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Italian Pages 142 Year 2023
Table of contents :
Introduzione
Capitolo I Dio, il problema
Capitolo II Il Dio dei filosofi
I presocratici
Socrate
Platone e Aristotele
L’epicureismo e lo stoicismo
Il pensiero religioso nel II secolo d. C.
Plutarco
Celso
La gnosi
Plotino
Severino Boezio
Capitolo III Il Dio dei cristiani
Sant’Agostino
Dionigi Aeropagita
Averroè
XI-XIII secolo
La scolastica: sant’Anselmo, san Bonaventura san Tommaso
Capitolo IV Il Dio dei filosofi
Il Quattrocento
La Docta ignorantia di Nicola Cusano
Il Cinquecento
L’infinito descritto da Giordano Bruno
L’essenza di Dio nella ricerca mistica
Tommaso Campanella
Il Seicento
René Descartes
Blaise Pascal
Benedetto Spinoza
Gottfried Wilhelm Leibniz
John Locke
Giambattista Vico
Il deismo
Il Settecento
George Berkeley
Immanuel Kant
Capitolo V Il XIX secolo
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling
Georg Wilhelm Friedrich Hegel
Ludwig Andreas Feuerbach
Karl Marx e Friedrich Engels
Sören Kierkegaard
Arthur Schopenhauer
Vincenzo Gioberti
Fiedrich Wilhelm Nietzsche
Capitolo VI Filosofia e cristianesimo tra ‘800 e ‘900
Henry Bergson
Maurice Blondel
Capitolo VII Il Novecento
Appendice
L’idea ebraica di Dio
Concezioni cristiane
Islam
Concezioni di Dio nella teologia e filosofia occidentali
Approccio filosofico e religioso
Attributi fondamentali
Credere o meno
Conclusioni
Bibliografia essenziale
ANTONIO DI GIORGIO Tra il Dio dei filosofi e il Dio dei cristiani L’evoluzione della nozione di Dio nella speculazione filosofica dall’antichità al Novecento Con antologia di testi
Ad Ananke, Epoke, Daimon ed alla Kabbalah divina
Antonio Di Giorgio, Tra il Dio dei filosofi e il Dio dei cristiani | Agosto 1999 ; I edizione e-book Aprile 2018 - Codice ASIN: B018UGTVVO II edizione ampliata Luglio 2023.
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Introduzione Da tempi immemorabili, l'umanità ha intrapreso un profondo viaggio alla scoperta di ciò che sta al di là del visibile, dell'incomprensibile, e dell'infinito. Al centro di questo viaggio si trova un concetto che ha ispirato, consolato, e affascinato generazioni di individui: Dio.
La figura di Dio è presente in diverse forme e interpretazioni nelle molteplici culture e tradizioni religiose che hanno popolato la storia dell'umanità. Pur essendo un argomento di grande dibattito, una costante rimane invariata: il desiderio umano di conoscere e comprendere l'essenza divina.
Questo saggio si propone di esplorare l'idea di Dio attraverso diverse prospettive e discipline, andando oltre le barriere delle credenze personali e aprendo le porte alla riflessione critica e all'apertura mentale. Scopriremo che il concetto di Dio può essere affrontato da diverse angolazioni, tra cui la filosofia, la teologia, la scienza, e persino l'arte.
Dall'antichità ai giorni nostri, il dibattito sull'esistenza di Dio e sulla sua natura continua a stimolare il pensiero umano. Filosofi come Sant'Agostino, Tommaso d'Aquino, e Immanuel Kant hanno indagato la teologia, ponendo domande sulla giustificazione della fede e sulla compatibilità tra fede e ragione. Allo stesso tempo, la scienza moderna ha cercato di spiegare l'universo attraverso principi naturali, ma molte persone continuano a trovare conforto e significato nella fede in un essere superiore.
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Esploreremo anche le sfumature culturali e sociali legate a diverse rappresentazioni di Dio. Le religioni del mondo ci offrono una ricchezza di interpretazioni sulla divinità, ognuna con il potere di influenzare profondamente le vite e le pratiche di milioni di persone.
Tuttavia, mentre alcune menti si affidano alla fede cieca, altre mantengono uno scetticismo radicale, interrogando e sfidando l'idea stessa di una divinità. La ricerca di risposte su Dio è stata fonte di ispirazione per opere letterarie, artistiche e filosofiche senza tempo, poiché i pensatori e gli artisti cercano di catturare l'ineffabile e di dare un senso a ciò che va oltre la comprensione umana.
Questo saggio non si propone di fornire una risposta definitiva sulla natura di Dio, poiché ciò rimane un mistero inscrutabile. Tuttavia, aspira a stimolare una riflessione approfondita sul significato dell'esistenza, della spiritualità e dell'umanità stessa. Attraverso un viaggio di scoperta, speriamo di arricchire il nostro bagaglio di conoscenza, abbracciando la meraviglia e l'incertezza che accompagnano il concetto di Dio.
Sia che siate credenti devoti, agnostici in cerca di verità o atei convinti, invito tutti i lettori ad accogliere apertamente questa esplorazione nel mondo di Dio, dove l'incomprensibile si mescola con il profondo sentimento di meraviglia e speranza che risiede nel cuore di ogni essere umano. Preparatevi, quindi, ad avventurarvi in un viaggio intellettuale e spirituale che può svelare il mistero, o forse arricchirlo ulteriormente, ma, in ogni caso, lasciarci con una prospettiva più ampia e profonda sulla nostra esistenza. 1999 2023
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Capitolo I Dio, il problema
Intorno all’essenza di Dio esistono molteplici problematiche, che ho cercato di tenere presente in questa sezione antologica. Nonostante il problema, Dio è un tema affascinante nell’ “investigazione” filosofica e teologica i cui contributi sono in osmosi. La problematicità di Dio non consiste tanto nella sua natura, tutto sommato essa è pur sempre determinata dal filosofo o teologo che la investiga e che assegna a Dio la perfezione assoluta o le imperfezioni antropomorfiche secondo un percorso teologico piuttosto che di un altro, quanto in questioni relative alla sua dimostrazione che hanno prodotto vari argomenti. In autori come Omero, Esiodo, Virgilio, gli dèi hanno caratteristiche più umane che divine, e la loro potenza riveste solo il loro potere magico che determina questo o quell’evento; diversamente è descritta, l’essenza, di Dio da un filosofo o teologo cristiano piuttosto che da un ebreo o islamita. Alla radice della diffusione dell’idea di Dio vi sono tracce di un monoteismo imperante, da cui nel corso del tempo si è passati al politeismo. Fu Wilhelm Schmidt (1868-1954) ad individuare percorsi monoteisti in tutte le civiltà, tra i primitivi dell’Africa, Indonesia, nelle Americhe, tra i semiti, nei germani, nei
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celti, tra i greci ed i romani; anche il politeista si rivolge a Dio come se fosse l’unico, e in questo senso Platone ed Aristotele rivolsero la loro indagine. Un altro problema, legato all’essenza di Dio, è il suo rapporto col creato. Molti filosofi hanno identificato Dio con la Natura, giungendo a una sorta di panteismo anche su fronte cristiano, in nome dell’onnipresenza di Dio in tutte le cose; con il secolo dei lumi l’autosufficienza nella ricerca delle scienze, ha messo da parte Dio, ponendo le premesse per la formazione della coscienza laica. L’affermazione dell’idea di Dio è, inoltre, correlata ad esigenze di moralità: Dio, solitamente, non si compiace del male, e obbliga gli uomini ad esprimere il meglio di sé. L’esperienza religiosa ed il pensiero filosofico hanno elaborato l’idea di Dio, tuttavia esiste una notevole differenza tra il Dio dei filosofi e il Dio della religione. Pur prescindendo dall’analisi religiosa dell’idea di Dio, cosa potremmo dire ,e non, di lui? Neppure la Bibbia, paradossalmente, ci dice nulla a suo riguardo, non ne dimostra l’esistenza e non ne parla mai come di un oggetto della conoscenza umana, tuttavia Dio è onnipresente in ogni sillaba della Scrittura. Durante questo «percorso» mi sono imbattuto in autori e critici i quali asseriscono che la filosofia approdò alla formulazione dell’idea di un Essere supremo per giustificare la realtà: dunque Dio sarebbe una creazione dell’uomo pre-scien-
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tifico che non avendo sufficienti nozioni fisiche e matematiche non riusciva a spiegare la genesi del creato. Ma il punto di partenza circa Dio, da un punto di vista filosofico non è centrato sui princìpi della realtà. Con la speculazione metafisica i filosofi si preoccuparono del destino dell’uomo oltre la vita, tema affascinante che ha condotto per strade diverse e talvolta alternative, come la metempsicosi, che per il cristianesimo sarebbe un supplizio più che un riscatto e per ciò è abiurata. Spostandoci invece sull’asse religioso, l’idea di Dio assume un valore tutto diverso. Dio, nella sfera religiosa è intimamente legato alla razionalità,
all’esperienza
intima
dell’uomo
con
l’assoluto,
si
pensi
all’esasperante razionalismo dell’Aquinate, e alla logica agostiniana; Dio assume poi valori ed attributi diversi secondo il proprio percorso religioso che gli è attribuito da un credo specifico. Il Dio dei cristiani, non è il Dio degli Indù, né il Dio degli Ebrei o dei Musul mani, sebbene in questi ultimi credi vi siano affinità notevoli. Il Dio degli Ebrei e dei Musulmani è immutabile, Signore,() e quant’altri attributi nobiliari gli attribuiscono la Bibbia e il Corano; nel cristianesimo in Dio esiste un’intima relazione familiare di continuità temporale che dà origine alla Trinità, essenza stessa di Dio.
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La differenza tra il Dio dei filosofi e il Dio della religione 1 o della pietà, sta che il primo è un ente posto a strutturare il creato e ad auto contemplarsi, il secondo è un Ente (e la radice Ente, come Essente, è strettamente connessa alle ipotesi dedotte dal tetragramma sacro, Jhwh, che
identificherebbe un’arcaica
radice del verbo essere) che spontaneamente ha deciso di rivelarsi all’uomo e camminare con lui nella storia, per puro atto di amore; in ambedue i casi Dio regge il creato, provvede a tutte le creature, attributo questo estraneo al Dio dei filosofi. Oltre ai problemi di natura teoretica, esistono anche, nel campo filosofico, affascinanti posizioni tra i diversi autori, che la critica ha classificato in maniera sistematica: avremmo i filosofi animisti, i panteisti coloro che identificano Dio nella natura, i teisti che cercarono in tutti i modi di dimostrare o meno l’esistenza di Dio, e in antitesi a questi i deisti, coloro che rivendicarono il primato della logica e della ragione a vantaggio della secolarizzazione del pensiero; gli argomenti per la dimostrazione di Dio, così numerosi, sono stati classificati con le prove ontologica, gnoseologica e teolologica.
Il primo autore che pone in modo chiaro ed evidente questa diatriba è Celso. Secondo quanto ci proviene da questo autore greco del II secolo, tramite la testimonianza di Origene, Celso sosteneva con fermezza che il cristianesimo non ha nulla a che vedere con la filosofia greca, non concependo l’idea teologica dell’incarnazione di Dio. 1
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Nonostante le problematiche correlate alle prove dell’esistenza di Dio, cui rimando ai singoli autori presi in considerazione, ogni credo pone in Dio un fine escatologico: la liberazione dalla condizione miserevole data dalla natura umana e dal peccato, che ha allontanato l’uomo dalla divinità. Concludo con una citazione di Erich Fromm (1900-1980), strettamente legata a queste argomentazioni: «Socrate, Platone, Aristotele non parlavano e non intendevano parlare in nome di una rivelazione divina, ma con l’autorità della ragione, ispirati soltanto dalla propria sollecitudine per la felicità e lo sviluppo dell’uomo. Il loro argomento di studio era l’uomo in quanto fine a stesso; e questo era considerato il più importante di tutti gli studi»2.
ERICH FROMM, Psicanalisi e religione, Mondadori, Milano 1987; p. 10.
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Capitolo II
Il Dio dei filosofi
I presocratici3
Sin dal suo manifestarsi l’espressione “Dio” ha suscitato le più elaborate speculazioni intorno alla sua esistenza; non si contano le dimostrazioni, come i suoi molteplici attributi: demiurgo, motore immobile, sofia, spirito, e via dicendo. Le argomentazioni intorno a Dio, oltre che essere proprie della speculazione teologico-filosofica, sono proprie della storia delle religioni. Fu Lord Herbert di Cherbury (1583-1648) che intorno alla seconda metà del Seicento intuì la comparazione tra le varie religioni4. Il nostro “Dio” deriva dal latino deus, connesso alla radice indoeuropea div, «luminoso». La filosofia definisce Dio come un’idea o un concetto. Vi sono delle nozioni precise che sono da sempre connesse con la realtà di Dio, esse sono: assolutezza, infinitezza e totalità.
I passi antologici delle varie opere prese in esame sono tratti, eccetto quelli indicati diversamente, da: G. GIOVANNINI, Il pensiero filosofico nell’età classica e medioevale, Sandron, Firenze, 1985. 4 Secondo Herbert di Cherbury non esistono veri atei, “ma soltanto cosiddetti atei che si ribellano agli attributi della divinità falsi ed inappropriati”; cfr. ALAN BOUQUET, Storia delle religioni, Mondadori, 1972; p.19. 3
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È l’esperienza religiosa che ha dato origine all’evoluzione dell’idea di Dio, esperienza intimamente connessa a quella con il trascendente ed il misterioso. Le prime forme di religiosità erano intimamente connesse all’animismo, che segnò i giorni dell’uomo primitivo, in epoche più vicine l’uomo ha affinato la propria esperienza religiosa, che è pur sempre un’esperienza di comunicazione [si veda il linguaggio mistico]. Le varie diatribe sul senso religioso analizzato dall’ottica filosofica, ci affermano che Dio è un bisogno dell’uomo di non sentirsi solo, mentre la psicoanalisi degli albori trovava che Dio si potesse identificare nella figura paterna idealizzata o idealizzabile. “La filosofia giunge a Dio in altro modo. Essa poggia sull’esperienza del mondo e sull’esigenza della ragione. Il mondo comporta tutto quanto è necessario per esistere (è la sua sufficienza); ma il mondo non porta in sé questo necessario (è la sua insufficienza). Ecco: Dio è necessario per l’esistenza del mondo. Tale necessità non è un oggetto -non è il mondo e non è Dio-; è una relazione logica, è un itinerario della ragione, che esperendo il mondo è indotta ad affermare Dio. Dio è l’assente che viene chiamato in causa per spiegare il presente”5. Per i presocratici della scuola di Mileto, per intenderci Talete (624-546 a.C.) Anassimandro (610-547 a.C.) e Anassimene (590-525 a.C.), Dio s’identificava con il principio delle cose, l’. Sebbene il loro pensiero ci sia giunto attra-
Cfr.J.B.BAUER, C.MOLARI, Dizionario teologico, Cittadella Editrice, Roma 1974; voce Dio p. 191. 5
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verso la mediazione di filosofi posteriori, questi pensatori hanno dato un valido contributo alla nascita dell’idea di Dio e alla sua evoluzione. Ecco cosa scrissero di loro: «Talete dice che è l’acqua [il principio delle cose], derivando forse questa concezione dal vedere che di tutte le cose il nutrimento è umido: ora, ciò che da tutte le cose si generano, quello è il principio di tutto. Per questo dunque egli [Talete] sostenne tale concezione, e anche perché i semi di tutte le cose hanno natura umida, e nelle cose umide è l’acqua il principio della loro natura. E ci sono alcuni che credono che anche gli antichissimi, che hanno teologizzato gran tempo innanzi alla presente generazione, abbiano avuto la stessa opinione intorno alla natura, perché hanno fatto Oceano e Teti autori della generazione». (Aristotele, Metafisica)
«Si vede adunque da ciò che tale esame conviene ai fisici. A ragione essi fanno dell’infinito un principio, perché non è possibile che esso esista invano e che abbia altro valore che quello di principio. In realtà ogni cosa o è principio o deriva da un principio: ma dell’infinito non c’è principio, ché sarebbe suo limite. Inoltre è ingenerato ed incorruttibile, in quanto è un principio, perché di necessità ogni cosa generata deve avere una fine e c’è un termine di ogni distruzione. Perciò come diciamo esso non ha principio, ma sembra essere esso principio di tutte le altre cose e tutte abbracciarle e tutte governarle, come dicono quanti non ammettono altre cause oltre l’infinito, quali, ad esempio l’intelletto o l’amicizia. inoltre esso è il divino
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perché è immortale e indistruttibile, come vuole Anassimandro e la maggior parte dei fisiologi». (Aristotele, Fisica)
«Anassimandro di Mileto disse che il principio delle cose è l’infinito, introducendo per primo questo nome di principio (archè - ). Egli dice che questo non è l’acqua né altro di quello che si chiamano elementi, ma un altro principio generatore infinito, da cui nascono tutti i cieli e gli universi in esso contenuti. Egli fa consistere non in un trasformarsi della sostanza primordiale, ma del separarsi dei contrari per opera del movimento eterno. E i contrari sono caldo e freddo, secco e umido e simili. Da ciò onde è la nascita delle cose, in quello anche la loro dissoluzione, secondo una legge necessaria. esse pagano il fio e la pena della loro ingiustizia». (Simplicio, Fisica)
«Anassimene di Mileto che era stato il discepolo di Anassimandro, dice anch’esso che il principio primordiale è unico ed infinito, ma non lo dice come lui, indeterminato ma determinato, asserendo che è l’aria. L’aria si distingue per via di rarefazione e di condensazione nelle varie sostanze. E rarefacendosi diventa fuoco, condensandosi diventa vento, poi nuvola, e ancor più condensata acqua, poi terra e quindi pietra. Proprio come l’anima nostra che è aria ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano l’intero mondo». (Teofrasto, in Simplicio Fisica)
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In quest’ultimo brano abbiamo visto come il principio delle cose acquisti delle peculiarità: esso è infinito ed assoluto, ed avvolge il mondo. Si traccia l’embrione della nozione Dio-Spirito pneuma (). Un contributo notevole lo dette Pitagora con la sua “esperienza religiosa”; egli assegnò alla numerologia un posto preminente, soprattutto al numero Uno, di cui con rigore matematico ci parla Aristotele nella Metafisica. Un’inversione di tendenza fu data da Eraclito (540-475 a. C.), il quale assegnò al fuoco e alle sue proprietà la generazione del tutto. Ritengo utile leggere questo passo tratto da La natura, di provenienza eraclitea: «Nessun dio e nessun uomo ha creato questo mondo, che è identico per tutti: esso è sempre stato, è e sarà fuoco perennemente vivo, il quale con ordine regolare si accende e si spegne. Il fuoco condensandosi, si fa liquido e, nel contrarsi diventa acqua; l’acqua poi, solidificandosi, si muta in terra, e questa è la via in giù, e a sua volta la terra si liquefà e da essa si genera l’acqua e da questa le rimanenti cose: e questa è la via in su. Vive il fuoco la morte della terra, e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria la terra quella dell’acqua». (Eraclito, Della natura)
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Socrate
Secondo quanto ci testimoniano le fonti circa la vita e il pensiero di Socrate (469-399 a. C.), sembra che egli non si sia occupato della esistenza di Dio, e del questione della sua dimostrazione. Dalle testimonianze forniteci da Platone e Aristotele ci è giunta la descrizione di un uomo profondamente devoto agli dèi e al loro culto (celebre è la richiesta che il filosofo fece, sul letto di morte, di sacrificare un gallo ad Esculapio) sebbene traspaia dalle testimonianze che egli propendesse verso il monoteismo. Il pensiero di Socrate è centrato intorno ad una filosofia umanistica, rivolta alle possibilità dell’intelletto umano, alla ricerca della felicità, ai suoi rapporti con gli altri uomini. «Egli discorreva sempre di cose umane, esaminando che cosa è santità, che cosa è empietà, che cosa è bellezza, che cosa è turpitudine, che cosa è giustizia che cosa ingiustizia, che cosa saggezza, che cosa pazzia, che cosa coraggio, che cosa viltà, che cosa stato, che cosa politico, che cosa governo, che cosa uomo di governo, e simili cose». (Senofonte, Detti memorabili di Socrate)
«Socrate trattava soltanto delle cose morali, e di tutta la natura non si occupava affatto; ed in quelle cercava l’universale, e per primo aveva fisso il pensiero alle definizioni.
