacato» (disegno di Forain). Le acciaierie Krupp a Essen, 1912. Brown Brolhtrs Nicola II Romanov e il Kaiser a bordo dell' Hohen..ollem. L'Esposizione universale del 1900. Sirol Colleclion Bertha von Suttner.

Alfred :'lobel. Inghilterra, 1911: sciopero dei marittimi. Brown Brotl1trs Da\'id Lloyd George e Arthur Balfour. Tl1t .\lancrll Col/rclion, Lo11dra; Radio Timts llulton Picturt Lihrary Il pubblico alle corse di Longchamp. Stalin, Lenin e alcuni compagni (da un dipinto di A. l\loraho\'). August Bebrl, Keir Hardil", Jean Jaurès.

INDICE GENERALE

7 11

PREFAZIO~E I

I PATRIZI

Inghilterra: 1895-1902 73

II

L'IDEA E L'AZIO'.'IE

Gli anarchici: 1890-1914 129

111

LA Flè'IE DI UN SOGNO

Gli Stati Uniti: 1890-1902 185

IV

247

V

«A l\lE LA LOTTA!»

Francia: 1894-1899 IL RULLO CO'.'ITl'.'IUO DEL TAMBURO

L'Aja: 1890 e 1907 315

VI

«è'IERO'.'IE È NELL'ARIA»

Germania: 1890-1914 377

VII

PASSAGGIO DI POTERI

Inghilterra: 1902-1911 437

VIII

LA MORTE DI JAURÈS

I socialisti: 1890-1914 499

Conclusione

501

Ringra