Totalità contro sistema. Il marxismo e l’analisi della società oggi
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Lo studio della società come un com plesso di parti organicamente interdipen­ denti è l’oggetto che accomuna le teorie marxiste più critiche del Novecento e l’elaborazione della concezione sistemi ca. Di fronte alla manifesta contraddizio­ ne in cui cadono i due discorsi, gli aspet ri più problematici della teoria di Mar operano ancora oggi come un potente strumento d’analisi della società contem­ poranea, mostrando in pari tempo come possa essere risolto il problema relativo alla differenziazione della totalità dalle sue molte membra. Portando alla luce la struttura della realtà e le sue intrinseche tendenze processuali, le categorie mar­ xiane dimostrano che tra il tutto e le sue parti esiste un’intensa mediazione che trasforma sistema globale e sottosistemi singoli in due diverse e complementari forme di manifestazione di una dinamica più profonda che in queste entità si espri ine come nel pròprio milieu. Franco Soldani ha pubblicato La strutta ra del dominio nel Sindacalismo rivolu­ zionario è nel giovane Gramsci Milano 1985. È coautore del volume Capitali­ smo e costituzione di società, Milano 1Q2Q •

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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

SOCRATES Collana diretta da Remo Bodei, Domenico Losurdo, Livio Sichirollo 11

Copyright © 1992 by Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Napoli, via Monte di Dio 14

Edizioni Angelo Guerini e Associati Via A. Sciesa 7 - 20135 Milano ISBN 88-7802-334-5

Franco Soldani

TOTALITÀ CONTRO SISTEMA Il marxismo e l’analisi della società oggi

GUERINI E ASSOCIATI

INDICE

Premessa I.

p.ll

Il modello di Lukàcs

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1. La lettura formale della realtà e il concetto di storia, p. 19 2. La dialettica e il carattere espressivo della totalità, p. 25 - 3. H primato ontologico della materia rispetto al pensiero, p. 31 4. Hegel e la «seconda natura», p. 40 - 5. Il paradigma del lavo­ ro, p. 45 - 6. Le parti e il tutto, p. 52

IL

II tutto complesso ineguale di Althusser

59

1. La produzione e il politico-ideologico, il processo senza sog­ getto e il meccanismo dell’ideologia, p. 59 - 2. L’empirismo althusseriano: il potere e la macchina, la storia e i soggetti, il rea­ le e la conoscenza, p. 66 - 3. L’interpretazione di Hegel e di Marx: dalla «reduction ad unum» al tutto ineguale, p. 76 - 4. H rapporto tra l’intero e i suoi momenti, p. 85

III.

L’articolazione della società nella teoria sistemica

93

1. H funzionalismo e la storia, p. 93 - 2. Evoluzione, mondo, si­ stema, senso, p. 96 - 3. La società, p. 103 - 4. L’autoproduzione dell’ambiente interno da parte dei sottosistemi, p. 108 - 5. Au­ toreferenza e razionalità del sistema, p. 112 - 6. H modello olistico, p. 118 - 7. Il carattere doppio del tutto societario, p. 123

8 IV.

INDICE

La struttura della totalità in Marx 1. La dialettica di presupposto e risultato, p. 131 - 2. Circola­ zione semplice e circolazione specificamente capitalistica, p. 140 - 3. L’analisi delle forme sociali e le sue categorie, p. 149 4. La crisi del paradigma dell’interazione, dell’azione recipro­ ca: il capitale come unità di produzione e circolazione immedia­ te, p. 154 - 5. La società come sistema organico, p. 170 - 6. H modello della razionalità politica, p. 179

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Le ipotesi sono reti: tu getti la rete e prima o poi qualcosa ci trovi.

Novalis Non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né do­ vunque si voglia, che non conten­ ga tanto l’immediatezza quanto la mediazione.

Hegel

PREMESSA

1. La rimondializzazione del capitalismo attraverso il riassorbimento nei propri circuiti economico-finanziari e produttivi, politico-istituzionali, dei paesi del socialismo reale e delle aree decolonizzate è un fenomeno sotto gli oc­ chi di tutti. Questo processo di reintegrazione delle rotture di un tempo dell’ordine capitalistico internazionale sembra avere riassorbito anche ogni pensiero critico intorno alle società contemporanee ed alle loro dinamiche interne. La riflessione concettuale appare ormai svilupparsi solo entro i confini della dottrina liberal-democratica, che sem­ bra così assumere l’aspetto di un vero e proprio paradigma societario egemone. La cultura marxista italiana sconta og­ gi tutte le intrinseche debolezze della sua formazione origi­ naria, che non ha mai riferito le sue interpretazioni della realtà storica ad un modello strutturale di analisi. La critica dell’economia politica, in altre parole, non è mai diventata in Italia una teoria complessiva della società. Comunque sia, gli eventi in corso ci obbligano a consta­ tare sia l’inadeguatezza delle grandi sintesi concettuali — le famose «metanarrazioni» — che ispirarono e guidarono le rivoluzioni della prima metà di questo secolo (da quella rus­ sa a quella cinese) nel rendere conto della natura specifica delle formazioni sociali nate dal loro grembo, e perfino del loro stesso tramonto in queste società, sia la fine dell’epoca storica, quella della Terza Internazionale, in cui esse si for-

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marono e nell’ambito della quale conobbero la maggior fio­ ritura e il più intenso sviluppo. Quella fase, di fronte agli avvenimenti politico-sociali odierni, si è ormai conclusa. Il marxismo, se fino a qualche annoi fa poteva definirsi «in mare aperto», rischia oggi di andare alla deriva e di naufra­ gare se non si prende atto della rottura consumatasi con l’e­ sperienza del comuniSmo storico e con le teorizzazioni — i grandi modelli globali — che in Oriente gli avevano dato concreto corpo sociale e in Occidente lo avevano sistema­ tizzato e articolato nazionalmente. In quest’opera di rifon­ dazione è necessario ripartire in modo critico da Marx, per ripensare in maniera significativamente differente le sue categorie più importanti, cercando di dimostrare, al livello di un nuovo oggetto di conoscenza, la loro ancora intatta attualità nell’analisi della società capitalistica e dei suoi meccanismi di funzionamento e periodica transizione inter­ na1. La rivisitazione di Lukàcs e di Althusser, in questo contesto, si spiega da sé con il fatto che questi due pensato­ ri hanno rappresentato il punto più alto raggiunto da una riflessione teorica marxista intenzionata ad andare oltre la cultura della Terza Internazionale. La discussione dei loro sistemi concettuali, in questo senso, non vuol certo fare ta­ bula rasa né dei problemi che essi tentarono di risolvere (i quali, al contrario, sono in parte ancora nostri), né del co­ munque complesso impianto categoriale che essi costruiro­ no nell’intento — dialettico nell’uno, razionalistico nell’al­ tro 1 2 — di decifrare le leggi di movimento e di tendenza, l’organizzazione strutturale a piramide dell’ordine sociale del capitale. All’inverso di una pura e semplice distruzione del loro complessivo progetto o di un’altrettanto unilatera­

1 Cfr. G. La Grassa, Le transizioni capitalistiche, Ediesse, Roma 1987. 2 C£r. M. Jay, Marxism and Totality, University of California Press, Los Ange­ les 1984, p. 417.

PREMESSA

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le, speculare adesione alla loro visione d’insieme, si è qui preferito seguire un approccio critico o polemico ai loro di­ scorsi, nella convinzione che solo questo metodo faccia davvero avanzare la teoria marxista, sia attraverso la messa in luce di impasses e aporie da colmare e a cui dare soluzio­ ne, sia mediante una migliore illuminazione dell’oggetto da sussumere al pensiero. Da questo punto di vista, misurarsi con la loro teorizzazione significa anche, in ultima analisi, tanto poter meglio comprendere, per contrasto, i caratteri costitutivi della concezione terzinternazionalista, quanto cercare di penetrare i limiti del loro ripensamento, ciò che al di là dei loro intendimenti ha finito con il produrre la lo­ ro implicazione in quella concettualizzazione che pure si era cercato di rinnovare. 2. La teoria dei sistemi rappresenta oggi il modello in­ terpretativo dominante, all’interno delle scienze sociali, nell’analisi della società contemporanea e delle sue tenden­ ze evolutive3. Questo indubbio primato del nuovo para­ digma sociologico non è privo, ovviamente, lo abbiamo vi­ sto, di referenti oggettivamente sociali, né, d’altro canto, esso risulterebbe pienamente comprensibile se non si faces­ se mente locale alla terra bruciata che si è fatta intorno al marxismo da parte di tutta una serie di correnti teoriche — deboli o classiche che fossero — che in questi decenni han­ no fatto di tutto per espungerlo dal pensiero occidentale e per cancellarne persino la memoria. Sia le condizioni storiche attuali, sia quelle culturali e

3 Si veda, a cura di M. Forni, Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Cappelli, Bologna 1986. Sui più recenti sviluppi autopoietici del modello sistemico cfr. il do­ cumentato e corrosivo saggio di D. Zolo, Autopoiesis. Un paradigma conservatore, «Micromega», n. 1,1986, soprattutto le pp. 151 e sgg. Per quanto riguarda rimpian­ to generale del pensiero di Luhmann me ne sono già occupato nel volume collettaneo Capitalismo e costituzione di società, Angeli, Milano 1989, capitolo terzo: La teoria si­ stemica di Luhmann e l’interpretazione della società, pp.111-174.

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ideologiche non sono tuttavia sufficienti per spiegare per­ ché, a causa di quali ragioni profonde — inerenti alla natu­ ra di questa organizzazione societaria e alle sue incessanti trasformazioni interne — la riflessione con Marx sulle di­ namiche del capitalismo si trovi oggi di fronte a un con­ fronto cruciale con paradigmi complessivi. Non è possibile pensare la condizionatezza sociale di questi ultimi solo in termini di congiuntura storica, di fase, dello sviluppo del modo di riproduzione del capitale. Vi è, al contrario, nelT ambito del modo di funzionamento di quest’ultimo un vincolo materiale, un nucleo duro che meglio e più a fondo della variabilità nel tempo dei diversi tipi di letture concet­ tuali della realtà può contribuire a render conto della relati­ vità sociale della teoria dei sistemi. La vincolazione di quest’ultima al contesto della formazione economica capitali­ stica, cioè, può essere rinvenuta in un fondamento perma­ nente (processuale) in cui si radica la struttura e l’articola­ zione per livelli tra loro diversificati e differenziati ciascu­ no al proprio interno della società moderna. Tale ragion d’essere fa capire sia perché i saperi che pensano quest’ultima debbano sempre tendere a disegnare un profilo d’insie­ me di essa, sia perché, così facendo, essi producano all’in­ terno stesso del loro reticolo concettuale smagliature e la­ cune che rendono perennemente instabile e precaria la loro teorizzazione di un momento dato dello sviluppo sociale. Questa correlazione, anzi, può forse concorrere alla spiega­ zione della cornice societaria più interna e preliminare ri­ spetto a quelle sistematizzazioni, che traccia gli stessi con­ fini sociali nell’ambito dei quali — come dentro un perime­ tro invalicabile — quei pensieri possono dar luogo alla loro competizione e reciproca, alternantesi, sostituzione. La concorrenza dei paradigmi trova qui sia una sua pre­ cisa delimitazione di campo capace di rendere intelligibile l’alternanza delle guide teoriche di fase in fase, sia la radice che chiarisce il continuo emergere dal loro interno di incoe­

PREMESSA

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renze e fessure formali che offrono l’occasione di leggere dal didentro, ad un tempo, tanto le loro debolezze quanto la determinazione che le zone in essere, che dà a tali conce­ zioni un aspetto d’insieme simultaneamente coerente e in­ coerente. L’attuale predominio del modello sistemico, la sua pretesa di aver finalmente individuato, nel suo lato so­ ciologico, un criterio generale e onniabbracciante per l’in­ terpretazione della società, possono così essere studiati se­ guendo un prezioso enunciato di Marx, quello per il quale la critica veramente filosofica non solo prende atto delle reali contraddizioni di un pensiero, ma soprattutto le chia­ risce, ne rende conto, individuandone la radice storica e spiegandola a sua volta 4, in modo da farle uscire dall’appa­ rente dibattito delle idee cui sembrerebbero esclusivamen­ te appartenere. 3. Nel corso dell’analisi risulteranno evidenti le ragioni dell’alternativa da noi posta sin dall’inizio tra i due oggetti di conoscenza. Il rinnovamento di quella complessa e pluri­ dimensionale formazione teorica che la storia ha prodotto come marxismo passa oggi, a mio avviso, attraverso la di­ mostrazione della sua superiorità esplicativa rispetto agli strumenti logici messi in campo dai nuovi saperi, tanto in rapporto alla plausibilità e densità/intensità concettuali del­ le rispettive categorie, quanto in relazione alla diversa con­ formazione che il mondo reale finisce con l’assumere una volta che esso sia attraversato da altri occhiali sistematici o costruito con differenti griglie interpretative. Da questo punto di vista, il concetto di sistema e quello a esso con­ trapposto di totalità disegnano due tipi di società estremamente differenziati a causa dei contenuti teorici, distanti da e divaricantisi rispetto a quelli sistemici, che si concen­ trano in una categoria chiave del pensiero di Marx, catego­

4 K. Marx, Operefilosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 105.

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ria che qui verrà messa in gioco quale referente centrale di tutta l’argomentazione: quella di immanenza delle forme d’esistenza del capitale al proprio fondamento. I complessi significati di questo concetto metafisico e la sua correlazio­ ne al, articolazione nel, più ampio e denso quadro del ma­ terialismo storico marxiano risulteranno da sé nel corso dell’esposizione e della messa a raffronto delle diverse ri­ sposte che sono state date al problema della rappresenta­ zione della società come un Tutto nel processo di pensiero. Esso d’altronde costituisce un’ipotesi di lavoro incen­ trata sull’idea, di derivazione marxiana, che i rapporti di produzione contemporanei affondino la loro radice mate­ riale (socialmente tale) sin dentro la razionalità apparente­ mente solo tecnologica dei processi di lavoro, di esplicazio­ ne di ogni attività lavorativa sociale di tipo cooperativo ; È questa intrinsecità del potere a luoghi e corpi oggettivi di residenza a fare del capitale un’organizzazione societaria di tipo inedito, particolarmente solida nel suo dentro e pluriarticolata — multipolare e stratificata, estremamente ra­ mificata e diversificata tanto in verticale quanto in oriz­ zontale — nel suo fuori. E questo oggetto complesso e nel contempo complicato, capace tanto di porre da sé il proprio ambiente esterno quanto di farlo continuamente precipitare ed esistere al proprio interno, che abbisogna di una ragione forte per po­ ter essere spiegato conformemente alla sua natura irrequie­ ta (alla proliferazione di varietà che esso induce). Studiare la struttura societaria del capitale juxta sua principia — me­ diante un principio impersonale di determinazione — è solo un altro modo, in fondo, di mettere in risalto e cercare di comprendere l’intima costituzione processuale della realtà contemporanea, la sua interna forma dinamica, in continuo divenire. Come già aveva perfettamente capito Marx, «la società odierna non è solido cristallo, ma un organismo ca­ pace di trasformarsi e in costante processo di trasformazio­

PREMESSA

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ne»5. È a questa struttura aperta di riproduzione della dif­ ferenziazione sociale e di assimilazione dell’altro che va adesso prestata attenzione.

5 Id., IlCapitale, I, Einaudi, Torino 1975, p. 7.

I

IL MODELLO DI LUKACS

1. La lettura formale della realtà e il concetto ài storia

Come è noto, la riflessione di Lukàcs, sin dai suoi inizi, ha contratto uno stretto rapporto — poi mantenuto sino agli ultimi scritti — sia con Hegel, sia con il concetto di totali­ tà L Questi due punti cardinali di riferimento rappresenta­ no la risposta di Lukàcs all’ortodossia — positivista teorica­ mente, fatalistica e provvidenzialistica politicamente — im­ perante nel marxismo della 2a Internazionale. Di contro a questa ormai screditata formazione ideologica, la «nuova problematica» di Lukàcs 12 riarticola al proprio interno tutta una serie di categorie che, nella sua intenzione, avrebbero dovuto ridisegnare un intero, alternativo, sistema di pensie­ ro. Perché questo progetto non sia riuscito a raggiungere il suo scopo è quanto adesso vedremo. In primo luogo, Lukàcs non riesce a rompere veramente con il primo e più importante topos della tradizione. Anche in lui la tecnologia, il «sapere strumentale», rimangono de­ terminazioni che i rapporti sociali non riescono a raggiunge­ re, dimorando esse piuttosto a fianco delle classi e del loro interagire conflittuale. Come il giovane Gramsci, Lukàcs

1 Cfr. M. Jay .Marxism and Totality, cit., p. 85. 2 Ibid, p. 103.

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legge il processo produttivo in modo tutto immediato, come produzione in generale, mero processo di lavoro finalizzato al puro e semplice ricambio organico sociale 3. Il potere non entra nella razionalità della tecnica, esso viceversa vi si cor­ rela attraverso il modo politico del dispotismo che ordina tra loro ruoli e posizioni sociali di classe, gerarchicamente di­ sposte da un’intenzione di dominio. Questa connessione per il tramite dell’esteriorità sta alla base anche della contraddizione che Lukàcs vede prender forma, in modo classico, tra forze produttive e rapporti di produzione 45 . L’impulso alla trasformazione interna del modo di produzione capitalistico deriva da questa relazione biforcantesi, che da una parte tende a separare potere e tecnologia e dall’altra a predispor­ re le condizioni più favorevoli per un’organizzazione delle classi dominate nel e attraverso il processo della lotta di clas­ se 3 (il proletariato come «metasoggetto» della storia) 6. Qui Lukàcs fa suo un motivo teorico tipico del marxismo rivolu­ zionario degli anni Venti: il «contrasto» (come egli si espri­ me) tra la socializzazione sempre più spinta dei processi di lavoro e l’irrazionalità della ricomposizione sociale median­ te la forma-merce, quella «seconda natura» che Lukàcs rite­ neva «soverchiante» rispetto all’agire intenzionale dei sog­ getti 7. Il modello che prende forma in queste inferenze è un calco preciso di quello giovane-gramsciano 8 e come questo ne replica tutti i limiti. La natura del capitale è infatti letta ovunque, a tutti i livelli, mediante il criterio del fuori nel

3 Cfr. G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1978, pp. 66-69, p. 77. 4 Cfr. ibid.,pp.XXXVI-XXXVm,pp. 14-32,p. 304. 5 Cfr. ibid., pp. 52-55, p. 85, pp. 90-100. Si veda anche id., Cultura e rivoluzio­ ne, Newton Compton, Milano 1975, praticamente in tutto il libro. 6 Cfr. M. Jay, Marxism and Totality, cit., pp. 106-111. 7 Cfr. G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 88, pp. 132-136. 8 Si veda il mio La struttura del dominio nel Sindacalismo rivoluzionario e nelgio­ vane Gramsci, Unicopli, Milano 1985.

IL MODELLO DI LUKACS

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rapporto tra le diverse istanze: ognuna di esse si rapporta al­ l’altra attraverso il medio dell’influenza, dell’interagire reci­ proco di ciascuna parte nei confronti dell’altra. Non vi è, in questo paradigma, uno state dentro, di ciascun livello o mo­ mento, all’altro. Ciò diventa più comprensibile se si pensa al fatto che, come tutti gli intellettuali della sua generazione e del suo tempo, Lukàcs è letteralmente ossessionato dall’idea di scoprire un fondamento oggettivo dell’impossibilità del capitalismo a durare eternamente. La relatività storica del capitalismo, il suo carattere intimamente transitorio, è un’assunzione che deriva a Lukàcs dalla necessità di con­ trapporsi a ciò che egli chiama le «forme dell’oggettualità» che occultano la realtà e la trasformano in un alcunché di fis­ so, di dato una volta per tutte, in cui il capitale può trovare una sua potente legittimazione 9. La transizione ad altro — motti proprio, per sua interna tendenza — di questa società deve dunque presentargli co­ me una conditio sine qua non della stessa pensabilità della trasformazione sociale, della rivoluzione. La natura com­ plessiva del capitalismo come realtà dominata dalla «legalità autonoma» (automatica) della merce, la razionalizzazione dei processi di lavoro fondata sul calcolo (taylorismo) conse­ guente all’impiantarsi della prima nel corpo sociale, le classi come correlazioni di individui, come entità intersoggettive, la crisi del potere nell’esaurimento delle funzioni progressi­ ve dell’imprenditore (capitano d’industria) e nell’inaspri­ mento della «contraddizione interna» del capitale (economia pianificata)10, sono tutte categorie che portano impressa nella loro stessa costituzione formale l’aporia tipica del pen­ siero del fuori.

9 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 20, pp. 47-52, p. 61. 10 C£r.ztó,p.88,pp. 112-119, pp. 124-136, p. 143, p. 157, pp. 180-190, pp. 285-286.

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Esse, infatti, leggono tutte l’essere sociale mediante l’immagine tutta immediata che esso dà di sé e non riescono a cogliere né l’interiore delle cose, né i processi che da que­ ste ultime promanano. Esse, in altre parole, rimangono sem­ pre entro un livello di analisi che paradossalmente le fa di­ morare solo all’esterno dell’oggetto che si aspirerebbe a rap­ presentare. La realtà del mondo, così, non è pensata dal di­ dentro della sua conformazione contemporanea n, bensì so­ lo in quella sua sezione d’esistenza in cui essa appare, si ma­ nifesta, nel di fuori appunto. Questa dimensione del reale, in cui le sole determinazioni concrete, osservabili, sono quelle finite 11 12, possiede una particolare opacità a causa del fatto che in essa le forme che la abitano si presentano su se stesse positivamente fondate, come ciò da cui tutto comin­ cia e in cui, come in un abisso, tutto ritorna. Entriamo den­ tro questo eminente problema attraverso l’analisi del con­ cetto di storia. A differenza del Marx della maturità, Lukàcs interpreta il tempo storico come se nel fluire degli eventi si raccogliesse tutta la realtà significativa delle organizzazioni sociali. L’empiria reale, la salda natura “oggettiva” della storia vie­ ne letta da Lukàcs come un grande corpo processuale che non presuppone nient’altro al di fuori di se stessa. Essa non possiede nessun antecedente causale né di nessun altro tipo essendo un divenire perenne di discontinuità o, nel linguag­ gio dell’ontologia, un ininterrotto processo del divenir-altro 13. La storia, in altri termini, non ha a sua premessa al­

11 Per la categoria di contemporaneità, un concetto cruciale dell’intera teoriz­ zazione marxiana, si veda La teoria sistemica di Luhmann e l'interpretazione della so­ cietà, cit., pp. 113-116. 12 II concetto è di Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, I, Laterza, Bari, 1980. 13 G. Lukàcs, Ontologia dell'essere sociale, II, Editori Riuniti, Roma 1976-1981, p. 81, p. 167, p. 246.

IL MODELLO DI LUKACS

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cunché e si presenta con tutta l’evidenza di un tempo sociale autoidentico che non ha alcun bisogno di rimandare oltre se stesso. Attraverso il medio della processualità, Lukàcs è con­ vinto di aver distrutto la realtà direttamente data — pietrifi­ cata e ipostatizzata — che il pensiero borghese (specialmen­ te quello dell’economia politica classica) aveva posto quale base ultima dell’intera esistenza dell’essere. La mera fattua­ lità, una volta che essa venga concepita come processo, una volta che essa dalla forma rigida venga convertita in forma «fluida», viene per così dire soppressa e trasformata in qual­ cosa d’altro a cui è stata sottratta ogni falsificazione. In questo passaggio i fatti finiscono con il perdere la loro apparente natura di suolo, di priorità indiscutibile e insupe­ rabile e si mutano in momenti di una dinamica complessiva il cui meccanismo interno è precisamente il contrario della loro inalterabile staticità o atemporalità («assolutezza»)1415 . Una volta che il sapere abbia introdotto nella propria lettura del mondo questa differenza, il reale immediato può essere oltrepassato (superato) qualora la teoria afferri gli «oggetti» come momenti di una totalità sociale complessiva che si tra­ sforma nella storia Con l’ausilio del «processo dialettico» — in cui ogni istanza viene intesa come punto di trapasso nel tutto — la realtà vede emergere dal proprio interno la sua struttura oggettuale (terrena: immanenza dell’essere so­ ciale) autentica e fondamentale. Ciò perché la dialettica del mutamento consente di lacerare lo spessore irrigidito delle «forme» e fa venire in primo piano il carattere essenzialmen­ te sociale, di relazione, delle cose. La datità da cui tutto sembrava avere origine si presenta alla fine di questo proces­ so come un qualcosa di interamente diverso rispetto alla rap­ presentazione borghese di esso. L’immediatezza, come ero-

14 Id., Storne coscienza di classe, cit., pp. 243-248. 15.Ibid.,pp. 197-225.

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sta immutabile del mondo, è stata dissolta e l’oggetto che viene fuori da questa dissoluzione rappresenta un alcunché d'altro rispetto ai suoi inizi: la realtà oggettiva dell’essere so­ ciale, alla conclusione della metamorfosi, appare così in mo­ do differente che alla partenza. Mentre il pensiero borghese assume come date le categorie della realtà, la prassi del sog­ getto interviene in modo attivo all’interno dello sviluppo “oggettivo” della società, assecondandone la direzione e l’intensità secondo un telos che trasforma le virtualità dispo­ nibili in istituzioni concrete 16. Il «metasoggetto» di Lukàcs può assumere il punto di vi­ sta della totalità perché in esso, nel suo corpo politico, viene a esistenza storica la pressione originaria e inarrestabile del «sapere strumentale», delle forze produttive. L’ordine socia­ le che esso è capace di esprimere e persino di anticipare cor­ risponde in pieno alla dimensione totale attribuita da Lu­ kàcs alla crescita del e al crescente potere onnipervasivo del­ la razionalità tecnologica a cui la prassi politica semplicemente apre le porte presentandosi come ciò che contribuisce ad affermarne la necessità o destino 17. Il proletariato è l’al­ fiere della totalità poiché all’epoca, nell’attualità della rivo­ luzione 18, esso sembrava rappresentare a Lukàcs gli interes­ si generali — più importanti e di lungo periodo — della so­ cietà complessiva 19. Oltre a dipendere dalle categorie più datate della tradi­ zione, questa visione è difendibile e argomentabile da Lu­ kàcs perché essa presuppone una determinata interpretazio­ ne della dialettica che le fa poi da fondamento. Come spiega­ re, infatti, l’apparente paradosso di una distruzione dell’em­

16 Ibid. 17 Cfr. ibid., p. 234; id., Cultura e rivoluzione, cit.; id., Lenin, Einaudi, Torino 1970, pp. 39-41, i8 Id.,Lew«,cit.,p.31. 19 Id., Storia e coscienza di classe, cit., pp. 104-105.

IL MODELLO DI LUKÀCS

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piria attraverso il ripristino di quella stessa datità iniziale anteposta al pensare da cui si era partiti? Evidentemente si può render conto di questa incongruenza solo nell’ambito del concetto che le funge da premessa.

2. La dialettica e il carattere espressivo della totalità In Lukàcs la dialettica ha l’aspetto di un rapporto tra momenti opposti, intrinsecamente correlati, che sviluppa dentro di sé immanenti tendenze al superamento delle for­ me immediate della realtà, dei momenti fissati e isolati do­ minanti nei fenomeni apparentemente statici dell’essere so­ ciale. Il nesso di «opposizione contraddittoria» che pervade e attraversa tutte le cose e i processi della vita reale è per Lu­ kàcs una relazione avente in se stessa un incomprimibile im­ pulso ad autosopprimersi, a togliersi o oltrepassarsi nell’in­ cessante divenire del tempo sociale. Questa dinamica tanto fa tutt’uno con lo (è identica allo) stesso sviluppo storico, quanto di questo sovverte continuamente le datità che ten­ derebbero a imbozzolare in un corpo senza vita l’esistenza degli individui. Il «processo dialettico» trasforma le forme di oggettualità degli oggetti in un flusso discontinuo il cui fi­ ne ultimo è la completa decostruzione dell’apparente fattua­ lità dell’essere sociale e la transizione di quest’ultimo a qual­ cos’altro di completamente differente dalle sue origini. La società capitalistica, in tale modello filosofico, ha precisamente a suo fondamento questo meccanismo corrosi­ vo e propulsivo che ne promuove e ne orienta lo sviluppo per contrasto, attraverso continui passaggi e trapassi da un’op­ posizione all’altra, dentro un processo di trasformazioni se­ gnato da rotture: è la dialettica reale per contraddizione 20.

20 Cfr. ibid., p. 271; id., Lenin, cit., p. 67.

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TOTALITÀ CONTRO SISTEMA

La totalità storica e sociale di Lukàcs, così, non è solo, come è stato notato, «espressiva» perché essa riflette la sua propria genesi, il prodotto della prassi del «metasoggetto» nella so­ stanziale unicità di soggetto-oggetto della storia21. Essa è tale, in verità, per un altro più profondo motivo, attinente al ruolo imperialistico che nella concezione di Lukàcs gioca il concetto della «sussistenza oggettiva» delle «forze economi­ che», della tecnica in particolare, come «legalità naturali» (fini della storia) esercitanti un’interna pressione sulla strut­ tura sociale data, in direzione del suo stesso tramonto 22. La storia del capitalismo si configura qui come un enor­ me, epocale, processo di trasformazione di tutta la realtà so­ ciale lungo la freccia del tempo, in cui ogni momento dell’in­ tero è coinvolto in e attraversato da quello. L’espressività della categoria di Lukàcs, allora, consiste proprio in questo, nell’essere ciascuna parte del tutto solo un mèdio transeunte della e costantemente superato dalla dinamica unitaria della forma complessiva23. Ciascun elemento di quest’ultima, nella transitiva, rigorosa correlatività di ciascuno all’altro, tanto deve necessariamente passare nel proprio opposto (o contrario), quanto deve altrettanto inevitabilmente transi­ tare e ricadere solo all’interno del tutto (di cui è, in definiti­ va, unicamente un’articolazione subordinata). Il predomi­ nio assoluto della totalità è tale che gli «elementi e momenti particolari hanno in sé la struttura dell’intero» 24, di modo

21 Cfr. M .~fay, Marxism and Totality, cit., pp. 59-60, pp. 108-109; Jay definisce il tipo di tutto sociale tematizzato da Lukàcs come una totalità «longitudinale», coe­ rente e strutturata in modo complesso: cfr. ibid., p. 31, p. 47, p. 105. Cfr. anche lo scritto di A. Feenberg, L'identità subjet-objet et la dialectique de la nature dans les pre­ miers écrits de Lukacs, in AA.W., Attualità de la dialectique, Anthropos, Paris 1980, pp. 294-300. 22 Cfr. G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., Introduzione, p. XIV, pp. XXXVI-XXXVHI, p. 89, pp. 234-241. 23 Ibid., p. 36. 24 M.,p.231,p.261.

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che essi possono esser presi individualmente soltanto come proiezioni e distaccamenti di quel complesso da cui dipendo­ no e che veicolano o rappresentano nei diversi livelli dell’or­ ganizzazione globale. Ciò vuol dire, altresì, sia che ciascuno di essi è la totalità, porta dentro la sua opposizione all’altro i caratteri di quest’ultima, sia che ognuno non ha alcuna esi­ stenza effettiva al di fuori di questo circolo chiuso che ne de­ limita l’essere o la natura propria. Che la totalità sia espres­ siva significa tanto che in ogni parte isolata si può (e si deve) leggere la presenza del tutto, del processo, della continua fluidificazione delle «forme oggettuali» e del loro trapasso in altro, quanto che l’intero esercita sui suoi elementi una forza d’attrazione che li incolla permanentemente alla radice da cui provengono e dalla quale hanno ricevuto mediazione 25. Questa accezione forte di unità sociale, estremamente compatta e per così dire accentrata, dispotica, porta Lukàcs verso una lettura della società complessiva in cui le relazioni tra le varie e differenziate istanze funzionano attraverso i modi dell’interazione dal di fuori di ciascuna con l’altra, in un processo di combinazione reciproca in cui il motore delle correlazioni viene visto inerire a un alcunché — il «processo economico oggettivo» — che da una parte si situa all’esterno della loro intrinseca natura e dall’altra si pone come legge su­ periore della loro trasformazione storica in una forma diver­ sa da quella capitalistica26. La normatività dello sviluppo sociale 27 è il concetto base che più stringe Lukàcs al modello della tradizione, al referente di fondo di tutta l’ortodossia e del pensiero terzinternazionalista. Con questa assunzione teorica Lukàcs non riesce a rompere. D’altra parte, questo postulato entra anche nell’idea di «opposizione contraddit-

25 Ibid.,\>. 35, p. 217, pp. 236-243. 26 Ibid.,p.234. 21 Cfr. id., Cultura e rivoluzione, cit., p. 47, pp. 131-132.

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toria» che il giovane Lukàcs mutua da Hegel, mettendone in questione gli attributi sistematici che egli credeva le ineris­ sero. Se gli opposti vengono letti solo in termini relazionali, in cui ogni momento è dato a un tempo con l’altro entro un’unica coppia 28 — ciò che Lukàcs chiama «correlati ne­ cessari» 29 —, se la loro interiorità al tutto viene poi pensata in termini di «dominio determinante e onnilaterale» 30 del secondo sui primi, se, infine, il processo dialettico mediato dalla contraddittorietà dei lati nell’ambito della totalità vie­ ne rappresentato come immanente — necessaria, ineluttabi­ le — transitività degli oggetti correlati ad altro, allora il fraintendimento del reale stato delle cose non potrebbe esse­ re più completo. L’opposizione, infatti, in un certo Hegel e in un certo Marx, non disegna né designa un nesso soltanto unitario tra i rispetti messi in rapporto, né la totalità si rapporta alle fi­ gure relazionali solo per il tramite della rigida sovradeterminazione fissata da Lukàcs. Ciò che egli non ha compreso è lo stare dentro l’uno all’altro dei momenti proprio all’interno della loro correlazione: ciascuno è il suo reciproco altro. Questo significa sia che ogni momento si riferisce solo a se stesso, sia che ciascuno di essi possiede la propria determina­ tezza solo nella sua relazione all’altro: indipendenza e inter­ dipendenza ad un tempo di ciascun lato dell’opposizione. D’altra parte, i contenuti di questa categoria non sono anco­ ra del tutto precisati da queste iniziali distinzioni. Esse, a lo­ ro volta, sono ulteriormente e preliminarmente mediate dal­ l’estinzione del loro fondamento nella loro esistenza che così si rappresenta al pensiero corrente, al sapere quotidiano, co­ me mero essente. Come bene dice Hegel, la ragion d’essere

28 Ibid.,\>. 60. 29 Cfr. id., Storia e coscienza di classe, cit., p. 173. 30 Ibid.,$. 35.

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del mondo esistente si toglie mentre si pone e ciò che risulta, alla fine, da questo divenire è soltanto un fitto reticolo di nessi derivati, ma appunto tali che essi non appaiano così, bensì unicamente come rapporti immediati, fondati su se stessi31. La totalità, in primo luogo, non si rapporta più così ai suoi momenti attraverso il medio della loro diretta afferenza al proprio grembo. Essi, al contrario, vi si riferiscono e pos­ sono trovare in essa la loro sintesi unitaria solo in quanto l’intero si rappresenti nella loro fatticità plurale mediante l’esser posto in modo tolto del suo substrato. Poiché la causa dilegua, sparisce dal mondo relazionale che essa istituisce, i suoi diversi, molti e differenziati effetti reali possono libera­ mente svolgere i loro ruoli formali in assenza apparente di qualsivoglia altra determinazione cui dover relativizzare la propria mera sussistenza. L’organizzazione dell’empiria che scaturisce da questo processo di mediazione, in secondo luo­ go,’a differenza di quanto credeva Lukàcs, non ha alcuna in­ terna tendenza ad andare oltre se stessa, in quanto le con­ traddizioni che prendono forma e hanno luogo al didentro del corpo sociale non possiedono alcuna natura oltrepassan­ te gli stati di fatto che esse determinano. Il movimento «dia­ lettico» cui esse danno vita, infatti, non fa altro che attualiz­ zare è dare esistenza concreta — storica — al fondamento che in esse si rappresenta: esse non sono, immediatamente, la loro ragion d’essere, bensì solo ciò in cui quest’ultima è o riceve esistenza. I processi apparentemente contraddittori delle opposi­ zioni reali, dei contrasti della realtà contemporanea, all’in­ verso di quanto tematizzato da Lukàcs, non solo non metto­ no capo al loro contrario, all’altro che dovrebbe loro ine-

31 Cfr. Hegel, Scienza della logica, II, Laterza, Bari 1981, pp. 629-632; id., Propedeuticafilosofica, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 96.

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rire, non solo non producono alcuna automatica transizione a un «mondo nuovo», ma finiscono paradossalmente per perpetuare e consolidare quel potere impersonale del capita­ le in quanto tale che ha posto la loro vigenza e si è estinto in essi per meglio e più sicuramente riprodursi. Tutto l’oppo­ sto, quindi, del postulato, cui fa riferimento Lukàcs, di una realtà in sé «dialettica», avente al proprio interno, cioè, la «necessità» del «salto» a un’altra epoca dell’umanità ormai libera dal dominio 32. Anche se si volesse fare provvisoria­ mente astrazione dalla funzione onniabbracciante e destinalistica della storia in Lukàcs (guidata e strutturata dall’og­ gettività presociale della razionalità tecnica a cui l’intenzio­ nalità del soggetto dovrebbe dare adeguato, corrispondente corpo politico), la totalità sociale che emerge dall’interno della (pur sempre complessa) articolazione sistematica della pratica teorica in discussione non riesce a differenziarsi in modo significativo da un puro e semplice rispecchiamento, nei suoi tratti essenziali, dell’esistente. La società nel suo complesso è pensata infatti da Lukàcs come una «unità del molteplice» 33 — un tutto strutturato a più livelli in modo gerarchico — in cui vige, nella relazione tra ogni istanza e dentro ciascuna di esse, il criterio ultimo della interazione reciproca tra tutti i momenti, un principio di correlazione che non riesce a leggere né la dipendenza di questi inter­ scambi da qualcos’altro di preliminare rispetto a essi (poiché li pensa in modo autoidentico, senza presupporre nient’altro prima e al di là della loro esistenza immediata), né la deriva­ zione del carattere centrato e piramidale della forma societa­ ria da un potere non direttamente visibile o presente in que­ sta struttura (a rovescio di quanto fa Lukàcs quando riduce

32 Cfr. G. Lukàcs, Cultura e rivoluzione, cit., pp. 50-55; id., Lenin, cit., p. 26 e p.108. 33 Ibid.

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il dominio alle sue sole forme politiche: le classi esistono solo nella lotta di classe) 34. Neppure negli scritti della piena maturità, — nemmeno nella monumentale Ontologia dell’essere sociale —, quando il pensiero di Lukàcs cercherà di pensare, ad un tempo, le tra­ sformazioni sociali del capitalismo contemporaneo e l’uscita a sinistra dallo stalinismo attraverso una nuova precisazione e complessificazione del proprio oggetto di conoscenza, l’ar­ ticolazione e la natura delle singole categorie cambierà. An­ che negli anni (tra il 1967 e il 1971, data della sua morte) in cui Lukàcs matura la crisi del proprio modello iniziale, pas­ sando dalla «centralità metodologica della totalità» alla «priorità della sfera economica» 35, sostituendo l’analisi del­ le complesse determinazioni della forma-mercé con il para­ digma del lavoro, i significati dei concetti già elaborati con­ tinueranno a rimanere inalterati nella loro struttura fonda­ mentale.

3. Il primato ontologico della materia rispetto al pensiero

L’opus magnum di Lukàcs, infatti, continua a leggere le molteplici articolazioni della realtà attraverso il medio del fuori, dando vita a una ricostruzione concettuale di tutte le sue determinazioni più importanti in termini di presupposto. Le legalità indipendenti esistenti nell’essere sociale — un la­ to tra i più rilevanti di questo Lukàcs — sono ricondotte a una realtà essente in sé che la coscienza, se la riflette rima­ nendo a distanza da essa senza mai poter aspirare a riprodur­ ne l’infinita diversità, si pone davanti alla mente che pensa come a un alcunché di dato per scontato da cui necessaria­

34 Ibid.,p. 126, pp. 132-134. 35 Id., Storia e coscienza di classe, cit., Introduzione, p. XXI.

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mente dover partire 36. Credendo qui di mettere all’opera il primato ontologico della materia sul pensiero, Lukàcs fini­ sce per approdare a un’assunzione acritica di una datità37 eminentemente problematica, che viene così ridotta a un og­ getto, in piena evidenza, autoidentico, espressivo solo di se stesso, non di altro. D’altra parte, come in Storia e coscienza di classe, questo essente fattuale subisce una deformazione a causa dell’isolamento e dell’apparente per sé stare di ciascun momento del reale nella società capitalistica38. La cono­ scenza degli oggetti e dei loro rapporti deve dunque passare attraverso la loro inclusione in un tutto unitario capace di ri­ specchiare nella mente la loro essenziale natura complessiva, totale 39.1 dati di fatto, così crede Lukàcs, vengono depriva­ ti della loro immediatezza e posti come un alcunché di coor­ dinato e coerente («demistificato») grazie al loro passaggio entro un diverso sistema di pensiero che ne ristabilisce l’au­ tenticità togliendo le opacità che ne oscuravano i tratti es­ senziali. Per questo motivo ragione e intelletto, pur essendo due distinte e contrapposte forme di razionalità, stanno da­ vanti al medesimo mondo di oggetti e hanno come loro refe­ rente comune la stessa realtà 40. Il mondo sussistente è quindi pensato come il fondamen­ to ultimo — ontologico ut sic — del pensare, come ciò che sia si distingue dalla mente come un qualcosa di autonomo e condizionante dall’alto della sua priorità, sia mette quella in grado di riflettere nei suoi schemi, in un modo a un tempo adeguato e inadeguato a seconda del modello del soggetto attivo usato nell’approssimazione (non fotografica) al reale

36 Cfr. id., Ontologia dell'essere sociale, I, cit., pp. 48-49, p. 55, p. 83, pp. 275-276, pp. 345-348; vol. II, pp. 190-194. 37 Itó/.,I, pp. 139-140. 38 Ifód.,p.226,p. 237. 39 Ibid., pp. 156-159, p. 195,p. 243, pp. 271-272. 40 Ibid.,pp. 227-228.