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Ben a ragione egli cercava le essenze, poiché cercava di ragionare; ed il principio dei ragionamenti è l’essenza delle cose. Due sono le cose che si potrebbero attribuire a Socrate: i ragionamenti induttivi e le definizioni dell’universale». (Aristotele, Metafisica)
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Platone e Aristotele
Con la filosofia dei massimi sistemi, cioè con la speculazione platonica ed aristotelica, la metafisica acquista un valore diverso. Il mondo antico, nella religione degli abitanti dell’Olimpo, giustificava le forze della natura, forze che si incarnavano in personaggi antropomorfi, con virtù vizi e difetti eguali a quelli umani. Un primo tentativo di fornire un “catalogo” (Perrotta) di dèi lo ha fatto Esiodo (VIII-VII secolo a. C.) con la sua opera Teogonia, che narra in 1022 esametri la storia dell’universo e la genealogia degli dèi. Ma il metafisico e la sua più complessa elaborazione vedono il loro nascere col pensiero platonico. Platone (428-347 a. C.), proveniente da famiglia aristocratica, fu allievo e poi amico di Socrate. Nel 387 fondò ad Atene l’Accademia, scuola filosoficoreligiosa per il culto delle Muse, e le sue opere in larga misura tramandano ed ampliano il pensiero socratico. È dall’insegnamento di Socrate che Platone eredita il senso dell’importanza della conoscenza per la vita dell’uomo, polemizzando con i sofisti, che centrano la loro attenzione sulla retorica, che produce persuasione ma non conoscenza. Platone ritiene che la virtù vada identificata con il possesso della scienza.
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Socrate e Platone fondarono secondo Dante, sulla scorta di Cicerone, la filosofia morale (Convivio IV: 13-16). Nel mondo dell’iperuranio, che trascende la realtà, Platone colloca le Idee, che sono ingenerate, incorruttibili, immobili, immateriali; hanno caratteristiche ieratiche pur non essendo deità, ma solo figure e forme di quanto è reale sulla terra. «Il sopraceleste luogo non lo inneggiò alcuno dei poeti di qua, mai e mai non lo inneggerà degnamente. La verace essenza [Idea] che non ha né colore, né figura, e non può essere toccata, che può essere contemplata solo dalla mente e che è oggetto della verace scienza, ha questo luogo». (Platone, Fedro) Sarà in seguito che Platone tratterà di una figura ieratica, l’ordinatore del cosmo attraverso le forme immutabili delle cose: il Demiurgo. «Dio è buono e volle che tutte le cose diventassero, simili a lui il più possibile. Egli escluse, per quanto era possibile, ogni imperfezione e perciò attirando a sé tutta la massa visibile che era in continua agitazione e si muoveva senza misura e senza ordine, la condusse dal disordine all’ordine. Riflettendo vide che da tutte le cose visibili non potrebbe risultare un tutto privo di intelligenza che fosse più bello d’un tutto intelligente: e che l’intelletto non può trovarsi in nessuna cosa senza l’anima. Così costruì il tutto ponendo l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo del mondo. Bisogna ancora chiedersi secondo quale modello il fabbricatore del mondo lo ha realizzato. Ora è assolutamente evidente che l’artefice ha contemplato il mondo eterno [delle idee]». (Platone, Timeo)
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Aristotele (384-322 a. C.) fu il primo a tracciare una giustificazione dell’esistenza di Dio. Da un punto di vista teoretico questo risulta essere sicuramente un nuovo passo avanti; egli postula l’esistenza di Dio dopo aver sviluppato il discorso intorno all’esistenza della materia e della sua contingenza. Questi assunti si trovano nella Metafisica: «Bisogna che ci sia un principio tale che la sua sostanza sia l’atto stesso. Di più tale sostanza deve essere senza materia, perché se c’è qualcosa di eterno deve essere eterna. Essa è dunque in atto. Il pensiero divino appare la più divina fra tutte le cose. E se pensa, ma il suo pensare dipende da altro, allora, in quanto la sua sostanza non è il pensiero in atto, ma la potenza, essa non è più la perfetta tra le sostanze. Inoltre, o che la sua potenza sia il pensiero in potenza o sia l’atto del pensare, che cosa pensa? O pensa se stessa o qualcos’altro. E, se pensa altro non è pensiero in atto, dovremmo concludere che la continuità del pensare sarebbe una fatica. E poi evidente che qualcos’altro sarebbe più venerando del pensiero: cioè l’oggetto pensato. Il pensiero divino dunque, se è ciò che vi è di più perfetto, pensa se stesso ed è pensiero di pensiero [contempla se stesso]. Esso pensa se stesso assumendo se stesso come intelligibile, poiché esso diviene intelligibile a se stesso nell’atto di intendere il suo oggetto: sicché l’intelligenza e intelligibile sono tutt’uno». (Aristotele, Metafisica)
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La concezione aristotelica di Dio non è lontana da quella medesima formulata da Platone sul mondo delle idee. Il Dio di Aristotele non è una divinità venerabile, risulta essere la prima delle cause della realtà e delle sue molteplici forme.
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L’epicureismo e lo stoicismo
Passando attraverso l’evoluzione filosofica sulla natura della divinità incontriamo l’epicureismo, pensiero formatosi grazie ad Epicuro, filosofo greco, nato a Samo nel 341 a.C., morto ad Atene nel 270 a.C. La sua speculazione filosofica verte sull’origine del mondo, che egli ritiene formato da atomi, particelle indivisibili dalla cui unione e disunione dipende l’esistere ed il morire di ogni cosa. Anche l’anima, formata da atomi, è destinata, così, a dissolversi. Epicuro, inoltre, pur non negando l’esistenza degli dèi, li riteneva, tuttavia, distanti dalle vicende umane e ad esse del tutto indifferenti. L’unica difesa del saggio restava dunque la ricerca del piacere, intesa come assenza di sofferenza del corpo e di turbamento dell’animo. L’epicureismo ha una concezione materialistica della realtà, che esclude qualsiasi intervento del divino nella realtà. Gli dèi divengono esseri beati che vivono non curanti delle vicende umane. Il fatto che la divinità non si occupi della storia è qualcosa che in seguito il cristianesimo abiurerà poggiandosi sulla rivelazione delle Scritture, in cui si afferma in modo chiaro ed evidente che Dio non solo è Signore della storia, ma la plasma come meglio reputa per riportare a sé i suoi fedeli [cfr. 1Mac 3:60; Is 45:1ss, e Rm 8:28].
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Una diversa configurazione dell’idea di Dio è propria degli stoici, secondo cui Dio è in modo simultaneo fato e provvidenza. Per fato gli stoici intendevano la necessità e per provvidenza la finalità. Ecco quanto ci dice Cicerone (103-43 a. C.): «Più facilmente si comprenderà che gli dèi immortali hanno curato in maniera provvidenziale la razza umana, se si esamineranno con attenzione tutta la struttura dell’uomo e tutta la perfezione del suo aspetto e della sua natura. Il nostro spirito si avvicina alla conoscenza degli dèi, da cui origina il sentimento religioso; con questo sono collegate la giustizia e tutte le altre virtù da cui alla nostra esistenza è assicurata una felicità pari e simile a quella degli dèi. Il mondo è infatti una specie di sede comune agli dèi e agli uomini. Per me io rinuncio ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione [sulla natura degli dèi]; mi basta contemplare con gli occhi la bellezza del creato, quale prova della divina provvidenza che lo governa». (Cicerone, De natura deorum) Una concezione stoica nuova su Dio è data da Seneca (50 a. C. - 40 d.C.), il quale ne dà una visione spiritualizzata. Questo portò alla leggenda, del IV secolo, di un epistolario tra il filosofo e san Paolo. Il logos immanente, Seneca, nel De beneficiis, arriva a chiamarlo parens. «È un Dio colui che ha sparso per tutto il mondo gli armenti, che alle greggi vaganti ha apprestato la pastura, nell’estate e nell’inverno; che non ci
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ha insegnato soltanto a cantare sulla zampogna, ma che tante arti, tanta varietà di suoni, tante armonie ha trovato, che salgono ora dallo spirito nostro, ora da un’estrema ispirazione; è Dio il maestro che trae fuori i germi dalla loro oscurità. La natura, si dice, dà tutto questo. Ma dicendo così non si fa che mutare il nome di Dio. Che altro è infatti la natura se non Dio e la divina ragione sparsa per tutto il mondo?» (Seneca, De beneficiis)
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Il pensiero religioso nel II secolo d. C.
Plutarco
Nel II secolo la filosofia sviluppa un corso nuovo; anzitutto la filosofia platonica ha una fortuna inusitata, e la metafisica è
particolare oggetto di
speculazione. In questo contesto operò Plutarco (46-125 d.C.), il quale nell’opera De Iside presenta un notevole discorso teogonico-filosofico, ripercorrendo l’identità di Dio e degli dèi, soffermandosi sulla loro origine, natura e sviluppo. Fondamentalmente per Plutarco “è ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell’unità del principio attivo che implica una passività su cui operare, la quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il divino principio sia la realtà molteplice, ché, presi in sé, vengono a non essere più né il principio attivo e qualificante né l’informe pura quantità”6. «Gli stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dionisio, quello che percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che perFRANCESCO ADORNO, La filosofia antica, vol. IV, Feltrinelli, Milano 1992; pp. 21-22. 6
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vade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpretazioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati all’astronomia, credono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare. Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il mito egiziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno “barriera” e, in generale, hanno un aborrimento estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone fra il sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo, non equilatero. I Pitagorici esprimono le loro categorie con una grande varietà di termini: per essi il Bene è l’Uno, il Determinato, il Costante, il Diritto, l’Impari, il Quadrato, l’Uguale, il destro, il Luminoso; il cattivo invece è la Diade, l’Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l’Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l’Oscuro. Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono infatti il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate angoli. Il numero uno lo chiamarono Apollo. Il due lo chiamarono contesa e audacia, il tre giustizia. La cosiddetta “tetraktys”, cioè il trentasei, costituisce com’è fama diffusa, “il più alto giuramento” e ha ricevuto il nome di “mondo”, poiché è formato dai primi quattro numeri e dai primi quattro numeri dispari sommati insieme». (Plutarco, De Iside 367 c, e-f; 370 e, 381 f - 382 a)7 Più complesso il pensiero riguardo la creazione del cosmo:
Ibidem, pp. 18-19.
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«In verità le origini dell’universo non vanno poste nei corpi inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici, un’unica ragione e un’unica provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che sia, entri nell’esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla. Di qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni, sì anche nei riti e nei sacrifici, diffusa soprattutto fra i barbari e i Greci: che, cioè, tutto l’universo non è già librato, per sola virtù meccanica, di per se stesso, senza un intelletto, una ragione, senza un pilota. I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi. I Caldei dichiarano che, tra i pianeti ch’essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due malefici, e altri tre intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti». (Ivi 369 a - 370 d) E sugli dèi Plutarco prosegue: «Non dobbiamo pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a popolo; che siano cioè dèi barbari o dèi greci o dèi australi o dèi settentrionali. No, ma come il sole e la luna e il cielo e il mare sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; così, parimenti, le forme del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre, espressione di un’unica
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razionalità, che le ha nobilmente ordinate, e di un’unica Provvidenza, che veglia su di esse e di potenze ancillari preordinate su tutte. Di più gli uomini si avvalgono di simboli consacrati -e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli più trasparenti- guidando il pensiero sulla strada perigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada e s’ingolfano nella superstizione (); altri sfuggono, per così dire da quel pantano che è la superstizione, ma piombano, d’altro canto, come in un dirupo scosceso: l’ateismo. Ecco perché in questa materia, occorre soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla filosofia e consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni le liturgie; sì che non erriamo interpretando in un differente spirito quel che i comuni religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti comunque ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione]. (Ivi 337 f- 338b)
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Celso
La diatriba tra il Dio dei filosofi e il Dio dei cristiani vede la luce proprio nel II secolo, e Celso (I-II secolo) è polemico nei confronti del cristianesimo e soprattutto della sua teologia, che egli reputa “assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma in realtà niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea”8. Dice dunque Celso: «Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l’uomo a sua immagine, perché egli non è quale l’uomo, né assomiglia ad alcun’altra forma. Dio non partecipa né alla figura Né al movimento, né all’essenza. E se in realtà tutte le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non segue se non da se stesso. Di lui non si può dire nulla, egli non ha nome (), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si afferrano e si fissano con un nome (). In effetti Dio è al di fuori di ogni accidente. Come dunque conoscere Dio? Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Perché per ora almeno è tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. Egli non è intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale l’intelletto conosce e l’intellezione si compie, la scienza si forma e tutti gli intelleggibili e la stessa sostanza e la
Ibidem; p 74. Di Celso abbiamo stralci della sua opera, Discorso vero, che Origene (185-253) ha trascritto nella sua opera Contra Celsum. 8
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verità stessa hanno l’essere loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera ineffabile». (in Origene, Contra Celsum VII, 45)9
Il passo citato sta in: FRANCESCO ADORNO, La filosofia antica, op. cit.; p. 73.
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La gnosi
Con Puech si può affermare che lo gnosticismo è certamente un fenomeno generale della storia delle religioni10Le teorie teologiche che si elaborarono in questo contesto intellettuale condussero molti, se cristiani, verso l’eresia11. Sono affascinanti certe argomentazioni sulla natura di Dio, sulla sua intima essenza, come affascinanti sono le posizioni cristologiche. Lo gnosticismo puntava sulla conoscenza, che non è acquisibile: essa è data da una illuminazione, pertanto la gnosi, di per se stessa, indicherebbe una conoscenza soterica12. La posizione di Valentino (II secolo), nei riguardi della cosmogonia, pone in antitesi l’opera di Dio e l’opera del Principio decaduto da Dio: il Male. Questo dualismo sarà una costante di tutto lo gnosticismo. «Avendo assistito a cose così orribili, cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo tramasse contro gli uomini. No, certo, Dio». (Contra Marcionitas, in Patrologia graeca, VII, 1926)
Cfr. H.CH. PUECH, La Gnose et le temps, “Eranos-Jahrbuch”, 1951; p. 79. È aperta tuttora la discussione degli storici del cristianesimo intorno ai fenomeni eretici dei primi secoli della cristianità, si discute peraltro se l’ortodossia preceda l’eresia, o se è quest’ultima che genera per contro il pensiero ortodosso come punto saldo del credo. Cfr. per tale questione SIMON, BENOÎT, Giudaismo e cristianesimo, Laterza, Roma-Bari, 1985; pp. 269-288. 12 Di illuminazione, da parte della divinità 10 11
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È soprattutto l’essenza di Dio che interessa il pensiero gnostico. Queste prime asserzioni le ritroviamo nel pensiero di una figura adombrata di mistero e leggenda, Simon Mago (I secolo d.C.), di cui ci narrano le Omelie pseudo clementine e un passo della Apologia di Giustino (100-165) [I, 26] 13, in passi di opere di Cirillo di Gerusalemme († 387), di Tertulliano (160-220) e di Agostino d’Ippona (354-430). Dio, secondo quanto le fonti su Simone ci dicono, si evolve attraverso un dramma cosmico, origina altri spiriti coeterni a lui. Uno sviluppo più dettagliato di questa teologia lo troviamo in Valentino. Ecco quanto, del pensiero di Valentino sull’essenza di Dio, ci dice sant’Ireneo: «Questo intelletto è detto anche Unigenito (Monoghènes) e Padre e Principio (Archè) del tutto. Con lui fu emessa pure Verità (Alètheia). Questa è la tetrade pitagorica prima e originaria che chiamano anche Radice del Tutto: e cioè Bythòs e Sighè, quindi Nous e Alètheia. Ora Monoghès, resosi conto del perché era stato emesso, emise a sua volta Ragione (Logos) e Vita (Zoè) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pleroma, quindi: da Logos e Zoè furono emessi per accoppiamento (sizighia) Uomo (Anthropos) e Chiesa (Ecclesia). Questa è l’odoade originaria, radice e sostanza del tutto desi-
Il passo di Giustino, nell’Apologia, si riferisce ad una statua eretta a Simone, che erroneamente -come si ritiene oggi- fu eretta in Roma. Gli argomenti che demoliscono la tesi di Giustino puntano sull’iscrizione che riporta «Semoni Sanco Deo Fidio Sacrum» (sacra a Semo Sanco Dio Fidio). Semo Sanco non è identificabile con Simone, bensì con una divinità sabina nume dei patti. Questa statua fu rinvenuta in Roma nel 1574. 13
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gnata da loro con quattro nomi: Bytos, Nous 14, Logos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e femmina: così il Pre-padre si è unito per sizighia alla sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Aletheia, Logos a Zoè, Anthropos ad Ecclesia. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch’essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l’emanazione di Anthropos e di Ecclesia, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono Profondo e Unione, Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e commistione, Unigenito e Beatitudine. Anthropo, a sua volta, con Ecclesia emise dodici eoni a cui sono dati i nomi seguenti: Intercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e Amorevolezza (Agape) Intelletto eterno e Intellezione, Ecclesiastico e Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophia). Questi sono i trenta Eoni, taciuti e non conosciuti, questo è il loro Pleroma invisibile e spirituale, diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito, nato da lui, cioè da Nous, mentre è invisibile e irraggiungibile per tutti gli altri. Non solo, di contro ad essi, si beava contemplando il padre e gioiva meditandone l’incommensurabile grandezza. Tutti gli altri eoni, pur restando immoti, bramavano vedere colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere
quella radice senza principio. Ma
l’ultimo e più recente degli Eoni della dodecade emesso da Anthropo ed Ecclesia, cioè Sophia, spiccò un balzo immenso e fu scossa da passione senza l’amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato). Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile, fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell’abisso, alla impossibilità di Comunemente lo si traduce con: mente.
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proseguire verso il Padre e alla tenerezza per lui: protesa com’era sempre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla dolcezza di lui e si sarebbe dissolta nell’essere totale se non si fosse scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è detta Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophia], fermarla e, a fatica, ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima Passione (Enthùmeis), con l’Angoscia che ad essa era sopravvenuta, si distolse così da quel rapimento contemplativo». (Ireneo Adversus haeres I,1,1 e ss.)15
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Sta in FRANCESCO ADORNO, La filosofia antica, op. cit.; 93.
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Plotino
Plotino (204-270), è il filosofo e mistico dell’Assoluto. L’impulso più rilevante che verrà dato dalla speculazione filosofica, intorno alla natura di Dio, la sua evoluzione, il suo essere sono date dal pensiero di Plotino e dal suo neoplatonismo. Il sistema filosofico di Plotino riprende i sistemi di Platone e Aristotele, e ne sviluppa i contenuti metafisici. Dio è il principio supremo delle cose, e tutto nasce dalla emanazione dell’Uno, che è identificabile con Dio. L’importanza di Plotino sta anche nell’aver prodotto una contro replica alle argomentazioni degli gnostici: «Chiedere perché il mondo è stato è stato creato, è come chiedere perché esista un’Anima o perché il Demiurgo operi. Significa innanzi tutto ammettere un principio a ciò che è sempre stato. Significa, poi, rappresentarsi la creazione come l’atto di un Essere mutevole che di volta in volta è creato e creante. Bisogna dunque, se si dimostrano disposti ad accettare un insegnamento, far capire loro la nature delle cose, al fine di far cessare le ingiurie che essi indirizzano troppo facilmente, invece di parlare con il rispetto che si converrebbe a degli esseri che vanno onorati. Si ha torto a fare dei rimproveri al modo con cui è governato l’universo, poiché innanzi tutto, testimonia la grandezza della natura intellettuale: per-
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ché se esiste una vita che non è l’esistenza disordinata dei piccoli animali generati senza posa, giorno e notte, per la sovrabbondanza stessa della natura universale, ma è invece una vita con un solo reggitore, chiara allo spirito, multipla, diffusa ovunque e testimone di una immensa saggezza, come non dire che essa è l’immagine visibile e bella degli dèi intellettuali? Non è il mondo intellettuale, poiché non ne è che l’immagine. Questa ne è la sua vera natura ed essa non può essere contemporaneamente simbolo e realtà. Ma è falso dire che questa immagine non sia somigliante: non vi è omesso nulla di ciò che costituisce una bella immagine, che sia opera della natura. Questa immagine non dev’essere, in vero, il risultato di un preordinato artificio; l’intellettuale non può essere il termine ultimo della realtà, deve operare in due modi, su se stesso, e su qualcosa che è dopo di lui: se fosse solo non avrebbe più nulla al di sotto di sé, cosa del tutto impossibile; una potenza meravigliosa circola in lui, ed è per questo che opera». (Plotino, Enneadi) Importante è il suo discorso teologico negativo, che ci indica cosa possiamo sapere dell’essenza di Dio, ossia ciò che Dio non è. «Esso [Dio] è verità ineffabile. Dunque cosa si dica di lui, voi direte sempre qualcosa, ed esso è al di là di ogni cosa. Come allora parlate di lui? Noi possiamo parlare di lui, ma non per esprimerlo: non abbiamo di lui conoscenza né pensiero. Ma come parlare di lui, se non lo afferriamo in qualche modo? In verità se noi non lo possediamo per via di conoscenza, non si può dire che non lo possediamo in alcun modo. Noi lo possediamo
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abbastanza per parlare di lui, ma senza che le nostre parole lo esprimano. Noi diciamo ciò che esso non è; non possiamo dire quel che esso è. A parlare con esattezza, non si deve dire di lui né questo né quello, ma dobbiamo limitarci a interpretare con parole i nostri propri sentimenti. Lo stesso nome Uno non significa altro che la negazione della molteplicità. Non si può dargli il nome di Bene, se questa parola designa una delle cose che sono dopo di lui: gli si dia questo nome, ma a condizione che significhi che è avanti tutte le cose. Noi diciamo che esso è Causa. Ma con ciò assegniamo un attributo a noi e non a lui; intendiamo cioè dire che noi abbiamo qualcosa da lui, mentre esso rimane in se stesso». (Ibidem) E inoltre: «Tutti gli esseri sono in virtù dell’Uno. Infatti che cosa potrebbe esserci se non ci fosse l’unità? Esemplificando, non si ha esercito se esso non sa presentarsi uno, né si ha coro né gregge, se non sono uno. Anzi niente casa o nave se non hanno unità, dal momento che la casa è unità, e così pure la nave, tanto che, se perdono l’unità, la casa non sarà più casa, e la nave non sarà più nave. E analogamente le grandezze continue non esisterebbero se non appartenesse loro l’unità. E anche gli organismi delle piante e degli animali sono in quanto sono un corpo uno. E c’è salute, quando il corpo è intrinsecamente coordinato in unità, e c’è bellezza, quando l’unità tiene insieme le parti, e c’è virtù nell’anima, quando tutto in essa è volto a unità e armonia». (Ibidem)
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Severino Boezio
Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, membro della illustre ed antica gens Anicia, nacque a Roma nel 480. Sposò la figlia di Simmaco e percorse con onore tutta la carriera pubblica, ma, pur godendo della fiducia di Teodorico, rimase legato all’antica grandezza romana più che al potere ostrogoto. Proprio questo atteggiamento causò, infine, la sua caduta: accusato di tradimento, fu imprigionato a Pavia e decapitato nel 524. Il suo corpo mutilato fu sepolto nella basilica di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia: tutto il Medioevo lo considerò non solo cristiano (non è certo, tuttavia, che sia stato battezzato), ma anche martire degli intrighi politici. Nel periodo trascorso in carcere Severino Boezio scrisse la sua opera più letta e più tradotta in lingua volgare: il “De consolatione philosophiae”, in cui l’autore, sul modello dei dialoghi platonici, immagina di tessere un colloquio con la Filosofia, venuta a consolarlo della immeritata condanna. Severino Boezio fu uno dei più illustri uomini di cultura del suo tempo. Era definito l’ultimo dei romani ed il primo degli scolastici, per la funzione che svolse di mediatore fra il pensiero classico, romano e greco, ed il nascente pensiero cristiano medievale.
