The Last Dance. L’incontro con la morte e il morire 9788849128574

Il libro offre una copertura ampia e interdisciplinare delle questioni relative alla morte, al morire e al lutto. Integr

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Italian Pages 449 Year 2005

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The Last Dance. L’incontro con la morte e il morire
 9788849128574

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LEXIS Tanatologia, Psicologia delle situazioni di crisi e Bioetica

THE LAST DANCE

L’incontro con la morte e il morire

LEXIS

Lynne Ann DeSpelder, educatrice, autrice e psicologa. Docente del Cabrillo College di Aptos, California, ha sviluppato e tenuto uno dei primi corsi interdisciplinari sulla morte e il morire in California. Ha pubblicato testi e materiale audiovisivo per l’educazione alla morte, tiene numerose lezioni sia in Nord America sia all’estero; in particolare segue programmi di tirocinio per la preparazione degli operatori degli hospice, dei distretti scolastici e degli operatori sanitari. Albert Lee Strickland, scrittore di professione, ha concentrato i propri interessi su temi correlati alla morte fin dagli anni Settanta. Tra i suoi lavori sono numerose le pubblicazioni su temi quali comunicazione e morte, bambini e morte, come lo sono i suoi studi sulla famiglia e sull’educazione in famiglia.

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Ampiamente riconosciuto come best-seller nel suo ambito disciplinare, The Last Dance, giunto ormai alla settima edizione negli Stati Uniti, illustra lo stato dell’arte e offre una copertura esauriente e interdisciplinare delle questioni relative alla morte, al morire e al lutto. Integrando il lato sperimentale e quello accademico, così come la dimensione emotiva e quella intellettuale degli studi sulla morte, questo notevole manuale combina solide basi teoriche e di ricerca con applicazioni pratiche alla vita. The Last Dance è quel trattato sull’incontro con la morte e il morire necessario in questo momento in Italia a tutti coloro che se ne occupano a qualche titolo. In altri temini, questo manuale ci dice che non si comincia dall’anno zero, che sulla morte e il morire ci sono conoscenze consolidate, studi accurati e fondati, un’immensa bibliografia e impostazioni originali ed eccellenti dei quali non si può fare a meno nelle teorie, nei discorsi e nella pratica clinica sulla morte e il morire.

DESPELDER STRICKLAND

Collana diretta da Francesco Campione

THE LAST DANCE L’incontro con la morte e il morire LYNNE ANN DESPELDER ALBERT LEE STRICKLAND a cura di

Francesco Campione

CB 4181 ISBN 978-88-491-2857-4

€ 30,00

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LEXIS

XXIV Domande

Collana di Tanatologia, Psicologia delle situazioni di crisi e Bioetica Diretta da Francesco Campione 2

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Lynne Ann DeSpelder Albert Lee Strickland

The Last Dance L’incontro con la morte e il morire

a cura di Francesco Campione

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© 2007 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna Titolo originale: The Last Dance. Encountering Death and Dying. McGraw-Hill, Seventh Edition, 2005. Copyright © 2005, 2002, 1999, 1996, 1992, 1987, 1983 by Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland. Traduzione di Annachiara Tognetti Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

La traduzione dell’opera è stata realizzata con il contributo del SEPS – SEGRETARIATO EUROPEO PER LE PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE

Via Val d’Aposa 7 - 40123 Bologna tel. 051 271992 - fax 265983 [email protected] - www.seps.it

DeSpelder, Lynne Ann The Last Dance. L’incontro con la morte e il morire / Lynne Ann DeSpelder, Albert Lee Strickland ; a cura di Francesco Campione – Bologna : CLUEB, 2007 445 p. ; 24 cm. (Lexis. 24., Tanatologia, Psicologia delle situazioni di crisi e Bioetica: Domande / collana diretta da Francesco Campione ; 2) ISBN 978-88-491-2857-4

In copertina: Edvard Munch, The Dance of Life. 1889-1900, Olio su tela, National Gallery, Oslo. Progetto grafico: Oriano Sportelli

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com

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INDICE

Introduzione ........................................................................................................

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Capitolo 1. L’atteggiamento nei confronti della morte: un clima di cambiamento ..... I fattori che determinano la familiarità con la morte .................................... Le modalità espressive degli atteggiamenti nei confronti della morte ......... Il tempo presente: atteggiamenti e consapevolezza della morte ...................

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Capitolo 2. L’educazione alla morte: l’influenza dei fattori socio-culturali .......... Come matura il concetto di morte ................................................................. Come si sviluppa la comprensione della morte ............................................ La comprensione della morte: le influenze socioculturali ............................ Società e cultura: le prospettive teoriche ...................................................... La morte nelle società multiculturali contemporanee .................................. Ancora sulla concezione matura della morte .................................................

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Capitolo 3. Prospettive storiche e transculturali sulla morte ............................... Culture preistoriche, primitive e tradizionali ................................................ La cultura occidentale .................................................................................... La riscoperta della commemorazione dei defunti .........................................

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Capitolo 4. Il sistema sanitario: pazienti, personale sanitario e istituzioni .......... L’assistenza sanitaria moderna ....................................................................... L’assistenza dei morenti .................................................................................. L’assistenza nelle situazioni traumatiche e di emergenza .............................. Lo stress di coloro che assistono ................................................................... L’accompagnamento del morente ..................................................................

109 110 115 124 126 128

Capitolo 5. La morte nelle politiche sociali .......................................................... Definire la morte ............................................................................................ Trapianto e donazione di organi..................................................................... L’etica medica: due culture a confronto ........................................................

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Capitolo 6. Di fronte alla morte: convivere con le malattie che minacciano la vita .................................................................................................................. I significati personali e sociali delle malattie che minacciano la vita ............ Affrontare le malattie che minacciano la vita ................................................ La gestione del dolore .................................................................................... Il decorso del morire ...................................................................................... Il ruolo sociale dei morenti ............................................................................

153 154 156 169 172 175

Capitolo 7. La fine della vita: problemi e decisioni .............................................. Principi di etica medica ................................................................................. Il consenso informato ..................................................................................... La relazione medico-paziente ........................................................................ Scegliere la morte ........................................................................................... Le disposizioni anticipate ..............................................................................

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Capitolo 8. Comprendere l’esperienza della perdita ............................................. Lutto, cordoglio ed elaborazione del lutto .................................................... L’esperienza del cordoglio .............................................................................. I modelli del lutto ........................................................................................... Variabili che influenzano il lutto ................................................................... La morte annunciata ...................................................................................... Il supporto delle persone in lutto .................................................................. Il lutto come opportunità di crescita .............................................................

211 212 215 225 235 239 247 250

Capitolo 9. La morte nella vita dei bambini e degli adolescenti .......................... Incontri con la morte nella prima infanzia .................................................... Bambini con gravi malattie ............................................................................ I bambini che sopravvivono alla morte di un caro ....................................... Gruppi di supporto per bambini .................................................................. Aiutare i bambini a reagire al cambiamento e alla perdita ...........................

253 254 257 260 269 270

Capitolo 10. La morte nella vita degli adulti ....................................................... Il lutto dei genitori ......................................................................................... La morte di un genitore ................................................................................. La perdita del coniuge ................................................................................... La morte di un amico .....................................................................................

283 284 298 299 303

Capitolo 11. Il suicidio ......................................................................................... Comprendere il suicidio ................................................................................ Teorie esplicative del suicidio ......................................................................... Alcuni tipi di suicidio ..................................................................................... Fattori di rischio che influenzano il suicidio ................................................. Le prospettive del suicidio lungo il corso della vita ...................................... Pensare al suicidio .......................................................................................... I messaggi dei suicidi .....................................................................................

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Suicido: prevenzione, intervento, postvenzione ........................................... Aiutare una persona in stato di crisi suicidaria .............................................

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Capitolo 12. I rischi di morte nel mondo moderno .............................................. Correre rischi ................................................................................................. Incidenti ......................................................................................................... Disastri ............................................................................................................ La violenza ..................................................................................................... Il terrorismo ................................................................................................... L’AIDS e le altre malattie emergenti ............................................................. Affrontare i rischi ...........................................................................................

345 346 348 349 353 367 375 382

Note .....................................................................................................................

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01Prefazione:01Cap1

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INTRODUZIONE

La traduzione in italiano di The Last Dance (bel titolo, che perciò è rimasto invariato nell’edizione italiana) esprime nel bene e nel male lo stato degli studi tanatologici in Italia. Quando, infatti, in un certo contesto culturale appare per la prima volta un trattato di una certa disciplina, è segno che questa disciplina si trova nell’ambiguità tipica dell’età adolescenziale: non è più nell’infanzia ma non è ancora adulta. Così è, in effetti, per la Tanatologia in Italia: comincia ad acquistare una fisionomia autonoma dagli ambiti dottrinali, religiosi e clinici nei quali finora ha vissuto1 ma è lungi dal presentarsi con la specificità che caratterizza Tanatologie più mature come quella dei paesi anglosassoni, USA in testa, o quella messicana. The Last Dance è quindi quel trattato sull’incontro con la morte e il morire che è necessario in questo momento in Italia a tutti coloro che si occupano a qualche titolo della morte e del morire con l’intenzione di uscire da una situazione caratterizzata dal credersi esperti della morte solo per averne vissuto qualche esperienza personale o professionale. In altri temini, questo trattato ci dice che non si comincia dall’anno zero, che sulla morte e il morire ci sono conoscenze consolidate, studi accurati e fondati, un’immensa bibliografia e impostazioni originali ed eccellenti delle quali non si può fare a meno nelle teorie, nei discorsi e nella pratica clinica sulla morte e il morire. Si tratta ovviamente in gran parte di un materiale di provenienza anglosassone, ma è inevitabile che sia così dato che è nella parte anglosassone della cultura occidentale che la morte ha perso negli ultimi vent’anni gran parte del suo carattere di tabù ed ha potuto così essere oggetto di studi e riflessioni che da noi (come in quasi tutte le parti non anglosassoni della cultura occidentale) sono appena cominciati. Certo tutte le culture hanno da sempre affrontato il tema della morte e l’esigenza di dare un senso

1

F. Campione, Thanatology in Italy, in “Death and bereavement around the world” 3: Death and bereavement around Europe, a cura di John D. Morgan e Pittu Laungani, Amityville, N.Y., Baywood, 2004, pagg. 87-96.

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ad essa per renderne meno dura la tragedia, ma era una “tanatologia ancillare”, cioè al servizio (ancella) della religione, della filosofia, della medicina, della morale, etc. La Tanatologia classica (da sempre esistita in tutte le culture) e la Tanatologia scientifica attuale hanno in comune, come ho dimostrato altrove2, l’idea che l’uomo affronta meglio la morte tanto meglio quanto più la conosce; dove differiscono è, invece, nel modo di concepire la conoscenza: a) come una conoscenza deduttiva (fatta di precetti e in grado di “educare alla morte”): la Tanatologia classica di sempre (filosofica, religiosa, medica, etica, etc.); b) come una conoscenza induttiva (fatta di procedure tecniche in grado di “cambiare la morte” nelle sue modalità e nei suoi vissuti): la Tanatologia scientifica attuale (psicologica, sociologica, medica, teologica, bioetica, etc.). The Last Dance è un trattato che affronta tutti temi della Tanatologia in modo documentato e con una chiarezza esemplare, ma facendo riferimento agli studi tanatologici più recenti e quindi avvalorando un giudizio di superiorità a favore della Tanatologia scientifica moderna. Gli Autori mostrano tuttavia di avere nei confronti della Tanatologia classica un atteggiamento di “confronto”, come dimostra il modo in cui vengono descritti lungo tutto il volume (con rispetto e spesso con ammirazione) gli atteggiamenti verso la morte e il morire delle varie epoche e delle varie etnie compresenti nel mondo. Sembra di scorgere a volte in questo modo di affrontare le Tanatologie “altre” una specie di relativismo culturale e/o storicistico, ma quando, in un’altra parte del libro, i costumi di un popolo (quello Hawaiano) vengono quasi considerati un “modello” valido per tutti, si comprende che il confronto con le differenze è condotto valorizzando queste differenze in un’apertura non pregiudiziale che favorisce l’avvicinarsi di atteggiamenti verso la morte apparentemente inconciliabili. The Last Dance, poi, come ogni trattato che si rispetti espone più oggettivamente possibile le varie teorie senza prendere posizione, ma senza poter evitare di assumere sulle questioni più importanti la posizione dominante nel contesto culturale di riferimento. Infatti non ci sono che due alternative: o si considera che è sempre da un punto di vista particolare che si studia un certo tema (in questo caso la morte), e allora si esplicita il proprio punto di vista cercando di giustificarne le premesse e sottolineando le prove che lo avallano; oppure si assume come oggettivo il punto di vista dominante dando per scontato che esso debba esser condiviso, e così potendo presentare le conoscenze che si espongono come “scienza normale”.

2

F. Campione, Manifesto della Tanatologia, Clueb ed., Bologna, 2005.

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Un trattato non può ovviamente che essere progettato sulla base della seconda alternativa (altrimenti non sarà un trattato ma un saggio su una dimensione particolare di un certo tema), e The Last Dance non fa eccezione. The Last Dance infatti dà per scontate (cioè non le discute a fondo perché ne fa a priori la sua prospettiva) alcune posizioni oggi dominanti in campo tanatologico: I. La definizione della morte. Citiamo da The Last Dance: “La morte di una persona corrisponde alla morte di un essere umano”3. In altri termini, uno è morto quando è morto come persona (cioè quando certi processi fisiologici non funzionano, non è più cosciente e ha perso la capacità di interagire con gli altri). Si sa, al contrario, che è proprio dell’umano il poter considerare ancora persona qualcuno che non funziona fisiologicamente, non è cosciente e non è più capace di interagire ma che qualcuno ama, cioè che l’essere umano è persona non solo per ciò che è in sé e per sé ma anche per ciò che è per gli altri. Di quest’ultima possibilità non c’è ovviamente traccia in Last Dance come non c’è traccia in tutta la recente letteratura tanatologica, salvo poi ritrovarsi di fronte a questo problema tutte le volte che bisogna definire la morte o decidere se lasciar morire o trattenere in vita qualcuno; II. La comunicazione della diagnosi e della prognosi. Citiamo da The Last Dance: “Le statistiche ci dicono che la maggior parte delle persone vuole essere informata di una malattia che minaccia la vita, ma dire quando e come questo tipo di informazioni dovrebbe essere dato è ben più difficile”4. E ciò perché, secondo Richard Sandor5: “Scopriamo lievi disturbi nel ritmo cardiaco... ma cosa possiamo dire della persona che sta morendo?”. Non dovrebbe, allora, la comunicazione tenere meno conto delle statistiche (secondo le quali la maggior parte delle persone vogliono sapere) e più delle persone concrete con cui si comunica di volta in volta (vuol sapere questa persona qui che ho davanti ora?). È lo spinoso problema dell’empatia, smarrita in medicina, da quando nella clinica medica l’equilibrio tra il caso singolo (da trattare come unico e non confrontabile con nessun altro caso) e la sua classificazione statistica (che giustifica la standardizzazione degli interventi sui casi singoli) si è spezzato, a

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The Last Dance, pag. 140. Ibidem, pag. 187. 5 Ibidem, pag. 189. 4

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causa dei progressi delle tecniche diagnostiche e terapeutiche, a favore della classificazione statistica. Ma se anche fosse risolto questo problema della conoscenza dell’altro in quanto unico in base alla capacità di mettersi nei suoi panni, resterebbe la questione etica: dicendo la verità sulla sua malattia a qualcuno da cui abbiamo appreso immedesimandoci in lui che per certo vuol sapere, non dovremmo ancora chiederci se dirglielo avrà effetti benefici o malefici sulla persona stessa o su altri? In Last Dance sembra alla fine prevalere (come valutazione di “scienza normale”) il valore della volontà individuale e dell’autodeterminazione del soggetto: come prevale nei contesti culturali occidentali soprattutto anglosassoni. C’è da chiedersi, contestualizzando The Last Dance in Italia, se questa posizione possa essere trasferita pari pari nell’assistenza ai morenti italiani. Si presenta qui un problema che non può essere affrontato dal punto di vista della “scienza normale” di un trattato, se si considera che, come ho mostrato altrove6, più dell’80% dei morenti italiani accettano le cure palliative ma non smettono di sperare di guarire. Non che tale tipo di problemi sfuggano agli Autori di The Last Dance, ma vengono affrontati nell’unico modo in cui un trattato li può affrontare: promuovendo le soluzioni condivise dalla “scienza normale” (in questo caso la comunicazione franca della diagnosi e della prognosi infauste) e considerando le situazioni storico-culturali nelle quali non si riesce ancora ad adottare queste soluzioni dominanti (come la situazione italiana) alla stregua di situazioni in “transizione”. Transizione verso un dove che nessuna scienza normale di nessun trattato può prevedere o legittimare; III. Il diritto dell’individuo di determinare volontariamente il modo di morire e cioè: a) il diritto di non essere rianimato a tutti i costi e sottoposto ad accanimento terapeutico; b) il diritto di essere aiutato a morire prima del tempo per evitare sofferenze insopportabili. Sul primo punto (testamento biologico e accanimento terapeutico) The Last Dance ha una motivata posizione a favore del testamento biologico individuandone i limiti soprattutto nella difficoltà di prevedere in quale situazione clinica ci si potrà trovare. In altri termini, la cosa corretta per gli Autori sembra essere (conformemente alla posizione oggi dominante nei paesi anglosassoni) che sarebbe auspicabile dichiarare quando ancora si è sani (lasciando una dichiarazione secondo i termini di legge ad un tutore) di non voler essere rianimati in caso di perdita della lucidità e impossibilità clinica-

6 F. Campione, To die without speaking of death, in: Mortality, 9, numero 4, novembre 2004, Brunner-Routledge (Taylor and Francis health sciences).

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mente accertata di ripristinare condizioni di vita vivibile. L’unico limite sarebbe rappresentato dall’impossibilità di prevedere se una condizione clinica oggi irreversibile lo sarà ancora al momento della morte o i progressi della medicina avranno cambiato le cose in modo sostanziale. Sul secondo punto la posizione di The Last Dance è più critica, dato che: a) si presentano con altrettanto rispetto le posizioni di coloro che sono favorevoli all’eutanasia attiva volontaria accanto alle posizioni di coloro che sostengono l’eutanasia essere evitabile se si assistono bene con le cure palliative i malati terminali; b) si presenta in modo oggettivo ma positivo la legge dell’Oregon, l’unico stato che permette in USA il suicidio assistito, ma si illustrano anche le posizioni di coloro che come Ira Byock7 affermano che la legalizzazione del suicidio assistito è particolarmente pericolosa senza operare cambiamenti fondamentali nell’assistenza ai morenti in termini di una maggiore competenza dei caregivers nella gestione del dolore e nella medicina palliativa; IV. L’assistenza dei bambini morenti e la comunicazione con i bambini in lutto. Nell’affrontare l’assistenza dei bambini gravemente malati gli Autori di The Last Dance mettono in evidenza (Cap. IX) due punti cruciali: a) “I bambini molto malati non sono spettatori passivi degli eventi medici e sociali che ruotano attorno alla loro malattia”8, nel senso che, per comprendere il loro modo di reagire ed aiutarli, bisogna prendere in considerazione non solo la natura della malattia e dei trattamenti e le razioni familiari, bensì anche l’età del bambino e la sua storia personale. In altri termini bisogna prendere atto del fatto che “ogni volta che un bambino torna all’ospedale è una persona diversa, nel senso letterale del termine. Egli si trova a un nuovo stadio dello sviluppo e quindi con paure e aspettative conseguentemente diverse”9; b) Come osserva Ida Martinson10: “la barriera più difficile da abbattere (nel provvedere un vero supporto a bambini che stanno morendo e alle loro famiglie) è la difficoltà dei genitori, dei medici e degli infermieri ad accettare che un bambino stia effettivamente morendo. Nessuno vuole che un bambino muoia, per questo i trattamenti vanno ben oltre il limite considerato accettabile per il bambino stesso”. È anche per questo che “qualunque sia il luogo –

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The Last Dance, pag. 198. The Last Dance, pag. 258. 9 The Last Dance, pag. 259. 10 The Last Dance, pag. 260. 8

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luogo – hospice, ospedale o casa – le famiglie che affrontano la malattia grave di un bambino e che si avvicinano alla morte, dovrebbero poter usufruire di supporto appropriato tanto dai professionisti che dalla comunità”11. Quanto poi al modo giusto di comunicare con i bambini che devono affrontare la morte, è molto più sviluppato il tema della comunicazione nell’aiuto ad un bambino in lutto che quella della comunicazione nell’aiuto ad un bambino morente. Sempre nel capitolo IX gli Autori indicano delle vere e proprie linee guida su come condividere le comunicazioni con i bambini nel processo di elaborazione del lutto. Vale la pena di farne un breve resoconto critico. “Se i bambini si sentono trattati come protagonisti della situazione in cui si trovano è più facile per loro reagire ai sentimenti che una morte o una malattia grave suscitano in loro. Se vengono esclusi o se non si risponde alle loro domande, l’incertezza può aggravare l’ansia e la confusione. Quando anche un adulto si sforza di reagire a un’esperienza traumatica, è difficile spiegare queste circostanze a un bambino. Data la natura della crisi e per la stessa idea che i bambini abbiano una limitata capacità di comprensione, si può tendere a non considerare o a ignorare i sentimenti e le preoccupazioni di un bimbo. Anche se di solito gli adulti si dicono d’accordo con l’idea che si debba dire al verità ai bambini, è però possibile che si sentano a disagio nel comunicargli notizie dolorose. Spesso gli adulti si domandano se ai bambini non faccia peggio sapere la verità.”12. La risposta degli Autori di The Last Dance è schematicamente la seguente: 1. Rispondere alle domande e alle preoccupazioni di un bambino significa farlo senza sconvolgerlo con troppi dettagli e tenendo conto delle sue capacità di comprensione. La spiegazione deve in altri termini essere semplice, limitata ai fatti fondamentali e bisogna verificare che il bambino abbia capito; 2. Nello spiegare la morte ad un bambino innanzitutto bisogna essere onesti; 3. Non rimandare il momento in cui parlare della morte al bambino. Bisognerebbe farlo cioè quando la vita quotidiana ne fornisce l’occasione e non aspettare che sia avvenuta la morte di qualcuno e parlarne al bambino nel bel mezzo di una crisi: sarebbe più difficile per lui sopportare le emozioni tipiche di una fase critica; 4. La spiegazione della morte deve essere data al bambino esprimendola al suo livello di comprensione;

11 12

The Last Dance, pag. 260. The Last Dance, pag. 270.

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5. Verificare che il bambino pensa ciò che gli è stato detto e non altro. Per favorire questo risultato bisogna evitare il più possibile l’uso di metafore che possano innescare nel bambino incontrollabili e fuorvianti associazioni mentali. L’esempio degli Autori è quello della bambina a cui era stato detto che il cancro che aveva portato alla morte del nonno era come un seme che era cresciuto nel suo corpo. Nessuna meraviglia se questa bambina ha capito che i semi fanno morire e finché la cosa non si è chiarita ha rifiutato di ingoiare qualsiasi seme. Tutto giustissimo e razionalissimo dal punto di vista di una psicologia cognitivista, per la quale cioè le nostre reazioni sono dovute a ciò che sappiamo, al grado di comprensione che ne abbiamo e conseguentemente al grado di certezza o di incertezza che si determina in noi attraverso le informazioni ricevute. Ma quando un bambino fa una domanda sulla morte non interroga solo ciò che sappiamo ma anche le nostre credenze. Inoltre queste domande dei bambini ci mettono in difficoltà perché ci possiamo sentire di fronte ad esse responsabili del male che possiamo far loro rispondendo in un modo non adeguato. Analizziamo ora le linee guida di The Last Dance alla luce di queste premesse. 1. Un bambino a cui non sono stati dati i dettagli più sconvolgenti di una situazione di morte o a cui è stato detto che i morti vanno in cielo a vivere un’altra vita potrebbe considerare disoneste queste risposte, perché non riesce ancora rispettivamente a concepire il valore protettivo di certe “bugie”, o una vita diversa da quella concreta che percepisce con i suoi sensi. È tipicamente da adulti pensare che realtà e immaginazione siano separati mentre per i bambini esse non sono così ben distinte secondo gradazioni che cambiano nel corso dello sviluppo. Perciò: a) le emozioni di ciò che il bambino immagina in una situazione quotidiana di morte potrebbero essere più forti di quelle determinate da ciò che egli immagina in una situazione di crisi; b) capire se la spiegazione data al bambino è al suo livello di comprensione può non bastare per stabilire se la spiegazione data è adeguata, dato che il bambino potrebbe essere già in grado di capire ma non ancora in grado di sopportare; c) constatare ciò che il bambino ha compreso o ciò che ha immaginato di comprendere può essere abbastanza arduo e rendere abbastanza difficile verificare ciò che il bambino pensa che gli sia stato detto. Ancora una volta The Last Dance dimostra di essere un trattato che sposa il punto di vista dominante in psicologia e nella nostra cultura in generale,

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secondo il quale il valore più importante è la conoscenza, e per gestire una situazione (compresa la morte di un caro per un bambino) bisogna saperne gestire le informazioni. Si tratta di un approccio alla comunicazione in cui prevale il “cosa” della comunicazione, laddove il “come” è subordinato al “cosa”, nel senso che la cosa più importante nel comunicare è sempre farlo in modo da trasmettere proprio ciò che si vuole trasmettere attraverso le informazioni a disposizione. Il “perché” della comunicazione, cioè se comunicando qualcosa in un certo modo si aiuta o si fa male, si fa a sua volta dipendere da come si elabora il “cosa” attraverso il “come”. In realtà, tornando al nostro esempio, allorché un adulto è posto dinanzi alla difficoltà di aiutare un bambino a gestire un lutto, prima ancora di potersi chiedere “cosa gli dico e come glielo dico” deve chiedersi perché glielo dice, qualsiasi cosa gli dica. Si tratta di quella domanda che attiene alla responsabilità a cui il bambino stesso convoca con le sue domande e che fa dire a molti che in realtà nessuno sa cosa bisogna dire ad un bambino sulla morte e come dirglielo prima di entrare empaticamente in contatto con quel bambino. Con la conseguenza di poter pensare che il modo migliore di comunicare sulla morte col bambino (e anche forse con l’adulto) sia di andargli incontro in modo che il “cosa” e il “come” di questa comunicazione scaturiscano da un parlarsi tra adulto e bambino che può avere come unico obbligo quello di non far del male e di aiutarsi a vicenda (a volte il bambino aiuta più l’adulto che viceversa), ma senza linee guida a priori. Per chiarire un poco meglio questa posizione sulla comunicazione, che ho altrove13, 14 illustrato (nelle sue applicazioni alla morte e al lutto) e che sto utilizzando per discutere criticamente le posizioni espresse in The Last Dance, farò un esempio. Supponiamo che di fronte alla morte di una persona cara si risponda alle domande di un bambino in modo metaforico dicendo ad esempio “il nonno è andato in cielo”. Il bambino potrebbe sia pensare che il cielo sia un bel posto, come vorremmo fargli credere sulla base del fatto che collochiamo in cielo la vita ulteriore di chi è morto, sia che sia un brutto posto, dato che gli manca il nonno e il cielo gliel’ha tolto. Che egli arrivi alla conclusione positiva o a quella negativa non è dovuto solo alle sue elaborazioni cognitive bensì anche a come prosegue, se prosegue, la conversazione con l’adulto che gli ha parlato del cielo come del posto in cui vanno i morti. Se ad esempio il bambino, dopo avergli detto che il nonno è in cielo, chiede cosa c’è in cielo e l’adulto evita di rispondere perché non sa rispondere, possiamo supporre che a

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F. Campione, Contro la morte, Clueb Editore, Bologna, 2003. F. Campione, Il deserto e la speranza, A. Armando Editore, Roma, 2000.

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questo punto il bambino non abbia a disposizione altro che la sua capacità cognitiva e immaginativa di elaborazione mentale, e su questa base si farà le sue teorie, le quali bene che vada saranno basate sull’incertezza. Se, invece, l’adulto pur non sapendo nulla del cielo si assume la responsabilità di ciò che ha detto al bambino e cerca di proseguire la conversazione anche quando non sa come rispondere, si può stabilire, tra il bambino che non sa e vuole sapere e l’adulto che non sa e deve rispondere, una relazione comunicativa completamente diversa, cioè non solo basata sullo scambio di informazioni su ciò che si sa ma anche sull’aiuto che si deve all’altro che ha bisogno d’aiuto perché non sa. Concluderò questa nota assumendomi, come curatore della pubblicazione in Italia di The Last Dance, tutte le responsabilità per i tagli (qualche capitolo e molti inserti) che ho apportato all’edizione originale per adattare il libro al contesto culturale italiano. Mi riservo naturalmente la possibilità di ricredermi e di inserire parti escluse da questa prima edizione, qualora l’accoglienza del pubblico italiano nella sua quantità e nella sua qualità lo rendesse necessario e coerente. Non posso poi congedarmi definitivamente dal lettore che ringraziando Lynne Ann DeSpelder e Al Strikland senza la cui fiducia incondizionata nell’affidarmi la traduzione in Italia della loro “creatura”, questo primo trattato di Tanatologia non avrebbe potuto vedere la luce nel nostro paese. Francesco Campione - Castello Malvezzi 21 Maggio 2005

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Capitolo 1

L’ATTEGGIAMENTO NEI CONFRONTI DELLA MORTE: UN CLIMA DI CAMBIAMENTO

Di tutte le esperienze umane, nessuna presenta implicazioni così profonde e sconvolgenti come la morte. Nonostante ciò, quasi per tutti, essa resta un’ombra la cui presenza è solo vagamente avvertita. Si tende a relegarla ai margini, quasi cercando rifugio nel detto “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.1 Pur ossessionati dalla potenza della morte, se ne prendono le distanze, cercando di tenerla sotto controllo attraverso i mezzi apparentemente illimitati della tecnologia medica. Riflettendo sulle dimensioni della rimozione della morte nelle società moderne, inoltre, si deve considerare il ruolo della negazione istituzionale. Uno studente ha osservato: “A volte sento che, nella nostra società, c’è troppo poco spazio per gridare, per piangere, per urlare, per cantare, per toccare, per essere umani”: la morte, invece, evoca tutti questi aspetti del comportamento umano. Perché esiste la morte? Ragionando in prospettiva, si comprende che la morte promuove la varietà attraverso l’evoluzione della specie. La durata della vita dell’essere umano è tale da consentire la sua riproduzione, assicurare la prosecuzione della specie e permettere combinazioni genetiche che forniscano mezzi di adattamento al mutare delle condizioni ambientali. In questa ottica, la morte assume, dunque, un suo senso. Tale spiegazione, però, è di poco conforto quando la morte tocca la nostra vita. Si è affermato che gli individui e le società devono accettare e, allo stesso tempo, negare la morte. È necessario, infatti, accettare la morte se si vuole mantenere il contatto con la realtà; contemporaneamente, la si deve negare se si intende proseguire la vita quotidiana mantenendo l’impegno rivolto al futuro che, comunque, risulta inevitabilmente limitato dalla nostra mortalità. Secondo il sociologo Talcott Parsons, l’atteggiamento delle società moderne nei confronti della morte è non tanto quello di negarla, quanto di cercare ogni possibile risorsa per prolungare una vita attiva e sana e di accettarla solo quando essa è sentita come inevitabile.2 Consideriamo come le esperienze relative alla morte e al morire siano cambiate nel corso degli ultimi cento anni.3 Nel XIX secolo, la popolazione

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viveva prevalentemente in aree rurali e, di solito, le persone morivano in casa, spesso circondate da una famiglia estesa che copriva l’arco di diverse generazioni. All’avvicinarsi della morte, i parenti e gli amici si riunivano per vegliare il malato; in un secondo tempo, essi lavavano il corpo e lo preparavano per il funerale, sistemandolo, poi, in una bara artigianale esposta nella sala della casa, dove parenti e amici partecipavano alla veglia, condividendo il lutto. Nelle piccole comunità, una campana suonava tanti tocchi quanti erano gli anni del defunto, diffondendo la notizia della morte, in modo che gli altri membri della comunità potessero partecipare ai riti di celebrazione del trapasso del defunto. Anche i bambini erano coinvolti in tutte queste attività, stavano con gli adulti e, a volte, dormivano nella stessa stanza che accoglieva la salma. In seguito, nel terreno di famiglia o in quello del cimitero, si calava la bara nella fossa e le persone più vicine al defunto la ricoprivano di terra con il badile. Durante tutto questo processo, dalla cura della persona in fin di vita fino alla sua sepoltura, la morte restava nell’ambito della sfera familiare. Immaginiamo ora un individuo del XIX secolo trasportato improvvisamente nel presente. Il suo sconvolgimento culturale, entrando in una tipica camera ardente moderna, è molto forte: invece di una semplice bara di legno, ne vede una ben più lussuosa ed elaborata. La salma mostra tutta l’abilità di ricostruzione cosmetica dell’impresario di pompe funebri. Al funerale, vede parenti e amici che elogiano il defunto. “Ah, questo mi è familiare, ma dov’è il caro estinto?”. Lì, da parte, la bara resta chiusa e la morte celata, ma con buon gusto… Al cimitero, quando il servizio funebre è concluso, rimane perplesso nel vedere andare via tutti, afflitti, mentre la bara è lasciata lì, ancora insepolta. Il personale del cimitero completerà l’effettiva sepoltura. Nei panni di un osservatore del diciannovesimo secolo, dunque, si rimarrebbe colpiti soprattutto dal fatto che la famiglia del defunto e i suoi amici, più che partecipanti, si rivelano spettatori. Preparare il morto per il funerale e gestire i riti di passaggio sono ormai lavori da professionisti. Non tanto tempo fa, le pratiche appropriate per la cura dei morenti e dei morti, erano parte della consuetudine della vita domestica. Oggi sono poche le persone capaci di fornire simili cure. Apprendere il modo in cui, in passato, le persone affrontavano i problemi della morte, quali fossero le loro credenze e quali sentimenti provassero, aiuta a raggiungere una migliore comprensione nel valutare quanto gli atteggiamenti personali siano influenzati dalle forze sociali che plasmano il rapporto con il morire e con la morte.

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I fattori che determinano la familiarità con la morte Gli ultimi cento anni hanno visto un consistente mutamento nella dimensione, forma e distribuzione della popolazione americana, ovvero, nella sua demografia. Questi cambiamenti – i cui effetti maggiori risultano essere l’aumento dell’attesa di vita e il minore tasso di mortalità – influenzano le nostre aspettative riguardo alla morte. Oltre a questo, la tipologia familiare del XIX secolo includeva genitori, zii, zie e nonni anziani, ma anche bambini di varie età. Famiglie così estese, con più generazioni conviventi sotto lo stesso tetto, sono oggi rare; diffuse, invece, sono unità familiari più piccole, nelle quali ogni membro ha minori opportunità di vivere in prima persona la morte dei propri consanguinei, anche a causa di un’aumentata mobilità geografica che rende meno probabile la sua presenza in tali momenti. La tecnologia medica, inoltre, contribuisce fortemente a determinare il modo in cui una persona muore e il luogo in cui ciò accade. Nell’incontro con la morte, si fa appello ai professionisti – dal cardiologo a chi indaga sulle morti sospette, fino all’addetto al crematorio – perché operino da intermediari. L’effetto di tale rete di relazioni è che la maggior parte di noi non ha più familiarità con la morte. Attesa di vita e tasso di mortalità A partire dal 1900, la vita media negli Stati Uniti è cresciuta da 47 a 77 anni.4 Oggi, un neonato ha un’attesa di vita di 70/80 anni, se non maggiore. Non era così nel 1900. Più della metà dei decessi si verificava tra i bambini al di sotto dei 14 anni, oggi quella percentuale è scesa a meno del 2%.5 Questo dato influenza il modo in cui pensiamo (o non pensiamo) alla morte. Un altro modo per valutare come sia mutato l’impatto della morte, è esaminare il tasso di mortalità (normalmente inteso come il numero di decessi ogni 1000 abitanti nel periodo di un anno). Nell’anno 1900, il tasso di mortalità in America fu del 17‰, mentre oggi è del 8,7‰.6 Proviamo ad immaginare un ambiente nel quale era comune morire in età giovane e consideriamo quanto dovesse essere diversa l’esperienza del morire e della morte per i nostri progenitori, in un’epoca nella quale l’alta percentuale di decessi neonatali era considerata come una fatalità ineluttabile. Sia i giovani, sia gli adulti avevano familiarità con la morte, che consideravano come una componente naturale della condizione umana. Le madri morivano di parto, i bambini nascevano morti, uno o entrambi i genitori potevano morire prima che i figli raggiungessero l’adolescenza. I fratelli e le sorelle dei sopravvissuti spesso appendevano ai muri delle proprie camere le foto dei fratelli e delle sorelle deceduti, in segno di commemorazione e a testimonianza dell’unione del-

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la famiglia.7 Con una tale diffusa consapevolezza della mortalità, i nostri avi, non avevano alcuna possibilità di aggirare la realtà della morte. Le cause di morte I cambiamenti dell’attesa di vita e del tasso di mortalità sono dovuti in larga parte alla mutata tipologia delle cause di decesso. Ai primi del ‘900, le principali cause di morte erano malattie infettive quali tubercolosi, febbre tifoide, difterite, setticemia da streptococco, sifilide o polmonite. Queste malattie si manifestavano per lo più all’improvviso e la morte seguiva rapida. Oggi, la maggior parte dei decessi è conseguenza di malattie croniche, di natura cardiaca o tumorale, che tendono a seguire un decorso lento e progressivo della durata di settimane, mesi, o, addirittura, anni. I dati statistici degli ultimi anni mostrano che le dieci principali cause di morte incidono sull’80% circa di tutti i decessi degli Stati Uniti. Le prime due cause, malattie cardiache e cancro, incidono su più della metà del totale dei decessi.8 Questo mutamento storico nella diffusione delle malattie, una transizione epidemiologica, è caratterizzato principalmente dallo spostamento dei decessi dai giovani agli anziani9 (come hanno verificato gli studi sull’andamento della salute e delle malattie). Essendosi ridotto il rischio di morte per malattie infettive in età giovanile, le persone muoiono più tardi e, generalmente, per patologie degenerative. Tutto ciò, accresce la presenza di persone anziane: mentre nel 1900, le persone oltre i 65 anni erano il 4% della popolazione degli Stati Uniti e coprivano il 17% dei decessi, oggi esse rappresentano più del 12%10 e coprono il 75% degli oltre 2,4 milioni di decessi all’anno.11 È, quindi, il mutare delle cause più comuni dei decessi che ci porta a pensare alla morte come a qualcosa che accade in tarda età.

Spesso mi chiedo come sarebbe essere nato e cresciuto e vivere tutta la propria vita all’interno dello stesso quartiere. Mi chiedo come sarebbe poter chiamare tutti i propri familiari e amici senza dover comporre un prefisso. Come sarebbe non sentire sempre la mancanza dell’una o dell’altra persona, dell’uno o dell’altro posto. Come sarebbe ritornare in una casa di famiglia nella quale si è cresciuti e nella quale si conservano ancora le proprie cose in soffitta. La mia famiglia vive nell’area del prefisso 405 e il mio migliore amico vive al 415 e io abito al 212. I miei suoceri stanno al 203. E ci sono altri amici al 213 e al 202, al 412 e al 214. da: Beverly Stephen, “A Mobile Generation in Search of Roots”

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La mobilità geografica Ogni anno, circa un sesto della popolazione americana, cambia casa.12 Si fanno le valigie, si salutano gli amici, i vicini e i genitori. In passato, le relazioni umane erano legate al luogo e alla comunità; oggi, invece, esse dipendono dal ruolo o dalla funzione che si ricopre e non più da una vita d’esperienze condivise. I bambini, una volta cresciuti, raramente restano a vivere con i genitori, né tanto meno con i fratelli e le sorelle nell’ambito della famiglia estesa; poche sono le amicizie del liceo che riescono a durare fino alla vecchiaia; la maggiore mobilità geografica, infine, comporta una minore probabilità di essere presenti ai funerali dei propri cari, con il risultato che manca la condivisione dei rituali funebri. Certamente, alcune persone riescono a conservare saldi legami familiari, pur non vivendo nella stessa abitazione o nella stessa città. I flussi di mobilità variano anche a seconda degli individui e dei gruppi: alcuni gruppi etnici e culturali, ad esempio, continuano ad assegnare molta importanza alla coesione della famiglia nonostante le tendenze generali. In certi casi, il contatto ridotto con i propri parenti è compensato da un maggiore contatto con amici e vicini di casa.13 Malgrado ciò, la mobilità geografica tende a diminuire la nostra familiarità con la morte. La morte si allontana da casa In un passato non troppo lontano, la maggior parte delle persone moriva in casa, nel proprio letto, circondata dalle persone amate. Nel 1900, negli Stati Uniti, ciò avveniva nell’80% dei casi. Ora è l’opposto: circa l’80% dei decessi avviene in luoghi istituzionali, prevalentemente in ospedale e in casa di riposo. La morte si è allontanata dalle case per una serie di cause, tra le quali l’evolversi delle tecnologie mediche e i mutamenti demografici, il che spiega, ancora una volta, la nostra scarsa familiarità con la morte e il morire. L’interscambio generazionale, che in passato era parte della vita quotidiana, è diminuito e l’aneddoto dei due bambini in giro per le case in occasione della festa di Halloween è esemplare in questo senso. I due bambini arrivano davanti ad una casa di riposo che ha le luci accese e, dopo aver bussato non ricevendo alcuna risposta, gridano “Dolcetto o scherzetto?”. Una voce femminile risponde: “Non avrete nessun dolcetto in questo posto. Qui ci sono solo anziani e lasciano le luci accese solo per sicurezza, non per i bambini in giro la sera di Halloween!” Sono molte le persone che preferirebbero vivere i loro ultimi giorni a casa, ma la natura della malattia di cui soffrono o la mancanza di supporto so-

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ciale possono rendere ciò difficile o impossibile. Chi sostiene la necessità di migliorare la qualità delle cure nelle fasi terminali della vita, sta cercando di rendere di nuovo possibile la scelta dell’assistenza domiciliare per i malati terminali. Per ora, l’intima esperienza della morte di un proprio caro è spesso sostituita dal suo annuncio con una telefonata.* Le tecnologie moderne Nei luoghi di cura istituzionali, il malato terminale, può essere circondato da un sorprendente apparato di strumentazioni atte a monitorare la vita fino alla scomparsa dell’ultimo impulso elettrico. Macchine sempre più sofisticate controllano funzioni biologiche, quali l’attività delle onde cerebrali, la frequenza cardiaca, la temperatura corporea, la respirazione, la pressione, le pulsazioni e la chimica sanguigna, segnalando ogni variazione tramite luci, suoni e segnali sui monitor dei computer: tali strumenti possono essere determinanti in situazioni cruciali di vita o di morte. Tuttavia, le tecnologie mediche avanzate, che alcuni considerano una benedizione per la loro capacità di allungare la vita, sembrano piuttosto una maledizione a coloro che le vedono solo come il prolungamento dell’agonia della morte. La dignità può essere tenuta in scarsa considerazione dalle tecnologie mediche concentrate esclusivamente sull’organismo biologico: quali sono, dunque, i limiti di applicazione di tali mezzi negli stadi finali della vita? La definizione convenzionale di “morte” come “cessazione della vita, totale e permanente cessazione di tutte le funzioni vitali” è ora accompagnata dalla definizione medico-legale che riconosce che la vita può essere sostenuta artificialmente. Questa moderna definizione di morte non è sempre semplice come quella dei bambini: “Quando sei morto, sei morto.” Le tecnologie mediche, tendendo ad allontanare la famiglia e gli amici dal paziente che sta morendo, si presentano, dunque, come un fattore ulteriore, della nostra scarsa familiarità con la morte. L’atteggiamento del “ciò che si può fare, si deve fare”, tende a promuovere l’applicazione di cure tecnologiche, anche quando è ormai evidente che le probabilità di successo sono quasi nulle. Quando, poi, sopraggiunge la morte, ci si sorprende; esiste, infatti, la tendenza a considerare la morte non tanto come un evento naturale della vita, quanto, piuttosto, come un evento che può essere rimandato indefinitamente. * I cambiamenti relativi alle aspettative di vita, al luogo e alle cause di morte nonché al tasso di mortalità descritti in questo capitolo sono comuni, con variazioni non sostanziali, a tutti i paesi occidentali compresa l’Italia.

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L’ultimo capitolo della storia del rapporto con il morire può essere definito “morte gestita”. Anche quando si accetta il fatto che una persona sia ormai in fin di vita e si sia messa da parte l’intenzione di tentare ulteriori cure mediche, può permanere un forte desiderio di gestire la situazione in modo che tutto vada “bene”. Somministrare al momento opportuno le ultime cure per far sì che la persona possa avere una morte il più tranquilla e serena possibile, oppure avere il controllo totale della morte attraverso il suicidio assistito o l’eutanasia, sono solo alcune forme di espressione di tale desiderio. Daniel Callahan sostiene che la morte sembra ormai diventata solo una questione di efficienza da governare assieme agli ingorghi del traffico e ad altri eccessi della vita moderna.14 Le tecnologie mediche hanno avuto uno straordinario impatto sul modo in cui si muore e l’urbanizzazione e i mutamenti sociali hanno influenzato le consuetudini nella cura dei defunti. Tutto ciò è avvenuto in modo talmente rapido che le nostre reazioni personali e sociali non sempre sono riuscite a restare al passo con le innovazioni. I sociologi definiscono ritardo culturale il fenomeno per cui le società “restano indietro” di fronte a nuove questioni emergenti da sviluppi tecnologici e da rapidi cambiamenti sociali. Allo stato attuale, è molto probabile che si stia vivendo un periodo di ritardo culturale riguardo al modo che noi abbiamo di considerare la morte e il morire.

Le modalità espressive degli atteggiamenti nei confronti della morte È in base alla nostra valutazione delle esperienze passate e alla proiezione della nostra immaginazione e delle nostre aspettative sul futuro che sviluppiamo gli atteggiamenti con i quali impariamo a reagire alle diverse situazioni che incontriamo nella vita. Tali atteggiamenti traspaiono nel linguaggio che si usa per parlare della morte, nell’umorismo impiegato per reagirvi, ma anche nel modo in cui essa è dipinta dai media, dalla musica, dalla letteratura e dalle arti. Nonostante la diretta esperienza della morte sia ormai rara per la maggior parte delle persone nelle società moderne, essa occupa ancora un posto significativo nel nostro ambiente culturale e sociale. Il linguaggio Quando si parla della morte si usa spesso un linguaggio indiretto: parole come morto o morire tendono ad essere omesse, così le persone amate “se ne vanno” e il defunto “riposa”. La sepoltura diventa “inumazione”, mentre il becchino è trasformato in “operatore funerario”. Tale linguaggio rimanda a

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tutto l’allestimento coreografico che circonda il defunto. Un ascoltatore attento noterà che gli eufemismi, le metafore e il gergo sono parte fondamentale del “death talk”, così com’è definita tecnicamente la lingua impiegata per parlare della morte. Gli eufemismi, le sostituzioni di frasi, considerate dure o grossolane, con espressioni indirette o parole vaghe, possono essere usati per tenere a distanza di sicurezza la morte, mascherando la realtà; in alcuni casi, essi servono per toglierle valore e spersonalizzarla. Questo accade, ad esempio, quando il discorso diretto sulla morte è soppiantato da un lessico fatto di sostituzioni, come quando i soldati uccisi in guerra sono descritti in termini di “perdite umane” o le morti dei civili sono definite come “danni collaterali”. In questi casi, gli eufemismi prendono il posto di un’accurata descrizione dell’orrore della morte in guerra. È importante riconoscere, che l’uso d’eufemismi e metafore non sempre riflette la volontà di negare la morte o di evitare di parlarne. A volte questi meccanismi linguistici sono portatori di significati più sottili e profondi; ad esempio, nell’ambito di un medesimo gruppo etnico o religioso, espressioni come “il passaggio” mostrano una concezione della morte come una transizione spirituale. Analogamente, i biglietti di condoglianze*, o meglio la consuetudine americana delle cartoline piene di colori, simili a quelle che, in Italia, si usano per occasioni più liete, permettono alle persone di esprimere la propria vicinanza nel dolore con la famiglia in lutto senza menzionare direttamente la morte: ricorrono, dunque, frasi del tipo: “Che cos’è la morte se non un lungo sonno?” o altre, quasi intese a negarla: “Non è morto, è solo andato da un altra parte”. Immagini di tramonti e di fiori sono spesso usate per suggerire sensazioni di pace, di serenità e, chissà, di un eventuale ritorno alla natura. La perdita di una persona amata può essere menzionata anche con riferimenti a ricordi o al fatto che il tempo aiuterà a lenire il dolore. Queste “cartoline” di condoglianze riconoscono la perdita, ma in modo da confortare i famigliari e gli amici in lutto.15 Il particolare uso della lingua può rivelare qualcosa anche in merito all’intensità e all’immediatezza con cui si racconta un’esperienza d’incontro ravvicinato con la morte. Nella narrativa dei “pericoli di morte”, ovvero nelle storie su questo tipo d’esperienza, è tipico il passaggio al presente storico quando il narratore giunge al punto in cui la morte sembra imminente e inevitabile. In una di queste storie, un uomo, usando il * In USA i biglietti di condoglianze non sono così uniformi (bianchi listati a lutto) come in Italia, ma possono essere anche colorati poiché vengono scelti anche per il carattere evocativo delle loro immagini (e delle citazioni che spesso le accompagnano) a seconda del messaggio che si vuole esprimere.

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tempo passato, iniziava la narrazione del terribile incidente d’auto, di qualche anno prima, mentre guidava in mezzo a una tempesta di neve. Non appena arrivava al punto in cui, slittando sul ghiaccio, ne perdeva il controllo e invadeva la carreggiata opposta, passava al presente storico, proprio come se stesse vivendo di nuovo l’esperienza di vedere arrivare l’altra auto di fronte a lui e di essere, ormai, sul punto di morire.16 La scelta delle parole riflette anche il modo in cui la morte è vissuta in diversi periodi storici. Per esempio, dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, quando la priorità degli aiuti era ormai mutata, cambiò anche la lingua impiegata per descrivere il lavoro delle squadre di ricerca e del personale di pronto soccorso: mentre le ore diventavano giorni, il lavoro di soccorso diventò lavoro di ritrovamento. Gli sforzi per cercare le parole atte a descrivere adeguatamente ciò che accadde l’11 settembre erano evidenti in quel periodo. Si coniarono frasi quali “attacco terroristico”, “gli eventi dell’11 settembre”, “la tragedia” o, semplicemente, “it”, “il fatto”.17 Ogni singola parola scelta possiede associazioni e connotazioni proprie. Per esempio, per alcuni, la parola “attacco” era troppo vaga, per altri, “evento” sembrava banalizzare ciò che era successo. Molti poliziotti, vigili del fuoco, personale militare e altri che vedevano l’esperienza come un assalto diretto, trovarono nella parola “attacco” la descrizione che meglio avrebbe potuto pretendere una risposta. Altri preferirono la parola “tragedia” perché suggeriva l’idea di rilassamento emotivo, proprio come succede dopo le calamità. Un’altra soluzione nella scelta delle parole fu l’impiego di ciò che i linguisti chiamano metonimia, ovvero un’espressione che sintetizza un particolare avvenimento. Così come “Pearl Harbour” è diventata la metonimia dell’attacco Giapponese alle Hawaii durante la seconda guerra mondiale, “l’11 settembre”, o anche “9/11” per usare l’espressione americana, sono diventati modi comuni per descrivere la sequenza di eventi occorsi al World Trade Center, al Pentagono e in Pennsylvania. Quindi, dopo espressioni come “attacco” e “tragedia”, è stato riconosciuto che “11 settembre” era l’espressione più efficacemente evocativa, perché rappresentava tutte quelle cose e ne suggeriva anche altre. Persone che hanno vissuto i medesimi eventi luttuosi da punti di vista diversi, possono utilizzare modi diversi per parlarne. Quando Kurt Cobain del gruppo rock Nirvana morì suicidandosi, la lingua impiegata dai fan e dai mass media mostrò contrasti interessanti. Mentre, infatti, i primi esprimevano il proprio smarrimento dicendo: “Ma ti rendi conto? Si è fatto fuori, si è davvero tirato un colpo!”, i giornalisti descrivevano la morte di Cobain con parole come “suicidio” o “colpo di pistola”. Queste sottili distinzioni rispecchiano atteggiamenti molto distinti che, a volte, sottendono il riferimento a concezioni culturali e sociali ben precise. Prestando attenzione alle metafore,

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agli eufemismi e alle espressioni gergali e a tutti gli altri espedienti linguistici impiegati per parlare della morte, possiamo cogliere tutte le varietà e tutte le tipologie d’atteggiamento nei confronti della morte e del morire. L’umorismo Questioni serie e austere come la morte possono essere affrontate meglio se sono trattate con una certa vena comica. L’umorismo, infatti, rimuove le cause di alcune nostre ansietà sulla morte oppure ci può aiutare a gestire il timore che possano verificarsi eventi spaventosi. Un tale tipo d’umorismo si manifesta in vari modi, dagli epitaffi inusuali e spiritosi, al cosiddetto umorismo nero o macabro. Non molto tempo fa, alcuni motociclisti, che stavano percorrendo una certa autostrada, furono colti di sorpresa nel vedere passare uno splendente carro funebre di color bianco sulla cui targa spiccava un criptico “Non ancora”. L’umorismo spesso svolge la funzione di critica dell’incongruità o dell’insensatezza riferibile alle norme sociali o alla prospettiva stessa della nostra mortalità; come ad esempio, nella lettera a Dio scritta da una ragazzina che gli propone: “Invece di lasciar che le persone muoiano, che poi ne devi fare delle nuove, perché non ti tieni quelle che hai già adesso?”18 Mary Hall osserva che quello che ci appare comico dipende dal nostro ambiente culturale, dalla nostra esperienza e dalle nostre inclinazioni personali.19 Si possono individuare alcune specifiche modalità in cui l’umorismo mostra i suoi effetti benefici. In primo luogo, esso rivela alle nostre coscienze un soggetto tabù, fornendoci i mezzi per parlarne; in secondo luogo, ci dà la possibilità di alleviare la tristezza, offrendoci conforto e promuovendo la sensazione di controllare una situazione traumatica, anche se si sa che non è possibile cambiarla. Infine, agisce da livellatore sociale trattando tutti allo stesso modo e comunicando a tutti che nessuno è dispensato dal destino insito nella condizione umana. È per questo che l’umorismo ci avvicina e incoraggia quel senso di familiarità che aiuta a fronteggiare ciò che è oscuro e angosciante; per lo stesso motivo la comicità può essere considerata un “collante sociale” che favorisce l’empatia verso gli altri.20 Dopo un evento luttuoso, il senso del comico può rasserenare i viventi, proprio mentre ripercorrono i momenti divertenti e quelli dolorosi della vita del defunto. Un certo senso dell’umorismo può moderare l’intensità degli eventi negativi della vita. Per persone affette da malattie importanti, la comicità rappresenta un modo per affrontare, ad esempio, lo sconvolgimento conseguente ad una

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grave diagnosi; oppure cambia la prospettiva su una situazione rattristante, come il motto scherzoso che recita: “Avere un alito cattivo è meglio che non averlo del tutto”. Quando le cose vanno male, l’umorismo, di per sé, non migliora la situazione, ma può assumere una funzione psicologica di protezione aiutando a mantenere un certo equilibrio. In particolare esso rappresenta un formidabile strumento d’incoraggiamento negli ospedali, e può essere sfruttato nell’interazione tra pazienti e operatori sanitari.21 Chi lavora a contatto con la morte, ad esempio il personale del pronto soccorso, usa l’umorismo sia per prendere le distanze dall’orrore, sia per riconfermare l’unione interna del gruppo di lavoro, in modo da non sentirsi isolato nel proprio individuale dolore, dopo un incidente traumatico. Un’azienda fornitrice di materiale didattico per tecnici del soccorso include nel proprio catalogo una registrazione musicale intitolata “Puoi dare una risposta a tutti, ma non a me”. In un altro esempio, i dottori di un’equipe di un certo centro medico avevano deciso di evitare la parola “morte” quando moriva un paziente, per non allarmare gli altri pazienti. Un giorno, mentre alcuni medici stavano visitando un paziente, arrivò all’improvviso un’infermiera per comunicare il decesso di un paziente. Essendole nota la censura sulla parola “morte” e non avendo pronta un’espressione alternativa, annunciò: “Indovina chi non andrà più a fare la spesa?”. Questa frase, divenne subito l’espressione standard da usare in simili situazioni. Gli aspetti della morte che ci appaiono divertenti, possono rivelare molto dei nostri atteggiamenti. Una barzelletta che è apprezzata da un certo gruppo d’amici, può essere considerata sfacciata e sconvolgente da un altro; esistono, infatti, dei limiti al tipo di umorismo che una persona o un gruppo considerano accettabile. Tuttavia, esso ci può aiutare ad affrontare situazioni difficili, ad acquisire consapevolezza delle nostre paure e ad arrivare ad avere una certa sensazione di padronanza del mistero. Individuando gli aspetti comici della morte e mettendola sotto una luce inconsueta, siamo sollevati dall’ansietà che accompagna la consapevolezza della morte. I mass media Le tecnologie della comunicazione, diffondendo a livello mondiale e in tempo reale notizie di catastrofi, di atti di terrorismo, di guerra e di assassini politici, possono farci sentire come dei sopravvissuti: degli spettatori, attoniti e increduli, che assistono allo svolgersi di eventi sconvolgenti. Quando, poi, la situazione implica il pensiero di una minaccia imminente, ci si rivolge ai mass media come a fonti primarie di informazioni. Proprio perché tutte queste esperienze, filtrate dai mezzi di comunicazione, influenzano notevolmente la

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nostra percezione della morte e i nostri atteggiamenti nei suoi riguardi, vale la pena chiedersi: queste fonti di seconda mano, cosa ci dicono della morte? La morte nei giornali e alla televisione Quali sono le tipologie d’incontro con la morte che attraggono la nostra attenzione, quando si leggono i quotidiani? Se si dà una scorsa veloce ai titoli dei giornali, è inevitabile trovarvi un vasto assortimento d’incidenti, omicidi, suicidi e catastrofi che presentano tutti morti improvvise e violente: un titolo a tutta pagina riporta la notizia di un incidente aereo, poi si legge dell’intera famiglia morta perché intrappolata in casa durante un incendio, mentre un’altra termina le proprie vacanze in autostrada, a causa di una collisione fatale. C’è, inoltre, la morte delle persone famose. La morte di Tizio e Caio, normalmente, si comunica tramite brevi annunci, caratterizzati da una struttura fissa, e stampati a caratteri piccoli, nella colonna dei necrologi, che appariranno “uniformi quanto una fila di piccoli lotti cimiteriali”.22 La morte dei personaggi famosi, invece, è annunciata da commemorazioni funebri più approfondite.23 Tale tipologia d’annuncio funebre è preceduta da un titolo specifico ed è stampata con i caratteri che si usano normalmente per i normali articoli, il che lascia intendere il grado di importanza che il giornale attribuisce ad eventi simili. Le redazioni dei giornali conservano inoltre in archivio i cosiddetti “coccodrilli”, ovvero gli articoli di commemorazione d’ogni personaggio la cui morte sia ritenuta degna di rilievo; essi sono, poi, aggiornati periodicamente, così che al momento opportuno possano essere già pronti per essere diffusi. La morte di un vicino o di un collega di lavoro non sarà mai riportata con altrettanta enfasi; al contrario, quando persone “comuni” cercano di ottenere la pubblicazione di un ricordo più approfondito della persona scomparsa, i loro sforzi incontrano notevoli resistenze. Quando morì una ragazza colpita dal linfoma di Hodgkin, la sua famiglia inviò al giornale locale un breve resoconto della sua vita e la sua foto, chiedendo di pubblicare entrambi per diffondere la notizia del decesso. Nonostante tutti i loro tentativi e l’impegno dell’intera comunità che ben conosceva la ragazza e tutte le sue qualità, i responsabili del giornale rimasero fermi nel loro rifiuto, sostenendo che fare uscire vere e proprie commemorazioni al posto di semplici annunci necrologici, era contro la linea editoriale. Una morte ordinaria, quella che la maggior parte di noi avrà modo di sperimentare, è normalmente ignorata o menzionata solo nello stile più convenzionale possibile. Quando si tratta di morte riportata dai mass media, lo straordinario prende il sopravvento sull’ordinario. Il modo in cui noi pensiamo e reagiamo alla morte subisce l’influenza

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delle relative rappresentazioni date dai mass media, sia che si tratti di casi comuni, sia che si tratti di casi straordinari. Le notizie dei giornali, spesso, riflettono più che l’evento il modo in cui viene percepito. Questa situazione è ben illustrata da Jack Lule nella sua analisi di come la notizia della morte dell’attivista nero Huey Newton fosse stata riportata dai vari giornali.24 Newton, cofondatore del Black Panthers Party, aveva alle spalle una carriera politica ventennale, tuttavia la sua morte fu riportata con freddezza, svalutando le qualità della persona e la rilevanza della sua figura pubblica. La maggior parte degli articoli sottolineava la presenza della violenza nell’intera vita di Newton, ignorandone, invece, gli aspetti positivi. Il messaggio implicito che si voleva far passare, pareva essere: “Chi di spada ferisce, di spada perisce”. Di stampo totalmente diverso le cronache dell’esplosione della navetta spaziale Challenger poco dopo il lancio e del rientro fallimentare della navetta Columbia. Questi eventi furono descritti come tragedie nazionali, evocando un senso di lutto condiviso. Proprio come in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, la televisione fu paragonata ad un focolare nazionale attorno al quale tutti gli americani si riunivano simbolicamente per elaborare collettivamente il forte sconvolgimento e il lutto. Sia che la televisione sia considerata un focolare comune o che, semplicemente, sia paragonata a qualsiasi altra dimensione domestica, ad essa ci si rivolge non solo per informarsi, ma anche per avere suggerimenti sui significati che le notizie di eventi tragici possono avere. Un tale meccanismo pone parecchi problemi nel determinare fin dove spingersi nella narrazione della morte e del dolore: la distinzione tra evento pubblico e lutto privato è spesso scardinata. Quando un giornale canadese pubblicò la foto di una madre sconvolta dalla notizia delle ferite letali che sua figlia aveva subito in un incidente, molti lettori espressero il proprio sdegno, definendo la foto come “esempio brutale di morbosa speculazione” e “il massimo grado di cattivo gusto e insensibilità”.25 La madre, abbastanza curiosamente, non condivideva questi sentimenti: vedere pubblicata la propria foto, affermò, le permise di comprendere meglio ciò che era effettivamente successo. Una reazione simile non è rara; chi è sconvolto da una perdita improvvisa e inattesa vuole sempre conoscere tutti i dettagli per ricostruire gli eventi e fronteggiare meglio la realtà. A questo punto una simile copertura giornalistica è un’intromissione nella vita dei famigliari in lutto o è, piuttosto, la legittima diffusione di una notizia? Il giornale ha fatto bene a pubblicare la foto? O avevano ragione i lettori a difendere il diritto di una madre straziata dal dolore e che appariva vittima di una stampa eccessivamente invadente? Come suggerisce questo esempio, le persone a volte attribuiscono ai colpiti da un lutto emozioni che, in realtà, esse non provavano.

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Anche così, la copertura dei mass media porta a “ri-vittimizzazioni” o a un “secondo trauma” dopo quello iniziale derivato dal verificarsi dell’evento. I giornalisti possono catturare l’esperienza di una tragedia per i loro spettatori o lettori, a spese delle vittime e facendosi guidare molto spesso dal principio che il sangue fa notizia. A ben guardare, questa posizione giornalistica è una risposta alle tendenze voyeristiche dell’essere umano, ovvero al desiderio di vedere da vicino cosa succede nelle vite altrui, tratto che pare sia comune ai nostri cugini primati.26 Caratterizzare eventi tragici come “momenti definitivi” gioca un ruolo importante nel desiderio dell’uomo di sfuggire ad una vita piuttosto monotona per avere la sensazione che si stia vivendo in tempi straordinari.27 Un problema fondamentale è cercare di capire quanto i mass media intendano aiutarci ad esplorare il significato della morte e quanto invece siano soddisfatti semplicemente del fatto di catturare la nostra attenzione con notizie sensazionalistiche. I media spesso “soffocano la morte” e le sue implicazioni, rendendola ulteriormente impersonale, affiancando le cronache di veri eventi luttuosi alla pubblicità o ad altre notizie su questioni più mondane.28 Incidenti stradali e incidenti nelle miniere vengono affiancati alle ultime proiezioni della borsa o ai licenziamenti, in genere con scarsa attenzione al lutto e ai problemi dei sopravvissuti. Provate a pensare alla vostra personale esperienza nell’assistere alle rappresentazioni della morte in televisione e cercate di ricordare come l’informazione è stata presentata. Le cronache della morte nei media tendono ad assomigliare ben poco alle esperienze che proviamo nella nostra vita. La morte nei programmi di intrattenimento Con una media di 2,4 apparecchi televisivi in ogni casa americana, l’influenza della televisione sulla nostra vita è abbastanza evidente.29 Lungi dall’essere ignorata, la morte è un nodo centrale in molti palinsesti televisivi. Nella più classica guida ai programmi della settimana, circa un terzo di questi vede coinvolta la morte o eventi connessi: oltre che nei film e nelle varie fiction televisive, essa è ricorrente nei telegiornali (in ogni edizione c’è qualche storia che ne parla), nei documentari sulla natura (la morte nel regno animale), nei cartoni animati per i bambini (caricature della morte), nelle soap-opera (nelle quali pare che ci sia sempre un personaggio in fin di vita), nello sport (con l’uso di espressioni quali “la zona morta” e “l’altra squadra li sta facendo letteralmente fuori!”) e nei programmi religiosi (ove si menziona la morte sia in modo aneddotico sia per finalità teologiche). Nonostante ciò, solo raramente la televisione ci aiuta ad approfondire il tema: sono rare, infatti, le trasmissioni che trattano di argomenti reali, quali il modo in cui le persone affrontano la perdita di una persona cara o la propria stessa morte.

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In un certo senso, fa eccezione a questa tendenza generale, la serie televisiva americana Six Feet Under (due metri sotto!), nella quale si narra la storia di una famiglia che gestisce un’impresa d’onoranze funebri. La serie, che ha ricevuto alcuni premi, offre uno spaccato interessante del mondo degli affari che circolano attorno alla morte, anche se lo scopo principale è quello di intrattenere il pubblico, non di informarlo; con un umorismo audace, ben mescolato ad alcuni approfondimenti psicologici, essa propone momenti di riflessione su atteggiamenti e pratiche connessi con la morte, come nell’episodio in cui un direttore delle cerimonie funebri risponde ad un persona che gli aveva appena chiesto perché la gente muore: “Per rendere la vita più importante: nessuno di noi sa quanto gli resta da vivere ed è per questo che dobbiamo rendere significativo ogni giorno della nostra vita.” Pur non essendo una serie sulla morte, Six Feet Under spinge gli spettatori a riflettere sul modo in cui essa viene percepita dalla società. Prendiamo ora in considerazione i cartoni animati per bambini. In un episodio, Duffy Duck, travolto e pressato da uno schiacciasassi, si riduce ad una sorta di sottile foglio per saltare su di nuovo solo un momento dopo. In un altro caso vediamo Elmer Fudd che punta il fucile contro Bugs Bunny, preme il grilletto e spara. Bugs, del tutto illeso, si prende la gola con le mani e inizia a girare su se stesso, infine mormora: “Sta diventando tutto buio, Elmer... io... sto per...” e cade a terra, con le gambe stecchite per aria che, infine, tonfano sul terreno mentre i suoi occhi si stanno chiudendo. Ma, un attimo! Bugs si tira su, più sano di prima. Due casi di morte reversibile! Si pensi, inoltre, ai western o ai film polizieschi nei quali i “cattivi” “tirano le cuoia” e vengono senz’altro relegati sulla collina di Boot Hill dove i defunti “vedono crescere le margherite dall’altra parte”. Probabilmente, la telecamera inquadrerà il viso della persona che sta morendo e si sposterà sul suo busto fino a riprendere il dettaglio delle dita delle mani che si stanno muovendo a scatti; infine ogni movimento cessa e la musica scandisce l’esalare dell’ultimo respiro. Molto più spesso, però, la morte è violenta. Sole alto nel cielo: scontro a fuoco tra cowboy all’OK Corral; l’uomo dalla mano più lenta è colpito, annaspa, cade a terra, il corpo scosso dalle convulsioni nel silenzio più totale. Scene simili sono presenti anche in film ambientati nel futuro, come Terminator. Chi ha assistito direttamente al processo del morire di una persona, descrive un quadro molto differente. Molti rammentano il rantolo, l’affanno dell’ultimo respiro che si fa strada a stento attraverso la gola, i mutamenti di colore dell’incarnato che si fa bluastro, la sensazione del corpo, prima caldo e flessibile, ora freddo e inerte. Spesso chi ha assistito ad un simile processo, afferma che la morte non è affatto ciò che credeva: “non assomiglia per nulla, né nei suoni né nei colori, a ciò che avevo visto in televisione o al cinema!”

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Un bambino di sette anni, al quale era stata annunciata la morte del nonno, ha domandato “chi fosse stato”; generalmente, infatti, la morte è rappresentata in televisione o al cinema come qualcosa che proviene dall’esterno e spesso con violenza. Una simile nozione rinforza la convinzione che il morire sia qualcosa che ci succede e non qualcosa che facciamo. La morte, dunque, è considerata un incidente, non un processo naturale. Scenari surreali di violenza, possono renderci meno sensibili alla violenza reale e alle sue vittime, possono accrescere le paure incontrollate di subirla e, infine, possono contribuire allo sviluppo di comportamenti aggressivi.30 Tali descrizioni della violenza spesso non riescono a mostrare il reale danno subito dalle vittime, la loro sofferenza o la giusta punizione per i colpevoli. Il massmediologo George Gerbner osserva che tali rappresentazioni comunicano un elevato senso di pericolo, insicurezza e sfiducia.31 È così che si manifesta la sindrome del “mondo crudele” nella quale l’uso simbolico della morte contribuisce allo sviluppo del terrore irrazionale del morire, diminuendo così la vitalità e il senso d’autodeterminazione. Negli ultimi anni, a detta d’alcuni osservatori, la presenza di un certo “linguaggio della paura” nell’ambito dei media è sempre più evidente.32 Molti esperti sono convinti che, ad esempio, il timore della pedofilia sia un fenomeno in gran parte generato proprio dai media che sfruttano le emozioni e portano alla falsa conclusione che tutte le persone siano pericolose, anche se generalmente non lo sono: il numero di decessi a causa dei fulmini è maggiore dei decessi di bambini in seguito alle violenze di pedofili assassini.33 Il ritratto del “mondo crudele” non si trova solo nei film, ma anche in vari servizi del telegiornale e in molti documentari; i cosiddetti spettacoli di “real-tv”, per esempio, rinforzano tale percezione nello spettatore.34 La cronaca dei crimini in televisione presenta storie dalla struttura simile alle saghe medievali: il “diavolo” è simbolicamente estirpato dalla società ad opera dei suoi “guardiani”, della polizia e dei giudici. Inoltre il quadro complessivo, sia della natura del crimine sia dei criminali stessi, è distorto dai media, poiché si preferisce mettere in scena crimini spettacolari come rapine e omicidi, piuttosto che quelli, invece molto più diffusi nella realtà, di appropriazione indebita o corruzione. Ciononostante è generalizzata la tendenza a credere che il crimine sia come lo presenta il mondo della televisione.35 Mentre le esperienze in prima persona sono diminuite, è andato aumentando il sensazionalismo delle rappresentazioni, sia della morte che della violenza.36 I film dell’orrore, intrisi di violenza estrema, sono diventati un genere molto redditizio per il cinema, dopo il successo di film come Venerdì 13 e Nightmare. I critici sottolineano come il pubblico segua gli eventi con gli occhi della vittima, identificandosi con il suo destino; in alcuni film più recenti, al contrario, agli spettatori viene chiesto di mettersi dalla parte del colpevo-

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le.37 Un simile fenomeno è poi riscontrabile anche in alcuni videogiochi. Il fascino che esercita la violenza in tutte le sue forme di rappresentazione mediatica suggerisce che a rendere attraente l’esibizione della brutalità e del terrore possa essere il retroterra atavico dell’essere umano.38 Sono pochi i racconti che includono i temi della rinascita, della continuazione e d’altri aspetti positivi della morte, del morire e del lutto.39 Un’eccezione è rappresentata dal recente film scritto, diretto e interpretato dall’italiano Nanni Moretti, La stanza del figlio, che narra la storia di una famiglia in lutto per il figlio adolescente morto a causa di un incidente d’auto. In modo realistico e commovente, il film descrive le diverse emozioni che possono affiorare nel processo di rielaborazione di una tragedia, apparentemente insensata, a partire dal momento in cui ognuno si chiude nel proprio dolore individuale, fino al momento in cui la famiglia giunge al comune riconoscimento del fatto che la vita deve andare avanti nonostante tutto. Come lo stesso Moretti ha affermato: “Questi personaggi non possono e non vogliono dimenticare ciò che è successo, però, alla fine, qualcosa inizia a cambiare. Le loro vite non saranno più le stesse, ma essi hanno trovato dentro di sé le risorse per trasformare il dolore per la perdita in qualcosa di diverso.”40 A dire il vero, occorre ricordare che a volte anche la televisione e altri mass media fanno luce su alcuni aspetti importanti della morte, della sofferenza e del lutto, come ad esempio la fiction televisiva in quattro episodi On our Own Terms, prodotta da Bill Moyers,41 che esamina lo stato attuale dell’assistenza alle persone in fin di vita. Presentando il personale specializzato nelle cure palliative e nell’assistenza all’interno delle case di riposo, il programma apre una breccia nella situazione dei malati terminali, raccontando quanto sia importante parlare di questioni connesse alla morte e a tutto ciò che la circonda. Il produttore, dopo la realizzazione del film, ha osservato: “Mi sono reso conto che ogni giorno di ripresa equivaleva ad un giorno in più verso la mia stessa morte. L’osservazione della morte mi ha insegnato molto della vita.” La musica I temi della perdita e della morte si possono ascoltare in tutti gli stili musicali.42 Nel rock e in altre forme di musica leggera, tali soggetti sono costantemente presenti. (vedi tab. 1-2). Effettivamente, è stato fatto notare che alcune musiche rock hanno contribuito a rompere la censura sociale ai riferimenti alla morte; tale tesi è supportata anche da accurate ricerche sulle canzoni delle hit-parade da metà degli anni ’50 fino agli anni ’90.43 Più di recente, le tematiche in questione sono diventate quasi un luogo comune nei gene-

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ri rap e hip-hop; tra i vari esempi, “Gangsta’ Paradise” di Coolio e “I’ll be missing you” di Puff Daddy che esprime il dolore per la scomparsa di un amico intimo, mentre il cosiddetto heavy metal spesso compone liriche contenenti immagini forti di omicidi e suicidi.44 La tragedia dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, poi, ha portato i musicisti a rispondere con canzoni come “Where were you (When the world Stopped Turning)” di Alan Jackson e “Let’s Roll” di Neil Young, ispirata alle parole di un passeggero del volo 93 che andò a schiantarsi in Pennsylvania, oppure a “My city of Ruins” di Bruce Springsteen, composta in precedenza per descrivere la città del cantautore, ma che risulta molto vicina alla visione delle Twin Towers immerse nel fumo. Del resto, immagini di cenere, macerie e incubi sono comuni negli inni religiosi scritti dopo l’11/9 e molti di questi iniziano con la parola “quando” per fissare il testo in uno specifico momento temporale.45 Nel 2002, in occasione del primo anniversario dell’attacco, orchestre e cori di tutto il mondo parteciparono a ciò che divenne famoso con il nome di “Rolling Requiem” in ogni parte del mondo, alle 8,46 del relativo fuso orario, ovvero l’ora nella quale il primo aereo colpì le Torri Gemelle, venne eseguito il requiem di Mozart per il pubblico locale come commemorazione collettiva di coloro che erano morti un anno prima.46 Assassini, dolore e miserie umane sono da lungo tempo temi centrali della musica americana. Nelle ballate di tradizione popolare, per esempio, si parla di premonizioni, scene di capezzali di morte, espressioni degli ultimi desideri dei morenti, della pena e del dolore di chi resta e delle attese di cosa possa avvenire dopo la morte.47 Ricorrenti anche i temi del suicidio e dell’omicidio, specie quando si collegano con racconti di amore e morte. Prendiamo come esempio canzoni come “Where have all the flowers gone” (guerra), “Long Black Veil” (morte), “Casey Jones” (morte per incidente), “The Tbc Is Whipping Me” (malattie gravi) e “John Henry” (incidenti sul lavoro). Alcune canzoni elogiano i fuorilegge e altri “tipi cattivi” come “The Ballad of Jesse James”, un genere musicale che si trova anche nella cultura popolare messicana sotto la definizione di “narco-corridos”, canzoni narrative o corridos che trattano la vita e la carriera dei contrabbandieri e dei signori della droga.48 Nella musica blues americana, i temi predominanti coinvolgono la perdita e il rimpianto, prove e tribolazioni, morte e separazione. Blind Lemon Jefferson nella canzone “See That My Grave Is Kept Clean” esprime l’universale desiderio umano di esser ricordati dopo la morte. Son House esprime il dolore in seguito all’inaspettata perdita di una persona cara nella canzone “Death Letter”. “Crossroad Blues” del leggendario Robert Johnson comunica tutto il profondo sentimento di inadeguatezza spirituale del cantante. In “I Feel Like Going Home”, Muddy Waters rappresenta la morte come il sol-

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lievo finale dalle nostre pene più opprimenti. Altri esempi includono Bessie Smith e la sua “Nobody Knows When You’re Down And Out” (rovescio di fortuna economica), T-Bone Walker con “Call It A Stormy Monday”(perdita di un amore), John Mayall con “The Death of J.B. Lenoir” (morte di un amico in un incidente d’auto) e, infine, Otis Spann con “The Blues Never Die” (consolazione nella perdita) Anche se i testi delle canzoni blues spesso esprimono nostalgia e tristezza, la musica in quanto tale, in generale, comunica un senso di benessere, a testimonianza della capacità umana di reagire agli eventi più drammatici della vita. Anche la musica gospel tradizionale presenta molte immagini di perdita e di dolore per le persone scomparse. Ecco solo alcuni esempi: “Will the Circle Be Unbroken” (morte di un memrbo della famiglia), “Oh, Mary Don’t You Weep” (compianto), “This May BE the Last Time” (transitorietà della vita), “Known Only to Him” (affrontare la morte), “When the Saints Go Marching In” (vita oltre la morte), “If I Could Hear My Mother Pray Again” (morte dei genitori) a “Precoius Memories” (assimilazione della perdita e riconferma dei legami con il defunto). Rivolgendo la nostra attenzione alla musica classica, temi simili sono presenti in composizioni sia religiose sia laiche. La Sinfonia N.3 di Leonard Bernstein è basata su un preghiera funebre di matrice ebraica; la tipologia musicale del Requiem ha attratto compositori come Mozart, Berlioz, Verdi. Una sezione in particolare del Requiem di Mozart, il Dies Irae, è un simbolo musicale della morte ripreso anche nelle opere d’altri autori. Ad esempio, lo si può ascoltare nella Symphonie Fantastique (1830) di Berlioz, prima seguendo il suono delle campane a morto, poi, all’apice, in contrappunto alle danze sfrenate del sabba delle streghe. Il componimento di Berlioz narra di un giovane musicista che respinto dalla propria amata, tenta il suicidio con un’overdose d’oppio. Durante il coma narcotico, vive delle fantasmagorie tra le quali anche l’incubo di una marcia al patibolo. Il Dies Irae si ritrova anche nella Danse Macabre di Saint-Sae˜ns (1874) e nel Totentanz di Liszt (1849), le due versioni meglio riuscite della Danza Macabra. L’opera lirica, che mette assieme dramma e musica, tratta sempre d’omicidi e di suicidi. La sinfonia di John Corigliano come risposta alla piaga dell’AIDS ne è un esempio recente. Epica nella forma e nella struttura, essa non propone un finale, ma semplicemente si conclude, divenendo così metafora musicale dell’attuale impossibilità di guarire da questa devastante malattia. Simile a questo è il corale intitolato “Of Rage And Remembrance”, parzialmente ispirato al Names Project Memorial Quilt (ispirato alla tradizione, questo progetto si è occupato della creazione di una coperta commemorativa di grandi dimensioni formata da tante parti cucite assieme, ognuna delle quali recante nome e memorie di un defunto).49

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La marcia funebre è una forma musicale per le processioni e le sepolture funebri; esplorata da autori quali Beethoven, Schubert, Schumann, Strauss, Brahams, Mahler e Stravinsky, essa esiste anche in interpretazioni più popolari, come, ad esempio, i funerali jazz di New Orleans. Strettamente connesse alla marcia funebre, le elegie e i lamenti, sono la trasposizione musicale della poesia commemorativa. Essi sono l’espressione musicale del rituale dell’addio che si può trovare in molti contesti culturali, come ad esempio nei funerali dei clan scozzesi accompagnati dalle cornamuse. Da un punto di vista vocale, i tipici lamenti, sono una manifestazione della perdita e della nostalgia di notevole intensità emotiva. Oltre ad essere un modo per compiangere il defunto, i lamenti possono esprimere riflessioni sul futuro del familiare in lutto, sul cambiamento del suo status sociale e sulla sua richiesta di comprensione e di compassione da parte di tutta la comunità.50 In un famoso lamento greco, una madre afferma che porterà all’orafo il proprio dolore per farne un amuleto, così da poterlo portare sempre con sé.51 Nella cultura popolare Hawaiana canti conosciuti come mele kanikau erano tradizionalmente eseguiti in commemorazione dei defunti;52 alcuni erano già composti, mentre altri venivano improvvisati durante il funerale. In genere, i compositori del mele kanikau si rifacevano all’immaginario naturale per esprimere la sofferenza per la propria perdita,53 e ricordando le esperienze condivise in mezzo alla natura, essi recitano: “mio compagno nel gelo di Manoa”, “mio compagno nella foresta di Makiki”. Tali canti richiamano con intensità tutto ciò che teneva uniti il defunto e colui che lo sta piangendo. Il messaggio dei mele kanikau, dunque, non era “Sono distrutto senza di te”, bensì “Queste sono le cose che celebro di te”. Una pubblicazione recente, riflettendo sul modo in cui la musica riesce a darci sollievo nelle nostre esperienze di perdita, osserva: “Per il cuore e la mente umana, la musica è un dono che porta speranza e conforto anche nei periodi più bui. A volte, quando stiamo attraversando un momento luttuoso, alcune canzoni o composizioni musicali ci riportano a ricordi del passato che risvegliano il nostro dolore: che si tratti del Requiem di Mozart o di un motivetto da hit-parade, la musica ha il potere di richiamare alla mente i momenti felici condivisi con le persone che abbiamo amato e la cui morte ci ha fatto cadere nella disperazione. Altre volte, invece, la musica induce a riflettere sulla nostra stessa morte”.54 Provate a notare i riferimenti alla morte mentre ascoltate i differenti generi musicali e chiedetevi che tipo di messaggio si vuole trasmettere, quali sono gli atteggiamenti che vi sono espressi. Quali che siano i vostri gusti musicali, troverete sempre una vasta quantità di informazioni sugli atteggiamenti individuali e culturali nei confronti della morte.

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Tabella 1-1 Temi relativi alla morte nella musica popolare contemporanea.

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Artista Tori Amos Beatles Boyz II Men Garth books Jackson Browne Eric Clapton Elvis Costello Joe Diffie Dion Doors Bob Dylan

Canzone Little Earthquakes Eleonor Rigby Say goodbye to yesterday One night a Day For a Dancer Tears in Heaven Waiting for the End of the World Almost Home Abraham, Martin, and John The End Knockin’ on Heaven Door

Madonna Metallica Mike and the Mechanics Morrissey Holly Near

Black Peter Mother Earth Pushing the Needle Too Far Candle in the Wind Guardian Angels How can I Help You to Say Goodbye? Promise to Try Fight Fire with Fire The Living Years Angel, Angel Down We Go The Letter

Sinead O’Connor Oingo Boingo

I Am Streched on Your Grave No One Lives Forever

Pink Floyd

Dogs of War

The Police Elvis Presley Queen Lou Reed

Murder by Numbers In the Ghetto Another One Bites the Dust Sword of Damocles

Henry Rollins

Drive-by Shooting

Carly Somon Snoop Doggy Dogg

Life Is Eternal Murder Was the Case

Bruce Springsteen James taylor Stevie Wonder Warren Zevon

Streets of Philadelphia Fire and Rain My Love Is with you My Ride’s Here

Grateful Dead Jimi Hendrix Indigo Girls Elton john The Judds Patty Loveless

Tema Perdita multipla Invecchiamento e perdita Perdita e cordoglio Affrontare il cordoglio Elogio Morte di un figlio giovane Minaccia di morte Previsione della morte del padre Assassinio politico Omicidio Le ultime parole/ Scena di morte Supporto sociale nel morire Inevitabilità della morte Morte per uso di droga Morte di Marilyn Monroe I progenitori Per la madre che sta morendo Morte della madre Catastrofe nucleare Morte del padre Suicidio Amico che sta morendo per l’AIDS Elaborazione del lutto Affrontare la morte in modo stoico Morti legate alla guerra Uccisioni politiche Morte violenta e cordoglio Morte violenta Affrontare una malattia terminale Satira sulla morte derivata da violenza casuale Desiderio di immortalità Omicidio urbano e sistema giudiziario Morte per AIDS Morte di un amico Morte violenta di un bambino Arrivo di un carro funebre e morte

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La letteratura Dalla poesia epica dell’“Iliade”, al dramma classico di Sofocle “Edipo Re”, arrivando al “King Lear” di Shakespeare, fino a racconti più recenti come “La morte di Ivan Illich” di Lev Tolstoj, oppure “Death in the Family” di James Agee e, ancora, di Ernest J. Gaine, “A Lesson Before Dying”, la morte viene trattata come elemento fondamentale dell’esperienza umana. Provate a pensare a un romanzo o a un racconto che ha attratto la vostra attenzione in modo particolare: il tema della morte era presente? Che ritratto ne faceva l’autore? In letteratura, il significato della morte è un tema spesso affrontato perché esso implica il coinvolgimento sia della società sia dell’individuo. I romanzi sulla guerra, ad esempio, cercano di narrare la difficile ricerca del senso d’esperienze tragiche e traumatizzanti. In Niente di nuovo sul fronte occidentale, romanzo ambientato durante il primo conflitto mondiale, Erich Maria Remarque descrive l’insensatezza della guerra narrando di un adolescente che passa repentinamente dall’innocenza alla disillusione.55 La letteratura sull’Olocausto comprende, oltre a romanzi e vari studi psicologici, i diari delle vittime che testimoniano l’esperienza d’omicidi di massa e altri orrori devastanti.56 Tra gli esempi citiamo Notte di Elie Wiesel e Il Diario di Anna Frank: scritti simili inducono il lettore a contemplare aspetti essenziali della natura e dello spirito umano. La letteratura moderna tenta a sua volta di esplorare il significato della morte in situazioni apparentemente incomprensibili, come, ad esempio, nei romanzi esistenzialisti di Jean-Paul Sartre e di Albert Camus. Nella narrativa investigativa, come nei romanzi gialli, l’eroe tenta di rimediare al male, ma è spesso sopraffatto da una moralità autoassolutoria che lo conduce solo alla perpetuazione della violenza.57 La letteratura moderna, inoltre, pare immersa in un “panorama di violenza”.58 L’eroe cerca di fare i conti con la morte violenta ed improvvisa in situazioni che non lasciano assolutamente ai sopravvissuti lo spazio per esprimere il dolore ed elaborare la perdita.59 Trovare un significato alla morte è, in tale ambito, molto problematico, poiché la violenza riduce le persone al semplice stato di oggetti. L’incertezza riguardo alla morte si può trovare anche nelle elegie. Jahan Ramazani afferma: “La poesia di cordoglio per i defunti assume nell’era moderna sfumature e gradazioni straordinarie, permeandosi, come mai in passato, di rabbia e scetticismo, di conflittualità e ansietà”.60 Tra le elegie moderne si possono ricordare quelle di Wilfred Owen con le quali egli si erge contro il dolore arrecato dalla varie forme di guerra, le poesie blues di Langston Hughes che esprimono l’annientamento degli afro-americani nei loro contatti con l’ingiustizia del razzismo, Kaddish di Allen Ginsberg composto dopo la morte della madre, i memoriali di Seamus Heaney, dedicati alle vittime della

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violenza politica in Irlanda, e le elegie parentali nella poesia di Sylvia Plath, di Anne Sexton e Adrienne Rich. Ramazani osserva ancora che la poesia è un’importante “spazio culturale di cordoglio per i defunti” che cerca di individuare “risposte verosimili alla perdita nel mondo moderno”. La letteratura su argomenti funebri trova sempre più posto nei corsi per medici, infermiere, medici legali e per altri operatori sanitari: il linguaggio dell’elaborazione del lutto e del dolore causato dal lutto stesso è, infatti, facilitato dall’uso di fonti letterarie che aiutano a dare voce ai racconti delle proprie perdite.61 Così, l’istruzione tecnica sulla morte e i suoi processi appare bilanciata dagli spunti umanistici presenti nelle opere letterarie. Le descrizioni cliniche, fredde e astratte, si umanizzano e si personalizzano quando l’impatto con gravi malattie e con circostanze destabilizzanti è narrato attraverso la prosa o la poesia. William Lamers sottolinea che il dolore per un lutto è un tema molto diffuso nella poesia e che certe composizioni possono portarci a riflettere sull’universalità della perdita con modalità che possono svolgere una funzione consolatrice e terapeutica;62 nell’opera di Emily Dickinson, una delle più grandi poetesse americane, tra gli altri spunti di riflessione emerge quello della presa di coscienza che l’affermazione della vita è impossibile senza un’attenta considerazione della morte.63 Le arti visive Nelle arti visive, il tema della morte si svela attraverso simboli, segni e immagini;64 in Europa, essi sono basati prevalentemente sulla mitologia classica e sulla tradizione giudaico-cristiana. Artisti d’altre culture si ispirano a fonti di natura simile. Le scene presenti sugli antichi sarcofagi egizi testimoniano le credenze che quella cultura aveva sull’aldilà, riproducendo graficamente la persuasione che, dopo la morte, si verrà giudicati a seconda delle proprie azioni terrene. I temi artistici relativi a processi naturali quali la nascita, la crescita, il decadimento e la morte sono universali e trascendono i confini culturali. Nel Medio Evo, in Europa occidentale, emerse una delle espressioni artistiche più notevoli mai esistite nelle arti grafiche: la Danza Macabra. In un periodo caratterizzato dall’inquietudine causata dalla peste bubbonica, la Morte Nera, le immagini associate con la Danza Macabra, indicano l’ossessione per la mortalità e l’angoscia per una morte improvvisa e inattesa. Anche gli artisti contemporanei sono attratti da un tale argomento; negli intagli di Fritz Eichenberg, ad esempio, sono ritratte le angosce della nostra epoca: l’annichilimento causato dalla guerra globale, le catastrofi ambientali e le malattie infettive come l’AIDS.65

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“L’autoritratto con il Dottor Arreita” di Francisco José de Goya è l’esempio tipico del genere artistico che ritrae scene di letti di morte e di persone in extremis. Fatto per il dottore che aveva salvato Goya da una grave malattia, questo dipinto mostra il dottore mentre somministra una medicina al pittore, mentre la figura della Morte appare al fianco di quelli che si pensa siano il suo confessore e la sua governante. Il suicidio è un altro tema trattato da tutti gli artisti, di tutti i tempi e di tutte le culture. Nel “Suicidio di Lucrezia”, ad esempio, Rembrandt van Rijn ritrae la donna, con le lacrime sul volto, nei momenti immediatamente successivi alla sua morte. L’arte ci può dare un’idea delle abitudini e delle convinzioni d’altre epoche storiche e d’altre culture. Nel periodo coloniale, ad esempio, esse sono ben visibili nell’opera di Charles Willson Peale, “Rachel Weeping” (1772 e 1776) che ritrae una madre che piange la morte della propria figlia. Il volto della bambina è tenuto composto da una fascia, le braccia legate lungo i fianchi. Le medicine, rivelatesi inutili, giacciono sul comodino. La madre, gli occhi al cielo, tiene in mano un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, e la sua espressione di dolore contrasta con quella di serenità dipinta sul volto della bambina. L’arte può essere un mezzo per esprimere il potente impatto di una perdita personale, come nelle incisioni, nelle acqueforti e negli intagli di Käthe Kollwitz che rappresentano il dolore dei genitori per la morte di un figlio.66 Altri artisti hanno preferito usare l’arte per comunicare l’orrore dell’olocausto nazista, per contribuire ad assicurare che la Shoah, il sacrificio di milioni di persone innocenti, non sarà mai dimenticato.67 La “Dance of Life” di Edvard Munch rappresenta la concezione complessiva dell’artista riguardo al destino umano: “Amore e morte, inizio e fine si fondono in un unico cerchio che unisce la vita dell’individuo al più ampio ed inesorabile ciclo del susseguirsi delle generazioni”.68 In alcune opere, possiamo ritrovare un certo atteggiamento di grottesco umorismo, come nelle incisioni del messicano José Guadalupe Posada che rappresentano scheletri impegnati nello svolgimento di varie faccende quotidiane oppure come nell’opera “Walking Skeleton” dello scultore americano Richard Shaw nella quale gli scheletri sono composti da pezzi di legno, da bottiglie, da carte da gioco e altri oggetti di recupero. Secondo le consuetudini di commemorazione del diciannovesimo secolo, gli americani univano simboli classici a simboli cristiani, sia per i lutti privati, sia per quelli pubblici.69 Ricami di commemorazione erano appesi alle pareti della stanza più importante della casa e si facevano i quilt. Questa forma d’arte costituiva un modo per perpetuare la memoria ed era, allo stesso tempo, una via per elaborare il lutto anche fisicamente, con la concentrazione su un lavoro manuale. Sono gli stessi motivi che hanno ispirato il quilt di grandi dimensioni del Names Project Memorial Quilt per commemorare le persone morte di

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AIDS.70 Nell’arte popolare americana, i quilt, o coperte commemorative, simboleggiano la famiglia e la comunità; per questo il Names Project Memorial Quilt è diventato simbolo collettivo dell’unità nazionale. La sua natura di risposta artistica all’AIDS riafferma il valore dell’espressione creativa come mezzo di superare una perdita. Maxime Junge fa notare che “la creatività nell’affrontare la morte presenta un ampio spettro di possibilità di migliorare la vita. Esse possono allontanare la sensazione che la vita sia inutile, conferendo, invece, significato ad una vita vissuta e dando la speranza di un futuro nel quale il morto, attraverso la memoria, continuerà ad esistere.”71 Reagendo all’AIDS la comunità artistica ha espresso la propria rabbia e la propria sofferenza con forme d’arte o con l’impegno politico o di tipo commemorativo che, in ogni caso, cerca di rendere l’idea dell’enormità della perdita.72 Il Muro della memoria dei veterani del Vietnam, a Washington, opera dell’architetto Maya Lin, è un altro esempio notevole d’arte commemorativa contemporanea; allo stesso modo del grande quilt, esso si oppone all’anonimato delle vite andate perdute. Uno scrittore lo ha definito come il corrispettivo iconografico della Tomba al Milite Ignoto spiegando che la sua vasta e piana superficie è la lapide dei “conosciuti”.73 L’impeto di creare grandi opere commemorative fu innanzitutto delle famiglie che avevano perso i propri cari, caduti per servire la patria nel corso di una guerra impopolare. Sul muro, i nomi dei defunti sono elencati non in ordine alfabetico, ma cronologico, seguendo le date di morte, in modo da presentare una cronaca della guerra che rappresenta vividamente la dimensione delle perdite. Sandra Bertman fa notare che una delle principali funzioni dell’arte consiste nel coinvolgere la nostra coscienza e “portarci più vicino a ciò che la lingua non riesce a raggiungere”.74 In quanto luoghi della memoria, sia il quilt dell’AIDS sia il Muro alla memoria dei veterani sono elementi essenziali per esprimere il proprio lutto. Rappresentano il modo in cui il tabù sociale sull’espressione del dolore in luoghi pubblici si possa abbattere, quando ci si rifiuta di sopprimere la nostra sofferenza e si cerca di creare nuovi modi per esprimerla.

Il tempo presente: atteggiamenti e consapevolezza della morte Lo storico David Stannard dice che nelle società in cui ogni individuo è considerato unico, importante e insostituibile, la morte non viene ignorata, bensì è scandita da “un’esternazione di dolore che coinvolge tutta la comunità per la perdita di ciò che è ritenuta una vera e propria perdita sociale”.75 Al contrario, nelle società in cui le persone sentono che la perdita di un singolo individuo non costituisce un gran danno per l’apparato sociale, al di

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fuori del ristretto circolo familiare la morte riceve un’attenzione scarsa o quasi nulla. Un primo passo verso nuove posizioni sulla morte è quello di riconoscere che evitare di pensarci ci allontana da un visione integrale della vita umana. Il termine tanatologia (dal greco thanatos, morte) indica ciò che si considera “studio della morte”, ma che, come suggerisce Robert Kastenbaum, può essere meglio definito come “studio della vita, lasciandovi inclusa la morte.”76 In ambito italiano, il pioniere di questi studi è il tanatologo Francesco Campione che, nei suoi scritti precisa che la morte non è solamente oggetto di riflessione, studio e ricerca, ma anche un problema esistenziale che tocca tutti gli aspetti dell’esperienza umana e ogni campo della conoscenza.77 Come ha eloquentemente affermato il poeta e filosofo sociale messicano Octavio Paz: “Una civiltà che nega la morte finisce per negare la vita.”78 I pionieri della tanatologia Il trattato di Herman Feifel, “The meaning of death”, pubblicato nel 1959, è lo spartiacque al quale si può far risalire l’origine degli studi contemporanei sulla morte e sul morire. Basato su un simposio tenuto nel 1956, l’opera di Feifel affianca esperti di diverse discipline i cui saggi coprono approcci teoretici, studi culturali e indicazioni cliniche. Si dimostrava così che la morte era un soggetto importante nella considerazione pubblica e accademica. Non si trattò di un’impresa facile, considerato l’allora prevalente atteggiamento di resistenza su tale argomento: “Ciò con cui mi scontravo non erano le stranezze idiosincratiche, le abituali vicissitudini amministrative, le ripicche o il rigetto dei parametri di ricerca ritenuti inadeguati. Erano piuttosto le posizioni personali, forzate dalla costruzione sociale all’idea che la morte fosse un simbolo oscuro che non si deve sfiorare e nemmeno toccare, un’oscenità che si deve, in tutti i modi, evitare.”79

Feifel ricorda che qualcuno gli fece notare con toni accesi che l’unica cosa che proprio non si deve mai fare è discutere della morte con un paziente. Lo stesso messaggio fu comunicato da Elisabeth Kübler-Ross, il cui testo “On Death and Dying” (1969) divenne il primo best-seller sulla morte e incentivò la richiesta di un nuovo approccio nella cura dei malati terminali. Cicely Saunders, che con “Care for the Dying”, aveva già trattato a sua volta il tema dieci anni prima, suscitò molto interesse intorno all’assistenza in Hospice. Nello stesso periodo, anche opere letterarie come “A Grief Observed” (1961) di C.S. Lewis attiravano l’attenzione sulle questioni della rielaborazione del lutto. Altri scritti prodotti in questa epoca sono tuttora attuali e utili per lo stu-

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dente che intenda approfondire il tema. Tra questi, il saggio di Geoffrey Gorer intitolato “The Pornography of Death”, pubblicato per la prima volta nel 1955 e ripubblicato, in edizione ampliata, nel 1963.80 Concentrandosi su questioni sociali, l’autore del trattato sollevava il problema del modo in cui la società contemporanea, di stampo salutistico, costruiva il suo rapporto con la morte. Nel suo “Death in American Society”, il sociologo Talcott Parsons analizzava l’impatto che i progressi tecnologici nel campo della salute e della medicina stavano avendo sulla concezione della morte. Il filosofo Jacques Choron, in “Death and Western Thought” del 1963 e “Death and Modern Man” del 1964, scrisse della paura della morte e degli atteggiamenti in via di mutamento verso l’immortalità. Negli anni Sessanta, poi, Robert Fulton formò un gruppo di ricerca per approfondire questioni teoriche e pratiche confluite nel suo lavoro “Death and Identity” del 1965, mentre con “Dying” (1967) di John Hinton si offriva una panoramica degli studi degli atteggiamenti nei confronti della morte. Barney G. Glaser e Anselm Strauss applicarono i criteri della sociologia per valutare quanta influenza avesse la consapevolezza del morire sul paziente, sullo staff medico e sui membri della famiglia; questo studio rivelò che gli operatori sanitari erano riluttanti a parlare della morte ed evitavano di comunicare ai pazienti il giungere dello stadio finale della loro malattia. I trattati ricavati da queste ricerche, “Awareness of Dying” del 1965 e “Time for Dying” del 1965, sono tra i classici della prima letteratura tanatologica, assieme a studi come quello di Jean Quint Benoliel, “The Nurse and the Dying Patient” del 1967, nel quale si sosteneva la necessità di una sistematica educazione alla morte per gli infermieri. Durante gli anni Sessanta, Avery D. Weisman fece luce sul processo di morte combinando nel suo lavoro “On Dying And Denying: a Psiychiatric Study of Terminality.”(1972) tecniche di ricerca ed esperienza clinica con i malati terminali. Centrale in questo trattato era l’analisi teorica e psicologica del “terrore” della morte e il suggerimento finale per una reazione più “eroica”. Nei decenni successivi a queste prime pubblicazioni di tanatologia, il numero d’articoli e di testi accademici è andato crescendo costantemente; sono parecchie le riviste specializzate, “Omega: Journal of Death and Dying”, “Death Studies”, “Journal of Personal and Interpersonal Loss”, “Mortality”, “Illness, Crisis and Loss”. Testi di stampo divulgativo, come ad esempio “Tuesday with Morrie”, sono diventati best-sellers; infine sulla rete Internet è disponibile una quantità considerevole di materiali per qualsiasi tipo di utenti.81 A partire dai semi piantati solo qualche anno fa dai pionieri della tanatologia, l’interesse per approfondire argomenti relativi alla morte e alle sue implicazioni appare ora in piena fioritura.82

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Il sorgere dell’educazione alla morte Se decidete di frequentare un corso di tanatologia o se vi mettete a leggere un libro come questo, probabilmente qualcuno vi chiederà: “E perché vuoi frequentare un corso sulla morte?” oppure “Perché leggi un libro sulla morte?” Nonostante un interesse generale crescente, c’è chi mostra ancora atteggiamenti di rifiuto quando si tratta di parlare di argomenti simili. Il nostro rapporto culturale con la morte sembra attraversare una fase di transizione. Atteggiamenti ambivalenti nei confronti della morte sono evidenti se pensiamo che può capitare che un educatore applauda allo studio della morte come “la caduta dell’ultimo, antico, tabù”, mentre altri obbiettino che esso “non è compatibile con alcun corso di studi”. Come osserva Patrick Dean, se l’educazione alla morte è percepita come “figlia illegittima del curriculum”, allora proprio coloro che la studiano dovrebbero essere grati a chi la critica, perché offrono proprio l’opportunità di evidenziare la sua rilevanza formativa.83 Dean sostiene che tale scienza potrebbe essere rinominata come “educazione alla vita e alla perdita”, perché solo attraverso la consapevolezza delle perdite che subiamo lungo la nostra vita e la valutazione della nostra libertà, siamo liberi di vivere pienamente il presente. L’educazione alla morte coinvolge sia l’istruzione formale sia le discussioni informali su tutti gli argomenti correlati. Il secondo tipo d’informazione ricorre nelle cosiddette occasioni pedagogiche che traggono origine da eventi quotidiani, quali una morte per morbillo, nell’ambito di una classe delle scuole elementari, oppure eventi che si svolgono su scala maggiore, come gli incidenti che hanno coinvolto il Challenger e il Columbia, l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 o la morte improvvisa di una persona famosa, come, ad esempio, quella di Lady Diana e di John F. Kennedy. In America, il primo corso universitario ufficiale d’educazione alla morte fu organizzato da Robert Fulton e si svolse presso l’università del Minnesota nell’estate del 1963;84 la prima conferenza, invece, fu tenuta nel 1970 presso la Hamline Univesity nel Minnesota. Da allora, l’educazione alla morte ha coperto un raggio sempre più vasto di materie da quelle più nude e crude della scelta dei servizi funebri o dell’omologazione di un testamento fino a questioni più filosofiche quali la speculazione su ciò che succede dopo la morte. L’educazione alla morte considera sia fatti oggettivi, che preoccupazioni soggettive, e proprio per questa ragione, riceve un ampio consenso accademico, con l’offerta di numerosi corsi nelle discipline più disparate.85 Durante tali corsi, la familiarità con i fatti è stimolata dalla narrazione d’esperienze personali che descrivono la miriade di modi in cui l’essere umano incontra e tenta di affrontare la morte.86 L’arte e la letteratura sono sfruttate per trattare

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con delicatezza le prospettive più freddamente scientifiche e tecniche. Il linguaggio umanistico, infatti, è quello dell’anima e le sue immagini, i suoi simboli e i suoi suoni esprimono la vita, la morte e il trascendente, aprendo la possibilità ad altre modalità di conoscenza e d’apprendimento.87 In generale, i corsi d’educazione alla morte si rivolgono a medici, infermieri, operatori sanitari, a impresari di pompe funebri e altri professionisti la cui attività implica il contatto con la morte e con le famiglie dei defunti.88 Altre figure coinvolte sono quelle del personale di polizia, del pronto intervento e dei vigili del fuoco. Tutti costoro, in quanto testimoni d’eventi luttuosi, sono chiamati a dare conforto alle vittime e ai sopravvissuti. L’immagine di uno di questi personaggi che affronta stoicamente qualsiasi situazione “tenendosi tutto dentro” invece che esprimere le emozioni naturali, viene contraddetta dall’affermazione che una tale strategia può essere fisicamente e psicologicamente perniciosa. Tutti questi ambiti dell’educazione alla morte beneficiano del supporto d’associazioni quali la Association of Death Education and Counseling (ADEC) e, sul piano internazionale, l’International Work Group on Death, Dying and Bereavement. (IWG).89 Questo tipo d’educazione ha fatto notevoli passi avanti negli anni passati, continua a svilupparsi, accogliendo con favore nuovi contributi di idee e di punti di vista. Hannelore Wass osserva che lo studio della tanatologia possiede il potenziale adatto ad aiutare l’individuo e la società ad elevarsi da una prospettiva ristretta, per raggiungere una visione globale del problema, abbandonando una visione egocentrica, in favore della preoccupazione per gli altri.90 La filosofia per lo studio della morte, secondo la Wass, è basata “sull’amore, la cura e la compassione…, nell’offerta d’aiuto e di assistenza”. L’accettazione della morte Quando si parla della morte, il detto “ciò che non conosci non ti può danneggiare” è falso. Le persone che vivono nell’era moderna sono state descritte come hibakusha, una parola giapponese che significa “affetti dalle esplosioni”. Usata in origine per descrivere i superstiti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, il termine connota la profonda ansia per la minaccia d’annientamento. In questo senso, alla minaccia di una guerra, di una catastrofe nucleare, della violenza e del terrorismo si è aggiunto lo spettro di malattie emergenti come l’AIDS o la SARS. La morte fa inevitabilmente parte della nostra vita, evitare di pensarci o di parlarne non ci immunizza dal suo potere; l’ostracismo ottiene, come unico risultato, la limitazione degli strumenti a nostra disposizione per fronteg-

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giarla; se invece la trattiamo in modo palese, cogliamo l’opportunità di buttare via le cose inutili e conservare quelle utili. Come afferma lo specialista Robert Kavanaugh: “Una morte non esaminata non è una morte degna.”91 Alcuni ricercatori sostengono che si stia vivendo in un’età postmoderna, circondati da immagini e produzioni artigianali, provenienti da tutti i periodi storici e da ogni latitudine geografica e culturale.92 In parte, ciò significa che abbiamo l’opportunità di renderci conto di tutta l’esperienza della razza umana con modalità di cui le generazioni precedenti non hanno potuto disporre. Questa consapevolezza si riflette nell’eclettismo rilevabile nell’arte contemporanea, nella filosofia, nell’etica e nelle questioni politico-sociali, ma anche nei vari stili di vita. Il postmoderno implica l’esame delle convinzioni “date per scontate” e l’esplorazione d’idee e pratiche appartenenti a ogni periodo storico e a ogni cultura; esso è intriso dei valori dell’interconnessione e della comunità e celebra la differenza e la diversità, offrendo una prospettiva multipla verso la comprensione del mondo e della nostra esistenza in esso.93 Tale visione predispone un contesto atto alla creazione di una sintesi significativa per l’individuo e adeguata socialmente per i tempi in cui stiamo vivendo e nei quali moriremo. Esaminando le premesse Vivendo nel XXI secolo e valutando le nostre concezioni della morte, la ricerca di una risposta sensata alle questioni fondamentali della vita dell’uomo conduce ciascuno di noi a conclusioni differenti. Per esempio, il giudizio sul reale valore dei funerali convenzionali, spinge alcune persone a preferire una sbrigativa ed economica tumulazione al posto delle tradizionali pratiche funerarie. Altri sostengono che i funerali convenzionali rappresentano un riferimento cruciale per andare incontro alle necessità psicologiche e sociali dei sopravvissuti. Nel formulare la nostra opinione su queste diverse considerazioni, dobbiamo chiederci cosa renda importante la partecipazione alle cerimonie di commemorazione di una persona cara e, forse, è plausibile parlare di perdita di valori, quando i famigliari del defunto non hanno l’opportunità di impegnarsi nell’organizzazione di tali rituali. Nella comunità Amish, che mantiene credenze e pratiche tradizionali, la morte è considerata come una parte del ritmo naturale della vita. La morte di una persona avvia tutto un processo di supporto sociale per la famiglia in lutto e per la comunità nel suo complesso. Tale modello sociale degli Amish include la presenza di punti nodali quali il parlare di com’è avvenuta la morte, il mantenere, per quanto possibile, uno stile di vita normale durante gli

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stadi finali della malattia, l’impegno di preservare l’indipendenza del morente e di garantire il supporto comunitario alla famiglia in lutto.94 Simili caratteristiche sono state assimilate da culture molto lontane dalla nostra con l’introduzione d’innovazioni come l’hospice, per la cura totale del malato terminale e della sua famiglia; sforzi in questa direzione sono alla base anche di iniziative quali il “Project on Death in America” ideato da George Soros e in quella ad opera della Robert Wood Johnson Foundation, chiamata “Last Acts.”95 Nel tentare i primi passi verso la creazione di uno spazio apposito per la morte nella nostra vita, il nostro cammino può comportare la riscoperta di abitudini e atteggiamenti comuni nel passato o che sono stati ripresi da altre culture. Prendendo in esame le nostre considerazioni sulla morte e nel formulare una sintesi del vecchio e del nuovo, compatibile con la nostra identità e situazione sociale, facciamo bene a riflettere sulle nostre concezioni personali. Ziner afferma: “Come quasi tutti gli aspetti della nostra vita, la concezione e i sentimenti sulla morte derivano dal nostro confronto con una miriade di gruppi, organizzazioni e istituzioni che rappresentano la nostra comunità e, in ultima analisi, costituiscono la nostra società. Quando si verificano dei mutamenti nelle strutture religiose, economiche, giuridiche e famigliari, anche noi cambiamo. Ciò avviene perché, in quanto esseri sociali, i significati che noi assegnamo a tutte le materie, personali e culturali, inclusa la morte, sono inesorabilmente legati al nostro contesto sociale. Per esempio, che effetto ti fa la parola morte? Se tu fossi nato un secolo prima, ti avrebbe fatto un effetto diverso? Questa differenza è causata da fattori individuali o sociali?”96 La morte è intrinseca all’esperienza umana. Potremmo nasconderla nel buio di un armadio e chiudervela dentro fino a che, facendo saltare i cardini, la porta si spalancasse e la morte fosse catapultata con forza sulle nostre coscienze. Per alcuni la morte è paragonabile all’incontro con uno sconosciuto in maschera durante un ballo di carnevale: magari il travestimento è più terribile della realtà, ma come facciamo a saperlo se non vogliamo rischiare, scoprendo il volto celato dalla maschera? Lo studio della tanatologia aiuta a identificare proprio quegli atteggiamenti e quei comportamenti che ci trattengono dal sollevare quella maschera, per arrivare ad un confronto costruttivo con la morte stessa.

Letture di approfondimento Patricia Anderson. All of Us: Americans Talk About the Meaning of Death. New Work: Delacorte, 1996. Sandra L. Bertman, ed. Grief and the Healing Arts: Creatiuity as Therapy, Amityville, N.Y: Baywood, 1999.

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Donald Heinz. The Last Passage: Recovering a Death of Our Own. New York: Oxford Universiy Press, 1999. Glennys Howarth ancl Oliver Leaman, eds. Encyclopedia of Death and Dying. New York: Routledge, 2001. Robert Kastenbaum, ed., Macmillan Encycopedia of Death and Dying New York: Gale, 2002. Gary Laderman. The Sacred Remains: American Attitudes Toward Death, 1799-1883. New Haven, Conn.: Yale University Press, 1996. Dan Nimmo and James E. Combs. Nightly Horrors: Crisis Coverage by Television Network News. Knoxville: University of Tennessee Press, 1987. Paul D. Stolley and Tamar Lasky. Investigating Disease Patterns: The Science of Epdemiology. New York: W. H. Freeman, 1995. Tony Walter, ed. The Mourning for Diana. New York: Berg, 1999. Robert F. Weir, ed. Death in Literature. New York: Columbia University Press, 1980. Barble Zelizer and Stuart Allan, eds. Journalism After September 11. New York: Routledge, 2002.

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Capitolo 2

L’EDUCAZIONE ALLA MORTE: L’INFLUENZA DEI FATTORI SOCIO-CULTURALI

Immaginate un bambino a cui dicano: “Tutti dobbiamo morire un giorno o l’altro, succede a tutti e capiterà anche a te.” Allo stesso bambino viene anche detto, mentre gioca “Non toccarlo, è morto!”. Inoltre, trattandosi di un bambino attento egli osserverà che quando qualcuno muore, gli altri piangono o sono tristi. Nel tempo, mettendo assieme tutte le esperienze relative alla scomparsa delle persone, si iniziano a sviluppare sentimenti e pensieri personali sul loro significato. La comprensione della morte si evolve e si modifica, a grandi linee, in questo modo: i bambini ne assimilano varie esperienze e le loro idee e risposte emotive assomigliano sempre più a quelle degli adulti appartenenti alla stessa cultura; allo stesso modo in cui si modifica, nel corso dello sviluppo la percezione del denaro: all’inizio è una questione irrilevante, poi sembra entrare nel mondo del bambino in modo quasi magico e infine assorbe la sua attenzione e partecipazione in modi diversi. Come gli altri aspetti dello sviluppo umano, la comprensione della morte si evolve come esperienza che richiede un’elaborazione della conoscenza pregressa, delle credenze e degli atteggiamenti.

Come matura il concetto di morte L’osservazione e l’interazione con bambini d’età diverse hanno permesso agli psicologi di arrivare a capire come si arriva, attraverso lo sviluppo infantile, ad un concetto ben strutturato della morte. Analizzando molti di questi studi, Mark Speece e Sandor Brent concludono che: “Viene generalmente accettato che il concetto di morte non sia unidimensionale, ma che sia piuttosto composto da diversi sottoconcetti.”1 Se si volesse dare una definizione empirica della morte, essa dovrebbe comprendere le seguenti quattro componenti: 1 - Universalità. Tutto ciò che vive alla fine muore. La morte riguarda tutti ed è inevitabile, ma non è prevedibile quando avverrà.

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2 - Irreversibilità. Si muore in modo definitivo. Gli organismi che muoiono non possono vivere di nuovo. 3 - Mancanza di funzionalità. La morte implica la cessazione di tutte le funzioni fisiologiche e d’ogni segno di vita. 4 - Causalità. La morte avviene per ragioni biologiche. Una quinta componente può essere aggiunta alle precedenti, ossia la mortalità personale. Nonostante sia correlata al concetto empirico d’universalità, questa ultima componente è indice della comprensione che non solo tutto muore ma che “anch’io morirò”. Inoltre, gli individui con una concezione matura della morte mostrano di avere anche idee non empiriche (non verificabili scientificamente) sull’argomento,2 ad esempio credono che in qualche modo si continui a vivere oltre la morte fisica del corpo. Che cosa accade alla “personalità” di un individuo dopo la morte? Muore anch’essa? Il sé o l’anima continuano a esistere, e se così è, qual è la natura dell’aldilà? Sviluppare risposte significative a queste domande sulla dimensione che Speece e Brent chiamano “continuità non corporea”, è parte integrante del processo che porta ad acquisire una comprensione matura della morte. Il grado di comprensione che un bambino ha della morte, si evolve in modo consistente in un’età compresa tra i cinque e i nove anni. Numerose ricerche suggeriscono che, fra i tre e i quattro anni, i bambini siano in grado di capire che la morte è un cambiamento di stato, che fra i cinque e i sei hanno un’idea delle concezioni più evolute sulla morte, anche se le idee sulla propria mortalità emergono solo verso gli otto e i nove anni, e che generalmente non raggiungono una concettualizzazione matura della morte fin verso i nove e i dieci anni.3 Queste idee verranno ridefinite durante l’adolescenza e la prima età adulta, nel momento in cui si considererà l’impatto della morte sulle relazioni con le persone care e si valuterà il contenuto delle varie risposte religiose o filosofiche alla domanda sul senso della morte. Ciò che una persona “sa” della morte, può poi variare nei diversi momenti della vita. Infatti possiamo anche avere nozioni contraddittorie sulla morte, in special modo per quanto riguarda la nostra morte. Quando ci troviamo in una situazione molto stressante, il nostro comportamento assomiglia a quello magico dei bambini: ci comportiamo come se con la morte fosse possibile venire a patti. Ad esempio, non è raro osservare che i malati terminali pensino che, facendo qualche accordo speciale con Dio o con l’universo, la sentenza di morte verrà magicamente rinviata. Quindi, nonostante che un concetto maturo della morte si formi principalmente nell’infanzia, nel corso della nostra vita la concezione che ne deriva passa attraverso differenti livelli di consapevolezza.

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Come si sviluppa la comprensione della morte La comprensione della morte è un processo evolutivo che implica continui aggiustamenti e ridefinizioni. Questo processo è spesso piuttosto rapido e in un bambino la comprensione della morte può cambiare profondamente anche in un tempo incredibilmente breve. Osservando il comportamento dei bambini, gli psicologi dello sviluppo individuano dei modelli per descrivere i processi che riguardano preoccupazioni e interessi dei bambini durante le diverse età. Questi modelli sono simili a mappe che descrivono gli elementi principali del territorio infanzia durante i diversi livelli di sviluppo e possono essere utilizzati per definire le caratteristiche di un bambino-tipo di una determinata età. I modelli forniscono un quadro generale d’ogni tappa dello sviluppo, ma non dobbiamo scambiare la mappa con il territorio, in quanto le mappe dello sviluppo umano sono astrazioni, rappresentazioni o interpretazioni del territorio vero e proprio. Queste mappe saranno perciò utili per guidarci, per individuare certe componenti del territorio e per condividere le conoscenze con gli altri. Tuttavia, un territorio infantile è qualcosa di unico che nessuna mappa potrà mai descrivere pienamente. I bambini variano nel loro grado di sviluppo, non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello emotivo, cognitivo e intellettuale. Di conseguenza per avere un quadro più fedele della comprensione infantile della morte è preferibile mettere l’accento sulla sequenza evolutiva piuttosto che correlare gli stadi della comprensione all’età del bambino. Dato che solitamente la comprensione della morte nel bambino corrisponde al modello di mondo che egli si fa ad ogni stadio dello sviluppo, gli adulti potranno anche dare una spiegazione dettagliata della morte, ma il bambino capirà solo quanto è compatibile con il suo livello di sviluppo. Questa prontezza cognitiva ed emozionale di capire, non è solo una questione d’età, ma anche di esperienza. Infatti, un bambino che ha avuto incontri ravvicinati con la morte può arrivare a una comprensione più matura di quella che sarebbe propria della sua età. Se si vuole tracciare lo sviluppo della comprensione della morte nei bambini, è utile avere un sistema di riferimento all’interno del quale collocare i diversi atteggiamenti e comportamenti propri delle varie fasi dell’infanzia. In questo ambito, si devono ricordare gli studi pionieristici di Paul Schilder e David Wechsler (1934),4 anche se gli studi dei primi anni Quaranta condotti da Sylvia Anthony in Inghilterra e Maria Nagy in Ungheria, hanno ricevuto maggiore eco. Secondo la Anthony, sotto i due anni non c’è nessuna comprensione della morte, a cinque ne appare un’idea limitata ed entro i nove i soggetti possono invece fornire una descrizione generale di che cosa sia la morte. Inoltre il pensiero magico dei bambini si esprime immaginando che i

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cattivi pensieri o i sentimenti negativi possono causare la morte di qualcuno5. Nagy ha individuato tre stadi di sviluppo che vanno dai tre ai dieci anni. Nel primo stadio, dai tre ai cinque anni, i bambini considerano la morte come una condizione di minore vitalità, all’interno della quale i morti continuano a vivere in circostanze diverse e possono tornare alla vita normale. Nel secondo stadio, dai cinque ai nove anni, si arriva alla consapevolezza che la morte alla fine arriva, ma la si crede evitabile e reversibile sia riferita agli altri che alla propria persona. Nel terzo stadio, dai nove anni in poi, si riconosce la morte come il risultato di un processo biologico definitivo, inevitabile, universale e personale6. Nella trattazione che segue, lo sviluppo infantile delle concezioni sul trapasso si colloca all’interno di un quadro di riferimento fornito dalle due principali teorie o modelli dello sviluppo umano, quelli di Erik Erikson e Jean Piaget. Il modello di Erikson si concentra sugli stadi dello sviluppo psicosociale, vere pietre miliari psichiche e sociali che si susseguono l’una dopo l’altra nel corso della vita. (vedi fig. 2-1)7 Lo sviluppo psicosociale è in larga misura dipendente dall’ambiente e collegato alle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri. Ogni stadio di sviluppo è segnato da una crisi o da una svolta alla quale deve essere data una risposta personale. Il punto principale secondo Piaget risiede invece nelle trasformazioni cognitive che hanno luogo nell’infanzia (vedi tab. 2-1).8 All’interno di questo quadro di riferimento, il modo in cui un individuo percepisce il mondo cambia secondo stadi che si susseguono dall’infanzia all’età adulta e ai quali corrispondono quattro periodi di sviluppo cognitivo o intellettuale che si basano sui modi in cui è organizzata la nostra esperienza del mondo, ossia:

identità vs confusione di ruolo operosità vs inferiorità iniziativa vs colpa autonomia vs vergogna fiducia vs sfiducia

età

Figura 2-1 Cinque stadi dello sviluppo psicosociale pre-adulto proposti da Erikson. Erik H. Erikson, Childhood and Society, 2nd ed. (New York: Norton, 1964), pp. 247-274.

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Tabella 2-1 Modello di sviluppo cognitivo di Piaget.

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Età (approssimativa) Periodo dello sviluppo Nascita-2 anni

2-7 anni

7-12 anni

12+anni

Caratteristiche

Il bambino è focalizzato sui sensi e sulle abilità motorie; impara che esistono gli oggetti anche se non sono osservabili (permanenza degli oggetti) e inizia a ricordare e a immaginare idee e esperienze (rappresentazione mentale). Sviluppo del pensiero simbolico e del Fase preoperatoria linguaggio per capire il mondo. (2-4 anni) sottoperiodo preconcettuale: senso di onnipotenza magica; il sé al centro del mondo; pensiero egocentrico; tutti gli oggetti naturali hanno pensieri e intenzioni (volontà). (4-6 anni) sottoperiodo prelogico: inzio delle capacità di risolvere i problemi; vedere è credere; prova ed errore, capire gli altri punti di vista; eloquio più socializzato; graduale decentramento del sé e scoperta di relazioni interpersonali corrette. Fase operatoria concreta Applica abilità logiche per capire idee concrete; organizza e classifica informazioni, manipola le idee e le esperienze simbolicamente; sa pensare indietro e in avanti; è capace di riflettere logicamente sulle cose di cui ha fatto esperienza. Fase operatoria formale Ragiona logicamente su idee astratte e esperienze concrete; è in grado di formulare ipotesi su cose di cui non ha mai fatto esperienza; ragionamento induttivo e deduttivo; complessità della conoscenza; molte risposte alle domande; interessi per l’etica, la politica, le scienze sociali. Fase sensorio-motoria

la fase sensomotoria, la fase preoperatoria, la fase operatoria concreta e la fase operatoria formale. Tutti i bambini si sviluppano secondo questa sequenza, ma resta unico il tasso di sviluppo individuale. Perciò, quando nelle discussioni sullo sviluppo infantile si fanno affermazioni circa l’età di un certo stadio, esse dovrebbero essere intese come approssimazioni, non come la norma.

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I primi passi Secondo il modello di Erikson, l’infanzia è caratterizzata dallo sviluppo di un senso di fiducia verso l’ambiente che ci circonda. Se in questo periodo i bisogni del bambino non sono soddisfatti, allora si potrebbe generare un senso di sfiducia. Perciò, la presenza d’altre persone, di solito i genitori, gioca un ruolo importante nello sviluppo infantile proprio nel momento in cui si acquista il senso di sé e la fiducia in presenze affidabili e che provvedono al nutrimento. Se durante l’infanzia muore la persona che si prende cura del bambino, può determinarsi la distruzione delle sue capacità di acquistare fiducia negli altri. Allo stesso modo, se nell’ambiente del bambino muore una persona cara, che causi un grave disagio all’interno della famiglia, può essere compromesso gravemente il senso di prevedibilità del mondo che si viene proprio allora formando. Nella seconda fase prevista da Erikson, il periodo che va dal primo al terzo anno di vita, il soggetto si appropria in modo autonomo dei concetti di vergogna e dubbio. Mentre esplora il suo ambiente e sviluppa una maggiore indipendenza, si manifestano delle discrepanze tra quello che il bambino vuole fare e quello che altri vogliono che lui faccia. La tappa cruciale di questo stadio consiste nell’esercizio dell’indipendenza, affiancata da vergogna e dubbio. È tipico di questa fase l’apprendimento dell’azione di lavarsi. Sia lo sviluppo fisico che psicologico, sono caratterizzati da fasi d’avanzamento e fasi di stasi. La morte di una persona significativa, in special modo quella di un parente, influenza il raggiungimento dell’indipendenza e può determinare una regressione a comportamenti precedenti, come lo stare attaccati all’adulto di riferimento, il pianto e maggiori richieste di attenzione. Secondo Piaget, invece, i primi due anni sono caratterizzati dalla fase senso-motoria, durante la quale il soggetto sviluppa e rafforza le proprie abilità sensoriali, motorie e fisiche. Poiché a questa età non si ha ancora la capacità di chiamare le cose per nome, questo periodo non viene considerato un momento di sviluppo concettuale. Se un genitore lascia la stanza, è semplicemente scomparso, perché non è ancora possibile formulare il pensiero “la mia mamma/il mio babbo è nell’altra stanza”. Mentre il bambino accumula esperienza sullo svolgersi degli eventi nell’ambiente, egli inizia a percepire quelle alternanze che Piaget definisce gli schemi, i quali collegano i tratti comuni di azioni che si svolgono a tempi diversi. Piaget afferma che in questo momento dello sviluppo è come se avvenisse una rivoluzione copernicana, col risultato che “al termine di questa evoluzione sensoriale e motoria, ci sono oggetti permanenti che costituiscono un universo entro il quale esiste anche il corpo del bambino”.9

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La prima infanzia Nel modello di Erikson, gli anni dell’asilo, precedenti alla scuola (all’incirca dai tre ai cinque o sei anni), vedono lo sviluppo del senso di iniziativa, che si contrappone a quello di colpa. Il bambino mette costantemente alla prova i suoi propositi e intenti, anche se si preoccupa di come i genitori, o gli altri adulti importanti, percepiscono questi sforzi di volizione e d’individualità. L’orientamento egocentrico del bambino lascia posto a un sé socialmente integrato, tipico del bambino più grande, che occupa un posto tra gli altri. In questa fase di transizione si manifestano situazioni che suscitano sensi di colpa. Ad esempio, se un bambino fantastica di eliminare un genitore, urlando ad esempio “Vorrei che tu fossi morto!”, si può poi sentire in colpa per aver formulato questi pensieri. Inoltre, si viene strutturando lo sviluppo del senso morale, ossia della capacità di rapportare i comportamenti alle sanzioni sociali nelle quali si può incorrere. Anche l’organizzazione del concetto di morte si sviluppa abbastanza rapidamente durante gli anni della scuola materna, grazie alle aumentate capacità linguistiche del soggetto. I bambini mettono alla prova le proprie capacità motorie, correndo o esercitandosi in attività di precisione, come ad esempio l’uso delle forbici, acquisendo un maggior controllo corporeo e di conseguenza il corpo stesso inizia ad essere un elemento importante nella percezione di sé. È in questo periodo che si possono manifestare paure di mutilazioni, che si possono considerare fra quelle correlate alla morte. Il seguente esempio può meglio spiegare. Un bimbo di cinque anni assiste alla morte del fratello più piccolo investito da un camion (una ruota gli schiaccia la testa). I genitori chiedono al figlio come si sentirebbe se il corpo del suo fratellino fosse portato a casa per la veglia funebre. Significativamente, il bambino domanda “Ma si vedrà come è stato ridotto?” Del resto i timori per l’alterazione dell’aspetto sono tipici di questo stadio dello sviluppo psicologico. Nel modello di Piaget, la prima infanzia si caratterizza come periodo preoperatorio. Lo sviluppo cognitivo del bambino è centrato sull’acquisizione del linguaggio e sull’uso dei simboli per rappresentare gli oggetti. Il vocabolario si sviluppa ad una velocità incredibile. In questo stadio, il compito principale del soggetto è l’esplorazione e la valutazione della propria collocazione nel mondo. A questo punto, ci siamo chiesti in quale maniera il modello di Piaget si applichi alla maturazione del concetto di morte. Uno studio diretto da Gerald Koocher ha fornito una risposta parziale. Lo studio10 prevedeva che fossero poste ai bambini quattro domande sulla morte. La prima domanda era “Che cosa è che fa morire?” Per rispondere, i bambini che si trovano nella fase preoperatoria usano il ragionamento fantastico, il pensiero magico assie-

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me al riferimento a cause di morte realistiche, a volte espresse in maniera egocentrica, ecco alcune semplici risposte: Nancy: “Quando si mangiano cose che fanno male, come quando uno accetta caramelle avvelenate da uno sconosciuto. Intervistatore: “Nient’altro?” Nancy: “Si, se mangi uno scarafaggio sporco.” Carol: “Se si mangia veleno e cose tipo medicine. È meglio aspettare che te le dia la mamma. Intervistatore: “Nient’altro?” Carol: “Sì, bere acqua avvelenata oppure cose come andare a nuotare da soli.” David: “Se catturi un uccellino, può ammalarsi e morire.” Intervistatore: “Nient’altro?” David: “Si, mettere in bocca della roba che non si mangia, come l’alluminio. Non riesco a pensare ad altro.” La comprensione della morte negli anni della prima infanzia è anche illustrata in uno studio di Helena Swain.11 La maggioranza dei bambini presi in considerazione esprimono la nozione della morte come situazione reversibile. Il ripristino della vita è attribuibile all’arrivo d’ambulanze, agli ospedali, ai dottori, il cui aiuto compare spesso in modo magico, come se un morto potesse chiamare l’ospedale autonomamente dicendo: “Mi mandereste un’ambulanza? Sono morto e avrei bisogno di un’aggiustatina.” Sempre all’interno dello studio, due terzi dei bambini mostrano di avere una serie di convinzioni: essi ritengono che la morte sia improbabile o evitabile e che giunga in seguito ad eventi straordinari o a catastrofi. Circa un terzo dei bambini non credeva che la morte potesse toccare a loro o alla loro famiglia. Quasi la metà erano indecisi fra il pensare che non sarebbero mai morti o che sarebbero morti solo in un futuro remoto. Gli anni centrali dell’infanzia Nel modello di Erikson, gli anni che vanno dai sei agli undici corrispondono allo stadio dell’operosità, in contrapposizione al sentimento di inferiorità. In questo periodo, il bambino è impegnato a stabilire relazioni a scuola col gruppo dei suoi pari in molti modi diversi. Nel momento in cui i suoi sforzi iniziano ad ottenere riconoscimento e a portare soddisfazione, il bambino può sentirsi ansioso in quelle situazioni nelle quali si sente inadeguato, o in cui non sente di potersi mettere in gioco. Per il benessere del bambino, l’incoraggiamento degli altri è di cruciale importanza. In questo stadio, la

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morte di un genitore può privare il bambino di un’importante fonte di riconoscimento e incoraggiamento. Durante lo sviluppo, non solo si apprendono nuovi compiti, ma ci si paragona costantemente ai propri pari. Ad esempio, una bambina di nove anni che aveva cambiato scuola subito dopo la morte della mamma, non voleva che i nuovi compagni lo venissero a sapere, e quando le fu chiesto il motivo di questo comportamento rispose: “Se ho una mamma morta sono troppo diversa dagli altri bambini.” Nell’ottica di Piaget, questo momento dell’infanzia viene descritto come fase operatoria concreta. Il soggetto inizia a usare la logica per risolvere i problemi e a pensare le cose in modo logico senza che le relazioni tra loro intercorrenti debbano essere direttamente dimostrate. Ad esempio, per essere abili in aritmetica è necessario riconoscere i numeri usati come simboli al posto delle quantità. I bambini sono ora in grado di manipolare i concetti in modo logico, sebbene non pensino ancora in modo astratto. In altre parole, l’abilità di pensare in modo astratto, si applica agli oggetti, ma non alle ipotesi, questa operazione richiede la concatenazione di moltissime operazioni. Perciò, la modalità di pensiero caratteristica di questa età, mette l’accento sulla concretezza e sulla logica delle cose. I bambini hanno la capacità di muovere i pensieri avanti e indietro nel tempo e dimostrano di accorgersi che il tempo passa. Tuttavia, la loro comprensione non gli permette di manipolare i concetti con la flessibilità o l’astrazione che deriva dall’abilità di impegnarsi in operazioni intellettuali formali. Durante questa fase i bambini sanno distinguere i modi di morire intenzionali da quelli non intenzionali. Poi, come mostrano le seguenti risposte, essi sanno distinguere molte cause di morte: Todd: “Ci sono i coltelli, le frecce, le pistole e molta altra roba: vuoi che te le dica tutte?” Tutte quelle che vuoi. “Anche le asce e gli animali, gli incendi e le esplosioni”. Kenny: “Il cancro, gli attacchi di cuore, il veleno, le pistole, i proiettili e se qualcuno ti tira una pietra”. Deborah: “Gli incidenti, le auto, le pistole o i coltelli, ma anche la vecchiaia, le malattie, la droga o affogare”. L’adolescenza Nel modello eriksoniano, l’adolescenza è segnata dall’instaurarsi di un’identità individuale. Si stabilisce un ponte tra il passato, inteso come l’infanzia o gli anni della dipendenza, e il futuro, ossia l’età adulta e gli anni dell’indipendenza. L’adolescenza è un’età d’integrazione e separazione allo stesso tempo,

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durante la quale la domanda centrale riguarda la propria identità emotiva, intellettuale, fisica e sessuale. Sarebbe bene chiedersi, ogni tanto, se noi adulti ricordiamo come sia essere adolescenti e diventare mano a mano sé stessi, districando la matassa degli avvenimenti che si susseguono; o ancora, se abbiamo dimenticato il sapore delle decisioni da prendere per la vita. L’adolescenza può essere un periodo di confusione e di sfida. Il desiderio di rafforzare il senso d’identità può essere accompagnato dall’ansietà che una risposta adeguata a volte comporta. Per gli adolescenti, il raggiungimento degli obiettivi sembra essere a portata di mano, ma la morte minaccia queste acquisizioni. Mentre gli adolescenti si sforzano di diventare più indipendenti, conoscere la morte da vicino può voler dire raggiungere la maturità in tempi più brevi. Inoltre, dato che l’adolescenza tende ad essere un momento di conflitti interni ed esterni, l’esperienza della morte può portare a galla una serie di questioni irrisolte.12 Secondo Piaget l’adolescenza è caratterizzata dall’uso di operazioni formali e va dagli undici/dodici anni fino all’età adulta, anche se il modo “maturo” di esaminare la realtà è ben assestato già verso i quindici anni. Con la capacità di ragionare in modo astratto, l’individuo è capace di “pensare al pensiero”, ossia di formulare concetti astratti o simbolici. Si possono notare relazioni di corrispondenza o implicazioni all’interno di gruppi complessi di frasi, individuare analogie e fare ipotesi o deduzioni. Ora, è possibile fare previsioni senza che queste debbano accadere realmente: nel gioco degli scacchi, ad esempio, le operazioni di pensiero formale permettono ai giocatori di prendere in considerazione diverse strategie complesse e di predire il risultato d’ogni mossa senza dover toccare un solo pezzo della scacchiera. Nello studio di Koocher, la maggior parte dei bambini che usava operazioni logiche aveva dodici anni o più, anche se alcuni avevano nove o dieci anni, proprio l’età in cui la maggior parte dei bambini hanno un’idea matura della morte.13 Con le risposte che forniscono, i bambini intervistati da Koocher rivelano un buon livello di comprensione della morte. Ecco alcune risposte alla domanda “Cos’è che fa morire?”: Ed: “Intendi la morte da un punto di vista fisico?” Si. “Allora, è la distruzione degli organi vitali o della forza che ci sostiene.” George: “Si invecchia e il corpo si consuma tutto e allora i nostri organi non funzionano più così bene come un tempo.” Paula: “Quando il cuore si blocca, il sangue smette di circolare e allora si smette di respirare.” C’è altro? “Beh, ci sono molti modi in cui tutto questo inizia, ma alla fine succede sempre così.” Anche se gli adolescenti dimostrano una comprensione matura della morte, questo non significa che adolescenti e adulti non abbiamo modi diversi di

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capire la morte e di reagire ad essa. Ad esempio, la comprensione che ha un adolescente dell’universalità della morte, può essere influenzata da un sentimento d’invincibilità, che si potrebbe riassumere nel pensiero “Tanto a me non succede”. A questa concezione l’adolescente tende ad accompagnare un atteggiamento di sfida, per vedere quali sono i limiti fisici tra ciò che esiste e ciò che non è più. Il concetto della propria caducità può non essere facile da accettare. Nel forgiare il proprio senso d’individualità, l’adolescente si confronta con il bisogno di “conciliare l’identità con il disfacimento finale e il non-essere.”14 Alcuni psicologi dell’età evolutiva propongono una nuova categoria dello sviluppo umano per il periodo che va dai diciotto ai venticinque anni. Poiché nelle società moderne, è questa l’età nella quale avviene una esplorazione prolungata del proprio ruolo, esso è un momento in cui molte possibilità e strade si possono aprire sia per quanto riguarda il lavoro che per la vita personale e quindi anche per la visione del mondo. Le persone in questa fascia d’età non si vedono più come adolescenti, ma nemmeno come adulti. Jeffrey Arnett afferma che “queste persone possono fare esperienze nuove in modo intenso e più liberamente degli adolescenti, perché non si sentono più controllati e perché non sono più costretti entro dei ruoli”.15 La prevalenza di certi tipi di comportamento a rischio, il sesso non protetto, l’abuso di sostanze, la guida imprudente e le eccessive bevute, pare raggiungere un picco proprio in questi anni di prima età adulta. Proprio per questo in questa fase si può pensare, come per gli adolescenti, di essere “oltre la morte”. Verso una comprensione matura della morte È attraverso il succedersi delle fasi dello sviluppo che gli individui acquisiscono una comprensione matura della morte ed elaborano le proprie risposte al lutto. Abbiamo già esaminato le risposte dei bambini alla domanda “Che cos’è che fa morire?”. Le loro risposte ad altre domande poste da Koocher corrispondevano a vari gradi di sviluppo. Alla domanda “Come si possono riportare in vita le cose morte?”, i bambini che consideravano la morte un processo reversibile, davano risposte come “Si possono aiutare, gli si può dare del cibo caldo e farli stare bene, così poi non capita più”; oppure “Questo non me l’avevano detto, ma forse gli si possono dare delle medicine e portarli all’ospedale”. Ad un livello di ulteriore sviluppo, i bambini riconoscono il carattere di irreversibilità della situazione e le risposte sono simili a questa: “Se è un albero, si può annaffiare. Se invece è una persona, si porta subito all’ospedale, poi, però, se è già morta non serve a niente” o “Forse un

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giorno si potrà resuscitare, ma ora no. Gli scienziati stanno lavorando al problema”. Alla domanda “Quando morirai?” i bambini più piccoli rispondono “A sette anni” o “Fra trecento anni”. Al contrario, i bambini appena più grandi hanno aspettative corrette circa la lunghezza della loro vita, il cui termine viene generalmente posto attorno agli ottanta anni. A una bambina di nove anni viene chiesto cosa succederà nel momento del proprio trapasso e questa risponde che i famigliari l’aiuteranno a tornare indietro e aggiunge: “Mi terranno a letto, mi daranno da mangiare e mi terranno lontana dal veleno e roba simile”. Secondo alcune teorie dello sviluppo, un bambino di nove anni dovrebbe già sapere che nessuno di questi sistemi può funzionare; questo è un esempio per illustrare come la correlazione fra l’età e il livello di sviluppo forniscano, al massimo, delle linee guida sullo sviluppo infantile. Infatti, alla stessa domanda un intervistatore raccoglie la seguente risposta: “Si va in paradiso e di te rimane solo lo scheletro. Un mio amico ha dei fossili di persone. Un fossile è uno scheletro”; possiamo anche notare come il paragone aiuti a formulare un’interpretazione di ciò che accade quando si muore. Un undicenne afferma: “Inizio a sentirmi male, mi sento stanco e svengo. Poi muoio, mi seppelliscono e marcisco tutto. Ti disintegri e rimangono solo le tue ossa”. Un dodicenne: “Mi faranno un bel funerale, sarò seppellito e lascerò i soldi a mio figlio”. Un bambino di dieci anni ha detto invece: “Se te lo dico ti metti a ridere”. “No, no, m’interessa sapere quel che pensi veramente”. Allora il bambino incoraggiato dice: “Penso che mi reincarnerò in una pianta o in un animale, a seconda di quello di cui c’è bisogno in quel momento”, risposta che comprende l’abilità di immaginare come le cose potrebbero essere in futuro.