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in sé, l’estrema differenziazione e complessità (eterogeneità) dell’essere. La storia, come processo sociale contraddittorio e ineguale, rappresenta un dispiegarsi temporale di eventi a un tempo fattuali e non-immediati, in quanto la sua unità è contemporaneamente unità e differenza (un intero «dialetti­ co») 41 conficcate direttamente nella realtà. E quest’ultima a riprodursi in modo discontinuo nel corso del tempo, tanto come un fluens irreversibile di stati di fatto o dati eterogenei e frammentati — incoerenti e apparentemente fissi —, quanto come una dinamica trapassante nel suo contrario, nell’unitarietà di un movimento delle forme storiche che va al di là della loro ipostatizzazione iniziale 42. Nello sviluppo storico, all’interno dei suoi cicli — a spirale — differenziali, i fenomeni sociali tanto disvelano quanto nascondono, nel contempo, l’essenza della realtà43, il suo essere una conte­ stuale determinazione doppia: tanto un esserci in cui il con­ creto appare come un fatto quanto un alcunché da non pren­ dere in questa sua datità. L’empiria del mondo possiede que­ sto spessore specifico perché in essa può trovare una sua pe­ culiare legittimazione l’organizzazione capitalistica della so­ cietà, che tende a presentarsi, in quella forma, come un qual­ cosa di cosale, di per sé inconoscibile e sottratto al muta­ mento 44. Questo carattere del reale, a sua volta, non è che il prodotto derivato di un presupposto storico: delle «antino­ mie» conficcate nella stessa struttura sociale del capitale, va­ le a dire nella relazione «relativamente autonoma» dei molti sistemi parziali tra loro, nell’incoerenza che da qui si genera

41 Ibid.,p. 48. 42 Ibid.,pp. 73-74. 43 Ibid., p. Gl. 44 Per il capitalismo è essenziale, necessario, occultare la lotta di classe, l’anta­ gonismo: questo dato di fatto deve scomparire dalla coscienza sociale. Se si saldasse con l’oggettività delle forze produttive, la prassi, la consapevolezza politica, potreb­ be far saltare il dominio. Cfr. id., Storia e coscienza di classe, cit., pp. 80-81.

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all'interno della «necessità» sociale, nel rapporto reciproco tra legalità del caso particolare e accidentalità dell’intero (un principio strutturale e illimitato, universale, del capitali­ smo) 45. Per Lukàcs, tuttavia, il dualismo inerente a questo essere-proprio-così della realtà tende a essere risolto dal proces­ so «dialettico» immanente alla storia stessa, il quale spinge quest’ultima in direzione del superamento destinalistico del­ l’irrazionalità di questo mondo. In quest’ambito, le teorie che assumono la datità emergente da quella base d’essere co­ me un oggetto non problematico rappresentano riflessi del­ l’intelletto che producono costantemente, anche se non sempre coscientemente, l’apologià dell’ordinamento sociale esistente (essente), la dimostrazione della sua immodificabi­ lità46. Le teorizzazioni, invece, che si rifanno alla totalità costituiscono un sapere dialettico capace di arrivare alla co­ noscenza del motore interno della società in grado di soppri­ mere le contrapposizioni dominanti e di mettere in movi­ mento una concreta trasformazione/sowertimento dell’esser-dato degli oggetti. Le prime falsificano la realtà, le se­ condo sono a essa isomorfe e ne rispettano la natura più ve­ ra, più profonda ed essenziale 47. Nonostante il fatto che Lukàcs elabori queste inferenze per prendere giustamente le distanze tanto da ogni convezionalismo fondato solo su se stesso, quanto da qualsivoglia manipolazione formale dei fatti (due filosofie neoconsérvatrici che da una parte derealizzano il concreto e dall’altra lo riducono a mero materiale a disposizione della tecnica) 48, i risultati cui egli finisce con il giungere mostrano ugualmente

45 Cfr. ibid., pp. 132-134, pp. 206-207. 46 J£zd.,pp. 61-62. 47 Cfr. ibid., Introduzione, p. XXVIII, p. LI. 48 Cfr. id., Ontologia dell'essere sociale, I, cit., pp. 34-41, p. 71, pp. 79-84, pp. 107-108.

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tutti i loro limiti. Se si prende le mosse, come fa Lukàcs, da una struttura ontologica del mondo già data, da una realtà sociale storica essente anteriore e preesistente rispetto alla sua sistematizzazione concettuale (che poi il pensiero depu­ ra, per così dire, della sua prima empiricità assorbendola nel proprio medio omogeneo derivato, indiretto, risultato di una pratica conoscitiva, non mera accettazione immediata della {atticità), tutti gli oggetti e i processi che è possibile pensare in quest’ambito dovranno per forza di cose apparire come determinazioni dalle quali è assente la presenza del po­ tere sin dentro il loro corpo naturale. Di fatto, Lukàcs rilegge tutte le istanze reali come se esse fossero, ad un tempo, tan­ to su se stesse positivamente fondate quanto in relazione re­ ciproca attraverso la loro semplice interdipendenza. Le cose e i loro rapporti sono caratterizzati da un processo di «mu­ tua determinazione» 49 in cui ciascun momento, pur essendo in un certo senso il doppio dell’altro, non è mai interno al­ l’opposto, ma si rapporta a esso per mezzo dell’agire e dell’interagire esterni. Ogni elemento, pur stretto nella correla­ zione con l’altro, mantiene e conserva un proprio corpo indi­ viduale al didentro del quale non è presente alcun principio informatore: la sua struttura interiore e la sua dinamica im­ manente non posseggono nessuna forma che, in qualche mo­ do, inerisca o sia identica in modo riflesso al suo essere, alla propria costitutiva densità materiale. La natura dei singoli e il divenire dei molti momenti, al contrario, derivano ambe­ due dal movimento relazionale reciproco e dalle sue tenden­ ze, cui essi stessi danno vita ponendosi l’uno di fronte all’al­ tro, l’uno accanto — per contrasto — all’altro, nell’ambito di un processo che, sia sembra promosso da questo motore esteriore (anche se afferente al loro nesso), sia può imporsi come «seconda natura» — mercato o agire politico — sovra­

49 Ibid., pp. 344-346, pp. 35 /-359.

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stante gli stessi momenti dall’alto del suo carattere oggettivo^ E questo un criterio logico generale e onnipervasivo del­ la grande opera di Lukàcs, la quale da questo lato non si di­ stacca in niente dai lavori giovanili, ponendosi all’inverso come la loro sintesi più matura e compiuta. Hegel, in questo contesto, è ancora interpretato in modo tradizionale, come il grande pensatore della dialetticità del mondo e della con­ traddizione oggettiva insita nella realtà come fondamento ultimo — o legalità ontologica — di tutto il sussistere 50. L’analisi dei concetti hegeliani segue qui il tracciato delinea­ to nella fase precedente, producendo dei risultati conoscitivi che non riescono a cogliere la sostanza dell’oggetto studiato. Lukàcs, si può dire, ripete sine glossa la critica giovane­ marxiana al filosofo tedesco, imputando a Hegel di alterare i fatti ontologici sovrapponendo loro le «forme logiche» della ragione assoluta51. Questo procedimento «speculativo» consente a Hegel sia di afferrare la realtà storica, sia di su­ bordinarla all’uniformità categoriale atemporale o autofon­ data del sistema52. Tuttavia, si argomenta, lo sviluppo e l’articolazione del pensiero hegeliano risultano essere di par­ ticolare rilevanza per l’ontologia dell’essere sociale proprio in quanto, grazie alla sua duplicità o più propriamente dop­ piezza, ci consente di accedere alla comprensione del reale come processo attraversato e strutturato da «antinomie» e «opposizioni» 53 che, pur sembrando escludersi a vicenda 54, in realtà si muovono nel senso della loro «negazione» 55 in un qualcosa di diverso e di superiore rispetto alla loro appa-

50 51 52 53 54 55

Ibid., pp. 73-74, pp. 81-82, pp. 166-170. Itó.,pp. 196-205, pp. 224-233. Ibid., pp. 181-188, pp. 194-195. Z^zW.,pp. 168-179. M.,n,p. 25. Ibid., I, pp. 197-201, pp. 256-257.

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rente irrisolvibilità o incoerenza56. A differenza di quello hegeliano, nondimeno, il superamento dei dualismi e dei contrasti non si svolge esclusivamente nell’ambito metafor­ male dell’idea: esso ha un significato specifico, materiale, solo se il divenir-altro rappresenta un trapasso radicalmente sovvertitore delle forme oggettuali dimoranti nel reale. La condizione essenziale dunque perché la negazione possa es­ sere considerata e rappresentata come un andar-oltre Tes­ sente è che essa venga pensata e colta nel mondo come un al­ cunché che si radica in esso e vi si enuclea dal didentro in modo autonomo o, come si potrebbe forse più modernamen­ te dire, autoreferente 57. La Aufhebung storica, nell’accezione di Lukàcs, non è più interpretabile, allora, come mera determinazione gno­ seologica della conoscenza astratta, come un’elevazione del­ l’intelletto alla ragione svolgentesi per intero nella coscien­ za: la Aufhebung si verifica invece nella realtà modificandola in modo più o meno radicale in conseguenza delle forze che premono verso o contro l’oltrepassamento. Se quest’ultimo è ideale esso ha sempre carattere teorico, limitato e confina­ to all’interno della Mente che pensa se stessa o Dio, se esso, all’inverso, è reale prende la forma di un’interazione fra complessi o complessi di processi regolata da leggi, in ultima analisi, storico-sociali58. Questo significa che la storia non è governata dalla ratio teologico-teleologica hegeliana59, ben­ sì da un’azione reciproca di momenti indissociabili («coppie oppositive») — sia a se stanti sia solidali, in relazione solo a se stessi e insieme a ogni altro — caratterizzata dalla sua na­ tura terrena, solida, differente da quella solo logicistica del­

56 57 58 55

M.,pp. 172-173. Ibid.,p. 367, p. 396. Ibid.,pp. 256-258,p.270;vol.Il,p. 83. Ibid.,pp. 244-245.

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l’idealismo 60. Il fatto è che per Lukàcs le negazioni che av­ vengono nell’ambito dell’essere sociale sono ontologicamen­ te connesse ad atti soggettivi, all’agire teleologico delle deci­ sioni alternative di individui che sia entrano in correlazione con «sistemi di mediazione» relativamente autonomi (il di­ ritto, lo Stato, ecc.), sia danno luogo dal loro interno relazio­ nale a una rete intricatissima di complessi eterogenei che in­ teragiscono in modo disomogeneo l’uno con l’altro produ­ cendo prima facie solo un caos 61. L’esito cui finisce con il mettere capo questa dinamica d’interdipendenze è un oggetto che Lukàcs, senza alcuna sua interrogazione preventiva o sintomale, e anzi facendone quasi un calco, mutua direttamente da un certo Hegel (un Hegel secondo Lukàcs). Esso si configura come un effetto, una risultante vettoriale, delle molte e differenziate posizio­ ni teleologiche di soggetti plurali che finiscono con il realiz­ zare alla fine qualcosa di più e di diverso rispetto alle loro iniziali intenzioni. Quello che nasce dalla competizione o collaborazione delle molte decisioni alternative che si intrec­ ciano reciprocamente (contrapponendosi o unendosi) è un movimento sociale — una sorta di “condensazione ” a poste­ riori — che si rende indipendente dagli scopi immediati e progettuali dell’agente singolo o collettivo62. La storia si enuclea dall’interno delle molte e complicate/complesse in­ terazioni dei soggetti con tutti i tratti di una legalità oggetti­ va avente carattere autonomo e sovradeterminante la prassi cosciente originaria degli individui 63. La «forma complessi­ va» che emerge al culmine di tale unitario processo «con­ traddittorio» 64 assume l’aspetto di una configurazione para-

60 61 62 63 64

Ibid.,??.232-233,pp.248-250. M.,pp. 201-202, pp. 385-388. Ibid., p. 173, pp. 184-185; vol. Il, p. 125. Ibid.,p. 3>21. IZ»/J.,p.337.

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dossalmente «priva di soggetto» 65 in cui il caso, la spinta cieca delle forze in campo, svolgono un ruolo centrale al — costitutivo e pressoché ineliminabile dal — didentro di es­ sa (anche se accessibile, così crede Lukàcs, alla razionalità che l’ha descritta e riassunta) 66. La socialità capitalistica sopra disegnata prende la consi­ stenza di una «seconda natura» 67 il cui modello viene esteso da Lukàcs tanto all’economia quanto alla politica come trat­ to intrinseco del modo di funzionare di queste due diverse istanze del tutto. Nella prima domina l’irrazionalità del va­ lore di scambio, di un processo di mediazione e interrelazio­ ne tra singoli attori economici che finisce per dare forma a un sistema finale chiuso in se stesso, che riposa su se stes­ so 68, contrapposto, come «realtà dura» insopprimibile e in­ controllabile 69, alle volizioni solipsistiche dei «produttori» individuali70. La legalità della merce, la circolazione dei molti capitali particolari guidati e orientati da fini divergen­ ti e non coordinati, producono un meccanismo naturale di funzionamento dell’economico in cui si rovescia l’ordinario «corso delle cose», e ciò che si presentava d’abord come il punto di partenza di tutto il movimento si trasforma alla fi­ ne in un qualcosa di posto dal e subordinato al suo stesso esplicarsi e dispiegarsi71. Nella seconda i «valori» societari assumono anch’essi un carattere oggettivo (pur essendo, per natura, soggettivi e alternativi) in quanto «parti motrici», «parti integranti reali», dello sviluppo storico dell’essere so­ ciale nel suo processo di riproduzione.

65 66 67 68 69 70 71

Ibid.,pp. 199-201. IZ>zW.,pp. 342-349. Ibid., vol. Il, p. 125. Ibid., vol. II, p. 89. Ibid., vol. I, p.397. Ibid., voi. n, pp. 85-90, pp. 125-129, pp. 150-152, pp. 230-232. Ibid., vol. I, p. 396.

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L’interpretazione neoclassica di Lukàcs legge l’interrela­ zione intersoggettiva, interindividuale degli agenti secondo la stessa immagine ricorsiva che essa autorizza di sé: le inte­ razioni degli individui sfociano in una sorta di metapotere che li sovrasta, ma che nello stesso tempo è prodotto da loro, dalle loro decisioni biforcantisi — necessariamente, stante l’impossibilità di riflettere in modo compiuto o una volta per tutte una realtà infinita: nessuna conoscenza può essere onnilaterale, ma solo plurale — simultaneamente ininten­ zionali e intenzionali. E grazie a questo complessivo proces­ so sociale, continuamente rinnovantesi, che i «valori» si con­ servano e nel contempo costituiscono — in «un’unità con­ traddittoria» — la «legalità trascendente» che li domina 72.

4. Hegel e la «seconda natura» La complessa argomentazione di Lukàcs mostra in questi luoghi sistematici tutti i problemi teorici che a essa derivano dalla problematica del fuori. In primo luogo, ancora una vol­ ta, Hegel viene letto senza alcuna consapevolezza dell’im­ portanza che l’idea di riflessione ha all’interno del suo intero sapere. Lukàcs prova questa sua incomprensione sia quando non pone nessuna differenza di significato tra effettuale {wirklicb} e reale {real) 73 — due dimensioni diverse, due di­ stinti livelli dell’essere in Hegel —, sia quando tratta indif­ ferentemente, come se fossero la stessa cosa, opposizione (o contrario) e contraddizione 74, sia, infine, quando interpreta il concetto di mediazione, tanto negli anni Venti quanto nel­ la maturità, come se in esso semplicemente Hegel rappresen­

72 Ibid., vol. Il, pp. 96-99. 73 Ibid., vol. I, p. 151. 74 Ibid., p. 73, pp. 166-179, pp. 241-248.

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tasse processi di determinazione dell’esser-proprio-così di un complesso, come se esso funzionasse unicamente come ponte di passaggio — mero mezzo — tra uno stato di cose e l’altro, soltanto interponendosi tra l’immediatezza e il risul­ tato 75. La mediazione, nella cornice ontologica propria di Lu­ kacs, si presenta come una sorta d’impulso inerente alla datità che ne porta alla luce (virtualmente) la natura transitiva, dal suo interno sottoposta al cambiamento e al passaggio po­ tenziale in altro. In questa visione essa è solo l’altro estremo dell’apparente oggettualità dimorante in modo esaustivo nel mondo, ciò che attesta l’immanente tendenza di quest’ultima ad andare oltre se stessa (un processo effettivo che si rea­ lizza nella storia, non nel pensiero) 76. In tutti questi tre casi, Lukàcs ha fatto astrazione dal già menzionato principio del dentro che nella contemporaneità dà forma alle cose e ai pro­ cessi dall’interno di essi attraverso lo sparire di sé nel men­ tre si pone nei loro corpi e nel loro continuo e differenziante divenir-altro. Se si postula questo fondamento universale, relativo al capitale, diffuso molecolarmente in orizzontale per quanto esso è intensivo in verticale, allora non è più pos­ sibile parlare di intrinseca Aufhebung della realtà sociale ca­ pitalistica, poiché in questa le contraddizioni che si svilup­ pano nell’essere e in parte lo modificano non rappresentano passaggi ad altro, ma unicamente transizioni in quello. Di­ versamente da quanto pensava Lukàcs, le antinomie, i con­

75 Cfr. ibid., pp. 237-238. In queste pagine Lukàcs ritiene che la mediazione sia una categoria solo ontologica, non una determinazione prima di tutto concettua­ le. I processi di mediazione sono unicamente dei processi oggettivi, essenti in sé; quelli logici ne sono soltanto il riflesso, il rispecchiamento. I primi sono indipenden­ ti, i secondi condizionati da questa loro base primaria, prioritaria. Il loro rapporto è soltanto una relazione di tipo ontologico, in quanto solo ciò che è essente in sé, realtà concreta, può essere allo stesso tempo autonomo. Cfr. anche id., Storia e coscienza di classe, cit., pp. 198-206, pp. 210-217. 76 Cfr./&d.,I,p.238.

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trasti, i dualismi, le opposizioni — con tutto il loro corredo di correlatività e superamento — dominanti nel reale non spingono quest’ultimo in direzione del suo oltrepassamento, bensì ne riproducono i presupposti continuamente appro­ fonditi e complicati. Le contraddizioni, in altre parole, non sono in sé aperte alla differenza, al discontinuo. Esse, al contrario, pongono e moltiplicano soltanto se stesse, in un incessante processo di proliferazione e di ispessimento che rende tendenzialmente sempre più ampio il ventaglio di pos­ sibilità disponibili per l’omeoresi sociale 77. Che nella teorizzazione di Lukàcs sia assente questa co­ gnizione è dimostrato anche dal fatto che egli inverte in con­ tinuazione il rapporto causa-effetto nell’analisi della «secon­ da natura». Mentre gli agenti — sia che essi vengano pensati en économique o en politique — vengono visti da Lukàcs co­ me soggetti sussunti alle proprie pratiche specifiche, a una oggettività che si impone loro in modo indipendente pur es­ sendo da essi determinata, in Marx appaiono piuttosto come la proiezione nell’immediata visibilità, palpabilità, dello spazio-tempo sociale di una struttura materiale anteposta e preliminare rispetto al loro esser-dato-così. Gli individui che interagiscono nella doppia superficie sociale disegnata da Lukàcs, prima di essere essi stessi diretti responsabili del mondo rovesciato che li assoggetta alle sue leggi, presuppon­ gono una differente ragion d’essere della loro esistenza che non compare nel loro esserci. Apparentemente sussistenti

77 I processi che includono al loro interno delle «relazioni contraddittorie» esdudentisi a vicenda, precisa Marx, non conducono al superamento di tali contrad­ dizioni. Essi creano, invece, laforma entro la quale queste ultime possono muoversi e svilupparsi: «Questo è, in gènere, il metodo col quale si risolvono le contraddizioni reali \wirkliche Widerspriiche]», in Das Kapital, I, Dietz, Berlin 1979, p. 118; trad, it., Il Capitale, I, cit., p. 126. Il concetto di «omeoresi» è stato preso in prestito da C. Waddington, Strumenti perpensare, Mondadori, Milano 1977, pp. 107 e sgg.; cfr. an­ che J. Piaget, Lo strutturalismo, Il Saggiatore, Milano 1978, pp. 69-82.

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per sé, e in correlazione l’uno con l’altro solo a partire da ciò, i soggetti non sono mai in rapporto diretto con le loro origini, bensì solo con l’ambiente derivato in cui essi esistono o sono essenti. Le pratiche a cui essi danno vita e gli effetti che queste ultime possono produrre e producono in questa cornice senza fondamento non rappresentano, dunque, l’ef­ fettiva radice del loro comportarsi in modo intenzionale, se­ condo decisioni alternative promananti dalla loro volontà. Gli apparenti due livelli dell’esserci dei soggetti — l’agire teleologico e il suo contrario —, a ben vedere le cose, costi­ tuiscono in realtà un unico oggetto, in quanto ambedue esprimono le articolazioni di qualcosa d’altro che in essi si rappresenta e da cui essi non sono autonomi. La «seconda natura», in altri termini, non è posta in prima persona dagli agenti perché questi ultimi hanno precisamente il compito di mediare in dimensioni sociali d’esistenza la forma appa­ rentemente soltanto tecnologica del lavoro oggettivato: quella categoria è essa stessa, a sua volta, «surdeterminata» (è per questa ragione essenziale, inter alia, pertinente cioè alla determinatezza interna del capitalismo, che oggi la «ma­ no invisibile» del mercato si intreccia con la «mano visibile» della direzione strategica d’impresa o che lo Stato può porta­ re un certo «ordine etico» mediante la politica nella società civile). Il fondamento specifico del capitale — la dinamica processuale della valorizzazione — produce, ad un tempo, l’uno e l’altro carattere dell’agire basato sulla propria auto­ determinazione, ponendosi come il referente unitario della loro apparentemente contrapposta posizione. La «seconda natura» di Lukàcs non costituisce dunque un’effettiva espli­ cazione teorica delle forme di mediazione del potere, perché essa non si differenzia affatto dalla sua fonte, rappresentan­ done un alcunché di sovrastante solo in virtù della sua pro­ venienza dal capitale. Questa categoria, in realtà, non è ri­ ducibile soltanto al suo contenuto cogente, in quanto il sog­ getto e l’oggetto sono posti d’un colpo solo, fanno tutt’uno e

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non rappresentano quindi, immediatamente, l’uno la causa o l’opposto dell’altro. Ambedue i rispetti, invece, ricadono completamente nell’ambito della natura dei lati, sono termi­ ni correlativi non posti da sé, né reciprocamente esterni né trapassanti ad altro. Che i soggetti agiscano e che essi siano agiti dalla loro stessa pratica sono eventi o momenti che non contrastano affatto né si interrelano dall’alto della preminenza di uno qualsiasi tra essi. Essi sono, all’inverso, coordinativi, in quanto la prassi teleologica non è fondante, ma derivata, di­ pendente già sin dall’inizio, costitutivamente, sin dentro il suo corpo intenzionale, dal capitale che l’ha posta. La «se­ conda natura» nel senso di Lukàcs non coarta le decisioni in­ dividuali, ma scaturisce direttamente, coerentemente, dal loro assoggettamento alla logica della riproduzione societa­ ria e non possiede, dunque, alcuna naturalità. Ciò contribui­ sce anche a portare nuova luce nell’opposizione di Lukàcs a ogni tentazione teorica soggettivistica, antropomorfizzante o manipolatoria. Nella misura infatti in cui Lukàcs postula il carattere ontologico della «realtà materiale», esistente indi­ pendentemente dalla coscienza, facendone un principio es­ senziale anche per l’analisi sociale, egli si preclude l’interro­ gazione dell’essere storico secondo criteri differenti dal suo essere su se stesso fondato e scambia per deformazioni di ima realtà essente in sé le forme fenomeniche vigenti nella fattualità empirica. Spogliato di queste sporgenze mistifi­ canti, il mondo rivela dal suo stesso interno la sua salda uguaglianza con sé e deve essere pensato in modo conforme o corrispondente al suo essere-proprio-così e non altrimenti, come un sistema dominato da necessità extra-soggettive che ne reggono il corso e i processi di trasformazione in modo in­ dipendente. Com’è evidente, qui l’ontologia di Lukàcs incorre in una serie di aporie vere e proprie che ne revocano in dubbio la plausibilità e la coerenza. Come abbiamo visto, infatti, non

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esistono, nel modo in cui le ha pensate Lukàcs, legalità so­ ciali che possano dirsi realmente autonome e prioritarie ri­ spetto all’intelletto soggettivo o che possano dettare preli­ minarmente a questo “vettori” di direzione e di sviluppo. L’ontologia dell’essere sociale qui in questione, in effetti, non ha alcun referente oggettivo — né nell’economia né nel­ la società — per il tramite del quale corroborare il suo com­ plesso progetto sistematico. Il suo discorso, anzi, diventa ambiguo qualora si pensi al fatto che le «tendenze imperso­ nali» conficcate nella realtà da una parte sono interpretate da Lukàcs attraverso il modello degli «opposti dialettici», dall’altra mediante un’idea di «sintesi sociale» derivata dal comportamento, ad un tempo, consapevole e inconsapevole dei soggetti che sono quanto di più problematico si potesse sostenere per una teoria della disantropomorfizzazione. Le propensioni neoclassiche di Lukàcs si fanno ovviamente più evidenti nella tematizzazione della produzione come ogget­ to precipuo e luogo di residenza privilegiato di quel paradig­ ma del fuori più volte enunciato come punto di riferimento archetipico del pensiero di Lukàcs nonché premessa della «normatività automatica» della connessione circolatoria (il vero tratto distintivo del capitalismo rispetto alle società passate) 78. 5. Il paradigma del lavoro In continuità con la riflessione giovanile il Lukàcs dell’on­ tologia continua a ritenere che il lavoro si rapporti alla natura attraverso il medio neutrale (rispetto ai valori) della tecnica a cui i rapporti sociali sarebbero legati per mezzo dell’uso 79.

78 Cfr. G. Lukàcs, Cultura e rivoluzione, cit., p. 71, pp. 159 e sgg. 79 Cfr. id., Ontologia dell1essere sociale, Ie II, cit., rispettivamente pp. 316-317 epp. 49-55, p. 146, pp. 236-239.

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Questi definiscono la cornice societaria all’interno della quale la pressione strumentale della tecnologia può svolgere la sua funzione determinate tanto nel promuovere l’arretra­ mento delle «barriere naturali», quanto nell’instaurazione di un decrescente «tempo di lavoro socialmente necessario» co­ me misura della «produttività lavorativa», della razionalità è della sempre più spinta efficienza/efficacia dei processi di la­ voro. L’economia di tempo, la costante riduzione di tale quantum lavorativo tanto mettono in grado le diverse socie­ tà di disporre di una quantità crescente di valori d’uso, quanto introducono la regolazione dello scambio e del valore di scambio nelle relazioni intersoggettive, trasformando i beni soddisfacenti bisogni di merci80. Il primo processo rap­ presenta il prius ontologico dell’essere sociale, in quanto me­ diazione indispensabile alla riproduzione biologica della vita umana, il secondo, invece, si presenta come una forma reifi­ cata e feticizzata :— irrazionale — di concreti rapporti stori­ ci tra classi sociali gerarchicamente stratificate e ordinate. Mentre la «legge del valore», in quella guisa, è una condizio­ ne naturale eterna dell’esistenza sociale 81, una caratteristi­ ca atemporale del processo di appropriazione degli oggetti, il mercato rappresenta una categoria socialmente preformata che si è mutata nella figura dominante della riproduzione so­ cietaria, imponendo un criterio universalmente quantitativo di determinazione della grandezza di valore — di misurazio­ ne indiretta del plusvalore nei prezzi delle merci — attraver­ so l’anarchia della ricomposizione ex post82. Lasciamo qui perdere i referenti engelsiani del ragiona­ mento di Lukàcs e concentriamo l’attenzione sul primo lato di questo nesso. La priorità della produzione è stata così fat­ ta discendere da Lukàcs dal ruolo imprescindibile che essa 80 CfrJ£à/.,II,pp. 140-145, fjp. 154-156, pp. 169-180, pp. 250-251. 81 Ibid. , I,p.393. 82 Cfr. ibid., Il, pp. 141-145.

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gioca nella riproduzione primaria della vita umana, del fon­ damento organico dell’essere sociale. D’altra parte, questo primato della «sfera economica» rispetto agli altri sottosiste­ mi sociali 83 non è una funzione che derivi a essa solo dal suo rapporto «ontogenetico» con il corpo e l’alimentazione chi­ mico-fisica dell’uomo. Esso ha soprattutto uno spiccato ca­ rattere economico-socialè, relativo al modo in cui nella pro­ duzione si sviluppano le facoltà e la socialità umane lungo una linea evolutiva che allontana dall’animalità originaria e relega sempre più sullo sfondo — senza mai annullarle — le «barriere naturali». La cooperazione lavorativa mediata dal­ la tecnica è l’istanza del tutto che rapporta l’economia al mondo storico-sociale, facendo penetrare in questo l’impul­ so «progressivo» — crescente potere di disposizione sulla natura, sviluppo della socializzazione dell’essere sociale (id est, della contraddizione interna alle «forme oggettuali» che preme per la loro rottura) — inerente al «ricambio organico» mediato dal processo di lavoro 84. In virtù di questa posizione centrale, la produzione, so­ stiene Lukàcs, costituisce il «momento soverchiarne» 83 di tutta l’organizzazione societaria, tanto della sua struttura complessiva quanto della sua dinamica 85 86. La società come totalità è concepita come un «complesso di complessi» strut­ turato dall’interazione, dalla cooperazione e interrelazione per contraddizione, di molti sottosistemi variamente e com­ plessamente articolari tra loro secondo un preciso principio d’ordine. Le «coppie oppositive» che tessono la trama d’in­ sieme del corpo sociale, in questo modello, sia hanno esi­ stenza come forme essenti dell’intero, come suoi «momenti

85 I&W.,II,p,234. 84 Cfr. ibid., pp. 281-289, p. 310, pp. 314-319, pp. 325-326; cfr. anche I, pp. 382-383. 85 Ibid.,I,pp. 310-319. 86 Ibid., Il, pp. 291-292.

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d’essere» (possono essere compresi scientificamente, cioè, solo al suo interno), sia portano impresse nei loro rapporti di coppia o nel loro complesso la priorità ontologica della pro­ duzione 87. Il tutto è qui dunque tanto un sistema onnicom­ prensivo, quanto un sistema piramidale d’interazioni com­ plesse disposte su più livelli intersecantisi. La relativa aper­ tura del rigido schema giovanile è evidente 88 : le categorie correlative (o interrelazioni reali) si vedono riconosciuta una certa specificità e il loro appòrto alla costruzione della forma complessiva diventa adesso attivo nell’intercooperazione delle molte istanze (esso non è più un mero riflesso della «lo­ gica generale» dell’unità). Esse, in altre parole, non meno che essere determinate nel contesto del tutto, contribuisco­ no anche alla definizione, strutturazione dell’intero profilo societario, in un’interazione con altri complessi che non ne annulla la peculiarità. La società come intero è costituita da elementi singoli i quali rappresentano delle «totalità parzia­ li» (locali), complessi che si muovono in modo relativamente autonomo per andare a confluire nel metasistema più ampio e a loro superiore della totalità. L’autonomia relativa delle molte categorie, dei differènti momenti individuali, dà vita a .un processo di sintesi in cui la mutua determinazione, il condizionarsi a vicenda, l’azione reciproca di ognuno con l’altro mettono capo a un disegno globale di ricomposizione che sottosta al carattere primario dell’istanza «soverchiante». L’essere sociale, così, rappresenta un complesso di com­ plessi in cui hanno luogo costanti sistemi di interazioni sia fra i complessi parziali tra loro, sia fra il complesso totale e le sue parti, il tutto sotto l’egida e la supremazia, comunque, di un vertice determinato 89.

87 Cfr. ibid., I, pp. 311-312, pp. 356-357; II,pp. 137-138. 88 Cfr. anche NL.jay, Marxism and Totality, cit., pp. 113-114, pp. 118-127. 89 Cfr. id., Ontologia delTessere sociale, II, cit., pp. 57-58, pp. 137-138.

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L’unità sociale, come si vede, non assume in Lukàcs l’a­ spetto di una semplice collaborazione, interconnessione, pa­ ritaria e uniforme dei molti sottosistemi tra loro in un ambi­ to circolare — o senza fondamento — di funzionamento. La presenza di un vincolo, di una radice sovraordinata all’erra­ tica dispersione delle forze in campo, allo sventagliamento coordinativo di subsistemi indifferenziati e alla pari, è ciò che impedisce alla concezione in causa di sciogliere la com­ plessità della struttura dell’essere in un reticolo di inter-, scambi di determinazione in cui andrebbe perduta la specifi­ ca natura gerarchica (necessariamente tale) di un’organizza­ zione societaria pur sempre segnata, sin dalla sua nascitas da disuguali e biforcatisi rapporti di potere tra classi oggetti­ vamente contrapposte 90. La pura e semplice disposizione in orizzontale dei molteplici rapporti, delle complesse interre­ lazioni tra una pluralità di istanze diverse, afferma Lukàcs, potrebbe condurre solo a un «assetto stazionario», in defini­ tiva statico, senza un momento particolare capace di impri­ mere una direzione e una linea di sviluppo aperta verso il fu­ turo e complessiva alla parzialità dei movimenti messi in mò­ to dai singoli sottosistemi 91. Il nuovo deve, per forza di co­ se, essere prodotto da un elemento verticale in grado di far continuamente trapassare la società come tale, come intero, in gradi diversi dell’essere nel dispiegarsi dell’irreversibilità del tempo storico 92. La natura centrata della società è da mettersi in relazione con questa esigenza di individuare un motore sociale determinante tanto processi trasformativi in avanti quanto un’articolazione strutturale dell’insieme che non disperda in un’indistinta equiparazione le differenze

90 Cfr. ibid., p. 246, p. 288; I, pp. 275-276, p. 311. 91 «Le sole interazioni — sostiene Lukàcs — non possono produrre in un com­ plesso nulla più che lo stabilizzarsi dell’equilibrio»; ibid., p. 229. 92 Cfr. ibid., II, p. 135, p. 230, p. 245; I, pp. 356-357.

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della coordinazione. L’economia nell’accezione ontologica di Lukàcs tanto stabilisce una «dipendenza ultima» o «di­ pendenza in ultima istanza» dei vari sottocomplessi sociali da sé, quanto attribuisce a questi ultimi una certa autonomia che li mette in grado di agire nei confronti dei e reagire ai molteplici e proliferanti compiti di mediazione che la cresci­ ta della complessità sociale mette e metterà loro davanti93. La totalità di Lukàcs è un metasistema che da una parte produce in continuazione al proprio interno un ambiente turbolento che i diversi e specializzati sottosistemi debbono tendere a controllare e ordinare in modo il più possibile equilibrato per consentire la sua assimilazione, il suo riassor­ bimento nell’ambito di quello stesso quadro generale che pure l’ha posto in esistenza (una funzione omeostatica di cui il tutto non può fare a meno), dall’altra assegna a queste «forme mediatrici» una struttura interna e dei compiti speci­ fici aventi un senso solo al didentro della dinamica concreta — disuguale e contraddittoria — dello sviluppo economico (opponendosi o coadiuvando le sue tendenze, limitandone le disfunzioni, ecc.) 94. Producendo da sé i propri problemi di stabilità, il bisogno di dar loro una risposta adeguata in ter­ mini estensivi e intensivi, l’intero crea anche, ad un tempo, in modo necessario, le condizioni base per l’intervento atti­ vo dei complessi parziali in quei problemi, determinando co­ sì in maniera indiretta la loro stessa specificità {relativa ap­ punto, in quanto condizionata dalla cornice che li delimi­ ta) 95. La reductio ad unum degli anni Venti ha lasciato spa­ zio a una concezione più flessibile dei rapporti tutto/parti, poiché queste ultime possono adesso giocare i loro ruoli di mediis terminìs senza più essere schiacciate sulla e limitate al-

93 CfrJtó.,p.223,p.236,p.249. 94 /&W.,p.245. 95 lbid.,p. 138,p.255,p.284.

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la — immediatamente identificate con la — totalità (sue im­ potenti emanazioni). L’azione sulla, e retroazione di ogni sottosistema alla, complessità del mondo, essendo un «modo proprio» di reagi­ re delle parti agli impulsi provenienti dal movimento genera­ le, dà luogo anzi a «forme peculiari di sviluppo ineguale» che sottolineano vieppiù i cambiamenti intervenuti nella concet­ tualizzazione originaria di Lukàcs. Le «singole sfere» sociali hanno oggi un loro rapporto di mediazione con l’economia che è divenuto più ampio e complesso da quando le loro in­ terdipendenze venivano pensate in termini di «derivazio­ ne», di «deduzione» lineare, delle prime dalla seconda 96. Il concetto di «momento soverchiarne» denota- così in modo estremamente chiaro la transizione del modello in questione a un tipo di rappresentazione teorica in cui il carattere geo­ metrico della prima sistematizzazione ha ceduto parzialmen­ te il posto a uno schema interpretativo fondato su interrela­ zioni e nessi di determinazione più elastici e privi di ogni «dipendenza meccanica» o automatica 97. La struttura gene­ rale e specifica dell’essere sociale, in definitiva, rappresenta un’unità che, senza rinunciare alla propria natura globale, forma da sé o dà vita, per l’appagamento dei propri bisogni, a una serie di «organi» del tutto diversi, nei quali la sua origi­ naria integrità possa essere nel contempo superata e conser­ vata, «organi» che realizzano nella loro struttura interna questa identità di identità e non-identità nelle forme più svariate. E il «gioco dialettico» intrinseco al processo totale tra complessi parziali singoli relativamente autonomi e «for­ ma complessiva» o «complesso di complessi» a dare corpo concreto — pluriarticolato, dinamico e flessibile, fatto di

96 Ctr. ibid.,p. 248. ” /tói.,p.224,p.238.

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correlazioni ramificate e molto indirette — all’intera socie­ tà 98.