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La sua attività di raccolta e trasmissione della cultura classica (aritmetica, geometria, musica, ma anche filosofia, soprattutto Aristotele e Platone) fu premiata dalla vasta diffusione dei suoi scritti nella scuola medievale. L’importanza del De Consolatione sta nel fatto che il “contenuto sostanziale del testo agita i problemi più vivi della coscienza cristiana: quello del male, quello dei premi e dei castighi, quello del libero arbitrio e della volontà divina, quello della priescienza di Dio”16. «Mentre tra me in silenzio consideravo queste cose, e mettevo per iscritto il mio lacrimevole lamento, mi sembrò che si curvasse sul mio capo una donna [è l’apparizione della Filosofia] dal viso alquanto mai venerando, dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità umana, dal vivo incarnato e dall’inesuato vigore -per quanto ella fosse così onusta di anni da non potersi credere in alcun modo della nostra epoca-, dalla statura difficile a valutare. Infatti ora si riduceva alla normale misura degli uomini, ora sembrava toccare il cielo con la sommità del capo; quando poi lo sollevava ancora più in alto, penetrava anche lo stesso cielo e scompariva agli sguardi di coloro che la osservavano. Le sue vesti erano fatte con raffinata destrezza, di sottilissimi fili d’indistruttibile materia, ed ella stessa (come poi seppi dalla sua bocca) le aveva intessute con le proprie mani; un velo, per così dire, di negletta antichità ne oscurava lo splendore, come accade nei dipinti esposti al fumo. Nell’orlo inferiore si leggeva un greco, in
ETTORE PARATORE, Letteratura latina, Sansoni Editore, Firenze 1985; vol. II, p. 281 16
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quello superiore un 17; tra l’una e l’altra lettera apparivano impressi a guisa di scala alcuni gradini mediante i quali si poteva ascendere dalla più bassa alla più alta. Purtuttavia le mani di certi violenti avevano lacerato quella veste e ne avevano asportato tutti i frammenti che potevano. E la sua destra reggeva alcuni piccoli libri, la sinistra uno scettro. Quando ella vide le Muse della poesia che stavano accanto al mio giaciglio e dettavano parole al mio pianto, un poco turbata e accesa negli occhi severi disse: “Chi ha permesso a queste donnacce da teatro di avvicinarsi al malato, ad esse che non solo non lenirebbero i suoi dolori con qualche rimedio, ma anzi li fomenterebbero con dolci veleni? Son proprio queste che soffocano con le sterili spine degli affetti la messe della ragione feconda di frutti, e assuefanno le menti degli uomini al male, anziché liberarle da esso. E pur se le vostre lusinghe, come solitamente vi accade, sviassero qualche profano, riterrei di doverlo sopportare con minore cruccio: in lui non recherebbero certo alcun danno alla nostra opera; ma sottrarmi questo, cresciuto negli studi Eleatici e Accademici? Andatevene Sirene dolci così da portare alla morte, e lasciatelo alle mie Muse che lo curino e lo guariscano!”. A tali rimproveri quel coro chinò mestamente a terra il volto e rivelando nel rossore la vergogna, varcò confuso la soglia. Ed io, che avevo la vista oscurata dalle lacrime, né potevo distinguere chi fosse mai questa donna di così imperiosa autorità, restai stupefatto, e volti gli occhi a terra mi disposi ad attendere in silenzio quel che avrebbe di seguito fatto. Essa allora, venendo più vicina, si sedette all’estremità del mio letticciolo, e guardando
Sono le iniziali delle due partizioni della filosofia: la sta per praktiché, attiva, e la sta pertheoretihé, speculativa. 17
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fisa il mio viso grave per il cordoglio e abbassato al suolo per l’afflizione, si lamentò per il turbamento della mia mente con questi versi18: Se scorger vuoi con pura mente del nostro eccelso Giove l’impero guarda le altezze del sommo cielo. Lassù le stelle, nell’armonia dei patti, serban la pace antica. Non l’ammantato sole di fiamme di Febea l’asse gelido intralcia. L’Orsa che volge dintorno al Polo, cima del mondo, rapide spire, ognora intatta dal mare occiduo dove gli altri astri vede tuffarsi, toccar non brama coi raggi l’acque. Ad or istesse, Espero sempre diffonde l’ombre crepuscolari, e l’almo giorno nunzia Lucifero. Così l’alterno amor gli eterni viaggia guida, e ognor bandisce discordia e guerra fuor da quei lidi. Tale armonia con giuste norme tempra le cose e fa che l’umide talora all’aride con util gara cedano e mescansi calde con fredde, giaccion sul peso le terre gravi, Sta in: ETTORE PARATORE, Letteratura latina, op. cit.; pp. 282-283.
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e in alto voli l’aerea fiamma. Per tai cagioni all’april tiepido l’anno fiorente manda profumi, l’estate fervida cuoce le messi, l’autunno fertile coi frutti e fertil pioggia versa l’inverno. Questa temperie produce e svolge tutte le vite dell’universo; dessa la crea, dessa le mena, e al giorno loro immerge in morte. Sublime intanto il Fattor siede, volge le redini, le cose regola, ei re, signore, fonte ed origene tegge, sapiente arbitro e giusto. Ei spinge i tardi degli enti al moto; arresta i rapidi, frena i vaganti; s’ei non chiamasseli nella via retta non costringesseli nelle curve orbite, quei che ora stabil ordin governa, del perno usciti, disfatti andrieno. Desso è il comune amor che tutti gli esseri bramano, è desso il bene: senza lui esistere lor non fia dato: vivon soltanto volti all’amore, alla cagione che lor diè vita.
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[...] Gli uomini sono felici quando ottengono la divinità. Coloro che ottengono la divinità divengono dèi. Quindi chiunque è felice è un dio, ma per natura c’è un solo Dio, e ce ne possono essere molti altri per partecipazione. La somma, l’origine e la causa di tutto ciò che vien cercato si pensa, giustamente, che sia la bontà. La sostanza di Dio non consiste in nient’altro che nella bontà. Può Dio fare il male? No. Quindi il male è il nulla, dato che Dio può far tutto»19. (Severino Boezio, De Consolatione philosophiae) Nel pensiero scolastico Severino Boezio riveste un ruolo particolare: è sulla base della filosofia del Boezio che Tommaso d’Aquino applicherà la definizione di persona alla nozione di Dio. Boezio definiva la persona “sostanza individua della natura razionale”. Questa definizione nella scolastica tenterà di sciogliere il dilemma dell’unicità di Dio nella distinzione trina.
Sta in: BERTRAND RUSSEL, Storia della filosofia, Tea, Milano 1997; pp. 360-
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Capitolo III
Il Dio dei cristiani
Sant’Agostino
Il cristianesimo dà un nuovo contributo al discorso teologico. Anzitutto è bene precisare che il cristianesimo poggia la sua dottrina sull’autorità delle Scritture, cui all’Antico Testamento ha aggiunto il Nuovo Testamento, il corpo degli evangeli, delle epistole paoline e cattoliche e l’apocalisse di Giovanni di Patmos. Come l’ebraismo il cristianesimo è una religione che si fonda sulla rivelazione: Dio si è rivelato agli uomini nella persona del suo unigenito figlio, Gesù Cristo. La nozione di Dio non perviene a giustificare la realtà o la causa di essa, Dio è identificato nel Padre amoroso che dona il suo Figlio per ricondurre a sé l’uomo caduto col peccato di Adamo. Nel cristianesimo esistono due concezioni parallele e al tempo stesso analoghe, l’umanesimo e la teologia. Esse si incontrano nell’incarnazione di Cristo, evento di portata storica. La natura di Dio e i suoi attributi sono desunti dalla Scrittura, e i padri apostolici ne hanno trattato con perizia. Uno tra i più noti è Agostino di Ippona. Nelle Confessioni, l’opera che compendia tutto il pensiero teologico di sant’Agostino
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(354-430) Dio viene descritto nei suoi attributi classici: immutabile, giusto, eterno ed immenso. A differenza del pensiero filosofico, i primi padri della chiesa, basandosi sui testi sacri, cercarono di spiegare il significato di tutta la rivelazione, nonché dei grandi misteri intorno a Dio, che per il cristianesimo è uno e trino allo stesso tempo. «Ed ecco, intravedo come in un enigma, la Trinità che se tu, o mio Dio, poiché tu sei Padre nel principio della nostra sapienza, che è poi la Sapienza nata da te e a te eguale e coeterna, ossia nel figlio tuo, creasti il cielo e la terra. E già ero giunto al concetto di Padre nel nome di Dio creatore, di Figlio nel nome del principio in cui ha creato: ma, nella mia fede nella Trinità, io la cercavo ancora nelle sue sante parole. Ed ecco: lo Spirito tuo si librava sopra le acque. Eccolo il mio Dio Trinità, Padre, Figlio, Spirito santo, creatore di tutto il creato». (Sant’Agostino, Confessioni) La novità che apporta sant’Agostino intorno a Dio si riferisce alla questione temporale, secondo cui Dio è fuori del tempo, in quanto immutabile ed eterno. Ma il tempo è qualcosa che è essenziale per il creato. «Che cosa è il tempo? Se nessuno me lo domanda lo so; ma se a chi me lo domanda io volessi spiegarlo, non lo so. Tuttavia, quel che posso dire con sicurezza di sapere è che, se niente passasse, non ci sarebbe il tempo passato; se niente dovesse venire non ci sarebbe il tempo futuro, e se niente ci fosse non ci sarebbe il tempo presente».
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(Ibidem) Il tempo dunque è per sant’Agostino distensione e misura dell’anima. Ci sono altri problemi che assillano il santo, il quale nella maturità scrive opere in aperta polemica con l’eresia dualistica manichea, che rifacendosi a quello che è il dualismo iranico, ponevano due entità in perenne conflitto che erano origine del bene e del male. Agostino puntualizza sulla unicità di Dio, ed elabora la teologia dell’origine del male: «Dio è buono, incomparabilmente migliore delle cose create; se non che egli buono, buone dovette crearle, e infatti vedi infatti come le circonda e le riempie. Ma allora dove è il male e da dove viene? Qual è la sua radice, quale ne fu il seme? Ovvero il male non esiste affatto? Di dove viene esso, una volta che Dio buono ha creato tutte queste buone cose? Egli, bene maggiore, anzi massimo, creò beni minori a lui, ma insomma creante e creati sono beni tutti quanti. Il male perciò non è una sostanza, perché se fosse una sostanza sarebbe un bene». (Ibidem) Dunque il male, secondo questa concezione, altro non è che privazione di bene. Si deve tenere presente che questo problema è risolto in modo polemico contro il dualismo iranico-manicheo.
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Dionigi Aeropagita
Dionigi Aeropagita è un personaggio misterioso. Ormai nessuno mette in discussione che egli non si deve identificare con il Dionigi che san Paolo cita nei suoi scritti. Visse tra il V e il VI secolo, dato che la sua attività si colloca tra il 425 e il 525. Autore fondamentale di teologia mistica, egli fu il primo e per molto tempo, autore cristiano che tentò di descrivere, con penetrazione ed acutezza, lo sviluppo della coscienza mistica e la natura dell’unione con Dio che essa consegue nell’estasi. Interessante è la esposizione dionisiaca dell’essenza di Dio, uno e trino, mediata attraverso l’esperienza empirica e mistica: «Nelle istituzioni teologiche abbiamo preso in considerazione le principali espressioni affermative che riguardano Dio e abbiamo mostrato in quale senso la Sacra Natura divina sia detta una e in quale senso sia detta trina; in quale senso si parli a proposito di tale natura, di Paternità e di Filiazione e che cosa indichi il termine spirito; in che modo dal Dio increato e invisibile procedano i benedetti e perfetti raggi della sua Divinità, i quali tuttavia rimangono immutabilmente uniti alla loro origine, a se stessi e gli uni agli altri, restando coeterni a con cui essi scaturiscono da tale fonte; in che modo il Gesù superessenziale entri in uno stato in cui assume
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la realtà della natura umana; e infine tutti gli altri argomenti resi noti dagli Oracoli, tutti esposti nello stesso testo. Inoltre, nel trattato sui Nomi Divini, abbiamo preso in considerazione, parlando di Dio, il significato di definizioni quali Bene, Essere, Vita, Sapienza, Potere, egli altri nomi consimili che gli vengono attribuiti; poi nella Teologia simbolica abbiamo preso in esame le definizioni metaforiche tratte dal mondo sensibile e riferite alla natura di Dio; quale sia il significato delle immagini materiali e intellettuali che ci formiamo di lui, e le funzioni e gli strumenti che Gli sono attribuiti; quali siano i luoghi in cui Egli dimora e le vesti di cui si adorna; che cosa si indichi parlando d’ira, dolore e indignazione di Dio, oppure di divina ebbrezza; che cosa significhino i giuramenti e le minacce di Dio, il Suo sonno e le Sue veglie, e tutte le rappresentazioni sacre e simboliche. E si sarà osservato quanto più copiose e lunghe siano le ultime opere rispetto alle prime, poiché la dottrina teologica e l’esposizione dei Nomi divini sono necessariamente più brevi di quelle della Teologia simbolica. Infatti, quanto più noi ci solleviamo nella contemplazione, tanto più limitate diventano le nostre rappresentazioni di ciò che è puramente intelligibile; così ora, penetrando nell’Oscurità che è al di sopra dell’intelletto, non ricorreremo semplicemente alla brevità dei discorsi, ma anche al silenzio assoluto, sia di pensieri che di parole. Pertanto, nel metodo affermativo, le nostre contemplazioni discesero dal più alto al più basso, abbracciando un numero di concetti che si accresceva a ogni stadio della discesa; ma, nel metodo presente, noi saliamo dal basso verso ciò che è più in alto, e così in base al grado di trascendenza, il nostro
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discorso si abbrevia, finché
finita l’ascesa, diventiamo completamente
muti, in quanto siamo assorbiti in Colui che è del tutto ineffabile. Affermiamo pertanto che la Causa universale e trascendente di tutte le cose non è né priva di essere né priva di vita, né priva di ragione, né priva di intelligenza; Essa non ha un corpo, né una forma né una figura né qualità né quantità né peso; Essa non è in un luogo, e non ha un’esistenza visibile o tangibile; non è sensibile e non è percepibile, non è soggetta a nessun disordine o perturbazione, e non è influenzata da nessuna passione terrena; non può essere indebolita dagli effetti di eventi o cause materiali; non ha bisogno di luce; non è soggetta a cambiamenti, a
corruzione, a divisione,
a privazione o a diminuzione; nessuna di queste cose sensibili può essere identificata o attribuita a Essa». (Dionigi Aeropagita, De mystica theologia)20
Sta in: F.C.HAPPOLD, Misticismo, studio e antologia, Roma, 1974; pp. 220-221
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Averroè
“Averroè o Ibn Rushd (1126-1198) visse all’estremità opposta del mondo musulmano. Studiò prima teologia e giurisprudenza, poi medicina, matematica e filosofia. Fu raccomandato al califfo Abu Yaqub Yusuf come persona capace di eseguire un’analisi delle opere di Aristotele. Aveva per Aristotele il rispetto che si può avere per il fondatore di una religione. Averroè sostiene che l’esistenza di Dio può essere dimostrata dalla ragione, indipendentemente dalla rivelazione, opinione sostenuta anche da Tommaso d’Aquino. Averroè pensa che la religione contenga delle verità filosofiche in forma allegorica”21; ebbe particolare fortuna per tutto il medioevo, soprattutto in ambiente accademico francescano e all’università di Parigi. Ecco quanto scrive sulla necessità di un essere eterno e immutabile, Dio: «Io dico: Se i filosofi hanno introdotto nella realtà l’essere eterno, dal lato temporale secondo questo tipo di argomento, cioè se essi hanno ammesso che il temporale in quanto temporale procede da un essere eterno, non vi dovrebbe essere alcuna possibilità per loro di sfuggire alle difficoltà in questo problema. Ma voi dovete capire che i filosofi concedono l’esistenza di un temporale che provenga da un temporale all’infinito in modo accidentale quando questo si ripete in una maniera finita e limitata -quando, per esemBERTRAND RUSSEL, Storia della filosofia, op. cit. pp.410-411.