La comprensione della morte: le influenze socioculturali L’acquisizione di un buon concetto di morte è parte di un processo di sviluppo che si chiama socializzazione, che comporta l’apprendimento delle norme, delle regole e dei valori di una data società, nonché la loro interiorizzazione. Attraverso la socializzazione, i giovani membri della società ricevono conoscenze, comportamenti e ideali dalle generazioni precedenti. La socializzazione non termina con la fine dell’infanzia ma continua con l’evolversi personale di ruoli e valori. Le norme e i valori di una società si modificano allorché i suoi membri ridefiniscono i propri ruoli e i propri obblighi sociali. Si può definire la società come “un gruppo di persone che condividono una cultura comune, un territorio comune, una comune identità e che si sentono parte di un’entità distinta, ma unita, che implica un quadro di interazioni collocate all’interno di relazioni socialmente strutturate”.16 Il suo sistema so-

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ciale e le sue istituzioni conferiscono ad una società tratti particolari e distintivi. Questo senso di distinzione è ben presente nel termine cultura, una specie d’abbreviazione per definire i modi di pensare, di sentire e di agire di un determinato gruppo di persone. Ci riferiamo spesso a determinate società in modo da porre in evidenza i loro tratti peculiari, ad esempio dicendo “la cultura giapponese” o “la cultura dell’Europa Occidentale” e così via. La cultura può essere definita come “tutto ciò che in una società umana è trasmesso socialmente e non biologicamente”.17 Questa definizione comprende tanto le componenti materiali quanto quelle immateriali. La cultura materiale è rappresentata dall’insieme delle cose, dai manufatti (ad esempio i prodotti da costruzione o quelli di consumo), o dalle manifestazioni fisiche della vita delle persone. Gli aspetti immateriali delle varie culture risiedono nelle idee, nelle credenze, nei valori e nei costumi. (vedi tab. 2-2) La cultura è dinamica, ossia cambia se i suoi componenti riconsiderano le credenze, i valori e le tradizioni ereditati, alla luce di circostanze ed esperienze nuove. Si può dire che la cultura operi come un quadro di riferimento in grado di incanalare, piuttosto che determinare gli atteggiamenti e i comportamenti. Tabella 2-2 Aspetti non materiali della cultura. Conocenza: conclusione basata su prove empiriche. Credenze: conclusione per la quale non ci sono prove evidenti per sembrare necessariamente vere. Valori: idee astratte riguardo ciò che è buono e desiderabile. Norme: regole sociali e linee guida che prescrivono comportamenti appropriati in situazioni particolari. Segni e simboli: rappresentazioni che stanno per qualcosaltro, questa categoria include il linguaggio e i gesti. Fonte: Adattato da Norman Goodman, “Introduction to sociology” (New York: HarperCollins, 1992), pp. 31-34.

Agenti di socializzazione La socializzazione comprende una molteplicità d’influenze che iniziano in famiglia e che si estendono fino ai media. In confronto ad altri periodi storici, i bambini d’oggi sono sottoposti a una quantità maggiore di influenze che condizionano la loro socializzazione. Come afferma Hannelore Wass, “i bambini adottano molte credenze e molti valori, significativi per la loro vita, dagli adulti, ossia dai genitori, dagli insegnanti, dalle figure pubbliche, dagli eroi sportivi e dagli intrattenitori famosi”.18

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Le fasi principali della socializzazione si svolgono durante l’infanzia, ma il processo continua per tutta la vita. Insieme alla socializzazione bisogna considerare la risocializzazione che sta ad indicare “lo sradicamento e la ricostruzione d’atteggiamenti e di valori o di identità di base” che ha luogo quando un adulto assume nuovi ruoli che richiedono la sostituzione dei valori esistenti e dei modelli di comportamento pregressi.19 Questo è il caso delle conversioni religiose, ma anche di un nuovo lavoro, del matrimonio, dell’avere dei bambini o anche del sopravvivere alla morte di un compagno. La vedovanza implica un cambiamento in molte aree della propria vita, in quanto si cambiano molte attività o si assumono ruoli diversi.20 I rapidi cambiamenti sociali richiedono una risocializzazione, come è accaduto per i ruoli femminili nel recente passato. Si ha una risocializzazione quando le norme e i valori che abbiamo appreso nell’infanzia vengono modificati nel corso della vita. La gente acquisisce le proprie nozioni sulla morte e sul morire in modo assai disorganizzato. È vero che sul tema vengono anche organizzati corsi e seminari, ma questo tipo di socializzazione non fa parte dell’esperienza della maggior parte delle persone. Il termine di socializzazione tattica si riferisce alle strategie che gli assistenti degli hospice devono apprendere per poter istruire informalmente le persone sulla morte e sul morire,21 attività che implica uno sforzo attivo per cambiare le percezioni e i comportamenti altrui. Anche se quello che impariamo sulla morte, non è il risultato di un insegnamento sistematico, ma semplicemente il frutto degli eventi, esistono programmi appositamente strutturati per fornire delle occasioni per parlare della morte, del morire. Ad esempio, questo è stato il caso del Museo dei Bambini di Boston, quando ha curato una mostra dal titolo “La fine: una mostra sulla morte e la perdita”. In questa mostra, genitori e figli si scambiavano idee e sensazioni sulla morte attraverso canzoni, storie, giochi, video e altro ancora. Non è sempre possibile rintracciare l’origine delle idee che un individuo si fa della morte. Consideriamo il caso di due bambini, fratello e sorella, di otto e di dieci anni. Abbiamo chiesto loro di disegnare un funerale. A un certo punto, il maggiore si rivolge al più piccolo dicendo: “Ehi, ma i tuoi personaggi sorridono! Com’è possibile ad un funerale?”. Il suo modello di reazione appropriata alla morte non prevedeva che si potesse sorridere ai funerali, mentre per il suo fratellino i sorrisi erano perfettamente accettabili. Le influenze che provocano affermazioni così forti sul comportamento corretto a un funerale, non si possono determinare con certezza. Interazioni come quella appena illustrata, mostrano come gli atteggiamenti verso la morte siano parte della comprensione stessa della morte che un bambino ha.

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La famiglia La famiglia costituisce l’istituzione sociale fondante in tutte le società, anche se la sua definizione varia secondo il luogo e le circostanze storiche.22 Le credenze e i valori dei genitori si trasmettono ai figli nello svolgersi della vita quotidiana. Se ripensiamo alla nostra infanzia, possiamo rintracciare i messaggi che si ricevevano sulla morte, messaggi che ancora oggi ricordiamo. Alcuni messaggi erano espliciti, ad esempio affermazioni del tipo: “Ecco cos’è la morte” o “Ecco come ci si comporta di fronte alla morte”. Altri messaggi erano indiretti: “Non parliamo di...”. Come finiva la frase? Si voleva dire che non si doveva parlare di una cosa perché la gente non ne parla? Un altro esempio: è comune che i bambini siano distolti dalla visione d’animali morti sulla strada, cosa che costituisce una precisa indicazione dei genitori circa il comportamento da tenere di fronte alla morte. “Non devi guardare” dicono spesso le madri ai loro bambini (ad esempio di fronte ad una scena violenta che passa in TV) “sono cose che i bambini non devono vedere”. Altri messaggi sono comunicati in modo inconscio, ad esempio attraverso la nozione di sostituibilità. È frequente che in seguito alla morte di un animale, i genitori dicano “Non preoccuparti, ne prendiamo un altro.” Le reazioni dei bambini alla perdita dell’animale domestico sono varie e possono comprendere forme di lutto profondo, e la sostituzione eccessivamente veloce dell’animale può non lasciare il tempo necessario a riconoscerne la perdita. Inoltre, sarebbe bene farsi delle domande su questo modo affrettato di agire di fronte alla morte, e a quello che si comunica con questo comportamento; nel momento che fossero i genitori a subire una perdita, i figli potrebbero replicare allo stesso modo: “Non preoccuparti mamma, ti prenderai un altro papà”. Non solo le azioni, ma anche le parole accompagnano le lezioni che s’imparano in famiglia. Questa testimonianza ci è stata fornita da una donna ormai adulta: “Mi ricordo una volta che mia madre investì un gatto. Non ero con lei in macchina, ma mi ricordo il momento in cui tornò a casa e si abbandonò a una crisi. Si chiuse in camera e pianse per ore. Da allora in poi ho sempre fatto attenzione a non uccidere nulla, nemmeno un insetto. Se ne vedo uno, lo prendo e lo metto fuori.” Gli atteggiamenti dei genitori e degli altri membri della famiglia danno forma ai valori e ai comportamenti, non solo del bambino, ma anche dell’adulto nel quale quel bambino evolverà, influenzando anche quanto egli trasmetterà ai suoi figli. La scuola e il gruppo dei pari La scuola insegna molto più che “leggere, scrivere e far di conto”. L’orizzonte sociale del bambino si allarga in modo drammatico negli anni della

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scuola, anche grazie alla possibilità d’interazione col gruppo dei pari. Anche negli anni che precedono la scuola, il bambino è parte del gruppo dei pari tutte le volte che gioca con coetanei che appartengono allo stesso gruppo sociale. Anche gli sport e gli hobby inseriscono i soggetti in un universo di socialità, all’interno di una comunità che li mette in contatto con insiemi di norme.23 Una socializzazione sulla morte si verifica in tali gruppi quando, per esempio, muore un membro del gruppo o il leader. Con l’allargarsi della rete sociale del bambino aumentano ovviamente anche le possibilità d’incontro con la morte. I mass media e la letteratura per l’infanzia La televisione, i film, la radio, i giornali, le riviste, i libri e i dischi hanno tutti una forte influenza sulla socializzazione. I messaggi dei media comunicano atteggiamenti culturali in relazione alla morte, anche quando il messaggio non è intenzionalmente rivolto ai più piccoli, come nel caso di notizie di disastri. Il modo nel quale i più piccoli si comportano, vedendo tali messaggi, dipende dal grado individuale di sviluppo e dalle esperienze di vita. Quando fu assassinato J. F. Kennedy, i bambini tendevano a selezionare tra i dettagli forniti dai media gli aspetti più coerenti con le preoccupazioni proprie del loro stadio evolutivo.24 I bambini più piccoli si preoccupavano delle condizioni del corpo del presidente e degli effetti della morte all’interno della sua famiglia, mentre quelli più grandi esprimevano preoccupazioni sulla situazione politica, dopo la morte del presidente. Altra fonte di notizie sulla morte è la letteratura per l’infanzia. Molte storie classiche e molti racconti di fate descrivono la morte o le minacce di morte.25 Ci sono “storie di bambini abbandonati nei boschi; di figlie avvelenate dalle stesse loro madri; di figli costretti a tradire i propri fratelli; di uomini e di donne uccisi dai lupi o imprigionati in torri senza finestre”.26 La morte è spesso presente nelle storie per l’infanzia e questo è tanto più vero per i primissimi racconti sulla vita familiare che i genitori fanno ai figli. Elisabeth Lamers dice che: “I bambini americani che hanno imparato a leggere su testi come McGuffey’s Eclectic Readers, hanno scoperto che la morte vi è presentata come tragica ma inevitabile e che molte delle storie legate alla morte contenevano anche una lezione morale”.27 Nel diciannovesimo secolo, la violenza contenuta nelle storie per bambini era così esplicita e cruenta che causava una risposta fortemente morale.28 Il modo in cui la morte è proposta ai bambini nelle storie è portatrice di valori culturali. Si prendano ad esempio in considerazione le differenze fra la versione europea di Cappuccetto Rosso e quella cinese. Nella versione europea, Cappuccetto rosso va da sola a fare visita alla nonna, incontra il lupo, ed è portata a credere che il lupo sia la sua nonna.29

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Nella versione tradizionale della storia, la protagonista è mangiata dal lupo, ma viene poi salvata da un boscaiolo che uccide il lupo e gli apre la pancia, permettendo alla bimba di uscirne illesa. In versioni più recenti, le urla della bambina fanno accorrere il boscaiolo che caccia il lupo e poi le dice che non sarà più disturbata, (e l’uccisione del lupo avviene fuori dalla scena e non è menzionata).30 La storia cinese di Lon Po Po, derivata da una tradizione orale millenaria, racconta come tre bambini siano lasciati soli in casa, mentre la mamma va a fare visita alla nonna. Il lupo travestito da nonna persuade i bambini ad aprire la porta sprangata. Quando questi aprono, il lupo spegne la luce. Tuttavia, facendogli domande sul suo aspetto fisico, il più grande scopre la vera identità del lupo e scappa con i fratelli in cima a un albero di gingko biloba. Con un trucco i bambini convincono il lupo a mettersi dentro a un canestro in modo che lo possano tirare su per mangiare le noci dell’albero assieme a loro, ma non appena il cesto raggiunge la cima lo lasciano cadere al suolo. La morale recita: “Non solo il lupo si fece un bernoccolo, ma si ruppe anche il cuore in tanti pezzi”.31 Scendendo giù per i rami dell’albero fin sopra il lupo, i bambini vedono che questi “è davvero morto”. A differenza della versione europea, che vede una bambina sola di fronte alla minaccia del lupo, e che deve poi essere salvata grazie a un aiuto esterno, la versione cinese mette in risalto il valore del gruppo e dello sforzo da questo compiuto per sbarazzarsi del lupo. Alcune storie per l’infanzia sono scritte col preciso scopo di rispondere alle domande dei bambini sulla morte. In molti di questi libri, specialmente quelli scritti per bambini piccoli, la morte è presentata come parte di un ciclo naturale, e vi si esprime spesso l’idea che, così come ogni stagione si sussegue ad un’altra, ogni vita che finisce è seguita da una rinascita. (Una selezione di libri per bambini sulla morte è inclusa nel capitolo 9). Anche le filastrocche contengono riferimenti alla morte o alla violenza.32 In ogni cultura umana e in ogni periodo storico, si sono cantate filastrocche ai bambini. Si dice che, l’educazione alla morte abbia inizio con la prima filastrocca che una mamma canta al proprio bambino.33 Alcune canzoni comunicano ai bambini informazioni emotive…34 Il numero delle filastrocche che contiene messaggi di morte è sorprendente. Ad esempio, considerate il messaggio contenuto in questa canzone famosa: Dondola il bambino in cima all’albero, Quando il vento soffierà, la culla dondolerà. Quando il ramo si spezzerà, la culla cadrà. Verrà giù il bambino, la culla e tutto.

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Alcune filastrocche sono canzoni di lutto che descrivono la morte o il funerale di un bambino, altre sono canzoni di minaccia che annunciano una punizione qualora un bambino non dovesse andare a dormire o non dovesse svolgere in un dato modo un certo compito. Analizzando le canzoni infantili e le filastrocche, gli studiosi hanno notato che avvengono modifiche sia nel soggetto che nel modo di narrare nel momento in cui aumenta la sicurezza nel futuro o migliorano le condizioni sociali e gli standard di vita. Anche le poesie per bambini contengono immagini di morte. Uno studio ne ha prese in considerazione oltre duecento: circa la metà descrivono le meraviglie e la bellezza della vita, mentre l’altra metà tratta di come gli esseri umani o gli animali muoiono o vengono maltrattati.35 I temi correlati alla morte trattati in queste poesie, oltre alle storie di bambini perduti o abbandonati e alle descrizioni di miseria e povertà, sono: l’omicidio, lo strangolamento, i tormenti, le crudeltà, la mutilazione, la miseria, la pena. La religione Come afferma lo psicologo Robert Emmons, “la spiritualità e la religione sono parte integrante della cultura umana e come tali hanno il potere di formare l’individuo e la personalità”.36 Trovare il proprio posto nell’universo è un aspetto cruciale dello sviluppo umano. La religione riflette gli sforzi degli individui e delle società per dare un significato al mondo e all’esistenza stessa; essa costituisce anche la base dell’etica su cui gli esseri umani costruiscono le loro relazioni mantenendosi in armonia con gli dei e dando un significato alla vita…37 La spiritualità e la religione possono essere delle vie molto importanti sia per gli adulti che per i bambini nel capire e affrontare la morte38. La religione offre sollievo, attribuisce significati alla morte e mette a disposizione dei rituali del lutto che alleviano il dolore. Vernon Reynolds e Ralph Tanner sottolineano come la religione “si occupi di somministrare i sacramenti al morente, preparandolo al mondo che verrà; si occupa dei suoi bisogni contingenti sia fisici che psichici, aiutando allo stesso tempo anche le persone vicine al morente”.39 Anche nelle moderne società secolarizzate, la religione gioca un ruolo fondamentale nel definire i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti verso la morte. (vedi tab. 2-3) Oltre il 90%40 degli americani appartiene a qualche credo religioso, una ricerca ha stabilito che il 95% dei teenager crede in Dio, mentre un quarto di loro considerano la religione più importante di quanto non lo sia per i loro genitori.41 Nel considerare l’importanza che la religione ha nella vita dell’individuo è bene operare una distinzione fra due concetti correlati, affiliazione religiosa e religiosità. Anche se i membri di una comunità religiosa condividono la stes-

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Tabella 2-3 Quattro funzioni della religione nelle società. 1. La religione presenta un complesso di credenze, valori e norme condivisi, attorno al quale le persone possono formare un’identità comune. Quindi, la religione svolge una funzione unificatrice, è “il collante sociale che tiene unito un gruppo offrendogli un complesso comune di valori.” 2. La religione offre risposte alle “grandi domande” sull’esistenza umana e sul suo fine. Si rivolge alle questioni della vita e della morte, definisce lo stile di vita da condurre, e spiega cosa accade alle persone dopo la morte. 3. La religione spesso offre un fondamento alle norme e alle leggi di una società. Le leggi acquisiscono forza morale e legale quando sono impresse entro valori religiosi. 4. La religione è una fonte di sostegno emotivo e psicologico per le persone, specialmente nei momenti di crisi. Fonte: Adattato da Norman Goodman, “Introduction to sociology” (New York: HarperCollins, 1992), pp. 205-206.

sa affiliazione, la loro religiosità – ossia l’importanza che la religione riveste nelle loro vite – può variare. Nell’incontro con la morte e il morire, la persona che assiste ai rituali religiosi come occasione d’interazione sociale, può avere una percezione diversa del potere consolatorio della religione, rispetto a chi trova, ad esempio nella messa, un significato personale profondo. La religiosità comprende molte dimensioni, tra cui:42 1. la religiosità esperienzial-emotiva (quando si è emotivamente legati ad una religione); 2. la religiosità rituale (data dalla partecipazione alle cerimonie religiose); 3. la religiosità ideologica (caratterizzata da un impegno religioso); 4. la religiosità coerente (secondo cui la religione si integra nella vita quotidiana della persona); 5. la religiosità intellettuale (basata sulla conoscenza delle tradizioni, dei credi e delle pratiche di una religione). Ciascuna di queste dimensioni, o tutte insieme, possono influenzare il modo in cui una persona si confronta con la morte o affronta il lutto. Ad esempio, un giovane americano d’origine filippina il cui padre era morto, racconta del sollievo che provò partecipando a una messa funebre che si teneva nella chiesa che era solito frequentare. Nel commentare il linguaggio e i simboli usati durante la messa, disse: “Sai, non mi sono mai chiesto cosa dicessero quelle preghiere, è solo che il loro ritmo e l’odore pungente dell’incenso mi hanno fatto sentire come se ci si prendesse cura di mio padre e che lui stava bene.” Nella religiosità di questo giovane si riscontrano alcune delle dimensioni indicate sopra: la dimensione esperienzial-emotiva, quella rituale e quella coerente.

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La morte e il morire sono, in sostanza, qualcosa di più che meri eventi biologici, hanno anche una dimensione sociale e spirituale. Le nostre credenze religiose, spirituali o filosofiche sono chiavi per comprendere i modi in cui ci mettiamo in relazione con la prospettiva della nostra morte e della morte degli altri. Occasioni pedagogiche Nel corso della loro vita quotidiana, i bambini hanno molte opportunità di ricevere informazioni sulla morte e il morire.43 Consideriamo, ad esempio, una madre che sorprende il suo bambino di 11 anni al proprio computer, intento a stilare il proprio testamento. Lì per lì resta sorpresa mentre una tempesta di pensieri infuria nella sua mente: perché sta scrivendo il testamento? Com’è possibile che un bambino della sua età sia interessato a pensare a chi lasciare i propri tesori? Crede forse che morirà presto? Che cosa dovrei fare adesso? Che cosa gli posso dire? Raccogliendo tutto il proprio coraggio, la madre si schiarisce la voce e tentando di usare il tono più naturale possibile chiede: “Che cos’è che ti ha fatto venire in mente di scrivere un testamento?” Il bambino, girandosi verso di lei, con la soddisfazione che gli illumina il volto, le risponde: “Stavo guardando i programmi sul tuo computer e ne ho trovato uno che si chiama “modello di testamento”, si è aperto e io ho solo dovuto scrivere negli spazi. È facile, sai! Dopo posso stampare un testamento tutto mio!” Incontriamo così il concetto di occasioni pedagogiche, una definizione coniata dagli educatori per descrivere le varie opportunità di apprendimento/insegnamento che nascono dall’esperienza quotidiana. Per la loro immediatezza tali esperienze sono ideali per l’insegnamento: l’entusiasmo e la motivazione delle domande poste da chi sta apprendendo, guidano, poi, lo sviluppo del processo educativo. Se diamo per scontato che l’insegnamento va in un’unica direzione, dall’adulto al bambino, perdiamo la quintessenza della qualità dell’educazione intesa come processo di interazione. Nell’esempio con il quale abbiamo aperto questo paragrafo, la madre occupa, in modo chiaro, il ruolo di chi apprende: conosce i progressi di suo figlio al computer, ma, cosa più importante, impara quanto sia fondamentale raccogliere e connettere le informazioni prima di rispondere. Supponiamo che questa madre avesse reagito male all‘apparente interesse di suo figlio per la morte: avrebbe potuto aggredirlo con frasi come: “Smettila subito! I bambini della tua età non dovrebbero pensare a queste cose!”. Il figlio avrebbe sempre ricevuto una lezione sulla morte, ma la modalità non avrebbe certo favorito un apprendimento sano. Nell’applicare il principio

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delle occasioni pedagogiche come un modo per guidare i bambini verso la comprensione della morte, è utile chiedersi: che cos’è che stiamo davvero insegnando? Questo “insegnamento” è frutto di una pianificazione consapevole oppure si stanno involontariamente facendo passare messaggi poco corretti riguardo alla morte? Torniamo all’aneddoto della madre e del figlio. La madre può sfruttare una simile conversazione come un’opportunità per discutere della morte con il proprio figlio, in un contesto sereno ed emotivamente pacato e può farlo proprio perché non ha reagito alle informazioni casuali sulla spinta della propria ansia iniziale. Potrebbe proseguire la conversazione, ad esempio, richiamando l’attenzione del figlio sulla dicitura “Tutori designati per i figli minorenni”, e così informarlo su ciò che è stato fatto per assicurare il suo benessere (“Ti ho detto che nel mio testamento ho indicato la zia Marta e lo zio Giovanni come le persone che si possono prendere cura di te?”); oppure per rispondere alle sue preoccupazioni dicendo: “No, non ho alcuna intenzione di morire presto”. Madre e figlio potrebbero passare ancora qualche minuto ampliando il discorso ad altri aspetti della morte e del come ci si può preparare. Un simile modo di comunicare crea un clima di serena apertura: in momenti simili, anche se brevi, si può davvero insegnare e imparare tanto. Le occasioni pedagogiche sono così definite perché si verificano in contesti non pianificati, ma è utile far presente che genitori, educatori e altri adulti possono, volendo, pianificare simili situazioni, incoraggiando così l’apprendimento e la riflessione sul tema della morte.44 Non c’è nessuna regola che ci obblighi ad attendere l’arrivo spontaneo di tali momenti. Certo, nell’episodio che abbiamo visto prima, la madre ha effettivamente usato l’esperienza del figlio con il computer per introdurre la discussione sulla morte. In maniera simile, nei film per l’infanzia, la morte fa spesso parte della storia, il che può condurre a discutere di come, ad esempio, i vari personaggi esprimono il proprio dolore del lutto.45 Per sfruttare al meglio queste opportunità, bisogna preparare gli adulti che si prendono cura dei bambini. Le occasioni pedagogiche non si presentano solo fra bambini e adulti, ma anche fra gli stessi adulti. Durante un volo aereo, uno degli Autori di questo libro si trovò a conversare con il capo esecutivo di un’importante azienda, il quale, appreso del tema di cui si occupava il suo interlocutore, cambiò leggermente tono e chiese un consiglio su una faccenda personale. Si trattava di una disputa famigliare riguardo all’opportunità di portare il figlio di cinque anni al funerale del nonno che sarebbe stato sepolto presso l’Arlington National Cemetery; egli temeva che la cerimonia ufficiale, con le uniformi, i soldati e gli spari a salve, potesse spaventare il bambino. Dopo aver parlato un po’ della sua famiglia e di suo figlio, si parlò delle modalità con cui i genitori possono rassicurare i propri figli durante i riti funebri. Tali discorsi convin-

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sero l’uomo a rivedere la propria decisione e, in base alle informazioni specifiche avute, decise che il bambino, al contrario di ciò che era stato deciso, sarebbe stato presente al funerale. Non occorre essere autore di manuali per dare consigli e aiutare chi sta soffrendo per un lutto, tuttavia, proseguendo la lettura, speriamo di poter fornire informazioni che il lettore potrà diffondere in maniera corretta. Precoci esperienze di morte Le esperienze personali sono cruciali nel forgiare gli atteggiamenti e i comportamenti dell’individuo; per questo motivo è molto importante riconoscere che ogni persona è unica nella sua esperienza della morte e del morire. I bambini, ma anche gli adulti, che presentano una sviluppata autostima, che si sentono a proprio agio con se stessi, che si percepiscono come persone attive, vitali e interessanti e che si prendono cura dei rapporti interpersonali, tendono ad avere meno paura della morte e del morire. Consideriamo le reazioni alla morte osservate nel corso della nostra vita: mentre alcuni sembravano interessati a conoscere tutti i minimi dettagli dell’evento, altri preferivano saperne il meno possibile. L’atteggiamento della bambina di dieci anni che, con tono lamentoso, dice: “No, smettila, queste cose mi fanno stare male!” può permanere anche in età adulta. Quando bambini molto piccoli sono coinvolti nei lutti della famiglia, essi acquisiscono una comprensione della morte che, generalmente, è propria di quelli d’età più avanzata. Ad esempio, una bambina di sei anni che aveva assistito alla morte incidentale del fratello, lasciava capire di avere una chiara percezione del fatto che la morte è definitiva, che tutti muoiono e che anche lei poteva morire; iniziò, quindi, a preoccuparsi di come proteggere se stessa e gli amici dalle circostanze pericolose che avevano causato la morte del fratello; tale reazione si esprimeva con le raccomandazioni impartite ai compagni di classe sul come prevenire gli incidenti. Gli incontri con una morte brutale e violenta, alterano prepotentemente le percezioni della morte nell’infanzia. I disegni dei piccoli che vivono nei campi-rifugio in Cambogia hanno come tema dominante la morte:46 avendo visto morire di fame i propri genitori e altre persone, i bambini hanno trasposto la loro esperienza traumatica nei disegni. Uno di questi raffigura una madre circondata dalle salme di sei bambini e ha questa didascalia: “I bimbi morti della madre”. James Garbarino sostiene che “poche questioni mettono alla prova le nostre risorse morali, intellettuali e politiche come quelle dei bambini che vivono in comunità nelle quali la violenza, la guerra e altre forme di conflitto sono all’ordine del giorno.47

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Nel diario scritto da una ragazzina, Zlata Filipovic, e ambientato in una Sarajevo messa in ginocchio dalla guerra, sono evidenti gli effetti della violenza sui bambini: in esso si svela la transizione dalle preoccupazioni tipiche della vita di un adolescente fino al disarmato sconcerto davanti alla distruzione quando la guerra irrompe nella vita normale. In un passaggio Zlata scrive: “la guerra ha spazzato via i giorni e li ha rimpiazzati con l’orrore. Ora sono gli orrori a scorrere, non più i giorni”48. Molti bambini e adolescenti che crescono nelle città americane vivono esperienze simili a quelle della guerra, anche se, negli Stati Uniti, esse derivano, invece, dalla violenza connessa con il traffico della droga e con le guerre tra bande rivali. Lo scrittore, attore e musicista IceT definisce questo scenario come “i campi di battaglia” dell’America.49 (vedi fig. 2-2) I bambini che subiscono l’esperienza diretta e traumatica della morte a causa di guerre, violenza o catastrofi naturali, spesso mostrano un atteggiamento fatalista, in netto contrasto con i loro coetanei che, invece, hanno un’esperienza più normale e “benigna” della morte: quando si chiede ai bambini in quali modi si può morire, quelli che vivono in contesti saturi di violenza e di morte, danno risposte nettamente diverse dai loro coetanei che vivono in luoghi più sicuri (vedi fig. 2-3). La stessa domanda (in quali modi le persone muoiono?) è alla base di una ricerca svolta su un gruppo di bambini di ceto urbano medio-basso di una scuola tedesca. Le risposte corrispondono all’ambiente nel quale essi vivono: le cause di morte violenta sono le “armi” e anche i “coltelli affilati”; sostanzialmente assente, invece, l’uso della parola “pistola”50 anche perché queste armi sono illegali e poco diffuse in Germania. I fattori ambientali giocano, dunque, un ruolo molto importante nel determinare il modo in cui le persone reagiscono alla morte. Soffermatevi un momento a considerare la vostra situazione personale: abitate in un ambiente rurale, urbano o di paese? In quale regione del vostro paese abitate? Al nord, all’est, nel meridione o, piuttosto, verso l’ovest? Nell’ambiente scolastico nel quale siete cresciuti esistevano delle differenze etniche o religiose? La vostra reazione alla morte è probabilmente influenzata da tutti questi fattori. Le esperienze della vita, particolarmente quelle che implicano l’incontro con la morte o altre perdite importanti, esercitano una profonda influenza nella formazione degli atteggiamenti e delle condizioni dell’individuo. Quando si hanno esperienze luttuose in tenera età, la piena consapevolezza di tale impatto sulla nostra vita potrebbe evidenziarsi solo durante l’età adulta.

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Figura 2-2 Modi in cui le persone muoiono: le immagini dei bambini: Un bambino afroamericano di sette anni in una grande città del Midwest disegna l’immagine di un omicidio per decapitazione. (In due incidenti distinti due ragazzine della sua città erano recentemente state uccise in questo modo). Invece, il disegno cerato da un bambino bianco di sette anni frequentante una scuola cattolica in una piccola città della California esprime l’idea del bambino che le persone muoiano quando “Dio ti chiama a casa.” Si noti come il bambino dipinga la voce di Dio e le porte del paradiso.

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Figura 2-3 Modi in cui le persone muoiono: le spiegazioni dei bambini: L’ambiente, inteso sia nel senso del tempo che dello spazio, influenza la comprensione che il bambino ha della morte. L’impatto dell’ambiente sulla visione che i bambini hanno della morte può essere richiamato chiedendo loro di fare una lista o un disegno in risposta alla domanda “quali sono i modi in cui le persone muoiono?”. La lista fu scritta nel 1978 da una bambina bianca di sette anni che abitava in una piccola città costiera della California, essa si pone in netto contrasto con la risposta comprendente tredici punti, scritta nel 1995 (mostrata nella figura) da un bambino afroamericano di sette anni residente in una grande città del Midwest. Benché entrambe le liste siano state stilate da bambini della stessa età, la seconda lista riflette sia il passare del tempo (17 anni) che le circostanze di vita all’interno dell’ambiente metropolitano di una città dell’entroterra. Mentre la lista della prima bambina si sofferma su malattie e incidenti, la spiegazione del bambino mostra familiarità con una vasta gamma di cause di morte, delle quali poche sono collegate a eventi “naturali”.

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Società e cultura: le prospettive teoriche La sociologia offre ottimi strumenti per la comprensione dei fattori socioculturali che influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti relativi alla morte. Le tre prospettive teoriche che presentiamo nei prossimi paragrafi rappresentano altrettanti punti di vista dai quali osservare il funzionamento della società. La prima offre una panoramica delle strutture sociali e delle sue istituzioni e pone l’accento sulle interazioni tra i più importanti aspetti della società, tra i quali la famiglia, l’economia e il sistema politico. La seconda si concentra sulle relazioni e interrelazioni tra i membri stessi della società; tale teoria richiama l’attenzione sul modo in cui le persone si formano e sono formate dal contesto sociale in cui vivono, sulle modalità di costruzione dei significati sociali e sul modo in cui essi vengono condivisi. La terza prospettiva propone un modello per spiegare, invece, i processi che trasformano le persone in membri della società, attraverso l’intreccio d’influenze reciproche tra personalità, comportamento e ambiente.

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L’approccio strutturale/funzionalista Proprio come nello studio del corpo umano, dove ci focalizziamo sulla struttura e le funzioni dei vari organi e sulla loro interazione, possiamo considerare la società come un tutto organico, le cui componenti collaborano per mantenersi tutte nell’ambito della società nel suo complesso. I modelli d’interazione tra i membri di una società fanno parte di ciò che viene chiamato struttura sociale. Le strutture sociali sono essenzialmente aspetti della vita sociale che influenzano altri aspetti, così da mantenere la società ordinata e prevedibile. I sociologi normalmente individuano cinque fondamentali istituzioni sociali: 1) l’economia, 2) il sistema educativo, 3) la famiglia, 4) il sistema politico, 5) la religione. Queste istituzioni sono correlate tra loro in modo tale che ogni cambiamento in una di esse provoca cambiamenti nelle altre. Per esempio nelle zone situate nel nord-est del Brasile, luoghi dove la maggior parte delle persone vive in condizioni d’estrema povertà, le autorità politiche non si preoccupano di elaborare statistiche accurate sulla mortalità infantile tra i poveri.51 Questo è un esempio evidente di quanto detto riguardo alle influenze reciproche all’interno della struttura sociale: in questo caso è chiaro quanto forte sia l’impatto dell’economia sul sistema politico, così da portare a conseguenze che, a loro volta, incidono sulla realtà delle famiglie povere del paese. L’approccio strutturale/funzionalista fornisce, dunque, elementi utili per valutare adeguatamente le basi istituzionali dei nostri atteggiamenti e comportamenti nei confronti della morte. Nel Nord America, le attese culturali sulla morte riflettono una realtà sociale coerente con una società burocratica e avanzata tecnologicamente. In questo contesto, una morte giusta è una morte che avviene per cause naturali e al momento giusto, cioè in tarda età.52 La burocratizzazione della morte nelle società moderne ha la funzione di prevenire disordini e mantenere l’equilibrio nella vita sociale.53 In tale quadro di riferimento la morte tende ad essere relegata ai margini della vita sociale.54 L’interazionismo simbolico L’approccio teorico conosciuto con il nome di interazionismo simbolico tende a spiegare le azioni e i comportamenti umani sulla base dei significati che gli esseri umani attribuiscono alle azioni e alle cose”55. Tale approccio sottolinea “la libertà degli individui di costruirsi la propria realtà e di ricostruire, potenzialmente, quella che si è ereditata.”56 In questa prospettiva le persone non sono viste, dunque, come elementi passivi, bensì come esseri at-

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tivamente responsabili sia delle strutture sociali sia dei processi implicati nelle loro vite. La socializzazione è interpretata come un processo bidirezionale, non come un semplice “mettere dentro” le informazioni da una parte e “tirar fuori” un prodotto finito dall’altra. Myra Bluebond-Lagner, dopo avere osservato, in un reparto d’ospedale, i rapporti tra genitori e bambini malati terminali di leucemia, ha commentato che le nostre prospettive sono davvero limitate quando pensiamo a “ciò che diventeranno i nostri figli”, indicando in noi stessi i loro principali agenti di socializzazione.57 Tale intuizione si può applicare sia ai processi di socializzazione dei bambini che a quelli degli adulti. Uno studio svolto in un ospedale canadese, ha evidenziato proprio il processo di negoziazione dei significati intercorso tra i pazienti e le loro famiglie, nativi del Canada, e gli infermieri, euro-canadesi. Essendosi presentati contrasti su cosa s’intenda per “cure appropriate” per i malati terminali, l’interazione reciproca portò al superamento delle posizioni particolari per sfociare in una risoluzione del conflitto che, infine, rivelò i propri benefici su entrambe le parti, e appena emersero dei nuovi “significati”, la “cultura” dell’ospedale cambiò.58 I sociologi definiscono tale processo come “costruzione sociale della realtà”: Ogni società costruisce la propria visione del mondo, le proprie “verità”. Per alcune società le forze che regolano il mondo dipendono da entità soprannaturali, per altre, invece, esse coincidono con le impersonali forze della natura. Ci sono individui che organizzano la propria vita attorno alla fede in un divinità personale... Per altri questo essere supremo non esiste. Le differenti visioni della realtà non si limitano a questioni così pregnanti come la religione, ma si possono vedere ogni giorno, nella vita di ognuno.59

Nel processo della costruzione sociale della realtà il “significato” che la morte ha per un individuo può essere visto come il risultato d’idee ereditate socialmente e di convincimenti formati lungo il corso della vita all’interno della società nella quale l’individuo vive.60 Di conseguenza, le modalità d’espressione del lutto riflettono l’influenza di norme culturali che prescrivono quali emozioni sono appropriate in una determinata situazione sociale.61 La domanda se esistono degli “universali” nella reazione ad una perdita, ovvero se le persone di tutte le parti del mondo, di tutte le culture, reagiscano a simili situazioni in modo uguale, è una domanda che non ha avuto ancora una risposta completa. In ogni caso, gli studi svolti fino ad ora, indicano che le modalità umane di reazione al lutto sono in gran parte apprese culturalmente. In altre parole, l’espressione del cordoglio, così come quelle del riso o del pianto, non possono essere considerate come qualcosa di “naturale”.62 Wolfang e Margaret Stroebe affermano:

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“Il dolore del lutto è canalizzato in tutte le culture tramite specifiche linee guida, ogni cultura ha regole differenti su quanto il lutto dovrebbe durare. Ciò che una cultura sanziona o proibisce può essere drasticamente diverso da ciò che permette o proibisce un’altra cultura”.63

Sebbene la morte sia essenzialmente un fatto biologico, sono le idee e le convinzioni sociali che creano il suo significato. Questo dato emerge chiaramente nelle esperienze degli Hmong, popolazione emigrata in nord america dal sud-est asiatico.64 Nelle montagne a nord del Laos, le loro abitudini tradizionali includevano lo sparo di mortaretti per comunicare all’intero villaggio la morte di qualcuno e il sacrificio di bovini durante la cerimonia funebre. Nel loro nuovo contesto sociale, quello totalmente urbanizzato del nord America, i tradizionali rituali funebri Hmong non possono essere allestiti facilmente e, per questo, sono cambiati drasticamente. In modo simile, in Germania si fa pressione sui musulmani emigrati affinché adattino le proprie cerimonie funebri alle norme culturali e alle pratiche europee. I capi religiosi “cercano di bilanciare la situazione in modo da favorire l’adattamento alla nuova situazione, senza violare i rituali che mantengono unita la comunità”. È il dilemma culturale dello stare sul “filo del rasoio”.65 Gli indiani residenti in Inghilterra incontrano imperativi culturali analoghi per i rituali funebri.66 In India ci sono davvero poche organizzazioni d’onoranze funebri, poiché i funerali sono gestiti direttamente dai parenti del defunto. La cremazione è un evento pubblico e, in genere, è il famigliare più intimo che accende la fiamma sacra del rogo funebre; in Gran Bretagna, invece, il corpo, deposto in una bara, viene occultato alla vista ponendolo all’interno del forno, attivato dal personale del crematorio. “Per i famigliari in lutto non c’è fumo a pizzicare gli occhi, non c’è fuoco a strinare i loro capelli, né si sente l’odore della carne che impone alla coscienza la penetrante immediatezza della realtà sperimentata”. Vivendo in un contesto culturale così diverso, alcuni indiani sentono di essere costretti ad abbandonare le tradizionali cerimonie comunitarie e spirituali per sostituirle con procedure anonime, individualistiche, materialistiche e burocratiche. Tutti gli esempi illustrati mostrano la natura sempre più multiculturale della società contemporanea: se e come essa riesca, poi, a trovare il modo di conciliare tutte le differenze nelle convinzioni e nelle pratiche resta una questione importante su cui riflettere.

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La teoria dell’apprendimento sociale Secondo la teoria dell’apprendimento sociale, le persone imparano a comportarsi da membri di una società attraverso il condizionamento. Il comportamento si forma in base a “stimoli che seguono o conseguono al comportamento, oppure per imitazione del comportamento altrui.”67 Quando ci conformiamo alle norme sociali, il nostro comportamento viene ricompensato, quando non riusciamo ad adeguarci, allora esso viene punito o non ricompensato. Tale meccanismo di condizionamento è ovvio per i genitori che rimproverano i bambini per certi comportamenti e li ricompensano per altri, seguendo le norme e le regole che essi vogliono che i bambini imparino ad emulare. Gran parte del nostro apprendimento delle norme sociali avviene per rinforzo, imitazione, interazione, razionalizzazione e per processi comportamentali e cognitivi simili. Potremmo addirittura non essere consapevoli del nostro vincolo rispetto a tali regole perché esse sono interiorizzate nel nostro stile di vita e le accettiamo come naturali, come “il modo in cui vanno le cose”. Ad esempio, nella società contemporanea, è difficile che si prenda in considerazione la possibilità di deporre il corpo del defunto su una piattaforma all’aperto e lasciato a decomporsi lentamente; tuttavia, per i Nativi Americani, abitanti delle Grandi Pianure, durante il diciannovesimo secolo, la piattaforma funebre era una consuetudine naturale e prevista dalle loro norme. Una persona con un orientamento culturale diverso dal nostro potrebbe essere percepita come deviante rispetto a norme che, invece, noi accettiamo acriticamente. Afferma Ronald Akers: Ogni società e ogni gruppo prevedono una serie di norme sociali, alcune valide per tutti, altre per quasi tutti, altre ancora solo per persone di una certa età, sesso, classe, etnia o religione. Alcune norme valgono per molteplici situazioni, altre regolano solo situazioni più circoscritte. Nelle società eterogenee coesistono differenti standard normativi; in tali sistemi un individuo può violare le aspettative di un gruppo, semplicemente conformandosi a quelle di un altro.68

In società culturalmente differenziate, come gli Stati Uniti, abbiamo ampie opportunità di applicare la prospettiva della teoria dell’apprendimento sociale per ampliare la nostra comprensione delle abitudini e dei comportamenti associati con la morte, il morire e il lutto. Una giovane donna ispano-americana, che aveva assistito di recente al suo primo funerale di stampo anglosassone, riferiva di essere “sinceramente perplessa” dall’assenza di racconti, magari anche venati di delicato umorismo, sulla vita del defunto. “Tutti trattavano con gentilezza e con rispetto i famigliari, ma sono rimasta sorpresa dal fatto che tutto fosse così serio. Sono abituata a persone che parlano e ridono durante i funerali”. Solo riconoscen-

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do che le norme sociali hanno la stessa funzione delle regole di un gioco o di una sceneggiatura teatrale, riusciamo ad osservarne l’influenza sul modo in cui si compiangono i defunti e sulle cerimonie allestite per onorarli.

La morte nelle società multiculturali contemporanee Sono molte le società moderne nelle quali coesistono gruppi culturali con usi e costumi ben distinti. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono definiti “nazione d’immigrati”, termine che ne riflette la diversificazione culturale. Le persone che, all’interno di una società più vasta, sono legate da un’identità e uno stile di vita ben precisi, formano ciò che viene definita una “sottocultura”: in alcuni casi il collante è una specifica eredità culturale di stampo etnico, ma può anche riguardare la storia, i luoghi di origine o le circostanze economiche; inoltre, gli appartenenti alle sottoculture possono essere uniti dal vincolo della condivisione dello stesso idioma, oppure, se parlano tutti la lingua della cultura dominante, possono essere uniti dalla condivisione di un linguaggio distintivo, il gergo o slang. Alcune ricerche sostengono che sia possibile classificare come sottoculture anche il movimento punk, la massoneria e i rastafariani.69 A volte, la molteplicità sociale è causa di conflitti, ma è vero anche che la presenza di tale “mosaico culturale” può arricchire la società;70 spesso, infatti, le sottoculture hanno notevole influenza sulla cultura dominante nell’ambito della musica, della moda, della pubblicità e dei media. Tradizioni distinte. Etnie e pluralismo L’espressione “lo stile di morte americano”, che capita di sentire usare o di leggere da qualche parte, nasconde il fatto che, in realtà, esistono tanti “stili di morte”, quanti sono i distinti gruppi sociali, con i loro atteggiamenti, le convinzioni, con i loro usi e costumi. David Olson e John DeFrain, nel descrivere le famiglie americane, ci ricordano che “esistono differenze abissali anche tra persone appartenenti al medesimo gruppo”71. La misura in cui le persone, che s’identificano come appartenenti ad un gruppo sociale particolare, mantengono usi e costumi distinti, varia ampiamente, sia tra diversi gruppi etnici sia tra individui che condividono una specifica tradizione. Tuttavia, sia l’appartenenza etnica sia le altre componenti culturali, spesso esercitano un potente influsso sulle modalità con cui si affrontano le malattie gravi, sulla percezione del dolore, sulle modalità del supporto sociale per i morenti, sulle modalità con cui si esprime il cordoglio, sugli stili del lutto e, infine, sulle usanze relative ai funerali. Uno studio com-

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parativo su diversi gruppi etnici e culturali presenti negli Stati Uniti dimostra che “in parte essi si adattano alle modalità di lutto occidentali, in parte restano fedeli a quelle tipiche della propria cultura.”72 Come sottolinea lo psicologo Ronald Barret73, nelle comunità afro-americane è ben percepibile quanto possano permanere, nonostante il passare del tempo e i cambiamenti delle circostanze, gli usi e i costumi tradizionali dell’Africa occidentale, quali il radunarsi presso la tomba per invocare la benedizione divina sul defunto e considerare i funerali come cerimonie di “ritorno a casa”. David Roeddiger sostiene che tali atteggiamenti hanno le loro radici nel più profondo spirito africano e che hanno paradossalmente acquistato forza e resistenza negli orrori che hanno attraversato, sfociando, infine, nel cosiddetto “funerale degli schiavi”, un evento sociale profondamente unificante che la comunità di schiavi negli Stati Uniti fu in grado di preservare di fronte all’oppressione fisica e ideologica della classe dominante.74 Similmente, la comunità ispanica del Nuovo Messico del nord continua a praticare la forma tradizionale del “recuerdo”, racconto scritto o ballata che può assumere la forma epica, lirica o eroica, con il quale si narra la vita del defunto per onorarne la memoria e consolare i famigliari, proprio come se si trattasse di un addio o “despedida” a nome o per conto del morto. Molto spesso tali commemorazioni ricordano che la vita è transitoria, che ci è stata prestata da Dio, solo per un breve periodo e, infine, che siamo solo ombre. L’intensa bellezza dei “recuerdos”, offerti alla famiglia in lutto e pubblicati nei giornali locali, suggerisce che la vita ha senso proprio perché c’è la morte. Alvin Korte, inoltre, afferma che la saggezza di questa cultura fornisce elementi atti a scandire il rituale dell’addio, così che i parenti, gli amici del defunto e la comunità tutta possano allontanarsene con modalità coinvolgenti e la “despedida”, la dipartita, possa compiersi con il massimo di serenità possibile e senza sensi di colpa.75 La diversità degli usi e costumi può essere positiva, per la società nel suo complesso, data la disponibilità di risorse culturali per affrontare la morte, ma, contemporaneamente essa rappresenta una sfida per le società contemporanee. Quando, tutti i membri di una società, condividono credenze e costumi, ci sono modi conosciuti e socialmente accettati di affrontare la morte e il morire. Al contrario, se una cultura è molto diversificata, può verificarsi uno scompenso di questo confortante equilibrio, proprio a causa delle divergenze su cosa sia socialmente accettabile per gestire la morte e per minimizzare il “terrore esistenziale” che ne deriva.76 Alcune di queste incertezze sono effettivamente percepibili nel corso dei funerali attuali, nei quali può capitare di essere confusi e agitati perché non si sa bene come comportarsi e, soprattutto, cosa dire ai famigliari in lutto. Le società moderne sono in una

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situazione di transizione, nella quale i rituali per gestire la morte e il morire sono in continuo cambiamento. La diversità culturale nelle isole Hawaii La popolazione delle isole Hawaii è una ricca miscela etnica e culturale. Come suggerisce Eleonor Nordyke, è l’unica regione nella quale tutti i gruppi etnici sono minoranze e nella quale la maggioranza della popolazione ha le sue radici nelle Isole del pacifico o nell’Asia, invece che in Europa o in Africa.77 I polinesiani raggiunsero con le loro canoe le Hawaii e vi si insediarono. Il loro primo contatto con gli europei avvenne nel 1778, con le esplorazioni di Cook.78 Seguirono, poi, numerose ondate d’immigrazione, dalla Cina, dal Giappone, dal Portogallo, da Okinawa, dalla Corea e dalle Filippine. Le persone arrivavano per lavorare come stagionali nei campi di canna da zucchero, ma finivano per stabilirsi definitivamente nell’arcipelago,79 ecco il motivo per cui la popolazione Hawaiana si presenta, oggi, così ricca di etnie provenienti dalle più disparate regioni: Europa, America del Nord, Samoa, Vietnam, Laos, Cambogia, Pakistan, Tonga, Fiji, Micronesia, Oceania, America latina e molte altre ancora. Ogni gruppo ha la propria storia e, di conseguenza, specifiche tradizioni. Molte etnie hanno una propria rete culturale, con un proprio modo di mantenere viva la propria storia e di dare sostegno nei momenti di necessità. Ad esempio, per i giapponesi c’è il legame del gruppo, per i portoghesi c’è la chiesa, i cinesi si ritrovano nei club e i filippini hanno i club provinciali.80 Tale positiva integrazione di tradizioni culturali, così differenti tra loro, rende le Hawaii un esempio eloquente di come sia possibile, con l’integrazione e l’assimilazione, preservare la ricchezza culturale di tradizioni specifiche. Caratteristiche delle varie popolazioni hawaiiane Tra i nativi hawaiani, la famiglia estesa, ‘ohana, è il centro dei valori tradizionali. I bambini hanno una grande importanza in tutte le riunioni familiari, compresi i funerali.81 Le relazioni intime della ‘ohana implicano stretti legami tra i membri viventi della famiglia e gli antenati.82 Non solo: i resti degli avi sono considerati sacri, specie quelli dei membri della famiglia reale, gli ali’i. L’amore per la famiglia è la base da cui si sprigiona l’attaccamento alla propria terra. George Kanahele dice: “In una società religiosa nella quale gli avi erano venerati come ‘aumakua, letteralmente “dei”, e nella quale l’ascendenza costituiva uno status sociale molto importante, un luogo, una casa, avevano molto più valore proprio per i legami

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che implicavano con i predecessori. Nelle Hawaii, ad esempio, si celebrava il luogo della nascita di un individuo, non tanto per il fatto che vi fosse nata quella singola persona, quanto perché quello era il luogo di nascita delle tante generazioni di antenati che lo avevano preceduto. Era un luogo che ricordava costantemente la vitalità della linea di sangue e della preziosità della vita passata, presente e futura”.83

Gli hawaiani hanno una profonda capacità di sperimentare il Sacro e di esprimere, attraverso il mito, il simbolismo e i rituali, le realtà trascendenti della vita. Nella primavera del 1994 la comunità fu sconvolta quando furono sottratte al Museo Vescovile due ka’ai (bare riccamente ornate) che si credeva contenessero le spoglie mortali di alcuni capi hawaiani.84 In questa occasione si svolse una solenne cerimonia al Museo Reale per informare gli avi della scomparsa delle ossa e per auspicare il loro recupero, invocando il loro perdono con canti e lamenti. L’ultima volta che si era tenuta una tale cerimonia risaliva all’inizio del secolo scorso. Tra i primi immigrati, i cinesi sono quelli che, proprio come i nativi hawaiani, tengono nella massima considerazione la famiglia e le amicizie, nonché i rapporti sociali in generale.85 Essi hanno mantenuto elementi fondanti del funerale e del lutto tradizionale, quali, ad esempio, la convinzione che nell’aldilà si avranno necessità uguali a quelle dei viventi. I funerali cinesi, infatti, includono l’offerta di cibo, di soldi e d’altri oggetti che si ritiene potranno essere utili al morto nell’aldilà.86 Il prete taoista, poi, impartirà, salmodiando, indicazioni ai “servitori” (figure di cartapesta poste di fronte alla bara) su come prendersi cura del defunto in Paradiso: alla figura che rappresenta il servitore maschio verrà detto di prendersi cura del suo padrone e di procurargli acqua e fuoco, alla figura femminile invece si dirà di tenere in ordine la casa e di non sprecare i soldi del suo padrone. Il funerale taoista dura quasi un giorno intero e si svolge tra le salmodie del prete, le melodie dei musicisti e i rituali eseguiti dai famigliari del defunto, sotto la direzione del prete. Le persone in lutto depositano in un contenitore del denaro simbolico, chiamato “Banconote per l’Inferno”, che il morto potrà utilizzare nell’altro mondo; questo denaro viene poi bruciato durante il servizio funebre, e più se ne brucia, più ne avrà a disposizione il defunto nell’altra vita. Durante queste attività rituali, parenti e amici vengono in visita a fare le condoglianze. Seguendo le tradizioni taoiste, per stabilire la posizione più propizia del feretro durante il servizio funebre, si ricorre all’antica arte divinatoria del fêng-shui. Allo stesso modo, i cimiteri cinesi delle Hawaii sono situati in ambienti naturali di grande bellezza e su di un terreno in pendenza, secondo i principi del fêng-shui, pensando così di facilitare il viaggio dello spirito del defunto nell’altra vita. Anche i giapponesi assegnano molta importanza alla famiglia e al gruppo d’appartenenza87. A differenza dei cinesi, però, i giapponesi non interrano

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direttamente i corpi dei defunti, essi scelgono la cremazione e la successiva collocazione delle ceneri nella “haka”, l’equivalente della cappella di famiglia, che può arrivare a contenere più di una dozzina di urne. Al momento del funerale, la persona più vicina al defunto, riceve un “koden”, ovvero una somma di denaro che aiuta a coprire le spese e che è direttamente proporzionale all’intimità con la famiglia in lutto. Per fare un esempio, un figlio anziano offre una quantità maggiore rispetto ad un cugino. Nelle case dei giapponesi hawaiani è diffusa la presenza del butsudan, o altare domestico, che rappresenta il luogo centrale per onorare la memoria degli antenati; le famiglie partecipano attivamente al o-bon, la festività estiva di commemorazione dei morti. Nelle Hawaii, manifestazioni quali l’o-bon giapponese o quella cinese del festival ch’ing ming sono condivise dall’intera comunità; in queste occasioni, infatti, si riuniscono assieme persone delle più disparate tradizioni e dei variegati orizzonti culturali. Come abbiamo potuto notare, la maggior parte delle popolazioni presenti nell’arcipelago hanno in comune un profondo valore della famiglia e un sentito rispetto per gli antenati, come notò John F. McDermott: “Per tutti i gruppi, fatta eccezione forse per gli indoeuropei, la famiglia estesa gioca un ruolo fondamentale. La famiglia è considerata importante come chiave dell’unità sociale, per la sua coesione, per l’interdipendenza che consente, per la lealtà che le si deve, in quanto guida centrale nel campo dei valori. Gli individui sono considerati come parti di una rete sociale, e i loro doveri, i loro obblighi, ma anche il senso della sicurezza personale, dipendono da questo contesto… Anche gli indoeuropei danno naturalmente valore alla famiglia, però si confrontano col mondo in modo individualistico.”88

Nonostante, oggi, la cultura occidentale svolga un ruolo molto importante nelle Hawaii, è corretto pensare che gli indoeuropei non siano la forza dominante, ma uno dei tanti gruppi del “mosaico etnico” delle isole. Molti nuovi arrivati spesso notano che questa realtà sociale richiede qualche aggiustamento. Le persone d’etnia bianca provenienti dagli Stati Uniti generalmente non si considerano dei migranti, anzi, si percepiscono come rappresentanti del gruppo dominante, di conseguenza, si aspettano di essere accolti senza tentare di adattarsi per primi alla nuova terra che li ospita.89 Con il passare del tempo, coloro che restano nelle Hawaii si adattano all’unicità della loro cultura e assumono la cosiddetta “cultura locale” che riflette un valore condiviso attribuito alla terra, ai popoli e alle culture dell’arcipelago.90 I riti funebri: assimilazione e adattamento Nelle Hawaii i diversi gruppi etnici tendono a conservare la propria identità culturale, pur condividendone alcuni tratti con l’intera comunità. Man

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mano che i diversi gruppi etnici sono entrati a far parte del mix delle Hawaii, si è andata sviluppando una lingua comune, chiamata pidgin che è diventata il simbolo dell’identità locale. Frutto di prestiti lessicali e sintattici dalla lingua madre dei parlanti, il pidgin, oltre ad essere un mezzo di comunicazione molto espressivo per immigrati con retroterra così differenti, è anche un mezzo di identificazione con la patria adottiva. Oggi, dunque, parlare il pidgin significa per gli hawaiani superare i loro confini culturali e stabilire rapporti reciproci sulla base della “identità locale”. Un esempio dell’efficacia comunicativa del pidgin, ci è dato dall’episodio dell’infermiera di origini europee con il paziente filippino. L’uomo, il corpo devastato dalla malattia, comunica all’infermiera la sua paura di morire e lei lo consola dicendo: “Lo spirito è buono, il corpo è pau (finito)”. Usando un termine pidgin, tratto dalla lingua autoctona, lei può affermare in modo culturalmente appropriato e confortante la forza dello spirito del paziente, riconoscendo contemporaneamente che il suo corpo si sta consumando per la malattia. L’identità locale è incoraggiata dalla familiarità con i costumi praticati dai vari gruppi etnici e dalla flessibilità con cui ci si appropria d’elementi di queste tradizioni. La consuetudine della popolazione autoctona di organizzare feste per ogni ricorrenza importante, come quelle della nascita e della morte, è molto diffusa tra tutti gli abitanti delle isole. Ad esempio, le persone usano radunarsi dopo il rituale funebre per mangiare assieme. Le camere mortuarie si sono adattate a questa usanza, tanto che al loro interno si trovano le cucine e le attrezzature per preparare il cibo o, almeno, per consumare quello portato da casa, apparecchiando la tavola e pranzando tutti assieme dopo la cerimonia. Altro esempio di cultura condivisa dall’intera comunità è la simbologia degli abiti e degli ornamenti da indossare per i funerali. Spesso, infatti, gli annunci funebri contengono la frase: “richiede tenuta Aloha”, che significa che coloro che parteciperanno alla cerimonia dovranno indossare camice variopinte oppure il Mu’u Mu’u (veste lunga in stile “missionario”) e si presenteranno ornati dalle meravigliose e profumate ghirlande di fiori. Queste ghirlande sono molto speciali per gli abitanti dell’arcipelago e se ne trovano diverse specie, ognuna delle quali portatrice di un proprio significato simbolico. La hala lei, ad esempio, è associato con il respiro, ha, e connota la dipartita e la morte, mentre la lei rossa, awapuhi, è simbolo delle cose che se ne vanno troppo presto, proprio come recita il detto hawaiano “awapuhi lau pala wale” ovvero: “La lei rossa scolorisce troppo in fretta”91. In questo caso, dunque, le tradizioni degli indigeni hawaiani sono state adottate dall’intera comunità, diventando espressione dell’identità locale e dei sentimenti condivisi. Altro esempio di flessibilità e d’integrazione è quello degli altari delle ca-

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mere mortuarie allestiti in maniera tale da offrire il corredo e i simboli di ogni religione praticata nelle isole, il Cristianesimo, il Buddismo e il Taoismo; la parte centrale dell’altare, infatti, è un pannello mobile che contiene le immagini e i simboli delle diverse fedi; ruotandolo, si possono esporre quelli appropriati per ogni singola occasione. Sia la formazione del mosaico etnico delle Hawaii che il senso dell’identità locale, coinvolgono, come si è potuto vedere, sia l’assimilazione, che l’integrazione e l’adattamento. In questo contesto, con il termine assimilazione si intende “l’incorporare, da parte del gruppo dominante pre-esistente, dei valori di un gruppo nuovo in modo che possa essere adattato alla struttura sociale pre-esistente”; mentre con il termine integrazione (o adattamento) si suggerisce l’idea del “movimento opposto, ovvero dell’adattamento attuato da coloro che arrivano, si tratti di singoli o di gruppi interi, ai valori dominanti per poter costruire e proseguire la coesistenza.”92 I legami tra le diverse etnie sono attenuati dall’interazione sociale, finendo con il sovrapporsi, senza mai delinearsi nitidamente. La situazione finale è che nessun gruppo è costretto a rinunciare totalmente ai principi cardine della propria identità culturale.”93 Il gruppo che si sta sviluppando, è la cosiddetta “etnia mista”, hapa.94 Di fatto, quando un individuo si sposa con un membro esterno alla propria etnia si creano legami di parentela tra famiglie dal diverso retroterra culturale e le specifiche usanze, credenze e pratiche rituali si mescolano, convogliandosi, infine, in una nuova identità famigliare. I figli nati da tali unioni crescono con una spontanea conoscenza d’entrambe le culture. Si può ben dire, dunque, che gli abitanti delle Hawaii non hanno livellato le differenze, imparando, piuttosto, ad apprezzarle e a dar loro modo di esprimersi.

Ancora sulla concezione matura della morte La socializzazione è un processo molto complesso. La nostra comprensione della morte si evolve lungo tutto il corso della vita: le esperienze di eventi luttuosi modificano le nostre convinzioni precedenti favorendo il sorgere di nuove credenze più compatibili con i nuovi punti di vista. Un concetto “maturo” della morte, acquisito durante l’infanzia, è, dunque, la base per ulteriori sviluppi, mentre si procede verso l’età adulta.95 Secondo Sandor Brent e Mark Speece, tale base rappresenta “il nucleo stabile, o fondamento, di una sfera connotativa che il bambino continua ad arricchire ed elaborare nel corso della vita, adattandola con le eccezioni, le condizioni, i problemi e i dubbi che l’esperienza vi aggiunge.” Il risultato finale non è, dunque, una serie di concetti nitidi, puliti e chiari, quanto, piuttosto, un concetto mobile che per-

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cepisce la realtà della morte lasciando spazio a una varietà di elaborazioni sul suo significato. Così, l’interpretazione binaria “o questo o quello” usata dai bambini per afferrare gli elementi fondamentali e progredire verso un concetto più maturo della morte, è la premessa ad una concezione molto più sofisticata della morte, che si sviluppa più avanti nella vita.96 Man mano che il processo di sviluppo si evolve, le strutture di socializzazione, discusse in questo capitolo, esercitano una potente influenza su credenze e comportamenti. Ampliare le prospettive per includere culture “altre” aumenta la disponibilità d’opzioni per gestire al meglio i nostri incontri con la morte. Afferma David Plath: “Siamo nati in solitudine e moriremo in solitudine in quanto organismi geneticamente unici. Ma cresciamo e moriamo assieme: è in compagnia degli altri e in rapporti reciproci che impariamo ad addomesticare i nostri impulsi genetici per poi proseguire verso la nostra formazione di esseri sociali conformi alle norme del gruppo di provenienza. La crescita e l’invecchiamento di un organismo potrebbero essere descritti come tappe, transizioni all’interno dell’individuo inteso come monade. Il corso della vita di un “animale sociale”, deve però essere concepito come costruzione collettiva del sé, come se si trattasse di una specie di mutua stesura delle varie biografie.”97

Assumere idee, usi e costumi d’altre culture diventa, un antidoto all’etnocentrismo, che contrasta, dunque, l’atteggiamento che porta a giudicare gli altri solo sulla base dei propri personali punti di vista culturali. Le gente tende a vedere il mondo da una sola, unica prospettiva: la propria. Per contrastare questa tendenza, che conduce inevitabilmente ad errori di giudizio nella valutazione di altre comunità o di altre persone, occorre diventare consapevoli della nostra inclinazione ad applicare criteri culturali e termini di paragone unidirezionali: riconoscendoci come esseri consci della propria cultura, sarà più facile riconoscere questa condizione esistenziale anche negli altri.98 Nello sviluppare la nostra competenza culturale, è necessario acquisire la consapevolezza della fallacia insita nella nostra naturale tendenza all’assegnazione di stereotipi. Tra l’altro, le differenze che esistono all’interno di uno specifico gruppo, possono rivelarsi più profonde di quelle tra due gruppi diversi. Gli stereotipi, del resto, sono usati dal cervello umano come strategie d’apprendimento per organizzare e interpretare le informazioni.99 In ogni caso è importante ricordare che, in primo luogo, la cultura è un continuum e che, in secondo luogo, la cultura non è definibile semplicemente in base alle etnie, infatti, considerando le società multietniche, possiamo aspettarci di trovare variazioni considerevoli proprio all’interno della medesima etnia.100 L’identità è situazionale e adattiva per corrispondere ad una molteplicità di

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scopi101. I significati che le persone assegnano ad una particolare identità culturale, variano anche tra diversi gruppi culturali.102 Possono, poi, presentarsi ulteriori discrepanze, tra norme dichiarate e comportamenti osservati all’interno di un gruppo.103 Nonostante il fatto che ci si identifichi (o si venga identificati) come membri di un certo gruppo, noi siamo individui singoli e, a volte, agiamo in modo del tutto autonomo. Gli psicologi ci dicono che ogni persona è composta di “identità multiple” e che la capacità di gestirle è un aspetto importante del sé.104 La cultura non determina totalmente, dunque, il comportamento, ma mette a disposizione dei suoi membri un “repertorio d’idee e d’azioni possibili” attraverso cui capire se stessi, l’ambiente in cui si vive e le proprie esperienze.105 Vedere gli altri come vedono se stessi, condividere in qualche modo le loro prospettive e i loro costumi, arricchisce la vita dell’individuo e della società, e può essere l’essenza dell’educazione.

Letture di approfondimento David Clark, ed. The Sociology of Death: Theory, Culture, Practice. Cambridge, Mass.: Blackwell, 1993. Lynne Ann DeSpelder. “Developing Cultural Competency.” In Living with Grief. Who We Are, How We Grieve, a cura di Kenneth J. Doka and Joyce D. Davidson, pp. 97-106. Washington, D.C.: Hospice Foundation of America, 1998. Geri Ann Galanti. Caring for Patients from Different Cultures: Case Studies from American Hospitals, 2nd ed. Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1997. Artin Göncu, ed., Children’s Engagement in the World: Sociocultural Perspectives. New York: Cambridge University Press, 1999. Clive F. Seale. Constructing Death: The Sociology of Dying and Bereavement. Cambridge: Cambridge University Press, 1998. Robert S. Siegler. Emerging Minds: The Process of Change in Children’s Thinking. New York: Oxford University Press, 1996.

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Capitolo 3

PROSPETTIVE STORICHE E TRANSCULTURALI SULLA MORTE

Sebbene il modo in cui reagiamo ad essa si strutturi all’interno della cultura in cui viviamo, la morte è un’esperienza umana universale. Possiamo capire meglio le nostre stesse reazioni e i nostri comportamenti se impariamo come popoli diversi affrontano la morte. Le culture possono essere concepite come un continuum all’interno del quale l’atteggiamento di fronte alla morte passa attraverso una gamma d’atteggiamenti che vanno dall’accoglienza al rifiuto.1 Leggendo delle varie culture di cui si tratta in questo capitolo, esse si potranno collocare tutte all’interno di questo continuum, la stessa cosa si potrà fare per la cultura d’appartenenza (nazionale, etnica e familiare). All’interno della cultura occidentale, e nei suoi diversi momenti storici, si possono riscontrare approcci alla morte molto diversi. Mentre l’espressione “morte addomesticata” è caratteristica dell’approccio alla morte proprio del Medioevo, nell’era moderna, l’espressione “morte invisibile” è più appropriata. Nel tracciare lo sviluppo delle idee e dei costumi dell’Occidente, si parte per un viaggio affascinante all’esplorazione dei modi in cui diversi atteggiamenti influenzano il morire, le tradizioni funerarie e i costumi della memoria. Le domande circa il senso della morte e su ciò che accade quando moriamo, preoccupano da sempre i popoli di tutte le culture. Di questo quadro fanno parte gli interrogativi, propri di tutte le culture dell’uomo, su cosa significhi vivere bene e morire bene.

Culture preistoriche, primitive e tradizionali La paura dei morti sorge ancor prima della Storia scritta. In molti ritrovamenti del Paleolitico Superiore – 40.000/10.000 anni fa – si sono trovate tracce di sepolture rituali con, a volte, effetti personali o altri oggetti tombali.2 In alcuni casi, sui corpi sono state trovate tracce di ocra rossa e ci so-

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Quando il primo uomo, il padre della razza umana, era appena stato seppellito un dio passò accanto alla sua tomba e chiese cosa significasse, perché non aveva mai visto una tomba prima di quel momento. Dopo avere ricevuto da quelli che si trovavano sul luogo dell’interramento l’informazione che avevano appena seppellito il loro padre, egli disse: “non lo seppellite, ritirate su il corpo”. “No”, essi risposero, “non possiamo farlo, è morto da quattro giorni e puzza”. “Via” li sollecitò il dio, “ritiratelo su e vi prometto che vivrà di nuovo”. Ma essi si rifiutarono di rispettare la richiesta divina. Allora il dio dichiarò, “disobbedendomi, avete deciso il vostro destino. Se aveste recuperato il vostro antenato lo avreste trovato vivo, e anche voi lasciando questo mondo avreste dovuto essere sotterrati come si sotterrano le banane per quattro giorni dopo i quali sareste stati riportati alla luce, non putrefatti, ma pienamente in salute, ma adesso, come punizione per la vostra disobbedienza dovrete morire e decomporvi”. E ogni volta che ascoltano questa triste storia gli abitanti delle Fiji dicono “oh, se quei figli avessero recuperato quel corpo!” Figura 3-1. Una storia Fiji (tradizionale): l’origine della morte.

no prove che i cadaveri venissero talvolta sistemati in posizione fetale, forse per suggerire l’idea di una rinascita3 (Vedi Fig. 3-1). Anche nelle sepolture molto precedenti dei Neanderthaliani, che iniziarono a popolare l’Europa 150.000 anni fa, gli archeologi hanno trovato conchiglie ornamentali, ornamenti in pietra e cibo seppelliti assieme al morto. Tutto ciò significa che si ritenevano questi oggetti necessari per il viaggio dalla terra dei vivi a quella dei morti. In questa sezione, analizzeremo i punti di vista sulla morte che emergono dalle informazioni sulle popolazioni preistoriche, su quelle primitive e sulle società tradizionali. Un tratto distintivo di queste società, è la trasmissione orale degli eventi storici e delle credenze. Le tradizioni e le mitologie condivise sono tanto più importanti quanto più lento è il ritmo dei cambiamenti socioculturali. Applicato alle culture, il termine primitivo si comprende meglio se gli si attribuisce il significato di primario, primigenio o delle radici. Le culture tradizionali interpretano la morte non come una fine ma come un cambio di stato, una transizione dal mondo dei vivi a quello dei morti. I vivi sono attenti a facilitare questo viaggio e prendono precauzioni per scacciare la paura dell’eventuale malevolenza del defunto che, se non rispettato come si conviene, può nuocere ai vivi. È nei miti che si trovano i fondamenti degli atteggiamenti, dei valori e dei comportamenti umani. I miti non sono altro che storie che spiegano idee o credenze4.

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Quando Hare seppe della Morte si diresse verso la sua casa e vi arrivò in lacrime, gridando, “i miei zii e le mie zie non devono morire” e poi un pensiero lo assalì: “per tutte le cose verrà la morte!” Lanciò i suoi pensieri sul bordo del precipizio ed essi cominciarono a cadere e ad andare in pezzi. Contro le rocce scagliò i suoi pensieri ed essi andarono in frantumi. Sotto la terra gettò i suoi pensieri e tutte le cose che lì vivevano smisero di muoversi, le loro membra si irrigidirono nella morte, contro il cielo buttò i suoi pensieri e gli uccelli che volavano caddero a terra e morirono. Una volta entrato nella casa egli prese la sua coperta e, avvolgendosela attorno, si distese piangendo. “La terra intera non sarà sufficiente a tutti coloro che moriranno, oh, non ci sarà abbastanza terra per loro in molti luoghi!” e restò disteso in un angolo avvolto nella coperta, in silenzio.

Figura 3-2. Mito winnebago: quando Hare seppe della morte.

Le origini della morte Ci si chiede se, questi miti, raccontino come la morte è diventata parte dell’esperienza umana.5 In alcune storie, essa è entrata nell’orizzonte umano in seguito all’infrazione di una legge naturale o divina da parte di un progenitore o d’altre figure archetipiche, infrazione che può essere avvenuta per errore di giudizio o disobbedienza (Fig 3-1). Inoltre, queste storie citano spesso una prova alla quale un singolo o un gruppo si devono sottoporre: se la prova non viene superata, la morte diventa realtà. Una storia raccontata tra i Luba, in Africa, dice che Dio creò il Paradiso per i primi esseri umani e lo riempì di tutte le cose che gli potevano servire. Tuttavia, proibì all’uomo di mangiare le banane che si trovavano in mezzo a un campo, e quando gli esseri umani contravvennero a questa prescrizione, Dio stabilì che dopo una vita di stenti dovessero morire. Questa storia è molto simile a quella del Giardino dell’Eden di Adamo ed Eva, una spiegazione della morte che è comune al Giudaismo, all’Ebraismo e all’Islam. In alcuni miti ricorre il tema dell’azione cruciale, l’azione che avrebbe garantito l’immortalità, e che non è stata svolta correttamente, mentre in altri un’omissione piuttosto che un’azione, porta la morte all’umanità. Ad esempio, alcuni racconti parlano del messaggero al quale è affidato il messaggio della vita eterna; ma il messaggio viene alterato o parzialmente dimenticato o semplicemente non giunge in tempo. Un esempio simile è la storia di Hare nei racconti dei Winnebago del Nord America (Fig. 3-2); Hare si dimentica temporaneamente del compito che gli è stato affidato e non riesce perciò a consegnare il messaggio di salvezza. Un’altra variante vede due figure deputate alla consegna di due messaggi, un messaggio con-

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Era un caldo e afoso pomeriggio estivo, ed Eros, stanco di giocare e di svenire dal caldo, cercò riparo in una grotta fresca e buia. Il caso volle che fosse la grotta della Morte stessa. Eros, che non desiderava che riposare, si buttò a terra di schianto, così che tutte le sue frecce vennero fuori dalla faretra. Quando si svegliò vide che esse si erano mischiate con le frecce della Morte, che erano sparse a terra sul pavimento della grotta. Erano talmente simili che Eros non riusciva a distinguerle tuttavia sapeva quante frecce aveva nella propria faretra, quindi ne raccolse il giusto numero. Naturalmente, Eros ne prese alcune che appartenevano alla Morte, lasciando indietro alcune delle proprie. Ed ecco perché oggi spesso vediamo i cuori degli anziani e dei morenti colpiti dai dardi dell’Amore, e a volte vediamo i cuori dei giovani catturati dalla morte. Figura 3-3. Esopo: Eros e morte.

tiene l’immortalità, l’altro la morte: il messaggero foriero di morte giunge per primo. Un altro motivo tipico è quello della “morte nel paniere”. In queste storie, la morte caratterizza l’esperienza umana dal momento in cui un paniere (o un vaso, etc.) che contiene il destino ultimo di tutta l’umanità viene aperto inavvertitamente, o per una scelta sbagliata. Il mito greco di Esopo costituisce una variante di questo tema (Fig. 3-3), e un’altra storia ancora racconta di come la lieta novella dell’immortalità fosse diretta agli esseri umani, ma che nessuno fosse sveglio per riceverla. Sebbene la maggior parte dei miti rappresenti la morte come qualcosa d’indesiderato, ce ne sono alcuni in cui essa viene cercata per la stanchezza della vita o per il disgusto delle sue miserie. In queste storie, gli esseri umani barattano o comprano la morte dagli dei, perché la vita non prosegua indeterminatamente, o in altri casi la ottengono per porre rimedio alla sovrappopolazione. Tutti questi miti riecheggiano un tema sorprendentemente familiare: la morte viene dall’esterno e tronca una vita che altrimenti sarebbe infinita. In qualche misura, questa nozione ci influenza ancora. Anche se i processi dell’invecchiamento e delle malattie ci sono chiari, sentiamo che, se solo potessimo fermarli, resteremmo in vita. Continuiamo a sentire che la morte ci è aliena, non è parte di noi e come tale sembra un’anomalia. In ultima analisi tuttavia non possiamo evitare di riconoscere la nostra stessa mortalità. L’epica di Gilgamesh narra di un re che parte per un viaggio alla ricerca dell’immortalità, in seguito alla morte del suo caro amico Enkidu. Dopo aver superato grandi pericoli alla ricerca di un elisir d’eterna giovinezza, Gilgamesh torna a mani vuote. Alla fine, vivendo il dolore

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per la perdita dell’amico, riconosce di dover morire anche lui. E anche noi, come Gilgamesh, possiamo riconoscere in modo più profondo la nostra stessa mortalità nel lutto per una persona cara. Cause di morte Anche quando troviamo una spiegazione di come la morte è entrata nel nostro orizzonte, rimane la domanda: cosa porta gli individui alla morte? La causa immediata di morte in seguito a danni accidentali o a ferite ricevute in una battaglia è chiara, ma è la causa ultima a rimanere in ballo: perché questo evento fatale capita a questa persona in questo momento preciso? Può essere dovuta a influenze malefiche, magicamente indotte? È probabile che una morte inaspettata o prematura sia considerata innaturale, e che la sua spiegazione sia cercata adducendo cause soprannaturali. Anche se queste spiegazioni non possono essere confermate o smentite, esse confortano chi è in lutto, aiutandolo a trovare un senso dove non sembra essercene. La malattia e la morte segnalano che qualcosa “non è a posto”, e proprio per questo non sono eventi privati ma pubblici. Ad esempio, tra i Senufo della Costa D’Avorio, se un bambino muore, l’evento coinvolge tutta la comunità. Per ripristinare la sicurezza e l’ordine si offrono sacrifici per purificare la comunità e proteggerla da ulteriori calamità.6 Le società tradizionali, nel cercare le cause della morte, scelgono di solito un orientamento ecologico.7 Si prendono in considerazione vari fattori come il vento, la luna, l’ereditarietà o gli eccessi del comportamento, come la mancanza di sonno; e si esplorano elementi socioeconomici e psicosociali, ma anche fattori naturali e soprannaturali. Ad esempio, la causa della morte può essere messa in relazione con le interazioni sociali di una persona; oppure ci si chiede se fossero presenti sentimenti di rabbia, ansietà, paura, o invidia. La ricerca delle risposte si estende sia al mondo dei vivi che al mondo dei morti. Forse il defunto aveva offeso gli antenati, o aveva dimenticato di svolgere i riti per i morti? La salute della comunità è fortemente dipendente dal mantenimento di una appropriata relazione con l’ambiente, nei suoi aspetti visibili e in quelli invisibili. Il potere dei morti Nelle comunità dove il legame tra i vivi e i morti è forte, “la terra risuona delle voci degli antenati”.8 Vivi e morti assieme costituiscono il clan, la tribù, il popolo. Il legame tra i vivi e i morti è un segno che la comunità dura oltre i

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limiti della morte. Nella società Balinese, il territorio del villaggio appartiene agli antenati e i vivi si tengono in contatto con loro, per mantenersi vitali e sani.9 Si può quindi dire che la comunità è formata tanto dai vivi che dai trapassati. Possiamo rintracciare lo stesso sentimento durante incontri celebrativi, quando si parla dei padri fondatori di una nazione o di una scuola quando si dice dei padri che “ci accompagnano in spirito”. Nelle società tradizionali, il lutto si può esprimere con alte grida o lacrime silenziose, ma quasi sempre c’è un forte rispetto per la potente anima del defunto, che se non viene trattata correttamente può causare molto dolore. Il corretto svolgimento dei riti funebri assicura un buon viaggio dell’anima nell’aldilà, e da questo viaggio, anche i vivi traggono beneficio. Oggetto di particolare preoccupazione sono gli spiriti malefici che sembrano vagare senza meta, cercando di distruggere il benessere dei viventi. A questi spiriti si associano spesso le morti catastrofiche, come quelle dei bambini alla nascita. Nel ritmo della vita comunitaria, i morti sono parte dello svolgersi della vita. Membri invisibili di un ordine sociale perpetuo, i trapassati sono spesso degli alleati che possono svolgere per i vivi compiti come quelli d’interpreti, d’intermediari e d’ambasciatori nel regno extrasensoriale dell’aldilà. La comunicazione con i defunti è spesso facilitata da uno “sciamano”, una specie di mago visionario che fa parte della comunità e che proietta la propria coscienza nell’aldilà, facendo da intermediario tra i vivi e i morti.10 Poiché i morti non sono soggetti al tempo umano, la “negromanzia”, che in greco significa “trarre profezie da un cadavere”, offre la possibilità di accedere a eventi passati e futuri.11 Entrando in trance, lo sciamano entra in contatto con i morti e ne riporta un messaggio profetico dal quale i vivi trarranno vantaggio. Gli antenati svolgono anche il ruolo di modelli e indicano gli standard di comportamento a cui bisogna uniformarsi, rendendo così possibile un collegamento spirituale tra gli esseri umani e le potenti divinità distanti e impersonali. Tenere in vita la memoria dell’antenato e chiamarlo ad intercedere con gli dei, permette agli individui di mantenersi leali alla famiglia oltre la morte. I nomi dei morti Se chiamare per nome una persona è un modo per convocarla, astenersi dall’usare un nome significherà non disturbare chi lo porta. Proprio per questo, una pratica comune consiste nell’evitare di pronunciare il nome del morto: si evita di menzionare il morto, o lo si fa in modo indiretto, mai per no-

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me. Per esempio, ci si può riferire al morto alludendo piuttosto alle sue qualità o a tratti peculiari o dicendo “quello”: un esperto pescatore diventerà da morto “quello che prendeva tanti pesci”, o una donna molto forte, “la coraggiosa”. In alcune culture, ci si riferisce ai morti usando il grado di parentela che essi avevano con chi ne sta parlando. Usanze come questa, continuano ancora ai giorni nostri tra indigeni che attribuiscono valore alle proprie tradizioni. Nel 2002, alla morte di un indigeno australiano, famoso pittore, la famiglia e gli amici fecero espressamente richiesta ai media di non pubblicarne il nome, in segno di rispetto verso il credo aborigeno che non prevede l’attribuzione di un nome ai morti.12 Nonostante fosse diventato famoso in tutto il mondo per i dipinti che ritraevano la sua terra, divenne anonimo nella morte per la proibizione di menzionare il suo nome. Questa tradizione può essere talmente forte da determinare addirittura dei cambi di nomi, quando, un vivo, porti lo stesso nome di un morto. Tra i Penan Geng del Borneo Centrale, i processi di denominazione che coinvolgono la morte sono presenti in tutte le forme di linguaggio sociale.13 Quando una persona passa a miglior vita, i famigliari attribuiscono ai parenti prossimi “i nomi dei morti”. In tal modo, una persona può avere nel corso della vita una serie di nomi o di titoli che si riferiscono alle diverse relazioni con i suoi morti. In altre culture, invece di evitare il nome del morto, lo si enfatizza. Ad esempio, lo si può dare a un neonato al fine di onorare la memoria di chi si è amato e per essere sicuri che l’anima del defunto si reincarni. In certi casi, le donne, all’approssimarsi del parto, sognano chi tra i propri parenti si deve reincarnare, determinando così il nome che sarà assegnato al neonato14. Alle Hawaii, si può attribuire ai figli il nome degli antenati o degli dei. I nomi che gli dei conferiscono attraverso i sogni sono di particolare importanza, a volte il nome di un bimbo morto prematuramente è attribuito a uno nato dopo, poiché se il nome di un parente morto viene dato a un vivo, si permette al morto di vivere ancora.15 Nelle culture tradizionali è il rispetto verso i morti o il timore di provocare gli spiriti a suggerire l’abitudine di non chiamare i morti per nome. Nelle società moderne invece, a volte si evita di menzionare i morti per nome per non rievocare il dolore legato alla loro perdita. Quindi, in entrambi i casi, questa usanza può essere considerata come un modo per gestire il cordoglio. Allo stesso modo, quando i genitori danno al figlio il nome di un nonno molto amato o di un amico stimato, non stanno sperando che alcune delle buone qualità del defunto possano “rinascere” nel loro bambino? Le forme culturali sono differenti, ma un filo rosso attraversa tutta l’esistenza umana.

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La cultura occidentale A cominciare dal primo Medioevo e per qualche migliaio di anni i popoli dell’Europa Occidentale hanno concepito l’universo come un insieme regolato da leggi naturali e da leggi divine. Gli insegnamenti della chiesa hanno influenzato il modo di morire delle persone e offerto la speranza dell’aldilà. Un sentimento d’accettazione della morte ispirato da questa concezione ha generalmente prevalso fino al Rinascimento (1400-1500). Secondo lo storico Philippe Ariès questo periodo è stato caratterizzato dall’idea di “morte addomesticata”.16 Durante la prima parte del Medioevo, la morte fu vista come destino imprescindibile, conseguenza di un senso della morte come destino collettivo del genere umano. La fine della vita non era identificata con la morte fisica. Piuttosto, si considerava, secondo il dettame della Chiesa, che i morti “dormissero”, con la certezza che sarebbero risorti all’apocalittico ritorno di Cristo. Forti di questa fede, le persone tendevano a non aver paura di ciò che li attendeva dopo la morte. Tale senso d’appartenenza a un destino collettivo, comincia a mutare nel Medioevo, fra il 1000 e il 1450, spostando l’accento sul destino del singolo. Al sentimento di una morte che colpisce e accomuna tutti, si sostituisce, mano a mano, il riconoscimento di una morte individuale, personale. Ci sono voluti molti secoli perché avvenisse un tale mutamento, esso è coinciso con un generale arricchimento economico e culturale. Ricordiamo che in questo periodo furono costruite le cattedrali di Nôtre Dame e Chartres in Francia, di Canterbury in Inghilterra e di Colonia, in Germania. Di pari passo, la letteratura mondiale si arricchì dell’opera di Dante, La Divina Commedia e di quella di Chaucer, I racconti di Canterbury. Nel periodo precedente, gli insegnamenti ecclesiastici avevano fornito la certezza della resurrezione nel Giorno del Giudizio e dell’accesso in Paradiso, ora i singoli iniziavano ad esprimere ansia per quell’evento cosmico che doveva separare i giusti dai dannati. Infatti, il criterio di scelta si fondava sulle azioni buone o cattive del singolo e non sulla fede della comunità. Il Libro della Vita, che fino ad allora, si rappresentava come un’enorme anagrafe, si trasformò nell’immaginario popolare in un contenitore delle singole biografie, una specie di bilancia che doveva stimare il peso di ognuno. Il Rinascimento e la Riforma religiosa, i cui inizi si possono situare attorno al 1450, sono stati indicati come “età di transizione”. La Bibbia di Gutenberg fu stampata nel 1456 e nel 1517 Lutero inchiodò alla porta della chiesa del castello di Wittenberg le sue Novantacinque tesi, dando inizio alla Riforma Protestante. La cultura dominante divenne sempre più umanistica, secolare e indivi-

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dualista. Le esplorazioni geografiche, come quella di Colombo nel 1492, la conseguente apertura dei confini e la pubblicazione del trattato di Copernico Sulla rivoluzione delle sfere celesti nel 1543 (con la straordinaria affermazione che la terra gira attorno al sole) aprirono la strada a una rivoluzione scientifica. La sperimentazione e il pluralismo caratterizzarono questo momento storico e molte delle certezze delle epoche precedenti furono discusse e riviste. Le trasformazioni nella vita intellettuale e culturale si accompagnarono a cambiamenti nel modo di rapportarsi delle persone con la morte. La saggezza convenzionale delle tradizioni era scossa dalle idee contrastanti che sorgevano in campo religioso e dalle scoperte rivoluzionarie degli scienziati e degli esploratori. La Chiesa sosteneva ancora le tesi tradizionali sulla natura del Cosmo o sulla collocazione dell’uomo nel creato. Però, man mano che si rivedevano le rassicuranti nozioni del passato, gli individui cominciavano ad avere un atteggiamento ambivalente verso la morte e l’aldilà. La rivoluzione scientifica del 1500 e del 1600, sfidò le tradizionali nozioni d’autorità ed aprì le porte a quello che fu poi chiamato il secolo dei lumi, il 1700, che mise l’accento sulla ragione e sulle capacità intellettuali dell’uomo. Ciò ha segnato la nascita della concezione moderna del mondo. La morte non è più qualcosa che appartiene solo all’universo del sacro ma diventa un evento che può essere manipolato e modellato dagli esseri umani. Queste tendenze si sono sviluppate in modo ancora più veloce con la rivoluzione industriale, dal 1750 al 1900 circa. Questi 150 anni sono stati caratterizzati da grandi innovazioni tecnologiche, (la meccanizzazione e l’urbanizzazione), oltre che da notevoli progressi nei settori della salute pubblica e della medicina. In riferimento a questo periodo, Ariès descrive l’atteggiamento comune verso la morte come la morte dell’altro, “la morte tua”. Era una parziale reazione al realismo scientifico che si era sviluppato con l’Illuminismo. In letteratura e nelle arti, questo atteggiamento va di pari passo con il diffondersi del Romanticismo, movimento che subiva il fascino del mondo cavalleresco, ma anche del mistero e del sovrannaturale.17 Nozioni secolari della morte e dell’aldilà iniziarono a rimpiazzare le concezioni religiose o a coesistere con esse. Un simbolismo naturale si diffuse sempre più nell’arte cimiteriale e nei memoriali, e si accrebbe l’interesse verso gli spiriti e lo spiritismo. Il Romanticismo era caratterizzato dalla ricerca di una realtà spirituale, che non era più adeguatamente soddisfatta dagli insegnamenti della Chiesa. All’interno della concezione della morte come “morte tua”, il significato di morte si focalizza sulla separazione dai cari, dando così luogo a commosse espressioni di dolore e intensificando il desiderio di ricordare il defunto. È da questi sentimenti che nasce l’ideale della “bella morte”, dove la triste bellezza della morte di un amato, genera sentimenti di melanconia, che si ac-

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compagnano a un quieto ottimismo per una eventuale riunione in paradiso. Nel 1861, con la morte del Principe consorte Albert, la regina Vittoria iniziò una moda funeraria caratterizzata da usanze luttuose con protocolli di comportamento (etichetta del lutto) molto elaborati, per non parlare della vedovanza che divenne quasi un culto.18 Per il resto della sua vita la regina indossò un copricapo nero e si recò spesso alla tomba del consorte al Royal Mausoleum, dove lei stessa venne portata per l’eterno riposo nel 1901. Per oltre mille anni, gli atteggiamenti verso la morte della cultura occidentale rifletterono una trasformazione più o meno graduale dall’enfasi sul destino collettivo di morte (“tutti morremo”) ad una consapevolezza più personale della morte (“ognuno muore la propria morte”), fino al prevalere della preoccupazione per la morte delle persone care (“la morte tua”). Nonostante questo cambiamento d’accento, Ariès si riferisce a tutto questo periodo come all’epoca della “morte addomesticata”, perché in tutto questo tempo la morte è stata considerata una “normale” esperienza umana, non come qualcosa da nascondere o escludere dalla vita sociale. Secondo Ariès, la lunga era della “morte addomesticata” finisce col Ventesimo secolo. La Prima Guerra Mondiale (1914-18), ha costituito un punto di svolta cruciale nella storia moderna e ha segnato l’avvento della “guerra totale”, che accomuna militari e civili, e che sottolinea la crescente importanza della tecnologia in ogni aspetto della vita. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, la tecnologia ha implicato una forte medicalizzazione della morte che, da evento pubblico e proprio della comunità, è diventato sempre più un avvenimento privato.19 Eventi che erano stati parte della vita di tutti i giorni, sono diventati di pertinenza di professionisti, e la scena del letto di morte si è spostata dalla casa all’ospedale. I segni tradizionali del lutto cominciano a sparire e nel Ventesimo secolo, per descrivere gli atteggiamenti prevalenti verso la morte, è meglio usare termini come “morte proibita”, “morte invisibile” o “morte negata”. Dopo questo breve excursus storico, possiamo ora esaminare più da vicino, come i mutati atteggiamenti verso la morte hanno influenzato i costumi e le pratiche specifiche, con particolare riferimento al modo di morire e alla scena del “letto di morte”, ai riti funebri e alla celebrazione della memoria del defunto, fino all’espressione culturale rappresentata dalla cosiddetta Danza Macabra. Il morire e la scena del letto di morte Nel Medioevo, la formula con la quale si riconosceva l’approssimarsi della morte, era: “Vedo e so che la morte è vicina”. Sia che essa fosse anticipata

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da segni naturali o da una certezza interiore, si pensava all’evento come a qualcosa che si poteva gestire. I credenti offrivano le loro sofferenze a Dio, aspettandosi poi che tutto avesse luogo in modo conforme alle tradizioni. La morte improvvisa era rara, anche le ferite in battaglia portavano di rado alla morte istantanea (questa possibilità era del resto molto temuta perché, prendendo il soggetto alla sprovvista, impediva di sistemare i propri “conti” in modo adeguato e di volgersi poi al divino). Coloro che vegliavano il morente potevano riferirsi a lui, affermando con sicurezza: “sente che il suo tempo è arrivato” o “sa che morirà presto”. La morte era seguita da una cerimonia semplice ma solenne e tutto avveniva in un contesto familiare. Ariès descrive così le principali caratteristiche del letto di morte cristiano nel primo Medioevo: il morente teneva le braccia incrociate sul petto e il capo volto a Est, verso Gerusalemme, e iniziava “con discrezione a ricordare le persone e le cose amate”. La famiglia e gli amici si raccoglievano attorno al morente per essere perdonati qualora avessero commesso degli errori e tutti erano poi raccomandati a Dio. Alla fine, il morente volgeva la sua attenzione al regno divino distogliendola dalle questioni terrene. Dopo la confessione dei propri peccati si pregava per chiedere grazia a Dio e il prete dava l’assoluzione. Terminati questi riti, niente più rimaneva da dire, il morente era pronto e se la morte giungeva più lentamente del previsto, egli aspettava in silenzio. Elizabeth Hallam scrive: “Il letto di morte era uno spazio in cui si sviluppava un’aurea tessitura visiva e tattile dove ogni parola e ogni gesto assumevano un significato fisico, sociale e spirituale”.20 La morte era una cerimonia, più o meno pubblica, dove il morente era anche l’officiante. La figura del morente nel suo letto circondato dalla famiglia, dai bambini, dagli amici e anche da semplici passanti, è rimasta, nonostante le piccole modifiche subite nel tempo, la scena tradizionale del letto di morte fino all’età moderna. Un esempio di modifica della scena è quello che dal Dodicesimo secolo è seguito al progressivo spostarsi dell’enfasi sul destino individuale. Assieme alla folla dei parenti, ha cominciato a far parte della scena un’invisibile armata di figure celestiali, angeli e demoni, in lotta per il possesso dell’anima del morente. Il “come” una persona muoia, assume mano a mano un’importanza crescente. La morte è diventata speculum mortis, lo specchio tramite il quale il morente poteva scoprire il destino che lo attendeva, facendo un bilancio morale della sua vita. Il momento del trapasso era un’opportunità unica per riconsiderare le proprie azioni e fare una scelta definitiva tra il bene e il male. Il momento della morte divenne la sfida suprema e l’ultima prova di un’intera vita. Questo accento posto sulla responsabilità individuale, per il destino della propria anima, è espresso attraverso l’esortazione centrale nell’educazione del tempo: “memento mori”, ricordati che devi morire!

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Nei secoli successivi la religione comincia a condividere la gestione del momento della morte col razionalismo scientifico. La scena del letto di morte, però, non cambia molto: era sempre presente la famiglia, c’erano gli amici tutti riuniti come partecipanti del rito pubblico del morire, ma la religione non era più così centrale nei pensieri del morente o nel dolore dei famigliari in lutto. C’è oggi chi paragona il trapasso all’emergere della farfalla dal suo bozzolo. Alle immagini religiose del paradiso o dell’inferno, si è venuta sostituendo una speranza secolare d’immortalità e l’idea di un’eventuale riunione coi propri cari. Gradualmente, il focus si è spostato dal morente a coloro che restano. Dalla metà del Ventesimo secolo i rituali del morire sono stati sostituiti da un processo tecnologico secondo il quale la morte avviene per “una serie di piccoli passi”. Ariès afferma: “Tutte queste piccole morti silenziose hanno preso il posto del drammatico atto del morire e l’hanno cancellato”. E poi aggiunge: “Ora nessuno ha più la forza o la pazienza di aspettare per settimane un momento che ha perso una parte del suo significato”. Al volgere del millennio, questa valutazione è ulteriormente messa alla prova dalle molte iniziative che sono state intraprese per assistere le persone alla fine della vita, dagli hospice alle cure palliative, mezzi con i quali i morenti e le loro famiglie possono avere l’opportunità di dare un senso agli ultimi atti di una vita umana. Le usanze funerarie Così come per il letto di morte, i cambiamenti nelle usanze legate al seppellimento rivelano le trasformazioni degli atteggiamenti di fronte alla morte. In epoca romana, le tombe erano situate fuori dagli insediamenti urbani: solo persone degne di particolari onori venivano sepolte all’interno dell’abitato.21 Nel primo Medioevo, con l’affermarsi della Cristianità, queste abitudini cambiarono. Infatti, i cristiani iniziarono a credere che la santità dei loro martiri avesse un potere anche dopo la morte e che questi santi della Chiesa potevano aiutare i credenti a evitare il peccato e quindi l’orrore dell’Inferno.22 Perciò, essere sepolti vicino alla tomba di un martire, iniziò ad acquisire particolare valore, pensando che si potessero così ottenere meriti, solo grazie alla vicinanza al suo cadavere (una moderna analogia, in realtà inappropriata, potrebbe essere il desiderio di essere sepolti vicino a una star del cinema, o il desiderio di un veterano di guerra di essere sepolto vicino a un militare decorato, anche se la gente del Medioevo era preoccupata del benessere della propria anima e non del prestigio mondano come negli esempi ricordati). Quando i cristiani iniziarono a compiere i pellegrinaggi per venerare i santi, presso le loro tombe si eressero altari, cappelle e persino chiese. All’i-

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nizio solo le personalità ecclesiastiche o i santi della Chiesa ricevevano tale trattamento, poi anche l’uomo comune iniziò ad essere sepolto vicino alle chiese o alle cattedrali o nei loro dintorni. Nei secoli successivi, le grandi cattedrali urbane permisero di seppellire i morti all’interno dei loro confini, stabilendo un legame intimo tra la condizione dei morti e la Chiesa. Gli ossari La sepoltura vicino alle chiese portò alla creazione degli ossari, ossia gallerie dove le ossa dei morti erano date in custodia alla Chiesa ed erano sistemate in certe parti del sagrato, dentro la chiesa e nei pressi (a Parigi è possibile visitare catacombe dove “femori e teschi sono impilati per metri sia verso l’alto che in profondità, con precisione svizzera”).23 Le ossa di queste raccolte provenivano dalle fosse comuni periodicamente riaperte per essere custodite fino alla resurrezione del corpo. Il carattere pubblico di questi ossari ci parla di una certa familiarità con la morte e col morto stesso. Così come i romani s’incontravano al Foro, il corrispettivo medievale di questa consuetudine, era l’incontro all’ossario, che costituiva una sorta di pubblica piazza. Qui si trovavano negozi e mercanti, si facevano affari, si ballava, si scommetteva o semplicemente si stava assieme. Ariès scrive: “Ancora non si era formata l’idea che al morto si dovesse dedicare uno spazio tutto suo, una casa di cui egli doveva diventare il proprietario perpetuo o almeno a lungo termine, in cui si sentisse a casa sua e da cui fosse impossibile cacciarlo”. La memoria dei defunti Verso il Dodicesimo secolo, di fronte a una tendenza sempre più marcata per la tutela dell’individualità, sorge il desiderio di preservare l’identità del defunto, seppellendolo in un luogo preciso e identificabile. Prima di allora, eccetto che per le sepolture delle classi elevate o delle personalità ecclesiastiche, non c’erano scritte per segnalare chi era sepolto in un dato luogo. Ora s’inizia a segnalare questa presenza, con una varietà di scritte del tipo “Qui riposa John Doe”, o con lapidi elaborate, come per i notabili. Un esempio è la stele mortuaria di Jean d’Alluye risalente al Tredicesimo secolo, che raffigura un cavaliere con la spada sfoderata, lo scudo al fianco e con i piedi sui resti di un leone. Tutto nella rappresentazione parla dei tratti propri del mondo della cavalleria, con la sua tensione tra fede ed eroismo. Sebbene le stele fossero prodotte solo per le classi sociali più abbienti, esse ci forniscono importanti suggerimenti su come le persone del tempo affrontavano la morte. Il diffondersi crescente delle effigi e delle scritte, nelle forme più varie, è connesso alla credenza emergente che i sopravvissuti potessero rimanere me-

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glio in contatto con il morto, perpetuandone la memoria. Nel Rinascimento, quando ormai i convincimenti profani si affiancavano a quelli religiosi, si cominciarono a costruire le tombe in cimiteri, anche non associati alle chiese. Nel 1804, l’apertura del cimitero Père Lachaise, fuori Parigi, fu il segno che, nel mondo occidentale, era ormai avvenuto un cambiamento profondo nei modi di rapportarsi alla vita e alla morte.24 Negli Stati Uniti, nel 1830 iniziò un movimento che promuoveva i cimiteri rurali. Questo movimento si prefiggeva di rimpiazzare i camposanti semplici e incustoditi dei Puritani con cimiteri lussuosi e ben tenuti, come quello di Mount Auburn a Cambridge, o quello di Woodlawn a New York. Nel 1844, con l’apertura del cimitero di Spring Grove a Cincinnati, emerse poi un nuovo modo di intendere il design cimiteriale: il cimitero occupava 733 acri, comprendeva un boschetto e il paesaggio aveva sempre la prevalenza sulle tombe25. Era in luoghi simili a questi che i congiunti visitavano le tombe private dei propri estinti, per tenerne vivo il ricordo26. Per onorare i morti si costruivano monumenti decorati e s’istituivano ricercati riti funebri, con un assortimento di accessori funebri. S’immaginava che i morti fossero in paradiso e i congiunti speravano di riunirsi a loro. Le abitudini funerarie del Diciannovesimo secolo sono tinte di sentimentalismo e la morte appare meno grave e definitiva. Dalla metà del Ventesimo secolo, queste usanze “eccessive” di lutto hanno lasciato il posto a quello che sembrava essere un desiderio di cambiare la realtà della morte. Nell’era moderna, a parte il caso dei monumenti commemorativi, spesso dedicati ai caduti in guerra, la maggior parte dei cimiteri scoraggiano la costruzione di monumenti che possano interrompere la piatta e uniforme distesa delle lapidi. Lo storico dell’architettura James Curl dice: “I cimiteri trascurati, i crematori fatti male e il brutto design delle tombe, sono essi stessi un insulto alla vita, poiché la morte è la necessaria conseguenza della nascita. La società svaluta la vita quando affronta il problema del trattamento dei morti come se si trattasse di una raccolta di rifiuti.27

La danza macabra I temi artistici della danse macabre (o danza della morte) trovano le loro origini nelle danze estatiche precristiane. Questo insieme di temi raggiunse il suo culmine tra la fine del Tredicesimo secolo e l’inizio del Quattordicesimo28. In parte sorta come reazione agli orrori causati dalle guerre, dalla fame e dalla povertà, la Danza della Morte fu influenzata dalle morti di massa causate dalla peste, la Morte Nera, che arrivò in Europa nel 134729. Nel 1351, dopo le prime ondate di pestilenza, un quarto della popolazione europea era

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sparita. Come fenomeno artistico e culturale, la Danza della Morte esalta le caratteristiche di inevitabilità e imparzialità della morte. La danse macabre è stato un tema ricorrente nel teatro, nella poesia, nella musica, e nelle arti visive. A volte si trovava nella forma teatrale di masque, un breve intrattenimento dove gli attori travestiti da scheletri ballavano allegramente con alti attori rappresentanti tutte le classi sociali. I dipinti della Danza della Morte invece, raffigurano individui che sono accompagnati alla propria tomba da scheletri e da cadaveri, un oscuro richiamo all’universalità della morte. La Danza della Morte vuole trasmettere l’idea che la morte arriverà per tutti, senza distinzione di rango o censo. Nelle versioni più antiche della danza macabra, sembra che la figura della morte, nella sua vendemmia, non tocchi mai i vivi. La morte ha un significato individuale, ma è ancora vista come parte dell’ordine naturale, in versioni più tarde, la rappresentazione mostra la Morte che strappa con forza il morente dalla vita. Intorno al Quindicesimo secolo, la morte è rappresentata come un’entità che provoca una frattura radicale, violenta e completa tra vivi e trapassati, e ciò si riflette nei temi macabri del cadavere e della sua decomposizione. La Danza include ora raffigurazioni di scheletri, corpi nudi, e oscure figure con la falce, ma anche connotazioni erotiche. La distruzione radicale, che la morte porta con sé, è accomunata alla momentanea perdita di controllo che si esperisce nell’atto sessuale30. Questo è anche il periodo delle dissezioni pubbliche di cadaveri, aperte oltre che ai medici e agli studenti di medicina, anche al popolo. All’Università di Leida, un “Anfiteatro Anatomico” nell’abside di una chiesa, esponeva i poveri resti disposti artisticamente e in posizioni cariche di pathos. Frank Gonazales-Crussi cita esempi di braccia di bambini vestiti con pizzi e disposti in modo da poter reggere un fiore tra pollice e indice, oppure un occhio umano tenuto per il nervo ottico31. Tra il Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, l’erotismo della Danza è stato sublimato nell’ossessione della “Bella Morte”. L’esistenza di un legame tra amore e morte, che era stata relegata principalmente al martirio religioso, si era estesa fino ad includere l’amore romantico. Esempi precedenti di questo sentimento si possono rintracciare nei codici dell’amore cavalleresco e negli ideali dell’amor cortese. Le storie romanzesche di Tristano e Isotta, o di Romeo e Giulietta, promuovono l’idea che, dove ci sia l’amore, la morte può essere bella e persino desiderabile. La danse macabre, che nasce come reazione alla paura di morte improvvisa, causata da epidemie di peste, rimane poi a sottolineare l’incertezza della vita umana, a ricordare che la morte può sopraggiungere in qualsiasi momento e strapparci ai nostri cari. Temi simili d’universalità della morte caratterizzano anche la celebrazione messicana, chiamata el dia de los Muertos, il

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giorno dei morti. Oggi gli artisti disegnano temi che s’ispirano alla danza macabra per sensibilizzare la gente alla natura epidemica dell’AIDS o agli aspetti minacciosi di altre potenziali catastrofi. Più sottile è la presenza d’immagini associate alla danse macabre nei costumi di Halloween per bambini e nel corredo di gadget associati a questa festa dei morti. La morte è diventata invisibile? Nel delineare il modificarsi degli atteggiamenti verso la morte e il morire, emerge un tema comune: gli esseri umani cercano di gestire la morte secondo modalità coerenti con le circostanze storiche e culturali in cui vivono. Se paragoniamo le nostre pratiche a quelle delle generazioni precedenti, la morte e il morire appaiono, sotto molti aspetti, meno visibili e meno collegate all’esperienza comune. Oggi, la cura dei morenti e dei morti è lavoro per professionisti a pagamento e il letto di morte è sempre più il teatro di numerosi sforzi atti a ritardare la morte; il ruolo dei parenti e degli amici è diventato molto più marginale. Abitudini legate al lutto che costituivano la norma nel passato, ci appaiono ora eccessive e i funerali sono più brevi, più discreti e privati. Ciononostante, queste pratiche rappresentano sempre modi per gestire la morte e sono in evoluzione continua. All’inizio del nuovo millennio, sono emersi segnali che indicano come le persone comincino ad essere insoddisfatte delle prassi del Ventesimo secolo tendenti a psicologizzare, professionalizzare e medicalizzare la morte e il morire. C’è un desiderio crescente di invertire i modelli alienanti associati con queste tendenze. Sebbene sia ancora vero che la morte può essere descritta come “invisibile”, gli atteggiamenti correnti e le pratiche relative alla morte e al morire che emergono oggi riflettono scelte differenti. Per un lungo periodo nella storia dell’Occidente, la risposta ai bisogni della gente è stata rappresentata da un insieme uniforme di credenze e costumi. Oggi siamo sempre meno soddisfatti di queste risposte standardizzate e preferiremmo, per raggiungere un modo più significativo di incontrare la morte, avvalerci anche delle opportunità che l’evoluzione storica e la conoscenza delle altre culture ci vanno proponendo.

La riscoperta della commemorazione dei defunti Ogni società è caratterizzata dalla condivisione di credenze e usi. Per lungo tempo si è ritenuto che gli antenati avessero un ruolo importante nelle vite dei vivi, cerimonie e rituali di vario tipo hanno costituito delle opportunità

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per definire e onorare il rapporto tra vivi e morti, oggi, al contrario, la maggioranza di noi ha poche possibilità di rendere un tributo ai defunti. La fede o le pratiche religiose danno solitamente forma ai profondi sentimenti che proviamo per i nostri cari. Anche se il carattere comunitario della religione è spesso problematico nelle società moderne con spiccato accento sull’individualità, essa può fornire risposte molto significative ai singoli. Le credenze d’altri luoghi o d’altri tempi, non possono essere semplicemente trasportate e trasferite, nel tempo e nello spazio, all’interno di società molto diverse da quelle in cui erano originariamente praticate. Perciò, nel pensare a come introdurre e utilizzare nuovi rituali significativi, dobbiamo rifuggire dalla tentazione di applicare ricette a noi estranee o del passato; d’altra parte, un’utile strategia è quella di diffondere la conoscenza di come le altre culture si avvicinano alla morte.32 Coerentemente con il significato del termine “tradizione”, ossia “passaggio” dal passato all’oggi, anche i modi di cui disponiamo per far fronte ai problemi che ci pone la morte non vengono dal nulla: ogni generazione riceve cultura da quella precedenti e la fa propria, modificandola.

Letture di approfondimento Philippe Ariés. Images of Man and Death. Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1985. Nigel Barley, Grave Matters: A Lively History of Death around the World. New York: Henry Holt, 1997. David R. Counts and Dorothy A. Counts, eds. Coping with the Final Tragedy; Cultural Variation in Dying and Grieving. Amityville, N.Y: Baywood, 1991. Linda Sun Crowder. “Chinese Funerals in San Francisco Chinatown: American Chinese Expressions in Mortuary Ritual Performance,” Journal of American Folklore 113, (2001): 451-463. Douglas L. Davies. Death, Ritual, and Belief, 2nd ed. London: Continuum, 2002. Donald P. Irish, Kathleen F. Lundquist, and Vivian Jenkins Nelsen, eds. Ethnic Variation in Dying, Death, and Grief. Washington, D.C.: Taylor & Francis, 1993. Peter C. Jupp and Clare Gittings, eds. Death in England: An Illustrated History. New Brunswick, N.J.: Rutgers University Press, 2000. Colin Murray Parkes, Pittu Laungani, e Bill Young, eds. Death anal Bereavement across Cultures. New York: Routledge, 1997.

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Capitolo 4

IL SISTEMA SANITARIO: PAZIENTI, PERSONALE SANITARIO E ISTITUZIONI

I sistemi sanitari moderni sono orientati al prolungamento della vita e proprio per questo possono mostrare delle carenze nell’assistenza dei morenti e delle loro famiglie. Pensando alla fine della propria vita, molte persone dicono che hanno paura di morire soffrendo, attaccati a delle macchine in una situazione istituzionale spersonalizzante. Spesso negli ospedali il morente può essere oggetto di accanimento terapeutico. In passato i medici facevano molto per consolare e curare il paziente; in verità, consolazione e conforto era spesso tutto ciò che potevano offrire ai malati, ora invece, se una terapia non ottiene successo, ci possiamo sentire traditi, poiché le nostre aspettative nei confronti della medicina sono molto aumentate e i medici possono diventare, di conseguenza, i capri espiatori di terapie non efficaci. Le tre principali istituzioni sanitarie (ospedali, case di cura e hospice) hanno, ciascuna, compiti differenti all’interno del sistema sanitario complessivo. I pazienti con patologie che minacciano la vita ricevono trattamenti che, solitamente, sono una combinazione di terapie acute e terapie di supporto. Quando le condizioni cambiano, l’intervento istituzionale può essere alternato con l’assistenza domiciliare. Gli ospedali erogano principalmente un’assistenza acuta e intensiva per periodi di tempo limitati. In ospedale si usano tecniche mediche aggressive per fare diagnosi, per somministrare terapie e per sostenere i processi vitali, con il fine di prolungare la vita. Il paziente medio si aspetta di recuperare la salute, dopo un trattamento di breve durata, e di tornare presto alla vita di prima. I pazienti con malattie croniche o gravi, possono ricevere un trattamento a fasi alterne, che comprende un periodo d’ospedalizzazione per le fasi acute, seguito da un’assistenza di supporto in case di cura, o negli hospice o a casa. Negli ultimi tempi, pare che gli ospedali stiano spostando il centro della loro attenzione dall’assistenza nelle fasi acute della malattia verso un approccio maggiormente integrato, all’interno del quale si attribuisce un’importanza crescente alla dimissione del paziente, all’assistenza in hospice e a domici-

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lio1. In altre parole gli ospedali non sono più “monoliti” attaccati con granitica fermezza alla cura in fase acuta, ma istituzioni di più ampio respiro, che “offrono” una gamma più ampia di cure medico-sanitarie2. Le case di cura, categoria che comprende sia strutture post-ricovero (convalescenziari) che d’assistenza, sono pensate per fornire cure residenziali a lungo termine per i malati cronici e per tutti quelli che non hanno bisogno di cure acute e intensive, e la maggior parte dei pazienti, ospiti di questi centri, ritornano poi alla vita di tutti i giorni. La percentuale di ricoverati in casa di cura, che abbiano bisogno di cure costanti o che muoiano durante il periodo di degenza, è più bassa, dato che queste strutture sono meno utilizzate perché servizi analoghi possono essere forniti dalle organizzazioni d’assistenza domiciliare. Gli hospice si distinguono dalle altre istituzioni sanitarie perché si dedicano specificamente ad assistere i morenti e le loro famiglie. Lo scopo dell’assistenza in hospice è confortare il paziente, più che curare la sua malattia. A differenza degli ospedali e delle case di cura, gli hospice non sono necessariamente dei luoghi veri e propri ma possono anche essere dei programmi di assistenza. Le cure dell’hospice possono essere erogate in luoghi diversi: nel dipartimento di medicina palliativa di un ospedale, in una casa di cura, in un centro residenziale, in una comunità hospice o a domicilio. Esamineremo più approfonditamente nel corso del capitolo le diverse opzioni che il termine hospice indica.

L’assistenza sanitaria moderna Chi è ricoverato in una struttura sanitaria, si aspetta di ricevere un trattamento adeguato alla propria patologia, sia dal personale medico che da quello paramedico. Le relazioni fra paziente, personale sanitario e istituzione hanno ovviamente un’influenza, più o meno accentuata sulla qualità del trattamento offerto. Ogni lato di questo triangolo (il paziente, il personale sanitario, l’istituzione) dell’assistenza sanitaria contribuisce a determinare la qualità complessiva e la natura del trattamento erogato (Fig. 4-1). Se si attribuisce maggiore importanza all’efficienza del personale sanitario e delle strutture, le procedure mediche e infermieristiche potranno essere standardizzate e diventeranno routinarie. Di conseguenza, la capacità dell’istituzione di rispondere alle necessità di ciascun paziente risulterà intrinsecamente limitata. Una volta, quando una vecchia zia moriva in casa, poteva mangiare il cibo preferito ed essere imboccata da un familiare. Oggi, in un ospedale o in una casa di cura sarà molto probabile che ri-

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ceva una dieta standard, servita in fretta da un operatore oberato di lavoro. Un’assistenza sanitaria accurata è inversamente proporzionale alla sua personalizzazione. Charles Rosenberg osserva che “ci aspettiamo molto dagli ospedali: che ci tolgano il dolore, che ci allunghino la vita e che gestiscano la nostra morte e tutte le circostanze dolorose e imbarazzanti che essa implica”3.

avvocati esperti di etica filosofi

infermieri assistenti sociali

sottoposti

famiglia Dottore in medicina/Medico, capo supremo

paziente

(di culto)

tecnici di laboratorio

ministro

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amici

personale di servizio interno cappellani psichiatri tecnici della sorveglianza La situazione di cura classica

personale interno amici

assistenti sociali

medico

avvocati esperti di etica

famiglia

filosofi

famiglia

paziente

cappellani psichiatri tecnici della infermieri sorveglianza La situazione di cura ideale

Figura 4-1. La situazione d’aiuto classica e quella ideale. Fonte: David Barton, ed., Dying and Death: A Clinical Guide for Caregivers (Baltimore: Williams & Wilkins, 1977), p. 181.

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Negli ospedali e nelle altre istituzioni sanitarie, la vita del paziente è scandita da regole, scritte e non scritte. Quelle non scritte, seguite non meno fedelmente di quelle scritte, possono determinare un senso d’alienazione. Ad esempio, è possibile che i familiari di un morente possano essere relegati in un corridoio o in una sala d’attesa ad aspettare che il loro caro se ne vada, alternandosi uno per volta al suo capezzale. È probabile che non ci siano spazi tranquilli per parlare della situazione con i dottori o con gli infermieri ed è frequente che in questi contesti ospedalieri i familiari in lutto siano costretti a contenere o a reprimere le loro emozioni. Nel modello medico convenzionale, sono i pazienti e il personale sanitario il fulcro, mentre la famiglia è meno importante, anche quando il paziente sta per morire. Sarebbe appropriato adottare un modello diverso: “L’obiettivo non deve essere semplicemente quello di fornire cure mediche al paziente, ma anche quello di rivolgersi ai suoi familiari per ascoltarli, aiutarli a cercare un senso di ciò che accade e facilitare la comunicazione fra di loro.”4 L’astrazione, la spersonalizzazione e la standardizzazione sono gli aspetti del metodo scientifico che permettono molti degli auspicati successi della medicina nella difesa della vita. I successi sono meno apprezzabili quando l’applicazione del metodo scientifico disumanizza la medicina. Questo accade ad esempio quando non si capisce bene di quale malattia soffra il paziente e il medico mostra di avere più interesse per la malattia che per il malato; o quando i morenti sono trascurati, perché i medici e gli infermieri pensano che “tanto non c’è più nulla da fare” ed evitano il contatto personale col malato, rivelando così le proprie paure per la morte. Alcuni studi hanno dimostrato che gli infermieri ci mettono più tempo a rispondere alle chiamate dei morenti, rispetto a quelle dei pazienti meno gravi5. Ciò può non essere la norma nelle istituzioni sanitarie, ma certo evitare il morente non è encomiabile dovunque accada. I costi della sanità Le nostre scelte individuali e sociali sul finanziamento della sanità possono influire sulle scelte nel campo dell’assistenza dei malati gravi e dei morenti. Dal 1965, sono stati istituiti in Usa i programmi Medicare e Medicaids, per garantire l’assistenza sanitaria alla popolazione sottoassistita, e specialmente agli anziani e ai poveri. Pur con grandi disuguaglianze nell’assistenza, gli Usa spendono per la salute più di ogni altro paese industrializzato. Nel 2000, le spese sanitarie hanno superato il 13% del PIL6. Gli economisti del settore commentano che tale tendenza all’aumento della spesa nel settore sa-

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nitario sembra essere illimitata perché “più un paese è ricco, più avrà tendenza a spendere per la sanità”7. Per contenere i costi associati a Medicare e Medicaids e al sistema sanitario in generale, sono state varate diverse politiche di “management assistenziale”, come ad esempio l’uso di DRG (diagnosis related groups), adottati in seguito anche in altri paesi compresa l’Italia. L’idea che sottende i DRG è che si possano gestire i costi, usando una tabella per rimborsare chi eroga l’assistenza sanitaria. L’ammontare del rimborso si basa sulla malattia del paziente, sulla storia medica e sulla complessità dei servizi erogati. Una conseguenza degli sforzi fatti per contenere i costi è che l’assistenza medica tende ad essere concepita come “prodotto” standard. L’erogazione dell’assistenza medica, implica delle strategie di controllo: dove, quando, perché e da chi si usano i servizi sanitari, con i medici nella parte degli “erogatori” e i pazienti in quella dei “consumatori”8. Questo rappresenta un cambiamento radicale nella tradizionale concezione del rapporto medico-paziente, che è in sé più complesso dei modelli consumistici delle transazioni commerciali9. C’è, infatti, il timore fondato che i pazienti siano trascurati, se il “quanto si è risparmiato” diventa la misura principale del risultato… Le tecnologie mediche moderne sono costose e i costi crescenti sono in parte dovuti a un “imperativo tecnologico” che promette una scelta senza precedenti tra gli strumenti di contrasto alle malattie. Al tempo stesso, le innovazioni tecnologiche possono veramente essere una mezza benedizione. Infatti, scoprire una patologia nella sua fase iniziale può consentire cure che altrimenti sarebbero state impossibili, oppure, al tempo stesso, può semplicemente significare che la consapevolezza della malattia dura per un periodo più lungo10. Clive Seale sottolinea come la capacità medica di predire la morte in una fase molto precoce di una malattia ha fatto emergere un tipo di esperienza detta “malattia terminale”11. Con diagnosi precoci e strumenti tecnici più sofisticati, lo stadio “terminale” di una malattia può arrivare a durare anche 15 anni12. Migliori investimenti nella tecnologia medica hanno come conseguenza una migliore qualità dell’assistenza? La risposta sembra essere affermativa13, anche se l’impatto che questi costi crescenti hanno determinato, implica il chiedersi, ad esempio, se la società sia davvero obbligata a fornire ogni intervento che il paziente ritiene benefico. A questo proposto ci sono esperti secondo i quali il modo migliore per ridurre la pressione sul sistema sanitario è razionare le risorse.

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Il razionamento delle risorse in periodi di penuria Razionamento significa la distribuzione di risorse scarse tra individui in competizione tra loro. Nel sistema sanitario, si definisce razionamento ogni misura che intervenga per limitare la quantità di cure che una persona può ricevere. Si ricorre a queste misure quando si pensa che non tutte le cure apparentemente efficaci possano essere fornite a tutti i pazienti e, in particolare, quando a un paziente è negato un trattamento valido a causa dei costi eccessivi. Anche se, i medici hanno sempre svolto la funzione di “guardiani” per quanto riguarda le decisioni sulle terapie considerate migliori per il benessere del paziente, una gestione razionata delle risorse del sistema sanitario costringe i medici a diventare guardiani severi e “razionatori del capezzale”, ruolo che molti considerano immorale in medicina14. Daniel Callahan suggerisce che un “principio di simmetria” sarebbe utile nel riconoscere i limiti dell’assistenza medica15. Dice: “Una tecnologia dovrebbe essere giudicata dalla probabilità crescente di ottenere un buon equilibrio tra salvare la vita e garantire una buona qualità della vita… un sistema sanitario che sviluppa e istituzionalizza tecnologie salva-vita e che ha il frequente risultato di lasciare le persone in una situazione cronica di malattia o con una scarsa qualità della vita, ignora il principio di simmetria”. Ci sono diversi modi per misurare i risultati delle scelte assistenziali, in relazione alle risorse disponibili. Ad esempio, il concetto di “Quality Adjusted Life Years” (QALY) mira ad ottenere un bilanciamento tra la durata della vita e la sua qualità.16 L’idea sottesa a questa nozione è che le persone possono accettare il seguente bilanciamento: la prospettiva di vivere un numero minore di anni in “perfetta salute” equivale alla prospettiva di vivere più a lungo in uno stato di salute “meno perfetto”. A seconda dell’alternativa scelta, un individuo o una società possono decidere di sostenere certi costi medici e non altri. Le decisioni sul modo di impiegare le scarse risorse mediche a disposizione non competono solo agli esperti o ai legislatori. Anche le scelte che facciamo individualmente, cercando il nostro benessere, influenzano il sistema sanitario e contribuiscono a dargli forma. Ad esempio, invece di affrontare trattamenti costosi e probabilmente inutili, le persone possono, di fronte alla morte, firmare una “direttiva anticipata” per rendere note le loro volontà su quali terapie mediche ricevere. Secondo Callahan “la medicina va oltre se stessa, quando si pone l’obiettivo implicito di curare tutte le malattie e di evitare la morte all’infinito”.

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La Dottoressa Elizabeth Kübler-Ross, immortalata qui con una paziente alla quale è stata diagnosticata una malattia mortale, è universalmente conosciuta per il suo lavoro volto a far crescere la consapevolezza del paziente, della famiglia e del personale medico riguardo alle questioni che sorgono nell’assistenza ai morenti.

L’assistenza dei morenti Alcuni anni fa, Elizabeth Kübler-Ross decise di formare i giovani tirocinanti di un ospedale di periferia, sui bisogni dei morenti, adottando un orientamento che prevedeva che i malati terminali potessero decidere cosa fare di sé stessi. Quando informò il personale sanitario delle sue decisioni, le fu detto che in quel reparto non c’era nessun morente: erano solo “malati molto gravi.”17 In seguito, l’obiettivo che la Kübler-Ross si era prefissa, sod-

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disfare i bisogni dei malati gravi e dei morenti, diede impulso ad un modo compassionevole di assistere i morenti. La morte, come la nascita, è un evento naturale che è più facile osservare che gestire; coloro che assistono devono mettere da parte le proprie convinzioni per scoprire cosa è meglio per una certa persona, in una determinata situazione. Ci deve essere una continua ricerca dei modi migliori di fornire assistenza, tanto fisica quanto emotiva e spirituale. Come osserva Balfour Mount, la cura dei morenti coinvolge tanto il cuore che la mente: “chi muore ha bisogno di un cuore amico che lo accetti e ne condivida la vulnerabilità; ha anche bisogno di una mente che sappia organizzare una competente assistenza medica: l’uno non può fare a meno dell’altra.”18 E noi? Vorremmo passare gli ultimi giorni a casa, curati da parenti e amici? Oppure vorremmo usufruire delle più sofisticate tecnologie mediche che un ospedale può mettere a disposizione? Sceglieremmo le cure terminali di un hospice, con la sua enfasi sul coinvolgimento della famiglia e sul controllo del dolore? Il decorso della malattia potrebbe essere imprevedibile e rendere impossibile la scelta di dove morire o di che tipo d’assistenza ricevere, ciononostante, sarebbe bene prendere in considerazione le diverse possibilità. Quando la morte giunge in seguito a una lunga malattia, c’è di solito la possibilità di scegliere dove morire. L’assistenza di fine vita può essere una combinazione d’assistenza domiciliare, di ricoveri in ospedale e di cure palliative in hospice. Se ci informiamo sulle varie possibilità, saremo più forti e prenderemo decisioni più significative (Tab. 4-1). Hospice e cure palliative Secondo la National Hospice and Palliative Care Organization (NHPCO), nel 2001 circa 3200 strutture hanno assistito 775.000 persone negli Stati Uniti e più di 600.000 Americani (il 25% dei decessi di quell’anno) sono morti in un hospice19. La NPHCO riferisce che gli hospice assistono oggi più della metà degli Americani che muoiono di cancro, oltre ad un crescente numero di pazienti con altre malattie mortali, come malattie cardiache o polmonari all’ultimo stadio. L’interesse crescente per hospice e per le cure palliative, fa riflettere sulle cure di fine vita: “dal guarire al curare, dal prolungamento alla qualità della vita”20. Gli obiettivi e i metodi degli hospice si riflettono nel termine cure palliative, che deriva dal Latino palliatus, che significa “coprire con un mantello o nascondere” e, per estensione, “moderare o ridurre la gravità di un evento o di una situazione.” Secondo la definizione dell’Oms, la cura palliativa è “la cura attiva e globale dei pazienti affetti da patologie non trattabili con le terapie a disposizione”.21

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Tabella 4-1 I principi di una buona morte.

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Essere consapevoli che la morte si avvicina e comprendere che cosa ci si può aspettare. Riuscire a mantenere un ragionevole controllo su ciò che accade. Avere il rispetto della dignità e della privacy. Esercitare un adeguato controllo sulle tecniche di sollievo dal dolore e dagli altri sintomi. Poter scegliere dove debba avvenire la morte (a casa o altrove). Avere accesso alle informazioni o alle conoscenze degli esperti di qualunque tipo, secondo la necessità. Avere accesso al sostegno spirituale ed emotivo desiderato. Avere accesso ad un programma di assistenza del tipo hospice o alla terapia palliativa in qualunque sede (casa, ospedale o altrove). Poter dire la propria su chi deve essere presente e condividere la fine. Poter esprimere in anticipo delle direttive che assicurino che i desideri siano rispettati. Avere il tempo per dirsi l’addio. Potersene andare quando è tempo di andare e non essere indotti a prolungare la vita inutilmente.

Fonte: Adattato da Richard Smith, “A Good Death”, British Medical Journal 320 (15 gennaio 2000): 129-130.

