Theo Angelopoulos 8888995099, 9788888995090

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Theo Angelopoulos
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FACES

THEO AAGELOPOULO/

FACE/ collana di monografie di cultura cinematografica Editore Paolo filaria /pina per Revolver s.r.l. Coordinamento editoriale di Tiberio Pedrlnl Ufficio /tempo di Cristina Borsetti Copertina e Progetto Grafico di Gianni Rossi Ditribuzione: RED di RG.T &C sas Viole Prompolinl HO 41100 ITIodeno tei +39 059 212792 - fax +39 059 4392133 infodredonline.lt

copyright 2004 Editrice “Revolver Libri" tutti i diritti riservati l/Bfi n. 88-88995-09-9 44581

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lnfodrevolverteam.com uuwui.revolverteam.com Revolver shareholders: Paolo filaria /pina, /hallo Rubin, Alessandro Lo Rocco, Vereno Boldeo, fiìatteo Patrono con la collaborazione di: Associazione Revolver, Bologna (RRCI-UCCR) Cineclub Rossellini, Ancona Circolo del Cinema /oloris, Latina Circolo del cinema Zompanò, Pescara nello stesso collana sono disponibili: 01 - LUCIRA PIATILIE a cura di /ilvano /llvestri e Giovanni /pagnolettl 02 - THEO AAGELOPOULO/ a curo di Paola filaria fiìinucci in collaborazione con Tìziono Covoslno e micheli Leivodiotis

THEO AOGELOPOULO/ a curo di Paolo morìa minucci in collaborazione con Tiziana Cava/ino e michail Leivodioti/

Con/ulenza per la terminologia cinematografica: Irene Ronzato

Traduzione dei te/ti: Giulia Canali (/pagnolo) Glena Imbergamo (france/e) Herta Glena Rudolph (inglese) Tiziana Cava/ino e michail Leivadioti/ (greco)

Questo libro è i! primo contributo dell’indirizzo “Traduzione per il Teatro e per lo Spettacolo del Master di 11 livello in Traduzione Specializzata delta Facoltà di Lettere e Filosofìa dell’università di Roma La Sapienza.

Premesso L'idea di realizzare questa antologia di saggi su Angelopoulos è nata in seno ai lavori del Master di II livello in Traduzione Specializzata della Facoltà di Lettere e Filosofìa dell’università di Roma La Sapienza, che ha consentito il fertile incontro di esperti e appassionati del cinema di Angelopoulos con traduttori da varie lingue europee. Il volume vuole offrire al pubblico italiano i saggi di alcuni tra i più rappresentativi studiosi di Angelopoulos e, allo stesso tempo, cerca di coprire il più ampiamente possibile tutta l’opera del regista, dai primi film, Ricostruzione di un delitto e I giorni del 36, ormai introvabili in Italia, fino all’ultimo, La sorgente delfiume, appena uscito nelle sale cinematografiche italiane. Questo lavoro si apre su una testimonianza inedita di Tonino Guerra dal titolo “Theo è un prato di erba umida” e si chiude con una pagina di presentazione dell’ultimo film da parte dello stesso regista. L’antologia si rivolge ad un pubblico di studiosi e appassionati certamente desiderosi di saperne di più su un cinema a volte considerato ‘difficile’ e troppo spesso incompreso dal grande pubblico. La scelta degli autori inclusi nell’antologia in ordine di pubblicazione dei rispettivi saggi non è casuale ma è dettata dall’intento di offrire un panorama quanto più vasto della critica europea dando maggiore spazio agli studiosi greci, pressoché sconosciuti al pubblico italiano, e agli studiosi italiani, senza trascurare però il punto di vista di alcuni tra i più noti critici europei. Tale scelta non ha tuttavia la pretesa di essere esauriente ed esclusiva. L’antologia vuole essere un contributo, uno strumento per tutti coloro che, come gli stessi ideatori, sono sensibili al fascino dei paesaggi dei film di Angelopoulos, della lentezza dei suoi piani sequenza, dei lunghi ed eloquenti silenzi dei suoi personaggi, della commistione di mito, storia e poesia nei suoi racconti, delle coreografie con cui il regista mette in relazione le masse con il paesaggio, della fotografia che rende unici e immediatamente riconoscibili tutti i suoi film.

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“Theo è un proto d’erba umido” di Tonino Guerra Ricordo sempre il suo stare in piedi accanto al banco del Caffè Centrale a Santarcangelo in adorazione della tazza di caffè. Piccoli sorsi distanti l’uno dall’altro un’eternità. “Voi bevete il caffè” mi dice Theo per giustificare il suo lungo rito, “io lo gusto”. Ma io sento che lui sta viaggiando lungo i tornanti delle sue riflessioni. Rivedo anche i suoi occhi aperti appoggiati all’orlo della tazzina pieni di una luce interiore. Anche la sigaretta, che succhia lentamente, spesso si trasforma in un lungo cannello di cenere sotto cui Theo tiene il palmo della mano a cucchiaio per non permettergli una caduta rovinosa sul pavimento. Per lui il destino della cenere è il portacenere o un bicchiere o anche un pacchetto di sigarette vuoto: non vorrebbe mai dare una destinazione diversa dalla sua. In mezzo e durante queste lentezze gli spunti per le nostre storie fioriscono rapidi e puntigliosi aggrovigliandosi fino a diventare dei labirinti intricati sui quali puntiamo gli occhi per trovare il bandolo utile a sviluppare ima storia carica di una ‘.grandiosa semplicità’. Un monaco giapponese scrisse attorno all’anno Mille: “Bisogna fare qualcosa di più della banale perfezione”. Probabilmente è un difetto che fa crescere una storia; allo stesso modo ti accorgi che la bellezza di una donna cresce se scopri che è leggermente strabica. Sempre i nostri incontri cercano la sorgente per una storia carica di utilità e meraviglia. Ma quale tipo di sorgente? Un anno fa con l’amico Giannini e un vecchio montanaro ci eravamo messi in testa di scoprire la sorgente del fiume Marecchia, il fiume di questa valle. Il vecchio ci ha portati nei calanchi del monte della Zucca e ci ha fatto attraversare piccoli rigagnoli d’acqua indicati, senza certezza, da molti studiosi quali probabili punti di partenza del Marecchia. A un certo punto il vecchio ci ha mostrato un rettangolo d’erba selvatica in una zona ombrosa e umida. Ogni filo d’erba reggeva delle piccole gocce di rugiada che di tanto in tanto cadevano sul terreno molle. Così, tutta quell’erba carica di umidità, formava un velo leggerissimo d’acqua che poi si radunava formando un piccolo rigagnolo che scendeva a valle. Quella è la vera sorgente del Marecchia. La sorgente di un fiume poteva anche essere un prato d’erba selvatica. Probabilmente Theo è quel prato umido che ogni tanto sgocciola così da formare, a volte, quel fiume d’immagini davanti agli occhi di questa e altre valli del pianeta. maggio 1996

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Prima porte, Capitolo 1

“fflodemi/mo, minimoli/mo, malinconia: Angelopoulos e lo stile visuale”' di David Bardwell Traduzione di Herta Elena Rudolph

1. Considero Angelopoulos un regista modernista - non solo moderno e, quasi certamente, non postmoderno (qualsiasi cosa significhi). Ovviamente il motivo fondante sta nel modo in cui i suoi film vengono costruiti e nell’effetto che vogliono raggiungere. Prima di discutere di questo argomento però, vorrei ricordare il suo curriculum vitae che già contiene in nuce il percorso che ci si aspetterebbe da un modernista europeo della generazione del secondo dopoguerra. Angelopoulos si trova a Parigi negli anni cruciali 1961-1964, studia cinematografia e viene espulso dall7nsrift4 des Hautes Études Cinématographiques (IDHEC). Come molti registi del giovane cinemafrancese Angelopoulos subisce l’influenza del cosiddetto canone della Cinémathèque di Langlois, cioè di autori del calibro di Welles e Mizoguchi, e di generi hollywoodiani come il film giallo e il musical. Il primo lungometraggio di Angelopoulos, Anaparastasi (Ricostruzione di un delitto, 1970), deve molto a più di un decennio di sperimentalismo di Resnais, Godard, Fellini, Rossellini, Pasolini e altri. II film rielabora anche il modello narrativo che caratterizza la cinematografia europea fin dagli anni cinquanta: l’indagine poliziesca legata al flashback dà la possibilità di manipolare il tempo e il punto di vista. Nel film La Commare secca (1962) Bertolucci rielabora le dinamiche narrative di Quarto Potere (Citizen Kane, 1941) e I gangsters (The killers, 1946), lo stesso fa Angelopoulos in Ricostruzione di un delitto. Angelopoulos è modernista perché il suo ruolo di regista implica una profonda padronanza dell’aspetto critico e formale dei suoi film. Concede interviste che agevolano l’interpretazione dei suoi lavori: ha spiegato, ad esempio, che la sua voce fuori campo in qualità di padre all’inizio del film Taxidi sta Kythira (Viaggio a Citerà, 1983) corrisponde alla simbolica ‘ricerca di un padre’ alla base del film? Può formulare una frase lapidaria che farebbe