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pio, la corruzione di una tra le due cose diventa necessaria condizione per l’esistenza dell’altra-. Per esempio, secondo i filosofi è necessario che l’uomo sia prodotto dall’uomo a condizione che il primo uomo perisca per diventare la materia atta alla produzione di un terzo. Per esempio, noi dobbiamo pensare a due uomini di cui il primo produce il secondo dalla materia di un uomo che perisce; quando il secondo diventa egli stesso un uomo, il primo perisce, quindi il secondo uomo produce un terzo uomo dalla materia del primo, e quindi il secondo perisce e il terzo produce da questa materia un quarto, e così noi possiamo pensare in due materie un’attività che continui all’infinito senza che vi sia alcunché di assurdo. E questo succede fino a quando dura l’agente e se quest’agente non ha né un inizio né una fine nella sua esistenza, la sua attività non ha né inizio né fine nella sua esistenza, come è stato spiegato prima. E nello stesso modo potete immaginare che questo sia successo nel loro passato: quando un uomo esiste, vi deve essere stato prima di lui un uomo che lo abbia prodotto e un uomo che sia perito, e prima di questo secondo uomo, un uomo che lo abbia a sua volta prodotto e un uomo che sia perito, perché tutto ciò che è prodotto a questo mondo è, qualora dipenda da un agente eterno, di natura circolare, tale che nessuna totalità possa essere ottenuta. Se, d’altra parte, un uomo fosse prodotto da un altro uomo a partire da infinite materie, oppure se vi fosse un’infinita addizione di esse, si sarebbe nell’assurdo, perché allora potrebbe sorgere una materia infinita e vi potrebbe essere un tutto infinito. Perché se un tutto infinito, a cui le cose fossero aggiunte all’infinito senza che alcuna corruzione avesse luogo in esso, è già esistito, un tutto infinito potrebbe venire ad esistere, come Aristotele ha provato nella sua Fisica. Per questa ragione gli antichi introdussero un
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essere eterno, assolutamente immutabile, avendo in mente non esseri temporali, procedenti da lui in quanto esseri temporali, ma esseri procedenti da lui in quanto genericamente eterni, ed essi sostennero che questa serie infinita è la conseguenza necessaria di un agente eterno, perché il temporale per la propria esistenza abbisogna di cause temporali. Ora vi sono due ragioni per cui gli antichi introdussero l’esistenza di un essere eterno e numericamente unico, che non subisca alcun cambiamento. La prima è che essi trovarono che questo essere ciclico è eterno, perché scoprirono che l’individuo presente è prodotto dalla corruzione del suo predecessore e che la corruzione di questo individuo precedente implica la produzione di uno che lo segue, e che è necessario che questo continuo cambiamento proceda da un motore eterno e da un corpo eternamente mosso, che non cambi nella sua sostanza, ma che cambi solo di luogo per quanto concerne le sue parti, che si accosti ad alcune cose transitorie e si allontani da altre, e che questo è la causa della corruzione di una metà di loro e della produzione dell’altra metà. E questo corpo celeste è l’essere che cambia solo di luogo e non subisce altro genere di cambiamento, ed è attraverso le sue attività temporali la causa di tutte le cose temporali; ed a causa della continuità delle sue attività, che non hanno né inizio né fine. La seconda ragione, per cui essi introdussero un essere eterno assolutamente senza corpo e materia, è che essi trovarono che tutti i tipi di movimento dipendono dal movimento spaziale, e che il movimento spaziale dipende da un essere mosso essenzialmente da un primo motore assolutamente immobile, sia essenzialmente che accidentalmente, altrimenti esisterebbe nello stesso tempo un numero infinito di motori mossi, e questo è impossibile. È necessario che il primo motore sia eterno, o altrimenti esso non sarebbe il
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primo. Ogni movimento quindi dipende da questo motore, e dal suo mettere in movimento essenzialmente e non accidentalmente. Questo motore esiste simultaneamente a ciascuna cosa mossa e nel tempo del suo movimento, perché un motore esistente, prima della cosa mossa
-come un uomo che
produce un uomo- mette in movimento solo accidentalmente e non essenzialmente. (Averroè, Confutazione della confutazione)22
Sta in SERGIO MORAVIA, Educazione e Pensiero, vol. I, Le Monnier, Firenze 1985; pp. 362-363. 22
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XI-XIII secolo La scolastica: sant’Anselmo, san Bonaventura san Tommaso
La scolastica diede un notevole contributo alla disquisizione teologica. Essa si occupò di dimostrare con i più svariati argomenti l’esistenza di Dio ora con più o minor successo ed entusiasmo. Se il più noto degli scolasti in campo teologico fu Tommaso d’Aquino (12261274), non minore è l’importanza data da Anselmo da Aosta (1033-1109), o da Bonaventura (1221-1274). Sant’Anselmo dimostra l’esistenza di Dio con tre prove a posteriori, argomentazioni che muovono dagli effetti, dalle conseguenze. Questa operazione è descritta nel Monologio, soliloquio, o meditazione intorno a Dio e ai suoi attributi. Nel Proslogio, preghiera rivolta a Dio, egli utilizza una prova a priori, dando origine all’argomento ontologico, secondo cui l’esistenza di Dio è dedotta dalla idea stessa di Dio. Le argomentazioni a posteriori si avvolgono dei seguenti assunti: limitatezza delle cose; contingenza delle cose e il paragone assoluto è Dio: «Tutte quelle cose che diciamo giuste, o in misura eguale, o maggiore, o minore, non possono intendersi tali se non per mezzo della giustizia, che non muta in se stessa per mutare di cose. Dunque essendo certo che tutte le
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cose buone, se si paragonano fra loro, sono egualmente o inegualmente buone, è necessario che siano buone per qualche essere che si concepisce come il medesimo nelle diverse cose buone. Ne consegue che tutti gli altri beni esistono in causa di un altro, che esiste per se stesso, e che è il sommo Bene. Tutto ciò che è, o è per virtù di qualche cosa o per virtù di nulla. Ma nulla è dal nulla. Non si può pensare infatti che vi sia qualche cosa che non sia per qualche cosa. È necessario ammettere l’esistenza di una forza o natura esistente per virtù propria da cui quegli esseri traggono l’essere per sé. Se qualcuno consideri la natura delle cose, si avvede che non tutte sono eguali in dignità, ma che le distingue diversità di gradi. Poiché dunque non si può negare che fra le nature ci siano di quelle che devono considerarsi migliori di quelle di altre, dovremo essere più che persuasi che una fra esse sia di tanto superiore da non essere superata da alcun’altra». (Sant’Anselmo, Monologio) L’argomento a priori si avvale dell’assunto secondo cui l’idea di Dio è la migliore e perfetta che possa essere pensata. Dio e la sua esistenza, dunque, coincide con la stessa idea di Dio. «Anche lo stolto si deve convincere che almeno nell’intelletto c’è qualcosa di cui non si può pensare il maggiore, dal momento che udendo questo, lo intende, e che tutto ciò che si intende è nell’intelletto. Se esiste anche solo nell’intelletto, si può pensare come esistente nella realtà: il che è qualcosa di più. Se quindi l’essere di cui non si può pensare il maggiore sarebbe anche quello di cui si può pensare il maggiore: ma questo è contraddittorio. Perciò senza dubbio esiste un essere di cui non si può pensare il
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maggiore, ed esiste nell’ordine intellettuale e nell’ordine reale. Dio è l’ente di cui non si può pensare il maggiore. Chi bene intende questo, intende anche che Dio è tale che non può neppure essere pensato come non esistente. Chi perciò ha capito che Dio è così, non può neppure pensare che egli non esista». (Sant’Anselmo, Proslogio) L’itinerario spirituale ed interiore di san Bonaventura, porta il santo ad accettare l’argomento ontologico di sant’Anselmo, ma Bonaventura precisa che oltre all’idea di Dio nell’uomo è presente Dio stesso, e questa diviene prova dell’esistenza di Dio, come il santo scrive commentando le sentenze di Pietro Lombardo: «Luce dell’anima è la verità, e questa luce non conosce tramonto. Ché così fortemente s’irradia sull’anima, che l’uomo non potrebbe neppure pensare o dire che essa non esiste, senza cadere in contraddizione». Tommaso d’Aquino nacque a Roccasecca, nei pressi di Napoli, nel 1224, figlio del conte Landolfo d’Aquino, imparentato con la famiglia imperiale di Hohenstaufen. Dopo aver studiato a Napoli le arti liberali, Tommaso, contro il volere della famiglia, decise di entrare nell’Ordine domenicano. Proseguì, poi, gli studi di teologia, a Colonia, sotto la direzione di Alberto Magno, e completò la sua formazione nella celebre università di Parigi, dove, nel
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1257, ottenne il titolo di “Magister” insieme al francescano S. Bonaventura da Bagnoregio. Tommaso iniziò da quel momento la sua lunga carriera di insegnante di teologia, prima a Parigi poi, dopo il 1260, alla corte papale ed all’università di Napoli. Contemporaneamente scrisse moltissimo: commenti all’Opera di Aristotele, e le “Quaestiones” su argomenti di fede e le “Summae”. La “Summa Theologiae”, rimasta incompiuta, costituisce la più completa sistemazione del pensiero teologico cristiano su solide basi aristoteliche. L’opera di Tommaso d’Aquino fu di fondamentale importanza per la cultura dei secoli XIII e XIV, soprattutto per il problema aperto e lungamente dibattuto del rapporto tra fede e ragione. Egli
respinse
dall’averroismo
tenacemente latino,
un
la
teoria
movimento
della estremo
doppia
verità
proposta
di
pensiero
ispirato
all’aristotelismo radicale ed incurante dell’ortodossia cattolica, rappresentato, nell’università di Parigi, dall’insegnante Sigieri di Brabante negli anni intorno alla metà del secolo XIII. La verità per Tommaso è una, pur se l’indagine della verità della ragione è il presupposto per raggiungere la verità della fede: la filosofia, dunque, indaga con procedimenti razionali e sostenuta da princìpi evidenti e dimostrabili, mentre la fede procede dalla illuminazione divina. La filosofia era giunta al suo apogeo con
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il pensiero di Aristotele: il compito che si assunse Tommaso fu quello di integrare e completare l’Aristotelismo con le acquisizioni della fede. Nell’abbazia cistercense di Fossanova, Tommaso morì nel 1274, mentre si recava, su incarico del papa, al concilio di Lione: circolò la voce, non confermata da prove, che fosse stato avvelenato dai sicari di Carlo I d’Angiò. Nel 1323 papa Giovanni XXII lo canonizzò, mentre Pio V lo dichiarò Dottore della Chiesa con l’appellativo specifico di “Doctor Angelicus”. Il razionalismo di Tommaso d’Aquino mette in discussione la prova ontologica dell’esistenza di Dio, poiché Tommaso afferma che la mente umana è limitata per poter comprendere l’essenza infinita e perfetta di Dio, inoltre egli afferma che questa idea deve essere dimostrata: «La preposizione Dio è in sé presa è nota per sé, perché il predicato è identico al soggetto. Dio infatti è lo stesso suo essere. Ma poiché noi non sappiamo che cosa sia Dio, la proposizione suddetta, non è nota per sé a noi, ma ha bisogno d’essere dimostrata». (San Tommaso, Somma teologica) Tommaso dunque parte dagli effetti per dimostrare l’esistenza di Dio, tramite cinque prove a posteriori. «Quel che si muove, è ovviamente mosso da una forza esterna. Ora se anche il motore si muove anch’esso per necessità deve essere mosso da un altro motore; e questo da un altro ancora. Ora non è concesso procedere
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così all’infinito. È dunque necessario giungere ad un motore primo, non mosso da altri. Nel motore primo tutti riconoscono Dio [prima via]. La seconda via deriva dalla nozione di causa efficiente. Nell’ordine delle cause efficienti non si può procedere all’infinito. È perciò necessario porre una causa efficiente prima che tutti chiamano Dio [seconda via]. Esistono cose che possono essere e non essere: si generano e si corrompono; ciò testimonia che possono esistere o non esistere. Ma è certo che non tutti gli enti sono possibili: occorre ammettere un ente necessario. Bisogna ammettere un ente necessario, il quale non abbia da altri la causa della sua necessità e sia invece la causa della necessità altrui. Questo ente necessario tutti chiamano Dio [terza via]. Nelle cose vi sono gradi maggiori o minori di bene, di vero, di nobiltà. Vi è dunque ciò che è supremamente vero, ottimo, nobile e per conseguenza Essere supremo. Esiste dunque, ciò che è causa dell’essere di tutti gli esseri, e causa di bontà e di ogni perfezione, noi lo chiamiamo Dio [quarta via]. Le cose prive di pensiero non possono tendere ad un fine se non sono dirette da un altro essere, dotato di conoscenza e di intelligenza. C’è allora un essere intelligente da cui tutte le cose della natura sono ordinate a un fine. Questo essere diciamo Dio [quinta via]». (Ibidem) Tommaso ammettendo che la realtà è mossa da Dio, l’ente immobile eterno ed immutabile, attribuisce a Dio la provvidenza, cioè il provvedere di Dio al sostentamento del creato, e all’infusione del bene nelle creature; infatti Tommaso afferma: “...dipendono dalla Provvidenza divina tutte le cose non solo per ciò che
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riguarda le specie universali, ma anche in rapporto ai casi e agli individui concreti” -Ibidem-. Interessante è pure il discorso dell’Aquinate intorno al rapporto che intercorre fra Dio le creature: «È impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle sue creature univocamente. Poiché ogni effetto che non è proporzionato alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell’agente, non secondo la stessa natura, ma imperfettamente; in maniera che quanto negli effetti si trova diviso e molteplice, nella causa è semplice e uniforme; così il sole mediante un’unica energia produce nelle cose di quaggiù forme molteplici e svariate. Allo stesso modo, come si è detto, tutte le perfezioni delle cose, che nelle creature sono frammentarie e molteplici, in Dio preesistono in semplice unità. Così, dunque, quando un nome che indica perfezione si applica a una creatura, significa quella perfezione come distinta da altre, secondo la nozione espressa dalla definizione: per esempio, quando il termine “sapiente” lo attribuiamo all’uomo, indichiamo una perfezione distinta dall’essenza dell’uomo, e dalla sua potenza e dalla sua esistenza e da altre cose del genere. Quando, invece, attribuiamo questo nome a Dio, non intendiamo indicare qualche cosa di distinto dalla sua essenza, dalla sua potenza o dal suo essere. Per conseguenza applicato all’uomo “sapiente” circoscrive in qualche modo, e racchiude la qualità che esprime; non così se applicato a Dio, ma lascia [in tal caso] la perfezione indicata senza delimitazione e nell’atto di oltrepassare il significato del nome. Quindi è chiaro che il termine “sapiente” si dice di Dio e dell’uomo non secondo l’identico
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concetto [formale]. E così di tutti gli altri nomi. Perciò nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alla creature. Ma neanche in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Perché in tal modo niente si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle creature; ma si cadrebbe continuamente nel sofisma chiamato “equivocazione”. E ciò sarebbe in contrasto sia con i filosofi, i quali dimostrano molte cose su Dio, sia con l’Apostolo23, il quale dice “le perfezioni invisibili di Dio, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili”. Si deve dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e delle creature secondo analogia, cioè proporzione. E ciò avviene in due maniere: o perché più termini dicono ordine a un termine unico [originario e inderivato] -come “sano” si dice della medicina e dell’orina, in quanto che l’una e l’altra dicono un certo ordine e un rapporto alla sanità dell’animale, questa come indice, quella come causa- oppure perché presenta rispondenza o proporzione con un altro, come “sano” si dice della medicina e dell’animale, in quanto la medicina è causa della sanità che è nell’animale. E in tal modo alcuni nomi si dicono di Dio e delle creature analogicamente, e non in senso puramente equivoco, e neppure univoco. Infatti noi non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature, come più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque termine si dica di Dio e delle creature, si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio, come a principio o causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose. E questo modo di comunanza sta in mezzo tra la pura equivocità e la semplice univocità, perché nei nomi detti per analogia non vi è una nozione San Paolo.
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unica come negli univoci, né totalmente diversa, come negli equivoci; ma il nome che analogicamente si applica a più diverse proporzioni riguardo a una medesima cosa: così “sano” detto dell’orina indica il segno della sanità; detto della medicina significa la causa della stessa sanità» (San Tommaso, Somma teologica)24
Sta in SERGIO MORAVIA, Educazione e Pensiero, op. cit.; pp. 391-392.
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Capitolo IV
Il Dio dei filosofi
Il Quattrocento La Docta ignorantia di Nicola Cusano
Il Quattrocento vide il fiorire di una nuova concezione filosofica, improntata verso la figura umana nel suo insieme specifico: è il periodo dei grandi umanisti, e della corrente chiamata Umanesimo, che si contrappone al periodo precedente, per rivendicare il primato dell’uomo sul metafisico. Naturalmente la filosofia subisce questo nuovo corso, così come le formulazioni centrate sui problemi più spinosi. Nel pensiero di Nicola Cusano (1401-1464) il platonismo occupa un posto preminente. Cusano concepisce Dio come l’essere infinito che ha in sé la perfezione di tutte le cose, e per contro egli formula una teologia negativa (vicina alle posizioni di sant’Agostino) affermando che di Dio si può dire ciò che egli non è. Dunque in antitesi con gli scolasti, Cusano afferma che Dio è inconoscibile. «Dio che è unità semplicissima, esistendo nell’unico universo, esiste per conseguenza, mediante l’universo, in tutte le cose, e la pluralità delle cose, mediante l’universo, esiste in Dio.
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Non vi può essere che un solo massimo di tutti i massimi: massimo è ciò a cui nulla si oppone, dove quindi anche il minimo è massimo. Dunque l’unità infinita è la implicazione di tutte le cose: ed essa si dice unità perché unifica tutto, e non solo essa è implicazione massima come l’uno lo è del numero ma è massima perché è implicazione del tutto. E come nella serie dei numeri, in quanto sono esplicazione dell’uno, non si trova che l’uno, così in tutte le cose che sono non si trova che il massimo. Uno si può dire anche il punto in rapporto alle grandezze, le quali non sono che esplicazioni di tale uno, ed infatti nelle grandezze non si trova che il punto. Se tante difficoltà si oppongono al nostro desiderio di sapere è chiaro che, perché non può essere vano il desiderio di sapere insito in noi, ciò che noi desideriamo sapere è non sapere. E se potremo pienamente raggiungere questo scopo conquisteremo una “dotta ignoranza”. Tanto più uno sarà dotto, quanto più saprà di essere ignorante. La sacra ignoranza ci mostra che Dio è ineffabile, perché egli è infinitamente più grande di tutto ciò che può esser nominato, essendo egli somma verità. Né di lui possiamo parlare in modo più appropriato, rimuovendo o negando, che non aggiungendo o affermando. Infatti se lo chiami verità, richiami l’idea opposta alla falsità, se lo chiami virtù, quella del vizio; se lo chiami sostanza, quella dell’accidente, e così via». (Nicola Cusano, Dotta ignoranza)
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Il Cinquecento
Il XVI secolo è contrassegnato da uno scisma nel cuore dell’Europa cattolica: forte della nuova cultura umanistica, che desta le coscienze, si sollevano spiriti che mettono in seria discussione la teologia e l’operato politico e morale della sede apostolica. La teologia mistica dei riformatori ha poco a che vedere con la filosofia, Lutero dice chiaramente che la filosofia “non comprende nulla delle cose di Dio”25, rivendicando con autorità un passo della lettera ai Corinzi 26. Le asserzioni di Lutero risiedono essenzialmente sulla sua scarsa considerazione di servirsi della ragione per giungere a trattare di Dio, difatti nel commento al Genesi arriva persino a sostenere che “Essa è e dovrebbe essere relegata nella parte più sudicia della casa, la latrina”27. Sostanzialmente l’indagine teoretica su Dio non occupa molto spazio nei riformatori tedeschi di questo periodo, tuttavia la riforma dei costumi monastici la si ebbe in più parti in seno a vari ordini religiosi. In Spagna, assistiamo alla riforma dell’ordine carmelitano ad opera di santa Teresa di Gesù e di san Giovanni della Croce, che nei loro scritti trattarono saCfr. LUTERO, tabellata (trad. ingl.di W.Hazlitt), Philadelphia 1915, XLVIII È quello che Lutero prende in esame un passo di 1Cor 2:11, in cui san Paolo dice:“ ”. [Nessuno infatti conosce un uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui. Così anche 25
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Dio nessuno lo ha mai conosciuto se non lo spirito di Dio -trad. personale-]
LUTERO, Commentary on Genesis (trad. ingl. di H. Cole), Edimburgo 1958, p. 90
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pientemente dell’essenza di Dio grazie alle esperienze mistiche vissute in prima persona, e di questi mistici parleremo in seguito.
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L’infinito descritto da Giordano Bruno
L’importanza data dal pensiero di Giordano Bruno (1548-1600) consiste nella separazione, a livello speculativo, nel considerare il Dio descritto dal cristianesimo. Infatti Dio non è per Bruno né il motore immobile aristotelico, ma neppure il Dio della Scrittura. La filosofia di Bruno sarà ripresa con particolare attenzione da Spinoza. Dio è definito Mens super omnia e Mens insita omnibus, Dio, cioè trascende l’universo, e per questo è inaccessibile alla ragione umana, e solo nella natura l’uomo può cogliere e scoprire le vestigia di Dio. « TEO. Giudicate voi. Possete quindi montar al concetto, non dico del summo et ottimo principio escluso della nostra considerazione: ma dell’anima del mondo, come è atto di tutto, e potenza di tutto, et è in tutto: onde al fine (dato che sieno innumerevoli individui) ogni cosa è uno, et il conoscere questa unità è il scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali. Lasciando nè sua termini la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale a chi non crede, è impossibile e nulla. DICS. È vero perché se vi monta per lume soprannaturale, non naturale[.] TEO. Questo non hanno quelli che stimano ogni cosa esser corpo, o semplice come lo etere, o | composto come li astri, e cose astrali: e non cercano la divinità fuor de l’infinito mondo, e le infinite cose: ma dentro questo et in quelle. DICS. In questo solo mi par differente il fedele teologo dal vero filosofo».