I principi degli hospice e delle cure palliative Le cure palliative fanno propria l’idea che l’obiettivo ultimo della medicina sia quello di “curare” la malattia piuttosto che “guarirla”. “La “cura” implica il ripristinare, o il preservare, un senso di serenità e d’integrità personale di fronte ai numerosi e svariati disturbi conseguenti, necessariamente, alla condizione di malattia”22. L’obiettivo precipuo delle cure palliative è quello di controllare il dolore e il distress fisico negativo23. Come suggerisce la dizione “cura globale” contenuta nella definizione dell’OMS, lo scopo degli hospice e delle cure palliative va oltre la sfera fisica. Si tratta di cure che cercano di alleviare la sofferenza del malato, assistendolo in tutti i suoi bisogni: fisici, psicologici, spirituali ed esistenziali.24 Al termine della vita, la storia personale di un paziente tende ad essere più importante di ciò che si legge nella sua cartella clinica. L’hospice e le cure palliative non devono essere considerati come qualcosa di “passivo”, sono caratterizzati al contrario da misure attive per alleviare il dolore e la sofferenza del morente perché egli possa continuare a “vivere” fino alla morte. Spesso i morenti o le famiglie dicono che “non c’è più niente da fare”25. La risposta degli hospice e delle cure palliative è che, al contrario, molto si può ancora fare, quando guarire non è più realisticamente possibile.

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Le cure palliative implicano un lavoro d’equipe che comprende medici, infermieri, assistenti sociali, farmacisti, fisioterapisti, terapisti occupazionali, cappellani, assistenti domiciliari, volontari, familiari e amici. Questo approccio di gruppo ha lo scopo di fornire il massimo della cura per lenire il dolore e gli altri sintomi, ma anche un aiuto emotivo e spirituale a misura dei bisogni del singolo e della famiglia. L’obiettivo è aiutare le persone a vivere nel modo più pieno possibile fino alla fine della loro vita26. Oltre ad aiutare i soggetti ad arrivare a una morte “buona” e “tranquilla”, la filosofia dell’hospice e delle cure palliative, incoraggia i pazienti e le famiglie a scoprire che ancora si possono, al termine di un’esistenza, condividere momenti personali e spirituali. Come afferma Ira Byock, medico di un hospice, “anche quando non è più possibile aggiungere molti giorni alla vita, c’è ancora la possibilità di aggiungere vita ad ogni giorno”.27 Alle origini degli hospice e delle cure palliative Le origini degli hospice e delle cure palliative si possono rintracciare nelle antiche usanze cristiane di ospitare i pellegrini e i viaggiatori28 in “luoghi d’ospitalità”, l’hospitium (spesso collegato ai monasteri). Il latino “hospitium” significa infatti “luogo per ricevere gli ospiti”, con le sue derivazioni “hotel”, ospedale e hospice. Gli ospedali romani erano costruiti secondo un “modello d’efficienza militare” per assicurare ai gladiatori e agli schiavi una guarigione veloce, gli ospizi cristiani aiutavano i viaggiatori feriti, i malati senza più speranza e le vittime dei disastri. I morenti ricevevano qui un trattamento onorevolmente misericordioso, poiché essi erano visti come pellegrini dell’anima, ormai prossimi a Dio. Tra i primi hospice ci sono quelli fondati durante il IV secolo da un discepolo di San Gerolamo, Fabiolo, un ricco vedovo romano che divenne patrono e assistente dei malati e dei morenti. Nella tradizione giudaico-cristiana, le basi dell’assistenza hospice poggiano sui concetti di: diakonia, il servire e prendersi cura degli altri; metanoia, il volgersi ad un sé più profondo o potere divino e kairos, che sta a indicare il raggiungimento di un momento di irripetibile pienezza29. Il modello più seguito di hospice moderno è quello inglese, il St. Christopher’s Hospice a Sydenham (Londra), fondato dalla Dottoressa Cicely Saunders30 nel 1967. Negli anni quaranta, mentre si stava formando come assistente sociale, la Saunders incontrò David Tasma, un rifugiato ebreo polacco, che stava morendo di cancro. Insieme ebbero la visione di un rifugio, un luogo dove le persone potessero trovare sollievo dal dolore e morire con dignità. Nel 1948, prima di morire, Tasma affidò alla Saunders un piccolo lascito, dicendole: “Sarò una finestra nella tua casa.” Diciannove anni più tardi la visione divenne realtà quando Saunders inaugurò il St. Christopher’s Hospice, all’interno del quale una finestra fu dedicata a Tasma31.

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Il St. Christopher’s Hospice, così chiamato in onore al santo patrono dei viaggiatori, promuove una politica di accettazione della morte in un’atmosfera di tranquillità. Saunders chiama il sistema dell’hospice un sistema ad “alto tasso di persona e a basso tasso di tecnologia”, come dimostra il fatto che la maggior parte delle spese dell’Hospice sono quelle per gli stipendi del personale sanitario.32 Le guardiole e le stanze dell‘hospice sono piene di fiori, di fotografie, d’oggetti personali e i pazienti vengono incoraggiati a curare i propri interessi familiari e le attività che procurano loro svago. L’orario di visite è prolungato per facilitare l’interazione con i parenti, con i bambini e anche con gli animali domestici. Quando un paziente sta per morire, tutti, i familiari, gli amici e il personale, si raccolgono attorno al suo letto per gli addii. Dopo la morte, la famiglia e gli amici possono rimanere, se lo desiderano, accanto al corpo, fino a quando il cadavere viene lavato e portato in una piccola cappella. La morte al St. Christopher è qualcosa di familiare. L’assistenza domiciliare è un importante corredo dell’assistenza residenziale del St. Chistropher’s, per poter estendere l’assistenza hospice anche ai pazienti non ricoverati e alle famiglie. Ci si occupa in questo modo di pazienti che non sono mai stati al St. Christopher e di ex ricoverati che hanno fatto ritorno a casa. Il personale dell’hospice organizza un piano d’assistenza e gli infermieri si recano regolarmente a casa dei pazienti per monitorarne le condizioni. Un infermiere è sempre disponibile per rispondere alle domande dei pazienti o delle famiglie. Negli anni, il St. Chistopher è diventato un modello di riferimento delle caratteristiche che un hospice deve avere: deve garantire un adeguato controllo del dolore, deve prendersi cura del paziente e della famiglia, considerandoli come un “unicum” assistenziale, per perseguire la migliore qualità della vita possibile per i morenti e per le loro famiglie. Nel 1963, una visita della dottoressa Saunders alla scuola d’infermieristica dell’Università di Yale, suscitò interesse verso questo tipo di assistenza. Quando, nel l966, la Saunders vi ritornò, Florence Wald, preside della scuola di infermieristica di Yale, organizzò un meeting a cui parteciparono Elizabeth Kübler-Ross, Colin Murray-Parkes e altri che erano interessati a migliorare l’assistenza ai morenti. Florence Wald, che aveva lavorato per più di dieci anni con i malati terminali e le loro famiglie, fu parte attiva nella promozione del primo hospice americano, aperto a New Haven nel 1974, ed ebbe come suo primo direttore Sylvia Lack, che aveva lavorato al St. Christopher. Altri due eventi chiave nella storia degli hospice furono: l’istituzione dell’unità ospedaliera di cure palliative al St. Luke’s Hospital di New York nel 1974 e, cinque anni dopo, la pubblicazione dei principi base per l’assistenza terminale da parte dell’IWG (International Workshop Group on Death, Dying and Beravement)33. Ancora, nei primi anni ’70 all’Hospice di Marin in California, il dottor William Lamers sviluppò un approccio innovativo nel-

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l’assistenza domiciliare dei pazienti terminali. I programmi degli hospice, dice Lamers, dovrebbero venire incontro al desiderio di migliorare la qualità di vita dei pazienti con malattie incurabili, proprio quando, invece, sono “trascurati” da “un sistema sanitario che privilegia le terapie aggressive per la guarigione e la riabilitazione, disincentivando l’assistenza per alleviare il dolore”34. I programmi hospice e le cure palliative in ospedale I termini “assistenza hospice” e “cure palliative” vengono usati ormai come sinonimi, ma essi possono essere differenziati, definendo l’assistenza hospice come un tipo di cura palliativa focalizzata specificamente sul paziente terminale35. Anche se il termine hospice può essere riferito a un centro residenziale che ospita pazienti terminali, la maggior parte di questi programmi di assistenza si svolge a casa dei pazienti, dove sono le famiglie a fornire l’assistenza primaria. L’espressione “entrare nell’assistenza hospice” è diventata sinonimo di uso di un “programma hospice” cioè dell’uso dei servizi di un hospice locale. I programmi hospice sono di solito gestiti da organizzazioni della comunità locale che coordinano un’ampia gamma di servizi di cure palliative che possono essere fornite in case di cura, in strutture residenziali, in case di riposo e ospedali, ma anche in case private. Vi sono categorie di cure palliative che possono essere fornite anche a malati non terminali; gli hospice, invece, sono strutturati specificamente per malati in fase ormai finale e che non desiderano interventi medici tesi a prolungare la vita. L’hospice quindi è una forma specializzata di cura palliativa per morenti. Anche se gli hospice sono stati, a volte, accusati di promuovere una morte idealizzata (“morte felice”), essi non promuovono particolari “modi di morire”36. Piuttosto cercano di creare un ambiente dove “il processo apparentemente insensato della morte”, possa essere vissuto in modo coerente con le necessità e le credenze delle persone che muoiono37. Anche se gli ospedali sono organizzati per fornire terapie intensive di breve durata per traumi e malattie acute, essi stanno, in modo crescente, ampliando i loro scopi ispirandosi ai principi delle cure palliative. In alcuni casi, le cure palliative e i trattamenti orientati alla guarigione, sono erogati in combinazione tra loro, consentendo ai pazienti, al tempo stesso, di combattere la malattia e di migliorare la qualità della vita (n.d.c.). Se gli infermieri hanno il tempo di conoscere i pazienti e le loro famiglie, vuol dire che la responsabilità di coloro che assistono è soprattutto orientata verso il singolo paziente, piuttosto che al proprio mansionario; se le relazioni nel gruppo del personale sanitario sono di sostegno reciproco e se vige una politica di aperta comunicazione della diagnosi e della prognosi, le cure palliative fornite ai morenti negli ospedali e quelle fornire negli hospice posso-

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Tabella 4-2 Questioni inerenti gli hospices contemporanei. 1. La questione dell’accesso. L’assistenza dello hospice è accessibile a chiunque la desideri? Come può essere migliorato l’accesso all’assistenza dell’hospice per le popolazioni malservite quali minoranze e persone affette da AIDS? 2. La questione dell’assistenza spirituale. L’assistenza legata alle dimensioni spirituali della vita – ovvero quella che “connette l’individuo a una sfera che si trova al di là dell’individuo stesso” – è di effettiva competenza dell’hospice? 3. La questione delle finanze. Qual è l’effetto della sempre più massiccia imposizione di regolamentazione burocratica e dei controlli di bilancio sull’assistenza degli hospice? 4. La questione dell’innovazione. In che modo i servizi di hospice presenti dovrebbero essere estesi, e nuovi servizi creati? 5. La questione della scelta. Qual è il ruolo dell’assistenza degli hospice nel crescente dibattito sulla qualità della vita, l’eutanasia, e il suicidio medicalmente assistito? Fonte: Adattato da Inge Baer Corless, “A New Decade for Hospice”, in “A Challenge for Living: Dying, Death, and Bereavement”, a cura di Inge B. Corless, Barbara B. Geromino, and Mary A. Pittman (Boston: Jones & Bartlett, 1995), pp. 77-94.

no essere ispirate da ideali comuni e da una comune filosofia dell’assistenza di fine vita38. Le sfide di fronte agli hospice e alle cure palliative Man mano che cresce l’interesse per gli hospice e per le cure palliative, crescono anche le sfide per rendere più accessibile questo tipo d’assistenza globale terminale. (Tab. 4-2)39. In primo luogo, poiché le cure hospice sono per lo più fornite su base domiciliare, la presenza di una persona che assista ventiquattr’ore su ventiquattro è un prerequisito essenziale per fruire di questo tipo di servizio. Chi assiste può essere il coniuge, il compagno, un genitore, ma anche altri parenti o qualcuno pagato dalla famiglia o da un fondo assistenziale. Quando il morente è un uomo, la moglie ricopre spesso questo ruolo, mentre un altro parente – figlio o nuora – si prende più spesso cura delle donne; spesso l’assistenza primaria è di persone non pagate e, solo ad un secondo livello, operano i professionisti di questo tipo di assistenza40. Questi assistenti sanitari domiciliari sono chiamati a svolgere numerose mansioni, come monitorare i segni vitali, valutare il dolore, somministrare le medicine con dosaggi corretti. Gli sforzi che questa assistenza richiede possono essere notevoli e stressanti; ne parleremo in dettaglio più avanti in questo stesso capitolo. Negli Usa la ricerca di fondi rappresenta un’ulteriore e costante sfida per gli hospice e per le cure palliative. Infatti i servizi hospice, per essere pagati

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dai programmi di sanità pubblici o privati, sono soggetti a particolari norme, la più importante è quella che, per averne diritto, è necessaria una certificazione medica, con una prognosi di meno di sei mesi di vita, soprattutto per i pazienti che non sono malati di cancro. Inoltre i medici e i loro pazienti sono obbligati a concordare la sospensione di qualsiasi trattamento teso a prolungare la vita. Poiché può essere difficile affermare che a un paziente rimangono solo sei mesi di vita, in particolar modo per i pazienti non affetti da tumore, questa regola tende ad escludere i malati che hanno una prognosi con una previsione di vita incerta. Questa regola ha come effetto un’ammissione spesso ritardata nel programma hospice: uno dei motivi primari della mancata ammissione al programma è proprio la morte, il paziente spesso muore prima che possa essere riconosciuto idoneo a questo tipo di assistenza41. Le conseguenze sono paradossali, i responsabili degli hospice sono sottoposti a una pressione logorante da parte degli ispettori governativi che possono mettere in dubbio che un soggetto sia effettivamente tanto malato da dover accedere al programma hospice, e possono penalizzare economicamente il programma stesso, quando i malati non rispettano, per così dire, le previsioni di morte. Per fare chiarezza in tale materia, il capo dell’ufficio federale (Health Care Financing Administration) che distribuisce i fondi destinati agli hospice, ha affermato che è sbagliato pensare che quando i pazienti sopravvivono più dei sei mesi, perdono automaticamente la copertura finanziaria. Un articolo della legge afferma che i sei mesi sono da contarsi come “sei mesi o meno, se la malattia compie il suo corso naturale”42. Ciononostante, i responsabili degli hospice dicono che, a volte questa dichiarazione viene disattesa e si pone principalmente l’accento sulla parte della legge che pone il limite dei sei mesi come insuperabile. Una sfida ulteriore per hospice e cure palliative è la loro estensione alla popolazione sottoassistita. I gruppi etnici minoritari continuano ad essere sottorappresentati nell’assistenza hospice. Nel 2001, l’82% dei pazienti hospice è stato di razza bianca, l’8% afro-americani, il 3% ispanici, il 2% è stato segnalato come “altro” e il 5% non è stato classificato43. Molti gruppi etnici hanno tradizioni famigliari forti e trovano supporto nel gruppo d’appartenenza, quando si trovano di fronte alla malattia e alla morte, mentre si solito i programmi di cure palliative riflettono i valori di una società bianca di classe media44. Lo psicologo Roland Barrett rileva come oltre a preferire il decesso in casa e le cure fornite dai familiari, per ragioni storiche, le persone di colore tendono a non avere fiducia nelle istituzioni sociali45. Le disuguaglianze nell’assistenza medica garantita a gruppi etnici e minoranze, sono ben documentate46; ad esempio, in caso di dolori gravi è poco probabile che i pazienti afroamericani e ispanici ricevano gli antidolorifici normalmente prescritti ai bianchi.

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Le ingiustizie storiche relative all’assistenza sanitaria rendono gli appartenenti a questi gruppi etnici sospettosi su scelte di fine vita bene accette per altri. Richard Payne, direttore del servizio di cure palliative al New York Memorial Sloan-Kettering Cancer Center rileva che: “È poco probabile che gli afro-americani lascino un testamento sulle cure di fine della vita, che ne parlino coi loro dottori o che partecipino a programmi hospice. Quando la morte è inevitabile e imminente, i neri chiedono due volte più dei bianchi i trattamenti per prolungare la vita, rendendo la morte un’esperienza terribile per loro e per le loro famiglie… Per quanto ho potuto vedere, molti pazienti afro-americani e altri gruppi minoritari sottoassistiti, tendono a considerare le cure palliative come un modo di “abbandonare la speranza”. Sospetto che la ragione di ciò sia il sospetto di molti afro-americani che, quando staranno per morire, i loro valori culturali e personali non saranno rispettati.”47

Man mano che l’hospice è stato regolamentato ha dovuto sfidare l’eccessiva burocratizzazione con il suo inevitabile portato di un’assistenza routinaria. All’inizio l’hospice è stato caratterizzato dall’entusiasmo dei pionieri che cercavano di diffondere servizi incompatibili con le situazioni mediche convenzionali. Sviluppandosi, l’hospice è diventato una struttura più formale, e ciò è stato considerato un mutamento necessario per poter offrire servizi affidabili. Inge Corless pone questo interrogativo: “con tutto il nostro zelo per l’hospice, le cure che offriamo non staranno diventando paternalistiche come le pratiche mediche che spesso critichiamo? Il paziente deve per forza aderire totalmente all’ideologia degli hospice per poterne ricevere i servizi? È necessario che tutti i clienti dell’hospice s’impegnino in un dialogo sulla morte? Da dove deriva la presunzione di avere sempre ragione noi?”48 Coloro che hanno familiarità con l’evoluzione dell’hospice, vi percepiscono un sottile cambiamento, dalla concezione ampia e tollerante, per cui lo scopo dell’assistenza consisteva nello sforzo di conseguire una “buona” morte, ad una concezione più prescrittiva per la quale lo scopo dell’assistenza sarebbe una morte “pacifica”49. I primi hospice potevano sperimentare approcci diversi nell’erogazione dei servizi mentre oggi, come osserva Corless “la politicizzazione del rimborso spese” sta portando a regole che ogni programma deve rispettare, se vuole ottenere l’accreditamento, con la conseguente necessità di “uniformarsi a standard che si basano su un modello unico di hospice”50. Se l’hospice è visto semplicemente come una delle varie opzioni presenti nel menù dell’assistenza terminale, è ancora possibile sostenere i suoi ideali e la sua dedizione ad una filosofia unica di assistenza al morente, a dispetto delle pastoie burocratiche? Un’altra sfida dei programmi hospice e di cure palliative è l’educazione del pubblico e dei professionisti dell’assistenza di fine vita. Ad esempio, i li-

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bri di testo per infermieri sono ancora pieni di lacune sulla morte, sul morire e sull’assistenza ai morenti e alle loro famiglie51. Se si vuole raggiungere l’obbiettivo di fornire assistenza di alta qualità ai morenti e alle famiglie, i professionisti non devono solo avere una formazione tecnica, ma devono anche imparare a confrontarsi con le proprie ansie sulla morte e il morire.52 Riflettendo sul futuro degli hospice, il pioniere di questi programmi William Lamers, suggerisce che, per vincere alcune di queste sfide, potrebbero essere necessarie nuove tipologie di assistenza hospice.53 Lamers delinea tre livelli di assistenza che potrebbero essere attuati in hospice: 1. L’assistenza hospice “tradizionale”, per le persone con una prognosi di breve durata (ad esempio per pazienti con un cancro incurabile in fase avanzata o avanzatissima); 2. L’assistenza hospice a “lungo termine”, per persone con una diagnosi indefinita, che non richiede terapie costose per migliorare la qualità della vita di un morire prolungato nel tempo (ad esempio per pazienti con malattie neurologiche croniche e incurabili, come l’Alzheimer o la sclerosi laterale amiotrofica); 3. L’assistenza hospice “high-tech”, ad alta tecnologia, per le persone che richiedono terapie costose per mantenere un ragionevole sollievo a fronte di una prognosi breve, ma incerta (ad esempio, per pazienti affetti da AIDS in stato avanzato). Nel commentare gli sviluppi della medicina palliativa, Richard Smith, editore del British Medical Journal, evidenzia che c’è qualcosa di paradossale nel creare una specialità per qualcosa di comune a tutti, e aggiunge che “il trend è ora chiedere per tutti ciò che è stato appreso dai medici che si dedicano alla medicina palliativa”54. La lezione appresa consiste nella consapevolezza che è importante gestire il dolore e la sofferenza, non solo negli hospice, ma in tutte le aree della pratica medica. Sviluppatasi nell’hospice e nelle cure palliative la cosiddetta “total care” (assistenza olistica o globale) è ora pronta per espandersi dal regno della terminalità all’assistenza sanitaria in generale.

L’assistenza nelle situazioni traumatiche e di emergenza Ogni anno, sono circa 100.000 gli americani che muoiono a causa delle conseguenze d’incidenti.55 Quasi la metà di questi vede coinvolti i veicoli a motore, l’altra metà, invece, comprende annegamenti, incendi e avvelenamenti. Gli esperti nel campo delle emergenze e dei traumi (i danni causati da

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una forza fisica) fanno riferimento ad una “golden hour” (un’ora aurea) susseguente al danno o all’incidente, nella quale sono particolarmente critici i primi quindici minuti. In questa fase può esserci bisogno di un intervento chirurgico immediato, spesso per fermare le emorragie interne, e chi riceve le cure appropriate in questo lasso di tempo ha il 90% di possibilità di sopravvivenza.56 La moderna medicina d’emergenza e l’assistenza nelle situazioni traumatiche si possono far risalire al periodo della Guerra Civile americana, quando il maggiore dell’esercito John Letterman sviluppò il sistema del “triage” per gestire gli interventi sui feriti. Per ridurre il tempo intercorrente tra l’incidente e l’intervento assistenziale, si usa il “triage”, assegnando ai pazienti un livello di priorità d’intervento stabilito in base alla gravità del danno subito. La priorità maggiore è assegnata ai pazienti con ferite molto serie, ma che possono sopravvivere. La priorità più bassa è assegnata ai pazienti che hanno solo una remota possibilità di sopravvivenza e a quelli con danni relativamente minori. Molte delle procedure d’uso comune nel pronto soccorso derivano proprio dalle tecniche usate dai militari sui campi di battaglia. Tra queste tecniche si includono l’elisoccorso, le tecniche di chirurgia e di ortopedia di squadra e i vari trattamenti per ustioni e shock. Le prime cure moderne dei traumi furono avviate nel 1966 da Robert Freeark al Cook County Hospital di Chicago. Nel 1969, Adams Cowley creò un sistema integrato di cura dei traumi unito al pronto soccorso, con la collaborazione fra la Polizia di Stato del Maryland e l’Istituto per i servizi medici di pronto soccorso per creare il primo programma di elisoccorso. Il primo ospedale provvisto di elisoccorso fu inaugurato nel 1972 al Saint Anthony Hospital di Denver. Pensate al dramma e alla tensione estrema di dover fronteggiare situazioni di vita o di morte in un pronto soccorso. Per dirla con le parole del dirigente del personale sanitario di un pronto soccorso: “Nei momenti tranquilli magari stai lì seduto tanto che quasi ti addormenti, poi improvvisamente succede tutto in una volta, perché c’è appena stato un incidente con cinque auto”. Gli interventi devono essere rapidi ed efficienti, se si vogliono salvare delle vite. Per alcuni operatori la pressione del pronto soccorso è insopportabile, a differenza di quanto avviene in molti altri reparti, nei quali il ritmo dell’assistenza ai pazienti non è molto stressante. Altri operatori, invece, sono appagati professionalmente proprio dalla partecipazione a situazioni nelle quali le loro abilità devono entrare in gioco velocemente per salvare delle vite. I pazienti traumatizzati sono spesso in stato comatoso o confusionale per lo shock, il personale del Pronto Soccorso deve prendere delle decisioni che possono fare la differenza fra la vita e la morte, anche in presenza di reazioni

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scarse o nulle da parte dei pazienti. Coloro che sopravvivono sono trasportati ai reparti di cura intensiva (rianimazione) e può accadere che gli operatori, che tanto coscientemente si sono dati da fare per salvar loro la vita, non li rivedano più. Quando un paziente muore gli operatori del Pronto Soccorso devono affrontare il compito di comunicare la cattiva notizia ai familiari: il modo in cui tale notizia viene comunicata resta loro impresso e, se gestito male, può causare profonde ferite emotive.57 In genere, è un medico a comunicare la morte di un paziente, magari affiancato da qualche altro membro del personale. Il modo ideale di comunicare la morte del paziente dovrebbe essere al tempo stesso caratterizzato dalla sincerità e dalla compassione. L’idea che ogni paziente può essere salvato rappresenta uno scopo nobile, ma non è realistica nel contesto delle cure d’emergenza. Anche gli operatori rischiano di essere profondamente sconvolti, quando le circostanze in cui è avvenuto un decesso provocano angosce per la propria morte, o quando la situazione è eccezionalmente tragica come, ad esempio, può essere la morte di un bambino o di una famiglia in un incidente d’auto alla vigilia di Natale.

Lo stress di coloro che assistono I professionisti dell’assistenza sanitaria (medici, infermieri, ecc.) lavorano in ambienti nei quali la morte è presente più che in qualsiasi altra occupazione.58 Questa osservazione vale anche per il personale di primo intervento e del pronto soccorso, i paramedici, il personale di ricerca e soccorso, i vigili del fuoco o il personale di polizia che arrivano sulla scena dell’incidente o del disastro nelle fasi iniziali.59 L’impatto di un lavoro in ambienti saturi di morte è evidente sui volti del personale di soccorso, dopo una grande catastrofe. Anche se i professionisti che si prendono cura dei malati gravi e dei morenti e che sono più esposti alla morte rispetto ad altri, hanno più familiarità con essa, una tale vicinanza è sempre stressante. Le principali fonti di stress per il personale di assistenza sono: il senso di inadeguatezza, il dare senza ricevere e le troppe richieste. Le situazioni peggiori sono quelle in cui ci si sente disperati e impotenti rispetto a ciò che accade. L’incapacità di intervenire efficacemente può essere percepita come un’incapacità di fornire un’assistenza adeguata. Assistere pazienti con un dolore non trattabile o con paura di morire, incrementa lo stress di chi assiste.60 Quando il paziente muore ci si può chiedere se c’era qualcos’altro da fare e sperimentare il dubbio atroce: cosa sarebbe accaduto se avessi fatto un’altra cosa? Negli ospedali gli infermieri hanno solitamente con i pazienti, un contatto

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maggiore di quanto non abbiano i medici, ma hanno sempre di più compiti burocratici e passano più tempo alla scrivania che al capezzale dei pazienti. Come ha detto un medico: “abbiamo svalutato gli infermieri trasformandoli in registratori di dati e abbiamo svalutato i pazienti che hanno bisogno e che meritano le attenzioni degli infermieri.”61 I cambiamenti che la modernità ha introdotto nella gestione dell’assistenza sanitaria, diventano così un ulteriore fonte di stress per gli operatori sanitari. Le problematiche dello stress del personale d’assistenza fanno sorgere spontanea la domanda: in quale misura un medico, un infermiere o una qualsiasi altra figura professionale dovrebbe assistere un paziente? Se assistere significa “guarire”, queste persone sono più vulnerabili di fronte al fallimento rappresentato dalla morte di un paziente.62 Se chi assiste conosce bene il paziente è probabile che alla sua morte si sentirà in lutto. Lavorando tutti i giorni a contatto con malati gravi o morenti, essi possono essere logorati dal cordoglio e tentati di rifugiarsi nella routine per alleviare lo stress. Sono necessarie strategie più costruttive, per affrontare tali situazioni al fine di evitare quello stato di esaurimento emotivo, conosciuto come “burnout” e che consiste nella perdita di interesse per il lavoro e per i pazienti. Per mantenere l’empatia con i pazienti, il personale ha quindi bisogno di modalità efficaci per ricaricarsi. Affrontare lo stress della cura ai malati gravi o morenti, richiede un ambiente cooperativo, nel quale, i membri del personale, possano discutere apertamente della morte. Ciò si può mettere in pratica incoraggiando il personale a riunirsi regolarmente, per discutere dei propri sentimenti e delle problematiche che emergono nel proprio lavoro. Il supporto sociale è un antidoto allo stress più grave. Nelle case di cura, la rotazione dei turni è tale che, quando la morte di un paziente è imminente, qualcuno del personale resta vicino al paziente quasi tutto il tempo. La famiglia viene avvisata e, se lo si vuole, si manda a chiamare un prete. Se il paziente ha tutti i parenti che vivono lontano, il personale offre assistenza anche per l’organizzazione del funerale e per il trattamento della salma (tumulazione o cremazione). Al personale sanitario che aveva rapporti con il paziente, verrà dato un permesso per assistere alla cerimonia funebre, se lo desidera. Altri pazienti che conoscevano il defunto e manifestavano interesse per la sua vicenda saranno informati del suo decesso. Dopo la morte di un paziente, tutti quelli che l’hanno assistito in qualche modo (infermieri, inservienti, dietisti, etc.) si riuniranno per condividere le loro reazioni alla malattia e alla morte del paziente. In tal modo, quando il personale sanitario e l’istituzione riconoscono che “prendersi cura di quelli che curano” è fondamentale per garantire ai pazienti un’assistenza empatica, diventa più facile escogitare e praticare modalità positive per affrontare lo stress.

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L’accompagnamento del morente Le persone si sentono spesso a disagio di fronte a qualcuno a cui è stata diagnosticata una malattia potenzialmente mortale. Che cosa possiamo dirgli? Come dovremmo comportarci? Qualsiasi cosa si possa pensare di fare per esprimere i propri sentimenti, ci sembra un’insulsaggine e può esserci la tentazione di sottrarsi alla comunicazione. Il disagio e l’incertezza possono manifestarsi attraverso un’eccessiva simpatia, ma anche con un esitare eccessivo. Come antidoto a tali reazioni, è utile ricordarsi che l’essenza del lavoro di chi assiste, sta nel lasciare l’agenda personale fuori dalla porta ed essere presenti per qualsiasi necessità del paziente. Charles Garfield dice che una delle principali abilità di chi assiste un malato grave è sapere quando incoraggiarlo a lottare per la vita e quando, invece, accompagnarlo alle soglie della morte.63 La ricapitolazione della vita, strumento usato nel counseling con le persone anziane, consente spesso di discutere le questioni che preoccupano le persone, quando si trovano di fronte alla morte. Ripercorrere il corso della propria vita può dare a una persona la forza di fare le scelte che ritiene importanti per completare l’ultimo capitolo dell’esistenza.64 Rivisitare relazioni ed eventi del passato, dà alla persona l’opportunità di completare ciò che è ancora incompiuto. Spesso, l’unica cosa che importa fare quando si sta vicino ad una persona morente è stare seduti ad ascoltare le storie che racconta. Parlando ai volontari del Zen Hospice Project di San Francisco, Tenish Reb Anderson ha indicato questo compito così: “State vicino e non fate nulla”.65 Stare accanto a qualcuno seriamente malato o morente, ci porta a confrontarci con la nostra stessa mortalità. Possiamo apprezzare quanto la vita sia preziosa e incerta, e ci sono poche altre opportunità nella vita per essere così vulnerabili a quegli aspetti di noi stessi che vengono tenuti abitualmente nascosti. Nel descrivere la malattia e la morte della propria madre, Janmarie Silvera ne parla come il fiorire di una “immensa, luminosa luna piena” attraverso la finestra di un ospedale, che diventò un’occasione di “meraviglia”, un momento d’intimità, rivelatore della vita e della morte.66

Letture di approfondimento Daniel Callahan, What Kind, o f Life: The Limits of Medical Progress. New York: Simon & Schuster, 1990. Stephen R. Connor, Hospice: Practice, Pitfalls, Promise. Washington, D.C.: Taylor & Francis, 1998. Marilyn 1. Field and Christine K. Cassel, eds. Approaching Death: Improving Care at the End of Life. Washington, D.C.: National Academy Press, 1997.

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Frank Huyler. The Blood of Strangers: Stories from Emergeny Medicine. Berkeley: University of California Press, 1999. Marcia Lattanzi - Licht, John J. Mahoney, and Galen W. Miller. The Hospice Choice: In Pursuit of a Peaceful Death. New York: Fireside, 1998. Fiona Randall and R. S. Downie, Palliative Care Ethics: A Good Companion. New York: Oxford University Press, 1996. Michael Rowe. The Book of Jesse: A Story of Youth, Illness, and Medicine. Washington, D.C.: Francis Press, 2002. Cicely Saunders and Robert Kastenbaum, Hospice Care on the International Scene. New York: Springer, 1997. Carolyn L. Wiener and Anselm L. Strauss, eds. Where Medicine Fails, 5th ed. New Brunswick, N .J.: Transaction, 1997.

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Capitolo 5

LA MORTE NELLE POLITICHE SOCIALI

La società ha un naturale interesse per il modo in cui si organizza il sistema sanitario allo scopo di provvedere alle necessità dei cittadini; essa è anche intrinsecamente portata a riflettere su tutto ciò che nelle politiche sociali ha a che fare con la morte. Si tratta di un “insieme complesso” che comprende le procedure per definire legalmente la morte e per accertarla, le norme che regolano la donazione e il trapianto d’organi, le classificazioni dei modi di morire secondo categorie socialmente utili, la maniera in cui il personale investigativo e i medici legali svolgono le loro indagini e i criteri d’esecuzione delle autopsie. Tutti questi aspetti a volte sono interconnessi e s’influenzano a vicenda; ad esempio, quando le tecnologie mediche moderne hanno reso possibile il trapianto d’organi è stato necessario creare nuove procedure legali e amministrative per la definizione della morte. Robert Kastenbaum definisce death system l’insieme dei fattori sociali che vanno ad influire sul modo in cui le persone si rapportano alla morte e al morire: “Il death system può essere concepito come quella rete di fattori interpersonali, fisico-sociali e simbolici, con i quali la società media la relazione dei suoi singoli membri con la mortalità”1. Secondo Kastenbaum i componenti del death system sono: – persone (gli impresari di pompe funebri, gli operatori delle agenzie d’assicurazione sulla vita, i progettisti d’armi, i gestori di mattatoi, ma anche coloro che assistono i morenti); – luoghi (i cimiteri, le camere mortuarie, i campi di battaglia, i monumenti alla memoria dei caduti in guerra, i siti di disastri); – tempi (le ricorrenze commemorative, le festività religiose come il venerdì santo, gli anniversari di battaglie importanti, Halloween); – oggetti: (i necrologi, le lapidi, i carri funebri, la sedia elettrica); – simboli (le fasce di lutto al braccio, le musiche per le cerimonie funebri, l’immagine del teschio con le ossa incrociate, il linguaggio usato per riferirsi alla morte). All’interno di una medesima società, il funzionamento del death system varia secondo le epoche storiche; tra le funzioni che esso esplica si possono elencare:

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1. Avvertire e prevedere la possibilità del verificarsi d’eventi potenzialmente mortali (come tempeste, tornado e altre calamità naturali, ma anche avvertimenti ai singoli individui quali i commenti dei dottori ai risultati delle analisi o le indicazioni del meccanico sull’usura dei freni delle automobili); 2. Prevenire la morte (ad esempio tramite l’assistenza medica nelle emergenze, le iniziative pubbliche sulla salute o le campagne antifumo); 3. Assistere i morenti (negli hospice, con l’assistenza domiciliare, attraverso gli operatori del pronto soccorso o con l’assistenza di un familiare); 4. Occuparsi delle salme dei defunti (con i funerali e con le cerimonie funebri, scegliendo i lotti cimiteriali, organizzando commemorazioni, identificando i corpi in occasione di disastri); 5. Consolidare i legami sociali dopo la morte (affrontando il dolore del lutto e del cordoglio, mantenendo i legami comunitari, gestendo i beni lasciati in eredità); 6. Dare un senso alla morte (con le spiegazioni religiose o scientifiche, con i gruppi di supporto, con la poesia o la letteratura di consolazione, con il ricordo delle ultime parole pronunciate dal defunto); 7. Legittimare le uccisioni (come la pena di morte, le guerre, la caccia o la commercializzazione degli animali). Si possono notare, in pratica, numerose interconnessioni e influenze reciproche tra queste funzioni. Questo breve elenco dovrebbe rendere l’idea che, in effetti, gli elementi del death system toccano virtualmente ogni aspetto della vita sociale e individuale, come si potrà evincere dagli esempi che si esamineranno nel presente capitolo.

Definire la morte La definizione di morte può sembrare, in un primo momento, molto scontata: una persona muore, è morta e si dispone del suo cadavere. Ma non appena ci si chiede: “che cosa si intende con l’espressione una persona muore?” ecco che la spiegazione che sembrava così ovvia non è più sufficiente: occorre approfondirla, e così la ricerca di una definizione affidabile della morte e di quando accade diventa immediatamente più complessa. Si provi a pensare come si potrebbe definire la morte: quand’è che ci si potrebbe considerare morti? Come si potrebbe riconoscere la morte di un’altra persona? Le risposte a queste domande variano dentro una gamma che va da considerazioni oggettive e definite (quando avanzano decadimento e putrefazione) ad altre d’ordine più soggettivo e meno definito (quando non riuscirò più a badare a me stesso). Chi si basa sul primo approccio per arrivare alla consta-

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Figura 5-1. Strumento “Suona campanello” per bare. Per prevenire il seppellimento prematuro in caso di morte dubbia, sono stati inventati e brevettati strumenti come questa bara “salvavita” francese. Se attivata, la scatola posta sopra il terreno si apriva per lasciare entrare l’aria e la luce, la bandiera si alzava, suonava un campanello e si accendeva una luce per segnalare che la persona seppellita era ancora viva. La persona che era stata erroneamente considerata morta poteva anche gridare, e la sua voce veniva amplificata dallo strumento. Il timore di essere seppelliti vivi ebbe origine nel periodo delle grandi pestilenze ed epidemie quando, nella fretta di disfarsi dei corpi infetti, poteva capitare una erronea determinazione di morte in base a stati di malattia che erano solo simili alla morte.

tazione della morte, difficilmente sarebbe contento di sapere che la constatazione della sua morte sarà fatta da qualcuno che condivide il secondo approccio. Il sopraggiungere della morte può essere causato da un estremo rallentamento delle funzioni vitali o dello stato di coscienza, anche se, in realtà, ci sono testimonianze storiche di persone considerate decedute e che, invece, erano solo in uno stato di morte apparente. Per difendersi dalla minaccia d’essere sepolti vivi, in passato c’è stato chi dava indicazioni sulla disposizione di mettere nella bara campane o altri dispositivi per attirare l’attenzione

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che il “cadavere” poteva attivare dopo la sepoltura, nel caso di un ritorno di coscienza in seguito ad un’erronea constatazione della morte. (vedi fig. 5-1) Il modo attuale di affrontare il problema della definizione della morte è, sicuramente, più sofisticato ed è basato su criteri scientifici. Tuttavia, anche se la presenza di certi segni di cessazione della vita rende possibile la constatazione dell’effettivo stato di morte, questi segni possono essere interpretati in maniera diversa a seconda di come si definisce la morte stessa. In altre parole, il modo nel quale definiamo la morte, determina i criteri che usiamo per accertare che una persona sia morta. Nel processo che ci conduce a prendere decisioni sul decesso di un essere umano, si possono distinguere cinque fasi.2 1. Stabilire una comprensione concettuale di ciò costituisce la morte – ovvero formulare una definizione di morte; 2. Decidere i criteri e le procedure che saranno usate per la constatazione della morte; 3. Applicare tali criteri e tali procedure ai singoli casi per determinare se le condizioni di un soggetto corrispondono ai criteri stabiliti; 4. Se c’è corrispondenza ai criteri, allora la persona è dichiarata morta; 5. Attestare la morte della persona con un certificato di morte. Segni convenzionali di morte e nuove tecnologie Storicamente, l’accertamento della morte è stato fatto basandosi sull’assenza del battito cardiaco e del respiro, e tuttora molti decessi sono constatati in questo modo. Tuttavia, da quando si usano sistemi di supporto, come i respiratori, per tenere in vita una persona e sostenerne artificialmente i processi fisiologici fondamentali, i criteri convenzionali sono diventati inadeguati. Riferendosi ai convenzionali segni vitali (battito cardiaco e respiro), un paziente con una perdita permanente delle funzioni cerebrali complessive, inclusa la perdita del tronco cerebrale, potrebbe essere ritenuto vivo anche se le funzioni cardio-respiratorie sono mantenute attive artificialmente. È per questo che è stato stabilito il concetto di “morte cerebrale” come condizione per determinare se una persona è viva o morta, quando i segni vitali convenzionali sono ambigui, perché mantenuti artificialmente. Quando avviene la morte cerebrale, si perdono le funzioni del tronco cerebrale, inclusa la respirazione naturale, anche se il battito cardiaco e altre funzioni vegetative collegate all’omeostasi interna possono permanere attive perché non completamente dipendenti dall’integrità del tronco cerebrale3. Più che sostituire i criteri clinici convenzionali per la constatazione della

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morte (il polso, il battito cardiaco e la respirazione), il criterio della morte cerebrale li affianca. Rispetto alla morte clinica, che si determina sia con la cessazione del battito cardiaco o della respirazione oppure con il criterio della morte cerebrale, la morte cellulare si riferisce al processo graduale che s’instaura quando la morte clinica è ormai avvenuta. Quando, infatti, le pulsazioni cardiache e la respirazione s’interrompono anche temporaneamente, come succede, ad esempio, in alcune operazioni chirurgiche, si usa dire che la persona è “clinicamente morta” per un certo tempo. Tuttavia, tale linguaggio tende ad essere impreciso e inaffidabile nei casi in cui la cessazione delle funzioni vitali sia reversibile. La morte cellulare comporta il collasso dei processi metabolici e sfocia in una completa assenza di funzionalità. Per vivere, le cellule hanno bisogno di un continuo impulso d’energia, senza di esso si degradano fino a divenire un agglomerato non-vivente di molecole. La morte cellulare è un processo irreversibile di deterioramento dei sistemi e degli organi del corpo. Le cellule, private d’ossigeno, variano nel loro potenziale di sopravvivenza: quelle epiteliali e dei tessuti connettivi possono sopravvivere per parecchie ore, i neuroni del cervello, invece, muoiono in cinque, otto minuti. Quando si verifica una perdita di neuroni nel mesencefalo e nel midollo, il centro cerebrale che controlla la respirazione viene distrutto; quando muoiono i neuroni della corteccia cerebrale, invece, vengono distrutte le capacità intellettuali. Il collasso dei processi metabolici, la cui somma è la vita stessa, causa quella perdita delle funzioni vitali, che caratterizza, appunto, la morte. Mentre le cellule e i tessuti del corpo deperiscono, si fanno sempre più evidenti i segni di morte: la mancanza dei riflessi oculari, l’abbassamento della temperatura corporea (algor mortis), la colorazione violacea del corpo in corrispondenza con l’arresto della circolazione (livor mortis) e la rigidità dei muscoli (rigor mortis). La morte può essere biologicamente definita, come la cessazione della vita, dovuta a irreversibili mutamenti del metabolismo cellulare. Le tecnologie mediche rendono possibile la manipolazione del processo del morire in modo che, mentre alcune parti del corpo smettono di funzionare, altre sono mantenute attive con mezzi artificiali. In questo modo, la morte cellulare può incidere su alcuni organi, causandone un collasso irreversibile, mentre altri organi stanno ancora funzionando. La capacità della tecnologia moderna di alterare la sequenza naturale e il processo della morte cellulare, ha reso indispensabile un ripensamento della definizione di morte e l’istituzione di nuove procedure per accertare quando la morte è realmente avvenuta.

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Criteri teorici ed empirici Che cos’è la morte? Come si può accertare che una persona è morta? Queste domande, anche se strettamente connesse, implicano questioni separate e distinte. Robert Veatch individua quattro livelli ai quali dobbiamo riferirci, indagando sulla definizione e sulla constatazione della morte.4 Il primo livello consiste nel definire formalmente la morte. Essenzialmente, si tratta di un quesito teorico e filosofico. Secondo Veatch: “Morte significa un completo cambiamento di stato di un’entità vivente, cambiamento caratterizzato dalla perdita irreversibile di quelle caratteristiche che le sono essenziali.” Anche se questa definizione può sembrare alquanto astratta, ad una prima lettura, essa è, in realtà, molto precisa: è valida non solo per la morte degli esseri umani, ma anche per quella degli animali, delle piante, delle cellule e può essere, di fatto, concepita metaforicamente come applicabile a fenomeni sociali quali l’organizzazione della società o della cultura. Per addentrarci meglio nella comprensione di questa definizione, è necessario avvalerci del secondo livello d’indagine di Veatch, che si presenta ancora come una domanda teorica e filosofica: che cos’è che caratterizza la vita in modo tanto essenziale che la sua perdita è definita “morte”? Tra le risposte possibili troviamo: la circolazione dei “fluidi” corporei (come l’aria e il sangue, ad esempio), l’anima e, in definizioni più recenti, la coscienza. Il terzo livello individuato da Veatch ha a che fare con il locus della morte: in quale luogo preciso dell’organismo si deve guardare per rilevare che la morte sia avvenuta? Questa domanda ci fa passare dall’ambito teorico a quello dell’indagine empirica, ovvero quello basato sull’osservazione e sull’esperienza. Si noti, comunque, che la risposta ad una simile domanda dipende dal tipo di concezione teorica che si usa per definire la morte. Il quarto livello di Veatch riguarda la seguente domanda: quali test tecnici si devono fare sul locus della morte per determinare se un organismo è vivo o morto? Ripercorriamo i quattro livelli d’indagine: il primo stadio implica il definire formalmente la morte; il secondo stadio aggiunge elementi alla definizione, mettendo in evidenza la differenza significativa tra vita e morte; il terzo stadio individua dove si dovrebbe guardare per rilevare segni di cambiamenti significativi; il quarto stadio offre alcuni test, o una serie di criteri, che si possono usare per determinare se un organismo è vivo o morto. Tenendo a mente questo processo, abbiamo ora gli strumenti adatti per esaminare quattro diversi approcci alla definizione e alla constatazione di morte.

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Quattro approcci alla definizione e constatazione di morte Tutti i seguenti approcci per definire e constatare la morte prendono avvio dalla definizione formale data da Veatch, prima ricordata: “Morte significa un cambiamento completo nello stato di un’entità vivente ed è caratterizzato dalla perdita irreversibile di quelle caratteristiche che le sono essenziali.” A partire dalla condivisione di tale base di partenza, ogni approccio avanza nei vari stadi dell’indagine in maniera specifica. Come si potrà vedere, ognuno di questi approcci collega la morte ad una perdita: il primo a quella della circolazione dei fluidi vitali, il secondo al distacco dell’anima dal corpo, il terzo a quella della capacità dell’integrazione corporea, il quarto alla perdita della capacità d’interazione sociale. Tenendo conto degli aspetti positivi dei vari approcci, si noti come la constatazione della morte dipenda dalla definizione che se ne dà. Perdita irreversibile della circolazione dei fluidi vitali Il primo approccio è centrato sulla cessazione della circolazione dei fluidi vitali. Per questo tipo di concezione della morte, per stabilire il locus della morte, bisogna guardare il cuore, i vasi sanguigni, i polmoni e l’apparato respiratorio. Per determinare se un individuo è vivo o morto, si osserverà, dunque, la respirazione, si sentirà il polso e si ausculterà il battito cardiaco. Oltre a questi test tradizionali, potemmo includere metodi moderni quali l’elettrocardiogramma e la misurazione diretta dei livelli dell’ossigeno e del diossido di carbonio nel sangue, in quanto metodi focalizzati sui medesimi loci di constatazione della morte. Questo approccio per definire la morte, anche ai giorni nostri, è appropriato per accertarla nella maggior parte dei casi. È quando le funzioni vitali sono sostenute artificialmente dalle macchine che questa definizione rende impossibile qualsiasi chiara constatazione di morte. Si consideri, ad esempio, la situazione di un paziente attaccato ad una macchina cuore-polmone che mantiene attivi i fluidi vitali sanguigni e la respirazione: secondo la definizione presa in esame, il paziente è vivo. Ma mettiamo il caso che il paziente sia staccato dalle macchine, e le funzioni vitali cedano, allora, sempre stando a questa definizione, il paziente sarebbe morto. Ancora, durante le operazioni a cuore aperto, questi sistemi circolatori sono interrotti; secondo la definizione che stiamo esaminando, il paziente si può considerare clinicamente morto; ma poiché una tale cessazione temporanea fa semplicemente parte dell’operazione chirurgica, si sa che il paziente non è morto. Risulta evidente che l’ambiguità del primo approccio è determinata dal fatto che esso definisce la morte sulla base di criteri fisiologici, i quali, nonostante siano intimamente connessi ai processi della vita, non paiono poter essere considerati i criteri più efficaci per identificare la vita umana.

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Distacco irreversibile dell’anima dal corpo Il secondo approccio alla definizione della morte, usato in molte culture di tutto il mondo e da tempo immemorabile, è il criterio della presenza o assenza, nel corpo, dell’anima. In tale quadro di riferimento, fintanto che l’anima è presente, la persona è viva, quando, invece, l’anima lascia il corpo, la persona muore. In effetti, ci sono religioni che definiscono la morte esattamente in questo modo: il Libro tibetano dei Morti, ad esempio, presenta l’ottica di una vita che termina passando attraverso stadi graduali, da uno stadio di vita a ciò che chiamiamo morte; simili punti di vista possono essere trovati anche nella teologia cristiana e in altre tradizioni. Questa seconda definizione teorica della morte, dunque, implica il distacco irreversibile dell’anima dal corpo. L’esatta collocazione dell’anima all’interno del corpo non è ancora stata stabilita scientificamente (né tanto meno la sua esistenza), anche se alcuni credono che essa sia collegata al respiro o al cuore o, forse ancora, come sosteneva il filosofo del XVII secolo Descartes, alla ghiandola pineale, una piccola protuberanza cerebrale. Per coloro che sostengono questa teoria, i criteri per determinare la morte implicherebbero, presumibilmente, alcuni mezzi per accertare la morte, nel luogo nel quale si crede l’anima abbia sede. Ad esempio, se si crede che l’anima coincida con il respiro, allora l’assenza di respirazione indicherebbe quella dell’anima e, di conseguenza, si arriverebbe alla constatazione della morte. Durante uno studio svoltosi nel 1907, delle persone in punto di morte venivano collocate su una bilancia di precisione per capire se, al momento della morte, si verificava una perdita di peso: i ricercatori notarono una diminuzione variabile da 1 a 2 once, equivalenti a circa 28 e 56 grammi, il che condusse a speculazioni circa il fatto che tale risultato indicasse la dipartita dell’anima dal corpo al sopraggiungere della morte.5 Per la maggior parte delle persone che vivono in società moderne, nelle quali predominano convinzioni di stampo laico, questo approccio sembra del tutto irrilevante. La prima difficoltà, poi, sarebbe quella di definire appropriatamente l’anima; ma anche nel caso in cui si riuscisse a superare tale difficoltà, si avrebbe bisogno di mezzi per accertare se l’anima era effettivamente presente o assente in un momento esatto. Questa definizione di morte, inoltre, conduce inevitabilmente a riflettere se è vero che la morte sopraggiunge perché l’anima lascia il corpo o, al contrario, se l’anima lascia il corpo perché è sopraggiunta la morte. In altre parole: è l’anima ad “animare” il corpo, dandogli vita, o sono, invece, i processi fisiologici di vitalità del corpo che offrono una sede all’anima? Queste domande ci potrebbero condurre ad affascinanti speculazioni, ma servirebbero poco o niente per risolvere i dilemmi che la pratica medica pone in un’epoca scientifica.

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Perdita irreversibile della capacità di integrazione corporea Nel terzo approccio, la morte è definita come perdita irreversibile della capacità di integrazione corporea. Questo approccio è più sofisticato del primo, poiché prende in considerazione non solo i segni convenzionali di vitalità presenti nel corpo (il fluire del respiro e del sangue), ma anche la più generalizzata capacità del corpo di regolare il suo stesso funzionamento. Tale approccio, riconosce il fatto che ogni essere umano è un organismo integrato, dotato di capacità di regolamentazione interna attraverso complessi meccanismi omeostatici di feedback. Questa definizione risolve, almeno in parte, l’ambiguità della prima definizione, che non basterebbe per fare una constatazione della morte, quando le funzioni vitali sono mantenute attive artificialmente. Nel terzo approccio, si dirà che la morte interviene e deve essere accertata quando l’organismo non è più in grado di mantenere l’integrazione corporea. Tale approccio considera il sistema nervoso centrale, più precisamente il cervello, come luogo deputato per la determinazione della morte. La constatazione di morte, che deriva da tale definizione è conosciuta come “morte cerebrale” (anche se questo termine è potenzialmente equivoco, poiché concentra l’attenzione sulla morte di una parte dell’organismo e non sull’organismo nel suo insieme). Secondo i parametri pubblicati nel 1968 dal comitato scientifico appositamente costituito presso la Harvard Medical School, con il fine di esaminare la definizione di morte cerebrale, per stabilirla bisogna rispettare quattro criteri essenziali: 1. Mancanza di ricettività e risposta agli stimoli esterni; 2. Assenza di movimenti muscolari e di respirazione spontanei; 3. Assenza di riflessi osservabili, inclusi quelli cerebrali e spinali; 4. Assenza d’attività cerebrale, segnalata da un elettroencefalogramma (ECG) piatto. I criteri di Harvard richiedono l’effettuazione di una seconda serie di test a ventiquattro ore di distanza, escludendo i casi di ipotermia (temperatura corporea al di sotto dei 32° Centigradi) e di situazioni nelle quali si rilevi la presenza di inibitori del sistema nervoso centrale come i barbiturici. Le procedure per applicare tali criteri, conosciuti anche come la definizione di morte “Whole-Brain” (cioè basata sulla valutazione della funzionalità cerebrale nella sua interezza), sono stati largamente adottati per i casi nei quali i mezzi convenzionali di constatazione della morte non risultano determinanti. Alcuni medici e alcuni esperti di bioetica ritengono che i test clinici attualmente in uso per determinare la morte cerebrale non soddisfino realmente tutti i criteri; nello specifico, alcuni individui cui era stato diagnosticato lo stato di morte cerebrale, secondo i test standard, presentavano, in real-

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tà, diversi gradi e tipologie di funzione cerebrale. Questi risultati suggeriscono che i test non sempre sono sufficienti per stabilire la “cessazione permanente del funzionamento dell’intero cervello.” La conclusione è che alcuni esperti sono a favore di un ritorno ad una definizione di morte basata su criteri cardiorespiratori.6 Mentre il dibattito è ancora in corso, è ovvio che il semplice abbandono degli attuali metodi di determinazione della morte cerebrale, potrebbe creare dei problemi perché, a meno che non compaia un metodo più accurato ed affidabile per determinare la morte, la pratica della donazione degli organi e dei trapianti si potrebbero configurare come una sorta di uccisione legalmente perseguibile. Perdita irreversibile della coscienza e della capacità di interazione sociale Anche se i criteri di Harvard sono ampiamente diffusi e accettati in ambienti clinici, alcuni credono che essi non riescano a specificare che cosa sia significativo per la vita umana. Veatch, ad esempio, sostiene che siano le più elevate funzioni cerebrali, e non la semplice rete di riflessi che regolano processi fisiologici come la pressione sanguigna e la respirazione, a definire le caratteristiche essenziali di un essere umano. Ecco, così, che il quarto approccio alla definizione di morte, pone l’enfasi sulla “capacità” di coscienza e d’interazione sociale. La premessa di questo approccio è che, affinché una persona sia veramente umana, è necessario non solo il funzionamento di certi processi biologici, ma anche la presenza delle dimensioni sociali della vita, ovvero la coscienza e la personalità. Essere vivi, quindi, implica la capacità di intrattenere interazioni consapevoli con il proprio ambiente e con gli altri esseri umani. Di conseguenza, secondo questa definizione, la morte è determinata dalla perdita irreversibile della capacità d’interazione sociale. La morte di una persona corrisponde alla morte di un essere umano. Con questo approccio, dove si dovrebbe guardare per determinare se un individuo è vivo o morto? Vi sono alcune prove scientifiche che il luogo adatto a questo scopo risiede nella neocorteccia, la superficie esterna del cervello, nella quale sono localizzati i processi neurologici essenziali al determinarsi della coscienza e della capacità d’interazione sociale. In questo caso, il solo elettroencefalogramma (ECG) sarebbe in grado di fornire una misura sufficiente per constatare la morte. Nell’ambito del dibattito sul come si dovrebbe definire la morte, questo quarto approccio è conosciuto come la teoria dello “higher-brain” (cervello superiore) che contrasta con quella del “whole-brain” (cervello integrale) sostenuta, invece, da coloro che definiscono la morte come la perdita irreversibile delle funzioni dell’organismo nel suo complesso. Karen Gervais dà una definizione dell’approccio “higher-brain” quando dice: “È la perdita di coscienza e non la perdita del funzionamento biologico che dovrebbe determi-

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nare quando la vita umana è finita.”7 E aggiunge: “Dando enfasi al ruolo integrante del cervello nell’organismo umano, la teoria della morte “wholebrain” si riduce ad una teoria della morte “lower-brain” (cervello inferiore). Commentando la ricerca per una definizione più precisa della morte umana, Gervais conclude che ci dobbiamo confrontare con una scelta cruciale sulla definizione della vita umana, ovvero se consideriamo un essere umano come un organismo o come una persona. Robert Veatch osserva che l’attuale definizione di morte, quella basata sulla teoria del “whole-brain” (cervello integrale), fissa una visione di ciò che è essenziale per essere vivi che non è, in ogni caso, condivisa da tutti i gruppi etnici o religiosi.8 Ciò conduce ai problemi delle società pluraliste, che comprendono diversi valori e diversi punti di vista. Veatch obietta che, invece di imporre un unico approccio per definire la morte, coloro le cui convinzioni sulla definizione di morte di un essere umano sono in conflitto con la teoria del “whole-brain” (cervello integrale) espressa nei criteri di Harvard, dovrebbero poter avere il diritto di “optare per il non consenso”. Nonostante questi criteri abbiano fatto parte della pratica medica per oltre tre decenni, è chiaro che non ci sono ancora risposte esaurienti alle domande su come la morte dovrebbe essere definita. La legislazione sulla definizione della morte La definizione della morte tocca molti aspetti della nostra vita. La persecuzione dei crimini, i lasciti ereditari, le tasse, il trattamento della salma e l’elaborazione del lutto sono tutti influenzati dal modo in cui la società “traccia il confine tra la vita e la morte”9. Dopo la pubblicazione dei criteri per stabilire la morte cerebrale proposta dal Harvard Medical School Ad Hoc Commitee nel 1968, ebbe l’avvio una discussione pubblica sul bisogno di rivedere la definizione legale della morte che riflettesse al meglio le realtà mediche. Nel 1970, negli Stati Uniti, il Kansas fu il primo stato ad adottare uno statuto che includeva i criteri cerebrali per la determinazione della morte, in seguito, vi furono altri Stati che adottarono leggi simili. Questi primi statuti, rischiavano di confondere le idee perché definivano la morte in modo dualistico: uno si basava sulla cessazione dei segni vitali, l’altro su quella delle funzioni cerebrali. Nel 1972, Alexander Capron e Leon Kass proposero una definizione che coniugava i due parametri.10 Secondo loro la definizione della morte dovrebbe: 1. Concernere la morte di un essere umano, non la morte delle cellule, dei tessuti o degli organi; e nemmeno la morte, o cessazione del ruolo di perso-

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na, in quanto membro pienamente attivo della propria famiglia o della comunità. 2. Procedere gradualmente, affiancando, più che rimpiazzando, i vecchi parametri cardiopolmonari (il battito cardiaco e la respirazione). 3. Non essere una definizione ad hoc, cioè non formulata per particolari scopi, come ad esempio il trapianto degli organi. 4. Applicarsi uniformemente a tutte le persone. 5. Essere flessibile, lasciando i criteri specifici al giudizio dei medici. Questa proposta fu adottata, con varie modifiche, in parecchi stati degli Usa, ma fu criticata perché non affrontava alcune questioni relative al trapianto di organi. Infatti, nella proposta Capron/Kass, non era reso obbligatorio il fatto che almeno due medici procedessero insieme alla constatazione di morte, né che il medico che dichiarava l’avvenuta morte non fosse membro del team medico che si occupava della ricerca degli organi per il trapianto. Capron e Kass replicarono che tutte le questioni collegate al trapianto d’organo dovevano essere trattate in una legislazione a sé stante, come l’Uniform Anatomical Gift Act. Nel 1975, la American Bar Association (ABA) propose a sua volta un modello di regolamento che offriva una definizione di morte “per tutti gli scopi di legge.” Questa proposta, in pratica, ignorava i criteri cardiopolmonari e si concentrava piuttosto “sulla cessazione irreversibile delle funzioni globali del cervello.” In seguito, nel 1978, all’interno del University Brain Death Act apparve un’ulteriore proposta di regolamento; l’anno seguente, poi, fu la volta della AMA (America Medical Association) che propose il proprio. Le numerose proposte elaborate durante gli anni Settanta sono la prova della difficoltà che si riscontrava a quel tempo nel tentativo di conciliare le nuove tecnologie mediche e il loro impatto nel determinare quando una persona potesse (o dovesse) essere dichiarata morta. Nei primi anni Ottanta, finalmente, una commissione statale delineò la bozza di regolamento che incontrò un ampio consenso e che, infine, portò ad una legge valida per tutto il territorio degli Stati Uniti, lo Uniform Determination of Death Act. Nel suo rapporto, la Commissione presidenziale per lo studio dei problemi etici in medicina osservò che quella legge: “tratta la questione del ‘definire’ la morte a livello di standard fisiologici generali e non a livello di concetti astratti o a livello di criteri e test”, perché i test e i criteri cambiano nel tempo di pari passo con gli sviluppi della conoscenza e delle tecniche;11 essa riconosce il fatto che, in molti casi, la cessazione irreversibile della circolazione e della respirazione fornisce una base ovvia e sufficiente per arrivare alla constatazione della morte. In altre parole, tali casi permettono di diagnosticare la morte sulla base del fatto che la respirazione

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e il flusso sanguigno sono cessati e non è più possibile ripristinarli e quindi, nel caso di un paziente non assistito da un respiratore, non c’è alcun bisogno di valutare la funzione cerebrale prima di constatare la morte. La Commissione sostenne che questa definizione di morte doveva essere tenuta distinta da qualsiasi altra condizione riguardante la donazione d’organi. Al contrario delle definizioni precedenti, che asserivano che una persona si sarebbe dovuta “considerare morta” solo quando i criteri stabiliti venivano soddisfatti, il linguaggio di questa legge è più chiaro e più diretto, giacché essa afferma che una persona “è morta” quando sono soddisfatti i criteri definiti. La Commissione riconobbe che c’era confusione nella definizione di morte, quando il paziente è assistito dalle macchine: “la stessa tecnologia che mantiene il cuore e i polmoni funzionanti in persone che hanno perso tutte le funzioni cerebrali, sostiene anche altri pazienti più o meno gravi.” Il risultato è che si trascura “l’importante distinzione tra i pazienti che sono morti da coloro che stanno per o possono morire”. La Commissione concluse i suoi lavori, affermando che “la prova di una assenza irreversibile delle funzioni dell’intero cervello, incluso il tronco cerebrale, fornisce informazioni sufficienti e affidabili per dichiarare la morte dei corpi mantenuti in vita con il sostegno dei respiratori.” La Commissione osservò che, nel 1968, la definizione di “coma irreversibile” per la morte cerebrale del Harvard Committee si era dimostrata affidabile e che “non si è verificato ancora un caso che abbia soddisfatto i parametri e che abbia, poi, ripreso una qualsiasi funzione cerebrale, nonostante la continuazione del supporto respiratorio.” È importante fare presente, comunque, che la Commissione aveva sottolineato che l’espressione “coma irreversibile” è fuorviante, perché coma si riferisce ad una condizione di una persona vivente, mentre “un corpo senza alcuna funzione cerebrale è morto e, quindi, oltre ogni coma.” Questa osservazione riflette anche la preferenza accordata dalla Commissione ad una definizione di morte basata sulla teoria del “whole-brain” (il cervello integrale), rispetto a quella del “higher-brain” (il cervello superiore). Secondo la Commissione, la morte è un fenomeno assoluto e singolare, che cambierebbe radicalmente significato nel caso in cui se ne allargasse la definizione, includendo anche persone che, avendo perso tutte le funzioni cognitive, respirano ancora spontaneamente. Quando è ancora attiva la funzione del tronco cerebrale, come quando la respirazione è spontanea, ma non sussiste consapevolezza cognitiva, la condizione del paziente è descritta come “stato vegetativo persistente” (SVP) e nonostante si sia in presenza di movimenti involontari e di respirazione spontanea, la mancanza di funzioni cerebrali superiori è evidente nella non consapevolezza di sé o dell’ambiente.

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Se sostenuti dalle appropriate cure mediche e infermieristiche, inclusa la nutrizione artificiale e l’uso di antibiotici, per combattere le infezioni ricorrenti, tali pazienti possono sopravvivere per anni senza il respiratore (il caso di maggior durata di SVP, riportato dalla Commissione, era di oltre trentasette anni). La Commissione citò l’accettazione pressoché universale, per i medici, ma anche per l’opinione pubblica, della teoria del “cervello integrale”. Una formulazione della teoria del “cervello superiore”, non raccoglie un analogo consenso, perché richiederebbe un controverso accordo sul significato di “personalità”, allo stato presente della comprensione e della tecnica: “Il cervello superiore può esistere solo come concetto astratto, non nella realtà”. Albert Jonsen, riassumendo il lavoro della Commissione, osserva che “essa ha chiarito concettualmente tematiche confuse e ha contribuito alla formulazione di una buona legge.”12 Secondo Jonsen, la Commissione diede un contributo fondamentale nel campo dell’etica medica, dimostrando il valore del coniugare la logica del ragionamento filosofico con i bisogni pratici delle politiche sociali.

Trapianto e donazione di organi Fra tutte le tecniche mediche innovative per salvare la vita di quei pazienti che una volta sarebbero stati considerati malati inguaribili, probabilmente la più drammatica è quella del trapianto di organi, definita come “trasferimento di tessuti o cellule viventi da un donatore ad un ricevente, con l’intenzione di mantenere nel ricevente l’integrità funzionale del tessuto trapiantato.”13 Fin da quando, nel 1954, presso l’ospedale Peter Bent Brigham Hospital di Boston, fu effettuato il primo trapianto di reni tra due gemelli, il trapianto degli organi si è evoluto fino a far parte della pratica medica standard. Nel 1967, poi, l’interesse dell’opinione pubblica aumentò notevolmente quando Christian Barnard fece con successo il primo trapianto di cuore su un adulto. Altre tappe fondamentali nella storia dei trapianti sono l’accordo sulla definizione di morte cerebrale del 1968 e la scoperta, nel 1976, della ciclosporina,un farmaco immunosoppressore in grado di contrastare il rigetto.14 Il crescente successo del trapianto d’organi è dovuto in larga parte a fattori quali nuovi farmaci immunosoppressori, migliore selezione dei pazienti e interventi più veloci, ma anche a una migliore comprensione dei processi di istocompatibilità e dei meccanismi che regolano la capacità dei tessuti di accettare il trapianto da un altro individuo, senza rigetto. Il rigetto è ancora il maggior ostacolo per il trapianto, anche se i progressi della scienza medica sulla risposta immunitaria dell’organismo stanno abbattendo questa

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barriera.15 Il numero crescente di pazienti in lista d’attesa per un trapianto di cuore, reni, fegato, pancreas e polmoni è indicativo della generale accettazione del trapianto d’organi. Il candidato ideale per un trapianto è un paziente le cui condizioni si stanno deteriorando, nonostante l’applicazione dei migliori trattamenti medici convenzionali, e per il quale il trapianto offre una ragionevole possibilità di guarigione. Per alcuni trapianti, molto più spesso nel caso del rene, il donatore è un vivente; a volte donatore e ricevente sono parenti (nel 2001, il numero dei donatori viventi ha superato per la prima volta quello dei donatori deceduti, e sempre più spesso pazienti in condizioni disperate si rivolgono alle famiglie o agli amici per richiedere aiuto).16 Quando non si riesce a trovare un donatore vivente, o quando l’organo richiesto (un cuore, ad esempio) non si può prendere da un vivente, allora l’organo sarà “espiantato” dal corpo di una persona di cui sia stato dichiarato il decesso (secondo i criteri di morte cerebrale, discussi nella sezione precedente), e i cui organi siano mantenuti utilizzabili per il trapianto, sostenendone artificialmente le funzioni fisiologiche. Una persona, in vita, può decidere di donare gli organi, oppure uno dei familiari più vicini al deceduto può dare il permesso per la donazione. L’Uniform Anatomical Gift Act, approvato nel 1968 e in qualche modo recepito da tutti gli Stati Usa, prevede la donazione del corpo o di sue parti specifiche dopo la morte del donatore.17 Le principali condizioni imposte dal Gift Act sono riportate nella tabella 5-1. Per la cronica carenza di donatori d’organi, nel 1987 il Gift Act fu modificato per semplificare la donazione, abolendo l’obbligo di consenso del parente più vicino e l’obbligo di autenticazione del documento di donazione. Questa modifica includeva anche una clausola di “obbligo di richiesta” per imporre agli ospedali procedure atte ad incoraggiare la donazione d’organi. Il personale dell’ospedale, infatti, all’approssimarsi della morte è obbligato a chiedere se il paziente ha espresso la volontà di donare gli organi, in caso contrario la famiglia deve essere informata sull’opzione della donazione d’organi e di tessuti. La donazione d’organi deve essere documentata sottoscrivendo appositi moduli (donor card, molto simile a quello dell’italiana Aido). Un donatore può specificare che possono essere asportati tutti gli organi di cui c’è bisogno, oppure che si possono espiantare solo certe parti del corpo o certi organi. Oltre ad indicare il modo in cui il proprio corpo può essere usato dopo la morte, il donatore può anche specificare il modo in cui trattare le proprie spoglie, dopo la donazione. Anche se non è imposto dalla legge, molti ospedali cercano anche il consenso del parente più vicino al donatore e evitano di insistere per ottenere la donazione, se la famiglia non è d’accordo con i desideri del deceduto. Ventisette Stati USA hanno approvato leggi che obbliga-

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Tabella 5-1 Articoli principali dello Uniform Anatomical Gift Act. 1. Ogni individuo di età superiore ai diciotto anni può donare il proprio corpo, per intero o in parte, per fini educativi, di ricerca, terapeutici o di trapianto. 2. Se una persona non ha fatto una donazione prima della morte, il parente più prossimo può farlo a meno che non vi sia un’obiezione nota da parte del defunto. 3. Se una persona ha fatto tale donazione, essa non può essere revocata dai suoi parenti. 4. Se vi è più di una persona avente uno stesso grado di parentela, la donazione da parte dei parenti non può essere accettata se vi è una obiezione nota da parte di una delle due. 5. La donazione può essere autorizzata da una tessera che l’individuo porta con sé o da una comunicazione scritta o verbale registrata da un parente. 6. La donazione può essere emendata o revocata in ogni momento precedente la morte del donatore. 7. L’ora della morte deve essere determinata da un medico che non sia coinvolto in alcuna operazione di trapianto.

no i familiari ad accettare il prelievo d’organi da un donatore registrato; tuttavia, alcune indagini hanno rilevano che tale regola non viene sempre fatta valere.18 Sarebbe sempre meglio discutere la donazione con i membri della famiglia.19 In media, in Usa ogni giorno circa 68 persone ricevono un trapianto di organi, mentre altre 17 persone in lista d’attesa muoiono, perché la disponibilità di organi è insufficiente.20 Stante il differenziale tra domanda e offerta d’organi, i medici e le organizzazioni per il trapianto dovettero assumersi il compito di organizzare le liste d’attesa, fino a che, nel 1984, il Congresso degli Stati Uniti approvò il National Organ Transpalnt Act e istituì un ufficio centrale per gestirle. L’United Network for Organ Sharing (UNOS), in accordo con il governo federale, segue la lista delle persone in attesa di trapianto e lo stato di tutti gli organi donati, per garantire sia la correttezza ed equità della assegnazione che la competenza dei centri medici autorizzati al trapianto. L’efficacia dell’adesione volontaria alla donazione degli organi, fatta secondo le norme contenute nella legge in vigore, è stata messa in discussione, perché le liste d’attesa restano molto lunghe e molte persone muoiono nell’attesa. C’è chi sostiene che donare gli organi dopo la propria morte sia un dovere morale e che, di conseguenza, la legge dovrebbe essere modificata in modo da obbligare a donare gli organi, ad eccezione del caso in cui una persona non indichi esplicitamente il parere contrario, anche segnalandolo sulla patente o su altri documenti.

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Partendo dalla constatazione che il corpo umano è una risorsa di grande valore, è stata fatta la proposta di rendere legale il commercio di organi.21 Secondo la legislazione attuale, la vendita e l’acquisto di organi e di tessuti umani (ad eccezione del sangue) sono illegali. Se questa disposizione fosse cambiata, gli eredi di un deceduto potrebbero guadagnare dei soldi attraverso la vendita dei suoi organi vitali. È così che s’intravede la possibilità che compaia un mercato dei “futures” degli organi umani, con prezzi fluttuanti sulla base della domanda e dell’offerta. Chi è favorevole a mercificare gli organi umani, sostiene che il risultato delle forze di mercato sarebbe quello di eliminare la scarsità o l’eccesso d’organi. In alcune aree del mondo esiste già un fiorente “mercato nero” d’organi trapiantabili (principalmente di reni). Negli Stati Uniti si fa strada la tendenza a ricompensare indirettamente i donatori di organi, attraverso benefici fiscali o con il pagamento delle spese funerarie. La American Medical Association ha sollecitato i ricercatori a verificare se il riscontro economico può aiutare a ridurre la carenza d’organi.22 Allo stato attuale, è doveroso notare che la commercializzazione di organi, è ritenuta dalla maggioranza “eticamente non preferibile” alla donazione.23 La scarsa disponibilità d’organi umani per il trapianto ha stimolato le ricerche sullo xenotrapianto, ovvero sull’utilizzazione di animali, inclusi babbuini, scimpanzè e maiali, come fonti d’organi sostitutivi. La maggiore difficoltà tecnica di simili trapianti interspecie è, come del resto per i trapianti in generale, il rischio di rigetto dei tessuti donati da parte del sistema immunitario del ricevente. Questo problema potrebbe essere risolto con l’uso di “animali transgenici” geneticamente modificati e allevati appositamente per il trapianto d’organi. Anche se potranno passare anni, prima che i xenotrapianti sostituiscano quelli fra umani (sempre che questo traguardo sia davvero raggiungibile), gli scienziati sono convinti che l’obiettivo più limitato del trapianto di cellule isolate e di tessuti sia, per la pratica medica, un orizzonte non lontano.24 Allo stato attuale, le politiche sociali riflettono un’intera storia del trapianto basata sul fatto che gli organi vengono espiantati da individui dichiarati legalmente deceduti e la cui respirazione e battito cardiaco sono mantenuti attivi artificialmente fino a che non sono asportati gli organi. Tenere una persona attaccata a dei dispositivi che sostengono artificialmente le funzioni vitali del corpo, solleva necessariamente complessi problemi medici, legali e etici proprio sulle definizioni di vita e di morte. Sappiamo che due sono le questioni cruciali: 1) determinare quando avviene la morte, 2) decidere quando si può procedere all’espianto degli organi. Ripensando a quanto la pratica del trapianto d’organi abbia contribuito allo sviluppo di una nuova definizione di morte, è importante riconoscere che tale definizione coinvolge

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non solo la presenza o l’assenza di una certa serie di processi fisiologici, ma anche le concezioni sociali e culturali sulla vita e sulla morte.25

L’etica medica: due culture a confronto In Giappone le questioni etiche, morali e legali riguardanti la morte cerebrale e il trapianto d’organi sono stati al centro di accese discussioni pubbliche per più di tre decenni.26 Il dibattito si avviò nel 1968, quando il dottor Juro Wada effettuò il secondo trapianto mondiale di cuore utilizzando un organo di un donatore di cui era stata dichiarata la morte cerebrale. Inizialmente ammirato per il risultato scientifico ottenuto, egli perse presto la fiducia dell’opinione pubblica, per i dubbi della gente in merito alla sua gestione delle procedure e alla presunta noncuranza dei diritti del donatore e del ricevente. Wada fu accusato di sperimentazione illegale sull’essere umano e di scarsa capacità di giudizio nelle modalità della dichiarazione del decesso del donatore. All’epoca, i criteri per la constatazione della morte erano piuttosto recenti e, in Giappone, non c’era ancora il consenso pubblico sulle nuove definizioni della morte. In Giappone, dunque, il caso Wada lasciò un’ombra di sfiducia sulla morte cerebrale e sul trapianto. Fra i paesi tecnologicamente più avanzati, il Giappone è l’unico a puntare sui donatori viventi. Le statistiche più recenti indicano che, in Giappone, circa il 70% dei reni e dei fegati trapiantati derivano da donatori viventi. In generale, i progressi scientifici e tecnologici sono stati adottati con favore in Giappone, ma i dubbi persistenti sulla morte cerebrale, hanno rallentato il diffondersi della pratica dei trapianti d’organi. Solo nel 1997 il Giappone ha approvato una legge sui trapianti d’organi che legalizzava l’espianto da donatori con dichiarazione di morte cerebrale. Un articolo della legge prescrive che i pazienti in condizione di morte cerebrale siano dichiarati morti, solo se hanno precedentemente sottoscritto il consenso alla donazione dei propri organi, altrimenti, in generale, il cuore dei morenti deve smettere di battere per poterli considerare deceduti: così, in Giappone, sono le persone ad avere l’effettiva facoltà di scegliere la definizione della propria morte.27 Anche i membri della famiglia devono approvare la donazione. Nonostante l’approvazione della legge, sono dovuti passare sedici mesi perché si eseguisse il primo trapianto legale di cuore e fegato, espiantati ad un donatore con morte cerebrale dichiarata. Il dibattito giapponese sulla morte cerebrale e sul trapianto d’organi, ha dimostrato che la cultura di un popolo influenza gli atteggiamenti e le pratiche collegate al morire e alla morte. Certamente il caso Wada ha avuto un effetto ritardante, per la pratica dei trapianti, ma in Giappone, a lungo, ha pre-

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valso un evidente senso di sfiducia nel rapporto tra medici e pazienti. Fino a poco tempo fa, molti medici praticavano una specie di medicina “a porte chiuse”, ovvero ai pazienti non si davano informazioni sul loro stato di salute, né era loro consentito di criticare i propri medici. Nel sistema medico giapponese, l’opinione diffusa era che i pazienti non dovessero prendere nessuna decisione. Per molti giapponesi, questo paternalismo è particolarmente preoccupante se riferito alle procedure per i trapianti. Si teme che, nel determinare la morte cerebrale, i medici possano nascondere informazioni alla famiglia o, addirittura, arrivare a mentire. Esiste inoltre la preoccupazione che i criteri della morte cerebrale possano essere applicati troppo rapidamente. È diffusa, infatti, l’idea che la definizione di morte cerebrale riguardi tematiche talmente complesse da non poter essere lasciate al solo giudizio dei medici. Questa antica sfiducia, inoltre, solleva anche preoccupazioni sul rischio che un mercato degli organi potrebbe provocare abusi da parte dei medici. Sono molti i giapponesi che vogliono mantenere integro il proprio corpo, non solo durante la vita, ma anche dopo la morte. Il corpo è visto come il dono di un proprio genitore, di un proprio antenato. La rimozione degli organi dal corpo, anche con morte cerebrale dichiarata, costituisce una violazione della sua integrità. L’avversione alla manipolazione del corpo di un proprio caro è la conseguenza della credenza che il corpo e l’anima debbano essere intatti, quando la persona passa nell’altro mondo: il corpo deve essere perfetto, altrimenti l’anima potrebbe essere infelice. Si considera, dunque, il trapianto d’organi una mutilazione del corpo. Gli americani tendono a pensare agli organi del corpo come a parti intercambiabili, i giapponesi vedono in ogni parte del corpo della persona deceduta un frammento della sua mente e del suo spirito. A tale questione è collegata la preoccupazione per l’impurità che è sempre stata presente nella storia del Giappone. Da questo punto di vista, le procedure della donazione degli organi e il trapianto corrompono il corpo; una persona che volesse prendere in considerazione la donazione, potrebbe essere dissuasa dal pensiero che, se gli vengono asportati gli organi, “il mio corpo non è più mio”. Un’altra problematica importante riguarda idee culturali contrastanti sul “luogo dell’anima” o del “centro del sé.” Nella biomedicina occidentale, il cervello, il luogo del pensiero razionale, è tendenzialmente considerato la più importante parte del corpo; come “sede della mente”, esso rappresenta l’essenza stessa dell’essere umano. In altre tradizioni, è il cuore e non il cervello, a essere considerato la sede della vita. L’equivalenza tra la vita e il funzionamento del cervello è cosa estranea alla mentalità della maggior parte dei giapponesi, i quali assegnano uguale se non maggiore importanza al cuore. Il vero centro dello spirito e della coscienza della persona, il “cuore-mente”, è tradizionalmente alloggiato nella hara, ovvero nella pancia.

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Questo esempio c’insegna che la nozione di morte cerebrale è un costrutto culturale. I criteri per la definizione della morte cerebrale si concentrano sulla cessazione delle funzioni cerebrali e trascurano il fatto che altre funzioni vitali del corpo sono attive. In ogni caso, la nozione di morte come assenza della funzione cerebrale, separata da alte funzioni del corpo, è priva di significato per la concezione giapponese della morte della persona nella sua interezza. Determinare la morte cerebrale è per i giapponesi fonte di confusione, perché il cuore continua a battere e il corpo resta caldo. Per molti giapponesi, le procedure previste per la donazione e il trapianto degli organi portano a una “una morte che non può essere vista”, una morte invisibile. Oltre a ciò, sono molti in Giappone a rifiutare di riconoscere la morte cerebrale come morte biologica, perché sono scettici sul fatto che la morte cerebrale si possa determinare con certezza, e sull’effettiva fiducia in chi fa tale constatazione. Oltre ai fattori culturali già menzionati, i dubbi dei giapponesi sulla donazione e sul trapianto d’organi sono correlati alle pratiche tradizionali relative allo scambio di doni. In Giappone, vigono regole ben precise in merito ai doni e allo scambio di doni. Ricevere un regalo comporta l’obbligo di restituirlo. Con la donazione d’organi, il dare va in una sola direzione, colui che riceve un organo non può ricambiare. Non c’è modo di ripagare un dono così grande, nemmeno verso la famiglia del donatore deceduto. Inoltre, l’assenza di rapporti sociali tra il donatore e il ricevente stende sulla donazione d’organi l’ombra della transazione commerciale. È interessante notare che alcune statistiche indicano che circa la metà dei giapponesi vorrebbe veder coincidere la morte cerebrale con la morte della persona, il che è simile a ciò che è successo nei paesi occidentali, dove non si è mai gridato allo scandalo per la correttezza della donazione d’organi. Interpretando questi dati, è degno di nota il fatto che sono molti i giapponesi, condizionati dalla cultura occidentale, che vedono la morte cerebrale come la si vede in occidente. Si tratta della visione, secondo la quale, il trapianto, in paesi come gli Stati Uniti, ricicla tutti gli organi possibili, presi dai donatori con morte cerebrale dichiarata, considerandoli come parti del corpo interscambiabili: come “ingranaggi di un orologio”. Molti altri giapponesi credono invece che questo tipo di sistema potrebbe condurre a una civiltà disumana, nella quale ogni persona è considerata come un “ingranaggio interscambiabile” dell’intero sistema sociale. Il mantenimento dell’identità culturale, è importante per la maggioranza dei giapponesi, e accettare acriticamente la pratica occidentale della donazione e del trapianto d’organi implica l’abbandono della propria storia e, di conseguenza, un danno alla propria unicità culturale. In questa prospettiva, la bioetica, in Giappone, dovrebbe essere culturalmente molto rilevante e

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non un semplice riflesso dei valori europei ed americani. Una bioetica culturalmente appropriata dovrebbe, quindi, comprendere influenze shintoiste, buddhiste e del confucianesimo, senza sottovalutare quelle delle moderne tradizioni occidentali. Riflettendo sull’esempio giapponese, vediamo che le differenze culturali in materia etica non devono esser viste come barriere da superare in ogni modo, quanto, piuttosto, come opportunità per apprendere i diversi modi che le persone e i popoli hanno di trattare le questioni complesse che accompagnano la morte e il morire.

Letture di approfondimento Arthur Caplan and Daniel H. Coelho, eds., The Ethics of Organ Transplants: The Current Debate. Amherst, N.Y: Prometheus, 1998. Renée C. Fox and Judith P. Swazey, Spare Parts: Organ Replacement in American Society, New York: Oxford University Press, 1992. Sue Holtkamp. Wrapped in Mourning: The Gift of Life and Organ Donor Family Trauma. New York: Brunnel-Routledge, 2002. Jessica Snyder Sachs. Corpse: Nature, Forensics, and the Struggle to Pinpoint Time of Death. Reading, Mass.: Perseus, 2002. Howard M. Spiro, Mary G. McCrea Curnen, and Lee Palmer Wandel, eds. Facing Death: Where Culture, Religion, and Medicine Meet. New Haven, Conn.: Yale University Press, 1996. Cyril Wecht. Cause of Death. New York: Dutton, 1993. Stuart J. Youngner, Robert M. Arnold, and Renie Schapiro, eds. The Definition of Death: Contemporary Controversies. Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999. Stuart J. Youngner, Renée C. Fox, and Laurence J. O’Connell, eds. Organ Transplantation: Meanings and Realities. Madison: University of Wisconsin Press, 1996.

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Capitolo 6

DI FRONTE ALLA MORTE: CONVIVERE CON LE MALATTIE CHE MINACCIANO LA VITA

Un giorno ti svegli e hai dei sintomi che fanno pensare ad una malattia grave. Quali pensieri ti attraversano la mente? Forse, riconosci la possibilità di essere “veramente malato”, poi respingi velocemente questi pensieri e continui le tue normali attività quotidiane. “Dopo tutto”, ti dici, “non c’è ragione di aspettarsi che si tratti di qualcosa di grave, probabilmente non è nulla di importante”. Meglio non sfidare la sorte indagando più da vicino. Per un po’ non ci pensi più, ma con sempre maggiore insistenza i sintomi s’impongono alla tua attenzione. “Spero proprio che non si tratti di nulla di serio”, ti dici, “ho troppe cose da fare”. In qualche angolo della tua mente, tuttavia, riconosci che potrebbe trattarsi di una cosa seria. Cominci ad ammettere la tua preoccupazione, sentendo una certa ansia riguardo a ciò che i sintomi potrebbero significare e a come potrebbero incidere sulla tua vita. Prendi, quindi, appuntamento col medico, gli descrivi i sintomi, ti sottoponi a esami e attendi i risultati. Immediatamente, o forse solo dopo altre analisi, conosci la diagnosi. Il tuo medico t’informa che hai un tumore, ed è maligno. Cancro. A questo punto, pensieri ed emozioni, diventano davvero scomposti. “Che cosa si può fare? Come sarà trattata questa malattia dai medici? Come cambierà la mia vita? Devo rimandare quel viaggio programmato? Che tipo di trattamento dovrò seguire? Ci saranno effetti collaterali? Questo tipo di cancro è curabile? E il dolore? Morirò?” Via via che il dramma si dipana, cominci a trovare dei modi per fare fronte alla crisi, i timori che inizialmente riguardavano i sintomi, si trasformano in preoccupazioni sulla diagnosi, sul trattamento e sugli esiti. Passa un po’ di tempo e sperimenti una remissione: la crescita del tumore sembra essersi arrestata. I medici sono ottimisti. Ciononostante, ti chiedi se il cancro se ne sia veramente andato o se il miglioramento sia solo temporaneo. Ti trovi in un limbo, sei contento perché le cose sembrano andare per il verso giusto, ma l’ottimismo si mescola all’incertezza e alla paura. Probabilmente dopo un po’ di tempo comincerai a rilassarti e ad essere meno ansioso sulla possibilità che il cancro ritorni. Forse, il “tuo” cancro era curabile.

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Tuttavia, i sintomi iniziali potranno tornare, segnalando il ritorno del cancro. Allora puoi temere la formazione di metastasi, il loro diffondersi ad altre parti del corpo, e allo stesso tempo tormentarti con le domande: “Sarà doloroso? Quali parti del mio corpo saranno coinvolte? Sono condannato a morire? Quanto tempo ancora mi resta da vivere?” Alcuni tipi di cancro possono essere curati con trattamenti relativamente semplici. Altri persistono per un certo tempo e poi, grazie al trattamento, diminuiscono o si stabilizzano. Con altri ancora, ci sono poche speranze di sopravvivenza. Nella misura in cui il cancro minaccia il benessere di una persona, lo scenario che abbiamo descritto è simile all’esperienza del paziente, e per estensione, a quella di tutti coloro ai quali sia stata diagnosticata una malattia con rischio di morte. Una volta che una malattia sia stata definita incurabile, è probabile che i timori di una persona si concentrino sull’incertezza che circonda la morte e il morire. Si tratta di paure quasi certamente presenti fin dall’inizio, dietro ai diversi timori sui sintomi, sulla diagnosi e sulla terapia; tuttavia, quando la malattia grave era ancora solo una possibilità rappresentata da un particolare assetto sintomatico, l’attenzione era diretta su ciò che i sintomi potevano significare. Dopo la diagnosi, con patologia conclamata, e nel corso del trattamento, i pensieri sulla morte possono diventare predominanti, nonostante che la paura sia bilanciata dalla speranza. Quando non resteranno più possibilità di arrestare il progredire della malattia, la prospettiva della morte sarà difficile da evitare. Ciononostante, i sentimenti di speranza possono permanere – speranza per una remissione dell’ultimo minuto o per qualche miglioramento che i medici non sono stati in grado di prevedere. Possiamo combattere fino all’ultimo con l’atteggiamento “l’ho sempre fatta in barba alle statistiche: perché non stavolta?” Oppure possiamo avere un approccio molto diverso, e affrontare il fatto che la vita sta per terminare, sfruttando al massimo il tempo che ci resta, circondandoci di coloro che ci sono vicini e accettando il nostro destino. Il modo in cui affronteremo la morte molto probabilmente rifletterà il modo in cui abbiamo affrontato la vita, il modo in cui abbiamo affrontato altre perdite e altri cambiamenti nel corso della nostra vita.

I significati personali e sociali delle malattie che minacciano la vita Una paziente affetta da leucemia ha paragonato la propria esperienza a quella di una persona minacciata dalla Morte Nera, quella della peste del Quattordicesimo secolo: l’origine della malattia leucemica appare misteriosa, conseguenza di cause difficilmente individuabili e non completamente comprese. In qualche modo, la natura sembra essere sfuggita ad ogni controllo.

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Non comprendendo pienamente la catena d’eventi che lo hanno condotto ad un destino così cupo, il paziente sente il dovere di sistemare le cose. Il cancro simboleggia le peggiori paure del nostro tempo: dolore, decadimento, sofferenza e morte. Le persone che convivono con malattie che minacciano la vita, possono percepire un ulteriore fardello di stigmatizzazione sociale. Poiché questo tipo di malattie non corrisponde alla nostra concezione idealistica di come le cose dovrebbero essere, esse sono talvolta trattate come dei tabù (dal termine polinesiano tapu, che significa “separato, delimitato”), come se fossero gravide di un pericolo mistico.1 Questo tabù può condurre ad evitare persone, luoghi e oggetti associati alla condizione proibita. Kay Toombs scrive: “Le diagnosi sono permeate di significati personali e culturali. Le malattie gravi – cancro, cardiopatie, AIDS – sono cariche di una pregnanza simbolica particolarmente potente. Nel vivere una malattia, una persona è costretta, non solo a fare i conti con i sintomi patologici fisici, ma anche a confrontarsi con i significati che sono associati alla diagnosi, in particolare riguardo alla reazione degli altri.2

Le malattie con rischio di morte mettono in discussione l’immagine che abbiamo di noi stessi e minacciano i nostri progetti per il futuro. Ci pongono di fronte alla nostra caducità, esponendoci all’ansia di doverci separare da tutto ciò che amiamo, alla nostra paura del dolore e all’orrore che, immaginiamo, si accompagni al morire. Occorre coraggio per affrontare paure come queste. Questo modello, che associa tabù e isolamento, può indurre amici, familiari e persone che assistono il malato, ad abbandonarlo, determinando così una sorta di “morte sociale”, che fa sentire il paziente emarginato dal resto della società. Le persone affette da patologie gravi si possono definire, sul piano sociale, come “non-persone” o, in qualche modo, “in-valide”.3 Il sentimento di negatività rispetto alla malattia può portare ad evitare il paziente.4 Il “significato” di una malattia che minaccia la vita è in gran parte determinato dal contesto sociale che circonda l’individuo.5 Nelle società che attribuiscono un grande valore alla salute, il perseguimento del benessere diventa una sorta di virtù morale, un modo per situarsi tra i “giusti”.6 Una persona che non riesca a raggiungere o a mantenere una buona salute può sentirsi in colpa: “Sono stato io ad attirare su di me questa malattia?”. Sotto questo aspetto, concezioni semplicistiche di come la mente influenzi il corpo, possono essere dannose. Il pensiero magico, che si manifesta nel ritenersi responsabili, senza che sia chiaro in che modo, può caricare di un peso ulteriore la persona affetta da una malattia a rischio di vita: “Che cosa ho fatto per attirare su di me

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questa maledizione? Se avessi fatto questo, se non avessi fatto quest’altro, forse ora non mi troverei in questo pasticcio.” La persona può sentirsi inadeguata o disperata nel combattere forze che hanno deviato dal loro corso naturale e sembrano mirare alla distruzione del corpo. Le preoccupazioni riguardo al trattamento possono accentuare i timori riguardo alla malattia stessa. Le malattie a rischio di vita, come le cardiopatie e il cancro, sono costose, per l’ospedale, per le cure ambulatoriali, per le visite mediche e i farmaci. Alle cure mediche si devono aggiungere spese secondarie, per i trasporti, per i servizi di supporto, per accudire i bambini e per l’ospitalità provvisoria per quei pazienti che devono percorrere grandi distanze per ricevere cure specialistiche. Le assenze dal lavoro possono comportare perdite di guadagni e la famiglia del paziente condivide queste situazioni onerose. Se guardiamo alla famiglia come a un “sistema”, l’impatto, che la malattia esercita sulla vita familiare, rimbalza sul paziente.7 Gli strumenti terapeutici – compresi l’educazione, il counseling, i gruppi di supporto e la competenza comunicativa – possono aiutare i pazienti ad affrontare le malattie che minacciano la vita. Acquisire informazioni sulla malattia e sul trattamento, condividere le esperienze con altre persone in un’atmosfera di supporto reciproco, utilizzare i servizi di counseling per tener conto delle istanze personali ed emotive, elaborare modalità di comunicazione più efficaci sia con chi assiste che con i familiari e gli amici, sono tutti esempi di un approccio positivo nell’affrontare le malattie gravi.8 Questi strumenti possono contribuire ad un percorso di comprensione che situi la crisi in un contesto più autoassertivo, così che l’esperienza venga vissuta in modo meno disorientante e, forse, meno drammatico, facendo recuperare al soggetto la sensazione di esercitare un controllo sulla propria vita.

Affrontare le malattie che minacciano la vita Non esiste un modo giusto di convivere con una malattia a rischio, o un modo giusto di morirne, ogni malattia ha il proprio caratteristico complesso di problematiche e di sfide, e ogni persona affronta questi problemi e queste sfide nel modo che le è proprio.9 Il modo in cui le persone reagiscono alla malattia dipende da fattori quali la personalità, il temperamento psicologico, i modelli sociali e familiari e dall’ambiente. La sofferenza delle persone affette da malattie a rischio proviene in gran parte dal sentirsi sopraffatte da sentimenti di perdita a tutti i livelli. Carl May afferma: “Nel momento in cui viene confermata una diagnosi che individua un male incurabile, il paziente diventa il centro di un complesso di eventi potenzialmente drammatico.”10

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Trovarsi davanti alla prospettiva di morire e riconoscere la realtà di questo fatto non è facile. Tuttavia, come sottolinea Arthur Frank, “Le malattie critiche ci insegnano che essere vivi significa essere costantemente a rischio, ma c’è un rischio più grande del morire ed è il vivere male”11. Per molte persone la fede religiosa è un’importante alleata quando si ha a che fare con malattie mortali. I pazienti e i loro familiari possono trarre conforto da una fede religiosa che li aiuti ad affrontare l’abisso della morte inevitabile e, in qualche modo, a dare un senso all’esistenza, anche quando questa comporta la propria morte e la morte delle persone care.12 La fede può promuovere un senso di fiducia in sé stessi, di tranquillità e di fermezza. Attraverso la fede e altri supporti psicologici e sociali, molte persone, affette da malattie a rischio, trovano modalità costruttive d’adattamento e, nel tempo, arrivano a vedersi più felici e serene di quanto non fossero prima della malattia. La consapevolezza del morire Osservando le modalità di reazione alla malattia grave nell’interazione familiare, i sociologi Barney Glaser e Anselm Strauss hanno individuato quattro modalità specifiche nelle quali il contesto di consapevolezza del morire può plasmare gli stili comunicativi.13 Nel contesto di consapevolezza chiusa, il morente non è consapevole dell’imminenza della propria morte, benché gli altri possano esserlo. Questo contesto è caratterizzato dall’assenza di comunicazione rispetto alla condizione del malato o alla prospettiva della sua morte. Nel contesto di consapevolezza sospetta, la persona sospetta che la sua prognosi comporti la morte, ma questo sospetto non è confermato da coloro che sanno. Il morente può cercare di ottenere una conferma o una smentita dei propri sospetti, mettendo alla prova membri della famiglia, gli amici e i medici nel tentativo di ricavare informazioni che sono note agli altri, ma non apertamente condivise. Nonostante questa segretezza, il paziente avverte che il normale flusso comunicativo all’interno della famiglia è interrotto dalla malattia e percepisce la preoccupazione degli altri, trovando così una conferma indiretta ai suoi sospetti. Il contesto di finzione reciproca assomiglia a una danza nella quale i partecipanti evitano la comunicazione diretta sulle condizioni del paziente. Questo può condurre allo sviluppo di complicate, taciute, regole di comportamento, rivolte a supportare l’illusione che il paziente stia guarendo. Tutti, compreso il paziente, riconoscono che l’esito finale sarà la morte, ma tutto procede come se il paziente fosse destinato a guarire. La finzione reci-

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proca può essere portata avanti fino alla fine, anche quando le regole implicite sono occasionalmente violate, fino a rivelare la reale condizione del paziente. Alla base della finzione reciproca, vi è la convinzione che tutti dovrebbero evitare argomenti “pericolosi” o “minacciosi”, come le informazioni sulla malattia, la prognosi, le procedure mediche, le morti di altri pazienti affetti dallo stesso male, i progetti e gli eventi destinati a realizzarsi dopo la morte del paziente. In questo modo una parte considerevole dell’esperienza del paziente è sottratta alla discussione. Le persone coinvolte si scambiano vaghi cenni, per segnalare che lo stile comunicativo utilizzato per far fronte alla crisi deve consistere nel comportarsi come se tutto fosse normale. Quando accade qualcosa che minaccia di spezzare la finzione e di rivelare la realtà della situazione, le parti coinvolte si comportano come se l’evento in questione non fosse accaduto. Strategie di distanziamento preservano l’illusione che la persona non è gravemente malata. Il rischio che la finzione sia in qualche modo scoperta, porta le persone a reagire arrabbiandosi o chiudendosi in sé stesse, oppure evitando di proseguire la comunicazione, con la scusa di dovere uscire a camminare un po’ o di dover fare una telefonata. Nel breve periodo, la finzione reciproca può essere una strategia utile per affrontare una situazione difficile e dolorosa. Il quarto modello individuato da Glaser e Strauss, il contesto di consapevolezza aperta, è quello in cui la morte viene ammessa e discussa. La consapevolezza aperta non rende necessariamente più facile l’accettazione della morte, ma lascia aperta la possibilità di un supporto reciproco, modalità non direttamente accessibile negli altri contesti di consapevolezza. Via via che al paziente o ai familiari sono fornite nuove informazioni sullo sviluppo della malattia, il contesto di consapevolezza può cambiare con il mutare delle circostanze, per esempio, la finzione reciproca può dominare mentre sono in corso le procedure mediche; poi, con la acquisizione dei risultati di nuove analisi, le persone coinvolte possono cominciare a riconoscere apertamente la malattia come una minaccia alla vita. L’armonia tra pensiero e azione è un fattore determinante rispetto al modo in cui una crisi viene vissuta soggettivamente. Se, nel vostro sistema di credenze, la finzione reciproca è considerata un modo utile di affrontare situazioni minacciose o dolorose, e se questa modalità di comunicazione è consueta nei vostri rapporti familiari, allora la finzione può essere un modo efficace e utile per affrontarla. Immaginiamo, al contrario, che attribuiate un grande valore alla sincerità e all’onestà, e che i membri della vostra famiglia siano sempre stati molto onesti gli uni con gli altri: se qualcuno nella vostra famiglia stesse morendo e tuttavia tutti fingessero che questo non stia veramente accadendo, e che il malato stia guarendo, l’angoscia nei confronti del-

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la situazione sarebbe probabilmente resa ancora più insopportabile dal conflitto tra credenze e azioni. Adattarsi al “vivere/morire” Convivere con una malattia incurabile che minaccia la vita, può essere descritto come un’esperienza di “vivere/morire”, nella quale i pazienti e i loro familiari fluttuano tra atteggiamenti di rifiuto e di accettazione, con reazioni variabili al variare delle circostanze.14 Secondo lo psichiatra Avery Weisman, questo processo d’adattamento, sottintende una sorta di conoscenza mediana, ovvero una dinamica nella quale i pazienti e le loro famiglie cercano un equilibrio tra la conservazione della speranza e il riconoscimento della realtà.15 Basandosi sulla propria esperienza di lavoro a contatto con pazienti in punto di morte, Elizabeth Kübler-Ross ha sviluppato la più celebre descrizione delle reazioni psicologiche ed emotive alle malattie mortali.16 Molte persone hanno qualche familiarità con i “cinque stadi” del modello elaborato da Kübler-Ross: rifiuto, collera, negoziazione, depressione, accettazione. L’idea che questi cinque stadi si succedano in progressione lineare, e che una persona debba attraversarli in sequenza, arrivando, infine, all’accettazione, è a volte recepita come una sorta di prescrizione sul modo in cui le persone dovrebbero affrontare il morire. Al contrario, Kübler-Ross sottolinea che, nel corso di una malattia, gli individui tendono a spostarsi avanti e indietro tra i vari “stadi”, e possono anche sperimentarne diversi contemporaneamente. Quando riceve la diagnosi di una malattia mortale, una persona può reagire con la negazione e il rifiuto, nascondendosi la realtà, o cercando di escluderla dall’orizzonte della coscienza. Anche quando c’è consapevolezza, possono tuttavia essere presenti sentimenti di rabbia, di vulnerabilità e dipendenza. A volte la collera si manifesta con espressioni d’ostilità dirette verso altri bersagli: “Forse avrei potuto fare qualcosa per evitare che mi accadesse questo, ma, accidenti, se non è una cosa sicura, perché il governo non lo proibisce!” Spesso il bersaglio dell’ostilità è la persona che si prende cura del paziente, come emerge dalle lamentele per l’alimentazione o per altri aspetti dell’assistenza: “Possibile che tu non riesca a farmi un tè decente? Sai bene che non sono in grado di farmelo da solo!” Le espressioni di rabbia possono essere un modo per mascherare l’ansia sul problema fondamentale: l’incontro con la malattia grave e il significato che essa assume rispetto al proseguimento della propria esistenza. La negoziazione, il tentativo di venire a patti con il destino o con Dio, è un’altra delle risposte che un paziente può scegliere nel cercare di rimandare

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o evitare l’inevitabile, nella speranza che con un “comportamento retto” si possa ottenere in cambio un prolungamento della vita. A mano a mano che il progresso della malattia indebolisce il corpo, il tentativo del paziente di opporre un atteggiamento stoico alla realtà dei fatti può essere rimpiazzato dalla depressione e da un profondo senso di perdita. Kübler-Ross distingue due tipi di depressione: una depressione reattiva alla distruzione causata dalla malattia, e una depressione preparatoria caratterizzata dalla consapevolezza di doversi preparare a morire. Sperimentando i diversi modi di confrontarsi con la realtà della malattia mortale e delle perdite che l’accompagnano, una persona può pervenire ad un sentimento definibile di accettazione. Questo non vuol dire che la speranza sia completamente abbandonata; piuttosto, significa che la mortalità è ora affrontata in maniera essenzialmente positiva. Consideriamo a questo proposito le parole pronunciate da Harold Brodkey quando dovette confrontarsi con la prospettiva di morire di AIDS: “Ho amato la mia vita. La mia vita mi piace anche ora che sono malato. Mi piacciono le persone con le quali ho a che fare. Non mi sento sbattuto fuori dalla scena, o come se mi stessero assassinando e infilando dentro a un cesto della biancheria mentre la mia vita è ancora incompiuta. È venuto il mio turno di morire, e posso comprendere che questo fatto interessi poche persone, ma non lo vedo come un evento tragico. È vero, nel corso della mia vita sono stato escluso da alcune cose e mi è accaduto di essere tradito, ma in fondo a chi non capita – e con ciò? Ho anche beneficiato di molti privilegi. A volte mi capita d’essere triste al pensiero che sia finita, ma mi capita lo stesso anche di fronte a certi libri, a certi tramonti e a certe conversazioni”.17

Nell’affrontare la morte, il percorso di ognuno è determinato da fattori quali la natura specifica della malattia, la propria personalità e le risorse di supporto disponibili nell’ambiente che lo circonda. La codificazione degli atteggiamenti nei confronti della malattie mortali, elaborata da Kübler-Ross più di trent’anni fa, è servita da stimolo per migliorare la comprensione di come le persone affrontano la prospettiva di morire. Ma questo, o qualsiasi altro schema interpretativo di come le persone affrontino la morte, non dovrebbe essere applicato in maniera indiscriminata. Per esempio, le persone a volte interpretano il rifiuto come qualcosa di “sbagliato”, si pensa che questo sia uno stadio che il morente dovrebbe superare, ma questa concezione trascura il fatto che il rifiuto può invece essere un modo sano ed efficace di gestire la situazione. Il fatto che il rifiuto sia utile o meno all’adattamento dipende dal tempismo e dalla durata del suo uso, oltre che dalla natura della minaccia che esso percepisce. Guardare in faccia la realtà della morte imminente non è sempre la soluzione migliore; ci sono occasioni

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Tabella 6-1 Quattro dimensioni principali dell’affrontare la morte. 1. Fisica. Comprende la soddisfazione dei bisogni corporei e ridurre al minimo la sofferenza fisica in maniera conforme agli altri valori. 2. Psicologica. Comprende l’aumentare al massimo il senso di sicurezza psicologica, l’autonomia e la ricchezza di vita. 3. Sociale. Comprende il sostenere e l’intensificare le relazioni interpersonali significative; e il rivolgersi alle implicazioni sociali del morire. 4. Spirituale. Comprende l’identificazione, lo sviluppo o la riaffermazione di fonti di energia spirituale o di significato, in modo tale da incoraggiare la speranza. Fonte: Adattato da Charles A. Corr, “A Task-Based Approach to Coping with Dying”, Omega: Journal of Death and Dying 24, no. 2 (1991-1992): 81-94.

in cui il “gioco delle parti”, o l’agire “come se” le circostanze fossero diverse, è più appropriato.18 L’esperienza di una persona che affronta le circostanze sempre mutevoli di una malattia mortale comprende un’ampia varietà di pensieri e di emozioni. Herman Feifel sottolinea che “il modo in cui si affronta una malattia a rischio o una minaccia di morte varia sensibilmente non solo da gruppo a gruppo, ma anche da situazione a situazione.”19 Dal momento in cui una persona nota dei sintomi insoliti e si chiede che cosa essi significhino, durante gli alti e i bassi della terapia, fino agli attimi finali della vita, speranza e onestà si combinano in un delicato equilibrio – l’onestà di guardare in faccia la realtà per quello che è, la speranza che l’esito finale sia positivo. L’oggetto della speranza cambia nel tempo. La speranza che i sintomi non significhino nulla lascia spazio alla speranza che esista una cura. Allorché la malattia sarà definita incurabile, si potrà sperare di potere avere più tempo. Quando il tempo a disposizione starà per finire, si spererà di avere una morte indolore e dignitosa. Quando la speranza non potrà più comprendere la prospettiva di una cura, sarà fondamentale non arrendersi e conservare altri tipi di speranza concentrandosi sugli aspetti significativi della vita vissuta.20 Charles Corr identifica quattro dimensioni primarie coinvolte nell’affrontare la morte: fisica, psicologica, sociale e spirituale (vedi tab. 6-1).21 Questo approccio contribuisce ad una più ampia comprensione, poiché pone in evidenza il fatto che questo processo non coinvolge unicamente il corpo o la mente. La dimensione spirituale, infatti, non è esclusivamente religiosa, bensì si estende ai valori fondamentali di una persona e alle fonti dalle quali si originano i significati della vita e della morte. Il modello elaborato da Corr, presentando una visione ampia del processo della strategia di reazione, ci

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Tabella 6-2 Compiti del coping con le malattie che minacciano la vita. Fase acuta

Fase cronica

Fase terminale

Comprendere la malattia

Gestire i sintomi e gli effetti collaterali

Gestire il disagio, il dolore, l’inabilità e altri sintomi

Massimizzare il benessere e lo stile di vita

Attuare un regime salutare

Affrontare le procedure sanitarie e lo stress istituzionale

Ottimizzare le forze che permettono di affrontare la malattia

Gestire lo stress ed esaminare i comportamenti attuati nel coping

Gestire lo stress ed esaminare i comportamenti attuati nel coping

Sviluppare strategie per gestire i problemi originati dalla malattia

Normalizzare la vita il più possibile di fronte alla malattia

Prepararsi alla morte e a dire addio

Esplorare gli effetti della diagnosi sul soggetto e sugli altri

Massimizzare il supporto sociale e conservare il proprio concetto di sé

Sostenere il concetto di sé e relazioni appropriate con gli altri

Esprimere sentimenti e paure

Esprimere sentimenti e paure

Esprimere sentimenti e paure

Integrare la realtà presente nel senso del passato e del futuro

Trovare un senso nell’incertezza e nel dolore

Trovare un senso nella vita e nella morte

Fonte: Adattato da Kenneth J. Doka, “Coping with Life-Threatening Illness: A Task Model”, Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 2 (1995-1996): 111-122.

aiuta a spostare la prospettiva da una visione lineare o parziale del morire ad una visione maggiormente olistica. Kenneth Doka fornisce un altro utile contributo per la comprensione del modo in cui le persone affrontano la morte, individuando diverse tipologie di compiti assolti dagli individui nelle diverse fasi di una malattia (vedi tab. 6-2). Questo modello descrive una fase acuta, che inizia con la diagnosi, una fase cronica di convivenza con la malattia e una fase terminale che comprende l’incontro con la morte imminente.22 Doka osserva inoltre che in alcuni casi si possono individuare altre due fasi: una fase prediagnostica, nella quale una persona sospetta la malattia ed eventualmente cerca un sostegno medico; poi una fase di convalescenza dopo una cura o la remissione di una malattia che aveva minacciato la sua vita. Nel considerare i compiti propri di ognuna di queste fasi, è importante tenere a mente che la gravità della malattia non solleva automaticamente una persona dagli altri e più comuni problemi e impegni della vita. Come Doka spiega:

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“La malattia mortale è solo una parte della vita; per l’intero corso della malattia, in qualsiasi fase, gli individui continuano a dover soddisfare molti altri bisogni e a dover fare fronte a tutte le difficoltà e ai problemi che esistevano anche prima della malattia… Naturalmente, l’esperienza della malattia può influenzare la percezione di tali bisogni e di tali difficoltà… Tutti i precedenti impegni della vita – la cura dei rapporti con familiari e amici, la gestione del lavoro e delle finanze, persino la manutenzione della casa o dell’appartamento – continuano ad essere parte dell’ampio complesso di impegni e lotte propri della vita e del vivere”.23

In seguito a studi estensivi condotti su pazienti morenti e sui processi associati alla “terminalità”, Avery Weisman ha osservato che per affrontare in maniera efficace una malattia mortale si devono assolvere tre compiti interrelati tra loro: prima di tutto, guardare in faccia il problema e rivedere, come necessario, i propri progetti; poi, mantenere aperta la comunicazione e fare un uso accorto dell’aiuto offerto dagli altri; infine, mantenere un senso di ottimismo e di speranza.24 Basandosi sulle proprie analisi e osservazioni, Weisman suggerisce inoltre che il processo attraverso il quale si affronta una malattia terminale, consiste di tre fasi: (1) dal momento in cui si notano i primi sintomi a quando la diagnosi viene confermata; (2) il periodo che intercorre tra la diagnosi e il decadimento finale; (3) dall’inizio del decadimento alla morte.25 Tra le “pietre miliari” che caratterizzano il viaggio nella malattia terminale, sono compresi: 1. La crisi esistenziale. Lo shock iniziale derivato dalla diagnosi, in seguito alla quale la persona cerca di fare i conti con la notizia che sconvolge la sua vita, dà inizio a una crisi d’identità. 2. L’attenuazione e l’adattamento. Quando il trattamento ha inizio, la realtà della malattia diviene parte integrante della vita della persona, attraverso operazioni di aggiustamento e di adattamento. 3. La preterminalità e la terminalità. Quando cessa la prospettiva di una cura o di un prolungamento della vita, l’individuo si trova ad affrontare un declino e una degenerazione progressivi, mentre il confine della vita si fa sempre più chiaro. Avvicinandosi alla morte, la cura palliativa prende il posto di quella terapeutica e il paziente si prepara a morire. Passando in rassegna i diversi modelli del morire proposti negli ultimi decenni, Robert Kastenbaum e Sharon Thuell, sottolineano che, nonostante questi contributi alla nostra comprensione, alcune questioni restano controverse.26 Ad esempio, nessuno degli approcci esaminati tiene in adeguata considerazione la condizione fisica del morente: la tendenza è quella di “costruire un generico morente”, riferendosi al cancro come al modello esemplare del processo del morire. In realtà, tipi diversi di cancro, senza accennare ad altre patologie a

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Figura 6-1. Cambiamenti di vita nella malattia a rischio: annuncio di ricerca immobiliare. Il confronto con una malattia che minaccia la vita può suscitare il desiderio di realizzare nel presente progetti che originariamente si proiettavano nel futuro. Fonte: Register-Pajaronian (Watsonville, Calif.), March 11, 1981.

rischio di morte, possono sollecitare differenti meccanismi di reazione. Inoltre si presta scarsa attenzione ai cambiamenti del contesto socioculturale che circonda la persona durante il processo del morire. Secondo Kastenbaum e Thuell, “una teoria contestuale del morire, per essere utile, dovrebbe assumere la forma di una narrazione in continua evoluzione…, un modello attivo di come tutte le persone-chiave coinvolte nella situazione continuino ad affrontare i propri impegni e a rapportarsi ai propri valori più profondi”.27 Non dobbiamo dimenticare la natura eminentemente individuale degli stili della strategia di reazione, cioè il fatto che ogni singola persona avrà modalità diverse di affrontare una malattia grave. Di conseguenza, in un certo senso, la morte di una persona, così come la sua vita, è qualcosa di unico.28 Evidentemente non possiamo affidarci esclusivamente a dei “modelli standard” del morire, per prevedere come una persona potrebbe comportarsi o ciò che potrebbe pensare o provare. Per finire, dobbiamo prestare particolare attenzione alla personale storia di vita del paziente (vedi fig. 6-1). Modelli di strategia di reazione (coping) Quando ci troviamo di fronte ad una situazione stressante, la nostra reazione iniziale consiste nel valutare la situazione. Consideriamo il significato della situazione minacciosa e ci accertiamo delle nostre risorse per farvi fronte. Possiamo anche non essere completamente consapevoli di questo processo, e la nostra valutazione influenzerà il modo in cui poi reagiremo.29 Therese Rando, identifica tre modelli psicologici e comportamentali fondamentali, utilizzati dalle persone, per affrontare la minaccia della morte:

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1) il ritiro e la conservazione delle energie; 2) l’esclusione della minaccia di morte; 3) il tentativo di padroneggiare o di controllare la minaccia di morte.30 È importante riconoscere che la strategia di reazione include non solo i processi psicologici (cognitivi ed emotivi), ma anche gli sforzi comportamentali. La minaccia di una malattia potenzialmente fatale, sollecita una molteplicità di risposte per rendere in qualche modo gestibile la minaccia. Queste risposte possono essere suddivise in due categorie principali: meccanismi di difesa e strategie di reazione.31 I meccanismi di difesa si attuano involontariamente e senza sforzo o consapevolezza; essi operano in modo da modificare gli stati psicologici interni di una persona, non la realtà esterna. Le strategie di reazione (coping) richiedono invece uno sforzo cosciente e finalizzato; sono impiegate con l’intenzione di risolvere una situazione problematica. Benché le strategie di reazione siano viste generalmente in modo più positivo rispetto ai meccanismi di difesa, entrambi implicano dei processi psicologici che possono contribuire a superare una situazione di stress eccessivo (distress). Il rifiuto, ad esempio, è un meccanismo di difesa che a volte svolge una funzione d’adattamento e a volte no, a seconda della persona e della situazione. Sul breve periodo, il rifiuto può offrire a una persona un po’ di respiro rispetto al fatto di convivere con una situazione stressante; tuttavia, sul lungo periodo, questo tipo di difesa può ostacolare una risposta positiva, nella misura in cui impedisce a una persona di mobilitare le risorse necessarie per intraprendere un’azione appropriata. Consideriamo, ad esempio, una persona che usa il rifiuto per ritardare la ricerca delle cure mediche a causa della sua paura nei confronti della malattia.32 Lo scopo principale dei comportamenti e dei processi mentali coinvolti nel reagire alla morte, consiste nello stabilire un controllo su una situazione stressante.33 Generalmente questo richiede la concertazione di diverse strategie di reazione. Come accade in un’orchestra, nella quale certi strumenti, in un dato momento, emergono in primo piano, mentre gli altri aspettano il loro turno, le varie strategie di reazione possono essere impiegate in momenti diversi per ottenere scopi diversi. Un modo per distinguere le differenti strategie di reazione, consiste nell’esaminare il loro proposito e il loro obiettivo. La reazione focalizzata sulle emozioni, ad esempio, contribuisce a regolare il livello di stress e permette ad una persona di sfuggire all’impatto della situazione stressante, reinquadrandola o prendendo le distanze da essa. Reinquadrare una situazione per porla in una luce positiva può ridurre il senso di minaccia. Un’altra strategia, la reazione orientata alla risoluzione dei problemi, si rivolge alla gestione di ciò che è causa dello stress eccessivo (distress). Un malato di cancro, che ricerca informazioni sulla propria patologia e che assume un ruolo attivo nella determinazione delle proprie scelte sta attuando una strategia di reazione orientata alla risoluzione dei problemi. Un segno

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distintivo di questo modo di reagire (lo stile della reazione) risiede nel fatto che la persona è volta al perseguimento di obiettivi che rivestono un significato personale. Ricordando che lo scopo principale dell’azione è quello di stabilire un senso di controllo, vale la pena di sottolineare che la strategia focalizzata sulla soluzione dei problemi, consente un maggiore senso di controllo, mentre un senso di controllo minore è associato alla strategia focalizzata sulle emozioni. Tuttavia, ognuna di queste strategie svolge un proprio specifico ruolo nell’affrontare la situazione. Una terza strategia, la reazione fondata sul significato, aiuta la persona a mantenere un senso positivo di benessere. Alcuni esempi includono l’abbandono d’obiettivi non più accessibili e la formulazione di nuovi, nel tentativo di dare un senso a ciò che sta accadendo e, dove possibile, di trarre beneficio da una situazione stressante. Nella ricerca di un senso, le persone spesso privilegiano le credenze spirituali, per riuscire a trarre il meglio da una brutta situazione: individuare dei valori che possano compensare la perdita può alleviarne il peso (vedi fig. 6-2). Il modo in cui gli individui reagiscono alle circostanze stressanti è ampiamente determinato dal loro modo di essere – dalla loro personalità e dalla loro capacità di sopportazione.34 Le persone variano il loro modo di reagire, a seconda delle opportunità di risoluzione dei loro problemi che sono disponibili in una certa situazione, dell’intensità delle loro risposte emotive e della loro capacità di regolarle, nonché dei cambiamenti che si verificano nell’ambiente che le circonda, mentre la situazione stressante evolve. Porre una modalità di reazione in contrasto con un’altra è un errore, perché esse sono interdipendenti e interagiscono, completandosi a vicenda.35 Di conseguenza, bisognerebbe usare cautela nel giudicare, come positive o negative, le modalità di reazione poste in atto da un’altra persona. Le persone che apparentemente affrontano meglio la malattia mortale, spesso esibiscono uno “spirito battagliero” che vede nella malattia non solo una minaccia, ma anche una sfida.36 Queste persone si danno da fare per informarsi sulla propria malattia e assumono un ruolo attivo nelle decisioni che riguardano il trattamento. Sono ottimiste e possiedono la capacità di scoprire un significato positivo anche negli eventi ordinari. Per mantenere un atteggiamento positivo, nonostante la gravità delle circostanze, è necessario saper creare un senso del significato che sia superiore a quello della minaccia. Nel caso delle malattie a rischio di vita, l’abilità comprende la capacità di una persona di capire le conseguenze che la malattia implica per il futuro, così come la capacità di realizzare degli obiettivi, di mantenere i rapporti personali, e di mantenere il senso della propria vitalità, della propria competenza e della propria forza. La malattia grave, di fatto, disgrega tutti gli aspetti della vita di una persona, ma esiste una relazione essenziale tra il trovare un significato in ciò che sta accadendo e il raggiungimento di un senso di padronanza della situazione.37

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Cari amici, insieme alla nostra cara Madre Terra, sono giunto all’autunno della mia vita terrena, a quella fase di transizione che si trova tra la vita e la morte. Tra non molto, come le foglie cadono dagli alberi per continuare il ciclo vitale della generazione e della rigenerazione, così il mio corpo si disferà divenendo parte della terra mormorante. Come l’albero che raccoglie le energie per prepararsi all’inverno, anche io sento il bisogno di raccogliere le energie per affrontare il processo che conduce alla morte. Inoltre, desidero condividere un’ultima celebrazione con voi, cari amici. A questo scopo, ho organizzato un rituale di transizione che si terrà domenica 3 novembre alle 14.30 qui, a casa mia. Apprezzerei molto se poteste partecipare con la vostra presenza; e se non potete, mi farebbe piacere se quel pomeriggio poteste unirvi a noi nello spirito con l’energia dell’affetto via etere. Se potete venite, vi prego di portare un cuscino su cui sedere e un dono simbolico della vostra energia e della vostra benedizione per me in questo processo che sto attraversando – qualcosa proveniente dalla natura (una pietra, una conchiglia, una piuma, ecc.); una poesia, una fotografia o una canzone; uno scritto o un disegno; o qualsiasi cosa vi venga l’ispirazione di portare. Vi prego di portare anche un pasticcio, un’insalata, un dessert o delle bibite come contributo alla cena che seguirà il rituale. Una nuova gioia sta cominciando a realizzarsi in me davanti alla prospettiva di come il mio spirito potrà librarsi affrancandosi dal mio stanco corpo. Sono in attesa di condividere questo sentimento anche con voi. Con affetto e con i miei migliori auguri Joan Conn

Figura 6-2. Invito ad un party di “dipartita” (o Festa d’addio). Il rituale e l’amicizia possono essere di aiuto nell’affrontare la morte imminente. A questa celebrazione presero parte familiari e amici intimi, i quali riferirono che l’occasione era stata un’esperienza estremamente commovente. Sapendo che sarebbe presto morta di cancro, Joan creò un rituale che comprendeva il tracciare una linea sul pavimento e, a causa delle sue deboli condizioni, fu aiutata nel superarla dall’ex marito e dai figli mentre gli altri invitati presenti suonavano e cantavano. Benché un evento come questo non sia indicato per chiunque, la festa di addio di Joan rifletteva adeguatamente il suo stile di vita e le sue abitudini. Morì sette mesi più tardi.

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Il mantenimento della capacità di reazione La capacità di conservare il senso del proprio valore, di porsi degli obiettivi e di cercare di raggiungerli, di praticare delle scelte sulla base della consapevolezza della propria idoneità ad affrontare le sfide, di impegnarsi in un’interazione attiva rispetto al proprio ambiente – tutti questi fattori riflettono una “potenzialità di reazione” che sostiene la volontà di vivere di fronte alla morte. Si tramanda che, sia John Adams che Thomas Jefferson, pur essendo gravemente malati, riuscirono a mantenersi in vita fino al 4 luglio 1826, cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza americana. Secondo il suo medico, le ultime parole di Jefferson furono “Oggi è il quattro?” Questa storia ci illustra come gli esseri umani sembrino possedere la capacità di restare in vita, contro ogni previsione, pur di celebrare un anniversario o un altro evento importante prima di morire.38 L’idea che la speranza svolga un ruolo cruciale nella capacità del paziente di affrontare la malattia, è una verità da lungo tempo riconosciuta in medicina. Spesso i medici cercano di discutere della malattia e del suo trattamento in una maniera tale da instillare speranza nei pazienti. Nei casi difficili, i medici possono suggerire di prendere le cose “un passo per volta”, mirando in prima istanza a tenere sotto controllo il dolore, e concentrandosi in seguito, sulle diverse opzioni di trattamento oppure, ancora, possono paragonare la lotta contro una malattia grave; alla scalata di una montagna, che può essere un’impresa ardua, ma comunque realizzabile a condizione che si continui ad avanzare verso la vetta. Questa metafora suggerisce che il medico può contribuire ad “attirare il paziente verso un terreno più sicuro e migliore”. Come spiega un’oncologa “bisogna dare alle persone qualcosa per la quale valga la pena di alzarsi al mattino, altrimenti tanto varrebbe, per loro, prendere del cianuro.”39 Nel cercare di mostrare il lato migliore delle cattive notizie, il medico si sente investito del ruolo di primo sostenitore del paziente. Tuttavia, resta il fatto che, “a volte, l’unica vera speranza che puoi dare a una persona, che sta per morire, consiste nell’assicurarle che farai del tuo meglio per accompagnarla alla morte, nel rispetto dei suoi desideri”.40 Un fattore fondamentale, per mantenere un atteggiamento positivo, nonostante il peso della malattia, è l’immagine che il paziente ha di sé stesso. Orville Kelly, lo scomparso fondatore di Make Today Count, ha descritto la propria reazione e quella degli altri, dopo che gli fu annunciata la diagnosi di cancro.41 Dopo avere ricevuto la prognosi terminale, Kelly contemplò il suicidio, temendo di poter diventare un peso per la sua famiglia. Parenti e amici si sentivano a disagio in sua presenza. Una donna chiese a sua moglie: “Come sta suo marito?”, nonostante Kelly si trovasse solo a pochi passi da lei. Benché fosse ancora in vita, stava sperimentando una sorta di morte sociale. Nonostante la terribile prognosi, Kelly pre-

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sto si rese conto che, di fatto, era ancora vivo. Poteva ancora amare ed essere amato. Per quanto breve potesse essere il tempo che gli restava da vivere, poteva sempre cercare di vivere ogni giorno al meglio. Dopo aver constatato che il tasso di mortalità di ogni generazione è del 100%, Kelly cominciò a parlare dei propri sentimenti e ad esprimere le proprie preoccupazioni di malato terminale. Un articolo che scrisse per un quotidiano locale, suscitò una reazione talmente massiccia e positiva da indurlo a fondare il Make Today Count, un gruppo di supporto su base nazionale dedicato ai malati terminali. Il messaggio di Kelly è di importanza cruciale: ogni persona, alla quale sia stata diagnosticata una malattia terminale, può cercare di fare di ogni giorno un giorno speciale.

La gestione del dolore Il dolore è il sintomo più comune in tutti i pazienti terminali.42 I sostenitori degli hospice e della medicina palliativa, sottolineano la necessità di un’adeguata gestione del dolore, non solo per i pazienti terminali, ma per tutti i pazienti affetti da sindromi dolorose, che siano sottoposti o meno ad altre terapie. Sempre più diffusamente, si guarda al dolore come a un “quinto segno vitale”, che dovrebbe essere aggiunto agli altri quattro segni vitali – temperatura, polso, respiro e pressione sanguigna – il cui accertamento è una procedura di routine nell’assistenza al paziente.43 Un’inadeguata gestione del dolore è stata definita come “la vergogna della medicina americana.”44 Il dolore è un fenomeno complesso e pluridimensionale; il tipo e l’intensità del dolore possono essere un importante strumento diagnostico.45 Si distinguono due tipologie principali di dolore. Il dolore acuto che è “un segno biologico essenziale dell’eventuale presenza di una lesione o della sua estensione.”46 Il dolore acuto è un meccanismo protettivo che induce la persona che lo avverte a eliminarne la fonte o a sottrarsene.47 Il secondo tipo di dolore, il dolore cronico, è normalmente definito come un dolore che persiste per più di tre-sei mesi. Quando il dolore dura così a lungo perde la sua funzione adattativa. Il dolore cronico può accompagnarsi a disturbi del sonno, a perdita dell’appetito, a diminuzione di peso, a calo dell’attrazione sessuale e a depressione. Il dolore cronico può essere la conseguenza di meccanismi fisici (dolore somatogeno), di meccanismi psicologici (dolore psicogeno), dell’attivazione dei recettori nervosi per il dolore (dolore nocicettivo) o di lesioni a carico del tessuto nervoso (dolore neuropatico). Il linguaggio del dolore Le persone parlano spesso del dolore come se si trattasse di un’entità ben definita, ma, in effetti, come sottolinea Linda Garro, il dolore “è per sua na-

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tura soggettivo e sostanzialmente non condivisibile”.48 Garro afferma: “Il dolore non può essere osservato o misurato direttamente; è un’esperienza percettiva che può essere comunicata attraverso mezzi verbali e/o comportamenti interpretati come indicativi del dolore.” I sistemi di credenze, che vi sono associati culturalmente, hanno un enorme impatto sul modo in cui i pazienti si “rappresentano” la malattia, così come sulle loro modalità di reagire.49 Le lingue hanno ognuna il proprio “lessico” per parlare del dolore. Gli inglesi, ad esempio, quando descrivono il dolore, usano termini quali pain (dolore), hurt (dolere, fare male), sore (dolente, infiammato), e ache (male). Ad essi, vengono affiancati aggettivi qualificativi in modo che l’espressione corrisponda alla esperienza effettiva: così si ha “un dolore lancinante” o “martellante”, o si ha “un male insopportabile” o “male ad una spalla”. Da notare la tendenza, per gli inglesi, a trattare il dolore come un oggetto: “ho un male”, “ho un dolore”. Contrariamente agli inglesi, i tailandesi, per descrivere il dolore, usano prevalentemente i verbi: essi fanno riferimento alla percezione attiva delle sensazioni e spesso esprimono anche la sede del dolore; per esempio, “sentire un dolore addominale localizzato” o “sentirsi irritati da un’abrasione”. Il dolore non è descritto come un oggetto, ma come un processo percettivo. Il linguaggio rivela che la nostra risposta al dolore è, almeno parzialmente, plasmata dalla cultura. Il trattamento del dolore Un efficace trattamento del dolore richiede di conoscerne la severità, la localizzazione, la qualità, la durata e il decorso, oltre ad altri fattori tra i quali il “significato” che il dolore ha per il paziente. Inoltre, è importante distinguere tra dolore e sofferenza, specialmente per i pazienti ammalati di cancro, “la cui sofferenza può essere dovuta tanto alla perdita di funzionalità e alla paura della morte imminente, quanto al dolore.”50 Il dolore viene generalmente gestito con un “approccio graduale”, cominciando con farmaci di base non oppiacei e, se necessario, passando a oppiacei forti come codeina e morfina.51 La morfina è la droga più comunemente usata per trattare il dolore severo da cancro. Essa influenza sia la percezione del dolore, sia la risposta emotiva. La buona notizia è che (1) non è particolarmente difficile valutare e trattare il dolore da cancro e che (2) si comincia ad essere più attenti al dolore.52 La notizia meno buona è che l’incomprensione di alcuni medici, infermieri e farmacisti verso gli analgesici oppiacei, come appunto la morfina, impedisce ai pazienti di ricevere medicinali adatti ad un adeguato controllo del dolore. Ciò è in parte dovuto al fatto che molti professionisti dell’assistenza sanitaria sottovalutano il dolore dei pazienti, ma in parte è dovuto anche alle preoccupazioni infondate circa la possibilità che i pazienti sviluppino una dipendenza da oppiacei. Incredibilmente, ci sono

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infermiere di hospice, preoccupate della possibile “tossico-dipendenza” dei loro pazienti morenti.53 Gli esperti del dolore, sottolineano una distinzione fondamentale fra tossicodipendenza o dipendenza psicologica (nella quale la ricerca della droga è un comportamento che viene attuato nel tentativo di riprodurre lo stato di eccitazione), e dipendenza fisica (che si esprime semplicemente in una “sindrome di astinenza” che si verifica dopo che il paziente ha sospeso l’assunzione di droghe). In realtà, i pazienti che soffrono di dolori severi, raramente ottengono dalle droghe sensazioni piacevoli o di euforia. La morfina produce un efficace controllo del dolore, in quanto agisce direttamente sul sistema di mitigazione del dolore dell’organismo stesso, ovvero sui neurotrasmettitori, una classe dei quali è chimicamente simile alla morfina. L’eroina, che sconta l’immeritata fama di “droga più pesante” nota all’umanità, è un altro utile rimedio nel controllo del dolore. È considerata da molti esperti indispensabile per la gestione del dolore, e molti sostengono che dovrebbe essere resa disponibile ai medici negli Stati Uniti, come già avviene in Gran Bretagna.54 Secondo gli specialisti del dolore, la medicina possiede i mezzi per alleviare il dolore e la sofferenza di quasi tutti i pazienti terminali, ma ciò che manca è la volontà di trattare efficacemente il dolore (vedi tab. 6-3): la “politica della gestione del dolore” può determinare, dunque, se il dolore è trattato in maniera adeguata o no. I progressi nel campo della gestione del dolore vanno di pari passo con lo

Tabella 6-3 Fattori che inibiscono un adeguato controllo del dolore. – Il personale medico è preoccupato dall’idea che i pazienti possano sviluppare dipendenza, e di conseguenza non prescrive le droghe appropriate, oppure prescrive solo dosi basse e insufficienti di medicinali che in dosaggi adeguati sarebbero di aiuto. – I medici sono restii a prescrivere narcotici potenti perché temono di essere perseguiti da funzionari troppo zelanti nel fare rispettare le leggi. – I pazienti pensano di dovere sopportare il dolore in silenzio come segno di forza morale o di stoicismo. – I pazienti temono che, se usano forti antidolorifici da subito, non potranno più ricorrere a nient’altro se, più avanti, il dolore dovesse peggiorare; in realtà, invece, per la maggior parte delle persone non esistono limiti superiori alla capacità di narcotici come la morfina di controllare il dolore. – Molti medici in effetti non sanno molto su come controllare il dolore. C’è una grave carenza di formazione riguardo ai principi della gestione del dolore e della medicina palliativa. Fonte: Adattato da Shannon Brownlee and Joannie M. Schrof, “The Quality of Mercy” (Special Feature), U.S. News & World Report, March 17, 1997, 54-67.