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invidia a molti critici: “ Viaggio a Citerà evocava il silenzio della storia, Il volo il silenzio dell’amore, e Paesaggio nella nebbia il silenzio di Dio”? Ha aiutato molti critici a comprendere l’evolversi della sua opera, a tracciare le sue angosce ricorrenti e i suoi nuovi interessi. Ha proposto la divisione della sua opera in due periodi: una prima fase più politicizzata, nella quale sotto l’influenza di Marx, Freud e Brecht, ha cercato di esplorare la rappresentazione senza alcuna identificazione psicologica; una seconda fase, che inizia con Viaggio a Citerà, più emotiva ed esistenzialista, disincantata dal cinismo della politica: “L’arte è divenuta nuovamente antropocentrica e pone ancora domande a cui non trova risposta”? Molti critici hanno accettato ed elaborato questa divisione? Non voglio suggerire che Angelopoulos sia cinico o opportunista se ci aiuta ad interpretare la sua opera; anzi, come ho dichiarato altrove, questo è ciò che si chiede virtualmente ad un artista che lavora nell’arte del cinema? Cinefilo di stampo parigino, esegeta entusiasta del suo lavoro, Angelopoulos è anche modernista perché crea un marchio di fabbrica, uno stile riconoscibile e consapevole di sé che pone in tutti i film. Come Bresson, Tati, Dreyer e molti altri registi di generazioni precedenti, sembra che Angelopoulos tratti ogni copione, passi l’azione della storia attraverso una serie di griglie che producono una stringa idiosincratica di immagini. La critica sottolinea spesso che il regista fa un uso sempre più assiduo di campi lunghi, piani sequenza, tempi morti, fuori campo; queste tecniche sono state discusse lungamente e con molta disponibilità dallo stesso Angelopoulos nelle interviste. All’epoca dei suoi primi lavori ha dichiarato che i piani sequenza e i movimenti della macchina da presa producono una dialettica tra i vari elementi dell’inquadratura? In tal modo ha incoraggiato una caratterizzazione brechtiana del proprio stile. Eppure, quando dieci anni dopo gli è stato chiesto se la sequenza della pioggia improvvisa in Viaggio a Citerà non aspirasse allo straniamento brechtiano, ha risposto: “Sì, ma non per questo motivo, piuttosto perché la pioggia artificiale è stupenda! È bella quanto quella naturale.”7 A questo si aggiunge un’altra ipotesi che non condivido: l’idea che un regista modernista sia originale ed innovativo. Indubbiamente Angelopoulos è singolare, ma nessun artista rimane completamente estraneo alle norme e alle scelte fatte dal proprio ambiente; il lavoro di Angelopoulos mi sembra importante non solo per la sua originalità, ma anche per il modo in cui fonde tendenze significative del cinema europeo attive negli ultimi trent’anni. D’ora in poi, dunque, non prenderò in considerazione i suoi film come singole unità, intendo invece considerare il modo in cui Angelopoulos esplora ed estende possibilità stilistiche in vigore nel suo ambiente e le piega verso obiettivi specifici. Tali obiettivi - dedrammatizzazione; espressività emotiva

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muta; sottile direzione dell’attenzione del pubblico; simultanea consapevolezza del processo visivo del film - confluiscono in ciò che considero un’attività modernista. Situare Angelopoulos nella storia dello stile cinematografico modernista presenta molti vantaggi. Da una parte, si possono comprendere con maggior chiarezza le sue tecniche specifiche. Si può abbandonare la strada già percorsa che individua gli espedienti più utilizzati, e definire le caratteristiche più interessanti, già discusse in precedenza. Inoltre, siamo in grado di inserire tali caratteristiche in una corrente artistica più estesa. Un’analisi di questo tipo è anche in grado di aiutarci a distinguere Angelopoulos da altri registi che in genere fanno uso delle stesse tecniche, come Jancsó. In linea di massima uno sguardo attento ai retroscena stilistici e alle trasformazioni di Angelopoulos getta luce sul modo in cui si può far rivivere una tradizione per andare incontro a nuove richieste. Probabilmente l’espansione sistematica di certe premesse stilistiche ha fatto rivivere il modernismo postbellico nel clima prevalentemente ostile degli anni ottanta e novanta. Se grazie al mio metodo riesco ad accentuare la capacità di sintesi piuttosto che l’originalità di un bravo regista, è per questo motivo: Prokofiev e Poulenc, Modigliani e Balthus, non sono tanto originali quanto Stravinsky o Picasso, eppure sono indispensabili per la comprensione del modernismo nella musica e nella pittura. Il modernismo è anche pluralismo, e molti dei suoi creatori più capaci riflettono questa diversità nella loro opera. E, ovviamente, nessuna opera è assolutamente originale. Tracciare il modo in cui un’opera modifica le sue fonti e la pratica che la precede, è uno dei compiti del critico che vuole comprendere il cambiamento e la continuità nella storia.8

2. “Quando sono arrivato in Francia era l’epoca di Antonioni, de L "Avventura e La notte. Quando mi trovavo all’IDHEC si andava tutti i giorni a vedere un film di Antonioni.”9

Un metodo efficace per collocare storicamente lo stile di Angelopoulos è il richiamo alla tradizione di dedrammatizzazione, sorta nel cinema europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. I registi di allora esploravano i metodi per inibire trama e stile, affinché la rappresentazione fosse più seria e realistica rispetto a quella del cinema hollywoodiano. Rossellini, Bresson, Dreyer e molti altri registi degli anni cinquanta sono importanti nello sviluppo di questa tendenza ma, a mio avviso, Antonioni è il regista che ha influito di più su Angelopoulos.

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I lavori in bianco e nero di Antonioni implicano almeno due tendenze. I suoi primi lungometraggi espongono riprese in piano sequenza con movimenti complessi di figura e macchina da presa. In molte scene i personaggi eseguono un lento balletto con movimenti in primo piano e sullo sfondo, come se il regista avesse rallentato la coreografia de La Règie dujeu {La regola del gioco, 1939) di Renoir. Ma a partire da II grido ( 1957), Antonioni inizia a sempl ificare il proprio stile. Utilizza la macchina da presa con movimenti meno complessi e, in certo modo, si affida di più al montaggio.10 Ensemble statici e panorami lontani, rari nei primi lavori, si fanno più frequenti. All’inizio de II grido, ad esempio, Aldo toma da Irma dopo sette anni: rincontro avviene in un campo, con una messa a quadro molto distanziata. Questa seconda tendenza pone particolarmente in primo piano la dedrammatizzazione. Da II grido in poi Antonioni esplora una serie di procedimenti per alleggerire la drammaticità di situazioni intense: elimina virtualmente la musica extradiegetica e il montaggio soggettivo; primi piani e piani americani sono ancora componenti importanti delle scene, ma sempre più spesso Antonioni realizza le azioni principali in campi lunghi, con figure collocate in paesaggi o interni spaziosi. L’esempio più famoso è, probabilmente, il finale cupo de L’avventura (1960) che riduce Sandro e Claudia a strie nere in una composizione coperta di mare e cielo. Inoltre, Antonioni toglie la parola alle scene, le riempie di tempi morti e lunghi silenzi durante i quali non si realizza nessuno dei momenti drammatici tradizionali. L’interpretazione si fa più distaccata grazie ad uno stile recitativo quasi muto, a pose lunghe, e a ciò che si può definire stile dorsale, ovvero la tendenza delle figure a dure le spalle alla macchina da presa nei momenti di intensa drammaticità. Ne risulta una ripresa inespressiva che in realtà esprime apatia, anonimia, dolore represso, o distanza emotiva tra i personaggi. Con Blow up (1966) e i film successivi, invece, Antonioni esplora possibilità stilistiche diverse, ma i suoi primi lavori hanno rappresentato il modello di cinema dedrammatizzato per la generazione di Angelopoulos. Eppure, l’influenza di Antonioni sui giovani registi avviene con un’altra modalità, ciò che si può definire modernismo politico. Fin dalla metà degli anni sessanta, i registi di tutto il mondo hanno cercato di mettere la sperimentazione modernista postbellica al servizio della critica politica radicale. Molti hanno trovato un modello nella cinematografia sovietica degli anni venti, filtrando l’estetica del montaggio con il revival del montaggio disgiuntivo nelle opere della Nouvelle Vague e del Cinema Nóvo brasiliano. Conosciamo bene il risultato: un cinema di collage mordace, chiaro nel film di Femando E. Solanas e Octavio Getino La hora de lox hornox (l. 'ora dei

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forni, 1968) e in quello di Dusan Makavejev fV.R.: misterije organizma (W.R. o ì misteri dell’organismo, 1971). Eppure alcuni dei registi del modernismo militante hanno preso a modello la tradizione della dedrammatizzazione. L’ungherese Miklós Jancsó, ad esempio, inizia ad utilizzare il piano sequenza con movimenti complessi della macchina da presa sotto l’influsso di Antonioni. Dalla tradizione sovietica del montaggio Jancsó ricava l’idea del gruppo come protagonista, ma lo piega a fini dedrammatizzanti. La drammaturgia di Szegénylegények {I disperati di Sandor, 1965) e Csillagosok, Katonàk {L’armata a cavallo, 1967) mette in evidenza forze su larga scala e variazioni di potere nel tempo. Inoltre, le scene sono girate con lunghi piani sequenza e carrellate. Le situazioni sono cariche di tensione drammatica - guardie contro prigionieri, comandanti che mettono a morte prigionieri scelti a caso - ma Jancsó fa impazzire l’effetto emotivo: manca la musica extradiegetica; le figure si spostano nel fotogramma; i personaggi si vedono in lontananza o ci danno le spalle; e, soprattutto, la macchina da presa si occupa più di dinamiche di gruppo che di destino individuale, e il fotogramma sceglie e abbandona i personaggi nel corso di un’inquadratura o di un intero film. Dopo gli anni sessanta, Jancsó si spinge verso coreografie e riprese più complesse: aumenta il numero delle figure, sviluppa complicati modelli di movimenti circolari e sinuosi (spesso intesi come balletti), sfrutta la carrellata ottica e cambia il fuoco da un soggetto all’altro durante la ripresa, con lo scopo diJcreare uno spazio visivo che si restringe e si espande in continuazione. Per quanto paradossale possa sembrare, la versione di Jancsó della dedrammatizzazione è fiorente, addirittura massimalista. E risulta chiaro in Még kér a nép {Salmo rosso, 1971) e nei film successivi: i gruppi posti a confronto diventano meri emblemi di forze sociali, che mettono in atto dei rituali simbolici in uno spazio astratto - uno sfarzo cinematografico che rappresenta una lettura marxista della storia. Contemporaneamente, però, altri registi hanno un approccio più serio. Ispirati da una specifica lettura del Verfremdungseffekt di Brecht, alcuni di loro portano la dedrammatizzazione verso la semplificazione e la semplicità. Jancsó annulla i valori drammatici tradizionali ma li sostituisce con un vigoroso spettacolo cinetico. In alternativa a questa tendenza se ne crea una assolutamente non spettacolare, una sorta di modernismo politico minimalista, quale si può notare nei ’film lavagna” di Godard come Vent d’est {Vento dell’est, 1970) o in altri lungometraggi più ortodossi. Si può citare ad esempio il film di Chantal Akerman Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce. 1080 Bruxelles (1975), il quale traccia alcuni giorni di vita di una casalinga che si prostituisce tra un impegno quotidiano e l’altro. Il film si sofferma su attività mondane e tempi morti: con l’uso rigoroso di messa

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a quadro perpendicolare e tagli a 90° e 180°, Akerman attutisce il dramma implicito nelle scene e le tratta anzi come misurate astrazioni pittoriche. La carriera di Angelopoulos inizia proprio nel momento in cui prende piede la variante austera del modernismo militante. Ci sono buoni motivi per credere che a metà e alla fine degli anni settanta egli concorra a fare di questa tendenza uno stile. Nei due decenni che seguono, Angelopoulos sintetizza e sostiene le tecniche e gli aspetti di questa corrente, e vi integra molte lezioni di una tradizione modernista un po’ più antica.