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(Giordano Bruno, De la causa et principio uno, dialogo IV)28 E inoltre: «TEO. L’intelletto universale è l’intima, più reale e propria facultà e parte potenziale de l’anima del mondo [.] Questo è uno medesimo, che empie il tutto, illumina l’universo et indirizza la natura a produrre le sue specie come si conviene, cossì ha rispetto alla produzzione di cose naturali: come il nostro intelletto alla congrua produzione di specie razionali. Questo è chiamato dai Pitagorici motore et esagitator del universo come esplicò il poeta che disse Totamque infusa per arctus, Mens agitat molem, et toto se corpore miscet29. Questo è nomato da Platonici fabro del mondo. Questo fabro (dicono) procede dal mondo superiore (il quale è a fatto uno) a questo mondo sensibile che è diviso in molti, ove non solamente l’amicizia, | ma anco la discordia, per distanza delle parti vi regna. Questo intelletto, infondendo e porgendo qualche cosa di suo nella materia, mantenendosi lui quieto et immobile produce il tutto. (Giordano Bruno, De la causa et principio uno, dialogo II)30. Nel V dialogo Giordano Bruno affronta l’essenza divina dandole l’attributo di mente: «TEO. [...] La prima intelligenza in una idea perfettissimamente comprende il tutto. La divina mente, e la assoluta unità, senza specie alcuna è ella medesimo che lo intende, e lo che inteso. Cossì dunque montando noi GIORDANO BRUNO, De la causa et principio uno,a cura di Giovanni Aquilecchia, Einaudi, Torino,1973; pp.134-135. 29 «Una mente, infusa per gli arti, agita tutto e si unisce al grande corpo». Eneide VI, 726-727; trad. personale. 30 Giordano Bruno, De la causa et principio uno, op. cit.; p.67. 28
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alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine, come descendendosi alla produzzione de le cose, si va esplicando l’unità». (Giordano Bruno, De la causa et principio uno, dialogo V)31
Ivi, p.154.
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L’essenza di Dio nella ricerca mistica
Ritengo utile, fare una parentesi su Teresa di Gesù e di Giovanni della Croce, religiosi dell’ordine del Carmelo, in quanto questi mistici spagnoli sono considerati i più grandi teologi di mistica, ed il loro apporto alla teologia speculativa su Dio ha avuto, e tutt’oggi ha, una grande importanza. Teresa de Ahumada y Cepeda, in religione Teresa di Gesù, nacque nel 1515 e morì nel 1582. Fu una scrittrice assai versatile e prolifica e il Castello interiore (opera nota anche con anche con il nome di Mansioni o Moradas) è l’opera mistica in cui Dio è il protagonista assoluto della scrittura. Il linguaggio della tradizione teresiana, come del resto di ogni mistico, è basato su alcuni elementi che possiamo sintetizzare nel binomio metafore e simboli32; in Mansioni I, 2:1 si ha la definizione di Dio come di acqua viva, flusso vitale che feconda; anche il demonio è descritto come la mala fuente33. Ecco quanto la Santa scrive di Dio, e sulla sua presenza nelle cose: «Paragonerò la Divinità ad un nitidissimo diamante molto più grande dell’universo, oppure allo specchio dell’anima di cui ho parlato nella viPer il simbolismo vedi G. CHIAPPINI in, Figure e simboli nel linguaggio mistico di Teresa de Ávila: le Moradas del Castillo interior, Quadrivium, Genova, 1987 33 Per quanto riguarda la fonte esegetica è fuor di dubbio che Teresa conosca quella agostiniana: l’acqua è simbolo dell’essere vitale di Dio. Dio è fonte (cfr. il paragone della fonte e dei due catini in Mansioni IV 2:2), 32
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sione precedente, ma molto più splendido, superiore a ogni possibile descrizione. Ogni nostra azione si riflette nel diamante perché esso racchiude ogni cosa, e nulla può essere al di fuori della sua ampiezza. (Teresa d’Avila, Vita, 40:10)34 È altrettanto rilevante il pensiero teologico di Giovanni della Croce (15421591) il quale non è lontano dalla linea di pensiero di Teresa d’Avila, sebbene il linguaggio giovanneo risulta a tratti aspro. È utile chiarire che negli autori di teologia mistica Dio non occupa il posto solo in relazione alla sua essenza, ma è strettamente connesso alla intima partecipazione della divinità con la creatura umana. San Giovanni afferma che l’inconoscibilità di Dio è data dalla nostra limitatezza35: «La conoscenza vera [di Dio] si ha quando si conosce essenzialmente. Essa è confusa e oscura per l’intelletto perché è notizia di contemplazione, la quale come afferma S. Dionigi36, per l’intelletto è raggio di tenebra. Per questo quale è l’intelligenza nell’intelletto, tale è l’amore nella volontà e quindi, poiché la notizia infusa da Dio nell’intelletto è generale oscura e indistinta, così anche l’amore della volontà sarà generico e privo di distin-
TERESA di GESÙ, Vita, in Opere, Postulazione Generale O.C.D., Roma, 1985; p.426. 35 Questa conoscenza è intesa sia in senso razionale che mistico 36 Pseudo-Aeropagita, De Mystica Theologia, c. I, § I- MG 3,999 34
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zione nei confronti di qualche cosa appresa in modo particolare». (Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore B)37
GIOVANNI della CROCE, Fiamma viva d’amore B, in Opere, Postulazione Generale O.C.D., Roma, 1991; p.802-803. 37
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Tommaso Campanella
Tommaso Campanella (1568-1639) riunisce nel suo sistema filosofico elementi di scuole diverse che non sempre riesce a sintetizzare in modo coerente. La sua indagine filosofica è incentrata sul tema della conoscenza della realtà, ma oltre a questo Campanella arriva a trattare della religione, e pur non affermando delle grandi novità, egli intuisce la sostanziale differenza tra la religione professata e la religione naturale, una sorta di istinto religioso insito nel codice genetico degli uomini. «Se le idee non fossero, Dio non avrebbe fatto le cose con certezza di modi e di forme; né le cose imprimerebbero nel nostro intelletto la similitudine di se stesse. Animale o uomo universale non si dà certo in natura, ma è idealmente perché c’è l’idea sul cui modello son fatti gli animali. Pertanto la definizione dell’uomo come animale razionale è fatta per mezzo di princìpi ideali che sono anche nell’intelletto divino primo artefice di tutte le cose, nel quale il nostro intelletto li contempla. Non c’è uomo che non si accorga che la generazione, l’alterazione, la corruzione dei viventi, le stagioni dell’anno, i mutamenti dell’aria, del mare e della terra, vengano dai due luminari (sole e luna) e dalle stelle. E, poiché ogni cosa che quaggiù si fa dipende da tali mutazioni, è forza di dire che Dio pose nelle stelle le leggi e gli ordini di quanto avviene tra le creature corporali.
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E poiché l’essere di tutti gli enti è in ragione del loro principio, ne deriva che essi si sforzano di ritornare a quel principio come le parti verso il tutto in cui si conserva tutta l’Entità e la Universalità della sua Entità. Questa reversione è la religione di tutte le cose, poiché di nuovo esse si ricollegano al proprio principio». (Tommaso Campanella, Metafisica)
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Il Seicento René Descartes
Il razionalismo, indirizzo di pensiero che pone la ragione quale fondamento di ogni conoscenza, vede il problema dell’esistenza di Dio, e in generale le questioni metafisiche sono analizzate in modo scientifico, poiché le percezioni metafisiche, ricavate dalle esperienze sensibili, hanno origine dalle stesse idee innate, che permettono la conoscibilità di Dio dell’anima e del mondo. In questa corrente di pensiero opera Descartes, Cartesio, (1596-1650) il quale in più di un’occasione ha trattato di Dio, della sua conoscibilità e dei dubbi che ad esso sono legati. È il dubbio, cioè la ricerca della evidenza, l’aspetto negativo del metodo cartesiano, dubbio che diviene lo strumento della ricerca della verità. «Supporrò che vi sia non un vero Dio, fonte suprema di verità, ma un genio maligno, non meno astuto e ingannatore che potente, il quale si adoperi con tutta la sua astuzia per ingannarmi. In passato ho accolto ed ammesso come certe manifeste parecchie cose, che dopo ho riconosciuto dubbie ed incerte. Se io ho poi giudicato che si poteva dubitare di queste cose, è stato solo perché mi è venuto in mente che forse qualche Dio mi aveva dato una natura tale che io mi ingannassi anche nelle cose che mi sembrano più evidenti. Io devo dunque esaminare se v’è un Dio; e se trovo che ve n’è uno, devo anche esaminare se può essere in-
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gannatore; poiché, senza la conoscenza di queste due verità, non vedo la possibilità d’esser mai certo di qualche cosa». (René Descartes, Meditazioni) Cartesio per giungere alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, impiega un ragionamento che si divide in percorsi, che argomentano
tre prove circa
l’esistenza di Dio: «In seguito a ciò [sul metodo e la ricerca della verità], riflettendo sul fatto che io dubitavo, e che chiaramente vedevo essere maggiore perfezione il conoscere del dubitare, per cui l’esser mio non era del tutto perfetto, mi proposi di cercare donde avessi appreso a pensare a qualche cosa di più perfetto ch’io non fossi; e conobbi con evidenza che doveva essere da una natura realmente più perfetta di me. Dei pensieri riguardanti le molte e varie cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore e mille altre, non mi preoccupavo molto di sapere donde mi fossero venuti, perché non notando in essi nulla che sembrasse renderli superiori a me, potevo ritenere che, se veri dipendessero da me in quanto la mia natura aveva qualche perfezione; se falsi, mi venissero dal nulla, ossia fossero in me per quel che in me era di manchevole. Ma lo stesso non poteva essere per l’idea 38 di un essere più perfetto del mio, poiché derivarla dal nulla era cosa manifestamente impossibile; e d’altra parte, poiché a voler fare dipendere il più perfetto dal meno perfetto non v’è minore difficoltà che dal nulla ricavar qualcosa, io non la potevo derivare neppure da me stesso. Essa doveva dunque esser stata messa in me 39 da una Qui si intende per idea il pensiero puro. Cartesio si avvicina molto alla via seguita da Sant’Agostino, sulla via dell’interiorità spirituale dell’uomo. 38
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natura realmente più perfetta di me, e tale, anzi, che avesse in sé tutte le perfezioni di cui io potevo avere qualche idea, cioè, per dirla con una parola sola, che fosse Dio». (René Descartes, Discorso sul metodo)40 «Se io fossi un essere indipendente da ogni altro e fossi l’autore di me stesso, non avrei più né dubbi né desideri, né mi mancherebbe alcuna perfezione; ma avrei dato a me stesso tutte le perfezioni di cui ho l’idea e sarei io stesso Dio». (Descartes, Meditazioni)
«È evidente che quell’essere, che conosce qualcosa di più perfetto di se stesso, non deriva da sé, perché altrimenti avrebbe dato a se stesso tutte le perfezioni di cui ha l’idea; e che perciò esso non può derivare da qualcosa che abbia in sé tutte le perfezioni cioè da qualcosa che non sia Dio stesso». (René Descartes, Princìpi di filosofia)
Io vedevo bene, che considerando un triangolo, bisognava che i suoi tre angoli interni fossero uguali a due retti, ma non vedevo niente che mi desse garanzia che vi fosse al mondo alcun triangolo; laddove tornando ad esaminare l’idea che io avevo di un essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa nella stessa maniera che è compreso nell’idea di un triangolo in cui i suoi tre angoli interni sono uguali a due retti. La ragione per la quale molti trovano difficoltà nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, così come in quella dell’essenza della loro anima, è RENÉ DESCARTES, Discorso sul metodo, a cura di Armando Carlini, Laterza, Bari, 1987; pp. 85-87. 40
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che essi non elevano mai la loro mente al di là delle cose sensibili, e sono talmente
abituati
a
non
considerare
nulla
se
non
per
mezzo
dell’immaginazione (ch’è una maniera di pensare propria per le cose materiali), che tutto quel che non è immaginabile neppure sembra a loro intelligibile. Persino i filosofi scolastici tengono come massima che non v’è nulla nell’intelletto che non sia stato prima nel senso». (René Descartes, Discorso sul metodo)41
Ivi; pp. 91-92.
41
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Blaise Pascal
Pascal (1623-1662) nella sua breve vita rivolse particolare attenzione allo studio della interiorità dell’uomo; egli accoglie le teorie cartesiane ed il sentimento religioso dei giansenisti, sebbene se ne distacchi in alcuni punti. Con il giansenismo, Pascal sostiene che l’attuale posizione dell’uomo derivi dalla colpa di Adamo contro Dio, e il modo per ovviare la colpa è la conquista della fede. Per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, Pascal sostiene che il ragionamento matematico è inutile, occorre la fede. Secondo Pascal credere in Dio è una scommessa ed un rischio (fatto completamente nuovo nella storia del pensiero teologico): «Bisogna scommettere. Questa non è una cosa volontaria; voi siete imbarcato. Quali dei due sceglierete? Vediamo. Poiché bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa meno. Voi avete da perdere due cose: il vero e il bene; e due cose da impegnare: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l’errore e la miseria. La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno piuttosto che l’altro, perché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto assodato. Ma la vostra beatitudine? Valutiamo il guadagno e la perdita, scegliendo croce, cioè l’esistenza di Dio. Esaminiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete non perdete
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nulla. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare». (Blaise Pascal, Pensieri) Pascal fu tra i primi a usare il termine deismo contrapponendolo a cristianesimo, ritenendo il deismo inaccettabile, nella sua considerazione di Dio, per il cristiano.
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Benedetto Spinoza
Benedetto Spinoza (1632-1677) esaminò il concetto di sostanza formulato da Cartesio, e conclude che questo attributo è riferibile solo a Dio. Dio per Spinoza risulta avere una essenza increata, infinita ed unica, che si riassume nel motto Deus sive Natura, in quanto Dio e la natura si identificano. «Intendo per Dio l’ente assolutamente infinito, ossia una sostanza che consista di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime l’essenza eterna ed infinita. Intendo per attributo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente della sua stessa essenza. Il pensiero è un attributo di Dio, cioè Dio è cosa pensante: l’estensione è un attributo di Dio, cioè Dio è cosa estesa. Per sostanza intendo ciò che è in sé e per sé e per sé viene concepito, ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba venir formato. Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può venir concepita se non come esistente. Non può esserci né venir concepita se non come esistente. Una sostanza non è che unica. sarà, dunque, della sua natura, esistere o come finita o come infinita. Finita, no: giacché dovrebbe essere limitata da un’altra sostanza della stessa natura, che dovrebbe a sua volta esistere necessariamente: così si avrebbero due sostanze con lo stesso attributo; il che è assurdo. Dunque la sostanza è infinita».
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(Benedetto Spinoza, Etica) Spinoza si ispira a Giordano Bruno nell’identificare Dio con la Natura. La Natura, spiega Spinoza, ha delle caratteristiche proprie: «Per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è per sé e per sé si concepisce, ossia tali attributi della sostanza che esprimono un’essenza eterna ed infinita, cioè Dio in quanto è considerato come causa libera. Per Natura naturata, poi, intendo tutto ciò che segue dalla necessità della Natura di Dio, o di ciascuno dei suoi attributi; cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto siano considerati come cose che sono in Dio e che senza di Dio non possono né essere né essere concepite». (Idem) Ecco come Spinoza risolve il problema dei rapporti tra Dio ed il mondo: «Dio è causa immanente, non trascendente, di tutte le cose. Dio agisce per le sole leggi della sua natura, non costretto da nessuno. Ne segue che non si dà nessuna causa che solleciti dall’interno o dall’esterno Dio ad agire fuorché la perfezione della sua propria natura; e dunque solo Dio è causa libera. Infatti diciamo libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua propria natura e si determini ad agire da sé sola; diremo costretta quella che è determinata ad esistere e ad agire da altro, in maniera fissa e determinata. Dalla suprema potenza di Dio, cioè dall’infinita sua natura, fluiscono infinite cose in un’infinità di modi: tutto così è fluito da lui necessariamente e sempre ancora fluisce con la stessa necessità, come dalla natura del triangolo segue che i suoi angoli sono uguali a due retti
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Se le cose che sono prodotte da Dio fossero state fatte perché Dio potesse conseguire il suo fine, allora, per necessità, le ultime, in vista delle quali le precedenti sono state fatte sarebbero fra tutte le migliori. Pertanto questa dottrina abolisce la perfezione divina; poiché se Dio agisce in vista di un fine vuol dire che desidera qualcosa di cui manca». (Idem)
Martin Buber ne L’eclissi di Dio, traccia varie considerazioni intorno a Dio, sostenendo che non gli si possono attribuire categorie antropomorfiche. In particolare Buber afferma che le affermazioni di Spinoza, un “avvertimento a non cadere nell’errore di identificare Dio con «un principio spirituale»; cfr M.Buber, L’eclissi di Dio, Mondadori, Milano 1990 p.27.
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Gottfried Wilhelm Leibniz
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) postula l’esistenza di un Dio artefice che ha posto nel creato i mutamenti propri del caso. Questa è la tesi della “armonia prestabilita” in cui tutto è regolato dal creatore del tutto. Il mondo stesso creato da Dio è uno dei possibili mondi. Ecco nello specifico il pensiero di Leibniz su Dio: «[Della esistenza di Dio] Supposto che alcune cose debbano esistere, bisogna che si possa rendere ragione perché esistono così e non altrimenti. Ora, questa ragione sufficiente dell’universo non può trovarsi nella serie di cose contingenti, perciò bisogna che essa sia fuori della serie delle cose contingenti e si trovi in un essere necessario che è Dio». (Gottfried Wilhelm Leibniz, Princìpi della Natura e della Grazia)
«In Dio c’è potenza, che è la fonte di tutto, poi l’intelletto che contiene le idee, e infine la volontà, che fa le produzioni secondo il principio del meglio. Ciò risponde a quello che nelle monadi 42 create è il soggetto o la base, la facoltà percettiva e l’appetitiva. Ma in Dio questi attributi sono perfetti, e nelle monadi sono imitazioni, in ragione della perfezione rispettiva». (Gottfried Wilhelm Leibniz, Monadologia)
È Leibniz stesso a chiarire il concetto di monade: “La monade è una sostanza semplice, che entra nei composti, semplice e priva di parti” -Monadologia-. 42
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«Dalla perfezione suprema di Dio segue
che egli, producendo
l’universo, ha scelto il migliore possibile, in cui v’è la più grande varietà unita al più rande ordine, in cui le creature hanno la massima potenza, conoscenza, felicità e bontà che l’universo possa consentire. Infatti, poiché tutti i possibili pretendono all’esistenza nell’intelletto di Dio, il risultato di tutte queste pretese deve essere il più perfetto mondo attuale che sia possibile. Senza di che non si potrebbe rendere ragione perché le cose sono andate così e non altrimenti». (Gottfried Wilhelm Leibniz, Princìpi della Natura e della Grazia) Nella Teodicea, Leibniz affronta il problema del male nel mondo: «Qualche avversario dirà che il mondo avrebbe potuto essere senza peccato e senza sofferenze; ma io nego che in quel caso esso sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l’universo è tutto d’un pezzo: Dio ha tutto determinato anticipatamente una volta per sempre. Quindi, se il più piccolo male che avviene nel mondo non avvenisse, non sarebbe più quel mondo che, tutto contato e ponderato, è apparso il migliore al creatore che lo ha scelto. Certo si possono immaginare mondi possibili senza peccato e senza sventure, e se ne possono creare come quelli dei romanzi delle utopie, ma questi mondi stessi sarebbero assai inferiori per bontà al nostro». (Gottfried Wilhelm Leibniz, Teodicea)
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John Locke Il pensiero di Locke (1632-1753) si fonda sul principio della critica della conoscenza. Accanto a temi di natura gnoseologica, troviamo anche il pensiero religioso, che talvolta è in relazione a quello politico, in quanto Locke ritiene necessaria l’autonomia dello stato dinanzi alla chiesa, e alle strutture religiose in generale. Sul piano teoretico Locke riprende concezioni assai lontane nel tempo, come le idee che egli afferma non essere innate, ma frutto dell’esperienza. L’idea più emblematica in Locke è quella di Dio. «Alcuni uomini credono nell’esistenza nell’intelletto di alcuni princìpi innati, nozioni prime quasi caratteri impressi nello spirito umano, che l’anima riceverebbe nell’inizio della sua esistenza. Comincio da quelli speculativi, e propriamente dai tanto magnificati princìpi di dimostrazione. Ciò che è, è, ed È impossibile che la stessa cosa sia e non sia; i quali fra tutti, mi pare abbiano i maggiori titoli per essere considerati come innati. Ma è evidente che i bambini e gli idioti non ne hanno la minima apprensione o il minimo pensiero. Se dunque i bambini e gli idioti hanno un’anima, uno spirito in cui queste idee sono impresse, essi devono inevitabilmente percepirle e necessariamente conoscerle ed assentirvi. Ma ciò non è; dunque è evidente che queste impronte non esistono. Consideriamo ora l’idea di Dio. Io convengo che, se ci fosse qualche idea naturalmente impressa nell’anima, avremmo diritto di pensare che dovrebbe
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essere quella di colui che li ha creati, che sarebbe come la marca impressa da Dio stesso sull’opera propria. La prima luce dell’anima dovrebbe balenare di lì. ma invece quanto tempo ci vuole prima che un’idea simile appaia nei fanciulli? Inoltre come possiamo figurarci le idee degli uomini intorno a Dio simili caratteri scritti di suo pugno dall’essere supremo nell’anima loro, quando si vede che nel medesimo paese gli uomini che lo indicano con un solo ed identico nome ne hanno idee differenti, spesso opposte ed incompatibili tra loro? Quanto all’esistenza di princìpi morali il fatto che molti uomini ignorano una gran parte delle regole morali, e che altri le accolgano con un consenso tardo e pigro, dimostra che esse non sono innate. (John Locke, Saggio sull’intelletto umano) Secondo alcuni critici Locke è da considerare come antecedente prossimo del deismo, e nello specifico lo è il suo saggio Ragionevolezza del cristianesimo (1695) in cui sono contrapposte la dottrina semplice e scarna degli evangeli con il pasticcio di esagerazioni dottrinarie posteriori ai grandi concili.