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sviluppo di una più completa conoscenza delle sue vie e dei suoi meccanismi di trasmissione.55 La somministrazione di droghe per via epidurale e intraspinale – che si esegue, facendo scorrere un flusso lento e costante di morfina, direttamente all’interno della colonna spinale – è spesso utilizzata nel trattamento dei pazienti all’ultimo stadio per ottenere un efficace controllo del dolore.56 I “cocktail di droghe” – composti di piccole quantità di farmaci differenti – sono usati per bloccare diversi canali di trasmissione del dolore nel corpo. L’anestesia controllata dal paziente, un meccanismo che permette al paziente di determinare da sé il momento migliore per intervenire ad alleviare il dolore, è spesso più efficace rispetto all’alternativa di dovere ricorrere agli altri per avere un’iniezione o una compressa quando il dolore si è già aggravato. Il dolore viene anche trattato con una varietà d’altre tecniche mediche, compreso il blocco di nervi, la loro stimolazione elettrica, l’agopuntura e la neurochirurgia. Inoltre, gli antidepressivi e altri medicinali sono spesso prescritti per alleviare l’ansia, la confusione e la depressione, che possono affliggere i pazienti.57 Infine, i farmaci possono essere somministrati per minimizzare gli spiacevoli effetti di costipazione, nausea, depressione respiratoria e altri sintomi fisici comunemente presenti nei pazienti morenti. I professionisti degli hospice e delle cure palliative, sono stati i primi ad attirare l’attenzione sull’importanza di un’adeguata gestione del dolore, specialmente in termini di risposta al “dolore totale” del paziente, che include componenti fisiche, psicologiche, sociali e spirituali.58 Il controllo del dolore nei pazienti che si stanno approssimando al termine della vita, può rappresentare una sfida formidabile, che richiede attenzioni specialistiche da parte di professionisti capaci. Tecniche efficaci per il controllo del dolore sono note ed accessibili, la mancanza d’adeguati sistemi di diffusione, che le rendano ampiamente accessibili, non fa che perpetuare situazioni in cui le persone muoiono in condizioni di ingiustificato dolore.

Il decorso del morire Le nostre attese sul morire possono non corrispondere a quanto la maggior parte delle persone sopporta nell’esperienza reale. I giovani adulti immaginano di poter vivere fino alla vecchiaia e quindi di morire velocemente, a casa propria, vigili e lucidi fino alla fine.59 Il dolore e gli altri disagi che accompagnano il morire restano tendenzialmente assenti da questi scenari immaginari che riguardano il letto di morte. La nostra visione del morire sembra essere influenzata dalle immagini provenienti dal cinema e dagli altri mezzi di comunicazione, piuttosto che da ciò che verosimilmente potrà accadere.

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Il concetto di un decorso o traiettoria del morire è utile per comprendere le esperienze dei pazienti che si avviano verso la morte. Un tipo di “traiettoria del morire” è rappresentato dalla morte improvvisa, causata da un evento imprevisto – ad esempio un infarto fulminante o un incidente; ma in questa sede noi ci occuperemo dei casi nei quali la morte è prevista in anticipo. In questi casi, alcuni tipi di “traiettorie del morire” sono caratterizzati da un declino progressivo e chiaramente prevedibile: è questo il caso di molti cancri, che tendono a seguire il corso di una patologia progressiva con una fase terminale. Altri tipi di malattia cronica avanzata sono caratterizzati da un lungo periodo di lento decadimento segnato da episodi critici, l’ultimo dei quali si dimostra “improvvisamente” fatale. È inoltre possibile distinguere, in una “traiettoria del morire”, diversi stadi: un periodo in cui la persona sa di essere affetta da una malattia terminale, ma ha un’aspettativa di vita di settimane, mesi o forse anche anni; e un ultimo periodo in cui la morte è imminente e la persona è coinvolta in un processo di “morte attiva”. Il modo in cui queste “traiettorie del morire” sono valutate – rispetto alla loro durata e al corso previsto – può influire tanto sul comportamento del paziente quanto su quello dei professionisti che lo assistono. Le morti che avvengono “fuori tempo” (troppo velocemente o troppo lentamente) possono porre delle particolari difficoltà. Due tipologie di “traiettoria del morire” sono particolarmente importanti: (1) la traiettoria lenta, nella quale la vita del paziente si spegne lentamente e inevitabilmente, e (2) la traiettoria prevedibilmente veloce, nella quale l’individuo muore in maniera improvvisa, come in quelle situazioni d’emergenza in cui il paziente è sospeso tra la vita e la morte.60 Le attese dei medici, dei familiari e delle altre persone coinvolte sul decorso del morire, rivestono quasi sempre un ruolo importante nel determinare la natura e il tipo delle cure che il morente riceve. Nonostante si facciano, di tanto in tanto, delle proposte per una possibile ars moriendi, o arte del morire, l’idea che esista un modo “giusto” di morire, valido per tutti, difficilmente potrà affermarsi nelle moderne società pluraliste, che attribuiscono un grande valore all’individuo.61 Quando una persona è allo stadio finale di una malattia terminale, ci si aspetta che la morte avvenga entro alcune ore o, al massimo, pochi giorni.62 La fine della vita è caratterizzata da quella che gli specialisti definiscono “morire in modo attivo” (vedi tab. 6-4). Durante l’ultima fase di una malattia fatale, il morente può manifestare respirazione irregolare o mancanza di fiato, diminuzione dell’appetito e della sete, nausea e vomito, incontinenza, agitazione e irrequietezza, disorientamento, confusione e calo di coscienza. Questi sintomi in genere possono essere gestiti con un’assistenza palliativa qualificata. Se presente, il dolore andrebbe trattato in maniera aggressiva,

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Tabella 6-4 “Morire in modo attivo”: i segni clinici.

Sintomi comuni negli ultimi giorni o nelle ultime ore… – I sistemi dell’organismo rallentano. – Il ritmo di respirazione cambia e diventa irregolare (per esempio, respiri superficiali seguiti da respiri profondi; fasi di affanno). – Respirazione difficoltosa (dispnea). – Congestione (respiro rumoroso e umido; gorgoglii). – Diminuzione dell’appetito e della sete. – Nausea e vomito. – Incontinenza. – Sudorazione. – Irrequietezza e agitazione (per esempio, movimenti bruschi, spasmi muscolari, tirare le coperte del letto o gli indumenti). – Disorientamento e confusione (per esempio riguardo a tempo, spazio, identità delle persone). – Diminuzione della socialità; progressivo distacco. – Mutamenti nel colore della pelle via via che la circolazione diminuisce (gli arti possono diventare freddi e talvolta bluastri o chiazzati). – Aumento del sonno. – Diminuzione della consapevolezza. Al momento della morte… – Il rilassamento dei muscoli della gola o la presenza di secrezioni nella gola possono causare un respiro rumoroso (il “rantolo della morte”). – La respirazione cessa. – Possono verificarsi contrazioni muscolari e il torace può alzarsi come per respirare. – Il cuore può battere per alcuni minuti dopo la cessazione del respiro, e può verificarsi una breve convulsione. – Il battito cardiaco cessa. – La persona non può essere risvegliata. – Le palpebre possono essere parzialmente aperte e gli occhi avere uno sguardo fisso. – La bocca può aprirsi con il rilassamento della mascella. – Può esserci un rilascio del contenuto degli intestini e della vescica. Fonte: Adattato da “Preparing for the Death of a Loved One”, American Journal of Hospice and Palliative Care 9, no. 4 (1992): 14-16; Robert Berkow, ed., “The Merch Manual of Medical Information: Home Edition” (Whitehouse Station, N.J.: Merck Research Laboratories, 1997), p. 21; and Robert E. Enck, “The Last Few Days”, American Journal of Hospice and Palliative Care 9, no. 4 (1992): 11-13.

nel quadro di un approccio globale alle cure palliative. Anche quando il dolore può essere controllato mediante l’uso di droghe o altre terapie, alcuni pazienti, pur essendo vicini alla morte, esprimono delle preoccupazioni sulla possibilità di sviluppare dipendenza o vogliono posticipare il trattamento del dolore “fino a quando non sarà realmente necessario”, oppure desiderano mantenere il controllo “usando il dolore come una testimonianza del fatto

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che sono ancora vivi.”63 I pazienti morenti possono anche attraversare stati di depressione, ansia, confusione, delirium e incoscienza.64 Poiché le persone che sono prossime alla morte, spesso non si sentono né di mangiare né di bere, la somministrazione forzata di alimenti o liquidi generalmente non è benefica. Quando la morte è imminente, il rilassamento dei muscoli della gola o un aumento di secrezioni nella gola, possono rendere la respirazione rumorosa, dando luogo a un suono detto “rantolo della morte”. I pazienti morenti solitamente non sono consapevoli di questa respirazione rumorosa. Nel caso questa fosse snervante per i familiari o per le persone che assistono, può essere utile cambiare posizione al malato; immediatamente prima della morte, è possibile che il malato prenda un respiro, immediatamente seguito da un gemito o da un brivido. Dopo la morte, a meno che la persona non fosse affetta da una rara patologia infettiva, a familiari e amici è consentito di restare presso il corpo per il commiato ancora per un po’ di tempo.

Il ruolo sociale dei morenti Quando la morte è presentata, più che come un evento naturale, come un fallimento medico, la morte biologica, ovvero la cessazione delle funzioni fisiche, può essere preceduta dalla morte sociale. Eric Cassell, scrive: “Due cose distinte accadono ai malati terminali: la morte del corpo e il trapasso della persona.”65 La morte del corpo è un fenomeno fisico, mentre il trapasso della persona è un evento non-fisico (sociale, emotivo, psicologico, spirituale); tuttavia sono due aspetti che a volte si confondono. Quando una persona comincia a rendersi conto dell’avvicinarsi della morte, questa consapevolezza può stimolare un bilancio della propria vita, una valutazione di ciò che si è riusciti a compiere: quali obiettivi ho raggiunto, quali non sono riuscito a raggiungere? In che modo ho contribuito al benessere degli altri o al miglioramento dell’umanità? Ho soddisfatto le mie attese rispetto al mio ideale di una vita ben vissuta? Che cosa ne sarà della mia reputazione, dopo che me ne sarò andato? La vita è stata “onesta” con me? La buona sorte ha bilanciato la cattiva? In breve, com’è il bilancio della mia vita?66 Quando una persona è conscia di essere vicina al termine della vita, la cosa più importante può essere “credere che la vita abbia, se non uno scopo, almeno una singolarità che la renda memorabile.”67 La “narrazione”, o la storia, della vita di una persona è ciò che conta. Affrontando una malattia a rischio di morte, le persone spesso elaborano modi per ridefinire la loro situazione in modo da potersi sentire ancora “sani”. Una donna affetta da cancro in fase di metastasi ha affermato: “Io sto davvero molto bene. Ho solo questo problema, ma sono ancora io.” La sua

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affermazione mostra un senso d’integrità della persona, che testimonia la capacità di continuare la propria vita, nonostante la malattia.68 I nostri modelli culturali di salute e malattia, influenzano il modo in cui ci relazioniamo al significato di una malattia e affrontiamo la sua realtà.69 “Essere sani” è una caratteristica fondamentale del nostro contesto sociale.70 La malattia, secondo il sociologo Talcott Parsons, è accompagnata da un particolare ruolo sociale.71 Il dovere della persona malata è quello di impegnarsi nel tentativo, sostenuto da professionisti, di guarire. Come tutti i ruoli sociali – di genitore, di figlio, di studente, d’impiegato, di coniuge – il ruolo della “persona malata” implica dei diritti e delle responsabilità. La malattia tende a esentare una persona dai suoi compiti usuali, possiamo stare a casa dal lavoro, qualcun altro si assumerà la nostra parte di compiti domestici o sociali, ci è garantito il diritto di essere malati, gli altri sono disposti a giustificare il nostro comportamento. Assentarsi dal lavoro solo per godersi una giornata all’aria aperta, suscita disapprovazione, le assenze dovute alla malattia ispirano simpatia, piuttosto che rimproveri. Non solo la persona malata è dispensata dai normali obblighi sociali, ma è anche oggetto di una particolare considerazione e assistenza, che fa parte del ruolo sociale del paziente. Ma questi “diritti” sono bilanciati da alcune responsabilità: il malato deve collaborare con coloro che lo assistono, ha il “dovere” di prendere le medicine. Al malato terminale o al morente, non corrispondono i parametri del “ruolo di malato”, descritti da Parsons, perché la malattia terminale non è una condizione temporanea che possa essere seguita da una guarigione. La nostra società non ha definito chiaramente il ruolo sociale del morente, anche quando le circostanze sono chiaramente sfavorevoli, il morente può essere spinto a sperare nella guarigione, a negare la realtà della propria esperienza; e questo, a volte, ha come conseguenza delle azioni incongrue: quale, per esempio, potrebbe essere la situazione di un malato terminale all’ultimo stadio, condotto precipitosamente all’unità di cure intensive e sottoposto dai medici a eroici tentativi per mantenerlo in vita. In che modo si potrebbe caratterizzare un appropriato ruolo sociale per i morenti? Prima di tutto, non ci si dovrebbe aspettare che il morente mantenga l’atteggiamento di una persona che voglia vivere indefinitamente o che coltivi false speranze. Egli dovrebbe piuttosto essere incoraggiato a mobilitare le risorse necessarie per affrontare la prospettiva della morte. Parenti e amici, accettando come naturale questo mutamento di prospettiva, permetterebbero al paziente di decidere autonomamente come gestire le attività e i rapporti personali, all’approssimarsi della fine della vita.72 In uno studio dedicato agli “addii dei morenti”, la maggior parte dei malati desiderava prendere commiato dai propri cari, distribuendo doni, scrivendo lettere e intrat-

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tenendo con loro conversazioni informali.73 I rapporti importanti, per la maggior parte delle persone, restano preziosi fino al termine della vita. Il ruolo sociale dei morenti comprende bisogni spirituali, fisici ed emotivi74: – Il bisogno di senso e di razionalità. Consiste nel riesaminare la propria vita (comprese le relazioni interpersonali, il lavoro, gli obiettivi raggiunti e le istanze religiose), cercando di trovarvi un senso, di situarla nel quadro di una prospettiva più ampia, dotata di significato. – Il bisogno di speranza e di creatività. Il bisogno al primo posto di questa lista, implica uno sguardo rivolto all’indietro sulla propria vita per trovarvi un senso e una razionalità, questo secondo è orientato verso il futuro. Può comprendere l’aspirazione a un maggiore benessere e alla liberazione dal dolore, il desiderio di raggiungere un obiettivo personale o di riconciliarsi con gli altri, o, ancora, la speranza in un aldilà. Questo bisogno può anche concentrarsi sulla speranza, per usare le parole di Roderick Cosh, “che ciò che è stato significativo per l’individuo possa essere ripreso e continuato da coloro che sono importanti per lui”.75 – Il bisogno di dare e ricevere amore. Come Cosh afferma, “Tutti noi abbiamo bisogno di essere rassicurati sul fatto che siamo amati e che gli altri hanno bisogno del nostro amore”. La riconciliazione è un elemento cruciale per soddisfare questo bisogno spirituale dell’uomo. In un saggio, “Con gli occhi della fine”, lo scrittore giapponese Yasunari Kawabata suggerisce che il desiderio di bellezza dell’uomo è realizzato in modo elettivo dalle persone che stanno morendo, e questo tema ritorna nei suoi racconti: in “Luna d’acqua”, un uomo che sta per morire raggiunge una maggiore capacità di apprezzare la bellezza della natura; ne “Il suono della montagna” un uomo anziano, vicino alla morte, gode di una più intensa consapevolezza della bellezza dell’eroina, Kikuko; ne “La casa delle belle addormentate”, le “belle” sono più che mai tali in quanto sono viste attraverso gli occhi del vecchio Educhi, che sa di avere i giorni contati.76

Letture di approfondimento Lance Armstrong. It’s Not About the Bike: My Journey Back to Life. New York: Putnam, 2000. Ira Byock. Dying Well: The Prospect for Growth at the End of Life. New York: Riverhead, 1997. Maggie Callanan and Patricia Kelley. Final Gifts: Understanding the Special Awareness, Needs, and Communications of the Ding. New York: Bantam, 1997.

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Joanne Lynn and Joan Harrold, eds. Handbook for Mortals: Guidance for People Facing Serious Illness. New York: Oxford University Press, 1999. David B. Morris. The Culture of Pain. Berkeley: University of California Press, 1991. Sherwin B. Nuland. How We Die: Reflections on Life’s Final Chapter. New York: Knopf, 1994. Ernest H. Rosenbaum and Isadora Rosenbaum. Supportive Cancer Care: The Complete Guide for Patients and Their Families. Naperville, Ill.: Sourcebooks, 2001. L. Eugene Thomas. “Personal Reflections on Terminal Illness After Twenty Years of Teaching a Death and Dying Course,” Omega: Journal of Death and Dying 43, no. 2 (2001): 119-127. Patrick Wall, Pain: The Science of Suffering. New York: Columbia University Press, 2000. Carol Wogrin, Matters of Life and Death: Finding the Words to Say Goodbye, New York: Broadway, 2001.

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Capitolo 7

LA FINE DELLA VITA: PROBLEMI E DECISIONI

Una persona nata alla fine del Diciannovesimo secolo o all’inizio del Ventesimo ha potuto fruire di progressi tecnologici senza precedenti e, al momento della morte, si è trovata circondata da innovazioni tecnologiche impensabili all’inizio; e, forse, si sarà fatto delle domande sull’importanza che quelle innovazioni avevano avuto sulla qualità della sua vita. Giunto alla fine, se fosse stato cosciente di stare per morire, avrebbe potuto farsi delle domande sulle conseguenze che gli apparecchi che lo tenevano in vita avrebbero avuto sulla qualità della sua morte. In questo capitolo, si parlerà delle questioni e delle decisioni che riguardano la fine della vita, alcune delle quali sono inerenti i problemi che ci si può porre molto tempo prima di doversi confrontare con una diagnosi infausta, come ad esempio fare o non fare testamento; farsi una assicurazione sulla vita o lasciare direttive anticipate sulle cure mediche che si desiderano ricevere, qualora si fosse in gravi condizioni e senza il pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Altri problemi e decisioni emergono solo quando un paziente è molto malato e si trova a far fronte alla morte. Questi aspetti comprendono la scelta tra mantenere o sospendere le terapie, prendere in considerazione il suicidio medicalmente assistito e altri aiuti per porre termine all’esistenza, in generale, fino al modo in cui è possibile ottenere chiarezza comunicativa tra il malato e coloro che si prendono cura di lui. Inoltre, alcuni problemi si pongono quando una persona è ancora in vita, ma non si completeranno fino alla sua morte, come, ad esempio, la sistemazione del suo patrimonio con la procedura legale della successione, i rimborsi assicurativi o altre procedure in favore degli eredi. Tutti i problemi e le decisioni di fine vita che sono oggetto di questo capitolo, dovrebbero essere già stati presi in considerazione nel corso della vita, prima che la malattia o l’età diventino i pensieri più pressanti. Prendere coscienza dell’inevitabilità della morte significa anche prepararsi ad essa, e una preparazione adeguata ci mette al riparo dall’aggiungere ulteriore pena a chi rimane, anche nel caso di una morte improvvisa. Anche se certe decisioni

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non possono essere prese a meno che non si sia obbligati a prenderle, molte questioni legate alla morte e al morire possono essere anticipate, ponderate e discusse con i parenti stretti e gli amici fidati. Tali conversazioni possono facilitare ciò che sarebbe difficile tanto per noi, quanto per chi rimane; ed è quindi prudente iniziare a considerare gli aspetti inerenti le decisioni di fine vita già durante gli anni dell’università per poi aggiornarle periodicamente durante tutta la vita1.

Principi di etica medica Per fornire un quadro di riferimento che ci porti a poter discutere di consenso informato, di sospensione o proseguimento delle cure, d’eutanasia (definita come “portare a una morte dolce o pacifica”), di suicidio medicalmente assistito e di altre situazioni rilevanti per il morire, è necessario ricapitolare i concetti che riguardano il comportamento etico o morale. L’etica si occupa di ciò che è corretto o sbagliato, in particolar modo, se queste categorie sono riferite a doveri morali e obblighi, sfocia, in una serie di principi e di valori morali che presiedono a un comportamento corretto: quando parliamo di morale o di principi morali, stiamo essenzialmente trattando di che cosa è giusto e di che cosa non lo è. Anche se i termini, morale ed etica sono in stretta relazione, si possono distinguere, notando come la morale si occupi di stabilire dei codici o delle nozioni accettabili di giusto o sbagliato, mentre l’etica prende in considerazione questioni più sottili e impegnative. Lo scopo dell’etica è caratterizzato dallo sforzo di rispondere alla domanda “che cos’è il bene?” e al suo corollario, “che cosa si deve fare?” Se si vogliono applicare i principi etici all’ambito medico, molti sono i concetti rilevanti, ad esempio, quello d’autonomia, che si riferisce al diritto personale di autogestione, ossia alla capacità di gestirsi da sé, di essere liberi e moralmente indipendenti. La nostra autonomia personale è limitata dal diritto che gli altri hanno di esercitare la loro e può essere anche limitata dalla società, che esercita diritti, in nome della comunità. Un esempio comune è il requisito della vaccinazione per poter entrare in certi paesi: l’autonomia del viaggiatore è ristretta da fattori di salute pubblica, imposti dalla comunità. L’autonomia personale è un concetto complesso e spesso ambiguo. Un individuo può voler limitare l’estensione della propria autonomia, ad esempio quando credenze culturali o religiose influenzano la sua personale autonomia.2 Allora, ci si potrà domandare se il principio d’autonomia si debba applicare anche a coloro i quali preferiscono delegare, ai medici o ai loro cari, il ruolo primario di prendere decisioni mediche: indubbiamente è una domanda importante nelle discussioni sul consenso informato e sulle deci-

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sioni mediche. Per alcune persone o gruppi, i componenti della famiglia hanno un’importanza primaria o pari a quella del paziente, nelle decisioni che riguardano la sua cura. L’autonomia individuale è bilanciata dal rispetto per i valori degli altri, in special modo verso quelle persone con cui s’intrattengono relazioni importanti. Alcuni ritengono che, se le decisioni sono prese senza considerare l’effetto che hanno sul gruppo famiglia, queste non vadano rispettate3. Nel trattare col sistema sanitario, entro certi limiti, il concetto d’autonomia promuove il rispetto per le persone. Un altro principio etico fondamentale, connesso alle cure mediche, è il concetto di beneficenza, che prevede il fare del bene o apportare benefici che promuovano il benessere personale o sociale. Questo principio si esprime a volte con il concetto di nonmaleficenza o con l’ingiunzione di “non nuocere”. Nel contesto della relazione medico-paziente, questo principio richiede che il medico non abbandoni il paziente, anche se il paziente prende decisioni o compie azioni che il medico ritiene sconsigliabili4. Da ultimo, l’etica medica si occupa del concetto di giustizia, che, così come il “bene”, non è concetto di facile definizione, anche se comprende qualità d’imparzialità e correttezza e implica azioni giuste e appropriate. La giustizia ci chiede di andare oltre i nostri sentimenti, i nostri pregiudizi e i nostri desideri per trovare un equilibrio tra interessi in contrasto. Nel considerare le questioni esposte in questo capitolo, bisogna tenere in mente i principi d’autonomia, di beneficenza e di giustizia. L’etica tradizionalmente incentrata sulla virtù è sfidata dall’attuale trasformazione della medicina in “business”.5 Idealmente, le decisioni che riguardano la fine della vita sono materia riservata al singolo, alla sua famiglia e a chi si prende cura del malato. Queste parti, agendo assieme, formano un gruppo che ha un obiettivo comune e che condivide ciò che si deve sapere di un certo caso e anche la volontà di prendere decisioni morali6. Il medico John Lantos dice che “l’obiettivo dell’etica medica non dovrebbe essere quello di fornire regole per ridurre al minimo il bisogno di virtù individuali, ma quello di sviluppare virtù che riducano al minimo il bisogno di regole.”7

Il consenso informato La relazione fra medico e paziente implica un contratto, dove ognuna delle due parti si dice d’accordo nel compiere certe azioni che mirano al raggiungimento dei risultati desiderati. Il consenso informato è considerato essenziale all’interno di questo patto. I pazienti hanno il diritto di essere informati in modo completo sulle terapie proposte, in modo da poter decidere se

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farsele somministrare. All’atto pratico molti tendono a fidarsi dell’opinione del medico, accettando la diagnosi e portando avanti i trattamenti proposti. Andiamo dal dottore per curare l’influenza o sistemare un braccio rotto e non pensiamo ad altri possibili trattamenti. Seguendo il consiglio del medico, ci aspettiamo di guarire in fretta. L’eziologia, o la causa di una malattia, ci preoccupano di meno, ci interessa di più dare sollievo ai sintomi. Tuttavia, quando una malattia è grave o può portare alla morte, il consenso alle cure diventa più importante. Si possono prospettare diversi piani di cura, spiegandone rischi e benefici e ci possono essere incertezze nel determinare quale cura porti ai risultati migliori o possa avere i minori effetti collaterali. Il consenso informato si fonda su tre importanti aspetti legali: il primo aspetto dice che il paziente deve essere competente, per poter acconsentire; il secondo, che il consenso deve essere dato liberamente; il terzo, che esso deve essere basato su un’adeguata comprensione delle cure proposte e dei loro potenziali rischi. Anche se l’espressione “consenso informato” non ha ottenuto valore legale fino al 1957, simili concetti risalgono a leggi inglesi di centinaia d’anni fa. La Commissione presidenziale Usa per lo studio dei problemi etici in medicina, rileva che “la legge del consenso informato pone al medico due obblighi legali: informare il paziente sulle cure e ottenere il consenso di procedere con la terapia.”8. Idealmente, il consenso informato si svolge entro un contesto di decisioni condivise, maturate sulla base del mutuo rispetto, ma poiché gli individui hanno atteggiamenti diversi verso l’autonomia della persona nelle decisioni mediche, il processo che porta ad ottenere un consenso informato deve essere flessibile. I medici si possono trovare nella difficile situazione di dover calibrare l’informazione con l’attenzione rivolta alla sensibilità del paziente e ai suoi desideri. Alcuni studi mostrano come ai pazienti interessi di più essere informati piuttosto che essere pienamente coinvolti nel processo decisionale, e questo sembra accadere più spesso quando i rischi per la salute sono maggiori 9. La maggior parte dei medici ritiene di dover informare il paziente in modo veritiero, quando egli sia in condizioni gravissime, ma non avviene sempre così. Uno studio del 1961 rilevò come la maggioranza dei medici avesse una tendenza a non comunicare le informazioni10, e nessuno dei medici coinvolti nella ricerca mostrò l’intenzione di comunicare ai pazienti condizioni di salute potenzialmente letali. Solo circa il 12% dei medici affermò che avrebbe informato un paziente se questi avesse avuto un tumore incurabile. Anche se il paziente veniva informato, la malattia era spesso descritta in modo eufemistico, ossia il medico diceva al paziente che aveva “lesioni” o “masse”. Alcuni medici mostravano maggior precisione usando termini come “accrescimento”, “tumore” o “tessuto iperplastico”. In molti casi, la descrizione era fatta in modo da suggerire che il tumore fosse benigno e gli aggettivi era-

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no adoperati per attenuare l’impatto della diagnosi: si parlava di un “sospetto” di tumore o di un “tumore degenerativo”, descrizioni che consentivano al medico di fornire una spiegazione generale della situazione medica senza sollecitare la cooperazione da parte del paziente per quanto riguardava la cura proposta. A partire dai tardi anni Settanta, l’atteggiamento verso la comunicazione della verità ai pazienti è molto cambiato. Uno studio del 1977 ha mostrato che l’atteggiamento era completamente cambiato: il 97% dei medici affermò di dire ai pazienti la verità sulle diagnosi11. In uno studio d’approfondimento, tuttavia, i medici ammisero che operavano qualche aggiustamento nel caso in cui la situazione implicasse questioni etiche molto delicate.12 I ricercatori scrissero che “i medici sembravano giustificare le proprie decisioni e dare maggior valore al benessere dei pazienti e al mantenere la loro fiducia, piuttosto che dire la verità per amore della verità”. Dare informazioni sulla prognosi, cioè sul decorso della malattia, può essere particolarmente problematico. Spesso è molto difficile predire l’aspettativa di vita di un paziente. Le statistiche sull’andamento delle malattie danno solo un’idea generale delle probabilità di sopravvivenza e l’esperienza clinica può essere al proposito una guida più utile. Ciononostante, a causa dell’incertezza, “alcuni medici preferiscono offrire speranza, raccontando di guarigioni sorprendenti, sorvolando sull’alta probabilità di morire cui vanno incontro le persone con malattie gravi”13. Sebbene i pazienti non capiscano completamente tutti i dettagli medici forniti, la maggior parte di loro coglie la parte più significativa della situazione e delle cure, ma il medico deve dedicare loro abbastanza tempo e sforzi per formulare una spiegazione chiara. Il consenso informato può essere particolarmente importante se le cure sono fornite da un’equipe di specialisti, le cui responsabilità non sono tanto definite dai bisogni del paziente, quanto dalla particolare malattia o dalla parte dell’organismo interessata. In alcuni casi, può sembrare che non ci sia un medico di riferimento che si assume la responsabilità della cura complessiva del paziente, né un familiare a cui il soggetto può rivolgersi per ottenere informazione e consiglio. In situazioni simili, il benessere del paziente sarà fortemente a rischio. Se una certa terapia si somministra solo a soggetti con determinati requisiti, se il risultato è incerto e se le procedure sono sperimentali, il consenso informato è ancora più importante. Ad esempio, prelevare un campione di sangue è una procedura comune che implica un minimo rischio per il paziente e di conseguenza non ci si aspetta di ricevere spiegazioni dettagliate dei rischi mentre ci si tirano su le maniche. Al contrario, un’operazione chirurgica complicata, che implica rischi e benefici nella stessa proporzione, rende cruciale il bisogno del consenso informato da parte del paziente.

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Un’area grigia è rappresentata dall’uso del placebo nella pratica medica. Si definisce il placebo come “sostanza inerte somministrata come medicina, per il suo potere suggestivo”14. I placebo sono comunemente usati quando si testano le nuove medicine per ottenere una valutazione comparativa, e tale uso non è generalmente messo in questione. Al contrario quando i medici usano il placebo nelle cure mediche d’ogni giorno, emerge il problema di mentire al paziente, anche se lo scopo è corretto. Di solito si somministra il placebo, se non si trovano cause organiche per un disturbo, ritenendo che il placebo sortirà un effetto psicologico positivo. Alcuni autorevoli studiosi affermano che in realtà un terzo di tutte le prescrizioni siano essenzialmente dei placebo. David Towles dice: “I medici che usano i placebo sostengono che il fine, curare il paziente, prevalga sui mezzi e, in questo caso, il mezzo è la menzogna che si dice al paziente.”15. Allora, per il paziente, cos’è che costituisce una base sufficiente d’informazione per poter prendere una decisione? Ci sono malati che prendono parte attiva ai trattamenti, proponendo al proprio medico i metodi di cura; altri preferiscono seguire il piano proposto dal medico e non vogliono in realtà conoscere i rischi potenziali o le percentuali d’insuccesso. Per alcuni, la completezza delle informazioni è un aiuto, per altri un ostacolo. Tale varietà d’atteggiamenti tra pazienti rappresenta un dilemma per i medici. I famigliari del paziente, inoltre, possono avere altre convinzioni che complicano le questioni sul consenso informato e le decisioni mediche. Margot White e John Fletcher descrivono un caso in cui la moglie di un morente disse ai dottori “Non potete dire a mio marito che sta per morire, questo l’ucciderebbe”16. Insisteva nel non voler fargli conoscere la verità, rifiutando le richieste dei medici di conferire col malato sulle sue condizioni e sulle preferenze di cura. Dal punto di vista della moglie, era lei a conoscere il marito meglio di chiunque altro e certamente meglio dei medici, perciò era lei a sapere che cosa fosse meglio per lui, mentre i medici consideravano la moglie un ostacolo e si preoccupavano dell’autonomia del paziente. A volte è difficile trovare soluzioni che soddisfino tutte le parti interessate. Il consenso informato è direttamente collegato al tipo di comunicazione esistente tra il malato e chi si prende cura di lui. Uno studio recente, condotto per valutare l’assistenza di fine vita, ha rilevato difetti di comunicazione tra medici e pazienti gravi. Lo studio, noto con il suo acronimo inglese, Support, è “multicentrico” e si intitola “Studio per la comprensione della prognosi e delle preferenze sugli esiti e i rischi delle terapie”. Meno della metà dei medici era a conoscenza delle preferenze, a favore o contrarie, dei pazienti per quanto riguarda la CPR (rianimazione cardio-polmonare)17. Nella seconda fase dello studio, i ricercatori diedero ai medici e ai pazienti delle informazioni specifiche sulle attese di sopravvivenza per ogni

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paziente. Nonostante questa guida, atta a migliorare la comunicazione medico-paziente, non si registrò alcun miglioramento della consapevolezza dei medici, in merito ai desideri dei pazienti sulla rianimazione cardio-polmonare. Altri studi svolti in ambiente clinico sembrano confermare questi risultati18. I malati terminali possono esprimere il desiderio di evitare interventi medici invasivi e di morire con la maggiore serenità possibile. In ambiente medico questa preferenza classifica un paziente come DNR (“Do Not Resuscitate”), da non rianimare; mentre un paziente “non classificato” viene indicato come un paziente CMO (“Comfort Measures Only”), ossia da trattare solo con misure di conforto. Tutte queste sigle servono per informare il personale sanitario e assistenziale che il paziente non desidera che siano fatti tentativi di rianimarlo, in caso di insufficienza respiratoria o cardiaca.19 Anche se il medico ha designato il paziente come “da non rianimare”, generalmente, le prassi ospedaliere impongono di iniziare immediatamente la rianimazione cardiopolmonare, se il paziente ha un arresto cardiaco o non respira autonomamente. Infatti, anche se il medico ha indicato in cartella che il paziente è “da non rianimare”, possono mancare indicazioni specifiche su quali trattamenti devono essere intrapresi e quali sospesi. L’indicazione di non rianimare significa che devono essere messi in atto altri interventi salva-vita o piuttosto che tutti gli interventi devono essere sospesi? Se è vero che si devono evitare atti d’eroismo, chi decide se una prestazione è “eroica” oppure “ordinaria” in determinate circostanze? Quando il medico curante di un soggetto non è presente sulla scena per determinare il corretto livello di cure da somministrare20, gli altri medici e gli infermieri possono essere messi in difficoltà: non sempre è possibile limitarsi a “seguire gli ordini del medico”. Lo studio Support dimostra che i medici ignorano le preferenze dei pazienti sulla rianimazione, e che la mancanza di comunicazione può determinare problemi nel caso di prescrizioni a non rianimare, perché queste possono anche essere ignorate. Molti medici non sono formati sulle modalità di passaggio dalle cure invasive a quelle palliative e nemmeno hanno familiarità con i principi della medicina palliativa21. La vocazione della medicina è quella di scegliere cure che mantengono in vita, perciò il desiderio di un paziente di rifiutare la rianimazione, o altri interventi d’emergenza nelle fasi finali della vita, è un problema che non può essere affrontato solo sulla base di ciò che il medico vede nei suoi monitor. Anche se la terapia forzata e coercitiva è rara, il personale d’assistenza può – consapevolmente o inconsapevolmente – esercitare un abuso di potere su di un paziente con una manipolazione subdola o addirittura esplicita. Una volta che un paziente entra in ospedale, ci si aspetta che cooperi con le

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istituzioni e la comunicazione non scritta può far credere che per il paziente non ci sia scelta. C’è la tendenza a pensare che le pratiche mediche convenzionali debbano essere seguite fedelmente come routine, senza considerare se corrispondono ai desideri del paziente. Lo studio Support, ad esempio, ha evidenziato come i medici tendono a dimenticare che alcuni pazienti terminali non vogliono essere rianimati. Un vero consenso informato richiede cooperazione tra medico e paziente nel cercare l’obiettivo comune, quello di una cura ottimale e appropriata. La comunicazione rappresenta probabilmente un fattore cruciale se si vuole raggiungere questo obiettivo.

La relazione medico-paziente I medici occupano un posto d’onore nella nostra società. Secondo la mitologia greca Esculapio fu il primo medico: egli si guadagnò un posto nel pantheon degli dei, dove, assieme a Igea e Panacea presiedeva alla salute e alle malattie. Per la sua associazione a esperienze primarie come la nascita, la vita e la morte, la medicina ha un forte valore simbolico. Tuttavia, l’autorità di Esculapio dei medici sta cambiando per via dell’impatto dell’assistenza gestita con procedure manageriali e per la maggior enfasi data ai diritti del malato. La gestione manageriale delle cure mediche ci ricorda che la relazione medico-paziente è influenzata dal contesto istituzionale ed economico22. L’eccessivo paternalismo, cioè la presunzione di avere un’autorità “genitoriale”, tipica dei medici, si scontra con l’autonomia del paziente e con la sua libertà di decisione. Il patto sociale tra medico e paziente ha le caratteristiche di un contratto formale, il che implica l’esistenza di mutui interessi tra coloro che forniscono assistenza sanitaria e pazienti, e tra i professionisti della sanità e la società.23 Stanley Joel Reiser suggerisce come l’esperienza dei pazienti nell’affrontare la malattia possa contribuire a definire la missione dell’assistenza sanitaria.24 Teoricamente quella tra medico e paziente è un’alleanza dove il medico è l’educatore, il consigliere e l’esperto, ma non è l’unico a prendere decisioni; la condivisione delle decisioni è l’obiettivo di una buona assistenza medica.25 La partecipazione alle decisioni è decisiva nei programmi di cure palliative e in generale in tutta l’assistenza di fine vita. Questa assistenza è più facile se chi assiste riesce a conoscere il paziente, se lo mette in condizione di potenziare la sua capacità decisionale, lavorando, entro i limiti imposti dalla situazione, per rispettare le scelte del paziente e per facilitarle.26 Con l’introduzione delle cure gestite managerialmente, ai pazienti è richiesto un ruolo decisionale più spiccato tanto che a volte devono diventare gli “avvocati” delle proprie scelte di cura. Le preferenze e i problemi che ri-

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guardano le cure in fase terminale, dovrebbero riguardare tutte le domande che ci facciamo quando dobbiamo scegliere il medico.27 Ad esempio, il medico ha esperienza d’assistenza di pazienti in fase terminale? È in grado di assistere in tutte le situazioni di cura (in ospedale, in casa di cura, nell’hospice, a domicilio)? Le cure a domicilio o altre risorse della comunità gli sono familiari? Andrebbero discussi tutti gli aspetti economici, ma anche le preferenze per le limitazioni terapeutiche in fase terminale. La domanda cruciale è: “Il sistema sanitario e sociale aiuterà il paziente e la sua famiglia, dal punto di vista medico, emozionale ed economico?” Questa è una domanda troppo importante per essere lasciata al caso. La comunicazione di una diagnosi che minaccia la vita Se vi fosse diagnosticata una malattia mortale, vorreste esserne messi al corrente? Alcuni dicono: “Sì, vorrei sapere tutto quello che mi succede”, mentre altri preferiscono che queste verità siano loro risparmiate, sostenendo che “l’ignoranza è una benedizione”. È giusto prendere in considerazione queste posizioni. Chi ha passato la propria vita a lottare contro le ingiustizie, avrà probabilmente un atteggiamento diverso da chi, per affrontare meglio le difficoltà si sforza di evitare lo stress. Le statistiche ci dicono che la maggior parte delle persone vuole essere informata di una malattia che minaccia la vita, ma dire quando e come questo tipo d’informazioni dovrebbe essere dato è ben più difficile. I medici devono comunicare una notizia simile nel modo migliore, per il paziente stesso, ma per decidere come agire, il medico dovrebbe prendere in considerazione la personalità del paziente, la sua costituzione emotiva e la sua capacità a resistere in situazioni di stress. I medici si preoccupano spesso che la conoscenza dei dettagli di una prognosi infausta possa influenzare in modo negativo la capacità del paziente di far fronte alla situazione. Ci si chiede, quindi, se minimizzare la gravità di una malattia non sia talvolta nell’interesse del paziente. In ogni caso, i medici generalmente sono convinti che sia un bene continuare a fornire rassicurazione e supporto, la speranza deve essere mantenuta viva. I medici spesso danno al paziente informazioni su una malattia mortale, ma non comunicano alcuni dettagli, fino a che non è il paziente stesso a prendere l’iniziativa e a fare domande specifiche. I medici devono anche tenere conto che i componenti di alcuni gruppi etnici preferiscono il silenzio alla completa sincerità.28 Evitare un possibile danno psicologico può essere considerato più importante di far conoscere in dettaglio le caratteristiche della malattia. Inoltre, il paziente può non essere il soggetto che prende le decisioni

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sulla sua stessa assistenza medica: l’ultima parola in queste decisioni può venire dalla famiglia.29 Nei casi di malattie gravi la comunicazione della diagnosi è un momento cruciale, poiché il modo in cui l’informazione viene data può influenzare il comportamento verso la malattia, la risposta alle cure e la capacità di affrontare il male. Che cosa dire dipende da una quantità di fattori che comprendono il modo in cui il medico preferisce dare le notizie cattive, ma anche il modo in cui il paziente recepisce i fatti e la prognosi prevista. Nelle conversazioni per comunicare una diagnosi letale, sia il medico che il paziente tendono a essere cauti nel modo in cui discutono della morte e del morire.30 Dato che la mancanza di certezze è inerente alla pratica medica, i dottori che discutono apertamente di queste cose con i loro pazienti possono effettivamente promuovere un senso di fiducia e aspettative realistiche.31 In generale, i medici dovrebbero informare sulla diagnosi e sui trattamenti, in modo veritiero, fornendo tutti i dettagli che il paziente richiede. Inoltre, bisognerebbe avere il tempo per approfondire le domande del paziente e le sue preoccupazioni.32 All’inizio, quando una diagnosi di malattia terminale è data a un paziente, è possibile che questi sia troppo sconvolto per fare domande che gli verranno in mente solo più tardi, perciò può darsi che le informazioni debbano essere date in più momenti.33 È anche importante capire se la famiglia del paziente è coinvolta nelle cure fin dal momento della diagnosi, così come gli amici, il cui coinvolgimento può essere molto importante. Come comunicare chiaramente Ottenere una comunicazione efficace tra medico e paziente non è un fatto automatico: l’asimmetria propria del rapporto rappresenta una sfida per entrambe le parti.34 La sociologa Candance West, ha condotto uno studio, durato cinque anni, sulle modalità di relazione tra medici e pazienti, scoprendo un “vuoto comunicativo” che ostacola i processi della guarigione.35 In particolare, la studiosa osserva esservi una mancanza di “collante sociale” (il presentarsi, il salutarsi, il conversare, il ricordarsi nome e cognome dei pazienti e usarli), che è parte delle normali interazioni sociali. La West ha anche scoperto che i medici “tendono a fare domande che restringono le opzioni di risposta da parte del paziente”, mentre i pazienti esitano nel fare domande al medico. I medici dovrebbero “ascoltare” con gli occhi, non solo con le orecchie, facendo attenzione alla comunicazione non verbale dei gesti e del linguaggio corporeo che può rivelare il disagio di un paziente o l’ansia per ciò che ascolta. Le diagnosi molto tecniche e gli interventi terapeutici possono esse-

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re, già di per sé, un ostacolo a una comunicazione efficace.36 La conoscenza di base necessaria a padroneggiare il campo complesso della medicina moderna può diventare essa stessa uno strumento di smarrimento. Parlando come medico, Richard Sandor dice: “Scopriamo lievi disturbi nel ritmo cardiaco, gestiamo pressioni sanguigne che variano di pochi millimetri di mercurio e regoliamo la chimica del sangue in modo sottile, ma cosa possiamo dire della persona che sta morendo?”37 Nel praticare l’arte medica “la comunicazione accurata è la principale qualità di un bravo medico.”38 La comunicazione è un processo interattivo e transazionale: non si può non comunicare. Prendiamo in considerazione il ruolo che la comunicazione non verbale ha nel sistema sanitario. La comunicazione non verbale comprende non solo espressioni del volto, gesti, corporeità ma anche l’iconicità, ossia il portare oggetti che rivelano informazioni significative, come i vestiti o i gioielli e la prossemica, ossia la gestione dello spazio e del tempo. Consideriamo, ad esempio, il tempo che una persona che assiste impiega per rispondere a una richiesta di aiuto, o la distanza fisica che un medico stabilisce stando dietro a una scrivania di fronte a un paziente. Le etichette (come “Dottore in Medicina e Chirurgia”) e i titoli – medico, infermiere, paziente – sono esempi d’identificatori simbolici che possono influenzare il processo comunicativo.39 Ad esempio, nella maggior parte delle conversazioni mediche, i pazienti sono chiamati per nome mentre ci s’indirizza al medico con l’appellativo dato dal titolo.40 Addestrati a salvare vite umane, i medici e il personale sanitario possono sentirsi impotenti se non riescono a fornire delle cure. Quando i malati terminali esprimono il desiderio di parlare della morte, si possono mettere in campo diverse strategie sia per evitare il discorso, sia per incoraggiarlo: 1. rassicurando il soggetto: “Stai andando bene”; 2. negando l’evidenza: “Vivrai fino a cent’anni”; 3. cambiando discorso: “Parliamo di qualcosa di più allegro”; 4. esprimendo fatalismo: “Prima o poi dobbiamo pur morire”; 5. discutendo: “Cosa ti fa sentire in questo modo?”. Jeanne Quint Benoliel sottolinea come, nella loro relazione con i morenti, le persone che assistono hanno bisogno di essere consapevoli che “una comunicazione aperta non significa necessariamente parlare della morte; può significare piuttosto rimanere aperti alla trasformazione in comunicazione verbale delle preoccupazioni del paziente.”41 Dare una risposta ai bisogni emotivi e spirituali dei pazienti e delle famiglie può essere altrettanto importante che aver cura dei bisogni corporei. Un infermiere che entra nella camera del paziente, si siede accanto al letto e ascolta, ha più probabilità di essere di conforto di uno che sta in piedi e dice: “Come va oggi? Dormito bene?” Una comunicazione attenta è cruciale, se l’obiettivo è quello di ottenere un’assistenza sanitaria il cui fulcro sia la persona nella sua globalità.

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A seconda di come la comunicazione medica è gestita, può promuovere tanto un atteggiamento positivo, con fiducia nel risultato, quanto uno negativo, con sentimenti di scoramento e disperazione. Raccontando della sua esperienza di una grave malattia, Norman Cousins evidenzia come una diagnosi infausta possa essere comunicata come una sfida piuttosto che come un verdetto.42 La comunicazione chiara può giocare un ruolo importante nel motivare lo stesso “sistema di guarigione” del soggetto, creando così il potenziale per un risultato positivo, indipendentemente dalla prognosi definitiva. L’assistenza globale Assistere un malato grave o un morente significa aver cura non solo dei suoi bisogni fisici, ma anche delle sue necessità mentali, emotive e spirituali. Ci si riferisce a questo approccio come “all’assistenza globale” del soggetto.43 Tale assistenza implica una continuità di rapporto tra il malato e almeno una delle persone che assistono; l’opportunità per il paziente di continuare a essere informato della sua condizione e delle sue prospettive; la partecipazione alle decisioni che lo riguardano e un comportamento da parte del personale che stimoli il paziente alla fiducia e alla sicurezza.44 Se si seguono queste linee guida, le persone che assistono sono in una posizione favorevole per riuscire a fornire un’assistenza che sia al tempo stesso personalizzata e completa. A volte è necessario mettere in atto degli aggiustamenti per aiutare i pazienti ad affrontare gli inconvenienti che la malattia comporta. Ad esempio, è possibile introdurre dei cambiamenti nel programma di cura di un paziente, perché egli possa continuare a lavorare, a studiare o a prendersi cura della famiglia. Quando una persona è seriamente malata ci sono ricadute sulla famiglia intera e, quando la morte si avvicina, è possibile che la famiglia viva un momento di transizione dovuto allo “spegnersi”45 del malato, seguito da un periodo di disordine, di confusione, di paura e d’incertezza, un momento nel quale non si riesce a percepire la realtà come consistente. Questa transizione comporta inoltre una ridefinizione dei ruoli: ciò richiede che ogni membro affronti il peso di dover abbandonare il vecchio ruolo per assumerne uno nuovo. Le famiglie si trovano spesso ad affrontare il paradosso di assistere un caro morente e al tempo stesso a continuare nelle normali occupazioni della vita quotidiana. Per questo tra i compiti compresi nell’assistenza globale c’è anche quello di assistere la famiglia.

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Scegliere la morte I progressi della medicina si verificano anche perché i medici prendono sul serio il dovere ippocratico di difendere la vita. Il giuramento attribuito a Ippocrate ha rappresentato una guida costante per i medici fin dal IV secolo avanti Cristo. Tuttavia, mettere in pratica questa valida norma può portare a scelte difficili. I progressi della tecnologia medica ci mettono di fronte a scelte nuove e talvolta atte a creare confusione. Le tecniche di rianimazione cardio-polmonare e la respirazione artificiale permettono ai medici di intervenire nel processo “normale” del morire (sarebbe bene però notare come il quadro che si fa di queste tecniche nelle trasmissioni televisive dedicate alla medicina e sulla stampa, offre una rappresentazione falsa della frequenza con la quale queste tecniche portano a risultati “miracolosi”).46 I pazienti che sono salvati con queste tecniche, possono ritornare a una normale respirazione polmonare e a un ritmo cardiaco regolare, ma è possibile che il loro cervello abbia sofferto danni irreversibili. L’organismo umano può essere fatto funzionare anche se cessano il battito cardiaco, le funzioni cerebrali, respiratorie o renali. Ci si chiede allora: il dovere ippocratico di difendere sempre la vita di una persona, vale anche quando si può assicurare a chi è salvato solo una vita in condizioni disperate? Quando la tecnologia salva la vita ai pazienti, riportandoli a condizioni di vita più o meno normali, i risultati ci gratificano, ma le stesse tecnologie che ci salvano la vita possono anche prolungare il nostro morire. Secondo l’interpretazione convenzionale del giuramento di Ippocrate si riconosce che in alcune circostanze il trattamento medico è inutile, poiché non presenta ragionevoli possibilità di “guarigione, di miglioramento delle condizioni del paziente tale da consentirgli una soddisfacente qualità di vita”.47 Con l’avvento delle moderne tecnologie mediche, però, sembra che la tendenza sia quella di tenere il paziente in vita a qualunque costo. Allora, è giusto chiedersi quale sia l’equilibrio tra preservare la vita e evitare sofferenze, nei casi in cui ulteriori cure sarebbero con ogni probabilità inutili. Le moderne tecniche mediche offrono possibilità apparentemente miracolose per mantenere in vita i soggetti, ma è necessario chiedersi quale sia l’effetto di queste tecnologie sulla qualità della vita dei pazienti. Si riconosce in modo ora sempre crescente che per alcuni pazienti: “le scelte disponibili sono tra il morire prima ma restare in buone condizioni e il vivere un po’ più a lungo, ricevendo terapie invasive che possono prolungare i processi del morire, ma accrescendo il disagio e la dipendenza e peggiorando la qualità della vita.”48 È utile domandarci cosa faremmo noi se ci fosse comunicata una prognosi che concede un breve tempo di vita e ci venisse detto che ogni ulteriore terapia sarebbe inutile: ci sottoporremmo a terapie aggressive per tenerci in vi-

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ta, anche se questo implicasse la dipendenza totale da sistemi di supporto delle funzioni vitali? La decisione di limitare le terapie, di fermare “tutto ciò che può essere fatto” è spesso difficile per i pazienti e per le famiglie; anche se molte persone devono la vita a tecnologie mediche avanzate, una condizione che preveda uno sforzo per mantenerci in vita a tutti i costi deve essere messa fortemente in discussione. Facendo una rassegna delle tante tecnologie mediche, la Commissione presidenziale USA per lo studio dei problemi etici in medicina ha concluso che: “Quasi per ciascuna condizione letale esistono interventi che ritardano il momento della morte… Questioni che un tempo ricadevano quasi nell’ambito del destino sono, ora, una questione di scelta umana.”49 Quando, per continuare a vivere, la sofferenza è superiore ai benefici, alcuni ritengono che le persone abbiano “il diritto di morire.”50 Circondato da macchine e tubi, il paziente può apparire meno umano, quasi un’estensione reificante della tecnologia. I pazienti stessi a volte “ingoiano fazzolettini per soffocarsi, si staccano i tubi dalle vene o dal naso, in un gioco da gatto e topo tra vita e morte che è spietato e senza senso.”51 I trattamenti inutili devono essere rifiutati o evitati quando è virtualmente certo che avranno come esito la morte del paziente? I trattamenti devono essere continuati quando il paziente è in uno stato vegetativo persistente (SVP) senza ragionevoli speranze di miglioramento? Ci sono circostanze nelle quali un medico dovrebbe accelerare la morte di un paziente o assisterla?52 Le domande etiche sul diritto di morire sono diventate pressanti dal 1975, quando Karen Ann Quinlain, ventuno anni, entrò nell’unità di rianimazione di un ospedale del New Jersey. Dato che era in coma, ci fu la necessità di assistere la respirazione con un respiratore artificiale (MA-1). Siccome continuava a versare in un persistente stato vegetativo, i genitori chiesero di staccare il respiratore in modo che la natura potesse fare il suo corso, ma questa richiesta fu negata dai medici. Alla fine fu necessario ricorrere alla Corte Suprema del New Jersey, che stabilì che il respiratore poteva essere staccato.53 Questo effettivamente avvenne e Karen fu spostata in una casa di cura, dato che continuava a respirare autonomamente dopo essere stata staccata dal respiratore. Karen morì nel giugno del 1985 all’età di trentun anni, dopo essere diventata un punto di riferimento per le questioni della “morte dignitosa”. Dal caso Quinlain in poi, le corti statali e quelle federali hanno emanato regolamenti per la rimozione delle terapie di sostegno della vita, compresi i meccanismi per la nutrizione e l’idratazione del paziente. Un caso altrettanto degno di nota è quello di Nancy Beth Cruzan, discusso alla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1990.54 In seguito ai traumi subiti in un incidente automobilistico nel 1983, all’età di venticinque anni, la ragazza versava in uno stato vegetativo. I medici avevano ripristinato il respiro, ma il suo cervello

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era rimasto privo d’ossigeno così a lungo che non riprese mai più conoscenza. Per nutrirla i medici le impiantarono un tubo nello stomaco, che doveva costituire poi l’unica forma di sostentamento. In questo modo, i medici affermavano che avrebbe potuto continuare a vivere altri trent’anni. I genitori di Nancy, in qualità di tutori, chiesero che il tubo venisse staccato, sostenendo il suo diritto di essere liberata da un’intrusione corporea non desiderata. La Corte Suprema del Missouri negò la richiesta, sostenendo che senza il consenso di Karen, i genitori non potevano esercitare il diritto a rifiutare la terapia e perciò doveva prevalere l’interesse “assoluto” dello Stato a preservare la vita. La decisione dello stato del Missouri fu rimessa alla Corte Suprema degli Stati Uniti. La Corte Suprema stabilì che il diritto di rifiutare terapie non desiderate è sempre garantito dalla Costituzione, anche quando queste terapie salvano la vita. Tuttavia, la stessa Corte aggiunse che i singoli stati erano giustificati nell’esigere che questa richiesta d’interruzione delle cure venisse dal paziente stesso. Siccome nel caso di Nancy sembrava che la ragazza non si fosse mai espressa in proposito prima dell’incidente che l’aveva ridotta in quello stato, lo stato del Missouri non era costretto ad esaudire le richieste dei genitori. Ad ogni modo, alcuni mesi più tardi, nuove testimonianze da parte di amici di Nancy consentirono di sapere che la ragazza non avrebbe desiderato “vivere come un vegetale,” e, di conseguenza, la Corte dello Stato del Missouri ammise che lo standard legale di prove “chiare ed evidenti” dei desideri di Nancy era stato raggiunto e venne dato il permesso di rimuovere i tubi. Tredici giorni dopo Nancy morì. La famiglia, in una dichiarazione alla stampa affermò che “non ci furono segni di dolore d’alcun tipo…, noi conosciamo Nancy come può essere possibile solo all’interno di una famiglia e non c’è dubbio che abbiamo fatto ciò che lei stessa avrebbe fatto.” Il caso Cruzan mostra quanto sia importante esprimere le proprie preferenze sulle tecniche di sostegno della vita, preferibilmente in modo scritto, prima che ce ne sia la necessità. Rifiuto o sospensione delle cure È ormai generalmente riconosciuto – tanto dalla pratica legale che da quella medica – il diritto di un paziente, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, di rifiutare terapie indesiderate. Questo può significare rifiutare una terapia o sospenderla una volta che questa sia stata iniziata. Si è generalmente d’accordo nel dire che non c’e distinzione, dal punto di vista medico e da quello etico, tra il rifiutare e il sospendere una cura.

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La scelta di rinunciare a trattamenti che mantengono in vita implica necessariamente il rifiuto di cure che la allunghino. Tali trattamenti includono la rianimazione cardio-polmonare, cure cardiache avanzate, dialisi renale, nutrimento e idratazione forzati, ventilazione meccanica, trapianto d’organi o altra chirurgia, pacemakers, chemioterapia e antibiotici.55 È importante capire che, anche se un paziente non riceve terapie che lo mantengano in vita, egli continuerà, però, a ricevere altre cure mediche di ordinaria amministrazione e di supporto, che siano appropriate alla condizione in cui si trova. Anche se il paziente non è in condizioni di poter comunicare, il diritto di rifiutare le terapie è difeso dalla legge. Le norme specifiche possono cambiare, ma tutti gli Stati USA autorizzano a lasciare uno scritto, con valore legale, dove si esprime che cosa si desidera sia fatto alla propria persona, in caso si divenga incapaci di intendere e di volere. La distinzione tra “permettere di morire” (rifiutare o sospendere le cure) e “aiutare a morire” (prendere delle misure attive per causare la morte del paziente) è importante nelle discussioni sul diritto di morire dei pazienti: molti studiosi di bioetica e molti medici sono d’accordo con la prima di queste ipotesi ma non con la seconda. Quando si rifiuta o sospende una cura che, potenzialmente, può far continuare la vita, talvolta ci si riferisce a questa pratica come a una “eutanasia passiva”, anche se molti ritengono che il termine non sia corretto e che si tenda a confondere la pratica, largamente accettata, di rifiutare o sospendere le terapie, con quella, inaccettabile e illegale, di far morire qualcuno. Si può sostenere che l’eutanasia passiva non è affatto eutanasia, quanto piuttosto un lasciare che la natura faccia il suo corso. Questa distinzione è anche altrimenti resa con la differenza tra “uccidere” e “lasciar morire” (fig. 7-1). Suicidio assistito ed eutanasia attiva Contrariamente alle pratiche del rifiuto-sospensione delle terapie, il suicidio assistito e l’eutanasia attiva si riferiscono alle pratiche attuate per accelerare la morte. Anche se alcuni esperti di etica ritengono che la base costituzionale del diritto di rifiutare le terapie è la stessa di quella del diritto all’eutanasia attiva, questa argomentazione non è stata accettata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti e nemmeno dalla stragrande maggioranza del personale medico.56 Arthur Berger afferma che “scegliere di morire naturalmente è una cosa, ma chiedere ad altri di aiutarci a farlo è tutt’altra.”57 Ciononostante, l’opinione pubblica sembra essere sempre più propensa a credere che sia accettabile che un medico aiuti un paziente a morire.58 Il suicidio assistito consiste nel fornire a qualcuno i mezzi per suicidar-

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si, nella piena consapevolezza che chi li riceve intende usarli per porre termine alla propria vita. Nel suicidio medicalmente assistito, un medico aiuta intenzionalmente un paziente ad accelerare la sua morte fornendogli – a richiesta – droghe letali o altri mezzi, sapendo che egli li userà per togliersi la vita.59 In questi casi, è il paziente e non il medico che somministra la dose letale. A differenza del suicidio assistito, l’eutanasia attiva implica un atto deliberato per porre fine alla vita di un’altra persona, ed è generalmente inteso come l’atto di uccidere in modo intenzionale un soggetto che altrimenti continuerebbe a soffrire per un male incurabile e doloroso. Un esempio d’eutanasia attiva è il caso di “Debbie”, una donna di 20 anni con tumore in fase terminale alle ovaie, il cui medico ne affrettò la morte perché “voleva aiutarla a venire fuori da quell’orrore”.60 È importante riconoscere che l’eutanasia attiva può essere involontaria, non-volontaria o volontaria. L’eutanasia involontaria è la morte di un paziente, causata da un medico senza il consenso del paziente. L’esempio più famoso di questo tipo di eutanasia è il programma di uccisioni “medicalizzate” del regime nazista, consistente nel provocare la morte dei malati di mente come “terapia medica” (quindi con “mezzi medici”) della malattia mentale. L’eutanasia non-volontaria ha luogo quando qualcuno che decide al posto del paziente, e non il paziente stesso, chiede ad un medico di aiutare una persona a morire. L’eutanasia volontaria – conosciuta anche col termine eutanasia volontaria attiva – consiste nell’aiuto a morire di un paziente, che lo chiede, da parte di un’altra persona. In pratica, significa che un paziente, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, richiede diretta assistenza per morire e la riceve da un medico qualificato. Al momento, l’eutanasia attiva è legale nei Paesi Bassi, dove, ai medici è permesso somministrare iniezioni letali ai pazienti che lo richiedano.61 Nei Paesi Bassi, le linee guida per l’eutanasia attiva volontaria prevedono la presenza di una diagnosi terminale, il desiderio di morire espresso in modo fermo dal paziente, il riscontro di una sofferenza che il malato trova insostenibile e il parere di un secondo medico. Negli Stati Uniti (ma anche in Italia), l’eutanasia volontaria attiva è fuori legge. Agire attivamente per far terminare la vita di una persona è considerato un crimine, anche se i motivi per farlo si basano su delle buone intenzioni o sono dettati da un atto di pietà.

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Togliere a un paziente tenuto in vita artificialmente i mezzi di supporto senza i quali non può vivere.

più accettabile

Togliere l’alimentazione o l’idratazione artificiale a un paziente che non richiede alcun altro sostegno artificiale per essere mantenuto in vita. Rifiutare un trattamento di routine che potrebbe allungare la vita ma non curare la malattia. Offrire sollievo dal dolore a un paziente, sapendo che questo può accelerare la morte (il cosiddetto “doppio effetto”; ovvero, trattamento del dolore e accelerazione della morte). Offrire a un malato terminale i mezzi per uccidersi (per esempio, scrivere una prescrizione per un farmaco antidolorifico o pillole per dormire che, se assunte in dose eccessiva, condurranno alla morte). Somministrare un’iniezione letale a un paziente malato grave o terminale.

meno accettabile

Figura 7-1. Consenso pubblico riguardo all’accelerazione della morte. Nota: l’eutanasia involontaria si verifica quando una persona agisce arbitrariamente, senza il consenso del paziente, per porre fine alla sua vita.

Il suicidio medicalmente assistito Il clamore sollevato dai casi di suicidio medicalmente assistito praticati dal patologo Jack Kevorkian, ha portato alla ribalta la questione dell’accelerazione intenzionale della morte. Quando, nel 1999, fu condannato per l’omicidio di Thomas Yuk, il dottor Kevorkian aveva già aiutato a morire più di cento persone, da quando nel 1990 aveva iniziato la sua campagna per legalizzare il suicidio medicalmente assistito. Nel 1997, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riesaminato due casi di suicidio medicalmente assistito;62 le decisioni prese in questi casi sono importanti per molti motivi. In primo luogo, la Corte accettò la distinzione tra rifiuto e sospensione delle cure da un lato e suicidio medicalmente assistito dall’altro. In tal modo la Corte chiarì la sua decisione nel caso Cruzan, facendo notare come il diritto di rifiutare i trattamenti si fondi sul diritto di mantenere integro il proprio corpo e non sia un diritto di accelerare la morte. La Corte sostenne che, nel caso del diritto a rifiutare o sospendere le terapie, l’intento è di rispettare i desideri del paziente e non quello di causarne la morte; diversamente da ciò che accade con il suicidio medicalmente assistito, in cui il paziente viene “ucciso” con un’iniezione letale. Inoltre, la Corte confermò il diritto dei singoli Stati di darsi una politica sul suicidio medical-

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Ritratto durante una deposizione in un aula di tribunale del Michigan, il dottor Jack Kevorkian è divenuto il simbolo del dibattito pubblico in materia di questioni etiche e legali relative al suicidio medicalmente-assistito. Dopo aver assistito nel suicidio almeno 130 persone in un arco di tempo di circa dieci anni, Kevorkian è stato giudicato colpevole per aver somministrato ad un uomo un’iniezione letale e sta attualmente scontando una pena da dieci a venticinque anni di prigione.

mente assistito, proibendolo, come fa la maggioranza, o permettendolo, secondo certe regole, come accade nell’Oregon. Al momento, l’Oregon è l’unico stato Usa che permette il suicidio medicalmente assistito. L’atto “Morte con Dignità”, fu messo ai voti, fu approvato nel 1994 e, dopo diverse traversie, fu confermato nel 1997. Questo atto permette ai medici di prescrivere ai pazienti terminali farmaci letali.63 I medici che si oppongono all’atto possono rifiutarsi di farlo e possono beneficiare della legge solo i pazienti che risiedono in Oregon. Nel marzo 1998, una donna anziana con un tumore al seno fu la prima persona a morire legalmente in questo modo, assumendo una dose di barbiturici prescrittale dal medico. Nei primi cinque anni d’attuazione, 129 pazienti sono morti col suicidio legale e con l’assistenza del medico. Questi pazienti mostravano di credere fermamente nell’indipendenza personale ed erano determinati a controllare la fine della propria vita.64 La decisione di chiedere una prescrizione letale, nasceva principalmente dalle preoccupazioni per la perdita dell’autonomia e dell’autocontrollo, preoccupazioni specifiche correlate con la qualità della vita, comprendenti l’impedimento a praticare attività di svago, a controllare le funzioni corporali e la sofferenza fisica.

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Un terzo elemento importante per il giudizio della Corte Suprema sul suicidio assistito, è correlato al concetto di doppio effetto nella gestione medica del dolore. Secondo la dottrina del doppio effetto quando un trattamento determina un danno per il paziente, può essere permesso ugualmente, anche se provoca la morte, se il danno non è intenzionale e si verifica come l’effetto collaterale di un intervento benefico.65 A volte i dosaggi di un farmaco per alleviare il dolore devono essere aumentati, specialmente nella fase terminale di una malattia, fino a poter causare un collasso respiratorio che porta il paziente alla morte: una pratica chiamata “sedazione terminale”.66 Così, dar sollievo al dolore (la buona intenzione) può avere un effetto potenzialmente cattivo, che può essere previsto, ma che non rappresenta l’intenzione primaria. La Corte ha stabilito che la sedazione del dolore, anche se accelera la morte, non può essere considerata alla stregua di un suicidio medicalmente assistito, se la sua intenzione è quella di alleviare il dolore. Nel commentare questa decisione della Corte suprema, uno dei suoi componenti William Rehnquist ha detto: “Gli americani di ogni angolo della nazione si sono impegnati in un dibattito sincero e profondo sulla moralità, sulla legalità e sulla praticabilità del suicidio assistito. La nostra decisione fa sì che questo dibattito possa continuare, com’è giusto che sia in una società democratica.”67 Ira Byock, medico di un hospice e specialista di cure palliative, si dichiarò contento di questa legge della Corte Suprema, ma espresse anche la preoccupazione che “la legalizzazione del suicidio assistito potesse diventare una proposta particolarmente pericolosa, se non si operano cambiamenti fondamentali nell’assistenza ai morenti,”68 sottolineando il bisogno pressante dei medici e delle altre persone che assistono di acquisire maggiori competenze nel trattamento del dolore e nei vari aspetti della medicina palliativa. Altri, come il direttore esecutivo della Hemlock Society,* John Pridonoff, ritengono che l’assistenza hospice e l’aiuto a morire non siano necessariamente incompatibili e che possano anzi essere due aspetti complementari di un approccio globale alle decisioni di fine della vita.69 Anche se l’orientamento prevalente degli ultimi anni è quello di consentire una maggiore libertà di scelta dell’individuo su come e dove morire, il dibattito sul suicidio assistito continua. Mentre questo libro va in stampa (2005 n.d.c.) viene presentato al Congresso degli Stati Uniti un disegno di legge che intende proibire l’uso di droghe letali per attuare il suicidio assistito. Se questa proposta di legge passasse, invaliderebbe la pratica del suicidio assistito oggi legale nell’Oregon. * La Hemlock Society è l’Associazione Americana che promuove la liberalizzazione dell’Eutanasia.

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Le cure palliative e il diritto di morire Molti pensano che il dibattito per l’accettazione da parte dell’opinione pubblica del suicidio assistito e dell’eutanasia attiva, si basi sul fatto che c’è poca attenzione per i bisogni del morente, in particolare per il sollievo del dolore e della sofferenza alla fine della vita; si vorrebbe in altri termini, che la decisione di prolungare la vita o di accelerare la morte fosse basata, in primo luogo, sul dolore e sulla sofferenza che il paziente prova o che è percepita da chi lo assiste e dai familiari. Nel prendere in considerazione le scelte individuali, dobbiamo riconoscere che la classica “taglia unica” o “pensiero unico” nell’approccio ai trattamenti medici e alle decisioni nel campo della terminalità, probabilmente, andrà bene a pochi: le scelte individuali in questa materia, sono influenzate dalle nostre credenze e da quelle tradizioni etiche e culturali che ci aiutano a definirci come esseri umani.70 David Roy, direttore del Center for Bioehtics di Montreal e direttore del Journal of Palliative Care, sostiene che la distinzione tra permettere di morire e l’eutanasia attiva debba rimanere: “questa distinzione riconosce che c’è un limite al potere della medicina e c’è un limite al mandato della professione medica; è anche un riconoscimento che orribili e intollerabili abusi sono possibili per noi oggi come lo sono stati in passato.”71 Roy sostiene che la sfida non consiste nel legalizzare l’eutanasia, bensì nel trasformare le cure ai morenti. Dame Cicely Saunders, fondatore del St. Christopher’s Hospital, afferma: “Non si può essere certo compiaciuti se pensiamo alla pressione sotto la quale si lavora durante i turni ospedalieri, se pensiamo allo scarso supporto che molti hanno a casa e agli atteggiamenti negativi o d’indifferenza che spesso si hanno verso i vecchi, ma questo è proprio il clima in cui l’eutanasia non rimarrà a lungo una scelta volontaria! Quale società non esercita una pur sottile pressione sulle persone non più autosufficienti per far loro sentire che sono solo dei pesi e che hanno la responsabilità di andarsene? Come non chiedere, più o meno implicitamente, in certi casi, alle persone stremate da un’assistenza estenuante e senza esito, di scegliere tra questa condizione o alleviare il peso dei loro congiunti?”72

Tra i sostenitori dell’eutanasia c’è chi afferma che è moralmente permessa quando previene una crudeltà ancora maggiore, ad esempio, quando un soggetto si trova in condizioni di dolore e di sofferenza per le quali la morte equivalga a una liberazione. Gli oppositori affermano che se l’eutanasia diventasse una routine creerebbe problemi etici importanti, ad esempio, come si può essere sicuri che un paziente ha dato un consenso chiaro all’accelerazione della sua morte? Se la prognosi fosse errata? Le obiezioni contro l’eutanasia sono sostenute dal cosiddetto argomento del “cuneo” o del “sentiero

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scivoloso”: non dovrebbero essere permessi atti che, anche se morali in sé, possano preparare la strada ad altri atti immorali; se l’eutanasia è permessa per persone con malattie incurabili, essa potrebbe venire estesa agli anziani in generale, agli handicappati gravi, ai malati mentali o ad “altri pesi della società”, col risultato di motivare l’uccidere per futili motivi o per i motivi più oscuri. Charles Dougherty sostiene che le domande da fare per avviare le procedure per accelerare intenzionalmente la morte, dovrebbero essere collocate nel contesto del “bene comune” della società.”73 Se poniamo una eccessiva enfasi sull’importanza delle scelte personali, possiamo perdere di vista il fatto che nessun aspetto dell’esperienza umana è completamente personale e privato. Infatti, come afferma Dougherty, “il modo in cui moriamo, ossia quando e in quali circostanze e per quali cause o motivi, è condizionato in modo profondo dalle relazioni che abbiamo con gli altri e dalle grandi forze sociali e istituzionali.” Se il morire in un contesto medico è caratterizzato in modo preciso come un’esperienza implicante sofferenza e dolore (e costa molto), si potrebbe servire meglio il bene comune della società prendendo misure che “aggiungano semplicità e dignità al processo del morire, contenendo al contempo le spese non necessarie”. Dougherty suggerisce alcune misure che dal punto di vista pratico possano portare alla realizzazione di questo bene comune: 1. Incrementare l’uso dell’assistenza domiciliare e dei programmi hospice; 2. Sviluppare strategie per una più incisiva gestione del dolore; 3. Raffinare i protocolli per la diagnosi tempestiva delle malattie terminali; 4. Generalizzare il diritto dei pazienti di rifiutare interventi straordinari; 5. Estendere l’uso della richiesta di non essere rianimati per evitare, alla fine della vita, cure non necessarie prolungate e costose; 6. Favorire l’accesso per tutti a una combinazione appropriata delle opzioni di cura (hospice, assistenza domiciliare e così via); 7. Istituire un sistema d’assicurazioni sanitarie che garantiscano un’assistenza adeguata ed appropriata per tutti. Alimentazione e idratazione Il diritto di un paziente in pieno possesso delle facoltà mentali di rifiutare trattamenti non desiderati è garantito tanto dalla legge che dalla medicina, ma si deve fare un’eccezione per la nutrizione artificiale e l’idratazione del soggetto? Per poter rispondere a questa domanda è necessario distinguere tra assistenza ordinaria e straordinaria. Per assistenza ordinaria s’intende l’uso convenzionale di terapie collaudate, mentre per misure straordinarie s’in-

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tendono tutti gli interventi di mantenimento in vita. Queste misure sono generalmente adottate, con carattere temporaneo, fino a quando le capacità di guarigione del paziente non gli permettano di tornare alle sue normali funzioni biologiche. Ovviamente cure che sono, di norma, considerate “ordinarie”, possono diventare “straordinarie” o anche intrusive, a seconda delle circostanze. Ad esempio: usare gli antibiotici per curare la polmonite, una cura considerata ordinaria, può diventare una misura straordinaria se le medicine vengono somministrate a soggetti che stanno morendo. La distinzione tra questi due tipi di cura diventa assai sfumata anche quando vari interventi medici, ognuno dei quali defininibile come ordinario, si combinano in modo da costituire uno sforzo “straordinario” per mantenere il soggetto in vita. Anche se alcuni sostengono che sia necessaria una linea di demarcazione netta tra quello che si considera trattamento ordinario e uno straordinario, Thomas Attig sottolinea come, in realtà, è probabile che “una regola definitiva non verrà mai trovata.”74 La sospensione dell’alimentazione artificiale e della somministrazione d’acqua evoca sentimenti molto radicati che riguardano il procacciarsi cibo e liquidi, così come l’immagine di una persona che “muore di fame o di sete”. Questo porta alcune persone a credere che la sospensione dell’alimentazione artificiale e dell’idratazione sia un “omicidio intenzionale.” Il significato simbolico del nutrimento sembra giustificare la continuazione della nutrizione artificiale anche quando tutti gli altri trattamenti sono stati sospesi. Quelli che non condividono questo punto di vista, sostengono che il nostro sentire quotidiano sui significati simbolici collegati al cibo e all’acqua, “non possono essere trasferiti al mondo ospedaliero senza distorsioni” e che, in verità, è proprio “un sentimento autentico che può implicare la sospensione del nutrimento artificiale.”75 Quando si ritiene che il nutrimento sia una cura ordinaria, la sua sospensione ci fa subito pensare a pazienti che muoiono di fame e di sete, anche se, per una serie di motivi queste immagini possono non essere corrispondenti al vero.76 In primo luogo, la modalità invasiva con la quale si provvede all’alimentazione e le capacità professionali necessarie per somministrarla, non convalidano la percezione che l’alimentazione artificiale sia una semplice assistenza. Inoltre, l’alimentazione artificiale, in molti pazienti, soprattutto in coloro che sono vicini alla morte, provoca parecchi disagi. I tubi dell’alimentazione e le endovenose possono effettivamente aggiungere sofferenza. Dena Davis ammette che le questioni che riguardano il cibo sono fortemente caricate dal punto di vista emotivo, ma afferma che “dobbiamo fare molta attenzione nel distinguere gli aspetti fisiologici legati al provvedere nutrimento, rispetto al fenomeno sociale del nutrire.”77 Quando una persona sta morendo, la ri-

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mozione dell’alimentazione artificiale e dei liquidi può essere una buona forma di cura palliativa. Neonati gravemente malati Nei casi che coinvolgono neonati con gravi patologie, le questioni etiche relative al dilemma del mantenere la vita o di lasciare che sopravvenga la morte sono sentite in modo più intenso. Negli ospedali con unità di riabilitazione neonatale, salvare la vita dei piccoli nati prematuri o con gravi problemi è la prassi. Sfortunatamente, la maggior parte di questi non potrà mai vivere quella che la maggior parte delle persone considerano una vita “umana”. Si tratta di neonati che soffrono di malattie cardiache e polmonari, di danni cerebrali e d’altri difetti o disfunzioni congeniti. Nel passato, queste condizioni avrebbero portato a una rapida morte di questi bambini, mentre ora, grazie a cure neonatali altamente specializzate, i neonati in condizioni gravissime spesso sopravvivono. Questi miracoli della medicina fanno sorgere quesiti del tipo: – Nel salvare dei neonati gravemente malati, si dovrebbe considerare la loro probabile qualità della vita? – L’intervento medico è la cosa migliore da fare in ogni caso? – Ad esempio, deve essere risparmiato l’intervento chirurgico a un neonato con blocco intestinale? – La risposta è sempre “La vita deve essere salvata” o può cambiare a seconda dei casi? – La risposta sarebbe la stessa se il bambino col blocco intestinale avesse anche un serio danno cerebrale? Considerate questo caso: un bambino è nato con una malformazione che interessa tutto il lato sinistro del suo corpo, senza l’occhio sinistro e con una piccola parte dell’orecchio sinistro, la mano sinistra è deforme e alcune delle vertebre non si sono saldate, è afflitto da una fistola tracheo-esofagea, da un difetto della trachea e del canale che porta allo stomaco; con questa patologia non potrà essere nutrito per bocca, l’aria passa nello stomaco invece di andare nei polmoni e i fluidi gastrici arrivano ai polmoni. Un dottore ha fatto questo commento: “Non ci vuole molta immaginazione per intuire che avrà anche altri problemi interni”. Nei giorni seguenti alla nascita, le sue condizioni peggiorarono in modo costante e intervenne una polmonite. I riflessi si fecero opachi e data la cattiva condizione della circolazione si sospettava un danno cerebrale. Constatato che la fistola tracheo-faringea poteva essere corretta con un’operazione chirurgica relativamente semplice, il dibattito iniziò quando i genitori non diedero il loro consenso a operare. Alcuni dei

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medici ritenevano che la chirurgia “doveva essere garantita” e portarono il caso in tribunale, dove il giudice ordinò che si operasse, sostenendo che “dal momento in cui questa creatura è venuta alla vita, essa è un essere umano che merita la piena protezione della legge.”78 In un altro caso, diverso da quello appena citato, la madre di un prematuro, udì per caso un medico dire che il suo bambino era affetto da sindrome di Down e con l’ulteriore complicazione di un blocco intestinale. Questo problema poteva essere risolto con un’operazione chirurgica ordinaria, altrimenti, il bambino non avrebbe potuto essere nutrito e sarebbe morto. La madre disse che “non sarebbe stato giusto” per i suoi altri figli portare a casa un bambino ritardato, il marito era d’accordo con lei e negò il permesso all’operazione. Uno dei medici sostenne che non si può conoscere il grado di ritardo mentale nei bambini affetti da Sindrome di Down che, secondo le parole del medico “sono quasi sempre educabili. Possono fare lavoretti semplici e sono noti per essere bambini felici. Sono sempre contenti e di solito sono una grande gioia per i genitori. Se non intervengono complicazioni, di solito hanno una vita lunga.” Ad ogni modo in questo caso, il personale dell’ospedale non si rivolse a un tribunale per scavalcare la decisione dei genitori contro l’intervento medico. Di conseguenza il bambino fu messo in una stanza e nei seguenti undici giorni fu lasciato morire di fame. Considerate ora la differenza tra questi due casi. Nel primo, un soggetto con gravi malformazioni mostra di avere minori possibilità di vivere una vita normale rispetto a quello del secondo esempio, ma il personale si rivolge al tribunale per proseguire le cure, mentre nel secondo caso il personale si attiene alle decisioni dei genitori, anche se probabilmente il bambino si poteva salvare. In questo secondo caso, i medici e i genitori hanno interpretato correttamente il diritto alla vita del soggetto? Per i medici, una volta presa la decisione di non proseguire con l’intervento, il bambino divenne un malato terminale e per questo furono sospese le terapie. Si può anche sostenere che il rifiuto del trattamento, ossia dell’intervento chirurgico, sia da considerarsi un non-intervento straordinario. Indipendentemente dai nostri sentimenti verso queste due decisioni, si deve notare che c’è una distinzione tra i problemi etici che riguardano i neonati e quelli che riguardano gli adulti. Di solito, nel caso che si tratti di adulti, si tentano tutte le procedure per prolungare la vita o, per lo meno, esse vengono proposte al paziente come opzioni. Nel caso dei neonati, invece, non si può discutere col paziente e per questo sono gli altri a dover prendere delle decisioni, altri che decideranno, si spera, nel miglior interesse del bambino. La parte difficile è ovviamente stabilire quale sia il “miglior interesse del bambino”79.

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Le difficili scelte cui ci si trova di fronte con dei neonati gravi, sono state illustrate nello studio della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi etici in medicina. Vi si afferma che, nella maggior parte dei casi, i genitori hanno la facoltà di decidere, ma si dice anche che l’istituzione medica deve perseguire il miglior interesse del bambino “qualora l’interesse sia chiaro.”80 Portando ad esempio, un altro caso in cui un bambino Down, peraltro sano, si trovava in condizioni critiche ma correggibili chirurgicamente, la commissione disse che il bambino doveva essere operato, perché ne avrebbe tratto beneficio. La stessa commissione afferma che le terapie inutili non devono essere somministrate, aggiungendo però che anche nei casi in cui non ci sia una terapia a disposizione, è necessario prendere misure per assicurare al neonato il massimo possibile di benessere.

Le disposizioni anticipate Per rendere note le nostre volontà agli operatori sanitari e a tutti quelli che dovrebbero conoscerle, è importante documentarle con una disposizione anticipata. In senso generale, la disposizione anticipata è quello che una persona, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, esprime in merito alla scelta delle cure mediche nel caso futuro di una sua incapacità di comunicare. Prevedere certe potenziali situazioni critiche e pianificare le proprie reazioni, può ridurre il senso di “emergenza” che si può verificare in assenza di tale manifestazione. Le disposizioni anticipate hanno acquistato un’importanza sempre maggiore nei processi decisionali del medico, ancorché controverse fino a poco tempo addietro. Chi si oppone alle disposizioni anticipate sostiene che esse rappresentano un avvicinamento alla pratica dell’eutanasia attiva, mentre chi è favorevole sostiene che esse salvaguardano i diritti del paziente di determinare quali cure ricevere alla fine della propria vita. In Usa, sono due le forme di disposizioni anticipate, con rilevanza legale. La prima è il living will (che in Italia corrisponde al testamento biologico sul quale ancora si discute se la legge debba renderlo o meno vincolante per il medico) con il quale si possono dare istruzioni sul tipo di cure mediche che si vogliono ricevere se si diventa incapaci, in qualsiasi senso, di partecipare alle decisioni sulle terapie. Molti ritengono che il living will serva per affermare il proprio desiderio di rinunciare a procedure di sostegno della vita, oppure per evitare terapie “eroiche” quando la morte è imminente; e, in realtà, i moduli standard per redigere un living will hanno questo scopo. Di fatto poi, un living will può essere redatto per esprimere idee molto differenti sul tipo di trattamenti che si vorrebbero e possono essere scritte in previsione di numerose circostanze. Il living will, come modalità per i malati terminali di docu-

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mentare le proprie volontà sulle cure mediche nel caso di una loro sopravvenuta inabilità, fu inizialmente proposto nel 1967 da Louis Kutner.81 Anche se, in origine, il living will non aveva alcuna rilevanza legale, ormai ogni Stato USA prevede la possibilità di avvalersi delle disposizioni anticipate.82 La seconda forma importante di direttiva anticipata è la health care proxy (letteralmente significa “procura per l’assistenza sanitaria” e non ha l’equivalente in Italia, sebbene in alcune proposte di legge sul testamento di vita è prevista l’istituzione di un procuratore legale o di in tutore a cui affidare, con una procura, l’esecuzione delle proprie volontà post mortem, n.d.c.). Questo documento rende possibile la nomina di un’altra persona, definita “proxy” (appunto procuratore), in qualità di proprio rappresentante, per prendere decisioni sulle terapie mediche da somministrare, se lo stato di salute provocherà l’impossibilità di esprimersi da soli. Questa figura che decide è indicata in inglese con la parola surrogate (che in italiano potrebbe equivalere ad un “tutore” incaricato di far rispettare le volontà testamentarie, n.d.c.). Si può trattare di un membro della famiglia, di un amico intimo o di un avvocato, con i quali si siano discusse in precedenza le proprie preferenze sulle cure mediche. Come rappresentante, il proxy dovrebbe agire rispettando i desideri di chi lo ha delegato, in conformità con le dichiarazioni contenute nelle disposizioni anticipate o secondo un qualsiasi altro tipo di indicazione resa nota in altro modo. Un tribunale può togliere al proxy il potere di decidere per colui o colei che rappresenta nel caso che: 1) autorizzi atti illegali, 2) agisca contrariamente ai noti desideri del paziente, 3) faccia qualsiasi cosa chiaramente contraria agli interessi del paziente, nel caso in cui tali desideri siano ignoti. Lasciare a qualcuno una “procura sanitaria” può essere un’ulteriore garanzia che le proprie volontà sulle terapie di sostegno della vita saranno rispettate. La California è stato il primo paese ad adottare un Natural Death Act, la legge sulla “morte naturale”, che permette di firmare una dichiarazione per esprimere le proprie preferenze sulle terapie e per designare un proxy sanitario. Le leggi che regolano l’attuazione del living will e della procura sanitaria variano in Usa da Stato a Stato, per cui è importante assicurarsi di compilare i moduli appropriati, diversi a seconda dello stato in cui si vive (questi moduli si trovano on-line al sito www.partenershipforcaring.org). L’utilizzo delle disposizioni anticipate Affinché le disposizioni anticipate abbiano valore, è necessario fare qualcosa di più della semplice compilazione di un modulo. La compilazione di un living will (il testamento biologico) e la designazione di un proxy, è solo il primo passo per avere la sicurezza che le proprie volontà sulle terapie siano ri-

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spettate, nel caso che non si avesse più la possibilità di esprimersi. Innanzitutto, i medici non potranno seguire le disposizioni anticipate, se non ne saranno messi al corrente o se le istruzioni sono troppo vaghe. Inoltre, il variare delle leggi da Stato a Stato, fa sì che in Usa, se si lasciano le disposizioni anticipate secondo le norme di uno Stato e ci si trasferisce in un altro, occorre capire se, nella nuova residenza, sarà necessario modificare il documento o fare qualcos’altro. Di fatto, dopo la compilazione delle disposizioni anticipate, è sempre meglio riprendere in mano la questione di quando in quando, per assicurarsi che le volontà espresse corrispondano ancora ai propri desideri. Che il parere del paziente, espresso con un living will o con una procura sanitaria, sia rispettato, può dipendere dalle politiche delle singole istituzioni sanitarie e dalle circostanze che hanno portato alla formulazione delle disposizioni anticipate. L’incertezza sul decorso di una malattia può rendere difficoltoso, per i medici, stabilire se un paziente sia effettivamente nello stadio terminale della malattia. In alcuni casi, un testamento biologico potrebbe essere più una richiesta che una disposizione. Le persone dovrebbero discutere le questioni sulla fine della propria vita con il medico di base e con gli altri medici presso i quali sono in cura, così come ne dovrebbero discutere con i propri famigliari, prima che si verifichi una situazione nella quale le indicazioni contenute nelle disposizioni anticipate diventino esecutive.83 È possibile redigere le disposizioni anticipate, inizialmente, come idea generale della propria concezione degli scopi della terapia e della filosofia ad essa sottesa, e, poi, renderle più specifiche man mano che la malattia diventa sempre più debilitante e diventa sempre più probabile il suo esito letale. Anche se le disposizioni anticipate sono uno strumento prezioso, una comunicazione chiara tra il paziente e il medico, una lettera scritta dal paziente o la documentazione delle disposizioni in una cartella clinica, potrebbero già essere tutto ciò di cui c’è realmente bisogno.84 Le disposizioni anticipate sono pensate per diventare esecutive quando un paziente non è più in grado di comunicare le proprie volontà e quando si rende necessario qualche tipo d’intervento medico per il sostegno della vita. Proprio per questi motivi potrebbe rendersi necessaria un’integrazione delle disposizioni anticipate, allorché si presentasse una situazione che il paziente non aveva previsto.85 Prendiamo, ad esempio, il caso di una donna sui settant’anni che viene ricoverata per un’operazione chirurgica all’anca, e alla quale, assieme agli altri moduli per il ricovero, viene chiesto di compilare e firmare un modulo per il testamento biologico; mentre è in convalescenza in seguito all’operazione, la signora ha un improvviso arresto cardiaco. I medici, invece che cercare di salvarla, danno per acquisito il fatto che essa, avendo sottoscritto il testamento biologico, ha inteso affermare il rifiuto di qualsiasi sforzo per essere rianimata, e la donna muore. Anche se questa donna non era in fase terminale quando aveva firmato il testamento biologico, essa

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aveva, di fatto, con la sottoscrizione, fornito le prove che non intendeva essere mantenuta in vita se si fosse trovata in gravi condizioni mediche, assegnando ai medici il potere di interpretare i propri desideri. Sarà stato davvero questo il risultato che la donna avrebbe desiderato? Nel 1990, il Congresso degli Stati Uniti ha promulgato il Patient Self-Determination Act (PSDA), “legge per l’autodeterminazione del paziente”.86 Questa legge impone agli operatori dei programmi Medicare e Medicaid, di informare i pazienti del loro diritto di designare un “procuratore sanitario” e di formulare istruzioni scritte sui limiti da imporre alle cure mediche che occorrerebbe attivare nel caso in cui essi non fossero più in grado di intendere e di volere.87 Gli operatori sanitari sono obbligati a documentare, nella scheda personale del paziente, se questi ha redatto delle disposizioni anticipate e devono assicurarne la conformità alle leggi dello Stato. Il PSDA è stato descritto come “Medical Miranda warning” (avvertimento Miranda per il medico, espressione che allude all’obbligo della polizia di comunicare i loro diritti alle persone in arresto, n.d.c.). Come se, allo stesso modo usato dalla polizia, i medici avessero l’obbligo di avvertire il paziente dei propri diritti in merito alle disposizioni anticipate e alle terapie del sostegno della vita. Anche se l’intento del PSDA è quello di aiutare le persone a decidere sulle cure mediche, c’è chi teme che esso possa portare a un indebolimento della missione del medico di mantenere in vita i pazienti. Un altro aspetto preoccupante è che i pazienti si allarmino eccessivamente sul proprio stato di salute, quando si chiede loro se hanno compilato il modulo delle disposizioni anticipate. L’anziana vedova, ad esempio, che si trasferisce in una casa di cura in seguito alla morte del marito, quando la si invita a compilare un modulo per il testamento biologico, può essere spaventata da ciò che percepisce come un avviso che, anche lei, sta per morire, andando ad aumentare, così, l’ansia e la depressione causate dal momento difficile che sta passando. È per questo che il PSDA e, in generale, tutte le questioni relative alle disposizioni anticipate, dovrebbero essere gestite con estrema cautela, considerando tutte le circostanze che possono influenzare la condizione del singolo paziente. Non si dovrebbe avere troppa fiducia nel fatto che tutto andrà necessariamente bene, solo perché si è compilato e firmato un modulo per le disposizioni anticipate. Zelda Foster, un’assistente sociale ed educatrice, descrive gli sforzi fatti perché le volontà del padre novantatreenne fossero rispettate dal personale medico, dopo che era stato trasportato in sala di terapia intensiva e attaccato alle macchine per tenerlo in vita88: nonostante tenesse in mano la “procura sanitaria” e le disposizioni anticipate del padre, i medici sembravano non conoscerne le funzioni e l’amministrazione dell’ospedale volle che la famiglia Foster si facesse rilasciare un ordine del tribunale per far va-

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lere le clausole della procura. La signora Foster afferma: “L’ospedale ha creato continue difficoltà per ostacolare la nostra legittima richiesta di ottenere una morte dignitosa per nostro padre.” Come per Nancy Beth Cruzan, anche in questo caso la decisione della Corte Suprema rese evidente che le disposizioni anticipate sono uno strumento sufficiente a fornire “prove chiare e convincenti” delle proprie volontà sulle terapie di sostegno della vita in situazioni critiche, ciononostante, esse non risolvono tutte le difficoltà che possono accompagnare l’assistenza medica nella fase terminale della vita. Disposizioni anticipate e pronto soccorso È importante fare una netta distinzione tra le disposizioni anticipate e le prescrizioni di non rianimare che possono essere state date da un medico. La mancata distinzione tra i due concetti può avere la conseguenza che, il personale del pronto soccorso, intervenuto con chiamata telefonica, somministri cure non desiderate alle persone in fin di vita. Gli interventi di pronto soccorso sono considerati una manna quando aiutano a salvare delle vite, ma possono essere meno apprezzati quando salvano la vita a chi preferirebbe morire naturalmente. Dal momento in cui si chiama il numero d’emergenza, in ogni caso, prende avvio un meccanismo improntato a salvare la vita. Il personale del pronto soccorso, generalmente, non si trova nella posizione di poter prendere decisioni su chi vuole essere salvato e chi non lo vuole. Di fatto, il personale del Pronto Soccorso è obbligato per legge a iniziare la rianimazione cardiopolmonare, a meno che non ci sia una prova evidente della volontà contraria del paziente, documentata da una prescrizione di non-rianimazione firmata dal medico curante. Ma una tale prescrizione sarà formulata in forma scritta solo quando un paziente è all’ultimo stadio di una malattia terminale. Immaginate una persona che è sul punto di morire, a casa, circondata dai propri parenti e amici intimi, preparata all’idea di lasciar fare alla natura il suo corso naturale. Quando la persona inizia ad avere difficoltà nel respiro, tra coloro che assistono a questo approssimarsi della morte, ci può essere chi sente l’impulso di dover fare qualcosa per alleviare l’evidente sofferenza. A meno che non ci sia stata una preparazione precedente mirata ad evitare questa possibilità, sarà inevitabile che si telefoni al numero d’emergenza per un intervento di pronto soccorso, in seguito al quale la persona verrà rianimata dai paramedici e attaccata a delle macchine per mantenerla in vita; cosicché le ultime ore, o gli ultimi giorni della vita, saranno più critici del necessario. Per evitare questo scenario, le persone che non vogliono né la rianimazio-

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ne né altri interventi per essere mantenuti in vita, devono assicurarsi di avere una prescrizione medica di non-rianimazione e che questa sarà immediatamente messa a disposizione del personale d’emergenza che interverrà: un biglietto nel portafoglio o un braccialetto di allerta per il medico, possono essere utili per segnalare la volontà di non essere rianimati. Per la molteplicità delle situazioni possibili, i pazienti che vogliono evitare interventi di sostegno della vita, dovrebbero prepararsi in anticipo e assicurarsi che tutti i documenti necessari siano pronti e si trovino nel giusto posto. Considerazioni conclusive Considerando la rapidità con la quale, i problemi e le decisioni sulla fine della vita, sono diventati centrali per l’opinione pubblica e nelle discussioni degli ultimi decenni, Leon Kass osserva che “oggi, si assiste al boom del business dell’etica medica”: con scuole mediche che offrono corsi di etica, ospedali che fondano comitati etici, tribunali che si pronunciano su questioni etiche.89 Kass sostiene che la maggior parte di questa “attività è solo chiacchiera, teorizzazione filosofica ed esercizio razionalistico, che lascia relativamente poco spazio alle motivazioni e alle passioni: a ciò che spinge davvero le persone ad agire.” Ciò non significa che analizzare e teorizzare sia irrilevante, ma che “la moralità della pratica ordinaria” si trova quando dalla teoria si passa all’azione. Kass fa presente che tutti gli incontri tra esseri umani sono incontri etici, occasioni per esercitare e coltivare le virtù e il rispetto. Le nostre scelte in merito alla fine della vita possono derivare non solo dall’insieme unico dei nostri valori personali, ma anche da valori presenti all’interno del nostro particolare gruppo etnico o culturale: sistemi di valori diversi, producono atteggiamenti diversi, sugli interventi biomedici alla fine della vita.90 La discussione di questo capitolo può costituire la base per considerazioni razionali sulle questioni del termine della vita. Considerazioni su simili questioni, non manifestano la loro rilevanza solo nell’ambito delle politiche sociali, ma pesano direttamente, a volte in modo drammatico, sulle vite degli individui e delle famiglie.

Letture di approfondimento Renee Anspach. Deciding Mo Lives: Fateful Choices in the Intensive Care Nursery. Berkeley: University of California Press, 1993. Michael C. Brannigan and Judith A. Boss, Healthcare Ethics in a Diverse Society. Mountain View, Calif.: Mayfield, 2001.

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Denis Clifford and Cora Jordan. Plan Your Estate, 6th ed. Berkeley, Calif.: Nolo Press, 2002. Peter G. Filene. In the Arms of Others: A Cultural History of the Rightto Die in America. Chicago: Ivan R. Dee, 1998. Albert R. Jonsen. The Birth of Bioethics. New York: Oxford University Press, 1998. Robert M. Veatch, ed. Medical Ethics, 2nd ed. Boston: Jones 8c Bartlett, 1997. Matt Weinberg, ed. Medical Ethics: Applying Theories and Principles to the Patient Encounter. Buffalo, N.Y: Prometheus, 2001. Robert F. Weir, ed. Physician Assisted Suicide. Bloomington: Indiana University Press, 1997.

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Capitolo 8

COMPRENDERE L’ESPERIENZA DELLA PERDITA

Tutti noi siamo dei superstiti. Anche se non abbiamo ancora vissuto la morte di un nostro caro, siamo, in ogni caso, superstiti alle perdite determinate nella nostra vita dai cambiamenti e dai passaggi. La perdita di un lavoro, la fine di una relazione, il trasferimento da una scuola o da una casa ad un’altra: sono tutti esempi dei diversi tipi di perdite che sperimentiamo nella nostra vita. A volte, tali perdite sono chiamate “piccole morti” e tutte quante, con intensità differente, implicano il cordoglio. Mentre pensate alle “piccole morti”, di cui avete fatto esperienza, provate a ricordare come avete reagito: shock, incredulità, rabbia, tristezza e sollievo, sono tutte reazioni naturali. Uno studio condotto sul tema delle “morti nelle carriere sportive” degli atleti dei college ha rilevato l’esperienza del cordoglio tra quelli che sono costretti ad interrompere senza preavviso le attività sportive, perché non si integrano con la squadra, perché subiscono un incidente che non permette la prosecuzione della carriera, o, infine, perché vedono sospeso o il proprio programma sportivo o la propria squadra. Passando allo status di “studenti normali”, questi atleti elaborano la perdita dell’amicizia con i compagni di squadra, la perdita dell’immagine di sé e della reputazione sociale in quanto atleti e la perdita di “ciò che sarebbe potuto essere”.1 In modo del tutto simile, quando la squadra di baseball dei Chicago White Sox giocò la sua ultima partita allo stadio Old Comiskey Park, molti tifosi erano profondamente consapevoli che la loro tristezza era una reazione a perdite associate ai propri ricordi di partite, alle quali avevano assistito nel “campo da baseball più importante del mondo.”2 Nel ricordare l’ultima partita a cui aveva assistito con sei amici prima di partire per il Vietnam, un tifoso riferì: “Tre di quei ragazzi morirono laggiù, e adesso mi sembra di starli salutando per sempre. Questo campo era il mio legame con loro e adesso sto per perderlo”. Un altro tifoso disse che i ricordi più cari di suo padre, erano associati alle partite di baseball che avevano seguito insieme in quello stadio: “Da figlio, sono tornato indietro per rivivere il calore e la pienezza che ho sempre provato, sedendo in quei posti ‘speciali’: era come se tornassi indie-

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tro per andare a trovare mio padre... Quando l’Old Comiskey chiuse quel giorno d’autunno... ho perso qualcosa. Ho perso una connessione molto profonda e reale con quei sentimenti che un bambino di sei anni prova per suo padre.”

Lutto, cordoglio ed elaborazione del lutto La conoscenza delle definizioni di lutto (bereavement), cordoglio (grief) ed elaborazione del lutto (mourning), amplia la nostra comprensione di ciò che significa essere un sopravvissuto. Anche se questi termini sono spesso usati come sinonimi, ognuno si riferisce ad aspetti distinti dell’incontro con la morte.3 Il termine bereavement è definibile semplicemente come l’evento oggettivo della perdita, ciò che in italiano si esprime con il termine lutto. Il termine inglese deriva da una radice che significa sia “torn up” (in italiano “lacerato”, “strappato”) sia “shorn off” espressione che richiama due concetti, che in italiano corrispondono a quello di “tosatura” e a quello di “deprivazione, spoliazione”, come se qualcosa di prezioso ci fosse stato strappato violentemente da una forza distruttrice. Così, alla radice, il termine inglese bereavement indica la sensazione dell’essere deprivato, di avere subito lo strappo di una parte di noi stessi contro la nostra volontà, di aver subito una rapina, ovvero di tutte quelle sensazioni che l’esperienza del lutto comporta. Il lutto può essere definito come un evento che sconvolge la vita, è tuttavia appropriato definirlo anche come un evento normale dell’esperienza umana; per comprendere appieno il significato del lutto occorre, dunque, tenere a mente in modo equilibrato, queste due definizioni. Il cordoglio (grief) è la reazione alla perdita, include pensieri e sentimenti, ma anche risposte fisiche, comportamentali e spirituali, queste reazioni possono manifestarsi immediatamente, quando si sa della perdita, manifestarsi in seguito, ma anche essere del tutto assenti. Ogni superstite non necessariamente dovrà avere tutte queste reazioni o la maggior parte di esse; il cordoglio è molto variabile, è un processo a dimensioni multiple e che si evolve nel tempo. Come osserva Dennis Klass: “Il lutto è qualcosa di complesso: attraverso di esso tocchiamo l’essenziale di ciò che significa essere umani e di cosa significhi instaurare un rapporto con gli altri.”4 Il grave stress mentale o cognitivo del cordoglio si può manifestare con l’incredulità, la confusione, l’ansietà, la tensione o il dolore, con un senso diffuso di disorganizzazione e con la depressione. Le cose e gli avvenimenti possono sembrare irreali, le risposte sensoriali possono sembrare sconnesse e instabili, specialmente nei periodi immediatamente successivi ad una perdi-

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ta, i superstiti potranno sembrare depressi, anche se la depressione da cordoglio è diversa da quella definita clinicamente.5 Essi possono attraversare dei periodi d’euforia, con un’elevata sensibilità percettiva ed emotiva nei confronti delle altre persone e degli avvenimenti in generale. La persona in lutto può essere preoccupata dalle immagini del defunto che vede in sogni e allucinazioni, o può avere un vago senso della presenza del defunto. Nel cordoglio non sono rari casi d’esperienze paranormali o psichiche nelle quali il morto appare ai vivi o pare comunicare con loro.6 Le emozioni del cordoglio possono includere tristezza, nostalgia, solitudine, dispiacere, autocommiserazione, angoscia, sensi di colpa e di rabbia, ma anche sollievo e liberazione. Riconoscere che il cordoglio può coinvolgere una varietà molto ampia di sentimenti, anche di tipo conflittuale, ci rende più capaci d’affrontarlo. La persona in lutto può avvertire “l’oltraggio” subìto per l’evidente ingiustizia della perdita, ma anche per la sua incapacità di controllare gli eventi, manifestando sentimenti di frustrazione e di impotenza: se il mondo fosse stato organizzato a suo piacimento, non avrebbe certo contemplato questa perdita. Fisicamente, il cordoglio si può accompagnare a frequenti sospiri, respirazione affannata, nodo alla gola, sensazione di vuoto all’addome, spossatezza muscolare, brividi, tremori, iperattività del sistema nervoso, insonnia e altri problemi del sonno, cambiamenti dell’appetito. I comportamenti associati al cordoglio includono il pianto e la “ricerca” del defunto. Può accadere che le persone in lutto parlino incessantemente del defunto o delle circostanze in cui è avvenuta la morte. Oppure può accadere che parlino di tutto tranne che della propria perdita. A volte, i superstiti possono essere molto irritabili e ostili. Possono ostentare una sorta d’iperattività frenetica e una generale irrequietezza, come se non sapessero che fare di se stessi. Può capitare che, mentre si sta tentando di dare un significato alla perdita, si prendano in considerazione credenze religiose e spirituali prima trascurate. Le persone in lutto possono anche rivolgersi a tali credenze come ad una fonte di consolazione e conforto. Una perdita importante può mettere in discussione le nostre più profonde convinzioni sul mondo e sul posto che noi vi abbiamo, scalfendo certezze che ormai avevamo dato per scontate. Quando la perdita distrugge il mondo che consideriamo acquisito, rimarginare le ferite può richiedere che ri-apprendiamo a vivere in tutte le dimensioni esistenziali colpite dalla perdita.7 Il cordoglio coinvolge la persona nella sua interezza, e si manifesta in un’ampia varietà di modi: mentali, emotivi, fisici, comportamentali e spirituali; limitare le definizioni di cordoglio significa ridurre le nostre possibilità di accettare tutte le reazioni alla perdita che incontriamo nella nostra espe-

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rienza. Se una persona a cui capita l’esperienza di vivere immagini mentali del defunto, reagisce dicendo “Oh, no, non dovrei pensare queste cose”, compie un tentativo di negazione dell’esperienza che può causare un conflitto, evitabile, invece, tenendo presente che certi pensieri, sentimenti, comportamenti e così via, costituiscono un aspetto normale del cordoglio. Il mourning, inteso come processo dell’elaborazione del lutto, è strettamente connesso al grief, al cordoglio, e spesso questi due termini sono usati come sinonimi. In ogni caso, l’elaborazione del lutto si riferisce non tanto alla reazione alla perdita, quanto, piuttosto, al processo con il quale la persona in lutto integra la perdita nella sua vita che continua. La gestione di tale processo è determinata, almeno in parte, dalle norme sociali e culturali che regolano l’espressione del cordoglio.8 Considerati insieme, il cordoglio (grief) e l’elaborazione del lutto (mourning) sono la via naturale per affrontare l’esperienza del lutto stesso. L’indossare una banda nera al braccio oppure abiti dai colori dimessi e, se il defunto è una figura pubblica, esporre la bandiera nazionale a mezz’asta, sono modalità tipiche dell’espressione del cordoglio e dell’elaborazione del lutto. In seguito alla morte di George Washington, il Congresso degli Usa decretò un lutto nazionale per un periodo di trenta giorni, durante il quale i cittadini indossavano delle fasce nere su cui era stampata, a caratteri di colore bianco, l’iscrizione incisa sulla bara del Presidente: “Generale George Washington, lasciò questa vita il 14 dicembre 1799.”9 In alcune culture, i vedovi vestono di nero per anni dopo la morte del coniuge per rendere pubblica la propria perdita, il proprio mutamento di condizione sociale e il proprio cordoglio. In passato, la mater dolorosa, la donna velata e vestita in nero, rappresentava la modalità socialmente prescritta per l’espressione e l’elaborazione del lutto. Alterare la propria immagine per esprimere il processo di lutto è consuetudine diffusa in molte società. Tra alcuni nativi americani è diffuso il costume di rasarsi la testa per manifestare la propria condizione di lutto. I capelli lunghi, infatti, sono per loro simbolo di una buona condizione di salute. Terry Tafoya osserva che “tagliarsi in questo modo i capelli è un sacrificio simbolico e reale in memoria e rispetto dello scomparso. È anche un segno immediato che comunica ai visitatori l’evento della scomparsa, mediante un intenso simbolo visivo di cordoglio.”10 C’è un tema comune nei comportamenti e nell’espressione del cordoglio e del processo d’elaborazione del lutto che attraversa tutte le culture: precisamente, chi ha subito una perdita è “diverso” e questa diversità, in genere, si attenua con il passare del tempo.11 Ciò si vede maggiormente quando le usanze implicano l’isolamento temporaneo delle persone in lutto. L’isolamento spinge i superstiti ad astenersi dalle relazioni sociali. Può esservi capi-

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tato di sentire dire: “Quella famiglia ha appena vissuto la morte di una persona cara e ora è in lutto: infatti stanno sempre in casa”. Philippe Ariès conclude che, storicamente, l’isolamento svolge due funzioni, durante il processo di elaborazione di un lutto: in primo luogo, permette a chi sopravvive di tenere il proprio cordoglio al riparo dal mondo, e, in secondo luogo, fa sì che il defunto non sia dimenticato troppo in fretta.12 In molte società moderne, l’elaborazione del lutto non è più regolata formalmente o socialmente come lo era in passato. La mancanza di regole sociali ben definite fa sì che i superstiti abbiano problemi nel capire quale comportamento sia più o meno opportuno in queste situazioni; l’episodio della ragazza che scrive ad un giornale per chiedere consigli è esemplare in questo senso. Il padre di questa ragazza aveva chiesto alla propria famiglia che la festa di compleanno per i sedici anni della figlia si tenesse comunque, anche nel caso in cui il suo funerale si fosse dovuto svolgere proprio in quel giorno. La ragazza non si sentiva di festeggiare, ma i famigliari decisero di onorare la promessa fatta al padre. Così, la festa si svolse due giorni dopo la morte del padre e, alla fine, risultò una bella esperienza per tutti coloro che vi avevano partecipato. Il problema, però, nacque in seguito, quando alcuni parenti rivelarono il proprio sdegno perché, secondo il loro punto di vista, festeggiare non era cosa da fare durante il periodo di lutto. Che consiglio avreste dato a questa ragazza? Definire la “correttezza” di un comportamento d’espressione del cordoglio e di elaborazione del lutto nelle società moderne è diventato difficile, specie all’interno di quelle che includono gruppi culturali e influenze sociali differenti. Forse è meglio sospendere i giudizi (o i preconcetti) su cosa è “corretto”, riconoscendo che sono molte le tipologie di comportamento che si possono ritenere appropriate, a seconda delle persone e delle circostanze.

L’esperienza del cordoglio Le persone da poco in lutto possono allarmarsi di fronte alle tante reazioni al cordoglio che sperimentano. Stephen Fleming e Paul Robinson annotano che “il cordoglio, a volte, può essere un’esperienza spaventosa, opprimente o addirittura da fare impazzire.”13 Spesso ci si chiede: che cos’è “un cordoglio normale”? Quanto tempo dovrebbe durare l’elaborazione di un lutto? Quale dovrebbe essere il decorso normale del cordoglio? Se la persona in lutto non “ne esce” in un certo lasso di tempo, significa forse che il suo cordoglio e la sua elaborazione del lutto sono inappropriati? Domande del genere riflettono le naturali preoccupazioni dell’essere umano, alle quali è

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possibile dare risposta se si considerano le circostanze in cui avviene la morte e senza escludere altri fattori che influenzano le esperienze d’ogni individuo. In questo senso, è utile avere qualche nozione di base sulle dinamiche del cordoglio e sulle diverse modalità espressive che può assumere nel tempo. Risposte emotive e risposte mentali Davanti ad una morte, quando la risposta emotiva è sostanzialmente differente dalla risposta mentale, e si è convinti che solo una risposta possa essere giusta, ecco che si crea un conflitto. È irrealistico aspettarsi che la testa e il cuore possano reagire esattamente allo stesso modo di fronte a una perdita, poiché è probabile che ci sia una disparità tra pensieri e sentimenti. Nel soffrire per la morte di un nostro caro, sono tante le emozioni che si provano e altrettanti i pensieri che affiorano. La sospensione del giudizio sulla correttezza o la scorrettezza di questi pensieri e di queste emozioni, permette di accoglierli tutti e, di conseguenza, trasforma il cordoglio in esperienza di guarigione per la persona in lutto. Accade spesso che chi sopravvive alla perdita di una persona amata, segua regole molto rigide riguardo al tipo d’emozioni che si possono provare e in quali situazioni sia possibile esprimerle; ad esempio, quando e in che luogo sia accettabile arrabbiarsi o aprirsi al dolore e lasciarsi andare ad un intenso sfogo di tristezza: permettersi di provare ad esprimere dei sentimenti è importante per far fronte ad una perdita. Razionalmente, potremmo pensare: “Come posso arrabbiarmi con un morto?” Tuttavia, anche la rabbia può essere parte del cordoglio. Tale reazione è possibile nei casi di decesso dovuti ad incidenti d’auto, provocati da stato d’ubriachezza o nei casi di suicidio. La rabbia è presente anche quando la morte era inevitabile e non dipendente dalla vittima, come, ad esempio, nel caso della giovane che, passando davanti alla fotografia del suo bambino morto di recente, sente esplodere una voce dentro di sé: “Brat! Come hai potuto morire e abbandonarmi così!” In senso puramente razionale, potremmo essere tentati di pensare che tale comportamento sia fuori luogo. Come può una madre essere arrabbiata con suo figlio perché è morto? In realtà, il senso di rancore o di rabbia frustrata è comune tra chi vive un lutto. I superstiti dovrebbero concedersi il lusso di vivere fino in fondo i propri sentimenti, di provare rabbia per chi è morto proprio perché è morto e rabbia nei propri confronti per non essere riusciti a prevenire tale morte: nel far ciò essi hanno bisogno di non giudicarsi cattivi o insensibili.

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Il decorso del lutto Definire il decorso del cordoglio suddividendo il processo delle reazioni al lutto in “fasi” o “stadi” distinti è arbitrario, benché la maggior parte degli studi indichi che le risposte alla perdita seguono uno schema generalmente omogeneo.14 Descrivere il percorso del cordoglio come una serie di stadi o fasi sembra suggerire una progressione lineare che parte da un primo stadio per passare ad un secondo e così via, fino a che il processo è completato. Questa nozione può essere di conforto per coloro che preferiscono schemi preconfezionati in base ai quali valutare il viaggio dei superstiti, ma occorre essere cauti nell’applicare qualsivoglia schema alle singole esperienze di lutto. Come sottolinea Sandra Bertman, le diverse fasi del cordoglio, “possono sovrapporsi, possono essere di durata variabile e imprevedibile, possono succedersi in qualsiasi ordine, possono essere presenti simultaneamente e possono scomparire o riapparire casualmente.”15 Nelle prime ore o giorni che fanno seguito ad una morte, il cordoglio si manifesta con shock e intontimento, sentimenti di stordimento e d’incredulità. Possono essere presenti espressioni di negazione: “No! Non può essere vero!”, specie se la morte è improvvisa e inattesa; tuttavia, anche quando la morte è prevista, la reazione non è necessariamente più attenuata. Il senso di confusione e disorganizzazione potrebbe essere opprimente, nel periodo iniziale del cordoglio, come se l’individuo in lutto, inerte e senza speranza, si trovasse nel mezzo di una corrente vorticosa che lo può travolgere. Sconvolta dallo shock della perdita, una persona può sentirsi vulnerabile e può cercare di proteggersi, ritirandosi dal mondo. La confusione di questa prima fase contrasta con il bisogno di occuparsi di tutte le attività della tumulazione o della cremazione della salma. Normalmente è questo il periodo nel quale chi è in lutto s’immerge nell’organizzazione del funerale e nella sistemazione di tutti gli affari del defunto e della sua famiglia. Il funerale, poi, può rappresentare, grazie al riunirsi di parenti ed amici per supportarsi a vicenda, un momento focale che aiuta a reintegrare i famigliari in lutto, sconvolti e disorientati dalla rottura causata dalla morte.16 Per la comunità, la partecipazione a tali cerimonie può servire a promuovere l’accettazione della realtà della morte e permette, a tutti quelli che restano, di superare il periodo acuto del cordoglio. La fase intermedia del cordoglio è caratterizzata da ansietà, apatia e struggimento per il defunto. È molto probabile che si provino sentimenti di disperazione, ma anche “sentimenti d’incredulità che aprono la strada alla consapevolezza che non ci sarà alcun ristoro e che la realtà della morte non è né un brutto scherzo, né un brutto sogno.”17 La persona, straziata dalla pena

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per la separazione, sente un’intensa nostalgia per chi è morto e prova un violento dolore. Può succedere che chi sta vivendo un lutto ripensi continuamente agli eventi che hanno preceduto la perdita, nel tentativo di cancellare la disgrazia e far sì che tutto possa tornare come prima. In questa fase, che può durare parecchio tempo, i superstiti vivono spesso emozioni mutevoli che possono ricordare l’immagine di un vulcano, a volte in eruzione, a volte apparentemente calmo. Possono essere presenti, e venire anche manifestati, rancore e risentimento nei confronti delle persone o delle istituzioni che avrebbero potuto in qualche modo evitare la morte, “se solo le cose fossero andate diversamente.” La rabbia può anche essere diretta proprio contro il defunto, il cui “abbandono” sta causando un tale dolore, oppure contro Dio (“Come hai potuto permettere che ciò accadesse?”) o, ancora, contro la situazione stessa (“Com’è potuta succedere una cosa del genere proprio a me?”). I membri della famiglia e gli amici possono diventare oggetti, essi stessi, sui quali si proietta il rancore; mentre i sentimenti ostili, rivolti anche contro il defunto, possono, a loro volta, far insorgere il senso di colpa. L’emozione predominante, durante questa fase intermedia del cordoglio, è facile che sia la tristezza, accompagnata dalla nostalgia e dalla solitudine, dato che si rendono sempre più penosamente evidenti i bisogni e le dipendenze che il defunto soddisfaceva. Questa fase è caratterizzata dalla serie dei vari “se-solo” e “se-invece”, mentre si affronta la realtà: la persona amata è morta. Incominciando ad accettare l’indesiderato fatto che la perdita è reale e non può essere modificata, è facile trovarsi immersi in una sorta di ripasso e di ricomposizione di tutti i “pezzetti”, in interazione fra loro, che creavano il rapporto con il defunto. Questa operazione può implicare un rivivere la storia della relazione e dei legami d’attaccamento. Il processo continua per settimane o mesi, i legami che erano, pian piano si sciolgono, mentre si crea una nuova forma di rapporto con il defunto che diventa parte della vita che continua. Normalmente, questo periodo del cordoglio è penosamente difficile, è, infatti, il periodo in cui chi è in lutto potrebbe non avere molto supporto sociale, anche da parte di quei parenti e amici che, nei primi tempi, erano più presenti. Dopo il funerale o altre cerimonie, infatti, la persona in lutto, può essere lasciata sola con il proprio dolore: se s’intende offrire aiuto, è utile tenere presente che l’assenza di supporto sociale limita le opportunità che le persone in lutto hanno di parlare della perdita e di esprimere il cordoglio. Non ci sono scadenze definite e predeterminate per il completamento del processo di cordoglio. Per il ripristino del benessere personale, l’ultima fase del cordoglio “attivo” è caratterizzata da un senso di fermezza, guari-

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gione, reintegrazione e trasformazione, nello sviluppo di quel processo che porta la persona verso una vita irrevocabilmente cambiata, ma sempre degna di essere vissuta. Tutto lo sconvolgimento della prima fase del cordoglio passa, il lutto attivo non domina più ogni ora del giorno. L’equilibrio mentale e fisico si ristabiliscono. Ciò non significa che la tristezza se ne vada completamente, piuttosto significa che recede gradualmente sullo sfondo. Il cordoglio non è più così “pesante”, è come se fosse stato tolto un peso. L’adattamento alla perdita può essere sentito, a volte, come un tradimento nei confronti del caro estinto, ma è salutare tornare alla vita e orientarsi verso il futuro. In questo momento l’attenzione è prevalentemente sul presente, non sul passato, anche se gli anniversari e altre cose che possano ricordare la perdita continueranno a stimolare, di quando in quando, un cordoglio di tipo attivo. Nuove perdite potranno riattivare il cordoglio per una perdita precedente. Accettare la perdita non significa dimenticare la persona amata o minimizzare il significato della relazione andata perduta. Non si tratta di “smetterla” con il cordoglio in senso assoluto o definitivo, bensì di “convivere con il cordoglio”. Il percorso del cordoglio permette di incorporare la perdita nella nostra vita che, intanto, continua. Le connessioni con le persone care scomparse, si mantengono con i ricordi e con altre modalità, che sostengono la relazione oltre la morte. Non c’è nessuna fine definitiva fino a che il defunto è vivo nei nostri ricordi. Quando si torna col pensiero ad una perdita che si è subita, ci si può ricordare le emozioni, le reazioni fisiche e i comportamenti associati con il cordoglio di allora: era quasi come se queste reazioni stessero avvenendo tutte assieme. Una parte di noi era sconvolta, mentre un’altra restava calma. Distinguere certi aspetti e prospettive del cordoglio, ci aiuta a comprendere meglio il modo in cui “funziona il cordoglio”, ma l’effettiva esperienza rassomiglia più ad una serie di passi di danza che a una passeggiata in campagna. La durata del lutto A volte, le persone pensano, erroneamente, che il cordoglio normale duri solo un breve periodo, all’incirca dai sei mesi ad un anno. Tale convinzione può portare ad avere attese non realistiche sul comportamento delle persone in lutto, quando il loro cordoglio pare continuare oltre limiti definiti arbitrariamente. Gli specialisti che lavorano con le persone in lutto sono in media tutti concordi nell’affermare che il cordoglio non abbia un termine assoluto né che proceda a tappe stabilite. Al contrario, la sua durata varia da individuo a individuo e dipende significativamente dal contesto in cui è avvenuta

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la perdita. Di conseguenza, la nozione di “cordoglio prolungato” tende ad essere problematica. È preferibile attenersi ad un approccio cauto, nell’etichettare certe manifestazioni di cordoglio come “prolungate” o “anormali”.18 Quando i segni di cordoglio acuto persistono per un periodo di tempo molto prolungato, potrebbero essere indicativi di qualche forma di cordoglio patologico o malsano. Casi simili possono essere quelli in cui la persona che ha subito un lutto presenta sintomi di grave e prolungata depressione, specie quando questa è accompagnata da problemi emotivi, abuso di sostanze o pensieri suicidi. In modo simile, possono esserci ragionevoli motivi di preoccupazione, quando sono presenti disturbi del sonno o di perdita d’appetito o, in alcuni casi, disturbi come colite ulcerosa, artrite reumatoide o asma. In tutti questi casi, è consigliabile l’assistenza di specialisti. Il riapparire di periodi di cordoglio intenso anni dopo una perdita, può essere erroneamente visto come anormale, quando invece, in realtà, si tratta di una reazione normale ad una “nuova” perdita e, di conseguenza, di una reazione puntuale nel tempo, piuttosto che protratta nel tempo.19 Questa situazione è ben illustrata dalla vicenda di una giovane vedova che mostrava ancora i segni di un cordoglio intenso per la morte del marito, nonostante questa fosse avvenuta quattro anni prima. Smarrita, la donna affermava: “Non riesco a capire; per me è come se fosse appena morto.” Durante una conversazione con lo psicoterapeuta, la donna scoprì l’evento che aveva provocato il risveglio del suo dolore: nel giro di qualche giorno, la figlia di sette anni, avuta con il marito defunto, avrebbe fatto la prima comunione. Sebbene si fosse felicemente risposata, fosse tornata attivamente al lavoro e fosse ovviamente guarita dalla perdita, questa donna, molto devota, soffriva perché il padre di sua figlia non avrebbe potuto partecipare a quella celebrazione che era stata da loro discussa e pensata fin dalla nascita della bambina. Ognuno, nella propria vita, può riconoscere episodi di cordoglio ricorrente per perdite subite in passato. A volte, ad esempio, si rimpiange la perdita dell’infanzia e delle sue esperienze così speciali. A questo proposito, una donna racconta di una visita ai propri genitori, quando ormai viveva sola da qualche anno: un giorno, mentre lei e sua madre si trovavano in soffitta, la madre aprì un baule e tirò fuori una collezione di bambole che erano appartenute alla figlia. La vista delle bambole evocò il rimpianto per l’infanzia trascorsa. Dice la donna: “Guardai quelle bambole, i loro vestitini, ed entrai in contatto con quel periodo della mia vita nel quale mia madre si era presa cura di me e aveva fatto i vestiti per le mie bambole; mi trovavo là, seduta nella soffitta, piangendo come una bambina”. Molti di noi hanno avuto esperienze simili: un avvenimento, una fotografia, un luogo, una canzone o altri sti-

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moli provocano un cordoglio per qualcosa o per qualcuno che non è più presente nella nostra vita. I superstiti, più volte nelle loro vite, possono vivere il ripetersi del cordoglio per una perdita importante, quando qualcosa ravviva la consapevolezza che ciò che è stato ora non è più; ad esempio, una persona che ha perso un genitore durante l’infanzia può rivivere il cordoglio per questo evento proprio quando nasce il suo primo figlio. Uno studio sulle coppie in lutto ha evidenziato che gli effetti di una perdita possono prolungarsi per un periodo esteso, definibile come “transizione esistenziale” più che “crisi esistenziale”, periodo nel quale i superstiti restano in qualche modo in cordoglio per il resto della propria vita.20 L’esperienza della perdita ha la caratteristica di processo continuo e corrisponde alle situazioni nelle quali l’individuo viene a trovarsi nei vari stadi della propria vita. Il lutto complicato Il decorso del lutto può essere influenzato negativamente da vari elementi, che impediscono la sua risoluzione e riducono la capacità della persona in lutto di adattarsi alla vita senza il defunto. Therese Rando elenca le situazioni che possono aumentare il rischio di ciò che chiama lutto complicato:21 1. In presenza di una morte improvvisa e inattesa, specie se è traumatica, violenta, mutilante o casuale. 2. In presenza di una un morte per una malattia molto prolungata. 3. Quando la morte è quella di un bambino. 4. Per la percezione della persona in lutto che la morte fosse, in qualche modo, prevenibile. 5. Quando esiste una relazione, marcatamente aggressiva e ambivalente o di dipendenza, tra la persona in lutto e la persona deceduta. 6. Quando esistono problemi mentali, precedenti o concomitanti, della persona in lutto, o l’esistenza di precedenti situazioni di stress o di lutti non elaborati. 7. Quando la persona in lutto sente la mancanza di supporto sociale. Determinare se il lutto abbia delle complicazioni, non è semplice come scorrere una lista e indicare i punti di complicazione. Ad esempio, ci si deve aspettare che la morte di un bambino sfoci sempre in un lutto complicato? Rando dice: “Ciò che potrebbe essere una reazione appropriata in una certa circostanza per una persona in lutto, potrebbe essere una reazione patologica in altre. Non si ha la possibilità di usare i raggi-X o altri strumenti diagno-

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stici, per determinare la presenza o l’assenza di patologia all’interno di un processo di elaborazione del lutto”. Considerando tutte le circostanze che possono complicare un lutto, si può notare che le sue sole circostanze non giustificano la sua etichettatura come “anormale” o “patologico”. Ad esempio, un genitore, che perde il figlio per una morte casuale e violenta, può trovarsi a fronteggiare una modalità di lutto intrinsecamente complicata, ma questo fatto non è sufficiente per portarci a concludere che il lutto di questo genitore sarà disfunzionale. Tuttavia, quando il cordoglio è represso e il coinvolgimento emotivo per la perdita è assente o ridotto, oppure quando il cordoglio è tanto smisurato da diventare totalmente opprimente, s’instaurano le condizioni per un cattivo esito,22 dice Rando: “In tutte le forme di processo di lutto complicato, si tenta di fare due cose: 1) negare, reprimere o evitare certi aspetti della perdita, il dolore che provoca e la piena presa di coscienza delle sue implicazioni per la persona in lutto; 2) trattenere ed evitare di abbandonare la persona amata perduta.”23 Nella concezione di Rando, il lutto complicato ha una frequenza crescente nella società moderna a causa di processi sociali quali l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la deritualizzazione, ma anche la violenza, la disponibilità delle armi, l’alienazione sociale, l’abuso di sostanze stupefacenti e una diffusa mancanza di speranza. Holly Prigerson e i suoi collaboratori hanno condotto, recentemente, degli studi miranti a definire i criteri per distinguere il lutto normale dal lutto patologico, che loro chiamano “lutto traumatico”.24 Questi Autori sono convinti, pur riconoscendo che servono altri dati, che le prove ottenute sono sufficienti per sostenere che il lutto traumatico sia un disturbo ben preciso che bisogna diagnosticare e curare. In questa ottica, nel lutto traumatico, sono centrali i sintomi dell’“angoscia da separazione” (separation distress), profonda nostalgia, desiderio, o ricerca, ritenuti dagli studiosi indici di preoccupazione intrusiva e angosciante che le persone in lutto provano per il defunto. Un secondo gruppo di sintomi, conosciuto come “stress traumatico grave” (traumatic distress), comprende “gli sforzi per evitare qualsiasi cosa che ricordi il morto; i sentimenti di futilità e insensatezza nei confronti del futuro; un senso di intontimento e distacco provocato dalla perdita; il sentirsi shockati, sbigottiti o inebetiti per la perdita subita; la difficoltà di riconoscere che la morte è avvenuta; sentire la vita senza la persona cara vuota e insignificante; il frantumarsi del senso di fiducia, di sicurezza e di controllo; il provare rabbia nei confronti della morte.”25 I criteri proposti per la diagnosi del “lutto traumatico” sono ancora in via di definizione, ma sembra evidente che, per lo meno superficialmente, molti

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dei sintomi associati con il lutto traumatico sono simili ai segni di un lutto normale.26 Secondo i ricercatori, ciò che distingue un lutto traumatico da quello normale, è la gravità delle reazioni e la loro durata: gli individui che si adattano alla vita senza il defunto, vivono un lutto che viene considerato normale, mentre gli individui che, per un periodo superiore ai due mesi (la durata attualmente stabilita per questi criteri), hanno difficoltà persistenti in varie aree della vita, come quella sociale e occupazionale, vivono un lutto che viene considerato anormale. Da un lato, questi sforzi di definire dei criteri per descrivere il lutto traumatico, sono importanti, perché cercano di fornire mezzi efficaci per identificare gli individui che vivono un lutto anormale allo scopo di fornire loro le terapie adeguate. Dall’altro, c’è il rischio di medicalizzare il lutto, rendendo confusa la distinzione tra disfunzione e normalità. I criteri di questa distinzione non devono essere ambigui e devono essere molto semplici, per evitare la creazione di un ambiente nel quale le persone siano portate ad emettere giudizi affrettati sul lutto proprio o altrui. Come si è già detto, è normale che il lutto sia vissuto come opprimente, spaventoso, a volte, addirittura “da fare impazzire.” Per questo, gli esperti che stanno analizzando i criteri che differenziano il lutto traumatico da quello normale, si sono assunti un compito difficile e si auspica che le loro conclusioni possano avere un impatto significativo sulla comprensione del lutto. La mortalità del lutto È possibile che una persona in lutto possa “morire di crepacuore”? Durante il XV secolo, il cordoglio era una causa di morte legale che poteva essere riportata sui certificati di morte. Stephen Oppenheimer, un neurologo, dice: “È una leggenda da vecchia comare che si possa morire di crepacuore..., ma molte leggende raccontate dalle vecchie comari sono vere.”27 Oppenheimer ritiene che lo stress mentale non risolto possa far sì che il battito cardiaco inizi a essere irregolare, fino ad arrivare a esiti letali. Per confermare questa teoria, egli sta studiando la corteccia insulare del cervello, un’area del sistema nervoso; essa controlla il respiro e il battito cardiaco ed è collegata al sistema limbico, ha a che fare con la rabbia, la paura, la tristezza e altre emozioni. I danni alla corteccia insulare possono rendere l’individuo soggetto a battito cardiaco caotico, definito fibrillazione ventricolare, che può portare all’arresto cardiaco e, quindi, al “crepacuore.” La morte di una persona amata implica il concorso di più cambiamenti, o “perdite secondarie”, che aumentano la vulnerabilità del superstite. Ciò che determina l’esito, non è tanto lo stress di per sé, quanto la capacità della per-

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sona di reagirvi. Prendendo in esame il fenomeno del “crepacuore”, Margaret Stroebe conclude che “responsabili del rapporto tra mortalità e lutto sono sia le conseguenze dirette della perdita di una persona amata, come può essere il crepacuore, sia gli effetti secondari, cioè lo stress da lutto.”28 e aggiunge: “Se il lutto avviene in un periodo della vita di per sé stressante, e si manifesta in un cordoglio molto intenso, è probabile che il rischio maggiore sia quello per la vita.” In un primo studio su una piccola comunità del Galles, W.D. Rees e S.G. Lutkins scoprirono che il tasso di mortalità fra le persone in lutto era, nel primo anno dopo la morte, di circa sette volte maggiore di quello della popolazione in generale.29 Altre ricerche hanno mostrato una più alta incidenza d’alcune malattie croniche tra persone con un lutto recente.30 Uno studio condotto da Marvin Stein presso la Scuola di Medicina del Mount Sinai ha scoperto che, durante i primi mesi dal decesso, fra i vedovi, si verificava un abbassamento della risposta immunitaria.31 Altri studi hanno mostrato una significativa depressione della funzione linfocitaria (cellula T) in conseguenza del lutto.32 Sebbene non sia stato evidenziato alcun nesso di causa-effetto fra il lutto e l’insorgenza di una malattia, esistono prove che la reazione alla perdita può contribuirvi fino ad avere, addirittura, esito mortale. In alcuni casi, lo stress da lutto sembra aggravare una condizione fisica con una patologia latente, accelerando i tempi della manifestazione o un più rapido sviluppo dei sintomi. Gli studi di Hans Selye indicano l’esistenza di una reazione acuta di allarme o di mobilitazione delle risorse del corpo, in situazioni di elevato stress emotivo.”33 Secondo Selye, la reazione d’allarme è “una chiamata alle armi generalizzata” per le difese del corpo e si manifesta con vari cambiamenti fisiologici che preparano il corpo ad affrontare l’agente o la situazione che sta elicitando la reazione. Se tale reazione non è seguita da adattamento o da resistenza all’agente che la elicita, possono verificarsi disfunzioni o morte. George Engel ha svolto indagini sulla possibile relazione tra stress e morte improvvisa.34 Dopo aver svolto indagini su un certo numero di casi e aver stilato i resoconti, Engel ha individuato otto categorie, nelle quali raggruppare le varie situazioni stressanti; quattro di queste categorie possono essere considerate come componenti dirette o indirette del cordoglio e del processo di elaborazione del lutto: 1) l’impatto della morte di una persona cara, 2) lo stress da cordoglio acuto, 3) lo stress che avviene durante il processo di elaborazione del lutto, 4) la perdita di status sociale o di autostima, che fa seguito al lutto. Inizialmente, la perdita d’autostima può non sembrare così rilevante nell’ambito del lutto, spesso però, il senso di colpa, una componente molto comune del lutto, tende ad abbassare l’autostima. Si pensi a chi dice: “Se solo

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mi fossi sforzato di più o se avessi agito diversamente, il mio caro forse non sarebbe morto.” Anche i cambiamenti nelle circostanze della vita quotidiana possono tendere ad abbassare l’autostima dei superstiti: ad esempio, una vedova, che frequentava eventi sociali in compagnia del coniuge, potrebbe essere lasciata fuori dalla lista degli invitati, oppure essa stessa declinare gli inviti, considerandoli come riservati “solo alle coppie.” Anche gestire questioni finanziarie in seguito ad una perdita, può essere molto stressante, se il valore che ci si attribuisce, dipende dal livello delle entrate finanziarie; allora la diminuzione delle entrate e le restrizioni finanziarie possono abbassare l’autostima e un effetto simile possono avere la perdita dello status sociale di cui si era goduto grazie alla professione del coniuge estinto o della posizione sociale all’interno della propria comunità. Le modalità con le quali un individuo affronta perdite devastanti – del compagno, di un caro amico o di un parente – tendono, in molti modi, ad essere coerenti col modo in cui quella persona affronta gli eventi stressanti e le piccole perdite della vita quotidiana. Il fatto che un lutto grave può danneggiare il cuore è noto da molto tempo, ciononostante Colin Murray Parkes fa notare che “il fatto che al lutto possa seguire la morte per problemi cardiaci non prova che il cordoglio sia, di per sé, causa di morte.”35 Un adeguato supporto sociale in seguito a perdite importanti, può essere la chiave per aiutare gli individui in lutto a mitigare gli effetti potenzialmente nocivi del cordoglio.36

I modelli del lutto L’idea che esista uno schema coerente di elaborazione, può recare conforto a chi si trova in situazione di lutto.37 Gli esseri umani sono attratti dagli schemi e dai modelli che li aiutano a dare un senso ai fenomeni complessi. Tuttavia, i modelli possono offrire “un’istantanea” di un processo dinamico, ma tendono a semplificare eccessivamente e a distorcere la realtà; e il complesso fenomeno del lutto non sfugge a questa regola. Nel corso degli ultimi decenni sono stati proposti e perfezionati vari modelli, con i quali i teorici hanno cercato di descrivere, sempre più accuratamente, il modo in cui le persone vivono il dolore del lutto. Seguire lo sviluppo di queste descrizioni è molto interessante, anche se sono ancora incomplete. Il lavoro del lutto Il concetto di “elaborazione del lutto” ha rappresentato un’importante prospettiva teorica almeno a partire dal saggio di Freud “Lutto e melanco-

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nia” del 1917.38 Il messaggio centrale, nella prospettiva del grief work, “lavoro del lutto”, così come viene interpretata abitualmente, è che la persona colpita dal lutto debba “sciogliere” i propri legami di attaccamento col defunto, elaborando gradualmente questi attaccamenti e abbandonandoli. Therese Rando sottolinea che, secondo questo modello, “il lutto prende l’avvio dalla necessità di staccarsi dall’oggetto della perdita e il motivo per cui il lutto è così arduo da elaborare è che l’essere umano non abbandona mai spontaneamente un attaccamento emotivo, e se lo fa è unicamente quando riconosce che è meglio rinunciare all’oggetto piuttosto che cercare di restarvi aggrappato dopo averlo perduto”.39

La natura dei nostri attaccamenti e il processo attraverso il quale questi attaccamenti vengono abbandonati sono questioni centrali nell’opera di John Bowlby.40 Secondo la sua teoria dell’attaccamento, quando una persona riconosce che un oggetto (una persona amata) al quale è attaccata non esiste più, emerge il cordoglio insieme ad una esigenza psicologica di ritrarre la libido (l’energia) da quell’oggetto. Questa esigenza di ritrarre l’energia spesso incontra resistenze, e, di conseguenza, la persona che ha subito il lutto distoglie temporaneamente lo sguardo dalla realtà nello sforzo di stringersi all’oggetto perduto. Procedendo nel “lavoro del lutto”, l’energia prima investita viene infine staccata dall’oggetto d’amore, e l’ego (la personalità) è liberata dal suo attaccamento, permettendo la formazione di nuove relazioni.41 Nel fondamentale articolo “The Symptomatology and Management of Acute Grief” (“Sintomatologia e gestione del lutto acuto”), pubblicato nel 1944 e basato sul lavoro svolto dall’autore, come psichiatra, nel trattamento dei superstiti di un incendio avvenuto in un locale notturno nel quale morirono 492 persone, Erich Lindemann osservava: “La durata di una reazione di cordoglio sembra dipendere dal successo col quale una persona svolge il lavoro del lutto, consistente nell’emancipazione dalla soggezione verso il defunto, nel riassestamento del contesto ambientale dal quale il defunto si è assentato e nella formazione di nuove relazioni”.42

Lindemann aggiungeva che l’ostacolo principale al buon esito dell’elaborazione del lutto era che molte persone “cercavano di evitare l’intensa angoscia connessa all’esperienza del cordoglio e di evitare la necessaria espressione delle emozioni.” Il modello del “lavoro del lutto” comprende molte importanti questioni: in primo luogo, esso descrive il cordoglio come una risposta adattativa alla perdita, in secondo luogo, afferma che la realtà della perdita deve essere affrontata e accettata, in terzo luogo riconosce che il cordoglio è un processo attivo che si attua nel tempo.