6. Le partì e il tutto La teorizzazione di Lukàcs ha quindi plasmato e delinea­ to, attraverso il ricorso a categorie filosofiche classiche riela­ borate in modo originale ma non rispettoso della loro densi­ tà, un completo sistema di rapporti tra livelli e istanze diffe­ renziati, entro una più comprensiva cornice a dominante, che per quanto articolato non è ancora stato analizzato in tutti i suoi più interni volete. Manca infatti nella costruzione di Lukàcs una determinazione che egli costantemente invo­ ca o mette all’opera senza mai però esplicitarne i significati o sottoporla a più attento esame critico. Essa, in un certo sen­ so, vi- è presente implicite, e ricorre nei diversi luoghi attra­ versati finora senza che Lukàcs, apparentemente, senta il bi­ sogno o colga la necessità di definirne i contenuti problema­ tici (costituenti problema), la funzione di collante che essa esercita nel tenere insieme i vari piani del suo discorso e le loro intersezioni. La totalità tratteggiata da Lukàcs, in effet­ ti, oltre ai molti tratti immanenti che le competono, come abbiamo visto, possiede anche la caratteristica di multare dall’intreccio per interazione fra innumerevoli processi ete­ rogenei che finiscono con il disegnarne, in ultimo (senza al­ cun fine preformato), il profilo d’insieme 98 99. Pur nell’ambito della loro subordinazione all’elemento «soverchiante», le molteplici specializzazioni di cui sono portatori i differenti complessi parziali erogano prestazioni infrasistemiche che finoscono per raccogliersi e condensarsi — assumendo una

98 I&J.,p.240,p.255,p.282. 99 Cfr. ibid.,1, p. 184, p. 311.

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forma solida conseguente alla loro natura fluida — in un or­ dine conclusivo (di epoca in epoca o di fase in fase all’inter­ no di un dato periodo storico) che esse contribuiscono a far nascere e a determinare proprio-così e non altrimenti, come un essere dato in modo oggettivo (storico). Se l’intero detie­ ne il primato, per i motivi che sappiamo, rispetto alle sue parti, queste ultime però svolgono in Lukàcs un ruolo costi­ tutivo nel far sorgere quel metacomplesso al cui interno poi continueranno a far valere la loro «operatività reale», e ciò proprio in conseguenza dell’aver fatto uscire dalla secca uguaglianza con la totalità le molteplici e differenziate istan­ ze del mondo sussistente 10°. La società come tale si compone delle molte parti che in­ terferiscono attivamente tra loro mettendo capo esse stesse alla configurazione d’insieme. Il complesso totale è formato dai differenti complessi singoli e dalle loro azioni e retroa­ zioni reciproche: un meccanismo di produzione e di control­ lo della divisione sociale del lavoro che si rende indiretta­ mente responsabile anche di ciò che dal suo interno emerge alla fine come sintesi di tutto il processo. La distinzione tra i due livelli — tra l’intero e le sue parti —, oltre ad essere da Lukàcs fondata nell’intrinseco tratto prioritario dell’econo­ mia, riceve a suo avviso un’ulteriore potente corroborazio­ ne, un indispensabile finish, dal carattere oggettivamente dato che finisce con l’assumere il tutto nella dinamica sopra considerata. Quest’ultimo appare a Lukàcs con tutte le fat­ tezze di un cristallo ontologico, di un monolitico stato di fat­ to perché egli è convinto che il meccanismo della fatticità — essendo non teleologico, necessario/non voluto — possieda nei suoi esiti un’intrinseca superiorità rispetto a qualsiasi co­ sa (anche agli elementi da cui proviene). Esso rappresenta un corpo complessivo che nella sua interiore conformazione100

100 Cfr. ibid., II, p. 137, p. 229, p. 252, p. 284.

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naturale ha tutta l’abbagliante evidenza di un mondo indi­ pendente, spontaneo e autonomo dall’interagire delle «sfere sociali» e dalle volizioni individuali dei soggetti (ad un tem­ po, senza che lo si sappia, autodeterminantisi e assoggettati) in cui Lukàcs ha disciolto la determinazione strutturale delle classi. La società che si enuclea dal didentro del movimento complessivo inerente alla storia propria della formazione so­ ciale capitalistica rappresenta un mondo sovrastante che è stato posto solo da se stesso, non da qualcosa d'altro che si renda responsabile del suo condizionamento: né unilateral­ mente dalla produzione né dai soli complessi parziali (i due estremi sono infatti correlati necessari). Lukàcs, in altre pa­ role, constata, prende atto dell’emergenza fattuale di un tut­ to strutturato che si rende indipendente dalle parti (ricom­ prendendole anzi al suo interno) attraverso la sovradeterminazione su di esse esercitata sia dal «momento soverchiante», sia dalla sua stessa genesi, dal carattere «assoluto» del­ l’oggetto unitario cui essa dà forma 101. Pur essendo i singoli complessi parziali, relativamente autonomi, capaci di opera­ re la sintesi, essi non possono essere identificati con quest’ultima — essere letti, cioè, come ciò che la pone, che si rende responsabile del suo esserci —, da una parte perché essi presuppongono un vertice determinato, dall’altra per­ ché ciò a cui essi mettono capo assume un’esistenza distinta e dominante nei loro confronti. La differenza tra i molti mo­ menti e la totalità, sia che quest’ultima venga pensata come produzione sia come «seconda natura» (due lati di un unico oggetto), deve essere mantenuta da Lukàcs per evitare che la loro identità omogeneizzi i diversi sottosistemi e tolga o pos­ sa togliere la gerarchia in cui risiede la processualità. Questa mossa, d’altra parte, è resa possibile a Lukàcs so­

101 Cfr. z£À/.,I,pp. 220-221.

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lo dal fatto che egli ha preventivamente interpretato quei due modi di dipendenza attraverso il formalismo del fuori nell’articolazione dei nessi tra interno ed esterno, tra milieu e sistema, tra tecnica e potere, tra dominio e corpi sottomes­ si. Le multiformi interrelazioni stabilite da Lukàcs tra que­ ste coppie di termini, pur rispondendo al giusto intento di rendere più complesso il reticolo concettuale della teoria di fronte all’alto tasso d’interdipendenza dei problemi nella so­ cietà contemporanea, non hanno mai messo in discussione il principio originario da sempre da Lukàcs anteposto alla loro lettura. Se si togliesse la determinazione del di fuori, infatti, i rapporti tra quei momenti sia assumerebbero un ben diver­ so spessore significante, sia andrebbero ben al di là della loro semplice correlatività, obbligando la teoria a pensare ogni momento secondo il criterio dell’immanenza di ciascuno al­ l’altro, che è proprio il fondamento del loro esistere nell’op­ posizione immediata come lati ad un tempo autoreferenti e in relazione reciproca. Il fatto che Lukàcs non possegga, un concetto adeguato di mediazione è la lacuna che non lo mette in grado di rompe­ re con il paradigma della razionalità tecnica, in cui l’atempo­ ralità del processo di lavoro sia costituisce la base materiale delle trasformazioni sociali secondo la logica della «contrad­ dizione dialettica», sia viene riferito alle classi sociali solo per il tramite di un medio esterno, di una correlazione che lascia intatta la natura solo tecnologica di quello. La produ­ zione immediata, in realtà, non possiede alcun carattere «soverchiante» rispetto agli altri momenti dell’economico o alle altre «sfere sociali», essendo piuttosto anch’essa solo un ef­ fetto postoci di fronte dell’immanente natura in processo della valorizzazione. D’altra parte, la stessa «seconda natu­ ra», nella sua doppia — politica e sociale — dimensione, tanto spesso da Lukàcs chiamata in causa a indicare un mon­ do oggettivo sovradeterminante l’agire e il retroagire dialet­ tico degli individui (istanze o soggetti), ben lungi dal costi-

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tuire una cornice naturale in qualche modo prodotta in ma­ niera inconsapevole dalla stessa società, rappresenta anch’essa una fattualità che non può essere spiegata nei termi­ ni in cui l’ha fatto Lukàcs, in quanto ambedue gli estremi che la instaurano, che le danno forma compiuta — gli esseri umani agenti o, da un’altra prospettiva, i diversi sottosiste­ mi sociali —, provengono a loro volta da un fondamento che si è estinto in essi e li ha lasciati esistere, per meglio e più si­ curamente riprodursi, nella loro apparente autodetermina­ zione e necessaria, complessa interrelazione. Da questo punto di vista, la datità, pur essendo-tale, pur presentandosi con tutti i crismi di un qualcosa avente già la «solidità di forme naturali» (Marx), e quindi inesplicabile e incontrollabile, ha a sua premessa quella «mediazione scom­ parsa» che l’ha istituita come una fatticità derivata, di secon­ do livello, la prima essendo piuttosto quella politico-sociale dell’interagire intenzionale e dell’interdipendenza tra sotto­ sistemi. Nella realtà {Wirklichkeit) capitalistica ha cioè esi­ stenza, in altre parole, una fattualità primaria, antecedente quella prodotta dagli individui e da Lukàcs mai compresa, che surdetermina, per così dire, anche la successiva, quella che prenderà corpo e spessore nella dimensione superficiale del meramente esser-proprio-così delle determinazioni con­ crete. Mentre la fatticità di Lukàcs scaturisce dal comporta­ mento essente delle figure sociali, senza niente a esse pre­ supporre, il pensiero marxiano pensa come preesistente al­ l’apparente autoidentità di quell’essente un processo origi­ nario di nascita in cui Tesser posto degli oggetti è insieme il loro esser tolto, il loro sussistere senza la relazione di essi alla loro ragion d’essere dileguata (ma non per questo annien­ tata). Questo divenire al mondo del fondamento è nel contem­ po un esistere di quest’ultimo al suo interno, nel carattere «metonimico» del suo determinarsi come causa avente un es­ serci solo nei suoi effetti, al didentro di essi. Questa com-

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plessa e complicata dinamica dà alla fattualità dell’esistente una doppia sezione d’essere che Lukàcs non ha colto, rima­ nendo confinato, al contrario, solo in quella più indiretta e meno capace di portare alla conoscenza concettuale la speci­ fica densità di quel primo mondo apparentemente incondi­ zionato da cui egli ha preso le mosse come da un saldo refe­ rente cui ancorare “materialisticamente” la teoria. D’altra parte, questi limiti mettono in causa anche la distinzione di principio e di grado che Lukàcs aveva fissato fra il tutto e le sue parti. Queste ultime, una volta caduta la duplice delimi­ tazione della sovradeterminazione e dell’oggettività, fini­ scono con l’essere identiche all’intero che sorge, comunque, dalla loro complessa interrelazione. A ben guardare le cose, nemmeno si può dire che in questa interpretazione prenda corpo un’effettiva sintesi delle molteplici ed eterogenee pra­ tiche sociali dei molti complessi parziali, in quanto ciò che si enuclea dal didentro del processo complessivo non è di na­ tura differente da ciò che lo ha innescato e concluso. Pro­ dotto finito e materia prima, in fin dei cónti, continuano a essere formati della stessa sostanza, una volta colta in modo sincronico e un’altra in modo diacronico, una volta all’ini­ zio di un dato divenire e un’altra alla sua fine. Qui la diver­ sità è data da una mediazione che elabora la distinzione tra i due momenti (temporali e individuali) solo in modo quanti­ tativo ed estrinseco, attraverso un medio che né ne raggiun­ ge l’intera determinazione né si divide da essi in maniera si-' gnificativa. La «seconda natura», infatti, dall’alto della sua solidità fattuale, ricopre ciò che assoggetta presentandosi come una sua eccedenza, come ima sorta d’imprevisto e sconcertante sovrappiù. La differenza che qui prende for­ ma, d’altra parte, è tale solo relativamente alle, esplicite o implicite, progettuali o meno, confliggenti o convergenti aspettative degli individui agenti, non in rapporto al loro ca­ rattere autoidentico o al loro corpo materiale e alle loro «ne­ cessarie correlazioni», i quali sia prima che dopo rimangono

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i medesimi, non subendo nessuna trasformazione del loro essere. La totalità di Lukàcs, più che un’effettiva comprensione sistematica, nel concreto di pensiero, della effettuale (wirklich) struttura societaria e delle sue tendenze si è così rivela­ ta, per dirla con le sue parole, come una pura e semplice «ri­ produzione in esso del realmente essente», della realtà così com’essa è o si presenta provenendo dal suo fondamento (come se le categorie altro non fossero che in secca identità con lo in-sé reale)102. Lukàcs, in altri termini, conforme­ mente del resto all’uniformità di significati fissata tra wirklich e real, con questa procedura teorica ha finito soltanto con il fotografare, come in un calco mentale, l’articolazione e la stratificazione multidimensionale per mutua (flessibile, aperta) interazione del mondo finito che il capitale ha isti­ tuito come orizzonte onniabbracciante e apparentemente ul­ timo di quello stato di fatto — essente, appunto — in cui si presenta l’essere sociale (un risultato aporetico che la teoria del rispecchiamento riteneva invece avere a sé immanente, paradossalmente, come suo specifico e distintivo fine cono­ scitivo).

102 lbid.,p. 174, p. 276.

II

IL TUTTO COMPLESSO INEGUALE DI ALTHUSSER

1. La produzione e il politico-ideologico, il processo senza sog­ getto e il meccanismo dell’ideologia Il progetto althusseriano di una riformulazione dei con­ cetti-base della tradizione, di un’uscita da sinistra dallo sta­ linismo attraverso la decostruzione e la ricostruzione dei vecchi materiali teorici ereditati dal passato della storia del movimento operaio presenta numerose analogie e punti d’intersezione — apparentemente ora convergenti ora di­ vergenti, ora comuni ora differenti — con quello di Lukàcs. Delinearne una classificazione precisa e univoca rappresenta tuttavia, vedremo, un compito superfluo e in definitiva po­ co significativo soprattutto dal punto di vista della pratica teorica di Althusser. Benché quest’ultima abbia avuto origi­ ni e sviluppi diversi da quella di Lukàcs 1 2, le categorie di questi due filosofi, una volta che le si osservi criticamente, presentano continue interpenetrazioni e -interferenze che trasformano via via le loro distinte posizioni, anche quelle a prima vista più contrastanti (si pensi a Hegel o al costruttivi­ smo), in un unico amalgama di fondo che paradossalmente

1 Cfr. M. Jay, Marxism and Totality, in particolare il 13 ° capitolo: Louis Althus­ ser and the Structuralist Reading ofMarx, pp. 393-395, p. 407. 2 Cfr. ibid., pp. 391 e sgg.

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rende le loro concordanze ancor più estese e fitte di quanto fino ad oggi non si fosse pensato 3. Le cose risulteranno più chiare, speriamo, prendendo le mosse dal paradigma più im­ portante che Althusser condivide con Lukàcs, quello del processo di lavoro. Benché ulteriormente elaborato e specificato dalla dop­ pia relazione proprietà economica (non giuridica)/possesso 4, esso continua a pensare il rapporto tra razionalità tecni­ ca e potere nei termini del fuori, come se i momenti correlati da questa congiunzione formale dimorassero l’uno accanto all’altro insieme e da questa posizione facessero poi giocare le loro reciproche interconnessioni producenti movimento, mutamento. Il sociale si rapporta al suo fondamento, alla sua determinazione d’esistenza, attraverso una prassi intenzio­ nale che esiste all’esterno dell’ossatura tecnologica dei pro­ cessi lavorativi e imprime a quest’ultima modi d’attività e li­ nee di direzione funzionali alla sua ininterrotta riproduzio­ ne. La pertinenza del dominio alle forze produttive è preci­ samente l’immediata presenza del politico-ideologico nelle condizioni materiali della produzione. La «base economica» è dunque rappresentata da Althusser come una «unità» di forze produttive e rapporti di produzione in cui la tecnica è semplicemente avvolta da pratiche sociali finalizzate alla ri­ produzione dello sfruttamento, della gerarchia e differenzia­ zione di ruoli mediante le quali il capitale esercita e può eser­ citare il suo comando sulla forza-lavoro. In questo senso, se­ condo Althusser, non esiste né è mai esistita una divisione tecnica del lavoro, in quanto quest’ultima è da intendersi co­ me la «forma» e la «maschera» di una divisione e di un’orga­ nizzazione sociali ( = di classe) del lavoro, prodotto diretto

3 C£r. ibid., pp. 387-390. 4 Si veda il capitolo Sui concettifondamentali del materialismo storico, nel volu­ me di L. Althusser-E. Balibar, Leggere 11 Capitale, Feltrinelli, Milano 1976.

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dell’opposizione fondamentale tra dominati e dominanti che si esplica nel luogo stesso di residenza della ragion d’es­ sere della società complessiva 5. Come tanta parte del marxi­ smo contemporaneo 6, Althusser è convinto che nel modo di produzione capitalistico i «meccanismi tecnologici» della produzione semplicemente soggiacciano a quelli dello sfrut­ tamento che si impongono loro 7. Le forze produttive, in de­ finitiva, costituiscono al contempo la «base materiale» e la «forma di esistenza» storica e oggettiva dei rapporti di pro­ duzione lungo tutto l’arco del loro sviluppo (dalla manifattu­ ra alla grande industria). I due termini, dunque, non posso­ no essere separati e la loro solidalità introduce da subito al­ l’interno di questa coppia le classi antagonistiche e i loro conflitti: la lotta di classe è materialmente radicata nello stesso processo di sfruttamento. La società, così, se vuole conservarsi e durare, deve riprodurre ambedue i momenti — materiali e sociali — della sua esistenza, tanto all’interno della produzione quanto al di fuori di essa (nel più ampio quadro del sistema d’insieme). L’economia politica è precisamente la teoria delle «for­ me materiali», giuridico-politiche e ideologiche, di questa ri­ produzione nell’ambito del dominio generalizzato del capi­ tale. La relazione tra i rapporti di produzione e le forze pro­ duttive ha quindi per Althusser questo specifico significato, di uno stare dentro dei primi alle seconde che viene letto mediante un’intepretazione tutta immediata delle classi e del loro agire in un contesto antagonistico.

5 Cfr. L. Althusser, Sull’ideologia, Dedalo, Bari 1976, pp. 8-17, pp. 85-90; si vedano ancora i seguenti testi: Freud e Lacan, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 57-62; Umanesimo e stalinismo, De Donato, Bari 1973, pp. 38-39. 6 Cfr. ad esempio R. Panzieri, La ripresa del marxismo leninismo in Italia, Nuo­ ve edizioni operaie, Roma 1977; id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einau­ di, Torino 1976; B. Coriat, Science, Technique et Capital, Seuil, Paris 1976. 7 Cfr. L. Althusser, Umanesimo e stalinismo,cit.,pp. 107-112, p. 38.

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La relazione a ogni tipo di umanesimo e a ogni forma di economicismo (circolatorio/scambista o tecnologico) — due aspetti di una sola problematica 8 — spinge Althusser a en­ fatizzare la funzione e la natura dei rapporti di produzione nella determinazione di società senza sciogliere queste ulti­ me nella loro sola dimensione politica. Ossessivamente in­ fatti Althusser precisa in continuazione che le classi e la loro lotta hanno un referente materiale che contribuisce a render conto in modo storicamente peculiare, differentemente dal pensiero borghese e dalla sua ideologia legittimante, della lo­ ro esistenza nell’ambito della realtà capitalistica. Questa materialità — mediante la quale si aspirerebbe a distinguersi da ogni concezione individualistica, centrata sulla primaria attività di agenti sovrani — in primo luogo, come risulta dal­ la stessa argomentazione althusseriana, affonda le sue radici nell’economia (come oggetto duale e insieme unitario), sia perché il modo di produzione rappresenta il fondamento dell’intera formazione sociale, sia perché essa è la sede della mediazione con la natura, della razionalità strumentale. Può esserci infatti produzione, rapporto con la materia prima, apprestamento di valori d’uso e oggetti, riproduzione biolo­ gica della vita umana, solo se nelle società di classe si ripro­ ducono le condizioni tecnologiche dell’attività lavorativa, le basi macchiniche del processo di lavoro. Sotto il predominio della sua cornice sociale, il processo lavorativo è, ad un tem­ po, tanto premessa della lotta delle classi quanto «esistenza materiale» di queste ultime, in quanto esso, simultaneamen­ te, nella visione di Althusser, tanto si pone a monte dell’afftontamente sociale quanto risulta essere un effetto di que­ st’ultimo che non ne annienta la naturalità (limitandosi a de­ formarla, a piegarla nella dinamica mutevole dei rapporti di forza che gli danno forma e lo attraversano).

8 Ibid.

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La determinazione politico-ideologica, dunque, per que­ sti due motivi, ha una sua fondazione impersonale che la contraddistingue da una pura e semplice teorizzazione del mondo storico secondo il criterio della sua emanazione da un’incondizionata e uniforme intenzione. D’altra parte, in secondo luogo, questo carattere della teoria marxista viene ulteriormente specificato, secondo Althusser, se si interpre­ ta la storia come un immenso sistema «naturale-umano» in movimento il cui motore principale ed essenziale (consu­ stanziale) è un processo senza soggetto 9. Questo concetto, è ovvio, non vuol negare il problema della costituzione degli individui in soggetti attivi, agenti nella storia, ma soltanto precisare che essi né sono costitutivi e omogenei (essendo, al contrario, complessi dinamici) né esistono al di fuori o prima delle concrete forme di esistenza dei rapporti di produzione e di riproduzione 10. Le diverse pratiche sociali dei portatori di intenzionalità non hanno corso e possibilità di attuazione che sotto la determinazione di tali rapporti, che ne delimita­ no i confini e i modi di funzionamento. Si può e si deve anzi dire che la «forma-soggetto» è precisamente il corpo che ogni individuo assume all’interno delle pratiche sociali in cui è coinvolto, pratiche che costituiscono una parte integrante dei rapporti sociali complessivi. Poiché questi ultimi, nelle società di classe, necessitano sempre di un meccanismo legit­ timante capace di occultarne le contraddizioni, di compen­ sarne le tensioni e le loro virtuali accumulazioni, l’ideologia si presenta al loro interno con tutti i tratti tanto di uno schermo deformante la realtà delle cose, delle condizioni so­ ciali in cui ci compiono le azioni, quanto di una determina­ zione eterna, onnipresente in tutta la storia delle formazioni

9 Ibid., p: 39. Cfr. anche Lénineet la philosophic, Maspero, Paris 1975. 10 Ibid., pp. 33-37, pp. 126-130.

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sociali comprendenti le classi11. Queste due caratteristiche dell’ideologia la rendono particolarmente efficace nella me­ diazione dell’esistenza degli agenti come soggetti. Interpo­ nendosi tra gli individui e il sistema reale di rapporti che li governa, essa rappresenta il rapporto necessariamente im­ maginario di questi soggetti con la cornice societaria in cui essi vivono ed esperiscono le loro prassi. Ciò che essi fanno, -gli atti di cui si rendono responsabili, non sono più, così, in relazione con la loro radice oggettiva, ma soltanto in connes­ sione con l’apparente capacità di autodecisione che sembra inerire loro, per natura. La loro determinata rappresentazio­ ne del mondo (religiosa, morale, ecc.) si concretizza sempre in un apparato e nella pratica corrispondente in cui quella esiste. Questa realizzazione dell’ideologia in un dispositivo solido, per così dire, è ciò che ne fa un alcunché di materiale, un qualcosa di determinato in modo specifico (non riferito esclusivamente alla sua dimora fisica): il soggetto, infatti, agisce in quanto agito da un intero sistema di riferimento (non dalle sue sole intenzioni)11 12. In questa accezione, l’i­ deologia, se maschera la vincolazione sociale in un livello di consapevolezza del mondo posto da se medesima, mette gli individui di fronte a delle evidenze che essi non possono non riconoscere come tali, delle datità che nel contempo svolgo­ no una loro correlata funzione di misconoscimento, di na­ scondimento. Il soggetto, in altre parole, è simultaneamente tanto una persona libera, un autore primo e direttamente re­ sponsabile delle sue azioni, quanto un essere subordinato, sottomesso a un’autorità superiore inaccessibile alla sua co­ scienza: non esistono soggetti che mediante e per il loro as­ soggettamento 13.

11 ld., Sull'ideologia, cit., p. 54, pp. 58-59, p. 74. 12 Cfr. ibid., pp,. 61-66. 13 Cfr. ibid., pp. 69-73,pp. 82-84.

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Poiché l’ideologia, qualsivoglia sua forma, toglie il rap­ porto degli individui con le loro condizioni storiche d’esi­ stenza (che ne farebbero un alcunché di derivato, di condi­ zionato), ecco che allora può mettere in campo l’opposto esatto della sua radice: l’autodeterminazione degli agenti. Quest’ultima, nell’ideologia, costituisce gli individui con­ creti in soggetti autoreferenti grazie al dissolvimento da essa operato del fondamento in cui questi ultimi sono inseriti co­ me nel loro grembo. L’ideologia può essere sia nient’altfo che il suo funzionamento nelle forme materiali dell’esisten­ za di quest’ultimo, sia una visione del mondo che istituisce le persone come soggetti solo perché essa li fa vivere da subi­ to e da sempre in modo separato dal complesso delle deter­ minazioni sociali che li vincolano e li perimetrano — come entro un confine insuperabile — nella loro interazione attra­ verso le pratiche sociali. I soggetti funzionano e possono funzionare da soli perché l’ideologia ha fatto sparire dal loro orizzonte di visibilità e di esperibilità la dominante sovradeterminazione dei rapporti di produzione e riproduzione sul­ le sue forme d’esistenza, vale a dire ciò’che consente loro di essere come sono 14. L’articolato e in sé coerente discorso althusseriano ha dunque mostrato sia come l’ideologia assuma le sue forme concrete negli apparati ideologici di Stato, sia come essa produca gli individui-agenti come soggetti strutturalmente (necessariamente) incorporati in pratiche materiali (in quan­ to in esse il comportamento del singolo deriva naturalmente) riproducenti l’organizzazione sociale data, la conservazione pura e semplice dello stato di cose esistente, vale a dire tanto gli antagonismi complessivi della società (il suo processo d’insieme), quanto, inevitabilmente, le condizioni stesse della loro apparente dominanza. Per questo complesso di ra­

14 Cfr. ihid.yp. 68, pp. 74-76, p. 82.

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gioni è dunque indispensabile, per Althusser, rompere con la categoria idealista di soggetto come causa unica e origine assoluta di tutta la storia reale dispiegantesi nell’irreversiblità del tempo, nelle dinamiche di riproduzione e di rivoluzio­ ne delle formazioni sociali. Quest’ultima, al contrario, può e deve essere pensata come un processo inintenzionale nel quale sia gli individui agiscono da soggetti sotto la determi­ nazione di rapporti sociali, sia le circostanze date della loro interazione risultano essere il prodotto della lotta di classe, del suo motore antagonistico 15.

2. L'empirismo althusseriano: il potere e la macchina, la storia e i soggetti, il reale e la conoscenza

Contrariamente a quanto prima facie potrebbe sembrare, il complesso ragionamento di Althusser non ha messo capo a una vera e propria critica corrosiva delle concezioni chiama­ te in causa. Si può anzi dire che il suo disegno sistematico rappresenta solo l’altro lato di quelle, non un qualcosa di al­ ternativo, nella stessa misura in cui egli ha costruito una cor­ relazione processo di lavoro-classi centrata sulla priorità del politico-ideologico rispetto alla razionalità strumentale. In Althusser il potere di classe esiste al difuori della seconda e ne raggiunge il corpo oggettivo dall’esterno, dall’alto di un progetto di subordinazione e di sfruttamento imperniato su «tecniche di estorsione del plusvalore» 16 — facenti tutt’uno con l’organizzazione e la divisione capitalistica del lavoro — che si presenta come un alcunché di distinto da e in semplice interazione con essa. Non avendo a sua disposizione un con­ cetto adeguato di immanenza, Althusser ha preso le mosse

15 Cfr. id., Umanesimo e stalinismo, cit., p. 135. 16 Ibid.,p. 108.

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dai due «correlati necessari» proiettati dal modo di produ­ zione capitalistico nella superficie visibile di sé — la macchi­ na e il potere — e ha poi fatto giocare i loro rapporti per mezzo dell’interagire reciproco di ciascuno con l’altro a par­ tire dall’autoidentità di ognuno con sé. Esterni l’imo all’al­ tro e nel contempo connessi, questi due momenti sono ap­ parsi correlabili ad Althusser unicamente per il tramite di un medio che mettendoli in relazione ne rispettasse simultanea­ mente la rispettiva specificità. Da questo punto di vista, un’angolazione teorica in cui le due «squadre» e il loro «cam­ po» esistono dapprima, per così dire in principio 17, l’unico modo per non dividere i, o per non cominciare unilateral­ mente da uno dei, due estremi era quello di presupporre en­ trambi Come già dati, già essenti l’uno di fronte all’altro e in­ sieme, e dall’alto di questo stato di fatto preliminare strin­ gerli in un nesso unitario mediante la categoria del politico-i­ deologico, che se da un lato «penetra dentro» il substrato tecnologico (assicurandosi, così, una certa qual materialità), dall’altro non ne cancella il tratto tecnico, il carattere ogget­ tivo (che viene solo influenzato e condizionato da un agente a esso esterno, non inerente). Questo tipo di teorizzazione, paradossalmente, non rie­ sce a cogliere gli oggetti postigli davanti secondo il principio della loro intrinsecità reciproca — del concetto di mediazio­ ne insomma, in cui gli opposti hanno a loro premessa un al­ cunché di diverso e a loro antecedente e sovraordinato che, per riprendere un’espressione dello stesso Althusser, non si può né «vedere con gli occhi» né «toccare con mano» 18 — e li afferra invece solo in quella loro sezione d’esistenza in cui essi appaiono senza la causa da cui pure dipendono. Althus­ ser, si può dire, coglie forze produttive e rapporti di produ­

17 Ibid.,p.ò5. 18 Id., Introduzione alIlibro del Capitale, Pratiche Editrice, Parma 1977.

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zione so lo nell’ambito derivato, posto in quanto tolto, della loro realtà immediata e autoidentica, in cui, in diretta conse­ guenza del loro esser-pròprio-così fattuale, i momenti mo­ strano soltanto la loro empirica interconnessione per intera­ zione mutua. Se si volesse fare un’analogia con il modello dell’ideolo­ gia da lui stesso, con tanta originalità, studiato, si dovrebbe allora dire che Althusser si è comportato da perfetto sogget­ to per natura ideologico 19, in quanto egli si è appropriato di un soggetto trattandolo in modo non problematico, come se esso fosse di per sé evidente e dato. Il «meccanismo tecnolo­ gico» del capitale ha prodotto nell’elaborazione teorica althusseriana gli stessi effetti che Althusser ha rivelato nel mondo ideologico degli agenti, facendogli interpretare l’ap­ parente identità con sé dei caratteri della coppia tecnica-po­ tere attraverso lo stesso tipo di funzionamento dei soggetti, attraverso il proprio autoassoggettamento concettuale all’es­ sere essente degli oggetti. Tutto assorbito dalla sua analisi dell’ideologia nel sociale, Althusser non si è reso conto che un altro, più potente «meccanismo» legittimante precedeva e fondava quello letto nella dimensione ex post, per così dire, del dominio del capitale, «meccanismo» che faceva della sua stessa indagine un doppio delle stesse categorie esaminate. Così come i soggetti funzionano da soli, naturalmente, nel porre la loro subordinazione all’ideologia, Althusser ha fini­ to con il sussumere tutti i più importanti presupposti teore­ tici della sua pratica teorica allo spessore e densità invisibili (immediatamente) dei modi in cui il capitale ha informato di sé i corpi sociali della sua primigenia “dimora”. Il paradossale empirismo althusseriano riceve un’ulterio-re conferma se si pensa alla più intrinseca natura del «pro­ cesso senza soggetto» da Althusser posto alla base delle tra­

19 Id., Sull'ideologia, cit., p. 68.

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sformazioni storiche. Benché contrapposto alla linearità e alla semplificazione, mancanza di complessità, della conce­ zione umanista, quel concetto finisce con il fare appello a una nozione di storia che è la diretta prosecuzione delle de­ terminazioni preventivamente fissate, come proprie coordi­ nate di riferimento, dal pensiero althusseriano. La tesi se­ condo la quale la lotta delle classi e la loro esistenza costitui­ scono un’unica realtà 20 porta infatti con sé la convinzione di una sostanziale identità tra l’immediata superficie dell’es­ sere sociale e Tesserci determinato dei rapporti sociali. Nella loro univocità, questi ultimi possono rappresentare qualcosa di differente dal soggetto metafisico solo se essi si trovano a interagire tra loro sotto il primato di quelle «circostanze date» che essi stessi mettono in campo di fronte a sé come un alcunché di superiore prodotto dal loro comportarsi e con­ frontarsi antagonistico della lotta di classe. La storia che gli individui stessi pongono in essere ha esistenza apparente­ mente distinta da e sovrastante a essi solo perché Althusser la pensa come una sorta di sintesi processuale che si presenta con tutti i tratti della fattualità, di un evento avente vigenza in virtù della sua fatticità inintenzionale, né voluta né impo­ sta da nessuno. Convinto di dare una risposta positiva, con questa categoria, alla complessità e alla vincolazione sociale dell’agire dei soggetti nella storia, Althusser non si è invece reso conto di stare tematizzando un approccio eminente­ mente empirico a quei problemi, sia mediante il posto di pri­ mo piano assegnato alla lotta di classe — una posizione esclusiva che identifica quest’ultima con il suo mero esse­ re —, sia attraverso un indebito scambio del carattere fat­ tuale derivato (subordinato cioè a qualcosa d’altro che rima­ ne inesplicato) dell’ambiente sociale determinante —■ ab­ bracciarne e delimitante — i soggetti con i tratti specifici di

20 Id., Umanesimo e stalinismo, cit. 3 p. 23, p. 3 7.

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un’oggettività storica indipendente da essi. Questo abbaglio è rafforzato e, per così dire, intensificato e reso ancora più irriconoscibile dalla acritica riproposizione althusseriana della priorità dell’essere rispetto al pensiero, che egli inter­ preta come una triplice tesi di esistenza, di materialità e di obiettività: si può conoscere solo ciò che è o esiste, il princi­ pio di ogni esistenza è la materialità, ogni esistenza è ogget­ tiva, anteriore al e autonoma nei confronti del soggetto che la pensa21. L’aspetto problematico di queste proposizioni, al di là della loro apparente ortodossia linguistica e teorica, della lo­ ro classica impostazione, risiede tutto nel fatto che esse met­ tono da parte, assumendola come un che di dato per sconta­ to, la natura intrinsecamente mediata della realtà da cui la teoria, nel rigoroso rispetto del suo enunciato filosofico pri­ mario, deve partire nella ricostruzione concettuale del mondo. Poiché in questo contesto sistematico originario l’ogget­ to di conoscenza necessariamente presuppone l’oggetto con­ creto come suo referente reale (contemporaneamente termi­ nus a quo e ad quem della riflessione), l’analisi della materia storica dovrà per forza di cose sottrarre a ogni ulteriore — preventiva — interrogazione e problematizzazione questa sua soglia ultima, in quanto essa è precisamente la condizio­ ne apparentemente fondante del suo stesso pensare in modo complesso. L’esistenza dell’essere, un concetto filosofico la cui comprensione l’antihegelismo althusseriano si è autopre­ clusa, sembra ad Althusser esaurire tutta la realtà del mondo sociale e delimitare un discrimine distintivo rispetto a ogni concezione idealistica. Nella misura in cui Tessente è posto come cartina di tornasole di ogni inizio teorico autentica­ mente materialistico, la sua lettura concettuale non potrà

21 I£w/.,pp. 44-46.

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che anteporre la solidità di tale premessa alla sua decifrazio­ ne e interpretazione secondo l’ordine razionale della mente. Questo reale è dunque trattato come un morto, inerte oggetto nel quale l’elaborazione sistematica, la specificità del sapere, deve solo portare la coerenza e la forza illumini­ stica della ragione costruttiva. D’altra parte, pur nella sua distinzione dall’oggetto reale, la conoscenza del concreto che sorge alla fine dell’analisi ad un tempo aggiunge e non aggiunge nulla alla comprensione dell’essere (sociale). La sua conoscenza appartiene sin dall’inizio a quest’ultimo e ima volta prodotta essa vi ritorna dentro e scompare in esso. A ogni passo il processo di pensiero aggiunge al reale la sua co­ noscenza, ma ad ogni passo il reale se l’incorpora, poiché è la sua conoscenza: la differenza tra i due, quindi, è posta solo per essere annullata22. La continua riproduzione del nuovo nell’incessante interscambio della mente che pensa con il suo oggetto non riflette soltanto la peculiare interpretazione althusseriana di quest’attività come «ciclo infinito» tipico di ogni effettiva pratica teorica, di un procedimento scientifico teso all’appropriazione «asintotica», aperta verso il futuro, della sconfinata varietà e diversità del mondo sussistente (un’epistemologia che Althusser condivide con Lenin e Luckàcs) 23. A dire il vero, essa sottintende anche e principal­ mente un altro significato, che dal nostro punto di vista si ri­ vela ancora più importante, l’idea cioè che nella autoidentità del reale risieda tutta quanta la conoscenza possibile, V intera problematicità dell’essere al di sotto, al di là, dietro, oltre il quale nient’altro è da presupporre o da esser ricercato 24. Come si vede, tutto congiura perché Althusser sempre più si convinca che la realtà data, il tratto apparentemente

22 Cfr. id., Freud e Lacan, cit., pp. 152-159. 23 Cfr. id., Elementi di autocritica, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 46-47. 24 Cfr. id., Freud e Lacan, cit., pp. 157-159.

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autofondato dell’empirico, costituisca il saldo punto di rife­ rimento cui ancorare il proprio programma di ricerca, il pro­ prio progetto teorico. D’altra parte quest’ultimo può sempre aspirare a differenziarsi da ogni forma di empirismo, almeno così crede Althusser, nella misura in cui il pensiero non vie­ ne ridotto al reale, schiacciato su di esso. Le astrazioni che la teoria produce e mette in campo nell’analisi del concreto non sono né un semplice riflesso di questo, una sua semplice copia (in cui tanto i materiali iniziali si ritroverebbero anche alla fine del processo di elaborazione quanto essi non subi­ rebbero delle effettive trasformazioni), né determinazioni conoscitive semplicemente estratte da quello (come se esso porgesse da sé la sua conoscenza e la soggettività dovesse so­ lo coglierla) 25. Le categorie, dunque, ben lungi dal ricalcare il tempo storico immediato, le sporgenze direttamente additabili e dicibili dimoranti nella realtà quotidiana, devono al contrario costruire da sé il loro oggetto a partire, comunque, dalle evidenze del concreto (da cui, sostiene Althusser, non si può prescindere) 2627 . La complessità del mondo storico, pur costituendo il referente base del pensare, non può mai essere compresa attraverso metodologie storiciste — che o constatano i fatti o isolano questi e i loro processi in un’uni­ laterale indipendenza —, bensì solo mediante concetti che non siano né dati di per sé, né mai leggibili nella realtà visi­ bile 2L Nonostante tutta la radicalità apparentemente teoricista di queste proposizioni, nonostante il fatto che il concreto di pensiero rappresenti un processo tutto interno alla coscien­

25 Id., Leggeteli Capitale, cit., pp. 94-95. 26 C£r. id., Freud e Lacan, cit., p. 157. 27 Cfr.id.,LeggereIlCapitale,cit.,p.99,p. 103,pp. 107-108,p. 116,pp. 126e sgg.

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za, nonostante infine certe loro tendenze aprioristiche 28, è evidente che Althusser continua a dipanare il suo ragiona­ mento in presenza di una «materia prima» (anteriore persino a quella Generalità I da cui talvolta egli sembra far tutto co­ minciare) — il concreto reale — che resta saldamente a sé identica nella sua funzione di suolo del pensare 29. La pole­ mica althusseriana contro l’empirismo e l’idealismo concer­ ne precisamente la loro (presunta) incapacità di teorizzare il reale essente secondo i criteri della complessità e del processo specifici. Sia la «totalità espressiva» di Hegel che la «succes­ sione temporale» degli storici mettono capo a una stessa «ideologia del tempo» in cui la struttura differenziale della storia e della società contemporanee che Althusser inferisce da Marx va perduta nell’omogeneizzazione del tempo conti­ nuo a cui quelle concezioni fanno riferimento e instaura­ no 3031 . Le variazioni riscontrabili lungo questo medium uni­ forme, misurabili mediante la loro durata, non sono mai in­ scritte in una forma realmente concettuale, bensì vengono prese nelle loro interferenze e giudicate come diversi risulta­ ti del loro semplice incontro, nella dispersione che questo ti­ po di osservazione ritiene loro propria. Per converso, in He­ gel, secondo Althusser, l’assoluto predominio dell’idea sia unifica tutte le svariate sfere sociali mediante un principio di ubiquità, sia riduce il tempo storico a un continuum linea­ re nel quale si manifesta soltanto lo sviluppo, univoco per sua intrinseca natura, di un’unità semplice indifferenzia­ ta 3 L Ambedue i modelli, pur nella loro apparente distanza e diversità, costituiscono tuttavia un’unica matrice ideologi­ ca, nel senso già precisato, nella misura in cui entrambi fini­

28 Si vedano, rispettivamente, id., Per Àfone, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 163-164; Leggere IlCapitale, cit., p. 62. 29 Cfr. ibid., rispettivamente, p. 162 ep. 44, p. 117. 30 Cfr. id.,Leggere II Capitale, cit., p. 49, p. 56, pp. 103-117. 31 Cfr. id., PerMarx, cit., pp. 180 esgg.; Leggere II Capitale, cit., p. 100.

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scono con il ricalcare, cori il prendere atto (di fatto come in Hegel o intenzionalmente come negli storici) dell’esistenza empirica delle differenze invece di riferirla al loro concetto, di rappresentarsela, cioè, nell’ordine sistematico di un og­ getto di conoscenza prodotto dalla soggettività attiva (non esistente nel concreto reale). Tutte e due le ideologie incor­ porano nella loro pratica teorica i dati immediati della realtà prendendoli così come essi sono o si danno nella loro falsa evidenza di momenti in interazione, combinazione, casuali l’uno con l’altro, un tipo di correlazione che sia disarticola il tutto nei suoi elementi sparsi (magari leggendoli mediante runique du fait), sia dà per scontata la presenza di un conte­ nuto già costituito 32. L’avversione althusseriana per l’empirismo, come do­ vrebbe esser chiaro, deriva tutta dalla particolare rappresen­ tazione diretta che quest’ultimo fornisce del reale, replican­ done soltanto le forme date nell’ambito di una teoria della conoscenza che trasferisce di peso le qualità dell’essere nella strutturazione del pensiero, L’appropriazione del concreto, in questo contesto, è all’inverso un processo conoscitivo che nel magma informe della storia porta la coordinazione e la razionalità di una teorizzazione che dal proprio interno tra­ sforma il sussistente dando a esso un’organizzazione e una coerenza che altrimenti non sarebbero mai sorte — né spon­ taneamente né indirettamente — dalla sua forma originaria, dalla fatticità e dispersione delle sue molteplici e disconti­ nue “membra”. Questa procedura, come si vede, prende sì le distanze dal «mito speculare» delle concezioni storiciste, ma nello stesso tempo condivide con queste il medesimo punto di partenza, lo stesso oggetto d’inizio della riflessio­ ne: il mondo storico della realtà. La distinzione è data dal fatto che quelle lo assumono come un alcunché di fisso, sem­

32 Cfr. id., Leggere II Capitale,cit., p. 99 e p. 115.

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plicemente da trasferire identico nelle proprie pratiche spe­ cialistiche (riflessive o fotografiche), mentre Althusser porta in esso la forza ordinatrice di un sistema teorico che solo al termine del proprio processo di elaborazione sarà in grado di riprodurne la conoscenza. In questo modo, Althusser è con­ vinto tanto di aver conferito una specificità sua propria al­ l’attività concettuale, evitando di confonderla con la genesi storica reale del concreto, quando di aver mantenuto con quest’ultima un «rapporto di comunione» attraverso il carat­ tere di «sfondo» a essa attribuito per fondare quella discri­ minante essenziale della pratica teorica 33. Anche le tesi althusseriane apparentemente più neokan­ tiane 3435 , al di là della stessa autocoscienza che di esse posse­ deva lo stesso Althusser 33, trovano qui la loro radice espli­ cativa. Nella misura in cui si considera l’oggetto reale — es­ sente — come il punto di riferimento assoluto del processo di conoscenza che lo concerne, è inevitabile, è insito in questo stesso principio che il tutto di pensiero debba esclusivamen­ te riferirsi solo a sé, ripiegare e sviluppare solo al suo interno l’approfondimento incessante — ora continuo ora disconti­ nuo, ora appena percettibile ora manifesto — dell’oggetto di conoscenza 36. Una volta neutralizzato il proprio esterno, una volta confinato quest’ultimo nell’ambito di una realtà indiscutibile (una premessa che rende possibile il pensare), ecco che la riflessione teorica può prendere la strada di un’attività specifica svolgentesi unicamente nel contesto del proprio sistema di concetti, del proprio mondo razionale, differenziandosi così simultaneamente tanto dall’idealismo (nella «tesi di materialità»), quanto dall’empirismo (nella te­

33 34 35 36

Ibid., pp. 39-44, p. 56, p. 163. I£zd.,pp. 50-52. Id., Elementi di autocritica, cit., pp.'32-33. Id.,Leggerei!Capitale,-cit., p. 163.

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si spinoziana della pratica teorica come criterio di se stessa: Verum index sui etfalsi).