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Giambattista Vico
Il pensiero filosofico di Vico
(1668-1744) spazia in varie parti. Le sue
riflessioni toccarono non solo i più dibattuti problemi di ordine filosofico, ma anche questioni matematico-logiche, filologiche e storiche. Il problema di Dio, della sua conoscibilità, è affrontato da Vico nella sezione che la critica ha definito come l’antropologia vichiana, che è composta dallo studio della religione, del linguaggio e dalla poesia. Contro la scienza della natura, la fisica, in antitesi alle idee cartesiane, Vico asserisce che solamente Dio può conoscere in modo perfetto il mondo, in quanto ne è l’autore, e l’uomo può capire solo le ragioni, in quanto non è l’autore del mondo. In questo senso l’uomo non può conoscere neppure Dio, in quanto non è il creatore di Dio. «In latino verum e factum hanno rapporto di reciprocità, o, per usare un vocabolo vulgato nelle scuole, “si convertono”, e intellegere ha il medesimo valore di “leggere perfettamente” e “conoscere apertamente”. Inoltre i latini dicevano cogitare ciò che noi in volgare “pensare” e “andar raccogliendo”. Per loro ratio significava tanto il calcolo aritmetico quanto la facoltà, che, peculiare all’uomo, lo discrimina dai bruti e lo fa sovrastare a questi. Usavano poi rappresentare l’uomo quale essere animato, che della ragione è soltanto partecipe, non già compiuto possessore. D’altra parte, come le parole, delle idee, così le idee sono simboli e caratteri delle cose:
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donde deriva che alla guisa medesima che legere si dice di colui che va raccogliendo gli elementi della scrittura con i quali si compongono le parole, così intelligere vien detto di chi va raccogliendo, di una cosa tutti gli elementi atti ad esprimere una idea perfettissima. È lecito argomentare che gli antichi sapienti italici si accordassero sopra questi princìpi, concernenti la verità: il vero esser lo stesso fatto, epperò in Dio essere il vero primo, perché Dio è primo fattore, vero infinito, in quanto egli è fattore che tutto contiene. Sapere, poi, sarebbe mettere insieme gli elementi delle cose, sicché dalla mente umana è proprio il pensiero, ma della divina la intelligenza, poiché Dio penetra dentro gli elementi tutti delle cose; invece la mente umana si adopera a mettere insieme gli elementi più esterni delle cose, ma non la riduce mai tutti ad unità; sicché può ben pensare alle cose, ma non già averne intelligenza, cosicché è partecipe della ragione, ma non l’ha in suo pieno possesso Per illustrare codesta osservazione con una similitudine, il vero divino si potrebbe paragonare a un’immagine solida delle cose, quasi a un plasmarle a rilievo: laddove il vero umano rassomiglia a un monogramma, a un’immagine piana, quasi a una pittura. Pertanto, come il vero divino è quello del quale Dio, nel momento steso in cui lo conosce, coordina gli elementi e, insieme, lo genera; così il vero umano è quello che l’uomo nell’atto di conoscerlo, compone nei suoi elementi, al tempo stesso che gli dà forma. Nella cognizione della genesi delle cose, cioè della guisa in cui esse si vengono facendo, consiste la scienza, per mezzo della quale la mente, nell’atto stesso in cui viene a conoscere codesta guisa, dispone ordinatamente gli elementi della cosa conosciuta e, insieme, la fa».
89
(Giambattista Vico, L’antichissima sapienza degli italici)43
Cfr. SERGIO MORAVIA, Educazione e Pensiero, op. cit; p.408.
43
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Il deismo
Dalla seconda metà del Seicento, e soprattutto nel periodo dei lumi, sino agli inizi dell’Ottocento, si sviluppò una corrente particolare di pensiero, il deismo, che mirò più ad attaccare la religione, che non ad investigare sui problemi teoretici. La critica distingue il deismo per aree geografiche. In Inghilterra il deismo assunse una valenza materialistica ed antireligiosa; tra le varie opere, il Dizionario storico-critico (1695-1697) di P. Bayle, il quale con un atteggiamento di scetticismo imperante, introdusse un atteggiamento tollerante in contrapposizione alle rigide posizioni confessionali. J. Toland in Cristianesimo non misterioso (1699) rifiuta le Scritture in quanto non distanti dai princìpi della uniformità della natura e della ragione. M. Tindal in Cristianesimo antico quanto la creazione, considerato la bibbia del deismo, è dell’avviso che le verità razionali contenute negli evangeli non avevano bisogno di rivelazione. Nei primi decenni del Settecento A. Collins inizia uno studio filologico dei testi sacri; la comparazione dell’Antico e Nuovo Testamento fa giungere alla conclusione che la Bibbia deve essere considerata come espressione allegorica, in quanto se presa alla lettera essa risulterebbe essere formata da un enorme cumulo di sciocchezze e incoerenze. T. Woolston in Discorso sui miracoli (1727-29) spinge la critica
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all’eccesso, sostenendo che Gesù sarebbe stato un volgare mistificatore. Nasce in seno al protestantesimo la avversione a ritenere i miracoli validi nella loro essenza -cosa dibattuta tuttora all’interno della chiesa riformata-. In Francia il deismo ebbe caratteri laicizzanti: La critica si spinse ad affermare che la religione è un’impostura e un instrumentum regni, e la critica si muove anche su questioni di tipo teorico. Sulla scorta delle idee sia di Hume (Storia naturale della religione) che di Hobbes (Il Leviatano), la propaganda ateistica del barone d’Holbach sostenne che la religione nasce e può vivere grazie alla paura e all’ignoranza di uomini indotti incapaci di risolvere i problemi terreni; questo appunto si ricollega all’ansia provata dall’uomo e descritta sia da Hume che da Hobbes. Il d’Holbach affermò, altresì, che la religione è un processo spontaneo, per arrivare ad enunciare che talune forme di culto rasentano forme patologiche44. Il più ironico esponente del deismo fu Voltaire, sarcastico soprattutto nelle voci a carattere religioso presente nel Dizionario filosofico: è noto il dialogo tra Longomaco e Dondinac alla voce Dio (Dieu) del dizionario, in cui Voltaire con raffinata ironia spiega cosa sia Dio. Alla voce Cristianesimo (Christianisme)
Ivi; pp.461-466.
44
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puntualizza le posizioni storiche classiche provenienti da Giuseppe Flavio 45 e pone l’accento sul fatto che uno storico ebreo non dica nulla di Cristo. Il deismo in Germania tentò la strada della storicizzazione della religione percorso questo che è giunto sino a Kant. Tutto sommato il deismo ha dato il suo contributo alla filosofia della religione e alla teologia: da una parte la religione è studiata sia sotto l’aspetto storico e l’impatto emotivo, dall’altro essa ha messo in discussione i numerosi dogmi che rendono il cristianesimo ostico alla ragione e alla logica. «Nessun ateo o infedele di qualsiasi genere può adirarsi con me perché sfodero le mie armi contro di loro, e li attacco soltanto con le armi che essi mi impongono. Il vero cristiano non può essere scandalizzato quando trova che io uso la ragione, non per indebolire o mettere in dubbio, ma per confermare o delucidare la rivelazione; a meno che egli non tema che io possa renderla troppo chiara a me stesso, o troppo semplice per gli altri, il che è una assurdità alla quale nessuno vorrà credere. Io spero di rendere evidente che l’uso della ragione non è così pericoloso nella religione quanto comunemente si crede. Parlando in termini corretti, dunque, bisogna intendere che noi comprendiamo qualche cosa quando ci sono note le sue qualità principali, e i loro vari usi: infatti comprendere in tutti gli scrittori corretti non significa In Antichità giudaiche Giuseppe Flavio menziona Gesù in relazione al processo e lapidazione di “Giacomo, il fratello di Gesù che viene detto il Cristo” cfr. XX, 9:1; mentre i passi in XVIII, 3:3 §§ 63-64, tutt’oggi sono considerati spuri, e si ritiene che la manipolazione cristiana dell’opera di Giuseppe Flavio avvenne nella traduzione slava dell’opera stessa. 45
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altro che conoscere, e poiché non possiamo avere nessuna idea di ciò che non è conoscibile, questo non è niente per noi. È dunque inesatto dire che una cosa è al sopra della nostra ragione perché di essa non sappiamo più di quanto ci tocchi da vicino, ed è ridicolo sospendere la nostra indagine su di essa per questo motivo. Che cosa penseremmo di un uomo il quale sostenesse che l’acqua è al di sopra della sua ragione e che egli non indagherà mai sulla sua natura, né la impiegherà nella sua casa o nei suoi campi, perché non comprende come varie particelle formino una goccia, o se l’aria passa attraverso essa, o è incorporata con essa o no? Questo equivale per tutto il mondo come se io non volessi camminare perché non so volare. L’applicazione di questo discorso al mio argomento non implica difficoltà: e ne risulta, innanzitutto, che nessuna dottrina cristiana così come nessun comune fenomeno della natura, può essere ritenuta un mistero sol perché non abbiamo un’idea adeguata e completa di tutte le proprietà che le appartengono. In secondo luogo che ciò che è rivelato nella religione, in quanto molto utile e necessario, deve e può essere facilmente compreso e riconosciuto, e riconosciuto come quanto molto utile e necessario, deve e può essere facilmente compreso, e riconosciuto come rispondente alle nostre comuni nozioni, come ciò che conosciamo del legno o della pietra, dell’aria dell’acqua e simili. E in terzo luogo, che quando spieghiamo tali dottrine altrettanto semplicemente di come spieghiamo ciò che conosciamo delle cose naturali (cosa che io sostengo possibile) possiamo dire veramente di comprendere le une e le altre. [...] Io penso di poter ora concludere che nessuna cosa è un mistero, sol perché non conosciamo la sua essenza, dal momento che essa non risulta conoscibile in sé, né mai pensata da noi: sicché lo stesso essere divino non
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può essere considerato sotto questo aspetto più misterioso, dalla più vile delle sue creature. Né mi preoccupo molto del fatto che quelle essenze sfuggano alla mia conoscenza: infatti resto fermo nell’opinione che quanto a ciò che all’infinita bontà non è piaciuto rivelarci, o abbiamo le capacità sufficienti a scoprirlo da noi, oppure non abbiamo affatto bisogno di capirlo». (John Toland, Il cristianesimo senza misteri)46
Cfr. SERGIO MORAVIA, Educazione e Pensiero, op. cit; p.471.
46
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Il Settecento George Berkeley
Il pensiero di Berkeley (1685-1753) è orientato a contrastare le tendenze materialistiche e scettiche, e si protende verso un percorso metafisico che ponga Dio come causa di tutto, negando la materia ed ammettendo la sola realtà dello spirito. Come buona parte dei filosofi cristiani anche Berkeley non si pone il dilemma di quale Dio, ente, esista: Dio è il Dio delle Scritture. Berkeley sostiene che Dio esiste in quanto la sua dimostrazione è data dalla presenza delle idee reali nello spirito umano. «Noi acquistiamo notizie della nostra propria esistenza per mezzo del senso interno, detto anche riflessione o intuizione; e dell’esistenza degli altri spiriti per mezzo della ragione. Quantunque vi siano alcune cose le quali ci convincono che agenti umani intervengano nella loro produzione, pure è evidente che tutte quelle cose, di cui si parla come opere della natura, non sono prodotte dalla volontà umana, e non possono perciò essere dipendenti da nessuna di queste. Vi deve essere dunque qualche altro Spirito che le causa; sarebbe infatti assurdo che esse esistesse di per sé. È perciò evidente che Dio è conosciuto con certezza ed immediatezza non inferiore a quella di cui è fornita qualsiasi conoscenza di uno spirito distinto da noi stessi. Possiamo anzi
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affermare che l’esistenza di Dio è percepita con molta maggiore evidenza che non sia l’esistenza degli altri uomini, perché gli effetti della natura sono infinitamente più numerosi e considerevoli di quelli che si possono attribuire ad agenti umani. Siamo47 caduti in un errore pericoloso, supponendo una doppia esistenza degli oggetti del senso, una intelligibile o nella mente, l’altra reale o fuori della mente, per cui si crede che le cose non pensanti abbiano una esistenza naturale in sé distinta dal loro esser percepite da spiriti. Questa, ch’è stata dimostrata, se non m’inganno, la teoria più infondata ed assurda, è la vera strada dello scetticismo; giacché se gli uomini pensano che le cose reali, sussistono senza che la mente e che la loro scienza è reale solo in quanto si conforma alle cose reali, ne viene che non saranno mai certi di avere qualche conoscenza reale. Infatti, com’è possibile sapere se le cose percepite sono conformi a quelle non percepite o esistenti fuori della mente? Finché si attribuisce un’esistenza reale alle cose non pensanti, un’esistenza distinta dal loro esser percepite, non solo non possiamo conoscere con evidenza la natura di ogni essere reale non pensante, ma neppure sapere soltanto se esiste. È per questo che vediamo i filosofi diffidare dei loro sensi, dubitare dell’esistenza del cielo e della terra, di ogni cosa che vedono o sentono, e perfino dei loro propri corpi». (George Berkeley, Principi della conoscenza)
Questa parte sta in: SERGIO MORAVIA, Educazione e Pensiero, op. cit. ;pp.395396. 47
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Immanuel Kant
La filosofia di Immanuel
Kant (1724-1804)
privilegia la speculazione
teoretica e Kant vi si sofferma in più parti nelle sue opere. Di Dio Kant afferma che la ragione non può coglierlo per via diretta in quanto non è oggetto diretto della conoscenza. Così Kant si ponte in maniera critica nei confronti degli argomenti (ontologico, cosmologico e teleologico) che la teologia razionale ha prodotto sulla esistenza di Dio. Nella Critica della Ragion Pura, Dio
e l’immortalità dell’anima sono
ammessi come possibilità. «Le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo, quasi che per mezzo di esse possano esser dati concetti di certi oggetti. Ma, viceversa, hanno un uso regolativo eccellente. Se diamo uno sguardo alle conoscenze del nostro intelletto nel loro complesso, noi troviamo che quello della ragione vi pone di suo e cerca di attuarvi, è la sistematicità della conoscenza, cioè la connessione di essa secondo un principio. Questa unità della ragione presuppone sempre un’idea, cioè l’idea della forma di un tutto della conoscenza. Questa idea pertanto postula
la perfetta unità della
conoscenza
conoscenza
dell’intelletto;
per
cui
questa
sia
non
semplicemente un aggregato accidentale, bensì un sistema connesso secondo leggi necessarie». (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)
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Come , ho scritto sopra l’esistenza di Dio, in Kant, è legata alla legge morale: nella Critica della Ragion Pratica, Dio diviene il garante del grado proporzionato che la virtù può raggiungere nella felicità. L’esistenza di Dio è in relazione al “sommo bene”, all’impegno morale, alla virtù e alla felicità: «La legge morale ha portato al compito pratico, che è prescritto meramente nella ragion pura. Felicità è lo stato di un essere razionale nel mondo al quale, nella sua esistenza intera, tutto vada secondo il suo desiderio e volere, e dunque essa si basa sull’accordo della natura e dal suo accordo con la nostra facoltà di desiderare (quali moventi); però l’ente razionale che agisce nel mondo non è insieme causa del mondo e della natura stessa. Dunque nella legge morale non c’è il benché minimo fondamento per una connessione necessaria fra la moralità e la proporzionata felicità di un ente che appartiene al mondo, quale sua parte, e quindi ne dipende, un ente che proprio per questo non può con la sua volontà essere causa di questa natura, né può, per quanto concerne la propria felicità, farla concordare interamente coi suoi Princìpi pratici, con le sue proprie forze. Dunque è postulata anche l’esistenza di una causa della natura tutta che sia diversa dalla natura stessa, e che contenga il fondamento di tale connessione, ossia della precisa concordanza della felicità e della moralità. Ma questa causa suprema deve contenere il fondamento della coincidenza della natura non solo con una legge della volontà degli enti razionali, ma con la rappresentazione di questa legge.
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Dunque il sommo bene nel mondo è solo possibile in quanto si assuma una causa suprema della natura che abbia una causalità conforme alla convinzione morale. La causa suprema della natura, in quanto debba essere presupposta per il sommo bene è un ente che con l’intelletto e la volontà è la causa (quindi l’autore) della natura, ossia Dio. Ora è nostro dovere promuovere il sommo bene, e quindi noi non siamo solo autorizzati a presupporre la possibilità di tale bene sommo, dobbiamo presupporla in quanto si tratta di un bisogno nel senso di una necessità legata col dovere; e poiché ciò ha luogo solo a condizione dell’esistenza di Dio, lega indisgiungibilmente il presupposto di questo con il dovere, ossia è moralmente necessario assumere l’esistenza di Dio. Il fine ultimo di Dio nella creazione del mondo, non si deve identificarlo con la felicità degli enti razionali in esso, bensì con il sommo bene, che a quel desiderio di tali enti, aggiunge ancora una condizione, quella di essere degni della felicità, ossia la moralità dei medesimi enti». (Immanuel Kant, Critica della ragion Pratica)48
IMMANUEL KANT, Critica della Ragion Pratica, a cura di Anna Maria Marietti, BUR, Milano 19994; pp. 409-425, con tagli. 48
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Capitolo V
Il XIX secolo
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling
Molti dei filosofi del XIX secolo sostituiscono l’indagine su Dio con l’indagine sull’assoluto. La filosofia di Schelling (1775-1854) il tema che occupa grande importanza è l’assoluto, che detiene un concetto piuttosto impersonale. In Schelling l’assoluto è realtà primordiale e attività originaria, potremmo definirlo come un principio più che come un ente, un principio molto prossimo all’arché dei presocratici. «Non può esservi contrasto più elevato di quello che esprime l’opposizione
del reale e dell’ideale; collochiamo la suprema Unità
nell’unità che forma la base dell’ideale e del reale, nell’unità del pensiero e della percezione. Questo concetto sublime si esprime con questa unità della percezione e del pensiero! Teniamoci dunque saldamente attaccati a questa sublime idea, e, senza discendere dall’altezza ove primariamente l’abbiamo scorta, poniamo tra pensiero e percezione un’unità tale, che sia espresso dall’uno ciò che l’altra esprime, le qualità dell’uno siano le qualità dell’altra, e ambedue non soltanto si uniscono in una terza cosa, ma facciano una sola e stessa cosa in sé, innanzi a qualunque separazione»
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(F.W.J. Schelling, Bruno, o del principio naturale e divino delle cose)
«Il meccanismo da solo è lontano dal comprendere ciò che costituisce la natura. Infatti appena entriamo nel campo della natura organica, cessa per noi ogni concatenazione meccanica di causa ed effetto. Ogni prodotto organico sussiste per se stesso, la sua esistenza non è dipendente da un’altra esistenza. L’organizzazione produce se stessa, deriva da se stessa. Un’organizzazione come tale non è pertanto né causa né effetto di una cosa fuori di essa, non è, dunque, niente che s’inserisca nel legame del meccanismo. Ogni prodotto organico porta in se stesso il principio della propria esistenza, poiché è da se stesso causa ed effetto. Qual è quel vincolo arcano che lega il nostro spirito con la Natura, o quell’organo recondito con cui la natura parla al nostro spirito o il nostro spirito alla Natura? Noi vogliamo non già che la Natura coincida con le leggi del nostro spirito accidentalmente, bensì che essa da sé non soltanto necessariamente ed originariamente esprima, ma essa stessa realizzi le leggi del nostro spirito, e che soltanto in quanto a ciò perviene, sia Natura e che si chiami Natura. La Natura dev’essere lo spirito visibile, lo spirito la Natura invisibile. Qua dunque, nella identità assoluta dello Spirito in noi e della Natura fuori di noi, deve risolversi il problema del come sia possibile una Natura fuori di noi». (F.W.J. Schelling, Idee di una filosofia della natura)
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Georg Wilhelm Friedrich Hegel
La filosofia con Hegel (1770-1831) acquista sistematicità. Anche Hegel parte dall’analisi teoretica dell’assoluto, che si identifica con la ragione. L’opera in cui è centrato il problema religioso, in maniera articolata, è la Fenomenologia dello spirito. Nelle Lezioni sulla filosofia della religione, Hegel pone l’accento sulla identità dei contenuti della filosofia e della religione, in quanto in entrambe vi è la ricerca dell’unità tra finito ed infinito. Il problema metafisico in Hegel è un problema di logica. Hegel studia l’evoluzione dell’Assoluto e della sua relazione con la religione: «L’arte bella ha il suo futuro nella Religione vera, il contenuto limitato dell’idea trapassa in sé e per sé nella universalità, che è identica con la forma infinita; l’intuizione, il sapere immediato, legato alla sensibilità, trapassa nel sapere che si media in sé, in un’esistenza, che è essa stessa il sapere, nella Rivelazione. nel concetto della vera Religione è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, e cioè rivelata da Dio». (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche) Nella Fenomenologia Hegel prende in esame sia il concetto di religione naturale, che quello di religione rivelata.