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Il modello del “lavoro del lutto” è stato ampiamente accettato come la formulazione “standard” per comprendere le persone in lutto ed aiutarle ad adattarsi alla perdita. Tuttavia, è stata posta in discussione l’importanza che esso sembra attribuire alla necessità di rompere i propri legami relazionali con il defunto. Colin Murray Parkes precisa: “ogni relazione d’amore è unica, e i modelli teorici che presuppongono che la libido possa essere ritratta da un oggetto, in modo da poter essere reinvestita su un altro oggetto simile, non riescono a rendere conto di tale unicità.”43 Esaminando più da vicino i contributi dei primi teorici del lutto, alla luce di contributi più recenti alla nostra comprensione del fenomeno, sembra emergere che le loro concezioni riguardanti la “rottura dei legami” non siano affatto state espresse nel modo dogmatico che è loro attribuito dagli interpreti successivi. Se gli studi recenti dimostrano che l’adattamento alla perdita è un processo più complesso del semplice tagliare i legami affettivi con il defunto e continuare la propria vita, esaminando la letteratura sull’argomento è possibile trovare idee simili, benché espresse in maniera meno esplicita, nelle opere di molti dei primi teorici. Ciononostante, mentre il modello del “lavoro del lutto” viene riesaminato alla luce di nuove prospettive, occorre rivedere le nostre concezioni convenzionali di lutto, di cordoglio e d’elaborazione del lutto. In un’ampia rassegna della letteratura sul lutto, Margaret Stroebe evidenzia numerose importanti questioni, relative al modello del “lavoro del lutto”: è veramente necessario elaborare il lutto per adattarsi ad una perdita? Non potrebbe essere, invece, che l’assenza di elaborazione del lutto conduca alla guarigione? Ci sono occasioni o persone rispetto alle quali il “lavoro del lutto” non sia funzionale all’adattamento? Dove si può tracciare la linea che separa una sana elaborazione del lutto da un insano rimuginare? La formulazione convenzionale del modello del “lavoro del lutto”, sembra implicare l’idea che esista una soluzione unica per tutti, che tutti debbano elaborare il proprio lutto in modo simile per superare una perdita. Studi interculturali tuttavia attestano che nel lutto esistono molte diversità.44 Benché alcune modalità di vivere il cordoglio siano ricorrenti all’interno d’ogni gruppo sociale o culturale, non può definirsi alcuna modalità standard o universale di affrontare il cordoglio. L’idea che esista un metodo standard per affrontare il lutto, sta lasciando il posto al riconoscimento del fatto che esso è un’esperienza al tempo stesso eminentemente individuale e influenzata da molti fattori situazionali, come il tipo di morte, le circostanze della perdita, e così via. Stroebe afferma: “Nella gamma delle normali reazioni di cordoglio, l’inibizione del lutto, o l’evitare di confrontarsi con ricordi legati al defunto, possono essere strategie altrettanto efficaci della “elaborazione del lutto”. Per alcune persone, e in alcune circostanze, può

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essere anche più efficace.”45 In sintesi, c’è più di un modo per affrontare efficacemente il lutto. Può essere utile pensare al lutto, come suggerisce Colin Murray Parkes, usando la categoria di “transizione psicosociale”. Non è necessario rinunciare al modello del “lavoro del lutto”: fare questo significherebbe rinunciare alle possibilità di comprensione che offre. Piuttosto che affermare che esso sia l’unico modello di cordoglio, tuttavia, è più appropriato concepirlo come uno fra i tanti, ognuno dei quali apporta un contributo alla nostra conoscenza e alla nostra capacità di reagire alle nostre perdite e di consolare gli altri nelle loro. Come ha osservato un padre colpito dalla perdita del figlio: “Vivere senza mio figlio ha significato aggiungere un’altra stanza alla casa della mia mente; non perché io possa chiudere la porta sul fatto della sua morte, ma per potermi muovere dentro e fuori l’esperienza della mia perdita.”46 I compiti del lutto Nella descrizione dei “compiti del lutto” fatta dallo psicologo William Worden, il primo compito consiste nell’accettare la realtà della perdita.47 Anche quando la morte è prevista, la realtà può essere molto difficile da accettare completamente. “La negazione del fatto della perdita,” dice Worden, “può variare lungo una scala che va da una lieve distorsione ad una vera e propria illusione.” Un indicatore a questo punto del decorso è la scelta delle parole compiuta dal familiare quando parla del defunto. Estremamente significativa è la transizione dal tempo verbale presente a quello passato, da è a era come, per esempio, da “Randy è un ottimo carpentiere” a “Randy era un ottimo carpentiere”. Il secondo compito consiste nell’elaborare il dolore del cordoglio. Questo include il dolore fisico, così come quello emotivo e comportamentale. Come Worden afferma, “Non tutti provano la stessa intensità di dolore o lo vivono nello stesso modo, ma è impossibile perdere qualcuno, a cui si era profondamente legati, senza provare un certo livello di dolore.” Nell’assolvere a questo compito, l’umorismo può alleggerire il peso del cordoglio, offrendo una tregua ai superstiti che affrontano una perdita. Il terzo compito consiste nell’adattarsi ad un ambiente mutato a causa della perdita della persona cara. Questo adattamento richiede tempo soprattutto quando la relazione con il defunto durava da molto tempo ed era molto stretta. I tanti ruoli che chi non c’è più svolgeva nella vita della persona in lutto possono essere riconosciuti solo dopo la perdita. I “mutamenti ambientali” riguardano aspetti fisici, emotivi, mentali, comportamentali e spirituali della vita. Questi mutamenti possono essere simbolicamente rap-

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presentati dai cambiamenti del mobilio o dal cambiare posto al tavolo del soggiorno. Il quarto compito ha a che fare con la ricollocazione emotiva del defunto e col continuare a vivere. Per portare a termine questo compito è necessario riconoscere che, pur non dimenticando o non smettendo necessariamente di amare la persona defunta, ci sono altre persone da amare. La psicologa Therese Rando offre un’altra prospettiva sui compiti del lutto, essenziali per un adattamento sano alla perdita di una persona,48 ella chiama questi compiti “le sei R”: 1. Riconoscere la perdita (ammettere e comprendere la morte). 2. Reagire alla separazione (sperimentare il dolore, sentire, identificare, accettare ed esprimere la reazione alla perdita, identificare e piangere le perdite secondarie). 3. Ricordarsi del defunto e dell’esperienza condivisa con lui (rivedere e ricordare in modo realistico, recuperare e rivivere i sentimenti). 4. Rinunciare ai vecchi attaccamenti al defunto e ai vecchi assunti sul mondo. 5. Riorganizzarsi, per inserirsi adattivamente nel nuovo mondo, senza dimenticare il vecchio (sviluppare una nuova relazione con il defunto, adottare nuove modalità di stare nel mondo, formare una nuova identità). 6. Reinvestire. Nei compiti del lutto delineati sia da Worden che da Rando, si può notare che portare a termine questi compiti implica una “ricollocazione” del defunto all’interno della propria vita attuale e lo “sviluppo di una nuova relazione” con lui. Mantenere i legami con il defunto La concezione, secondo la quale affrontare il cordoglio significa allentare i legami affettivi con il defunto, sta lasciando il posto a un paradigma, allo stesso tempo più comprensivo e più accurato nel descrivere la gamma di emozioni e di comportamenti suscitati dalla perdita. Riconoscendo la variabilità nel cordoglio, dobbiamo essere cauti nel generalizzare: Phyllis Silverman osserva che il nostro modo di parlare del lutto influenza sia la comprensione che ne abbiamo, sia il nostro modo di affrontarlo.49 Quali sono le aspettative che comunichiamo ai familiari del defunto, quando parliamo del lutto come di un “periodo di cicatrizzazione” e diciamo che bisogna “superarlo” o “elaborarlo”? Concentrandoci esclusivamente sulla “risoluzione”

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del lutto, secondo Silverman, potremmo involontariamente perpetrare “un grave inganno nei confronti delle persone che hanno subito il lutto e che cercano di conformarsi alle attese del loro contesto sociale”; quando emerge che il lutto non ha una pronta “risoluzione”, le persone possono sentirsi, in qualche modo, inadeguate, come se “in loro ci fosse qualcosa che non va”. Margaret Stroebe e i suoi colleghi suggeriscono che si dovrebbe “cercare di comprendere il lutto in un modo che se ne contempli tutta la varietà.”50 Nell’assistenza psicologica alle persone colpite da lutto, questo vorrebbe dire “limitare la ricerca di pratiche terapeutiche ideali e concentrarsi invece su trattamenti su misura.” Cresce la consapevolezza che, piuttosto che la rescissione dei legami col defunto, il lutto implica generalmente un processo attraverso il quale il superstite incorpora la perdita di una persona cara nella propria vita attuale. In alcuni ambienti culturali, questo avviene nel contesto di rituali che collocano il defunto fra gli avi della famiglia; in altri, significa riservare al defunto un posto speciale nel proprio cuore e nella propria mente.51 Mantenere un legame con il defunto non è un modo disfunzionale di vivere il lutto che va corretto; piuttosto, è un segno della persistente forza dell’amore. Da un’ampia indagine sulle “comunicazioni” tra i vivi e i morti nell’arte, nella letteratura e nella canzone Sandra Bertman osserva che “il defunto non scompare dalle vite dei viventi, essi restano legati, mentre animate comunicazioni continuano tra i due mondi.”52 Per determinare se il fatto di mantenere legami continuativi con il defunto rifletta un adattamento “sano” alla perdita, ci si può riferire a due criteri: in primo luogo, l’individuo in lutto riconosce veramente che la persona è morta e comprende realmente le implicazioni della sua morte? In secondo luogo, la persona che ha subito il lutto sta procedendo adattivamente verso la sua nuova vita?53 Dennis Klass afferma che i genitori che hanno subito la perdita di figli spesso trovano conforto nel mantenere legami continuativi con i loro bambini morti prematuramente.54 “La memoria”, secondo Klass, “tiene insieme la famiglia e le comunità”. Attraverso credenze e oggetti religiosi che mettono in relazione i genitori con il ricordo del bambino, gli si garantisce una sorta d’immortalità nelle vite dei membri superstiti della famiglia. Klass sottolinea che la morte di un figlio scuote la percezione del mondo dei genitori – ovvero i loro assunti fondamentali sul funzionamento dell’universo e sul loro ruolo nel mondo. Il tentativo di dare un senso a questa perdita, è reso più facile dal mantenere una “rappresentazione interiore” del bambino defunto, che consenta di continuare l’interazione, in modo che il valore della vita del bambino non sia dimenticato né diminuito.55 Phyllis Silverman, Steven Nickman e William Worden nel loro “Studio sul lutto infantile”, sostengono l’idea che, allo stesso modo, i bambini mantenga-

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no una relazione con i genitori defunti attraverso ricordi e oggetti che li pongono in relazione con loro (oggetti di legame).56 Inoltre, David Balk e Nancy Hogan sottolineano che “una notevole prova di attaccamento continuo è rappresentata dai milioni e milioni di persone che ogni anno visitano il Vietnam War Memorial in segno di commemorazione, lasciando letteralmente tonnellate di biglietti, oggetti, ricordi, insomma, messaggi di ogni genere per i loro cari estinti.”57 Therese Rando afferma: “Lo sviluppo di un nuovo e sano rapporto con il defunto è parte cruciale del processo del lutto, quando la persona perduta è stata parte integrante della vita della persona in lutto.”58 L’importanza di mantenere legami con i defunti è emersa esplicitamente solo di recente nella letteratura sul lutto, anche se non è particolarmente sorprendente per le persone che vivono in culture nelle quali i legami tra i vivi e i morti sono alimentati per tradizione; pensiamo per esempio all’usanza giapponese di dedicare un altare domestico ai progenitori, o alle tradizioni africane che celebrano le relazioni con i “morti viventi”. Riflettendo sul legame sociale tra esseri umani e la relazione tra questo legame e il lutto, Lyn Lofland suggerisce alcuni “fili di concatenazione” o “vincoli che ci legano” gli uni agli altri: “Siamo legati agli altri dai ruoli che rivestiamo, dall’aiuto che riceviamo, dalla più ampia rete di contatti alla quale accediamo, dai sé che gli altri creano e alimentano, dai miti confortanti che ci concedono, dalla realtà che essi validano per noi, e dai futuri che rendono possibili.59

Raccontare la “storia”: approcci narrativi Quando muore qualcuno che amiamo ci troviamo davanti alla prospettiva di rianalizzare e quindi ri-costruire la storia della nostra vita. John Kelly suggerisce che, guardando alle nostre vite come a delle “storie”, possiamo gettare una più ampia luce sul lutto.60 Considerando il lutto come narrazione o storia possiamo trovare un modo per affrontare la perdita, ricostruendo la nostra storia così da integrare il defunto nelle nostre vite in modo nuovo e riorganizzare le nostre relazioni in modo tale da recuperarne l’interezza. Carolyn Ellis spiega come il fatto di raccontare la storia della morte del fratello, avvenuta in un incidente aereo, non solo conferisca un senso alla perdita, ma contribuisca anche a “ricostruire” la sua vita: “Ogni fase di scrittura e rilettura del mio testo mi ha consentito di rivivere la morte di mio fratello da una distanza estetica, da un luogo che mi permette di vivere l’esperienza, ma con la consapevolezza di non essere realmente di nuovo dentro alla situazione e così raccolgo il coraggio di continuare ad affrontare il lutto”.61 Secondo Ellis, raccontando la storia della perdita, “possiamo rendere vera una trama nella quale noi diventiamo realmente, interpretandone il ruolo, i superstiti.”

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La storia del cordoglio può essere raccontata dalle persone che hanno subito un lutto, senza l’obbligo di doversi conformare a uno specifico modello che indichi come ci si dovrebbe sentire o cosa si dovrebbe pensare. In un certo senso, quella che si racconta è la “vera” storia. Raccontandola più volte, la storia gradualmente rivela le multiformi dimensioni del lutto in modo tale da permettere ai superstiti di andare avanti, nonostante la perdita subita. Mary Anne Sedney e i suoi colleghi notano che “ogni morte genera una storia, o un insieme di storie, da raccontare”.62 Condividere la storia di una perdita reca sollievo emotivo, promuove la ricerca di un senso e riunisce le persone nel supporto reciproco. Parte dell’affrontare il cordoglio consiste nel parlare del defunto. Attraverso conversazioni con altre persone raggiungiamo non solo un più pieno apprezzamento della vita del defunto, ma perveniamo anche a una mutata valutazione della nostra vita. Descrivendo il modo in cui questo processo era iniziato quando morì la sua precedente compagna, Tony Walter dice: “Non si trattava di un supporto sociale per un processo di lutto intrinsecamente personale, ma di un processo intrinsecamente sociale nel quale abbiamo negoziato e rinegoziato chi fosse Corinna, il modo in cui era morta e ciò che significava per noi.”63 Nel proporre un modello di cordoglio che fa uso della biografia e della narrazione, Walter dice che un modo per “tenere con noi” le persone che abbiamo perduto consiste nel parlare apertamente di loro con familiari, amici e altre persone che erano loro vicine. Evidenziando il significato personale di una perdita, Stephen Fleming e Paul Robinson osservano: “Siamo convinti che i superstiti raramente, o mai, riescano a dare un senso a una perdita o a trovare significato in una morte…, non è nella morte che troviamo il significato, ma nella vita che è stata vissuta. Un nodo cruciale nel difficile tentativo di trovare un senso nella vita vissuta riguarda la consapevolezza di ciò che il defunto ci ha lasciato. Questa consapevolezza consiste nell’apprezzamento del modo in cui il fatto di conoscere e di amare il defunto ha irrevocabilmente cambiato il famigliare superstite, realizzando così la transizione dal perdere ciò che si ha all’avere ciò che si è perso.64

“Dare voce al lutto” raccontando le nostre storie sul defunto e ascoltando le storie narrate dagli altri, ci aiuta ad andare avanti con le nostre vite, senza lasciare alle nostre spalle le persone che ci sono care. Verso un modello integrato del lutto Fino a poco tempo fa, la maggior parte delle teorie sul lutto in circolazione era basata su un modello occidentale; questo modello, allora, era general-

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mente interpretato come un modello prescrittivo o descrittivo di quali fossero i modi accettabili o non accettabili di affrontare il lutto. C’è stata una tendenza a medicalizzare il lutto, a fare del lutto qualcosa da “curare” in modo che la persona colpita dal lutto potesse tornare alla “normalità” nel più breve tempo possibile. Questa tendenza può sfociare in teorie e interventi che non corrispondono al modo in cui il lutto è realmente vissuto. Come nota Paul Rosenblatt nel contesto dei suoi studi sul lutto genitoriale: “il tentativo di definire il lutto è in qualche modo destinato al fallimento, perché ci sono molti tipi, forme ed espressioni di ciò che si può chiamare lutto.”65 Nel riformulare la nostra comprensione dei modelli convenzionali del lutto, si sta prestando grande attenzione all’importante ruolo svolto dal sistema familiare nell’affrontare una perdita. Secondo Nancy Moss, “le famiglie e i processi di lutto all’interno della famiglia sono inscindibilmente legati al lutto e al recupero individuali.”66 Tornando ai compiti del lutto, può essere utile reinquadrarli in modo che la famiglia del defunto sia chiaramente inclusa come parte del processo. David Kissane e Sidney Bloch sottolineano come la famiglia e i suoi schemi di interazione siano spesso fattori decisivi nel determinare se il cordoglio viene affrontato in modo sano o in modo disfunzionale.67 Talvolta le persone pensano che “gli uomini non piangano, le donne sì”, associando in questo modo un comportamento proprio degli esseri umani in generale a un solo genere. È quindi importante comprendere che, nonostante il genere influenzi gli schemi di comportamento del cordoglio e dell’elaborazione del lutto, esso non è determinante. Gli stereotipi di genere dipingono le donne come più emotive degli uomini, assunto che è a volte interpretato come segno di una maggiore capacità da parte delle donne di affrontare il lutto. Tuttavia, Terry Martin e Kenneth Doka sottolineano che ci sono molti modi efficaci di esprimere il dolore e di adattarsi a un lutto e che le donne, proprio come gli uomini, reagiscono secondo modalità funzionali.68 In particolare essi individuano due forme di lutto: intuitivo e strumentale. Nella prima, gli individui vivono ed esprimono il lutto in modo affettivo; nel secondo, il lutto è vissuto a livello fisico, per esempio con irrequietezza o attività mentale. Anche se la prima forma tende a trovarsi associata alle donne e la seconda agli uomini, Martin e Doka respingono l’ipotesi che una forma sia intrinsecamente migliore dell’altra, rifiutando il pregiudizio che correla questi schemi al genere; infatti, entrambi i comportamenti possono costituire efficaci modi di affrontare il lutto, e sono utilizzati sia da uomini che da donne. Nello sviluppo di una comprensione complessiva del modo in cui le persone affrontano il lutto, uno dei contributi più interessanti è rappresentato dal modello bi-processuale proposto da Margaret Stroebe e Henk Schut.69 Secondo questo modello, la persona che ha subito il lutto esprime, in proporzioni variabili (a seconda dell’individuo e delle variabili culturali), sia

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comportamenti loss-oriented (orientati alla perdita) che comportamenti restoration-oriented (orientati al recupero). Tenendo conto di entrambi questi aspetti, tale modello evita di restare bloccato in una struttura rigida nella quale la persona in lutto deve o “liberarsi” del defunto o “aggrapparsi” ai ricordi. Piuttosto, c’è un’“oscillazione”, un muoversi in avanti e all’indietro, tra le due forme di reazione. Esempi di un comportamento orientato verso la perdita includono il lavoro del lutto delle teorie convenzionali: struggersi per il defunto, guardare le vecchie fotografie, piangere per la morte e così via. Il comportamento orientato verso il recupero include l’occuparsi dei compiti che erano di competenza del defunto (per esempio cucinare o amministrare le finanze), occuparsi di sistemare le cose per riorganizzare la propria vita (per esempio vendere la casa o trasferirsi altrove), sviluppare una nuova identità (per esempio cambiando il proprio stato da coniuge a vedovo o da genitore a genitore di bambino defunto), e così via. Da un lato, la reazione orientata verso la perdita implica di “concentrarsi sull’esperienza della perdita, affrontandola o elaborandone alcuni aspetti.” Dall’altro lato, la reazione orientata verso il recupero implica la capacità di operare i cambiamenti necessari per fare fronte alle “conseguenze secondarie” della perdita – ovvero tutti quegli aspetti della vita del superstite che richiedono una risistemazione alla luce della perdita subita. Fondamentale in questo modello è la nozione del lutto come processo dinamico. Essa implica movimento – “oscillazione” o alternanza – tra comportamento orientato alla perdita e comportamento orientato al recupero. Nel gestire la perdita, talvolta si affronterà il lutto attivamente, talvolta, invece, si cercherà di evitare ricordi che possano essere percepiti come fonti d’inquietudine, ci si distrarrà, o si cercherà sollievo, spostando l’attenzione verso altre cose; e nel tempo, il movimento tra questi modi di gestire il lutto condurrà all’aggiustamento ottimale. Come costrutto teorico, il modello bi-processuale ha un ampio raggio d’applicazione, particolarmente importante è la sua capacità di aiutare a spiegare molteplici forme di cordoglio in diversi contesti culturali e anche in tempi diversi, nella stessa persona. Si tratta forse del modello del lutto più aperto presentato fino ad oggi e promette di essere un importante strumento per estendere la nostra comprensione dei molti modi in cui le persone rispondono alla perdita. Il lutto si attua sempre entro un particolare contesto sociale o culturale, e le singole persone differiscono tra loro per il peculiare modo di vivere il cordoglio, questo porta a concludere che non esiste un modo standard di gestire il lutto. Colin Murray Parkes indica tre fattori principali che influenzano il decorso del lutto di una persona:70

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1. Il bisogno di guardare indietro, di piangere e di ricercare ciò che si è perso. 2. Il bisogno di guardare avanti, di esplorare il mondo che emerge dalla perdita e di scoprire che cosa può essere trasferito dal passato nel futuro. 3. Le pressioni sociali e culturali che influenzano il modo in cui i primi due bisogni sono inibiti o espressi. Mentre queste influenze interagiscono in vari modi, a volte, la persona che ha subito il lutto cerca di evitare il dolore del cordoglio, mentre altre volte cerca di affrontarlo; lo scopo è quello di raggiungere un equilibrio tra il rifiutare la perdita e il confrontarsi con essa, che renda più semplice venire a patti con la perdita subita e accoglierla nella nostra vita.

Variabili che influenzano il lutto Proprio come non esistono due persone identiche, non si trovano due esperienze di lutto uguali fra loro. Le circostanze della morte, la personalità e i ruoli sociali della persona che ha subito il lutto, la relazione con il defunto, sono alcuni dei fattori che influenzano il cordoglio e il processo del lutto. Tali fattori offrono degli indizi sul perché alcune morti siano particolarmente devastanti per chi resta. Se pensiamo ad alcune delle variabili che possono influenzare il cordoglio di una persona, le domande fondamentali sono le seguenti: Chi è morto? In che modo è avvenuta la morte? Qual era la qualità della relazione del superstite con il defunto? Ci sono ancora questioni in sospeso nella relazione? Il famigliare del defunto ha subito altre perdite in precedenza? Erano presenti dei fattori che hanno reso la morte più complicata? Questa perdita è stata legittimata socialmente? Quali questioni finanziarie e legali rimangono da sistemare dopo la morte? Ognuna di queste domande apre un campo di ulteriori considerazioni. La concezione del mondo del superstite La reazione di una persona al lutto è condizionata dalla sua concezione del mondo – ovvero, dalla sua percezione della realtà e dalle sue idee riguardo a come funziona il mondo. Nel considerare come la concezione che una persona ha del mondo si applichi al lutto, Edgar Jackson identifica quattro fattori, secondo lui, particolarmente importanti: la personalità, i ruoli sociali, la percezione dell’importanza del defunto e i valori.71

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La personalità La nostra personalità influenza il modo in cui ci poniamo generalmente in relazione con le esperienze della vita. Alcune persone superano facilmente i grossi scogli, ma restano molto scosse da un colpo lieve; ad altre accade l’opposto, sotto questo aspetto la concezione di sé è una determinante essenziale del modo in cui una persona reagisce alla morte. L’individuo che ha una personalità immatura o dipendente è particolarmente vulnerabile alla perdita di una persona, nella quale può avere investito un notevole capitale emotivo, forse nel tentativo di compensare sentimenti di inadeguatezza e proiettando parte della propria identità sull’altra persona. Con la morte di quella persona, una parte ulteriore della propria identità proiettata viene coinvolta nella perdita; di contro, l’individuo dotato di maggiore autostima e di una più solida concezione di sé non sarà altrettanto incline ad un simile atteggiamento; quindi, il dolore della perdita avrà probabilmente effetti meno devastanti. Le persone che nella vita sono molto determinate tendono ad affrontare il lutto in maniera più efficace di quelle meno determinate.72 Contesti culturali e ruoli sociali Il cordoglio è plasmato dal contesto sociale nel quale si esprime.73 Esaminando le dimensioni del lutto e della perdita in due comunità musulmane – una in Egitto, l’altra a Bali – Unni Wilkan, giunge alla conclusione che la cultura sia un fattore molto potente nel plasmare e organizzare il modo in cui le persone, in una determinata società, reagiscono alla perdita.74 Pur con un retaggio religioso comune, una società incoraggia gli individui colpiti dal lutto a esprimere il proprio dolore con pianti e lamenti, mentre l’altra li incoraggia a reprimere il dolore e a mantenere un contegno pacato ed essenzialmente sereno. La cultura fornisce una cornice entro la quale gestire il cordoglio. Che cosa ci dice la società sulla reazione di un superstite alla morte in generale o a un particolare tipo di morte? In battaglia, a un soldato è richiesto di assolvere ai propri doveri al di là del cordoglio personale quando i commilitoni muoiono. In alcune società, una vedova sa in partenza quale tipo di comportamento ci si aspetta da lei alla morte del marito e i membri della sua comunità si riuniscono per assicurarsi che il suo cordoglio sia espresso secondo modalità specifiche ed appropriate. Le persone che vivono nelle società moderne, di solito mostrano una grande flessibilità nel decidere da sé quale comportamento sia appropriato nei differenti contesti sociali. In ogni caso, l’ambiente culturale resta un fattore importante nel plasmare il cordoglio e il lutto di una persona. La percezione della relazione col defunto La percezione che la persona colpita dal lutto ha dell’importanza del defunto è un altro fattore che condiziona e modella l’esperienza del cordoglio.

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Il defunto era una persona importante nella vita dell’individuo che ha subito il lutto? La vita di questo individuo subirà dei cambiamenti significativi in seguito alla morte? Pensate per un momento alle varie relazioni presenti nella vostra vita – genitori, figli, vicini, colleghi, insegnanti, amici, fidanzati e così via… Parlando in generale, la morte di un membro della famiglia o di un altro parente stretto è percepita come più importante della morte di un collega o di un vicino. La forma esteriore della relazione non è l’unico fattore che determina l’importanza del defunto per chi è in lutto. La morte di un caro amico può generare forme di lutto simili a quelle generate da una morte all’interno della famiglia.75 Le notizie di morti riportate dai media possono persino provocare esperienze di “lutto sostitutivo”, specialmente se riguardano eventi o circostanze particolarmente toccanti per la persona che prova il cordoglio.76 Indipendentemente dalla forma esteriore – parente, amico, vicino o compagno – le relazioni variano con il grado d’intimità, della percezione dei ruoli reciproci, delle attese dell’altro e della qualità della relazione stessa. A Bali, per riferirsi ai membri della famiglia e agli altri parenti, raramente si usano i loro nomi personali, ma piuttosto il grado di relazione, enfatizzando così la percezione dei loro ruoli sociali. In alcuni casi, il rapporto di una persona con i propri genitori può riflettere ruoli sociali predefiniti di “genitore” e “figlio” più che sentimenti d’amicizia o d’intimità personale. In altri, un genitore può rivestire il ruolo addizionale di socio in affari, di vicino e di caro amico. Questa varietà di ruoli e d’aspettative può comportare una diversità di percezione riguardo all’importanza che il genitore ricopre nella vita di una persona e, a sua volta, tende a modellare l’esperienza del lutto quando il genitore muore. Le morti di membri della famiglia e d’amici intimi, di solito, sono quelle che generano il più profondo cordoglio, ma anche la morte di persone che sono state importanti in altri modi, possono suscitare potenti reazioni. Pensiamo al vastissimo cordoglio suscitato dalle morti di John F. Kennedy, di Robert Kennedy e di Martin Luther King Jr., o, più recentemente, della principessa Diana d’Inghilterra e di John F. Kennedy Jr. – in persone che non avevano mai conosciuto di persona nessuno di loro. È sempre una varietà di fattori a determinare se una relazione occupa una posizione centrale o marginale nella vita di una persona. In un autorevole studio del 1977, “Human Grief: A Model for Prediction and Intervention” (il cordoglio umano: un modello per la previsione e l’intervento), Larry Bugen, ha osservato che la morte di una persona che occupava un posto centrale nella vita del superstite, sarà più prostrante di quella di una persona il cui ruolo è percepito come più marginale.77 Bugen aggiunge che in una certa misura il cordoglio può anche essere previsto sulla base delle credenze sulle

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circostanze della morte della persona che subisce il lutto – ovvero, se la morte fosse evitabile o inevitabile. Per esempio, data una relazione centrale tra la persona che ha subito il lutto e il defunto, se c’è la credenza che la morte fosse evitabile ci si può aspettare un lutto intenso e prolungato. Al contrario, se la persona che subisce il lutto aveva una relazione marginale con il defunto e inoltre riteneva che la morte fosse inevitabile, ci si può aspettare un lutto meno intenso e di più breve durata. L’importanza del defunto può anche essere considerata in termini di una somiglianza percepita del superstite rispetto al defunto. Questa ipotesi suggerisce che quanto più la persona che subisce il lutto si sente simile al defunto tanto più forte sarà la sua reazione di cordoglio.78 La somiglianza percepita è anche uno dei fattori utilizzati per la formazione dei gruppi di supporto composti da persone che hanno vissuto perdite analoghe. Nell’analisi del modo in cui la percezione dell’importanza del defunto per il superstite ne influenzi il cordoglio, è importante menzionare anche il ruolo svolto dall’ambivalenza del decorso del lutto. L’ambivalenza rispetto a una relazione riflette una lotta tra attrazione e repulsione, tra amore e odio, e può essere sottile o drammatica. Forse nessuna relazione è completamente priva di ambivalenze, ma quando questi sentimenti sono intensi e continuano per un lungo periodo di tempo il lutto può essere complicato da emozioni che provocano confusione. Le questioni inerenti le dimensioni relazionali e le circostanze della morte sembrano influenzare la possibilità che una morte implichi un cordoglio alto o un cordoglio basso.79 Una morte a cordoglio alto è caratterizzata da reazioni intense, una morte a cordoglio basso è percepita come meno devastante e dunque anche il cordoglio sarà meno intenso. La morte di un bambino è spesso citata come il classico esempio di morte a cordoglio alto. Valori e credenze La struttura valoriale di una persona – ovvero il valore relativo che essa assegna a diverse esperienze e risultati sulla base della propria concezione del mondo – è un altro fattore che influenza il corso del cordoglio. A volte sentiamo persone dire cose come “Certo, sua moglie sente terribilmente la sua mancanza, ma è anche sollevata al pensiero che lui non debba più sopportare tanto dolore e tanta sofferenza”. In altre parole, il fatto di sapere che le sofferenze del marito sono terminate mitiga il cordoglio della moglie alla sua morte. Edgar Jackson cita l’esempio di un marito che, sapendo d’essere presto destinato a morire per un male incurabile, preparava la moglie a gestire le loro questioni finanziarie, in previsione del tempo in cui lui non sarebbe più stato presente. Il valore assegnato da questa coppia alla preparazione costituiva dunque un fattore condizionante per il loro cordoglio nell’affron-

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tare la morte del marito e, di conseguenza, per il cordoglio della moglie dopo la sua morte. Più in generale, le strutture di valori che comprendono il posto assegnato alla morte nella filosofia di vita di una persona, possono essere importanti nel determinare il modo in cui quella persona vive la perdita e il cordoglio. Le credenze religiose e spirituali, per esempio, influenzano il modo in cui le persone concepiscono il significato della morte e, quindi, contribuiscono a plasmare l’esperienza della perdita e del cordoglio. Anche quando si spera di riunirsi con la persona cara defunta, la realtà immediata della morte deve essere riconosciuta. Richard Leliaert afferma: “Suggerire che la fede, di per sé, può allontanare il dolore del lutto significa dare un cattivo consiglio;”80 per quanto le credenze religiose possano portare consolazione e conforto, la strada del cordoglio deve comunque essere percorsa. Secondo Leliaert: “Un buon supporto spirituale per le persone che hanno subito un lutto, ha bisogno di un buon equilibrio tra il bisogno umano di vivere adeguatamente il cordoglio e i motivi spirituali della speranza, offerti dalle religioni formali o da sistemi di credenze spirituali.” Le modalità della morte La modalità della morte incide notevolmente sul lutto del superstite. Consideriamo i modi in cui le persone muoiono: l’anziana nonna che muore tranquillamente nel suo letto; il bambino dichiarato DOA (Dead On Arrival, ovvero “morto in arrivo”) in seguito a un incidente in bicicletta; il passante innocente rimasto coinvolto in eventi di violenza o di terrorismo; il dirigente depresso che muore suicida; il malato cronico che muore di una “morte lenta.” Le modalità della morte (naturale, accidentale, per omicidio, o per suicidio), hanno un impatto sulla natura del lutto, così come l’esperienza precedente che il superstite ha di quel tipo di morte.81

La morte annunciata Il fenomeno del cordoglio anticipatorio, o lutto anticipatorio, come è chiamato da alcuni, può essere compreso come una reazione alla consapevolezza della perdita imminente. Therese Rando sottolinea che questa consapevolezza può anche accompagnarsi a una identificazione di perdite associate.82 Alcune persone credono che una morte attesa o prevista in anticipo, come è spesso nel caso delle malattie croniche o a lungo termine, sia più facile da affrontare di una morte che si verifica inaspettatamente, senza preavviso.83 Al-

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tri pensano che il cordoglio provato prima della morte non diminuisca in modo significativo quello che si prova quando il lutto anticipato diventa un fatto oggettivo. Ciononostante, c’è un accordo generale sul fatto che le reazioni d’incredulità e di shock tendano ad essere più intense quando una morte è inaspettata. Un fenomeno associato al lutto anticipatorio è la morbilità secondaria, che fa riferimento a “difficoltà nella sfera della funzionalità fisica, cognitiva, emozionale e sociale” che possono riguardare le persone strettamente coinvolte con il malato terminale.”84 La tensione legata al fatto di prendersi cura di un parente morente può far sì che la persona che lo assiste trascuri la propria salute, con il risultato che s’ammali o s’indebolisca. La morbilità secondaria può riguardare i familiari e gli amici del morente, ma anche il personale d’assistenza professionale o volontario. La morte improvvisa In un discorso sulla morte, tenuto davanti ad un gruppo d’educatori e psicoterapeuti, Yvonne Ameche ha descritto l’esperienza vissuta la notte in cui due poliziotti arrivarono alla sua porta con la notizia della improvvisa morte di suo figlio. Pur avendo già vissuto nella sua infanzia la morte dei nonni, e, più tardi, quella d’entrambi i genitori, Ameche racconta: “Non so se qualcosa mi abbia preparata a quella notizia la notte in cui Paul morì… Ricordo di avere barcollato all’indietro come se fossi stata assalita fisicamente.”85 Il senso schiacciante di shock causato dalla natura imprevista della morte del figlio, era accompagnato dalla sensazione di avere smarrito anche il suo familiare senso del sé. Il percorso della sopravvivenza, che dalla testa arriva al cuore, per come lo descrive Ameche, si svolse “quando cominciai a interiorizzare ciò che avevo accuratamente intellettualizzato”, un processo lento: “trascorse molto tempo prima che potessi sentirmi di nuovo me stessa.” Le morti improvvise, che accadono nel contesto di specifici tipi di eventi, per esempio la guerra, implicano un particolare insieme di circostanze che circondano la morte, e questa costellazione di circostanze incide sul modo in cui i superstiti affrontano la perdita.86 Le persone che hanno subito un lutto dovuto a una morte improvvisa di solito vogliono avere informazioni il più velocemente possibile – e spesso molto dettagliate – riguardo alle cause della morte, per essere aiutati a cominciare a dare un senso alla perdita. Il personale ospedaliero, quello d’emergenza e le altre persone che hanno a che fare con le morti traumatiche, devono fornire queste informazioni con sensibilità e compassione, offrendo anche un ambiente che possa essere di supporto, per il cordoglio che segue l’annuncio di una morte improvvisa.87 La brusca rottura dei legami tra il defunto e le persone che gli sopravvivono fanno delle morti improvvise una categoria di lutto che molte persone considerano particolarmente difficile.

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Il suicidio Le persone che sopravvivono alla morte per suicidio di una persona amata spesso restano sconcertate: “Oh, mio Dio, che cosa si è fatto!” L’impatto del suicidio può intensificare i sentimenti di rimprovero e di colpa nei familiari del defunto.88 Se qualcuno che ci è vicino stava soffrendo, tanto da suicidarsi, sentiremo il peso di tante domande che ci fanno sentire in colpa: “Come ho potuto non accorgermi della situazione e non fare di più per aiutarlo? Che cosa si sarebbe potuto fare per rispondere al suo grido di aiuto?” In una serie di interviste a individui in lutto per un suicidio, Carol Van Dongen conclude: “Un tema costante, nelle esperienze dei sopravvissuti, era un intenso bisogno di comprendere perché fosse avvenuto il suicidio e quali fossero le implicazioni della morte per loro e per la loro famiglia. I familiari del defunto si tormentavano sulle possibili ragioni del suicidio e anche sugli effetti che la morte stava avendo su di loro e su ciò che avrebbe potuto significare in futuro.89

Oltre al senso di colpa e all’autointerrogarsi, i familiari del defunto possono dirigere forti sentimenti di collera e di biasimo verso la persona morta suicida. Il suicidio può essere visto come l’ultimo affronto, l’insulto finale che, non ammettendo risposta, provoca la frustrazione e la rabbia di chi resta. Quando poi al suicidio assistono familiari o amici, è probabile che alla perdita si aggiunga il trauma.90 Inoltre, può essere difficile gestire sentimenti di colpa e di biasimo provocati dagli atteggiamenti della società. È più facile che i familiari del defunto possano essere “ritenuti responsabili” di una morte per suicidio che di una morte per malattia. Reazioni negative possono essere dirette in particolare verso i genitori di un bambino morto suicida.91 Gordon Thornton e i suoi colleghi sottolineano che tali atteggiamenti possono avere come conseguenza una relativa mancanza di supporto sociale per le persone che hanno subito un lutto per suicidio.92 Come accade per altre categorie di morte improvvisa, il suicidio è di solito inatteso, lo shock aumenta nel superstite la sensazione che la morte sia avvenuta “fuori tempo” o che sia inappropriata. L’omicidio Se una persona cara muore vittima di un omicidio, il superstite può percepire il mondo come pericoloso e crudele, malsicuro e ingiusto; la subitaneità e l’evidente ingiustizia di una morte violenta, hanno un forte impatto sull’esperienza del cordoglio. Inoltre, come sottolinea Lula Redmond, “la ferita viva dell’individuo in lutto per una morte causata da omicidio è, manifestamente e celatamente, aggravata dall’azione delle forze dell’ordine, del personale della giustizia criminale, del personale dei media e da quella di tutti

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gli altri che intervengono in seguito all’assassinio.”93 Il rapporto con il sistema della giustizia criminale prolunga il normale periodo del lutto, con il trascinarsi del caso, senza alcuna garanzia per il superstite di ottenere alla fine la sensazione che sia stata fatta giustizia. Tra “gli eventi scatenanti” che Redmond cita come capaci di rinnovare il cordoglio sono da ricordare: 1. L’identificazione dell’assalitore. 2. Il sentire qualcosa (rumori, odori, eccetera) che suscita il ricordo di un’esperienza vivamente associata all’evento traumatico. 3. L’anniversario dell’evento traumatico. 4. Le feste e altri eventi importanti nella vita della famiglia (i compleanni, gli anniversari). 5. Le udienze, i processi, gli appelli e gli altri procedimenti della giustizia. 6. Le cronache dei media sull’evento o su eventi simili. Redmond sottolinea che le persone che hanno perduto qualcuno per omicidio affrontano una serie di ostacoli nell’adattarsi alla perdita subita: ci si può trovare ad affrontare la necessità di fornire deposizioni agli avvocati ed eventualmente anche a testimoniare in tribunale, e si può restare sorpresi nell’apprendere che l’imputazione d’omicidio è un crimine contro lo stato, non contro la persona cara per la quale si è in lutto. Il pubblico ministero può decidere il patteggiamento o la riduzione dell’imputazione a un reato minore e può farlo senza consultare i membri della famiglia del defunto. A mano a mano che il caso procede attraverso il sistema giudiziario, i familiari possono trovarsi faccia a faccia con l’imputato nell’aula del tribunale o nel corridoio o in sala d’aspetto. Possono sentire testimoni descrivere l’imputato come una persona buona e onorevole. Infine, possono trovarsi a fare appello contro una sentenza leggera o anche contro lo stesso rilascio dell’imputato. In altri casi può accadere che il caso resti irrisolto o che non possa proseguire perché non ci sono prove sufficienti per portare il caso in tribunale. Nel considerare gli effetti dell’omicidio sulle persone vicine alla vittima, dovremmo anche pensare a coloro che si occupano di tali morti nell’esercizio di funzioni legali. Avere a che fare con la morte violenta diventa un’abitudine di vita per chi indaga sugli omicidi; tuttavia l’esposizione costante alla morte non solo è stressante ma provoca anche intensi sentimenti di cordoglio. Un investigatore della sezione omicidi racconta: “Ogni poliziotto sostiene che sia necessario mantenere il distacco, ma la verità è che con ogni cadavere se ne va un pezzo d’anima e che all’inizio di ogni caso si muore un poco.”94

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Disastri Le persone che sopravvivono a un disastro con morti, diventano due volte superstiti – superstiti a un evento catastrofico che avrebbe potuto porre fine alle loro vite e superstiti alle morti degli altri, spesso amici o parenti.95 Poiché questi superstiti possono sentire di non meritare di vivere dopo la morte di altri, un profondo senso di colpa può accompagnare l’angoscia e il dolore del cordoglio. Il sollievo per essere superstiti di circostanze catastrofiche e minacciose – una reazione umana e naturale – può essere accompagnato da un intenso interrogarsi: perché io sono sopravvissuto mentre altre persone coinvolte come me sono morte? I superstiti dell’olocausto nazista, ad esempio, spesso esprimono un profondo senso di colpa per essere sopravvissuti ai campi e ai maltrattamenti, mentre altri non sono stati altrettanto fortunati.96 I reduci, i cui commilitoni sono stati uccisi in guerra, spesso provano sentimenti molto simili. Reazioni analoghe sono comuni tra le persone che sono riuscite a sopravvivere all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 mentre altre non ci sono riuscite. Nonostante simili sentimenti siano intensificati da eventi catastrofici che portano alla morte prematura o ingiustificata d’altre persone, il senso di colpa del sopravvissuto per il solo fatto d’essere vivo, mentre altri sono morti, può essere sentito, con varia intensità, anche in altre situazioni.97 Perdite multiple ed esaurimento da lutto L’esperienza di perdite multiple può intensificare il cordoglio e il lutto. Una catastrofe, che sia causata da eventi naturali o dall’uomo, può provocare perdite multiple che complicano il lutto; sopraffatti dalla perdita, i superstiti possono essere talmente devastati da essere emotivamente paralizzati e disorientati per esprimere il lutto normalmente. Il genocidio, la distruzione deliberata e sistematica di un gruppo razziale, religioso, politico, culturale o etnico si accompagna spesso alla guerra, come nel caso dell’olocausto nazista e, più di recente, negli omicidi di massa in Ruanda e nei Balcani. Terry Tafoya sottolinea che i nativi americani “hanno in comune un’eredità di morte, seguita al contatto iniziale con gli europei.”98 Dopo due generazioni di contatti con i bianchi, l’ottanta per cento della popolazione del nord-ovest pacifico, si stima, che sia morta per l’introduzione di nuove malattie alle quali non erano immuni. In tutto il continente, nord, centro e sud, le popolazioni native hanno vissuto una situazione analoga. In seguito a perdite multiple, quali quelle subite da molte persone a causa dell’AIDS, i superstiti possono sentirsi come se avessero “esaurito le lacrime”, come se fossero rimasti privi d’ogni risorsa emotiva per esprimere ulte-

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riori sentimenti di cordoglio.99 L’esperienza delle perdite multiple può generare quello che è stato definito come burnout (esaurimento) da lutto. È come se la normale espressione del cordoglio andasse in cortocircuito per una continua esperienza di perdita. Questo tipo d’esaurimento ha colpito diversi membri del Dipartimento dei vigili del fuoco di New York che assistevano ripetutamente ai funerali dei colleghi nei giorni successivi all’11 Settembre. Supporto sociale e lutto delegittimato L’esperienza del cordoglio e del lutto varia anche a seconda del supporto sociale fornito alla persona che ha subito la perdita. In alcune comunità e tradizioni religiose, questo supporto sociale è offerto all’interno di una struttura organizzata che assicura una premurosa attenzione alla persona in lutto. Tra le famiglie religiose ebraiche, ad esempio, ci sono delle specifiche usanze associate all’aninut, il periodo di profondo dolore che intercorre tra la morte e l’interramento: la keriah, la lacerazione dell’abito, che è fatta dal familiare del defunto e consente l’espressione di una profonda collera come risposta al cordoglio, rispettando modalità controllate e autorizzate dalla religione; l’hesped, o elogio, nel quale si espongono le virtù del defunto in modo tale da suscitare la naturale espressione di cordoglio; il seudat havraah, il pasto di condoglianza, tramite il quale si riconosce che il primo pasto dopo l’interramento debba essere offerto dagli amici o dai vicini della persona che ha subito il lutto come un modo per offrire consolazione; la preghiera kaddish, che trasferisce subliminalmente l’attenzione dal defunto al vivente; la shiva, i sette giorni di lutto che strutturano il primo periodo del cordoglio.100 Un supporto sociale di questo tipo può essere di immenso aiuto per le persone in lutto. Per converso, quando il supporto sociale è carente, le persone in lutto possono sentire un peso aggiuntivo nell’affrontare la perdita. Ad esempio, dopo la morte di un figlio non nato, a causa di un aborto spontaneo o provocato, le persone che hanno subito la perdita ricevono un supporto sociale minimo o nullo, rispetto al tipo di supporto che reca conforto ai superstiti d’altri tipi di lutto. Nella maggior parte di questi casi non vi è funerale né altra osservanza formale della morte; la perdita può non essere affatto riconosciuta dalla più ampia comunità. Situazioni di questo tipo possono implicare quello che è stato definito come lutto delegittimato – ovvero, come cordoglio associato a una perdita che non è supportata socialmente o non è riconosciuta attraverso i rituali comuni.101 Quando il cordoglio è delegittimato, o perché l’importanza della perdita non è riconosciuta o perché la relazione tra il defunto e la persona che ha su-

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bito il lutto non è socialmente ammessa, la persona in lutto ha ben poche possibilità di vivere pubblicamente il lutto. Persone che subiscono la perdita di un compagno dello stesso sesso possono trovarsi ad affrontare questa situazione, i superstiti possono ricevere relativamente poco supporto dalla collettività nel gestire il lutto. Di quante risorse sociali, come i gruppi di supporto alla coppia, possono usufruire persone di diverso orientamento sessuale? Ovviamente, la risposta a questa domanda varia a seconda della comunità d’appartenenza e dell’atteggiamento mentale di ciascun gruppo di supporto. Ad esempio, in una comunità, un gruppo di supporto per genitori che hanno vissuto un lutto neonatale ha accolto una coppia lesbica il cui bambino era morto, fornendo loro un buon supporto sociale. Quando una morte è trattata dalla società come una perdita non significativa si rende alle persone in lutto il processo di adattamento inutilmente difficoltoso. Può anche accadere che il cordoglio sia delegittimato non a causa delle circostanze della perdita, ma a causa di determinate qualità che gli altri possono intenzionalmente o inconsapevolmente associare alla persona che ha subito il lutto. Darlene Kloeppel e Sheila Hollins sottolineano come possano sorgere complicazioni quando una morte avviene in una famiglia nella quale c’è una persona con un handicap mentale.102 Queste complicazioni possono incidere sia sul funzionamento della famiglia che sul lutto della persona handicappata. Kloeppel e Hollins aggiungono che “sia la morte che il ritardo mentale sono entrambi argomenti tabù nella nostra società” e che “i tabù suscitano paura ed emarginazione”. Il supporto della famiglia può essere di centrale importanza per stabilire se la persona che ha subito il lutto si senta incoraggiata ad affrontare, non solo il cordoglio, ma anche le molte difficoltà pratiche che accompagnano il lutto. Un esempio a questo proposito, è la situazione vissuta dalle vedove nella Nigeria occidentale, dove l’usanza è che una vedova non goda d’alcun diritto ereditario nei confronti delle proprietà del marito defunto; tutte le proprietà comuni ritornano alla famiglia del marito. Kemi Adamolekun sottolinea come il supporto sociale offerto dai suoceri o dagli altri parenti del marito, o la mancanza di tale supporto, sia un fattore importante rispetto al modo in cui queste vedove vivono il lutto.103 Si sono notate delle complicazioni del cordoglio specialmente quando i suoceri ritenevano la vedova in qualche modo responsabile della morte del marito o quando i suoceri attuavano delle misure per privare la vedova e i suoi figli delle loro proprietà. Un osservatore, intervenendo a un funerale africano, ha affermato: “quando una vedova piange in modo incontrollabile alla sepoltura del marito, non piange solo la sua perdita, ma anche per se stessa, per la sofferenza che l’attende.” Non a caso, è un detto comune che la vedovanza non si dovrebbe augurare nemmeno ad un nemico.

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Questioni in sospeso Le questioni in sospeso possono essere adeguatamente definite come un “lavoro che continua dopo la morte.” Qualcosa è rimasto incompiuto: il modo in cui ciò sarà gestito e il modo in cui inciderà sul superstite, sono tutti fattori che esercitano un impatto sul lutto. Si può pensare al lavoro incompiuto rispetto a uno solo o a entrambi i modi in cui esso esercita il suo effetto su chi resta: prima di tutto il fatto della morte in sé; secondariamente, la relazione tra il defunto e il vivente. Per quanto riguarda il primo, può accadere che la morte prematura di un genitore, di un figlio, di un parente o di un’altra persona cara continui a rievocare in maniera vivida le insicurezze e i timori sulla morte. Indipendentemente dalle credenze o dai valori particolari di un individuo, quanto più la questione della morte è “conclusa” – ovvero, quanto più chi resta si sente interiormente giunto a una risoluzione rispetto ad essa – tanto più facile sarà accettare la morte e affrontarla. Se una persona protesta contro la morte, rifiutando di riservarle un posto, il cordoglio sarà probabilmente più difficile da accettare. Accettare la morte, assegnandole un posto nella nostra vita, ci permette di chiudere con altre problematiche, altrimenti irrisolte, riguardanti la morte in sé. La seconda, e forse più cruciale, istanza riguarda le questioni in sospeso tra il defunto e il superstite. Qualcosa nella relazione è rimasto incompleto, forse un conflitto di lunga data non è mai stato risolto, e ora è troppo tardi: cose che sono o non sono state dette, cose che sono o non sono state fatte. Le persone che hanno subito un lutto spesso dicono che le cose rimaste in sospeso, non dette o non fatte, ritornano a tormentarle e rendono il lutto più doloroso. La sensazione, lasciata dalle questioni sospese, di non essere più in grado di risolvere i conflitti, amplifica la sofferenza. Consideriamo l’immagine di un figlio in piedi davanti alla tomba del padre che dice: “Se solo fossimo stati più vicini, papà. Avremmo dovuto prenderci più tempo per farci visita.” È possibile risolvere tali problemi, affrontandoli con l’aiuto d’interventi creativi o terapeutici, ma in generale è meglio cercare di risolvere le questioni in sospeso quotidianamente, in tutti i nostri rapporti e specialmente in quelli intimi. Un’altra categoria di questioni in sospeso, riguarda i progetti e i sogni che la persona che ha subito il lutto condivideva con il defunto. Forse c’erano luoghi che essi intendevano visitare insieme, ora questi progetti di viaggio non si potranno più realizzare. Forse il superstite e il defunto avevano in comune dei sogni su questioni familiari, progetti per i loro figli o per “gli anni della pensione”, per esempio. Forse condividevano dei progetti per iniziare o costruire un’attività insieme. Simili progetti e sogni possono toccare molti ambiti della vita del superstite. La morte mette fine a tutti i progetti e a tutti i sogni che implicavano la presenza del defunto.

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Le promesse fatte sul letto di morte costituiscono una particolare tipologia di questioni in sospeso. Immaginiamo la classica scena in cui la persona che sta morendo strappa a chi lo sta vegliando la promessa di eseguire una particolare azione dopo la sua morte. La maggior parte accondiscende a fare la promessa, sia che pensi realmente di soddisfare la richiesta o meno. Così, una promessa fatta sul letto di morte può, in seguito, creare un conflitto: ci si può sentire divisi fra l’alternativa di soddisfare la promessa fatta sul letto di morte o di agire diversamente: alcune persone portano a compimento la promessa e la reputano una scelta gratificante, altre ritengono che tale promessa debba essere riconsiderata alla luce delle circostanze e dei propri desideri.

Il supporto delle persone in lutto Quando una persona subisce una perdita importante, inizialmente può sentirsi come un bambino impaurito. Un abbraccio può essere di maggiore conforto delle parole. Avere qualcuno capace “semplicemente di ascoltare” può essere d’aiuto. La chiave per essere un buon ascoltatore consiste nell’astenersi dal formulare giudizi sul fatto che i sentimenti della persona che ha subito la perdita siano “giusti” o “sbagliati”, “buoni” o “cattivi”. Le emozioni, i pensieri e i comportamenti suscitati dalla perdita possono non essere quelli che ci aspettavamo, ma possono essere validi e appropriati nell’ambito dell’esperienza del superstite. Le persone in lutto non dovrebbero sentirsi spinte a reprimere i propri sentimenti o a essere “forti” e “coraggiose”. Parlare e piangere, anche gridare per la rabbia, sono modalità di gestire le emozioni intense. Esprimere il dolore è salutare. Tuttavia, non c’è ragione per cui la persona in lutto debba fingere o esagerare le emozioni solo per soddisfare le aspettative altrui. La funzione della veglia nella cultura hawaiana tradizionale, illustra come il supporto degli altri possa offrire alla persona in lutto l’opportunità di mettere in atto una “espressione controllata di collera e d’ostilità, ma anche di diminuire il senso di colpa e di ansia”.104 Tutti nell’‘ohana, o famiglia estesa, partecipano alla veglia, bambini compresi. Ad ogni nuovo arrivo, un parente diceva – come se stesse raccontando alla persona morta: “Ecco Keone, il tuo vecchio compagno di pesca” o “Tutu è appena arrivata; certo ti ricordi che ti faceva i massaggi quando eri ammalato.” Le persone riunite nella veglia si rivolgevano al defunto, richiamando i ricordi e descrivendo a volte i loro sentimenti d’abbandono o, persino, rimproverando il defunto. Un compagno di pesca poteva esclamare: “Disgraziato, te ne sei andato proprio quando dovevamo andare a pescare! e ora, con chi vado a pesca?” Una moglie poteva dire: “Non te ne dovevi andare, dovresti vergognarti, abbiamo bisogno di

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te”.105 Il fatto di rimproverare il cadavere permetteva ai superstiti di sfogare l’ostilità verso il morto che li aveva abbandonati. Quale contrasto con l’idea che non si debba “parlare male del morto”! Idea che, invece, incoraggia la repressione dei sentimenti di rabbia verso il defunto. Poiché rappresentano un veicolo culturalmente approvato d’espressione del cordoglio, i funerali e le altre riunioni familiari, connesse alla morte, facilitano il lutto, fornendo una cornice sociale per affrontare la realtà della morte. I funerali e gli altri rituali possono aiutare i superstiti ad acquistare il senso della fine e a cominciare a integrare la perdita nella loro vita. Per alcuni, i funerali costituiscono un’occasione per piangere e lamentarsi; altri mantengono un atteggiamento stoico e sommesso. Si tratta di diversi stili di comportamento nel lutto: sono ugualmente validi ed appropriati. Mentre le reti sociali a maglie fitte – i kibbutzim israeliani di piccole o medie dimensioni, per esempio – hanno strutture sociali che consentono di celebrare il lutto entro una stretta cerchia di familiari, amici, vicini e colleghi; alle reti sociali a maglia più larga sono necessari funerali e altri rituali per offrire una struttura entro la quale fornire supporto alle persone che hanno subito la perdita.106 Il supporto sociale è fondamentale durante i primi giorni e le prime settimane che seguono la perdita. Le persone in lutto dovrebbero poter contare sul supporto delle persone in cui hanno fiducia. Le persone in lutto possono sentire il bisogno di essere rassicurate sul fatto che il cordoglio è normale e che è bene esprimerlo. Possono anche sentire il bisogno di un permesso per prendersi una pausa occasionale dal lutto. Nella maturità, le persone in lutto possono essere aiutate ad affrontare il mondo con fiducia dall’incoraggiamento degli altri. Il bisogno di questo tipo di supporto può estendersi oltre il periodo iniziale del cordoglio. Il primo anniversario che segue una perdita importante è di solito un’occasione di rinnovato cordoglio, nella quale il supporto degli altri è importante e apprezzato. Il fatto di sapere che gli altri ricordano e riconoscono la perdita e si prendono il tempo per entrare in contatto, è solitamente percepito come un importante aiuto. A parte il supporto sociale proveniente dalle persone appartenenti alla loro rete d’amicizie e di relazioni, le persone in lutto possono volere condividere le loro storie e le loro preoccupazioni con gruppi di supporto organizzato, e per lo più questi gruppi sono basati sulla percezione della similarità. I membri dei gruppi di supporto hanno subito perdite simili e si riuniscono per parlare insieme, integrando le perdite nella loro vita. I gruppi di vedove, per esempio, offrono alle donne l’opportunità di condividere l’esperienza d’essere sole e s’incoraggiano a vicenda nel compito di affrontare la morte dei mariti. Le famiglie dei militari ricevono supporto nel lutto, attraverso il Tragedy Assistance Program for Survivors (TAPS, programma di assistenza nella tragedia per i superstiti), che offre supporto reciproco tra i membri del

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gruppo, indirizzi di assistenza psicologica, seminari per le persone in lutto e altri tipi di aiuto.107 Altre organizzazioni, assistono le famiglie che devono affrontare la perdita di un figlio, e una di esse offre anche assistenza a bambini, adolescenti e giovani adulti che hanno perso un genitore o un parente; nel descrivere le finalità di una di esse, Stephen Fleming e Leslie Balmer sottolineano che essa è “concepita per facilitare il processo di cordoglio, liberare la persona in lutto da attaccamenti invalidanti al defunto, mitigare il timore di ‘impazzire’, educare i superstiti sulla natura e la dinamica del cordoglio per normalizzare la loro esperienza, e promuovere le caratteristiche terapeutiche tipiche dei gruppi: far crescere la speranza, l’altruismo, la coesione del gruppo, la catarsi e l’introspezione.”108 Alcuni gruppi di supporto sono costituiti interamente da membri alla pari; altri sono guidati da un professionista qualificato o da uno psicoterapeuta non professionista. Molti hospice e programmi di cure palliative includono volontari formati allo scopo di aiutare le famiglie ad affrontare il lutto.109 Le persone in lutto possono inoltre trovare sollievo attraverso rituali di presa di commiato, diversi dai funerali convenzionali e dai servizi commemorativi o ad essi accostabili. Queste forme di “terapia direttiva del lutto” consentono al superstite in lutto di prendere simbolicamente commiato dal defunto.110 Il rituale terapeutico può anche aiutare gli individui a passare da una modalità di cordoglio non adattiva a una adattiva.111 Questi rituali utilizzano tipicamente degli oggetti di legame che simbolizzano in qualche modo la relazione tra la persona che ha subito il lutto e il defunto.112 Un esempio è quello di scrivere una lettera d’addio al defunto e poi seppellirla o bruciarla. Un’azione come questa può essere seguita da un rituale di “riunione,” eventualmente nella forma di un pranzo cerimoniale con la famiglia e con gli amici. In questo modo, i ritmi di separazione e d’unione dei rituali tradizionali possono essere adattati alla situazione di ciascuna persona in lutto. L’impatto del cambiamento sulle persone che hanno subito un lutto recente, può riguardare virtualmente ogni dettaglio della vita: la composizione familiare è cambiata, le realtà sociali non sono più le stesse, le questioni legali e finanziarie richiedono maggiore attenzione. Le persone che hanno perso qualcuno da poco, si trovano di fronte alla domanda: “Come posso aggiustare tutte queste situazioni?” I superstiti sono spesso esortati a mettere mano all’organizzazione pratica dei loro affari quotidiani subito dopo il lutto, ma può essere utile limitare, per quanto possibile, il numero dei cambiamenti, specialmente nei primi mesi dopo la perdita. È generalmente appropriato raggiungere un equilibrio fra attività di legame che mantengono i rapporti di familiarità del superstite con il passato e le attività di mediazione che conducono il superstite a un futuro senza il defunto.

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Il lutto come opportunità di crescita Vedere il lutto come un’opportunità di crescita, sulle prime, può essere difficile, ma questa prospettiva può promuovere un movimento graduale verso l’adattamento alla perdita, quando la persona che ha subito il lutto comincia a rielaborare la perdita, liberando dell’energia che era connessa al passato. Come afferma John Schneider, “Si verifica un cambiamento nell’assetto percettivo: dalla focalizzazione sui limiti, alla focalizzazione sul potenziale; dalla lotta, alla crescita; dai problemi, alle sfide.”113 Il tragico evento della morte di una persona cara è rielaborato in modo tale da non escludere nuove possibilità. Questa ristrutturazione può proseguire in altre aree della vita della persona, così che le credenze e gli assunti che prima erano limitanti sono ora rivalutati con una maggiore fiducia in se stessi e un’accresciuta consapevolezza, rendendo possibili cambiamenti di vita significativi e gratificanti. La perdita è trasformata in modo da inserirla in un contesto di crescita, il cordoglio diventa un’esperienza umana unificante, piuttosto che alienante. La relazione perduta cambia, ma non finisce, il lutto può aprire a dei cambiamenti nella sfera delle credenze e dei valori – comprensione della vita e della morte – che non sarebbero stati altrimenti possibili; rievocando il proprio cordoglio e il proprio lutto, le persone che hanno perso qualcuno, spesso si descrivono come più forti, più competenti, più mature, più indipendenti, più abili nell’affrontare altre crisi; e, per molti, il lutto conduce a esperienze più positive nel contesto della famiglia e delle amicizie.114 Georges Bataille scrive: “È un’opinione ingenua quella che connette strettamente la morte al dolore. Le lacrime del vivente, reazione al sopraggiungere dell’evento, sono lontane, di per sé, dall’avere un significato opposto alla gioia. Le lacrime sono, non espressione di dolore, bensì della lucida consapevolezza di una partecipazione alla vita intimamente compresa.115

Rivolgersi verso le fonti interiori della creatività dà forma all’esperienza del cordoglio. La risposta creativa al dolore può condurre a risultati sorprendenti. Coloro che lavorano con la persona in lutto possono suscitare in lei una risposta creativa, com’è avvenuto nel caso di una giovane donna il cui figlio, appena nato, era morto improvvisamente e inaspettatamente. Oppressa da sentimenti di tristezza, di depressione e dall’incapacità di fare qualsiasi cosa, eccetto piangere la morte del figlio, non riusciva a trovare le parole per comunicare i propri sentimenti. In una seduta d’assistenza psicologica, tenutasi sei mesi dopo la morte del figlio, ammise: “Non ho toccato nemmeno un blocco di creta da quando è morto Justin.” L’ovvia domanda era, che cosa faceva con la creta prima che morisse suo figlio? Disse che le sue sculture di balene e foche erano state messe in vendita in un negozio locale d’oggettistica a tema marino. Lo psicoterapeuta suggerì che il motivo per il quale non

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riusciva a tornare alla sua arte poteva risiedere nella fonte delle sue energie creative. Anche se era possibile che dai blocchi di creta tornassero a emergere un giorno foche e balene, forse la sua creatività, al momento, avrebbe potuto prendere una forma differente. L’assistita s’impegnò a trovare un momento di tranquillità nel quale riprendere in mano la creta per un esperimento, per vedere che cosa ne sarebbe potuto saltare fuori. Sia la madre in lutto che il suo terapeuta furono sorpresi nel vedere i risultati (vedi figg. 8-1 a, b, c,). Nel corso di dodici mesi produsse una serie di 22 figure. Le prime figure erano nude, poi furono rivestite da una coperta e, negli ultimi pezzi, la coperta era diventata vestito. La creatività della madre non solo diede forma alla sua perdita, ma manifestò anche una comprensione inconscia del processo di recupero dell’integrazione della sua perdita. In seguito, le sculture furono fotografate, e pubblicate insieme ai suoi versi, per dare conforto ad altre persone in lutto.116 La morte è un evento che coinvolge la comunità. Le persone mantengono i legami con le persone care che hanno perduto; attraverso i ricordi e attraverso rituali personali e sociali ritagliano, nel procedere delle loro vite, uno “spazio” nel quale manifestare l’affetto e l’amore verso il defunto. Perdita, cordoglio e lutto sono fili complementari nel tessuto della vita, parte della trama e dell’ordito dell’esperienza umana.

Letture di approfondimento John Archer. The Mature of Grief. The Evolution anal Psychology of Reactions to Loss. New York: Routledge, 1999. Thomas Attig, The Heart of Grief: Death and the Search, for Lasting Love. New York: Oxford University Press, 2000. Dennis Klass, Phyllis R. Silverman, and Steven Nickman, eds. Continuing Bonds: New Understandings of Grief. Washington, D.C.: Taylor & Francis, 1996. Terry L. Martin and Kenneth J. Doka. Men Don’t Cry … Women Do: Transcending Gender Stereotypes of Grief. Philadelphia: Brunner/Mazel, 2000. Janice Winchester Nadeau. Families Making Sense of Death. Thousand Oaks, Calif.: Sage, 1997. Robert A. Neimeyer, ed., Meaning Reconstruction and the Experience of Loss. Washington, D.C.: American Psychological Association, 2001. Colin Murray Parkes. Bereavement: Studies of Grief in Adult Life, 3rd ed. New York: Routledge, 2001. Margaret S. Stroebe, Robert O. Hansson, Wolfgang Stroebe, and Henk Schut, eds. Handbook of Bereavement Research: Consequences, Coping, and Care. Washington, D.C.: American Psychological Association, 2001. Tony Walter, On Bereavement: The Culture of Grief. Philadelphia: Open University Press, 1999.

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a) Angoscia della perdita.

b) Condivisione del cordoglio.

c) Crollo.

Figura 8-1 a, b, c “L’angoscia della perdita è immensa e opprimente”: così comincia il testo che accompagna le sculture di Julie Fritsch raffigurate in queste immagini, e facenti parte della serie creata in seguito alla morte del figlio. “Condivisione del cordoglio” afferma il soggetto della seconda scultura, riconoscendo che “insieme dobbiamo offrire e ricevere conforto”. La terza scultura rappresenta l’artista in lutto che crolla “sotto il peso di emozioni che non posso controllare”. Il testo che accompagna questa scultura continua: “Prosciugata della mia capacità di affrontare la situazione e di andare avanti devo crollare, adesso. E sentirmi sopraffare dal dolore assoluto.”

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Capitolo 9

LA MORTE NELLA VITA DEI BAMBINI E DEGLI ADOLESCENTI

I cambiamenti possono caratterizzare la vita di tanti bambini e di tanti adolescenti: le famiglie si spostano e i bimbi devono abbandonare i loro compagni di giochi e gli amici, il vicinato, la scuola, le persone e i luoghi che conoscono e verso i quali provano sentimenti di attaccamento. Un genitore che dica: “Ma tesoro, è solo per un anno…, ma poi torneremo in visita la prossima estate …”, non consola un bambino, per il quale un anno, l’estate prossima, possono essere tempi molto lunghi e lontani. Di conseguenza, il cambiamento può generare un sentimento di perdita molto profondo. I cambiamenti nelle relazioni familiari, il divorzio o la separazione, possono essere vissuti come una specie di morte. Il bambino capisce che una relazione è mutata, ma l’impossibilità di sapere che cosa gli riserva il futuro lo spaventa. Anche se questi cambiamenti non hanno la caratteristica di non ritorno, che gli adulti attribuiscono alla morte, i bambini possono vivere delle esperienze di incertezza, una specie di “piccola morte”. I mutamenti si vivono anche quando i fratelli o le sorelle più grandi crescono e si trasferiscono da casa: la conformazione della famiglia si modifica, il bambino è costretto a confrontarsi con situazioni nuove e di cui non ha esperienza. A volte può essere felice perché può guadagnare una camera tutta sua, ma può anche perdere un confidente che gli forniva sostegno e comprensione. Il cambiamento può portare un guadagno ma anche una perdita. La famiglia che cresce, un fratello o una sorella in arrivo possono dare luogo a un’emozione, ma anche generare ansia. Il nuovo componente della famiglia può rappresentare una minaccia per il ruolo che il primogenito ricopre, può significare una perdita d’attenzione da parte dei genitori e di altri componenti della famiglia, ma anche una condivisione dell’esperienza e l’accettazione delle nuove responsabilità che il cambiamento porta con sé. Inoltre, i bambini e gli adolescenti possono fare esperienza della perdita se muore un fratello o una sorella, un genitore o un amico; anche se vorremmo che non fosse così, anche i bambini sono esposti ai cambiamenti, alle perdite, al lutto e al dolore.

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Incontri con la morte nella prima infanzia Ci siamo chiesti a quale età un bambino diventa consapevole della morte. Verso i quattro-cinque anni, i pensieri di morte e d’esperienze simili diventano evidenti nelle loro canzoncine, nei loro giochi e nelle loro domande. Capire la differenza tra sonno profondo e veglia può implicare la percezione della differenza tra essere e non essere1. I bambini iniziano a fare esperimenti con queste differenze molto presto, come nel gioco “ti vedo non ti vedo”. Ad esempio, per un bambino molto piccolo, la sparizione del “mondo” sotto una coperta è simile alla morte; quando l’adulto dice “Buh!” l’esclamazione equivale a un ritorno in vita. La morte può essere sperimentata in giochi come questo che implicano separazione, scomparsa e ritorno. La capacità di distinguere tra animato e inanimato rappresenta uno dei primi incontri con la morte. Il bambino è in grado di percepire se un soggetto è o meno in vita. La storia che segue illustra come questo accada in situazioni piuttosto comuni. Un bimbetto di diciotto mesi era a spasso col babbo quando questi inavvertitamente pestò un bruco. Il bimbo si chinò a guardare il verme morto, dicendo “Più”, esclamazione che indica la genesi tipica della consapevolezza di morte. Esperienze simili possono produrre risposte assai differenziate. Vedere un bruco o un uccello morto può scatenare reazioni che possono durare alcuni giorni, durante i quali il bambino è avido di spiegazioni. Un altro soggetto, invece, può prestare poca attenzione al fatto e, apparentemente, non mostrare di riflettere su un avvenimento che un altro bambino aveva trovato tanto misterioso ed eccitante. Alcuni studiosi ritengono che il comportamento dei bambini, di quelli molti piccoli e di quelli appena più grandi, sia da definirsi prototanatico, ossia preparatorio all’accettazione dei concetti di vita e di morte che emergeranno in seguito, nell’interazione dei bambini con l’ambiente. Per i bambini più grandi, il gioco può aiutarli nello sviluppare le loro concezioni sulla morte. Ad esempio, attività come “cowboy contro indiani” o “guardie e ladri”, riflettono in parte lo sforzo del bambino di capire quale posto occupi la morte nel suo mondo. I giochi possono essere strumenti per esorcizzare la paura, fare esperienza dei ruoli e prendere decisioni, indagare le conseguenze delle azioni, fare esperienza dei giudizi di valore e trovare una soddisfacente immagine di sé. Bambini che hanno fatto esperienza della morte: da uno a tre anni Uno studio condotto da Mark Speece per studiare l’impatto della morte su bambini da uno a tre anni, suggerisce che i bambini molto piccoli fanno

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degli sforzi per venire a patti con esperienze legate alla morte2. Speece afferma che “sembra possibile concludere che l’esperienza di morte interessa un certo numero di bambini di questa età, e che coloro che devono passare per questa esperienza sembrano farle fronte e sembrano integrarla nelle proprie esperienze di morte, all’interno di un quadro generale di comprensione del mondo.” Speece scoprì che circa la metà dei bambini del suo studio aveva avuto esperienze di morte, in certi casi una morte umana, di un nonno, di un cugino, di un vicino di casa, ma anche della morte di un animaletto di casa, spesso uccellini, cani o pesci. Speece scoprì che questi bimbi reagivano alla morte in modi tangibili: uno si arrabbiò molto perché il suo uccellino era morto e non voleva resuscitare, altri cercavano in modo attivo le persone o gli animali scomparsi; inoltre, questi bambini facevano domande sull’immobilità dei morti ed esprimevano preoccupazione per lo stato di salute dei vivi. La prima infanzia e la morte: un esempio Ci siamo chiesti come si possa rispondere alle domande “Quando si comincia a comprendere la morte? Che cosa influenza il suo sviluppo?” Il dialogo tra un bambino di ventisette mesi e il padre psicologo, fornisce un esempio illuminante3 (da notare come le abilità professionali del padre lo abbiano aiutato nell’intraprendere questa conversazione). Per due mesi il bambino si era svegliato di notte urlando in modo isterico e chiedendo un biberon di acqua e zucchero. Il padre racconta di essersi svegliato di notte una seconda e poi una terza volta e di avere deciso, insieme alla moglie, di essere fermi e di rifiutare le richieste del bambino. Così il babbo andò dal figlio, gli disse che ormai era troppo grande per avere il biberon di notte e che doveva riuscire ad addormentarsi senza. Stava per andarsene dalla stanza, ormai deciso, quando il bimbo lanciò un urlo disperato come se avesse paura di morire. Allora, chiedendosi che cosa provocava tale stato nel bimbo, il padre tornò nella camera lo sollevò dal lettino e gli chiese “Cosa succede se non ti do il biberon?”. Il figlio, non più isterico, ma ancora piangente, rispose “Non faccio contatto” “Che cosa vuol dire che non fai contatto?” “Se finisce la benzina, non posso fare contatto e non vado in moto”. Al padre tornarono in mente le escursioni dell’estate prima, durante le quali erano spesso rimasti senza benzina e chiese “Ma cosa vuoi che succeda se non c’è benzina?” e il figlio “Il mio motore si spegne e io muoio!”. A quel punto al padre venne in mente un altro incidente al quale avevano assistito: mentre cercava di vendere una vecchia auto, l’acquirente voleva metterla in

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moto, ma la batteria era scarica e il motore non partiva: il bambino doveva aver sentito commenti del tipo “non fa contatto” e “penso che la batteria sia morta”. Ricordando questi fatti il padre continuò chiedendo “Hai paura che il tuo biberon sia come la benzina della macchina e che tu sia come la macchina che se non c’è benzina muore: così pensi che senza cibo muori anche tu?” Il bimbo assentì con la testa. Allora l’adulto: “Beh, non è per niente la stessa cosa. Vedi se mangi, il tuo corpo fa scorta d’energia in modo che tu ne hai per tutta la notte. Tu mangi tre volte al giorno, mentre la macchina viene riempita solo una volta a settimana e se la macchina finisce la benzina, lei non ha scorte d’emergenza. Con le persone è diverso perché puoi stare anche due o tre giorni senza mangiare e anche se sei affamato non muori. Le persone non somigliano per niente alle macchine.” Però questa spiegazione non sembrava sortire alcun effetto sull’ansia del bambino e allora il babbo provò con un’altra tattica “Hai paura di avere un motore, come una macchina?” “Si!” “Allora hai paura che se finisci il cibo muori, così come l’auto quando non ha la benzina?” Di nuovo la risposta fu affermativa. “Ah, ma la macchina ha una chiave e noi la possiamo accendere tutte le volte che vogliamo, no?”. A questo punto il bambino iniziava a rilassarsi e il babbo continuava “Ma dov’è la tua chiave?” E la cercava nell’ombelico. “È questa?” e il bambino rideva. “Posso accenderti e spegnerti? Vedi, non sei per niente simile a un’auto, nessuno può accenderti e spegnerti. Una volta che il tuo motore è acceso non devi preoccuparti di morire: puoi dormire tutta la notte e il motore continuerà a girare, senza che tu lo debba riempire di benzina, capito?” “Si”. “Okay. Adesso dormi senza paura, quando ti sveglierai domani mattina, il tuo motore girerà ancora, va bene?” E il bambino non si svegliò più per chiedere il biberon. Ora, pensate al modo stupefacente nel quale i bambini ragionano, al loro modo di attivare collegamenti; in questo caso, il padre ragiona su due esperienze che hanno contribuito ai ragionamenti del bambino: in primo luogo, il figlio aveva deciso che l’acqua zuccherata gli avrebbe fornito il carburante, perché aveva sentito i genitori dire che la sua sorellina si “carburava” bevendola; poi, quando era morto il pappagallino il bimbo aveva chiesto: “Cosa gli è successo?” E il babbo aveva risposto: “Ogni animale ha un motore dentro che lo fa andare, quando qualcuno muore è come se si fermasse il motore interno, un motore che non va mai più in moto”. La comprensione che un bambino ha della morte evolve per mezzo di una serie di concetti collegati tra loro, come lo sono le perle di una collana, fino a che non diventano una vera e propria collana, ossia fino a una comprensione coerente della morte. La descrizione di come questo bimbo di

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ventisette mesi associ linguaggio e morte in modo complesso, dimostra che i bambini sono capaci di arrivare a concetti elementari di morte a uno stadio molto precoce della loro vita.

Bambini con gravi malattie I bambini molto malati hanno bisogno di un “pronto soccorso” mentale che li aiuti a far fronte ai loro pensieri e sentimenti; il che può voler dire anche solo fornire loro conforto e cercare di aiutarli durante gli interventi difficili o dolorosi, oppure operare interventi più consistenti per tenere a bada l’ansia, il senso di colpa, la rabbia o altre emozioni non risolte o conflittuali. Prendersi cura dei bambini richiede un approccio flessibile; un bambino che non si senta aiutato o che non sia certo di quello che sta succedendo, può arrivare a fantasie ben peggiori della realtà. Un’atmosfera d’aiuto, nella quale il bambino si possa sentire libero di esprimere le proprie paure, contribuisce a far calare i sentimenti di separazione e solitudine. I genitori e gli altri adulti possono provare dolore nel rispondere alle domande dei bambini su una malattia grave e sulla sua prognosi. Tali domande possono evocare incertezza e possono scontrarsi col silenzio o con altri modi di sfuggire alle risposte. Allora ci si chiede se sia etico o se sia possibile non fornire risposte a un bambino che soffre di una malattia letale. Questa domanda pone un dilemma a coloro che non vogliono comunicare notizie sconvolgenti ai bambini. William Bartholome osserva come il problema più terribile per i genitori e gli assistenti di bambini terminali è la considerazione che la persona di cui si stanno occupando vive in una realtà differente4. La percezione infantile delle malattie gravi In uno studio con bambini malati di leucemia, Myra Bluebond-Langner rileva come i bambini gravemente malati siano generalmente in grado di indovinare le proprie condizioni, interpretando il comportamento di chi li circonda5. Il pianto, o comportamenti che tendono ad evitare il bambino, vengono interpretati come indicatori della gravità del male e della prossimità alla morte. I bambini ricoverati nel reparto di cura delle leucemie, per la maggior parte d’età compresa tra i tre e i nove anni, erano in grado di determinare in modo preciso la gravità della malattia, anche se gli adulti non li avevano informati delle loro condizioni. I bambini parlavano con i compagni della loro malattia, ma evitavano di parlarne con gli adulti. Capendo che queste

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conversazioni mettevano gli adulti a disagio, i bambini parlavano fra loro della malattia e di altri argomenti considerati tabù. Col tempo, l’interpretazione che i bambini si davano delle loro condizioni si modificava. All’inizio, la malattia era percepita come in fase acuta, poi come cronica e infine come letale; allo stesso modo, le cure erano viste prima come “strumenti per guarire” poi come “qualcosa che prolunga la vita”. La percezione che i soggetti avevano delle terapie variava da “sempre efficace” a “a volte efficace” fino a “per niente efficace”, e il loro comportamento nell’assumerle mutava di conseguenza. In genere, i bambini di questo reparto di cura per la leucemia, sapevano molte cose sul mondo degli ospedali, sul personale e sulle procedure e anche su altri bambini con la stessa malattia. Facevano commenti del tipo “Jeffrey ha avuto la prima ricaduta” e si rendevano conto se altri bambini morivano. Anche se i bambini non sapevano con esattezza il nome della malattia che avevano, di solito, mostravano una grande consapevolezza delle cure e della prognosi. Lo sviluppo del concetto di morte si riflette nella sequenza di preoccupazioni maggiori che affliggono i bambini gravemente malati. Ad esempio, i bambini sotto i cinque anni tendono a mostrare la sofferenza maggiore nel distacco dalla madre, mentre quelli del gruppo intermedio, dai cinque ai nove anni, mostrano maggiore preoccupazione per i disagi e la possibilità che la malattia, o altre pratiche mediche, li sfigurino. I bambini più grandi invece mostrano ansia alla morte d’altri bambini. Questi dati sono corrispondenti ai modelli di sviluppo discussi nel capitolo secondo: l’ansia da separazione è tipica nei bimbi piccoli; la personificazione della morte e le conseguenti paure di mutilazione e di dolore è dominante negli anni centrali dell’infanzia, mentre l’ansia legata alla morte di un altro bambino è sperimentata più spesso da bambini più grandi e adolescenti. Il modo in cui un bimbo reagisce a queste preoccupazioni è influenzato in modo significativo dalla sua percezione del significato e dalle possibili conseguenze di una malattia. I meccanismi di reazione dei bambini I bambini molto malati non sono spettatori passivi degli eventi medici e sociali che ruotano attorno alla loro malattia. Il modo in cui un bambino percepisce la malattia e il modo in cui reagisce dipende dall’età, dalla natura stessa della malattia e delle cure, dalle relazioni famigliari e dalla storia personale del bambino. La malattia può comportare assenze da scuola, modifiche della struttura famigliare, crescente dipendenza dagli altri, stress emotivo e finanziario per la famiglia. Altre fonti di stress e dolore, comprendono le questioni mediche, come il dolore e a volte anche gli effetti visibili della

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malattia e delle cure, il che può avere un significato simbolico, a seconda dell’età del bambino e della parte del corpo interessata. Per far fronte all’ansia e alla confusione che accompagnano una malattia grave i bambini fanno ricorso a diversi meccanismi di compensazione. Anche bambini molto piccoli mostrano una gamma di meccanismi di questo genere, benché lo stadio di sviluppo del soggetto influenza le capacità di ricorrere a risorse interne ed esterne. Alcuni bambini usano strategie di distanziamento per limitare il numero di persone con cui avere relazioni strette, riducendo così la quantità d’interazioni stressanti. Così facendo il soggetto seleziona quelle situazioni o quegli aspetti che gli sembrano meno minacciosi. Con questo meccanismo, il bambino può costruirsi un ambiente che, date le circostanze, gli sembra il meno minaccioso possibile. I bambini possono affrontare le terapie dolorose facendo accordi che permettano di esaudire alcuni desideri, dopo aver sopportato il dolore: un esempio è la richiesta “Dopo la puntura posso giocare?”. Nel fronteggiare situazioni pesanti, i bambini malati possono mostrare una regressione a comportamenti che ricordano tempi meno impegnativi e più tranquilli della loro vita. È possibile che i bambini regrediscano al modo di parlare della prima infanzia o che “dimentichino” come si fa ad andare in bagno in momenti di particolare stress. Se ad esempio la malattia impedisce a un soggetto di praticare lo sport preferito a livello agonistico, egli può sublimare, spostando il suo desiderio dallo sport ai giochi da tavolo e giocandoci in modo molto competitivo. Addirittura, ci sono bambini malati che corrono nei corridoi d’ospedale, con le flebo che dondolano dalle sedie a rotelle, inventando gare. Così come gli adulti, i bambini hanno modi molto diversi di reagire ai disagi e alle paure impliciti nelle malattie potenzialmente letali. Assistere bambini gravemente malati Le malattie gravi separano il bambino dal suo contesto familiare e dalle persone che ama gettandolo in un mondo più o meno alieno di ospedali e apparecchiature mediche. Anche se un bambino riesce ad abituarsi ai frequenti ricoveri in ospedale, le nuove cure e il ricovero in un reparto che non gli è familiare possono rendere tutto sconvolgente e alienante. Questi cambiamenti possono accrescere ansia e paura6. “Ogni volta che un bambino torna all’ospedale è una persona diversa, nel senso letterale del termine. Egli si trova a un nuovo stadio dello sviluppo e quindi con paure e aspettative conseguentemente diverse”7. Alcuni bambini mostrano tenacia nella loro risposta alla terapia, agli effetti collaterali pesanti e all’esperienza quotidiana

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di convivenza con la malattia, mentre altri hanno difficoltà nel contrastare i vari fattori di stress, sia acuti che cronici, associati spesso a malattie come i tumori infantili8. I caregivers e i genitori dovrebbero cercare di minimizzare la quantità di questi fattori e cercare di mettere il bambino a proprio agio, per quanto possibile. La presenza di un familiare può essere, in certi momenti, di conforto per un bambino. Anche se il personale professionale è più preparato nell’assistere bambini, i genitori mostrano un’esperienza speciale negli ambiti non tecnici dell’assistenza. Si possono coinvolgere i genitori in varie attività, come fare il bagnetto, somministrare i pasti e rimboccare le coperte e, più in generale, nel fornire supporto emotivo. Ad ogni modo, i genitori dovrebbero prendere in seria considerazione il fatto che può essere meglio, per il bambino, essere esclusi dalle procedure dolorose: il bimbo potrebbe pensare che siano i genitori a fargli del male o sopportare meno il dolore. Più in generale, i genitori si dovrebbero concentrare sul loro ruolo, piuttosto che giocare a fare gli infermieri; tuttavia, ci possono essere momenti in cui ai genitori è chiesto di aiutare emotivamente il bambino, prendendosi responsabilità di cura fisica che sono di solito compito dei professionisti. Gli hospice e le cure palliative a domicilio sono un’importante opzione nella cura dei bambini in fase terminale9. Ida Martinson, un’educatrice d’infermieri che ha contribuito alla fase pionieristica delle cure palliative e delle cure a domicilio, afferma che “la barriera più difficile da abbattere (nel provvedere un vero supporto a bambini che stanno morendo e alle loro famiglie) è la difficoltà dei genitori, dei medici e degli infermieri ad accettare che un bambino stia effettivamente morendo. Nessun vuole che un bambino muoia, per questo i trattamenti vanno ben oltre il limite considerato accettabile per il bambino stesso”.10

La Martinson inoltre aggiunge: “I genitori possono avere difficoltà a capire che le cure che si possono fare a casa sono altrettanto valide e nella maggior parte dei casi probabilmente migliori delle cure ospedaliere.” Qualunque sia il luogo – hospice, ospedale o casa – le famiglie che affrontano la malattia grave di un bambino e che si avvicinano alla morte, dovrebbero poter usufruire di supporto appropriato tanto dai professionisti che dalla comunità.

I bambini che sopravvivono alla morte di un caro Tutti i genitori vorrebbero evitare ai figli il dolore del lutto. Quando nella vita di un bambino si verifica una perdita, si fanno dei tentativi per cercare

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di minimizzarne gli effetti; ad esempio, alla morte di un animale può seguire un rimpiazzo veloce, cosa che ha una scarsa utilità: la morte è un fatto della vita che non può essere ignorato. Un approccio più costruttivo consiste nel far parlare il bambino dei propri sentimenti sulla morte e di svilupparne una comprensione adeguata. L’esperienza del cordoglio nel bambino I bambini in lutto hanno reazioni al dolore simili a quelle degli adulti, anche se sono diversi da loro per abilità cognitive, stili di reazione, bisogni di figure di identificazione e dipendono dall’aiuto degli adulti11. La modalità di reazione di un bambino alla perdita rispecchia l’influenza di molti fattori come l’età, lo stadio di sviluppo mentale ed emotivo, le modalità d’interazione e comunicazione all’interno della famiglia, la relazione con il defunto e precedenti esperienze di morte. I bambini mostrano forza e resistenza nel lottare contro le tragedie della propria vita, ma gli adulti giocano un ruolo cruciale nel guidarli attraverso il dolore, ascoltando le loro preoccupazioni e cercando di promuoverne il benessere. Le morti improvvise e inaspettate o dovute a suicidio e omicidio, possono complicare i problemi che il bambino incontra nel far fronte alla perdita12. Se un bambino crede di aver avuto un ruolo negli eventi che hanno portato alla morte di un parente o di un amico, il senso di colpa può essere predominante tra le emozioni che seguono la perdita; in questi casi, è importante discutere apertamente delle circostanze che hanno causato la morte e offrire al bambino tutte le possibilità di esplorare gli aspetti problematici legati al dolore. Quando i bambini sono lasciati a se stessi nel far fronte a emozioni confuse di colpa e di biasimo, la perdita può avere effetti traumatici che continueranno nell’età adulta. Per spiegarci meglio facciamo un esempio. Tre fratelli stavano giocando con una pistola carica: il più piccolo diede una spinta al più grande, che aveva la pistola in mano, un colpo partì e uccise il terzo. “Ho sempre dovuto lottare con me stesso, chiedendomi se mio fratello sarebbe morto lo stesso se non avessi dato una spinta all’altro” dice il protagonista ormai trentunenne, ricordando gli eventi avvenuti più di un quarto di secolo prima. “Ho sempre pensato di aver fatto la cosa giusta, perché stavo cercando di prevenire un incidente, ma nessuno ha mai cercato di parlarmi dei miei sentimenti di confusione e dubbio. Per anni mi sono addormentato piangendo, notte dopo notte.” Anche quando è ovvio che un bambino non ha responsabilità, lo si dovrebbe incoraggiare a esternare le sue emozioni e i suoi sentimenti sugli avvenimenti che hanno causato la morte. L’esperienza che il bambino fa può essere molto diversa da quella degli adulti del suo ambiente.

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Nel vivere il dolore, i bambini a volte dimenticano in modo selettivo o cercano di ricostruire la realtà nel modo migliore e più comodo. Un bambino può non ricordare la paura provata nel vedere un fratello o una sorella in un letto d’ospedale, circondato da terribili apparecchi, oppure può ricordare una lunga malattia, durante la quale il fratello o la sorella erano “solo via da casa per fare degli esami”. I dettagli dimenticati o le immagini ricostruite forniscono un modo per superare l’esperienza senza essere travolti da ricordi dolorosi. L’età e lo sviluppo cognitivo influenzano il modo in cui i bambini reagiscono alla perdita, ma vi sono presenti molte altre componenti che lo influenzano, e le reazioni degli adulti non sono sicuramente fra le ultime. La morte di un animale domestico Quando muore un animale domestico gli adulti si chiedono quale sia il modo migliore per presentare questa perdita al figlio: bisogna minimizzare o cogliere l’occasione per spiegare al bambino cosa significhi la morte e cercare di sondarne i sentimenti? Una mamma descrive come le sue figlie reagirono alla morte di una nidiata di conigli13: alla notizia, la piccola di sette anni scoppiò in lacrime e urlò “No, non voglio!”, mentre quella di cinque anni sulle prime rimase zitta poi chiese di chiamare il babbo al lavoro e gli disse: “Se fossi stato qui babbo, avresti potuto fare il dottore dei conigli “esprimendo così un modo di pensare consono all’età, ossia che il genitore dovesse essere in grado di salvarli o riportarli in vita. Più tardi, quando si misero a scavare una fossa per seppellire i conigli, la bambina di sette anni, che non aveva ancora smesso di piangere da quando aveva ricevuto la notizia, smise, mentre la sorellina più piccola continuava a ripetere “I coniglietti sono morti, i coniglietti sono morti” in modo monocorde. Nei giorni seguenti, le bambine fecero molte domande. La grande era molto interessata al marito di un’amica di famiglia che era rimasta vedova. Si domandava quanto la vedova pensasse al marito e perché si dovesse venire strappati a chi si amava. La piccola continuava a soffrire in silenzio, fino a che la mamma non la incoraggiò a parlare e allora cominciò a singhiozzare. Alla fine disse “Sono felice di avere solo cinque anni: moriamo solo quando siamo vecchi.” Per la più piccola il primo pensiero andava a sé stessa, alla preoccupazione per la sua morte, mentre la bambina più grande si preoccupava della durata della relazione; mostravano modi diversi di reazione ma entrambe palesarono il bisogno di avere vicini i genitori nei giorni che seguirono, e continuarono a raccontare spesso della morte dei conigli, metabolizzandola. Naturalmente, non solo i bambini rimangono sconvolti per la morte degli

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animali domestici, una donna descrive la reazione del marito alla morte di Iggy, un’iguana del deserto. Quando l’iguana14 morì, il marito “pianse per tutto il tempo mentre la seppellivano in una scatola da scarpe in giardino”, e più tardi lui stesso disse che aveva pianto per ogni animale che aveva avuto e amato. La morte di un animale domestico può evocare sconforto e incredulità, fissazione sulla perdita, inclinazione a ricordare l’animale, rabbia, depressione, e tutta una gamma di sfumature mentali ed emotive legate al dolore che segue una perdita importante. Molte persone non pensano all’animale come a qualcosa che si possiede o come a un compagno, ma come ad un componente della famiglia15: di conseguenza l’attaccamento tra esseri umani e animali può diventare molto forte. Purtroppo, il lutto per un animale suscita a volte derisione, alcuni affermano che il proprietario sta esagerando e dicono “Ma era solo un animale!” Allan Kellehear e Jan Fook sottolineano che “nonostante che in certi ambienti ci sia la tendenza a minimizzare questa perdita, la letteratura sul rapporto persone-animali quando parla del lutto dei proprietari, riporta la stessa intensità e varietà di espressione del dolore che è possibile provare per le perdite umane.”16. Gli specialisti che offrono supporto a chi ha perso un animale domestico, mettono in evidenza come i sentimenti di perdita siano espressi in uguale misura dai bambini e dagli adulti. Nel sostituire un animale ci si deve concedere un tempo sufficiente per affrontare il dolore prima di acquistarne un altro. Questo tempo può variare da qualche settimana a dei mesi o può essere anche più lungo; i legami d’attaccamento che si avevano per l’animale defunto possono mettere in discussione la transizione affettiva a un altro animale, se il naturale processo di lutto viene prematuramente abbreviato o ignorato. Se un legame tra animale e proprietario è interrotto dalla morte, si riconosce ora in modo sempre più diffuso che il significato di una perdita del genere è una causa naturale di lutto.17. Infatti, come osserva Avery Weisman “la profondità della relazione uomo-animale supera spesso quella che intercorre tra un essere umano e un suo parente18, e per questa ragione il lutto per la perdita di un animale deve essere considerata una normale esperienza di lutto per bambini e adulti. La morte di un genitore Di tutte le morti di cui si può fare esperienza nell’infanzia, la più grave è sicuramente quella di un genitore19. Questa morte è sentita come una perdita della sicurezza, del nutrimento, dell’affetto, una perdita di supporto emotivo e psicologico sul quale il bambino faceva affidamento. Sulla base dei dati derivati dallo Studio sul Lutto Infantile, Phyllis Silverman e i suoi colleghi concludono che i bambini che hanno perso un genitore, di solito, mettono insie-

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me ricordi, sentimenti e azioni legati al genitore morto in modo da arrivare ad una “ricostruzione” della sua immagine.20 Si tratta di una “rappresentazione interna” che permette al bambino di sostenere la sua relazione con il defunto, una relazione che “cambia man mano che il bambino matura e al diminuire dell’intensità del dolore”. Nel tempo, il bambino negozia in continuazione il significato della perdita, essa è permanente e immutabile; ciò che muta è il modo di reagirvi. Se la morte di un genitore avviene quando il bambino è molto piccolo, una componente importante del cordoglio consiste nell’elaborare il lutto per gli anni di relazione persi per la morte prematura. Ci può essere una sensazione costante di sospensione, per “non aver mai conosciuto il genitore morto.” Si prenda in considerazione la morte in guerra di un genitore, emozioni molto potenti possono rimanere sepolte per anni fino a che un qualche stimolo, forse qualche documento militare che rispunta o la visita a un cimitero di guerra, non porta la perdita in superficie. Il condividere la perdita con gli altri può aiutare a guarire; alcuni dei bambini che hanno perso un genitore nella guerra del Vietnam trovano sollievo nel riunirsi in una organizzazione nazionale, “Sons and Daughters in Touch”, “Figli e figlie in contatto”: è un modo per condividere questo peso.21 Per comprendere i loro lutti parlano con altri veterani e così possono farsi un’idea del genitore che non hanno pienamente conosciuto. A volte i bambini si assumono le responsabilità per la morte di una persona cara e se si immaginano che sono stati in qualche modo la causa della morte, si potranno sentire colpevoli e attribuirsene la colpa. Ad esempio, un bambino la cui madre è morta di cancro, può ricordare di avere fatto rumore, quando suo madre desiderava riposare e pensa “se fossi stato più disciplinato, mamma sarebbe guarita”. Il fatto stesso d’essere vivo, mentre il genitore è morto, può generare nei bambini il “senso di colpa del sopravvissuto”, come illustra il disegno fatto da un bimbo di quattro anni il cui padre morì di leucemia (Fig. 9-1). Qualche tempo dopo la morte del padre, mentre il bambino stava giocando con carta e matite, chiese alla mamma di fare lo spelling di diverse parole. Incuriosita dall’attività del figlio, la mamma notò che egli aveva fatto un disegno del padre, nel quale il padre urlava al figlio “Sono arrabbiato con te!”. Sorpresa per questa rappresentazione di rabbia, la madre chiese spiegazioni e il figlio rispose “Perché io e te possiamo ancora giocare insieme e babbo non è più con noi”. Tra i sentimenti confusi che la morte del padre aveva fatto emergere, il figlio stava ancora cercando di venire a patti con la sua stessa sopravvivenza. In questa circostanza, la mamma reagì come se il figlio fosse un sopravvissuto e molto saggiamente disse “Parlami di questo disegno”, e iniziò a fare

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Figura 9-1. “Sono arrabbiato con te”, disegno di un bambino di quattro anni: In seguito alla morte del padre, un bambino di quattro anni lo ritrae mentre esclama: “Donovan, sono arrabbiato con te.” Si noti che il padre è ritratto con la calvizie dovuta alla chemioterapia. Mentre tale calvizie è una rappresentazione accurata dell’aspetto fisico del padre, l’assenza di braccia riflette la percezione emotiva della situazione da parte del bambino. Le braccia si distendono, abbracciano e avvolgono, esse sono il mezzo comune con cui gli esseri umani esprimono reciprocamente il proprio affetto. Negli stadi più avanzati della malattia del padre, il dolore era così forte che egli non era più in grado di prendere tra le braccia il figlio. In questo disegno il bambino ritrae la propria esperienza di questa situazione. Si noti anche che il disegno mostra il corpo del padre rivolto verso l’osservatore, mentre i piedi sono disegnati in basso, verso l’angolo, come se dirigessero fuori dalla pagina. Ancora una volta, il disegno riflette l'esperienza del bambino, questa volta mostrando la percezione dell’allontanamento del padre dalla sua vita. È rilevante il fatto che la madre abbia usato questo disegno come un’opportunità per parlare con il bambino della morte del padre.

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domande aperte per sollecitare informazioni sui sentimenti del bambino, cosa che le permise di rispondere in modo diretto alle sue preoccupazioni. I disegni spontanei e altre forme terapeutiche d’arte sono metodi eccellenti per lavorare con i bambini piccoli, perché questi strumenti li aiutano a esplorare ed esprimere sentimenti che altrimenti rimarrebbero sepolti, pur continuando ad essere disturbanti.22 Usare l’arte con i bambini in lutto li aiuta a lavorare sul loro dolore, in un ambiente sicuro e giusto, per esprimere le loro emozioni e preoccupazioni.23 La morte di un fratello o di una sorella A differenza della morte di un genitore, la morte di fratelli e sorelle non rappresenta, di solito, una perdita di sicurezza per il bambino: la sicurezza rimane anche se l’effetto di questa perdita potrebbe accrescere il senso di vulnerabilità alla morte, specialmente se le età del defunto e del superstite sono simili. Betty Davies commenta che si dà una scarsa attenzione al lutto dei fratelli e delle sorelle superstiti.24 Quando un bambino muore, l’attenzione si sposta sui genitori, piuttosto che sugli altri fratelli e sorelle; anche negli Stati Uniti, dove le famiglie di solito non sono numerose e l’evento può far diventare il superstite figlio unico. Perdere un fratello o una sorella può essere un’esperienza di solitudine: un bambino ha detto: “Era come se babbo e mamma fossero l’uno per l’altra, mentre io non avevo nessuno”. Un fratello o una sorella possono avere il modo di chi protegge e si prende cura del bambino oltre che essere compagni di giochi. Il bambino che sopravvive può essere in lutto per la perdita di una relazione unica e irripetibile e può sorgere in lui la preoccupazione che quella protezione e quella cura non verranno più da nessun’altra parte; ma potrebbe anche accadere che fosse addirittura sollevato e contento: rimasto solo, egli potrà essere al centro dell’attenzione della famiglia. Nel venire a patti con questo tipo di lutto, le tante emozioni possono provocare senso di colpa e confusione. Per gli adolescenti in lutto, lo sforzo di lottare con la perdita può intrecciarsi con il compito, proprio dell’età dello sviluppo, di trovare un senso alla vita, un compito che di solito comprende domande complesse sul valore delle religioni e sull’esistenza di Dio. David Balk osserva come, una morte di un fratello o di una sorella, mandi in frantumi “la fiducia in un universo benigno e innocente” e faccia esplodere le “domande sulla natura della vita e della morte, sul bene e sul male e sul significato della vita personale”.25 Far fronte alla morte di un fratello o di una sorella può comportare una maturazione dal punto di vista cognitivo e anche del ragionamento sociale, dei giudizi morali, della formazione dell’identità e delle pratiche religiose. I giovani in lutto cita-

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no spesso la religione come una risorsa importante per far fronte alle perdite, una fonte di significato che fornisce aiuto nella ricerca di senso conseguente alla tragedia. Gli adolescenti in lutto riferiscono spesso anche un senso di “presenza costante” del legame con i fratelli morti, mentre portano avanti la “conversazione” con loro e si prendono il tempo necessario perché “si mettano in pari” con le attività che prima caratterizzavano la loro esistenza.26 Di solito i bambini cercano l’aiuto dei genitori per comprendere il significato della morte di un fratello o di una sorella e nel far fronte come famiglia all’evento. I modi di reagire dei genitori possono essere importanti per determinare la reazione stessa del bambino. A volte la reazione della famiglia mostra schemi disfunzionali che rendono difficile la reazione al bambino superstite. Queste reazioni possono variare dal risentimento chiaramente espresso, a tentativi di trasferire nel figlio che resta le caratteristiche di quello morto: atteggiamenti simili possono avere luogo anche in famiglie dove la reazione alla morte di un figlio si svolge in modo positivo. Nel processo che porta i genitori a venire a patti con la morte di un bambino, è possibile che il contatto con il figlio sopravvissuto sia ridotto al minimo, anche se in modo non intenzionale: il figlio vivo può rappresentare un memento doloroso di quello perso. Al contrario, alcuni genitori possono diventare esageratamente apprensivi. Il bambino in lutto deve avere la possibilità di riconoscere ed esprimere il proprio dolore. Se, ad esempio, il soggetto esprime colpa, gli si potrebbe chiedere che cosa lo indurrebbe a perdonarsi. I sentimenti di colpa sono spesso collegati alla normale competitività presente tra fratelli. La sorella alla quale, al mattino, si dice arrabbiati “Ti detesto!” potrebbe essere morta al pomeriggio, vittima di un incidente in bicicletta. Un bambino può interpretare la sua rabbia verso la sorella come l’evento che ne ha causato la morte in una relazione causa-effetto. A volte si esprime questa responsabilità come preoccupazione, con un elenco di “e se avessi…”. Un bambino di cinque anni il cui fratellino fu investito da un camion mentre giocavano all’aperto, disse poi alla mamma “Avrei dovuto…avrei dovuto…”. Si vedeva come protettore del fratello e responsabile della sua sicurezza. La mamma gli chiese “Ma cosa avresti dovuto fare?” “Avrei dovuto, e basta!”. Poi la mamma gli chiese “Ma cosa vuoi dire con “avrei dovuto”?” e il figlio “Avrei dovuto guardare, avrei dovuto sapere, avrei dovuto…”: una sfilza di avrei dovuto che esprimevano il fatto che si riteneva protettore e guardiano del fratellino. Abbracciando il figlio, la mamma disse “Sì amore, ma sono babbo e mamma a essere responsabili per tutti questi “avrei dovuto…. Sono tutti nostri ed è giusto che sia così. È giusto sapere che tutti avrebbero potuto fare qualcosa di diverso, e l’avrebbero fatto, se ne avessero avuto la possibilità.”

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Figura 9-2. Il disegno di un “Giorno Storto” di un bambino di 5 anni. In questo disegno, “Il giorno storto”, un bambino di cinque anni illustra la propria esperienza degli eventi del giorno in cui il fratello viene ferito mortalmente in un incidente. Contrariamente a ciò che si possa pensare di questo disegno, i punti della linea che evidenziano il maggior stress corrispondono a momenti successivi all'incidente stesso. La linea bassa e netta alla sinistra del disegno rappresenta l’incidente; il punto in cui la linea torna indietro ripiegandosi su se stessa denota il tempo in cui il bambino sopravvissuto viene lasciato da un vicino di casa mentre i genitori sono all’ospedale con il fratello. Tale momento è caratterizzato da incertezza e confusione e il bambino è arrabbiato perché non è con gli altri membri della famiglia. Il punto in cui i genitori tornano e lo informano della morte del fratello è indicato dalle linee oblique verticali che sono state letteralmente stilettate sulla carta. La linea dentellata che connota il resto della giornata rappresenta il cambiamento che avviene nel momento in cui il bambino e i genitori iniziano ad affrontare lo shock iniziale della perdita. Significativamente, il disegno finisce con una linea inclinata e ascendente, indice di un atteggiamento essenzialmente positivo, ovvero la capacità del bambino di riuscire a trattare l’esperienza della perdita in maniera costruttiva. Questo disegno dimostra che anche un’espressione artistica semplice, come una linea che descrive la cronologia degli eventi, può rivelare un’abbondanza di dettagli sul modo in cui un bambino vive un evento traumatico come la morte.

Permettere al bambino di partecipare all’esperienza della famiglia aiuta il bambino ad affrontare le crisi, come è evidente dal disegno di un bambino di cinque anni che era presente all’uccisione del fratello (Fig. 9-2). Il disegno rappresenta “il giorno in cui mio fratello fu ucciso”. Il momento di maggior disperazione sembra essere quando il bambino fu affidato a un vicino mentre i genitori erano all’ospedale. La sensazione di essere stato lasciato solo, lontano dal resto della famiglia, senza sapere cosa stesse succedendo ai genitori e al fratellino, era anche peggiore dell’avere visto la testa del fratello schiacciata da una ruota del camion. Oltre ad incoraggiare il figlio ad esprimere i suoi sentimenti, la famiglia cercò anche altri modi per reagire alla tragedia. Proprio nel periodo in cui il figlio, con i suoi disegni, faceva emergere la sua rabbia e la lasciava venire fuori, i genitori – tramite le strutture terapeutiche presenti sul territorio – ricevettero aiuto da gruppi d’appoggio, condividendo il cordoglio con altre persone che avevano vissuto tragedie analoghe. Gli studi sul lutto degli adolescenti ci dicono che il supporto che questi ritengono più utile è quello delle persone “che erano lì, quando ne avevo bisogno”27.

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Gruppi di supporto per bambini Il supporto della comunità può essere un altro fattore importante, da aggiungere al sistema di supporto che la famiglia mette in atto. Molte organizzazioni che aiutano le famiglie nelle crisi provocate dalle malattie e dal lutto, sottolineano come ogni componente della famiglia deve essere aiutato, tutti, compresi i bambini. Le organizzazioni come The Compassionate Friends – Gli amici caritatevoli – e quella The Bereaved Families – Famiglie in Lutto –, non sono utili solo ai genitori che soffrono, ma anche ai bambini e agli adolescenti. Il Dougy Center for Grieving Children di Portland nell’Oregon – Centro per Bambini in Lutto – è riuscito a fornire programmi d’emergenzalutto e distribuisce le sue pubblicazioni in tutto il mondo28. Nel Maryland, la struttura Hospice Frederick County offre un programma innovativo per ragazzi dai sei ai quattordici anni che sono messi in contatto con un gruppo di adulti, molti dei quali si stanno riprendendo dal lutto29. Camp Jamie, così chiamato dal nome di un paziente morto prima di compiere tre anni, è un luogo dove si cerca di fornire ai bambini “Un porto dove imparare a reagire al dolore”. Durante un incontro residenziale di un fine settimana tra montagne idilliache, i partecipanti prendono parte ad attività ricreative e hanno l’opportunità di esplorare il significato di quella perdita in un ambiente protetto, all’interno del gruppo dei pari età e tra compagni più grandi. Altri gruppi forniscono supporto sociale a bambini con gravi patologie. Un’organizzazione chiamata Hugs (l’acronimo significa “abbraccio” e sta per Aiuto, Comprensione, Supporto di Gruppo per i Bambini Gravi delle Hawai e per le Loro Famiglie), fondato nel 1982, offre una vasta gamma di servizi gratuiti, tra i quali, un pronto soccorso crisi, ventiquattro ore su ventiquattro, visite a casa e in ospedale, trasporti ad appuntamenti medici, attività ricreative nei momenti di pausa dalle cure. I bambini e le famiglie possono usufruire dell’aiuto del counseling, una terapia psicologica breve, per imparare a gestire la paura, la rabbia, e l’angoscia, e viene anche offerto supporto quando un bambino muore. Organizzando il lavoro di volontari addestrati e di uno staff di professionisti, Hugs mette a disposizione dei servizi “per aiutare le famiglie a restare unite di fronte alle avversità”30. Un altro tipo d’offerta a livello sociale sono i gruppi di supporto telefonici che sono stati usati da molti tipi di persone, inclusi i bambini. Il telefono venne usato per la prima volta come metodo di salvataggio per la prevenzione del suicidio dai Samaritani di Londra nel 195331. Recentemente la Pediatric Branch of the National Cancer Institute – Unità Pediatrica dell’Istituto Nazionale dei Tumori – ha creato un network per offrire assistenza sociale ai bambini affetti da hiv. Gli organizzatori hanno scoperto che il telefono offre “una sensazione di confidenza” che non si riscontra nei gruppi, “fornendo

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così” un modo creativo e terapeutico per aiutare i bambini affetti da hiv e le loro famiglie a reagire “all’impatto che la malattia ha determinato sulle loro vite.” Tra i partecipanti vi è un notevole grado d’apertura e condivisione di paure e preoccupazioni comuni. I bambini con malattie mortali e altre malattie gravi ricevono anche un aiuto dalla condivisione delle loro preoccupazioni sulla rete Internet, in ambienti virtuali che collegano i partecipanti tra loro e creano comunità on line32. Un appoggio a bambini molto gravi proviene da associazioni che hanno come missione quella di fare in modo che i bimbi, ai quali è stata fatta una diagnosi di malattia letale, possano esaudire i loro ultimi desideri. La Sunshine Foundation, fondata nel 1976 e la Starlight Foundation, del 1983, ne sono due esempi33. Grazie a questi gruppi, i bambini e le famiglie possono fare una vacanza assieme o esaudire dei desideri che, senza aiuto esterno, sembrerebbero impossibili da realizzare.

Aiutare i bambini a reagire al cambiamento e alla perdita Come può un genitore, o un’altra persona, aiutare il bambino a reagire all’esperienza della perdita? E come influiscono gli schemi familiari e gli stili comunicativi sull’abilità di reazione di un bambino? Quale assistenza fornire dopo un decesso? Se i bambini si sentono trattati come protagonisti della situazione in cui si trovano è più facile per loro reagire ai sentimenti che una morte o una malattia grave suscitano in loro. Se vengono esclusi o se non si risponde alle loro domande, l’incertezza può aggravare l’ansia e la confusione. Quando anche un adulto si sforza di reagire a un’esperienza traumatica, è difficile spiegare queste circostanze a un bambino. Data la natura della crisi e per la stessa idea che i bambini abbiano una limitata capacità di comprensione, si può tendere a non considerare o a ignorare i sentimenti e le preoccupazioni di un bimbo. Anche se di solito gli adulti si dicono d’accordo con l’idea che si debba dire al verità ai bambini, è però possibile che si sentano a disagio nel comunicargli notizie dolorose. Spesso gli adulti si domandano se ai bambini non faccia peggio sapere la verità. Tuttavia, la naturale curiosità infantile rende di solito inefficace tale opzione. Linee guida: come fornire le notizie Reagire alla naturale curiosità e alle preoccupazioni di un bambino non significa né sopraffarlo senza garbo di dettagli eccessivi né minimizzare, co-

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me se egli non fosse in grado di capire. Ad ogni modo, è necessario che i genitori tengano in considerazione il modo che i bambini hanno di percepire, sperimentare e reagire al cambiamento, se vogliono essere di qualche utilità a un bimbo in crisi. Questo vuole dire, rispondere alle sue domande in modo che siano per lui comprensibili. Come linea guida generale, è importante essere semplici, attenersi ai fatti e verificare che il bambino abbia capito. Parlare della morte prima che sopravvenga Anche se i bambini si modellano sull’influenza che i compagni hanno su di loro e da quanto si impara in classe e fuori, i comportamenti dei genitori hanno un’influenza significativa sul modo in cui si rapportano alla morte; ed è per questo che i genitori si pongono delle domande: cosa capisce un bambino? Come devo iniziare a parlarne? Abbiamo visto che i bambini sviluppano idee proprie sull’argomento, sia se i genitori ne parlino, sia se non ne parlino, e anche se l’argomento è considerato tabù. I bambini vogliono sapere della morte, così come vogliono sapere di qualsiasi altra cosa incontrino sul loro cammino. Un bambino scrisse “Caro Dio, cosa succede quando si muore? Nessuno me lo dice. Io lo voglio solo sapere. Non voglio farlo.” L’onestà è la cosa principale se si discute di questo argomento con i piccoli. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che un genitore che voglia parlare della morte si può trovare a farlo proprio quando è stanco o quando preferirebbe evitare l’argomento. Se il discorso è parte della vita di tutti i giorni e non la reazione a una crisi, scegliere il momento più adatto è più facile. La seconda cosa da tenere in mente è che è meglio non rimandare altrimenti ci possiamo trovare di fronte alla necessità di farlo imposta da un lutto, e allora dobbiamo fornire una spiegazione nel bel mezzo di un momento di crisi. Questa brutta evenienza si può verificare se si rimanda “perché tanto non succederà”, solo per scoprire poi “che sta capitando davvero e devo dire qualcosa a mio figlio”. In situazioni simili, la spiegazione che forniamo al bambino sarà carica di tutta l’emozione del momento e per questo è più difficile ottenere un comunicazione efficace. Ecco che allora è bene sfruttare le attività quotidiane come “momenti di insegnamento” per parlare ai bambini della morte (una ulteriore trattazione è fornita al capitolo 2)34. Il terzo punto da rispettare, consiste nel dare le informazioni rispettando il livello di comprensione del bambino: sfruttandone l’interesse e la sua abilità di comprensione il genitore può fornire una spiegazione che sia appropriata al particolare bambino a cui sta parlando. Quando si parla della morte con i bambini, è importante verificare cosa loro pensano che gli sia stato detto, in modo da capire cosa ne sanno e che cosa gli abbiamo detto noi. I bambini hanno la tendenza a generalizzare dai concetti per fare in modo che le nuove esperienze vi si adeguino, il che porta

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spesso a un’interpretazione molto letterale delle nuove informazioni, specie con bambini molto piccoli, che tendono a privilegiare l’aspetto concreto delle faccende. Tenendo in mente questo fatto, fate in modo che il vostro discorso sia privo di associazioni che potrebbero portare a fare confusione. Le spiegazioni metaforiche della morte vi possono aiutare a disegnare uno schema a misura di bambino, ma fino a che la fantasia non sarà chiaramente separata dalla realtà i bambini possono fermarsi alla metafora e non cogliere ciò che è sottointeso. La storia che riportiamo fornisce un esempio. A una bambina di cinque anni viene detto che il tumore del nonno è come un semino che cresceva nel suo corpo, e che cresceva e cresceva fino a che, non potendo più vivere nel suo corpo, il nonno morì. I genitori non fecero caso al fatto che la bambina non mangiò mai più dei semi, per tutta l’infanzia, nemmeno un semino di cetriolo, o di melone, fino a che a ventun anni non le venne chiesto perché evitasse in modo così bizzarro i semi. E la risposta automaticamente fu “Se li ingoi poi muori”. Dopo tutto quel tempo vide l’errore che la portava a evitare i semi. Le sarebbe stato certo utile se a cinque anni qualcuno le avesse chiesto: “Cosa succede se mangi un semino?”. La malattia grave all’interno della famiglia Se un componente della famiglia ha una malattia grave, la routine ne risulta sconvolta. Se al bambino non viene detta la verità sulla malattia, ciò può impedirgli di capire chiaramente i motivi dei cambiamenti nel normale svolgersi delle interazioni famigliari. Il bimbo può sentirsi trascurato, escluso dalle attività della famiglia o ignorato senza che ci sia un motivo reale. “Perché i miei genitori sono così buoni con mia sorella e invece mi ignorano?” oppure “Perché a mio fratello le fanno passare tutte mentre io ho dei problemi qualsiasi cosa faccia?” I fratelli o le sorelle di un bambino ammalato di cancro, possono allarmarsi per i cambiamenti che vedono nel malato a causa degli effetti collaterali delle cure o della malattia stessa35. I bambini con fratello o sorelle affetti da HIV possono dover sopportare molti lutti, compreso, a volte, quello di un altro componente della famiglia; e dover inoltre sopportare sistemazioni imprevedibili e cambi di scuola e altre questioni relative a allontanamento sociale, segretezza e vergogna36. Sebbene la comunicazione è importante nell’aiutare il bambino a far fronte alla crisi, è anche vero che le spiegazioni che gli si danno devono essere adatte alle capacità cognitive del soggetto. A un bambino molto piccolo con un genitore in gravissime condizioni si può anche dire solo “Mamma ha la bua nel pancino e i dottori stanno provando a guarirla”, mentre a un soggetto in età scolare può essere data una spiegazione più complessa, ad esempio che il genitore ha bisogno di cure perché ha qualcosa nello stomaco che non ci dovrebbe essere.

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L’ansia per la malattia di un genitore, un fratello o una sorella si può manifestare in molti modi. Il bambino si può arrabbiare perché la “Mamma non c’è” e allo stesso tempo sentirsi in qualche modo colpevole per la malattia. Per bilanciare questi sentimenti contrastanti si può coinvolgere il bambini nel prendersi cura del malato in modi consoni. Ad esempio, gli si può far preparare un mazzo di fiori o un disegno da portare in dono. Queste attività permettono al bambino di esprimere i suoi sentimenti di amore e gentilezza. I bambini possono sentirsi trascurati e possono prendersela per i cambiamenti che devono apportare alle loro vite. Per contrastare queste sensazioni è bene aiutare il bambino a sentirsi parte pienamente attiva della famiglia. Incoraggiate poi il bambino a essere presente al processo di gestione della malattia. Questa partecipazione aiuta a promuovere la normalità negli stili di comunicazione familiare e nelle abitudini. Anche se i bambini non possono essere protetti dall’evidenza della morte, si può fare in modo che la loro esperienza sia il meno difficile possibile potendo disporre di un aiuto sensibile e attento delle persone che sono loro più vicine. Il periodo che segue la perdita Di solito abbiamo la tendenza a pensare che gli altri condividano la nostra esperienza del mondo. Ognuno di noi ha una percezione propria della realtà: sviluppare l’ascolto è necessario se vogliamo poter capire come l’altro percepisce il tutto. Lo scopo è scoprire cosa l’altro pensa, sente e crede, quello che ritiene importante e quali siano le sue preoccupazioni, timori e speranze. Dobbiamo poter capire se il bisogno di aiuto o assistenza sia espresso e di quale tipo di aiuto ha bisogno. Domande di questo tipo sono di particolare rilevanza per aiutare i bambini a reagire alla perdita. Dobbiamo essere disponibili ad ascoltare e accettare la realtà dell’esperienza del bambino. Quando la morte distrugge gli schemi di riferimento familiari, ne possono conseguire confusione e conflitto, il che può creare un groviglio di emozioni e pensieri che è difficile sciogliere. In mezzo a tutto ciò, è possibile che ai bambini venga chiesto di rimanere “buoni”, frustrando così la loro naturale tendenza a esplorare e analizzare le emozioni e i sentimenti generati dai cambiamenti. Fare attenzione al comportamento di un bambino è utile per raccogliere informazioni su come sta gestendo la crisi. Il pianto ad esempio è la risposta naturale alla perdita di una persona amata. Intimare “Sii coraggioso!” oppure “Fai l’ometto adesso e stai dritto!” nega la validità della sua spontanea emozione umana. Per aiutare un bambino a gestire una perdita, l’adulto si deve sforzare di rispondere onestamente e in modo diretto alle domande, con spiegazioni attinenti ai fatti ed esempi concreti. Dire a un bambino che il suo pesce rosso è “andato in paradiso” può portare a immagini elaborate di cancelli dorati e di

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sezioni del paradiso per pesci, gatti ed esseri umani, un concetto molto logico, che per i bambini ha senso. Dobbiamo fare attenzione a non portare ai soggetti degli esempi che possono poi rivelarsi poco funzionali. Una donna ricorda come il suo cane preferito, che aveva quando era piccola, dovette “andarsene a fare un lungo sonno” e solo quando aveva sette anni si rese conto che il cane non era andato a fare una dormita al canile. Se Rover se ne doveva andare per “una dormita” un saluto svelto era sufficiente, ma la bambina di arrabbiò molto quando capì che il suo cane preferito era morto senza che lei avesse avuto la possibilità di accomiatarsi adeguatamente. Allo stesso modo, il credo religioso è una componente importante di come viene interpretata la morte in molte famiglie, nelle quali i genitori vogliono condividere questo credo con i figli quando si trovano di fronte alla morte di un famigliare o di un amico. I bambini possono in effetti trovare conforto in queste pratiche ma è bene dire loro che sono credenze. Bisogna fare attenzione nel parlare con i piccoli in modo da non creare confusione: ad esempio, un adulto può avere una visione dell’aldilà ben diversa da quella che un bambino possa capire. Se diciamo a un bambino “Dio ha preso babbo con sé” il bambino potrà non avere sentimenti positivi verso un’entità capricciosa, che non mostra di considerare i suoi sentimenti. Ugualmente, favole e metafore dovrebbero essere evitate poiché i bambini le potrebbero prendere in modo letterale. Ad esempio, un bambino il cui fratello di nove anni aveva detto “Babbo è andato in paradiso” corse dalla mamma dicendo “Babbo è sul tetto!” e la mamma “Ma chi te lo ha detto?” “Andrew”. Il grande spiegò che stavano guardando fuori dalla finestra e che gli aveva detto che il babbo era là fuori in paradiso. Per un bambino di quattro anni il punto più alto che può associare a “lassù” è il tetto. Se decidete di dire a un bimbo di questa età che i morti sono “lassù” e gli dite anche che Babbo Natale atterra sul tetto la sera di Natale, il bambino può anche associare le due cose e pensare che i morti e Babbo Natale siano grandi amici. Può inventare storie del loro lavoro, del fatto che costruiscono giocattoli e danno da mangiare alle renne, e così via. Quanto i concetti dei bambini sulla morte siano concreti è anche bene illustrato dalla prima esperienza di una donna. Quando aveva tre anni e mezzo, la mamma morì. Sembrò che la mamma fosse come scomparsa, non sapeva cosa le fosse capitato. Un pò di tempo dopo, iniziò a capire che la mamma era morta e iniziò a fare delle domande e qualcuno le disse che la mamma era stata seppellita. La bambina si preoccupò, si domandava perché non la tirassero fuori. Altri le dicevano che la mamma era in cielo, cosicché guardava sempre in aria per vederla, e con queste due diverse idee in testa, continuava a chiedersi “Ma come può la mamma essere sepolta in aria?”. Quando si chiede ai bambini quale è stato il momento più difficile in re-

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lazione a una morte, di solito rispondono che il momento peggiore è quando non sanno cosa stia succedendo. La diagnosi di una malattia grave venne nascosta a una bambina, che racconta: “Avevamo fatto sempre tutto insieme e all’improvviso era tutto diverso e ciò mi spaventava più che quello che succedeva al mio corpo. Mi sembrava che la mia famiglia mi stesse diventando estranea.”37. I cambiamenti improvvisi all’interno degli schemi famigliari possono allarmare un bambino ed aggravare la sua ansietà per ciò cha sta capitando. Un bambino che non venga portato al funerale di un amico o di un parente può sentirsi escluso da un’attività la cui importanza per gli adulti è evidente, mentre i bimbi più piccoli possono non voler andare ai funerali. Generalmente, quelli che ci vanno dicono che l’aver preso parte li ha aiutati a capire la morte e che è stata un’occasione sia per onorare la memoria del defunto che per ottenere aiuto e conforto38. La crisi determinata in un bambino da una malattia può avere gravi ripercussioni comunicative. Una ragazza disse a un assistente: “So che morirò e voglio parlarne con mamma ma non me lo permette. Lo so che sta male, ma sono pur sempre io che devo morire”. Quando questa conversazione venne riportata alla madre, questa replicò con rabbia “Non starebbe a pensare alla morte se non glien’aveste parlato voi”. La comunicazione tra madre e figlia degenerò. Continuando a rifiutarsi di parlare dei sentimenti della figlia, lo stile di comunicazione della madre regredì fino all’uso del linguaggio con cui si parla con i bimbi piccoli: “Non sta bene, oggi, lei, eh... no, no, non parla proprio oggi, no, no...” La mancanza di apertura stava inficiando il bisogno di affetto e rassicurazione. Il momento migliore per informare un bambino che ha una brutta malattia si verifica quando egli stesso esprime curiosità, di solito con delle domande. Usando le sue stesse domande come guida, le persone che si prendono cura del bambino possono dare risposte dirette senza gravare il bimbo di fatti irrilevanti per la sua comprensione della situazione. Soprattutto, i bambini in queste situazioni hanno il bisogno di sentirsi dire che sono amati. I piccoli sono pronti a cogliere le contraddizioni in quello che diciamo sulla morte. Quando il compagno di giochi di un bimbo di tre anni morì, la mamma gli disse che Gesù lo era venuto a prendere per portarlo in paradiso e il bimbo rispose “Che cosa orribile, io voglio giocare con lui. Gesù non è buono se arriva e si prende via i miei amici.” Se parliamo della morte coi piccoli è importante prendere in considerazione il sistema di credenze del bambino, il tipo di processi mentali che adopera per capire il mondo e poi in primo luogo chiedersi “Se gli spiego la morte così e così, come la capirà?”.

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I libri come strumenti di comprensione Usare i libri come terapia facilita il discorso tra adulti e bambini e crea delle opportunità di condivisione dei sentimenti. La maggior parte delle librerie ha una buona scelta di libri per bambini sulla morte e il lutto e romanzi, sia tratti da fatti veri che inventati vengono pubblicati regolarmente, con al centro la morte di genitori, nonni, fratelli e sorelle, altri parenti e anche animali. Prima di scegliere un libro simile è importante che lo esaminiate con attenzione, sia per capirne le qualità letterarie sia per vedere come affronta il discorso della morte. I libri per bambini e quelli per adolescenti sono utili in determinate situazioni. Ad esempio, La morte dei dinosauri: una guida per capire la morte è un libro per immagini, è adatto ai bambini piccoli e può essere usato per facilitare la comprensione della morte dal punto di vista emotivo, ossia per capire come ci si sente quando muore qualcuno che amiamo. Leggendo questo libro con i genitori, un bambino iniziò a fare domande ogni volta diverse sulla morte della sua maestra d’asilo. Nello scegliere questi libri per bambini è anche necessario prestare attenzione al linguaggio usato dall’autore per descrivere la morte e il lutto. Gli eufemismi come “prossimità”, “trapasso” e “superare la perdita” possono segnalare che l’autore non ha familiarità con il mondo che circonda la teoria, le pratiche e riflessioni che ruotano attorno al lutto. Una storia che si riferisce alla morte come a un “sonno” dovrebbe destare la nostra allerta circa le idee che vuole comunicare ai bambini. Al contrario, termini diretti come “morto”, “morte”, “dolore” e “funerale” sono la dimostrazione che l’autore sta usando una terminologia onesta e accurata. Il libro giusto deve poter dare tanto agli adulti quanto ai bambini l’opportunità di parlare delle proprie esperienze (Fig. 93)39. Gli adulti si preoccupano del fatto che i bambini hanno dei contatti con la morte: va tutto bene? Non ne saranno sconvolti? È giusto che sia difficile per loro gestire la cosa? Possono superare questa perdita in particolare? Di solito i bambini si gestiscono davvero bene. Come dice Erik Erikson “I bambini sani non hanno timore della vita se i loro genitori sono in grado di gestire la morte.”40

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Libri per la prima infanzia Nicholas Allan, Heaven, New York: Harper Festival, 1997. Quando il cane Dill muore, egli condivide una visione stravagante del paradiso con il suo proprietario, Lily. Anni: dai quattro anni in su. Mary Bahr, If Nathan Were Here. Illustrato da Karen A. Jerome. Grand Rapids, Mich.: Eerdmans, 2000. Dopo la morte del suo miglior amico, un bambino riceve conforto dal richiamare i ricordi alla mente e li conserva in una scatola dei ricordi che contiene “tutte le cose migliori che ci ricordiamo di Nathan.” Età: 4-8 anni. Mary Bahr, The Memory Box. Illustrato da David Cunningham. Morton Grove, Ill.: Albert Whitman, 1995. Un bambino e suo nonno, affetto dall’Alzheimer, creano una scatola per conservare i racconti e le tradizioni della famiglia. Età: 4-8 anni. T. A. Barron. Where is Grandpa? Illustrato da Chris K. Soentpiet. New York: Phiolomel Books, 2000. Mentre la famiglia ripercorre l’evento della morte del nonno, un bambino affronta i propri sentimenti e i propri pensieri prendendo coscienza del fatto che il nonno è ancora con lui in un modo speciale in tutti i luoghi nei quali sono stati assieme. Età: 4-7 anni. Marc Brown. When Dinosaurs Die: A Guide to Understanding Death. Illustrato da Laurie Krasny Brown. Boston: Little, Brown, 1996. Questo libro, in stile da fumetto, offre conforto e rassicurazione ai bambini parlando delle loro paure riguardo alla morte e spiegando in un linguaggio semplice i sentimenti che si possono provare quando muore una persona cara e i modi con i quali è possibile ricordare qualcuno che è morto. Età: 3-8 anni. Margaret Wise Brown. The Dead Bird. New York: Morrow, 2004. Una storia semplice nella quale alcuni bambini trovano un uccellino morto, gli fanno il funerale e lo sepelliscono. Età: 4-8 anni. Eve Bunting. The Happy Funeral. Illustrato da Dinh Mai Vo. New York: Harper and Row, 1982. Il funerale del nonno di un bambino cinese-americano. Età: 3-6 anni. Eve Bunting. The Summer of Riley. New York: HarperTrophy-Cotler, 2002. Un bambino si adatta al divorzio dei genitori e alla morte del nonno stabilendo una relazione con un cane. Età: 9-12 anni. Carol Carrick. The Accident. Illustrato da Donald Carrick. New York: Seabury/ Clarion, 1976. Un bambino affronta la morte di un animale. Età: 3-8 anni. Jo Carson. You Hold Me and I’ll Hold You. Illustrato da Annie Cannon. New York: Orchard books, 1992. Una bambina e suo padre si confortano a vicenda al funerale di una prozia. Età: 4-8 anni. Seymour Chwast. Ode to Humpty Dumpty. Illustrato da Harriet Zierfert. Boston: Houghton Mifflin, 2001. Libro fondamentale per la comprensione dei rituali. Una città si riunisce per commemorare la morte di Humpty. Età: 4-13 anni. Andrea Fleck Claudy. Dust Was My Friend: Coming to Terms with Loss. Illustrato da Eleanor Alexander. New York: Human Sciences Press, 1985. Un bambino di otto anni piange la morte del suo amico di dieci anni, morto in un incidente d’auto. Età: 6-9 anni. Eleanor Coerr. Sadako and the Thousand Paper Cranes. Illustrato da Ronald Himler. New York: Putnam, 1977. La storia della malattia e della morte di una bambina giapponese affetta di leucemia derivante dal bombardamento su Hiroshima, il suo coraggio e la sua commemorazione da parte dei compagni di classe e della comunità. Età: 7-10 anni. Miriam Cohen. Jim’s Dog Muffins. Illustrato da Lillian Hoban. New York: Greenwillow, 1984. Un amico e un insegnante aiutano un bambino ad affrontare la morte del suo cane. Età: 3-8 anni. Janice Cohn. I Had a Friend Named Peter: Talking to Children About the Death of a Friend.