3. L "interpretazione di Hegel e di Marx: dalla «reductio ad unum» al tutto ineguale

Come è evidente, al contrario dei loro propositi, le cate­ gorie althusseriane non riescono a demarcarsi in modo signi­ ficativo rispetto a quelle messe in discussione, poiché.esse prendono le mosse e affondano i loro significati principali in uno stato di fatto che invece non è tale e non consente, dun­ que, nessun ancoramento materialistico del sapere. Che Althusser noh abbia minimamente sospettato né compreso il carattere già mediato, proprio nella sua imme­ diatezza, del reale ci è confermato indirettamente anche dal modo in cui egli tratta alcuni cruciali concetti di Hegel e di Marx. Significativamente, egli riduce l’idea hegeliana di tempo — der daseiende Begriff51 — a una determinazione immediata, empirica, cancellando così d’un colpo — in ma­ niera davvero paradossale per il fondatore del metodo sintomale — la distinzione di significati presente in quella defini­ zione tra l’essere e Vesserei di una cosa, tra il suo essere es­ sente e la sua esistenza. Tra i due momenti dell’idea Althus­ ser dà per scontato che non esista alcuna differenza e li trat­ ta indifferentemente come sinonimi, ignorando o non ve­ dendo che tra i due Hegel ha posto l’importantissima fun­ zione della mediazione, che tanto li abbraccia entrambi quanto vi entra dentro lavorandoli dal loro interno. Questo processo che abita il didentro delle cose le presenta di fronte alla mente che pensa senza la causa che le produce, vale a di­ re attraverso il complesso meccanismo dell’esser po­

37 Ztó.,p.lOO.

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sto come tolto del mondo sussistente. Il fondamento che si rende responsabile dell’esistenza degli oggetti e delle loro correlazioni sparisce dalla scena dell’essente e mediante que­ sto suo dileguare vi si interna in modo permanente e ad . un tempo invisibile nello spessore ora solo empirico di ciò che è. Ciò che appare o si manifesta al culmine di questo divenire (nella superficie, della società) si presenta con tutta l’abba­ gliante autoevidenza di un inizio da cui tutto comincia e può cominciare solo in virtù della dinamica del capitale che lo ha istituito in questo modo autoidentico (ad un tempo incondi­ zionato e condizionato). Althusser, nel suo coerente antidealismo, si è privato da solo della possibilità di accedere a questa regione particolar­ mente alta, complicata e complessa del grande pensiero he­ geliano, un risvolto teoretico che forse avrebbe potuto faci­ litargli una migliore comprensione dello stesso Marx, di cui legge molto spesso a rovescio (o in modo aproblematico) al­ cune proposizioni teoriche centrali per la piena interpreta­ zione dei caratteri della realtà nell’ambito del modo di pro­ duzione capitalistico. Quando Marx sostiene, ad esempio, che la società, nel contesto del capitale, deve sempre essere presente alla mente come un presupposto (Voraussetzungi, Althusser immediatamente gli attribuisce il significato di un oggetto indipendente che l’analisi deve porre davanti a sé come di fronte al proprio cominciamento indiscusso, come un alcunché di oggettivo da cui necessariamente dover parti­ re38. Il misconoscimento (rovesciamento/nascondimento) che queste proposizioni operano delle più profonde inten­ zioni marxiane si fa evidente qualora si faccia mente locale al processo di cui si discorreva poco prima, in cui la ragion d’essere del mondo, nel suo togliersi attraverso il suo inter­ narsi nei modi — istanze, relazioni, strutture, processi —

38 Cfr. id., FreudeLacan, cit., p. 154.

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della realtà, ha finito con il porre l’esistente come un qualco­ sa di riferito solo a se stesso, di poggiante soltanto su di sé, di autofondato insomma. In questo senso, che la società debba essere pensata come un presupposto significa proprio che essa deve essere letta in modo differente dal suo darsi spontaneamente nell’esser-proprio-così delle cose, della sua immediatezza. Come bene dice Hegel, «che si abbia un fondamento, di ciò è fondamento il posto, e viceversa così è un posto il fon­ damento» 39. In questo tipo di mediazione, esiste un suolo solo perché e in quanto il processo che lo ha istituito e da cui quello dipende si è estinto nel suo risultato facendo apparire questo suo effetto, nel dileguare della sua causa, come l’uni­ ca e l’ultima base tanto di tutta la realtà (società), quanto dell’intero pensiero. Estraneo e lontano da questa forma mentis dell’immanenza, Althusser è incorso più volte nell’er: rata identificazione e riduzione di queste categorie marxia­ ne con/a concetti di matrice empirica, senza intuire né pren­ dere coscienza del fatto che essi segnalavano la presenza di una ben più densa problematica, con la quale egli, in defini­ tiva, non ha mai avuto alcun rapporto. Che il soggetto del­ l’indagine, la moderna società borghese, sia per Marx «già dato», che la conoscenza delle sue forme cominci solo postfestum e parta quindi dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento {Entstehungsprozess) 40, sono enunciati teorici che per Althusser hanno sempre e soltanto rappresentato, nella migliore delle ipotesi (quando non sono stati visti come cedimenti allo storicismo), categorie denotanti un oggetto reale semplicemente presente nel suo carattere di dato, mero risultato «attuale» della storia passata (è oltremodo significa­ tivo che in questo contesto Althusser possa interpretare la

39 Hegel, Scienza della logica, II, cit., p. 511, p. 541. 40 L. Althusser, Leggere II Capitale, cit., p. 129.

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Wirklichkeit marxiana solo come «realtà visibile» o leggere VAufhebung esclusivamente nei termini, simmetrici a quelli di Lukacs, della «distruzione» e contemporaneaa «conserva­ zione» di ciò che è «superato») 41. Che poi egli abbia piena­ mente ragione a sottolineare l’esigenza di studiare il prodot­ to storico indipendentemente dalla sua genesi, concentran­ do tutta l’attenzione della teoria sul meccanismo che fa esi­ stere come società specifica (propria del modo di produzione capitalistico) il risultato della produzione di ima storia 42, è una questione che non modifica in nulla i suoi limiti di fon­ do. Essa anzi, nella misura in cui non è controllata dal dispo­ sitivo teorico althusseriano, introdurrà nuovi elementi aporetici nella trama discorsiva del suo progetto complessivo, in quanto Althusser svilupperà quella giusta intenzione — stu­ diare la società attraverso il suo corpo già formato — per mezzo proprio del criterio del presupposto, anteponendo al­ l’interpretazione sociale del tutto la lettura autoidentica del­ la realtà. Un punto fermo è stato comunque acquisito nella rivisi­ tazione del pensiero althusseriano: il primato logico della co­ struzione dei concetti sul tempo storico e, in particolare, il primato dell’interrogazione della struttura della totalità so­ ciale per un’adeguata comprensione della storia43. Althus­ ser tematizza questo sistema in contrapposizione soprattut­ to al modello teologico di Hegel, in cui a suo avviso, né esi­ stono differenze reali né l’unità che esso conforma possiede una struttura a dominante. Poiché le molte sfere in cui si ar­ ticola la totalità hegeliana sia non posseggono mai una esi­ stenza indipendente, sia sono praticamente tutte indifferen­

41 Cfr. rispettivamente ibid., pp. 132-133; Elementi di autocritica, cit., p. 31; Per Marx, cit., p. 176. 42 ÌZ>zW.,pp. 68-69. 43 Ibid., pp. 103-104. Cfr. anche M. Jay, Marxism and Totality, cit., pp. 387-388.

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ti (uguali) tra loro (essendo solo mediis terminis evanescenti di un’essenza che in esse si rappresenta), la loro correlazione in un Intero non potrà mai avere al suo interno un principio d’ordine capace di organizzarle in una forma verticale e ad un tempo complessa 44. La categoria hegeliana è così tanto un’unità di tipo spirituale, in cui ogni parte è direttamente espressiva dell’altra e ognuna di esse immediatamente della totalità (è il criterio della pars totalis}, quanto un tutto di ele­ menti derivati, posti e continuamente superati dall’autosvi­ luppo di un’unica ragione semplice che ne costituisce il cen­ tro esclusivo (in cui tutti i momenti precipitano come nella loro origine) e onnipresente in tutte le loro variazioni. E l’i­ stituzione, il prender forma della «totalità espressiva», in cui la «verità» di ogni determinazione è sempre e per ciascuna di esse al di fuori di sé, al di là di sé. Il loro .essere non è fondato sul loro esistere concreto, ma rimanda sempre a un processo «dialettico» che continuamente le derealizza e le depone nel mondo unicamente in modo transuente, tanto destinato a non durare quanto a produrre soltanto la loro uniformità orizzontale. Di contro a questo tipo di sintesi — sia inter­ pretata, more solito, secondo i tradizionali canoni del logici­ smo, come se ciò che essa disegna e designa fosse solo il frut­ to di un «delirio idealista» e non possedesse, dunque, alcun referente invisibile nella realtà immediata stessa, sia presen­ tata come se essa esaurisse tutti i significati (ben più com­ plessi) delle categorie hegeliane e nient’altro fosse possibile leggere in essa — Althusser ritiene indispensabile delineare la differentia specifica che separa radicalmente l’ordine e la natura del tutto marxiano da quello che egli ritiene essere ti­ pico di Hegel45.

44 Cfr. L. Althusser, PerMarx, cit., pp. 82-85, pp. 180-186. 45 C£r. i seguenti lavori: id., Elementi di autocritica, cit., pp. 33-35; Per Marx,

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La distanza tra i due è subito misurata, in primo luogo, dal loro stesso rapporto nel famoso «rovesciamento» operato da Marx della dialettica hegeliana46. Per Althusser questa operazione non mette in gioco una semplice separazione del metodo dal sistema (come suggeriva Engels), una semplice distinzione tra — estrazione del — suo «nocciolo razionale» dal «guscio mistico» della filosofia speculativa, come se tale procedura potesse conservare tale e quale l’oggetto portato così alla luce e usarlo nell’analisi del «mondo reale» (non più dell’idèa). La critica marxiana di Hegel invece, si sostiene, implica non tanto un’inversione di direzione della dialettica, quanto piuttosto una sua trasformazione in un qualcosa di completamente diverso, che converte le sue «strutture speci­ fiche» in altre categorie nettamente distinte47. Questo evento teorico nasce e prende forma attraverso una rottura tra i due termini, mediante un cambiamento di problematica che inaugura una «rivoluzione teorica» di primaria impor­ tanza, perché essa investe direttamente la natura stessa del «nuovo oggetto» ora messo al centro, del pensare 48. Il pre­ supposto del «modello hegeliano», quell’essenza originaria semplice che in tutto il suo sviluppo ristabilisce sempre e so­ lo se stessa, viene da Marx rimosso, soppresso tout court e sostituito da una matrice teorica che con la prima non ha più niente a che vedere. Al posto della reductio ad unum delle molteplici e differenziate forme storiche del mondo nell’au­ toevoluzione dell’idea, Marx mette il sempre-già-dato di un’unità complessa strutturata il cui principio costitutivo

cit., pp. 87-88, pp. 174-176, pp. 191-193; Freud e Lacan, cit., pp. 143-148; Leggeteli Capitale, cit., pp. 99-103, p. 111. 46 Cfr. K. Marx, Il Capitale, I, cit., p. 18. Si veda ancora V Avant-propos di Al­ thusser al libro di G. Duménil, Le concept de loi économique dans «Le Capital», Maspero, Paris 1978, pp. 7-26. 47 Cfr. L. Althusser, PerMarx, cit., pp. 72-75. 48 Id., Leggere II Capitale, cit., pp. Ì60-164.

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non rimanda mai a un’origine assoluta, ma è il modo stesso di organizzazione e articolazione di tale complessità. Que­ st’ultima, d’altra parte, né rappresenta una struttura omoge­ nea di parti né costituisce, al contrario di quello hegeliano, un tutto privo di dinamismo. Al suo interno, infatti, sia le diverse istanze posseggono una loro identità propria, una lo­ ro dimensione reale irriducibile ad alcunché, sia le distinte contraddizioni presenti — tanto prese singolarmente quan­ to nel loro rapporto più generale nella cornice della società — rappresentano altrettante condizioni di esistenza del tut­ to complesso. Questa coesistenza e compresenza, questa ar­ ticolazione dei diversi momenti del sistema sociale, a ben vedere, si identifica con la struttura della totalità in cui essi esistono e fanno giocare i loro ruoli e le loro posizioni. La differenza tra i molti elementi fa così tutt'uno con il corpo complessivo specifico che l’insieme viene ad assumere attra­ verso la loro interazione e correlazione reciproche. Il mutuo condizionamento tra le parti e le contraddizioni differenzia­ te — ciascuna di esse è, ad un tempo, tanto determinata dal­ l’altra quanto a sua volta determinante nei suoi confronti: ognuna è essenziale all’altra — producono al didentro stesso della realtà di ogni «condizione d’esistenza» la manifestazio­ ne della «struttura a dominante» che costituisce l’unità del­ l’intero. All’interno di ogni elemento della complessità, in­ trinsecamente a ciascun complesso parziale e a ogni contrad­ dizione, si riflette la presenza della totalità che coordina e connette le diverse individualità. La contraddizione marxia­ na, questa molla propulsiva del reale, è dunque qualcosa di completamente diverso da quella hegeliana, in quanto essa, nella sua inerenza alla formazione sociale che muove (tanto nei suoi molti livelli quanto nelle sue molteplici istanze), è «surdeterminata» nel suo principio stesso 49.

49 Cfr. Per Afone, cit., pp. 188-192.

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L’intera società tanto è divisa e stratificata dalla peculia­ rità delle singole contraddizioni quanto è unificata da una determinazione fondamentale — da urna metacontraddizione o contraddizione «in generale» — che sia regna su di esse e al loro interno sia viene da queste ultime, reciprocamente, vincolata e condizionata. Ciò comporta che essa ha cessato di essere univoca, fissata nella sua funzione e nel suo signifi­ cato, poiché ora essa porta in sé il suo rapporto d’identità con la struttura disuguale del tutto complesso. Nel gioco del­ la differenziazione sociale, della inter-determinazione delle condizioni sotto il primato dell’organizzazione a dominante della società, la situazione che adesso nasce e si mette in mo­ vimento dà luogo a una proliferazione di distinzioni e di dif­ ferenze effettivamente reali, concrete, ognuna con consi­ stenza ed efficacia proprie, costitutive della e inerenti alla stessa unità del tutto, la quale è dunque complessa e diffe­ renziale, segnata d’ineguaglianza. D’altra parte, questo carattere della formazione sociale capitalistica diventa ancora più evidente e al suo interno ra­ dicato se si pensa al fatto che la «gerarchia delle istanze» (e delle contraddizioni) è mossa da una dinamica che periodi­ camente ne ridefinisce il profilo complessivo. Poiché per Al­ thusser la contraddizione è il motore di ogni sviluppo, i pro­ cessi svòlgentisi nell’ambito della società tra i suoi diversi sottosistemi e dentro ognuno di essi danno luogo o possono dare luogo a spostamenti e a condensazioni che modificano o possono modificare la situazione data. La «invariante strutturale» tanto è premessa delle trasformazioni quanto queste ultime rappresentano la sua esistenza. Nel contesto della stabilità della struttura a dominante, lo scambio dei ruoli tra le contraddizioni, la «fusione» dei contrari, rappre­ sentano le condizioni primarie delle variazioni concrete del­ le medesime contraddizioni, vale a dire di una continua pos­ sibile riarticolazione delle relazioni tra determinazione da parte dei rapporti di produzione e dominazione di uno speci­

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fico apparato sociale 50. Come dovrebbe esser chiaro, il mu­ tamento e lo scambio delle parti non costituiscono una suc­ cessione arbitraria di ruoli e di posizioni, una ridislocazione di livelli priva di limiti o erratica o, ancora, i cui impulsi pro­ verebbero dall’esterno. In realtà, sostiene Althusser, l’erro­ re di un indefinito, aspecifico relativismo può essere evitato soltanto assegnando a quei cambiamenti la necessità di una funzione. A ogni istanza del tutto, infatti, compete un tem­ po proprio di sviluppo e di caratterizzazione interna «relati­ vamente autonomo» da quello di tutte le altre. Ciascuna di queste, dunque, tanto deve essere letta e interrogata con ca­ tegorie d’analisi capaci di rispettarne la natura peculiare, quanto deve essere considerata nella più comprensiva corni­ ce della generale correlazione a tutti gli altri livelli. In questo ambito, l’autonomia relativa di ogni singola parte non può più essere interpretata secondo il criterio dell’indipendenza dal tutto, perché ciascuna di esse esiste come tale solo sulla base di un certo tipo di articolazione nel tutto, quindi su un certo tipo di dipendenza da quest’ultimo. E questa vincolazione delle molte strutture parziali a un fondamento preciso che stabilisce modo e grado della loro subordinazione effettiva, di cui si possono osservare gli ef­ fetti nella storia dei diversi livelli, nelle differenze dei loro ritmi di sviluppo, di spostamento, di scarto, di interferenza, di ritardo e/o di anticipo l’uno rispetto all’altro 51. Invece di ridursi all’affermazione di un’isolata indipendenza o a una speculare negazione di una dipendenza in sé, l’interpretazio­ ne marxista del tipo di clivage esistente tra i diversi settori della totalità deve considerare tutte le distinte strutture temporali soltanto come altrettanti «indici oggettivi» del modo di articolazione dei differenti elementi nella struttura

50 Id., Elementi di autocritica, cit., p. 33. 51 Cfr. id., Leggere II Capitale, cit., pp. 107-116.

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d’insieme del tutto. È nell’unità specifica di quest’ultima che si deve pensare il concetto di «storicità differenziale», perché solo la natura determinata della totalità può far com­ prendere il modo di coesistenza, secondo linee di confine e sfasature, dei suoi componenti e rapporti costitutivi. Questi ultimi, di fatto, sono soggetti all’influenza della «struttura dominante» che introduce un ordine determinato di correla­ zione e di trasformazione nella rete interconnettiva delle molte parti, la cui combinazione complessa costituisce il tempo proprio del processo complessivo. In tale ambito, è evidente che la comprensione dei diversi «indici d’efficacia» (grado di determinazione) dei differenti elementi nel mette­ re capo alla configurazione d’insieme passa attraverso la co­ noscenza e la precisazione della funzione svolta da tale o tal altro livello in quella dinamica. Si tratta, in altre parole, di determinare il rapporto di articolazione di un’istanza o di una struttura in funzione delle altre nel contesto del mecca­ nismo «attuale» del tutto, per arrivare finalmente a definire il concetto di «tempo storico» come forma specifica dell’esi­ stenza della totalità considerata nel suo «decentramento ar­ ticolato».

4. Il rapporto tra l'intero e i suoi momenti Come si può constatare, l’argomentazione althusseriana non ci ha condotti, di nuovo, solo di fronte alla priorità del­ l’ordine della riflessione nei confronti dell’empirico. Essa ci ha anche mostrato che tutto il suo discorso sta e cade insie­ me alla solidità concettuale del punto di partenza — un vero e proprio a priori — scelto per condurre l’intera analisi e svi­ luppare tutte le deduzioni riguardanti l’oggetto del conten­ dere, il tutto complesso da sempre-già-dato. L’avversione per Hegel, per ciò che il filosofo francese ha chiamato «follia speculativa», vale a dire la pretesa della

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dialettica di produrre da sé la propria materia 52, ha prodot­ to la singolare e per molti versi contraria, opposta tendenza di Althusser a interpretare le «condizioni materiali» del mondo come date, come sussistenti di per sé, contrapposte alla e dunque indipendenti dall’apparente onnipotenza del­ la ragione speculativa. Pur cercando di distinguere la sua lettura del reale dal «modello empirista» 53, Althusser ha as­ sunto il concreto come un oggetto aproblematico che poteva fare da adeguata base ultima del pensare, senza minimamen­ te preoccuparsi di sussumerlo a quel criterio «sintomale» d’indagine che lo aveva fino a quel momento guidato. Ciò facendo, Althusser non ha saputo (né, stando così le cose, avrebbe potuto) porre alcuna differenza tra il modo in cui la realtà si presenta di fronte all’osservatore e quell’interno principio di determinazione che la struttura come un alcun­ ché di immanentemente mediato. Il risultato teorico cui conduce questa indistinzione è l’immediata identificazione dell’essente con la realtà empirica e la proiezione direttamente al didentro del sistema dei concetti di quest’identità. Con ciò si vuol dire che Althusser, in un certo senso, foto­ grafa l’esistente e lo assorbe talis et qualis nel processo di ela­ borazióne della pratica teorica, scambiando per un prodotto del pensiero ciò che è soltanto un calco dell’immediato. Espressioni quali «la struttura del tutto è l’esistenza del tut­ to», la totalità «ha come unità la sua complessità stessa», «pensare la determinazione degli elementi di un tutto me­ diante la struttura del tutto»54, traducono bene, direttamente dal loro codice linguistico, lo schiacciamento operato

52 Cfr. rispettivamente, id., Freud e Lacan, cit., p. 139; Elementi di autocritica, cit.,pp. 34-35. 53 Id., Leggere II Capitale, cit., pp. 168-169. 54 Cfr. rispettivamente, id., Per Marx, cit., pp. 181-182; Leggere 11 Capitale, cit., p. 196.

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da Althusser del mondo reale alla sua sola dimensione fat­ tuale. Come ci è noto, in questa la mente può cogliere solo mo­ menti e processi di natura derivata, i quali tanto nascondono di per sé le loro radici più profonde, quanto fanno apparire di queste ultime unicamente le loro forme più superficiali, coincidenti con ciò che sembra esistere in virtù soltanto del suo esserci attuale. Lo spessore sociale che inerisce a queste forme non si mostra nella fatticità mediante la quale esse ri­ cevono esistenza, la quale così mette in evidenza oggetti e correlazioni apparentemente riferiti solo a se stessi. E in questo reticolo di false uguaglianze che è rimasta irretita la causalità althusseriana, la quale nel tentativo di delineare una totalità aperta e processuale, che rendesse conto dell’ef­ ficacia del tutto nelle parti e dell’azione delle parti nel tutto, ha finito con il mettere capo a un sistema che, di fatto, è «so­ lo il rapporto attivo delle parti» 55. La significativa ammissione althusseriana ci chiarisce che non esiste una distinzione effettiva di rango e necessa­ ria, tra l’unità e le istanze che, costituendola, la istituiscono. Per sfuggire alla rigorosa consequenzialità atemporale e onnideterminante, per propria autogenerazione, dello spirito hegeliano, Althusser è stato costretto ad aprire la natura del­ la contraddizione e a fare dell’elemento determinante un qualcosa che poteva essere, a sua volta, condizionato da al­ tre istanze. Il concetto di «surdeterminazione» che avrebbe dovuto tanto garantire una struttura a dominante all’intera formazione sociale, quanto consentire una generale intera­ zione differenziante tra le varie e diversificate sottostruttu­ re societarie, si rivela essere piuttosto un’idea che copia pu­ ramente e semplicemente lo stato di cose esistente, dupli­ candone soltanto i meccanismi di funzionamento. Owia-

55 Id., Elementi di autocritica, cit., p. 35.

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mente non si tratta affatto di una questione di cultura filoso­ fica. Esistono invece nei modi di esistenza del reale delle mediazioni che si rendono responsabili di questo scambio e contribuiscono quindi a portare una luce diversa nei proble­ mi che stiamo discutendo. Se Althusser non riesce a distin­ guere in modo significativo il tutto dalle sue parti, facendolo risultare dalla loro complessa interrelazione, ciò avviene so­ prattutto perché il capitale ha tolto dall’empirico il processo originario che ne ha istituito la vigenza e ha in questo modo frapposto tra la conoscenza e quello un formidabile diafram­ ma protettivo. Se non si riesce a leggere questa differenza, la ricostruzione concettuale della realtà non potrà che replica­ re l’autoidentità delle determinazioni del mondo sussistente senza poter riuscire ad afferrarne la ragion d’essere essenzia­ le, distinta, preesistente e sovraordinata a quelle. La causali­ tà metonimica che Althusser mutua da Spinoza è un concet­ to che se da un lato, apparentemente, gli consente di soste­ nere l’interiorità della struttura, come tale, ai suoi effetti — evitando così sia la provenienza esterna della determinazio­ ne sia lo sventagliamento casuale dei momenti —, dall’altro, però, lo porta inevitabilmente verso l’equiparazione dei due livelli, poiché l’intera esistenza della struttura consiste nei suoi effetti. In breve essa, che è solamente una combinazio­ ne specifica dei suoi elementi, non è nulla al di fuori dei suoi stessi modi 56. Tutto il segreto e l’insostenibilità della posizione althusseriana sta nel presupposto da cui essa ha preso le mosse. Avendo posto all’inizio della sua tematizzazione una strut­ tura a dominante che costituiva la complessità e l’unità del tutto, ecco che Althusser può credere di aver evitato la circo­ larità del suo discorso semplicemente disponendo in alto —

56 Cfr. id., Leggere II Capitale, cit., p. 198, p. 202: «gli effetti della struttura del tutto non possono essere che l’esistenza stessa della struttura».

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per riprendere qui una sua stessa «topica» — il primato del­ l’economia e facendo risultare da questo vertice il «condizio­ namento reciproco» delle contraddizioni e delle istanze. Quest’ultimo, nell’argomentazione althusseriana, non è che la manifestazione della totalità57, un sistema di rapporti complesso e stratificato che riflette (come in un puro e sem­ plice rinvio speculare) in definitiva solo se stesso. Il vicolo cieco in cui va a parare questo ragionamento è evidente. Poi­ ché Althusser ha scambiato la datità dell’oggetto postogli di fronte con la sua propria diretta esistenza, ponendolo in so­ vrappiù sotto la predominanza — essa stessa, nella sua fat­ tualità, soltanto presunta — di un’istanza specifica, ecco che la pura e semplice coincidenza del tutto con le parti deri­ va naturalmente dalle stesse premesse logiche dell’argomen­ tare. Poiché di fatto non esiste nessun clivage di rilievo o im­ manente tra l’elemento dominante e le substrutture deter­ minate, ecco che il paradosso althusseriano di una struttura non differente dai suoi effetti e tuttavia a essi sovrastante, poteva essere spiegato solo con il ricorso a una categoria che unicamente prendesse atto di questo stato delle cose. La «causalità metonimica», così, da un lato constata che la struttura d’insieme è soltanto l’interrelazione differenzia­ le e disuguale dei suoi momenti, un vettore che scaturisce da essi, dall’altro non discute (né ne ha bisogno) là premessa che le sta a monte e che costituisce, invece, la condizione base perché essa — così come il modello di società che ne viene inferito — possa esistere. Se si fa mente locale ai significati veicolati dal concetto di «determinazione in ultima istanza» — la cui funzione Althusser pone a fondamento del com­ plesso societario — allora i caratteri dell’oggetto in questio­ ne divengono ancora più trasparenti. Il politico-ideologico, infatti, ha in Althusser e nella società contemporanea natura

57 Id., PerMarx, cit., pp. 182-183.

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onnipresente, onniabbracciante. Esso ha il dono teologico dell’ubiquità, è l’elemento che pervade e attraversa tutte le istanze, il “fluido” che conforma di sé tutti i corpi e gli ap­ parati sociali. È questa l’interiorità della struttura ai suoi ef­ fetti. La causa produce i suoi risultati dimorando al loro in­ terno, persistendo dentro di essi, in quanto la lotta di classe produce e riproduce in continuazione le sue condizioni d’e­ sistenza, vale a dire se stessa come tale, come presupposto e continuo effetto ad un tempo della sua stessa dinamica. Questa tesi, afferma il filosofo francese, deriva direttamente dal primato della contraddizione sui contrari che si affrontano e si contrappongono. Il movimento storico a cui dà luogo questo principio di determinazione è precisamente l’alveo societario, il flusso temporale, il processo di trasfor­ mazione in cui i diversi soggetti sociali si scontrano ed al cui interno, insieme, sono per così dire surdeterminati. La loro opposizione costituisce «la forma storica» di manifestazione della contraddizione che li divide ed è nel contempo la con­ dizione che produce il contesto dato entro il quale essi svi­ lupperanno la loro azione. Questo sistema processuale è così tanto il grande ed impersonale «motore oggettivo» in cui gli individui-agenti dispiegano le loro multiformi e differenzia­ te pratiche, quanto, in un certo senso, il fiume da cui vengo­ no trascinati, che li condiziona. Le due cose in una 58. Una volta caduta la petitìo principii da cui Althusser ave­ va preso le mosse per dare al tutto un’articolazione gerarchi­ ca, la totalità già data da cui si comincia può solo far vedere e mettere in moto un processo sociale di interazione tra le parti il cui unico sbocco può esser solo, nuovamente, il tutto da cui si era partiti. Avendo fondato la «causalità metonimi­

58 Cfr. id., Umanesimo e stalinismo, cit., pp. 34-43, pp. 51-52, pp. 126-135. Sul problema si vedano anche: M. Jay, Marxisms and Totality, cit., pp. 419 e sgg.; G. Elliott, Althusser. TheDetour of Theory, Verson, London 1987, pp. 159-160.

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ca» su un suolo che si è poi rivelato di natura opposta rispet­ to a come lo si era pensato, Althusser ha dato vita all’elabo­ razione di tutta una serie di concetti — da quello della «au­ tonomia relativa» delle istanze a quello di economia, per ci­ tare solo i più rilevanti — che han finito con il costituire, in ultima analisi, solo un rispecchiamento dell’esistente più che una sua vera e propria appropriazione conoscitiva. Comple­ tamente chiuso nel proprio orizzonte fattuale, nel principio epistemologico della datità, Althusser non ha mai potuto problematizzare o vagliare più attentamente e in profondità il carattere metafisico della mediazione che struttura di sé il mondo contemporaneo. Egli, sin dai suoi primi saggi, ha sempre creduto che l’oggetto reale godesse di uno status og­ gettivo — privo di ogni doppiezza — che solo l’ideologia po­ teva deformare o solo la pratica teorica poteva conoscere 59. Da questo punto di vista, è estremamente significativa l’incomprensione in cui cade Althusser quando deve render conto della contestuale presenza in Marx della non identità tra concreto teorico e concreto reale e della concezione clas­ sica del rapporto tra essenza e fenomeno. Quest’ultima, egli argomenta, pone nell’essere stesso, nella realtà stessa la di­ versità tra il dentro dei fenomeni, la loro ragion d’essere interna e la superficie delle apparenze concrete, visibili e sensibili, trasponendo come differenza di livello o di parti nell’oggetto reale stesso una distinzione equivoca, poiché es­ sa può essere solo di conoscenza e non può inerire, dunque, all’oggetto esistente. Benché qui Althusser sia nel giusto nel criticare l’interpretazione del nesso astratto-concreto come passaggio dalle determinazioni più generali (e generiche) a quelle più concrete dell’empirico, egli sbaglia gravemente quando pretende di ridurre quella correlazione a una distin­

59 Cfr. rispettivamente L. Althusser, Per Marx, cit., pp. 50-52, p. 60; Leggere II Capitale, cit.,pp. 199-200.

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zione esterna al reale. L’errore consiste tutto nel leggere il mondo sussistente come un oggetto che non può presentarsi come «una realtà a due livelli» 60, perché esso, nella sua mo­ nolitica autoidentità, è precisamente ciò che consente ad Al­ thusser di sostenere e di fondare la specificità del processo di pensiero. Se fosse crollato quel presupposto, tutto l’edifi­ cio teorico althusseriano avrebbe visto venir meno le condi­ zioni necessarie della sua coerenza e sostenibilità. Sia per questo motivo, sia per le ragioni che sappiamo, Althusser tanto ha pensato il reale contemporaneo in modo inverso al­ la sua più immanente natura e determinazione, quanto ha fi­ nito con il dichiarare ambiguo, e conseguentemente con il togliere dal sistema categoriale marxiano, un principio d’esi­ stenza e d’organizzazione societaria che è invece indispensa­ bile alla teoria per articolare, in modo corrispondente alla sua densità/complicatezza (e non solo complessità), la strut­ tura processuale — per stadi, livelli e funzioni distinti e di­ versificati — della società del capitale. La «totalità decentrata» althusseriana, l’unità complessa del tutto a dominante a cui le singole istanze, «relativamente autonome» tra loro, avrebbero dovuto essere subordina­ te 61, sono concetti che sia non sono alternativi nei confronti della tematizzazione «longitudinale» di Lukàcs o del «marxi­ smo occidentale» 62 sia, come questa, ricalcano puramente e semplicemente i caratteri degli stati di fatto esistenti o es­ senti nel mondo empirico. Dunque essi non disegnano un’effettiva priorità del tutto rispetto alle parti 63, né riesco­ no a stabilire un’effettiva afferenza al e dipendenza di que­ ste ultime dal primo 64.

60 Cfr. Id., Leggere il Capitale, cit., pp. 196-202. 61 Cfr. M. ]^y, Marxism and Totality, cit., pp. 406-410. 62 lbid.,pp. 387-388, p. 409. Ibid., pp. 389-390. 64 IAzW.,pp.409-410.

ni L’ARTICOLAZIONE DELLA SOCIETÀ NELLA TEORIA SISTEMICA

1. Ilfunzionalismo e la storia

Il modello di razionalità proposto dalla teoria dei sistemi di Luhmann occupa ormai un posto di primo piano nell’ana­ lisi sociale, secondo prospettive globali, della complessità, di quel fenomeno tipico della società contemporanea in cui la correlazione tra tutti i suoi diversi e diversificati elementi, per avere attuazione e possibilità di successo deve procedere in modo selettivo di fronte alla dimensione oggi assunta dal­ la crescente differenziazione quantitativa dei molti «sistemi parziali» che la compongono L E naturalmente impossibile render conto in modo completo delle molteplici direzioni e campi d’interesse in cui si è diramata la ricerca luhmanniana 1 2. Al limite ciò non è neanche indispensabile nell’ambito

1 Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, H Saggiatore, Milano 1983, p.

309. 2 Una breve rassegna del concetto di sistema è in T. Maldonado, Politica e scienza delle decisioni: nuovi sviluppi della ricerca sistemica, «Problemi della transizio­ ne», n. 5, 1980, pp. 6 e sgg. A raffronto di questo excursus storico si può mettere il primo capitolo dell’imponente lavoro di Jay, The Discourse of Totality Before Western Marxism, pp. 21-80, nel volume già citato Marxism and Totality, University of Cali­ fornia Press, Los Angeles 1984. Tale contributo è istruttivo e significativo nella mi­ sura in cui esso, comparando molto spesso i medesimi pensatori, i grandi modelli del pensiero occidentale — da Bruno via Spinoza a Hegel —, mostra in piena luce la di-

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di questo studio. Più rilevante per i nostri fini infatti è capi­ re se la nozione di sistema sociale elaborata da Luhmann co­ stituisca veramente un «nuovo paradigma» sociologico capa­ ce d’interpretare in modo differente dalle tradizioni critica­ te l’ordine societario capitalistico e le dinamiche del suo in­ cessante mutamento 3. A questo scopo conviene prendere le mosse — per adottare qui lo stesso criterio di riduzione fis­ sato da Luhmann per rapportarsi a oggetti pluriarticolari e multìdimensionali, complessi in una parola — da uno dei concetti chiave della teoria funzionalista, quello di storia. Quest’ultima rappresenta un referente fondamentale delle categorie sistemiche, sia perché i sistemi sociali hanno bisogno di tempo per costruire la loro complessità, sia per­ ché la storia mette a loro disposizione una base di riferimen­ to rispetto alla quale essi possono operare entro un quadro di relativa sicurezza e stabilità 4. Il tempo passato e irreversibi­ le entra a far parte del pensiero funzionalista da un lato per­ ché esso costituisce una complessità già ridotta, un processo che ha soppresso altre possibilità 5 e instaurato solo quelle dimostratesi vantaggiose nella soluzione di determinati pro­ blemi, dall’altro perché una riproblematizzazione di quanto già acquisito — la rilettura della propria memoria o la risco­ perta delle origini — rischierebbe di mettere in crisi le limitate facoltà conoscitive e operative dell’azione. Quest’ulti­ ma, vista la scarsità del suo potenziale di assorbimento della complessità, non può rinunciare a «sedimenti di senso» accu­ mulatisi nel passato, né d’altro canto può prescindere da quanto oggi fa parte del presente ed è il punto di partenza per il futuro. La storia, in questo contesto, è un fondo pree-

versità di significati logici che emerge dalla lettura della stessa realtà attraverso cate­ gorie differenti e tra loro alternative. 3 Si rinvia al saggio di Zolo, Autopoiesis, cit., pp. 151 e sgg. 4 Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 96-100. 5 Ibid.,p. 143,p. 199.

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sistente di problemi e di strutture che ha già alleggerito la complessità e non può dunque andare soggetta a ulteriori di­ scussioni. I concetti della sociologia luhmanniana, per un verso non devono che riprodurre e portare alla coscienza ciò che è venuto enucleandosi come entità autonoma nel corso dell’evoluzione sociale 6, per l’altro verso rivolgono tutta la loro attenzione a un oggetto storico che — al pari di tutto quanto è sussistente — esiste nel tempo, così com’esso è o si presenta provenendo dal suo passato 7. Nell’ambito di queste coordinate concettuali, Luhmann è convinto che il rapporto tra consapevolezza e storia possa oggi essere impostato diversamente rispetto all’IUùminismo e a Hegel. Mentre questi due schemi di pensiero attribuiva­ no il primato, in ogni modo, alla ragione — umana nell’uno, assoluta nell’altro —, la teoria sistemica ritiene che sia or­ mai matura una svolta, per i motivi anzidetti, in direzione di una sostituzione della fattualità della storia alla soggettività dell’intelletto. Più che risalire alle fonti del passato, la socio­ logia funzionalista deve prendere atto dell’esistenza attuale di «prestazioni preliminari» mediante e a partire dalle quali ciò che è disponibile in forma compiuta può essere sottopo­ sto ad adeguato vaglio selettivo. Il tema principe del presen­ te non è tanto, così, la ricostruzione à rebours del tempo, bensì soprattutto la riduzione della complessità sociale, un eminente problema che sta a monte del sistema. La storia di quest’ultimo viene per questa via presupposta entro le strut­ ture sistemiche senza che si debba ogni volta riprodurla o re­ vocarla (ammesso che ciò sia fattibile o dicibile per eventi ir­ reversibili). L’argomentazione luhmanniana ha così chiarito che il suolo da cui comincia e deve cominciare la tematizzazione

6 Ibid.,p.238. 7 Ibid., p. 117.

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funzionalistica ha tutti i caratteri di una premessa, di un da­ to indiscutibile, da cui la lettura dell’ordinamento sociale deve necessariamente partire come dal proprio fondamen­ to 8. Non si tratta, secondo Luhmann, di orientarsi in questa questione — la conoscibilità della storia del mondo — me­ diante continue riproblematizzazioni del non più disponibi­ le sussistente, bensì di constatare uno «stato di fatto» 9 che rende possibile affrontare i più importanti problemi di stabi­ lità della società attraverso la semplificazione del, la proie­ zione di senso nel, «contingente» 10, in quella complessità preformata eccedente comunque le ridotte capacità selettive umane. La realtà contemporanea ha dunque per Luhmann, in definitiva, tutti i tratti di un incipit esclusivamente empi­ rico, di un essente in cui bisogna soltanto portare la raziona­ lità di un agire orientato in modo sistemico, senza che vi sia alcuna necessità di interrogarne la fatticità. Dando per scon­ tato questo inizio, l’unico compito del pensare in modo com­ plesso consiste nel predisporre le molte, debordanti possibi­ lità esistenti in modo da renderle attualizzabili, fruibili da parte del sistema sociale per l’assicurazione della propria conservazione.

2. Evoluzione, mondo, sistema, senso Le «conquiste civilizzatrici» affermatesi nella storia met­ tono dunque capo a delle condizioni sociali che la teoria de­ ve porsi di fronte come un qualcosa di preesistente che si au-

8 I£fd.,p. 146,177. 9 Cfr. Habermas-Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale, ETAS, Milano 1973, p. 19 (d’ora in avanti: Teoria). 10 Contingente è un mondo in cui tutto è possibile anche altrimenti, in altro modo: cfr. ibid., p. 107, p. 209.

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torealizza 11. Questo essere anteposto a ogni sua concettua­ lizzazione, contrariamente alle concezioni che leggono gli sviluppi sociali in termini di un progresso lineare, irreversi­ bile, intrinsecamente necessario e positivo, dal punto di vi­ sta del sistema sociale complessivo può essere spiegato ade­ guatamente solo per mezzo di una teoria dell’evoluzione so­ ciale. E naturale, secondo Luhmann, che tutti i sistemi sociali, attraverso la propria storia, si modifichino in continuazione. Nondimeno questi processi sono osservabili e se ne può ren­ der conto, questa è la tesi, prevalentemente centrando l’ana­ lisi sul loro adattamento a trasformazioni evolutive. Questa assunzione sia evita ogni riduzione scientifica nell’interpre­ tazione dell’evoluzione (essa non si fonda su leggi naturali), sia legge quest’ultima per il tramite della formazione di si­ stemi, vale a dire poggiandola sul dislivello di complessità esistente tra il sistema e l’ambiente 11 12. La modifica dell’oriz­ zonte delle possibilità conseguente a queste trasformazioni, condiziona anche il probabile svolgimento dei sistemi, la cui ristrutturazione diventa a sua volta, di nuovo, un cambia­ mento ambientale per altri sistemi. Questa dinamica, è evi­ dente, non fa che aumentare la differenziazione sistemica e con essa quel clivage da cui si era partiti. L’evoluzione socia­ le, secondo Luhmann, è precisamente il dato di fatto dell’in­ cremento della complessità della società che scaturisce dalla discontinuità tra i sistemi, i quali sia vengono moltiplicati e specializzati, sia stabiliscono confini precisi e processi di ti­ po selettivo rispetto alla cornice cui si riferiscono 13. Il primo concetto chiamato in causa da Luhmann per

11 Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 99, p. 172. 12 Ibid.,pp. 174-176. 13 Cfr. Habermas-Luhmann, Teoria, cit., pp. 11-12, p. 63, pp. 183-185, pp. 244-249.

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differenziarsi dalla tradizione sociologica precedente, per avviare e sostenere un’argomentazione funzionalista capace di esibire una propria specificità, è precisamente quello della distinzione tra un dentro e un fuori, tra il sistema e l’ambien­ te. Questa coppia, tuttavia, possiede a sua volta un’unità di riferimento superiore a entrambi che consente loro di anco­ rarsi in qualcosa d’indipendente. Il mondo, infatti, né pos­ siede alcuna delimitazione (esso non ha un esterno che lo vincoli), né la sua esistenza può essere minacciata da alcun­ ché e non risulta quindi problematica. Esso è infinito, sia nel senso che contiene la totalità degli eventi possibili, sia nel senso che abbraccia tutte le cose essenti, aventi un loro es­ serci. Tanto la verifica delle possibilità, quanto la distruzio­ ne di tutto ciò che esiste avviene dentro il mondo 14. L’appa­ rente circolarità di questo discorso — il carattere primigenio di quell’istanza «in sé» non può rappresentare un punto di riferimento ultimo dell’analisi, in quanto il mondo, in ragio­ ne della sua ipercomplessità, deve costituire un problema per almeno un altro sistema dato insieme a esso, per il quale quest’ultimo sia minaccia — non rappresenta per Luhmann, come vorrebbe Habermas, una «contraddizione» producen­ te mancanza di chiarezza nell’uso delle categorie o indeter­ minazione nei loro significati15. Per il sociologo tedesco, che ammette il tratto «teologico» dell’oggetto in questione, la relatività del mondo cessa di essere una croce per la sua impostazione nella stessa misura in cui questa stabilisce un rapporto di implicazione tra sistema e mondo. In quest’ultimo nesso, tanto viene assunta l’uguale originarietà tra i due momenti, quanto viene data per scontata l’indipendenza del secondo termine. In questo modo la cor­ relazione tra mondo e sistema può essere interpretata attra­

14 Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 130-132, p. 348. 15 Cfr. Habermas-Luhmann, Teoria, cit., pp. 98-Ì04, p. 203, p. 249.