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«Una religione si differenzia da un’altra sulla base della determinatezza della figura in cui lo Spirito sa se stesso. La serie delle diverse religioni che risulteranno, a sua volta, non presenta altro che i diversi lati di una singola religione, e le rappresentazioni che sembrano caratterizzare una religione reale rispetto a un’altra sono di fatto presenti in ciascuna» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito)49 «Lo spirito soltanto eterno, cioè astratto, diviene dunque per sé un altro, accede cioè all’esistenza: immediatamente esso accede alla esistenza immediata. esso crea dunque un mondo. Questa “creazione” è la parola impiegata dalla rappresentazione per indicare il Concetto stesso nel suo movimento assoluto, per indicare cioè il processo in cui il semplice enunciato come assoluto -il pensiero puro-, per il fatto di essere astratto, costituisce piuttosto il negativo e, quindi, l’opposto a sé, l’altro da sé. Per esprimerci in altri termini: questo Semplice è il negativo, perché ciò che viene posto come essenza è l’immediatezza semplice, è l’essere, e appunto, in quanto immediatezza semplice, è l’essere, e, appunto in quanto immediatezza, in quanto essere, manca del Sé: essendo dunque privo dell’interiorità, il semplice è qui passivo, è per essere-per-altro. Ora tale essere-per-altro è a un tempo un mondo. Nella determinazione dell’essere-per-altro, lo spirito è la sussistenza quieta dei momenti in precedenza inclusi nel pensiero puro, ed è dunque la dissoluzione della loro universalità semplice, la scomposizione di questa universalità nella loro propria particolarità. G.W.F.HEGEL, Fenomenologia dello spirito, a cura di Vincenzo Cicero,Rusconi Editore, Milano 1999; p.909. 49
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Il mondo, però, non è soltanto questo spirito gettato e disseminato nell’ordine esteriore della globalità delle cose. Piuttosto, poiché lo Spirito è essenzialmente il Sé semplice, anche questo Sé è dato nel mondo: è lo spirito esistente, il Sé singolare che ha la coscienza e che differenziandosi da sé si differenzia da altro dal mondo. L’esistenza immediata si converte così nel pensiero, cioè la coscienza soltanto sensibile si trasforma nella coscienza del pensiero; e precisamente, poiché si tratta del pensiero proveniente dall’immediatezza, poiché è pensiero condizionato, esso non costituisce il sapere puro, bensì il pensiero che ha in sé l’essere-altro: esso è dunque il pensiero opposto a se stesso del Bene e del Male». (Idem)50
Ivi; pp. 1009-1010.
50
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Ludwig Andreas Feuerbach
Il pensiero religioso di Feuerbach (1804-1872) muove dalla critica della filosofia dell’Assoluto di Hegel. Se Hegel aveva dimostrato che la metafisica è un problema di logica, Feuerbach critica proprio la speculazione teoretica e individua nella religione il sentimento di dipendenza dell’uomo dalla natura. Feuerbach parte dal presupposto che Dio non esiste, e ne sviluppa il conseguente pensiero articolato in una meticolosa analisi della religione. «L’inizio della filosofia non è Dio, non è l’Assoluto, non è l’essere come predicato dell’assoluto o dell’idea: l’inizio della filosofia è il finito, il determinato, il reale. L’infinito non può essere pensato senza il finito. Puoi tu pensare alla qualità, puoi definirla, senza pensare ad una determinata qualità? Dunque il prius non è l’indeterminato, ma il determinato, dato che la qualità determinata altro non è la qualità reale. La qualità reale precede la qualità pensata». (L. A. Feuerbach, Tesi provvisorie per una riforma della filosofia)
«Ciò che l’uomo pone come oggetto, null’altro è che il suo stesso essere oggettivato. Come l’uomo pensa, quali sono i suoi princìpi, tale è il suo dio: quanto l’uomo vale, tanto e non vale più il suo dio. La coscienza che l’uomo ha di Dio, è la conoscenza che l’uomo ha di sé. Tu conosci l’uomo dal suo dio, e reciprocamente Dio dal suo uomo; l’uno e l’altro si identificano. Per l’uomo, è Dio il proprio spirito, la propria anima, e ciò
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che per l’uomo è spirito, ciò che è la sua anima, il suo cuore, quello è il suo dio: Dio è l’intimo rivelato, l’essenza dell’uomo espressa; la religione è la solenne rivelazione dei tesori celati dall’uomo, la pubblica professione dei suoi segreti d’amore. Ma da quanto abbiamo detto non si deve dedurre che l’uomo religioso sia direttamente consapevole che la coscienza che ha Dio sia la stessa autocoscienza del suo proprio essere, poiché appunto il non essere consapevole di ciò è il fondamento della religione. Per evitare questo equivoco diremo meglio: la religione è la prima ma indiretta autocoscienza dell’uomo. Perciò la religione precede sempre la filosofia, nella storia dell’umanità, così come nella storia dei singoli individui. L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé. In primo luogo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere, l’uomo, fuori da sé ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un secondo tempo come soggettivo ed umano ciò che le prime religioni consideravano come oggettivo e adoravano come dio. Le prime religioni sono idolatrie per le religioni posteriori. Ma ciò che la religione da se stessa non può fare, cioè studiare la sua natura come un qualsiasi oggetto, può farlo il pensatore, che perciò penetra nell’essenza della religione e ne rivela ogni segreto. Il nostro compito è appunto di mostrare che la distinzione tra il divino e l’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la distinzione fra l’essenza dell’umanità e l’essenza dell’individuo, e che per conseguenza anche l’oggetto e il
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contenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani». (L.A. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo)51
«2.
Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della
religione; ma l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, non è originariamente altro che la natura. La natura è il primo, l’originario oggetto della religione, come la storia di tutte le religioni e di tutti i popoli documenta ampiamente. 8. L’essere divino che si manifesta nella natura, non è altro che la natura stessa. Come dunque il dio del sale è soltanto l’impressione e l’espressione della divinità del sale, del suo carattere divino, così anche il dio del mondo o della natura in generale è soltanto l’impressione e l’espressione della divinità della natura. 10. L’esistenza della natura non si fonda, come erroneamente ritiene il teismo, sull’esistenza di Dio ma, al contrario, si fonda sull’esistenza della natura. Tu sei costretto a pensare a Dio come un essere esistente solo perché sei costretto dalla natura stessa a presupporre la tua esistenza e alla tua coscienza l’esistenza della natura» (L.A. Feuerbach, L’essenza della religione)52
Cfr. SERGIO MORAVIA, Educazione e Pensiero, op. cit; p.157. L.A. FEUERBACH, L’essenza della religione, a cura di Ferruccio Andolfi, Newton Compton, Roma 1994; pp.21-26. 51
52
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Karl Marx e Friedrich Engels
Il pensiero di Marx (1818-1883) e di Engels (1820-1895) si pone in netta antitesi al pensiero teoretico di Hegel. È proprio in contrasto con la metafisica hegeliana la formulazione, celeberrima, secondo cui la religione è l’oppio dei popoli. Nella concezione dei due filosofi la metafisica non trova posto per speculazioni su Dio, anzi è riservata una critica fine: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni». (K. Marx F. Engels, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel) Da Feuerbach ereditano il concetto di alienazione: «Feuerbach
parte dal fatto della autoalienazione religiosa, della
duplicazione del mondo in un mondo religioso ed in un mondo mondano. E la sua opera consiste in questo: risolvere il mondo religioso nel suo fondamento mondano. Ma anche il fondamento mondano si distacchi da se stesso e si fissi nelle nuvole come un regno indipendente, è da spiegarsi
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solo con l’autodissociazione e con l’autocontraddizione di questo fondamento mondano. Questo fondamento perciò deve essere tanto inteso nella sua contraddizione quanto praticamente rivoluzionato. Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana, ma l’essenza umana è qualcosa di astratto inerente all’individuo singolo. Nella sua realtà è l’insieme dei rapporti sociali. Feuerbach non giungendo alla critica di questa essenza reale è perciò costretto: ad astrarre dal corso storico e a fissare il sentimento religioso per sé e a presupporre un individuo umano astratto-isolato; l’essenza può, perciò, essere concepita solo come “specie”, cioè come interna, muta universalità che leghi naturalmente molti individui. Feuerbach non vede, quindi, che il “sentimento religioso” è, esso stesso, un prodotto sociale, e che l’individuo astratto, che egli analizza, appartiene ad una forma sociale determinata». (K. Marx F. Engels, Tesi su Feuerbach)
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Sören Kierkegaard
La filosofia di Kierkegaard (1813-1855) offre temi nuovi alla speculazione, sia sul piano teoretico che su quello etico e gnoseologico. Se Hegel aveva “razionalizzato” la Natura e trovato il processo logicodialettico nella religione, la filosofia aveva accantonato l’indagine sull’uomo, sul suo porsi di fronte all’infinito, e a Dio. Il filosofo danese rifiuta l’idealismo che assorbe in sé i singoli individui. Kierkegaard affronta questi temi religiosi, e tenta di indicare percorsi accessibili. Il Dio “investigato” da Kierkegaard è il Dio della fede rivelata nel cristianesimo. Il filosofo non dice nulla di più sull’essenza di Dio, ma pone in luce altre problematiche a lui correlate. «Ciò che importa è intendere a cosa io sono destinato, di intendere che cosa vuole Dio propriamente che io debba fare; ciò che importa è di trovare una verità che sia verità per me, di trovare l’idea per la quale io possa vivere e morire. E che cosa mi gioverebbe pertanto se io trovassi una così detta verità oggettiva; se io mi erudissi attraverso i sistemi dei filosofi e se io potessi passarli tutti in rivista: che cosa gioverebbe che io potessi mostrare le loro inconseguenze, se essi non avessero per me stesso e per la mia vita nessun significato più profondo?» (Sören Kierkegaard, Diario)
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«C’è ancora una prova per l’esistenza di Dio ch’è stata trascurata. Essa è portata da uno dei domestici nei Cavalieri di Aristofane, vv. 32 sgg.: DEMOSTENE: Altare? quale altare? Dimmi pensi che esistano dèi? NICIA: Sì. DEMOSTENE: Quali ragioni porti? NICIA: Perché mi perseguitano ingiustamente. DEMOSTENE: Volentieri mi trovo d’accordo con te. (Sören Kierkegaard, Dipsalmata)53
«È esatto se si dice che il paganesimo non aveva la fede; ma se questa espressione deve dire qualcosa, bisogna essere un po’ più precisi su ciò che si intende per fede poiché altrimenti si ricade nelle solite frasi. È facile comprendere tutta l’esistenza con la fede senza avere l’idea di ciò ch’è la fede, e colui che poi fa assegnamento sull’ammirazione quando ha una siffatta spiegazione, non fa poi il peggiore dei calcoli, poiché secondo Boileau: un sot trouve toujours un plus qui l’admire. La fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma sopraordinato. Questo però va inteso a questo modo: ch’è il Singolo il quale dopo essere stato subordinato come Singolo al generale, ora il generale diventa il Singolo il quale, come Singolo, è sopraordinato; il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto con l’Assoluto. Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avviene appunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso inaccessibile per il pensiero. O la fede è questo SÖREN KIERKEGAARD, Dipsalmata, BIT-Rusconi, Milano 1996; p.34.
53
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paradosso oppure (queste sono le conseguenze che prego il lettore si degni avere in mente in ogni punto, poiché sarebbe troppo prolisso per me scriverle dappertutto) anche la fede non è mai esistita, proprio perché essa è esistita da sempre. Cioè, in altre parole, Abramo è perduto. (Sören Kierkegaard, Timore e tremore)54
SÖREN KIERKEGAARD, Timore e tremore, BIT-Rusconi, Milano 1996; p.45.
54
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Arthur Schopenhauer
Alcuni critici hanno posto a confronto la filosofia di Schopenhauer (17881860) con quella di Plotino. In effetti una similiarità di pensiero esiste. Se Plotino afferma
il
processo
di
emanazione
dall’Uno
all’Intelletto,
all’anima,
Schopenhauer parla di un processo discensivo nella oggettivazione della volontà in Volontà, idee cose. Anche Schopenhauer indaga sul principio da cui tutto dipende, e questo principio è identificato nella Volontà. Questi concetti non sono distanti dall’idea di Dio, in quanto sono concetti deificati e deificanti. «La Volontà considerata in se stessa è incosciente: è un cieco, irresistibile impeto, quale noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella parte vegetativa della nostra propria vita. Essa è l’intimo essere, il nocciolo di ogni singolo ed ugualmente di tutto; essa appare in ogni cieca forza della natura; essa appare anche nella meditata vita dell’uomo. La gran differenza fra la cieca forza e la meditata condotta tocca il grado della manifestazione, non l’essenza della Volontà che si manifesta. L’oggettivazione della volontà ha molti gradi, ma determinati: attraverso i quali, con chiarezza e compiutezza di grado in grado più alta, viene l’essenza della Volontà ad entrar nella rappresentazione ossia a presentarsi
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come oggetto. In cotesti gradi sono appunto le specie determinate, o le originarie, immutabili forme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia inorganici che organici; come anche sono le forze universali manifestantisi secondo le leggi di natura. Tali idee in complesso si presentano adunque in individui e fenomeni singoli innumerevoli, stando di fronte ad essi come modelli di fronte alle copie. Mentre gl’individui, nei quali l’idea si presenta, sono innumerevoli, e nascono e muoiono senza posa, ella [la Volontà] rimane immutata, sempre unica ed identica. Venendo l’uomo a mancare degli oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l’opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di quà e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà suoi veri elementi costitutivi. La volontà dell’uomo muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, che si specchia nel fenomeno, ma la rinnega. Il processo con cui ciò si manifesta è il passaggio dalla virtù all’ascesi. All’uomo non basta più di amare gli altri come se stesso e fare per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un ribrezzo per l’essenza di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la Volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo conosciuto come pieno di dolori. Egli rinnega quindi proprio quest’essenza in lui palesantesi ed espressa già mediante il suo corpo, e la sua azione sbugiarda ora il suo fenomeno, entra in aperto contrasto con esso. egli, che sostanzialmente non è se non fenomeno della Volontà, cessa di volere qualsiasi cosa, si
guarda
dall’attaccare la sua volontà a una cosa qualsiasi, cerca di rinsaldare in se
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stesso la massima indifferenza per ogni cosa». (A. Schopenhauer, Il mondo come Volontà e come Rappresentazione)
116
Vincenzo Gioberti
I critici hanno dato una definizione particolare della filosofia di Vincenzo Gioberti (1801-1852), chiamandola ontologismo. L’ontologismo, cioè l’intuizione immediata e diretta dell’Essere assoluto che egli pone a fondamento del tutto, gli valse l’accusa di panteismo, che in vero Gioberti
tentò di superare
affermando la netta distinzione tra Dio e l’universo. Dio crea l’esistente e l’esistente torna nell’Ente. Queste, dunque, sono le problematiche affrontate circa l’idea di Dio. «La filosofia è la ricerca di ciò che io chiamo Primo filosofico. Coloro che per lo addietro attesero alla speculazione, si travagliarono intorno a due inchieste, che in sostanza ad una sola si riducono, cercando alcuni di essi la prima idea, altri la prima cosa. La prima idea e la prima cosa sono quelle, da cui tutte le altre idee, nell’ordine dello scibile, e tutte le altre cose nell’ordine del reale in qualche guisa dipendono; e dico in qualche guisa, perché intorno alla special ragione di questa dipendenza i filosofi si partono in molte sette. Io chiamo Primo psicologico la prima idea e la prima cosa, al parer mio, s’immedesimano fra loro, e perciò i due primi ne fanno uno solo, io do a questo principio assoluto il nome di Primo filosofico, e lo considero come il principio e la base unica di tutto il reale e di tutto lo scibile. L’idea dell’Ente contiene un giudizio. Egli è impossibile che lo spirito abbia l’intuito primitivo dell’Ente senza conoscere che l’Ente è; giacché, nel caso contrario, l’essere sarebbe il niente, e l’Ente reale non sarebbe
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reale; il che ripugna,. Né la realtà dell’Ente si affaccia allo spirito, come una cosa contingente, relativa, che può non essere; ma sì bene come necessaria, assoluta e tale, che il contrario non è pensabile. Laonde il detto giudizio si può significare dicendo l’Ente è necessariamente, purché si noti che il concetto espresso dall’ultimo vocabolo non fa altro che dichiarare una proprietà inerente all’Ente stesso, come Ente. Il giudizio l’Ente è necessariamente, contenuto nell’intuito primitivo, non è pronunziato dallo spirito con un atto spontaneo e libero, come gli altri giudizi. Lo spirito in questo caso non è giudice, ma semplice testimonio ed uditore di una sentenza che non esce da lui. Infatti se lo spirito fosse definitore e non semplice spettatore, il primo giudizio, base di ogni certezza e di ogni altro giudizio, sarebbe subiettivo, e lo scetticismo fora inevitabile. L’autore del giudizio primitivo che si fa udire dallo spirito nell’atto immediato, è l’Ente stesso; il quale, ponendo se medesimo al cospetto della mente nostra dice: “Io sono necessariamente”. Questa parola obbiettiva in cui consiste il fondamento di ogni evidenza, e di ogni certezza, perviene allo spirito per opera dell’Intelligibile, cioè di esso Ente, dotato d’idealità assoluta. La nostra formola filosofica ci porge il concetto di due cicli creativi, per cui l’Ente, avendo tragittato fuori di sé una immagine delle proprie idee, con la creazione sostanziale dell’esistente, a sé la richiama con amplesso amoroso, mediante una trasformazione e una creazione successiva di atti morali che abbelliscono e compiono l’opera della creazione prima. Il loro procedere è inverso: l’uno è discensivo e trapassa dall’Ente all’esistente; l’altro ascensivo e si leva dall’esistente all’Ente. Ma la loro diversità riguarda solo le cose finite; poiché nel primo l’Ente crea l’esistente, e nel
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secondo lo ricrea, congiuntamente al suo concorso, e lo ritorna a sé, richiamandolo al principio onde si mosse. Il primo ciclo è meramente divino, il secondo divino ed umano insieme, conciossiaché le forze create concorrano, come cagioni seconde a effettuarlo sotto l’azione promovitrice e governatrice della Causa prima». (Vincenzo Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia)
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Fiedrich Wilhelm Nietzsche
Nietzsche (1844-1900) reagisce in modo sistematico sia al positivismo che all’idealismo; egli è noto soprattutto per la filosofia dell’oltreuomo, Uebermensch, e per la polemica contro la religione cristiana, e l’idea di Dio. Scrisse di sé il filosofo tedesco: “un giorno il mio nome sarà associato a qualcosa di prodigioso -a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, e alla più profonda collisione della coscienza, a un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso santificato” -Ecce homo- :e in realtà questo presagio si concretizzò, nella sua lettura male interpretata. La critica alla religione è descritta in più parti dei suoi numerosi scritti. I passi più noti di questa polemica sono ne: La gaia scienza, Genealogia della morale e L’Anticristo. Nell’affermazione del La gaia scienza, “Dio è morto” Nietzsche intende affermare che ormai è trascorso il tempo della metafisica, dei valori trascendenti che la cultura tradizionale religiosa aveva formulato. Questo avvenimento, grandioso, sconvolge la stessa realtà, e gli elementi li riscontriamo nelle molteplici domande che il “profeta” rivolge alla folla: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco
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Dio! Cerco Dio” E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto?” Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” gridavano ridendo in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio -gridò- ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi ed io. Siamo stati tutti noi i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti isoli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non è fatto più freddo? Non seguita a venire notte sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono. Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso. Come ci consoleremo, noi gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi ci detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande per noi la grandezza di quest’azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi
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apparterranno, in virtù di questa azione ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi” A questo punto il folle uomo tacque e rivolse di nuovo lo guardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti: Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto -proseguì- non è ancora il mio tempo. questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. fulmine e tuono vogliono il tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute ed ascoltate. Quest’azione è ancora più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta» (Fiedrich Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza)
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Capitolo VI
Filosofia e cristianesimo tra ‘800 e ‘900 Henry Bergson
Il pensiero di Bergson (1859-1941) si colloca in quello che i critici hanno denominato intuizionismo. La filosofia di Bergson è strutturata per campi, essa investe la metafisica evolutiva, e l’etica e la religione. Nella parte che tratta dell’etica e della religione, Bergson pone lo slancio vitale élan vital come il principio che opera nella natura e costituisce la chiave interpretativa della realtà sociale. «È necessario comparare la vita ad uno slancio, perché nessun’altra immagine tratta dal mondo fisico, vale ad esprimere con altrettanta approssimazione l’essenza. Tale è la mia vita interiore e tale è pure la vita in generale. se nel suo. Se nel suo contatto con la materia, la vita è paragonabile ad un impulso o a uno slancio, considerata in se stessa, essa è un’immensità di virtualità, un compenetrarsi reciproco di migliaia di tendenze: le quali tuttavia, saranno “migliaia” solo quando verranno rese esteriori le une alle altre, ossia spazializzate». (Henry Bergson, L’evoluzione creatrice)
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Sono stati chiamati all’esistenza degli esseri, che erano destinati ad amare e ad essere amati, perché l’energia creatrice si deve definire per mezzo dell’amore. distinti da Dio, che è questa stessa energia, essi non potevano sorgere se non in un universo, ed è questa la ragione per cui ha avuto origine l’universo. La religione (statica) è una reazione difensiva della natura contro la rappresentazione, fornita dall’intelligenza, dell’inevitabilità della morte. Le rappresentazioni della religione (statica) sono reazioni difensive della natura contro la rappresentazione fornita dall’intelligenza d’un campo scoraggiante, d’imprevisto fra l’iniziativa presa e l’effetto sperato. La religione (dinamica) si svolge sulla linea dello slancio della vita; è questo stesso slancio, comunicato integralmente a degli uomini privilegiati, che vorranno imprimerlo all’intera umanità.». (Henry Bergson, Le due fonti della morale e della religione)
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Maurice Blondel
Discepolo di L. Ollé-Laprune, Blondel (1861-1949) si ricollega alla tradizione spiritualista francese che inaugurò Blaise Pascal, e Blondel cercò di contrapporre all’intellettualismo e allo scientismo i principali valori del cristianesimo e del suo pensiero. Il tema fondamentale della sua ricerca, soprattutto teoretica, è l’azione. Dio dunque in Blondel è il fulcro del tutto. «L’idea di Dio in noi dipende in noi in doppio modo dalla nostra azione. Da una parte appunto perché agendo troviamo in noi stessi un’infinita sproporzione, siamo costretti a cercare nell’infinito l’equazione della nostra azione. Dall’altra, appunto, perché affermando la perfezione, siamo costretti a cercarne il completamento ed il commentario nell’azione. Il problema posto dall’azione solo l’azione lo può risolvere. Pensare a Dio è un’azione; ma pure noi non agiamo senza cooperare con lui e senza farlo cooperare con io, con una specie di teergia necessaria che reintegra nell’operazione umana la parte divina, allo scopo di mettere l’azione volontaria in equazione nella coscienza, ed appunto perché l’azione è una sintesi dell’uomo con Dio, essa è in perpetuo divenire, come travagliata dall’aspirazione d’una crescita infinita. È vero che in nessun luogo ed in nessun caso gli uomini sono stati completamente privi di una fede spontanea in qualche potere, in qualche intervento intimo d’un Essere esterno e superiore all’umanità anche quando,
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“riconoscendo un Dio non lo trattiamo come Dio”. non tutti certo enucleano espressamente il senso e le conseguenze di questa confessione d’un Trascendente, qualunque esso sia; ma spontaneamente e prima di ogni riflessione critica, insorge un sentimento almeno oscuramente religioso che non è per questo meno normale in quanto ha di primitivo e d’essenziale». (Maurice Blondel, L’azione)
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Capitolo VII
Il Novecento
Nel XIX secolo, di fronte a queste minacce, il teologo tedesco Friedrich Schleiermacher riportò la teologia a nuova vita. L’antica “teologia naturale” era stata screditata nel Settecento dai filosofi David Hume e Immanuel Kant; così, Schleiermacher coraggiosamente fece appello all’esperienza presente della comunità credente come nuova base per la teologia. Nella sua opera più importante, Der christliche Glaube (La fede cristiana, 1821-22, trad. it. 1948), la dottrina è presentata come trascrizione dell’esperienza; l’attenzione della teologia sembrava trasferirsi da Dio all’uomo, generando quell’atteggiamento proprio della teologia liberale che dominò il XIX secolo. Karl Barth (1886-1968), con la sua monumentale Die kirchliche Dogmatik rappresentò un ritorno alla teologia biblica. «Chi è Dio e che cos’è il divino lo dobbiamo apprendere là dove Dio, rivelando se stesso manifesta anche la sua natura, l’essenza del divino». (Karl Barth, Dogmatica ecclesiastica, IV/1,203)55 «Troppo spesso la parola Dio viene usata come designazione convenzionale del limite di ogni possibilità umana di comprendere l’uomo ed il mondo. 55
KARL BARTH, Dogmatica Ecclesiale, Il Mulino, Bologna, 1977; p. 19.