3. È evidente che Angelopoulos sviluppa molti procedimenti dedrammatizzanti presenti in Antonioni. Si riscontra un simile interesse per il paesaggio, la riluttanza all’uso di musica extradiegetica (almeno nei primi film), e l’uso insistente di tempi morti. Tale influenza si nota addirittura in espedienti minori come la posa dorsale a 3/< delle figure. Sostituendo la posa frontale a % del cinema mainstream, con una visione esattamente opposta, di spalle, Antonioni riduce la possibilità di percepire le reazioni dei personaggi. All’inizio de II grido, Irma e Aldo parlano con le spalle al pubblico, entrambi con una posa a %. Si ha in questo modo l’effetto di una sequenza mancata di campo/controcampo in cui è assente l’inquadratura di rimando che presenterebbe i personaggi frontalmente. Nel cinema mainstream e, talvolta, in Antonioni, la posa dorsale a 3Zi viene utilizzata solo all’inizio e alla fine di una inquadratura, oppure serve da passaggio nel corso dell’azione. Angelopoulos, tuttavia, indugia per un tempo notevolmente lungo, su questa posa cosi poco rivelatrice, come accade ad esempio in O melissokomos (Il volo, 1986), quando la ragazza vagabonda danza davanti al juke-box del caffè sul ciglio della strada. Di conseguenza, posizioni frontali o di profilo delle figure servono spesso da transizione per la posizione di riposo a %. Un esempio notevole si trova in O thiasos (La recita, 1975): all’inizio della conversazione la posa di Elettra e Pilade favorisce il dialogo del poeta e le sue reazioni frontali, ma nel corso della scena le sue reazioni diventano sempre più inaccessibili finché si dirige verso la finestra e mostra anch’egli una posa dorsale a 3/4. Tali pose a assumono un’importanza particolare aH’intemo dei campi lunghi e lunghissimi che Angelopoulos ama. Ancora una volta, sembra che Antonioni abbia guidato i registi nel potenziale dedrammatizzante del campo lungo. Negli anni settanta molti registi hanno cominciato a girare scene da lunghe distanze con macchine da presa fisse senza stacco per avvicinare o allontanare lo sguardo. Questa tendenza era evidente nell’avanguardia e nei

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film strutturali (come ad esempio nel film 11 x 14 del 1977, di James Benning e i lavori neo-primitivisti di Klaus Wybomy). Jean Marie Straub e Daniele Huillet hanno esplorato la tecnica del campo lungo non solo in Chronik der Anna Magdalena Bach (Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967), i cui tableau pseudo-barocchi tengono la macchina da presa ad una distanza considerevole dal dramma, ma anche in una serie di film panoramici, come / cani del Sinai (1976). Negli anni settanta India Song (1975) di Marguerite Duras rappresenta scene intensamente melodrammatiche in interni distanti e obliqui, accompagnati da languide melodie di tango fuori campo. I campi lunghi di Angelopoulos devono molto a questa tendenza. Anche negli interni la macchina da presa si pone ad una distanza considerevole dall’azione e il campo medio, utilizzato raramente nei primi lavori, negli anni settanta scompare definitivamente. Talvolta, Angelopoulos fa una carrellata in avanti fino ad ottenere uno sguardo più ravvicinato, come quando allarga la pellicola in Topio stin omichli (Paesaggio nella nebbia, 1988) o l’azione della ragazza vagabonda mentre morde e bacia la mano di Spyros sul camion, nel film II volo. In film del genere, dove dominano paesaggi e pezzi d’insieme, i movimenti in avanti della macchina da presa creano un crescendo visivo. In generale, molte delle inquadrature memorabili di Angelopoulos, come l’immagine finale di Ricostruzione di un delitto o l’inseguimento di una gallina da parte degli attori girovaghi, sono campi lunghi. Il mancato avvicinamento della camera da presa o delle figure verso l’osservatore è dovuto alla totale fiducia che Angelopoulos ripone nella capacità del cinema di presentare dettagli precisi senza sacrificare un’immagine su larga scala. Per apprezzare appieno la potenza delle sue composizioni è necessario vederle con un proiettore di 35 mm. Tutti i film risentono del trasferimento in video, ma quelli di Angelopoulos dipendono in tal misura dalla resa fotografica a grana fine degli spazi immensi che molto del loro impatto è perduto se visto in formati ridotti. Angelopoulos è uno degli ultimi registi che intende le proprie riprese specificamente per lo schermo cinematografico. Dettagli leggibili diventano importanti grazie ad un altro mezzo. A differenza di Straub e Huillet in Cronaca di Anna Magdalena Bach, i campi lunghi di Angelopoulos sono intervallati: il fotogramma non è proprio vuoto - alcune figure umane sono generalmente presenti - ma di solito sono attivati solo alcuni spazi, il resto è neutralizzato o serve da cornice all’azione. Grazie alla prospettiva ridotta, alla relativa assenza di movimento delle figure (il personaggio cammina lentamente o sta fermo) e alla mancanza di informazioni sul personaggio (miniaturizzato, visto di spalle, e spesso a %), l’immagine è immobile; diventa uno spazio vuoto che invita l’osservatore a soffermarsi

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sugli sviluppi precedenti, ad aspettarsi qualcosa che modifichi la stasi, o semplicemente a contemplare un senso di vuoto espressivo. Ovviamente, Antonioni aveva suggerito le possibilità di tali composizioni già ne I vinti ( 1952), quando Claudio supera lentamente la zona in costruzione. Ma Angelopoulos porta l’idea molto oltre. Il suo primo lungometraggio, Ricostruzione di un delitto, fa un esplicito uso dell’inquadratura vuota. L’area di servizio di una gita in pullman si trasforma in uno studio di varianti dello stile dorsale a % e di figure sparse qua e là in un campo desolato e grigio. La recita è piena di immagini vuote simili, soprattutto le inquadrature deH’arrivo della compagnia all’inizio e alla fine del film. Ne II volo, l’inquadratura vuota è spesso utilizzata quando Spyros si prende cura delle proprie amie. Una versione più esemplificata appare in Paesaggio nella nebbia, quando i due bambini fuggiaschi si separano da Oreste sull’autostrada. La ripresa dall’alto conferisce ad ogni figura una penombra di spazio vuoto. L’inquadratura vuota rinforza anche un certo ritmo. Se l’osservatore deve cogliere interamente le immagini distanti, queste debbono essere tenute sullo schermo per un certo tempo, in tal modo si spezza il ritmo drammatico. Alla ricerca di gesti e di significative disposizioni di figure, l’osservatore deve provare modi diversi per riempire di significato le inquadrature vuote. Ne risulta, oltre ad una rappresentazione autocosciente, la sospensione dello sviluppo drammatico che permette sia il distacco contemplativo sia la sensazione di emozioni minimizzate e fredde. Il campo lungo, la posa a % e il fotogramma vuoto diventerebbero presto un tic di maniera se Angelopoulos non andasse oltre, preformando le proprie figure, gli interni e i paesaggi con l’uso di una serie coerente di composizioni dedrammatizzate. Anche qui si può notare la capacità di sintesi di Angelopoulos. Nessuna delle immagini da lui proposte è esclusivamente sua: la filmografìa degli anni sessanta e settanta è ricca di immagini simili. Angelopoulos, però, vi si concentra così specificamente e le esplora con tale fantasia che esse sono state identificate con il suo lavoro, come se su ogni film apparisse il timbro ‘Angelopoulos’ Le immagini conferiscono ad ogni film una struttura di variazione su tema: un’immagine sarà vista come un ritorno a un’immagine mostrata precedentemente nel film o altrove nell’opera del regista, oppure come una deviazione da essa. Questo tipo di immagini, inoltre, possono essere combinate entro una singola sequenza, o addirittura entro una singola inquadratura, al fine di esplorarne le possibilità figurative c drammatiche. Questo tipo di immagine fa uso di ciò che lo storico d'arte Heinrich Wòlfflin ha definito spazio recessivo," dove figure c spazi architettonici creano

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la profondità attraverso diagonali che inquadrano dal primo piano prospettico allo sfondo. La messa in scena recessiva di Angelopoulos, unita ai fotogrammi vuoti e alle pose a %, crea un tipo di composizione sua propria, un’immagine che situa le figure entro un paesaggio assolutamente prospettico. Quando il paesaggio utilizza la prospettiva centrale, come può accadere negli intemi, nelle strade di città o in autostrada, la nostra attenzione può essere bruscamente dirottata verso il punto di fuga. Lo stupro di Voula in Paesaggio nella nebbia si fa più scioccante dal momento che la recessione diagonale del camion e della carreggiata costringe il nostro occhio ad osservare l’inseguimento dell’autista, mentre il punto di fuga rende l’evento pressoché ineluttabile. La prospettiva centrale, tuttavia, è raramente deterministica in Angelopoulos, il quale, spesso, crea tensione tra un punto di fuga centrale e una figura sullo sfondo, decentrata. Tale effetto è evidente nelle declamazioni de La recita e nell’impiego della stazione di frontiera in To meteoro vinta tou pelargoù {Il passo sospeso della cicogna, 1991). Molto spesso la prospettiva è meno centrata. I corridoi infiniti della prigione in Meres tou ‘36 {I giorni del '36, 1972) e dell’albergo ne / kynighì (/ cacciatori, 1977) ci rammentano che Angelopoulos può evocare un tipo di profondità più obliqua. L’uso della prospettiva recessiva ha l’intento di offrire sempre meno informazioni rilevanti, di dedrammatizzare ulteriormente il film e di costringere il pubblico a concentrare l’attenzione su indizi molto lontani dallo sviluppo del dramma. Lo spettatore deve fare uno sforzo per seguire ogni minimo dettaglio dell’azione. Un esempio è rappresentato ne I cacciatori. Ghiorgos siede in una taverna e ci dà le spalle, due uomini robusti siedono davanti a lui sullo sfondo. Uno di loro afferma che la sinistra sta pianificando un golpe. Irritato, Ghiorgos si alza e comincia a cantare una canzone di protesta comunista mentre si fa strada in lontananza. La macchina da presa gli gira intorno riprendendolo da sinistra e lo mantiene più o meno centrato mentre egli termina la canzone timidamente, mostrandoci ancora le spalle. In controcampo, la provocazione di Ghiorgos che canta mentre avanza verso la macchina da presa, potrebbe rappresentare un gesto eroico; ma in questo caso egli è ridotto ad una sagoma miniaturizzata e la debolezza della voce sminuisce il suo impegno e prefigura la finale resa alle forze di destra. Da un punto di vista pittorico, la composizione obbliga l’osservatore ad un atto di concentrazione visiva fissa e intensa su qualcosa che diventerà minuscolo. L’illuminazione e la posizione centrale mettono in rilievo Ghiorgos, Angelopoulos, però, utilizza anche l’architettura per disegnare lo spazio del fotogramma. Diagonali recessive possono dividere una scena in zone