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verso il criterio del differenziale di complessità16. Nell’am­ bito di questa differenza il mondo viene esperito dai sistemi come il «da che cosa» 17 della selezione, il terminus a quo — la complessità contingente di ciò che è dato — del loro com­ portamento riduttivo. I sistemi, così, si riferiscono al «tota­ le» proprio perché non lo sono; essi vi si rapportano esclusi­ vamente per il tramite delle loro finalità selettive, le quali devono strutturare il possibile come entità determinata o determinabile 18. Il concetto di complessità, dunque, desi­ gna sempre un’interdipendenza, una relazione tra un deter­ minato sistema e il mondo, mai una condizione dell’essere. Il «mondo prestabilito» che circoscrive tutta l’eterogeneità essente, tutte le molteplici diversità del reale, costituisce un «orizzonte di rinvio della coscienza», un suo «ambito di scel­ ta», nel quale è necessario introdurre dei «confini di sen­ so» 19 per ordinare in modo adeguato la diversa (più impro­ babile) complessità del sistema. Quest’ultimo, infatti, non può correlarsi al primo in un modo qualunque, perché la se­ lezione genera una differenza che è problematica e deve quindi essere concretizzata in maniera specifica. Poiché il mondo possiede una complessità che sporge al di là della li­ mitata capacità di assimilazione del sistema, quest’ultimo deve regolare in modo opportuno la propria interna diffe­ renziazione, sia per farla corrispondere al suo potenziale se­ lettivo, sia per distinguere se stesso dall’altro e dotarsi così di propri meccanismi adattivi (precondizione indispensabile della sopravvivenza del sistema entro circonstanze estremamente accidentali e imprevedibili) 20.

16 17 18 p.132. 19 20

Cfr. ibid., pp. 201-204, p. 207, p. 260. Ibid.,p.212. Cfr. ibid., pp. 47-49, pp. 63-64; N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit.,

Ibid.,p. 39, p. 45,pp. 50-53,pp. 62-64. Cfr. Id., Illuminismo sociologico, cit., pp. 133-134, pp. 159-165.

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di potenzialità momentaneamente inattuali che potranno in seguito essere recuperate e riutilizzate per ulteriori fini se­ lettivi, per il potenziamento della riduzione. Con essa si può creare unità nella quantità del possibile negando temporaneamente determinate alternative senza mai però restringere l’orizzonte complessivo dei rinvìi. Le procedure della negazione, infatti, sono riflessive, possono essere applicate a essa stessa e in genere né annullano né escludono l’accesso a ciò che è negato 27. Solo il tempo, pre­ cisa Luhmann, e non la negazione, elimina definitivamente parte delle differenze esistenti. H senso, dunque, è una stra­ tegia selettiva che dà una «forma d’ordine» all’agire umano, che per mezzo di un complicato intreccio di negazioni diffe­ renziate costituisce delle identità sociali articolate in modo pluridimensionale, oggettivamente e temporalmente com­ plesso. Essendo una «forma delle premesse», una «sintesi coordinante» 28, è evidente che questo concetto fondamen­ tale della sociologia gioca il suo ruolo di regola di orienta­ mento nella «cogenza selettiva» che la contingenza impone al sistema soltanto avendo alle spalle delle condizioni date di fatto che vengono assunte come contesto nel quale operare e in cui svolgere le proprie funzioni d’organizzazione. Da que­ sto punto di vista, il senso introduce le sue tendenze ordina­ trici nell’ambiente considerato unicamente exposé, esso può (tentare di) governare il terreno sociale, la sovrabbondanza del possibile, soltanto a condizione di porsi in esso come dentro un recinto indiscusso e indiscutibile, da razionalizza­ re soltanto mediante la flessibilità e la polisemia dei suoi per­ corsi, delle soluzioni dei problemi che esso può concretizza­ re. Il senso «si manifesta» come un qualcosa che mantiene

27 Ibid.,pp.21-22,p. 30. 28 Sul significato dell’idea di «identità» cfr. id., Illuminismo sociologico, cit., p. 27,p. 71,p. 164.

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fissi e connessi il possibile e il non possibile, che correla tan­ to l’uguale quanto il diverso: esso non si presenta mai in Luhmann come la causa di ciò che da esso sorge, bensì sem­ pre e soltanto come un criterio condizionato e preceduto dai materiali che esso poi lavora e coordina. La sua natura più essenziale, dunque, sia è derivata, confinata in una cornice che non è esso a porre, sia non è costitutiva di quelle possibi­ lità nel cui ambito pure esso, secondo Luhmann, è incaricato di portare il proprio «primato funzionale» 29.

3. La società Questi caratteri del concetto luhmanniano riportano il centro dell’intero discorso che stiamo sviluppando al pre­ supposto a partire dal quale Luhmann tematizza la sua idea di sistema sociale. La società, infatti, gioca in Luhmann un duplice ruolo. Dal lato del processo storico, come abbiamo visto, essa semplifica di fatto la dimensione eccessiva del mondo, predisponendo così condizioni mediabili in struttu­ re sistemiche. Dal lato della differenziazione sociale, della proliferazione e specializzazione delle diverse parti del siste­ ma complessivo, essa disegna un ordine preposto, una «ra­ gione ultima», che istituzionalizza i meccanismi basilari del­ la complessità 30. Essa crea le premesse — costruite nell’in­ determinato e nell’assenza di presupposti — alle quali gli al­ tri sistemi societari parziali possono riferirsi come a un saldo ancrage. La società deve essere concepita come quel sistema sociale che enuclea, con i suoi confini, una complessità indeterminata-determinabile, contingente e perciò fruibile: essa

29 Cfr. Habermas-Luhmarm, Teona, cit., p.21. 50 I6zJ.,p. 67.

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prestruttura le possibilità che possono essere colte e realiz­ zate nella società 31. Con questo enunciato Luhmann vuole criticare, prima di tutto, l’idea vetero-europea della «totalità complessiva» che caratterizzava i sistemi sociali come autarchici, esistenti per mezzo di determinati tratti intrinseci. Il sistema sociale luhmanniano non è né autosufficiente (in grado di soddisfa­ re da sé tutti i requisiti necessari per la sua sopravvivenza e razionalità), né possiede alcun meccanismo interno di solu­ zione dei problemi. Non ha, in altre parole, a sua disposizio­ ne alcun tipo di regolazione spontanea, di auto-organizza­ zione 32. A differenza di Parsons, che partiva da un «sistema strutturato» ponendolo a monte di tutta l’articolazione del­ l’analisi riguardante la stabilità sistemica, Luhmann ritiene che la teoria funzionalista possa e debba fare a meno di ante­ porre quel punto di riferimento alla trattazione dei sistemi e alla loro tematizzazione secondo il principio della problema­ ticità. Venuta meno qualsivoglia presupposizione, la società,il sistema d’insieme, può ora essere interpretato sia solo co­ me un sistema tra gli altri, sia come un’istanza che intrattie­ ne una sua relazione peculiare con questi ultimi. La sua fun­ zione risiede nell’eliminazione della complessità indefinibile e nell’istituzione di una complessità definita (o almeno defi­ nibile) accettabile per i suoi molti sistemi parziali. In questo contesto, l’unità della società risulta essere una congruente regolazione di un rapporto di corrispondente complessità tra una moltitudine di sottosistemi che costituiscono l’uno per l’altro, reciprocamente, l’ambiente sociale 33. Rispetto alle molte parti preposte a funzioni specifiche e

31 Ibid., pp. 12-13; N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 164-166. 32 Cfr. ibid., cit., pp. 129-131. 33 Ibid.,p. 114.

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«relativamente autonome» tra loro 34, la società rappresenta una sorta di metasistema (o «sistema sociale per eccellen­ za») 35 che configura se stessa come un ambiente strutturato in modo complesso. Di fronte al potenziale selettivo dei si­ stemi singoli, quest’ultimo si presenta come uno «spazio tur­ bolento», poco controllabile, «fluttuante», nel quale gli eventi assumono spesso il carattere di sorprese producenti incertezza36. Nondimeno, la prestazione regolatrice della società quale ordine dato per scontato del proprio rispettivo ambiente 37, mette in grado i diversi sottosistemi di reagire in modo positivo, rafforzando la selettività, a tale cornice presupposta. Trattandosi a vicenda come ambiente all’inter­ no del sistema globale, i sistemi parziali — nell’ambito del principio della non-identità, della differenziazione ineguale — mettono in moto una serie di processi di adattamento che ha la conseguenza di rendere più complesso e più difficile l’ambiente sociale che essi sono capaci di costruire38. La correlazione tra i due livelli 39, da una parte prende le mosse dal sistema già costituito della società, cui spetta il compito di predisporre un ordine sociale nell’ambito del quale i diffe­ renti, specializzati e funzionalmente equivalenti sottosiste­ mi possano trovare la loro identificazione specifica. Dall’al­ tra parte, prende la sua forma compiuta e dinamica nell’ulte­ riore determinazione della crescita della complessità interna che i numerosi sistemi singoli, grazie alla prospettiva funzio­ nale astratta e all’indifferenza generalizzata che ineriscono loro, finiscono con l’indurre attraverso l’interdipendenza

34 Cfr. zZ»zd.,pp. 217-218, pp. 159-162. 35 Ibid.,]?. 163. 36 Ibid., p. 87, pp. 171-176. 37 Ibid.,p. 251. 38 Si veda La teoria sistemica di Luhmann e l'interpretazione della società, cit., pp. 143esgg. 39 Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 236.

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reciproca e il contestuale bisogno di armonizzare i proble­ mi insorgenti dall’accentuata differenziazione 40. Insensibilmente ma progressivamente, inavvertitamen­ te ma in modo continuo e sicuro, l’argomentazione luhmanniana ha dunque spostato il perno della sua interpreta­ zione dal di fuori al didentro, dalla società come premessa che rende possibile l’agire selettivo dei molti sistemi par­ ziali formatisi nell’ambito del sistema complesso alla «strut­ tura sociale generale» che prende forma dal rapportarsi l’una all’altra delle parti secondo il criterio della selezione del possibile 41. Così come la complessità dell’intero sociale si demarca da quella del mondo, anche l’orizzonte delle scelte che si apre di fronte ai sistemi singoli si distingue dalle possibilità che sono proprie della società complessiva. In quest’ultima, infatti, ciò che è realizzabile non lo è auto­ maticamente e deve quindi essere sottoposto a un’opportu­ na riduzione, la quale deve equilibrare vastità e imprevedi­ bilità del contesto e potenziale selettivo dei sottosistemi42. Questo principio di corrispondenza implica che i diversi si­ stemi parziali possono far riferimento a un loro perimetro proprio solo in virtù della loro «complessità interna», in particolare dal tipo e dall’estensione della differenziazione strutturale e dall’efficacia dei processi selettivi. Da questo punto di vista, è possibile sfruttare e potenziare i vantaggi derivanti da questa situazione a condizione di mantenere relativamente invariati i confini sistemici nei confronti del­ l’ambiente, in maniera tale che le strutture e i processi ab­ biano tempo e modo di adattarvisi. In questo senso, tali confini non sono né «muri di recinzione», né condizioni immutabili. Essi rappresentano delimitazioni di senso, ri­

40 I&J.,pp. 144-145, p. 170. 41 Cfr., Habermas-Luhmann, Teoria, cit., pp. 248-250,p. 253. 42 Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 134-135, pp. 172-173.

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serve d’informazioni (di possibilità), che vengono trattare in base a determinate regole interne al sistema sociale. La relativa autonomia di quest’ultimo lo mette in grado di istituzionalizzare proprie regole di comprensione e di ri­ duzione della complessità che si traducono poi nell’oppor­ tunità di elaborare strategie riduttive di tipo nuovo, suscet­ tibili di essere impiegate in modo relativamente indipen­ dente dall’ambiente, un processo che Luhmann definisce di «trasposizione del problema». Poiché il mondo ammansito, forma di un contesto a cui si rinvia, non è sufficiente a co­ stituire un’adeguata base decisionale, poiché esso non può essere oggetto di elaborazione entro il sistema e non rap­ presenta, da nessun punto di vista, un problema risolvibile, poiché, infine, esso possiede un’astrattezza eccessiva (giac­ ché «permette di confrontare tutto con tutto»), tale refe­ rente deve dunque essere ridefinito, sia per poter svolgere analisi sistemiche concrete, sia per razionalizzare in qual­ che modo il comportamento dentro il sistema. L’aspetto problematico della complessità di quel mondo, col crescere della differenziazione e dell’articolazione interna dei siste­ mi, può essere adesso trasferito nell’ambito di competenza selettiva del sistema stesso. Il problema, sostiene Luh­ mann, viene con ciò riferito a quest’ultimo, trasposto dal­ l’ambito esterno a quello interno e reso perciò fruibile e af­ frontabile. Questa mediazione ha luogo sulla base di una notevole complessità intrinseca del sistema, che così riesce a inglobare un numero sempre più alto di problemi ambien­ tali, conferendo loro un aspetto diverso e soprattutto co­ struendosi con ciò una cornice semplificata di riferimento grazie all’uso di tecniche di soluzione dei problemi afferen­ ti al sistema. Nel corso di questa modificazione né il siste­ ma può pretendere di occuparsi solo di sé, né viene meno la correlazione all’ambiente: piuttosto accade che quest’ulti­ mo venga categorizzato secondo criteri d’ordine che sono interni al sistema e guidano la rielaborazione del contesto

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di rinvio43. La «doppia selettività» che adesso il sistema può mettere in atto per rapportarsi al mondo — mediante la struttura (la proiezione di senso nell’indefinito), median­ te il processo (la riduzione fattuale della complessità), due facce della stessa medaglia44 — si configura dunque in Luhmann come un meccanismo dipendente dal fenomeno descritto, in cui la ristrutturazione dei problemi ha ormai luogo a partire direttamente dal sistema.

4. L’autoproduzione dell'ambiente interno da parte dei sottosistemi

A parte tutti i (molti) distinguo di Luhmann e il carat­ tere di mero esercizio formale che spesso assume il suo ra­ gionare, è evidente che quella sorta di anticipazione dell’autoreferenza che egli ha disegnato non riesce a differen­ ziare in modo significativo la società complessiva dalle sue parti singole. Come abbiamo visto, infatti, la prima ha sol­ tanto circoscritto la situazione iniziale che ha consentito ai diversi sottosistemi di svolgere le loro funzioni stabilizza­ trici. Questo ambiente preformato, facente tutt’uno con la «storia ridotta», può essere mantenuto distinto dai molte­ plici sistemi parziali solo perché Luhmann lo concepisce e lo presenta come un alcunché di dato, esistente di fatto, che non ha bisogno di essere ulteriormente problematizza­ to (poiché ne rappresenta la condizione d’esistenza: ridi­ scuterlo, per questa impostazione, non avrebbe senso). D’altra parte, poiché la società è stata ridotta a un sem­ plice sistema alla pari con gli altri, essa nemmeno può avo­ care al suo ruolo una posizione superiore rispetto ai molti

43 Ibid.,pp. 135-136, p. 138. 44 Ito., pp. 139-147.

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subsistemi del complesso. In ambedue i casi, Luhmann ha fatto del sistema d’insieme una determinazione deprivata di ogni connotazione specifica o verticale, precedente le parti o a esse sovrastante. Egli l’ha appiattita in una di­ mensione d’essere che ha completamente espunto dal suo corpo complessivo sia l’eminente problema del suo proces­ so originario d’istituzione, sia, fatto ancor più rilevante, la questione della natura piramidale di questa forma sociale, in cui le molteplici e differenziate istanze continuano pur sempre a dipendere da un vertice che ne condiziona le reci­ proche interrelazioni. A ben vedere le cose, entrambe que­ ste mosse erano indispensabili a Luhmann per riuscire a teorizzare un ambiente che, pur nella sua distinzione dai sottosistemi, si presentasse con tutti i tratti di un contesto prodotto dal loro stesso interagire. La storia ridotta dalla società, la società come presupposto dei sistemi, non sono altro, in definitiva, che medi evanescenti e razionalistici di un progetto concettuale interessato ed espressamente fina­ lizzato a far risultare la coppia correlata ambiente-sistema, società-sistema, solo dalla dinamica del secondo termine. I primi passaggi dell’analisi, il discendere per gradi dalla complessità massima a quella resa domestica, non hanno rappresentato altro per Luhmann, in fin dei conti, che un’instaurazione formale di premesse che gli ha consentito d’imprimere al suo discorso un certo rigore argomentativo alla conclusione del quale si ritrova soltanto l’oggetto che più gli premeva mettere in risalto: la complessità autopro­ dotta dai sottosistemi. E questo il cuore dell’intera impresa luhmanniana. Es­ so, infatti, da un lato gli consente di relegare in una posi­ zione di marginalità, di ininfluenza (e persino di indicibili­ tà) teorica, tanto le origini quanto il presupposto, dall’altro lo mette in grado di tematizzare ugualmente l’esistenza di un ambiente — di quella categoria, cioè, che si ritiene tipi­ ca del funzionalismo e distintiva rispetto a tutta la prece­

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dente tradizione sociologica — in quanto effetto costantemente problematico dell’attività selettiva di una moltitudi­ ne di parti in interazione mutua circolare. L’eliminazione del mondo e della società come ordine già determinato dal­ l’ambito tematico del ragionamento di Luhmann, dal nove­ ro delle categorie costituenti problema, è un esito concet­ tuale necessario del pensiero sistemico, poiché solo questa soppressione lo rendeva, capace di concentrarsi sul solo li­ vello che i suoi concetti gli rendevano accessibile, quello delle parti e delle loro complesse interrelazioni secondo il criterio deU’equifunzionalità. Il dislivello di complessità sussistente tra i differenti sottosistemi e la loro cornice pe­ rimetrale, è un clivage che può essere posto in esistenza so­ lo daH’interdipendenza multidirezionale e polisema dei se­ condi, in quanto solo questi sono in grado di mettere capo a una società, a un sistema più esteso che sia per essi, nel contempo, ambiente. La forma generale non può più esse­ re, in questa concezione, un’istanza preliminare e sovraordinata ai diversi sistemi parziali, perché l’essere insieme si­ stema e ambiente della società è una norma che distrugge qualsivoglia ipotizzabile primato di quest’ultima. Essa deve scaturire dall’interazione delle molte parti e nel contempo può essere mantenuta separata da queste attraverso la com­ plessità eccedente che esse finiscono con il produrre da se stesse. L’insieme cui le parti danno vita può essere distinto da queste ultime solo perché esso viene istituito, prende forma, al culmine del processo di selezione, come un intor­ no debordante il potenziale d’assimilazione dei singoli sot­ tosistemi. Riducendo ulteriormente l’ordine prestrutturato degli inizi, che in questo modello costituisce solo il punto di partenza di un divenire effettivamente posto in essere e reso dinamico solo dalle parti, la complessità già alleggerita che instaurava la loro identità, le istanze parziali possono prendere le distanze da questo vincolo e conservare intatto il principio differenziante del funzionalismo solo se esse, ri­

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spendendo alle possibilità eccessive, sia costruiscono da sé il proprio ambito di riferimento, sia lo riproducono come un ulteriore contesto di selezione, come ambiente appunto, come società. Questo «sistema totale», ovviamente, non ha più niente a che vedere con le condizioni iniziali, poiché queste ultime sono state ormai definitivamente sostituite da qualcosa d’altro che ha finito con il soppiantare persino le proprie origini. Da questo punto di vista, dentro e fuori, interno ed esterno, costituiscono soltanto l’uno il doppio dell’altro, l’uno la proiezione dell’altro, in quanto il primo termine si presenta in Luhmann con tutti i tratti di un’istanza che per poter esistere e riprodursi entro un mondo contingente de­ ve porre da sé il proprio ventaglio di scelte. La riduzione della complessità attraverso l’incremento di quest’ultima, mentre alza la soglia quantitativa delle possibilità integra­ bili da parte del sistema, nello stesso tempo dà luogo alla formazione di sempre nuove e mai completamente utilizza­ bili, consumabili chances di azione 45. . Ogni volta che un sistema singolo risponde ai problemi postigli .di fronte dall’ambiente circostante, con cui confi­ na, esso mette in moto un processo di dilatazione, di complessificazione di se stesso che trasforma anche il contesto di un altro sottosistema del circuito complessivo. A partire da qui, da questa catena ininterrotta di azioni e retroazioni tra apparati sociali dominati dalla «cogenza selettiva», i si­ stemi sociali generano essi stessi il loro «intero» 46, il quale, a sua volta, fa partire da sé una pressione di adattamento per tutti i sistemi parziali che metterà in movimento un’ul­ teriore crescita della società nel suo. insieme, ciò che neces­ sariamente costringerà i diversi e iperdifferenziati sottosi-

45 Cfr. Habermas-Luhmann, Teoria, cit., pp. 208-213. 46 Ibid..,p. 105.

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sterni — in conseguenza della legge della corrispondenza — a incrementare le loro capacità di assorbimento della nuo­ va, più intensa complessità delineatasi. La differenza ri­ spetto al presupposto originario non potrebbe essere più palmare. Mentre questo, bene o male, proveniva dalla sto­ ria, appariva anche a Luhmann con tutti i tratti di una pre­ condizione data e altra — al di fuori ed eterogenea — nei confronti del sistema, la società che viene fuori dalla processualità evolutiva funziqnalista si presenta davanti ài molti sottosistemi come un effetto (irriconoscibile) delle lo­ ro interdipendenze, come un alcunché la cui natura non differisce dalle molte materie che insieme gli hanno dato forma compiuta, globale, un principio d’identità sociale che Luhmann ha sintetizzato anche nella tesi secondo la quale, nella prospettiva sistemica, «il mondo si dinamizza dal proprio interno» 47.

5. Autoreferenza e razionalità del sistema L’ultima proposizione teorica luhmanniana, in fin dei conti, in modo estremamente sintomatico, non fa altro che esplicitare e rendere visibile la tendenza più importante della trasposizione, quel carattere di questa categoria i cui significati principali risiedono, per ammissione espressa dello stesso Luhmann, nell’asserzione secondo la quale il tutto consiste delle sue parti48. Con questo enunciato Luh­ mann, oltre ad andare incontro, vedremo, a tutta una serie di aporie insuperabili, risolve anche due problemi (o forni­ sce una doppia risposta) che conferiscono alla sua teorizza­

47 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 175. 48 Cfr. id., Teoria politica nello Stato del benessere, Angeli, Milano 1983, p.

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zione, apparentemente, una più accentuata coerenza e soli­ dità formali. Da un lato, infatti, egli può adesso tematizzare il siste­ ma come una forma d’organizzazione societaria ricorsiva­ mente ripiegata su se stessa, diretta all’autoriproduzione, al perseguimento della propria autopoiesis e nel contempo sen­ sibile al cambiamento delle condizioni ambientali 49. Que­ sta duplicità d’essere è una diretta conseguenza della tra­ sformazione della fatticità trovata bell’e pronta davanti a sé dal sistema — un contorno dato che quest’ultimo né aveva contribuito a far nascere né poteva controllare in modo adeguato50 — in un contesto strutturato e confor­ mato da «scelte di possibilità» che sia distanziano il sistema dall’adattamento passivo in cui sembrava confinarlo la fat­ tualità iniziale, sia lo correlano a un ambito in cui esso, all’occorrenza, può portare la sua razionalità selettiva preci­ samente perché questo ambiente è il suo ambiente, ciò che per esso è tale51. Il sistema, in questo contesto, è tanto chiuso in se stesso quanto aperto verso l’esterno, perché il fuori che esso può osservare, comprendere e sottoporre a riduzione si presenta di fronte agli occhiali teorici del fun­ zionalismo come un prodotto derivato — differente e di­ stinto dalla causa che lo ha posto — dell’agire dei diversi sottosistemi in condizioni contingenti. Per poter conferire un’esistenza e un carattere specifici ai molti sistemi singoli che abitano la società, Luhmann ha dovuto. pensare un orizzonte di ordine che fosse, ad un tempo, né indipenden­ te dal sistema né completamente isolato da quest’ultimo. La reazione del secondo al primo non mette in comunica­ zione due livelli distinti del reale, non correla il sistema a

49 Cfr. id., Comunicazione ecologica, cit., pp. 77-78. 50 Ibid.,p. 74. 51 Ibid.,p. 83-85.

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qualcosa d’altro di diverso da sé. Il clivage tra i due mo­ menti, al contrario, non è altro che una maniera d’esperire la loro effettiva interferenza e interpenetrazione senza do­ ver rinunciare (anzi esaltandolo) al criterio fondamentale del modello sistemico: il dislivello di complessità. In questo caso, come dovrebbe esser chiaro, ancora pri­ ma d’interagire con un esterno, di entrare in un rapporto osmotico con una differenza costitutivamente reale, il si­ stema, di volta in volta e di caso in caso, non fa altro che «reagire a se stesso e solo per questo è aperto all’ambien­ te»52. Il paradosso luhmanniano di un’apertura verso l’e­ sterno che è solo un rispecchiarsi in sé medesimo del den­ tro oppure, se si vuole, di un’autopoiesi che genera dal suo interno, necessariamente, il proprio riguardo per l’ambien­ te, il proprio autocondizionamento 53, può essere spiegato soltanto attraverso il ricorso ad altre categorie, mediante l’uscita da tale problematica per mezzo dell’ingresso in un’altra. È ciò che vedremo più avanti. Occupiamoci nel frattempo dell’altro lato che sembrava rendere più compat­ ta e complessa l’argomentazione in questione. Con questo risvolto (che del resto potenzia il primo) Luhmann non ha più bisogno di rinviare l’unità della socie­ tà a una norma esteriore a essa (un metasoggetto, la natura, un punto di vista superordinato). I diversi sistemi funzio­ nali rappresentano infatti la totalità mediante l’istituzione di volta in volta di una distinzione specifica sistema/ambiente che produce una concorrenza reciproca omogeneiz­ zante tra le molte istanze. L’unità della società non è nient’altro che la mutua autonomia e non sostituibilità di que­ ste ultime, la trasformazione di questa struttura in un in­ sieme multante dalla contestuale indipendenza e dipenden­

52 Ibid.,]). 101. 53 Ibid.IR.

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za reciproca molto spinta delle parti54. La differenziazione funzionale scompone l’integrità del sistema totale in una determinata differenza di sistema e ambiente, di sottosiste­ ma e ambiente interno alla globalità. In base a tale linea di confine, ogni parte singola può perciò riflettere il sistema complessivo e presentarsi in questo modo come nient’altro che una nuova espressione della coerenza del sistema d’in­ sieme. Ogni apparato parziale ricostruisce sempre, unita­ mente al suo contorno, la società nella misura in cui ciascu­ no di essi, svolgendo una funzione del sistema, non fa altro che duplicare, moltiplicandolo per l’attività di tutti i molti sistemi individuali, di tutti i livelli della formazione siste­ mica afferente alla società 55, il modo di funzionamento ge­ nerale, il principio istitutivo essenziale, dell’ordine societa­ rio globale. Il sistema singolo e il suo corrispettivo ambien­ te non rappresentano che una porzione, una riproduzione in miniatura (su scala locale), della natura e del meccanismo di correlazione attraverso il differenziale di possibilità vi­ genti nel più ampio orizzonte della cornice onniabbracciante. E per questo motivo che ogni sistema funzionale, con­ cepito come differenza tra sistema e ambiente, è e contem­ poraneamente non è la società. Operando simultaneamente in modo aperto e chiuso, le molteplici istanze parziali pos­ sono così dare luogo alla riproduzione della società, ad un tempo, come unità e come differenza 56, come entità unica­ mente fondata su se stessa e nel contempo correlata a un suo fuori, a quel dislivello di complessità che, solo, può ga­ rantirgli la propria specificità 57. Il discorso luhmanniano in cui ogni parte è identica e

54 >5 56 57

Ibid., pp. 206-207; cfr. anche Habermas-Luhmann, Teoria, cit., p. 249. Ibid.,^.251. Ibid.,pp. 198-199. Ibid.,pp. 74-75, p. 215, p. 229, pp. 233-234.

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non identica insieme al tutto, nella misura in cui sostiene che l’unità dell’intero non è fuori o sopra la parte, dà luogo a una tautologia in cui l’unica distinzione tra i due momenti passa attraverso la loro dimensione quantitativa, nel diver­ so ventaglio di possibilità che l’ambiente circoscrive e il si­ stema può accogliere in modo selezionato al proprio inter­ no. Il fatto che questo clivage sia pensato da Luhmann come occasione di strutturare la contingenza del mondo mediante l’opportunità del «possibile altrimenti» 58, non toglie niente al carattere riduttivo del modo in cui la differenza viene rappresentata. I limiti di Luhmann, d’altro canto, vengono ancor più in evidenza se si prendono in considerazione le referenze sistemiche che egli vede all’opera nell’interrela­ zione dei diversificati sottosistemi tra loro. In questa rete di prestazioni selettive vige infatti, se­ condo il sociologo tedesco, una strutturale impossibilità per i sistemi funzionali di sostituirsi l’uno con l’altro nell’esple­ tamento delle proprie funzioni. Naturalmente, si sostiene, tali barriere possono essere compensate attraverso una cre­ scente interdipendenza tra le parti, la quale tuttavia le espone al rischio della e alla necessità di fare i conti con la dedifferenziazione, con la potenziale rinuncia cioè ai van­ taggi della non-identità. Chiusi nei confini del loro atto di nascita come istanze distinte e specializzate, i sistemi fun­ zionali non possono supplirsi a vicenda. Essi si agevolano e gravano l’uno sull’altro reciprocamente, mentre la loro non fungibilità costringe a un continuo spostamento del proble­ ma dall’uno all’altro sistema59. Ciò crea una (virtuale) si­ tuazione in cui diventa altamente probabile che le turbo­ lenze di un sottosistema possano trasmettersi ad altri, so­ prattutto se si tiene conto del fatto che ognuno di essi pro­

58 I£à/.,p. 139,p. 164. 59 lbid.,pp. 201-202.

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cede secondo il proprio codice rispettivo, vale a dire la pro­ pria tecnica selettiva (in genere binaria) 60. Nell’ambito di queste recinzioni sistemiche afferenti alla società, non esi­ ste alcuna istanza preordinata che in qualche modo possa provvedere a misura e proporzionalità. Dovendo dare per scontato che altre funzioni siano adempiute altrovè, ogni sistema parziale deve erogare la propria prestazione senza potersi rendere conto direttamente di quali conseguenze esso induca nelle altre parti né di quali retroazioni queste ultime infine producano sugli altri sistemi funzionali. L’ambiente interno è così caratterizzato da istanze fa­ cilmente irritabili ed endogenamente fluttuanti — in virtù proprio della loro pronunciata competenza individuale — tra le quali non esiste alcun coordinamento organizzativo e sulle quali non domina nessuna sovraordinata razionali­ tà 61. In tutte le molteplici e differenziate relazioni che cor­ rono tra i molti subsistemi societari l’unico ordine che è possibile instaurare è dunque quello tipico della funzionali­ tà sistemica con i suoi inevitabili costi di fronte alla com­ plessità crescente. Ogni tendenza alla razionalizzazione è e rimane inverosimile, perché l’unità del sistema non indica mai stati di fatto, ma sempre differenza e soluzione dell’u­ nità nella differenza62. Questi connotati della «società acentrica» danno luogo a una opacità del reale che rende molto difficile una descrizione teorica del «sistema sociale globale»63. Questa difficoltà, anzi, appare a Luhmann con tutti i tratti di un evento «inevitabile» 64 conficcato nella differenza ultima di sistema e ambiente. La complessità propria indeterminabile dei sistemi sociali, persino dei «si­

60 61 “ 63 64

Ibid.,pp. 105-113; Teoria,cit.,p.233. Ibid.,pp. 210-213. Ibid.,pp.232-238. Ibid.,pp. 121-123. Ibid., p. 164.

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stemi in generale» 65, è un fatto del tutto inerente al modo di funzionamento di quel differenziale, il quale instaura delle condizioni sistemiche che si presentano naturalmente incontrollabili, impossibili da normare o da assoggettare in maniera compiuta. Luhmann ritiene che tale fattualità sia un correlato ne­ cessario della «razionalità sistemica», una disfunzione che il sistema sociale può e deve sopportare, tollerare, perché es­ sa procede di pari passo con la realizzazione, con la concre­ tizzazione di più elevate opportunità di stabilizzazione complessiva, di integrazione societaria (conformemente del resto alla costruzione di una complessità storicamente irre­ versibile). Sotto la spinta dei propri contrasti, delle tenden­ ze all’aumento d’indipendenza e interdipendenza, il siste­ ma in fin dei conti può solo oscillare, irritarsi66, in quanto la sua intrinseca mancanza di coerenza non è altro che l’in­ verso, l’altro da sé, del suo ordinamento funzionale, che si afferma e si impone riassorbendo al proprio interno il «ru­ more» provocato dai rigidi «confini sistemici»: in defnitiva, conclude Luhmann, gli opposti si attraggono e la differenza integra 67.

6. Il modello olistìco La semplice constatazione luhmanniana non fa altro che prendere atto di un fenomeno che accade di fatto, di un evento che si realizza e non sembra avere a sua propria ragion d’essere alcuna regola generale (che cosa, d’altra parte, garantisca la continua, intrinseca, necessaria ripro-

65 Cfr. Habermas-Luhmann, Teoria, cit., p. 220, p. 261. 66 N. Luhmann, Comunicazione ecologica, cit., pp. 80-81. 67 Ibid.,p. 109.

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dazione di tale processo è un problema che Luhmann nean­ che prende in considerazione). Tali fatti possono essere os­ servati e analizzati, concepiti e descritti come caratteristi­ che strutturali della società moderna, ben difficilmente pe­ rò li si può prognosticare. Essi si presentano come un oscu­ ro sfondo d’indeterminazione di fronte al quale la teoria e l’agire sociale possono solo darne per scontata la presenza e operare al suo interno cercando continuamente di negare la paradossia della situazione venutasi a creare 68. Anche qui, così come nei molti altri luoghi discussi in precedenza 69, Luhmann non fa altro che mettere da parte gli oggetti e i processi sociali che alla concezione sistemica appaiono inesplicabili e non mediabili nell’ambito delle proprie categorie, della propria griglia concettuale (la quale non riesce a filtrare la particolare densità della forma socie­ taria capitalistica). Davanti a quegli aspetti della realtà che non risultano spiegabili dall’interno della logica sistemica, Luhmann semplicemente adotta il criterio della datità, che tanto relega queste determinazioni apparentemente di per sé evidenti in un’area teorica ininfluente, non ulteriormen­ te tematizzabile, quanto ne elude ogni interrogazione criti­ ca, depotenziando e neutralizzando l’intenso tratto proble­ matico loro inerente. Questa procedura, come dire, per sot­ trazione, non segnala evidentemente solo un’esplicita in­ tenzione apologetica o mistificante di Luhmann, né essa può essere imputabile soltanto a un particolare deficit co­ noscitivo dell’impostazione funzionalista. In effetti, come ci è noto, è la realtà stessa a essere conformata secondo in­

68 M.,pp. 212-213. 69 Esemplare l’involontaria e insieme conseguente conclusione cui giunge Luhmann quando da una parte afferma che «l’esistenza sociale è in primo luogo sem­ pre esistenza politica», dall’altra constata l’impossibilità per il sistema politico di adempiere alle sue funzioni di controllo dell’intera società: cfr. N. Luhmann, Teoria politica nello Stato del benessere, cit.,p. 114, pp. 149-163.

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terni principi di strutturazione e organizzazione fattuali delle proprie determinazioni e dei propri livelli, nonché delle loro rispettive e reciproche correlazioni. Il pensiero sistemico, d’altra parte, non avendo nessuna cognizione di questa complessa natura della società, raffor­ za e potenzia le caratteristiche in questione elevandole al rango di premesse indiscutibili e conferendo loro uno statu­ to oggettivo definitivo, rendendo così tendenzialmente ir­ riconoscibile e impenetrabile il loro carattere derivato, con­ dizionato da fondamenti sociali che rimangono inesplicati. Il conservatorismo di Luhmann, dunque, ben prima di pro­ manare da un’esplicita posizione politica preliminare o da propensioni personali di questo autore, affonda le sue radi­ ci nella legittimazione dell’esistente che il sapere sistemico coadiuva e corrobora quando riflette l’immediato facendo­ ne tanto la materia prima della costruzione del proprio og­ getto di conoscenza, quanto il suolo ultimo e intrascendibi­ le di ogni prassi, di ogni attività manipolatoria {non trasfor­ mativa). Anche nelle sue versioni più raffinate e intelligen­ ti, sempre rigorosamente avversate da Luhmann per il loro «olismo» 70, la teoria dei sistemi non è mai riuscita ad anda­ re oltre il — o ad entrare dentro i limiti del — modello centrato sulla fatticità, sull’interpretazione dell’essere so­ ciale secondo il criterio dell’autoidentità delle istanze che lo abitano. Mentre i vecchi paradigmi facevano poggiare le relazio­ ni sulle «qualità immanenti» delle componenti di un intero, la «nuova logica» pensa che il legame unificante le varie parti tra loro scaturisca dalla posizione di ciascun elemento nell’ambito del sistema. Qui non sono più gli attributi in­ trinseci degli oggetti a vincolare il complesso, bensì è que­ st’ultimo che stabilisce l’afferenza di quelli al proprio con­

70 Cfr. id., Comunicazione ecologica, cit., p. 215.

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testo. Le differenti determinazioni di un sistema, in altri termini, possono essere collegate significativamente tra di loro soltanto in funzione del tutto, unicamente facendo ri­ ferimento al tutto 71. Il sistema è così la cornice nella quale e per mezzo della quale le molteplici parti risultano recipro­ camente interconnesse. Dando per scontata la separazione dei diversi «momenti», questa concezione può ripristinare la loro unità soltanto attraverso il ruolo di sintesi giocato dall’insieme rispetto alla disgiunzione degli elementi. Il su­ peramento della dispersione e della distinzione degli ogget­ ti è un evento posto in essere dalla «connessione sistemica» e dalla tendenza alla ricostituzione dell’integrità che essa incarna. In questo tipo di ricomposizione, la somma delle parti non svolge alcuna funzione nella formazione degli in­ siemi, né questi ultimi possono essere paragonati a delle semplici combinazioni aggregative di entità. In realtà, le parti entrano in una rete di rapporti reciproci a causa e co­ me effetto della posizione che esse hanno nell’ambito del sistema. L’esistenza delle componenti, e delle loro comples­ se interrelazioni, le istanze singole e i loro processi di colle­ gamento, trovano una spiegazione e acquisiscono una loro dimensione concreta (materiale) soltanto all’interno del tutto che tanto le pone in essere quanto ne governa le dina­ miche. Gli elementi individuali e la loro unificazione mediante l’interconnessione non hanno più in questa teorizzazione, com’è evidente, alcun ruolo centrale o esclusivo, presentan­ dosi, al contrario, più come un prodotto derivato del tutto che come suoi fattori determinanti. L’inversione della de­ terminazione secondo le norme del «principio sistemico» dà dunque luogo alla costruzione di un ordine complessivo che

71 Cfr. A. Angyal, Una logica dei sistemi, nel volume collettaneo La teoria dei si­ stemi, Angeli, Milano 1980, pp. 19-33.

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rispetto ai modelli precedenti rappresenta un «genere logi­ co» completamente diverso e a essi contrapposto. La unitas multiplex dell’organismo disegnato da questa concettualiz­ zazione va subito incontro, tuttavia, a un problema teorico di primaria importanza (una vera e propria crux sistemati­ ca) che viene trattato secondo i modi della «contraddizione logica» ed esposto in maniera tale da riprodurre continua­ mente soltanto Y impasse inerente alla propria argomenta­ zione. Il tutto, infatti, secondo questo punto di vista, da un lato è costituito dalle parti, è composto dagli elementi che esso organizza, dall’altro lato la struttura dell’insieme rappresenta un qualcosa appartenente a una sfera del tutto diversa e incommensurabile, uno «schema indipendente» nel quale le parti si collocano. Il sistema è un contesto che tanto si trova in una condi­ zione di «indipendenza relativa» rispetto a queste ultime, quanto le sovrasta dall’alto della sua natura superiore e «più generale», in una parola «superordinata». La distinzio­ ne tra le due determinazioni, come si può inferire dallo stesso tipo di linguaggio usato e dai paradossi che esso in­ duce, è una diversità di livello che non riesce a prendere l’effettiva consistenza di una differenza di principio, in quanto, qui come nell’interpretazione funzionalista, essa o viene presupposta o viene vista sorgere alla fine come risul­ tato dato dell’azione e reazione l’una verso l’altra (in guisa di sinergia di complesse interazioni) delle molteplici parti (due rispetti, in ultima analisi, di un’unica mediazione). In ambedue i casi, sia che la sintesi venga considerata prefor­ mata, sia che essa prenda l’aspetto di un alcunché di gerar­ chicamente distinto dalle proprie componenti (un’inversio­ ne di primato — dal sistema agli elementi e non viceversa — che ha più la forma di un enunciato a priori che quella di una rigorosa dimostrazione razionale), è evidente che ta­ li forme oggettuali vengono lasciate dimorare così com’esse sono e incorporate poi nel reticolo dei concetti senza alcu­

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na interrogazione sintomale di ciò che esse hanno il compi­ to di mediare. Nell’ambito del modo di riproduzione del capitale, diversamente da quanto credono tali concezioni, non può esserci nessuno spostamento di dominanza, nessu­ na determinazione di qualsivoglia differenziale, se alle par­ ti viene assegnata la funzione di istituire il, di concorrere alla formazione del, tutto. Se i singoli sottosistemi com­ pongono e costituiscono il sistema totale, l’affermazione di ima distinzione posizionale tra totalità e parti, tra ambien­ te e sistema — verticale e relativa nel modello olistico, cir­ colare e fondata sul clivage evolutivo in quello funzionale — o si riduce a una mera petizione di principio (a una dif­ ferenza semplicemente asserita) oppure si trasforma nella pura e semplice constatazione empirica di uno stato di fat­ to che produce comunque un dislivello di complessità.