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Illustrato da Gail Owen. New York: Morrow, 1987. Quando il compagno di giochi di Betsy muore a causa di un incidente mentre raccoglie la palla in mezzo alla strada, i genitori, l’insegnante e i compagni di classe l’aiutano ad affrontare la perdita e descrivono l’imminente funerale e la sepoltura, invitandola a partecipare, se lo desidera; include due sezioni, una per genitori e una per i bambini. Età: 4-7 anni. Janice Cohn. Molly’s Rosebush: A Concept book. Illustrato da Gail Owen. Morton Grove, Ill.: Albert Whitman, 1994. Attraverso la storia di Molly, la cui madre sta soffrendo per un aborto spontaneo, questo libro offre una guida ai genitori in merito al modo in cui i bambini sono influenzati da tale tipo di perdita e fornisce una spiegazione della perdita adatta ai bambini piccoli. Età: 3-6 anni. Bill Cosby. The Day I Saw My Father Cry. Illustrato da Varnette P. Honeywood. New York: Scholastic, 2000. La morte improvvisa di un amico di famiglia come occasione di esperienza e di espressione del cordoglio. Età: 4-10. Tomie DePaola. Nana Upstairs & Nana Doawnstairs. New York: Penguin, 1978. Un bambino impara ad affrontare l’eventualità della morte della nonna e della bisnonna. Età: 3-8 anni. Dyanne DiSalvo-Ryan. A Dog Like Jack. New York: Holiday House, 2001. La storia dell’amore per un vecchio animale domestico e del dolore per la sua scomparsa. Un epilogo contiene suggerimenti per i genitori in merito alla perdita di animali domestici. Età: 4-8 anni. Mem Fox. Tough Boris. Illustrato da Kathryn Brown. New York: Harcourt and Brace, 1994. Quando il pappagallo di Boris muore, proprio lui, il pirata cattivo, dimostra di poter esprimere la propria tristezza e il proprio cordoglio. Età: 4-8. Jason Gaes. My Book for Kids with Cansur: A child’s Autobiography of Hope. Aberdeen; S. D.: Melius & Peterson, 1987. Un regalo di un bambino ad un altro bambino malato di cancro. Età: 6 anni e oltre. Mordicai Gerstein. The Mountains of Tibet; New York: Harper & Row, 1987. Ispirato al Libro Tibetano dei Morti, questo racconto illustrato usa il tema della reincarnazione per raccontare la storia di un tagliaboschi tibetano il quale, in seguito alla propria morte, si vede offrire la possibilità di andare in paradiso o di vivere un’altra vita in qualsiasi posto dell’Universo. Età: 7 anni e oltre. Charlotte Graeber. Mustard. Illustrato da Donna Diamond. New York: Macmillan, 1982. Un bambino si trova a fare i conti con l’infermità sempre più grave e, infine, con la morte del gatto che aveva fatto parte della famiglia ancor prima che lui nascesse. Età: 3-6 anni. Kathleen Hemery. The Brightest Star. Illustrato da Ron Bolt. Omaha, Neb.: Centering Corporation, 1998. Una bambina piange la morte della madre e condivide i ricordi con il padre. Età: 6-14 anni. Ann Grossnickie Hines. Remember the Butterflies. New York: Dutton, 1991. Alcuni bambini ricordano i momenti speciali passati assieme al nonno defunto, incluso ciò che egli aveva loro insegnato sulle farfalle. Età: 3-7 anni. Margaret Holmes. A Terrible Thing Happened. Washington, D.C.: Magination Press, 2000. Aiuta i bambini ad esprimere i propri sentimenti dopo aver assistito ad un incidente grave. Include una sezione di strumenti per gli assistenti socio-sanitari. Età: 4-11. Deborah Hopkinson. Bluebird Summer. Illustrato da Bethanne Anderson. New York: Greenwillow Books, 2001. Due bambini lavorano presso la fattoria del nonno, dopo la morte della nonna, prendendosi cura del suo giardino. Età: 4-8 anni. Eiko Kadono. Grandpa’s Soup. Illustrato da Satomi Ichikawa. Grand Rapids, Mich.: Eerdmans, 1999. In seguito alla morte della nonna, il nonno scrive la ricetta della minestra della nonna per i suoi amici, inclusi i suoi amici topi. Età: 4-8 anni. Lee Klein. The Best Gift for Mom. Illustrato da Pamela T. Keeting. New York: Paulist Press,

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1995. Jonathan non ricorda nulla del padre, morto quando era appena nato. Dopo aver sentito molti “racconti sul papà” dalla mamma, la sorprende con un regalo che contiene un messaggio e un ricordo. Età: 4-8 anni. Sandy Lanton. Daddy’s Chair. Illustrato da Shelly O. Haas. Rockville, Md.: Kar-Ben publishing, 1991. L’esperienza di un bambino che affronta la morte del padre. Età: 4-8 anni. Gloria H. McLendon. My brother Joey Died. Fotografie di Harvey Kelman. New York: Simon & Schuster, 1982. Le problematiche relative alla morte di un fratello raccontate dalla prospettiva di un bambino di nove anni. Età: 8 anni e oltre. Miska Miles. Annie and the Old One. Illustrato da Peter Parnall. Boston: Little, Brown, 1971. La storia dello sforzo di una ragazza navajo di prevenire l’inevitabile. Ella disfa, ogni giorno, la tessitura di un tappeto il cui completamento, ella teme, porterà alla morte della nonna. Età: 6-10. Jane Mobley. The Star Husband. Illustrato da Anna Vojtech. New York: Doubleday, 1979. Questo adattamento di un mito dei nativi americani afferma il ciclo naturale della vita, morte e rinascita. Età: 3-8 anni. Marjorie Blain Parker. Jasper’s Day. Illustrato da Janet Wilson. Tonawanda, N.Y.: Kids Can Press, 2002. Sapendo che il loro amato cane, Jasper, sta morendo e con grande sofferenza, la famiglia organizza una giornata per una celebrazione prima di portare la bestiola dal veterinario per l’eutanasia. Età: 4-8 anni. Barbara Ann Porte. Harry’s Mom. Illustrato da Yossi Abolafia. New York: Greenwillow, 1985. Una storia per bambini sulla morte di una madre. Età: 3-8 anni. E. Sandy Powell. Geranium Morning. Illustrato da Renee Graef. Minneapolis: Carol Rhoda Books, 1990. Due amici vivono ognuno la morte di un proprio genitore, in un caso, la morte è improvvisa, nell’altro caso la morte avviene in seguito ad una lunga malattia. Gli amici si aiutano a vicenda nel dolore della perdita. Età: 5-12 anni. Fred Rogers. When a Pet Dies. Fotografie di Jim Jukis. New York: Putnam, 1988. Parla di una famiglia il cui cane muore e di un’altra famiglia a cui muore il gatto. I bambini, sofferenti per tali perdite, pongono domande ai genitori e tentano di adattarsi alla propria perdita. Età: 3-8 anni. Jane Resh Thomas. Saying Goodbye to Grandma. Illustrato da Marcia Sewell. New York: Clarion, 1988. Una bambina di sette anni partecipa ai funerali della nonna e esamina i rituali assieme ai cugini e ad altri bambini. Età: 6-9 anni. Benette W. Triffault. A Quilt for Elizabeth. Illustrato da Mary McConnel. Omaha, Neb.: Centering Corporation, 1992. Quando il padre si ammala e muore, una bimba e la nonna decidono di preparare un quilt con i vestiti dell’uomo. Susan Varley. Badger’s Parting Gifts. New York: Lothro, Lee & Shepard, 1984. La storia della morte di un vecchio animale e del cordoglio di coloro che l’avevano amato. Età: 5-9 anni. Judith Vigna. Saying Goodbye to Daddy. Morton Grove, Ill.: Albert Whitman, 1991. Una bambina in età da asilo nido il cui padre muore in un incidente d’auto passa momenti molto difficili nel vivere la perdita. Con l’aiuto della madre e della nonna, ella arriva a capire la sua assenza. Età: 4-8 anni. Judith Viorst. The Tenth Good Thing About Barney. Illustrato da Erik Blegvad. New York: Atheneum, 1971. Un bambino di dieci anni pensa alle cose migliori del suo gatto, appena morto. Età: 3-9 anni. E. B. White. Charlotte’s Web. Illustrato da Garth Williams. New York: Harper & Row, 1952. Questa storia classica descrive il dolore vissuto per la morte di una grande amica - Charlotte, un ragno- e il proseguimento della sua vita tramite la sua prole. Età: 3 anni e oltre. Judy Williams. Mrs. Magruder and the Purple Hat. Illustrato da Jack Williams. Warmister,

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Penn.: MarCo Products, 1993. La storia di una legame speciale tra una bambina e un anziano vicino di casa che muore improvvisamente. Tramite un lascito e con l’aiuto della madre, Chelsea riesce ad affrontare il proprio dolore. Include un programma di quattro sessioni da usare con i bambini per aiutarli a comprendere il cordoglio. Charlotte Zolotow. My Grandson Lew. New York: Harper & row, 1974. Lew impara ad apprezzare il valore del serbare i ricordi del suo defunto nonno. Età: 3-7 anni.

Libri per l’infanzia e l’adolescenza Arno Bohlmeijer. Something Very Sorry. New York: Putnam, 1997. Basato sulla storia vera di una ragazza la cui intera famiglia viene colpita da un serio incidente d’auto, questo romanzo descrive con amorevole sensibilità il modo in cui Rosemyn e la sua famiglia affrontano i momenti dopo l’incidente, inclusa la morte della madre dopo che viene staccata dalle macchine di supporto della vita. Età: 9-12 anni. Penny Colman. Corpses, Coffins, and Crypts: A History of a Burial. New York: Henry Holt, 1997. Partendo dalla storia dell’antica Cina, arrivando all’imbalsamazione dei soldati durante la Guerra Civile, fino ad arrivare agli odierni parchi-memorial presenti su Internet e alle e-mail di omaggio, questo testo descrive il modo in cui culture e religioni differenti onorano i propri morti, permettendo, così, al lettore di vedere la morte come un’esperienza che li connette a tutti gli altri. Età: 9 anni e oltre. The Dougy Center. After a Murder: A Workbook for Grieving Kids. Portland, Ore.: The Dougy Center, 2002. Un libro interattivo con il quale i bambini imparano da altri bambini che hanno vissuto la morte di qualcuno per assassinio. Incoraggia i bambini ad esprimere i propri pensieri e sentimenti attraverso una varietà di attività, inclusi disegni, puzzles, giochi di parole e storie utili e suggerimenti di altri bambini e da adulti. Età: 9 anni e oltre. The Dougy Center. After a Murder: A Workbook for Grieving Kids. Portland, Ore.: The Dougy Center, 2001. Un libro interattivo con il quale i bambini imparano da altri bambini che hanno vissuto la morte di qualcuno per assassinio. Incoraggia i bambini ad esprimere i propri pensieri e sentimenti attraverso una varietà di attività, inclusi disegni, puzzles, giochi di parole e storie utili e suggerimenti di altri bambini e da adulti. Età: 9 anni e oltre. Paula Fox. The Eagle Kite. New York: Dell/ Laurel- Leaf, 1996. Quando Liam, uno studente dei primi anni di liceo, apprende che il padre è malato di AIDS, vive sentimenti di vergogna e tradimento, rafforzati dai segreti familiari mentre egli prende consapevolezza della verità e, infine, trova sollievo nella relazione con il padre. Età: 11-14 anni. Barbara Snow Gibert. Stone Water. Arden, N.C.: Front Street, 1996. Il nonno Hughes, dopo aver subito un pesante infarto, giace in stato di incoscienza nel letto di una casa di cura. Il nipote Grant, di quattordici anni, è sicuro che il nonno sia pronto a morire e combatte con la sua decisione di prendere la faccenda nelle proprie mani in questa storia di suicidio assistito. Età: 10 anni e oltre. Kevin Henkes. Sun & Spoon. New York: Greenwillow, 1997. Un bambino di dieci anni lotta contro il proprio dolore durante la prima estate dopo la morte della nonna amata e trova il potere del conforto che porta il ricordare le persone care scomparse. Età: 9-12 anni. Davida Wills Hurwin. A Time for Dancing. New York: Puffin, 1997. Questo romanzo tratta del modo in cui una malattia terminale influenza la vita degli amici e di altri conoscenti. Due ragazze, amiche dall’infanzia, si trovano faccia a faccia con la mortalità quando ad una delle due viene diagnosticato un linfoma istiotico, forma di cancro maligno. Età: 12 anni e olte.

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Hadley Irwin. So Long at the Fair. New York: McElderry- Macmillan, 1988. Joel Logan, un ragazzo degli ultimi anni delle superiori, scopre di dover ripercorrere il passato e elaborarlo per fare i conti con i suicidio della propria ragazza. Età: 12 anni in su. Jill Krementz. How It Feels When a Parent Dies. New York: Knopf, 1981. Un trattato fotografico corredato dalle descrizioni dei bambini delle proprie esperienze. Età: 12 anni e oltre. Madeleine L’Engle. A Ring of Endless Light. New York: Farrar, Straus & Giroux, 1980. Una ragazza affronta l’esperienza della perdita, del cordoglio e della malattia terminale scoprendo dimensioni spirituali e morali sottese. Età: 10 anni e oltre. John Myled. Death Customs. New Jersey: Silver Burdett, 1987. Una panoramica degli usi e dei costumi delle religioni e delle culture di tutto il mondo. Età: 10 anni e oltre. Joyce McDonald. Swallowing Stones. New York: Delacorte, 1997. Un Quattro di Luglio caratterizzato da un bizzarro incidente, che vede la morte di un uomo innocente e che mette assieme quattro adolescenti, le cui vite vengono drasticamente cambiate dal senso di colpa, ansia e cordoglio. Età: 12 anni e oltre. Donna Jo Napoli. Stones in Water. New York: Dutton, 1997. Basato sulla vita di un sopravvissuto e raccontato dal punto di vista di un giovane ragazzo veneziano gettato nell’acqua dai Nazisti, questa storia accompagna il lettore attraverso il graduale svolgersi di eventi fino a che essi arrivano faccia a faccia con lo scopo delle atrocità che avvennero in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Età: 10 anni e oltre. Ann Novac. The Beautiful Days of My Youth: My Six Month in Auschwitz and Plaszow. New York: Henry Holt, 1997. La memoria dell’Olocausto intensamente descritta; la vita, la morte e la sopravvivenza nei campi di Hitler. Età: 12 e oltre. Katherine Paterson. Bridge to Terabithia. Illustrato da Dona Diamond. New York: HarperTrophy, 1987 (riedizione). Questo romanzo, premio Newberry, il mondo rurale dello scolaro della quinta classe, Jess, si espande quando incontra il suo nuovo vicino, una ragazza, vero maschiaccio, di nome Leslie. Dopo un inizio un po’ duro, essi diventano grandi amici e creano un regno segreto nei boschi che chiamano Terabithia, che può essere raggiunto solo lanciandosi con una fune per superare un fiume. Quando Leslie annega cercando di raggiungere, da sola, il loro nascondiglio, la vita di Jess cambia per sempre dalla sua lotta con la rabbia e il dolore nell’affrontare la perdita. (Nel Teacher Created Materials materiali creati dagli insegnanti - È disponibile una guida per usare questo racconto in classe.) Età: 9-12. Elizabeth Richter. Losing Someone You Love: When a Brother or a Sister Dies. New York: Putnam, 1986. L’esperienza della perdita di un fratello o di una sorella raccontata dai ragazzi in un serie di interviste. Età: 10 anni e oltre. Gary D. Schmidt. The Sin Eater. New York: Dutton, 1996. Dopo la morte di cancro della madre di Cole e il conseguente suicidio di suo padre, il nonno di Cole lo guida ad esplorare i benefici immediati e duraturi del preservare il ricordo della storia della famiglia e lo aiuta a riconoscere che nel passato ci sono le chiavi per accedere al presente e che le storie possono mantenere vive le persone care. Età: 10-14. Staff del New York Times. A Nation Challenged: A Visual History of 9/11 and Its Aftermath (Young Reader’s Edition). Combina racconti pubblicati nel giornale e le fotografie premiate con il Premio Pulitzer per presentare un profondo resoconto dei terrificanti eventi in una maniera appropriata all’età. Età: 9-14 anni. Yukio Tsuchiya. Faithful Elephants: A True Story of Animals, People, and War. Illustrato da Ted Lewis; Boston: Houghton Mifflin, 1988. Un intenso racconto dell’orrore della guerra e dei suoi effetti sugli animali e sulle persone. Età: 9-12. Alan Wolfelt. Healing Your grieving Heart for Teens. Boulder, Colo.: Companion Press, 2001.

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Offre suggerimenti e idee per esprimere il cordoglio. Orientato alle attività. Età: 12 anni e oltre. Kazumi Yumoto. The Friends. Tradotto da Cathy Hirano. New York: Farrar, Straus & Giroux, 1996. In questa storia che è sia universale sia radicata nel paese e nella cultura da cui proviene, il fascino di tre ragazzi per la morte li conduce a formare un’amicizia inaspettata con un uomo anziano, amicizia tramite la quale essi affrontano le proprie paure ed imparano ad accettare l’inevitabile con il senso della gioia della vita. Età: 9 anni ed oltre. Figura 9-3. Libri per aiutare i bambini ad affrontare la morte. Con l’assistenza di Carol F. Berns cofondatore e direttore del Children’s Center, Miami, Florida.

Letture di approfondimento David W. Adams and Eleanor J. Deveau. Beyond the Innocence of Childhood. 3 vols. Amityville, NX: Baywood, 1995. Myra Bluebond-Langner. The Private Worlds of Dying Children. Princeton, NJ.: Princeton University Press, 1978. Betty Davies. Shadows in the Sun: The Experience of Sibling Bereavement in Childhood. Washington, D.C.: Taylor & Francis, 1998. Kenneth J. Doka, ed. Children Mourning, Mourning Children. Washington, D.C.: Hospice Foundation of America, 1995. Robin F Goodman and Andrea Henderson Fahnestock, eds. The Day Our World Changed: Childr’s Art of 9/11. New York: Abrams, 2002. Donna Schuurman. Never the Same: Coming to Terms with the Death of a Parent. New York: St. Martin’s, 2003. Phyllis Rolfe Silverman. Never Too Young to Know: Death in Children’s Lives. New York: Oxford University Press, 2000. Barbara M. Sourkes. Armfuls of Time: The Psychological Experience of the Child with a Life Threatening Illness. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press, 1996. J. William Worden. Children and Grief When a Parent Dies. New York: Guilford Press, 1996. Leigh A. Woznick and Carol D. Goodheart. Living with Childhood Cancer. A Practical Guide to Help Families Cope. Washington, D.C.: American Psychological Association, 2002.

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Capitolo 10

LA MORTE NELLA VITA DEGLI ADULTI

Proprio come lo sviluppo umano non termina con la fine dell’infanzia, così il modo di affrontare il lutto continua ad evolversi nel corso della vita di una persona; così come associamo a bambini di età diverse determinati compiti e abilità, anche nella vita adulta possiamo distinguere fasi e transizioni caratteristiche. Nel secondo capitolo abbiamo discusso i primi cinque stadi dello sviluppo psicologico proposti da Erik Erikson – ovvero quelli degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Gli ultimi tre stadi dello sviluppo psicosociale, secondo il modello di Erikson, si realizzano nell’età adulta. Come nell’infanzia, ogni stadio della vita adulta richiede una particolare risposta evolutiva, e ogni stadio si costruisce a partire dagli stadi precedenti. La giovinezza (o stadio del “giovane adulto”) è caratterizzata dal conflitto fra intimità e isolamento. Questo stadio comprende varie forme d’interazione e d’impegno, fra le quali sesso, amicizia, cooperazione, associazione e appartenenza. Poiché l’amore maturo si assume i rischi dell’impegno, la morte di una persona amata può essere più che mai devastante nel corso di questo stadio e del successivo.1 Lo stadio psicologico successivo, secondo Erikson, è quello dell’età adulta, che implica la crisi della generatività contrapposta alla stagnazione. Questo stadio è caratterizzato da un ampliamento dell’impegno a prendersi cura delle persone, delle cose e delle idee che si è imparato a tenere care. Questa enfasi sulla cura aiuta a spiegare perché la morte di un figlio sia tanto dolorosa. Sia sul piano simbolico che su quello della realtà, la morte di un figlio si contrappone al compito psicosociale del “prendersi cura” (accudire e crescere) che è proprio dell’età adulta. Quando raggiungiamo lo stadio della maturità, l’ottava e ultima tappa del ciclo vitale, il punto di svolta o crisi da risolvere è quello del conflitto fra integrità e disperazione; considerando tutte le fasi evolutive come connesse le une alle altre, in modo che ognuna si edifica sulle precedenti, la crisi di questo stadio appare particolarmente intensa. È segnata dalla fine “dell’unico percorso di vita che ci sia dato”. Superare con successo questo compito evo-

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lutivo ci dà la forza della saggezza, descritta da Erikson come un “informato e distaccato interesse per la vita anche di fronte alla morte.”2 Può essere utile considerare le perdite subite nel corso della propria vita, sia da bambini che da adulti. Quali sono state le differenze fra esse, e quali le similitudini? Osservate in che modo il vostro atteggiamento nei confronti della perdita è cambiato con l’età. Gli altri hanno risposto alle vostre esperienze di perdita offrendovi sostegno? Quali strategie siete riusciti a porre in atto per affrontare il lutto e superare positivamente l’esperienza? Questo tipo di domande contribuisce al formarsi di un quadro di riferimento utile per esaminare le perdite tipiche della vita adulta.

Il lutto dei genitori Che cosa fa della perdita di un figlio una morte ad alto cordoglio? Per la maggior parte delle persone la morte di un figlio rappresenta l’incompiuto, la perdita prematura di un potenziale futuro. Ci si aspetta che un figlio sopravviva ai genitori. La morte può apparire appropriata nell’età della vecchiaia, ma la morte di un bambino pone in risalto il fatto che nessuno è immune dalla morte. Questi atteggiamenti nei confronti della morte di un bambino sono strettamente legati ai progressi nelle cure sanitarie che hanno ridotto enormemente la mortalità infantile e neonatale in anni recenti. Nelle epoche precedenti, e anche oggi in diverse parti del mondo, un neonato o un bambino piccolo non sono propriamente visti come “persone” fino a che non hanno vissuto sufficientemente a lungo da dimostrare di avere forti probabilità di continuare a vivere. Nel contesto delle società moderne, tuttavia, la morte di un bambino è generalmente considerata la meno naturale delle morti.3 La morte di un bambino rovescia l’aspettativa che i vecchi muoiano per primi e che siano rimpiazzati dai giovani. Con la morte di un bambino, i genitori diventano i superstiti di quella che appare come una morte prematura e ingiustificata. Quando la funzione fondamentale della genitorialità è interpretata come consistente nel proteggere il proprio figlio e nel prendersi cura del suo benessere, la morte di un bambino impedisce l’assunzione di questa responsabilità, generando potenzialmente dei sentimenti di colpa. I genitori immaginano di vedere i propri figli giocare nella squadra di calcio locale, diplomarsi, sposarsi, crescere i propri figli – tutti i vari eventi importanti e le occasioni che insieme generano un senso di continuità nel futuro. La morte pone fine a tutti i piani e a tutte le speranze che riguardano la vita del bambino. Un figlio porta con sé nel futuro qualcosa del genitore, anche dopo la morte del genitore. La stessa esistenza del figlio garantisce una

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sorta d’immortalità al genitore; quando il bambino muore, questa possibilità viene sottratta. L’interdipendenza fra genitore e figlio rende la morte di un bambino una profonda esperienza di perdita.4 Il cordoglio può concentrarsi su istanze di responsabilità genitoriale. Il ruolo dei genitori viene generalmente definito come consistente nella protezione e nella cura di un bambino, fino a che questi non sia in grado di muoversi nel mondo in modo indipendente. Così, la morte di un bambino può essere sentita come estrema mancanza di protezione e di cura, come il proprio definitivo insuccesso e fallimento come “buon genitore.” Fra i Cree dell’America settentrionale, ai bambini venivano fatti indossare degli speciali mocassini che “proteggono dai fantasmi” e sul fondo dei mocassini venivano praticati dei buchi per salvaguardare il bambino dalla morte. Se lo spirito di un avo appariva e lo chiamava a sé, il bambino poteva rifiutarsi di seguirlo, con la scusa che i suoi mocassini “avevano bisogno di essere rattoppati.”5 Molte questioni legate al lutto genitoriale coprono l’intero arco della vita adulta. Sono presenti in genitori trentenni come in genitori ottantenni. Sono condivisi tanto da genitori di adolescenti quanto da genitori di bambini piccoli. Le fantasie e i progetti di un genitore possono essere altrettanto forti per un bambino non ancora nato o per un figlio più grande. Una madre sessantacinquenne divorziata o vedova può provare una considerevole perdita del senso di sicurezza quando il figlio trentacinquenne muore improvvisamente. Una donna che si trovava appunto in tali condizioni una volta ha osservato: “Si sarebbe preso cura di me nella vecchiaia; ora non ho nessuno.” Sia che il figlio avesse esaudito o meno il desiderio dalla madre, la sua morte rappresentava la morte del futuro come lei lo immaginava. Il lutto genitoriale è un’esperienza intensa che può essere correlata alle spiegazioni sia sociobiologiche, sia psicologiche del cordoglio. Gli studi sull’attitudine umana a creare legami e sulle psicodinamiche dei sistemi familiari contribuiscono alla costruzione di un modello comprensivo del lutto genitoriale. I genitori in lutto spesso conservano una rappresentazione interiore del figlio morto che è alimentata da ricordi e credenze religiose.6 È valutando l’unicità della relazione fra genitore e figlio che possiamo cominciare a comprendere il lutto suscitato dalla morte di un figlio. La gestione del lutto genitoriale nella coppia Nell’assistenza psicologica ai genitori in lutto, i clinici a volte osservano la presenza di una sorta di “caos generale,” una netta sensazione che i genitori siano stati derubati di un passato e di un futuro. Di fronte a un evento tanto

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traumatico, l’aspettativa dei genitori nei confronti di loro stessi, e degli altri nei loro confronti, è quella di supportarsi l’un l’altro… Ma l’energia spesa da entrambi per affrontare il proprio cordoglio può esaurire le risorse emotive necessarie al reciproco sostegno. Alcuni genitori che hanno subito un lutto raccontano di avere avuto, oltre alla perdita del figlio, la sensazione di avere perso, per un certo periodo, anche il coniuge. Diversi studi mostrano che la morte di un figlio potenzialmente ha l’effetto di migliorare, ma anche di peggiorare, una relazione coniugale.7 La morte di un figlio può avere l’effetto paradossale di creare una sensazione d’estraniamento e, contemporaneamente, un forte legame fra i genitori.8 Nonostante condividano la stessa perdita, i genitori tipicamente adottano diverse modalità di cordoglio; in conseguenza di ciò, può accadere che entrambi finiscano per sentirsi isolati e privati del supporto dell’altro, ovvero dell’unica persona che condivide la gravità della perdita. Le differenze individuali rispetto a valori, credenze e attese, possono creare conflitto fra le modalità del lutto, riducendo quindi il senso di “comunanza” nell’esperienza di cordoglio della coppia.9 Benché mariti e mogli non vivano necessariamente il cordoglio secondo uno schema asincrono ad alti e bassi, non è insolito, per i genitori in lutto, trovarsi talvolta a vivere il cordoglio “senza sincronia” l’uno rispetto all’altro.10 Il senso di comunanza nel lutto di una coppia è influenzato anche da come i due compagni si vedono in quanto coppia. A volte possono sussistere difficoltà nel trovare un accordo sul modo migliore di recuperare un senso di stabilità e di significatività della vita in seguito alla morte del figlio. Nonostante il desiderio e l’aspettativa comune di “elaborare il lutto insieme”, le differenze nel modo di affrontare il cordoglio possono creare conflitti rispetto al fatto che il comportamento dell’altro sia percepito come appropriato o meno. Può sorgere un conflitto a partire dal modo in cui ognuno dei due interpreta il comportamento dell’altro. Un marito che limita l’espressione del proprio cordoglio, in modo da potere essere presente per la moglie, può essere percepito da lei come freddo e insensibile. Il suo desiderio di mostrarsi premuroso e protettivo può essere frainteso e produrre quindi conflitto anziché conforto. Disaccordi o fraintendimenti possono inoltre essere legati a questioni concernenti ciò che costituisce un comportamento “adeguato” al lutto, il “volto pubblico” del cordoglio della coppia. La riduzione del conflitto, la promozione di interazioni positive nella coppia in lutto richiede, da parte di ognuno, la volontà di impegnarsi in una comunicazione aperta e sincera. In questo modo, l’espressione emotiva della perdita di entrambi aiuta a convalidare la realtà delle percezioni dell’altro; anche solo il piangere insieme può essere utile a risolvere il conflitto e a ela-

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borare la perdita. Una caratteristica comune alle coppie che riferiscono minore conflitto è una visione positiva dell’altro e della relazione stessa. L’accettazione delle differenze e la flessibilità dei ruoli sono gli altri fattori che contribuiscono alla condivisione del cordoglio. La possibilità di trovare un accordo rispetto al comportamento del coniuge nel cordoglio è favorita dalla capacità, da parte d’entrambi i membri della coppia, di reinquadrare il comportamento dell’altro in senso positivo. Ad esempio, un marito che vede il pianto della moglie come una tendenza ad “abbattersi” può modificare la sua percezione in modo da vedere il pianto come un mezzo di purificazione emotiva, e quindi come qualcosa di prezioso. Reinquadrando il comportamento del coniuge è possibile spiegarne il comportamento in termini positivi, piuttosto che giudicarlo come inappropriato o disfunzionale. Quando un comportamento che in precedenza era fonte di disturbo è visto come emotivamente liberatorio, ciò consente al partner di supportarne l’espressione, piuttosto che limitarla esortando il coniuge a “ricomporsi.” Come sempre, spesso sono le piccole cose che fanno sentire il coniuge incoraggiato e amato. Le perdite gestazionali La gestazione rappresenta di solito una fase di transizione fondamentale per gli adulti. Normalmente ci si aspetta la nascita di bambino sano e vitale. Aborto spontaneo, parto di feto morto o morte neonatale non sono il risultato previsto; eppure, in un anno recente, sono state registrate negli Stati Uniti 63.153 morti fra fetali e infantili, delle quali 45% erano parti di feti morti, un altro 34% morti neonatali, e il restante 21% morti postneonatali.11 Secondo la definizione medica, il parto di feto morto si ha quando la morte del feto avviene fra la ventesima settimana di gestazione e il momento della nascita, e ha come conseguenza la nascita di un bambino morto. Le morti neonatali sono quelle che avvengono durante le prime quattro settimane successive alla nascita e la morte postneonatale è quella che avviene dopo le prime quattro settimane e fino a 11 mesi dopo la nascita. Le statistiche citate non includono le morti per aborto, che avvengono entro le prime venti settimane di gestazione. L’aborto, anche chiamato “aborto spontaneo”, è definito come “perdita dei prodotti del concepimento prima che il feto sia vitale”.12 La distinzione fra aborto spontaneo e nascita di un bambino morto è basata sul fatto che la maggior parte dei feti è vitale – ovvero in grado di sopravvivere al di fuori del corpo della madre – dopo la ventesima settimana di gestazione. Contrariamente all’aborto spontaneo, che accade naturalmente, l’aborto indotto (anche chiamato aborto artificiale o

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aborto terapeutico) è causato intenzionalmente allo scopo di porre termine a una gravidanza con mezzi meccanici o farmacologici. Considerata in maniera generale, la perdita riproduttiva comprende anche perdite causate da infertilità e sterilità. Mentre il termine infertilità si riferisce alla “ridotta o assente capacità di produrre prole,” il termine sterilità denota la “completa inabilità a produrre prole,” dovuta a inabilità a concepire (nella donna) o a indurre il concepimento (nell’uomo).13 Nonostante i progressi compiuti nel trattamento medico dell’infertilità, molte coppie restano senza bambini, poiché la loro spinta biologica e sociale a concepire è ostacolata da forze che sono al di là del loro controllo. Un altro esempio di perdita riproduttiva è la rinuncia a un figlio dandolo in adozione. Benché questa possa inizialmente non essere considerata come una perdita gestazionale, perché l’adozione di solito è il risultato di una scelta, simili decisioni possono tuttavia essere accompagnate da cordoglio. Gli psicologi osservano “che in una società che definisce le donne come madri, madri potenziali, o donne senza figli, la donna che ha dato alla luce un bambino per poi rinunciarvi e darlo in adozione resta un enigma; avendo rinunciato per iscritto a ogni rivendicazione legale sul bambino, essa è spesso percepita come la più innaturale delle donne, come una madre che rifiuta il proprio bambino. Ma l’esperienza della maternità non finisce con la firma dei documenti di rinuncia…”14

Il lutto che segue il dare un figlio in adozione è raramente riconosciuto, supportato e risolto, ma può tuttavia produrre profondi effetti emotivi sui genitori naturali.15 Vedere un bambino intento a giocare o che cammina per strada può suscitare la reazione di chiedersi come possa essere il proprio bambino a quell’età. Una visione comprensiva delle perdite gestazionali comprende anche la nascita di un bambino affetto da gravi invalidità, quali malformazioni congenite o ritardo mentale. I genitori possono avere difficoltà ad accettare la realtà che il loro figlio non è come desideravano o come lo sognavano; possono vivere un lutto per la perdita del bambino “perfetto” o “desiderato.”16 Queste attese perdute devono essere riconosciute e deve essere possibile vivere il lutto. Tutte le varie perdite gestazionali generano cordoglio per delle vite che non sono state vissute. Judith Savane afferma: “le perdite gestazionali generano lutto non solo per quello che è stato, ma anche per quello che sarebbe potuto essere.”17 Si prova cordoglio non solo per le perdite fisiche, ma anche per quelle simboliche. I genitori piangono “il bambino della loro immaginazione, quella parte di loro che ora sembra non avere più alcuna possibilità d’incarnazione nel mondo.” Scrivendo dalla sua prospettiva di psicologa

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junghiana che all’età di trentatré anni aveva già subito perdite multiple (i genitori adottivi e quelli biologici, i due fratelli e un bambino piccolo), Savage osserva: “Sbrogliando il mistero della relazione immaginativa, ovvero le proiezioni del sé sul bambino non nato, diviene chiaro che le relazioni primarie non sono costituite da meri ruoli e attributi funzionali intercambiabili, ma sono legami squisitamente personali che si generano nell’interiorità profonda e sono tanto un riflesso dell’anima individuale, quanto un preciso riflesso dell’altro.18

È importante essere consapevoli di due realtà distinte eppure legate fra loro: la relazione effettiva e la natura simbolica del legame fra genitore e figlio. I genitori in lutto spesso parlano della compagnia e dei sogni che hanno perduto, di tutti i modi in cui il bambino avrebbe arricchito le loro vite. Un discorso simile riguarda la perdita effettiva. La perdita simbolica è legata al significato connesso alla relazione, come quando un individuo, nell’essere genitore di un figlio, diventa una guida e un sostegno premuroso. Un padre in lutto ha detto, “Non solo ho perso un figlio che poteva seguire il mio cammino, ma, senza di lui, è come se avessi perso io stesso la capacità di camminare.” Era importante per questo padre riconoscere ed elaborare sia la morte del figlio, sia la perdita del significato e della finalità della propria vita. L’immagine del bambino perduto attiva potenti associazioni, che diventano parte di un processo naturale che guida il percorso del genitore in lutto verso la riconquista di un’integrità. Con una perdita gestazionale può generarsi un senso di colpa rivolto sia verso di sé che verso l’esterno. Un genitore può chiedersi, “Non ho desiderato abbastanza il mio bambino?” Abbondano le domande sulla causa del tragico risultato: sarà stato quel bicchiere di vino, l’aspirina o, come chiese una madre sconvolta dalla disperazione, “Sarà stata la noce moscata che ho messo nei fiocchi d’avena?” Anche azioni irrilevanti sono esaminate minuziosamente. È possibile che si riversino sul bambino morto sentimenti di collera, dando luogo a un confuso groviglio d’emozioni. Dopo tutto, come può una persona arrabbiarsi con un bambino innocente? Eppure la rabbia è una reazione naturale alla perdita. Come ha detto una madre a proposito della sua bambina nata morta, “Perché è entrata nella mia vita per uscirne subito dopo? Che è venuta a fare?” Le reazioni emotive possono accompagnarsi ad allucinazioni uditive o cinestesiche: un bambino che piange durante la notte, svegliando i genitori; il bambino che tira calci nella pancia, anche se non c’è alcuna gravidanza, in assenza di un bambino reale. Mancando il bambino, la madre può trovarsi ad affrontare condizioni fisiche che le ricordano la perdita, come la montata lattea. Una madre che

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aveva perso una bambina disse: “Volevo andare al cimitero e fare scorrere il latte sulla tomba di mia figlia”. Nel frattempo, il padre può sentirsi culturalmente costretto a “essere coraggioso”, in modo da potere supportare la madre, che deve affrontare sia il recupero fisico che quello emotivo. Di conseguenza, il bisogno del padre di elaborare la morte del figlio può rimanere insoddisfatto, e le sue emozioni spinte sotto la superficie. Il lutto che segue una perdita gestazionale è anche potenzialmente influenzato dalla percezione, da parte dei genitori, che la perdita non sia né compresa né riconosciuta dagli altri. I genitori in lutto riferiscono di essere stati oggetto di commenti insensibili, quali “dev’essere più facile dal momento che non ti sei affezionata troppo.” Familiari e amici possono in buona fede cercare di minimizzare la morte nel tentativo di consolare il genitore. Possono dire cose come “Sei giovane, puoi avere un altro bambino”, senza rendersi conto che un commento del genere, per quanto veritiero, è inappropriato: nessun altro bambino potrà prendere il posto di quello che è morto. Simili consigli possono essere particolarmente difficili da sostenere per le coppie che avevano rinviato la ricerca di un figlio, poiché possono rappresentare un’ulteriore limitazione di tempo che aggrava l’esperienza della perdita. I genitori che hanno subito una perdita gestazionale traggono beneficio da programmi come quello sponsorizzato dal Reuben Center for Women and Children (Centro Reuben per le donne e i bambini) del Toledo Hospital in Ohio.19 Il programma comprende una gamma di protocolli di lutto, incluse linee guida per assistenza al lutto, tecniche fotografiche (tutti i bambini defunti vengono fotografati, e le foto date ai genitori al momento della morte o quando i genitori lo desiderano), uso dei cappellani dell’ospedale e gruppi volontari di assistenza qualificata, distribuzione di materiale a stampa su perdita e lutto (tra cui una brochure redatta espressamente allo scopo di educare i familiari e gli amici dei genitori su ciò che possono fare), diverse opzioni per il funerale e per le commemorazioni, e indicazioni sui gruppi di supporto disponibili per le famiglie che vivono lontane dall’ospedale. Sono inoltre offerti programmi educativi e di mutuo aiuto per i membri dello staff ospedaliero che si occupano di famiglie che hanno appena subito un lutto. In questo modo si offre un supporto adeguato alle famiglie, al personale sanitario e alla comunità. Come sempre, è importante tenere presente che possono esserci considerevoli differenze individuali nell’espressione e nell’esperienza del lutto. Questo è particolarmente vero nel caso delle perdite gestazionali. Irving Leon osserva: “Non molto tempo fa la morte di un bambino era un evento di cui non si poteva parlare in ospedale. Un silenzio soffocato accoglieva la nascita di un bambino morto. Il bambino veniva fatto sparire prima che i genitori potessero vederlo

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e abbracciarlo, veniva loro detto di dimenticare l’accaduto e di avere un altro bambino il prima possibile. Alla madre si somministravano tranquillanti se si agitava troppo, se “lo aveva perso” (nel senso: se esprimeva cordoglio per ciò che aveva perso)”.20

Oggi, nella maggior parte degli ospedali la situazione è cambiata e il lutto per la perdita gestazionale è rispettato. Bisogna comunque ricordare che le persone sono differenti fra loro, così come diversi sono i loro attaccamenti verso i loro bambini neonati o non nati. Dai genitori che hanno subito un lutto non ci si deve aspettare che “seguano un copione” o mettano in atto qualche “modo corretto” di vivere il lutto. Il sostegno sociale dovrebbe essere offerto secondo modalità che riconoscano le differenze individuali e promuovano una genuina empatia. L’aborto spontaneo Molte persone pensano che la perdita di un bambino nei primi stadi della gravidanza susciti sentimenti di delusione, ma non di lutto. Ai genitori che avevano sognato il loro bambino anche prima del suo concepimento, tuttavia, l’aborto spontaneo suscita dolore e confusione. Ai genitori può capitare di sentirsi dire che la perdita è solo il modo in cui la natura elimina le anomalie genetiche. Una simile osservazione offre poca o nessuna consolazione ai genitori in lutto; è comunque il loro bambino che la natura ha deciso di eliminare. I luoghi comuni che minimizzano o negano la perdita non sono d’alcun aiuto. Quando i genitori si trovano ad affrontare una serie d’aborti spontanei, a ogni perdita se ne aggiunge un’altra. I genitori possono avere difficoltà a identificare con precisione la loro perdita, o a dare un senso a ciò che è accaduto. In seguito a un aborto spontaneo, il cordoglio di una giovane madre fu complicato perché non aveva resti da poter seppellire. “Non sapevo dove fosse il mio bambino,” disse. Anche quando un aborto spontaneo si è verificato molti anni addietro, il lutto per un bambino non nato può ritornare a galla in occasione d’altri eventi significativi della vita – per esempio, alla nascita di un altro bambino o all’inizio della menopausa. Anche un passaggio temporale particolare, come ad esempio il compimento dei quaranta o dei sessantacinque anni d’età, può risvegliare sentimenti di lutto. L’aborto indotto Benché l’aborto indotto sia anche chiamato aborto “elettivo,” in molti casi avviene più per necessità medica che per scelta. Alcune persone pensano che le donne che scelgono di porre termine a una gravidanza non provino una reazione di lutto, ma questo non è sempre vero. Il cordoglio che se-

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gue un aborto elettivo può essere molto simile a quello che segue la perdita involontaria di un feto o di un bambino piccolo.21 Può dipendere dalla percezione che una persona ha della gravidanza: la donna si concepisce come semplicemente incinta o come madre potenziale? Le stesse questioni si possono estendere agli uomini che partecipano alle decisioni relative all’aborto elettivo. La reazione emotiva all’aborto indotto può variare. In alcuni casi, le ripercussioni non si manifestano fino a molto tempo dopo. Una donna, che in gioventù aveva scelto di porre termine a una gravidanza con l’aborto perché lei e il marito ritenevano che il loro rapporto all’epoca non avrebbe potuto reggere alle pressioni causate dall’accudire un bambino, provò un grande rimorso quando, in seguito, lei e il marito scoprirono di non potere avere altri bambini. “Può essere stata la nostra unica chance,” si lamentava. Una successiva perdita gestazionale può essere vissuta come un “castigo” per il precedente aborto. Inoltre, gli atteggiamenti personali e sociali verso l’aborto possono ostacolare la risoluzione del lutto. Quando il supporto sociale è insufficiente, le persone hanno meno possibilità di esprimere i propri sentimenti riguardo a una perdita. Quando la decisione di abortire è presa in base a notizie sfavorevoli sulla salute del bambino, il conflitto interiore sulla scelta si sommerà al lutto dei genitori. Molte patologie genetiche sono identificabili per mezzo di test durante le prime fasi della gravidanza; e, quando i risultati sono sfavorevoli, porre termine alla gravidanza può apparire come l’unica scelta possibile. Alcuni test possono essere eseguiti solo a gravidanza inoltrata, dopo che la madre ha già cominciato ad avvertire i movimenti del bambino. I genitori che decidono in favore di un aborto terapeutico possono temere che nessuno comprenderà la loro “scelta” e che saranno giudicati duramente. Inoltre, in questa situazione, le coppie possono trovarsi di fronte non solo alla perdita di un bambino in particolare, ma anche alla possibilità di non avere altri bambini in futuro; ragioni biologiche o rischi genetici possono, infatti, precludere la possibilità di concepire di nuovo. In Giappone, in luoghi come il tempio Hase a Kamakura e il tempio Shiun Jizo a nord di Tokio, migliaia di statuine in pietra chiamate mizuko rappresentano bambini che sono stati concepiti ma che non sono mai nati.22 Alcuni di questi “bambini dell’acqua” indossano bavaglini e cuffiette. Al loro fianco si trovano biberon giocattolo, bambole e girandole, insieme a note commemorative scritte dalle loro madrine – donne che hanno scelto di abortire anziché avere il bambino. Le statue, del costo di molte centinaia di dollari ognuna, sono erette come depositarie delle anime dei bambini non nati. Nel tempio Hase, le più di 50.000 mizuko sono vegliate da una statua in legno alta circa 10 metri della “Dea della misericordia,” che è anche patrona

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della nascita senza pericoli. Nonostante l’aborto sia comune in Giappone, il “culto” delle mizuko “testimonia un intenso desiderio di riconoscere il feto non nato”. Kenneth Doka osserva che il conflitto d’opinioni in merito all’aborto può gettare il genitore in un dilemma: coloro che credono sia avvenuta una perdita possono non approvare l’atto, mentre coloro che approvano l’atto possono non riconoscere che il lutto, come risposta alla percezione di una perdita, ha bisogno di essere espresso e legittimato. Le complicazioni del lutto si possono aggravare quando le abituali fonti di conforto e di supporto sociale non sono immediatamente accessibili.23 Nati morti “Anziché far nascere, ho fatto morire,” disse una madre la cui figlia era morta alla nascita: al posto della culla, c’è una tomba; al posto della copertina per avvolgere il neonato, vesti per la sepoltura; al posto del certificato di nascita, un certificato di morte. Dopo un parto di feto morto, “I desideri, le speranze e i sogni di una famiglia – le illusioni degli individui su come la vita dovrebbe essere – sono rapidamente infranti dalla realtà della vita come realmente è”.24 Gli psicoterapeuti dei genitori di un bambino nato morto sottolineano l’importanza di riconoscerne la nascita: piuttosto che portare via il bambino nato morto il più rapidamente possibile, il personale ospedaliero può incoraggiare i genitori a vederlo e a prenderlo in braccio. Riconoscere la realtà della vita e della morte del bambino favorisce un modo sano di vivere il lutto. Una fotografia del bambino nato morto può aiutare nel processo del cordoglio.25 I genitori possono tenere un servizio commemorativo per il bambino nato morto, una scelta che non solo riconosce la realtà dell’accaduto, ma che offre un’opportunità per trovare significato e sollievo nella condivisione del cordoglio con gli altri. Alcuni ospedali danno ai genitori che hanno subito una perdita un pacchetto informativo che comprende un “Certificato di parto di feto morto” che riconosce sia la nascita che la morte del bambino. Oggetti di legame, come una ciocca di capelli, una fotografia, e la copertina per avvolgere il neonato, possono essere di conforto ai genitori. Quasi il 90% dei genitori inclusi in uno studio di John De Frain hanno dato un nome ai loro bambini nati morti, riconoscendoli come parte della famiglia, anche se per breve tempo: “L’attribuzione del nome sembra essere stata utile nell’aiutare a mostrare agli altri che il bambino esisteva realmente e che era importante, che non era solo qualcosa da accantonare e dimenticare.”26 Il dolore con il passare del tempo può affievolirsi, i ricordi no.

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La morte neonatale Quando un bambino nasce vivo, ma con invalidità gravi per una nascita prematura o per difetti congeniti, il successivo periodo d’incertezza sulla sopravvivenza del bambino può essere un incubo per i genitori. I genitori possono provare un senso di frustrazione e d’opprimente futilità mentre vengono discussi e tentati interventi medici suscettibili di fallimento. A volte un bambino nato con più di una condizione che minaccia la sua vita intraprende una lotta fra la vita e la morte che dura settimane. Durante questo periodo, i genitori possono trovarsi obbligati a compiere difficili scelte etiche che decideranno della vita o della morte del bambino. Nel frattempo, i costi sostenuti per mantenere in vita il bambino continuano ad aumentare. Se il bambino infine muore, i genitori possono provare risentimento verso l’istituzione medica e il suo personale, e sentirsi come se fossero sopravvissuti a una prova dolorosa e vana solo per ritrovarsi poi a dover pagare il conto di tutta l’esperienza. In circostanze che coinvolgono un neonato gravemente malato, qualsiasi decisione può essere causa di tormento per i genitori, che si chiederanno ripetutamente se hanno fatto la scelta giusta. Il personale d’assistenza che valuta i laceranti dilemmi etici che emergono nella terapia intensiva neonatale si trova nella posizione di offrire, con adeguata sensibilità, assistenza e sostegno ai genitori che affrontano la prospettiva di prendere queste difficili decisioni e di convivere con esse. Quando la vita di un bambino in condizioni critiche è sorretta da mezzi medici straordinari, la decisione di porre termine all’assistenza artificiale deve essere gestita con la maggiore delicatezza consentita dalle circostanze. Le scelte compiute nell’ambito della terapia neonatale possono essere dolorose non solo per i genitori ma anche per i medici. Come ha osservato un giovane neonatologo, “Una delle cose più difficili e importanti per me è stata imparare a porgere il bambino ai genitori di modo che potesse morire fra le loro braccia”. La sindrome della morte in culla (Sudden Infant Death Sindrome) La sindrome della morte improvvisa del neonato (sindrome da morte in culla o SIDS) presenta, per molti versi, le stesse caratteristiche e conseguenze degli altri tipi di perdite gestazionali già discussi. La SIDS è definita come “l’improvvisa e inaspettata morte d’ogni neonato o bambino piccolo per la quale un esame autoptico completo non riesca a individuare una causa adeguata.”27 La natura imprevista della morte, l’età del bambino e dei genitori (che sono generalmente giovani e possono trovarsi ad affrontare la morte di una persona cara per la prima volta) e l’incertezza sulla causa della morte, contribuiscono a fare delle morti di SIDS una difficile perdita per tutta la famiglia.

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Poiché la causa della morte non è certa, i genitori possono essere sottoposti a indagini giudiziarie. A causa di preoccupazioni generalizzate per la possibilità di abusi sul bambino, la polizia e altri ufficiali delle forze dell’ordine possono ipotizzare che i genitori siano responsabili. Tragicamente, a volte accade che i genitori uccidano i loro bambini e cerchino di far passare la morte per accidentale o naturale. La ricerca di una causa di morte, nei casi di morte da SIDS, è spesso caratterizzata da ambiguità, anche per gli esperti. Per questa ambiguità, e per il fatto che gruppi di supporto sulla SIDS hanno diffuso notizie sugli effetti negativi delle accuse erroneamente indirizzate sui genitori in lutto, la polizia e altri investigatori di solito cercano di tenere un atteggiamento sensibile nella gestione dei casi che possono implicare la SIDS. Ciononostante, i genitori possono interrogare se stessi altrettanto severamente: è possibile che la morte sia dovuta a qualcosa che hanno fatto o dimenticato di fare? Poteva essere evitata? La natura inspiegata delle morti da SIDS può indurre i superstiti a perdersi in una ricerca di risposte che potrebbero essere impossibili. Un sostegno da pari a pari d’altri genitori che hanno affrontato la SIDS può essere una fonte di informazione affidabile e di conforto emotivo. La morte di un bambino più grande Molte delle questioni discusse nella sezione precedente riguardano anche il lutto di genitori in seguito alla morte di un figlio più grande o adolescente. Il significato di una tale morte è solitamente più complesso, perché la relazione fra genitore e figlio è durata più a lungo, e vi corrisponde una più vasta quantità di ricordi. Un figlio rappresenta molte cose per un genitore. Come Beverly Raphael ci ricorda, un figlio è “una parte di sé, e della persona amata; una rappresentazione delle generazioni passate; i geni degli avi; la speranza del futuro; una fonte d’amore, di gioia, e anche di piacere narcisistico; un legame o un peso; e a volte un simbolo degli aspetti peggiori di sé e degli altri”.28 Nella condivisione delle esperienze, il legame fra genitore e figlio assume una sempre maggiore complessità. Tra le principali cause di morte dei bambini d’età compresa fra i cinque e i quattordici anni, gli incidenti sono in cima alla lista,29 essendo la più rilevante causa di morte nella prima metà della vita umana, mentre gli infortuni si caratterizzano come “l’ultima grande piaga della realtà giovanile.”30 Sebbene un maggior numero di bambini e adolescenti muore a causa di lesioni riportate accidentalmente, piuttosto che per gli effetti di una malattia, la situazione di un bambino affetto da una patologia che minaccia la vita è generalmente considerata particolarmente toccante. Forse siamo portati a pensa-

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re, più o meno motivatamente, che un incidente sia qualcosa che semplicemente “accade” e che è dunque imprevedibile, mentre ci aspettiamo che la medicina offra una cura per la malattia. Quando la vita di un bambino è minacciata da una malattia grave, questo si ripercuote su tutto il tessuto familiare; genitori e fratelli, insieme ad altri parenti, sono tutti coinvolti nella necessità di affrontare la malattia. Essere testimoni degli effetti debilitanti di una malattia può essere molto doloroso, e può portare a volte a una sorta di separazione psichica, a prendere cioè le distanze dal bambino nel tentativo, da parte dei genitori e delle altre persone coinvolte, di evitare situazioni che suscitino sentimenti dolorosi. Poche famiglie sono in grado di mantenere un’apertura totale rispetto alla realtà della malattia terminale di un bambino, vivendo tutto ciò che può avvenire nel lungo processo che va dalla diagnosi della malattia fino alla morte. A volte, un bambino gravemente malato può vivere quasi normalmente, e la routine della terapia medica diventa solo un altro aspetto della vita familiare; in altri casi, la malattia richiede che i genitori e gli altri membri della famiglia debbano confrontarsi intensamente e decisamente con i cambiamenti che avvengono nelle condizioni del bambino. Coloro che circondano il bambino possono sentirsi messi alla prova mentre cercano di adattarsi agli alti e bassi della speranza nella guarigione e dell’accettazione della terminalità, sempre cercando di assistere il bambino nel miglior modo possibile. I genitori sembrano in qualche modo riuscire ad affrontare la situazione più agevolmente quando la loro identità personale non è incentrata unicamente sul ruolo di genitori. In altre parole quando, anche se l’essere genitori è un’importante parte della loro vita, questo ruolo non coincide con la totalità dell’immagine che hanno di sé, ma comprende anche altre realizzazioni e altri valori. Alcuni genitori riescono non solo ad affrontare e a sopravvivere alla devastante perdita di un bambino, ma a crescere in seguito a questa esperienza. Genitori come questi sono capaci di “reagire alla grave malattia di un bambino, compiendo una più matura valutazione della loro vita e acquisendo una visione più autentica di ciò che è veramente importante,” osserva Jerome Schulman, “la loro vita diventa più piena, più essenziale, più densa di significato. Vivono un giorno alla volta… ma imparano a fare d’ogni giorno un’occasione di arricchimento”.31 La morte di un figlio adulto Per una persona adulta giovane o di mezza età morire mentre i suoi genitori sono ancora in vita appare innaturale. È una morte “fuori sequenza.”

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Anche se è probabile che vi sia un certo grado di autonomia fra un figlio adulto e il genitore, il lutto del genitore alla morte del figlio non è necessariamente meno intenso. Con la morte di un figlio unico, la conseguente “perdita di maternità o di paternità” può diventare una sorta di “lutto perpetuo,” nel quale lo sforzo per comprendere il “senso” della morte del figlio continua per tutta la vita.32 Il genitore più anziano che sopravvive a un figlio adulto può anche avere perso una persona che lo assisteva. Il figlio può essere stato una fonte di conforto e di sicurezza che ora non c’è più. Questo può rendere più complicato affrontare il lutto, insieme alla sensazione di “competere” con il coniuge o con i figli del defunto per il ruolo di chi ha subito la perdita più grave. Chi deve avere la priorità nel ricevere assistenza e conforto? La morte di un figlio adulto a volte implica che i genitori si assumano la responsabilità della cura dei nipoti, una conseguenza della perdita che può essere emotivamente ed economicamente dirompente. I genitori che patiscono la perdita di un figlio già entrato nell’età adulta possono sentirsi, in qualche modo, soli nell’affrontare il lutto. Diversamente dalla situazione dei genitori che perdono figli più giovani o individui che sopravvivono alla morte del coniuge, sono poche le risorse di supporto sociale disponibili per aiutare le persone ad affrontare la morte di un figlio adulto. Tuttavia, la morte di un figlio – a qualsiasi età – è sempre una perdita importante. Il sostegno sociale al lutto genitoriale Esistono diversi gruppi di supporto in grado di offrire aiuto e informazioni ai genitori che stanno affrontando una malattia grave o la morte di un bambino. Alcuni gruppi di supporto riguardano tutte le forme di lutto genitoriale; altri hanno fini specifici o sono dedicati a particolari tipi di perdita. Il gruppo dei Compassionate Friends, che ha sedi su tutto il territorio nazionale USA, offre sostegno ai genitori in lutto per un ampio spettro di perdite. Un altro gruppo, la Candlelighters Childhood Cancer Foundation, si concentra più specificamente sull’offrire sostegno a bambini affetti da cancro, ai loro genitori e agli altri membri della famiglia. Due gruppi, Mothers Against Drunk Driving e Parents of Murdered Children, uniscono all’assistenza sociale la consulenza legale. Gruppi organizzati di genitori che hanno subito perdite analoghe costituiscono quelle che alcuni hanno chiamato “comunità di sentimenti” entro le quali il cordoglio viene condiviso.33 Oltre a queste organizzazioni, i parenti e gli amici dei genitori in lutto possono offrire sostegno in molti modi, anche semplicemente ascoltando, in-

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viando biglietti o lettere di condoglianze, preparando i pasti, occupandosi delle faccende domestiche o delle altre incombenze, prendendosi cura degli altri bambini della famiglia, condividendo il loro cordoglio per la perdita subita, offrendo ai genitori del tempo da trascorrere da soli, e così via. Tutte le persone che sono disposte a parlare apertamente con un genitore del suo lutto in seguito alla morte di un figlio sono importanti fonti di supporto nel lutto genitoriale.

La morte di un genitore Molti sostengono che la morte di un genitore è una delle esperienze più dure che abbiano mai affrontato. Anche quando la morte avviene in seguito a una malattia, il cordoglio che ne segue può comprendere una vasta gamma di emozioni: tristezza per la perdita subita; sollievo per la fine delle sofferenze del genitore; ansia perché una sorta di “protezione dalla morte simboleggiata” dal genitore se n’è andata; e ricordi, tanto dolorosi quanto confortanti, del genitore deceduto. La morte di un genitore tipicamente rappresenta la perdita di una relazione a lungo termine caratterizzata da cura e supporto incondizionato. I genitori, sono spesso descritti come quelli che “alla resa dei conti ci sono sempre e comunque”. Per gli adulti di mezza età, la morte di un genitore è un importante evento simbolico.34 Può dare avvio a un periodo di radicale cambiamento e transizione. La maggior parte delle persone riferisce che la morte di un genitore cambia la loro visione della vita, spesso spronandoli a esaminarla più da vicino, a cominciare a cambiare quello che non piace e ad apprezzare più pienamente le relazioni esistenti.35 Ogni morte ci rammenta la nostra mortalità, ma la morte di un genitore può condurre una persona a rendersi conto, forse per la prima volta, di essere diventata adulta. Perciò, la morte di un genitore può generare una “spinta evolutiva” che può condurre a un “atteggiamento più maturo negli adulti che perdono uno o entrambi i genitori, poiché non pensano più a se stessi come a dei figli.”36 Quando entrambi i genitori sono morti, può verificarsi un conseguente cambiamento di ruolo nel figlio adulto, che non ha più dei genitori a cui “appoggiarsi” neanche nell’immaginazione. Quando i genitori sono viventi, possono rappresentare una fonte di supporto morale. L’idea che, se si presenta un grosso problema, un figlio può rivolgersi ai genitori, è sempre presente. Con la morte dei propri genitori, questo senso di sicurezza scompare. Il figlio che ha perso i genitori può sentire che non c’è più nessuno che sia disposto a rispondere alle sue richieste d’aiuto senza porre condizioni. In seguito alla morte d’entrambi i genitori, una donna affermò che nonostante lei

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sapesse che i suoi amici e gli altri familiari la amavano e si curavano di lei, sentiva che l’amore dei suoi genitori era stato qualcosa di unico e insostituibile. Per adattarsi alla perdita dei genitori può essere necessario tanto “restare aggrappati” quanto “lasciare andare,” dato che il figlio che ha subito il lutto da una parte riconosce la realtà della morte, e allo stesso tempo custodisce gelosamente i ricordi del defunto, che lo confortano.37 Forse a causa dello status tradizionale della madre come fonte originaria d’attenzioni e cure, molte persone ritengono che la morte di una madre sia più difficile da affrontare rispetto alla morte di un padre.38 Un altro fattore può essere che, statisticamente, per la minore attesa di vita, i padri muoiono prima delle madri, così, la morte di una madre spesso rappresenta la perdita “dell’avere genitori,” poiché nel lutto il figlio adulto prova una reazione di cordoglio anche per la morte dell’altro genitore. Se una relazione è stata disfunzionale, la morte di un genitore pone fine alla speranza di creare un legame migliore fra genitore e figlio. A proposito della morte della madre alcolizzata, una donna di mezza età si lamentava: “Con la sua morte, è morto anche il sogno che, alla fine, sarebbe entrata in trattamento e che le ferite sofferte dalla nostra famiglia sarebbero guarite. Sono sollevata dal fatto che non sarò più ferita dal suo bere, ma avrei voluto che le cose fossero andate diversamente.” Generalmente, per i figli adulti, la morte di un genitore ha meno probabilità di suscitare un cordoglio intenso rispetto, ad esempio, alla morte di un bambino. La ragione è da collegarsi probabilmente al fatto che un figlio adulto è concentrato sulla propria vita; i sentimenti di attaccamento ai genitori sono stati reindirizzati in una certa misura verso altri, come il coniuge o i bambini. Tuttavia, in un matrimonio, può subentrare tensione quando la persona che ha perduto il genitore sente che il partner non sta offrendo tutto il sostegno emotivo che si aspettava o di cui aveva bisogno, o non comprende l’impatto della perdita.39 Il legame genitore-figlio ha un’importanza simbolica unica, e la morte di un genitore può produrre un effetto persistente, poiché il figlio nel lutto piange la perdita della speciale relazione che esisteva con il genitore defunto.

La perdita del coniuge I legami fra due persone in un rapporto di coppia sono di solito così strettamente intrecciati che, come afferma Beverly Raphael, la morte di un partner può “spezzare il senso stesso dell’esistenza dell’altro.”40 Anche se siamo in grado di riconoscere la probabilità che un coniuge ha di morire prima dell’altro, lasciando il superstite andare avanti da solo, di solito ci si tiene

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al riparo da simili pensieri, lasciandoli sullo sfondo. Le pressanti attività della vita quotidiana occupano la nostra attenzione, finché un giorno la possibilità diviene una realtà che non può essere ignorata. Il periodo che segue la perdita di un coniuge è stato descritto nel modo seguente: “Gli eventi quotidiani enfatizzano l’assenza del compagno. Sedersi a fare colazione, cenare, aprire la posta, ascoltare un brano musicale speciale, andare a dormire, tutto ciò che prima era fonte di piacere, diventa fonte di dolore. Ogni giorno si presenta pieno di sfide e di colpi al cuore.”41 La morte di un coniuge richiede un aggiustamento dall’essere una coppia all’essere soli, una transizione che può essere particolarmente difficile per il coniuge superstite che sia anche genitore; con dei bambini da curare e da crescere c’è da svolgere il compito di genitore da solo. Il modo in cui una persona particolare si adatta al ruolo di “persona rimasta vedova di recente” dipende da una serie di fattori socioculturali, personali e circostanziali. Fattori che influenzano il lutto per la perdita del coniuge La morte del proprio compagno è quella più studiata fra tutte le esperienze di perdita in età adulta. I ricercatori in generale si sono concentrati solo sul breve periodo di tempo che segue immediatamente il lutto; esistono pochi studi sugli effetti a lungo termine della morte di un coniuge.42 Gli studi sulla perdita del coniuge si sono generalmente concentrati sui rapporti di coppia eterosessuali, ignorando quasi completamente le coppie d’omosessuali che s’impegnano reciprocamente per la vita. Nei rapporti fra persone dello stesso sesso, il cordoglio che segue la morte di un partner può essere esacerbato dal conflitto con i genitori del compagno, se questi non hanno mai accettato l’orientamento sessuale o lo stile di vita del figlio o della figlia. “Io ero a tutti gli effetti inesistente per loro, già da prima,” ha detto un partner superstite; “sono proprio sparito, dopo la morte del mio compagno. Per anni hanno negato il nostro reciproco impegno: ora si comportano come se mi avessero completamente cancellato! Hanno preteso tutto: il corpo, la nostra casa e anche il mio diritto di essere in lutto”. È importante rendersi conto che il cordoglio per la perdita di un compagno è indipendente dall’approvazione sociale o legale sulla natura della relazione. I diversi schemi d’intimità e di interazione fra coniugi sono un fattore importante rispetto alla determinazione del modo in cui la perdita del partner verrà vissuta dal partner superstite; una coppia può trarre soddisfazione principalmente dalla condivisione delle attività, un’altra coppia può preferire una maggiore indipendenza. In alcune relazioni l’attenzione è concentrata sui figli; in altre sono i genitori ad avere la precedenza. Inoltre, gli schemi di

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una stessa relazione tendono a cambiare nel tempo con il mutare delle circostanze. Consideriamo le differenze fra la prospettiva di una coppia più anziana, che ha condiviso l’intera vita, e una coppia giovane, che è stata insieme per un breve periodo. La morte del proprio compagno in età avanzata avviene dopo una vita d’impegno reciproco e di condivisione d’esperienze; invece, in una coppia giovane che si sta appena disponendo a costruire un futuro di coppia, quando un partner muore, il sopravvissuto deve riorganizzare gli obiettivi che erano stati condivisi. Nel corso degli anni, dalla gioventù alla vecchiaia, in genere gli standard di vita di una persona e la qualità di vita cambiano, influenzando il significato e la realtà della perdita. La perdita del coniuge suscita comportamenti diversi in funzione dei ruoli attribuiti ai generi dalla cultura d’appartenenza. In certe culture, un vedovo deve evitare di piangere in pubblico, perché questo sarebbe considerato un comportamento “debole” e disonorevole; al contrario, in altre, dovrà esprimere il proprio cordoglio versando molte lacrime perché il non farlo sarebbe segno di una “debolezza” nella capacità di amare. Le persone che hanno trascorso l’intera vita entro ruoli di genere tradizionali possono trovare particolarmente difficoltosa la transizione alla vedovanza. Imparare a gestire le responsabilità di un ruolo con il quale non si ha familiarità, nel mezzo di un lutto, può essere un compito che incute timore e che intensifica i sentimenti di disperazione. La vedova che non ha mai scritto un assegno o il vedovo che non ha mai preparato la cena devono affrontare non solo il cordoglio per la perdita di una persona amata, ma anche importanti riaggiustamenti di ruolo. È necessario acquisire nuove abilità per gestire i bisogni della vita quotidiana. Le persone vedove, il cui stile di vita comprende una molteplicità di ruoli – genitore, impiegato, amico, studente, appassionato di un hobby, o che partecipa attivamente alle attività sociali, politiche e religiose della propria comunità – si riorganizzano meglio rispetto a quelle coinvolte in meno ruoli. Il primo anno che segue la morte di un compagno vede un aumento della frequenza delle malattie e delle morti fra vedove e vedovi, in particolare tra quelli più anziani. Questo può essere spiegato, almeno parzialmente, dall’osservazione che le persone più anziane possono trascurare i problemi di salute mentre si prendono cura di un coniuge sofferente, il che rende i coniugi superstiti maggiormente soggetti alle malattie e alla morte. Inoltre, i legami del superstite con il mondo esterno possono essere diminuiti nel periodo dedicato alla cura del coniuge, accrescendo di conseguenza i sentimenti di solitudine conseguenti al lutto. Un recente studio, condotto su oltre 55.000 vedove, ha mostrato che le donne rimaste vedove da meno di un anno manifestano “tassi sensibilmente

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più alti di depressione e una riduzione della funzionalità sociale, della salute mentale complessiva e della salute generale rispetto alle donne che sono vedove da più tempo.”43 Dopo un periodo di tempo di tre anni, tuttavia, queste vedove hanno mostrato notevoli miglioramenti nella loro funzionalità, cosa che i ricercatori attribuiscono alla “resilienza delle donne più anziane” e alla loro capacità di ricostituire rapporti sociali. Gli effetti negativi della morte di un coniuge sembrano essere più comuni fra i vedovi, forse perché gli uomini che ricoprono ruoli di genere convenzionali trovano difficoltà a gestire le questioni domestiche che prima erano affidate al coniuge defunto. I vedovi possono inoltre essere meno disposti delle vedove a cercare l’aiuto degli altri, un tratto caratteristico del “contare su se stessi” (auto-resilienza) che può essere associato ai ruoli di genere. Come sottolinea Judy Stillion, gli uomini che si prendono cura per un lungo periodo di tempo di un partner sofferente, possono trovarsi svantaggiati nell’affrontare l’insorgere dei normali problemi fisici e psicologici legati al lutto, se “la loro socializzazione impedisce di chiedere aiuto, di mostrare la tensione o anche, in alcuni casi, di riconoscere e discutere i propri sentimenti con i professionisti che potrebbero aiutarli”.44 Il sollievo che segue la morte di un coniuge è stato poco discusso ma è un’emozione provata da molte persone che hanno assistito un coniuge malato per un lungo periodo di tempo. In simili casi, la morte può essere vista come la fine delle sofferenze della persona amata. Meno accettato o riconosciuto socialmente, forse, è il sollievo che il superstite prova quando la morte rappresenta la gradita fine di una relazione insoddisfacente. Statisticamente le donne vivono più a lungo degli uomini, pertanto si valuta che tre donne sposate su quattro, prima o poi, resteranno vedove. Le vedove che intendono risposarsi si trovano di fronte non solo a pressioni sociali, ma anche a una situazione nella quale gli uomini con i giusti requisiti sono pochi. Ad ogni modo, la vedovanza per le donne è meno difficile di quanto il pensionamento non sia per gli uomini, perché ci sono molte altre vedove con le quali condividere attività e tempo; così, lo status di una donna può migliorare con la vedovanza, mentre quello di un uomo solitamente peggiora col pensionamento. Il sostegno sociale per persone che hanno perso il coniuge La morte di un compagno implica la perdita di una fonte primaria d’interazione sociale e modifica il ruolo sociale di una persona all’interno della comunità. La disponibilità di una rete stabile di supporto sociale può essere cruciale nel determinare il modo in cui le persone che hanno perso il coniu-

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ge si adattano al loro nuovo status. I rapporti d’amicizia sono fondati su interessi e stili di vita comuni; mantenere le relazioni con persone al di fuori della famiglia sembra essere particolarmente importante; così come la partecipazione ad attività di svago con gli amici può aiutare le persone rimaste vedove ad affrontare la transizione di ruolo, a mantenere il senso della propria capacità di recupero e uno stato d’animo positivo, nonostante i difficili cambiamenti delle proprie condizioni di vita.45 I rapporti familiari, al contrario, possono costituire una potenziale minaccia psicologica per la persona rimasta vedova da poco tempo, perché essi contengono elementi di “rovesciamento di ruoli” fra il figlio adulto e il genitore che si è fatto più anziano, suggerendo o richiedendo l’accettazione di un ruolo di dipendenza da parte del vedovo o della vedova. Inoltre, l’esperienza della perdita vissuta da un figlio adulto è diversa da quella del coniuge che ha perduto il partner, il quale tende a considerare la perdita più importante di quanto non lo sia per il figlio e a subire gli effetti della perdita in maniera più intensa, in relazione alla propria salute fisica e mentale.46 Una delle risorse più preziose per la persona rimasta vedova di recente è il contatto con altre persone nelle stesse condizioni, ovvero, altre persone che hanno perduto un compagno e che possono costituire dei modelli di ruolo durante il periodo d’adattamento che segue. Esponendosi all’atteggiamento d’accettazione del modello di ruolo, la persona rimasta vedova di recente, impara a convivere con i propri dolorosi difficili sentimenti di cordoglio e ad acquisirne una visione prospettica. Nel 1973, seguendo il lavoro pionieristico di Phyllis Silverman alla Scuola di Medicina dell’Università di Harvard (Harvard University Medical School), il Widowed Persons Service (WPS, Servizio persone vedove), cominciò a realizzare un progetto d’aiuto reciproco fra vedovi.47 Il Widowed Persons Service, che fa capo all’American Association of Retired Persons (Aarp; Associazione americana pensionati), offre alle persone rimaste vedove di recente l’aiuto di volontari qualificati, vedovi a loro volta. L’importanza attribuita all’assistenza fra pari e l’approccio individuale sono la chiave dell’efficacia di questi programmi.

La morte di un amico La morte di un caro amico è una perdita impegnativa che suscita cordoglio in modo molto simile alla morte di un parente.48 Tuttavia sono poche le opportunità di elaborare apertamente il lutto per la morte di un amico. Mentre la maggior parte dei datori di lavoro concede almeno un qualche tipo di permesso per lutto quando si verifica una morte nella famiglia di un impie-

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gato, tale permesso difficilmente verrà concesso quando muore un amico intimo, anche se la persona in lutto e il defunto sono stati i “migliori amici” per anni. Si tende a pensare che le relazioni umane più importanti siano quelle all’interno della famiglia, ma anche l’amicizia implica legami simili. A causa dei cambiamenti nella struttura della famiglia, della mobilità sociale e geografica e d’altri fattori psicologici o culturali, i legami d’amicizia, per molte persone, stanno diventando sempre più importanti. Il termine “amico” comprende diversissimi tipi di relazione. La maggior parte delle persone ha amici occasionali, amici stretti, e uno o più “migliori amici”, oltre ad amici che hanno una funzione particolare come colleghi, soci e conoscenze. Molte persone identificano il coniuge con il loro migliore amico e quando la morte pone fine alla relazione coniugale la sciagura è doppia, in quanto significa anche la perdita del migliore amico. Alcuni amici non si vedono spesso, ma quando s’incontrano la loro amicizia “riprende da dove l’avevamo lasciata.” Per gli adulti più anziani, le amicizie sono a volte più importanti dei rapporti familiari. Per esempio, nonostante molte donne anziane vivano da sole, spesso affermano di non sentirsi sole per via dei rapporti di reciproco sostegno che hanno sviluppato e mantenuto vivi con un circolo di amicizie.49 Le amicizie sono importanti a ogni età e quando un amico muore, il lutto dovrebbe essere socialmente riconosciuto. Tuttavia anche quando la società tende a delegittimare tale cordoglio, è importante dedicare del tempo per elaborare il lutto per la morte di un amico. Anziani e invecchiamento L’invecchiamento non comincia a cinquanta, a sessantacinque o a ottantacinque anni. Anche in questo momento stiamo invecchiando. Una persona che celebra il suo trentesimo o quarantesimo compleanno noterà che queste pietre miliari della vita fanno riflettere sull’invecchiamento e sulle opportunità che si perdono imboccando un percorso di vita piuttosto che un altro.50 È interessante notare che le attese che la maggior parte delle persone nutre sull’invecchiare o sulla vecchiaia, differiscono notevolmente dalla realtà. I giovani si aspettano che i problemi delle persone anziane siano più gravi di quanto in realtà non siano. Bernice Neugarten ricorda che quando sviluppò per la prima volta un corso sul tema dello sviluppo dell’adulto e dell’invecchiamento, “veniva generalmente dato per scontato che si raggiunga un livello chiamato semplicemente età adulta e che vi si viva fino a raggiungere la vetta all’età di sessantacinque anni.”51 L’immagine stereotipata di una persona anziana è caratterizzata da segni

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esteriori caratteristici: pelle arida e rugosa, capelli grigi, calvizie, calo della vista, perdita dell’udito, rigidità delle giunture, e generale debilitazione fisica. In effetti, i segni fisici della senescenza, o il processo dell’invecchiare, sono correttamente associati con l’invecchiamento dell’organismo umano. La senescenza può essere concepita come aumentata vulnerabilità: il rischio che una malattia o una lesione si rivelino fatali aumenta con l’età.52 Molte malattie e invalidità – con le perdite associate in molti ambiti della vita – si verificano più comunemente fra le persone nella settima o ottava decade di vita, o più anziane ancora. Tuttavia, l’età, da sola, è un fattore di previsione molto scadente degli esiti di vita per un individuo particolare.53 Invecchiando, non solo sperimentiamo, con sempre maggior frequenza, la morte degli altri, ma ci avviciniamo anche, sempre di più, alla nostra stessa morte. Nelle società sviluppate esiste una spinta verso il miglioramento della qualità della vita con una parallela “compressione” della mortalità e un aumento dell’aspettativa di vita “attiva.”54 L’abbreviazione della lunghezza delle malattie debilitanti consente alle persone di godere di buona salute e mantenersi attive quasi fino alla fine della loro vita. Il cambiamento delle condizioni di salute degli adulti più anziani è riconosciuto nell’uso, da parte del Consiglio nazionale sull’invecchiamento (National Council on Aging), dei termini “anziano-giovane” per persone di età compresa fra i 66 e i 75 anni, “anziano medio” per quelle di età compresa fra i 75 e gli 85 anni, e “anziano-anziano” per quelli di età superiore agli 85 anni. Quest’ultimo gruppo rappresenta il segmento di popolazione anziana che cresce più rapidamente. Trattandosi di un gruppo di “sopravvissuti altamente selezionati”, essi tendono a non corrispondere agli stereotipi che vedono nell’“anziano-anziano” un’età di fragilità e di dipendenza.55 In contrasto con la loro immagine stereotipata, le persone anziane tendono a distinguersi individualmente più di quanto non accada in ogni altro segmento della popolazione: hanno avuto più tempo a disposizione per creare storie di vita uniche. Neugarten afferma: “Le persone sono sistemi aperti, che interagiscono con le persone intorno a loro. Tutte le loro esperienze lasciano tracce.”56 Il rispetto reciproco, la fede, la comunione con gli altri e l’interesse per le questioni esistenziali sono essenziali per il benessere degli anziani.57 Come società, in Usa ci occupiamo dell’assistenza fisica agli anziani attraverso programmi come Social Security e Medicare. Sembriamo invece meno interessati a offrire un “posto” agli anziani nella società. Il desiderio della società sembra essere unicamente che gli anziani “invecchino con grazia.” Come osserva Daniel Callahan, l’impulso a liberarci degli stereotipi sull’età avanzata può produrre l’effetto paradossale e ironico di allontanarci dalle “fruttuose e valide generalizzazioni sugli anziani e dai nuovi tentativi di com-

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prendere il posto occupato dalla vecchiaia nel ciclo della vita”.58 Nel riconoscere le differenze individuali fra gli anziani, secondo Callahan, dovremmo anche considerare “i tratti comuni della vecchiaia, quei tratti che rendono significativo parlare degli anziani come di un gruppo e della vecchiaia come di una parte intrinseca della vita individuale.” Nella ricerca di quello che Callahan definisce un “significato pubblico” dell’invecchiamento, è necessario affrontare alcune importanti questioni: 1. L’invecchiamento spesso si accompagna a una “sofferenza privata”, causata da perdite fisiche e psicologiche: come può tale sofferenza diventare una parte significativa e importante della vita? 2. Quali virtù morali (ad esempio la pazienza, la coltivazione della saggezza, il coraggio di fronte ai cambiamenti) dovrebbero propriamente essere associate alla preparazione alla vecchiaia e al vivere in vecchiaia? 3. Quali sono gli obblighi morali e sociali propri degli anziani? La vecchiaia è un periodo nel quale dedicare la propria vita allo svago e al benessere, o nel quale cercare il coinvolgimento attivo nella vita sociale? 4. Quali diritti sanitari e sociali dobbiamo garantire agli anziani? Se non riusciamo a soddisfare ogni necessità medica o a mettere a loro disposizione ogni possibile innovazione tecnologica, come possiamo arrivare a un ragionevole ed equo livello di assistenza degli anziani? Come Callahan suggerisce, le nostre risposte a tali domande riflettono necessariamente al tempo stesso “il tipo di anziano che vogliamo essere e quali tratti ideali del carattere vorremmo promuovere e sostenere.” Nel considerare il nostro futuro status di anziano, vale la pena di notare che la pretesa di soddisfare tutti i “bisogni” degli anziani è destinata inevitabilmente a fallire, specialmente se tali bisogni riguardano essenzialmente il modo di evitare la malattia e la fragilità. L’ovvia verità, dice Callahan, è che “sarà sempre impossibile soddisfare tali bisogni” nonostante un’ideologia sociale implicita che “tenta di neutralizzare tutto ciò che è inevitabile nel processo dell’invecchiamento e del declino della vita”. Le immagini e i significati positivi dell’invecchiare vengono erosi quando consideriamo la vecchiaia come uno stato patologico o un’afflizione evitabile. In alcune società, gli anziani possiedono lo status speciale di “anziani della comunità”. Le donne anziane in una comunità afroamericana, ad esempio, continuano a occupare un posto speciale perché, con le tradizioni orali, tramandano i significati culturali alle generazioni successive.59 Un simile rispetto per gli anziani si trova anche fra le popolazioni native americane.60 Invecchiare non è essenzialmente un “problema medico”. Robert Butler afferma: “Nessuno di noi sa se abbiamo già vissuto gli anni migliori della no-

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stra vita o se i migliori devono ancora venire. Ma le massime potenzialità umane restano legate allo scopo stesso della vita e sono le potenzialità dell’amore e del sentimento, della riconciliazione e della fermezza”.61 Il periodo della vecchiaia o della maturità, intesa come fase culminante della vita umana, è un momento appropriato per valutare le caratteristiche di questa parte del viaggio dell’uomo. Butler afferma: “Dopo che una persona ha vissuto una vita densa di significati, la morte può perdere molto del suo terrore; ciò che temiamo di più non è propriamente la morte, ma una vita assurda e senza significato. Io credo che la maggior parte degli esseri umani possa accettare la fondamentale imparzialità del susseguirsi dei turni generazionali, se non gli viene sottratta la pienezza del loro turno.”62

Letture di approfondimento Robert C. DiGiulio. Beyond Widowhood: From Bereavement to Emergence and Hope. New York: Free Press, 1989. Sharon R. Kaufman. The Ageless Self: Sources of Meaning in Later Life. Madison: University of Wisconsin Press, 1995. Dennis Klass. The Spiritual Lives of Bereaved Parents. Philadelphia: Brunner/Mazel, 1999. Donald M. Murray. The Lively Shadow: Living with the Death of a Child. New York: Ballantine, 2003. Therese A. Rando, ed. Parental Loss of a Child. Champaign, Ill.: Research Press, 1986. Paul C. Rosenblatt. Parent Grief. Narratives of Loss and Relationship. Philadelphia: Brunner/Mazel, 2000. Catherine M. Sanders, Grief, The Mourning After: Dealing with Adult Bereavement. New York: Wiley, 1989. Debra Umberson. Death of a Parent: Transition to a New Adult Identity. New York: Cambridge University Press, 2003. Helena Znaniecka Lopata. Current Widowhood: Myths and Realities. Thousand Oaks, Calif: Sage, 1996.

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Capitolo 11

IL SUICIDIO

Il concetto di suicidio comprende un’ampia varietà di comportamenti e motivazioni; esso è stato definito da alcuni come un “male della civilizzazione”, ma il suicidio si ritrova, di fatto, in tutte le società. Judith Stillion osserva che “il suicidio è forse il più complesso e il meno compreso dei comportamenti umani, anche se la sua esistenza è stata documentata nell’intero corso della storia.”1 Il suicidio altruistico – ovvero la rinuncia di una persona alla propria vita a vantaggio d’altri o in vista di un bene superiore – è probabilmente esistito fin da quando gli esseri umani si associarono in tribù e in clan. Possiamo immaginare che un individuo si prestasse volontariamente ad attirare su di sé l’attenzione di un branco di animali, consentendo così agli altri membri del gruppo di cacciatori di catturare più facilmente gli animali: la probabilità di sopravvivere all’assalto del branco era bassa, ma la ricompensa era la sopravvivenza della tribù. Le popolazioni nomadi accettavano il suicidio fra gli anziani o fra gli ammalati, per mantenere la mobilità necessaria alla sopravvivenza del gruppo, anzi, tributavano onore a una persona che, consapevole dell’approssimarsi della fine, lasciava volontariamente la comunità per una morte certa. In modo assai simile, il suicidio è stato visto come un modo di esprimere l’estrema fedeltà verso un principio morale o filosofico. Per più di due millenni, la morte autoinflitta di Socrate è stata simbolo di morte in difesa dei propri principi. Oggi, il contesto nel quale si verifica il suicidio, è molto diverso. “Perché”, ci si chiede, “una persona dovrebbe porre fine alla propria vita?” Le persone tendono a vivere con disagio il fatto, sconvolgente, che ognuno di noi ha il potere di decidere se vivere o no. Le questioni dell’intenzione e della scelta sono centrali per comprendere il suicidio e altri comportamenti autodistruttivi. Il suicidio è influenzato dalla cultura personale, oltre che dalla peculiare combinazione della personalità e dalla particolare situazione di vita di una persona. Vi sono coinvolti fattori quali depressione, esperienze di vita negative, scarsa autostima e dolore fisico cronico. Generalmente, non vi è una risposta univoca in grado di spiegare perché una persona muore di suicidio.

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Comprendere il suicidio Una volta nella vita capita quasi a tutti di avere brevi fantasie di suicidio. Tali pensieri non sono insoliti nell’infanzia e nell’adolescenza e possono comparire di tanto in tanto anche in fasi più avanzate della vita. Possono emergere come un modo per “provare” o “verificare” l’idea di porre deliberatamente fine alla propria vita, più che come seri piani di comportamento suicida. Nel considerare che cosa conduca una persona al suicidio, ci si può trovare a pensare che “non c’è nulla che potrebbe indurmi a pensare seriamente di porre fine alla mia vita”. Alle persone che hanno fiducia nelle proprie risorse, per affrontare in modo efficace le richieste della vita, il suicidio, appare decisamente una soluzione estrema; tuttavia, trattandosi di un comportamento umano complesso, il suicidio implica varie motivazioni e intenzioni. Nella ricerca di risposte al tema del suicidio, il nostro primo passo deve essere quello di individuare un quadro di riferimento che ci aiuti a organizzare questa complessità in una forma gestibile. Appare immediatamente chiaro che il suicidio può essere studiato sulla base della sua causa o del suo scopo apparente, dei significati individuali e culturali connessi ai comportamenti suicidari e tenendo conto delle specifiche popolazioni colpite dal suicidio. Le quattro definizioni del suicidio date in tabella 11-1 contribuiscono a costruire un quadro di riferimento utilizzabile per tutti questi approcci. Si noti che ogni definizione enfatizza alcuni aspetti specifici dell’intenzione e del comportamento suicida. La definizione di base del dizionario è un buon punto di partenza per comprendere il suicidio, ma è vaga. Analizzando attentamente le diverse definizioni, prestate particolare attenzione al modo in cui ognuna spiega le dinamiche del suicidio. Chiedetevi: quali tipologie di comportamento umano sono incluse nella definizione? Il suicidio è un atto specifico o un processo comportamentale? Qual è il contesto del suicidio? Quali sono le circostanze nelle quali si verifica? Ad esempio, la definizione di Ronald Marris è focalizzata sulla causa o sul fondamento logico (razionale) del suicidio. La definizione del sociologo francese Jean Baechler sottolinea il suicidio come un mezzo di risoluzione dei problemi. Si noti che il suicidio è definito come un comportamento piuttosto che come un atto specifico; esso può essere altresì estemporaneo o a lungo premeditato. Così, l’abuso d’alcool può essere considerato come comportamento suicida perché, nel tentativo di risolvere problemi esistenziali, si fa uso di qualcosa che, nel tempo, può avere conseguenze fatali. Infine, la definizione di Edwin Shneidman mette in rilievo l’intenzione e l’azione, insieme al concetto di porre fine alla propria esistenza cosciente.

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Tabella 11-1 Quattro definizioni di suicidio. Il suicidio è... L’atto o l’istanza di togliersi la vita volontariamente e intenzionalmente, specie nel caso di una persona nell’età della ragione e sana di mente. (Webster New Collegiate Dictionary)1 L’auto-uccisione derivata dall’incapacità o dal rifiuto dell’individuo di accettare i termini della condizione umana. (Ronald W. Maris)2 Ogni tipo di comportamento che cerca e trova la soluzione a problemi esistenziali attentando alla vita del soggetto. (Jean Baechler)3 L’atto umano di cessazione auto-inflitta e auto-intenzionata. (Edwin Shneidman)4 1 Citato con autorizzazione. Da “Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary”, Eleventh Edition, © 2003 Merriam-Webster, Inc., ed. Marriam Webster® Dictionaries. 2 Ronald W. Marris, “Pathways to Suicide: A survey of Self-Distructive Behaviors” (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1981), p. 290. 3 John Baechler, “Suicides” (New York: Basic books, 1979), p. 11. 4 Edwin S. Shneidman, ed., Death: “Current Perspectives”, seconda ed. (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1980), p. 416.

Dati statistici Quasi 30.000 persone muoiono di suicidio ogni anno negli Stati Uniti.2 Considerando la nazione nel suo complesso, il suicidio si situa all’undicesimo posto fra tutte le cause di morte e al terzo posto fra quelle degli individui di età compresa fra gli undici e i ventiquattro anni. Gli americani che muoiono suicidi sono più numerosi di quelli uccisi per mano altrui e le armi da fuoco sono il mezzo più comunemente usato per suicidarsi. Complessivamente, i maschi superano le femmine in proporzione di circa quattro a uno. Negli Stati Uniti, i tentativi di suicidio costituiscono circa il 20 per cento dei ricoveri ospedalieri d’emergenza e circa il 10 per cento di ricoveri ospedalieri totali.3 Al di là del costo in termini di perdita di vite umane, il suicidio esercita un forte impatto su coloro che si ritrovano a elaborare il lutto per una morte per suicidio. Si stima che ogni suicidio coinvolga almeno altre sei persone. Questi superstiti comprendono membri della famiglia, amici, persone importanti nella vita del defunto e persone amate. Se si considera che, negli Stati Uniti, c’è in media un suicidio ogni diciotto minuti, ciò significa che ogni diciotto minuti ci sono anche almeno sei nuove persone in lutto. Poiché parlare apertamente e in modo franco di suicidio, per molte persone, è difficile, o è addirittura tabù, il numero reale di morti per suicidio, ogni anno è probabile che sia molto più alto di quello indicato dalle statisti-

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che. In generale vi è accordo nel ritenere che le stime ufficiali sottovalutino il reale numero di suicidi, forse di circa la metà. È raro che una morte sia classificata come suicidio, a meno che non la si sospetti tale, in base al fatto che il defunto ha una storia di tendenze suicide o di atti di autolesionismo, oppure perché il suicida ha lasciato un messaggio o perché le circostanze della morte indicano chiaramente un suicidio. Quando le circostanze della morte sono equivoche (nel senso che le cause sono incerte o non chiare) e sorgono dubbi sul fatto che si sia trattato di un suicidio o di un incidente, è più probabile che la morte sia classificata come morte accidentale, a meno che non venga condotta un’accurata indagine che dimostri il contrario. In alcuni casi, ad esempio, un’analisi dettagliata delle circostanze che accompagnano un incidente automobilistico conduce alla conclusione che quello che sembrava un “incidente” è, in realtà, un “suicidio mascherato”. In effetti, alcune autorità ritengono che, se tali “autocidi” fossero aggiunti alle statistiche note, il suicidio salirebbe al primo posto fra le cause di morte fra i giovani. Similmente, un omicidio provocato dalla vittima può mascherare l’intento suicida di una persona. Una persona che provoca deliberatamente qualcuno, facendo balenare un coltello o brandendo una pistola, o incitando gli altri con minacce di violenza, può cercare di ottenere l’aiuto involontario degli altri per causare la propria morte. Gli individui a volte creano situazioni violente, mettendosi nelle condizioni di essere uccisi, e magari per “morire da eroi”.4 Una sottocategoria dell’omicidio provocato dalla vittima, nota come “suicidio per mano della polizia”, si verifica quando vengono intraprese azioni rischiose e criminali che inducono i poliziotti a sparare, uccidendo.5 Similmente, alcune ricerche mostrano che gli individui che uccidono altre persone richiedono la pena di morte per le loro azioni come forma di suicidio, in una situazione che è stata chiamata “sindrome da omicidio-suicidio”.6 Sono poche le morti provocate dalle vittime stesse che sono conteggiate nelle statistiche come suicidi, la maggior parte sono invece classificate come omicidi a meno che ulteriori indagini non ne rivelino una diversa natura. Riassumendo le difficoltà legate alla compilazione d’accurate statistiche sul suicidio, Edwin Shneidman afferma: “Per pregiudizi religiosi e burocratici, per la sensibilità della famiglia, per le differenze nelle procedure d’indagine fra le udienze condotte dal coroner (il medico legale) e le analisi post mortem, nonché per le distinzioni vaghe fra suicidi e incidenti, in breve per la mancata volontà di riconoscere l’atto per quello che è, la conoscenza della diffusione del suicidio nella società moderna è ridotta e distorta.”7

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L’autopsia psicologica I metodi utilizzati nel procedere a un’autopsia psicologica migliorano l’accuratezza della classificazione della morte. Sviluppata nel 1961 – principalmente da Norman Farberow, Edwin Shneidman e Robert Litman – l’autopsia psicologica è una tecnica investigativa usata dagli scienziati comportamentali nei casi di morte equivoca.8 Il suo scopo è quello di ricreare la personalità e lo stile di vita del defunto e le circostanze note della sua morte. Le informazioni raccolte attraverso interviste, documenti e altro materiale vengono utilizzate per determinare la modalità della morte: naturale, incidente, suicidio o omicidio. Sulla base di queste informazioni, “la gestalt storica che emerge dai dati, può chiarire la modalità di morte più probabile.”9 Particolarmente importanti sono le informazioni raccolte a partire da interviste agli amici, ai familiari del defunto e ad altri membri della comunità. Tutto ciò porta alla luce tensioni presenti e passate, l’anamnesi psichiatrica e medica, lo stile di vita generale del defunto, ma anche eventuali comunicazioni di intenti suicidi. Le abitudini quotidiane della persona nei giorni e nelle ore precedenti alla morte, sono oggetto di attenta considerazione da parte degli investigatori, che cercano di creare un quadro generale del carattere, della personalità e dello stato mentale della persona. Infine, sulla base dell’accertamento di tutti i dati raccolti, si formula il giudizio sulla modalità della morte. Molti anni fa l’uso delle autopsie psicologiche destò l’attenzione dell’opinione pubblica quando un’esplosione a bordo della nave USS Iowa, uccise quarantasette marinai.10 Sulla base di una “analisi di morte equivoca”, condotta dall’FBI, la Marina militare attribuì la tragedia al presunto atto suicida del secondo capo cannoniere Clayton Hartwig. L’indagine dell’FBI non convinse il Comitato del Congresso sulle Forze Armate che convocò un gruppo di illustri psicologi per condurre un’analisi complessiva e comparata del rapporto dell’FBI e della conseguente conclusione della Marina; dopo avere soppesato le prove, il Comitato rigettò la dichiarazione della Marina, che accusava Hartwig di avere causato l’esplosione intenzionalmente e definì l’indagine un “fallimento investigativo”, con particolare riferimento all’analisi dell’FBI. In seguito i test dimostrarono che lo scoppio poteva essere ricondotto ad un errore meccanico. La Marina, infine, ritirò le sue dichiarazioni sulla responsabilità di Hartwig e il Capo delle Operazioni Navali presentò le scuse formali alla famiglia di Hartwig. Commentando il caso gli psicologi del Comitato menzionarono numerosi limiti procedurali nella ricostruzione psicologica dell’analisi di morte equivoca e delle autopsie psicologiche dell’FBI, concludendo che tale ricostruzione psicologica non poteva produrre “conclusioni categoriche sul preciso stato

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mentale o sulle azioni sospette dell’attore, nel momento del suo decesso.”11 Ancor oggi la magistratura non ha un giudizio unanime sull’ammissibilità delle autopsie psicologiche come prove: solo alcuni tribunali le ammettono come prove. Il caso Hartwig dimostra che la carenza di precisione scientifica può condurre gli investigatori a conclusioni erronee sui dati raccolti con le autopsie psicologiche. Tuttavia, come sottolinea chi è a favore di tali tecniche investigative, nemmeno le autopsie mediche sono perfette – eppure sono considerate potenzialmente in grado di chiarire le circostanze della morte. Nonostante i suoi limiti l’autopsia psicologica si è dimostrata un utile strumento nell’accertamento dei fattori di rischio di suicidio, specialmente dei fattori che espongono al rischio i giovani;12 come approccio investigativo e come strumento di ricerca, l’autopsia psicologica approfondisce la nostra comprensione del suicidio e del comportamento suicida.

Teorie esplicative del suicidio Lo studio del suicidio ha seguito principalmente due linee di ricerca teorica: 1) il modello sociologico, che ha la sue basi nell’opera del sociologo francese del diciannovesimo secolo Emile Durkheim; 2) il modello psicologico, fondato sull’opera dello psicoanalista viennese Sigmund Freud. Per lo più, gli studiosi seguono un approccio integrato alla comprensione del suicidio, che combina le istanze sociologiche con quelle psicologiche. Il contesto sociale del suicidio Il modello sociologico, come dice il suo nome, è focalizzato sul rapporto fra l’individuo e la società. Le persone vivono all’interno di una rete di relazioni sociali che vanno dal nucleo familiare alla società nel suo complesso. Varie forze sociali possono avere, e, di fatto, hanno, un impatto sulle circostanze che danno origine al suicidio. Secondo Durkheim, queste forze sociali manifestano il loro impatto attraverso il grado di regolamentazione e di integrazione della società.13 Grado di regolamentazione sociale Quando i legami sociali sono deboli, gli individui possono provare un senso di caos, confusione e isolamento e inoltre sperimentare perdita di valori, di parametri e d’usanze tradizionali. Possono sentirsi disorientati, ansiosi e soli. Questa instabilità sociale è definita con il termine anomia (che signifi-

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ca “assenza di leggi”). Nel modello di Durkheim, un’insufficiente regolamentazione sociale crea le condizioni per suicidi anomici. Il classico esempio di questa situazione è quello di società che subiscono un rapido cambiamento sociale e le persone perdono i legami che le ancoravano ai valori e ai modi di vivere tradizionali. L’aumento del numero di suicidi fra i giovani in tutto il mondo è stato, in parte, attribuito a mutamenti culturali e sociali in seguito ai quali l’enfasi posta sui valori individuali e sull’autonomia tende ad allentare i legami fra gli individui e la società; i giovani si sentono alla deriva, mentre cercano di orientarsi nel difficile periodo di transizione dall’infanzia all’età adulta. Anche un trauma o una catastrofe improvvisi possono indebolire i legami fra l’individuo e la società. La perdita di un lavoro, l’amputazione di un arto, la morte di un amico intimo o di un membro della famiglia, ognuna di queste perdite può essere un evento anomico. In realtà qualsiasi cambiamento dirompente – positivo o negativo che sia – può produrre uno stato di anomia. L’improvviso benessere può contribuire a un comportamento suicida, se la persona che si è recentemente arricchita non è in grado di gestire lo status acquisito. All’estremo opposto della regolamentazione, troviamo una società caratterizzata da vincoli repressivi. Un’eccessiva costrizione sociale può essere altrettanto dannosa, quando esistono legami sociali deboli. La mancanza di libertà e l’assenza di possibilità di scelta, possono portare ad un senso di fatalismo, alla sensazione di non potersi dirigere da nessuna parte e di non poter realizzare nulla di buono. Ciò produce quello che Durkheim definisce il suicidio fatalistico. L’alto numero di suicidi in carcere è dovuto, almeno in parte, alla rigida regolamentazione che vige in quelle strutture. Il grado di integrazione sociale Ugualmente importante è il grado di reale integrazione nella società di una persona. Pensando all’effetto dell’integrazione sociale, troviamo, ad un estremo, le situazioni nelle quali l’individuo si sente alienato rispetto alle tradizioni e alle istituzioni della sua società. Senza un adeguato senso di connessione sociale, una persona può diventare eccessivamente dipendente dalle proprie risorse personali. Durkheim definisce egoistici i suicidi che fanno capo a questo tipo di contesto sociale. Le energie mentali di un individuo sono concentrate sull’Io, al punto che le sanzioni sociali contro il suicidio sono inefficaci; chi è privato di diritti o chi vive ai margini della società, può sentire che non c’è ragione di aggrapparsi ai valori che affermano la vita, perché non si sente significativamente legato alla comunità. In questo senso, l’anomia (mancanza di regolamentazione) e l’egoismo (mancanza d’integrazione) si rafforzano a vicenda. Nella concezione di Durkheim, quando una persona

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è staccata dalla società, la personalità individuale ha la precedenza sulla personalità collettiva. Dunque, il suicidio egoistico è un tipo di suicidio generato da eccessivo individualismo. Di converso, vediamo che, quando una persona possiede un forte grado di connessione sociale, può identificarsi con i suoi valori e con le sue cause, al punto da sminuire il senso della propria identità personale. I valori del gruppo sociale predominano sui valori dell’individuo, è il caso di quello che Durkheim chiama suicidio altruistico o istituzionale, che è stato definito come “l’autodistruzione richiesta da una società… come prezzo da pagare per esserne membro.”14 Nel Giappone feudale, ad esempio, quando i samurai sacrificavano le loro vite, per conservare l’onore e la reputazione dei loro signori, tale suicidio era visto come un atto eroico. In alcune circostanze, lo sbudellamento rituale, chiamato seppuku o hara-kiri, era culturalmente accettato, e richiesto, e veniva compiuto secondo un cerimoniale codificato.15 Quando un guerriero era disonorato in battaglia, il seppuku era un modo per riconquistare l’onore. Era anche un modo per mostrare devozione verso un superiore, e al samurai poteva essere richiesto di esibire la propria devozione in questo modo, alla morte del suo signore. Altre volte, il seppuku poteva essere per un samurai un modo onorevole di affermare pubblicamente il proprio dissenso nei confronti di un superiore. Anche durante la guerra del Vietnam, vi furono suicidi di alcuni monaci buddisti che morirono autoimmolandosi per protesta contro le politiche governative del loro paese. Secondo la teoria di Durkheim, le società altamente integrate incoraggiano naturalmente il suicidio altruistico e fatalistico.16 Similmente, in passato, da alcune caste indiane ci si aspettava che praticassero il suttee, che richiedeva che la moglie si buttasse nella pira crematoria del marito. Questa autoimmolazione era perdonata dalle credenze religiose e culturali predominanti. La riluttanza da parte della vedova a mettere in atto tale suicidio rituale poteva incontrare la disapprovazione sociale. Anzi, una vedova riluttante poteva essere “aiutata” ad approssimarsi verso la pira infuocata. A questi esempi di seppuku e di suttee si potrebbero aggiungere le morti dei piloti kamikaze del corpo d’attacco aereo giapponese durante la seconda Guerra Mondiale e l’esempio del capitano fedele che affonda con la sua nave. Discutendo il suicidio altruistico, Durkheim introduce il concetto di “suicidio eroico” riferendosi alle morti in guerra, legate a eccezionale eroismo, come quello esibito da militari insigniti di medaglia d’onore per avere volontariamente sacrificato la propria vita per salvarne altre.17 Anche i suicidi di massa si verificano all’interno di un contesto sociale altamente integrato. Ad esempio, il 20 novembre 1978, in una radura nella giungla prima di allora sconosciuta nei pressi di Jonestown, nel Guyana, più di 900 persone morirono in quello che è considerato il più grande suicidio di

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massa della storia.18 Membri di una stessa famiglia morirono ognuno fra le braccia dell’altro mentre, usando toni ipnotici, dal suo trono eretto in posizione elevata, il reverendo Jim Jones impartiva istruzioni ai seguaci della sua comunità del Tempio del Popolo perché bevessero un analcolico alla frutta corretto con cianuro. Visto da una prospettiva sociale il suicidio è causato da un disturbo nei legami fra l’individuo e la società. Uno squilibrio del grado di regolamentazione sociale o d’integrazione sociale, o d’entrambi, aumenta le possibilità di suicidio. Dunque, secondo la spiegazione sociologica, ogni forma di suicidio – anomico, fatalistico, egoistico, altruistico – è legata a un particolare tipo di interazione fra la società e l’individuo. Le concezioni psicologiche sul suicidio Basandosi sulle teorie originariamente proposte da Sigmund Freud, il modello psicodinamico del suicidio focalizza l’attenzione sui processi mentali ed emotivi, consci e inconsci, che si verificano nella mente di un individuo.19 Esso presuppone che il comportamento di una persona sia determinato dall’esperienza passata e dalla realtà attuale. Fra i concetti-chiave provenienti dagli studi psicologici dedicati al suicidio, troviamo i seguenti: 1. La crisi suicidaria acuta ha una durata relativamente breve; essa può durare alcune ore o alcuni giorni, più che settimane o mesi, ma può essere ricorrente. La persona resta all’apice dell’autodistruttività per un tempo breve, e o riceve aiuto, e si calma, o si uccide. 2. La persona suicida è quasi sempre ambivalente riguardo alla possibilità di porre fine alla propria vita. Una persona sul punto di suicidarsi, vuole e non vuole morire allo stesso tempo. Mentre elabora piani d’autodistruzione, può anche avere fantasie di salvataggio o intervento esterno. 3. La maggior parte degli eventi suicidi sono eventi diadici, eventi che coinvolgono due persone. In qualche modo, essi coinvolgono sia una persona suicida, sia una persona che per lei è importante. Nella concezione psicodinamica, il suicidio implica una forte ostilità inconscia. In condizioni di forte stress, le pressioni intrapsichiche che stimolano una persona all’autodistruzione aumentano al punto da sopraffare i meccanismi di difesa dell’Ego, o del sé; ciò a sua volta causa una regressione verso stati dell’io più primitivi, che coinvolgono potenti forze di aggressività. L’omicidio è aggressività contro un altro, il suicidio è aggressività contro sé stessi. In questo senso, il suicidio può essere visto come omicidio a 180 gradi.

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Al mobilitarsi delle forze aggressive, tuttavia, l’impulso all’autoconservazione agisce contro l’acquiescenza dell’Io alla propria morte. Così, entra in gioco un altro processo psicodinamico: l’ambivalenza. L’analisi del comportamento suicida rivela solitamente la presenza di forze conflittuali che competono per accaparrarsi la maggior parte delle energie mentali della persona. Le persone suicide tendono all’indecisione ed è possibile che contino di essere soccorse. Quando una persona sembra essere intenzionata a suicidarsi, il naturale istinto d’autoconservazione agisce contro l’accettazione, da parte dell’Io, della propria morte: in gioco ci sono la volontà di vivere contro la volontà di morire. Erwin Stengel afferma, “La maggior parte delle persone che commettono atti d’autolesionismo, con intento autodistruttivo più o meno cosciente, non vogliono vivere o morire, ma fare entrambe le cose allo stesso tempo.”20 L’equilibrio fra queste due opposte polarità, può essere delicato e una qualsiasi cosa che, altrimenti, sarebbe un incidente di scarsa importanza, può bastare a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Infine, una di queste forze si dimostrerà più forte dell’altra, ma anche quella più debole influenzerà il comportamento della persona. Molti atti suicidi sono esempi di comportamenti rischiosi o di scommesse; sono il risultato del conflitto fra gli impulsi autodistruttivi e quelli autoconservativi, dipendenti da una molteplicità di fattori, alcuni dei quali sono fuori dal controllo dell’individuo. Verso una comprensione integrata del suicidio Il comportamento suicida è poliedrico, ha molte sfaccettature e dimensioni, le spiegazioni sociologiche e psicodinamiche del suicidio interagiscono, integrandosi a vicenda. Dopo avere dedicato tutta la vita allo studio del suicidio, il pioniere della suicidologia Edwin Shneidman ha distillato le sue conoscenze in cinque parole: Il suicidio è causato da dolore psichico.21 Il termine “dolore psichico” si riferisce all’insopportabile dolore mentale causato dalla frustrazione dei bisogni più importanti di una persona, propri d’ogni individuo. Quando si soddisfano questi bisogni, troviamo significato e felicità nella vita. Il suicidio è stato definito “una cattiva decisione in una brutta giornata.” È il risultato del desiderio di ridurre un intollerabile dolore mentale; un individuo suicida si trova quasi sempre in uno stato di disperazione isolata, come se fosse in un angolo buio nel quale sembrano non esserci né speranza né conforto. Un tema comune fra i percorsi individuali che conducono al suicidio è concepirlo come forma definitiva per acquisire il controllo sulle difficoltà insormontabili della vita. La sequenza che conduce al suicidio spesso comincia con interazioni fra disequilibri biochimici nel cervello, con fattori legati alla personalità e con lo

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stress. In gran parte, i suicidi sono il risultato di una patologia cerebrale, una malattia mentale come depressione, ansia, schizofrenia, disordine bipolare (maniaco-depressivo) o altri disturbi dell’umore. La depressione clinica, uno stato d’intensa tristezza e d’autoriprovazione, spesso legato a qualche disturbo dell’elaborazione delle perdite, è uno dei principali fattori di rischio nel suicidio. Un aspetto cruciale della depressione è il senso di disperazione della persona. Il rischio di suicidio è inoltre più alto quando sono presenti alcuni disordini della personalità, come una personalità borderline o antisociale, specialmente se associata ad abuso di sostanze. Infatti, l’abuso d’alcool o di stupefacenti è una concausa in molti suicidi, ma mentre la malattia mentale è un fattore di rischio continuo, lo specifico tempismo degli atti suicidi tende ad essere legato ad eventi di vita particolarmente angoscianti. In molti casi di suicidio sembra esserci un soggiacente rischio biologico causato dalla ridotta capacità, da parte del cervello, di produrre e utilizzare la serotonina, un neurotrasmettitore fondamentale, che, secondo gli scienziati esercita un’influenza calmante sulla mente. Bassi livelli di serotonina nel cervello sono stati posti in relazione con depressione, impulsività, aggressività e comportamento suicida.22 Studi biochimici indicano che bassi livelli di serotonina (5-HT), o del metabolita del suo neurotrasmettitore (5-HIAA), appaiono correlati al comportamento suicida. In qualche modo, non ancora compreso completamente, i livelli di serotonina di una persona sembrano essere legati al rischio di suicidio. Via via che gli scienziati migliorano la conoscenza del ruolo svolto da marker biologici come la serotonina, potrebbe divenire possibile ridurre la vulnerabilità suicida, identificando gli individui a rischio e offrendo loro terapie appropriate. Purtroppo, molte persone non sono consapevoli del ruolo della malattia mentale nel suicidio, di conseguenza, si tende a trattare il suicidio come un fallimento della responsabilità personale o come qualcosa di cui vergognarsi. Questo atteggiamento erroneo può gravemente limitare la comprensione del suicidio, infatti, una volta che sarà riconosciuto il forte legame esistente fra le patologie della mente e il suicidio, tenderà a cadere la nozione convenzionale che il suicidio sia un atto deciso da una persona, sulla base della propria libera e razionale facoltà di scelta.

Alcuni tipi di suicidio Sono stati applicati al suicidio molti schemi di classificazione, nel tentativo di comprenderne meglio i significati sociali e personali (tab. 11-2). Per fornire un quadro più completo del suicidio e di altri comportamenti autodistruttivi, esamineremo più da vicino alcuni “tipi” di suicidio.

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Suicidio come fuga Il suicidio può essere visto come un mezzo di fuga da un intenso dolore fisico o da un’intensa angoscia mentale. Una persona con una malattia gravemente debilitante o terminale, può prendere in considerazione il suicidio come un mezzo per liberarsi dal peso delle proprie sofferenze. Porre fine alla propria vita in una situazione simile è a volte definito come “suicidio razionale”, perché il ragionamento sotteso – la morte che libera dal dolore – è conforme alla logica normale. Molte persone considerano il suicidio medicalmente assistito come un esempio di questo tipo di suicidio, e l’AIDS ha portato una rinnovata attenzione verso le questioni del suicidio razionale nel contesto delle malattie a rischio di morte.23 In altri casi, il desiderio di cercare la fuga con il suicidio deriva da una logica distruttiva. Quando l’idea che un individuo ha di sé o il suo senso d’identità sono confusi, e quando questa confusione è abbinata a difficoltà di relazione con gli altri, ciò può avere come conseguenza che la persona si percepisca come un fallimento; in questo caso, il suicidio può definirsi “riferito”, richiamando alla mente l’analogia del dolore fisico che si manifesta a una certa distanza dalla sua origine. Un’infiammazione del fegato si può manifestare come dolore alla spalla. Proprio come il fenomeno fisico è definito “dolore riferito”, così le cause, che sono alla radice del suicidio riferito, sono, allo stesso modo, solo indirettamente legate al risultato finale, ovvero al suicidio. L’intenzione di porre fine alla propria vita non è fondata, in questo caso, su una valutazione serena della situazione, bensì deriva da un opprimente senso d’angoscia e di confusione sulle proprie possibilità. Il fatto di avere rendimenti non all’altezza delle attese o di determinate definizioni di ruolo, può provocare una crisi della concezione di sé che, in ultima istanza, conduce al desiderio di fuggire dalla situazione insoddisfacente. Le attese possono essere legate a qualcosa d’esterno all’individuo (“Se non riesco ad essere una figlia abbastanza brava da soddisfare i miei genitori, meglio lasciar perdere!”); oppure possono essere legate a sentimenti interiori di frustrazione (“Tutti pensano che io stia bene, ma io mi sento un rottame”). Il desiderio di fuga può derivare dalla perdita del significato della vita. Pur avendo raggiunto dei buoni risultati, una persona può pensare: “E allora?” Accumulare un successo dopo l’altro può apparire come una fatica di Sisifo, una continua lotta di conquista priva di un corrispondente senso di realizzazione. Al contrario, il successo può essere accompagnato da sentimenti di noia (“Se il successo è tutto qui, non ne vale la pena”). La catena causale comincia con eventi che non soddisfano i parametri di riferimento e le aspettative.24 Un senso d’inadeguatezza e di fallimento rende dolorosa

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Tabella 11-2 Significati del Suicidio. Alcuni significati culturali del suicidio Il suicidio è colpevole: un crimine contro la natura, una ribellione contro l’ordine prestabilito dell’universo. Il suicidio è criminale: viola i legami esistenti, il contratto sociale tra i membri della società. Il suicidio è una debolezza o una follia: riflette limitazioni o devianze (“Doveva essere pazzo” o “Non ce la poteva fare”). Il sucidio è la Grande Morte, come nel seppuku, suttee e altre forme di suicidio rituale culturalmente approvate. Il suicidio è l’alternativa razionale: il risultato di un approccio da “documento di bilancio” che valuta la situazione e decide la scelta migliore. Alcuni significati individuali del suicidio Il suicidio è il ricongiungimento con una persona cara scomparsa: un modo per “raggiungere il defunto.” Il suicidio è riposo e rifugio: una via d’uscita da una situazione opprimente e deprimente. Il suicidio è un vendetta: un modo per esprimere risentimento e vendetta per essere stato respinto o ferito. Il suicidio è la punizione per il fallimento: una risposta alla delusione e alla frustrazione per non aver soddisfatto le proprie o altrui aspettative. Il suicidio è un errore: il tentativo fatto intendeva essere solo un grido d'aiuto e non voleva essere fatale, ma nessuno è arrivato in soccorso, nessuno è intervenuto e il risultato è la morte. Fonte: Adattato da Robert Kastenbaum, “Death, Society, and Human Experience”, seconda edizione. (St. Louis: Mosby, 1981), pp. 239-255.

l’autoconsapevolezza e l’individuo tenta di scappare da questo senso negativo di sé; le misure drastiche appaiono accettabili e il suicidio diventa il passo definitivo nello sforzo di trovare pace. Un grido d’aiuto Considerato come un grido d’aiuto, il suicidio mira a forzare un cambiamento. La persona non desidera più continuare a vivere la vita così come essa è. Lo scopo non è quello di morire, ma di risolvere dei problemi. Il suicidio è percepito, almeno temporaneamente, come un mezzo per eliminare il problema. Il comportamento suicida è, in effetti, un messaggio che dice “qualcosa deve cambiare nella mia vita, non posso continuare a vivere in questo modo.”

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Il suicidio in giovane età rivela questo schema con azioni quali il tagliarsi le vene o l’assumere un’overdose di droga. L’intento può essere quello di esprimere frustrazione, ottenere attenzione, ma il potenziale pericolo di conseguenze fatali non è realmente riconosciuto. Molti tentativi di suicidio rappresentano un tipo di comunicazione che dice, in effetti, “Faccio sul serio; dovreste fare attenzione!” Questo messaggio può essere diretto a se stessi oppure agli altri. Sotto questo aspetto, è utile fare una distinzione fra tentato suicidio e fatto compiuto. Secondo Glen Evans e Norman Farberow, il tentativo di suicidio “rimanda ad un comportamento diretto contro l’Io che genera lesioni o danno al soggetto stesso o che ha un’elevata potenzialità distruttiva. L’intenzione comportamentale può essere o non essere quella di morire, può essere o non essere quella di infliggere lesioni o dolore a se stessi.”25 Possono esserci due categorie ben distinte d’individui che attuano un comportamento suicida: 1) coloro che ci provano (attempters), che fanno tentativi ripetuti, ma non letali; 2) coloro che lo fanno (completers), quelli il cui primo tentativo in genere conduce alla morte. In verità, gli attempters e completers possono avere fini molto diversi rispetto ai loro atti suicidi.26 Alcuni suicidologi ritengono che il tentativo di suicidio debba essere visto come la norma, mentre il completamento del suicidio dovrebbe essere visto come un comportamento non riuscito, nel quale una persona muore inopportunamente. Il “grido d’aiuto” è associato alle persone che minacciano o tentano il suicidio, in opposizione a coloro che si uccidono realmente. Spesso, alle spalle non c’è un vissuto di comportamento suicida e la dannosità dell’atto è ridotta, ma il fine del comportamento è quello di comunicare alle persone importanti, quanto ci si senta disperati o infelici; tuttavia, quando un comportamento suicida, a mortalità ridotta, incontra un’ostilità difensiva o tentativi di minimizzarne la serietà, il rischio di suicidio può aumentare, insieme alla possibilità che il tentativo successivo sia letale. Nel rispondere al grido d’aiuto, è importante riconoscere l’esistenza di un problema e compiere dei passi verso una più intensa comunicazione e verso la proposta di rimedi. Quale ne sia l’intenzione, il comportamento suicida può essere mortale: le autopsie psicologiche indicano che alcune persone morte per suicidio non volevano che le loro azioni le conducessero alla morte, ma l’aiuto non è arrivato in tempo. I tentativi di suicidio superano i suicidi portati effettivamente a termine con un margine notevole. Si valuta che ci siano venticinque tentativi per ogni morte da suicidio. I tentativi di suicidio sono più numerosi fra le femmine

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che fra i maschi, mentre i maschi muoiono di suicidio più spesso delle femmine.27 Queste differenze di genere, si possono spiegare in una certa misura a partire dai metodi scelti per uccidersi: i maschi tendono a usare metodi più letali, come la pistola, mentre le femmine tendono ad assumere pillole o a tagliarsi le vene dei polsi. Purtroppo, è possibile che questo divario si stia riducendo dal momento che sembra che anche le femmine stiano adottando metodi più letali, solitamente armi da fuoco. Anche l’abuso d’alcool, un fattore di rischio nel suicidio, è più diffuso fra gli uomini. Inoltre, è possibile che i maschi tendano a considerare un tentativo di suicidio “fallito” come mancanza di coraggio o di virilità e che quindi s’impegnino particolarmente per “riuscire”. Oltre a questa “sindrome del suicidio riuscito”, i maschi sono, rispetto alle femmine, meno inclini a parlare di pensieri suicidi o a cercare aiuto. Cercando di nascondere i loro sentimenti di depressione o di disperazione, i maschi sono meno inclini a cercare mezzi di prevenzione del suicidio o ad avvalersi di programmi d’intervento per le situazioni di crisi. Gli individui che sopravvivono a un tentativo di suicidio possono vedere la continuazione della loro esistenza come una seconda possibilità o come un “bonus di vita ulteriore.” Se l’opportunità viene usata bene, la persona può pervenire ad un più positivo senso della propria identità e a trovare modalità per superare il dolore che lo aveva condotto a tentare il suicidio. Modificando la situazione angosciante o il proprio atteggiamento verso di essa, il tentativo di suicidio diviene un’opportunità per un cambiamento costruttivo e per la guarigione. Suicidio subintenzionale e cronico Secondo la definizione di Edwin Shneideman, una morte subintenzionale è “quella in cui una persona gioca un ruolo parziale, occulto, subliminale o inconscio nell’affrettare la propria morte.”28 Alcune fatalità riportate come incidenti, dipendono dal fatto che la vittima aveva corso rischi superflui e insensati. Un tale comportamento potrebbe essere definito noncurante o imprudente. Un’indagine più approfondita sulle cause mostra tuttavia che gli incidenti sono, a volte, il risultato finale di uno schema di comportamento autodistruttivo. Similmente, le indagini sugli omicidi, a volte, fanno emergere le prove dell’esistenza di fattori subintenzionali che conducono una vittima a comportarsi in modo da provocare la propria morte per mano di un altro. Oltre alla morte subintenzionale, Shneidman delinea altri due schemi di comportamento legati alla morte: quello intenzionale e quello involontario. La tabella 11-3 presenta un profilo di questi tre schemi. Si noti, che entro ognuna di queste categorie, una persona può mostrare atteggiamenti e com-

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portamenti molteplici nei confronti della morte. Nell’analizzare questa tabella, chiedetevi: Dove mi pongo rispetto ad essa? Che cosa rivela la mia posizione rispetto al mio modo di considerare la vita e la morte? Il suicidio cronico, il termine è stato coniato da Karl Menninger, si riferisce alle persone che si autodistruggono per mezzo di droghe, alcol, fumo, stili di vita spericolati e simili. Gli individui che abbreviano la loro vita con il suicidio cronico possono coscientemente trovare ripugnante o inaccettabile l’idea del suicidio; un’analisi dei loro stili di vita, in genere, rivela la presenza di un “desiderio di morte”.

Fattori di rischio che influenzano il suicidio Un altro modo per migliorare la nostra comprensione del suicido è quello di esaminare i fattori di rischio che influenzano il suicidio e i comportamenti suicidi. I fattori biologici e genetici, legati a bassi livelli di serotonina nel cervello, sono stati discussi in precedenza; qui vorremmo attrarre l’attenzione su fattori di rischio legati alla cultura, alla personalità e alla situazione individuale. In genere, i vari fattori di rischio si sovrappongono l’uno all’altro e s’influenzano a vicenda nei casi particolari di comportamento suicida. La cultura I messaggi culturali sull’accettabilità di vari comportamenti suicidi, influenzano i tipi di comportamento dei membri di un gruppo sociale. Ad esempio, il suicidio volto a porre fine alla sofferenza fisica causata da una malattia terminale può essere visto come più accettabile, rispetto al suicidio che vuole fuggire dal dolore mentale o da altri problemi della vita. La disgregazione culturale e lo stress ad essa associato, sembrano contribuire alla larga diffusione del suicidio fra i nativi americani.29 Forzati a vivere nelle riserve e con una cultura indebolita, le popolazioni native del Nordamerica sono state sottoposte a severi dislocamenti: conflitti fra i costumi tradizionali e i costumi della società bianca contemporanea possono condurre a sentimenti di impotenza e di ansia. I nativi americani che vivono in grandi città, dove sono assenti i sistemi di supporto dei legami familiari e delle usanze tradizionali, possono sperimentare disagi esistenziali aggiuntivi, che, a volte associati a comportamenti disfunzionali, come abuso di alcol o di droghe, possono fare apparire il suicidio come l’unica via di scampo. Kathleen Erwin ha esaminato i fattori sociali che influenzano il suicidio gay e lesbico.30 Da tempo è stato riconosciuto un tasso relativamente alto

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Tabella 11-3 Modelli di atteggiamento e comportamento relativi alla morte. Morte intenzionale: la morte come conseguenza del comportamento diretto e consapevole del suicida di determinarla. Può essere operativa un’ampia varietà di atteggiamenti e motivazioni: Colui che ricerca la morte vuole porre termine alla coscienza e compie l’atto suicida in modo tale da rendere improbabile qualsiasi tentativo di salvataggio. Colui che avvia la morte prevede di morire in un futuro prossimo e vuole scegliere il momento e le circostanze della propria morte. Colui che ignora la morte crede che la morte determini solo la fine dell’esistenza fisica e che la persona continui ad esistere in altro modo. Colui che sfida la morte gioca d’azzardo con la morte, o, come sostiene Shneidman, “scommette la propria vita puntando un tasso oggettivo di probabilità di sopravvivenza relativamente basso.” (come, ad esempio, giocando alla roulette russa.) Morte subintenzionale: la morte come conseguenza dei modelli gestionali dell’individuo o del suo stile di vita, nonostante la morte non sia lo scopo diretto e consapevole delle azioni dell'individuo stesso: Colui che scommette con la morte, anche se molto simile alla figura di colui che sfida la morte, questo soggetto può desiderare una maggiore probabilità di sopravvivenza. Colui che accelera la morte può rendere più celere la propria morte facendo abuso di varie sostanze (droga, alcool e simili) o non salvaguardando il proprio benessere (ad esempio seguendo una dieta alimentare scorretta, prendendo inadeguate precauzioni contro le malattie o ignorando le cure disponibili). Colui che facilita la morte oppone poca resistenza alla morte, ne facilita l’avverarsi, come nei casi di decesso di quei pazienti le cui energie, o “volontà di vivere”, sono basse a causa della malattia. Colui che si arrende alla morte è colui che, in genere al di là di una grande paura della morte, gioca un ruolo subintenzionale nella propria morte, come può fare quella persona sulla quale sia stato operato un cosiddetto voodoo o come può fare quella persona convinta che qualcuno ricoverato in ospedale debba per forza morire. Colui che fa esperimenti è colui che non ha un desiderio consapevole di morire, ma vive al margine, in genere in uno “stato di coscienza annebbiato” che può essere correlato ad un uso di droga tale da mandare in coma la persona o addirittura da farla morire con poca consapevolezza. Morte non-intenzionale: la morte nella quale il morente non gioca un ruolo definitivo. In ogni caso, si individuano vari atteggiamenti nei confronti della morte che possono dar forma all’esperienza del morire: Colui che dà il benvenuto alla morte pur senza accelerare la morte, la attende con ansia (come è possibile faccia una persona anziana che si sente incapace di vivere in maniera adeguata o soddisfacente). Colui che accetta la morte è rassegnato al proprio fato: lo stile di accettazione può essere passivo, filosofico, rassegnato, eroico, realistico o maturo. Colui che rimanda la morte spera di rimandare la morte il più a lungo possibile. Colui che disdegna la morte si sente, secondo le parole di Shneidman, “al di sopra di qualsiasi coinvolgimento riguardo alla fine dei processi vitali.” Colui che teme la morte teme, fino alla fobia, qualsiasi cosa relativa alla morte; la morte è qualcosa da combattere e da odiare. Colui che simula la morte finge di essere in pericolo di vita o finge di compiere il suicidio senza essere in una situazione di reale pericolo, probabilmente nel tentativo di attirare l’attenzione o di manipolare gli altri. Fonte: Adattato da Edwin S. Shneidman, “Deaths of Man” (New York: Quadrangle Books, 1973), pp. 82-90.

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d’angoscia psicologica e di suicidio fra le popolazioni omosessuali, cercando spiegazioni per lo più incentrate sulla psicologia individuale. Più recentemente tuttavia, gli antefatti del suicidio gay e lesbico sono stati collocati all’interno di un modello socioculturale che focalizza l’attenzione sull’impatto di quelle forze sociali, che, storicamente, sono state intolleranti e oppressive nei confronti degli omosessuali: l’attenzione alla psicologia individuale è stata bilanciata dal riconoscimento che i fattori sociali sono importanti, se non cruciali, nell’incidenza del suicidio omosessuale. Nelle comunità afroamericane, molti giovani considerano il suicidio una via di fuga debole e codarda dai propri problemi, concezione condivisa anche da molti adulti. Il tasso di suicidi fra gli afroamericani è più basso che fra i bianchi americani, un fenomeno dovuto almeno in parte alla concezione, comune fra gli afroamericani, che il suicidio sia una “cosa da bianchi.”. Kevin Early e Ronald Akers, nel loro studio sugli atteggiamenti nei confronti del suicidio espressi dagli afroamericani, hanno osservato che la religione e la famiglia rivestono un ruolo molto importante nel “tamponare” le forze sociali che potrebbero altrimenti promuovere il suicidio fra gli afroamericani. Early e Akers hanno scoperto che il suicidio è generalmente considerato “intrinsecamente contraddittorio rispetto all’esperienza nera e una negazione completa dell’identità e della cultura nera.”31 L’accettabilità della violenza come risoluzione dei problemi è un altro fattore culturale che aumenta il rischio di suicidio. La disponibilità d’armi letali e la diffusione della violenza nei media contribuiscono ad aumentare la sensazione che essa sia un’alternativa accettabile, quando le cose si fanno difficili. Il facile accesso alle pistole è un fattore importante nel suicidio fra i bambini e i giovani, che, sempre più, ricorrono alle pistole per porre fine alla propria vita, anziché utilizzare metodi che hanno più probabilità di fallire. La palese accettazione della violenza nelle nostre vite, può trasformare le pose in atti fatali.32 L’idea che il suicidio sia contagioso ha una lunga storia; in seguito alla pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe nel 1774, un’epidemia di suicidi fra i giovani fu attribuita all’influenza del libro. L’influenza della “suggestione” sul comportamento suicida è stata definita “effetto Werther”, ma la questione se tale effetto imitativo esista effettivamente nel comportamento suicida resta controversa; quel che è chiaro è il fatto che l’ambiente sociale esercita un’influenza significativa sull’incidenza del suicidio. I fattori culturali relativi al suicidio sono evidenziati in quello che Brian Barry chiama “l’equilibrio fra forze a favore della vita e forze a favore della morte che operano in ogni momento.”33 Le forze a favore della vita includono:

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1) la convinzione che i problemi possano promuovere la crescita; 2) la sensazione di avere la capacità di risolvere i problemi della vita; 3) la disponibilità a lottare e a soffrire se necessario; 4) una sana paura della morte e delle sue conseguenze. Al contrario, le forze a favore della morte includono: 1) la convinzione che i problemi siano intollerabili; 2) la sensazione che i problemi della vita siano intrattabili o rigidi; 3) la sensazione di avere diritto a una vita gratificante; 4) una posizione filosofica che vede il suicidio come un mezzo per ottenere sollievo. Nella concezione di Barry, nelle società moderne, le persone hanno accettato due assunti fondamentali, riguardo alla vita, che nessuna generazione precedentemente aveva accettato così pienamente: in primo luogo, la convinzione che meritiamo significative soddisfazioni nel lavoro, nel matrimonio e nella vita in generale; in secondo luogo, la convinzione che, piuttosto che accettare circostanze inalterabili, dobbiamo vivere e morire a modo nostro. Non solo aspiriamo a vivere bene, ma siamo anche convinti di averne diritto. Quando la sensazione di averne diritto non si realizza in modo soddisfacente, sentiamo che è appropriato toglierci dalla situazione che ci è diventata intollerabile. L’enfasi posta sulla libertà individuale comprende la libertà di compiere scelte che hanno un prezzo alto, anche quando il risultato è la morte. I fattori di personalità Alcune persone sono “fondamentalmente ottimiste”, mentre altre sono “fondamentalmente pessimiste”, fenomeno quest’ultimo che può essere alla base d’alcuni suicidi. Il modo in cui ci si pone in relazione con gli altri, e quello in cui ci si pone in relazione con i problemi nella vita, influenzano l’avvio del pensiero suicida; anche la paura e l’ansia per la morte possono influenzarlo. Un alto grado d’ansietà, può inibire il comportamento suicida, mentre la percezione della morte come una prospettiva attraente, può incoraggiarlo; quindi i significati attribuiti alla morte influenzano il modo in cui gli individui vivono e valutano la possibilità del suicidio. L’attrazione di un individuo per la “mistica” della morte, specie di quella autodeterminata, può aumentare il rischio di suicidio. Alcuni comportamenti suicidi paiono in relazione con un’attrazione “poetica” o “romantica” per la morte. Sull’esempio di Thomas Chatterton, che si uccise nel 1770 all’età di diciassette anni, i Romantici concepirono la morte come “la grande ispiratrice” o “la grande consolatrice”. La morte può essere vista come un amante da corteggiare, la poetessa Sylvia Plath scrive: “Sposerò la morte nera, ladra

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del giorno.”34 I suicidi di scrittori quali Ernest Hemingway, Anne Sexton, la stessa Plath e, più di recente, quello del musicista Kurt Cobain, riflettono forse un desiderio conscio di abbracciare il mistero della morte? O, piuttosto, si tratta del risultato di normali esperienze umane? La mancata individuazione di un senso della vita, come i problemi relazionali, sono fili conduttori comuni nei suicidi.35 Come qualcuno ha sostenuto: “La morte dell’amore evoca l’amore della morte”. La bassa autostima, le difficoltà nelle relazioni intime, la mancanza di capacità di reazione, la mancanza di speranza, i sentimenti di stagnazione, la solitudine e la disperazione: sono alcuni dei tratti della personalità che contribuiscono ad aumentare i pensieri e i comportamenti suicidi. La situazione individuale L’intersecarsi di cultura e personalità crea una situazione unica che ciascuno vive. Ogni persona è soggetta ad un insieme di fattori ambientali che implicano diversi gradi di rischio di suicidio. Questi fattori comprendono forze sociali che esistono nella società nel suo complesso, ma anche caratteristiche particolari ascrivibili alla famiglia, alla sua situazione economica e così via. Situazioni di vita particolarmente stressanti sono associate a comportamenti suicidi. Ad esempio, le persone in lutto per una morte da suicidio, possono essere esposte, esse stesse, ad un elevato rischio di suicidio.36 Durante una crisi suicida, il modello tipico è quello dell’adolescente che vive i cambiamenti traumatici della propria vita, la perdita di una persona amata o la minaccia di perdita dello status scolastico. Uno studio sugli adolescenti coreani associa lo stress accademico ai comportamenti suicidi.37 L’influenza fra pari può incidere sul rischio di suicidio a cui è esposto l’individuo, specie fra gli adolescenti e i giovani adulti. Uno studio, svolto su maschi micronesiani, nel corso di venti anni, conferma la presenza di un incremento di “tipo epidemico”.38 Il periodo in questione era marcato da rapide trasformazioni socioculturali: l’economia capitalista prendeva il sopravvento sugli stili di vita tradizionali e prendevano piede forme moderne d’educazione, d’impiego, di servizi sanitari e di tecnologie. I ricercatori hanno individuato specifici collegamenti fra i suicidi, parecchi dei quali ricorrenti all’interno di un ristretto gruppo di amici in un periodo di qualche mese; furono anche individuati casi di comportamenti autodistruttivi come reazione al suicidio di un amico o di un parente, così come casi di “patti suicidi” fra due o più persone. Presi tutti assieme, questi fenomeni configurano l’esistenza di una “subcultura del suicidio”, nella quale suicidio genera suicidio. In un ambiente ca-

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ratterizzato da una generale familiarità e dall’accettazione dell’idea del suicido, il suicidio era, dunque, diventato una reazione culturalmente strutturata, e in parte collettiva, ai propri dilemmi e ai propri problemi.