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occupate da personaggi diversi. In un certo modo, Antonioni ha esplorato questa tecnica nei suoi interni, ma dalle prime scene di Ricostruzione di un delitto Angelopoulos l’ha resa dominante utilizzando inquadrature vuote. Da un punto di vista tematico questa tattica può essere intesa come espressione di divisione e incomunicabilità dei personaggi, ma credo che le dinamiche primarie di queste inquadrature siano ancora più importanti soprattutto se si tratta di messa a quadro a distanza. Cancelli, porte o altre caratteristiche possono definire l’importanza di incidenti o figure distanti. Mentre gli ospiti de 11 volo lasciano la cerimonia nell’inquadratura iniziale del film, la coppia va via in lontananza, incorniciata dall’ingresso. Negli interni Angelopoulos usa spesso la prospettiva recessiva intorno ai vani delle porte. In Ricostruzione di un delitto, un uso ricorrente della porta di casa determina lo sviluppo detrazione. Prima, quando Eleni viene interrogata dalla polizia; poi, quando l’amante di lei confessa; e ancora quando Eleni e Christos dimostrano l’assassinio. Alcune scene de 1 giorni del ’36 sono costruite come permutazioni di sguardi recessivi. Le autorità tornano in continuazione nella cella dove Sofìanòs tiene in ostaggio Kriezis, permettendoci cosi di accedere agli spazi più ristretti. In questo caso l’obliquità diviene opacità. La visione a zigzag, eseguita in inquadrature recessive di questo tipo, è simile alla profondità del campo lungo degli anni quaranta e cinquanta. 1 registi di tutto il mondo hanno seguito le orme di Renoir, Welles e Wyler nella messa in scena di azioni significative su piani diversi, lungo diagonali profonde. Anche Antonioni ha conservato un tocco wellesiano per il suo primo piano. Ma Angelopoulos, la cui carriera ha inizio quando questa tecnica è ampiamente sviluppata, evita il primo piano prospettico, le grandi teste e gli oggetti in lontananza tipiche di questa tradizione. Invece, pone i piani più vicini ad una certa distanza dal pubblico, favorendo così le inquadrature più distanti a ricordo del cinema anteriore al 1915. Contestualmente al cinema moderno, questa distanza fìsica dal primo piano potrebbe essere intesa quale sostegno ad una distanza estetica tra la posizione dell’osservatore e quella dei personaggi. Un utilizzo simile degli spazi si trova in altri film degli anni settanta e ottanta, come India Song e il film di Godard Je vous salue, Marie ( 1984). Negli anni sessanta, la profondità del campo lungo fu contestata da un altro tipo di messa in scena e di ripresa che, seguendo di nuovo Wòlfflin, definirò pianimetrica}2 In questo caso lo sfondo è completamente perpendicolare all’asse delle lenti e le figure sono frontali, di profilo o con le spalle rivolte al pubblico. Si possono trovare esempi precoci - anche in Antonioni - ma la tecnica si sviluppa definitivamente nelle nuove ondate degli ultimi anni cinquanta.

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Affidandosi sempre più al teleobiettivo e allo zoom, i registi privilegiano un’immagine meno voluminosa, più modernista e autocosciente - abbellita, evidentemente costruita, capace di generare enigmi ottici sconcertanti, in grado di sedurre facilmente con il fascino della profondità illusionista. I modernisti militanti scelgono presto questo espediente: i monologhi in camera ne La Chinoise (La cinese, 1967) di Godard diventano dei modelli. La nuova immagine pianimetrica è adatta soprattutto alla corrente ascetica summenzionata. È centrale in Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, e in Katzelmacher (Il terrone, 1969), l’esercizio più minimalista di Fassbinder. Ancora una volta, Angelopoulos incorpora ed elabora le possibilità che circolano nel proprio ambiente culturale. Nei suoi primi due lungometraggi, Ricostruzione di un delitto e I giorni del '36, la composizione pianimetrica viene usata poco, ma nei film successivi è un’alternativa alla messa in scena recessiva. Ne La recita i personaggi sono schierati in composizioni come in un fregio, nel teatro o nel paesaggio. Molti critici hanno sottolineato il carattere brechtiano degli spazi che, grazie a questa tecnica, si trasformano in tableaux, con la corrispondenza tra eventi storici e rappresentazione degli attori.15 Voglio solo aggiungere che Angelopoulos è stato in grado di creare questo modello adattando e perseguendo severamente una possibilità compositiva già a disposizione. I suoi fìlm successivi impiegano l’immagine pianimetrica allo scopo di combinare lo sguardo sia frontale sia laterale e di creare momenti di silenzio grazie allo stile dorsale. Angelopoulos solca il paesaggio cospargendo strisce di figure parallele all’orizzonte, come accade nel matrimonio mozzafiato sulla riva del fiume ne II passo sospeso della cicogna. Inoltre, l’effetto-linea degli abiti dell’immagine pianimetrica, sembra incoraggiare la macchina da presa a fare una panoramica per poter esplorare tutti quei vettori paralleli che scorrono nell’inquadratura. Le aperture, poi, non hanno un ruolo meno importante nell’immagine pianimetrica che in quella recessiva. In Paesaggio nella nebbia, quando Voula parla di luce e buio all’ingresso dei binari, i lavoratori della stazione alla guida dei carrelli di servizio appaiono attraverso il vetro sulla destra come spettrali gocce gialle prima di costeggiare l’ingresso. L’immagine recessiva e quella pianimetrica vengono spesso considerate appartenenti a stili opposti, tuttavia Angelopoulos fa uso di entrambe. Nella sua opera esse formano una vasta unione di schemi che può essere applicata, pro forma, di fìlm in fìlm. L’inquadratura di Angelopoulos si riconosce immediatamente: il caffè (recessiva, con profondità obliqua), il ciglio della strada (recessiva, spesso con prospettiva centrale), la spiaggia o la riva del

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fiume (pianimetrica, con figure dagli abiti ad effetto-linea), etc. Inoltre, un’immagine particolare può combinare le due possibilità grazie a movimenti della macchina da presa o a sviluppi interni. Un’inquadratura ne 1 cacciatori inizia con la posizione orizzontale e frontale della macchina da presa; quando Ghiannis si muove, però, una macchina da presa ad arco crea una composizione recessiva che inserisce le figure in sguardi posteriori a %. Lo sbalorditivo finale de II passo sospeso della cicogna mostra invece il giornalista che scappa lungo il fiume mentre i guardafili scendono dai pali. Ma poi la macchina da presa gira verso destra e crea un tableau pianimetrico monumentale quando il giornalista si ferma sul fiume e gli uomini tendono i fili. Una diagonale dinamica diventa così un paesaggio laminato.

4. Ora che sono noti i concetti principali del disegno visuale di Angelopoulos, si possono rivalutare i giudizi sulla sua tecnica. Il piano sequenza, ad esempio, si può considerare come creazione, sostegno o fusione di inquadrature vuote e sguardi a 3A, di composizioni recessive e pianimetriche. Anche se il piano sequenza non unisce due periodi di tempo nella stessa inquadratura, come ne La recita e I cacciatori, serve a costringerci solo a certe immagini; presto comprendiamo che non vedremo inserti, primi piani e campi/controcampi, e che dobbiamo lavorare con lo sguardo relativamente distante. Allo stesso modo, i tempi morti ci costringono a concentrarci sui minimi particolari e sui cambiamenti graduali che costituiscono l’azione. La dedizione a campi lunghi, sguardi distanti, riquadri sparsi e tempi morti carica di un peso enorme l’inquadratura che si apre. Il movimento della macchina da presa è in questo caso l’accessorio più ovvio. Virtualmente presente in quasi ogni ripresa di Angelopoulos, il movimento della macchina da presa ha sempre una giustificazione. Qualcuno guida o cammina e la macchina da presa lo segue con la panoramica o la carrellata. La macchina da presa può muoversi un po’ più velocemente del soggetto, ma il movimento della figura fornisce comunque un impeto iniziale per il dispiegamento dello spazio. Nel corso del movimento la macchina da presa può escludere il primo personaggio, scegliere un’altra figura e seguirla per un po’. Questa tattica permette ad Angelopoulos di mantenere viva l’inquadratura, di ravvivare il nostro interesse visuale mentre unisce o sviluppa le sue composizioni caratteristiche, come l’esempio già menzionato de II passo sospeso della cicogna. Inoltre, poiché non siamo in grado di vedere il fuori campo, il movimento della macchina da presa offre la possibilità di suscitare e sedare l’aspettativa. Ne II volo, ad esempio, la macchina da presa lascia Spyros al tavolo e segue un