7. IZ carattere doppio del tutto societario

Nel caso di Luhmann, nella fattispecie, tanto la società che prestruttura l’orizzonte delle possibilità quanto l’am­ biente che sorge dall’interno delle interazioni tra i comples­ si parziali, rappresentano rispettivamente una premessa e un risultato che vengono interpretati in modo identico alla loro immediatezza, e quindi ad un tempo rispecchiati e fraintesi. Questa concezione dà luogo in Luhmann a una doppia immagine del tutto (la società) che una volta viene visto prender forma in modo oggettivo, fattuale — indi­ pendente dall’agire intenzionale degli agenti/sottosistemi —, un’altra viene visto emergere dalla selettività orientata al senso dell’intelletto politico, dalle prestazioni, dal trasfe­ rimento e circolazione normative di decisioni vincolanti da un sistema singolo all’altro attraverso i diversi media — strumenti — sociali (denaro, potere, ecc.). E una continua oscillazione, alternanza, che ora porta

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Luhmann a enfatizzare la politica 72, ora lo spinge a inter­ pretare il «sistema globale» in termini di non-autotematizzabilità, di oscura indeterminatezza a esso stesso non ac­ cessibile 73. Tale duplice pendolo teorico, è chiaro, deriva a Luhmann dal modo in cui il capitale ha conformato di sé la concretezza del mondo contemporaneo, un suolo che viene costantemente letto in maniera rigidamente formale, tanto come se esso esaurisse tutta la realtà quanto come se in questa potessero essere rappresentati soltanto relazioni tra e processi trasformativi di individui reciprocamente este­ riori. È ancora una volta il criterio onnipervasivo e onnideterminante del pensiero del fuori che Luhmann mette all’o­ pera nell’analisi della società. Avendo preso le mosse da una definizione preliminare di quest’ultima come presup­ posto, come condizione d’inizio data per scontata, egli si è da solo e da subito messo nell’impossibilità di poter affer­ rare ciò che questa apparente unità anteposta produceva tanto all’interno delle singole parti, quanto nelle loro ne­ cessarie correlazioni, quanto, infine, nelle loro dinamiche tendenti al cambiamento. Avendo alle spalle queste pre­ messe cognitive, Luhmann non è mai riuscito a (né, così, avrebbe mai potuto) comprendere che i diversi sottosistemi sociali rappresentano se stessi come istanze relativamente autonome solo in ragione del fondamento dileguato che in questa loro autoevidente indipendenza e dipendenza a vi­ cenda, in realtà pone unicamente la loro più sicura e intrin­ seca (e per essi misteriosa) vincolazione alla propria legali­ tà. I molteplici sistemi parziali, nell’ambito di questo con­ dizionamento mediato, invisibile ma non meno presente nell’empiria autoidentica del mondo, non potranno mai ar­

72 Cfr. Habermas-Luhmann, Teoria, cit., pp. 175-177; N. Luhmann, Teoria politica nello Stato del benessere, cit., pp. 149 e sgg. 73 Ibid., p. 220, p. 261; Ibid., pp. 90-91, pp. 98-99, p. 104.

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rivare a determinare davvero un ambiente distinto da essi, in modo così da rispettare l’enunciato cruciale del funzio­ nalismo luhmanniano, ciò con cui egli crede di aver trasfor­ mato il paradigma teorico centrale della sociologia moder­ na 74. La cornice cui essi mettono capo, ben lungi dal costi­ tuire od originare la società, rappresenta piuttosto ima loro conseguenza, un effetto prodotto da essi e apparentemente da questi ultimi differente soltanto in virtù della sua diver­ sa estensione quantitativa, del contesto più ampio di possi­ bilità alternative che esso finisce con il disporre loro attor­ no come se effettivamente li circondasse e li sovrastasse. Quest’ambito circostante, differentemente da quanto pensa Luhmann, che non riesce a vederne la reale consi­ stenza, non è nient’altro, in fin dei conti, che le stesse par­ ti, ulteriormente sviluppate e complessificate da un alcun­ ché in divenire che le agisce, che tanto le spinge in direzio­ ne della loro proliferazione quanto verso l’intensificazione della loro interdipendenza. Il dislivello tra i due momenti è dunque solo di grado e non consente di fissare un’effettiva alterità tra sottosistemi e sistema globale, un clivage capace di mettere in moto il meccanismo della differenziazione e della crescita della complessità, di rendersi responsabile delle «trasformazioni ambientali» e delle contestuali rispo­ ste selettive dei sistemi ai problemi incombenti. Caduta la distinzione tra ambiente e sistema, venuto meno il signifi­ cato fondativo di questa demarcazione producente specifi­ cità e differenziazione nel mutamento del suo carattere di premessa in un alcunché di posto da e subordinato a qual­ cosa d’altro, la legalità societaria prende nettamente le di­ stanze dalla aspecificità storica della dinamica evolutiva luhmanniana, poiché all’interno di essa né sono le parti a porre in essere il loro incessante movimento adattivo, né

74 Id., Comunicazione ecologica, cit., pp. 63-68, pp. 74-78, pp. 80-81.

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sono esse a far emergere la configurazione complessiva. È il capitale stesso, in realtà, a darsi esistenza concreta nelle istanze e nei risultati che queste finiranno con il produrre. Tanto i singoli individui correlati quanto la sintesi che essi disegnano rappresentano degli oggetti reali la cui intima natura è derivata e nient’affatto costitutiva, né del loro ap­ parente autoriferimento, né delle relazioni implicite in que­ sto, né degli effetti, più o meno stabili, più o meno globali, cui essi mettono capo. La dominante fatticità di queste complesse determina­ zioni — la circostanza, cioè, che esse appaiano con l’abba­ gliante evidenza di un qualcosa di essente, sia all’inizio sia alla fine di un processo (reale o di pensiero) — non è altro che la forma di manifestazione e di legittimazione del fon­ damento che in esse si media, e proprio attraverso quella compatta sussistenza fattuale che sembra loro inerire, natu­ ralmente. Da questo punto di vista si comprende meglio perché a Luhmann, quando egli ragiona en politique, l’agire intenzionale si presenti come una prassi costitutivamente impossibilitata a realizzare i propri progetti, a mettere in piedi e conservare il governo complessivo della società op­ pure, addirittura, paradossalmente, a produrre essa stessa ulteriore contingenza fronteggiando i problemi75. La poli­ tica o, se si vuole, l’agire orientato dal senso, non è un’atti­ vità specialistica che per le proprie pratiche possa vantare un’autonoma capacità di decisione di fronte alle alternati­ ve, né essa è preliminarmente o contestualmente alla sua esistenza condizionata da circostanze storiche o sociali a essa, alla sua intrinseca natura pianificatoria, esterne. L’azione del (dei) soggetto (i) è in se stessa, ài contra­ rio, conformemente al suo carattere di mediazione, votata

75 Cfr. id., Teoria politica nello Staio del benessere, cit., pp. 44-45, pp. 103-104, p.123.

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ad un tempo, tanto al compimento dei suoi fini quanto al fallimento dei suoi scopi. La politica o il senso come qualità soggettiva delle azioni sono tale simultaneità sin dalla loro nascita all’interno del capitalismo, poiché essi rappresenta­ no delle razionalità gettate da subito nell’essente, mai in rapporto alle loro origini. D’altra parte, lo stesso tipo di lo­ gica viene replicata da Luhmann quando egli si occupa del­ la società dalla prospettiva più oggettiva delle relazioni infrasistemiche. L’interconnessione che egli vede prender forma nell’ambito del sistema gli si presenta con tutti i tratti di un oggetto, se non proprio irrazionale, quantome­ no turbolento e instabile, privo di un proprio ordine inter­ no (in qualche modo afferente alla sua natura) e nel quale la ragione umana è impossibilitata a portare una più coerente unità di funzionamento. Ciò perché, così crede Luhmann, il sistema raggiunge una sua razionalità nella misura in cui esso reintroduce dentro di sé la distinzione di sistema e ambiente e si orienta di conseguenza non a ima identità, ma a una differenza 76. Stando così le cose, la «schermatura» di cui dispone il sistema, insieme alla «opacità» necessaria che essa produce, non può che fare tutt’uno con il principio d’esistenza della stessa società funzionale. Per pensare alla stessa altezza della modernità ed essere isomorfi in qualche modo a tale organizzazione societaria, conclude Luhmann, è indispen­ sabile quindi «consegnarsi» a questo contesto e tentare di conciliare, a partire da qui, la contraddittorietà delle condi­ zioni da esso prestabilite (perché con esse il sistema può persino mettersi in pericolo da solo) 77. Luhmann, come si vede, tratta nuovamente le incongruità della società me­ diante il codice degli stati di fatto: la situazione è così e

76 Cfr. id., Comunicazione ecologica, cit., pp. 229-230. 77 Ibid.,p. 77, p. 97.

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non rimane che prendere atto di questa circostanza data (convertendo in tal modo questa subordinazione alla datità in condizione presunta della sua manipolabilità). Anziché vedere o comprendere l’insussistenza (e inconsistenza espli­ cativa) del criterio della «differenza», Luhmann pensa il ca­ rattere essente dell’essere sociale in modo corrispondente al suo esserci fattuale, senza riuscire a portare alla luce, co­ sì, il processo più essenziale e profondo che si è reso re­ sponsabile della sua nascita secondo il principio dell’autoi­ dentità delle forme. Nella sociologia sistemica non prende corpo un’effettiva teoria della società complessiva, in quan­ to U sistema sociale che Luhmann ha più volte definito co­ me «intero», «sistema globale», «cornice più estesa», non si differenzia in modo significativo dalle proprie parti, dai di­ versi sottosistemi che interagendo reciprocamente riescono soltanto a complicare una situazione data di partenza che né sono essi ad aver istituito, di cui non sono realmente es­ si a promuovere la trasformazione, né tanto meno a deli­ nearne e instaurarne la forma ulteriore, più elaborata e ap­ parentemente superiore. Il sistema luhmanniano è dunque ben lontano dal rap­ presentare quella «unità del molteplice», quella «sintesi di molte determinazioni» che Marx aveva posto alla base del­ l’esistenza della società moderna nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo, anzi, introduce nel­ la riflessione funzionale delle contraddizioni formali che raggiungeranno il loro apice precisamente nella demolizio­ ne del principio cardine di tale sapere, la separazione tra ambiente e sistema, un rapporto che nella teorizzazione marxiana rappresenta piuttosto un nesso altamente com­ plesso tra l’unità immanente della forma-capitale e il suo potere di determinazione e la dominante esistenza di istan­ ze, livelli, loro interdipendenze e processi di mutuo condi­ zionamento secondo il duplice criterio dell’autonomia rela­ tiva e della correlazione reciproca per interazione.

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Completamente irretito nell’orizzonte della {atticità, il pensiero sistemico mostra tutti i suoi limiti concettuali — come oggetto di conoscenza e strumento per l’azione — nella continua riproposizione di categorie e oggetti del mondo che a una più attenta disamina si rivelano essere, per molti versi, tanto solo un aggiornamento di precedenti sistematizzazioni78, quanto un calco di determinazioni rea­ li mai colte nel loro spessóre effettuale. Vediamo lo scarto teorico che è possibile disegnare, a dispetto dell’apparente radicalità della critica di Luhmann all’intera ragione occi­ dentale, tra il sapere funzionale e l’analisi della società in termini di totalità, mediante le categorie ontologiche più dense e più problematiche del discorso marxiano.

78 Cfr. id., Illuminismo sociologico, cit., p. 327.

IV

LA STRUTTURA DELLA TOTALITÀ IN MARX

1. La dialettica di presupposto e risultato

Come è noto, il pensiero di Marx non costituisce un in­ sieme uniforme di concetti, un sistema teorico rigidamente coerente dagli inizi alla fine o all’interno e lungo ciascuna fase del suo processo di sviluppo e maturazione. Esistono indubbiamente al didentro di questo immenso continente sistematico delle fessure e delle oscillazioni che possono prestare il fianco a obiezioni e sollevare non poche perples­ sità.1. Il problema più importante, tuttavia, non è tanto

1 Si vedano gli ormai più che decennali studi di G. La Grassa sull’analisi sociale di Marx e sui problemi di una possibile reinterpretazione marxista del capitalismo attuale. Nella vasta e complessa produzione teorica di questo autore ci limitiamo a segnalare i lavori seguenti: Movimenti decostruttivi. Attraversando il marxismo, Deda­ lo, Bari 1985; L’«inattualità» di Marx, Angeli, Milano 1989; Ilcapitalismo lavorativo e la sua ri-mondializzazione, Angeli, Milano 1990. Cfr. anche, per una mappa d’insie­ me dello stato del marxismo e sui compiti e gli indirizzi di un concreto e virtuale pro­ gramma di ricerca, Marxismo in mare aperto, Angeli, Milano 1983. In campo interna­ zionale, benché da posizioni diverse rispetto a quelle indicate, si possono vedere, tra gli altri, i testi di J. Bidet, Que faire du Capital? Materiaux pour une refondation, Klincksieck, Paris 1985; id., Théoriede la modernità, PUF, Paris 1990; T. Bottomo­ re, Theories ofModem Capitalism, Allen and Unwin, London 1985; J. Larrain, A Re­ construction ofHistorical Materialism, Allen and Unwin, London 1986. Non è qui il caso di fare una sorta di censimento delle tendenze del marxismo anglosassone (ciò si può vedere in «Actuel Marx», n. 7,1990). L’impressione di una prima lettura, tutta­ via, è che in esso, ancora una volta, prenda forma una riproposizione, magari aggior­ nata e più raffinata, di categorie estremamente tradizionali: dalla centralità del mer-

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quello di constatare queste debolezze quanto, piuttosto, di portare al centro della riflessione odierna quegli aspetti del­ la teorizzazione marxiana che ancora oggi si dimostrano ca­ paci di meglio interpretare la realtà contemporanea e ren­ der conto magari — se riletti con la consapevolezza di ades­ so, dopo diversi decenni di ripensamento critico del marxi­ smo e di trasformazioni storiche ancora in atto — delle stesse origini e limiti della doppiezza di alcune concettualiz­ zazioni di Marx. Confrontarsi con quest’ultimo, e per mezzo di esso con i modelli delle scienze sociali attualmente dominanti, signi­ fica in primo luogo prendere le mosse proprio dalla com­ plessità intrinseca del suo pensiero, tanto per reinterrogar­ ne le regioni più determinate, più efficaci per rigore logico e forza esplicativa, quanto per portarne alla luce categorie e luoghi concettuali il cui carattere inedito e originale molto spesso, nel corso delTormai secolare storia del (dei) marxi­ smo (i), è rimasto sepolto sotto una serie di stratificazioni ideologiche che o lo hanno deformato o lo hanno reso irri­ conoscibile. Questo lato archeologico della rilettura di Marx non sorprenderà, crediamo, qualora si faccia mente

cato (irrazionalità del valore di scambio), al paradigma dei rapporti di proprietà (for­ me tipiche del pensiero del fuori). Cfr. a questo proposito l’eterogenea raccolta di saggi a cura di J. Roemer, AnalyticalMarxism, University Press, Cambridge 1988. In questo testo, in particolare, si vedano gli scritti di Roemer, New directions in the Mar­ xian theory ofexploitation and class, pp. 81-113; id., Should Marxists be interested in ex­ ploitation?, pp. 260-282; J. Elster, Further thoughts on Marxism, functionalism and ga­ me theory, pp. 202-220. Per un punto di vista strettamente ortodosso cfr. ibid. G. A. Cohen, Forces and relations ofproduction, pp. 11-22; Id., Marxism andfunctional ex­ planation, pp. 221-234 (quest’ultima parte è un estratto di G.A. Cohen, KarlMarx's Theory of History: A Defence, Clarendon Press, Oxford 1978). Per un’esposizione più ampia e articolata della posizione teorica dei primi due autori sono da vedere i se­ guenti lavori: J. Elster, An Introduction to Karl Marx, University Press, Cambridge 1986; id., Making sense of Marx, Cambridge University Press, Cambridge 1987; J. Roemer, Free to Lose. An Introduction to Marxist Economic Philosophy, Radius, Lon­ don 1988; id., Analytical Foundations of Marxian Economic Theory, University Press, Cambridge 1989.

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locale alla profondità strutturale specifica che è tipica del suo pensare e delle sue opere maggiori nella loro correlazio­ ne alla realtà del capitale. Il fine che ci si propone non è tanto quello di ripristinare un’impossibile unità, quanto, al­ l’opposto, di far emergere delle discontinuità cui finora non si era forse prestata la necessaria attenzione. Qui non si tratta, è chiaro, di restaurare nella sua integrità omogenea l’edificio teorico marxiano (compito in contrasto con le pre­ messe poste e addirittura controproducente), bensì di ser­ virsi dei suoi piani più alti e dei suoi materiali più intensi per meglio e più attentamente scrutare i processi in corso, le cause che li promuovono e i cambiamenti tendenziali che essi introducono nel corpo sociale. Vediamo cosa pensa Marx della storia passata della formazione sociale capitali­ stica. Quest’ultima, come è noto, per nascere ha bisogno di una serie di condizioni preliminari — una certa accumula­ zione di denaro, la formazione del lavoro libero, ecc. — che trovano una loro espressione di sintesi nello sviluppo della circolazione delle merci. Questa rappresenta il punto culmi­ nante di un secolare processo di distruzione e trasformazio­ ne delle forme societarie più antiche che nella sua generali­ tà transtorica niente ancora dice di preciso sui caratteri pro­ pri della contemporaneità. Benché merce e denaro siano entrambi presupposti ele­ mentari {elementamche Voraussetzungen) del capitale (suoi momenti «antidiluviani»), essi si svilupperanno come tali solo in date circostanze specifiche la cui importanza cam­ bierà anche quel loro primo apparire2. Una prima meta­

2 Cfr. K. Marx, Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, Verlag Neue Kritik, Frankfurt 1969, pp. 91 e sgg. ; trad. it., Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 103 e sgg. (d’ora in avanti: Resultate; Capitolo VI inedito); id., Das Kapital, I, cit., p. 161; Il Capitale, I, cit., p. 177. Le citazioni dal te­ desco non rappresentano, ovviamente, un vezzo intellettuale. Esse sia segnalano molto spesso una diversa traduzione del testo marxiano, sia hanno il compito di met-

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morfosi di queste categorie diventa evidente nel loro pre­ sentarsi come prodotti e premesse insieme del capitale. Questa contestualità delle due determinazioni dà luogo a uno svolgimento «in circolo» dell’analisi che richiede una soluzione adeguata alla complessità dei problemi che essa solleva. Da una parte, infatti, tale circolarità corrisponde allo sviluppo storico del capitale, dall’altra però la «forma della merce» come tratto universalmente necessario del pro­ dotto è unicamente il risultato del modo di produzione ca­ pitalistico. Per uscire da una simile impasse ovviamente non è sufficiente fare ricorso all’idea di un prolungamento quantitativo della circolazione sin dentro la società moder­ na, come se il capitale semplicemente estendesse in orizzon­ tale a tutta la sua forma societaria, attraverso l’espansione del mercato, un principio di determinazione proveniente dal suo passato, non posto da esso stesso 3. Tra punto di partenza e risultato, deve interporsi un qualcosa di peculiare che non è stato ancora esplicitato, in quanto per Marx le categorie economiche comuni a epoche

tere in risalto le corrispondenze linguistiche, e in parte anche logiche, tra la tematizzazione marxiana e un certo Hegel. Benché esse, dunque, rendano forse più pesante l’esposizione, nondimeno sono indispensabili per chiarire senza equivoci la differen­ te lettura di Marx che si è cercato di argomentare. Come dire, sono un po’ lo scotto che bisogna pagare per tentare di portare alla luce significati altrimenti difficili da di­ mostrare o accreditabili soltanto in modo apodittico. 3 E quanto fece a suo tempo B. De Giovanni, La teorìa politica delle classi nel Capitale, De Donato, Bari 1976, argomentando contro quanto sostenuto dallo stesso Marx. Il commercio — lo scambio sviluppato delle merci — è infatti un presupposto storico del cpaitale «e non si può addurlo come mediatore della sua circolazione spe­ cifica», in Lineamentifondamentali della critica dell*economia politica, II, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 361 (d’ora in avanti: Lineamenti). Quali complessi significati fossero insiti in questa densa proposizione marxiana De Giovanni, completamente chiuso nella sua prospettiva superficiale, esclusivamente mercantile, non ha mai sa­ puto né potuto interrogare. D’altra parte, come filologo o ermeneuta questo autore non brilla certo per la sua correttezza formale. Si vedano le pesanti contestazioni, tutte motivate e dimostrate, che alle sue analisi dei testi di Marx rivolge D. Zolo nel suo Stato socialista e libertà borghesi, Laterza, Bari 1976, pp. 123-145.

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di produzione antecedenti assumono nel capitale un carat­ tere storico specificamente diverso, che imprime alle condi­ zioni iniziali una determinazione differente da quella da es­ se precedentemente posseduta4. Tra i due estremi deve dunque prender forma una mediazione inedita in grado tan­ to di risolvere l’apparente vicolo cieco venutosi a creare, quanto di attribuire alla correlazione di quegli opposti si­ gnificati tipicamente distinti, capaci di render conto dell’o­ riginalità di questa formazione sociale rispetto alla sua sto­ ria anteriore. Si tratta, in altre parole, di precisare il con­ cetto di una distinzione, di una rottura irreversibile tra tempo passato e tempo presente del capitale. Alla prima comparsa di quest’ultimo come denaro, i suoi stessi presupposti si presentavano come effetti esteriori della circolazione, come preludi esterni della sua genesi che, non derivando dalla sua intima essenza, nemmeno avevano bisogno di essere spiegati. D’altra parte, non appena il capi­ tale instaura se stesso come forma sociale generalmente pre­ dominante di un’epoca, non appena esso è un rapporto che di per sé regola e domina la totalità della produzione, quei presupposti estrinseci si presenteranno ora come momenti del movimento del capitale stesso, tome determinazioni che il capitale ha presupposto — per quanto storica possa essere la loro origine — come suoi stessi momenti5. Questo tra­ passo è di straordinaria importanza per comprendere fino in fondo, in modo adeguato ai complessi contenuti che esso realizza e che Marx traduce nel suo denso ragionare, il mu­ tamento che ha luogo attraverso la dialettica tra i due lati, tra ciò che fungeva come precondizione e ciò che è stato po­

4 C£r. K. Marx, Resultate, cit., pp. 92-95; Capitolo VI inedito, cit., pp. 104-107; ìà., Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 329. 5 Cfr. id., Grundrisse derKritik derpolitischen Òkonomie, Dietz, Berlin 1974, p. 354, pp. 402-403, p. 405 (d’ora in avanti: Grundrisse)} trad, it., Lineamenti, II, cit., p. 69, p. 133, p. 136.

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sto. Com’è evidente, infatti, Marx enuncia una sorta di as­ similazione delle premesse da parte del capitale che conver­ te queste ultime in elementi provenienti dal proprio inter­ no, non più accolti dal passato — potenziati o dilatati — bensì determinati da sé quali proprie emanazioni. Questo processo di assorbimento implica che i presupposti storici facenti parte della storia della formazione del capitale non compaiono allo stesso titolo nella sua storia contemporanea, vale a dire non rientrano nel sistema reale (wirklich) del modo di produzione da esso dominato. Tali momenti preli­ minari fanno ormai parte delle sue premesse passate, delle premesse del suo divenire, le quali sono ormai tolte nel suo esserci (die sind in seinem Dasein aufgehoben). Ciò che in principio sembrava condizionare dal «di fuori» il capitale non ancora affermatosi nella sua alterità storica, scompare in presenza del capitale reale (das wirkliche Rapitale}, del capitale che, partendo dalla propria realtà (seine Wirklichkeit}, pone esso stesso le condizioni della sua realizzazio­ ne e continua riproduzione. Mediante la specificità del proprio potere di determina­ zione, del proprio modo immanente di funzionamento, il capitale trasforma i suoi presupposti originari — quelle pre­ messe del suo divenire che non potevano ancora scaturire dalla sua azione in quanto tale — in altrettanti risultati pro­ mananti da sé, posti da esso non come condizioni della sua nascita, ma come risultati della sua esistenza (Resultate sei­ nes Daseins}. Esso non parte più dal suo passato per affondare le sue radici nel presente, bensì è esso stesso presupposto e pren­ dendo le mosse da sé crea i presupposti della sua conserva­ zione e della sua stessa crescita. Ciò che presiedeva alla sua genesi non si ritrova più nella sfera del modo di produzione a cui il capitale serve da presupposto: quelle precondizioni stanno alle sue spalle come livelli storici preliminari del suo divenire, stadi di formazione trascesi dalla sua vita in quan-

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to corpo sociale già formato 6. Questo complesso e compli­ cato processo di mediazione mette capo a una realtà storica, a un’organizzazione societaria, in cui la metamorfosi dei fattori del passato in risultati cancella tanto la loro prove­ nienza esterna rispetto al capitale quanto il loro carattere preesistente a quest’ultimo. I momenti costitutivi del modo di produzione capitalistico si presentano adesso come un al­ cunché che emèrge e prende la propria forma specifica dal didentro della stessa natura dei nuovi rapporti di produzio­ ne instauratisi. La differenza inerente a questi ultimi non si esaurisce completamente tuttavia nei passaggi disegnati dalla conver­ sione descritta. Quest’ultima, infatti, rappresenta un divenir-altro delle origini che mette in campo ulteriori, più densi e articolati, significati teorici e contestuali aggiuntive, più elaborate trasformazioni degli oggetti coinvolti in quella di­ namica. Le determinazioni derivate dal capitale, esistenti come suoi effetti, assumono infatti il carattere di figure par­ ticolari, reciprocamente indifferenti, mutuamente indipen­ denti e regolate da leggi differenti. La loro unità comune — la valorizzazione, il lavoro oggettivato, il capitale in proces­ so —, e anche la natura intrinseca di questa unità, diventa sempre più irriconoscibile e non si rivela nella sua manife­ stazione: essa deve essere scoperta come un mistero recon­ dito. Questa autonomizzazione delle singole parti, il loro con­ trapporsi a vicenda, sono aspetti degli opposti resi più com­ pleti dalla circostanza che connette ciascuna di esse a una causa distinta e separata dalle altre. La funzione e l’autori­ ferimento propri di ogni istanza sono riconducibili a rappor­ ti e forme compiute che appaiono come presupposti nella produzione reale in virtù del fatto che il modo di produzio­

6 Ibid., Grundrisse, cit., pp. 363-365; 'Lineamenti, cit., pp. 80-81.

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ne capitalistico si muove nelle figure da esso stesso create e queste, che sono una sua conseguenza, gli si contrappongo­ no nel processo di riproduzione anche come entità semplicemente essenti, determinanti anche la condotta pratica degli agenti sociali per mezzo dei moventi forniti all’azione7. Qui ogni presupposto del processo sociale di produzione è in pari tempo il suo risultato così come ciascun risultato di esso appare nello stesso tempo come suo presupposto8. Questo alterno scambio di posizioni e di ruoli non dà luogo, come in prima approssimazione si potrebbe pensare, a una semplice interdipendenza paritaria tra le due determinazio­ ni, né esso rappresenta un movimento tautologico, solo ri­ petitivo o circolare, chiuso nella sua ininterrotta, asignifi­ cante, inversione delle parti. In effetti, è la costante ripro­ duzione dei rapporti di produzione capitalistici a presentare ciò che quest’ultima, crea, istituisce, pone, come suoi conti­ nui presupposti. Tale riproduzione, anzi, appare unicamen­ te nell’insistente esistenza di questi rapporti come forme so­ ciali naturali, date, che dominano il processo di produzione: esse sono il costante prodotto — e solo per questo il costan­ te presupposto — di questo modo di produzione specificamente sociale. In questo contesto, i diversi momenti rappresentano se stessi e le loro relazioni come proprietà immediate di cose, come qualità inerenti di per sé agli elementi materiali di questa formazione societaria. Il «mondo stregato», il «mon­ do capovolto», che emergono da quei modi d’essere della realtà contemporanea costituiscono delle sfere sociali deter­ minate, delle «forme estreme», le più mediate, in cui allo

7 Cfr. id., Theorien iìber den Mehrwert, III, Dietz, Berlin 1982, pp. 476-477; trad, it., Teorie sulpltisvalore, IH, Editori Riuniti, Roma 1979, pp. 520-521 (d’ora in avanti: Theorien; Teorie). 8 Ibid., Theorien, cit., pp. 497-498; Thèorie, cit., p. 543.

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stesso tempo non solo è diventata invisibile la mediazione, ma anzi è espresso il suo diretto contrario9. Il reale che sorge da questo processo non ha più alcun rapporto di con­ tinuità con le condizioni sociali di partenza, in quanto que­ ste ultime sono state incorporate al capitale attraverso Tes­ ser posto in modo tolto della loro esistenza. Il capitale, in altri termini, in tanto sussume a sé le sue premesse solo in quanto le ripresenta nel mondo sussistente in maniera ap­ parentemente identica alle loro origini. Tra l’essere di quel­ le e il loro esserci successivo è stata posta una differenza che non si fa vedere, da sùbito, nell’empirica predominan­ za del concreto autoevidente che è stato prodotto. Le con­ dizioni già date da cui al pensiero sembra di dover comin­ ciare appaiono piuttosto come premesse che a loro volta presuppongono un fondamento determinato che si rende responsabile della loro istituzione in guisa di suolo su cui far poggiare l’esistente. Ciò significa che questa forma so­ cietaria pone la sua realtà storica in modo duplice: una vol­ ta come presupposto incontrovertibile della razionalità, un’altra, insieme, come un alcunché di intensamente, inte­ riormente mediato dipendente e condizionato da qualcosa d'altro — il potere di determinazione del capitale — che in esso si rappresenta e si legittima. Questo meccanismo di riproduzione del dominio esclu­ de che si possa parlare dell’esistenza come di un saldo, og­ gettivo referente per l’analisi del mondo sociale, in quanto l’oggetto che esso costituisce e fa scaturire dalla propria in­ terna legalità non ha più niente a che vedere con l’empirica consistenza, solidità del principio di materialità da cui il marxismo, in genere, ha sempre preso le mosse nel suo ap­ proccio conoscitivo al reale. Quest’ultimo, ben prima di rappresentare una precondizione del, anteriore al e indi­

9 Ibid., pp.503-503; ibid., pp. 549-550.

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pendente dal, pensare è un presupposto che, proprio nella sua immediatezza, rinvia invece alla causa profonda di cui è proiezione vincolata nell’ambito di ciò che è, dell’essente.

2. Circolazione semplice e circolazione specificamente capitalistica

Il concetto di cui si è trattato finora, — mai studiato in modo esplicito e approfondito, che io sappia, dal marxismo precedente può essere ulteriormente precisato e specifi­ cato dalla presa in considerazione di un’altra importantissi­ ma categoria marxiana, — quella di circolazione semplice —, la quale contribuisce in modo nuovo a far comprende­ re, se ce ne fosse ancora bisogno, l’effettiva densità e com­ plessità ad un tempo della problematica di Marx. D’altra parte, essa ci offre anche l’occasione di render conto in ma­ niera ancora più interna e articolata dell’estrema sottigliez­ za teologica della natura del capitale, nella stessa misura in cui essa affronta il «soggetto merce»10 come un problema che per vie indirette riconduce alle modalità d’esistenza dei rapporti sociali odierni, al principio informatore di questo sistema storico. Ciò di cui qui si tratta è precisamente la forma societaria che nella e attraverso la circolazione si me­ dia, si dà concreta e immanente configurazione d’insieme conficcandosi al didentro delle istanze e dei processi che abitano il mondo secondo una propria norma generale. La «circolazione semplice», dunque, deve essere analiz­ zata in primo luogo, secondo Marx, esclusivamente nelle sue determinazioni di forma astratte (abstrakte Formbestim-

10 Cfr. id., Il Capitale, I, Appendici, cit., p. 1405, pp. 1409-1419.

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mungevi}11. Contrariamente tuttavia a quanto prima facie quest’ultimo carattere potrebbe far credere, esso né cancel­ la le forme storiche di tali determinazioni (poiché queste hanno pur sempre trovato un loro referente nelle società an­ tiche) 11 12, né tanto meno, ovviamente, può prescindere dal ruolo giocato dalla razionalità del pensare nella costruzione della loro specificità (la quale, al contrario, deriva proprio da quella concettualizzazione). L’astrazione allora si riferi­ sce innanzitutto a un particolare tipo di funzionamento di questa sintesi sociale che è necessario portare alla luce. Nel­ l’ambito della «circolazione semplice» il valore della — il tempo di lavoro che produce la — merce si distingue da quest’ultima nel prezzo che ne misura la quantità confronta­ bile 13. Questo criterio introduce nello scambio delle merci una mediazione reale che consente di rapportare tra loro in modo fluido i diversi corpi concreti e particolari dei beni scambiati1415 . Il valore di scambio della merce rappresentato nel prezzo non è altro, in definitiva, che l’espressione pro­ porzionalmente specificata della sua capacità di servire da mezzo di scambio, da ruota della circolazione stessa13. D’altra parte, il denaro, nel suo sviluppo, raggiunge una ter­ za determinazione che racchiude in sé le prime due e ne co­ stituisce l’unità. In questo livello esso figura come scopo di se stesso, alla cui realizzazione servono il mercato e lo scam­ bio. Nella formula D-M-D, il denaro, attraverso la merce, si media con se stesso e si presenta come un’unità che nella

11 Id., Gnindrisse, cit., p. 880; trad, it., Lineamenti fondamentali di critica del­ l'economia politica, II, Einaudi, Torino 1983, pp. 1066-1067 (d’ora in avanti: Linea­ menti, 1983). 12 Ibid., Grundrisse, cit., pp. 886-887, p. 916; Lineamenti, 1983, cit., pp. 1074-1075,p. 1111. 13 Ibid.,pp. 102-105; Lineamenti,!, cit., pp. 137-140. 14 Ibid., pp. 58-66; ibid., pp. 74-84. 15 Ibid.,pp. 108-109, pp. 114-115; ibid.,pp. 146-148, pp. 155-157.

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sua circolazione combacia con se stessa 16. In tutte queste tre forme, l’interna contraddittorietà della merce — tanto prodotto naturale quanto oggetto generale e astratto, tanto valore d’uso quanto valore di scambio — ha posto in essere un tipo di scambiabilità che da una parte ha creato la neces­ sità di un terzo in grado di mediare l’universale correlazione delle merci, dall’altra lo ha posto in una dimensione «indivi­ dualizzata», in una posizione diversa dalla merce, al di fuori e accanto a essa 17. Benché come misura e mezzo di circolazione il denaro compaia sin dai tempi più remoti, dagli albori delle comuni­ tà antiche, mentre nella terza forma sia tipico prevalente­ mente solo di epoche più recenti, esso non dà luogo in que­ ste sue intrecciate e contestuali o distinte e successive deter­ minazioni a una vera e propria circolazione, a un vero e pro­ prio processo di scambio. Perché vi sia quest’ultimo è essen­ ziale, secondo Marx, tanto che sia presente il presupposto delle merci in quanto prezzi, quanto che esista un intero cir­ cuito di scambi, un flusso costante ed esteso più o meno a tutta l’area della società di atti di scambio 18. Queste condi­ zioni, ovviamente, non sono compiutamente realizzate né nel baratto né nella compra-vendita immediata delle merci e neppure nello stadio più maturo del commercio, in cui trova una sua concretizzazione l’identità con sé del denaro 19. Non si tratta soltanto del fatto che in tutte queste differenti fasi lo scambio dei prodotti si presenta come un’accidentale dilatazione della sfera dei bisogni o come imo scambio ca­ suale delle eccedenze a disposizione delle comunità. La limi­ tazione inerente a questi diversi gradini della formazione

16 17 18 19

7te/.,pp. 116-117;ite/.,pp. 157-159. Ibid., pp. 65-66, pp. 104-106; ibid., pp. 84-85, pp. 140-142. Ibid.iP. 103,pp. 110-lll;ite/.,p. 138,pp. 150-151. Ibid.,pp.57-58,pp. 118-119; ite/.,pp.73-74,pp. 161-162.

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economica della società è invece più profonda e pertiene proprio al tipo di relazione tra i due lati della merce, tra i due momenti del rapporto di valore, che la «circolazione semplice» riesce a porre in esistenza, a far vigere nelle diffe­ renti epoche storiche da essa dominate o a formare nell’am­ bito dei suoi ristretti confini. Entro questi ultimi la circolazione si presenta come un cattivo processo all’infinito 20, in quanto mediante il sem­ plice atto dello scambio ciascun termine della coppia può perdere la propria determinazione rispetto all’altro solo nel momento in cui si realizza in esso. Nessuno di essi può man­ tenersi in una determinazione mentre trapassa nell’altra. Il valore di scambio fissato nel denaro scompare non appena esso si realizza nella merca come valore d’uso, il valore d’u­ so esistente nella merce dilegua nell’atto stesso in cui il prezzo della merce viene realizzato nel denaro21. Lo sdop­ piarsi e l’alternarsi della merce in entrambe le determinazio­ ni, merce e denaro, è il contenuto principale di questa circo­ lazione: la negazione della merce in una determinazione è sempre la sua realizzazione nell’altra. In questo processo il valore di scambio nelle sue diverse forme si presenta solo come una mediazione effimera, poiché alla fine di tutto il movimento, merce è scambiata con merce, valori d’uso di distinta qualità sono scambiati l’uno con l’altro in conformi­ tà di bisogni diversi. Con ciò la circolazione è dunque con­ clusa e si estinge 22. D’altro canto, nella misura in cui il de­ naro viene tesaurizzato, esso rimane solo tesoro, viene sot­ tratto alla circolazione e non può più funzionare né come valore di scambio né come valore d’uso. In tutti questi casi il denaro appare sempre e soltanto come risultato formale,

20 Ibid., p. 111; ibid., p. 151. 21 C£r. id., Grundrisse, cit., p. 918; Lineamenti, II, 1983, cit., p. 1115. 22 Ibid.'W. 923-925; ibid.,^. 1120-1122.

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evanescente della circolazione, caput mortuum di tutta la di­ namica delle metamorfosi della merce 23. La ripetizione dell’intero processo non risulta dalle con­ dizioni della circolazione stessa: quest’ultima non porta in sé il principio del proprio autorinnovamento. Le merci de­ vono essere sempre gettate in essa, dall’esterno, come legna nel fuoco, altrimenti essa si spegne nell’indifferenza, nella cessazione di ogni relazione con rapporti di produzione de­ terminati24. La circolazione semplice, in definitiva, è uno scambio di merci preesistenti, è solo la mediazione di que­ gli estremi che stanno al di là di essa e le sono presupposti {porausgesetzf}. L’intera attività che ha luogo nel suo ambito è limitata all’attività di scambio e alla posizione delle deter­ minazioni formali {formelle Bestimmungerì} che la merce per­ corre in quanto unità di valore di scambio e valore d’uso. Essa è un sistema di traffici che abbraccia solo l’atto dello scambio stesso e che si svolge accanto alla produzione: qui l’impulso proviene dal di fuori di quest’ultima e non da co­ me essa si configura internamente 2526 . Tale situazione, tutta­ via, subisce una modifica radicale non appena il valore di scambio in quanto tale assume determinazioni più appro­ fondite — sviluppandosi ulteriormente — in virtù del pro­ cesso della circolazione stessa 2Ó. Via via che si instaura uno scambio continuativo, man mano che quest’ultimo si tra­ sforma in un commercio costante e ripetuto, acquistando una sua regolarità propria permanente, la produzione stessa — anche se la sua organizzazione interna non viene da esso investita né in tutta la sua estensione né in tutta la sua pro­ fondità 27 — assume una tendenza indirizzata alla circola­

23 24 25 26 27

I&d.,pp. 935-937; f£fd.,pp. 1135-1137. Ibid., p. 920, pp. 930-931; ibid., p. 1116, p. 1129. Ibid.,p. 921-923; ibid.,pp. 1117-1119. Ibid.,pp. 925-926; ibid.,pp. 1122-1123. C£r. id., Grundrisse., cit. pp. 167-168;Lineamenti, I, cit., pp. 230-231.

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zione, alla creazione di valori di scambio. Non appena que­ sta fase giunge a suo compimento 28, il denaro è posto come capitale, come forma che tanto si rende autonoma dalla cir­ colazione quanto si mantiene in essa come sua interna, ine­ rente, necessaria determinazione. In questa sua dimensione «più alta», «suprema», l’indipendeza del denaro fa tutt’uno con il processo di scambio, la sua autonomia dalla circola­ zione è soltanto una parvenza, in quanto esso si riferisce a quest’ultima e ne dipende 29. Adesso il denaro è determina­ to come correlazione a se stesso mediante il processo della circolazione; esso scaturisce sì da questa, ma come categoria destinata a ricominciarla nuovamente, ininterrottamente. In quanto tale, il denaro entrando in una determinazione non si perde nell’altra: nella sua esistenza di merce deve ri­ manere denaro e nella sua esistenza di denaro deve esistere solo come forma transitoria della merce. Il valore di scambio in quanto soggetto, si pone una vol­ ta come merce e l’altra come denaro, ed è appunto il movi­ mento del porsi in questa doppia determinazione e del con­ servarsi in ciascuna di esse come nel suo opposto: nella mer­ ce come denaro e nel denaro come merce 30. Questa alter­ nanza è un movimento che benché dato in sé anche nella circolazione semplice non è tuttavia posto in essa 31. L’esser posto della circolazione capitalistica è il carattere che fa del capitale come capitale l’unità in divenire di merce e denaro: esso non è né l’una né l’altro e al tempo stesso è tanto l’una quanto l’altro. Il capitale non è un rapporto semplice, ma un

28 Id., Grundrisse, cit., p. 940;Lineamenti, II, 1983, cit.,p. 1141. 29 Cfr. rispettivamente Grundrisse, cit., pp. 129-131, pp. 134-135, pp. 144-146, pp. 930-933; Lineamenti, I, cit., pp. 177-179, p. 184, pp. 197-200; Linea­ menti, II, 1983, cit., pp. 1129-1132. 30 Cfr. ìà.,Das Kapital,!, cit.,pp. 168-169; Il Capitale,!, cit., pp. 186-187. 31 Id., Grundrisse, cit., pp. 933-934, pp. 937-939; Lineamenti, II, 1983, cit., p. 1133,pp. 1138-1139.

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processo, nei cui diversi momenti esso è sempre capitale32. In questo senso, il denaro e la merce, così come la circola­ zione semplice stessa, per il capitale esistono ormai solo co­ me particolari individui astratti della sua esistenza (sein Daseiri), nei quali tanto costantemente esso compare (erscheint) — trapassando dall’uno all’altro — quanto altret­ tanto costantemente scompare (verschwindel} 33. “ Questi due modi, al pari del loro rapporto nella circola­ zione, si presentano sia come semplici presupposti (einfache Voraussetzungerì} del capitale, sia, d’altra parte, essi stessi come forme d’esistenza (als Daseinsformen) e risultati di es­ so. Il capitale, in altre parole, tanto proviene da una circola­ zione presupposta (Vorausgesetz}, quanto prende avvio da se stesso come presuppoto (als Voraussetzung) di fronte a es­ sa 34. Questa inversione trasforma gli estremi della circola­ zione semplice in «sfere astratte» del processo di produzio­ ne del capitale presupposto (das vorausgesetzte Kapital}: esse o conducono a esso, come determinazioni che potenzial­ mente diventano capitale nella transizione, o ritornano in esso come nel loro abisso (Abgrund). Considerata in questa sua ultima determinazione, — colta cioè nel momento stes­ so del suo esser già dentro il modo di riproduzione del capi­ tale —, la circolazione semplice (e la spessa ideologia politi­ co-sociale che essa induce) costituisce un lato singolo del processo sociale complessivo che attraverso le sue proprie determinazioni si legittima e si presenta come mera forma fenomenica di un processo più profondo che sta dietro di es­ sa, un processo che da essa risulta e insieme la produce 35. Il denso e complesso ragionamento marxiano non ha bi­

32 33 34 35

Ibid., pp. 169-170; Lineamenti, I, cit., p. 233. Ibid., p. 937;Lineamenti, II, cit., p. 1Ì37. Ibid., pp. 939-940; ibid., p. Ì140. Ibid., pp. 922-923\ibid., p. 1119.