Le prospettive del suicidio lungo il corso della vita I rischi di suicidio e le motivazioni che spingono al suicidio cambiano lungo il corso della vita, cioè via via che si vive il mutare delle circostanze correlate ai diversi periodi dello sviluppo psicosociale. Le specifiche cause di suicidio fra gli adolescenti, ad esempio, tendono ad essere distinte da quelle più comuni in età avanzata. Osservando i vari rischi pertinenti ai differenti segmenti del corso della vita, si può distinguere fra i fattori che influenzano le persone di tutte le età e quelli che tendono ad esercitare una particolare influenza su persone di specifici gruppi di età. L’infanzia Nonostante il suicidio sia relativamente raro fra i bambini, i pensieri suicidi e i tentativi di suicidio sono più frequenti. Molti ricercatori e molti clinici pensano che si possano trovare comportamenti suicidi anche fra i bambini più piccoli. Il rischio di suicidio è più alto fra coloro che lo hanno già tentato, i bambini piccoli con un vissuto di ideazioni o tentativi di suicidio sono più esposti al rischio di recidive di idee o di atti suicidi.39 I ricercatori sono convinti che il tasso di suicidi fra i bambini risulterebbe maggiore se si esaminassero gli incidenti nell’infanzia con maggiore attenzione al loro scopo. Alcune morti infantili derivate dal correre verso le automobili o dal soffocamento con borse di plastica sono, probabilmente, più intenzionali che accidentali. Anche se i bambini piccoli non hanno abitualmente accesso a mezzi d’autodistruzione, come capita invece alle persone d’età maggiore, essi sono implicati, qualche volta, in atti di autodistruzione e alcuni si uccidono. Nel caso di bambini piccoli, etichettare una morte come suicidio può essere problematico per il fatto che non è chiaro se un bambino possieda realmente una concezione matura della morte, tanto da essere pienamente consapevole delle conseguenze dei propri atti.40 Ripensando allo sviluppo del bambino discusso nel secondo capitolo, c’è la prova che i bambini che tentano il suicidio, specie quelli che sono a cavallo fra l’infanzia e l’adolescenza, si trovano in una fase transitoria, fra il pensiero operatorio concreto e quello operatorio formale, un periodo nel quale si può verificare una aumentata esposizione ad ideazioni e a comportamenti suicidi.41

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L’adolescenza e la giovinezza Il suicidio è, negli Stati Uniti, la terza maggior causa di morte fra individui d’età compresa fra i quindici e i ventiquattro anni.42 Il suicidio adolescenziale fa la sua prima comparsa nella fascia d’età compresa fra i dieci e i quattordici anni d’età ed aumenta significativamente nell’adolescenza avanzata e nei giovani adulti; tutto ciò suggerisce che i cambiamenti derivati dalla crescita giocano un ruolo, in relazione, probabilmente, allo sviluppo cognitivo e alla concettualizzazione della morte. La disgregazione sociale è un fattore importante nei comportamenti autodistruttivi dei giovani. Diagnosi psichiatriche, tratti disfunzionali della personalità e problemi psicologici aumentano il rischio di suicidio. I suicidi adolescenziali sono connessi a conflitti interpersonali (con i genitori e con i fidanzati), a perdite interpersonali (inclusa la rottura di una relazione romantica come, del resto, qualsiasi altro tipo di separazione) e a fattori “esterni” di pressione (notoriamente problemi legali o disciplinari che sono spesso correlati con la tendenza ad impulsi di violenza).43 I problemi familiari possono provocare seri rischi, i giovani suicidi possono essere esposti alle conseguenze della violenza familiare, venire da famiglie separate, avere carenze di supporto familiare, avere subito violenze fisiche, avere genitori con comportamento suicida, soffrire un’instabilità di situazioni di vita o per altri fattori di tensione, acuti e cronici, connessi alla vita familiare. La reazione dei giovani a tale disordine può raggruppare un insieme di stati affettivi e cognitivi che includono la rabbia, la mancanza di speranza, lo sconforto, il senso di colpa, la vendetta, l’autopunizione e l’abbandono da ritorsione.44 L’abuso di sostanze stupefacenti è molto ricorrente, sia nelle famiglie, sia fra i giovani con tendenze suicide. La combinazione d’abuso di sostanze stupefacenti, di depressione e di disponibilità di armi è potenzialmente letale. Le pressioni della vita familiare – e dello stile di vita corrente – si vanno a sommare alle pressioni subite dai giovani. Il suicidio può anche essere visto come un modo per imporre il proprio controllo su avvenimenti sconcertanti e sconvolgenti o per sfuggirli. Come sottolinea Paulina Kernberg: “Un significato importante del suicidio è che può servire come atto di padronanza, di estremo controllo, di competenza per individui che stanno soffrendo la perdita della sensazione del controllo su di sé e sulle proprie vite. Esso è, com’è sempre stato, il modo estremo di “riprendere il controllo” di una situazione.45”

L’abuso di sostanze stupefacenti, la delinquenza e il suicidio sono connessi in un continuum di “comportamenti di fuga” perseguiti dai giovani per evitare situazioni di depressione e di disperazione. Mantenere comporta-

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menti rischiosi, può rappresentare una “via d’uscita” per l’individuo che è ormai indifferente all’idea di vivere o di morire. Il corteggiamento della morte, come nelle “prove di coraggio” fra i giovani, ad esempio, può essere intrapreso in maniera affettata, con scarsa preoccupazione per il risultato. Quando l’abuso di sostanze stupefacenti e comportamenti sempre più rischiosi, non rappresentano più una distrazione sufficiente dal dolore della propria vita, i giovani possono scegliere il suicidio, per raggiungere l’estremo torpore.46 Gli adolescenti e i giovani adulti possono essere soggetti ad una sorta di “contagio,” in virtù del quale il suicidio di una persona ne provoca un altro. I cosiddetti cluster-suicide, suicidi di gruppo, avvengono nel medesimo luogo, sono strettamente connessi nel tempo e si compiono con le medesime modalità (i suicidi di massa possono essere considerati una forma speciale di suicidio di gruppo).47 Per descrivere i suicidi di gruppo si usa anche l’espressione “copycat suicide,” “suicidi a pappagallo,” specie quando tale imitazione avviene in connessione con la descrizione di un suicidio nei media. In Texas, uno studio su due suicidi di gruppo portò alla conclusione che l’esposizione alle cronache dei suicidi può avere effetti determinanti su individui che sono già a rischio di suicidio. La visione sensazionalista o romantica diffusa dai media può promuovere un’affinità con le persone che si suicidano, conferendo loro un’aura di celebrità; in soggetti inclini al suicidio, ciò potrebbe creare l’impressione che il suicidio richiamerà l’attenzione – per quanto postuma – dei loro familiari e dei loro coetanei. I patti suicidi sono un fenomeno simile, sono connessi ad accordi fra due o più persone che decidono di uccidersi nello stesso momento e, in genere, nello stesso posto.48 È successo nel New Jersey: quattro adolescenti, due ragazzi e due ragazze, prendono la decisione di morire assieme. Chiusi dentro un garage, in auto, lasciano il motore acceso. Come è stato riportato dalle cronache, i ragazzi erano sconvolti per la perdita di un amico comune. I loro cadaveri furono rinvenuti il mattino seguente. Due giorni dopo, un altro patto suicida tolse la vita a due ragazze dell’Illinois, in circostanze del tutto simili. Un altro esempio d’adesione ad un patto suicida vide protagonisti un ragazzo e una ragazza, ossessionati dall’idea della reincarnazione: si andarono a schiantare con l’auto contro l’edificio della loro vecchia scuola; la morte del ragazzo fu istantanea, la ragazza, che, pare, avesse avuto dubbi dell’ultimo minuto sulla possibilità della reincarnazione, sopravvisse per poco. Una versione inconsueta e “unidirezionale” del patto suicida è quella del fenomeno dei suicidi nei cimiteri, versione nella quale una reazione patologica di cordoglio conduce la persona in lutto a suicidarsi presso la tomba della persona amata. I cimiteri sono simbolo del ricongiungimento fra i vivi e i morti

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e i suicidi presso le tombe sono analoghi ad un patto suicida fra due persone, nel quale, però, il suicidio avviene come reazione alla precedente morte di una persona e senza che questa ne sia al corrente.49 Come per le “epidemie” di suicidi fra i giovani micronesiani, i suicidi di gruppo e i patti suicidi possono esercitare un’influenza nefasta sugli individui inclini ad intenti suicidari. Mentre le motivazioni dei suicidi adolescenziali spesso implicano questioni relative alla famiglia e al gruppo dei pari, per i giovani adulti le questioni di maggior rilevanza tendono ad essere connesse ai risultati accademici, al corteggiamento, alla formazione della famiglia e alla carriera. Anche il desiderio di raggiungere la perfezione, ch’essa sia autoimposta o socialmente pretesa, può portare all’ideazione del suicidio, quando i risultati ottenuti sono ben lontani dall’ideale. Allo stato attuale, i più promettenti tentativi di ridurre il suicidio fra i giovani, paiono concentrarsi in due vaste aree: la prima è la messa a punto di terapie atte a curare i disordini che aumentano il rischio di suicidio, come la depressione, l’abuso di sostanze stupefacenti e i conflitti familiari; la seconda è l’ideazione d’interventi di prevenzione per gruppi ad alto rischio, quali sono i ragazzi con disturbi affettivi che fanno abuso di sostanze stupefacenti e che si caratterizzano per altri tipi di comportamenti antisociali. Gli anni centrali dell’età adulta Il periodo che va approssimativamente dai trentacinque ai sessantacinque anni è stato chiamato “terra incognita” del corso della vita. È il periodo della “generatività,” il periodo in cui si iniziano a ricambiare i doni dell’educazione e dei mezzi di sostentamento, ricevuti durante i precedenti periodi della vita. È il momento in cui si passa dai valori delle capacità fisiche, ai valori della saggezza, alla costruzione di nuove relazioni, dato che le vecchie si sono perse o sono cambiate, al raggiungimento di una maggiore flessibilità nel vivere. Questo stadio della vita è stato anche definito come “middlescence” – “mediescenza” –, suggerendo, così, l’idea che questa età possa essere, per molti adulti, tanto turbolenta quanto l’adolescenza. In tale periodo si affronta anche la perdita dei sogni e delle ambizioni, ci si rende conto che potrebbe succedere che il proprio desiderio di diventare grandi artisti o scrittori, padroni d’azienda, potrebbe non avverarsi e così pure ogni desiderio immaginato in precedenti stadi della vita; potrebbe anche apparire chiaro che sarà impossibile raggiungere l’obiettivo di avere un matrimonio perfetto o di crescere figli perfetti. La motivazione del comportamento suicida può essere connessa a diffi-

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coltà sul lavoro o nel matrimonio. In alcuni casi, la natura stessa del lavoro ha un impatto particolare sul comportamento suicida, come appare dall’alto tasso d’incidenza di suicidi fra gli agenti di polizia.50 I fattori di maggior impatto sul suicidio fra persone che si trovano in questa fascia d’età sono la presenza dell’accumularsi di eventi negativi, di disordini affettivi, di casi di depressione grave e di abuso di sostanze alcoliche. L’età adulta inoltrata Il suicidio adolescenziale attrae spesso l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa, ma sono le persone in età più avanzata quelle esposte a rischi maggiori di suicidio rispetto a qualsiasi altra fascia d’età. Ciò vale in particolar modo per i maschi bianchi anziani, e ancor più per i vedovi.51 I fattori di rischio più rilevanti sono lo status di divorzio, quello di vedovanza, il vivere da soli, le malattie psichiatriche o fisiche.52 L’esternazione d’intenzioni suicide o i tentativi di suicidio sono più alti fra gli adolescenti che fra gli anziani,53 ma i ricercatori paiono concordi nell’affermare che le persone anziane che tentano il suicidio, sono realmente intenzionate a morire, a differenza dei giovani i cui tentativi sono spesso “un grido d’aiuto.”54 Per alcune persone anziane il suicidio rappresenta una scelta razionale che offre la liberazione da una grave malattia e da altre difficoltà caratteristiche della vecchiaia. L’età avanzata può essere un periodo di soddisfazione e d’integrità dell’ego, ma anche di insoddisfazione, di disperazione e di disgusto. I suicidi doppi (un tipo di patto suicida) avvengono con maggiore frequenza fra gli anziani. Le coppie d’anziani, in presenza di una malattia fisica in uno o in entrambi i coniugi, sono protagoniste del tipico modello di suicidio doppio. Altro elemento assai diffuso è un elevato abuso d’alcolici da parte di uno o di entrambi i membri della coppia. Tali coppie sono molto interdipendenti e isolate da fonti di supporto esterno. Pare esserci una sorta di “chimica speciale” nelle coppie che si suicidano insieme, esse sono caratterizzate dal prevalere della persona più incline al suicidio su un partner più passivo e ambivalente.55

Pensare al suicidio Immaginate per un momento la sequenza dei pensieri di qualcuno che stia prendendo in considerazione il suicidio, supponete che, in una situazione insostenibile, il suicidio sia visto come l’unica risorsa disponibile o, per lo meno, un’opzione da prendere seriamente in considerazione. Il passo suc-

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cessivo potrebbe essere quello di pensare ad alcuni mezzi per uccidersi. A questo punto, non ci si è ancora procurati realmente i mezzi, ma sono state considerate varie possibilità. Sono molte le persone che hanno raggiunto questo stadio – forse solo fantasticando, forse con intenzioni serie –, per alcuni, lo shock che deriva dal riconoscere di essere arrivati a formulare tali pensieri è sufficiente per dirigere la propria volontà verso un’alternativa che sia affermazione di vita. Altri, invece, intraprendono il passo successivo verso il suicidio, un passo che aumenterà notevolmente la letalità dell’intento suicida. Questo stadio implica l’acquisizione dei mezzi per uccidersi e il conseguente avvio della logistica che rende il suicidio una possibilità reale. Un cambiamento d’idea è ancora possibile, si può ancora cercare una soluzione diversa, altrimenti, si arriva all’ultimo passo della sequenza dei pensieri suicidi: l’uso effettivo dei mezzi che ci si è procurati per portare a termine l’atto suicida. Questi passi verso l’atto letale sono stati descritti come se avvenissero in una precisa sequenza, ma la persona coinvolta li vive in maniera per nulla logica e ordinata. Il suicidio è proprio caratterizzato da un complesso di pensieri ed emozioni conflittuali. Tuttavia, riconoscere i singoli passi che si devono fare per portare a termine l’atto suicida è utile per venire a conoscenza dello sforzo complessivo che bisogna affrontare e dei tanti momenti nei quali si debbono prendere delle decisioni, momenti nei quali è possibile cambiare idea o invocare un intervento esterno. Una volta presa la decisione di suicidarsi, occorre fare una scelta dei mezzi da utilizzare. A volte si sceglie un metodo particolare pensando all’impatto che si immagina potrà avere sui sopravvissuti. Uno studio sui messaggi lasciati dai suicidi rivela che le persone che usano metodi di suicidio “attivi”, comunicano con maggior frequenza che il fattore più determinante nella loro scelta di autodistruzione è il rifiuto.56 Un individuo che vuole davvero “farla pagare” ai sopravvissuti “per tutto il male che mi hanno fatto” potrebbe selezionare un metodo di suicidio che comunichi graficamente tale rabbia. Qualcuno che, invece, non vuole “fare una scenata,” potrebbe selezionare un metodo che immagina possa sconvolgere o turbare il meno possibile le persone che subiranno il lutto. Anche l’esperienza e la familiarità dei mezzi tecnici influenzano la scelta dei mezzi per il suicidio, ad esempio, un cacciatore esperto con parecchia familiarità con i fucili potrebbe essere incline ad usarne uno per suicidarsi, proprio per l’accessibilità e la familiarità che essa comporta. Chi, invece, conosca bene gli effetti dei farmaci potrebbe usarli per prepararsi la pozione fatale. In breve, il metodo di suicidio tende a riflettere l’esperienza personale e lo stato mentale della persona. Può trattarsi di una scelta estemporanea,

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con la quale la persona usa il primo mezzo letale che gli capita sotto mano, oppure può essere frutto di un pensiero a lungo meditato e, addirittura, di una ricerca. Scegliere un metodo per uccidersi può essere paragonato all’organizzazione di un lungo viaggio. Una persona che voglia viaggiare dalla costa orientale a quella occidentale degli Stati Uniti deve considerare i vari mezzi di trasporto disponibili: automobile, treno, aeroplano… Alcuni di questi sono molto rapidi, altri sono relativamente lenti e devono essere programmati. Ad esempio, quando si sale su un aereo, una volta che si decolla, non c’è più modo di cambiare idea e di scendere prima di giungere a destinazione. Lo stesso viaggio affrontato in bicicletta, invece, offre innumerevoli opportunità di cambiare la destinazione finale. In modo simile, alcuni metodi di suicidio offrono poca speranza di cambiare idea dopo che l’atto letale è stato avviato: fra i possibili metodi che si possono usare negli atti suicidi esistono diversi gradi di letalità. Una volta che si preme il grilletto della pistola puntata contro il proprio cranio non esiste, virtualmente, alcuna possibilità di modificare la probabilità del risultato fatale; l’aspirante suicida che si taglia i polsi o che si somministra un’overdose di droga potrebbe avere il tempo di modificare un risultato, altrimenti fatale, cercando l’aiuto di un medico. Naturalmente se l’aiuto non fosse immediato la probabilità di morire potrebbe essere come quella di un colpo di pistola alla testa, tuttavia ci potrebbe ancora essere la speranza di un intervento…

I messaggi dei suicidi I messaggi dei suicidi sono stati chiamati “mappe criptiche di viaggi mal consigliati.”57 Queste note generalmente vengono scritte nei minuti o nelle ore immediatamente precedenti il suicidio. Nonostante si creda che quasi tutti i suicidi lascino messaggi per chi resta, di fatto solo un quarto di essi scrive un messaggio finale. Come registrazioni parziali dello stato mentale dei suicidi, tali messaggi sono di grande interesse per gli studiosi e il personale sanitario, per non parlare delle famiglie in lutto. Immaginate di trovarvi nella circostanza di scrivere un simile messaggio, quali sono le ultime parole che vorreste dire a coloro che lasciate? I messaggi veri dei suicidi mostrano un’ampia varietà di contenuti e di intenzioni. Alcuni spiegano ai sopravvissuti la propria decisione di uccidersi. Altri esprimono rabbia o rimproveri. Al contrario, altri sottolineano che il proprio suicidio “non è colpa di nessuno.” I contenuti dei messaggi dei suicidi vanno dalle considerazioni sul suicidio, a quelle filosofiche o al credo ad esse sotteso, fino alle liste di attività pratiche da sbrigare dopo la propria

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morte. Ad esempio, un messaggio impartisce le seguenti istruzioni: “Il gatto deve andare dal veterinario martedì prossimo; non ti dimenticare dell’appuntamento sennò devi pagare il doppio. La macchina è dal meccanico per una settimana, da venerdì.” I messaggi dei suicidi rappresentano l’ultimo tentativo di chi li scrive “di prendersi cura delle proprie cose, di decidere chi prenderà cosa o di far conoscere i propri desideri per il funerale.”58 I messaggi dei suicidi possono includere espressioni d’amore, d’odio, di vergogna, di disgrazia, di paura della follia, d’autonegazione, sentimenti di rifiuto, spiegazioni dell’atto suicida o di difesa del diritto di togliersi la vita, dichiarazioni che sollevano gli altri da ogni responsabilità del proprio suicidio, istruzioni per distribuire i propri beni ed averi. Questi messaggi mostrano una peculiare dicotomia logica: ostilità nei confronti degli altri, mescolata ad autoaccuse, uso di nomi particolari, istruzioni specifiche ai sopravvissuti e senso di fermezza sulla propria decisione. Molti messaggi dei suicidi trasmettono un’intesa ambivalenza d’amore e d’odio nei confronti di chi resta, come esprime sinteticamente il seguente messaggio: Cara Betty: ti odio, con amore, George. Questo esempio d’ambivalenza sottolinea anche la natura duale di un suicidio, che in questo caso riguarda il marito e la moglie. I messaggi dei suicidi danno l’idea delle intenzioni e delle emozioni che conducono una persona al suicidio, ma, raramente, essi raccontano l’intera storia e spesso sollevano più domande che risposte. I contenuti di questi messaggi possono essere accolti con totale stupore dai sopravvissuti che non avevano la minima idea dei sentimenti della persona. I messaggi dei suicidi possono avere un effetto importante sui sopravvissuti. Il messaggio finale potrà essere di affetto o di accusa, ma i sopravvissuti non avranno, comunque, la possibilità di rispondere. In questo senso, il suicidio rappresenta l’ultima parola, quella definitiva.

Suicido: prevenzione, intervento, postvenzione Il Centro per la Prevenzione del Suicidio di Los Angeles, fondato nel 1958 da Norman L. Farberow e Edwin S. Shneidman, è il prototipo dei centri di prevenzione e d’assistenza nelle situazioni di crisi non solo negli Stati Uniti, ma anche in tutto il mondo.59 L’importanza di questo Centro non può essere esagerata in qualsiasi sto-

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ria del suicidio. Il lavoro, che cominciò in quel centro ad opera di Shneidman e dei suoi collaboratori e si espanse in seguito, quando Shneidman divenne direttore del Centro Suicidi presso l’Istituto Nazionale della Salute Mentale, cambiò la visione nazionale del suicidio e dei comportamenti suicidari. Il cambiamento più importante fu la presa di distanza da una concezione del suicidio come atto commesso da folli, a favore di una visione che lo concepisce come azione commessa da persone che vivono un’opprimente ambivalenza nei confronti della vita.60 I decenni che seguirono videro un drammatico aumento del numero dei centri di crisi per la prevenzione del suicidio, insieme alla nascita di linee telefoniche specializzate nella prevenzione. Il classico centro di prevenzione dei suicidi opera come un call-center, disponibile per le persone in crisi ventiquattrore su ventiquattro. I servizi offerti sono concepiti principalmente come una risorsa a breve termine per le persone che stanno prendendo in considerazione il suicidio. Si rispetta l’anonimato di chi telefona e il bisogno d’aiuto che esprime viene accettato incondizionatamente. Gli operatori, alcuni professionisti, molti altri volontari, che hanno ricevuto una preparazione adeguata, usano strategie di intervento di crisi per ridurre lo stress dell’aspirante suicida. Come altri servizi sanitari pubblici, i centri di crisi per la prevenzione del suicidio hanno parametri di professionalità variabile; complessivamente hanno un impatto positivo su uno sconfinato numero di persone.61 Alcuni centri d’intervento per la prevenzione del suicidio hanno ampliato i propri servizi arrivando ad includere terapie per un’ampia gamma di comportamenti autodistruttivi. Ad esempio, il Centro per la Prevenzione dei Suicidi di Los Angeles offre servizi di counseling e servizi di comunità, è disponibile un’assistenza psicologica a basso costo per potenziali vittime del suicidio, ma anche per gli amici e i parenti di suicidi. Le cliniche forniscono terapie per la depressione e per l’abuso di sostanze stupefacenti. Per aiutare le persone a superare comportamenti distruttivi, sono stati potenziati i programmi delle comunità terapeutiche per ragazzi in difficoltà. L’attività del Centro per la Prevenzione dei Suicidi di Los Angeles è un esempio di concezione del suicidio come categoria da considerare insieme a una più ampia classe d’atteggiamenti autodistruttivi, ognuno dei quali richiede attenzione. La prevenzione Ci sono poche ragioni per essere ottimisti sulle prospettive di prevenire il suicidio, eliminandolo dal repertorio dei comportamenti umani. Per rag-

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giungere questo scopo occorrerebbe eliminare le cause dell’infelicità e dell’insoddisfazione umane. Benché gli sforzi per creare un’utopia sociale finiscono inevitabilmente per essere tutt’altro che perfetti, ciò non significa che non valga la pena di tentare di alleviare le sofferenze umane, significa solo che questo tentativo è intrinsecamente limitato. Tuttavia si può fare molto per ridurre i rischi.62 L’educazione è un elemento essenziale in ogni programma per la prevenzione del suicidio. La lezione che s’impara può essere poi impiegata lungo tutto il corso della vita e comprende i punti chiave che ora illustreremo. In primo luogo è cruciale giungere al riconoscimento che la realtà della vita è complessa e che tutti noi vivremo, inevitabilmente, esperienze di delusione, di fallimento, di perdita. In secondo luogo possiamo imparare a trattare tali esperienze sviluppando appropriate tecniche di reazione, incluse le strategie del pensiero critico. Gli individui “che prendono presto l’abitudine di analizzare le situazioni da diversi punti di vista, di porre le domande adeguate e di sperimentare la realtà in prima persona e con il proprio pensiero, sono molto meno soggetti ad un facile irrigidimento nell’inflessibilità cognitiva che vede il suicidio come la soluzione.”63 Un corollario di tali strategie di reazione comporta la formazione del senso dell’umorismo, specialmente dell’abilità di ridere di sé stessi, dei problemi della vita e di vedere il lato umoristico di tutte le situazioni. Infine, è importante apprendere il modo in cui darsi obiettivi appropriati e attendibili, una buona autostima è un ottimo elemento di prevenzione del suicidio. I programmi di prevenzione del suicidio si stanno organizzando per raggiungere le popolazioni maggiormente esposte ai rischi. Una comunità nativa, Ojibway/Cree, nell’Ontario, in Canada, la comunità Muskrat Dam, per affrontare la questione del suicidio, ha organizzato un gruppo noto col nome Helping Hands (“Mani che aiutano.”)64, sviluppando un programma basato sui valori spirituali dei Nativi Americani. Il progetto Helping Hands ha diversi obiettivi primari: 1) diffondere il senso del valore nell’intera popolazione; 2) ricostruire le vite dei giovani con delle difficoltà, rendendoli capaci di procedere in autonomia e di porsi degli obiettivi; 3) far recuperare l’orgoglio e il senso di benessere ai membri della comunità; 4) motivare i ragazzi a condurre una vita costruttiva e produttiva; 5) fornire indicazioni di strategie di vita che possono essere applicate nell’ambito della famiglia e della comunità; 6) aiutare gli individui a sviluppare buoni meccanismi per gestire problemi di salute mentale. Programmi simili, sensibili ai bisogni di una particolare comunità o di segmenti della comunità inclini al rischio, rappresentano integrazioni cruciali ai metodi convenzionali di prevenzione del suicidio.

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Un’altra strategia di prevenzione del suicidio è la sistemazione di barriere fisiche in luoghi nei quali c’è un’alta probabilità che si verifichino suicidi. A Washington, il sito nel quale, storicamente, si è verificato il più alto numero di suicidi è il ponte Duke Ellington, una struttura in cemento a tre arcate, con affacci pedonali. Nel 1985, dopo tre suicidi dal ponte in dieci giorni, le autorità ordinarono la costruzione di una barriera alta circa due metri e mezzo. Questa scelta fu contestata dai comitati degli abitanti della zona e dal National Trust per la Conservazione dei Beni Storici, perché avrebbe ostruito il panorama e avrebbe alterato l’estetica architettonica della struttura. Inoltre, si disse, la barriera protettiva non sarebbe stata utile per la prevenzione dei suicidi. La barriera fu installata lo stesso, e, nel periodo dal 1986 al 1990, avvenne un solo suicidio. Questo dato si può comparare ai dieci suicidi avvenuti nello stesso periodo sul vicino Taft Bridge, privo di barriere.65 Può sembrare, dunque, che le barriere siano davvero servite a prevenire alcuni suicidi. Tuttavia ci sono troppe variabili e fatti imponderabili per poter giungere a conclusioni certe. È possibile che gli individui che si volevano uccidere saltando dall’Ellington si siano semplicemente spostati su altri ponti. Per un individuo incline al suicidio, chiede un ricercatore, qual è il vero significato delle barriere su di un ponte? Potrebbero risolvere il problema, o, per lo meno, alleviare il senso di crisi che ha portato il soggetto fino a quel punto? È troppo difficile dare una risposta certa a queste domande. È noto, comunque, che un intervento appropriato durante una crisi suicida può ridurne la letalità e può dare all’aspirante suicida un’altra possibilità di valutare una drammatica situazione e, forse, di trovare una soluzione più costruttiva e sana. L’intervento I programmi d’intervento sul suicidio si concentrano su terapie a breve termine, adatte per chi sta attivamente vivendo una crisi suicida. Il loro scopo è la riduzione della letalità della crisi. Anche se molti di questi programmi d’intervento si chiamano “centri di prevenzione del suicidio”, essi, in genere, si basano su teorie e tecniche comuni a tutti i tipi di interventi di crisi. Antoon Leenaars fa notare che “il modo ottimale di mettere in pratica gli interventi per il suicidio è di farlo in collaborazione con un ampio numero di colleghi, provenienti da diverse discipline e, addirittura, di individui estranei alle professioni di aiuto... Il trattamento di una persona suicida dovrebbe rispecchiare ciò che si apprende e come si reagisce da vari punti di vista”.66

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La regola basilare dell’intervento sul suicido è fare qualcosa. Di conseguenza, tali interventi comportano: 1) prendere sul serio le minacce; 2) stare attenti agli indizi di intenzioni e comportamenti suicidari; 3) rispondere ai bisogni di aiuto offrendo supporto, comprensione e compassione; 4) affrontare il problema facendo domande e senza aver paura di discutere il suicidio con la persona in crisi; 5) promuovere un aiuto professionale per gestire la crisi; 6) offrire alternative costruttive al suicidio. Un tema chiave degli interventi di supporto agli aspiranti suicidi è parlare: è sempre un passo positivo verso la soluzione della crisi e nei casi in cui il supporto familiare è inadeguato si devono cercare e fornire altre fonti di supporto. La postvenzione La postvention (postvenzione) del suicidio, espressione coniata da Edwin Shneidman, si riferisce all’assistenza offerta a tutti coloro che sono sopravvissuti ad un suicidio, inclusi coloro che lo hanno tentato, le famiglie, gli amici e i conoscenti delle persone morte per suicidio. Come attività terapeutica diretta alle “vittime sopravvissute” ad un suicidio, la postvention ha lo scopo di “alleviare il grave stress degli individui colpiti, di ridurre il rischio di comportamenti di suicidio interattivo e di promuovere una sana ripresa della comunità colpita.”67 I sopravvissuti in lutto per un suicidio hanno necessità del tutto speciali, poiché vivono spesso sensi di colpa e d’autoaccusa che devono essere affrontati. Quando questi sentimenti non sono presi in considerazione, o quando sono gestiti in malo modo, i sopravvissuti possono giungere ad avere, nel corso della propria vita, relazioni disfunzionali e problemi emotivi. I sopravvissuti che assistono di persona a un suicidio possono trovarsi ad affrontare sfide davvero eccezionali.68 I casi di “suicidio sui binari” presentano un importante esempio di postvention rivolta alle involontarie vittime-sopravvissute a un suicidio. In alcune città, ogni anno, ci sono numerosi casi di persone che si gettano sotto un treno con evidente intento suicida.69 Nei macchinisti alla guida di questi treni un evento così violento e inatteso può suscitare gravi reazioni postraumatiche da stress.70 La postvention può comprendere non solo incontri di debriefing (incontri miranti a ridurre lo stress dell’accaduto) e sedute di psicoterapia per i ferrovieri colpiti, ma anche operazioni di prevenzione per ridurre il numero di tali suicidi. Con la conseguenza che la postvenzione gioca un importante ruolo positivo nella prevenzione del suicidio.

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Aiutare una persona in stato di crisi suicidaria Un individuo che sta prendendo in considerazione il suicidio può lanciare messaggi di avvertimento in più modi. Evans e Farberow sottolineano che l’intento suicida può essere espresso in quattro modi: 1) verbale-diretto (“Se mi lasci, mi sparo”); 2) verbale-indiretto (“una vita senza amore è una vita senza significato”); 3) comportamentale-diretto (ad esempio, una persona con una malattia cronica che accumula una grande quantità di pillole); 4) comportamentale-indiretto.71 Fra i segnali di avvertimento che rientrano in quest’ultima categoria, Evans e Farberow citano: a) La cessione d’importanti possedimenti, la redazione del testamento, il disbrigo di altre incombenze “finali;” b) Le improvvise ed estreme variazioni nelle abitudini alimentari, o nei ritmi del sonno; c) Il sottrarsi agli amici e alla famiglia, o altri grandi cambiamenti, accompagnati da depressione; d) Le variazioni nel rendimento scolastico o lavorativo; e) I cambiamenti della personalità quali nervosismo, scoppi d’ira, indifferenza verso la propria salute o il proprio aspetto fisico; f) L’uso di droghe o di alcool. Anche il recente suicidio di un amico o di un parente, o una storia di tentativi di suicidio alle spalle, dovrebbero essere considerati segnali d’avvertimento sul rischio di suicidio. Esiste una gran quantità di credenze comuni e di miti sul suicidio e sul tipo di persone che rischiano di morire suicidandosi. Sfortunatamente molte di queste convinzioni, proprio perché sono false, sono anche dannose: esse hanno l’effetto di limitare o annullare l’aiuto necessario alla persona incline al suicidio. Ad esempio, la convinzione che le persone che parlano del suicidio non si uccidono è stata definita il “grande, vecchio mito del suicidio,” che può essere usato come alibi per non aver saputo rispondere al grido d’aiuto di qualcuno. Di fatto, la maggior parte delle persone che hanno intenzione di suicidarsi comunicano davvero le proprie intenzioni agli altri, con allusioni, minacce dirette, preparativi al suicidio e altri comportamenti autodistruttivi. La cosa può essere tragica, se tali richieste d’aiuto restano inascoltate dagli amici, dai membri della famiglia, dai colleghi di lavoro o dal personale medico. Se una persona dice: “Vorrei ammazzarmi!” – questa espressione non dovrebbe essere presa alla leggera, né dovrebbe essere liquidata bruscamente

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Quando una persona è sul punto di suicidarsi, le possibilità di intervenire con successo sono di solito scarse. Fortunatamente, in questa circostanza drammatica, l’intervento ebbe successo.

con una veloce risposta: “Oh, beh, ti sentirai meglio domani.” La persona, in stato di crisi suicida, potrebbe non vedere proprio alcuna speranza nel “domani”, occorre prestarle attenzione. In maniera del tutto simile, rispondere ad una manifestazione suicida con una provocazione: “Non lo faresti mai! Non saresti mai capace di suicidarti!” oppure, con tono di superiorità morale, dire: “Non voglio sentire questo tipo di discorsi!” – più che migliorare la crisi, rischia di peggiorarla. Anche una risposta che offra solo una litania di “buone ragioni”, per le quali la persona non dovrebbe suicidarsi, potrebbe essere di ben poco aiuto per una persona in crisi. Può essere di maggiore aiuto un attento ascolto di ciò che la persona sta esattamente cercando di comunicare; il tono e il contesto delle frasi dovrebbe rivelare, alle orecchie di un ascoltatore sensibile, qualcosa sulle reali intenzioni suicide della persona che sta parlando. Spesso, le allusioni al suicidio vengono “buttate lì”: “Se non riesco ad avere quel lavoro mi uccido!” È possibile leggere tale allusione come una figura retorica, come nella minaccia scherzosa: “Ti ucciderò per questo!” C’è una tendenza a sottovalutare tali

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affermazioni in una cultura nella quale “la parola non costa nulla” e “i fatti parlano più delle parole.”72 Le minacce suicide andrebbero prese seriamente. Agire diversamente, significa cadere nel mito che “quando parla del suicidio significa che la persona non andrà davvero fino in fondo.” La conoscenza della sequenza dei comportamenti suicidi può aiutare a distinguere i fatti dalle apparenze. È anche utile informarsi sui centri di crisi presenti nel proprio paese. Infine è importante riconoscere che nessuno può prendersi la responsabilità ultima della decisione di un altro essere umano di togliersi la vita. Ciò può andare contro il proprio desiderio di preservare la vita, tuttavia questo è ciò che si può fare per assistere una persona in crisi. Sul breve periodo può essere possibile riuscire ad evitare che la persona si tolga la vita. Con una vigilanza o una assistenza costanti si può prevenire il suicidio, durante un’acuta crisi. Sul lungo periodo, prendersi la responsabilità di prevenire il suicidio di qualcun altro rischia di dare esiti fallimentari. Un malato terminale, che sta morendo fra grandi dolori, chiede alla moglie: “Dovresti tenere le medicine lontane dalla mia portata, perché non voglio più continuare questa lotta”. La moglie deve decidere se prendersi la responsabilità di vederlo continuare a vivere nel dolore oppure di mettere fine alla sua vita con una overdose. Dopo aver riflettuto a lungo, lei conclude che, pur provando una grande compassione per il suo stato, non può prendersi la responsabilità di nascondere le medicine, dando al marito una pillola per volta, con la costante paura che egli possa trovarle e tentare comunque il suicidio. Evitare ogni responsabilità, non significa doversi comportare in maniera opposta: “Bene, se ti vuoi uccidere, fai pure!” Anche se le possibilità di proteggere un’altra persona sono limitate, è sempre possibile offrirgli una compassione e un supporto che rendono più positiva la vita. Una persona che pare intenzionata a suicidarsi può, tuttavia, sperare in qualche intervento. È importante sostenere e stimolare il suo desiderio di vivere. I piani di autodistruzione proseguiranno di pari passo con le fantasie di salvataggio. La persona che si assume la parte di aiuto in un simile dramma, può sostenere che ci sono altre scelte oltre al suicidio. Un modo per aiutare le persone in crisi è aiutarli a scoprire quanto può loro importare di sé stessi, per quanto insignificante ciò possa sembrare. È essenziale trovare qualcosa di importante per la persona. Quali sono le possibilità di richiamare questo valore durante la crisi? Chiedere alla persona che cosa le può essere utile, di che cosa ha bisogno per sentire il proprio valore e sentire che vale ancora la pena vivere può determinarne la sopravvivenza. Nel breve periodo un supporto esterno può aiutare ad assicurare la sopravvivenza durante il picco della crisi. Ma si dovrebbe essere scettici sulla possi-

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bilità che qualcuno sia in grado di sostenere, sul lungo periodo, il desiderio di vivere di un’altra persona. I pensieri e i comportamenti suicidi indicano che si è persa una cosa importante: la convinzione di valere qualcosa. La sensazione che non c’è nulla che abbia valore, nel senso che la propria vita è nel caos più completo, non è, di per sé, uno stimolo per il suicidio; più importante nei pensieri e nei comportamenti suicidi è la convinzione del soggetto che “Io non valgo niente.” La combinazione di questi due flussi di pensiero – la sensazione che la situazione esterna sia insoddisfacente e che, al tempo stesso, non si vale abbastanza per riuscire a migliorarla – questo può portare alla morte per suicidio. Come è stato autorevolmente affermato: “Il suicidio è una soluzione permanente a ciò che molto probabilmente è un problema temporaneo.”73

Letture di approfondimento Fred Cutter. Art and the Wish to Die. Chicago: Nelson Hall, 1983. The Dougy Center, Helping Children and Teens Core with Suicide. Portland, Care.: The Dougy Center, 2003. Kevin E. Early. Religion and Suicide in the African American Community. Westport, Conn.: Greenwood, 1992. Norman L. Farberow, ed., Suicide in Different Cultures. Baltimore: University Park Press, 1975. Keith Hawton and Kees van Heeringen, eds., The International Handbook of Suicide and Attempted Suicide. New York: Wiley, 2000. Kay Redfield Jamison. Night Falls Fast: Understanding Suicide. New York: Knopf, 1999. Antoon A. Leenaars, ed. Lives and Deaths: Selections from the Works of Edwin S. Shneidman. Philadelphia: Brunner-Mazel, 1999. Edwin S. Shneidman. The Suicidal Mind. New York: Oxford University Press, 1996. Edwin S. Shneidman, ed. Comprehending Suicide: Landmarks in 20th Century Suicidology. Washington, D.C.: American Psychological Association, 2001. Judith Stillion, Eugene McDowell, and Jacque May. Suicide Across the Life Span: Premature Exits, 2nd ed. Washington, D.C.: Taylor & Francis, 1996. Alison Wertheimer. A Special Scar: The Experiences of People Bereaved by Suicide, 2nd ed. Philadelphia: Brunner Routledge, 2001.

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Capitolo 12

I RISCHI DI MORTE NEL MONDO MODERNO

Il saggista E. B. White ha detto: “Affrontare la morte, in qualunque forma si presenti, significa identificarsi con la vittima e trovarsi di fronte a qualcosa di sconvolgente e grave.”1 Nonostante si tenda, nella società moderna, a sfuggire all’esperienza diretta della morte, la incontriamo ugualmente in molte forme. Facciamo incontri impercettibili, a volte drammatici, con la morte: nella vita di tutti i giorni, nel lavoro, nelle attività del tempo libero o nei media. Occasionalmente, il rischio di morte si fa più evidente, come nel caso di disastri, di violenza, d’atti di terrorismo, di guerre o per il diffondersi di epidemie. Nel 1721, il romanziere Daniel Defoe scrisse il Diario di un anno di peste, un racconto sulla Grande Peste che aveva funestato Londra nel 1665; dai documenti del tempo e dai racconti che aveva udito quando era piccolo, l’autore trasse il quadro vivido di una città stretta nella morsa dell’epidemia e del terrore dei cittadini, inermi di fronte a un orrore che non riuscivano a comprendere. Che cosa spinse Defoe a scrivere di un’epidemia che si era verificata più di mezzo secolo prima? Egli sapeva che la piaga minacciava di diffondersi nuovamente in Europa e che aveva lo stesso potenziale di distruzione e morte della Grande Piaga del 1665. Il suo scopo era quello di mettere in guardia una popolazione indifferente, stimolandola a prendere qualche precauzione. Oggi non abbiamo più paura della Morte Nera, ma sembra che ci troviamo di fronte a una “piaga” a più dimensioni che non è meno minacciosa di quella ben definibile del tempo di Defoe. L’indifferenza ai rischi di morte che costituiscono la nostra “piaga” (gli incidenti, la violenza, il terrorismo, la guerra, i disastri naturali e industriali, le malattie infettive) non fa che accrescere le possibilità di incontrare la morte in modo terribile2. Nessuno è immune dai rischi: a casa, al lavoro, durante il gioco, i rischi di morte si presentano a noi in vari modi. Dopo una discussione in classe a proposito dei rischi impliciti in certe attività, uno studente ha osservato: “Sembra che siamo arrivati a un punto in cui tutto ciò che facciamo implica un ri-

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schio. Ti potresti persino pugnalare con un ago da cucito!”. Forse è così, ma quando pensiamo ad attività rischiose pensiamo a quelle i cui rischi sono noti. La possibilità di cadere da una sedia a dondolo mentre si lavora a maglia sembra infinitamente meno rischiosa della Formula Uno o di una spedizione sull’Himalaya.

Correre rischi Tutti i momenti della nostra vita implicano un rischio, ma il grado di rischio che ci assumiamo dipende dalle nostre scelte di vita. La nostra disponibilità a correre dei rischi è influenzata dai media e dalla cultura popolare. I rischi spesso accompagnano le attività che perseguono una “bella vita”. In alcuni casi possiamo avere una buona possibilità di scelta sulla natura e sulla gravità dei rischi cui siamo esposti. Ad esempio, bere, fumare, assumere droghe e guidare, implicano dei rischi che possono essere controllati. Considerate le vostre vite: pensate a quali rischi sono impliciti nel vostro lavoro, nelle attività del tempo libero e nel vostro modo di vivere in generale. I rischi che correte possono mettere la vostra vita in pericolo? Correte rischi “calcolati”? Alcuni di questi si possono evitare? Alcune occupazioni implicano rischi piuttosto drammatici, comportando pericoli che la maggior parte di noi, se potesse, vorrebbe evitare; ci sono i lavavetri dei grattacieli, le controfigure, gli esperti d’esplosivi, i piloti dei prototipi delle macchine da corsa, ma anche i poliziotti, i vigili del fuoco: sono alcuni esempi di una lista che potrebbe continuare all’infinito. Potremmo aggiungere gli scienziati che trattano materiali pericolosi, i minatori, gli elettricisti, gli operatori che usano equipaggiamenti pesanti e i contadini che usano pesticidi. Se avete in mente esperienze vostre, pensate se quelle persone corrono rischi di morte per un’esplosione, per la caduta da grandi altezze, se sono esposte a materiali pericolosi, a condizioni di lavoro critiche. A volte i rischi vengono identificati solo dopo molti anni d’esposizione a condizioni pericolose. Altre volte, si accettano rischi che “sono parte del gioco”, come nel caso dei giocatori di football3. In Giappone, lo stress lavorativo è responsabile di oltre 110.000 morti all’anno4: le vittime sono per lo più uomini che vivono gli anni più intensi della loro carriera. Appartengono a tutte le categorie professionali e sono vittime del karoshi, o morte improvvisa da superlavoro. Il karoshi è caratterizzato da fatigue stratificata provocata dalle “lunghe ore trascorse al lavoro: un orario che eccede chiaramente ogni limite fisiologico” a cui si aggiunge lo sconvolgimento dei normali ritmi quotidiani, spesso dovuto ai viaggi, ai lunghi spostamenti casa-lavoro e ad altre fatiche legate al tipo d’occupazione che produco-

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no effetti pericolosi sui lavoratori. In alcuni settori, la nascita del mercato globale (con le conseguenti differenze di fuso orario) ha reso necessario lavorare anche di notte, dopo il termine del normale orario di lavoro. In Giappone, l’incidenza del karoshi è andata di pari passo con la presa di coscienza che il superlavoro può aggravare problemi di salute preesistenti e nuocere anche alla persona più sana, inducendo crisi che possono essere letali. Anche le attività di svago possono comportare rischi mortali, in particolare alcune attività sportive: l’alpinismo, il paracadutismo, le attività subacquee, le gare motociclistiche e altre ancora; queste attività vengono a volte definite come una ricerca dell’ebbrezza del rischio, anche se questa definizione suggerisce qualità che coloro che le praticano non userebbero per descriversi. Queste attività offrono opportunità per mettere alla prova i propri limiti e accrescere l’autostima, e proprio per questo possono aiutare ad avere una reazione positiva alla paura. Chi scala montagne, ad esempio, ne accetta i rischi, forse perché questo sport dona un fisico atletico, oltre al piacere di raggiungere le vette e vedere spazi di natura incontaminata. Di fronte ai rischi, due scalatori reagiranno in modo diverso: uno potrebbe avere un atteggiamento di abbandono che si può definire d’avventatezza o di sfida della morte; l’altro, invece, prima di metter piede sulla montagna dedicherà molte ore ad allenarsi, a preparare l’equipaggiamento e il corpo per la salita e chiederà consigli ad arrampicatori esperti, diminuendo così il rischio. Ad alcuni, una certa attività può apparire attraente perché è intrinsecamente rischiosa; altre persone accettano i rischi come fattori inseparabili dalle caratteristiche positive dell’attività svolta, ma quando certi comportamenti ci mostrano che azioni pericolose vengono fatte solo per il gusto di farle o per “farsi beffe della morte”, essi appaiono come un tentativo di negare la paura o l’ansia che la morte implica5. Spesso possiamo fare scelte che ci permettono di controllare o gestire il rischio. Chi di noi non ha scelto a volte di andare un po’ più veloce in auto per arrivare prima a destinazione? Le statistiche degli incidenti e il buon senso ci dicono che la velocità al volante è pericolosa, ma nonostante ciò ci proviamo, scambiando il beneficio di arrivare prima con un rischio aggiuntivo. Una morte causata da uno sport ad alto rischio, o da attività simili, può avere un forte impatto sulle altre persone che svolgono la stessa attività. Oltre che sulle persone più coinvolte con la vittima e l’attività a rischio, come chi ha noleggiato l’equipaggiamento o istruito la vittima, questa morte può avere una ripercussione sulla comunità che ruota attorno a quello sport, sfidando e mettendo in dubbio la “presunzione che una pratica attenta e cauta assicuri l’incolumità”6; mentre le persone cercano di reagire, la vittima potrebbe essere accusata di non avere preso le necessarie precauzioni o di avere agito in modo poco saggio o sconsiderato. Queste accuse sono un tentati-

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vo, prevedibile di ricondurre ciò che è successo entro uno schema gestibile, e può essere utile per mitigare i sensi di colpa per non essere riusciti a prevenire quella morte. Un altro modo di reagire potrebbe consistere nel “dare la colpa alla vittima”, fornendo così agli altri una specie di alibi per proseguire l’attività, nonostante i rischi.

Incidenti Gli incidenti sono causati dal “fato” o dalla “sfortuna”? Sono solo il risultato del caso? Se fosse davvero così, allora non si potrebbe fare molto per prevenirli. Ad ogni modo, la definizione d’incidente, come evento che “accade per caso o per cause sconosciute”, può essere allargata fino a riconoscere che un incidente può essere dovuto a “disattenzione, mancanza di consapevolezza o ignoranza”. La maggior parte degli incidenti sono eventi che le persone possono in qualche misura controllare. Supponiamo che una pistola sia introdotta in casa di qualcuno; la sua presenza incrementa le possibilità, fino ad allora nulle, di un incidente da arma da fuoco. Ovviamente, l’incidente potrebbe non verificarsi mai, ma se non ci fossero pistole in quella casa non ci potrebbero essere possibilità di un colpo accidentale. Le scelte possono avere un effetto sulle probabilità del verificarsi di vari tipi d’incidenti. A volte, per scherzo, definiamo una persona “un disastro”, perché sembra essere coinvolta più spesso di altre in certi incidenti. Non ci sono dati scientifici per descrivere personalità simili, sappiamo solo che alcuni fattori esercitano un’influenza sul fatto che un individuo sia coinvolto in incidenti; è un dato di fatto che i conducenti che hanno bevuto tendono a rappresentare un rischio maggiore rispetto a quelli sobri, ed è anche un dato di fatto che la capacità di giudizio e d’azione sono inversamente proporzionali alla quantità di alcool ingerita, come la tendenza del guidatore di sopravvalutare le proprie capacità di guida è direttamente correlata alla quantità di alcool consumato. Statisticamente circa la metà degli automobilisti coinvolti in incidenti stradali è sotto gli effetti dell’alcool. Questo ci spinge a chiederci se questi incidenti siano veramente opera del “caso” o del “destino”; se consideriamo gli incidenti come eventi casuali, questo atteggiamento diminuirà la probabilità che si adottino misure per diminuirne la frequenza. A volte ci si riferisce agli incidenti determinati da condizioni ambientali pericolose come a “incidenti annunciati”, le cui circostanze possono essere dovute a negligenza o a ignoranza del pericolo che esse costituiscono. Ad esempio, pensiamo a una piscina che non sia sorvegliata ma che sia facilmente accessibile a bambini piccoli: se per caso un bimbo che sa appena camminare vi cade dentro e annega, il padrone della piscina e la persona che aveva

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la responsabilità del piccolo possono essere accusati di negligenza da un tribunale. Le condizioni d’insicurezza ambientale sono spesso correlate con i comportamenti e con il sistema di valori della persona responsabile, o di un gruppo di persone o della società in senso lato. Gli incidenti causati dalla guida in stato d’ebbrezza possono accadere, ad esempio, per scelte del singolo conducente che beve, ma anche dalla società. Pur in presenza di minacce alla vita o alla salute, i singoli e la società, spesso, non riescono a prendere misure adeguate per evitarle7. È certamente sciocco pensare di poter eliminare tutti i rischi che incontriamo nella nostra vita, è invece realistico pensare di poterli diminuire. La mancanza d’attenzione o la mancanza di decisione su una scelta che porti a correggere situazioni di pericolo spinge alcuni esperti a chiedersi: “Quale deve essere la percentuale di negligenza della società perché le morti “accidentali” siano equiparabili a un omicidio”8?

Disastri I disastri sono definiti come eventi che propongono una minaccia di morte alle persone coinvolte in un arco di tempo relativamente breve, determinando danni improvvisi e ingenti. I disastri derivano da fenomeni naturali (inondazioni, terremoti e altre “azioni divine”), ma derivano anche da azioni dell’uomo. Quest’ultima categoria include incendi, incidenti aerei, perdite di materiale chimico, atti terroristici, contaminazioni nucleari. Negli Stati Uniti, la percentuale di disastri è aumentata negli ultimi decenni e uno dei motivi di questo incremento è dato dal fatto che metà della popolazione vive entro cinquanta miglia dalle coste. Queste aree, specialmente nella parte occidentale, sono soggette a incendi, inondazioni, terremoti e smottamenti, mentre nell’area sud orientale sono frequenti tempeste, uragani e tornado; inoltre, la crescita della popolazione e l’industrializzazione aumentano l’esposizione ai disastri derivati dalle attività umane, come incendi, esplosioni e inquinamento chimico. Le teorie del rischio evidenziano come, in presenza di sistemi tecnologici complessi, si possono verificare errori non prevedibili, determinando interazioni inaspettate con eventi di minore importanza che possono sfociare così in problemi rilevanti. Un fenomeno che Charles Perow chiama “incidenti normali”9; lo scrittore afferma che “abbiamo costruito un mondo dove il potenziale legato alla catastrofe tecnologica è connaturato al normale svolgersi delle attività quotidiane”10. La presenza di tecnologie pericolose richiede che siano prese sempre nuove misure per prevenire le catastrofi e che siano adot-

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tati sempre nuovi piani di evacuazione, se quelli già adottati si presume si possano dimostrare inefficaci. La riduzione dell’impatto dei disastri Le comunità possono far diminuire il rischio di morte e di danno adottando misure precauzionali per diminuire l’impatto di potenziali disastri. In Giappone, ad esempio, nel 1923, il terremoto Great Kanto uccise oltre 100.000 persone e in seguito oltre otto milioni di persone da ogni parte del paese presero parte alle attività di prevenzione del grande terremoto che, secondo gli esperti, potrebbe verificarsi in ogni momento11; anche se si prendono delle misure, però, è difficile prevedere gli effetti di un disastro potenziale. Ad esempio, prima di un terremoto devastante che colpì Città del Messico, uccidendo 100.000 persone, i responsabili del governo della città avevano approvato regolamenti antisismici per gli edifici che prevedevano scosse prodotte solamente da onde sismiche a basso impatto, le più probabili per una città costruita su antichi laghi prosciugati. Ma le normative approvate per evitare il disastro non prevedevano indicazioni specifiche sul numero di cicli di scosse telluriche che gli edifici dovevano poter sopportare: in seguito, gli esperti affermarono che questa lacuna aveva contribuito a causare una buona parte dei danni. La diffusione d’adeguati allarmi può salvare delle vite umane, ma queste informazioni a volte possono non essere divulgate per problemi di varia natura, per interessi economici, per calcoli politici, per l’incertezza sulla natura e sull’estensione del disastro o per il timore di causare panico. Nel 1902, la tragedia che seguì all’eruzione del vulcano di Monte Pelè, nell’isola di Martinica, nelle Indie Occidentali, dimostra come si possano gestire in modo pessimo avvertimenti che consentirebbero di mettere in allerta le potenziali vittime e come tutto ciò possa avere conseguenze disastrose. Le autorità della vicina comunità di Saint Pierre erano state avvisate della possibilità che il vulcano iniziasse una fase di attività eruttiva, ma, preoccupati del panico che la notizia avrebbe seminato, mandando all’aria anche l’impegno profuso nella campagna elettorale per le imminenti elezioni politiche locali, non diffusero la notizia, e la quasi totalità della popolazione delle piccole comunità isolane venne sterminata. L’eruzione nel maggio 1980 del Monte Sant’Elena, fornisce un esempio istruttivo: questa esplosione fu maggiore di quella appena descritta, ma vi furono solo sessanta vittime, contro le 30.000 dell’eruzione del Monte Pelè. Questa differenza fu anche dovuta all’adeguato allarme lanciato, nonché alla rapida delimitazione della zona, per controllarne l’accesso12.

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Anche se esistono sistemi di allerta appropriati e una rete di rilevamento dati affidabile ed efficiente, la popolazione non sempre risponde alle minacce in modo adeguato, allo stesso modo in cui ignora i rischi associati all’abuso di alcool o di sigarette: anche di fronte ai disastri, molti possono pensare di esserne immuni. Le persone che vivono in aree dove i disastri naturali sono comuni, come quelle dove si verificano spesso terremoti o uragani, percepiscono il pericolo come “un gioco di percentuali”. Allo stesso modo, le predizioni di disastri potenziali si scontrano con un atteggiamento del tipo “Non mi è mai capitato prima, perché me ne devo preoccupare adesso?”. Questo è l’atteggiamento tipico di chi, non appena fiuta una perdita di sostanze chimiche, si reca nelle vicinanze del disastro per vedere da vicino o di chi, sentendo che è in arrivo un tsunami, si dirige verso l’oceano13. Come osserva Philip Sarre, “sembra che queste persone sottovalutino deliberatamente i rischi che potrebbero correre”14. Egli aggiunge che, dato che gli sforzi per la prevenzione sono per forza di cose limitati, “la cosa migliore sembra essere quella di potenziare il sistema d’evacuazione e le misure di emergenza”. Affrontare le conseguenze di un disastro Che cosa si può fare quando accade un disastro? Di che tipo d’aiuto si ha bisogno immediatamente dopo? Si provi a immaginare questa situazione: ci sono dei feriti, dei dispersi e dei morti. Dopo il disastro, i sopravvissuti possono avere una crisi esistenziale, caratterizzata da un profondo senso di vuoto e di disperazione15. Questi soggetti possono rimanere in stato di shock, senza sapere dove di trovano i propri cari e provando un senso di incertezza per il futuro16. Un aspetto essenziale consiste nel poter rispondere ai bisogni immediati dei sopravvissuti, fornendo cibo, acqua, rifugio e medicine, ripristinando i servizi vitali della comunità; mentre si fa attenzione ai bisogni materiali, ci si deve preoccupare anche di quelli emotivi, creando gruppi di persone per la ricerca degli scomparsi, per tranquillizzare i sopravvissuti, preoccupati anche per la sorte dei parenti. Un altro fattore che aiuta i sopravvissuti a reagire al trauma è il ritrovamento e la cura dei morti. Il commento di un operatore di crisi, “Non ha molto senso dover tirare fuori i morti per poi seppellirli di nuovo”, rivela la profonda ignoranza delle emozioni umane che accompagnano le pratiche della sepoltura. Forse, ciò di cui le vittime di un disastro hanno più bisogno è la compassione. La maggior parte degli sforzi è diretta a far fronte al periodo d’emergenza o di crisi, ma possono essere necessari anni per riconquistare la stabilità emotiva; sfortunatamente le squadre di soc-

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corso assisteranno i sopravvissuti per un tempo piuttosto limitato e cesseranno rapidamente l’intervento non appena rientrerà l’emergenza. I soccorritori che aiutano i superstiti di un disastro possono a loro volta sentirsi dei “sopravvissuti” a causa dell’intensità emotiva ed esistenziale dei loro incontri con la sofferenza e le tragedie umane. Ad esempio, un medico di Kansas City arrivò sulla scena di un disastro accaduto in un albergo dovuto a un balcone che era crollato sull’entrata. Tra le macerie trovò corpi tagliati a metà, decapitati e mutilati, rimase a guardare mentre la gamba gravemente ferita di un uomo che era rimasto sotto alle macerie veniva amputata con una sega a motore, lavorò con coscienza e professionalità e fu tra i primi a raggiungere le vittime intrappolate. In seguito, mentre tutto tornava alla normalità, disse alle autorità che aveva bisogno di andarsene per un po’, per “staccare” dalle immagini della tragedia e per riuscire a far fronte alla sua esperienza di sopravvissuto. Spesso, non si offre sufficiente aiuto a coloro che prestano soccorso durante i disastri e che, a loro volta, ne hanno bisogno per affrontare le situazioni vissute. Per fornire supporto ai soccorritori dopo disastri e situazioni critiche, è necessario un approccio globale che preveda “una preparazione pre-disastro, un primo intervento con supporto psicologico e un trattamento post-disastro” usando più risorse, dall’assistenza psicologica ad altre risorse terapeutiche17. In California, quando in una sola notte caddero quasi cinquantuno centimetri d’acqua su una comunità della costa, con ventidue persone morte, oltre cento famiglie che avevano perso la casa e altre tremila che avevano subito gravi danni, fu istituita rapidamente un’organizzazione d’emergenza per aiutare i sopravvissuti a reagire al contraccolpo psicologico dato dalla perdita. Il progetto venne chiamato COPE, un acronimo che significa Counseling Ordinary People in Emergency (psicoterapia breve per persone che si trovano in emergenza). L’organizzazione forniva psicoterapia immediata alle vittime del disastro, utilizzando le competenze di oltre cento professionisti della salute mentale18. Gli specialisti rilevarono come coloro che avevano perso dei cari o delle proprietà stavano provando sensazioni di lutto che erano amplificate dalla natura improvvisa e casuale di queste perdite; inoltre quelli che avevano perso solo proprietà si sentivano in colpa di fronte ai primi, altri ancora si sentivano in colpa per essere sopravvissuti, i superstiti senza casa si sentivano isolati e soli. I ritardi burocratici e la mancanza di cooperazione da parte delle compagnie d’assicurazione provocarono sentimenti di rabbia e di frustrazione. Molte vittime si sentivano ansiose, vulnerabili e depresse, in alcuni, riemersero, dopo il disastro, vecchie questioni personali, o di relazione. COPE organizzò dei programmi per far fronte a tutti questi problemi, si rassicurarono i sopravvissuti che tutte queste reazioni erano normali e che il loro cordoglio era giustificato. Gli esperti in assistenza psicologica li aiutarono

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Il reciproco supporto può aiutare le persone in lutto ad affrontare l’impatto traumatico di un disastro. Qui, due sopravvissuti si abbracciano durante i funerali dei passeggeri e dell’equipaggio dell’aereo ValuJet Flight 592, precipitato nel maggio del 1996, sulle montagne dell’Everglades in Florida.

a definire delle priorità in modo che i superstiti potessero iniziare a risolvere i problemi che il disastro aveva causato. Furono impiegate squadre d’emergenza e di supporto per attuare un efficace alleviamento dello stress (debriefing). Anche i volontari che intervengono a supporto degli addetti all’aiuto psicologico sono vulnerabili all’impatto emotivo creato dal disastro. Gli incontri con la morte determinati da questi disastri non li possiamo certo eliminare, ma si possono prendere delle misure per ridurne l’impatto, salvaguardare la vita e mostrare compassione a chi sopravvive.

La violenza La violenza è una delle modalità più forti d’incontro con la morte. Essa può condizionare i nostri pensieri e le nostre azioni, anche se non siamo stati vittime dirette di violenza. Potenzialmente, tutti possiamo essere vittime di violenza. Nel 2004, negli Stati Uniti, si sono avuti 13.000 omicidi: metà delle vittime non aveva ancora trent’anni19. Oltre il 40% di questi omicidi sono correlati a controversie interpersonali (per denaro, per questioni legate alle

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proprietà, per situazioni “passionali” o per altri moventi ancora), un altro 20% è ascrivibile a reati più gravi, nell’85% di tutti i casi l’arma del delitto è stata un’arma da fuoco.20 In alcune aree urbane, i medici di pronto soccorso hanno raccontato di essere sommersi da pazienti con ferite simili a quelle dei soldati in battaglia: ferite da “armi da combattimento” semi-automatiche che sparano dozzine di colpi al minuto a una velocità di molte volte superiore a quella di una normale pistola. “Le armi d’assalto distruggono gli organi, mentre una pistola li graffierebbe appena o li bucherebbe in modo netto, rendendo necessarie massicce trasfusioni di sangue”21. I giovani sono vittime di violenza in numero spropositato22. Secondo un rapporto dell’American Medical Association, uno tra gli aspetti più sconvolgenti della violenza da arma da fuoco è il fatto che spesso i bambini ne sono vittime con ferite mortali, inflitte sia in modo intenzionale che accidentale, come spettatori innocenti di momenti di violenza domestica o di strada23. Il musicista rap Ice-T ha richiamato l’attenzione sulle gravi condizioni in cui versava South Central Los Angeles, la zona in cui è nato. Egli afferma che la guerra tra bande è come ogni altra guerra e che i componenti delle bande sono tali e quali a “veterani di guerra”, con migliaia di persone morte in entrambi gli schieramenti di questo sanguinoso campo di battaglia24. La violenza che deriva dalle guerre tra bande s’insinua persino nel tranquillo contesto dei cimiteri. Ad Anaheim, in California, due uomini sono morti in seguito alle ferite multiple da arma da fuoco, ricevute mentre si trovavano sulla tomba di due componenti della propria banda, morti l’anno precedente.25 A Detroit, la madre di un sedicenne, al quale avevano sparato mentre camminava con gli amici diretto a un negozio, disse a un giornalista che sparatorie simili avevano luogo ogni sera nel suo vicinato. La donna aveva aggiunto: “Sparano come se quello fosse il loro lavoro o roba simile. Vorrei solo andare a stare in un posto più sicuro, un posto dove non si spara nel tuo palazzo o in quello vicino, tutto qui, solo questo: due palazzi sicuri, ecco tutto quello che vorrei26”. Per alcuni, le pistole non sono solo armi ma simboli di potere e di forza vitale. Ad esempio, un ragazzo ha detto: “Se hai una pistola, penso che gli altri se ne accorgono…, cioè penso che se hai una pistola in qualche modo sei più sciolto. Se non l’hai, arriva uno stronzo e ti sbatte per terra, ma se l’hai non arriva nessuno a sbatterti giù. Se hai una pistola, la gente vede che in te c’è qualcosa che prima non c’era”27.

Joseph Giuliano consiglia programmi d’educazione per la risoluzione dei conflitti, destinati a maschi in età scolare a rischio. Egli afferma che “la diffusione della violenza nelle nostre città sta portando alla morte di un’intera generazione di giovani”28.

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I bambini testimoni di violenze si chiamano “vittime mute”: apparentemente a loro non viene fatto nulla, ma vengono disturbati dal punto di vista emotivo sentendo il rumore degli spari o vedendo sparare nei loro luoghi di svago o dall’avere un componente della famiglia coinvolto in storie di violenza29. Nel descrivere l’approccio del loro programma sociale di prevenzione della violenza a Richmond, Larry Cohen e Susan Swift rilevano: “La violenza diretta alle persone, anche se si verifica più spesso in comunità giovani che abitano in zone densamente popolate e a basso reddito, interessa tutti gli abitanti degli Stati Uniti. L’ambiente è permeato dalla consapevolezza della violenza e determina le scelte abitative e d’acquisto della casa, condiziona le nostre risposte a eventuali sconosciuti che ci fermano per la strada, il nostro modo di camminare e di guidare e l’orario che si ritiene favorevole e prudente per il rientro serale. A differenza d’altre minacce ambientali, la violenza è diventata un’epidemia della salute pubblica.”30

Gli atti di violenza più sconvolgenti sono quelli senza una causa apparente, quando la vittima è scelta a caso tra molte, accrescendo così l’ansia legata alla percezione che chiunque possa essere coinvolto. Alcuni anni fa, in California, molti omicidi furono commessi da quello che la polizia iniziò a chiamare Mostro della Strada, perché le uccisioni avvenivano lungo percorsi alberati molto frequentati. Una donna, che di solito andava a correre tutte le mattine lungo uno di questi sentieri, affermò di sentirsi minacciata personalmente, proprio perché questi atti violenti erano capitati così “vicino a casa”, in un posto nel quale fino ad allora si era sentita al sicuro e ora si sentiva spaventata; anche se non era stata vittima d’atti di violenza, questi episodi, verificatisi in un ambiente a lei familiare, la rendevano comunque una vittima. Una donna descrisse un suo potenziale incontro con la morte: aveva semplicemente aperto la porta a un ex compagno di scuola che non vedeva da tempo, lo invitò a entrare e iniziarono a chiacchierare. Poi iniziò a non sentirsi più a suo agio, anche se non sapeva dirne il motivo; due mesi dopo sentì al telegiornale che quell’uomo era stato arrestato e accusato dell’omicidio di molte giovani donne. Ricordando l’esperienza, la donna disse: “Spesso mi dico che talvolta siamo molto vicini alla morte e non ce ne rendiamo nemmeno conto”. Nell’analizzare queste motivazioni Dana DeHart e John Mahoney, concludono che “uno degli aspetti più sconvolgenti degli omicidi plurimi è il fatto che chiunque è potenzialmente a rischio. Anche le persone caute e circospette non sono al riparo da un eventuale serial killer, perché le vittime non hanno bisogno di provocarlo o conoscerlo per diventare le sue vittime.”31 Alcuni credono che, volenti o nolenti, gli americani abbiamo inventato la “soluzione violenta dei conflitti” e, per supportare questa teoria, ricordano le violenze storicamente documentate contro i nativi e gli afro-americani.

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Con poche eccezioni, durante il periodo d’espansione verso Ovest, si istituzionalizzarono comportamenti che giustificavano la giustizia sommaria e che incoraggiavano la gente a comportarsi come voleva, legalmente, ma anche illegalmente. Secondo Louis Menand “gli americani sono ossessivamente attaccati al concetto d’autonomia e di libertà individuale e sono, proprio per questo, indifferenti ai bisogni della comunità, quando non lo sono addirittura all’idea stessa di comunità.”32 La valutazione dell’atto omicida Gli standard di giustizia di una comunità hanno un ruolo importante nel determinare come un omicidio sarà poi giudicato da una società e dal suo sistema legale, politico e sociale. L’omicidio, l’uccisione di un essere umano per mano di un altro essere umano, nel diritto statunitense è definito secondo due categorie: quella penale e quella non penale. Ciascuna di queste categorie include ulteriori distinzioni. Ad esempio, si considera l’omicidio giustificabile se chi uccide ha agito entro determinati limiti sanciti dalla legge, come la difesa personale, o quando l’omicidio è il frutto di un incidente che non implichi negligenza evidente; perciò, se è vero che l’assassinio è necessariamente un omicidio, l’omicidio non è sempre un assassinio. La legge ha tradizionalmente riconosciuto due distinzioni principali nella categoria dell’omicidio penale: assassinio e omicidio preterintenzionale. L’assassinio è associato ad atti svolti in modo deliberato (“la premeditazione”) e si parla d’omicidio di primo grado per quello premeditato e accompagnato da altri crimini gravi, come la violenza sessuale. L’omicidio preterintenzionale (o colposo) è definito come uccisione frutto di un errore, non pianificata e commessa senza intenzione di nuocere. Un esempio d’omicidio colposo volontario, è quello causato da una persona che, provocata, ne uccide un’altra in una colluttazione. Si dice che questa persona ha agito in preda alla passione del momento, senza considerarne le conseguenze. Se l’omicidio è il risultato di un incidente criminale, ma non è intenzionale, esso viene classificato come omicidio colposo involontario, come nel caso di un incidente automobilistico letale, causato da guida pericolosa o nel caso di una morte causata da evidente negligenza. Le circostanze di un’uccisione, la relazione tra la vittima e chi l’ha uccisa, la motivazione e l’intenzione dell’assassino, sono tutti elementi che vengono soppesati per classificare questo atto all’interno del sistema giuridico. Da uno studio di Henry Lundsgaarde su oltre 300 uccisioni avvenute in grandi città americane emerse che metà dei sospetti erano stati rilasciati prima di arrivare al processo33. Per capire come mai alcuni casi d’omicidio non arrivino al processo, è necessario vedere come le circostanze di un atto

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omicida influenzino le ricerche investigative e come l’indagine giudiziaria stabilisca se un assassino debba essere portato al processo. Le indagini medico-legali che ruotano attorno a un processo comprendono di solito tre componenti: 1) un’autopsia che determina la causa ufficiale della morte; 2) un’indagine della polizia che accerta i fatti e raccoglie le prove; 3) varie procedure giudiziarie, e altre procedure legate a queste, svolte dall’ufficio del procuratore distrettuale e dal tribunale, per determinare se ci sono elementi sufficienti per un processo. Per proseguire nelle indagini è fondamentale accertare se l’omicidio è un atto interpersonale, ossia se implica una relazione tra vittima e carnefice. Ci possono essere, tra i due, legami forti. Ad esempio si può essere parte della stessa famiglia o imparentati in altro modo; si può essere amici o soci, ma anche semplicemente degli sconosciuti. Nello studio di Lundsgaarde si è scoperto che, “tanto più la relazione tra vittima e carnefice è stretta, tanto minori sono le possibilità che l’assassino sia punito severamente per il suo atto”. In altre parole, è più facile essere puniti se si uccide uno sconosciuto, piuttosto che un amico o un componente della propria famiglia. La risposta che la giustizia offre, di fronte all’omicidio, riflette le risposte culturali e sociali che quest’azione determina. Lundsgaarde afferma che “negli omicidi, ciò che appare così sconvolgente, o al contrario comprensibile, dipende dalla nostra personale visione di quelle che, secondo noi, sono le regole che dovrebbero governare o sarebbe bene governassero un certo tipo di relazione”. Basando i suoi parametri su comportamenti culturalmente determinati, il sistema giudiziario di una comunità giudica se un omicidio è avvenuto all’interno della legge o al di fuori. Nel primo caso l’assassino sarà prosciolto e il caso chiuso, mentre nel secondo caso si dovrà determinare se l’uccisione è stata un assassinio, un omicidio, un omicidio preterintenzionale o una negligenza. Ognuna di queste categorie comprende vari gradi d’intento criminoso e nel procedere con le indagini, il sistema giudiziario e la polizia, prenderanno in considerazione l’intento, la motivazione e le circostante dell’omicidio. Quali sono le basi culturali per giudicare un atto omicida? La ricerca di Lundsgaarte ha mostrato come, dal punto di vista legale, il risultato sarà piuttosto diverso se, poniamo il caso, una persona uccide l’amante della moglie, oppure se l’omicidio è associato a furto, rapina o ad altri atti criminosi. Un’indagine approfondita condotta dal Los Angeles Times ha potuto constatare che coloro che uccidono sconosciuti hanno maggiori probabilità di ricevere un trattamento severo da parte della legge, rispetto a coloro che uccidono amanti, parenti o altre persone conosciute. Un investigatore di polizia ha osservato che mentre si prendono in maggiore considerazione i casi di “per-

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sone innocenti e timorate di Dio che finiscono assassinate”, perché tali crimini seminano il terrore nel vicinato e devono essere risolti in fretta, altri casi “restano indietro”, come nel caso delle lotte tra bande “se Tizio ammazza Caio, non importa niente a nessuno”34. La società è solitamente riluttante a immischiarsi nelle vicende di famiglia, il che è vero anche quando la vittima di un omicidio è un bambino. Nell’ambiente familiare, tra gli elementi che possono portare a una pena, comminata in base alla legge, sono più frequenti quelli per omicidi preterintenzionali o per abusi sui minori che quelli per assassinio.35 Si pensa che una relazione di comunanza determini una serie di responsabilità e di obblighi reciproci, ossia quasi un codice di giustizia proprio, capace di determinare sanzioni sociali che scattano all’interno della relazione. All’opposto, afferma Lundsgaarte, “l’assassino che sceglie uno sconosciuto come sua vittima è un’aperta minaccia per l’ordine sociale”. In altre parole, l’assassino che uccide uno sconosciuto sarà probabilmente lungi dal provare un dispiacere personale per la vittima. Per questo la società è severa contro gli omicidi che minacciano la legge e l’ordine in un ambito più vasto, mentre le uccisioni che avvengono all’interno di una famiglia o tra persone che si conoscono tendono a essere viste come minacce meno gravi per la società in senso lato. La pena di morte Alcuni credono che la violenza sia “contagiosa” nella moderna società americana, e questo ragionamento può svilupparsi in vari modi: in primo luogo, si può dire che una società violenta crea un ambiente all’interno del quale gli elementi disturbati vengono incoraggiati a esternare i loro comportamenti anti-sociali in modi più pericolosi di quanto non sarebbe se fossero invece disponibili modi alternativi per dare sfogo a queste tendenze; in secondo luogo, ogni atto di violenza può generarne altri, allargando il contagio. Inoltre, alcuni sostengono che se un atto di violenza non si risolve adeguatamente esso sarà ripetuto. Su quest’ultimo punto, Fredrick Werthem ritiene che “la società dovrebbe affermare chiaramente quello che vuole; dovrebbe dire ‘no, questo non è accettabile’ e questo dovrebbe essere confermato in sede giudiziaria come riconoscimento e sanzione di responsabilità per le proprie azioni36”. La pena capitale è dunque la soluzione forte di cui c’è bisogno? In teoria la pena capitale dovrebbe soddisfare due scopi: punire il colpevole e fungere da deterrente verso altri potenziali delinquenti. Nel 2000, 85 persone sono state giustiziate negli Stati Uniti e alla fine dello stesso anno 3.500 persone

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avevano avuto una sentenza di morte37. La maggior parte erano coinvolti in atti criminosi a sfondo intra-razziale, cioè di atti che vedevano bianchi contro bianchi e neri contro neri38. Negli Stati Uniti, per eseguire la pena di morte si usano diverse modalità: la sedia elettrica, la camera a gas, l’iniezione letale. Herb Haines osserva che “le esecuzioni sono diventate eventi altamente ritualizzati”. I prigionieri sono tenuti in celle speciali dove ricevono le ultime visite e l’ultimo pasto, poi vengono trasferiti in un’altra cella ancora e poi portati nel luogo dell’esecuzione39. Sostiene Haines: “La moderna procedura della pena di morte assicura che tutto sia in ordine, che tutto sia umano e civile e che, in fin dei conti, non siamo barbari”. Anche se la pena di morte è stata applicata fin dall’antichità per diversi crimini, molti sostengono che è inutilmente crudele e che è sopravvalutata come deterrente per i potenziali omicidi. Secondo Glenn Vernon, “le indagini sull’inefficacia della pena di morte come deterrente all’omicidio, hanno rivelato che alcuni assassini, prima di uccidere, erano così impegnati in altre cose che, semplicemente, non avevano pensato alla pena capitale, e che altri invece erano tanto coinvolti emotivamente con le vittime da non poter nemmeno prendere in considerazione le conseguenze del loro atto criminoso.40”

Negli Stati Uniti la maggior parte delle legislazioni statali prescrive che la pena di morte sia comminata solo dopo che siano state accertate le circostanze “aggravanti” e “attenuanti”, del crimine commesso. Se i fattori aggravanti sono provati e la sentenza è quella di morte il caso sarà rivisto in Corte d’Appello. A parte certi crimini che la Corte Suprema non ha ancora regolamentato, tra i quali il più importante è quello di tradimento, l’unico crimine capitale negli Stati Uniti è l’assassinio41. Ha senso che una società cerchi di sradicare o prevenire gli omicidi uccidendo a sua volta? La pena capitale rafforza l’idea che la violenza è la risoluzione dei problemi? Citando prove derivate da teorie psicologiche e da terapie del comportamento che sottolineano l’importanza degli effetti del rinforzo positivo, Robert Kastenbaum e Ruth Aisenberg affermano che “ci sono poche prove che confermino l’ipotesi che infliggendo una grave punizione a un singolo, si determinerà un ‘miglioramento’ nel comportamento degli altri”; al contrario, si possono rinforzare fantasie di ostilità e tendenze omicide”42. Questi Autori affermano che per un potenziale omicida il rischio maggiore non è la pena “ma il rischio di essere ucciso dalla polizia, dalla vittima prescelta o da un passante”. Se la pena capitale non è un deterrente efficace, è bene chiedersi se ci sono altre opzioni. Lundsgaarde ha comparato il sistema americano moderno con quello anglo-sassone antico, con quello inglese e con quello di molti altri

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paesi non Occidentali, e afferma che “la legislazione moderna che tratta dell’assassinio ha completamente modificato l’antico modo di intendere questo atto, ritenuto un’offesa contro la vittima e la sua famiglia: nella visione moderna l’assassinio è un’offesa nei confronti dello Stato”43. In breve, la tendenza moderna è di vedere l’assassinio come un problema sociale. La separazione tra leggi civili e penali – o, meglio, la separazione tra obbligo personale e responsabilità penale – elimina la responsabilità dell’assassino verso la vittima intesa come persona, intendendo l’atto violento come diretto contro la società in senso lato. La guerra In un normale contesto di interazione umana i nostri codici morali e legali si oppongono all’assassinio. In guerra, invece, non solo uccidere è accettato, ma può essere ragione d’eroismo. La guerra sospende le sanzioni convenzionali contro le uccisioni, sostituendole con una serie di convenzioni e regole di condotta morale. Ci si aspetta d’uccidere e, se necessario, di morire per il proprio paese, come una delle conseguenze della guerra. Come afferma Arnold Toynbee, “il postulato fondamentale della guerra è che uccidere non è un assassinio”44. Nel classico di Dalton Trombo, Johnny Got His Gun (E Johnny prese il fucile), il protagonista è un veterano “senza braccia, gambe, orecchie, occhi, naso e bocca” che, per comunicare col mondo, “compone messaggi”, battendo la testa sul cuscino.45 Egli chiede di essere portato fuori dove può diventare un “esempio” per insegnare alle persone “tutto quello che si doveva sapere sulla guerra”. Egli dice a sé stesso “sarebbe una gran bella cosa concentrare la guerra in un corpo e mostrarla alla gente, così che si possa vedere la differenza tra la guerra che appare nei titoli di giornale e nelle campagne di raccolta fondi attraverso la vendita dei buoni del tesoro governativi, e la guerra che si combatte da soli, da qualche parte in mezzo al fango, la guerra tra un uomo e una granata esplosiva.” Il genocidio, che si definisce come sforzo per distruggere una nazione o un gruppo umano, lo si è visto spesso, con orribili risultati, durante il Ventesimo secolo46. Tra il 1941 e il 1945, la Germania nazista sterminò sei milioni di ebrei: l’Olocausto uccise altri cinque milioni di persone con l’accusa di essere oppositori politici, handicappati mentali, ritardati, o in qualche modo “geneticamente inferiori”. Quando i Khmer rossi presero il potere in Cambogia, circa due milioni di Cambogiani morirono di morte violenta e di fame: fu un orribile esempio di auto-genocidio, perpetrato da un gruppo etnico sui suoi stessi componenti. Le infami “scomparse” di cittadini a opera dei

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militari argentini causarono la morte di 30.000 persone. Nel 1994, dopo l’assassinio del presidente del Ruanda, un milione di persone, in prevalenza dell’etnia tutsi, fu massacrato nel tentativo di sterminare l’intera etnia. Svegliarsi all’indomani di un lutto tanto orribile può generare una repressione del dolore che potrà contribuire ad altri genocidi, perpetuando così un circolo vizioso di violenza provocato dalla vendetta. Colin Murray Parkes afferma: “non è irragionevole pensare che ogni azione che incoraggia la gente a esprimere il cordoglio e il malcontento in modo controllato e non violento possa ridurre il rischio di violenze incontrollate”47. Le nozioni cavalleresche del combattimento, con cavalieri armati che si scontravano galantemente su una collina o su una pianura disabitata, sono state rimpiazzate nell’era moderna dalla realtà della guerra tecnologica. Secondo la Croce Rossa Internazionale, nove vittime su dieci delle guerre moderne sono civili, uomini, donne, bambini, che, semplicemente, “hanno incrociato una guerra”48. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, solo negli anni Novanta, a causa di conflitti militari sono stati uccise due milioni di persone, altri sei milioni sono stati ferite, e molte altre sono rimaste invalide permanenti49. Il rapporto continua dicendo che, nel 2000, circa 300.000 bambini soldato, maschi e femmine, sono stati reclutati con la forza, per combattere guerre in tutto il mondo. Nel cosiddetto dopoguerra, dal 1945, più di venti milioni di persone sono morte in oltre cento conflitti e altri 60 milioni, o più, sono stati ferite, imprigionate, separate dalle famiglie e costrette a fuggire da casa o dai loro paesi. Questi misfatti stanno continuando, anche ora, mentre leggete queste parole. Oltre alla morte e alle ferite che si possono imputare direttamente alla guerra, la continua enfasi sul “militarismo” sta sortendo in tutto il mondo tutta una serie d’effetti negativi, di povertà, di danni all’ambiente, di disagi sociali, di instabilità politica, d’indebitamento degli stati e d’oppressione militare50. L’alienazione tecnologica Quando ripensiamo alle battaglie epiche d’Achille e Agamennone, o al leggendario Re Artù e ai Cavalieri della Tavola Rotonda, o ai samurai del Giappone medievale, la guerra è qualche cosa d’eroico. Il nemico è un rivale degno di stima, insieme al quale si è impegnati in “una metafisica della lotta”51. Questo senso di cavalleria è oggi assente dalla guerra; con l’evoluzione tecnologica dei sistemi d’arma sono rimaste “solo le virtù astratte dell’obbedienza e del dovere”. Al posto dell’iniziativa individuale e del coraggio, la guerra moderna incoraggia la cooperazione a livello burocratico e i calcoli di convenienza.

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Il tratto più caratteristico del moderno modo di combattere è “l’alienazione tecnologica”52. Durante la Guerra Civile Spagnola, il mondo rimase impietrito dall’orrore causato dai bombardamenti aerei della città basca di Guernica. Il bombardamento provocò l’uccisione indiscriminata di civili, uomini e donne, di tutte le età. Dopo la Prima Guerra Mondiale, le guerre hanno iniziato a coinvolgere i civili su larga scala, già alla fine della seconda il numero dei civili feriti era maggiore di quello dei militari. Oggi la distinzione tra combattenti e civili è molto sfumata, se non del tutto cancellata. La guerra dei tempi antichi usava strumenti limitati: l’arco e le frecce, i proiettili d’artiglieria, gli esplosivi convenzionali. Questi limiti furono superati in modo radicale con l’avvento dell’atomica, lanciata su Hiroshima il 6 Agosto del 1945. Gil Elliot afferma che: “quando si arriva all’atomica, la facilità di centrare l’obiettivo e la natura istantanea di un macro-impatto (con distruzioni su larga scala) implicano che, tanto la scelta della città, quanto l’identità della vittima, siano determinate completamente dal caso e che la tecnologia umana ha raggiunto lo stadio dell’autodistruzione… A Hiroshima e Nagasaki, la “città dei morti” è stata, infine, trasformata da metafora in realtà letterale”53

La bomba cadde proprio nel centro di Hiroshima e la sua forza esplosiva, il calore e le radiazioni colpirono tutta la città. Un soldato che vide la città il giorno seguente la descrisse così: “Non riuscii a vedere nulla se non un lunga striscia di rovine bruciate e tanti detriti. Dov’era andata Hiroshima?... sette fiumi che l’attraversano erano pieni di cadaveri, fuliggine, fumo e pezzi di legno carbonizzati. I fiumi attraversavano la città come una riga nera: Hiroshima era ridotta in cenere54.”

La reazione caratteristica a una tale carneficina è l’intontimento psichico. La risposta psicologica che protegge il sé dalla morte di massa è un viraggio verso l’insensibilità e la mancanza di sentimenti. Robert Lifton e Eric Olson osservano che “i piloti dei jet che con freddezza gettano bombe su gente che non hanno mai visto sono totalmente insensibili verso i destinatari del loro atto”55. Essi aggiungono che “quelli di noi che guardano in televisione questi bombardamenti subiscono una desensibilizzazione diversa, ma correlata”; di fronte al potenziale distruttivo delle armi moderne, ha senso ricordare il veterano della storia di Dalton Trombo, che voleva essere esposto per mostrare il potere selvaggio e distruttivo della guerra. Gli fu negato ciò che chiedeva, perché “era un perfetto esempio del futuro e avevano paura di mostrare quel futuro”. Quali tipi d’immagini vi vengono alla mente quando pensate o leggete di una guerra? Cos’è che rende l’incontro con la morte in guerra diverso da altri incontri con la morte? Glenn Vernon osserva che “confrontarsi con le uc-

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cisioni in tempo di guerra può essere l’esperienza più difficile per coloro ai quali è stato insegnato di non uccidere56”. La conversione del guerriero La guerra attiva una serie di convenzioni che rendono psicologicamente accettabili al singolo azioni contro le norme che ha imparato fino a quel momento, in altre parole si mettono da parte le norme di condotta morale. Fino a che il combattente si “attenne, più o meno fedelmente, alle regole riconosciute”, dice Toynbee, “la maggior parte dell’umanità ha acconsentito a modificare il suo senso morale in modo da poter considerare il guerriero dalla parte del giusto”57. Toynbee prosegue dicendo che, per convenzione, in guerra è necessario calarsi nella parte. L’effetto psicologico dell’uniforme del soldato è quello di “simbolizzare l’abrogazione di un tabù, ovvero quello di uccidere altri esseri umani, ed è il segno che, al posto di questo tabù, si assume il compito di uccidere”. Joel Baruch, un veterano combattente, afferma che “i cambiamenti di personalità e d’umore fanno parte del clima della zona di guerra. Questi cambiamenti si compiono in modo così sottile che la persona non se ne rende conto”58. Le convenzioni della guerra agiscono tanto sulla mente quanto sulla personalità. Ecco il resoconto che fa Baruch del suo primo incontro con la morte sul campo di battaglia: “Era morto stecchito, aveva gli occhi spalancati che guardavano nel vuoto, con un sottile rivolo di sangue che gli colava da un angolo della bocca. Aveva due fori nel petto e la gamba destra era per metà maciullata. La mia prima vittima in guerra. Un corpo senza vita nel quale, solo fino un momento prima, un cuore batteva i suoi settanta colpi al minuto. Una cosa è sentire racconti sulla morte, vederla in diretta è tutt’altra cosa. Ho raggiunto l’albero più vicino e ho vomitato fino a consumarmi”.

Già dalla battaglia successiva, Baruch iniziò a chiedersi se non stesse diventando insensibile: “Stavo diventando impermeabile alla morte dei miei compagni e oltre a ciò negavo la possibilità della mia stessa morte”. Un altro veterano dice: “Il contesto sociale è molto più importante di quanto non si riconosca di solito. Viviamo entro i confini che esso ci impone, se vivessimo in una società diversa, considereremmo normale un diverso insieme di comportamenti. Ciò che ci sconvolge e ci spaventa nella situazione di combattimento è vedere con quanta speditezza la “normalità” può cambiare.”59

Ognuno di noi ha esperienza di cambiamenti comportamentali che se-

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guono a cambiamenti del contesto sociale. Ad esempio, il nostro comportamento con i parenti è diverso da quello che abbiamo con gli sconosciuti o con i nostri colleghi di lavoro. Di solito queste differenze sono minime e non ci facciamo caso. I valori contraddittori del soldato in battaglia richiedono ciò che il veterano sopra citato ha chiamato “una più profonda schizofrenia”: “Quando sei lì, non ricordi bene come sia tornare a un contesto sociale nel quale uccidere è considerato orrendo, e quando si torna a casa non ci si ricorda più del combattimento, se non negli incubi”.

Quando la società riflette sulla sua partecipazione alla guerra, si parla spesso di patriottismo, ovvero dell’eroismo che deriva dal combattere per la propria patria, dal bisogno di difendere le cose che si considerano care; ma se ascoltiamo le parole di chi ha preso parte ai combattimenti possiamo vedere che vi opera un diverso sistema di valori. Si sentono racconti di persone che hanno combattuto per la propria vita, le intenzioni eroiche e i sentimenti patriottici possono essere razionali per indossare l’uniforme, ma in battaglia è più probabile che ci si concentri soprattutto sulla propria sopravvivenza60. Affrontare le conseguenze della guerra Chi combatte non supera necessariamente le sue perdite andandosene dalle zone di combattimento o terminando il servizio militare. Dopo una guerra molti soggetti possono andare incontro a sintomi d’insensibilità, irritabilità, depressione, difficoltà nelle relazioni e senso di colpa, perché sono sopravvissuti, mentre altri non ce l’hanno fatta. Si possono verificare incubi e flashback di scene traumatiche. Alcuni “sperimentano un’eccitazione positiva quando ripensano ad azioni nelle quali si poteva rischiare la vita e si uccideva”61. In battaglia, la tensione e lo stato d’eccessiva allerta possono produrre una sensazione di “euforia” che può dare dipendenza. Il termine disturbo post-traumatico da stress è stato usato per descrivere questi sintomi, anche se certe reazioni sono state chiamate “sindrome da lutto ritardato” o “disturbo da lutto post-traumatico”62. Conosciuta come “shell shock”, “shock da granata”, nella Prima Guerra Mondiale e “fatigue da combattimento” nella Seconda, il disturbo post-traumatico da stress fu però clinicamente riconosciuto solo dopo la guerra del Vietnam. Lo psichiatra Jonathan Say trova dei parallelismi tra il cordoglio e la rabbia che i moderni veterani del Vietnam provavano e i racconti omerici: nell’Iliade si descrivono sintomi simili nei combattenti della guerra di Troia di 3000 anni or sono63. Shay afferma che “ci sono stati cambiamenti tecnologi-

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ci, ma non ci sono stati cambiamenti nella mente, nel cuore e nell’anima degli uomini.” Le agghiaccianti atrocità commesse da Achille in preda a rabbia accecante, dopo la morte in battaglia dell’amico Patroclo, si ritrovano in episodi violenti di combattimento, come il massacro di My Lai durante la guerra del Vietnam, perpetrato da militari in preda al dolore. Una lezione che possiamo imparare dall’Iliade, afferma Shay, è che si dovrebbe dare tempo ai soldati di esprimere il lutto. “Portare via i corpi dal campo di battaglia in sacchi neri e metterli da parte nei cimiteri senza lasciare che i compagni possano piangerli, è profondamente dannoso per chi sopravvive”. I combattimenti lasciano ricordi tormentosi e quando non si spara più la mente deve “fare ordine e immagazzinare i fatti più incomprensibili della guerra”64. Un artigliere d’elicottero disse a un amico di smetterla di vantarsi dei grandi risultati, dopo aver visto per la prima volta i morti delle truppe nemiche. “È diverso quando vedi i loro volti, con il sangue che sgorga dalle loro ferite”, disse. Alcuni veterani trovano sollievo e acquistano maggior rispetto di sé con l’utilizzo di nuovi metodi per contrastare queste esperienze65. Nel 1990, in occasione del Memorial Day, un gruppo di veterani del Vietnam iniziò una marcia di settecento miglia da Angel Fire, nel New Mexico, alla riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota. Al termine del viaggio i veterani, che si erano attribuiti il nome di “Ultima Ronda”, furono accolti da diverse centinaia di Oglala Sioux e invitati a prendere parte a cerimonie tradizionali per i guerrieri che tornavano. Dopo aver preso parte a danze onorifiche, riti nella capanna sudatoria e fumate dal calumet sacro dei Oglala Sioux, uno di questi veterani disse di avere per la prima volta dormito in pace tutta notte, dopo anni di incubi, e aggiunse che “per molti di noi questa è una nuova vita… È stata una opportunità per superare cose che ci hanno torturato a lungo”. Altri veterani che presero parte ai ritiri gestiti dal monaco buddista vietnamita Thich Nhat Hanh, dissero poi che la meditazione buddista che si compie camminando riportava alla loro memoria i percorsi di guerra. Vennero a galla ricordi traumatici che furono discussi in incontri di gruppo. Un veterano disse che le ore di meditazione silenziosa con i buddisti vietnamiti avevano diluito la mancanza di fiducia che aveva in quello che era considerato il “nemico”. Nel 1982, da quando è stato dedicato un monumento alla memoria dei veterani del Vietnam a Whasington, questo è diventato un “muro del pianto” per le famiglie e gli amici di oltre 58.000 persone, i cui nomi sono scolpiti qui, e per coloro che servirono la patria e sopravvissero. Poco dopo la sua costruzione, molti visitatori hanno iniziato a lasciare alla base del monumento ricordi vari, vecchie paia di stivali da cowboy, orsetti di peluche, cappellini da baseball, ritagli di giornale e diari, lettere macchiate di lacrime. Una

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delle prime lettere lasciate qui era stata scritta dalla madre di un sergente morto quindici anni prima. Nella lettera la donna descriveva il momento in cui, per la prima volta, vide il nome di suo figlio: “Era da almeno mezz’ora che stavamo cercando, quando mio marito mi disse ‘Tesoro, eccolo’, e guardai il punto sul muro nero dove era la mano di mio marito e vidi il tuo nome, William R. Stock. Ebbi la sensazione che il mio cuore smettesse di battere, non riuscivo a respirare. Era un incubo. Sentivo un freddo paralizzante e battevo i denti. Mio Dio, è stata una sofferenza enorme”.66

Le famiglie degli uomini e delle donne che prestano servizio nell’esercito compiono dei sacrifici ai quali spesso non si fa caso. Marian Novak, la moglie di un ufficiale della Marina, ricorda la sua odissea e afferma di aver assistito al periodo in cui il marito si preparava alla guerra e aggiunge “ho aspettato tredici mesi che tornasse e poi altri quindici anni perché rientrasse veramente in casa”67. La guerra crea un “esercito fantasma” fatto di mogli, di figli e d’amici che, invisibili, prestano servizio da casa. In questo senso, il termine eufemistico “danni collaterali” non comprende solo le morti dei civili nelle zone di guerra, ma anche il dolore dei singoli e delle famiglie, le cui vite sono distrutte dalla perdita delle persone care che erano nell’esercito. Fare la guerra, fare la pace Secondo Karl von Klausewitz, stratega del Diciannovesimo secolo, il cui saggio Della guerra è considerato un classico, la guerra è la continuazione della politica con mezzi diversi. Si definisce guerra una condizione d’ostilità tra forze opposte, ognuna delle quali crede che i suoi interessi vitali siano in pericolo e ogni schieramento cerca di prevalere sull’altro con la forza, anche unendosi ad altri contro nemici comuni, creando un senso di comunità e d’unità. Forse l’essere umano ha la tendenza innata a dividere il mondo in due schieramenti: “noi” e “loro”. Sam Keen afferma: “Prima creiamo il nemico. L’immagine precede l’arma: prima pensiamo alla morte dell’altro e poi si costruiscono l’ascia da guerra o i missili balistici con i quali si uccide veramente. La propaganda precede la tecnologia…, sembra improbabile che riusciremo mai a controllare la guerra a meno che non si riesca a capire la logica politica della paranoia e il processo di creazione della propaganda che giustifica la nostra ostilità”68.

Debra Umberson e Kristin Henderson, attraverso un’analisi delle storie riportate nei notiziari, hanno distinto i quattro modi principali con cui i media promuovono il consenso per la guerra negando, allo stesso tempo, la morte: in primo luogo, vengono sfruttati artifici retorici che fanno prendere

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le distanze dalla morte, incoraggiando il lettore a negare la probabilità che essa si verifichi durante le operazioni militari; in secondo luogo, si nega la responsabilità per le morti in guerra e si rassicura il pubblico che le morti sono “minime”. Inoltre, la retorica prepara il pubblico alla morte in guerra e a vedere la guerra come giusta. Infine, l’ambiguità e l’incertezza governano la percezione del sacrificio imposto dalla guerra69. Se percepiamo altri esseri umani come nemici, ogni loro azione ambigua può essere percepita come minacciosa; se reagiamo per difenderci da questa minaccia percepita, tutte le loro reazioni, di qualunque tipo esse siano, non faranno che confermare i nostri timori iniziali. Tuttavia, è importante riconoscere che, a volte, la nostra idea del nemico è precisa. Keen sostiene che “utopie a parte, ci sono nemici veri. È un lusso delle persone ingenue pensare che il pensiero positivo, le buone azioni e migliori tecniche di comunicazione trasformeranno i nostri nemici in amici.”70 Dal punto di vista simbolico, la guerra ci permette di affermare la nostra immortalità, uccidendo il nemico che rappresenta la Morte; questa è l’idea che si trova in alcune religioni, promettendo l’accesso al Valhalla o al Paradiso, ai guerrieri che periscono in battaglia. Keen afferma che la guerra è portatrice di morte, d’orrore, ma anche d’estasi71.

Il terrorismo Parlando della casualità come componente ricorrente degli atti terroristici, qualcuno ha affermato: “non è la pallottola con il mio nome che mi spaventa, ma quella con su scritto a chi capita”72. In questo senso, l’atto terroristico è simile all’atto omicida che si verifica tra una vittima e un assassino che non si conoscono, anche se il terrorismo appare più simile a una situazione di guerra, dove gli obiettivi e i risultati che si vogliono ottenere sono ben specifici. La natura complessa del terrorismo è evidente anche per il fatto che, nonostante siano state proposte moltissime definizioni di terrorismo, nessuna è universalmente accettata. Tra gli elementi più comuni c’è l’uso delle minacce o della violenza per creare una situazione di paura sia nelle vittime dirette che nei confronti di una fascia di popolazione più ampia possibile. Le vittime e il luogo degli attacchi sono solo apparentemente casuali, spesso sono scelti per il loro potenziale sconvolgente, con l’obiettivo di distruggere il senso di sicurezza che di solito si ha in luoghi per noi familiari. Per questo, gli obiettivi dei terroristi sono spesso le scuole, i centri commerciali, le fermate dell’autobus, i ristoranti, le discoteche e gli altri luoghi di raduno. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha fornito una definizione che mette l’accento sulla natura indiscrimi-

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nata del terrorismo e lo descrive come “violenza premeditata, con movente politico, perpetrata contro obiettivi non militari da parte di sotto-gruppi d’agenti clandestini che di solito mirano a influenzare l’opinione pubblica”73. Questa definizione coglie i punti principali, ma è incompleta per una serie di motivi. Il primo è che spesso i terroristi non colpiscono non-combattenti o civili, ma militari e forze di polizia. In secondo luogo, gli atti terroristici possono essere compiuti anche da stati, oltre che da gruppi “subnazionali”; inoltre, l’espressione “movente politico”, è limitata o incompleta, perché il terrorismo più crudele ha basi religiose o quasi religiose. Ancora, questa definizione tende a trattare il terrorismo come un crimine piuttosto che come una guerra74, anche se la definizione del terrorismo come guerra non è universalmente accettata, in particolare da chi definisce la guerra come “uno stato di conflitto ostile, armato, di solito aperto e dichiarato, tra stati o nazioni”75; e il terrorismo non rientra in questa definizione. Inoltre, si considera la guerra come un’attività che si svolge secondo una serie di regole socialmente prestabilite. In altre parole la guerra è un costrutto sociale riconosciuto dalle abitudini e dalla legge. Le regole della guerra sono definite da accordi internazionali, come la Convenzione di Ginevra per il trattamento dei prigionieri di guerra, dei malati e dei morti in battaglia. Al contrario, il terrorismo è al di fuori dei confini previsti dalle sanzioni sociali che regolano la condotta tra individui e gruppi;76 il dibattito sulla definizione del termine “terrorismo” e della connessa questione se esso debba essere perseguito come atto criminale o atto di guerra, deve tener conto anche dei cambiamenti nei metodi e nelle modalità delle azioni criminali avvenute nel passato più recente. Si è definito il terrorismo come “l’arma dei più deboli”, anche se ora i terroristi usano sempre più spesso armi e strategie sofisticate. Per aumentare l’efficacia delle azioni e per diffondere maggiormente la paura, essi organizzano attacchi complessi, compresi i dirottamenti, la cattura di ostaggi, i rapimenti, le automobili imbottite d’esplosivo e, sempre più spesso, le bombe umane. Il terrorismo non è un fatto nuovo, poiché è stato sfruttato sin dai tempi degli antichi romani come pressione psicologica per ottenere obiettivi strategici: tuttavia, c’è un elemento nuovo in tema di armi e nel modo in cui vengono usate. Nel 1995, la diffusione di gas nervino nella metropolitana di Tokyo ad opera dalla setta degli Aum Shinrikyo, è un esempio del potere sempre più distruttivo delle armi di distruzione di massa che possono cadere in mano ai terroristi. Cindy Combs e Martin Slann, nella loro Enciclopedia del Terrorismo, evidenziano alcune delle caratteristiche principali del terrorismo moderno. Essi osservano che il terrorismo è “una sintesi di guerra e di teatro, una drammatizzazione degli atti violenti più esecrabili – quelli che sono destinati a fare vittime innocenti – rappresentati di fronte a un pubblico, in modo da creare

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un’atmosfera di terrore”77. I terroristi fanno spesso affidamento sull’effetto d’amplificazione per ottenere i loro obbiettivi, ovvero sul fatto che i media amplifichino i loro misfatti, che così potranno raggiungere un pubblico molto più vasto di quello che assiste all’evento terroristico; da questo punto di vista, l’interesse dei media per le notizie sensazionali e quello dei terroristi di dare risonanza ai propri misfatti, coincidono. Gli attacchi terroristici sembrano essere diretti a obbiettivi casuali, ma spesso sono diretti contro obiettivi politici, culturali e sociali. Gli obbiettivi dei terroristi sono poi amplificati dalla sorpresa e dalla paura totalizzante di cui fa esperienza la popolazione. Secondo le teorie di gestione del terrore, gli esseri umani devono fare i conti con la sfida di vivere, sapendo di dover inevitabilmente morire; ma gestendo la minaccia potenziale e letale in modo che la vita sia, nonostante tutto, pervasa di significato.78 Le persone cercano di gestire queste minacce di morte costantemente presenti in contesti culturali, religiosi e secolari, i quali creano il senso della comunità, della stabilità e del significato. Tutto va bene fino a quando una minaccia drammatica, inaspettata, non si fa strada con forza, mandando in frantumi le nostre idee di sicurezza. In questo senso, il terrorismo minaccia il nostro mondo arrogante, accrescendo la consapevolezza della nostra mortalità e le nostre sensazioni di vulnerabilità. 11 settembre 2001 Gli eventi che hanno portato all’evento più sanguinoso avvenuto sul suolo americano dalla Guerra Civile iniziarono poco prima delle nove della mattina di martedì 11 settembre 2001, quando alcuni terroristi fecero esplodere un aereo di linea contro la Torre Nord del World Trade Center di New York.79 Quindici minuti più tardi, un secondo aereo si schiantava contro la Torre Sud, cancellando ogni dubbio residuo sulla natura non dolosa del primo impatto. Mentre scattava l’allerta nazionale e il personale d’emergenza cercava di fare fronte al disastro di New York, un terzo aereo colpiva il Pentagono, simbolo del potere militare degli Stati Uniti, alla periferia di Washington, e un quarto si schiantava a Shanksville, Pennsylvania. Questo schianto fu provocato dal tentativo dei passeggeri di sventare un attacco al Campidoglio degli Stati Uniti o alla Casa Bianca. In seguito è stato accettato che il dirottamento e gli attacchi suicidi erano stati messi in atto da diciannove militanti del gruppo estremista islamico Al Quaeda. Il risultato devastante di questi attacchi fu il crollo delle Torri Gemelle, 110 piani, e un bilancio di 2400 morti fra coloro che vi lavoravano e fra i vigili del fuoco. Il carattere improvviso del cambiamento fu sconvolgente e

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difficile da accettare; da oltre trent’anni, le Torri Gemelle erano diventate l’emblema di New York, ma ora erano ridotte a un cumulo di orribili macerie per un attacco portato a termine da uomini armati di taglierini. Abbattendo le Torri Gemelle e attaccando il Pentagono i terroristi colpirono il cuore simbolico della ricchezza economica e del potere militare della nazione. Gli attacchi misero in chiaro la vulnerabilità degli Stati Uniti e mostrarono il terrorismo come minaccia reale, non solo per cittadini di paesi lontani, ma anche per gli americani che vivono nel loro paese. Migliaia di persone videro l’attacco con i loro occhi, mentre altri milioni guardarono la tragedia alla televisione in tempo reale. L’attacco terroristico si svolgeva in uno spazio pubblico globale, con una copertura mediatica estensiva80. Le immagini più sconvolgenti furono quelle di persone che si buttavano dalle torri, soprattutto dalla Torre Nord, la prima ad essere colpita; l’esame delle registrazioni ha contato almeno sessanta persone morte in quel modo81. Visto che non avevano vie di scampo, molte delle persone intrappolate nelle torri o negli aeroplani cercarono di chiamare i propri cari o lasciarono messaggi strazianti nelle loro segreterie telefoniche in quegli ultimi attimi di vita. L’agenzia stampa Associated Press, normalmente, classifica le notizie in quattro livelli d’importanza: il termine “flash” indica il livello massimo cui seguono “allerta notizie”, “bollettino” e “urgente”. L’undici settembre, l’agenzia, sul crollo delle due torri, mandò due notizie “flash”, venticinque “allerte” e diciotto “bollettini”82. Harold Dow, un corrispondente della rete televisiva CBS news disse che “i media erano una parte del piano terroristico: dal momento in cui crollò la prima torre c’era stato tutto il tempo per arrivare con l’altro aereo e mostrare il secondo impatto: quelle immagini sono andate in onda in tutto il mondo, sancendo il trionfo dei terroristi”83. Gli uffici del Wall Street Journal erano all’ombra delle torri, i giornalisti e i gli editorialisti furono tra i primi testimoni oculari; immediatamente dopo il secondo attacco, gli uffici furono evacuati, ma il personale riuscì a installare velocemente un centro operativo nel New Jersey e il 12 settembre pubblicò un inserto di trentadue pagine che vinse il Premio Pulitzer per il modo accurato, ma al tempo stesso commosso, con il quale riuscì a comunicare l’orrore della tragedia. Per dare risalto all’importanza dell’attacco, il giornale ruppe la tradizione e, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, andò in stampa con un titolo di sei righe. Nel bel mezzo della prima pagina, il giornale titolava “World Trade Centre distrutto da terroristi, Pentagono colpito da un attacco d’aerei dirottati”. Oltre alla diffusione delle notizie tramite i giornali e la televisione, anche Internet divenne un canale di diffusione. La gente usava Internet per cercare notizie, per sapere che cosa era successo, per avere informazioni sui vivi, sui

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morti, sui sopravvissuti e sull’entità del danno. Nonostante fosse stato usato un efficace strumento per la morte di massa, 15.000 persone riuscirono a fuggire84. Un “registro on-line dei superstiti”, al quale le persone potevano fornire il proprio nome per fare sapere ad amici e parenti di essere fra i superstiti, registrò oltre un milione di contatti fra l’11 e il 12 settembre, tante furono le persone che si rivolsero alla rete Internet per scambiarsi informazioni.85 Internet funzionò come spazio virtuale per identificare e commemorare i defunti. I morti appartenevano a ottanta paesi, persone con una vita normale, diventate vittime di qualcuno che voleva vincere una battaglia, indebolire un governo e manifestare il proprio rancore86. Il soccorso, il ritrovamento, l’elaborazione del lutto Le operazioni di soccorso e ritrovamento furono immediatamente avviate, ma la speranza iniziale di trovare molti sopravvissuti lasciò ben presto il posto all’amara constatazione che gli sforzi sarebbero stati per la maggior parte diretti a recuperare e identificare i morti. Le centinaia di fotografie spedite da amici e familiari da tutta New York, nei giorni seguenti l’attacco, restarono immagini ricordo dei propri cari87. Alla fine, solo diciotto persone furono tratte in salvo88. Nell’estate del 2002, lo smantellamento del WTC fu dichiarato ufficialmente terminato: a quella data 1,5 milioni di tonnellate di rovine erano state rimosse dall’area, che da quel momento divenne nota come Ground Zero. Solo la metà delle persone scomparse, e presumibilmente morte, fu identificata e l’identificazione di molti fu resa possibile grazie ad un eccezionale programma di comparazione del DNA. William Lagewiesche, presente alla demolizione dei resti del WTC, osservò che “uno degli aspetti della tragedia, poco conosciuto, fu il geloso senso di appartenenza che la tragedia aveva sollevato, un sentimento inatteso, ma diffuso, in qualche modo simile all’orgoglio, un atteggiamento che sottendeva l’idea che questo è il nostro disastro, non il vostro.”89 Questa tendenza sfociò in disparità di trattamento per i resti umani recuperati: mentre ad alcuni erano garantite cerimonie elaborate, che includevano la sospensione dei lavori nel cantiere nel momento in cui essi venivano portati via con reverenza, per altri si procedeva in modo sbrigativo, con un atteggiamento da “insacca ed etichetta.” Rituali particolarmente elaborati furono messi in atto per i 343 corpi dei vigili del fuoco recuperati: s’interpretò la loro morte come avvenuta nello svolgimento di un atto d’eroismo altruistico. Riconoscere il loro sacrificio con una cerimonia appropriata non era solo un modo per rispettare la tradizione, ma anche per offrire loro il dovuto rispetto. Il maggior numero di vittime appartenenti a una stessa organizzazione fu quello della finanziaria

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Cantor Fitzgerald, che ebbe 658 morti fra i propri dipendenti, alcuni dei quali morirono in modo eroico, compiendo atti d’altruismo. La sensazione del “noi contro di loro”, nata dalla disparità del trattamento dei resti, sfociò nella cosiddetta “Lotta per i Distintivi”. Il principio che i resti umani debbano essere trattati con dignità è quasi universalmente accettato, ma l’applicazione di questa regola in circostanze estreme può dare luogo a emozioni assai incostanti e contraddittorie. In Israele, dove la regola di seppellire i morti è alla base della legge ebraica, un’organizzazione di volontari, la Zaka (acronimo di Zihui Kornbanot Ason – in lingua ebraica, Identificazione delle Vittime del Disastro), entra in azione dopo atti terroristici per recuperare i resti, raccoglierne quanti più possibile, compreso il sangue, in modo che la maggior parte del corpo possa essere sepolta. Fare questo lavoro di recupero e “pulizia”, fare un lavoro che porta a vedere in prima persona l’orrore che la violenza compie contro l’essere umano, può portare a forme di cordoglio molto intenso. La Zaka propone gruppi d’assistenza psicologica, giornate con le famiglie e altri programmi, nei quali i recuperatori possono parlare dei propri sentimenti in un’atmosfera di supporto reciproco.90 Gli israeliani sono, forse, abituati a vivere sotto le minacce del terrorismo, ma la gente impegnata nell’opera di recupero al WTC era molto meno abituata ai suoi terribili effetti. Frustrati dall’imponente tributo di morti e dal cordoglio per la scomparsa di così tanti individui, conosciuti e sconosciuti, coloro che operavano a Ground Zero condivisero, con il resto della comunità, il senso d’incertezza e di confusione sul modo di affrontare la situazione. I problemi di recupero e d’identificazione dei resti delle vittime e quelli sullo scopo e sulla portata della devastazione, furono fattori aggiuntivi dell’impatto che ebbero i gesti terroristici dell’11 settembre. Molte organizzazioni caritatevoli raccolsero fondi per aiutare le famiglie di chi aveva subito dei lutti. Queste raccolte ebbero un grandissimo successo e riscossero un grande consenso di pubblico, che, contribuendo, si sentiva parte del processo di ritrovamento e poteva esprimere gratitudine per chi aveva sacrificato la propria vita. Ma queste raccolte di fondi furono anche caratterizzate da problemi, soprattutto sulla destinazione delle somme raccolte: a chi destinarle, quale gruppo era più bisognoso. Mentre fiorivano le dispute su chi era stato più colpito, le famiglie in lutto iniziarono a dividersi in gruppi, ognuno dei quali sosteneva d’essere quello che aveva patito maggiormente per gli attacchi terroristici. Allo stesso tempo, altre persone che avevano perso qualcuno in passati atti terroristici, come quello d’Oklahoma City, o in altri episodi che avevano attirato minore attenzione, iniziarono a chiedersi perché le loro perdite non ricevessero la stessa attenzione e non fosse loro riconosciuto lo stesso supporto sociale.

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Pochi giorni dopo gli attacchi, il New York Times pubblicò un inserto dal titolo “Ritratti di dolore” che diventò, poi una specie di tempio, offrendo spazio per pubblicare le foto dei morti. A differenza dei normali annunci mortuari, queste pubblicazioni erano ritratti veloci che suggerivano ciò che rendeva speciale ogni persona. Servivano a mettere in luce l’umanità e gli interessi della persona, non la sua posizione sociale o la carriera fatta. Questa forma di reportage rappresentò quella che un lettore definì come “haiku obit”, ovvero il giornalismo come tributo, come omaggio, come testimonianza e come sollievo91. Nelle case e nelle scuole di tutto il mondo, i bambini iniziarono a scrivere lettere, a fare disegni e a spedire pupazzetti e altri oggetti ai vigili del fuoco, ai poliziotti, ai soccorritori, ai volontari della Croce Rossa e alle altre persone che, subiti gli attacchi, erano accorse ad aiutare. I bambini disegnavano spesso arcobaleni, fiori, persone che si tenevano per mano e altre immagini felici e alcuni contenevano anche messaggi positivi diretti alle vittime o al personale di soccorso. Nei biglietti e nelle lettere spedite a chi aveva subito un lutto, i piccoli esprimevano il loro cordoglio e offrivano il loro supporto, anche con frasi del tipo “se avrai bisogno di qualcuno con cui parlare”. Applicandosi in attività creative, i bambini potevano sfogare le loro stesse ansie e i loro sentimenti per gli eventi dell’11 settembre e, allo stesso tempo, si aprivano agli altri con gesti d’aiuto e di gentilezza.92 La mente del terrorista Quando il secondo aeroplano colpì la seconda torre del WTC, l’ipotesi che gli eventi che si stavano svolgendo fossero intenzionali fu confermata e la gente iniziò a chiedersi che cosa poteva motivare altri esseri umani ad attacchi di tale violenza contro cittadini innocenti. Ci si chiedeva, quindi, se fosse possibile capire come ragiona un terrorista. Nonostante l’arsenale senza eguali degli Stati Uniti, era stato messo a segno un attacco ai simboli del potere e della ricchezza del mondo occidentale da uomini armati di taglierini, che erano riusciti, così, a realizzare l’attacco terroristico più spettacolare della storia93. Ma questa violenza aveva dei precedenti, non era solo un evento provocato da diciannove individui isolati. Al contrario, gli attacchi erano stati accuratamente preparati da al-Quaeda, un’organizzazione terroristica attiva in sessanta aree del pianeta94. Con il suo arsenale di sofisticati strumenti informatici e con piccole cellule terroristiche, operanti in modo indipendente per lunghi periodi, al-Quaeda rappresenta una nuova forma di organizzazione terroristica, che opera su scala mondiale come “rete di combattenti”.95

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Perché esistono organizzazioni come Al Quaeda e perché le persone entrano fra i suoi adepti, giungendo fino al sacrificio delle proprie vite in attacchi suicidi? La maggior parte del terrorismo degli ultimi anni ha componenti religiose o quasi: i terroristi combinano l’odio fanatico verso gli stati laici alla visione di se stessi come difensori di una fede antica. Il mondo secolare ha tradito la fede antica ed è perciò visto come “malvagio”; è dovere dei giusti, quindi, ingaggiare una battaglia morale e spirituale tra bene e male. Mark Juergensmaeyer afferma che “i concetti di guerra cosmica sono accompagnati da rivendicazioni di giustizia morale e d’assolutismo religioso, tanto forti che trasformano battaglie terrene in guerre sante”96. Queste forme di pensiero hanno avuto origine da movimenti che propugnavano un ritorno al fondamentalismo religioso, cercando di imporre, se necessario con la forza, i propri concetti morali. Dal punto di vista di un terrorista è accettabile persino uccidere, purché questa azione sia compiuta per un fine più grande. Le bombe suicide esprimono le credenze dei terroristi di essere impegnati in azioni giuste e valorose che rendono il sacrificio non una decisione volontaria ma un imperativo. La collettività, ossia la religione, la setta, la nazione, è più importante del singolo. Walter Laqueur fa notare come le missioni suicide siano facili da organizzare perché non è necessario prevedere vie di fuga e, una volta che il suicida si sta dirigendo verso il suo obiettivo, anche se non riesce a completare l’azione è probabile che riesca ugualmente a infliggere dei danni al nemico mentre viene arrestato.97 Aaron Beck, compiendo un’analisi dei motivi psicologici che spingono questi soggetti ad agire, descrive i terroristi come “prigionieri dell’odio.”98 In queste persone alberga un profondo sentimento d’essere vittime d’ingiustizie che li spinge a cercare la vendetta contro quelli che considerano oppressori. Beck dice che “i terroristi autori di distruzione non sono dei pazzi”, piuttosto sono “presi da un freddo odio verso quelli che considerano nemici”, il che permette loro d’essere “freddi e calcolatori nell’eseguire il loro piano”. La storia è segnata da lotte che hanno visto opporsi motivi religiosi e ideologie secolari, che, da un lato, hanno fornito sicurezza a chi le accettava dall’altro hanno ispirato violenza contro chi le osteggiava. Dal punto di vista della teoria della gestione del terrore, i conflitti si verificano tra individui o gruppi, perché chi ha convinzioni diverse dalle nostre sfida la nostra fede e minaccia la nostra convinzione, letterale o simbolica, sull’immortalità che questa fede promette.99 L’ansia, generata da questa minaccia, guida l’ostilità e l’odio contro coloro che hanno punti di vista diversi dal nostro. Aaron Beck sostiene che l’antidoto a questo ciclo di violenza è costituito da un “codice umanistico” che propugni l’universalità del genere umano, in contrapposizione alle rigide prospettive del tribalismo, del nazionalismo e della religiosità

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militante.100 In questo modo il conflitto distruttivo è rimpiazzato dalla sensibilità verso i bisogni degli altri, dalla responsabilità per il loro benessere e dal bisogno di compiere azioni altruistiche. Da questo punto di vista, questa missione d’opposizione al terrorismo è una sfida che richiede comportamenti adeguati. La sfida è di quella di creare un mondo meno minaccioso, di creare un ambiente più sicuro per noi stessi e per coloro che amiamo. Shasi Tharoor, nel descrivere il ventunesimo secolo come “secolo globale”, sostiene che ora come non mai “le tragedie sono globali, tanto nella loro origine quanto nella loro estensione”101. Per questi motivi è necessario capire cosa muove la mentalità terrorista e che cosa causa il terrorismo. Tharoor dice: “Il terrorismo nasce dall’odio cieco verso un Altro, e questo è il prodotto di tre fattori: paura, rabbia e incomprensione; paura di cosa l’altro può farti, rabbia per quello che credi ti abbia fatto e incomprensione sul chi sia o sul che cosa sia l’Altro… Se dobbiamo sconfiggere il terrorismo, dobbiamo confrontarci con ognuno di questi fattori e attaccare l’ignoranza che li alimenta. Dobbiamo imparare a vedere noi stessi come gli altri ci vedono e imparare a riconoscere l’odio e a fronteggiarne le cause, dobbiamo imparare a sconfiggere la paura e soprattutto, e semplicemente, dobbiamo imparare a conoscerci l’un l’altro”.

L’AIDS e le altre malattie emergenti Un altro incubo è rappresentato dalle malattie infettive emergenti come l’AIDS. Agli inizi del ventesimo secolo, le malattie infettive erano la principale causa di morte e le epidemie infettive causavano devastazioni planetarie. Ad esempio, la spagnola, l’epidemia d’influenza del 1918-19, causò la morte di un numero di persone compreso tra i venti e i quaranta milioni di persone, sparse in tutto il mondo102. I progressi nei settori della salute pubblica e della medicina hanno modificato in modo così profondo i modelli di infettività e di mortalità, che hanno reso la gente indifferente alla minaccia delle malattie infettive103. Gli infettivologi, tuttavia, temono che le malattie emergenti costituiscano una minaccia ben peggiore della spagnola104. Il campanello d’allarme dell’AIDS è probabilmente il segnale dell’esistenza di altre malattie emergenti che possono minacciare la salute umana, su scala mondiale, nei decenni futuri. La reazione all’AIDS Quali immagini e quali sensazioni provate quando pensate all’AIDS? Per molte persone questa malattia è sinonimo di morte: una malattia terribile,

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contagiosa ed epidemica, una peste moderna. Robert Kastenbaum afferma che i simboli associati all’AIDS incorporano lo stigma che, nel passato, era associato ad altre modalità catastrofiche del morire: la sfigurazione, la demenza, la scheletrizzazione. Questa malattia porta con sé significati molteplici, fortemente correlati alla vanità e all’orgoglio umani, alla punizione divina, all’attacco di un nemico interno, al terrore e alla disperazione della morte in vita e alla morte romantica di una gioventù brillante e bellissima ma predestinata105. L’AIDS ha procurato enormi dolori a moltissime persone. Sono molti i sopravvissuti – gli amici, i vicini, i colleghi e i parenti di chi è morto di AIDS – che hanno subito perdite multiple. I primi casi di AIDS, una malattia che distrugge le naturali difese immunitarie del corpo, risalgono al 1981. All’inizio del 1982, i ricercatori credevano che l’AIDS fosse causato da un’agente infettivo: la scoperta dell’HIV (virus di immunodeficienza umana) come probabile causa dell’AIDS venne confermata nel 1984 da Luc Montagnier, dell’Istituto Pasteur di Parigi e da Robert Gallo, del Dipartimento di Salute pubblica degli Stati Uniti. Alla fine del 1985, si riuscì a determinare la sequenza genetica del virus e si preparò un test del sangue in grado di rilevare gli anticorpi dell’HIV. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, oltre 42 milioni di persone, in tutto il mondo, sono affette da AIDS e 14.000 si infettano ogni giorno106. L’impatto del virus è particolarmente sentito dai giovani tra i quindici e i ventiquattro anni d’età, che costituiscono la metà di tutti i nuovi casi della malattia107. Inoltre, l’AIDS ha reso orfani oltre 13 milioni di bambini sotto i quindici anni mentre si pensa che il numero totale degli orfani da quando è iniziata l’epidemia raddoppierà entro il 2010108. Il direttore generale di UNAIDS, Peter Piot, afferma che “il messaggio principale dei nostri rapporti è che l’epidemia di AIDS è lungi dall’essere bloccata, piuttosto sta peggiorando”109. I malati di AIDS sono prevalentemente concentrati nei paesi in via di sviluppo, dove la malattia sta annullando i risultati positivi che si erano raggiunti nel migliorare l’aspettativa di vita. Negli Stati Uniti, la malattia interessa soprattutto chi si droga e fa uso di siringhe, gli emofiliaci e chi riceve sangue da donatori, oltre a chi ha avuto contatti sessuali con individui infetti. La reazione sociale e politica all’AIDS è stata varia110; dopo i primi sospetti che l’AIDS fosse una malattia nuova e che costituisse una nuova sfida, iniziò un dibattito su come mobilitare e mettere a disposizione risorse economiche, mediche e sociali. Certe comunità risposero istituendo una grande varietà di servizi sanitari e di programmi pubblici, altre comunità reagirono creando difficoltà ai malati di AIDS. Quando Elizabeth Kübler-Ross cercò di istituire un hospice per bambini malati di AIDS in una zona rurale della Virginia, la comunità negò i permessi necessari. La paura del contagio ebbe la meglio sul desiderio di aiutare i piccoli morenti. In Africa, anche nel mo-

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mento della pandemia, molti governi cercarono di ignorare la crisi, attribuendo la morte delle vittime a tutto fuorché all’AIDS.111 A livello culturale, l’AIDS ha modificato le nostre nozioni di famiglia, il modo in cui essa si definisce e che cosa costituisce una famiglia, dove spesso, anche i non consanguinei giocano un ruolo importante nel prendersi cura dei malati di AIDS112. Gli sforzi per contrastare l’AIDS hanno poi ravvivato l’interesse verso le cure palliative e gli hospice. Il modello delle cure degli hospice, intervallate da lunghe cure a domicilio, è stato molto usato nel prendersi cura di questi malati. Ciononostante, sottolinea Ronald Barrett, capita ancora che i malati di AIDS si auto-impongano l’isolamento, o che lo subiscano dalla società113. Le persone con questo comportamento sono chiamate “elefanti,” animali che si staccano dal gruppo, quando sentono che stanno per morire, e si dirigono verso un luogo appartato, quasi un cimitero. La società ha mostrato spesso gravi incertezze nelle modalità di risposta all’AIDS. In California, il Dipartimento di Motorizzazione si rifiutò di fornire a un infermiere, specializzato nella cura dei malati di AIDS, una targa personalizzata114. L’infermiere, Steve Lee, aveva richiesto la scritta “AIDS RN”, AIDS Registered Nurse, ovvero infermiere professionista specializzato nell’assistenza ai malati di AIDS. L’infermiere sosteneva di volere quella targa per mostrare quanto fosse orgoglioso di lavorare per promuovere la consapevolezza sull’infezione. Ma la Motorizzazione considerò la sua targa offensiva e rifiutò la richiesta. Lee disse che “quello che la Motorizzazione esprimeva era l’atteggiamento della società nei confronti della malattia, semplicemente non vuole averci a che fare”. Alla fine la Motorizzazione tornò sui suoi passi, ma affermò che alcuni gruppi di supporto ai malati di AIDS andavano dicendo di non volere targhe con la scritta AIDS o HIV in quanto avrebbero ricordato alla gente l’esistenza dei malati di AIDS. Nel frattempo, i supervisori clinici di un progetto legato all’AIDS commentarono la decisione della Motorizzazione, come “la più scorretta possibile”. La vicenda della targa esprime in modo chiaro, col suo insieme di risposte conflittuali e confuse, l’atteggiamento verso questo tipo di malattia. L’AIDS ci ricorda non solo che le malattie infettive possono costituire una minaccia per le nostre vite, ma che l’essere umano è tuttora esposto alle epidemie infettive. Considerando l’AIDS da un punto di vita storico, Charles Rosemberg afferma: “La mortalità è insita nei nostri stessi corpi, nei nostri comportamenti e nella posizione che abbiamo nell’ecologia del pianeta; come altre epidemie, l’AIDS è servito a ricordarci, in ultima istanza, delle realtà legate alla morte.115

La gente si spaventa e diventa ansiosa quando viene messa di fronte a nuove malattie i cui meccanismi di contagio non sono chiari. La risposta so-

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ciale allo scoppio dell’epidemia di AIDS, sembrò somigliare alla risposta data ad altre epidemie che si sono succedute nel tempo: scemato il panico iniziale, si possono mettere in atto misure più ragionate e strutturate. Vivere con l’AIDS L’AIDS danneggia il sistema immunitario, la capacità del corpo di far fronte alle infezioni116, rendendolo perciò più vulnerabile a infezioni parassite che sono spesso la causa di morte dei pazienti con questa patologia. È importante distinguere tra AIDS e HIV, il virus d’immunodeficienza umana, che causa l’AIDS. Dal punto di vista medico, l’infezione da HIV è causata da uno di due retrovirus, collegati fra loro, che si annidano in una cellula di DNA, distruggono progressivamente i globuli bianchi, i linfociti, e causano l’AIDS e altre malattie derivanti dall’impoverimento immunologico. I soggetti infetti non sono consapevoli della malattia per anni, fino a quando i sintomi non si manifestano. Per monitorare la presenza dell’HIV nella popolazione, si usa un esame del sangue chiamato ELISA. Sebbene lo schema di progressione dall’HIV all’AIDS non sia ancora del tutto chiaro, vi è l’accordo nel dire che quasi tutti i soggetti con HIV svilupperanno prima o poi l’AIDS, anche se nuovi farmaci potranno alleviare questa prognosi. Nonostante gli sforzi dei laboratori di tutto il mondo, non esiste ancora una cura preventiva o un vaccino contro l’AIDS. Recentemente, la prognosi per i malati di AIDS è migliorata con l’introduzione di nuovi farmaci. Le terapie a combinazione di farmaci riducono la presenza del virus nel sangue a livelli tanto bassi che è difficile rilevarli. Accanto alle nuove terapie, si stanno facendo passi avanti per capire i meccanismi dell’infezione da HIV e quale possa essere il ruolo di sostanze chimiche naturali, chiamate chemiochine, nel bloccare la capacità del virus di infettare le cellule.117 Man mano che si sono rese disponibili nuove terapie, l’attenzione si è spostata dal “morire di AIDS” al “vivere con l’HIV e l’AIDS”118. I pazienti che avevano esaurito le loro risorse in cure, in viaggi o altre spese esorbitanti, credendo di essere alla fine della loro vita, devono riorganizzare i loro “ultimi giorni” e ricostruire le loro vite, includendovi un futuro che sembrava improbabile fino a poco tempo fa. Per far diventare reale questo futuro però, essi devono fare i conti con i costi elevati di queste terapie, la cui disponibilità è spesso limitata e con molti effetti collaterali, con miglioramenti spesso lenti e con tempi lunghi. Sfortunatamente, molti soggetti affetti da HIV o AIDS non riusciranno a usufruire delle nuove terapie: per coloro che non hanno risorse economiche o che non possono accedere a un’assistenza sanitaria sofisticata, il futuro è

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assai nero. Questi gruppi di persone non comprendono solo una buona parte dei cittadini malati degli Stati Uniti, ma anche quasi tutti i pazienti dei paesi svantaggiati. Recentemente, l’impatto più forte della malattia negli USA si è verificato proprio fra gli afro-americani e gli ispanici, quasi tutti esclusi da ogni tipo di assistenza sanitaria sofisticata. Anche se l’AIDS è sempre più visto come una malattia curabile, i ricercatori sono d’accordo nel dire che “tenere a bada l’AIDS, anche con il triplo cocktail di medicine ora disponibili, continua a essere una sfida estenuante”119. Se la replicazione del virus non viene completamente soppressa, c’è la possibilità che entrino in gioco delle forme mutanti e resistenti del virus. Inoltre, le nuove terapie non hanno effetto su tutti i pazienti e alcuni hanno dei problemi ad adattarsi ad un regime giornaliero che richiede l’assunzione di dozzine di pillole, molte delle quali con effetti secondari assai importanti. David Ho, un ricercatore che si occupa di ricerche sull’AIDS, afferma che “dobbiamo evitare con cura ogni atteggiamento trionfalistico, ma anche il pessimismo ingiustificato che prevale in certi gruppi. Lo stato delle cure dell’HIV non è né bianco né nero. Dobbiamo conferire alla situazione la sua corretta tonalità di grigio”120. La minaccia delle malattie emergenti Se l’AIDS prefigura un certo tipo di futuro, quali sono le lezioni che dobbiamo imparare? Fra gli avvertimenti più importanti possiamo elencarne tre: 1) l’identificazione tempestiva di persone a rischio di essere infettate; 2) una modifica nelle prospettive di salute pubblica della comunità; 3) la necessità di affrontare i problemi sanitari su scala mondiale121. Di fronte all’AIDS, la maggior parte degli abitanti del Nord America e dell’Europa Occidentale assegnano priorità alla privacy del singolo, più che all’interesse della società di controllare la malattia. Così, invece di rinunciare ai diritti alla riservatezza dei pazienti per promuovere gli sforzi della sanità pubblica nel prevenire il diffondersi del virus, si è deciso di salvaguardare l’anonimato degli individui affetti. Nel caso dell’AIDS, si è ritenuto che questo approccio fosse corretto, infatti il virus non si trasmette nei contatti normali con individui infetti e il portatore di HIV non rappresenta un rischio per gli altri nei nomali rapporti sociali e commerciali. Per tutti i virus, l’epidemiologia e le modalità d’infezione, sono cruciali per determinare i modi in cui la società può cercare di contrastarla. Ultimamente, ci sono state epidemie localizzate di una quantità di malattie emergenti, ad esempio, nel 2003, la SARS, Grave Sindrome Respiratoria Acuta, che pare generata da un coronavirus appena scoperto, ha messo il

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mondo in allerta sanitaria per prevenire la possibilità di un’epidemia globale. Fra i focolai di malattie emergenti si devono includere le febbri emorragiche tipo Marburg, Ebola, Lassa e gli antavirus, come la febbre gialla, l’influenza dei maiali, la Legionella e il colera122. Bernard Le Guenno del Pasteur Institute di Parigi, afferma: “Le febbri emorragiche sono tra gli esempi più minacciosi di ciò che di solito chiamiamo “patogeni emergenti”. Essi non sono davvero nuovi, ma le mutazioni e le ricombinazioni genetiche fra i virus esistenti possono aumentarne la virulenza. Quelli che sembrano virus nuovi sono di solito virus che sono esistiti per milioni di anni e semplicemente vengono di nuovo a galla per il mutare delle condizioni ambientali. I cambiamenti permettono ai virus di moltiplicarsi e di diffondersi in corpi ospiti e possono manifestarsi in nuove malattie”123.