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cameriere che attraversa la strada, nel far ciò coglie la ragazza vagabonda con il suo nuovo amante. Ci chiediamo quando la ragazza si accorgerà di Spyros in fuori campo. Nel momento in cui accade la perdiamo e seguiamo il cameriere che riattraversa la strada con la bibita di Spyros, solo per scoprire che è andato via. Ovviamente, nella vita reale, il cameriere vedrebbe che Spyros è andato via molto prima di attraversare la strada. In questo caso, però, poiché il cameriere si rende conto in ritardo dell’accaduto, possiamo continuare a supporre che lo spazio fuori campo è rimasto tale e quale. Il movimento della macchina da presa è usato tradizionalmente per provocare queste sorprese, a me pare più caratteristico il modo in cui il movimento della macchina da presa di Angelopoulos partecipa in una più ampia dinamica di apertura e riempitura dello spazio, con un tempo che ci permette di anticipare il modo in cui si svilupperanno le posizioni e i movimenti degli attori stabiliti per Finquadratura. Con l’ausilio del campo lungo e degli intervalli morti, Angelopoulos prolunga il processo vero e proprio della messa in scena: abbiamo molto tempo, prima di capire che stiamo creando un’aspettativa sul luogo in cui si sposteranno il personaggio o la macchina da presa. Se Antonioni rallenta Renoir, Angelopoulos rallenta Antonioni. Fin dagli esordi del cinema, i registi hanno di solito lasciato uno spazio vuoto nel fotogramma, dando così la sensazione di una composizione completa. Angelopoulos mette a nudo questa tecnica con l’utilizzo dichiarato di vuoti d’apertura che, in seguito, vengono riempiti lentamente, ritardando il momento in cui l’inquadratura coincide con lo spazio. In una scena che si svolge in un caffè ne II passo sospeso della cicogna, il giornalista incontra la giovane sposa. La macchina da presa lo segue attraverso la folla, ma, subito dopo e senza motivo, compare una lunga porzione di pavimento che ci fa vedere la sposa sullo sfondo, senza impedimenti. Abbiamo molto tempo per immaginare chi sarà il prossimo a muoversi, ma poi la macchina da presa si muove impercettibilmente a sinistra, e crea ancora più spazio per la coppia; alla fine, la donna si alza e si dirige verso il centro vuoto del fotogramma. Anche senza muovere la macchina da presa, uno spazio vuoto riempito può allargare e amplificare il campo lungo. In una scena de I cacciatori, i poliziotti si aprono a ventaglio sulla strada, ma lasciano una fessura - una sorta di finestra - attraverso la quale possiamo vedere ravvicinarsi dei pacifisti, l’arrivo della macchina che colpisce Ghiannis e ciò che segue allo scontro: la polizia che si disperde e la vittima a terra sulla strada al centro della prospettiva dell’inquadratura. È come se l’intero arco di azione fosse già noto, l’inquadratura implica che, guardando questo spazio, risulti chiaro, fin dall’inizio, quel che accadrà.

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Studiamo lo sguardo lontano, esploriamo le figure che ci danno le spalle, scrutiamo il tratto orizzontale o aspettiamo l’azione in un punto di fuga, siamo in attesa della traiettoria della macchina da presa o dei personaggi. La nostra pazienza è spesso ricompensata alla fine della ripresa. Il climax visuale può essere quasi muto, può essere sconcertante, come in questa scena da / cacciatori, o affatto vistoso, come i guardafili allungati come note sulle aste (Il passo sospeso della cicogna), o una mano gigantesca che emerge dalla baia e fluttua sulla città (Paesaggio nella nebbia). In tutti i casi, il campo lungo su un momento di alta espressività, senza un dramma che guidi la nostra attenzione ed emotività verso correnti mainstream, è una strategia che trae la sua origine nell’estetica modernista. Angelopoulos ha adattato e combinato le tecniche principali di due tradizioni del cinema europeo, allo scopo di sostenere quella raffinata consapevolezza che il guardare è un vero e proprio atto di inquietudine, tratto distintivo del modernismo in molte delle sue manifestazioni.

5. A che scopo? Se accettiamo la divisione in due periodi dell'opera di Angelopoulos, possiamo notare che nei film prima di Viaggio a Citerà, tutte le tecniche che abbiamo preso in considerazione si uniformano agli scopi del modernismo politico. Angelopoulos si concentra sui gruppi, mette in scena e riprende alla maniera minimalista, fermando così l’empatia. Si ha di conseguenza un distacco critico che ci invita a considerare potenze storiche superiori che operano in una data situazione. Allo stesso modo, l’opera successiva si concentra sull’individuo, delineando crisi personali che esprimono melanconiafin desiècle, come l’autore emigrante de 7/passo sospeso della cicogna. La tendenza a ritrarre crisi psicologiche è dovuta anche ad un maggiore uso da parte del regista di grandi attori quali Mastroianni, Moreau e Keitel, di musica extradiegetica, e di una rappresentazione consapevole di sé. Le tecniche finora considerate sostengono questa interpretazione degli ultimi film. Si può affermare che Angelopoulos ci offre una versione aggiornata di 'Antoni-ennui'14. Se è vero che la carriera di Angelopoulos si può dividere in due parti, è anche necessario sottolineare che nei suoi ultimi lavori il regista non ha rinunciato alla critica politica. Molto più di quanto fece Antonioni, Angelopoulos affronta temi politici reali della sua epoca: la morte del marxismo ( Viaggio a Citerà), il flusso disperato dei popoli attraverso i confini europei (Paesaggio nella nebbia, Il passo sospeso della cicogna), e la possibilità di una politica nazionale che si basa sull’onore (Ilpasso sospeso della cicogna). Da un Antonioni degli anni cinquanta non ci si può aspettare un film sull’Algeria o sul muro di Berlino,

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ma To vletnma tou Odyssea (Lo sguardo di Ulisse, 1995) mostra un continuo desiderio di testimoniare la crisi politica. Per contro, anche nei suoi giorni brechtiani, Angelopoulos ha avvolto le sue opere in uno strato fortemente emotivo. Straub e Huillet, notevolmente influenzati da Bresson, acquisiscono una sconcertante neutralità emotiva nella loro opera, ma l’Angelopoulos degli anni settanta, che opera sotto l’egida di Antonioni, gira dei film pieni di solitudine, desolazione e futilità. In Nicht versohnt, oder es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht (Non riconciliati o Solo violenza aiuta dove violenza regna, 1965) e ne La recita vengono rappresentati cicli di storia nazionale in una struttura di flashback complicata e confusa, ma la dedrammatizzazione si realizza in modi completamente diversi: da una parte, con stacchi che disorientano, primi piani di non attori che recitano rigidamente dei monologhi, e tempi morti che rifiutano di essere letti come espressione di un’atmosfera; dall’altra parte, piani sequenza, declamazioni lontane, e immobilità pervase di oppressione e disperazione muta. Nella sua carriera Angelopoulos ha spostato l’enfasi ma ha sempre combinato critica politica e tono pessimistico. In entrambe le fasi, Angelopoulos esemplifica i modi in cui una tradizione filmica può rinnovarsi nella contemporaneità; spinge certe intuizioni di Antonioni oltre nuovi limiti, incoraggiato dall’esempio di altri (Godard, i radicali minimalisti), e dalle correnti estetiche del periodo (Brecht in particolare). Allo stesso modo, fonde in un insieme espressivo opzioni stilistiche diverse disponibili nel suo ambiente - l’inquadratura recessiva, profondamente prospettica e la messa a quadro pianimetrica del dettaglio. La fama odierna di Angelopoulos suggerisce che buona parte del pubblico ritiene che la tradizione postbellica non sia esaurita, che essa possa fornire una bellezza rigida e contemplativa al nostro mondo fatto di snack bar, video clip e guerre etniche. In un momento in cui il cinema europeo sembra esalare l’ultimo respiro, l’opera di Angelopoulos è assolutamente importante. Spesso maestosa, a volte manierata, quasi sempre malinconica. Angelopoulos dimostra che, contrariamente a ciò che continuano a dirci i profeti del postmodernismo, il modernismo cinematografico può ancora aprirci gli occhi.

Ringrazio Gabrielle Claes e lo staff del Cinémathèque Royale de Belgique per l’assistenza nella mia ricerca. Ringrazio anche Kristin Thompson, Noél Carroll e Panaghiota Mini per gli utili suggerimenti sul presente saggio.

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Note * In questo libro abbiamo adottato le regole di traslitterazione seguite dai neogrecisti italiani e ad esse abbiamo sacrificato le scelte dei singoli autori. Per quanto riguarda il nome di Theo Angelopoulos abbiamo invece adottato la traslitterazione francese scelta dal Regista e attualmente usata in ambito intemazionale. In Grecia egli è comunque conosciuto con il nome di ‘Thodoros’ ed è per questo che in alcuni saggi figurerà con questo nome. * * Tiziana Cavasino ha tradotto da p. 95 a p. 105 e da p. 129 a p. 133; Michail Leivadiotis ha tradotto da p. 106 a p. llóedap. 124 a p. 128. * BORDWELL, D., “Modernism, Minimalism, Melancholy: Angelopoulos and Visual Style”, in The Last Modernist : The Films of Theo Angelopoulos, a cura di Andrew Horton, New York, Praeger 1997, pp. 11-26.

1 Gerstenkom, J., “I?art des équilibres: entretien avec Theo Angelopoulos sur Voyage à Cythèré”, in Theo Angelopoulos a cura di Michel Estève, Études cinématographiques, nn. 142-145, 1985, pp. 5-6. 2 Ciment, M., e Tierchant, H., Theo Angelopoulos, Parigi, Edilig 1989, p. 145. 3 Grodent, M., “Pomme fanée: autour du Voyage à Cythèré', Revue belge du cinéma, n. 11, 1985, p. 59. 4 La discussione più precisa e concisa delle due fasi è quella di James Quandi in Theo Angelopoulos, a cura di Fabiano Canosa, Gorge Kaloyeropoulos e Gerald O’Grady, New York, Museum of Modem Art 1990, p. 25. 5 Cfr. Bordwell, D., Narration in the Fiction Film, Madison, University of Wisconsin Press 1985, pp. 228-233. 6 Ciment e Tierchant, “De Forminx Story au Voyage des comédiens" in Ciment e Tierchant cit., p. 55. 7 Gerstenkom cit. p. 12. 8 Devo sottolineare che non ho avuto modo di vedere i cortometraggi di Angelopoulos e il film del 1980 Alessandro il Grande. Le mie affermazioni pertanto non possono essere applicate a queste opere. ’ Ciment e Tierchant, “De Forminx Story au Voyage des comédiens" cit., p. 51. 10 La lunghezza media della ripresa de / vinti è di 43 memorabili secondi e le riprese in Le amiche (1955) hanno una lunghezza media di 26 secondi. II grido (1957) ha una lunghezza media della ripresa di 22 secondi, più o meno quella di Cronaca di un amore (1950). In seguito la media precipita nettamente con L'avventura (1960) di 20 secondi, e La notte ( 1961 ) di circa 16,5 secondi. " WOlfflin, H., Principles ofArt History: The Problem of the Development ofStyle in Later Art, trad. M. D. Hottinger, New York, Dover Publications 1950, pp. 75-82. [Titolo originale: Kunstgeschichte Grundbegriffe, 1915. Prima edizione italiana: Concetti fondamentali della Storia dell’Arte, Milano, Longanesi 1984. N.d.T.] 12 Ibid. 13 Tarr, S., e Proppe, H., "The Travelling Players: A Modem Greek Masterpiece” in Canosa, Kaloyeropoulos e O’Grady, Theo Angelopoulos cit., pp. 12-13; e Jordan, 1., “Pour en cinéma épique”, Positif n. 174, ottobre 1975, pp. 15-22. 14 Letteralmente ‘Antoni-noia’.