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sogno di essere sottolineato. D’altra parte esso può essere pienamente inteso solo a condizione di comprendere la spe­ cificità della dialettica dell’esser posto solo come tolto delle determinazioni proprie del capitale, di quell’inedito rappor­ to sociale che prende un suo corpo impersonale nel funzio­ namento solo tecnologico dell’automa macchinico. Se prima il denaro si presentava come presupposto (Voraussetzunf) del capitale, come sua causa (Ursache desselberì}, ora, nel­ l’ambito del valore di scambio posto 36, esso appare come un suo effetto. Nel primo movimento il denaro scaturiva dalla circolazione semplice, nel secondo caso proviene dal proces­ so di produzione del capitale. Nel primo esso trapassa in ca­ pitale, nel secondo si presenta come un presupposto del capi­ tale posto dal capitale stesso37. Il discorso di Marx non avrebbe potuto essere più esplicito. Assimilata al capitale, trasformata in un risultato di quest’ultimo, la circolazione continua ancora a rappresentare la premessa da cui quello sembra partire. La sua alterità consiste proprio in questa sua natura di determinazione posta in modo tale da apparire co­ me presupposta: il movimento mediatore scompare nel pro­ prio risultato senza lasciare traccia 38. Paradossalmente, la storia contemporanea del capitale è la stessa sua storia originaria 39. La circolazione semplice esi­ stente agli inizi della formazione sociale capitalistica viene ripresentata da quest’ultima, una volta posta da sé, tale e quale essa era prima di entrare nel capitale 40. La circolazio­ ne immediata («semplice» o «originaria» ut sic) da cui prende

36 Ibid., pp. 180-181;Lineamenti, I, cit., p. 248. 37 Ibid., pp. 263-264; ibid., pp. 362-363. 38 Cfr.id.,DrfjKflp&a/,I,cit.,p. 107;IlCapitale,!, cit.,p. 112. 39 Ibid., p. 161; ibid., p. 177. 40 Cfr. id., Grundrisse, cit., pp. 541-542; Lineamenti, II, cit., p. 330: il capitale «non entra nella circolazione, è la circolazione che entra in esso».

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le mosse Marx 41 può costituire un adeguato punto di par­ tenza, un presupposto dell’analisi (né condizione solo pen­ sata né non ancora determinata) solo per il pensiero che ha compreso la sua intima natura di forma già mediata, di con­ nessione sociale avente dentro di sé il rinvio ad altro e la presupposizione d’altro. Come nel passato, il suo essere es­ sente è una pura apparenza, è il fenomeno di un processo da essa indipendente e di cui essa rappresenta l’articolazione e la realizzazione nel tempo sociale 42. Nella circolazione qua­ le essa è posta dal capitale non può non accadere qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa43. Ecco perché cia­ scun momento che nell’ambito del modo di produzione ca­ pitalistico è presupposto, è nel contempo un risultato di quest’ultimo 44. Il principio di determinazione, di vincolazione, delle forme sociali si è posto all’interno di queste solo in modo tolto, facendo sparire la sua presenza dal loro ambi­ to di esistenza. Apparentemente prive di un loro fondamen­ to, le istanze della realtà, le loro relazioni e i processi che es­ se mettono in moto sembrano riferirsi unicamente a se stes­ si e far iniziare da sé quel concreto reale che direttamente strutturano e governano. La scoperta di questa natura com­ plessa della contemporaneità, oltre a portare una nuova luce nel cominciamento marxiano 45, è ciò che delimita e distin­ gue la teorizzazione della storia secondo l’idea di mediazio­ ne dalle sistematizzazioni aventi a loro punto di riferimento

41 C£r. id., Das Kapital, I, cit., pp. 130-148; llCapitale, I, cit., pp. 142-162. 42 Cfr. id., Grundrisse, cit.,pp. 919-920;Lineamenti, II, 1983, cit.,p. 1115. 43 Cfr. id., Das Kapital, I, cit., pp. 179-181; llCapitale, I, cit., pp. 199-201. 44 Id., Grundrisse, cit., p. 605, p. 613;Lineamenti, II, cit., p. 417, p. 429. 45 II «modello di lettura» di M. Porcaro, 1 difficili inizi di Karl Marx, Dedalo, Bari 1986, pur nell’ambito di un tentativo non economicistico (e anzi contro questa interpretazione) di riconsiderazione della «circolazione semplice», non è riuscito a cogliere la densità concenttuale delle categorie marxiane. Se non si mette in eviden­ za la dialettica inerente alla determinazione economica in oggetto, si corre il rischio di incorrere in diversi fraintendimenti teorici.

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ultimo l’autoidentità del reale, l’esclusivo poggiar su se stes­ so di quest’ultimo.

3. L'analisi delle forme sociali e le sue categorie Il «superamento» (Aufhebung) 46 della circolazione sem­ plice da parte del capitale, come abbiamo visto, ha istituito in un solo atto tanto il suo carattere posto quanto la sua vi­ genza effettiva come orizzonte apparentemente esaustivo dell’essere sociale. Conformemente al suo status essente, quest’ultimo si presenta di fronte all’osservatore con tutti i tratti di un referente oggettivo del pensare oltre il quale nient’altro vi è da ricercare visto che esso costituisce l’og­ getto immediato in cui si ancora la stessa attività rappresen­ tativa del soggetto pensante. Al sapere che affonda le sue radici in questo suolo, la riflessione sulle forme del mondo sussistente, e dunque anche la loro analisi scientifica, pren­ de la consistenza di una strada opposta (entgegengesetzt) allo svolgimento reale (die wirkliche Lntwicklungf Essa comin­ cia post festum e quindi prende le mosse dai risultati belli e pronti (fertige Resultate) del processo di genesi e di sviluppo della realtà. Tali entità presupposte, per questo tipo di co­ noscenza, hanno già la solidità di forme naturali (Naturformen) tanto sottratte a ogni problematizzazione storica, quanto inaccessibili nel loro contenuto 47. Questa duplice determinazione delle forme sociali si presenta dunque come l’effetto di un approccio conoscitivo al reale che parte dalla datità di quest’ultimo invece di teo­ rizzarne l’origine, di indagarne la provenienza specifica dal­ l’interna legalità di questa organizzazione societaria. Nello

46 Cfr. K. Marx, Gntndrisse, cit., p. 932; Lineamenti, II, 1983, cit., p. 1131. 47 Id., Das Kapital, I, cit., pp. 89-90; IlCapitale, I, cit., p. 92.

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studio degli eventi fattuali, delle istanze apparentemente autoidentiche, è necessario prendere le distanze dalla loro fissità e concentrare l’attenzione, al contrario, sul loro pro­ cesso di emergenza e d’istituzione, sulla dinàmica, cioè, che pone ogni risultato di nuovo come premessa. Per ogni scien­ za storica e sociale, avverte Marx, nel predisporre e ordina­ re il sistema dei concetti bisogna sempre tener fermo che, tanto nella realtà postaci di fronte {die Wirklichkeit) quanto nella mente, il soggetto — la società contemporanea — è già dato, e che le categorie perciò esprimono sovente forme dell’esserci, determinazioni d’esistenza {Daseinsformen, Existenzbestimmungerì), spesso soltanto singoli lati di tale or­ ganizzazione societaria. Anche dal punto di vista scientifico perciò, si conclude, essa non comincia affatto nel momento in cui si inizia a parlarne come tale 48. Ciò significa che tra il suo incipit storico, il suo entrare nel mondo della storia, e il suo esistere come sistema già formato, compiuto, caratteriz­ zato da propri criteri di costituzione e da proprie leggi dina­ miche, emergono una differenza e dei processi interni che — invece di essere dedotti gli uni dagli altri entro un’unica e continua linea evolutiva — abbisognano piuttosto di essere costruiti da un pensiero in grado di cogliere e riprodurre la discontinuità che si è affermata nel corso dello stesso, dive­ nire di quel soggetto. La diversità di natura tra le due fasi impone che si attui una distinzione teoricamente significativa tra il prima e il dopo del capitale, in modo da discriminare in maniera più precisa (non solo e non più cumulativa) la sua interna strut­ tura differenziale. Non è certo un caso che Marx ritenga ta­ le procedura decisiva al fine di una corretta ripartizione del­ la materia d’indagine, di una selettiva impostazione teorica per una conoscenza «non empiristica» dell’oggetto in que­

48 Cfr. id., Grundrisse, cit., pp. 26-27; Lineamenti, I, cit., p. 34.

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stione. Qui la distinzione di Marx dagli economisti e da He­ gel, diversamente da quanto per molto tempo si è pensato, non sta più né nell’acritica (apparentemente materialistica) assunzione di un «soggetto reale» saldo nella sua autonomia fuori della mente (la risposta più ovvia alla pretesa del con­ cetto di generare da se stesso il mondo), né nell’appropria­ zione del reale attraverso il metodo che sale dal semplice (o più generale, più estensivo, transtorico) al complesso (o più determinato, storicamente specifico), una coppia procedura­ le che non corrisponde affatto all’altra, da Marx contrappo­ sta alla prima, astratto/concreto. Quest’ultimo — poiché la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come un presupposto (als Voraussetzungf come un oggetto intrinsecamente doppio, punto di partenza effettuale (der wirkliche Ausgangspunkt) della riflessione — può apparire come una «sintesi di molte determinazioni», come una «uni­ tà del molteplice», solo all’interno delle trasformazioni che si producono nel pensiero, in cui esso si presenta come «pro­ cesso di sintesi», come multato e non più come inizio del pensare. Posto come una costruzione della mente, l’oggetto reale non può più mantenere quell’apparente aspetto di refe­ rente indiscutibile della teorizzazione che sembrava posse­ dere, proprio perché quest’ultima ha fatto emergere il suo profondo carattere di oggetto già mediato, già investito da specifici processi di mediazione che ne hanno modificato l’interna natura. In questo contesto, esso è e non è ad un tempo il «punto di partenza» della concettualizzazione: in quanto il concreto costituisce un immediato, esso deve per forza di cose rappresentare ciò da cui è necessario prendere le mosse (poiché nient’altro sussiste nel mondo), d’altro can­ to nella misura in cui tale realtà è stata posta in modo tolto essa non deve essere scambiata con un qualcosa di preesisten­ te cui riferirsi come a un sicuro fondamento 49. Nell’ambito 49 Ibid.,w.21-22;ibid.,pp.27-28.

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di questa complessa dialettica non avrebbe alcun senso — co­ me ha fatto l’economia politica al suo nascere — estrarre dal corpo sociale «singoli momenti», «relazioni determinanti ge­ nerali, astratte» (categorie con le quali non può essere com­ preso nessun livello storico determinato della produzione di società), per poi far derivare da questi elementi «sistemi eco­ nomici» più ampi e apparentemente strutturati dal basso al­ l’alto secondo il criterio dell’approssimazione successiva a ima interdipendenza crescente e sempre più articolata 50. All’inverso della via che sembra più «concreta»51, nel­ l’analisi della società né si deve ricorrere alle categorie eco­ nomiche nell’ordine in cui esse furono storicamente deter­ minanti (alla loro successione temporale), né centrare la pra­ tica teorica su ciò che alla superficie dell’essere sociale appa­ re come loro relazione naturale. La loro correlazione è in­ trinseca concatenazione è invece determinata dal rapporto in cui esse si trovano l’una con l’altra nell’ambito della so­ cietà capitalistica, dalla loro articolazione organica all’inter­ no della società moderna (ihre Gliederung innerhalb der modemen burgerlichen Gesellschaft). Poiché il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tut­ to 52, l’analisi del suo inedito sistema di dominio richiede una lettura particolare del modo in cui quest’ultimo prende forma e si struttura in un corpo sociale e in un principio di funzionamento mediati da un’estrema specificità. In questo tipo di organizzazione, infatti, il capitale rappresenta un po­ tere di determinazione estremamente vincolante e intenso i cui rapporti decidono del rango e dell’influenza di tutte le altre istanze societarie e delle loro interrelazioni. Con le pa­ role di Marx, esso è «un’illuminazione generale in cui tutti

50 l#zd.,pp. 9-10, pp. 27-28; i£zd.,p. ll,p. 36. 51 Per questo concetto si veda Hegel, Propedeuticafilosofica, cit., pp. 258-259. 52 Cfr. K. Marx, Grundrisse, cit.,pp. 26-28;Lineamenti,I, cit.,pp. 33-36.

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gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro parti­ colarità. E un etere particolare che determina il peso specifi­ co di tutta l’esistenza che in esso si differenzia, si distingue [Es ist ein besondrer Aether, der das spezifische Gewicht alles in him hervorstechenden Daseins bestimmt\>>^. Il tutto sociale che si enuclea dal didentro di tale sfera sovrastante le e domi­ nante rispetto alle sue articolazioni individuali, non può es­ sere adeguatamente letto per mezzo di concetti tradizionali, mediante gli strumenti della logica convenzionale (sistemica o legata alla non-contraddizione, al principio exclusi tertiì}. Il carattere estremamente rarefatto e metafisico della volta di cui parla Marx — o, per riprendere una metafora hegeliana, di una «sorgente luminosa» che è insieme centro e periferia delle differenze 53 54 — dà vita infatti a una struttura interna della società che esige di essere studiata, pena la sua totale inconoscibilità, attraverso nuove categorie interpretative,

53 Ibid.ibid., p. 34. 54 E sorprendente l’analogia, persino linguistica, tra l’immagine di Hegel e quella di Marx: cfr. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofìa, I, La Nuova Italia, Fi­ renze 1981, pp. 38-39. Esse testimoniano dello stretto e interno legame che intercor­ re tra i due sistemi di pensiero. In che modo e con quale grado d’intensità Marx si rapporti poi a Hegel è un problema che può essere deciso, ovviamente, solo da un’in­ terpretazione e da una coordinazione adeguate delle loro problematiche. Per quanto riguarda la metafora in questione, è evidente che essa, nella fattispecie, mette capo a un netto contrasto tra l’oggetto metafisico che vorrebbe designare e il rinvio all’espe­ rienza dei sensi che essa, per natura, deve fare per poter essere spiegata nelle sue ori­ gini. Il valore conoscitivo di questo «meccanismo semiotico», se esso non vuol essere solo un ornamento, diventa dicibile e rappresentabile, esprimibile e visibile, solo se l’enunciato metaforico viene tradotto in adeguati termini logici, in un discorso cioè capace di render conto della, e superare la, contrapposizione in cui esso, inevitabil­ mente, trattando del capitale e permettendo di trarre delle inferenze su di esso, è de­ stinato a cadere. La teori^xosaa^gni linguaggio, se vuole sviluppare delle asserzioni significanti e significative, non può probabilmente fare a meno della metafora, giac­ ché è proprio questa che le consente dì asserire qualcosa di superiore rispetto ale al di là del reale essente che la mente si trova davanti come a un fatto compiuto. L’impor­ tante, tuttavia, è sapere che questa funzione della metafora è nello stesso tempo af­ fetta da una contraddizione apparentemente logica, poiché essa discorre di un ogget­ to che non esiste nei termini in cui essa, soltanto, può renderlo dicibile.

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ad un tempo immanenti e non formali. È il pensiero del fuo­ ri — interno o esterno al marxismo — che è qui necessario mettere in discussione. Di contro a esso, per comprendere il capitale nei suoi meccanismi più intrinseci al, e invisibili nel, sussistere solo empirico del mondo, occorre cambiare problematica. Questa volta teorica deve prendere le mosse dalla critica del concetto (“cibernetico”) di interazione con cui.i diversi modelli messi a confronto — come abbiamo vi­ sto — hanno sempre analizzato le complesse interconnessio­ ni tra le differenziate istanze e i molti livelli dell’intero so­ cietario.

4. La crisi del paradigma dell'interazione, dell’azione recipro­ ca: il capitale come unità di produzione e circolazione imme­ diate

Tale tradizione di pensiero risale molto probabilmente a Engels 55, ma è stata poi ripresa e per così dire codificata senza variazioni di rilievo da tutto il marxismo successivo fino ai nostri giorni56. Essa gode dunque di uno status con­

55 Cfr. F. Engels, Antiduhring, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 25; Id., Dialet­ tica della natura, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 240-241. 56 C£r. ad esempio E. Grassi, L1«esposizione dialettica» nel Capitale di Marx, Ba­ silicata editrice, Roma-Matera 1976, pp., 24-32, pp. 63-70; M. Mugnai, limando ro­ vesciato. Contraddizione e «valore» in Marx, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 153-154, pp. 281-282; AA.W., Sur la dialectique, Editions sociales, Paris 1977. Nemmeno un pensatore della levatura di Deleuze, discutendo del processo mediante il quale la differenza, in Hegel, si pone, ha colto l’estrema complessità del concetto di opposi­ zione, dell’identità dei contrari: cfr. il suo Difference etrépétition, PUF, Paris 1985, pp. 62-65. Lo spessore teorico di questa categoria, d’altra parte, non è mai stato ana­ lizzato in tutta la sua intensità da nessuna scuola filosofica: diciamo dai più tardi stu­ di di H. Niel, De la mediation dans la philosophic de Hegel, Aubier, Paris 1945, pas­ sando per J. Hyppolite, Logique et existence, PUF, Paris 1953; Id., Etudes sur Marx et Hegel, Rivière, Paris 1955, di A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Galli­ mard, Paris 1947, fino a giungere ad Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970; Id., Tre studi su Hegel, H Mulino, Bologna 1971; E. Fleischmann, La logica di

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cettuale privilegiato e di una legittimazione storica che da sempre, si può dire, hanno fatto da barriera a ogni tentativo

Hegel, Einaudi, Torino 1975; H. Marcuse, L'ontologia di Hegel e lafondazione di una teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969; V. Verra, Introduzione a Hegel, Laterza, Bari 1988 (per non citare che alcuni tra i più significativi volumi di un’im­ mensa bibliografia). Questo stato della questione è comprensibile. Basti pensare che fino a oggi i paradigmi del sapere, interni o esterni al marxismo, non sono mai riusciti a correlare in modo significativo — impersonale — la natura dell’immanenza e il po­ tere di determinazione del capitale. Solo l’incontro e l’interpretazione di queste due idee-forti ha creato la possibilità di poter pensare e dispiegare, in modo differente che nel passato, i molti lati sistematici di quel concetto. Dal punto di vista di que­ st’ultimo, è ad un tempo a esso conforme e con esso in contrasto la concezione gene­ rale della conoscenza elaborata da Piaget nel suo Biologia e conoscenza, Einaudi, To­ rino 1983. Ciò che qui interessa, ovviamente, è il modello astratto sotteso alla com­ plessa argomentazione interpretativa in oggetto, il paradigma di riferimento che en­ tra dentro quest’ultima e la struttura dal suo interno. Piaget concepisce il rapporto tra l’ambiente e l’organismo in termini correlati­ vi, come un’unità di momenti in cui i due estremi della coppia sono dati simultanea­ mente. Non c’è, per la reciproca relazione tra i due elementi un «inizio assoluto» da cui far derivare la preminenza, il primato, dell’uono o dell’altro: essi si implicano a vicenda nella loro stretta interdipendenza. Organismo e ambiente vengono visti in­ teragire tra loro in modo orizzontale, alla pari, nell’ambito di un sistema di organiz­ zazione retto da interazioni circolari o cibernetiche. L’ambiente — nella contempo­ ranea esistenza di ambedue — proietta delle influenze esterne sull’organismo; que­ st’ultimo le assimila, se le incorpora, sottomettendole alle proprie condizioni interne preesistenti (che sono attive, autonome, spontanee). H continuo susseguirsi di tra­ sformazioni che scaturisce da quésta dinamica «interazionista», è ciò che Piaget defi­ nisce un processo «dialettico», un processo, cioè, caratterizzato dal permanente in­ terscambio di determinazióne che ha luogo nella costitutiva interferenza tra i due momenti. Tale concetto viene considerato da Piaget superiore rispetto all’armonia prestabilita delle dottrine preevoluzionistiche perché esso «supera» l’unilateralità delle opposte, complementari interpretazioni centrate ora sull’ambiente ora, alter­ nativamente, sull’organismo. L’idea della «mutua dipendenza» va oltre le vecchie concezioni perché essa realizza una sintesi che non è l’unione dei contrari, bensì una nozione nuova e differente dello sviluppo e della causalità biologica in generale. Alle serie lineari e nel contempo inverse ambiente-organismo, essa sostituisce un tipo di correlazione che mette in risalto tanto la natura attiva originale delle strutture quan­ to il loro necessario collegamento con il contesto esterno della selezione. Le cose, d’altro canto, non vanno diversamente per il rapporto tutto-parti. Nella «totalità relazionale» cui fa riferimento Piaget, infatti, c’è ima sostanziale reciprocità tra il ruolo del tutto e delle parti. Tra i due livelli corrono dei nessi d’in­ terdipendenza tali per cui una modificazione in uno di essi comporta necessariamen­ te una trasformazione dell’altro. Le varie parti differenziate sono necessarie al tutto così come quest’ultimo è indispensabile a quelle. Esso non è altro che il sistema costi-

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di riproblematizzarla. Apparsa sulla scena della pratica teo­ rica con tutta l’evidenza di un’idea corrispondente al reale

tuito dall’insieme delle composizioni dei differenti elementi. Il tutto non è un sem­ plice aggregato di condizioni preesistenti nella misura in cui ogni istanza o processo parziale non potrebbe esistere senza gli altri. D’altra parte, conclude Piaget, il tutto non rappresenta un’entità distinta dai mattoni che lo compongono. La differenza tra le due determinazioni, in fin dei conti, è solo di scala, in quanto, in definitiva, un tut­ to si organizza in parti, nell’ambito di un sistema d’insieme in cui, come in Angyal, i singoli elementi sono considerati subordinati alle relazioni complessive che costitui­ scono la totalità. Quest’ultima è una forma globale le cui interne legalità funzionano indipendentemente dalle proprietà individuali delle molte componenti: tale forma è il sistema stesso di tutte le interazioni coordinate, considerate a un livello più esteso e generale rispetto al loro sussistere isolato. Paradossalmente, dunque, le categorie qui schematicamente riassunte leggono il vivente con occhiali concettuali che risultano del tutto inadeguati nell’analisi della società. A ben vedere le cose, si potrebbe forse dire che il concetto filosofico di orga­ nico o sistema organico meglio degli altri si presta — o può contribuire — a rendere più complessa la stessa riflessione biologica. Almeno due ipotesi sono possibili. Si po­ trebbe sostenere che le categorie della biologia, scrutando un oggetto distinto da quello della teorizzazione sociologica, non hanno alcuna affinità né rapporti analogi­ ci o di contiguità con quelle della ricerca sociale, delle scienze sociali. D’altro canto, si potrebbe nello stesso tempo sostenere che — in modo forse più plausibile e convin­ cente, vista l’appartenenza della biologia, come branca specifica e specializzata del­ l’epistemologia, all’ambito sociale — la griglia concettuale del sapere biologico è an­ eli’essa un rispecchiamento fattuale — o di fatto, inintenzionalmente, impersonal­ mente — della realtà data dominante nella formazione sociale odierna. La coinciden­ za del modo in cui la biologia struttura i suoi concetti base e il modo di funzionamen­ to e di esistenza del reale effettuale capitalistico è forse un criterio interpretativo di correlazione tra scienza e società ben più efficace di quello formulato a suo tempo da Sohn-Rethel tra sapere atemporale e mercato: cfr. A. Sohn-Rethel, Lavoro intellet­ tuale e lavoro manuale, Feltrinelli, Milano 1979. Mentre nel capitale la circolazione mercantile si presenta come un risultato, perdendo dunque qualsiasi possibilità di rappresentare il fondamento di alcunché, nella nostra ipotesi il rapporto tra scienza e potere del capitale diventa più complesso e specifico, inedito, in quanto la determinazione di società inerirebbe all’epistemo­ logia in modo invisibile ed estremamente mediato, attraverso i meccanismi domi­ nanti nel sociale per mezzo dell’esser posto solo come tolto dei momenti concreti. In questa visione generalissima, il modello biologico appare come un calco perfetto, ma per sé irriconoscibile, delle modalità correlative e d’interconnessione tra gli oggetti e tra i processi predominanti nella realtà sociale. Come ogni altro sapere afferente alla società, anche quello biologico porta impressa nella sua struttura formale l’impronta del modo di riproduzione riflesso del capitale. Preso così com’esso è, senza la catego­ ria dell’immanenza, tale modello non può essere utilizzato per spiegare l’organizza­ zione societaria contemporanea visto che, al contrario, è quest’ultima a render conto

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andamento delle cose, detta categoria si è sempre presentata con i tratti già dati di un oggetto essente rappresentativo so­ lo di se stesso e non di qualcosa d’altro veicolato proprio dalla sua stessa autoidentità. Tanto nel rapporto della pro­ duzione immediata con gli altri momenti dello scambio, quanto nella correlazione della prima agli altri sottosistemi sociali57, l’interazione non fa altro che collegare dall’ester­ no, in modo formale, i diversi elementi presupposti della realtà attraverso il mezzo del condizionamento a vicenda. L’azione reciproca tra i differenti momenti è qui il criterio­ guida mediante il quale la società viene interpretata in qual­ che modo come un tutto unitario e al tempo stesso disugua­ le. In questa sorta di interrelazione di tutto con tutto, di

dei limiti e della stessa natura interna dei suoi concetti. I nuovi paradigmi emergenti, insomma, pensano il reale effettuale mediante categorie identiche al sussistere fat­ tuale di esso, in modo non differente da come quest’ultimo si presenta nella superfi­ cie del mondo provenendo dalla mediazione, dalla sua più interna ragion d’essere rappresentata dalla potenza unilaterale determinante e sovrastante del capitale ri­ spetto ai suoi modi d’esistenza. D’altra parte, bisogna riconoscere che vi è qui una sorta di necessaria impasse, perché nella misura in cui la biologia studia un corpo em­ pirico-naturale, una forma vivente, essa lo può fare solo mediante sistemi concettuali corrispondenti, simmetrici, all*autoevidenza degli oggetti che essa si pone davanti. Facendo ciò, evidentemente, essa non può pensare il suo individuo reale attraverso i concetti dell’immanenza, perché questi ultimi muovono proprio dall’idea che dentro gli oggetti e le loro interrelazioni vi sia qualcosa di imperscrutabile, di intrinseco, na­ scosto in essi, da cui questi ultimi dipendono. Per rinunciare alla metafisica — la lo­ gica, afferma Piaget, esige che ci si attenga rigorosamente al principio di non contrad­ dizione — la scienza si priva così dell’opportunità di leggere la sua materia mediante codici diversi dall’empirismo. Qui vale la “legge” che quanto più ci si allontana dall’Assoluto, benché relativo solo al capitale, tanto più ci si autopreclude la possibilità d’interrogare il reale in modo differente da come esso, immediatamente, appare. È questa una forma di pensiero fin de siede che è stata molto probabilmente per la pri­ ma volta codificata da Cassirer nel suo Sostanza efunzione, La Nuova Italia, Firenze 1973. 57 Per il primo nesso si vedano i seguenti testi: M. Dal Pra, La dialettica in Marx, Bari, Laterza 1997, pp. 283 e sgg.; AA.W., L’opera e l’eredità di Hegel, Later­ za, Bari 1974; AA.W., Marx: un secolo, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 53-76; R. Panzieri, La ripresa del marxismo leninismo in Italia, cit., p. 255; L. Althusser, Per Marx, cit., p. 183. Per il secondo non mi resta che rinviare ai capitoli precedenti ed a quelle concezioni che ivi sono state criticate.

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ciascun individuo con tutti gli altri per mezzo della mutua influenza su ognuno, il marxismo è potuto uscire dall’appa­ rente circolarità della determinazione solo mediante l’attri­ buzione del primato — tra i molti complessi societari — alla produzione, a quel livello particolare della società, cioè, in cui si è sempre visto prender forma lo sfruttamento, la natu­ ra e l’articolazione delle classi o l’appropriazione, mediata dalla tecnologia, del mondo degli oggetti, dei valori d’uso per la soddisfazione dei bisogni 58. L’unilateralità di questa visione si mostra da sé. Essa ha potuto sostenersi e trovare una sua corroborazione storica finché i suoi fondamenti — o biologici o politico/ideologici — sono rimasti al di fuori dell’indàgine critica, coperti dalla spessa coltre neutralizzante che questa stessa pratica teorica aveva depositato su quelli per porsi come tale, come com­ piuta categorizzazione del sussistente secondo un principio complesso di strutturazione dell’attuale formazione sociale. Paradossalmente, confinate le sue premesse nell’ambito del­ la datità, questo modello ha finito con l’approdare a un ri­ sultato rovesciato rispetto ai suoi propositi iniziali, sot­ traendo all’analisi della società proprio ciò che invece per­ mette di pensarla in modo adeguato al suo interno motore differenziante. Una volta entrati in crisi i suoi referenti, una volta dimostrato il carattere interiormente derivato di ciò da cui si partiva, esso ha lasciato venire alla luce due ul­ teriori limiti fondamentali che vieppiù contribuiscono a

58 Cfr. ad esempio, per la tradizione marxista italiana più intelligente, R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pp. 51-85; id., La ripresa del marxi­ smo leninismo in Italia, cit., pp. 329-364. Un corrispettivo francese di questa inter­ pretazione, per quanto riguarda — come si esprime Panzieri — l’intreccio tra tecnica e potere, nel lavoro di B. Coriat, Technique et Capital, cit., pp. 17-20, p. 103, pp. 185-186 (ma si veda praticamente tutto il libro). Del medesimo cfr. infine: La robotique, La Découverte, Paris 1984; L'atelier et le robot, Bourgois, Paris 1990; «Penserà l'envers», Bourgois, Paris 1991.

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render conto della sua inadeguatezza teorica di fronte alla specificità del potere del capitale. In primo luogo, lo abbiamo accennato, il paradigma del­ l’interazione concepisce le diverse e diversificate interrela­ zioni che costituiscono il fitto reticolo degli interscambi tra i molteplici momenti societari secondo il criterio forma­ lismo. Ogni sottosistema sociale agisce e retroagisce dal di fuori con il proprio ambiente, con l’altro sistema parziale con cui confina e al quale sta accanto. Manca qui totalmente — persino nella forma più raffinata e elaborata di questo concetto, quella dei «correlati necessari» — l’idea dell’im­ manenza di ciascun lato all’altro attraverso il medio dell’es­ ser posto in modo tolto. In secondo luogo, quel tipo di nesso rafforza e potenzia la lacuna che gli inerisce, costitutiva­ mente, non appena esso viene pensato come vera e propria causa finalis delle cose, come un rapporto al di là del quale nient’altro vi è da ricercare. Fissata come un alcunché die­ tro il quale nulla vi è da conoscere, come un dato oltre il quale non è possibile risalire, la relazione per interazione fa sparire definitivamente dal suo orizzonte di visibilità la causa che l’ha prodotta, togliendo in pari tempo al pensiero ogni possibilità di pensare il suo originario processo d’istitu­ zione. Da elemento posto e dipendente da qualcosa d’altro essa diventa un suolo da cui — tanto nella realtà quanto nel­ la conoscenza — tutto viene fatto cominciare. E, di nuovo, il predominio della fattualità, da cui la teorizzazione riceve il suo imprimatur persino nel medesimo linguaggio topologi­ co (sotto, dietro, ecc.) con cui essa esprime il tratto autofon­ dato del suo oggetto, linguaggio che simultaneamente legit­ tima e attesta l’impossibilità di tematizzare Tessente in mo­ do differente dal suo darsi-proprio-così. Per dare una rispo­ sta in qualche modo alternativa al, esplicativa del, duplice risultato aporetico cui mette capo la categoria in questione, è invece indispensabile rompere con il suo terreno d’analisi (la superficie, l’orizzontale) ed entrare dentro l’apparente

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aspetto autoreferente dell’azione reciproca vigente nella se­ zione economica della totalità sociale. In questo dominio, a un primo sguardo, potrebbe sem­ brare che le correlazioni tra i diversi momenti — produzio­ ne, distribuzione, scambio, consumo — abbiano luogo at­ traverso la regola generale dell’interdipendenza, un proces­ so messo in moto e costantemente ripetuto dalla reazione di ciascuno nei confronti dell’altro. Per molti versi, anzi, i rap­ porti tra queste differenti istanze sociali potrebbero appari­ re con tutte le sembianze di un sillogismo, di un circolo chiuso su se stesso ed eternamente mosso dalla propria dina­ mica, dall’interscambio stesso delle singole fasi, dalla reite­ razione dell’intero ciclo a partire dagli impulsi trasmessi a catena da ognuna all’altra. La prima obiezione che Marx muove a questo tipo d’unità è di essere una connessione su­ perficiale, una sintesi non in grado di spiegare il sussistere autonomo e indipendente di ogni momento al di fuori del­ l’altro59. Ad un’analisi più attenta è invece possibile scor­ gere che ciascun elemento è immediatamente il suo contra­ rio (Jede ist unmittelbar ihr Gegenteil) all’interno di un movi­ mento di mediazione estremamente specifico che trasforma profondamente i loro caratteri speculari, apparentemente paritari e dati ad un tempo, ambedue, come necessari. A guardare le cose più da vicino, ci si accorge ben presto che l’identità immediata 60 dei molti momenti rappresenta piut­ tosto una relazione particolare, in cui ciascuno dei due ter­ mini di ogni coppia parziale si presenta come mezzo dell’al­ tro (jede erscheint als Mittel der andrerì), come mediato dal­ l’altro (jede wird von ihr vermittelt). Ciò dà vita alla loro reci­ proca dipendenza (ihre wechselseitìge Abhdngigkeit), a un

59 C£r. K. Marx, Grundrisse, cit., pp. 10-11, pp. 15-16; Lineamenti, I, cit., pp. 12-13, p. 19. 60 Ibid., pp. 12-14; ibid., pp. 15-17.

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processo attraverso il quale essi vengono posti in mutuo rap­ porto, in modo da apparire come reciprocamente indispen­ sabili pur rimanendo tuttavia ancora esterni l’uno all’altro. D’altro canto, questa prima unificazione formale viene ol­ trepassata dall’ulteriore sviluppo della determinazione che le inerisce, viene per così dire trasmutata da sé nel suo op­ posto, conformemente al principio di partenza. Adesso cia­ scuno dei momenti — oltre a essere immediatamente l’altro e il mediatore dell’altro — realizzandosi crea l’altro, si rea­ lizza come l’altro. Il dualismo con cui l’economia politica interpretava le interrelazioni tra i vari elementi del sottosistema economico è stato qui tolto e sostituito con un tipo di correlazione in cui ogni individuo è interno all’altro, afferisce all’altro come al suo proprio doppio. In questo processo di crescente de­ terminazione né gli estremi coincidono più l’imo con l’altro, né essi fanno valere più i loro rapporti per il tramite dell’in­ dipendente per sé stare di ciascuno nei confronti dell’altro. Identità e formalismo sono stati qui superati in urna forma di relazione che tanto ha posto i momenti attraverso la loro indissociabilità, quanto ha tolto il processo che li ha istitui­ ti, contemporaneamente, sia come reciprocamente imma­ nenti sia come istanze prive del loro fondamento sociale de­ terminato. Il concetto di opposizione, differentemente dalla versione riduttiva che ne è sempre stata data, è precisamen­ te la categoria in cui si condensano i tre significati enunciati sopra. L’opposizione, nel mentre produce e dispiega l’inte­ riorità di ogni momento al suo altro, nel mentre dà forma a una correlazione reale, in pari tempo rappresenta anche l’ef­ fetto più intensivo del modo in cui il capitale struttura di sé la realtà contemporanea. E quest’ultimo, infatti, a presen­ tarsi come la causa prima della connessione societaria, come ciò che sparendo dal davanti della scena fa apparire i molte­ plici e differenziati rapporti tra i momenti dell’interrelazio­ ne complessiva come rapporti retti dal nesso per interazio­

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ne. Poiché il capitale si pone solo togliendosi, ecco che il proscenio sociale può ora essere occupato soltanto dall’azio­ ne reciproca, da quel tipo di interconnessione, cioè, che ri­ sulta alla fine di tutto il processo di mediazione. Nel suo ambito, l’interscambio dei condizionamenti appare come un flusso di determinazione che trascorre o può trascorrere in­ differentemente in ciascun momento senza mai dare luogo a una sua solidificazione istituzionale in' un’istanza singola data o alternativamente fissandosi invece, a seconda dei modelli teorici, in un apparato sociale, o in uno stato di fat­ to, cui viene conferita allora una natura superiore rispetto al carattere e all’agire degli altri. Nella realtà mediata dal capi­ tale è evidente che le cose stanno ben diversamente. In tutti e due i casi, infatti, manca qualsivoglia riferimento al fonda­ mento sociale che in quei caratteri si rappresenta come nei propri modi d’esistenza, dandosi nel contempo un concreto corpo societario di tipo storicamente specifico. Qui, ovvia­ mente, il concetto di capitale non è, immediatamente, la sua realtà. Questa semplice constatazione teorica è decisiva per ben comprendere lo spessore concettuale che assume in. Marx il concetto di produzione. Quest’ultimo non ha nien­ te a che vedere con l’autoevidenza empirica che esso ha as­ sunto in forme diverse sostanzialmente equivalenti nella tradizione marxista. L’attività lavorativa sussunta al capitale, infatti, si pre­ senta per così dire due volte sulla scena sociale, tanto come una produzione che determina la inter-cooperazione dei molti momenti del sistema economico complessivo, quanto come una parte di esso «surdeterminata» a sua volta dalle al­ tre istanze. Contrariamente a quanto prima facie si potrebbe pensare, non si è di fronte al medesimo oggetto, una volta considerato nella sua dimensione parziale, un’altra nella sua figura dominante. Nella realtà effettuale ha esistenza solo la «produzione immediata», mentre la produzione come cate­ goria compare soltanto nei suoi effetti, come la radice invi­

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sibile di ciò che nell’essere sociale sembra sussistere solo in virtù di sé e nella propria interazione con l’altro. Il primato qui è dato precisamente da questa natura della determina­ zione che sdoppia la produzione in un qualcosa di essente e in un fondamento sovrastante i e preesistente ai suoi risulta­ ti. Mentre quest’ultimo si pone nei confronti dei propri ele­ menti reali come loro ragion d’essere dileguata, come ciò da cui essi dipendono e a cui sono vincolati, nella prima sfera dominano relazioni di tipo solo formale, in quanto le molte­ plici fasi del ciclo d’insieme possono interagire tra loro sol­ tanto dall’esterno di ognuna. Solo in questo livello, dunque, può vigere il criterio dell’azione reciproca, perché solo qui le differenti condizioni possono comportarsi in modo relati­ vamente autonomo e far.giocare nei loro rapporti un tipo flessibile e continuamente — potenzialmente — cangiante e variabile d’interconnessione. Tutte, le singole determinazioni di questo sottosistema sociale si presentano quindi come momenti di un processo in cui la produzione, secondo il suo concetto, è l’effettuale punto di partenza e perciò anche il momento predominante e comprensivo, unificante (die Produktion ist der wirkliche Ausgangspunkt und darum auch das ubergreifende Moment), delle loro complesse interrelazioni. A ben vedere le cose, tutte le componenti dell’economico rappresentano delle for­ me del tutto interne alla riproduzione capitalistica, sono dei modi di riproduzione del capitale che quest’ultimo racchiu­ de in sé come sue proprie immanenti membra societarie proiettate nel suo fuori e in questa cornice esterna aventi la loro esistenza compiuta. Il risultato cui perviene questa interpretazione non fa delle molteplici stanze del sottosiste­ ma economia un’unica identità. Essa, al contrario, ritiene che tali istanze costituiscano tutte delle articolazioni di una totalità, differenze all’interno di un’unità (sie alle bilden Glieder einer Totalitàt, Unterschiede innerhalb einer Einheit). In questo contesto, la produzione in quanto tale per Marx si

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estende, comprendendo in sé questo movimento, tanto a se stessa, nella determinazione opposta della produzione, quanto agli altri momenti (Die Produktion greift iiber, sowohl iiber sich in der gegensdtzlichen Restimmung der Produktion, als iiber die andren Momenté): è da essa che l’intero processo ricomincia sempre di nuovo. Specificata in questo modo, la riproduzione del capitale appare capace tanto di determina­ re i .singoli, parziali momenti della circolazione complessiva e i loro rapporti reciproci, quanto di far «surdeterminare» da parte di detti momenti la stessa forma unilaterale dell’at­ tività lavorativa61. Tanto i complessi individuali quanto le loro correlazioni generali dipendono dalla, e si presentano come una emanazione della, totalità sociale a essi anteposta e sovraordinata che nella loro immediatezza ha trovato mo­ di di mediarsi, di realizzarsi, in forma inedita, conforme­ mente a una classica aspirazione atemporale del dominio: sparire mentre si pone. L’organizzazione societaria che emerge da questa strut­ tura interna del capitale rappresenta un «tutto organico» (prganisches Ganze) nell’ambito del quale soltanto tra i di­

61 C£r. ibid., pp. 15-16, pp. 19-21; ibid., pp. 18-19, pp. 25-26. In questi densi luoghi teorici, com’è evidente, ho tradotto in modo del tutto differente il complesso vocabolo impiegato da Marx per esprimere il potere di determinazione del capitale ed esporre, in qualche modo, contestualmente, il suo effettuale processo d’istituzio­ ne. Nelle migliori traduzioni italiane disponibili — si veda quella già citata di Einau­ di, della Nuova Italia, o quella curata da Merker, Scritti economici di KarlMarx, luglio 1857-febbraio 1858, Editori Riuniti, Roma 1986 —, il termine è sempre stato reso in modo inadeguato, o come «elemento predominante» o come «momento egemonico». Ne II Capitale, Cantimori lo traduce addirittura con «soggetto prepotente [das ùbergreifendeSubjekt}'»-. cfr. K. Marx, Das Kapital, I, cit., p. 169; Il Capitale, I, cit., p. 186. Non si tratta qui, ovviamente, di voler insistere con eccessiva pedanteria sull’accura­ tezza della traduzione, né di voler restaurare presunti contenuti originari del discor­ so marxiano. H fatto è che la categoria in oggetto — ciò che è das Uebergreifende (cfr. K. Marx, Gnmdrisse, cit., pp. 15-21; Lineamenti, I, cit., pp. 17-27) — possiede un suo spessore semantico che va perduto se non si riesce a esplicitare e a portare alla lu­ ce — come in un vero e proprio scavo di un sito archeologico (qui sistematico) — i di­ versi livelli cognitivi e di significato che gli ineriscono.