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Troppo spesso si dice “Dio” eppure si intende con questa sigla solo un certo non so che, quella cosa vuota, sterile e in definitiva profondamente noiosa, che è la cosiddetta trascendenza. Quando introduciamo la parola Dio in noi abusiamo di questo nome e facciamo cosa sensata e utile solo se abbiamo la testimonianza dell’azione e alla parola di Dio che troviamo nella sacra scrittura». (Karl Barth, Dogmatica ecclesiastica, III/4, 549 s.)56 Dalla seconda metà del XX secolo coesiste una molteplicità di scuole teologiche; dal concilio Ecumenico Vaticano II (1962-65) è scaturita una teologia cattolica rinnovata; altre scuole di teologia si ispirano invece alle movenze di talune
correnti
della
filosofia
contemporanea,
dall’esistenzialismo
alla
fenomenologia alle dottrine ermeneutiche oppure, nel caso di alcune riflessioni provenienti dall’alveo della cosiddetta “teologia della liberazione” al marxismo. La teologia del Novecento si distingue in due periodi, prescindendo dalle diverse confessioni cristiane. Il primo periodo è quello anteriore al Concilio Ecumenico Vaticano II, e il secondo periodo è il successivo. La teologia degli ultimi decenni, secondo i più autorevoli studiosi francesi si è arenata e disillusa: le novità apportate dal Vaticano II hanno influito in maniera contraddittoria sulla speculazione teologica; si pensi che la posizione dei vescovi
56
Ivi; pp. 19-21.
128
tedeschi rispetto al Vaticano II è di netta diffidenza: il cardinale Ratzinger più volte ha lamentato il fallimento del concilio nel popolo di Dio. La teologia dei primi decenni del Novecento è molto vicina alle posizioni della tradizione filosofica tedesca. La teologia dialettica nacque dalla crisi della Chiesa evangelica alla fine degli anni Venti, distanziandosi sia dall’ala liberale e ortodossa della chiesa, dallo storicismo. Ebbe notevole influsso sulla chiesa confessante; dopo la seconda guerra mondiale, con la limitazione dell’importanza della Chiesa di Stato, l’unità dei teologi luterani di quelli riformisti e di quelli della Chiesa dell’Unione si ricostituì. La teologia dialettica mantenne una sua funzione e un suo valore anche dopo la seconda guerra mondiale.
129
Appendice
Dio -come si è visto più volte in questo percorso- è l’Entità suprema di una religione monoteista, nonché il punto di approdo di un percorso ideologico e filosofico che tenta non solo di investigare il metafisico, ma tramite questo dare senso alla realtà. Nelle grandi religioni monoteiste, Dio è concepito in termini di trascendenza, personalità e unità. Seguiamone i percorsi. L’IDEA EBRAICA DI DIO Il concetto di trascendenza lo si trova sin dalle prime pagine del libro di Genesi. L’affermazione secondo cui Dio dà origine al mondo, significa attribuire ad esso una dipendenza da Dio; da qui deriva l’atteggiamento iconoclasta dell’ebraismo; l’uomo è creato a immagine di Dio, e questo è il punto di partenza dell’antropomorfismo biblico. Sono varie le caratteristiche dell’indole di Dio, fa promesse ed è persino geloso. Un simile Dio, benché rappresentato antropomorficamente, è un Dio vivente. Il suo nome, “sono colui che sono” 57 non veniva inizialmente interpretato in forma teoretica.
Ho trattato dell’origine ebraica del nome di Dio a p. 82.
57
130
CONCEZIONI CRISTIANE Il cristianesimo sorse come una setta dell’ebraismo: venera lo stesso Dio e ne fa proprie le Scritture di origine ebraica della tradizione cui ha aggiunto il corpo dei libri del Nuovo Testamento. Riguardo la natura di Dio, il cristianesimo prende le distanze dall’ebraismo. La dottrina della Trinità, già presente nel Nuovo Testamento58, fu elaborata nel IV secolo; il Dio dell’Antico Testamento è Padre, nome con cui lo invocava Gesù. Gesù fu riconosciuto come il Cristo, è il Figlio incarnato o Verbo (Logos), manifestazione concreta di Dio nel finito; le espressioni, Figlio e Verbo, implicano la distinzione dal Padre, ma anche l’essere “della stessa sostanza” (greco homooùsios). Lo Spirito Santo, secondo la Chiesa romana procede dal Padre e dal Figlio, per quella orientale solo dal Padre59,ed è la presenza di Dio nel cosmo. Il termine persone riferito alla Trinità non ha il valore moderno del termine e non dissolve l’unità di Dio. ISLAM L’Islam sorse come vigorosa reazione agli antichi culti pagani arabi e di conseguenza è la più austera tra le religioni semitiche. Il nome Allah significa “il Dio”; Dio è personale, trascendente e unico, e il divieto di rappresentarlo è ereditato dall’ebraismo. Il primo articolo di fede dice:: “Non c’è dio all’infuori di San Paolo, nelle Lettere, invoca la Trinità in più di una occasione. Cfr. 2Ts 2:13 e 2Cor 13:13. 59 È l’argomento della controversia del filioque del credi di Nicea. 58
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Allah” e aggiunge “Maometto è il suo profeta”. Gli attributi di Allah sono sette: vita, conoscenza, potenza, volontà, udito, vista e parola, di cui gli ultimi tre non si devono intendere antropomorficamente.
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Concezioni di Dio nella teologia e filosofia occidentali
Teologi e filosofi di ogni tempo sostengono che Dio è così “altro” che deve essere considerato un mistero che va al di là delle possibilità umane; pertanto in molti postulano la possibilità di una limitata conoscenza di Dio e formulando diversi approcci atti alla conoscenza60 di Dio.
APPROCCIO FILOSOFICO E RELIGIOSO Facciamo insieme una sintesi del percorso fatto sinora. Le concezioni filosofiche su Dio sono state spesso antitetiche a quelle religiose: Blaise Pascal oppose all’astratto “Dio dei filosofi” il “Dio della fede”, realtà vivente ed essenza del vissuto individuale. I mistici, per contro, sostengono la superiorità della loro conoscenza, quale esperienza diretta del soprannaturale, rispetto alle dimostrazioni di filosofi e teologi. Alcuni teologi hanno tentato di combinare l’approccio filosofico con quello empirico: fu il caso di Paul Tillich (1886-1965), il quale riferendosi a Dio ne fa il fondamento dell’essere e, nello stesso tempo, cura estrema61. Tra questi teologici possiamo di diritto annoverare i mistici. Il mistico trattando di Dio non dice nulla di più di quanto non sia stato detto o scritto, e per quanto egli sia stato il protagonista di una elevata unione spirituale, il mistico non ne parlerà in termini nuovi, ma usando il parametro già collaudato da Plotino, attraverso il percoso dettato dalla teologia negativa. 61 Nozione questa correlata alla Provvidenza divina 60
133
ATTRIBUTI FONDAMENTALI Dio è stato concepito nella trascendenza (“sopra” il mondo),rimarcando la sua alterità, la sua indipendenza dal creato e il suo potere su di esso, oppure immanente (“abitante” nel mondo), di qui la sua presenza e il suo coinvolgimento nella storia. Questi elementi sono stati spesso combinati: fu il caso del teismo e del panteismo. Tentativi di conciliare in Dio caratteristiche apparentemente opposte, sono comuni sia nei filosofi che nei mistici. Nicola Cusano 62, ritenendo che Dio si possa cogliere nell’intuizione mistica, mise in luce una nuova caratteristica di Dio: la coincidenza degli opposti, mentre Sören Kierkegaard, insisté sulla natura paradossale della fede religiosa. CREDERE O MENO Il problema di Dio è correlato alla sua credenza. Numerosi sono gli argomenti contro la fede in Dio; gli atei escludono l’esistenza di Dio, altri, ad esempio, credono che l’universo materiale sia la realtà ultima; altri affermano che il
male e la sofferenza
nel mondo escludano
l’esistenza di un essere divino. Gli agnostici sostengono che le prove pro e contro l’esistenza di Dio non consentano una conclusione e sospendono il
Vedere Capitolo IV
62
134
giudizio. I positivisti ritengono che l’indagine razionale debba limitarsi ai fatti empirici, così che l’affermazione o la negazione di Dio siano prive di significato. Il primo fondamento del credere è
senz’altro rinvenibile nell’esperienza
religiosa, ma non necessariamente. Esistono numerose esperienze nelle quali si dà prova che il sacro incide sulla vita individuale, esperienze che possono giungere con la forza di una rivelazione. Oltre alle esperienze propriamente religiose, ce ne sono altre in cui si diventa coscienti dell’esistenza di un mondo che è oltre questa dimensione: sono esperienze morali, relazioni interpersonali, il senso del bello, la ricerca della verità, la consapevolezza dei propri limiti, perfino l’incontro con la sofferenza e la morte. Queste sono chiamate situazioni-limite, termine usato da Karl Jaspers, (18831969), che descrive queste esperienze vissute ai limiti di se stessi. È così che si va formando l’idea di una entità oltre la realtà. Il teologo tedesco Rudolf Otto, (1869-1937) definì le esperienze limite chiamandole mysterium tremendum et fascinans, il mistero che incute timore e fascino.
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Conclusioni La ricerca su Dio ha contribuito alla formazione della secolarizzazione nella società, contribuendo a svincolare la ricerca filosofica dall’indagine metafisica; in un certo senso le intuizioni di Nietzsche -su Dio- erano presaghe di quanto sarebbe accaduto, dagli albori del Novecento sino a questo scorcio di fine secolo. La secolarizzazione è il punto di approdo (ma anche di partenza) della sociologia della religione, che affronta, anche con l’ausilio della riflessione filosofica, il problema religioso inquadrandolo sotto un profilo codificato, fatto di statistiche, di sondaggi. Dopo il Vaticano II il cattolicesimo si è secolarizzato; sono celebri le polemiche di alcune ex monache63 che inveivano contro la gerarchia ecclesiastica rea d’aver distrutto la tradizione dei costumi monastici; gli studiosi hanno individuato percorsi che potremmo definire davvero di notevole interesse sotto il profilo della analisi sociologica del fenomeno religioso. Come ho detto, la religione e la secolarizzazione sono due aspetti della società che si incontrano e si evolvono.
Questa polemica è apparsa in un volume scabroso, in cui si analizza la sessualità in convento. 63
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La secolarizzazione è un processo sociale che è stato fatto risalire agli inizi dell’età dei lumi, nel Settecento, sebbene essa è la risultante peraltro di un altro fenomeno che ha rivisitato il rapporto fedele-Dio dall’età della Riforma di Lutero sino ad oggi. Il protestantesimo, messo da parte il primato gerarchico di Roma, si è svincolato dalla religione istituzionalizzata, fatta di dogmi e paure per offrire una visione più vera dello spirito dell’Evangelo. Numerosi sono gli studi sulla secolarizzazione, e la sociologia della religione afferma senza ombra di dubbio che più una società progredirà -sotto molteplici aspetti- e maggiore sarà il suo livello di secolarizzazione dal sacro. Dunque vi sarà una sempre più netta distinzione fra sacro e profano; a questo proposito è molto interessante l’emergere -negli ultimi anni- di nuove forme di religiosità, ispirate a tradizioni talvolta esoteriche e leggendarie, che fanno perno sui sensi di incertezza e inquietudine generati come in questo fine secolo, verso l’inizio del nuovo millennio. «Negli anni 60-70 il paesaggio religioso degli Stati Uniti si modifica. il movimento giovanile, la controcultura, sono alla ricerca di una ‘nuova coscienza’, corrispondente ai nuovi tempi, e di cui la religione potrebbe costituire il vettore.
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Tale ricerca si traduce ad un tempo nello sviluppo di nuovi culti e di sette, e nella riscoperta dei vecchi gruppi religiosi minoritari. Essa comporta, congiuntamente, trasformazioni significative, nelle grandi Chiese»64. Thomas Luckman65 afferma che il cosmo sacro è inserito nella struttura sociale, concetto questo derivato dall’analisi di Peter Berger, nell’opera La sacra volta, in cui sono analizzate le tematiche tra il problema religioso e l’individuo, in una vera e propria analisi antropologica della religione negli ultimi tempi. Berger sostiene che la religione si presenta come la più efficace difesa contro l’anomia66. Anche in questo contesto è la società e non più la filosofia ad analizzare l’idea di Dio e ad adeguarsela a se stessa.
DANIÈLE HERVIEUR-LÉGER FRANÇOISE CHAMPION, Verso un nuovo cristianesimo?, Queriniana, Brescia, 1989; p. 129. 65 THOMAS LUCKMAN, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna, 1976. 66 Cfr. PETER BERGER, La sacra volta, Sugarco edizioni, Milano 1984; p. 146. 64
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Bibliografia essenziale
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139
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Indice degli argomenti
INTRODUZIONE................................................................................................................................5 CAPITOLO II
DIO, IL PROBLEMA.........................................................................6
CAPITOLO III
IL DIO DEI FILOSOFI...............................................................11
I PRESOCRATICI.............................................................................................................................11 SOCRATE.......................................................................................................................................16 PLATONE E ARISTOTELE...............................................................................................................18 L’EPICUREISMO E LO STOICISMO...................................................................................................22 IL PENSIERO RELIGIOSO NEL II SECOLO D. C................................................................................25 PLUTARCO.....................................................................................................................................25 CELSO...........................................................................................................................................29 LA GNOSI.......................................................................................................................................31 PLOTINO........................................................................................................................................35 SEVERINO BOEZIO.........................................................................................................................38 CAPITOLO IV
IL DIO DEI CRISTIANI...............................................................44
SANT’AGOSTINO...........................................................................................................................44 DIONIGI AEROPAGITA...................................................................................................................47 AVERROÈ......................................................................................................................................50 XI-XIII SECOLO............................................................................................................................54 LA SCOLASTICA: SANT’ANSELMO, SAN BONAVENTURA SAN TOMMASO.....................................54 CAPITOLO V
IL DIO DEI FILOSOFI...................................................................63
IL QUATTROCENTO.......................................................................................................................63 La Docta ignorantia di Nicola Cusano...................................................................................63 IL CINQUECENTO...........................................................................................................................65 L’INFINITO DESCRITTO DA GIORDANO BRUNO.............................................................................67 L’ESSENZA DI DIO NELLA RICERCA MISTICA................................................................................70 TOMMASO CAMPANELLA..............................................................................................................73 IL SEICENTO..................................................................................................................................75 René Descartes.......................................................................................................................75 BLAISE PASCAL.............................................................................................................................79 BENEDETTO SPINOZA....................................................................................................................81 GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ.....................................................................................................84 JOHN LOCKE.................................................................................................................................86 GIAMBATTISTA VICO....................................................................................................................88 IL DEISMO......................................................................................................................................91 IL SETTECENTO.............................................................................................................................96 George Berkeley.....................................................................................................................96 IMMANUEL KANT..........................................................................................................................98
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CAPITOLO VI
IL XIX SECOLO.........................................................................101
FRIEDRICH WILHELM JOSEPH SCHELLING..................................................................................101 GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL.........................................................................................103 LUDWIG ANDREAS FEUERBACH..................................................................................................106 KARL MARX E FRIEDRICH ENGELS...........................................................................................109 SÖREN KIERKEGAARD.................................................................................................................111 ARTHUR SCHOPENHAUER...........................................................................................................114 VINCENZO GIOBERTI...................................................................................................................117 FIEDRICH WILHELM NIETZSCHE.................................................................................................120 CAPITOLO VII
FILOSOFIA E CRISTIANESIMO TRA ‘800 E ‘900.............123
HENRY BERGSON........................................................................................................................123 MAURICE BLONDEL....................................................................................................................125 CAPITOLO VIII
IL NOVECENTO......................................................................127
APPENDICE..................................................................................................................................130 L’IDEA EBRAICA DI DIO..............................................................................................................130 CONCEZIONI CRISTIANE..............................................................................................................131 ISLAM..........................................................................................................................................131 CONCEZIONI DI DIO NELLA TEOLOGIA E FILOSOFIA OCCIDENTALI.............................................133 APPROCCIO FILOSOFICO E RELIGIOSO.........................................................................................133 ATTRIBUTI FONDAMENTALI........................................................................................................134 CREDERE O MENO.......................................................................................................................134 Conclusioni...........................................................................................................................137 Conclusioni...........................................................................................................................137 Bibliografia essenziale..........................................................................................................140
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