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Primo porte. Capitolo 2

“L’immagine /imbolo: la poetica del cinema di Angelopoulo/”' di Angel Quintana Traduzione di Giulio Conati

1. Aon riconciliati “Se ti parlo per parabole è perché sono più dolci da ascoltarsi. Dell’orrore non si può ragionare perché è vivo, è senza parola che avanza”1, spiega il maestro di O Megalexandros {Alessandro il Grande, 1980) al piccolo Alessandro. Il maestro, che ha voluto usare l’agire politico come metodo per raggiungere il cambiamento sociale, riconosce il proprio fallimento di fronte alla barbarie imposta dalla tirannide. Egli si mostra deluso di fronte all’immagine del liberatore mutatosi in macellaio totalitario, alla speranza utopistica del comuniSmo trasformata in stalinismo. Il piccolo Alessandro, cresciuto nel dibattito delle ideologie, si interroga sul divenire storico e non capisce quale sia il vero significato del potere e dell’ambizione. Turbata la sua innocenza, e non trovando risposte nel proprio ambiente, il giovane abbandona il tragico spazio rituale della rivoluzione perduta per eclissarsi nelle città. Nel mondo moderno cercherà le risposte che non ha trovato in un inizio secolo in cui i vari ideali di cambiamento si sono ridotti a cadaveri ambulanti.

Parlare per parabole per giungere a spiegare il divenire dell’orrore umano è il metodo che definisce tutto il cinema di Theo Angelopoulos: un cinema che muove da una presa di coscienza di fronte alla crisi della realtà e che ha consolidato, attraverso una progressiva depurazione dello stile, una lucida e amara visione dei grandi fallimenti rivoluzionari del secolo e delle delusioni della Storia. Un cinema che sorge in mezzo alla modernità, quel tempo che Serge Daney - parafrasando Jean-Marie Straub - ha definito come momento della ‘non riconciliazione’ politica ed estetica2. In un secolo in cui l’ideale delta Storia come progresso è stato sostituito dalla constatazione pessimistica dell’eterno ritomo, e in cui gli uomini sono stati costretti a convivere con l’orrore di un fascismo che è andato sperimentando - e praticando - diverse forme di genocidio, non è possibile pervenire a una riconciliazione tra l’artista e il visibile, gli esseri e le cose, l’individuo e il mondo.

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Le parabole che solcano il cinema di Angelopoulos esemplificano la ‘non riconciliazione’ e i suoi effetti. 1 borghesi de 1 kynighì (/ cacciatori, 1977) non potranno mai riconciliarsi con il fantasma della rivoluzione che irrompe nei loro incubi, perché essi sono stati gli autori materiali delle vessazioni morali che hanno condotto all’assassinio di una rivoluzione il cui cadavere ha ancora il sangue fresco. Nemmeno il vecchio Spyros, il militante comunista di Taxidista Kythira (Viaggio a Citerà, 1984), ossessionato dall’idea di ritrovare il territorio delle sue origini, può riconciliarsi con gli antichi compagni né con i protagonisti del nuovo presente che lo condanneranno alla deterritorializzazione. Nessuno vuole la rivoluzione, e il vecchio lottatore finisce abbandonato, insieme a sua moglie, su una misteriosa zattera lasciata alla deriva. La ‘non riconciliazione’ ha parcellizzato il territorio fisico, ha distrutto l’identità e ha provocato una profonda crisi deH’immaginario. Mentre il vecchio Spyros naviga alla deriva verso i confini dell’orizzonte, i profughi senza patria di To meteora vima tou pelargou (Il passo sospeso della cicogna, 1991) sono condannati ad esistere in un incerto non-territorio di vagoni di treno e rottami: uno spazio situato accanto alle frontiere dell’intolleranza che i vari governi sono andati edificando in conseguenza della ‘non riconciliazione’.

Nemmeno i personaggi che non sono condannati a vivere in una statica terra di nessuno possono sentirsi a loro agio all’interno di uno spazio protettivo ormai in crisi - la casa, il Paese, la famiglia. Per questo motivo lasceranno i propri cari per intraprendere una peregrinazione - reale o immaginaria - per i paludosi territori di un interminabile esilio fisico, che finisce per diventare un vero e proprio esilio interiore. Nel frattempo, Penelope non può più aspettare Ulisse, perché il tempo ha intaccato il cordone ombelicale che li univa. “Non posso andarmene. Sognavo che qui sarei arrivato alla fine del viaggio. Non è strano? Non è sempre così? La fine non è che l’inizio”3, afferma, arrivando in Grecia, il cineasta esiliato Harvey Keitel in To vlemma tou Odyssea (Lo sguardo di Ulisse, 1995). Il dramma del moderno Ulisse che attraversa lo spazio fisico e storico dei Balcani si fonda sull’impossibilità di trovare una via di ritorno per Itaca, perché ormai, forse, Itaca non esiste più. Nel cinema di Angelopoulos la delusione provoca angoscia, ma non conduce al disincanto. Se pure Itaca non esistesse, Ulisse deve continuare a cercare la via del ritorno a casa attraversando le numerose frontiere che lo ostacolano. La ‘non riconciliazione’ si può superare solo muovendo dalla speranza utopistica nell’armonia, e proprio nella ricerca di una cadenza armonica sta la grande sfida del cineasta. Il potere demiurgico della finzione

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lo aiuta a trascendere la realtà, a renderla poetica, a ritualizzare le sue rappresentazioni, a coreografare gli spostamenti delle masse, ad affannarsi a cercare l’ordine in un universo privo di senso. La sfida consiste nel trasformare lo spazio della barbarie in spazio della cultura. Per questo, ne Lo sguardo di Ulisse, gli abitanti di Sarajevo approfittano della nebbia per recuperare la poesia e i resti di una civiltà distrutta.

Come afferma Nòel Harpe in un suggestivo articolo, ad Angelopoulos “si è offerta la possibilità di ritrovare, al di là della sua stessa razionalità e attraverso la grazia della finzione, quello sguardo da bambino che reinventa tutto ciò che vede, che dà forma al caos, e che di fronte all'impossibilità di comprendere il mondo finisce per organizzarlo”4. Solo il potere dell’immaginazione del cineasta può giungere a trasformare la realtà e a renderla una forma del l’immaginario. Tutti i film di Angelopoulos si collocano su un’incerta frontiera situata tra un mondo fìsico possibile e un mondo mentale immaginato. La chiave della configurazione di questo universo consiste nella costruzione di un’immaginesimbolo che trasfiguri il caos dell’esistenza. Forse per questo i bambini erranti di Topìo st in omichli (Paesaggio nella nebbia, 1988), dopo aver attraversato le frontiere della ‘non riconciliazione’, possono giungere a vedere quel paesaggio bucolico che la nebbia ha nascosto.

2. L’“inevidenzQ” In tutto il cinema di Angelopoulos misteriosi echi rinviano lo spettatore da un film all’altro e divengono le chiavi di un complesso gioco ermeneutico. In O melissokomos (Il volo, 1986) ricompare il personaggio di Spyros, il comunista alla deriva di Taxidi sta Kythira, ma ha un’altra personalità e assume il volto di Marcello Mastroianni. Spyros non è un lottatore, né un idealista, bensì un individuo profondamente inserito nel presente. Per molti anni le radici gli hanno impedito di uscire dall’oscuro pozzo della sua esistenza. Il giorno del matrimonio di sua figlia, Spyros prende la decisione di lasciare la moglie per vagare senza una meta prestabilita per la Grecia. Al momento dell’addio lei gli chiede: “Che ti ho fatto?”. Spyros può rispondere soltanto: “Niente, niente”. Il nuovo Spyros è stato incapace di combattere per un’idea, non si è aspettato nulla dalla Storia perché non è giunto nemmeno a proporsi una forma d’impegno. Ne // volo i problemi della riconciliazione non hanno più un carattere politico. Per l’apicoltore Spyros, il vero problema è l’‘inevidenza’ del mondo. Lo stesso problema tormenta il deputato de II passo sospeso della cicogna - interpretato anch’egli da Marcello Mastroianni - che decide di dare

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le dimissioni dalla vita e di rifugiarsi in un’incerta terra di nessuno, prossima alla frontiera. Prima di sparire, si congederà dalla Camera dei Deputati con un inquietante discorso: “Ci sono dei momenti in cui si deve tacere per poter sentire la musica dentro il rumore della pioggia”5.