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versi momenti è possibile che possa esercitarsi un’azione re­ ciproca (Wechselwirkung) 6263 . Quest’ultima può trovare una sua peculiare attualizzazione perché la causa di cui essa è ef­ fetto non compare nel mondo empirico dominato da que­ st’ultimo. Proprio grazie al fatto che è questa interrelazione data a permeare di sé l’intero orizzonte societario non si può far derivare da essa i suoi principi costitutivi. Come per le altre categorie discusse, anche l’apparente autoidentità di questa non fa altro, in definitiva, che rinviare a un diverso fondamento di cui essa è risultato e dal quale è internamen­ te condizionata proprio nella sua apparente indipendenza da alcunché. Ciò vuol dire naturalmente che la totalità orga­ nica è un tipo d’unità sociale completamente differente dai vecchi paradigmi che le scienze sociali e il marxismo hanno messo in campo — ora in competizione ora in parallelo — per l’esplicazione delle dinamiche strutturali della società. Una volta che i rapporti di produzione capitalistici hanno conficcato nell’apparato macchinico dei processi di lavoro la loro radice riproduttiva, il potere di determinazione del ca­ pitale raggiunge il suo apice nel suo porsi, da sé, come sintesi reale inedita e metafisica delle forme diffuse nel sociale in cui esso ha un’esistenza e un corpo storico determinati: «Si è visto che all’origine la produzione basata sul capitale par­ tiva dalla circolazione; noi ora vediamo come essa ponga la circolazione come sua stessa condizione, e ponga tanto il processo di produzione nella sua immediatezza come mo­ mento del processo di circolazione, quanto il processo di cir­ colazione come una fase del processo di produzione, nella sua totalità \ìn seiner Totalità!]» Il capitale come tale, il capitale colto nel suo modo globale di funzionamento, come

62 ibid. 63 Ibid.,^. 441;ibid., II, p. 185.

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ciclo societario d’insieme 64, esiste e può esistere solo come azione e retroazione di ima molteplicità di capitali singoli, che interagiscono l’uno con l’altro, dunque tanto come pro­ duzione diretta quanto come concorrenza, mercato, scam­ bio nella sua interezza. La natura interna del capitale, la sua determinazione es­ senziale, può apparire e realizzarsi soltanto come interazio­ ne delle molte istanze relativamente autonome che esso ha disposto nel suo fuori. Considerato che esso pone la tenden­ za interna come necessità esterna, la sua autodeterminazio­ ne può presentarsi esclusivamente nei modi dell’azione reci­ proca tra una molteplicità di parti che sembrano senza fon­ damento65. Il capitale nel suo concetto generale (sein allgemeiner Begriff) 66 può concretamente sussistere solo in ma­ niera empirica, determinato nel modo anzidetto, ma corpo­ samente visibile e palpabile solo in forme belle e pronte, già date. Il processo di produzione complessivo del capitale in­ clude tanto il vero e proprio processo di circolazione quanto il vero e proprio processo di produzione. Essi costituiscono i due grandi settori del suo movimento unitario, il quale si presenta come totalità (als Totalitdt) di questi due proces­ si 67. Quando esso viene interpretato attraverso queste de­ terminazioni, allora appare chiaro che quel divenire — la totalità del movimento — costituisce un’unica identità di tempo di lavoro e tempo di circolazione, un tutto di produ­ zione e scambio complessivo: «Il capitale si presenta come unità, in processo, della produzione e della circolazione, un’unità che può essere considerata sia come totalità \als das Ganze] del suo processo di produzione, sia come determina-

64 65 66 67

Ibid., pp. 416-417; ibid.:, p. 152. Ibid., pp. 316-317; ibid., p. 17. Ibid., p. 419; ibid.,p. 156. Ibid., pp. 513-514;ibid., pp. 290-291.

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to processo di una sola rotazione del capitale, di un unico movimento che ritorna in se stesso» 68. Come soggetto pre­ dominante e unificante (iibergreifendes Subjekt) di tale dina­ mica, come soggetto di quelle trasformazioni che procedono circolarmente — a spirale 69 —, il capitale è capitale circo­ lante 70. In questa sua specifica e inedita veste, il capitale rappresenta un tipo estremamente intenso di determinazio­ ne, poiché esso percorre tutte le sue differenti fasi come dentro un continuum posto da sé. Esso stesso è il passaggio — non sempre fluido (visto che nel capitale circolante, in processo, rientra in linea di principio tanto la continuità quanto la sua interruzione) — da una fase all’altra: il capita­ le una volta si pone come produzione immediata, un’altra come circolazione, ed è appunto il movimento del porsi da sé in questa doppia figura e del mantenersi in ciascuna di es­ se come opposto dell’altra. È cioè esso medesimo come diffe­ renza da sé in quanto unità 71. L’estrema complessità della logica marxiana enuncia qui un concetto la cui sottigliezza sistematica rinvia direttamen­ te alla densità teologica delle categorie hegeliane. Avendo già a suo tempo mostrato i diversi livelli e le discontinuità del rapporto Hegel/Marx, tale antefatto ci esime adesso dal ripercorrerne la storia teorica; che in questo Marx vi sia un certo Hegel è una cosa che qui dobbiamo dare per sconta­ ta 72. Il ragionamento marxiano, dunque, ci ha mostrato che il capitale è V unità immediata {unmittelbare Einheit} della cir­ colazione e della produzione. Esso stesso, anzi, a sua volta,

68 IZ>zd.,p. 514;p. 291. 69 Cfr. ibid., pp. 177-178, p. 570, p. 632; ibid., I, pp. 243-244; II, p. 369, p.

457. 70 Cfr. ibid., p. 514; ibid., II, p. 291. 71 Ibid., pp. 514-515; ibid., pp. 292-293. 72. Il riferimento è ad alcuni miei precedenti lavori, in parte pubblicati, in parte non ancora.

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è «un immediato \ein Unmittelbares}, e il suo sviluppo consi­ ste nel porre e superare \zu setzen und aufzubeberi\ se stesso come siffatta unità — che è posta come rapporto determina­ to e perciò semplice. L’unità si presenta dapprima nel capi­ tale come qualcosa di semplice» 7374 . Il capitale porrà in esi­ stenza l’uscita da questo grembo iniziale — come Marx stesso precisa — attraverso la mediazione dell’esser posto in modo tolto delle istanze del reale. Come l’essenza hegelia­ na, ma ad un tempo in modo da essa distinto, la semplicità, l’assenza di determinazione non è una condizione in cui il capitale possa essere confinato, uno status conforme alla sua immanente natura processuale. L’immediatezza rappresen­ ta una forma d’essere in cui il capitale contiene in sé tutte le determinatezze dell’esistenza, ma non come vi son poste. Sarà la dinamica della negazione a porre per la prima volta il capitale in un modo a sé adeguato. Realizzandosi mediante il suo movimento interno, per mezzo del suo sviluppo inte­ riore, il capitale attua il suo passaggio ai capitali individuali, ai capitali reali dimoranti nell’affrontamento concorrenzia­ le. In quest’ultima forma il capitale secondo il suo concetto si scinde dunque in due capitali con sussistenza autonoma. Con la duplicità è poi data in generale la pluralità. Il capita­ le in generale (das Kapital im Allgemeinerì}, diversamente dai molti capitali parziali, si presenta perciò «1) soltanto come un’astrazione, non è un’astrazione arbitraria bensì un’astra­ zione che coglie la differentia specifica del capitale rispetto a tutte le altre forme di ricchezza o modi di sviluppo della produzione (sociale); 2) ma il capitale in generale a differen­ za dei particolari capitali reali è esso stesso un’esistenza rea­ le»1**, Tale densa duplicazione — un doppio porre (das

73 Cfr. K. Marx, Gnmdrisse, cit., pp. 238-239;Lineamenti, I, dt., pp. 327-328. 74 Ibid., p. 353; ibid., Il, p. 67. L’ultimo corsivo, anche se non è riportato nel­ l’edizione italiana, è di Marx.

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Doppelt-Setzerì) — ha, com’è evidente, un carattere preva­ lentemente teorico più che economico, in quanto il momen­ to generale (das Allgemeiné) per un verso è soltanto una dif­ ferentia specifica di natura logica, nello stesso tempo questa è una particolare forma reale accanto (dentro) alla forma deh T individuale e del singolare che appare nella circolazione 75. La produzione basata sul capitale, in altre parole, fa valere le proprie leggi interne solo nel livello superficiale della «ne­ cessità esterna» — del processo compiuto —, in cui ciò che avviene non è nient’altro che questo: i molteplici capitali si impongono reciprocamente e impongono a se stessi le deter­ minazioni immanenti (die immanenten Bestimmungen) del capitale 76. Il mondo empirico che sorge dal processo dell’u­ nità semplice è tutt’altra cosa dalla realtà che pertiene al ca­ pitale in quanto tale. Considerato come tale, quest’ultimo costituisce qualcosa di ben diverso dall’azione reciproca dei molti capitali in competizione, in quanto essi hanno ricevu­ to una nuova determinazione nel passare nel di fuori nel giungere a esistenza. In quest’ambito orizzontale tutte le determinazioni del­ l’essere sociale si presentano in maniera invertita rispetto al­ la posizione che esse hanno nel capitale in generale (das Ka­ pital im Allgemeinerì). Le forme mercantili — più propria­ mente, tutte le forme del ciclo complessivo del capitale — sembrano infatti fare esclusivo riferimento alla propria na­ tura e al proprio movimento nella determinazione dei loro caratteri specifici. Tanto il loro essere individuale quanto le loro complesse interrelazioni sembrano poggiare su, e pro­ manare da, se stesse. Al contrario, invece, l’azione apparen­ temente indipendente dei singoli e il loro scontrarsi senza una regola — o, se si vuole, a partire dalle proprie volontà

75 Ibid.;ibid.,p. 68. 76 Ibid., pp. 542-545; ibid., pp. 331-335.

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(strategie, accordi, imperii, ecc.) — non è altro che il porre la loro legge generale (das Setzen ihres allgemeinen Gesetzes). L’azione reciproca dei differenti, non coordinati capitali di­ venta il loro porsi come generali, ed è appunto — per quan­ to paradossale ciò possa sembrare — precisamente la sop­ pressione (Aufhebung) dell’apparente indipendenza e del­ l’autonoma esistenza dei singoli77.

5. La società come sistema organico

Le preziose distinzioni marxiane hanno quindi introdot­ to una serie di categorie che hanno fortemente riproblema­ tizzato le vecchie interpretazioni tramandateci dalla tradi­ zione. Lo spessore inusuale dei concetti incontrati ridefini­ sce molte delle questioni che da sempre hanno occupato il pensiero marxista. Il capitale nell’accezione ideale di Marx ha infatti assunto tutti i tratti di un concetto nuovo che può forse contribuire a portare una luce più intensa nella strut­ tura societaria e nei suoi processi di trasformazione. Essen­ ziale è comprendere che il capitale possiede ima sua dimen­ sione metafisica profonda, distinta da e antecedente per co­ sì dire rispetto a quella che esso si dà alla superficie della so­ cietà. In questa sua natura immanente il capitale esprime al­ la massima potenza la sua funzione di mediazione dei lati in cui sussiste. Esso è il vertice che si presenta sempre come rapporto economico completo, perché abbraccia gli opposti (es fasst die Gegensdtze zusammerì} e appare infine come una potenza unilaterale superiore di fronte agli stessi termini re­ lati. Il capitale, nel concreto di conoscenza marxiano, «si presenta come mediazione con se stesso, come il soggetto i cui momenti sono soltanto gli estremi, di cui esso nega la

77 Ibid., pp. 549-550; ibid., p. 342.

171 posizione autonoma presupposta [deren selbstàndige Voraussetzung es aufhebt} per porsi, attraverso questa loro negazio­ ne stessa [durch ihre Aufhebung selbst], come unico soggetto autonomo» 78. Concepito in questo modo, è evidente che l’ordine so­ cietario del capitale rappresenta un’unità in cui le diverse parti costituiscono dei momenti internamente interconnessi e strutturati a dominante. Differentemente da quanto cre­ deva Luhmann 79, l’organismo sociale contemporaneo è un tutto in cui le parti non sono alcunché per sé, ma hanno esi­ stenza concreta nel tutto e per mezzo del tutto. D’altro can­ to, il tutto è, ugualmente, per mezzo delle parti, che lo rea­ lizzano attraverso quel processo di mediazione che fa di ogni elemento posto, nello stesso tempo, un presupposto. Qui il tutto è un «sistema organico»: «Questo sistema orga­ nico [dies organische System} stesso come totalità ha i suoi presupposti, e il suo sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinare a sé tutti gli elementi della società o di ricavare da essa gli organi che ancora gli mancano. In tal modo esso diventa totalità storicamente» 80. Le molteplici e differen­ ziate istanze che abitano la società, i processi che dinamiz­ zano i loro svariati e interdipendenti rapporti, rappresenta­ no dei momenti e delle correlazioni che nella loro autoiden­ tità immediata non fanno altro che dare esistenza solida alla riproduzione del capitale. Ciò può essere considerato, ad avviso di Marx, come l’interno movimento organico del ca­ pitale, la sua relazione con sé, rispetto al suo movimento animale, al suo esistere-per-altro 81. Esso, in altri termini,

78 I£/d.,p.237;z'Z?/7/.J I, p. 326. 79 Habermas-Luhmann, Teoria, cit., p. 61, p. 252. 80 Cfr. K. Marx, Grundrisse,cit.,pp. 188-189;Lineamenti, I,cit.,pp.258-260. 81 Ibid., p. 572; ibid., II, p. 372. Inutile dire che la terminologia, così come cer­ te categorie, dell’oggetto di conoscenza marxiano hanno un evidente referente in quelle di Hegel: cfr. ad esempio Introduzione alla storia della filosofìa, Laterza, Bari

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pone la propria realtà non come essere-per-sé, ma come me­ ro essere-per-altro, e perciò anche come pure e semplice essere-di-altro o essere-deli’altro in opposizione a sé medesi­ mo. Disponendo le sue parti e le loro interrelazioni nel suo «fuori», il capitale può controllarle e sottoporle alla sua lega­ lità intrinseca (e per esse, insieme, recondita) dall’alto della sua posizione irriconoscibile e primaria rispetto a esse. ■•Nell’ambito del contesto «organico», come dovrebbe es­ ser chiaro, non ha luogo né potrebbe prender forma alcuna armonizzazione dei rapporti intersistemici, in quanto i di­ versificati e specializzati sottosistemi possono rapportarsi l’un con l’altro e costruire la loro cornice societaria solo in modo simultaneamente incoerente e coerente, conforme­ mente alla loro natura di momenti mediati attraverso lo spa­ rire della mediazione 82. Cascun sistema parziale può intera­ gire con gli altri e leggere le proprie molteplici interdipen­ denze solo a partire dalla razionalità individuale che gli è stata assegnata, all’interno di un ambiente più complessivo che non è esso a porre e nel quale si trova, insieme, tanto confinato quanto libero di comportarsi sua sponte. Ogni istanza del tutto può conoscere le altre, può correlarsi a esse — o per mezzo del senso o dell’intelletto politico o median­ te qualsivoglia altro criterio — soltanto dovendo dare per

1982, pp. 66-67, pp. 79-83; Enciclopedia delle scienzefilosofiche, I, dt., pp. 335-368; Propedeutica filosofica, dt., pp. 150-152, pp. 198-201, pp. 209-2Ì2; Fenomenologia dello spirito, I, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 214 e sgg. 82 Hegel è il filosofo che più di ogni altro ha pensato a un’altezza straordinaria questo processo. Eccone, tra i tanti che si potrebbero citare, un esempio: «dò che è come mediatore sparisce, e così in questa mediazione stessa, è tolta la mediazione [was als das Vermittelnde ist, verschwindet, und damit in dieser Vermittlung selbst die Vermittlungaufgehoben wird\», in Enzyklopàdie der philosophischen Wissenschaften, Meiner Verlag, Hamburg 1975, p. 76; trad, it., Enciclopedia delle scienzefilosofiche, I, cit., p. 62 (d’ora in avanti: Enzyklopàdie; Enciclopedia). Sono queste le categorizzazioni del reale che occorrerebbe ripensate in modo differente dalla vulgata, marxi­ sta e grande borghese, per tentare di avviare e strutturare un’analisi della società cor­ rispondente alla complessità contemporanea — processuale — di quest’ultima.

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scontata la presenza di una delimitazione poco deformabile dalle, e irriducibile alle, pratiche intenzionali dei singoli sot­ tosistemi. Avendo il capitale tolto dall’ambito di dominio dei molti individui (imprese, partiti politici, apparati, Stato, ecc.) il loro fondamento originario e vincolante, questi ulti­ mi possono mettere capo unicamente a un mondo, a una forma societaria necessariamente caratterizzata dall’instabi­ lità e da un apparente oggettivismo imponentesi al di sopra dei loro disegni progettuali. In realtà, le diverse e stratificate forme sociali finiscono con il produrre un simile risultato soltanto perché, costituti­ vamente, paradossalmente, non sono esse ad agire e a diri­ gere la loro attività nel mentre si comportano secondo ragio­ ne. Esse, simultaneamente, in tanto esperiscono delle prati­ che regolative ispirate esclusivamente a propri principi di funzionamento in quanto sono agite da questi ultimi, i quali costituiscono precisamente il medio societario che consente al capitale tanto di farle esistere in modo tra loro relativa­ mente autonomo quanto di subordinarle a sé in maniera vieppiù intensiva mediante l’autoriferimento che inerisce a ciascuna. In questo contesto, tanto la «seconda natura» di Lukàcs, quanto il «tutto già dato» di Althusser, quanto, in­ fine, il «sistema globale» di Luhmann, non sono altro in de­ finitiva che Interi evanescenti, rispettivamente né oggetti­ vamente risultanti alla fine del loro processo istitutivo, né di per sé preliminarmente sussistenti, né intenzionalmente (sensivamente) posti dalle parti. Tutti questi modelli, in un modo o nell’altro, non riescono a distinguere in modo signi­ ficativo la Totalità dalle sue istanze o sottosistemi, facendo­ la continuamente scaturire dall’inter-retro-azione combina­ ta indiretta dei suoi molti elementi. Che questo avvenga per mezzo di razionalità diverse niente cambia al fatto che ognuna di esse viene vista contribuire in prima persona e in modo costitutivo alla realizzazione dell’edificio complessi­ vo, di cui ciascuna porrebbe i differenti e per posizione dif­

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ferenziati mattoni. In primo luogo, invece,, le molteplici parti dell’insieme non possono — né, all’interno della for­ mazione sociale contemporanea, mai potranno — essere identificate con momenti capaci di porre da sé, spontanea­ mente o progettualmente, direttamente o in percorsi molto mediati, la loro sintesi. E quest’ultima, all’inverso, a usare i propri modi sociali quali vie preferenziali per riprodurre ininterrottamente solo se stessa. Ciò facendo, infatti, essa non ha bisogno di comparire nell’ambito di tale processo, né lungo le sue distinte fasi, né all’imzio di esse né alla loro, sempre temporanea, conclusione. E un potente principio di legittimazione che qui si realizza. Mentre le diverse istanze societarie agiscono, mentre svolgono le loro differenziate e interconnesse funzioni, esse simultaneamente vengono agite dalla loro stessa azione. Tutto accade realmente come se i molti sottosistemi societa­ ri, reagendo di fronte ai problemi e comportandosi in modo esclusivamente concordante con le loro regole interne, met­ tessero e potessero mettere capo unicamente alla loro auto­ subordinazione, tanto più imprevista e imprevedibile, natu­ ralmente inconoscibile e da fronteggiare volta a volta secon­ do i criteri antinormativi della situazione concreta, quanto più posta in essere dalle stesse pratiche di tali istanze, quan­ to più proveniente dalla loro più intima natura. L’assogget­ tamento dei differenti sistemi parziali a una logica e a una forma da essi distinta, il loro condensarsi e solidificarsi in un corpo societario estraneo, rappresentano allora degli eventi che vengono prima della «seconda natura» (comun­ que essa sia concepita) e in ultima analisi la spiegano, si pre­ sentano come ciò da cui quella deriva. Il mondo sovrastante l’agire teleologico non costituisce infatti un vettore non vo­ luto, indipendente da, e eterogeneo rispetto a, questa prati­ ca sociale. Esso, al contrario, ne è il più conseguente e coe­ rente risultato, un effetto che inerisce a, e scaturisce diret­ tamente dal, decidere e dall’agire politico dei diversificati

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complessi individuali. Razionalità dei fini e irrazionalità de­ gli esiti qui fanno tutt'uno. A partire da ciò nemmeno si può più sostenre che il tutto sociale sia un oggetto di per sé sus­ sistente, essente nel mondo storico in virtù di una sua in­ trinseca (materialistica) priorità rispetto alla teoria che do­ vrebbe pensarlo, riprodurlo come un concreto della cono­ scenza. A rovescio, anch’esso si presenta come un alcunché di posto — dipendente, dunque, da qualcos’altro — avente al suo interno le ragioni essenziali della sua apparente autoi­ dentità. La problematicità di questo ente fattuale non deve essere ricercata in regioni o luoghi o cause a esso esterne, bensì essa è immanente al suo esser-dato-proprio-così nel­ l’empirica evidenza del suo autoriferimento. Anche qui co­ me nell’altro caso, Tesser posto dell’oggetto non è differen­ te dal suo esserlo solo come tolto. La logica della fatticità dominante in ambedue le versio­ ni tanto si rivela essere un tipo di pensiero solo formale, un sapere — direbbe Hegel — del finito, quanto corrisponden­ temente designa e. disegna una realtà storica che non è mai esistita, effettualmente, nella forma in cui esso l’ha pensata. Tanto l’oggetto teorico quanto quello reale sono stati strut­ turati da quelle concezioni in modo opposto rispetto a come essi appaiono e si configurano nel reticolo concettuale del­ l’immanenza e nello spessore dell’essente, in cui l’immedia­ tezza richiede la mediazione e nasce solo da essa, così come, inversamente, la mediazione sorge unicamente dall’imme­ diato senza a esso esservi apposta dal di fuori o dal diso­ pra 83. Viene in evidenza, qui, un secondo luogo. A raffron­ to dei modelli precedenti, la totalità che è possibile inferire dalle categorie marxiane rappresenta un tipo di Intero net­ tamente differente dalle sue singole e reciprocamente auto­ nome parti. La distinzione è data dal fatto che il tutto — il

83 Cfr. Hegel, Propedeutica filosofica, cit., p. 195.

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«capitale in generale», la «espressione economica totale» — si pone nei confronti delle sue molte e differenziate (com­ plesse) parti in modo duplice: tanto come una sintesi che le perimetra e le domina, quanro come una forma d’unità che non compare nell’ambito d’esistenza dei suoi effetti. E, se si vuole, la «causalità metonimica», ma perfezionata e po­ tenziata da una mediazione che non si trova né in Spinoza né in Althusser. La causa che produce i suoi effetti, infatti, è tale solo in quanto si dissolve in questi, si toglie dal conte­ sto in cui si realizza dando vita a un ramificato e fitto reti­ colo d’intersezioni di tipo contingente progressivo e regres­ sivo insieme. Qui ciò che è effetto, inversamente è anche causa, e ciò che è causa, inversamente è anche effetto, in una fluida e cangiante serie di interazioni tendente all’infi­ nito e uguale soltanto a se stessa. Questo codice formale di lettura del reale dà luogo a un alternarsi continuo di posizio­ ni e di determinazioni che produce a sua volta un aspecifico passaggio dalle parti al tutto e dal tutto alle parti. Ciascuno per sé, in modo unilaterale, una volta il tutto, una volta le parti, è preso come un essere indipendente, oggettivo, auto­ fondato. Mutatis mutandis, queste obiezioni investono direttamente i diversi concetti-chiave discussi nei primi capitoli: tanto l’autoreferenza o autonomia relativa delle istanze (Luhmann-Althusser), quanto la «seconda natura» di Lu­ kàcs. Tutte queste categorie possono essere considerate in­ fatti come espressioni immediate — a volte tra loro divise, a volte intrecciate — del tipo d’interscambio indeterminato da Hegel sottoposto a critica corrosiva. Entrambe le forme di correlazione non riescono a render conto dell’effettiva, intrinseca, connessione che stringe lo svilupparsi dell’iden­ tità con sé nella diversità. Differentemente da quanto soste­ nuto dal pensiero formale, si deve dire che il contenuto non è privo di forma: quest’ultimo, anzi, tanto ha la forma in se stesso quanto questa gli è estrinseca. Una volta che il pro-

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cesso d’istituzione del capitale si è svolto, una volta che la realtà è stata posta, essa appare come un qualcosa di necessa­ rio, in cui niente è nell’effetto che non sia nella causa. Il ca­ rattere originario di quest’ultima viene superato (aufgehoberì} nell’effetto, nel quale essa rende se stessa un alcunché di posto. Con ciò la causa non si annienta, non si distrugge, in modo tale che il reale (das Wirkliché) possa essere considerato solo un effetto. Poiché quell’esser posto è anche immediata­ mente negato (unmittelbaraufgehoben), ecco che la realtà pas­ sata dalla sua mediazione può presentarsi di fronte all’intel­ letto e nel mondo storico come l’ultimo fondamento di tutto il sussistente 84. L’agire della causa, il suo divenire all’esi­ stenza, è insieme un presupporre, un porre se stessa come un tolto85. Diversamente da ciò che apparentemente domina nella superficie societaria, il tutto rappresenta un alcunché di non relativo, di incondizionato, da cui le interrelazioni con­ crete al contrario derivano e lo rappresentano attraverso le loro antinomie, le loro onniabbraccianti opposizioni. Le differenti parti societarie, come dovrebbe esser chia­ ro, sono poste dal tutto (dal potere di determinazione del ca­ pitale) in maniera tale che questo sia effettivamente costitui­ to da esse. I due lati fanno uno solo. Il tutto è uguale alle parti soltanto come uguale al loro insieme, d’altro canto le parti so­ no uguali a esso in quanto diviso. Ciascun momento è identi­ co all’altro. Da questa impasse, da questa gabbia tautologica, si esce solo se si comprende che il concreto effettuale, l’unità sociale, per sua intrinseca natura, non può che risultare dalle complesse interrelazioni delle proprie determinazioni 86. Le parti compongono il tutto precisamente nell’ambito derivato

84 Cfr. Id., Enzyklopàdie, cit., pp. 136-137, pp. 144-147, pp. 108-109; Enci­ clopedia, I, cit., pp. 140-141, pp. 150-153, pp. 104-105. 85 Id., Scienza della logica, II, cit., pp. 639-641. 86 Id., Propedeuticafilosofica, cit., pp. 100-107, p. 186.

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della sua esistenza: solo qui esse lo mediano dandogli un cor­ po strutturato e multiarticolato, solo in questo livello prede­ terminato, preformato, esse costituiscono dunque, effettiva­ mente, in senso compiuto (necessario ut sic}, i suoi materiali iniziali, che combinandosi daranno poi come loro prodotto la cornice societaria. La costituzione, in questo contesto, non significa partecipazione diretta (o, in alternativa, oggettiva) delle parti alla costruzione del tutto o una loro identificazio­ ne immediata con esso. Al contrario, le parti svolgono i loro ruoli e occupano le loro differenziate posizioni all’interno della struttura piramidale della società complessiva solo in virtù del fondamento da cui, proprio in ragione della loro ap­ parente indipendenza, intrinsecamente dipendono. La vincolazione del loro interrelarsi per mezzo dell’opposizione re­ ciproca a un alcunché d’altro, come loro natura interiore, è un principio sociale di determinazione che è nascosto in esse come un segreto irriconoscibile e perciò né deducibile né di­ cibile da parte delle loro rispettive razionalità. I diversi e fun­ zionalmente specificati sottosistemi sociali — ben prima di mettere capo a un sistema ad un tempo ben regolato e incoe­ rente, anteriormente e preliminarmente al loro deficit orga­ nizzativo, alla mancanza di coordinazione apparentemente emergente in modo inevitabile dal predominio epistemologi­ co della «differenza» — sono impossibilitati a stabilire tra lo­ ro stabili interconnessioni o interdipendenze in linea di prin­ cipio, conformemente alla, non in contrasto con la, loro stes­ sa identità. A ben vedere le cose, anzi, lo stesso clivage da cui vien fatta sorgere la complessità perde (se mai lo ha avuto) il suo carattere determinante e assume, piuttosto, l’aspetto di una conseguenza cui non è più direttamente imputabile al­ cunché. Non è esso, in definitiva, a rendersi responsabile del­ l’opacità infrasistemica delle parti. Tanto quest’ultima quan­ to la «differenza» che avrebbe dovuto istituirla si presenta­ no, all’inverso, come prodotti di un processo che in essi si rappresenta e dal quale questi ultimi ricevono esistenza.

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6. Il modello della razionalità politica Come si vede, una cosa è tematizzare la società attraver­ so la teoria funzionalista, un’altra, del tutto diversa, è leg­ gerla per mezzo dei concetti della riflessione, del dentro. Benché in ambedue le concezioni si faccia ricorso, talvolta, al termine di sistema per definire il tutto societario, è evi­ dente che tali concettualizzazioni si distinguono e differi­ scono tra loro, in modo inequivoco, tanto per le categorie impiegate, per i loro diversi e distinti significati, quanto per gli oggetti sociali denotati mediante esse. Se si tiene conto di quanto fin qui sostenuto, è chiaro anzi che il marxismo è ca­ pace di andare oltre la sociologia sistemica,' spiegando i suoi limiti e sviluppando ciò che in essa rimane di fatto inesplica­ to o è assunto in modo aproblematico. Ciò che in essa è mo­ tivo d’incoerenza e insufficienza, nel pensiero marxista è in­ vece indice potenziale di nuove possibilità interpretative del reale. Le parti, infatti, non rappresentano istanze passive della determinazione, sottosistemi inerti del tutto o incapaci di sviluppare una pratica propria. Com’è implicito in tutta l’argomentazione svolta finora, le parti costituiscono un ri­ sultato che è contestualmente fondamento dell’attività e dello stesso produrre. Proprio perché hanno a loro presup­ posto il capitale in generale, i molti e differenziati sottosiste­ mi societari devono interagire a vicenda in modo attivo, in­ nescando e mettendo capo a processi e a strutture che fanno della società complessiva un vero e proprio organismo com­ posto di membra estremamente articolate e ramificate, dina­ miche e in continua proliferazione. Le storie differenziali, i tempi propri specifici dei di­ versi livelli e delle diversificate istanze esistenti nel tutto non fanno altro che tradurre nel codice della processualità, del mutamento e della trasformazione, i criteri loro ineren­ ti dell’opposizione, dell’autonomia relativa di ciascuno. Il tempo della storia (contemporanea) costituisce precisamen­

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te il fluens societario nel cui alveo i differenti sottosistemi costruiscono in modo necessariamente variabile e adattivo la loro forma e il loro ruolo nell’insieme di un momento dato della formazione sociale attuale. Le molte sezioni della so­ cietà — la sfera dell’ideologia, la sovrastruttura politica, l’e­ conomico, ecc. — cambiano continuamente i loro profili in­ terni, il loro modo di funzionamento e la loro posizione nel contesto più generale della dominazione (occupando ora ruoli più centrali ora più periferici) in corrispondenza dell’e­ sistenza solo immediata che è stata loro assegnata. Quale di questi livelli finirà per ricoprire la funzione di vertice del­ l’interrelazione complessiva — lungo tutta una fase storica o in momenti diversi all’interno di una stessa epoca — è un ri­ sultato che solo la congiuntura storica, lo stabilizzarsi tem­ poraneo delle forze in campo, potrà rendere manifesto. L’importante è comprendere che qualunque possa essere l’esito del processo, gli effetti che finiranno per occupare tutto il davanti della scena non potranno che rappresentare, ancora una volta, una sintesi intrinsecamente già mediata, un qualcosa che, paradossalmente per un evento futuro, già c’era. Tutti i sottosistemi sociali funzionano infatti median­ te il modello della politica, di ima razionalità sociale rispon­ dente prima di tutto alle proprie norme interne. La pratica politica — qualsivoglia agire intenzionale basato sulla pro­ pria autodeterminazione (che prenda forma sia in teorie filo­ sofiche che sociologiche, etiche, imprenditoriali o di altro ti­ po) — non può far altro che cercare di strutturare e ordinare un ambiente turbolento nel quale essa, ad un tempo, tanto è completamente inglobata quanto è del tutto impotente (pro­ prio nella sua apparente onnipotenza). I diversi individui agenti — confliggenti o in collaborazione, a seconda degli equilibri e delle strategie del momento dato — regolano o tentano di regolare le loro complesse interdipendenze a par­ tire da un principio d’imputazione costitutivamente votato a produrre il contrario dell’ordine. Mentre intervengono

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con intenti di razionalizzazione nell’elevato tasso d’integra­ zione che caratterizza i rapporti infrasistemici, essi rischia­ no sempre di mettere capo a un ulteriore disordine, a nuove tensioni e discordanze nella delicata interconnessione dei problemi sociali e degli apparati che dovrebbero risolverli. Tale agire, se si vuole, tanto deve tendere a realizzare l’unità sociale esclusivamente per mezzo delle legalità insite nella sua esistenza, quanto insieme può farlo soltanto nelle forme altamente irrazionali, incontrollate e incontrollabili, della «seconda natura» o, alternativamente nel migliore dei casi, di un Intero in cui si aprono continuamente nuove fessure e contraddizioni da fronteggiare con provvedimenti dipen­ denti dalle circostanze date (misure ad hoc, congiunturali, ecc.). I diversi apparati o momenti societari mediano le loro correlazioni per mezzo del modello politico, tramite un ter­ zo che li obbliga ad agire, volens nolens, secondo un disegno complessivo, d’insieme. Qualunque significato si creda di poter dare a questa pratica specialistica, essa si trova a svolgere le sue funzioni tendenzialmente ordinatrici all’interno di un contesto socia­ le che comunque la precede e la domina, sia che quest’ultimo venga interpretato con la categoria più specifica di «sistema organico», sia che esso, a maggior ragione, venga letto come «necessità» o «unità differenziata». Non è certo un caso che di questo orizzonte estremo la riflessione politica abbia dato la sua formulazione più compiuta e classica nella teoria dello Stato. La possibilità di un’interpretazione della società at­ traverso modelli totali risiede nelle cose, inerisce ai modi d’esistenza e di funzionamento di quella realtà postaci di fronte che per i diversi saperi oggi — in un modo o nell’al­ tro, che essi siano deboli, post-moderni, genealogici o altro ancora — costituisce comunque un ineludibile termine di confronto. Ovviamente una cosa è tematizzarla mediante griglie concettuali ricorsive, identiche all’oggetto dato che il presupporre un esterno della mente implica, un’altra è cer­

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care di pensarla per il tramite delle categorie dell’immanen­ za, della logica negativa, in cui ogni determinazione è in se stessa l’opposto di sé (non ha cioè altrove o in qualcosa d’al­ tro, all’esterno o al disopra, il suo contrario, il suo doppio societario). Là le trasformazioni vengono viste promanare da singole istanze (la produzione immediata, le forze pro­ duttive en politique) o da generici (rivelatisi addirittura in­ consistènti) dislivelli di complessità che estendono poi a tut­ ta la società la loro forza propulsiva, generandone motu pro­ prio i cambiamenti e le incessanti modificazioni. Qua invece la totalità sociale si presenta come un immenso meccanismo d’insieme in cui i processi di trasformazione assumono emi­ nenti forme mediate, tanto complessivamente subordinate alla forza coesiva del tutto che ne mette in moto il movimen­ to irregolare — scarti nel coordinamento delle parti, disfun­ zioni, inefficienza degli apparati, ecc., ma anche egemonia politica, controllo tendenziale delle incongruenze più rile­ vanti, governo instabile dell’economia, ecc. — ma costantemente orientato alla riproduzione approfondita di sé, quan­ to aperte al dinamismo e all’incessante riproduzione del vec­ chio nel nuovo che ininterrottamente emerge dal loro inter­ no. La differenza radicale tra i due modelli è evidente; Nel primo i processi di ristrutturazione provengono, in un modo o nell’altro, dalla risposta di ciascuna istanza o livello ai pro­ blemi sollevati dall’altra, in un circuito di permanenti feed back disposti o in orizzontale o in verticale a seconda delle varianti. Nel secondo il cambiamento non è promosso diret­ tamente dalle parti individuali, ma si presenta con tutti i tratti di una processualità in cui i sottosistemi parziali gioca­ no un ruolo derivato e di secondo grado. Il dinamismo non proviene — né immediatamente né indirettamente — dagli elementi singoli, bensì sono questi ultimi a rappresentarne i veicoli privilegiati e a realizzarlo adeguatamente, in maniera ogni volta solida e specifica, nei diversi e distinti luoghi e li­ velli della loro residenza societaria.

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Il carattere processuale della totalità non è né sensibilità per l’ambiente, né la semplice constatazione di uno stato di fatto. Esso non è né formale, suscitato da un alcunché di esterno, né dato. L’autoreferenza del tutto è tanto chiusura nei propri confini riproduttivi quanto, insieme, apertura di essi verso il probabile e il virtuale attraverso la legalità poli­ tica vigente al suo interno. Quest’ultima, per sua intrinseca natura, è sempre in ritardo rispetto alla dinamica sociale en­ tro la quale svolge le sue tendenziali funzioni regolative, e non può dunque aspirare né a imbrigliarla una volta per tut­ te né a esercitare nei suoi confronti ruoli rigidamente nor­ mativi o tanto meno predittivi. Se non è mai esistito un uo­ mo politico hegeliano, come sosteneva Althusser, meno che mai potrà esserci o trovare una sua configurazione istituzio­ nale uno scienziato della politica. Questa pratica sociale non può che vedersi assegnato uno status e occupare posizioni di tipo congiunturale, esistenziale, costitutivamente immerse nel caso e nella variabilità incessante delle proprie condizio­ ni d’esercizio. Essa è da subito e da sempre in medias res, mai in rapporto alla determinazione che la pone, al suo fonda­ mento societario. L’agire politico è così continuamente, ine­ vitabilmente, sopravanzato e spiazzato, motivato e insieme messo in crisi, da un processo di mediazione che ad un tem­ po tanto gli attribuisce compiti apparentemente onnipotenti di direzione e di controllo (si pensi ai grandi mezzi dello Sta­ to), quanto lo obbliga costantemente a rincorrere un disordi­ ne e una instabilità sociali permanentemente in eccesso ri­ spetto alle sue effettive capacità di regolazione e di pianifi­ cazione. L’attività organizzatrice della razionalità politica, come già aveva esplicitamente e lucidamente avvertito Marx, può concretizzarsi solo in modo formale e negativo, precisamente perché là dove ha inizio la complessità, l’estre­ ma differenziazione sociale e l’impossibilità di coordinare tutto con tutto, cessa il suo potere. Queste proposizioni teoriche conclusive, ovviamente,

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non vogliono far quadrare il cerchio, né considerare definiti­ vamente risolta la questione relativa a come e perché si deb­ ba oggi leggere la società con strumenti d’analisi tutto som­ mato inattuali nel desolante panorama intellettuale di oggi. Decostruire e ridefinire le categorie marxiane o di un certo marxismo, non è certo cosa che possa essere portata a termi­ ne in poche centinaia di pagine o da una sola persona. Ciò che si può fare, invece, è avviare una discussione dall’ancora incerto esito finale, ma alla conclusione della quale vi sia al­ meno una rivitalizzazione dell’analisi critica di questa socie­ tà e delle sue connaturate contraddizioni.

Pubblicazioni dell’istituto Italiano per gli Studi Filosofici presso la Casa Editrice Guerini e Associati

«SAGGI» L. Anceschi, Cinque lezioni sulle istituzioni letterarie. Breve proposta di dialogo fenomeno logico E. Grassi, Potenza dell'immagine. Rivalutazione della retorica A. Mathiez, Danton e la pace G. Mastroianni, La filosofia in Russia prima della rivoluzione M. Isnardi Parente, L’eredità di Platone nell’Accademia an­ tica E. Levinas, A. Peperzak, Etica comefilosofia prima V. Hòsle, La legittimità delpolitico L. Sichirollo, Filosofia storia istituzioni. Saggi e conferenze Ch. Jermann, Dalla teoria alla prassi? Ricerche sulfondamento della filosofia politica in Platone E. Grassi, Vico e l’Umanesimo

«HEGELIANA»

V. Hòsle, Hegel e la fondazione dell’idealismo oggettivo A. Peperzak, Filosofia e politica. Commentario della Prefazio­ ne alla Filosofia del diritto di Hegel V. Vitiello (a cura di), Hegel e la comprensione della modernità G. Preterossi, I luoghi della politica

«HIPPOCRATICA CIVITAS» Collana diretta da Giovanni Pugliese Carratelli

P. O. Kristeller, Studi sulla scuola medica salernitana (Nella

sede dell’istituto) J. Agrimi, C. Crisciani, Edocere Medicos. Medicina scolastica nei secoli XIII-XV

«TESTI E DOCUMENTI DI ECONOMIA ITALIANA» Collana diretta da Luigi De Rosa P. Saraceno, Il nuovo merìdionalismo (Nella sede dell’isti­ tuto) P. Savona, Strutturefinanziarie e sviluppo economico

IN ALTRE COLLANE

G. Benedetti, La schizofrenia P. Frascani, finanza, economia ed intervento pubblico dall’unificazione agli anni Trenta

Finito di stampare da Boniardi Grafiche, Milano settembre 1992

1. D. Losurdo, La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel 2. E. Weil, Hegel e lo Stato e altri scritti hegeliani 3. J. D’Hondt, Hegel segreto, Ricer­ che sulle fonti nascoste del pensiero hegeliano 4. G. Bonacina, Storia universale e fi­ losofia del diritto. Commento a He­ gel 5. H.-G. Gadamer, Elogio della teoria 6. N. Panichi, Antoine del Montchrétien. Il circolo dello Stato 7. G. Lukacs, Prolegomeni all’ontolo­ gia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ ontologia oggi dive­ nuta possibile 8. M.A. Pranteda, Individualità e au­ tobiografia in Dilthey 9. E. Cassirer, L. Couturat, Kant e lamatematica. 10. G. Ryle, Per una lettura di Platone «Nella complessa problematica del no­ stro tempo, Socrates non pretende di condurre un discorso di pochi con pochi, né di intervenire con messaggi di evasio­ ne. Con Hegel noi vorremmo ripetere che la filosofia è una scienza per tutti». Con queste parole, ancora attuali, veniva annunciata la collana presso la casa edi­ trice Vallecchi nel 1965. Arturo Massolo vi aveva posto come esergo un’espres­ sione platonica delle Leggi: «intendiamo parlare e discutere con gli uomini, non rivolgerci agli dei».