La sfiducia che il protagonista de II volo manifesta davanti alla ‘inevidenza’ della realtà e il desiderio di riscoprire la poesia nascosta dietro la confusione mondana, espresso dal deputato de // passo sospeso della cicogna non sono altro che una parabola della profonda sfiducia che lo stesso Angelopoulos nutre nei confronti del visibile, e del suo desiderio di poter riordinare il mondo scegliendo le metafore giuste. In modo troppo gratuito la critica cinematografica ha equiparato spesso la realtà con il visibile, senza considerare che il loro significato non è equivalente, e che può persino essere opposto. Il visibile non sempre è il riflesso del reale. La visione può essere al massimo il segno di una serie di apparenze, dietro le quali si nasconde una determinata realtà. La sfiducia nel visibile come garanzia del reale suscita in Angelopoulos una serie di dubbi sulla capacità riproduttrice dell’immagine fìlmica. Se la realtà è in crisi, se il visibile è ambiguo e il cinema moderno non può riconciliarsi con l’ambiente fisico, il cineasta non deve lanciarsi a cercare lo splendore del vero. La scelta del cineasta consiste nel trasfigurare il mondo attraverso l’affermazione dell’ ‘io’ poetico, ma perché esista una poetica è necessario che le metafore rimandino a un mondo preesistente - all’universo che fa da punto di riferimento - e che si parta da una pur minima superfìcie di realtà. “Credo che i film debbano muovere da un primo livello di realtà e che debbano giocare costantemente tra il reale e l’immaginario, un immaginario che tuttavia nasce aH’intemo della realtà... Il ‘pretesto’ reale rende più vero il sogno”, ha affermato in un’intervista lo stesso Theo Angelopoulos6. La presenza di una superfìcie di realtà nella composizione delle immagini e il loro ordinamento immaginario dettato dalla poetica conducono Angelopoulos a proporre un’interessante dialettica tra 1’ ‘inevidenza’ del mondo e l’evidenza dell’immagine-simbolo. Una ‘inevidenza’ che ha finito per delimitare le due grandi fasi della sua filmografia: una prima fase di cinema militante andrebbe dagli inizi fino ad Alessandro il Grande, e sarebbe caratterizzata dall’attenzione al collettivo e dall’angoscia di fronte all’impossibilità di realizzare l’idea tanto anelata di un cambiamento rivoluzionario; la seconda fase sarebbe nata con Piaggio a Citerà e sarebbe caratterizzata dallo scetticismo, dall’attenzione alla

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crisi dell’individuo e dal riconoscimento dell’ ‘inevidenza’ del mondo reale. Nel rendere poetica tale ‘inevidenza’ il poeta Tonino Guerra, co-sceneggiatore di tutti gli ultimi film, ha svolto un ruolo determinante7. i

3. Immagini essenziali In fondo, l’immagine-simbolo che il cineasta greco persegue fin dai suoi primi film non è altro che una ricostruzione del concetto di immagine essenziale, un problema che ha contrassegnato la poetica di alcuni tra i più illustri cineasti. Un ricostruttore di mondi possibili come Mumau cercava la sintesi dell’immagine per esprimere la propria carica pittorica. Invece un maestro della trasparenza come Rossellini riteneva che la sintesi aiutasse a recuperare le capacità cognitive inerenti aH’immagine. Quest’ultimo, muovendo da una fiducia estrema nel potere del visibile, definì l’immagine essenziale nei seguenti termini: “Tutta la conoscenza inizia con gli occhi, ma l’innocenza delle nostre prime percezioni scompare immediatamente. Il linguaggio e le idee sono sempre stati preceduti dalla nostra strutturazione percettiva dell’esistenza. Il mio principale desiderio consiste nel recuperare l’innocenza originale del primo sguardo, la prima immagine che è apparsa davanti ai nostri occhi. Vado continuamente in cerca di ciò che chiamo immagine essenziale”8. Questa immagine essenziale, innocente e percettiva, fii forse presente in quel primo sguardo cinematografico con cui i fratelli Manakis osservarono i Balcani, un’immagine che ne Lo sguardo di Ulisse si trova imprigionata in quella sorta di rifugio degli sguardi che è l’immaginaria cineteca di Sarajevo. In un momento di morte - o di resurrezione - del cinema, il nuovo Ulisse deve cercare le chiavi di questo sguardo, perché esso rappresenta l’unico modo per poter restituire al visibile l’evidenza perduta.

Davanti all’impossibilità di catturare l’immagine essenziale del visibile -l’innocenza del cinema -, il cineasta greco deve costruire i suoi film come se fossero possibili parabole dell’immagine essenziale perduta. In tutto il cinema di Angelopoulos vi è una volontà di concentrazione spazio-temporale che conduce all’essenzializzazione dell’immagine, ma la maggior parte dei lunghi piani sequenza che attraversano tutta la sua opera non fanno altro che generare una sorta di forza centripeta che sposta il racconto verso l’esaltazione delle immagini-simbolo. La statua dissacrata di Lenin che vaga per l’estuario del Danubio ne Lo sguardo di Ulisse, i dipendenti della compagnia telefonica che uniscono i fili al di là delle barriere imposte dalle frontiere nella scena

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finale de 11 passo sospeso della cicogna, l’immagine dei bambini che corrono sotto i fiocchi di neve tra i corpi ieratici della gente di un paesino in Paesaggio nella nebbia, o i cacciatori borghesi che nascondono sotto la neve il corpo sanguinante del loro delitto storico ne I cacciatori sono solo alcuni esempi delle numerose, potenti immagini-simbolo presenti nel cinema di Angelopoulos. Tali immagini ci parlano della distruzione dei miti, della necessità di stabilire nuovi elementi di comunicazione umana, del desiderio di fermare il tempo per recuperare la poetica infantile o della necessità che il potere ha di nascondere (o di distruggere) i fantasmi della sua Storia. Tutte queste problematiche sono i principali motivi tematici presenti nei racconti di Angelopoulos. A differenza di altri cineasti, che hanno bisogno della parola per trasmettere i concetti e concepiscono le immagini come semplici illustrazioni, le immagini-simbolo di Angelopoulos costituiscono l’elemento portante della trasmissione del messaggio. Il suo cinema cerca la supremazia del visuale, ma per raggiungerla ha bisogno di muovere dalla rappresentazione.

4.1 materiali In una scena di O thiasos {La recita, 1975), l’opera che sintetizza la fusione tra un cinema militante e i postulati stilistici della modernità, Elettra, un’attrice, è violentata da un gruppo di miliziani con il volto coperto da maschere grottesche. Nella scena successiva, il corpo di Elettra è disteso accanto a un letamaio. All’improvviso l’attrice si alza, si sistema la vestaglia, si aggiusta i capelli, si pulisce il viso e si dirige verso la macchina da presa. Elettra abbandona il suo personaggio per assumere per qualche minuto il ruolo di narratrice degli eventi storici e recitare un lungo monologo, in cui descrive i drammatici avvenimenti che scossero la vita della Grecia nel dicembre del 1944. Durante una cerimonia di celebrazione della liberazione in Piazza della Costituzione ad Atene, un gruppo di fascisti armati dal generale Scobie spararono sui militanti comunisti. Questi tragici avvenimenti, che il fìlm di Angelopoulos ha mostrato precedentemente attraverso un lungo piano sequenza strutturato intomo a un triplice movimento circolare della macchina da presa, diedero inizio alla guerra civile. Durante il monologo, Elettra non parla del suo dramma individuale, bensì della Storia collettiva. La violenza sessuale e il monologo di Elettra costituiscono un chiaro esempio del lavoro che Angelopoulos realizza con i materiali teatrali, per spezzare l’illusione e generare nello spettatore un distanziamento di fronte al drammatico momento della violenza, che è stato rappresentato in modo grottesco, e avvolto da una crudele ironia.

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Ne La recita, Angelopoulos gioca con quattro diversi materiali rappresentativi. Nel primo livello di rappresentazione ci mostra i conflitti vissuti da un gruppo di attori ambulanti nel convulso periodo collocato tra il 1939 e il 1952, negli anni che vanno dalla fine della dittatura del generale Metaxàs alla creazione, con la collaborazione americana, del Raggruppamento Ellenico del Maresciallo Papagos. In tale livello, degli attori interpretano personaggi che vagano continuamente per lo spazio e per il tempo. Il secondo livello è presente nell’opera teatrale che in tutti questi anni i membri della compagnia rappresentano, il dramma bucolico Golfo la Pastorella, che viene continuamente interrotto da una serie di avvenimenti che si verificano nel mondo reale. In un terzo livello, Angelopoulos stabilisce un parallelismo tra i conflitti interni alla compagnia di attori e i conflitti che hanno dato forma a uno dei grandi cicli della tragedia greca, quello degli Atridi, così come lo raccontarono Sofocle ed Eschilo. Infine, nel quarto livello Angelopoulos ricorre alla narrazione degli avvenimenti collettivi, mediante l’inserimento di quattro monologhi che destabilizzano qualsiasi possibile illusione rappresentativa e che sono la ricostruzione di testimonianze reali, precedentemente registrate con il magnetofono. Il gioco con i diversi livelli di rappresentazione, che raggiunge un perfetto equilibrio ne La recita, è presente in tutta la filmografia di Angelopoulos, nella quale coesistono continuamente una fusione temporale - mediante salti dal presente al passato o dal passato al futuro -, uno snaturamento della realtà mediante la ritualizzazione, un transito tra il fisico e il mentale, e un complesso gioco di enunciazioni mediante alcuni personaggi che acquisiscono la funzione di demiurgo. Come afferma Giorgio De Vincenti, il gioco con i materiali della rappresentazione è una delle caratteristiche fondamentali del cinema moderno, che ha costituito un sistema di rappresentazione in cui i diversi materiali partecipano alla creazione di “un testo nuovo” con il quale si “reinterroga il cinema, la sua storia, i suoi modi tradizionali di produrre senso”9. Per questo motivo una parte del cinema moderno non ha fatto altro che proporre una progressiva teatralizzazione del cinema, fino a generare un ritorno ad alcune forme del cinema primitivo: la frontalità della scena, l’unità spazio-temporale e il punto di vista unico della macchina da presa. Lo spostamento o fusione tra diversi materiali rappresentativi si propone, come ha osservato Joèl Magny, di inscrivere il mito all’intemo della Storia contemporanea e di utilizzarlo per derealizzare la rappresentazione: “Il mito è una forma di rappresentazione, di discorso, di accesso ad una verità. Il fine non è quello di criticarlo, bensì di appropriarsene, inscrivendolo nella visione del mondo propria del cineasta”10.

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Tutto il gioco con il Mito e con la Storia finisce per rinviare a una riflessione su come inscrivere nella contemporaneità l’atto del filmare.

5. Il teatro epico Il confronto dei materiali mitici con la Storia è una delle caratteristiche essenziali del concetto di teatro epico articolato da Bertold Brecht. Nel teatro drammatico, basato sui parametri aristotelici della mimesis come processo generatore dell’illusione di un mondo, la rivelazione dell’essenza del dramma mette in moto il concatenarsi degli eventi, i quali sono perfettamente circoscritti in un tempo e in uno spazio che sono stati chiusi dai confini dello stesso dramma. Nel teatro epico, Brecht apre il dramma ai movimenti dialettici della Storia, per comprenderne in modo didattico i principali processi determinanti. La storicizzazione si effettua muovendo dalla presenza dell’elemento narrativo nella rappresentazione, che si esprime attraverso la successione discontinua di una serie di fatti situati in spazi e tempi differenti. Tale processo comporta anche ima trasformazione della funzione dell’attore, che cessa di essere personaggio per divenire qualcuno che presenta, interpreta e critica allo stesso tempo il fatto. Il risultato Anale provoca lo straniamento dello spettatore e la rottura dell’illusionismo. Il cinema, così come è stato istituzionalizzato, attua una fusione tra la rappresentazione e la narrazione, tra ciò che viene imitato e ciò che viene spiegato. Tuttavia tale fusione mantiene l’illusionismo, volendo produrre un’impressione di realtà attraverso la scomparsa degli indicatori dell’enunciazione del discorso fllmico e la conflgurazione del mondo diegetico come un tutto armonico." Nella sua opera Angelopoulos rompe con i modi convenzionali di rappresentazione per cercare un modo di interpretazione delle caratteristiche essenziali del teatro epico all’interno della rappresentazione cinematograflca. Per raggiungere l’immagine-simbolo, Angelopoulos muove dall’osservazione dei modi di rappresentazione/ritualizzazione a cui la realtà viene sottoposta, e giunge a ricostruire, da una posizione critica e distante, la sua realtà. Gli attori cessano di essere entità psicologiche per divenire elementi compositivi della stessa plasticità coreograflca generata dalla messa in scena. Le feste familiari, le manifestazioni politiche, i comizi elettorali, i balli, le rappresentazioni teatrali ambulanti sono le nuove forme rituali del mondo moderno. Il grado di artiflciosità di tali cerimonie rituali aumenta quando esse

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vengono sottoposte a un processo di depurazione, di stilizzazione, mediante la messa in scena. Per conseguire tale processo, Angelopoulos ricorre a una serie di figure filmiche che sono comparse persistentemente nel modo di rappresentare moderno, e che permettono di snaturare la messa in scena e di abbandonare la trasparenza. Il piano sequenza, la figura compositiva essenziale del suo cinema, non viene usato affinché la realtà esprima il suo senso contro la manipolazione del montaggio, bensì come procedimento per far durare la visione, per scorgerne i segreti. Angelopoulos cerca l’omogeneità tra la posizione di osservatore propria dello spettatore e la composizione di una messa in scena in cui la macchina da presa diviene un punto di vista immobile dell’enunciazione, un elemento essa stessa della composizione coreografica. I piani sequenza cercano la propria essenzialità, rifiutando il collegamento - attraverso il ricorso al raccorci - con i piani successivi. Ogni piano sequenza è ima parte a sé stante che frammenta l’unità del film, in modo simile a come, nel teatro epico di Brecht, la divisione in sequenze frammenta l’unità del dramma.

Attraverso la frontalità, la messa in scena rispetta la funzione dell’inquadratura come scenario teatrale. Questa figura compositiva permette di creare una distanza tra i personaggi, gli avvenimenti e lo spettatore. Nelle opere del primo periodo del cinema di Angelopoulos, in cui l’attenzione è più incentrata sul collettivo, gli attori sono figure e raramente divengono volti. Omero Antonutti - il protagonista di Alessandro il Grande - non è altro che una sagoma - quasi senza voce - che attraversa il campo visuale. A partire da Viaggio a Citerà, in concomitanza con la delusione del cineasta e con l’attenzione all’individuale, gli attori iniziano ad avere un volto, e alcuni - pochi - primi piani finiscono per trasmettere l’emozione psicologica dell’angoscia interiore. Nella memorabile scena finale de Lo sguardo di Ulisse, un travelling frontale ci conduce dalla visione della scena in campo totale fino alla visione ristretta del volto scomposto dal dolore di Harvey Keitel. L’attore cessa di essere una figura coreografica per raggiungere tutta la sua pienezza psicologica e drammatica. I piani sequenza sono una figura stilistica che rende poetica la realtà, ma la visione degli avvenimenti da un solo punto di vista finisce per privilegiare la scena come spazio virtuale. Lo spazio visibile convive sempre con uno spazio invisibile, lo spazio situato fuori ‘campo’ a cui gli avvenimenti rinviano e dietro il quale si nascondono alcuni significativi enigmi. Nel suo secondo

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lungometraggio, Meres tou 36 (Igiorni del '36,1972), girato durante il periodo della dittatura dei Colonnelli, lo spazio off divenne una strategia per insinuare ciò che andava al di là di quanto poteva essere accettato. Angelopoulos utilizzò il ‘non mostrato’ per condurre una riflessione sugli occulti meccanismi politici del colpo di Stato del generale Metaxàs nel 1936 come parabola della stessa dittatura dei Colonnelli.

Lo spazio off si trasforma anche in uno spazio etico che nasconde i segni di un orrore che non può essere rappresentato né reso visibile. In Paesaggio nella nebbia, Voula, la bambina di 12 anni che è partita con Alessandro alla ricerca di un padre immaginario, è violentata da un camionista. L’inquadratura fissa mostra la parte posteriore del camion al cui interno si verifica l’atto. L’immobilità della macchina da presa forza la visione e coinvolge lo spettatore in fatti che non vengono mostrati. Mentre la violenza su Elettra ne La recita veniva rappresentata in modo grottesco, quella su Voula è solo suggerita. In un’epoca in cui la televisione ci invita quotidianamente a convivere con le immagini dell’orrore, la posizione più nobile consiste nell’allontanarlo dal visibile, rendendo effettiva la sua presenza mediante l’allusione. Lo stesso atteggiamento etico ci impedisce di vedere attraverso la nebbia il crudele massacro di Sarajevo ne Lo sguardo di Ulisse. Ciononostante, Angelopoulos, attraverso il tempo reale del piano sequenza, ci mette in contatto con l’autentica dimensione temporale del barbaro atto.

6. la rico/truzione Nella sua ricerca dell’immagine-simbolo, Angelopoulos finisce per acquisire una coscienza personale del tempo della rappresentazione, inteso come prova o ricostruzione, come ripetizione di una serie di motivi che si fondono continuamente nella finzione e nella Storia. Ogni opera teatrale deve essere provata prima di essere ricostruita. La verità teatrale nasce dalla ripetizione continua degli stessi gesti, della stessa scena. Sylvie Rollet sintetizza questa idea affermando che “quando i film iniziano, il dramma è già accaduto e noi possiamo solo assistere alla sua ricostruzione”12. La ripetizione del dramma in teatro non è altro che un segno dell’eterno ritorno, dell’immutabilità del tempo. Non è un caso che il primo film di Angelopoulos avesse il significativo titolo di Anaparastasi (Ricostruzione di un delitto, 1970), e che constatasse l’impossibilità di ricostruire un dramma reale già accaduto, l’uccisione di un uomo da parte della moglie e dell’amante di quest’ultima.

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Angelopoulos non può intendere la mimesis come processo di imitazione del mondo, bensì come atto di ricostruzione del mondo; ma tale ricostruzione non conduce alla verità, bensì a una determinata interpretazione. La metafora rende poetico e armonioso Fincomprensibile caos della realtà e ci avvicina a una conoscenza mitica delle cose, che ci aiuta a comprendere meglio la nostrà vicinanza all’orrore. Forse la chiave dell’enigma si trova di nuovo in quella impossibile riconciliazione tra la verità del mondo e i suoi diversi modi di imitazione attraverso le parabole del visibile.

Note ' QUINTANA, A., “La imagen-sìmbolo: La poètica del cine de Angelopoulos,” Nosferatu, voi. 24. San Sebastian 1997. pp. 4-11. 1 Si riporta qui il testo del doppiaggio italiano del film, realizzato da Filippo Ottoni [N. d. T.] 2 Nicht versóhnt (“Non riconciliati”, 1954-1965) è il titolo di una delle opere chiave di Jean-Marie Straub, che il critico Serge Daney utilizza per fondare una riflessione sulla modernità ideologica e stilistica del cinema. Daney, S., La Rampe, Parigi, Cahiers du Cinéma/Gallimard 1996, p. 79. 1 Si riporta qui il testo del doppiaggio italiano del film, realizzato da Maura Vespini e a cura della CVD. [N. d. T.] 4 Harpe, N., Le regard d'Ulysse. L'exile et le royaume, Positi/, n. 415, Parigi, settembre 1995, p. 16. 5 Si riporta qui il testo del doppiaggio italiano del film, realizzato da Carlo Cosolo e a cura di VIG1ESSE s.r.l. [N. d. T] h Dichiarazioni di Theo Angelopoulos raccolte nel libro di Ciment e Ticrchant, Theo Angelopoulos cit., p. 17. 7 Lo sceneggiatore Tonino Guerra ha collaborato ad alcune delle esperienze più radicali della modernità, come le opere di Michelangelo Antonioni o di Andrei Tarkovskij. • Hughes, J., “In search of the essential image”, The Village Voice, 10 maggio 1973, p. 89. 9 De Vincenti, G.. // concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche Editrice 1993, p. 52. Si riporta qui il testo italiano originale [N. d. T.J Magny, J., “Politique de la representation”, Ètudes cinèmatographiques, nn. 142-145, Speciale Theo Angelopoulos, p. 76. 11 II modo in cui il cinema, muovendo dai postulati della modernità, ha cercato un avvicinamento ai concetti principali del Teatro epico di Bertold Brecht è oggetto di una interessante riflessione nel libro di Ishaghpourt, Y., D'une image a l'autre. La nouvelle modernità du cinema, Parigi, DenOel/ Gautier 1982. L’argomento è ripreso e aggiornato anche nell’articolo di Elsaesser, T., “From antiillusionism to Hypcr-realism: Bertold Brecht and contemporary film”, in Reinterpreting Brecht, his influence on contemporary drama and film, a cura di Pia Kleber e Colin Visser, Cambridge. Cambridge University Press 1990. 12 Rollet, S., Theatre au cinema. Theo Angelopoulos, la tragedie grecque, Festival Théàtre au

cinema de Bobigny, Parigi 1995, p. 18.

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Prima parte, Capitolo 3

“La ricerca dell’utopia nell’opera di v iXivjvt Kpoi'fav, Kunjffar ài K&pi) irporl &v pu^aaro 6vp.6v “ a òriAu, ri creiti òóptv EItjA^Ì &vokti toijry, iipiis 8’ iaròv àyrjpa» r’ àdavira t