La maggior parte degli scoppi di febbri emorragiche è il risultato della distruzione ambientale causata dalle attività umane. L’abbattimento delle foreste e attività agricole intensive, provocate dall’aumento della popolazione, hanno disturbato un ecosistema fino a quel momento stabile, facilitando il contatto con virus patogeni che diventano potenziali minacce per la vita e per la salute. Patrick Olson, un epidemiologo del Naval Medical Center di San Diego, ritiene che la peste bubbonica che colpì la città greca di Atene nel 430 a. C., ricordata da Tucidide, sia stata in realtà causata dal virus indebolito di Ebola (il cui nome deriva da un fiume del Congo, dove il virus è stato individuato per la prima volta nel 1976).124 Olson trova molti paralleli tra i racconti del passato e quanto accade oggi: febbre, diarrea e debolezza estrema sono i sintomi principali. Così come la peste d’Atene, Ebola uccide quasi tutte le sue vittime e lo fa in fretta, la maggior parte dei soggetti infetti muore entro due settimane. Di solito gli scoppi epidemici di questo virus durano solo poche settimane perché le vittime muoiono prima che il virus possa diffondersi. Quindi il virus sparisce per poi riapparire in un secondo tempo. Il peggior episodio di malattia infettiva dell’era moderna risale alla pandemia d’influenza del 1918 che abbiamo ricordato poco sopra. Negli Stati Uniti, un quarto della popolazione si ammalò d’influenza: morì più di mezzo milione di persone. Tra i giovani che si imbarcavano per la Prima Guerra Mondiale, molti stavano già incubando il virus dell’influenza mentre lasciavano gli Stati Uniti; dopo una traversata dell’Atlantico di una settimana, le navi arrivarono in Francia con centinaia di soldati malati, molti dei quali morirono. Gli esperti pensano che il virus dell’influenza si annidi negli uccelli e che in modo occasionale infetti i maiali, dove il virus assume una nuova forma che può infettare gli esseri umani125. Meccanismi simili, con “salti tra specie”, sono stati ipotizzati anche per l’AIDS e per altri virus emergenti.

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Nello studiare come i virus emergenti, tipo l’AIDS, si diffondono nelle società urbanizzate, Rodrick e Deborah Wallace hanno concluso che il degrado fisico e sociale favorisce i comportamenti e le condizioni di rischio che provocano un rapido diffondersi delle malattie infettive126. Il disinteresse dei politici per certe aree urbane dà come risultato ciò che Wallace chiama “desertificazione urbana” o “tanatologia sociale” 127. La devastazione e disgregazione che ne consegue si caratterizza come una “situazione senza precedenti per uno stato industrializzato moderno ed è paragonabile alle conseguenze di una guerra totale.”128 Richard Rothemberg, del U.S. Center for Disease Control and Prevention, afferma che, tra le popolazioni economicamente e socialmente svantaggiate, la mancanza di importanti servizi sociali determina “un proliferare di comportamenti pericolosi.”129 Per alcuni soggetti che vivono ai margini della società, il modo di vedere l’AIDS è molto diverso da quello della maggior parte della popolazione: a loro sembra essere una forma di guerra fra razze o fra classi sociali, “un virus creato in un laboratorio del governo o della CIA per far piazza pulita delle genti sporche”.130 Il fatto stesso che esista una mentalità simile è la prova in sé delle profonde divergenze fra chi è abbiente e chi è povero in seno alla società americana. Dall’introduzione della penicillina in poi, la gente si è sentita rassicurata nei confronti delle malattie infettive e crede che le epidemie non siano più una minaccia. Ma la pandemia di AIDS mostra come questa rilassatezza rappresenti un comportamento negativo. Oltre alle nuove malattie, altre che sembravano sconfitte stanno tornando nuovamente a minacciarci, ad esempio le forme di tubercolosi farmaco-resistenti, che si stanno diffondendo anche in paesi ricchi, in seguito alle migrazioni, ai viaggi d’affari e agli spostamenti turistici.131 Questa ripresa della tubercolosi, che si credeva di avere sotto controllo fin dagli anni Quaranta quando furono introdotte medicine efficaci, è stata attribuita al “caos medico mondiale”, che finisce col favorire l’espandersi della tubercolosi tra gli strati più poveri della società, in particolare fra coloro che vivono nelle parti più degradate delle città e fra i senza tetto. Si sono verificati anche dei ritorni di malaria, oggetto negli anni Settanta di una notevole campagna sanitaria per eliminarla: attualmente, in 90 paesi, 500 milioni di persone all’anno contraggono questa malattia.132 La ragione più subdola di questa recrudescenza, secondo i ricercatori, è la capacità del parassita, che si sviluppa nelle mosche, il plasmodio protozoo, di resistere ai farmaci antimalarici. S’investe poco per combattere la minaccia di malattie infettive, sia di quelle che nuove, sia di quelle che ritornano, come la malaria, la tubercolosi, la dengue, l’Ebola e tutte le altre “piaghe”.

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Affrontare i rischi David Leviton adopera il termine morte orrenda per descrivere i tipi di morte che colpiscono un gran numero di persone133. La tipica morte-orrenda deriva in molti casi da attività umane e implica spesso la motivazione a uccidere, a mutilare, a ferire o a distruggere altri esseri umani. L’omicidio, il terrorismo, l’assassinio e il genocidio sono esempi di morti orrende. Il primo passo per eliminare o ridurre questo tipo di morti è quello di confrontarsi con la volontà di negare la realtà di tali morti. A volte, le morti-orrende sono trattate come un’aberrazione, un’anomalia. Tuttavia, esse implicano costi enormi, per le generazioni presenti e per quelle future. Rischi di vario tipo – incidenti, disastri, violenza, terrorismo, guerra, malattie epidemiche – ci sfiorano in diversi modi mentre viviamo la nostra vita di tutti i giorni. A volte, l’incontro è equivoco, altre volte, esso è palese e richiede tutta la nostra abilità per far fronte alla minaccia che esso rappresenta. La mancata scoperta di modalità efficaci per affrontare questi incontri con la morte è una minaccia sia per la sopravvivenza della società sia per quella degli individui.

Letture di approfondimento Stuart Banner. The Death Penalty: An American History. Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2003. Roy F. Baumeister. Evil: Inside Human Violence and Cruelty. New York: W. H. Freeman, 1997. Craig Calhoun, Paul Price, and Ashley Timmer, eds. Understanding September 11. New York: New Press, 2002. CBS News, What We Saw: The Events of September 11 in Words, Pictures, and Video. New York: Simon & Schuster, 2002. Kai Erikson. A New Species of Trouble: Explorations in Disaster, Trauma, and Community. New York: Norton, 1994. Albert R. Jonsen and Jeff Stryker, eds. The Social Impact of AIDS. Washington, D.C.: National Academy Press, 1993. Walter Laqueur. No End to War: Terrorism in the Twenty First Century. New York: Continuum, 2003. Marcia Lattanzi Licht and Kenneth J. Doka, eds. Living with Grief. Coping with Public Tragedy, Washington, D.C.: Hospice Foundation of America, 2003. Daniel Leviton, ed. Horrendous Death and Health: Toward Action. New York: Taylor & Francis, 1991. Albert J. Reiss, Jr., and Jeffrey A. Roth, eds. Understanding and Preventing Violence. Washington, D.C.: National Academy Press, 1993.

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CAPITOLO 1 1. Vedi Philip A. Mellor e Chris Shilling, “Modernity, Self-Identity and the Sequestration of Death,” Sociology: The Journal of the British Sociological Association 27, no. 3 (1993): 411-431; e Tony Walter, “Modem Death: Taboo or Not Taboo?” Sociology 25 (May 1991): 293-310. Vedi anche Tony Walter, The Revival of Death (New York: Routledge, 1994). 2. Talcott Parsons, “Death in American Society: A Brief Working Paper,” American Behavioral Scientist 6, no. 9 (1903): 61-65. 3. Vedi, per esempio, James R. Crissman, Death and Dying in Central Appalachia: Changing Attitudes and Practices (Urbana: University of Illinois Press, 1994); e James J. Farrell, Inventing the American Way of Death, 1830-1920 (Philadelphia: Temple University Press, 1980). 4. U.S. Census Bureau, “Expectation of Life at Birth,” Historical Statistics of the United States, Colonial Times to 1970 (Washington, D.C.: Government Printing Office), p. 55; e Statistical Abstract of the United States: 2002, 122nd ed. (Washington, D.C.: Government Printing Office, 2001), p. 71. Tutte le statistiche citate rispecchiano i dati più recenti al momento della pubblicazione del presente libro. Sulle disparità razziali/etniche in merito all’aspettativa di vita si veda Robert S. Levine et al., “Black-White Inequalities in Mortality and Life Expectancy, 1933-1999: Implications for Healthy People 2010,” Public Health Reports 116, no. 5 (2001): 474-483. Sulle differenze di genere, vedi Judith M. Stillion e Eugene E. McDowell, “The Early Demise of the ‘Stronger’ Sex: Gender-Related Causes of Sex Differences in Longevity,” Omega: Journal of Death and Dying 44, no. 4 (2001): 301-318. Sulle prospettive di allungare l’aspettativa di vita, vedi William Glannon, “Extending the Human Life Span,”Journal of Medicine and Philosophy 27, no. 3 (2002): 339-354; e Richard A. Miller, “Extending Life: Scientific Prospects and Political Obstacles,” Milbank Quarterly 80, no.1 (2002): 155-174. 5. “Deaths by Selected Causes,” Statistical Abstract of the United States: 2002, p. 81. 6. “Deaths e Death Rates,” Historical Statistics of the United States, p. 59; e Statistical Abstract of the United States: 2002, p. 74. 7. Jennie Benford, “Victorian Mourning at the Frick,” The Forum: Newsletter of the Association for Death Education and Counseling 22, no. 1 (January-February 1996): 7-8. 8. R.N. Anderson, “Leading Causes for 2000,” National Vital Statistics Reports 50, no. 16 (Hyattsville, Md.: National Center for Health Statistics, 2002), p. 8. 9. S. Jay Olshansky e A. Brian Ault, “The Fourth Stage of the Epidemiologic Transition: The Age of Delayed Degenerative Diseases,” Milbank Quarterly 64, no. 3 (1986): 355-391; vedi anche David L. Streiner e Geoffrey R. Norman, PDQ Epidemiology (St. Louis: Mosby, 1996), pp. 3-4.

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10. “Annual Estimates of the Population by Age,” Historical Statistics of the United States, p. 10; e “Resident Population by Age,” Statistical Abstract of the United States: 2002, p. 25. 11. “Resident Population by Age: 1900 to 1997,” Statistical Abstract of the United States: 1999, p. 869; e “Deaths and Death Rates by Leading Causes of Death e Age: 2000,” Statistical Abstract of the United States: 2002, p. 82. 12. “Mobility Status of the Population,” Statistical Abstract of the United States: 2002, p. 29. 13. Tony Walter, “A Death in Our Street,” Health & Place 5 (1999): 119-124. 14. Daniel Callahan, “Frustrated Mastery: The Cultural Context of Death in America-Caring for Patients at the End of Life,” Western Journal of Medicine 163, no. 3 (1995): 226-230. 15. Marsha McGee, “Faith, Fantasy, and Flowers: A Content Analysis of the American Sympathy Card,” Omega: Journal of Death e Dying 11, no. 1 (1980-1981): 27, 29. 16. Alynn Day Harvey, “Evidence of a Tense Shift in Personal Experience Narratives,” Empirical Studies of the Arts 4, no. 2 (1986): 151-162. 17. Julia Angwin, “After the Cataclysm, Americans Grope for the Words to Describe It”, Wall Street Journal, October 3, 2001, p. A8. 18. John C. Meyer, “Humor as a Double-Edged Sword: Four Functions of Humor in Communication,” Communication Theory 10, no. 3 (2000): 310-331; esempio da p. 321. Vedi anche James A. Thorson, “Did You Ever See a Hearse Go By? Some Thoughts on Gallows Humor,” Journal of American Culture 16, no. 2 (1993): 17-24. 19. Mary N. Hall, “Laughing as We Go” (articolo presentato al convegno annuale del Forum per l’educazione alla morte e assistenza psicologica, Philadelphia, aprile 1985); vedi anche Mary N. Hall e Paula T. Rappe, “Humor and Critical Incident Stress,” in The Path Ahed: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickle (Mountain View, Calif: Mayfield, 1995), pp. 289-294. 20. Sammy Basu, “Dialogic Ethics and the Virtue of Humor,” Journal of Political Philosophy 7, no. 4 (1999): 378-403. Vedi anche Corinna Peniston-Bird e Penny Summerheld, “Hey, You’re Dead: The Multiple Uses of Humour in Representations of British National Defence in the Second World War;” Journal of European Studies 31, no. 123 (2001): 413-435. 21. Linda Francis, Kathleen Monahan, e Ceyce Berger; “A Laughing Matter? The Uses of Humor in Medical Institutions,” Motivation and Emotion 23, no. 2 (1999): 155-174. Vedi anche Fabio Sala, Edward Krupat, e Debra Roter, “Satisfaction and the Use of Humor by Physicians and Patients,” Psycology and Health 17, no. 3 (2002): 269-280. 22. Robert Kastenbaum, Death, Society, and Human Experience (St. Louis: Mosby, 1977), p. 93. 23. Vedi Bill Bytheway e Julia Johnson, “Valuing Lives? Obituaries and the Life Course,” Mortality 1, no. 2 (1996): 219-234; Alan Marks e Tommy Piggee, “Obituary Analysis and Describing a Life Lived: The Impact of Race, Gender; Age, and Economie Status,” Omega: Journal of Death and Dying 38, no. 1 (1998): 37-57; e Karol K. Maybury, “Invisible Lives: Women, Men, and Obituaries,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 1 (19951.996): 27-37. 24. Jack Lule, “News Strategies and the Death of Huey Newton,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 33-40. 25. “Why Do They React? Readers Assail Publication of Funeral, Accident Photos,” News Photographer 36, no. 3 (March 1981.): 20-23. Vedi anche, nello stesso numero, John L. Huffman, “Putting Grief in Perspective,” pp. 21-22. 26. Robert M. Sapolsky, “On Human Nature: Primate Peekaboo,” The Sciences 35, no. 2 (March-April 1995): p. 18. 27. G. Pascal Zachary, “Junk History: It’s Bigger Than Big; It’s More Than News: It’s a Defining Moment,” Wall Street Journal, September 19, 1997, pp. A1, A6.

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28. Robert Fulton e Greg Owen, “Death and Society in Twentieth Century America,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 4 (1987-1988): 379-395. 29. “Utilization of Selected Media,” Statistical Abstract of the United States: 2002, p. 699. 30. George Comstock e Victor C. Strasburger, “Media Violence: Q & A,” Adolescent Medicine 4, no. 3 (October 1993): 495-509. 31. George Gerbner, “Death in Prime Time: Notes on the Symbolic Functions of Dying in the Mass Media,” Annals of the American Academy of Political e Social Science 447 (January 1980): 64-70; vedi anche George Gerbner e altri, “Television’s Mean World: Violence Profile No. 14-15,” Annenberg School of Communications, University of Pennsylvania (September 1986). 32. Vedi David L. Altheide e R. Sam Michalowski, “Fear in the News: A Discourse of Control,” Sociological Quarterly 40, no. 3 (1999): 475-503. 33. “The He That Rocks the Cradle,” The Week, April 25, 2003, p. 11. 34. Jessica M. Fishman, “The Populace and the Police: Models of Social Control in Reality-Based Crime Television,” Critical Studies in Mass Communication 16, no. 3 (1999): 268-288. 35. Travis L. Dixon e Daniel Lina “Overrepresentation e Underrepresentation of African Americans and Latinos as Lawbreakers on Television News,” Journal of Communication 50, no. 2 (2000): 131-154. 36. Carolyn Marvin, “On Violence in Media,”Journal of Communication 50, no. 1 (29()0): 142-149. 37. Fred Molitor e Barry S. Sapolsky, “Sex, Violence, and Victimization in Slasher Films,” Journal of Broadcasting and Electronic Media 37, no. 2 (1993): 233-242; vedi anche Mary Beth Oliver, “Contributions of Sexual Portrayals to Viewers’ Responses to Graphic Horror,” Journal of Broadcasting and Electronic Media 38, no. 1 (1994): 1-17. 38. Vedi Dolf Zillmann, “The Psychology of the Appeal of Portrayals of Violence,” in Why We Watch: The Attractions of Violent Entertainment, ed. J. H. Goldstein (New York: Oxford University Press, 1998), pp. 179-211. 39. Frederic B. Tate, “Impoverishment of Death Symbolisn: The Negative Consequences,” Death Studies 13, no. 3 (1989): 305-317. 40. Citato in Laura Winters, “An Italian Satirist Takes a Very Serious Turn,” New York Times, January 27, 2002. 41. Per maggiori informazioni su questa serie si può accedere al sito web “On Our Own Terms” al www.pbs.org/onourownterms. 42. Vedi Richard A. Pacholski; “Death Themes in Music: Resources and Research Opportunities for Death Educators,” Death Studies 10, no. 3 (1986): 239-263. Vedi anche Steven Stack, “Opera Subculture and Suicide for Honor,” Death Studies 26, no. 5 (2002): 431-437; e Brad West, “Crune, Suicide, and the Anti-Hero: Waltzing Matilda in Australia,” Journal of Popular Culture 35, no. 3 (2001): 127-141. 43. Bruce L. Plopper e M. Ernest Ness, “Death as Portrayed to Adolescents Through Top 40 Rock and Roll Music,” Adolescence 28, no. 112 (Winter 1993): 793-807; vedi anche Robert Marrone, “Rock ‘n’ Roll ‘n’ Death,” The Forum: Newsletter of the Association for Death Education and Counseling 21, no. 4 (July-August 1995): 1, 20-22. 44. Steven Stack, Jim Gundlach, e Jimmie L. Reeves, “The Heavy Metal Subculture and Suicide,” Suicide and Life-Threatening Behavior 24, no. 1 (Spring 1994) pp. 15-23. Vedi anche Steven Stack, “Heavy Metal, Religiosity, and Suicide Acceptability,” Suicide and Life-Threatening Behavior 28, no. 4 (1998): 388-394. 45. John Thornburg, “From Rubble to Hope: Texts and Times after September 11, 2001,” The Hymn 53, no.3 (July 2002): 18.

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46. Erich Eichman, “Sound Judgment: A Requiem for the Masses,” Wall Street Journal, August 23, 2002, p. 13. 47. Per il tema della morte nelle canzoni folk dell’Appalachia centrale, vedi Crissman, Death and Dying in Central Appalachia, pp. 156-182. 48. Elijah Wald, Narcocorrido: A Journey into the Music of Drugs, Guns, and Guerrillas (New York: Harper-Collins, 2002). 49. John Corigliano, John F. Kennedy Center for the Performing Arts, Washington, D.C., November 1995; e Tim Page, “A Sweet, Sorrowful Symphony for the Times,” Washington Post, November 10, 1995, pp. Fl, F5. 50. Vedi Michael Herzfeld, “In Defiance of Destiny: The Management of Time e Gender at a Cretan Funeral,” American Ethnologist 20, no. 2 (1993): 241-255. 51. Gail Holst-Warhaft, The Cue for Passion: Grief and Its Political Uses (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2000), p. 200. 52. George S. Kanahele, a cura di, Hawaiian Music e Musicians (Honolulu: University Press of Hawaii, 1979), pp. 53, 56. 53. Marguerite K.. Ashford, Bishop Museum, Honolulu, comunicazione personale 54. Albert Lee Strickland, “The Healing Power of Music in Bereavement,” The Forum: Association for Death Education e Counseling 29, no. 2 (2003): 4-5. Vedi anche Joseph A. Kotarba, “Rock ‘n’ Roll Music as a Timepiece,” Symbolic Interaction 25, no. 3 (2002): 397404; Lauri Ramey, “The Theology of the Lyric Tradition in African American Spirituals,” Journal of the American Academy of Religion 70, no. 2 (2002): 347-363; e Deborah Salmon, “Music Therapy as Psychospiritual Process in Palliative Care,” Journal of Palliative Care 17, no. 3 (2001): 142-146. 55. Per una breve rassegna di romanzi recenti sul tema della morte nelle guerre moderne, vedi Robert Messenger, “The War of Words,” Wall Street Journal, September 20, 2002, p. W15. 56. Vedi Terrence Des Pres, The Survivor: An Anatomy of Life in the Death Camps (New York: Oxford University Press, 1976); Lawrence L. Langer, Versions of Survival: The Holocaust and the Human Spirit (Albany: State University of New York Press, 1952), Holocaust Testimonies: The Ruins of Memory (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1991), e, a cura di Langer, Art from the Ashes: an Holocaust Anthology (New York: Oxford University Press, 1995); e Alvin H. Rosenfeld, A Double Dying: Reflections on Holocaust Literature (Bloomington: Indiana University Press, 1980). 57. Williatri Ruehlmann, Saint with a Gun: The Unlawful American Private Eye (New York: New York University Press, 1984), pr 9. 58. Frederick, J. Hoffman, The Mortal No: Death e the Modern Imagination (Princeton, N J.: Princeton University Press, 1964). 59. Questo tema è analizzato da Lawrence Langer in The Age of Atrocity: Death in Modern. Literature (Boston: Beacon Press, 1978). 60. Jahan Ramazani, Poetry of Mourning: The Modern Elegy from Hardy to Heaney (Chicago: University of Chicago Press, 1994); materiale citato alle pp. 1.361. 61. Ted Bowman, “Using Literary Resources in Bereavement Work: Evoking Words for Grief,” The Forum: Association for Death Education and Counseling 29, no. 2 (2003): 5-9. 62. William M. Lamers, Jr., “The Little Sounds of Grief: Poetry and Grief” (articolo presentato: 21st International Death, Grief, and Bereavement Conference, University of Wisconsin, LaCrosse, May 28, 2003). 63. William Cooney, “The Death Poetry of Emily Dickinson,” Omega: Journal of Death and Dying 37, no. 3 (1998): 241-249. 64. Vedi Richard A. Pacholski, “Death Themes in the Visual Arts: Resources and Research Opportunities for Death Educators,” Death Studies 10, no. 1 (1986): 59-74.

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65. Fritz Eichenberg, Dance of Death:. A Graphic Commentary on the Danse Macabre Through the Centuries (New York: Abbeville, 1983). 66. Vedi Louis A. Gamino, “A Study in Grief: The Life and Art of Kathe Kollwitz,” in Grief and the Healing Arts: Creativity art Therapy, a cura di Sandra L. Bertman (Amityville, N.Y: Baywood, 1999), pp. 277-287. 67. Vedi Vivian Alpert Thompson,. A Mission in Art: Recent Holocuust Works in America (Macon, Ga.: Mercer University Press, 1988). 68. Kirk Varnedoe, “Dreams of a Summer Night,” Porfolio (November-December 1982), p. 93. 69. Vedi Martha V. Pike e Janice Gray Armstrong, A Time to Mourn: Expessions of Grief in Nineteenth Century America (Stony Brook, N.Y: The Museums at Stony Brook, 1980); e Anita Schorsch, Mourning Becomes America: Mourning Art in the New Nation (Philadelphia: Main Street Press, 1976). 70. Cindy Ruskin, The Quilt: Stories from the Names Project (New York: Pocket Books, 1988). 71. Maxine Borowsky Junge, “Mourning, Memory and Life Itself: The AIDS Quilt and the Vietnam Veterans’ Memorial Wall,” Arts in Psychotherapy 26, no. 3 (1999): 195203, vedi anche Daniel Harris, “Making Kitsch from AIDS,” Harper’s Magazine (July 1994), pp. 55-60. 72. Michael Franklin, “AIDS Iconography and Cultural Transformation: Visual and Artistic Responses to the AIDS Crisis,” The Arts in Psychotherapy 20, no. 4 (1993): 299316. 73. Holst Warhaft, The Cue for Passion, p. 189. 74. Sera L. Bertman, “Volts of Connection: The Arts as Shock Therapy,” Grief Matters: The Australian Journal of Grief and Bereavement 3, no. 3 (2000): 51-53; vedi anche, Bertman, Facing Death: Images, Insights, and Interventions (Philadelphia: Taylor and Francis, 1991). 75. David E. Stannard, The Puritan Way of Death: A Study in Religion, Culture, and Social Change (New York: Oxford University Press, 1977). 76. Robert Kastenbaum, “Reconstructing Death in Postmodern Society,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, p. 8. 77. Francesco Campione, “Manifesto della Tanatologia,” CLUEB, Bologna, 2005. 78. Octavio Paz, The Labyrinth of Solitude: Life and Thought in Mexico (New York: Grove Press, 1961), p. 60. 79. Herman Feifel, “Psychology e Death: Meaningful Rediscovery,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickle, pp. 19-28. 80. Il trattato di Gorer è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista: Encounter nel 1955; il quale era una ristampa di un libro del 1965, Death, Grief, and Mourning in Contemporary Britain. Per un resoconto sull’influenza del saggio, vedi Ian Erews, “Pornography of Death,” in Encyclopedia of Death e Dying, a cura di Glennys Howarth e Oliver Leaman (New York: Routledge, 2001), pp. 361-362. 81. Un utile esempio e un’introduzione all’argomento: “Kearl’s Guide to Social Thanatology,” reperibile online presso il sito: www.trinity.edu/mkearl.death.html. 82. Per un’introduzione, “United States,” di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, in Encyclopedia of Death e Dying, ed. Howarth e Leaman, pp. 460-463. 83. Patrick Vernon Dean, “Is Death Education a ‘Nasty Little Secret’? A Call to Break the Alleged Silence,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickle, pp. 323326. 84. Venderlyn R. Pine, “A Socio-Historical Portrait of Death Education,” Death Education 1, no.1 (1977): 57-84; vedi anche, di Pine, “The Age of Maturity for Death Education:

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A Socio-Historical Portrait of the Era 1976-1985,” Death Studies 10, no. 3 (1986): 209-231; e Dan Leviton, “The Scope of Death Education,” Death Education 1, no. 1 (1977): 41-56. 85. Darrell Crase, “Death Education: Its Diversity and Multidisciplinary Focus,” Death Studies 13, no.1 (1989): 25-29. 86. Thomas Attig, “Person-Centered Death Education,” Death Studies 16, no. 4 (1992): 357-370. 87. International Work Group on Death, Dying, and Bereavement, “The Arts and Humanities in Health Care and Education,” Death Studies 24, no. 5 (2000): 365-375. 88. Vedi Tracy L. Smith e Bruce J. Walz, “Death Education in Paramedic Programs: A Nationwide Assessment,” Death Studies 19, no. 3 (1995): 256-267; e Duane Weeks, “Death Education for Aspiring Physicians, Teachers, and Funeral Directors,” Death Studies 13, no. 1 (1989): 17-24. 89. Per informazioni sull’ADEC, vedi Darrell Crase e Dan Leviton, “Forum for Death Education and Counseling: Its History, Impact, e Future,” Death Studies 11, no. 5 (1987): 345-359; e Judith M. Stillion, “Association for Death Education and Counseling: An Organization for Our Times and for Our Future,” Death Studies 13, no. 2 (1989): 191-201. Per un esempio delle indicazioni pensate e diffuse dal IWG, vedi: International Work Group on Death, Dying, and Bereavement, “Education About Death, Dying, and Bereavement,” in Statements on Death, Dying, e Bereavement (London, Ont.: IWG, 1994), pp. 73-92. 90. Hannelore Wass, “Visions in Death Education,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 327-334. 91. Robert E. Kavanaugh, Facing Death (Los Angeles: Nash, 1972). 92. Paul Duro at Al.; “Postmodernism,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di Kenneth McLeish (New York: Facts On File, 1993), pp. 584-585. Vedi anche William Simon, C. Allen Haney, e Russell Buenteo, ‘The Postmodernization of Death and Dying,” Symbolyc Interaction 16, no. 4 (1993): 411-426. 93. Vedi Nancy J. Moules, “Postmodernism and the Sacred: Reclaiming Connection in Our Greater-Than-Human Worlds,” Journal of Marital and Family Therapy 26, no. 2 (2000): 229-240. 94. Kathleen B. Bryer, “The Amish Way of Death: A Study of Family Support Systems,” American Psychologist 34, no. 3 (March 1979): 255-261. 95. Per maggiori informazioni, vedi Project on Death in America presso il sito: www.soros.org/death.html e Last Acts presso il sito: www.lastacts.org. 96. Andrew S. Ziner, Dipartimento di Sociologia, University of North Dakota, comunicazione personale, maggio 1994.

CAPITOLO 2 1. Mark W. Speece e Sandor B. Brent, “The Development of Children’s Understanding of Death,” in Handbook of Childhood Death and Bereavement, a cura di Charles A. Corr e Donna M. Corr (New York: Springer, 1996). Si veda anche, di Speece e Brent, “Children’s Understanding of Death: A Review of Three Components of a Death Concept,” Child Development 55, no. 5 (October 1984): 1671-1686; e “The Acquisition of a Mature Understanding of Three Components of the Concept of Death,” Death Studies 16, no. 3 (1992): 211229. 2. Si veda Sandor B. Brent e Mark W. Speece, “´Adult` Conceptualization of Irreversibility: Implications for the Development of the Concept of Death,” Death Studies 17, no. 3 (1993): 203-224. 3. Brenda L. Kenyon, “Current Research in Children’s Conceptions of Death: A Critical

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Review,” Omega: Journal of Death and Dying 43, no. 1 (2001): 63-91. Si veda anche Simone P. Nguyen e Susan A. Gelman, “Four and 6-Year Olds’ Biological Concept of Death: The Case of Plants,” British Journal of Developmental Psychology 20 (2002): 495-513. 4. Paul Schilder e David Wechsler, “The Attitudes of Children Toward Death,” Journal of Genetic Psychology 45 (1934): 406-451. 5. Sylvia Anthony, The Discovery of Death in Childhood and After (New York: Basic Books, 1972), edizione rivisitata di The Child’s Discovery of Death: A Study in Child Psychology (London: Kegan Paul, 1940). 6. Maria H. Nagy, “The Child’s Theories Concerning Death,” Journal of Genetic Psychology 73 (1948): 3-27. 7. Erik Erikson, Childhood and Society (New York: Norton, 1950). 8. Jean Piaget, The Child and Reality: Problems of Genetic Psychology, trad. Arnold Rosin (New York: Grossman, 1973), e The Child’s Conception of the World (London: Routledge & Kegan Paul, 1929). Si veda anche Mary Ann Spencer Pulaski, Understanding Piaget. An Introduction to Children’s Cognitive Development (New York: Harper & Row, 1980). 9. Da una conversazione con Jean Piaget in Richard I. Evans, The Making of Psychology: Discussions with Creative Contributors (New York: Knopf, 1976), p. 46. 10. Gerald P. Koocher, “Childhood, Death, and Cognitive Development,” Developmental Psychology 9, no. 3 (1973): 369-375; “Talking with Children About Death,” American Journal of Orthopsychiatry 44, no. 3 (April 1974): 404-411; e “Conversations with Children About Death,” Journal of Clinical Child Psychology (Summer 1974): 19-21. Del gruppo di studio di Koocher sui bambini, l’età media di quelli classificati come preoperativi era di 7,4 anni; di coloro che usavano operazioni concrete, 10,4; e di coloro che usavano operazioni formali, 13,3 anni. 11. Helen L. Swain, “Childhood Views of Death,” Death Education 2, no. 4 (1979): 341-358. 12. Gli autori ringraziano Donna Schuurman, Direttore Esecutivo del Dougy Center for Grieving Children; ad esempio di quanto intensamente la morte influisca sui bambini ai diversi stadi dello sviluppo psicosociale eriksoniano, si veda Donna Schuurman, Never the Same: Coming to Terms with theDeath of a Parent (New York: St. Martin’s, 2003), in particolare pp. 97-112. 13. Si veda, ad esempio, Brian L. Mishara, “Conceptions of Death and Suicide in Children Ages 6-12 and Their Implications for Suicide Prevention,” Suicide and Life-Threatening Behavior 29, no. 2 (1999): 105-118. 14. Lloyd D. Noppe e Illene C. Noppe, “Dialectical Themes in Adolescent Conceptions of Death,” Journal of Adolescent Research 6, no. 1 (1991): 28-42. 15. Jeffrey Jensen Arnett, “Emerging Adulthood: A Theory of Development from the Late Teens Through the Twenties,” American Psychologist 55, no. 5 (2000): 469-480; citato da p. 475. 16. Norman Goodman, Introduction to Sociology (New York: HarperCollins, 1992), p. 42. 17. Gordon Marshall, a cura di, The Concise Oxford Dictionary of Sociology (New York: Oxford University Press, 1994), p. 104. Si veda anche Don Brenneis, “Some Cases for Culture,” Human Development 45, no. 4 (2002): 264-269; e Frederick Erickson, “Culture and Human Development,” Human Development 45, no. 4 (2002): 299-306. 18. Hannelore Wass, “Death Education for Children,” in Dying, Death, and Bereavement: A Challenge for Living, seconda ed., a cura di Inge Corless, Barbara B. Germino, e Mary A. Pittman (New York: Springer, 2003), pp. 25-41; citazione, p. 27. 19. Goodman, Introduction to Sociology, pp. 84-85. Si veda anche Amitai Etzioni, “Toward a Theory of Public Ritual,” Sociological Theory 18, no. 1 (2000): 44-59.

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20. Si veda, ad esempio, Phyllis Silverman, Widow to Widow (New York: Springer, 1986); Scott Campbell e Phyllis Silverman, Widower: When Men Are Left Alone (New York: Prentice-Hall, 1987). 21. Mark A. Mesler, “Negotiating Life for the Dying: Hospice and the Strategy of Tactical Socialization,” Death Studies 19, no. 3 (1995): 235-255. 22. Linda J. Waite, “The Family as a Social Organization: Key Ideas for the Twenty-First Century,” Contemporary Sociology 29, no. 3 (2000): 463-469. Si veda anche Catherine Nash, “Genealogical Identities,” Environment and Planning; Society and Space 20, no. 1 (2002): 27-52. 23. Reed Larson, “Youth Organizations, Hobbies, and Sports as Developmental Contexts,” in Adolescence in Context: The Interplay of Family, School, Peers, and Work in Adjustment, a cura di Rainer K. Silbereisen e Eberhard Todt (New York: Springer-Verlag, 1993), pp. 46-65. 24. Martha Wolfenstein e Gilbert Kliman, a cura di, Children and the Death of a President: Multi-Disciplinary Studies (Garden City, N.Y.: Anchor Press/Doubleday, 1965), in particolare pp. 217-239. 25. Si veda Maria Tatar; ed., The Annotated Classic Fairy Tales (New York: Norton, 2002). 26. Terri Windling, “On Tolkien and Fairy-Tales,” in Meditations on Middle-Earth, a cura di Karen Haber (New York: St. Martin’s, 2001), pp. 215-229; citazione da p. 227. 27. Elizabeth P. Lamers, “Children, Death, and Fairy Tales,” Omega: Journal of Death and Dying 31, no. 2 (1995): 151-167. 28. Carolyn Marvin, “On Violence in Media,” Journal of Communication 50, no. 1 (2000): 142-149. 29. Per un resoconto del modo in cui questo racconto è stato adattato in momenti diversi per seguire i vari scopi morali riflettendo sulle varie forme di ansia, si veda Catherine Orenstein, Little Red Riding Hood Uncloaked: Sex, Morality, and the Evolution of a Fairy Tale (New York: Basic Books, 2002). 30. Si veda, ad esempio, Eve Morel, a cura di, Fairy Tales and Fables (New York: Grosset & Dunlap, 1970), pp. 11-13. 31. Ed Young, trad., Lon Po Po: A Red-Riding Hood Story from China (New York: Philomel Books, 1989). 32. Kalle Achte e altri, “Themes of Death and Violence in Lullabies of Different Countries,” Omega: Journal of Death and Dying 20 no. 3 (1989-1990): 193-204. 33. Sandra L. Bertman, “Death Education in the Face of a Taboo,” in Concerning Death: A Practical Guide for the Living, a cura di Earl A. Grollman (Boston: Beacon Press, 1974), p. 334. 34. Adrienne M. L. Rock, Laurel J. Trainor, e Tami L. Addison, “Distinctive Messages in Infant-Directed Lullabies and Play Songs,” Developmental Psychology 35, no. 2 (1999): 527-534. 35. Riportato da Richard Lonetto, Children’s Conceptions of Death (New York: Springer, 1980), p. 9. 36. Robert A. Emmons, “Religion in the Psychology of Personality: An Introduction,” Journal of Personality 67, no. 6 (1999): 873-888. Si veda anche Alfred Kracher, “The Study of Religion: Conversation Point for Theology and Science,” Zygon: Journal of Religion and Science 35, no. 4 (2000): 827-848. 37. Davina A. Allen e altri, “Religion,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di Kenneth McLeish (New York: Facts on File, 1993), pp. 626-627. 38. David E. Balk e Nancy S. Hogan, “Religion, Spirituality, and Bereaved Adolescents,” in Beyond the Innocence of Childhood: Helping Children and Adolescents Cope with Death and Bereavement, a cura di David W. Adams e Eleanor J. Deveau (Amityville, N.Y.: Bay-

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wood, 1995), pp. 61-88. Si veda anche Jesse M. Bering, “The Existential Theory of Mind,” Review of General Psychology 6, no. 1 (2002): 3-24; e Madonna G. Constantine, Peter Donnelly, e Linda James Myers, “Collective Self-Esteem and Africultural Coping Styles in African American Adolescents,” Journal of Black Studies 32, no. 6 (2002): 698-710. 39. Vernon Reynolds e Ralph Tanner, The Social Ecology of Religion (New York: Oxford University Press, 1995), p. 211. 40. Michael E. McCullough e altri, “Religious Involvement and Mortality: A MetaAnalytic Review,” Health Psychology 19, no. 3 (2000): 211-222. 41. Andrew J. Weaver e altri, “Research on Religious Variables in Five Major Adolescent Research Journals: 1992 to 1996,” Journal of Nervous and Mental Disease 188, no. 1 (2000): 36-44. 42. Goodman, Introduction to Sociology, p. 215. 43. Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, “Using Life Experiences as a Way of Helping Children Understand Death,” in Beyond the Innocence of Childhood: Factors Influencing Children and Adolescents’ Perceptions and Attitudes Toward Death, a cura di David W. Adams e Eleanor J. Deveau (Amityville, N.Y.: Baywood, 1995), pp. 45-54. 44. Lynne Ann DeSpelder e Nathalie Prettyman, A Guidebook for Teaching Family Living (Boston: Allyn & Bacon, 1980), pp. 130-134. 45. Si veda Mary Anne Sedney, “Children’s Grief Narratives in Popular Films,” Omega: Journal of Death and Dying 39, no. 4 (1999): 315-324. 46. Newsweek, May 5, 1980. Si veda anche Roger Rosenblatt, Children of War (New York: Anchor/Doubleday, 1983); Claudine Vegh, I Didn’t Say Goodbye: Interviews with the Children of the Holocaust (New York: Dutton, 1985); e Robert Westall, Children of the Blitz: Memories of Wartime Childhood (New York: Viking, 1986). 47. James Garbarino, “Challenges We Face in Understanding Children and War: A Personal Essay,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 169-174. Si veda anche, di Garbarino, “Lost Boys: Why Our Sons Turn Violent and How We Can Save Them,” Smith College Studies in Social Work 71, no. 2 (2001): 169-181; e Atle Dyregrov, Rolf Gjestad, e Magne Raundalen, “Children Exposed to Warfare: A Longitudinal Study,” Journal of Traumatic Stress 15, no. 1 (2002): 59-68. 48. Zlata Filipovic, “Zlata’s Diary: A Child’s Life in Sarajevo,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 175-178. 49. Ice-T, “The Killing Fields,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 179-181. Si veda anche James C. Spilsbury, “‘If I Don’t Know Them, I’ll Get Killed Probably’: How Children’s Concerns About Safety Shape Help-Seeking Behavior,” Childhood 9, no. 1 (2002): 101-117. 50. Ronald Keith Barrett e Lynne Ann DeSpelder, “Ways People Die: The Influence of Environment on a Child’s View of Death” (articolo presentato al convegno annuale dell’Associazione per l’Educazione alla morte e assistenza psicologica, Washington, D.C., 26 June 1997). 51. Nancy Scheper-Hughes, “Death Without Weeping: The Violence of Everyday Life in Brazil,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 41-58. 52. Kathy Charmaz, “Conceptual Approaches to the Study of Death,” Death and Identity, 3rd ed., a cura di Robert Fulton e Robert Bendiksen (Philadelphia: Charles Press, 1993), pp. 44-45. 53. Robert Blauner, “Death and Social Structure,” in Death and Identity, edizione riveduta, a cura di Robert Fulton (Bowie, Md.: Charles Press, 1976), pp. 35-59. 54. Robert Bendiksen, “The Sociology of Death,” in Death and Identiiy, edizione riveduta, a cura di Fulton, pp. 59-81.

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55. Davina A. Allen, “Social Construction of Reality,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di McLeish, pp. 725-726. 56. Robert Fulton e Robert Bendiksen, “Introduction,” in Death and Identity, 3rd ed., a cura di Fulton e Bendiksen, p. 7. 57. Myra Bluebond-Langner, The Private World of Dying Children (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1978.), p. 5. 58. Joseph M. Kaufert e John D. O’Neil, “Cultural Mediation of Dying and Grieving Among Native Canadian Patients in Urban Hospitals,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 59-74:, 59. Goodman, Introduction to Sociology, p. 93. 60. Fulton e Bendiksen, “Introduction,” p. 7. 61. Wolfgang Stroebe e Margaret Stroebe, “Is Grief Universal? Cultural Variations in the Emotional Reaction to Loss,” in Death and Identity, 3rd ed., a cura di Fulton e Bendiksen, p. 181. 62. Greg Owen, Robert Fulton, e Eric Marcusen, “Death at a Distance: A Study of Family Bereavement,” in Death and Identity, 3rd ed., a cura di Fulton e Bendiksen, p. 241. 63. Stroebe e Stroebe, “Is Grief Universal?” p. 197. 64. Christopher L. Hayes e Richard A. Kalish, “Death-Related Experiences and Funerary Practices of the Hmong Refugee in the United States,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 75-79. 65. Gerdien Jonker, “The Knife’s Edge: Muslim Burial in the Diaspora,” Mortality 1, no. 1 (1996): 27-43. 66. Pittu Laungani, “Death and Bereavement in India and England: A Comparative Analysis,” Mortality 1, no. 2 (1996): 191-212. 67. Ronald L. Akers, Deviant Behavior: A Social Learning Approach, 3rd ed. (Belmont, Calif.: Wadsworth, 1985), p. 57. 68. Ibid., p. 5. 69. Davina A. Allen e Catherine McDermott, “Subculture,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di McLeish, pp. 718-719. 70. Goodman, Introduction to Sociology, p. 37. 71. David H. Olson e John DeFrain, Marriage and Family: Diversity and Strengths (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1994), p. 37. 72. Stroebe e Stroebe, “Is Grief Universal?” p. 201; si veda anche M. Eisenbruch, “Cross-Cultural Aspects of Bereavement: Ethnic and Cultural Variations in the Development of Bereavement Practices,” Culture, Medicine, and Psychiatry 8 (1984): 315-347; e Jimy M. Sanders, “Ethnic Boundaries and Identity in Plural Societies,” Annual Review of Sociology 28 (2002): 327-357. 73. Ronald Keith Barrett, “Contemporary African American Funeral Rites and Traditions,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 80-92; e “Psychocultural Influences on African-American Attitudes Toward Death, Dying, and Funeral Rites,” in Personal Care in an Impersonal World: A Multidimensional Look at Bereavement, a cura di John D. Morgan (Amityville, N.Y.: Baywood, 1995), pp. 213-230. 74. David R. Roediger, “And Die in Dixie: Funerals, Death & Heaven in the Slave Community, 1700-1865,” The Massachusetts Review 22, no. 1 (Spring 1981): 163-183. 75. Alvin O. Korte, “Despedidas as Reflections of Death in Hispanic New Mexico,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 4 (1995-1996): 245-267. 76. Si veda Philip A. Mellor, “Death in High Modernity: The Contemporary Presence and Absence of Death,” in The Sociology of Death, a cura di Clark, pp. 11-30 (in particolare pp. 12-13, 18-19); e, nello stesso volume, Jane Littlewood, “The Denial of Death and Rites of Passage in Contemporary Societies,” pp. 69-84; si veda anche Philip A. Mellor e

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Chris Schilling, “Modernity, Self Identity and the Sequestration of Death,” Sociology 27, no. 3 (1993): 411-431. 77. Eleanor C. Nordyke, The Peopling of Hawaii, 2nd ed. (Honolulu: University of Hawaii Press, 1989), p. 1. 78. Patrick Vinton Kirch, Feathered Gods and Fishhooks: An Introduction to Hawaiian Archeology and Prehistory (Honolulu: University of Hawaii Press, 1985), p. 298. 79. Il termine “Asio-americano” è usato raramente nelle Hawaii, dove le persone tendono a identificarsi come cinese, giapponese, filippino e così via, mentre contemporanemente impiegano l’ideantità pan-etnica che li caratterizza come genti locali. Jonatan Okamura dice che la nozione di “locale” rappresenta “l’identità comune degli hawaiiani e della condivisione del medesimo apprezzamento per la terra, le persone e le culture dell’isola. Si veda Jonathan Okamura, “Why There Are No Asian Americans in Hawaii: The Continuing Significance of Local Identity,” Social Process in Hawaii 35 (1994): 161-178. 80. Colette Browne, una specialista sull’invecchiamento dell’università della scuola hawaiiana per assistenti sociali, citato in John Griffin, “If You Have to Grow Old, Hawaii’s a Good Place for It”, Star-Bulletin & Advertiser, July 23, 1989. 81. Si veda Benjamin B. C. Young, “The Hawaiians,” in People and Cultures of Hawaii: A Psychocultural Profile, ed. John F McDermott, Jr., Wen-Shing Tseng, e Thomas W. Maretzki (Honolulu: John A. Burns School of Medicine and University of Hawaii Press, 1980), pp. 5-24. 82. Mary Kawena Pukui, E. W. Haertig, e Catherine A. Lee, Nana I Ke Kumu (Look to the Source), 2 vol. (Honolulu: Hui Hanai; Queen Lili’ uokalani Children’s Center, 1972). Uno studio condotto negli Anni 30 ha identificato delle famiglie che ancora derivavano le loro origini dai propri antenati che venivano visti come guardiani spirituali dei propri discendenti e che spesso intercedevano in maniere molto pratiche. Si veda E. S. Craighill Handy e Mary Kawena Pukui, The Polynesian Family System in Ka-’u, Hawaii (Rutland, Vt.: Charles E. Tuttle, 1972). 83. George Hu’eu Sanford Kanahele, Ku Kanaka, Stand Tall: A Search for Hawaiian Values (Honolulu: University of Hawaii Press, 1986), p. 182. Sull’anima dopo la morte e sui regni spirituali dei morti si veda anche Donald D. Kilolani Mitchell, Resource Units in Hawaiian Culture (Honolulu: Kamehameha Schools Press, 1982), pp. 84-86. 84. Bob Krauss, “Wails and Prayers for Missing Bones,” Honolulu Advertiser, March 6, 1994, p. A1. 85. Nordyke, The Peopling of Hawaii, p. 52; si veda anche Walter F. Char e altri, “The Chinese,” in People and Cultures of Hawaii, a cura di McDermott, Tseng, e Maretzki, pp. 53-72. 86. Questa discussione sugli usi e costumi dei funerali cinesi alle Hawaii è basata su interviste degli autori a Anna Ordenstein e Ken Ordenstein che, insieme ai loro antenati cinesi-hawaiiani-ebrei-portoghesi hanno offerto servizi funebri ai residenti delle Hawaii nel corso di cinque generazioni. Siamo loro grati per l’assistenza. 87. Terence Rogers e Satoru Izutsu, “The Japanese,” in People and Cultures of Hawaii, a cura di McDermott, Tseng, e Maretzki, pp: 73-99; si veda in particolare pp. 87ff. 88. John F. McDermott, Jr., “Toward an Interethnic Society,” in People and Cultures of Hawaii, a cura di McDermott, Tseng, e Maretzki, p. 231; si veda anche Wayne S. Wooden, What Price Paradise? Changing Social Patterns in Hawaii (Washington: University Press of America, 1981). 89. McDermott, “Toward an Interethnic Society,” pp. 229-230; si veda anche Elvi Whittaker, The Mainland Haole: The White Experience in Hawaii (New York: Columbia University Press, 1986). 90. See Okamura, “Why There Are No Asian Americans in Hawaii: The Continuing Significance of Local Identity”.

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91. Mary Kawena Pukui e Samuel H. Elbert, Hawaiian Dictionary, edizione riveduta (Honolulu: University of Hawaii Press, 1986), p. 34. 92. McDermott, “Toward an Interethnic Society,” p. 225. 93. Ibid., p. 231. 94. Paul Spickard, citato in Susan Yim, “Hapa in Hawaii,” Honolulu (December 1994), pp. 44-47, 90, 92. 95. Sandor B. Brent e Mark W. Speece, “‘Adult’ Conceptualization of Irreversibility: Implications for the Development of the Concept of Death,” Death Studies 17, no. 3 (1993): 203-224. 96. Sandor B. Brent e altri, “The Development of the Concept of Death Among Chinese and U.S. Children 3-17 Years of Age: From Binary to ‘Fuzzy’ Concepts?” Omega: Journal of Death and Dying 33, no. 1 (1996): 67-83. Si veda anche Shu Ching Yang e Shih-Fen Chen, “A Phenomenographic Approach to the Meaning of Death: A Chinese Perspective,” Death Studies 26, no. 2 (2002): 143-175. 97. David W. Plath, “Resistance at Forty-Eight: Old-Age Brinksmanship and Japanese Life Course Pathways,” in Aging and Life Course Transitions: An Interdisciplinary Perspective, a cura di Tamara K. Hareven e Kathleen J. Adams (New York: Guilford Press, 1982), pp. 109-125. 98. Alberta M. Gloria, Traci R. Rieckmann, e Jeffrey D. Rush, “Issues and Recommendations for Teaching an Ethnic/Culture-Based Course,” Teaching of Psychology 27, no. 2 (2000): 102-107. Si veda anche Rita Chi-Yizng Chung e Fred Bemak, “The Relationship of Culture and Empathy in Cross-Cultural Counseling,” Journal of Counseling and Development 80, no. 2 (2002): 154-159; Irene Papadopoulos e Shelley Lees, “Developing Culturally Competent Researchers,” Journal of Advanced Nursing 37, no. 3 (2002): 258-264; e Jeanne-Marie R. Stacciarini, “Experiencing Cultural Differences: Reflections on Cultural Diversity,” Journal of Professional Nursing 18, no. 6 (2002): 346-349. 99. Pamela Balls Organista, Kevin M. Chun, e Gerardo Marin, “Teaching an Undergraduate Course on Ethnic Diversity,” Teaching of Psychology 27, no. 1 (2000): 12- 17. 100. Charles Waddell e Beverly McNamara, “The Stereotypical Fallacy: A Comparison of Anglo and Chinese Australians’ Thoughts About Facing Death,” Mortality 2, no. 2 (1997): 149-161. 101. Si veda Rhonda S. Fair, “Becoming the White Man’s Indian: An Examination of Native American Tribal Web Sites,” Plains Anthropologist 45, no. 172 (2000): 203-213. 102. Jeanne L. Tsai, Yu-Wen Ying, e Peter A. Lee, “The Meaning of ‘Being Chinese’ and ‘Being American’: Variation Among Chinese American Young Adults,” Journal of Cross-Cultural Psychology 31, no. 3 (2000): 302-332. 103. Richard A. Kalish e David K. Reynolds, Death and Ethnicity: A Psychocultural Study (Los Angeles: Ethel Percy Andrus Gerontological Center, University of Southern California, 1976). 104. Martin Sokefeld, “Debating Self, Identity, and Culture in Anthropology,” Current Anthropology 40, no. 4 (1999): 417-447. 105. Linda M. Hunt, “Beyond Cultural Competence: Applying Humility to Clinical Settings,” The Park Ridge Center Bulletin (November-December 2001): 3-4.

CAPITOLO 3 1. Si veda Ernest Becker, The Denial of Death (New York: Free Press, 1973). 2. Si veda, ad esempio, Ben Harder, “Evolving in Their Graves: Early Burials Hold Clues to Human Origins,” Science News 160 (December 15, 2001): 380-381. Sulle origini

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dei “sentimenti religiosi” nelle pratiche funerarie, si veda Ina Wunn, “Beginning of Religion,” Numen: International Review for the History of Reilgions 47, no. 4 (2000): 417-452. 3. L’uso di ossido rosso-sangue per decorare i corpi dei defunti è probabilmente la prima usanza funeraria diffusa. L’ocra rossa veniva estratta in Africa già dal primo Homo sapiens; comparve in Europa nelle pratiche funebri dell’uomo di Neanderthal ed era usata nei riti funebri in tutta Europa, Africa, Asia, Australia e nelle Americhe. Se immaginiamo la terra come un organismo vivente, l’ematite è analoga al sangue della Madre Terra. 4. Joseph Campbell, “Mythological Themes in Creative Literature and Art,” in Myths, Dreams, and Religion, a cura di Joseph Campbell (Dallas, Tex.: Spring Publications, 1970, 1988), pp. 138-175; si veda anche, di Campbell, Historical Atlas of World Mythology, 5 vols. (New York: Harper & Row, 1988, 1989). 5. Si veda Hans Abrahamson, The Origin of Death: Studies in African Mythology (New York: Arno Press, 1977); Joseph Campbell, The Masks of God: Primitive Mythology (New York: Viking, 1959); e Jacques Choron, Death and Western Thought (New York: Macmillan, 1963). 6. Anita J. Glaze, Art and Death in a Senufo Village (Bloomington: Indiana University Press, 1981), pp. 150-151. 7. Si veda Ndolamb Ngokwey, “Pluralistic Etiological Systems in Their Social Context: A Brazilian Case Study,” Social Science & Medicine 26, no. 8 (1988): 793-802; e Paul Katz, Faris R. Kirkland, “Traditional Thought and Modern Western Surgery,” Social Science & Medicine 26, no. 12 (1988): 1175-1181. 8. Ninian Smart, The Long Search (Boston: Little, Brown, 1977), p. 231. 9. Carol Warren, “Disrupted Death Ceremonies: Popular Culture and the Ethnography of Bali,” Oceania 64, no. 1 (September 1993): 36-56. 10. Si veda Neville Drury, The Elements of Shamanism (Dorset: Element Books, 1989); David Riches, “Shamanism: The Key to Religion,” The Journal of the Royal Anthropological Institute 29, no. 2 (1994): 381-405; e Lyle B. Steadman, Craig T. Palmer, “Visiting Dead Ancestors: Shamans as Interpreters of Religious Traditions,” Zygon: Journal of Religion and Science 29, no. 2 (1994): 173-189. 11. Kenneth McLeish, “Necromancy,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di McLeish (New York: Facts on File, 1993), pp. 508-509. 12. “Aborigine Painter Dies in Australia,” Associated Press Online (June 22, 2002). 13. J. Peter Brosius, “Father Dead, Mother Dead: Bereavement and Fictive Death in Penan Geng Society,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 3 (1995-1996): 197-226. 14. T. H. Gaster, in James Frazer, The Nero Golden Bough (New York: New American Library, 1964), p. 241. 15. E. S. Craighill Handy e Mary Kawena Pukui, The Polynesian Family System in Ka-‘u, Hawaii (Rutland, Vt.: Charles E. Tuttle, 1972), pp. 98-101. 16. Tra gli studi importanti, Philippe Ariès, Western Attitudes Toward Death: From the Middle Ages to the Present (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1974), The Hour of Our Death (New York: Knopf; 1981), e Images of Man and Death (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1985); Paul Binsky, Medieval Death: Ritual and Representation (London: British Museum Press, 1996); T. S. R. Boase, Death in the Middle Ages: Mortality, Judgment and Remembrance (New York: McGraw-Hill, 1972); Jacques Choron, Death and Western Thought (New York: Macmillan, 1963); John Cohen, “Death and the Danse Macabre,” History Today (August 1982): 35-40; Patrick J. Geary, Living with the Dead in the Middle Ages (Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1994); Ian Gendes, “Funeral Customs in Historical Context,” Journal of Palliative Care 4, no. 3 (1988): 16-20; e Frederick S. Paxton, Christianizing Death: The Creation of a Ritual Process in Early Medieval Europe

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(New York: Cornell University Press, 1990). Eccetto dove altrimenti specificato, tutti i materiali citati provengono dalla produzione di Ariès. 17. Si veda, ad esempio, Claire LaMont, “The Romantic Period,” in The Oxford Illustrated History of English Literature, a cura di Pat Rogers (New York: Oxford University Press, 1994), pp. 274-325. 18. Si veda Elisabeth Darby e Nicola Smith, The Cult of the Prince Consort (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1983); Patricia Jalland, Death in the Victorian Family (New York: Oxford University Press, 1996); e John Morley, Death, Heaven, and the Victorians (Pittsburgh: University of Pittsburgh Press, 1971). 19. Si veda, ad esempio, Philip A. Mellor e Chris Schilling, “Modernity, Self Identity, and the Sequestration of Death,” Sociology 27, no. 3 (August 1993): 411-431; e Charles O. Jackson, “Death Shall Have No Dominion: The Passing of the World of the Dead in America,” in Death and Dying: Views from Many Cultures, a cura di Richard A. Kalish (New York: Baywood, 1980), pp. 47-55. 20. Elizabeth A. Hallam, “Turning the Hourglass: Gender Relations at the Deathbed in Early Modern Canterbury,” Mortality 1, no. 1 (1996): 61-82. 21. Valerie M. Hope, “Constructing Roman Identity: Funerary Monuments and Social Structure in the Roman World,” Mortality 2, no. 2 (1997): 103-121. 22. Si veda Peter Brown, The Cult of the Saints: Its Rise and Function in Latin Christianity (Chicago: University of Chicago Press, 1981); e Geary, Living with the Dead in the Middle Ages. 23. Rob Kay, Santa Cruz Sentinel, March 20, 1983. Si veda anche “Empire of the Dead,” Smithsonian (April 2000). 24. Richard A. Etlin, The Architecture of Death: The Transformation of the Cemetery in Eighteenth-Century Paris (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1984). 25. Kenneth T. Jackson e Camilo José Vergara, Silent Cities: The Evolution of the American Cemetery (New York: Princeton Architectural Press, 1989), pp. 22-23. 26. Si veda Diana Williams Combs, Early Gravestone Art in Georgia and South Carolina (Athens: University of Georgia Press, 1986); James J. Farrell, Inventing the American Way of Death, 1830-1920 (Philadelphia: Temple University Press, 1980) e “The Dying of Death: Historical Perspectives,” Death Education 6, no. 2 (1982): 105-123; Gordon E. Geddes, Welcome Joy: Death in Puritan New England (Ann Arbor: UMI Research Press, 1981); David E. Stannard, The Puritan Way of Death: A Study in Religion, Culture, and Social Change (New York: Oxford University Press, 1977) e “Calm Dwellings: The Brief, Sentimental Age of the Rural Cemetery,” American Heritage 30, no. 5 (August/September 1979): 42-55, e, edito da Stannard, Death in America (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1975); Michael Vovelle, “A Century and One-Half of American Epitaphs: Toward the Study of Collective Attitudes About Death,” Comparative Studies in Society and History 22, no. 4 (October 1980): 534-547. 27. James Stevens Curl, A Celebration of Death: An Introduction to Some of the Buildings, Monuments, and Settings of Funerary Architecture in the Western European Tradition (New York: Charles Scribner’s Sons, 1980), p. 367. 28. Si veda Fritz Eichenberg, Dance of Death: A Graphic Commentary on the Danse Macabre Through the Centuries (New York: Abbeville, 1983). 29. Si veda, ad esempio, Norman F. Cantor, In the Wake of the Plague: The Black Death and the World It Made (New York: Free Press, 2001); e Colin Platt, King Death: The Black Death and Its Aftermath ire Late-Medieval England (London: University College of London Press, 1996). 30. Si veda Georges Bataille, Death and Sensuality: A Study of Eroticism and the Taboo (New York: Walker, 1962).

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31. Frank Gonzalez-Crussi, “Anatomy and Old Lace: An Eighteenth-Century Attitude Toward Death,” The Sciences (January-February 1988): 48-49. 32. Johannes Fabian, “How Others Die: Reflections on the Anthropology of Death,” Social Research 39 (1972): 543-567.

CAPITOLO 4 1. James C. Robinson, “The Changing Boundaries of the American Hospital,” The Milbank Quarterly 72, no. 2 (1994): 259-275. 2. V. David Schwantes, “Hospital Resource Allocation: The Real Story,” Hospitals & Health Networks 68, no. 11 (June 5, 1994): 80. 3. Charles E. Rosenberg, “Institutionalized Ambiguity: Conflict and Continuity in the American Hospital,” Second Opinion 12 (November 1989): 63-73; si veda anche, di Rosenberg, The Care of Strangers: The Rise of Americas’ Hospital System (New York: Basic Books, 1987). 4. Joshua Hauser e John Lantos, “Stories of Caring and Connection,” Hastings Center Report 30, no. 2 (2000): 44-47. 5. Si veda Margaretta K. Bowers e altri, Counseling the Dying (New York: Thomas Nelson, 1964). 6. “National Health Expenditures,” Health, United States: 2002 (Hyattsville, Md.: National Center for Health Statistics, 2002), p. 9. 7. Alastair Gray, “International Patterns of Health Care, 1960 to the 1990s,” in Caring for Health: History and Diversity, Charles Webster, Health and Disease Series, Book 6 (Buckingham, U.K.: Open University Press, 1994), p. 174. Si veda anche Thomas S. Bodenheimer e Kevin Grumbach, Understanding Health Policy: A Clinical Approach, 3rd ed. (New York: Lange Medical Books, 2002). 8. Larry R. Churchill, “The United States Health Care System Under Managed Care: How the Commodification of Health Care Distorts Ethics and Threatens Equity,” Health Care Analysis 7, no. 4 (1999): 393-411. Si veda anche Richard Epstein, “Managed Care Under Siege,” Journal of Medicine and Philosophy 24, no. 5 (1999): 434-460; e Jonathan E. Fielding, “Public Health in the Twentieth Century: Advances and Challenges,” Annual Review of Public Health 20 (1999): xiii-xxx. 9. D. Lupton, “Consumerism, Reflexivity, and the Medical Encounter,” Social Science & Medicine 45, no. 3 (1997): 373-381. Si veda anche Howard Spiro, Mary G. McCrea Curnen, Enid Peschel, e Deborah St. James, eds., Empathy and the Practice of Medicine: Beyond Pills and the Scalpel (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1993). 10. Howard M. Spiro, “If It Ain’t Broke,” Science & Medicine 3, no. 6 (November-December 1996): 4-5. 11. Clive F. Seale, “Changing Patterns of Death and Dying,” Social Science and Medicine 51 (2000): 917-930. 12. Donna M. Wilson, “End-of Life Care Preferences of Canadian Senior Citizens with Caregiving Experience,” Journal of Advanced Nursing 31, no. 6 (2000): 1416-1421. 13. Peter P. M. Harteloh e Frank W. S. M. Verheggen, “Quality Assurance in Health Care: From a Traditional Towards a Modern Approach,” Health Policy 27, no. 3 (1994): 261-270. 14. Daniel P. Sulmasy, “Physicians, Cost Control, and Ethics,” Annals of Internal Medicine 116, no. 11 (June 1, 1992): 920-926; si veda anche Wendy K. Mariner, “Patients’ Rights After Health Care Reform: Who Decides What Is Medically Necessary?” American Journal of Public Health 84, no. 9 (1994): 1515-1520.

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15. Daniel Callahan, “The Limits of Medical Progress: A Principle of Symmetry,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 103-105. 16. Si veda Graham Loomes e Lynda McKenzie, “The Use of QALYs in Health Care Decision Making,” Social Science & Medicine 28 (1989): 299-308; Erik Nord, “The QALY: A Measure of Social Value Rather Than Individual Utility?” Health Economics 3 (1993): 89-93, e “The Trade-Off Between Severity of Illness and Treatment Effect in Cost-Value Analysis of Health Care,” Health Policy 24 (1993): 227-238. 17. Elisabeth Kübler-Ross, On Death and Dying (New York: Macmillan, 1969), p. 249. Per un resoconto biografico delle esperienze della Kübler-Ross si veda Elisabeth KüblerRoss, The Wheel of Life: A Memoir of Living and Dying (New York: Scribner, 1997). 18. Balfour M. Mount, “Keeping the Mission,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 125-132. 19. NHPCO Facts and Figures (2003) online (June 29, 2003; http://www. nhpco.org). 20. David S. Greer, Vincent Mor, e Robert Kastenbaum, “Concepts, Questions, and Research Priorities,” in The Hospice Experiment, a cura di Vincent Mor, David S. Greer, e Robert Kastenbaum (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1988), p. 249. Si veda anche Virginia F. Sendor e Patrice M. O’Connor, Hospice & Palliative Care: Questions & Answers (Lanham, Md.: Scarecrow Press, 1997). 21. Citato in Sanchia Aranda, “Global Perspectives on Palliative Care,” Cancer Nursing 22, no. 1 (1999): 33-39. 22. S. Kay Toombs, “Chronic Illness and the Goals of Medicine,” Second Opinion 21, no. 1. (July 1995): 11-19. 23. Inge B. Corless, “Dying Well: Symptom Control Within Hospice Care,” in Annual Review of Nursing Research 12, a cura di J. J. Fitzpatrick e J. S. Stevenson (New York: Springer, 1994), pp. 125-146. 24. Si veda Rien M. J. P. A. Janssens, Zbigniew Zylicz, e Henk A. M. J. Ten Have, “Articulating the Concept of Palliative Care: Philosophical and Theological Perspectives,” Journal of Palliative Care 15, no. 2 (1999): 38-44. 25. Inge B. Corless, “Settings for Terminal Care,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 4 (1987-1988): 319-340. Si veda anche Ann Berger, “Palliative Care in Long-TermCare Facilities: A Comprehensive Model,” Journal of the American Geriatrics Society 49, no. 11 (2001): 1570-1571; e Dean Blevins, Lucinda M. Deason-Howell, “End-of- Life Care in Nursing Homes: The Interface of Policy, Research, and Practice,” Behavioral Sciences and the Law 20, no. 3 (2002): 271-286. 26. Si veda, ad esempio, Neil Small, “Social Work and Palliative Care,” British Journal of Social Work 31 (2001): 961-971; e Avery D. Weisman, “Appropriate Death and the Hospice Program,” Hospice Journal 4, no. 1 (1988): 65-77. 27. Ira Byock, “Palliative Care,” in On Our Own Terms: Moyers on Dying, a cura di Public Affairs Television (New York: WNET, 2000), pp. 10-11. 28. Si veda William E. Phipps, “The Origin of Hospices/Hospitals,” Death Studies 12, no. 2 (1988): 91-99; Susan Lynn Sloan, “The Hospice Movement: A Study in the Diffusion of Innovative Palliative Care,” American Journal of Hospice and Palliative Care (May-June 1992): 24-31; e Sandol Stoddard, “Hospice in the United States: An Overview,” Journal of Palliative Care 5, no. 3 (1989): 10-19. 29. James Luther Adams, “Palliative Care in the Light of Early Christian Concepts,” Journal of Palliative Care 5, no. 3 (1989): 5-8. 30. Si veda Thelma Ingles, “St. Christopher’s Hospice,” in A Hospice Handbook: A New Way to Care for the Dying, a cura di Michael P. Hamilton e Helen F. Reid (Grand Rapids, Mich.: Eerdmans, 1980), pp. 45-56. Si veda anche Cicely Saunders, “The Evolution of Palliative Care,” Patient Education and Counseling 41, no. 1 (2000): 7-13.

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31. Cicely Saunders, comunicazione personale. 32. Citato in Constance Holden, “Hospices for the Dying, Relief from Pain and Fear,” in Hospice Handbook, a cura di Hamilton e Reid, p. 61. 33. International Work Group on Death, Dying, and Bereavement, Statements on Death, Dying, and Bereavement (London, Ont.: IWG, 1994). 34. William M. Lamers, Jr., “Hospice: Enhancing the Quality of Life,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 116-124. 35. Robert Berkow, a cura di, The Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 16th ed. (Rahway, N J.: Merck Research Laboratories, 1992), p. 2571. 36. Si veda F. Ackerman, “Goldilocks and Mrs. Ilych: A Critical Look at the `Philosophy of Hospice,´” Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 6, no. 3 (1997): 314-324. 37. Si veda Katherine Froggatt, “Rites of Passage and the Hospice Culture,” Mortality 2, no. 2 (1997): 123-136. 38. Clive F. Seale, “What Happens in Hospices: A Review of Research Evidence,” Social Science & Medicine 28, no. 6 (1989): 551-559. 39. Per un rapporto recente e dettagliato stilato dal National Hospice Work Group, si veda Bruce Jennings, True Ryndes, Carol D’Onofrio, e Mary Ann Baily, Access to Hospice Care: Expanding Boundaries, Overcoming Barriers: Hastings Center Report Special Supplement 33, no. 2 (2003): S3-S59. 40. Debbie Ward, “Women and the Work of Caring,” Second Opinion 19, no. 2 (October 1993): 11-25. 41. Si veda Pamela J. Miller e Paula B. Mike, “The Medicare Hospice Benefit: Ten Years of Federal Policy for the Terminally Ill,” Death Studies 19, no. 6 (1995): 531-542. 42. Lucette Lagnado, “Medicare Head Tackles Criticism on Hospice Care,” Wall Street Journal, September 15, 2000, pp. B1, B4; e Nancy-Ann Min DeParle, Administrator, Health Care Financing Administration, “Letter to Medicare Hospices” (September 12, 2000). 43. NHPCO Facts and Figures (2003). 44. Sandol Stoddard, citato in Sloan, “The Hospice Movement.” 45. Ronald K. Barrett, “Blacks, Death, Dying, and Funerals: Things You’ve Wondered About but Thought It Politically Incorrect to Ask” (presentazione al King’s College, 15th International Conference on Death & Bereavement, London, Ontario, 12 May 1997). 46. Si veda, ad esempio, Harold P. Freeman e Richard Payne, “Racial Injustice in Health Care,” New England Journal of Medicine 342, no. 14 (6 April 2000): 1045-1047; e Harold P. Freeman, Richard Payne, e Louis W. Sullivan, “Racial Injustice in Health Care: How Should It Be Addressed?” Medical Crossfire 2, no. 8 (2000): 31-33. 47. Richard Payne, “At the End of Life, Color Still Divides,” Washington Post, February 15, 2000. Si veda anche Ann Alpers e Bernard Lo, “Avoiding Family Feuds: Responding to Surrogate Demands for Life-Sustaining Interventions,” Journal of Law Medicine & Ethics 27, no. 1 (1999): 74-80; Leslie J. Blackhall e altri, “Ethnicity and Attitudes Towards Life Sustaining Technology,” Social Science & Medicine 48, no. 12 (1999): 17791789; Eric L. Krakauer, Christopher Crenner, e Ken Fox, “Barriers to Optimum End-ofLife Care for Minority Patients,” Journal of the American Geriatrics Society 50, no. 1 (2002): 182-190; Eric W. Mebane e altri, “The Influence of Physician Race, Age, and Gender on Physician Attitudes Toward Advance Care Directives and Preferences for End-ofLife Decision-Making,” Journal of the American Geriatrics Society 47, no. 5 (1999): 579591; Dona J. Reese e altri, “Hospice Access and Use by African Americans: Addressing Cultural and Institutional Barriers,” Social Work 44, no. 6 (1999): 549-559; e “Palliative Care in African-American Communities” (numero completo), Innovations in End-of-Life Care: An International Online Journal 3, no. 5 (September-October 2001) (September 25, 2001; http://www.2.edu.org/lastacts/crntisue.asp).

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48. Inge B. Corless, “Hospice and Hope: An Incompatible Duo,” American Journal of Hospice and Palliative Care (May-June 1992): 10-12. 49. Si veda Nicky James e David Field, “The Routinizationi of Hospice: Charisma and Bureaucratization,” Social Science & Medicine 34, no. 12 (1992): 1363-1375. 50. Corless, “Settings for Terminal Care,” p. 331. 51. Si veda Peg Esper, Joan Such Lockhart, e Cynthia Miller Murphy, “Strengthening End-of-Life Care Through Specialty Nursing Certification,” Journal of Professional Nursing 18, no. 3 (2002): 134-139; Betty Ferrell, Rose Virani, e Marcia Grant, “Analysis of End-of-Life Content in Nursing Textbooks,” Oncology Nursing Forum 26, no. 5 (1999): 869-876; Betty Ferrell, Rose Virani, Marcia Grant, e Tami Borneman, “Analysis of Content Regarding Death and Bereavement in Nursing Texts,” Psycho-Oncology 8, no. 6 (1999): 500-510; e Betty Ferrell, Rose Virani, Marcia Grant, e Gloria Juarez, “Analysis of Palliative Care Content in Nursing Textbooks,” Journal of Palliative Care 16, no. 1 (2000): 39-47. 52. William M. Lamers, Jr., “How Patient Deaths Affect Health Professionals: A Plea for More Open Communication,” Journal of Pharmaceutical Care in Pain & Symptom Control 5, no. 3 (1997): 59-71. 53. William M. Lamers, Jr., “Hospice Care and Its Effect on the Grieving Process,” in Living with Grief When Illness Is Prolonged, a cura di Kenneth J. Doka e Joyce Davidson (Washington, D.G.: Hospice Foundation of America, 1997), pp. 67-82. Si veda anche, di Lamers, “Defining Hospice and Palliative Care: Some Further Thoughts,” Journal of Pain & Palliative Care Pharmacotherapy 16, no. 3 (2002): 65-71; e Inge B. Corless, “Palliative Care: One Does Not Need to Be Terminally Ill,” in The Nursing Profession and Beyond, a cura di Norma L. Chasha (Thousand Oaks, Calif.: Sage, 2001), pp. 561-573. 54. Richard Smith, “A Good Death,” British Medical Journal 320 (January 15, 2000): 129-130. 55. “Deaths and Death Rates by Selected Causes,” Statistical Abstract of the United States: 2002, 122nd ed. (Washington, D.C.: Government Printing Office, 2002), p. 80; e R. N. Anderson, “Leading Causes for 2000,” National Vital Statistics Reports 50, no. 16 (Hyattsville, Md.: National Center for Health Statistics, 2002), p. 8. 56. Seth B. Golbey, “Critical Cares: Life-Saving Aeromedical Helicopter Services,” AOPA Pilot 30, no. 4 (April 1987): 39-46, e, sempre di Golbey, “Dust Off,” pp. 46-48. Si veda anche Mickey Eisenberg, Life in the Balance: Emergency Medicine and the Quest to Reverse Sudden Death (New York: Oxford University Press, 1997); e Michael Nurok, “The Death of a Princess and the Formulation of Medical Competence,” Social Science & Medicine 53, no. 11 (2001): 1427-1438. 57. C. A. J. McLauchlan, “Handling Distressed Relatives and Breaking Bad News,” British Medical Journal 301 (November 17, 1990): 1145-1149. 58. See Dale G. Larson, The Helper’s Journey: Working with People Facing Grief, Loss, and Life-Threatening Illness (Champaign, Ill.: Research Press, 1993); Danai Papadatou, “A Proposed Model of Health Professionals’ Grieving Process,” Omega: Journal of Death and Dying 41, no. 1 (2000): 59-77; e, sempre di Papadatou, “The Grieving Healthcare Provider: Variables Affecting the Professional Response to a Child’s Death,” Bereavement Care 20, no. 5 (2001): 26-29. 59. Si veda, ad esempio, John D. Sugimoto e Kevin Ann Oltjenbruns, “The Environment of Death and Its Influence on Police Officers in the United States,” Omega: Journal of Death and Dying 43, no. 2 (2001): 145-155; e Laurence Miller, “Tough Guys: Psychotherapeutic Strategies with Law Enforcement and Emergency Services Personnel,” in Stress Management in Law Enforcement, ed. Leonard Territo e James D. Sewell (Durham, N.C.: Carolina Academic Press, 1999), pp. 317-332. 60. Si veda David A. Alexander, “‘Stressors’ and Difficulties in Dealing with the Terminal Patient,” Journal of Palliative Care 6, no. 3 (1990): 28-33.

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61. Donald M. Sledz, “Nursing an Old Wound in Medicine,” Wall Street Journal, February 6, 1997, p. A14. 62. Si veda Patricia Boston, Anna Towers, e David Barnard, “Embracing Vulnerability: Risk and Empathy in Palliative Care,” Journal of Palliative Care 17, no. 4 (2001): 248-253; Danai Papadatou, Irene Papazoglou, Dimitra Petraki, e Thalia Bellali, “Mutual Support Among Nurses Who Provide Care to Dying Children,” Illness, Crisis & Loss 7, no. 1 (1999): 37-48; Rosanne M. Radziewicz, “Self-Care for the Caregiver,” Nursing Clinics of North America 36, no. 4 (2001): 855-867; e Judi Webster, Linda J. Kristjanson, “‘But Isn’t It Depressing?’: The Vitality of Palliative Care,” Journal of Palliative Care 18, no. 1 (2002): 15-24. 63. Citato da Marilyn Chase, ‘Tending to Patients with AIDS Teaches Valuable Lessons,” Wall Street Journal, July 22, 1996, p. B1. 64. Jeanette Pickrel, “‘Tell Me Your Story’: Using Life Review in Counseling the Terminally Ill,” Death Studies 13, no. 2 (1989): 127-135. 65. Tenshin Reb Anderson, da un discorso ai volontari del San Francisco Zen Hospice Project, citato da Ostaseski, “Stories of Lives Lived and Now Ending,” p. 29. 66. Janmarie Silvera, “Crossing the Border,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 301-302.

CAPITOLO 5 1. Robert Kastenbaum, Death, Society, and Human Experience, 7th ed. (Boston: Allyn & Bacon, 2001), p. 66. Si veda anche, di Kastenbaum, “Death System,” in Encyclopedia of Death, a cura di Robert Kastenbaum e Beatrice Kastenbaum (Phoenix, Ariz.: Oryx Press, 1989), pp. 90-93; e “A World Without Death? First and Second Thoughts,” Mortality 1, no. 1 (1996): 111-121; così come Kenneth J. Doka, “Death System,” in Macmillan Encyclopedia of Death and Dying, a cura di Robert Kastenbaum (New York: Macmillan, 2003), 222-223. 2. Douglas N. Walton, On Defining Death: An Analytic Study of the Concept of Death in Philosophy and Medical Ethics (Montreal: McGill-Queen’s University Press, 1979). 3. Ronald E. Cranford, “The Persistent Vegetative State: The Medical Reality,” in Medical Ethics: Applying Theories and Principles to the Patient Encounter; a cura di Matt Weinberg (Amherst, N.Y.: Prometheus, 2001), pp. 111-120. 4. Robert M. Veatch, Death, Dying, and the Biological Revolution: Our Last Quest for Responsibility, rev. ed. (New Haven: Yale University Press, 1989); si veda anche, di Veatch, A Theory of Medical Ethics (New York: Basic Books, 1981). 5. Duncan MacDougall, “Hypothesis Concerning Soul Substance Together with Experimental Evidence of the Existence of Such Substance,” Journal of the American Society for Psychical Research 1, no. 5 (May 1907): 237-244. 6. Per una panoramica sugli attuali metodi per determinare la morte cerebrale, si veda James L. Bernat, “The Biophilosophical Basis of Whole-Brain Death,” Social Philosophy & Policy 19, no. 2 (2002): 324-342; Gary Greenberg, “As Good as Dead: Is there Really Such a Thing as Brain Death?,” New Yorker, August 13, 2001, 36-41; K. G. Karakatsanis e J. N. Tsanakas, “A Critique on the Concept of Brain Death,” Issues in Law & Medicine 18, no. 2 (2002): 127-141; Jerry Menikoff, “The Importance of Being Dead: Non Heart-Beating Organ Donation,” Issues in Law & Medicine 18, no. 1 (2002): 3-20; R. D. Truog, “Is It Time to Abandon Brain Death?” Hastings Center Report 27, no. 1 (1997): 29-37; e Robert M. Veatch, “The Impending Collapse of the Whole-Brain Deinition of Death,” Hastings Center Report 23, no. 4 (1993): 18-24.

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7. Karen G. Gervais, “Advancing the Definition of Death: A Philosophical Essay,” Medical Humanities Review 3 (July 1989): 7-19; e, di Gervais, Redefining Death (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1986). Si veda anche John P. Lizza, “Persons and Death: What’s Metaphysically Wrong with Our Current Statutory Definition of Death?” Journal of Medicine and Philosophy 18 (1993): 351-374. 8. Robert M. Veatch, “What Counts as Basic Health Care? Private Values and Public Policy,” Hastings Center Report 24, no. 3 (1994): 20-21. 9. President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, Defining Death: A Report on the Medical, Legal and Ethical Issues in the Determination of Death (Washington, D.C.: Government Printing Office, 1981), p. 45. 10. Alexander M. Capron e Leon R. Kass, “A Statutory Definition of the Standards for Determining Human Death: An Appraisal and a Proposal,” University of Pennsylvania Law Review 121 (1972): 87-118. 11. President’s Commission, Defining Death. 12. Albert R. Jonsen, The Birth of Bioethics (New York: Oxford University Press, 1998), pp. 238-244. 13. Mark H. Beers e Robert Berkow, a cura di, The Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 17th ed. (Whitehouse Station, N.J.: Merck Research Laboratories, 1999), p. 1067. Per una breve rassegna delle attuali questioni sulla donazione e sul trapianto di organi, si veda Margaret Lock, “Human Body Parts as Therapeutic Tools: Contradictory Discourses and Transformed Subjectivities,” Qualitative Health Research 12, no. 10 (2002): 14061418. 14. Leonard L. Bailey, “Organ Transplantation: A Paradigm of Medical Progress,” Hastings Center Report (January-February 1990): 24-28; si veda anche Susan L. Smith, “Progress in Clinical Organ Transplantation” online (September 4, 2000; http://www.medscape.com/medscape/transplantation/journal/2000/v01.n02/mt04O6.smit 01.html). 15. Beers e Berkow, a cura di, Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 17th ed., p. 1067. 16. Laura Meckler, “Living Organ Donors Reach New High,” Associated Press Online (April 22, 2002). Circa la donazione di organi da parte di donatori viventi, si veda Elisa J. Gordon, “`They Don’t Have to Suffer for Me’: Why Dialysis Patients Refuse Offers of Living Donor Kidneys,” Medical Anthropology Quarterly 15, no. 2 (2001): 245-267; e Lainie Friedman Ross, “Solid Organ Donation Between Strangers,” Journal of Law, Medicine & Ethics 30, no. 3 (2002): 440-445. 17. Si veda Health Resources and Services Administration, “Organ Donation” online (September 9, 2000; http://organdonor.gov). 18. Amy Dockser Marcus, “Extreme Transplants,” Wall Street Journal, May 6, 2003, pp. D1, D8. 19. Si veda Charles J. Dougherty, “Our Bodies, Our Families: The Family’s Role in Organ Donation,” Second Opinion 19, no. 2 (October 1993): 59-67; e Lesley A. Sharp, “Commodified Kin: Death, Mourning, and Competing Claims on the Bodies of Organ Donors in the United States,” American Anthropologist 103, no. 1 (2001): 112-133. 20. United Network for Organ Sharing, “Organ Transplantation and Donation Facts at a Glance” online (July, 2003; http://www.unos.org/inTheNews/factSheets.asp). 21. Si veda Julia D. Mahoney, “The Market for Human Tissue,” Virginia Law Review 86, no. 2 (2000): 163-223; Nancy Scheper-Hughes, “The Global Traffic in Human Organs,” Current Anthropology 41, no. 2 (2000): 191-224; e Laura A. Siminoff, Mary Beth Mercer, “Public Policy, Public Opinion, and Consent for Organ Donation,” Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 10, no. 4 (2001): 377-386.

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22. Lindsay Tanner, “AMA Votes on Organ Donation Research,” Associated Press Online (June 18, 2002). 23. Courtney S. Campbell, “The Selling of Organs, the Sharing of Self,” Second Opinion, 19, no. 2 (October 1993): 69-79. Si veda anche A. H. Barnett e David L. Kaserman, “The Shortage of Organs for Transplantation: Exploring the Alternatives,” Issues in Law and Medicine 9, no. 2 (1993): 117-137; e Frank Th. de Charro, Hans E. M. Akveld, e Dick J. Hessing, “Systems of Donor Transfer,” Health Policy 25 (1993): 199-212. 24. Si veda Robert P. Lanza, David K. C. Cooper, e William L. Chick, “Xenotransplantation,” Scientific American 277, no. 1 (July 1997): 54-59; e Jeffrey L. Platt, “Xenotransplantation,” Science & Medicine 3, no. 4 (July-August 1996): 62-71. Si veda anche Frederick A. Murphy, “The Public Health Risk of Animal Organ and Tissue Transplantation into Humans,” Science 273 (August 9, 1996): 746-747. 25. Si veda Lindsay Prior, The Social Organisation of Death (London: Macmillan, 1989), p. 12. Sul modo in cui un insieme unico di condizioni sociali e religiose facilitarono l’accettazione della morte celebrale e del trapianto di organi negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta, si veda William R. LaFleur, “From Agape to Organs: Religious Differences Between Japan and America in judging the Ethics of the Transplant,” Zygon: Journal of Religion and Science 37, no. 3 (2002): 623-642. Per una breve panoramica sui differenti punti di vista religiosi, si veda Laurence J. O’Connell, “The Religious and Spiritual Perspective Toward Human Organ Donation and Transplantation,” in The Ethics of Organ Transplantation, a cura di Wayne Shelton e John Balint (New York: JAI Press, 2001), pp. 277-292. 26. Questo studio specifico prende spunto principalmente dalle seguenti fonti: Albert R. Jonsen, “Ethical Issues in Organ Transplantation,” in Medical Ethics, 2nd ed., a cura di Robert M. Veatch (Boston: Jones & Bartlett, 1997), pp. 239-274; Rihito Kimura, “Organ Transplantation and Brain-Death in Japan: Cultural, Legal, and Bioethical Background,” Annals of Transplantation 3, no. 3 (1998): 5-58; Masahiro Morioka, “Bioethics and Japanese Culture: Brain Death, Patients’ Rights, and Cultural Factors,” Eubios Journal of Asian and International Bioethics 5 (1995): 87-90; Emiko Ohnuki-Tierney, “Brain Death and Organ Transplantation: Cultural Bases of Medical Technology,” Current Anthropology 35, no. 3 (1994): 233-254; e Mona Newsome Wicks, “Brain Death and Transplantation: The Japanese” online (September 4, 2000; http://www. medscape.com/medscape/ transplantation/journal/2000/v0I /mt0425.wick.htm). 27. Darryl Macer, “Bioethics in and from Asia,” Journal of Medical Ethics 25 (1999): 293-295.

CAPITOLO 6 1. Cassandra Lorius, “Taboo,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di Kenneth McLeish (New York: Facts on File, 1993), p. 731. 2. S. Kay Toombs, “Chronic Illness and the Goals of Medicine,” Second Opinion 21, no. 1 (July 1995): 11-19. Si veda anche Charles E. Rosenberg, “The Tyranny of Diagnosis: Specific Entities and Individual Experience,” Milbank Quarterly 80, no. 2 (2002): 237-260. 3. Marjorie Kagawa-Singer, “Redefining Health: Living with Cancer,” Social Science & Medicine 37, no. 3 (1993): 295-304. 4. Linda J. Kristjanson e Terri Ashcroft, “The Family’s Cancer Journey: A Literature Review,” Cancer Nursing 17, no. 1 (1994): 1-17. 5. Betsy L. Fife, “The Conceptualization of Meaning in Illness,” Social Science & Medicine 38, no. 2 (1994): 309-316. 6. Peter Conrad, “Wellness as Virtue: Morality and the Pursuit of Health,” Culture, Medicine, and Psychiatry 18 (1994): 385-401.

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7. G. P. Sholevar e R. Perkel, “Family Systems Intervention and Physical Illness,” General Hospital Psychiatry 12 (1990): 363-372. Si veda anche Margaret I. Fitch, Terry Bunston, e Mary Elliot, “When Mom’s Sick: Changes in a Mother’s Role and in the Family After Her Diagnosis of Cancer,” Cancer Nursing 22, no. 1 (1999): 58-63. 8. Si veda Charles A. Garfield, Stress and Survival: The Emotional Realities of LifeThreatening Illness (St. Louis: Mosby, 1979); e Lon G. Nungusser, William D. Bullock, Notes on Living Until We Say Goodbye: A Personal Guide (New York: St. Martin’s, 1988). 9. Arthur Kleinman, The Illness Narratives: Suffering, Healing, and the Human Condition (New York: Basic Books, 1988), pp. 3-6. 10. Carl May, “Disclosure of Terminal Prognosis in a General Hospital: The Nurse’s View,” Journal of Advanced Nursing 18 (1993): 1362-1368. 11. Arthur W. Frank, “The Pedagogy of Suffering: Moral Dimensions of Psychological Therapy and Research with the Ill,” Theory & Psychology 2, no. 4 (1992): 467-485. 12. Clifford H. Swensen, Steffen Fuller, e Richard Clements, “Stage of Religious Faith and Reactions to Terminal Cancer,” Journal of Psychology and Theology 21, no. 3 (1993): 238-245. Si veda anche Kathryn L. Braun e Ana Zir, “Roles for the Church in Improving End-of-Life Care: Perceptions of Christian Clergy and Laity,” Death Studies 25, no. 8 (2001): 685-704; e Kevin P. Kaut, “Religion, Spirituality, and Existentialism Near the End of Life: Implications for Assessment and Application,” American Behavioral Scientist 46, no. 2 (2002): 220-234. 13. Barney G. Glaser e Anselm L. Strauss, Awareness of Dying (Chicago: Aldine, 1965). 14. L. J. Muzzin e altri, “The Experience of Cancer,” Social Science & Medicine 38, no. 9 (1994): 1201-1208; E. Mansell Pattison, The Experience of Dying (Englewood Cliffs, N.J.: Prentice-Hall, 1977); e “The Living Dying Process,” in Psychological Care of the Dying, a cura di Charles Garfield (New York: McGraw-Hill, 1978), pp. 163-168. Si veda anche Karin L. Olson e altri, “Linking Trajectories of Illness and Dying,” Omega: Journal of Death and Dying 42, no. 4 (2001): 293-308; Mui Hing June Mak, “Awareness of Dying: An Experience of Chinese Patients with Terminal Cancer,” Omega: Journal of Death and Dying 43, no. 3 (2001): 259-279; Inger Sandén e Lars-Christer Hydén, “How Everyday Life Is Affected: An Interview Study of Relatives of Men Suffering from Testicular Cancer,” Journal of Psychosocial Oncology 20, no. 2 (2002): 27-44; e William M. Tierney, Elizabeth D. McKinley, “When the Physician-Researcher Gets Cancer: Understanding Cancer, Its Treatment, and Quality of Life from the Patient’s Perspective,” Medical Care 40, no. 6 (2002): 20-27. 15. Avery D. Weisman, On Dying and Denying: A Psychiatric Study of Terminality (New York: Behavioral Publications, 1972). 16. Elisabeth Kübler-Ross, On Death and Dying (New York: Macmillan, 1969). 17. Harold Brodkey, “To My Readers,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 295-300. Si veda anche Robert Connelly, “Living with Death: The Meaning of Acceptance,” Journal of Humanistic Psychology 43, no. 1 (2003): 45-63; e Mui Hing June Mak, “Accepting the Timing of One’s Death: An Experience of Chinese Hospice Patients,” Omega: Journal of Death and Dying 45, no. 3 (2002): 245-260. 18. Lucille A. Joel, “Deferring to the Dying,” American Journal of Nursing 94, no. 2 (1994): 7. 19. Herman Feifel, “Psychology and Death: Meaningful Rediscovery,” in The Path Ahead, ed. DeSpelder e Strickland, pp. 19-28. 20. Tone Rustøen e Ingela Wiklund, “Hope in Newly Diagnosed Patients with Cancer,” Cancer Nursing 23, no. 3 (2000): 214-219. Si veda anche Jaklin Eliott e Ian Olvei; “The Discursive Properties of `Hope’: A Qualitative Analysis of Cancer Patients’ Speech,” Qualitative Health Research 12, no. 2 (2002): 173-193.

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21. Charles A. Corr, “A Task-Based Approach to Coping with Dying,” Omega: Journal of Death and Dying 24, no. 2 (1991-1992): 81-94. Si veda anche Corr, “Coping with Dying: Lessons That We Should and Should Not Learn from the Work of Elisabeth KüblerRoss,” Death Studies 17, no. 1 (1993): 69-83. 22. Kenneth, J. Doka, “Coping with Life-Threatening Illness: A Task Model,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 2 (1995-1996): 111-122. Si veda anche Charles A. Corr e Kenneth J. Doka, “Current Models of Death, Dying, and Bereavement,” Critical Care Nursing Clinics of North America 6, no. 3 (1994): 545-552. 23. Doka, “Coping with Life-Threatening Illness,” p. 120. Si veda anche, di Doka, Living with Life-Threatening Illness: A Guide for Patients, Their Families, and Caregivers (New York: Lexington, 1993). 24. Avery D. Weisman, The Coping Capacity: On the Nature of Being Mortal (New York: Human Sciences Press, 1986). 25. Weisman, On Dying and Denying. Si veda anche di Weisman, Coping with Cancer (New York: McGraw-Hill, 1979); e “Thanatology,” in Comprehensive Textbook of Psychiatry, a cura di Or. Kaplan (Baltimore: Williams & Wilkins, 1980). 26. Robert Kastenbaum e Sharon Thuell, “Cookies Baking, Coffee Brewing: Toward a Contextual Theory of Dying,” Omega: Journal of Death and Dying 31, no. 3 (1995): 175-187. 27. Ibid., p. 186. Si veda anche Robert Kastenbaum, “`How Far Can an Intellectual Effort Diminish Pain?’ William McDougall’s Journal as a Model for Facing Death,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 2 (1995-1996): 123-164. 28. Joel, “Deferring to the Dying.” 29. Susan Folkman e Steven Greer, “Promoting Psychological Well-Being in the Face of Serious Illness: When Theory, Research and Practice Inform Each Other,” Psycho -Oncology 9, no. 1 (2000): 11-19. 30. Therese A. Rando, Grief, Dying, and Death: Clinical Interventions for Caregivers (Lexington, Mass.: Lexington, 1993). 31. Si veda Phoebe Cramer, “Coping and Defense Mechanisms: What’s the Difference?” Journal of Personality 66, no. 6 (1998): 919-946; e “Defense Mechanisms in Psychology Today: Further Processes for Adaptation,” American Psychologist 55, no. 6 (2000): 637-646. 32. Russell Noyes, Jr., e altri, “Illness Fears in the General Population,” Psychosomatic Medicine 62, no. 3 (2000): 318-325. 33. Si veda Susan Folkman, “Positive Psychological States and Coping with Severe Stress,” Social Science & Medicine 45, no. 8 (1997): 1207-1221; e Susan Folkman, Judith Tedlie Moskowitz, “Positive Affect and the Other Side of Coping,” American Psychologist 55, no. 6 (2000): 647-654. 34. Mark R. Somerfield e Robert R. McCrae, “Stress and Coping Research: Methodological Challenges, Theoretical Advances, and Clinical Applications,” American Psychologist 55, no. 6 (2000): 620-625. 35. Richard S. Lazarus, “Toward Better Research on Stress and Coping,” American Psychologist, no. 6 (2000): 665-613. 36. Folkman e Greer, “Promoting Psychological Well-Being in the Face of Serious Illness.” 37. Betsy L. Fife, “The Measurement of Meaning in Illness,” Social Science & Medicine 40, no. 8 (1995): 1021-1028. 38. Si veda Debra Wood, “Postponing Death: How Strong Is the Will to Live?” online (August 2000; healthgate.com). 39. Mary-Jo Del Vecchio Good e altri, “Oncology and Narrative Time,” Social Science & Medicine 38, no. 6 (1994): 855-862.

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40. Robert L. Wrenn, Dan Levinson, e Danai Papadatou, End of Life Decisions: Guidelines, for the Health Care Provider (Tucson: University of Arizona Health Sciences Center, 1996), p. 20. 41. Orville Kelly, “Making Today Count,” in Death and Dying: Theory/Research/Practice, a cura di Larry A. Bugen (Dubuque, Iowa: William C. Brown, 1979), pp. 277-283; si veda anche, di Kelly, Until Tomorrow Comes (New York: Everest House, 1979). 42. Michael H. Levy, “Pain Control Research in the Terminally Ill,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 4 (1987-1988): 265-279. 43. Marcia K. Merboth e Susan Barnason, “Managing Pain: The Fifth Vital Sign,” Nursing Clinics of North America 35, no. 2 (2000): 375-383. Si veda anche Marni Jackson, Pain: The Fifth Vital Sign (New York: Crown, 2002). 44. Paul J. Weithman, “Of Assisted Suicide and `The Philosophers’ Brief,’” Ethics 109, no. 3 (1999): 548-578. 45. Alison Twycross, “Education About Pain: A Neglected Area?” Nurse Education Today 20, no. 3 (2000): 244-253. Si veda anche, della Twycross, “Educating Nurses About Pain Management: The Way Forward,” Journal of Clinical Nursing 11, no. 6 (2002): 705-714. 46. Berkow, a cura di, Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 16th ed., p. 1409. Si veda anche Daniel B. Carr e altri, Acute Pain Management: Operative or Medical Procedures and Trauma. Clinical Practice Guideline No. 1 (Rockville, Md.: Agency for Health Care Policy and Research, 1992). 47. Dorland’s Illustrated Medical Dictionary, 26th ed. (Philadelphia: Saunders, 1985), p. 954. 48. Linda C. Carro, “Culture, Pain and Cancer,” Journal of Palliative Care 6, no. 3 (1990): 34-44. Si veda anche David B. Morris, The Culture of Pain (Berkeley: University of California Press, 1991). 49. Tim A. Ahles, “Cancer Pain: Research from Multidimensional and Illness Representation Models,” Motivation and Emotion 17, no. 3 (1993): 225-243. 50. Berkow, a cura di, Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 16th ed., pp. 1409, 1412. Si veda anche Fredrica A. Preston, Siew Tzuh Tang, e Ruth McCorkle, “Symptom Management for the Terminally Ill,” in Dying, Death, and Bereavement: A Challenge for Living; 2nd ed., a cura di Inge Corless, Barbara B. Germino, e Mary A. Pittman (New York: Springer, 2003), pp. 145-130. 51. Si veda Ada Jacox e altri, Management of Cancer Pain, Clinical Practice Guideline No. 9, (Rockville, Md.: Agency for Health Care Policy and Research, 1994). 52. Porter Storey, “Cancer Pain Management: How Are We Doing?” American Journal of Hospice and Palliative Care 9, no. 3 (1992): 6-7. Si veda anche Betty Rolling Ferrell, a cura di, “Issues in Cancer Pain Management: Models of Success,” Cancer Practice 10, Supplement 1 (2002): numero completo. 53. Joy Ufema, “Pain Control Survey Results: Not Good,” American Journal of Hospice and Palliative Care 9, no. 1 (1992): 11-12. Si veda anche Karen L. Schumacher e altri, “Pain Management Autobiographies and Reluctance to Use Opioids for Cancer Pain Management,” Cancer Nursing 25, no. 2 (2002): 125-133; e James L. Werth, Jr., “Reinterpreting the Controlled Substances Act: Predictions for the Effect on Pain Relief,” Behavioral Sciences and the Law 20, no. 3 (2002): 287-305. 54. Michael de Ridder, “Heroin: New Facts About an Old Myth,” Journal of Psychoactive Drugs 26, no. 1 (1994): 65-68. Si veda anche Rita Carter, “Give a Drug a Bad Name…,” New Scientist 150 (April 6, 1996): 14-15. 55. Si veda Kathleen M. Foley, “Controlling the Pain of Cancer,” Scientific American 275, no. 3 (September 1996): 164-165. 56. Judith A. Paice e Michelle M. Buck, “Intraspinal Devices for Pain Management,” Nursing Clinics of North America 28, no. 4 (1993): 921-935.

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57. Mary K. Sheehan, Philip G. Janicak, e Sheila Dowd, “The Role of Psychopharmacotherapy in the Dying Patient,” Psychiatric Annals 24, no. 2 (1994): 98-103. 58. Si veda David Clark, “‘Total Pain’: Disciplinary Power and the Body in the Work of Cicely Saunders, 1958-1967,” Social Science and Medicine 49 (1999): 727-736. 59. Robert Kastenbaum e Claude Normand, “Deathbed Scenes as Imagined by the Young and Experienced by the Old,” Death Studies 14, no. 3 (1990): 201-217. 60. Barney G. Glaser e Anselm L. Strauss, Time for Dying (Chicago: Aldine, 1968). Si veda anche Kastenbaum e Thuell, “Cookies Baking, Coffee Brewing: Toward a Contextual Theory of Dying”; e Pattison, The Experience of Dying. 61. Anne Hunsaker Hawkins, “Constructing Death: Three Pathographies About Dying,” Omega: Journal of Death and Dying 22, no. 4 (1990-1991): 301-317. 62. Berkow, ed., Merck Manual: Home Edition, p. 15. 63. Inge B. Corless, “Dying Well: Symptom Control Within Hospice Care,” in Annual Review of Nursing Research, vol. 12, ed. J. J. Fitzpatrick e J. S. Stevenson (New York: Springer, 1994), pp. 125-146. 64. Berkow, ed., Merck Manual: Home Edition, pp. 18-20. 65. Eric J. Cassell, “Dying in a Technological Society,” in Death Inside Out: The Hastings Center Report, a cura di Peter Steinfels e Robert M. Veatch (New York: Harper & Row, 1974), pp. 43-48; si veda anche, di Cassell, The Nature of Suffering and the Goals of Medicine (New York: Oxford University Press, 1991); Glaser and Strauss, Awareness of Dying; e David Sudnow, Passing On: The Social Organization of Dying (Englewood Cliffs, N.J.: Prentice-Hall, 1967). 66. Per un esempio of life review, si veda Kastenbaum, “`How Far Can an Intellectual Effort Diminish Pain?’ William McDougall’s Journal as a Model for Facing Death.” 67. Frank, “Pedagogy of Suffering”; si veda anche, di Frank, “What Kind of Phoenix? Illness and Self-Knowledge,” Second Opinion 18, no. 2 (October 1992): 31-41. 68. Kagawa-Singer, “Redefining Health: Living with Cancer.” 69. Adrian Furnham, “Explaining Health and Illness: Lay Perceptions on Current and Future Health, the Causes of Illness and the Nature of Recovery,” Social Science & Medicine 39, no. 5 (1994): 715-725; si veda anche Holly F. Mathews, Donald R. Lannin, e James P. Mitchell, “Coming to Terms with Advanced Breast Cancer: Black Women’s Narratives from Eastern North Carolina,” Social Science & Medicine 38, no. 6 (1994): 789-800. 70. Andrea Litva e John Eyles, “Health or Healthy: Why People Are Not Sick in a Southern Ontario Town,” Social Science Medicine 39, no. 8 (1994): 1083-1091. 71. Talcott Parsons, The Social System (New York: Free Press, 1951). Si veda anche Russell Noyes, Jr., e John Clancy, “The Dying Role: Its Relevance to Improved Patient Care,” Psychiatry 40 (February 1977): 41-47. 72. Robert J. Baugher e altri, “A Comparison of Terminally Ill Persons at Various Time Periods to Death,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 2 (1989-1990): 103-155. 73. Allan Kellehear e Terry Lewin, “Farewells by the Dying: A Sociological Study,” Omega: Journal of Death and Dying 19, no. 4 (1988-1989): 275-292. 74. Roderick Cosh, “Spiritual Care of the Dying,” in A Challenge for Living, ed. Corless, Germino e Pittman, pp. 131-143. 75. Cosh, “Spiritual Care of the Dying.” 76. Makoto Ueda, Modern Japanese Writers and the Nature of Literature (Stanford, Calif.: Stanford University Press, 1976), p. 193.

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CAPITOLO 7 1. Gli autori ringraziano Richard G. Polse, Esq., per la revisione al materiale di questo capitolo e per gli utili suggerimenti a questa edizione. 2. Si veda L. J. Blackhall e altri, “Ethnicity and Attitudes Toward Patient Autonomy,” Journal of the American Medical Association 274, no. 10 (1995): 820-825; Larry O. Gostin, “Informed Consent, Cultural Sensitivity, and Respect for Persons,” Death Studies 17, no. 3 (1993): 844-845; e nello stesso numero, Marshall B. Kapp, “Living and Dying in the Jewish Way: Secular Rights and Religious Duties,” pp. 267-276. 3. Si veda Nancy S. Jecker, “The Role of Intimate Others in Medical Decision Making,” Gerontologist (February 1990): 65-71. 4. Timothy E. Quill e Christine K. Cassel, “Nonabandonment: A Central Obligation for Physicians,” Annals of Internal Medicine 122, no. 5 (1995): 368-374. 5. Si veda Edmund D. Pellegrino e David C. Thomasma, The Virtues in Medical Practice (New York: Oxford University Press, 1993). 6. Alexander Morgan Capron, “The Burden of Decision,” Hastings Center Report (May-June 1990): 36-41. 7. John D. Lantos, Do We Still Need Doctors? (New York: Routledge, 1997), pp. 47-48. 8. The President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, Making Health Care Decisions: The Ethical and Legal Implications of Informed Consent in the Patient-Practitioner Relationship, vol. 1, Report, e vol. 3, Studies on the Foundations of Informed Consent (Washington, D.C.: Government Printing Office, 1982). Si veda anche Jon F. Merz “On a Decision-Making Paradigm of Medical Informed Consent,” Journal of Legal Medicine 14 (1993): 231-264. 9. R. B. Deber e altri, “What Role Do Patients Wish to Play in Treatment Decision Making?” Archives of Internal Medicine 156, no. 13 (1996): 1414-1420; e R. F. Nease e W. B. Brooks, “Patient Desire for Information and Decision Making in Health Care Decisions: The Autonomy Preference Index and the Health Opinion Survey”, Journal of General Internal Medicine 10, no.11 (1995): 539-600. 10. Donald Oken, “What to Tell Cancer Patients: A Study of Medical Attitudes,” Journal of the American Medical Association 175 (1961): 1120-1128. 11. D. H. Novack e altri, “Changes in Physicians’ Attitudes Toward Telling the Cancer Patient,” Journal of the American Medical Association 241 (March 2, 1979): 897-900. 12. D. H. Novack e altri, “Physicians’ Attitudes Toward Using Deception to Resolve Difficult Ethical Problems,” Journal of the American Medical Association 261 (May 26, 1989): 2980-2985. 13. Robert Berkow, a cura di, The Merck Manual of Medical Information: Home Edition (Whitehouse Station, N.J.: Merck Research Laboratories, 1997), p. 16. 14. Steadman’s Medical Dictionary, 26th ed. (Baltimore: Williams & Wilkins, 1995), p. 1371. 15. David W. Towle, “Medical Ethics,” Academic American Encyclopedia online (retrieved March 1991). Si veda anche Walter A. Brown, “The Placebo Effect,” Scientific American 278, no. 1 (January 1998): 90-95. 16. Margot L. White e John C. Fletcher, “The Story of Mr. and Mrs. Doe: ‘You Can’t Tell My Husband He’s Dying; It Will Kill Him,”’ in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 148-153. 17. The SUPPORT Principal Investigators, “A Controlled Trial to Improve Care for Seriously Ill Hospitalized Patients: The Study to Understand Prognoses and Preferences for Outcomes and Risks of Treatment (SUPPORT),” Journal of the American Medical Associa-

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tion 274, no. 20 (1995): 1591-1598. Si veda anche in Journal of the American Geriatrics Society 48, no. 5 (2000): Russell S. Phillips e altri, “Findings from SUPPORT and HELP: An Introduction” (S1-S5); Neil S. Wenger e altri, “Physician Understanding of Patient Resuscitation Preferences: Insights and Clinical Implications” (S44-S51); e Carol E. Golin e altri, “A Prospective Study of Patient Physician Communication About Resuscitation” (S52-S60). 18. Si veda C. H. Braddock e altri, “How Doctors and Patients Discuss Routine Clinical Decisions: Informed Decision Making in the Outpatient Setting,” Journal of General Internal Medicine 12, no. 6 (1997): 339-345; e, nello stesso numero, S.J. Diem, “How and When Should Physicians Discuss Clinical Decisions with Patients?” pp. 397-398; si veda anche Jan C. Hoffman e altri, “Patient Preferences for Communication with Physicians About End-of- Life Decisions,” Annals of Internal Medicine 127, no.1 (1997): 1-11. 19. Si veda Jessica H. Muller, “Shades of Blue: The Negotiation of Limited Codes by Medical Residents,” Social Science & Medicine 34, no. 8 (1992): 885-898; Ian N. Olver, Jaklin A. Eliott, e Jane Blake-Mortimer, “Cancer Patients’ Perceptions of Do Not Resuscitate Orders,” Psycho-Oncology 11, no. 3 (2002): 181-187; e Tom Tomlinson e Howard Brody, “Futility and the Ethics of Resuscitation,” Journal of the American Medical Association 264 (September 12, 1990): 1276-1280. 20. Si veda Yvonne K. Scherer e Michael H. Ackerman, “Ethical and Legal Controversies in Critical Care Nursing,” in Nursing Issues for the Nineties and Beyond, a cura di B. Bullough e V. L. Bullough (New York: Springer, 1994), pp. 122-138. 21. Howard Brody e altri, “Withdrawing Intensive Life-Sustaining Treatment: Recommendations for Compassionate Clinical Management,” New England Journal of Medicine 336, no. 9 (1997): 652-657. 22. Michael D. Fetters e Howard Brody, “The Epidemiology of Bioethics,” Journal of Clinical Ethics 10, no. 2 (1999): 107-115. 23. C. D. Bessinger, “Doctoring: The Philosophic Milieu,” Southern Medical Journal 81, no. 12 (1988): 1558-1562. Si veda anche William Campbell Felch, The Secret(s) of Good Patient Care: Thoughts on Medicine in the 2lst Century (Westport, Conn.: Praeger, 1996); e Edmund D. Pellegrino e David C. Thomasma, A Philosophical Basis for Medical Practice: Towards a Philosophy and Ethic of the Healing Professions (New York: Oxford University Press, 1981). 24. Stanley Joel Reiser, “The Era of the Patient: Using the Experience of Illness in Shaping the Missions of Health Care,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 106-115. 25. Si veda J. Balint e W. Shelton, “Regaining the Initiative: Forging a New Model of the Patient Physician Relationship,” Journal of the American Medical Association 275, no. 11 (1996): 887-891; Christine K. Cassel, “The Patient-Physician Covenant: An Affirmation of Asklepios,” Annals of Internal Medicine 124 (1996): 604-606; C. Charles, A. Gafni, e T. Whelan, “Shared Decision-Making in the Medical Encounter: What Does It Mean? (Or, It Takes At Least Two to Tango),” Social Science & Medicine 44, no. 5 (1997): 681-692; e M. Sirmon e R. Kreisberg, “Clinical Problem Solving: The Invisible Patient,” New England Journal of Medicine 334, no. 14 (1996): 908-911. Si veda anche Dan W. Brock, “The Ideal of Shared Decision Making Between Physicians and Patients,” Kennedy Institute of Ethics Journal (March 1991): 28-47. 26. Joan L. Bottorff e altri, “Facilitating Day to-Day Decision Making in Palliative Care,” Cancer Nursing 23, no. 2 (2090): 141-150. 27. Berkow, a cura di, The Merck Manual of Medical Information: Home Edition, pp. 16-17. 28. Si veda, ad esempio, Salim M. Adib e Ghassan N. Hamadeh, “Attitudes of the Lebanese Public Regarding Disclosure of Serious Illness,” Journal of Medical Ethics 25, no. 5

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(1999): 399-403; Akira Akabayashi, Michael D. Fetters, e Todd S. Elwyn, “Family Consent, Communication, and Advance Directives for Cancer Disclosure: A Japanese Case and Discussion,” Journal of Medical Ethics 25, no. 4 (1999): 296-301; Dieter Birnbacher, “Predictive Medicine: The Right to Know and the Right Not to Know,” Acta Analytica: Philosophy and Psychology 16 (2001): 35-47; Todd S. Elwyn, Michael D. Fetters, Hiroki Sasaki, e Tsukada Tsuda, “Responsibility and Cancer Disclosure in Japan,” Social Science & Medicine 54, no. 2 (2002): 281-293; Stan A. Kaplowitz, Shelly Campo, e Wai Tat Chiu, “Cancer Patients’ Desires for Communication of Prognosis Information,” Health Communication 14, no. 2 (2002): 221-241; e Susan Orpett Long, “Public Passages, Personal Passages, and Reluctant Passages: Notes on Investigating Cancer Disclosure Practices in Japan,” Journal of Medical Humanities 21, no. 1 (2000): 3-13. 29. Si veda, ad esempio, Michiyo Mizuno, Chiemi Onishi, e Fumiko Ouishi, “Truth Disclosure of Cancer Diagnoses and Its Influence on Bereaved Japanese Families,” Cancer Nursing 25, no. 5 (2002): 396-403; e Mei-che Samantha Pang, “Protective Truthfulness: The Chinese Way of Safeguarding Patients in Informed Treatment Decisions,” Journal of Medical Ethics 25, no. 3 (1999): 247-253. 30. Karen Lutfey and Douglas W. Maynard, “Bad News in Oncology: How Physician and Patient Talk About Death and Dying Without Using Those Words,” Social Psychology Quarterly 61, no. 4 (1998): 321-341. Si veda anche Abraham Rudnick, “Informed Consent to Breaking Bad News,” Nursing Ethics, no. 1 (2002): 61-66. 31. Geoffrey H. Gordon, Sandra K Joos, e Jennifer Byrne, “Physician Expressions of Uncertainty During Patient Encounters,” Patient Education and Counseling 40, no. 1 (2000): 5965. Si veda anche Chalmers C. Clark, “Trust in Medicine,” Journal of Medicine and Philosophy 27, no. 1 (2002): 11-29; Susan Dorr Goold, “Trust and the Ethics of Health Care Institutions,” Hastings Center Report 31, no. 6 (2001): 26-33; e W. A. Rogers, “Is There a Moral Duty for Doctors to Trust Patients?” Journal of Medical Ethics 28, no. 2 (2002): 77-80. 32. Per un esempio di questo dibattito si veda Ernest Rosenbaum, “Oncology/Hematology and Psychosocial Support of the Cancer Patient,” in Psychosocial Care of the Dying Patient, a cura di Charles A. Garfield (New York: McGraw-Hill, 1978), pp. 169-184. 33. M. E. Carlsson e P. M. Strang, “How Patients with Gynecological Cancer Experience the Information Process,” Journal of Psychosomatic Obstetrics and Gynecology 19, no. 4 (1998): 192-201. Si veda anche Samuel J. Marwit e Susan L. Datson, “Disclosure Preferences About Terminal Illness: An Examination of Decision-Related Factors,” Death Studies 26, no. 1 (2002): 1-20. 34. Virginia Teas Gill, “Doing Attributions in Medical Interaction: Patients’ Explanations for Illness and Doctors’ Responses,” Social Psychology Quarterly 61, no. 4 (1998): 342-360. 35. Candace West, Routine Complications: Troubles with Talk Between Doctors and Patients (Bloomington: Indiana University Press, 1984). 36. Sandra L. Bertman, Michael D. Wertheimer, e H. Brownell Wheeler, “Humanities in Surgery, a Life-Threatening Situation: Communicating the Diagnosis,” Death Studies 10, no. 5 (1986): 431-439. 37. Richard S. Sandor, “On Death and Coding,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 144-147. 38. Eugene A. Stead, Jr., A Way of Thinking: A Primer on the Art of Being a Doctor (Durham, N.C.: Carolina Academic Press, 1995), p. 126. Si veda anche Susan E. Hickman, “Improving Communication Near the End of Life,” American Behavioral Scientist 46, no. 2 (2002): 252-267. 39. Albert Lee Strickland e Lynne Ann DeSpelder, “Communicating About Death and Dying,” in Dying, Death, and Bereavement: A Challenge for Living, 2nd ed., a cura di Inge Corless, Barbara B. Germino, e Mary A. Pittman (New York: Springer, 2003), pp. 7-24.

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40. S. M. Johnson e M. E. Kurtz, “Name Usage in Clinical Practice: Ethnic and Gender Disparities,” Humane Medicine 11, no. 3 (1995): 106-109. Si veda anche Felicity Goodyear-Smith e Stephen Buetow, “Power Issues in the Doctor-Patient Relationship,” Health Care Analysis 9, no. 4 (2001):,449-462; e Robert M. Veatch, “White Coat Ceremonies: A Second Opinion,” Journal of Medicai Ethics 28, no. 1 (2002): 5-9. 41. Jeanne Quint Benoliel, “Health Care Providers and Dying Patients: Critical Issues in Terminal Care,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 4 (1987-1988): 341-363. 42. “Tapping Human Potential: an Interview with Norman Cousins,” Second Opinion 14 (July 1990): 57-71. 43. Si veda Balfour Mount, “Whole Person Care: Beyond Psychosocial and Physical Needs,” American Journal of Hospice and Palliative Care 10, no. 1 (January-February 1993): 28-37. 44. Marilee Ivars Donovan e Sandra Girton Pierce, Cancer Care Nursing (New York: Appleton-Century Crofts, 1976), p. 32. 45. Betty Davies e altri, Fading Away: The Experience of Transition in Families with Terminal Illness (Amityville, N.Y.: Baywood, 1996). 46. S. J. Diem e J. D. Lantos, “Cardiopulmonary Resuscitation on Television: Miracles and Misinformation,” New England Journal of Medicine 334, no. 24 (1996): 1578-1582. 47. A. Halevy e B. A. Brody, “A Multi-Institutional Collaborative Policy on Medical Futility,” Journal of the American Medical Association 276, no. 7 (1996): 571-574. Si veda anche Andrew I. Batavia, “Disability Versus Futility in Rationing Health Care Services: Defining Medical Futility Based on Permanent Unconsciousness: PVS, Coma, and Anencephaly,” Behavioral Sciences and the Law 20, no. 3 (2002): 219-233; e Donald Joralemon, “Reading Futility: Reflections on a Bioethical Concept,” Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics 11, no. 2 (2002): 127-133. 48. Berkow, a cura di, Merck Manual of Medical Information: Home Edition, p. 16. 49. President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, Summing Up: Final Report on Studies of the Ethical and Legal Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research (Washington, D.C.: Government Printing Office, March 1983), p. 31. Si veda anche il manuale Deciding to Forego Life-Sustaining Treatment: A Report on the Ethical, Medical, and Legal Issues in Treatment Decisions (Washington, D.C.: Government Printing Office, March 1983). 50. Si veda Choice in Dying, “Issues: Background on the Right to Die” online (September 9, 2000; http://www.choices.org/issues.htm). 51. Joseph Fletcher, “The Patient’s Right to Die,” in Euthanasia and the Right to Die: The Case for Voluntary Euthanasia, a cura di A. B. Downing (London: Peter Owen, 1969), p. 30. 52. Si veda Norman L. Cantor e George C. Thomas, III, “The Legal Bounds of Physician Conduct Hastening Death,” Buffalo Law Review 48, no. 1 (2000): 83-173; e Philip Donald St. John e Malcolm Man-Son-Hing, “Physician-Assisted Suicide: The Physician as an Unwitting Accomplice,” Journal of Palliative Care 15, no. 2 (1999): 56-58. Si veda anche Dan W. Brock, “A Critique of Three Objections to Physician-Assisted Suicide,” Ethics 109, no. 3 (1999): 519-547. 53. In the Matter of Karen Quinlan: The Complete Legal Briefs, Court Proceedings and Decisions in the Superior Court of New Jersey (1975) and In the Matter of Karen Quinlan, Volume 2: The Complete Briefs, Oral Arguments, and opinion in the New Jersey Supreme Court (1970; Arlington, Va.: University Publications of America). 54. Informazioni sul caso Cruzan e argomentazioni da entrambe le posizioni sulla questione possono essere trovate in Hastings Center Report (January-February 1990): 38-50. Si veda anche Ron Hamel, “The Supreme Court’s Decision in the Cruzan Case: A Synopsis,”

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Bulletin of the Park Ridge Center (September 1990): 18, 20; e Thane Josef Messinger, “A Gentle and Easy Death: From Ancient Greece to Beyond Cruzan Toward a Reasoned Legal Response to the Societal Dilemma of Euthanasia,” Denver University Law Review 71, no. 1 (1993): 175-251. 55. Marshall B. Kapp, “Life-Sustaining Technologies: Value Issues,” Journal of Social Issues 49, no. 2 (1993): 151-167. 56. Si veda David Orentlicher, “The Alleged Distinction Between Euthanasia and the Withdrawal of Life-Sustaining Treatment: Conceptually Incoherent and Impossible to Maintain,” University of Illinois Law Review (1998): 837-859. Si veda anche Akira Akabayashi, “Euthanasia, Assisted Suicide, and Cessation of Life Support: Japan’s Policy, Law, and an Analysis of Whistle Blowing in Two Recent Mercy Killing Cases,” Social Science & Medicine 55, no. 4 (2002): 517-527; e Miki Hayashi e Toshinori Kitamura, “Euthanasia Trials in Japan: Implications for Legal and Medical Practice,” International Journal of Law and Psychiatry 25, no. 6 (2002): 557-571. 57. Arthur S. Berger, Dying & Death in Law & Medicine: A Forensic Primer for Health and Legal Professionals (Westport, Conn.: Praeger, 1993), p. 48. 58. P. A. Singer e altri, “Public Opinion Regarding End-of-Life Decisions: Influence of Prognosis, Practice, and Process,” Social Science & Medicine 41, no. 11 (1995): 1517-1521. Si veda anche Michael A. DeCesare, “Public Attitudes Toward Euthanasia and Suicide for Terminally Ill Persons: 1977 and 1996,” Social Biology 47, no. 3-4 (2000): 264-276. 59. Si veda Howard Brody, “Assisted Death: A Compassionate Response to a Medical Failure,” New England Journal of Medicine 327 (November 5, 1992): 1384-1388; Eugenie Anne Gifford, “Artes Moriendi: Active Euthanasia and the Art of Dying,” UCLA Law Review 40 (1993): 1545-1585; Albert R. Jonsen, “Living with Euthanasia: A Futuristic Scenario,” Journal of Medicine and Philosophy 18 (1993): 241-251; Patricia A. King e Leslie E. Wolf, “Lessons for Physician-Assisted Suicide from the African-American Experience,” in Physician Assisted Suicide: Expanding the Debate, ed. Margaret R Battin, Rosamond Rhodes, e Anita Silvers (New York: Routledge, 1998), pp. 91-112; e Timothy Quill, “Care of the Hopelessly Ill: Proposed Clinical Criteria for Physician Assisted Suicide,” New England Journal of Medicine 327 (November 5, 1992): 1380-1384. 60. “It’s over, Debbie,” Journal of the American Medical Association 259 (January 8, 1988): 272. 61. Si veda Raphael Cohen-Almagor, “Why the Netherlands?” Journal of Law, Medicine & Ethics 30, no. 1 (2002): 95-104, and “‘Culture of Death’ in the Netherlands: Dutch Perspectives,” Issues in Law & Medicine 17, no. 2 (2001): 167-179; Herbert Hendin, “The Dutch Experience,” Issues in Law & Medicine 17, no. 3 (2002): 223-246; e Herman H. van der Kloot Meijburg, “How Health Care Institutions in the Netherlands Approach Physician-Assisted Death,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 3 (1995-1996): 179-196. Per dati da uno studio olandese sulle decisioni mediche sulla fine della vita, si veda Paul J. van der Mass e altri, “Euthanasia, Physician-Assisted Suicide, and Other Medical Practices Involving the End of Life in the Netherlands, 1990-1995,” New England Journal of Medicine 335, no. 22 (1996): 1699-1711. 62. Si veda Choice in Dying, “Physician-Assisted Suicide: Vacco v. Quill and Washington v. Glucksberg” online (September 9, 2000; http://www.choices.org/ sctdec.htm); John Dinan, “Rights and the Political Process: Physician-Assisted Suicide in the Aftermath of Washington v. Glucksberg,” Publius: The Journal of Federalism 31, no. 4 (2001): 1-21; e James L. Werth, Jr., e Judith R. Gordon, “Amicus Curiae Brief for the United States Supreme Court on Mental Health Issues Associated with Physician Assisted Suicide,” Journal of Counseling & Development 80, no. 2 (2002): 160-172. 63. “Physician Assisted Suicide Initiative Passes in Oregon,” Western Bioethics News,

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no. 53 (January 1995): 2-3. Si veda anche Lori A. Roscoe e altri, “A Comparison of Characteristics of Kevorkian Euthanasia Cases and Physician-Assisted Suicides in Oregon,” Gerontologist 41, no. 4 (2001): 439-446. Sul concetto di morire con dignità si veda Peter Allmark, “Death with Dignity,” Journal of Medical Ethics 28, no. 4 (2002): 255-257. 64. Oregon Health Division, “Fifth Annual Report on Oregon’s Death with Dignity Act” online (consultato July 12, 2003; http://www.healthoregon.org/chs/pas/ arsummry.cfm); si veda anche K. Hedberg, D. Hopkins, e M. Kohn, “Five Years of Legal Physician-Assisted Suicide in Oregon,” New England Journal of Medicine 348 (2003): 961964; e Christine Neylon O’Brien, Gerald A. Madek, e Gerald R. Ferrera, “Oregon’s Guidelines for Physician Assisted Suicide: A Legal and Ethical Analysis,” University of Pittsburgh Law Review 61, no. 2 (2000): 329-365. 65. Si veda Clare E. Kendall, “A Double Dose of Double Effect,” Journal of Medical Ethics 26, no. 3 (2000): 204-205. 66. Si veda J. A. Billings e S. D. Block, “Slow Euthanasia,” Journal of Palliative Care 12, no. 4 (1996): 21-30; e Howard Brody, “Commentary on Billings and Block’s Slow Euthanasia,” nello stesso numero, pp. 38-41. Si veda anche P. Rousseau, “Terminal Sedation in the Care of Dying Patients,” Archives of Internal Medicine 1556, no. 16 (1996): 1785-1786. 67. Richard Carelli, “Court: No Right to Assisted Suicide,” Associated Press Online (June 26, 1997). Si veda anche Thane Josef Messinger, “A Gentle and Easy Death: From Ancient Greece to Beyond Cruzan Toward a Reasoned Legal Response to the Societal Dilemma of Euthanasia,” Denver University Law Review 71, no. 1 (1993): 175-251, in particolare pp. 229237; Robert A. Sedler, “The Constitution and Hastening Inevitable Death,” Hastings Center Report 23, no. 5 (September-October 1993): 20-25; e Raymond A. Whiting, “Natural Law and the ‘Right to Die’,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 1 (1995-1996): 11-26. 68. Ira Byock, “Dying: After the Court Ruling,” Wall Street Journal, June 25, 1997, p. A14. 69. John A. Pridonoff, “Introduction,” in Hospice and Hemlock: Retaining Dignity, Integrity, and Self-Respect in End-of-Life Decisions, ed. Michele A. Trepkowski (Eugene, Ore.: Hemlock Society, 1998). 70. Si veda Ann Alpers e Bernard Lo, “Avoiding Family Feuds: Responding to Surrogate Demands for Life-Sustaining Interventions,” Journal of Law Medicine & Ethics 27, no. 1 (1999): 74-89; Jeffrey T. Berger, “Multi-Cultural Considerations and the American College of Physicians Ethics Manual,” Journal of Clinical Ethics 12, no. 4 (2001): 875-381; Leslie J. Blackhall e altri, “Ethnicity and Attitudes Towards Life Sustaining Technology,” Social Science & Medicine 48, no. 12 (1999): 1779-1789; e Eric W. Mebane e altri, “The Influence of Physician Race, Age, and tender on Physician Attitudes Toward Advance Care Directives and Preferences for End-of-Life Decision-Making,” Journal of the American Geriatrics Society 47, no. 5 (1999): 579-591. 71. David J. Roy, “Euthanasia-Taking a Stand,” Journal of Palliative Care 6, no. 1 (1990): 3-5. Commentando il Death with Dignity Act dell’Oregon, Roy riesamina queste tematiche in “Palliative Care and Euthanasia: A Continuing Need to Think Again,” Journal of Palliative Care 18, no. 1 (2002): 3-5. 72. Dame Cicely Saunders, “A Response to Logue’s Where Hospice Fails-The Limits of Palliative Care,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 1 (1995-1996): 1-5; citato da p. 2. 73. Charles J. Dougherty, “The Common Good, Terminal Illness, and Euthanasia,” in The Path Ahead, ed. DeSpelder e Strickland, pp. 154-164. 74. Thomas Attig, “Can We Talk? On the Elusiveness of Dialogue,” Death Studies 19, no. 1 (1995): 1-19. 75. R. J. Connelly, “The Sentiment Argument for Artificial Feeding of the Dying,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 3 (1989-1990): 229-237. Si veda anche Steven

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H. Miles, “Nourishment and the Ethics of Lament,” Linacre Quarterly 56 (August 1989): 64-69; e J. Slomka, “What Do Apple Pie and Motherhood Have to Do with Feeding Tubes and Caring for the Patient?” Archives of Internal Medicine 155, no. 12 (1995): 1258-1268. Per un punto di vista opposto che enfatizza il “vincolo della comunione umana” che viene mantenuto con l’alimentazione artificiale di pazienti in stato vegetativo permanente si veda Germazn Grisez e Kevin O’Rourke, “Should Nutrition and Hydration Be Provided to Permanently Unconscious and other Mentally Disabled Persons,” Issues in Law and Medicine 5 (1989): 165-196. 76. James J. McCartney e Jane Mary Trau, “Cessation of the Artificial Delivery of Food and Fluids: Defining Terminal Illness and Care,” Death Studies 14, no. 5 (1990): 435-444. 77. Dena S. Davis, “Old and Thin,” Second Opinion 15 (November 1990): 26-32; si veda anche, nello stesso numero, Ronald M. Green, “Old and Thin: A Response,” pp. 34-39. Sull’atteggiamento giapponese nei confronti della nutrizione e idratazione si veda Emiko Konishi, Anne J. Davis, e Toshiaki Aiba, “The Ethics of Withdrawing Artificial Food and Fluid from Terminally Ill Patients: An End-of- Life Dilemma for Japanese Nurses and Families,” Nursing Ethics 9, no. 1 (2002): 7-19. 78. Robert McCormick, “To Save or Let Die: The Dilemma of Modern Medicine,” in Ethical Issues in Death and Dying, ed. Robert F. Weir (New York: Columbia University Press, 1977), pp. 173-184. 79. Si veda, ad esempio, Berit Støre Brinchmann, “Neonatal Medicine in Norway,” Journal of Clinical Ethics 12, no. 3 (2001): 307-311; Peter A. Clark, “Medical Futility in Pediatrics: Is It Time for a Public Policy?” Journal of Public Health Policy 23, no. 1 (2002): 66-89; e John J. Paris, Jeffrey Ferranti, e Frank Reardon, “From the Johns Hopkins Baby to Baby Miller: What Have We Learned from Four Decades of Reflection on Neonatal Cases?” Journal of Clinical Ethics 12, no. 3 (2001): 207-214. 80. President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine, Deciding to Forego Life-Sustaining Treatment, p. 7. 81. Judi Lund Person, “Regulatory Issues in the Care of Dying,” in Dying, Death, and Bereavement, 2nd ed., ed. Corless, Germino, e Pittman, p. 205. 82. Sui potenziali benefici e i problemi attuali nell’uso di disposizioni anticipate, si veda Peter H. Ditto e altri, “Advance Directives as Acts of Communication,” Archives of Internal Medicine 161 (2001): 421-430; Angela Fagerlin e altri, “Projection in Surrogate Decisions About Life-Sustaining Medical Treatments,” Health Psychology 20,no. 3 (2001): 166-175; e Angela Fagerlin e altri, “The Use of Advance Directives in End-of Life Decision Making: Problems and Possibilities,” American Behavioral Scientist 46, no. 2 (2002): 268283. 83. Si veda Jane Foytack e Daniel J. West, “Physician Management Guidelines for Advance Directives with Patients,” Omega: Journal of Death and Dying 29, no. 2 (1994): 165175; Molly K. Hoffman, “Use of Advance Directives: A Social Work Perspective on the Myth Versus the Reality,” Death Studies 18, no. 3 (1994): 229-241; Jackson P. Rainer e Patti Ellis McMurry, “Caregiving at the End of Life,” Journal of Clinical Psychology 58, no. 11 (2002): 1421-1431; e Joan M. Teno e altri (SUPPORT investigators), “Do Formal Advance Directives Affect Resuscitation Decisions and the Use of Resources for Seriously Ill Patients?” Journal of Clinical Ethics 5, no. 1 (1994): 23-30. 84. Robert Berkow, ed., The Merck Manual of Medical Information: Home Edition (Whitehouse Station, N.J.: Merck Research Laboratories, 1997), p. 17. 85. Si veda George J. Annas, “The Health Care Proxy and the Living Will,” New England Journal of Medicine 324, no. 17 (1991): 1210-1213; Ezekiel J. Emanuel e Linda L. Emanuel, “Living Wills: Past, Present, and Future,” Journal of Clinical Ethics 1, no. 1 (1990): 9-19; Linda L. Emanuel e altri, “Advance Directives: Can Patients’ Stated Treat-

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ment Choices Be Used to Infer Unstated Choices?” Medical Care 32, no. 2 (1994): 95-105; e Jim Stone, “Advance Directives, Autonomy, and Unintended Death,” Bioethics 8, no. 3 (1994): 223-246. Esempio preso da Wesley J. Smith, “The Living Will’s Fatal Flaw,” Wall Street Journal, May 4, 1994. 86. Gli autori ringraziano il Senatore John C. Danforth, promotore di questa misura, per le informazioni forniteci sulle sue istruzioni. Si veda anche Elizabeth Leibold McCloskey, “The Patient Self Determination Act,” Kennedy Institute of Ethics Journal 1, no. 2 (1991): 163-169. 87. Person, “Regulatory Issues,” p. 208. 88. Zelda Foster, “The Struggle to End My Father’s Life,” in Dying, Death, and Bereavement, 2nd ed., ed. Corless, Germino, e Pittman, pp. 79-85. Si veda anche Renée Semonin Holleran, “When Is Dead, Dead? The Ethics of Resuscitation in Emergency Care,” Nursing Clinics of North America 37, no. 1 (2002): 11-18. 89. Alexander Morgan Capron, “Why Law and the Life Sciences?” Hastings Center Report 24, no. 3 (1994): 42-44.

CAPITOLO 8 1. Elaine M. Blinde e Terese M. Stratta, “The ‘Sport Career Death’ of College Athletes: Involuntary and Unanticipated Sports Exits,” Journal of Sport Behavior 15, no. 1 (1994): 320. 2. Bob Krizek, “Goodbye Old Friend: A Son’s Farewell to Comiskey Park,” Omega: Journal of Death and Dying 25, no. 2 (1992): 87-93. 3. Si veda Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, “Loss,” in Encyclopedia of Death and Dying, ed. Glennys Howarth e Oliver Leaman (New York: Routledge, 2001), pp. 288-289. 4. Dennis Klass, “John Bowlby’s Model of Grief and the Problem of Identification,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 1 (1987-1988): 13-32. Si veda anche William M. Lamers, Jr., “Can the Psychology of Loss,” in Grief and the Healing Arts: Creativity as Therapy, ed. Sandra L. Bertman (Amityville, N.Y.: Baywood, 1998), pp. 1-18. 5. Paul J. Robinson e Stephen Fleming, “Differentiating Grief and Depression,” Hospice Journal 5 no. 1 (1989): 77-88; e “Depressotypic Cognitive Patterns in Major Depression and Conjugal Bereavement,” Omega: Journal of Death and Dying 25, no. 4 (1992): 291-305. 6. Arthur S. Berger, “Quote the Raven: Bereavement and the Paranormal,” Omega: Journal of Death and- Dying 31, no. 1 (1995): 1-10; e, nello stesso numero, Torill Christine Lindström, “Experiencing the Presence of the Dead: Discrepancies in ‘The Sensing Experience’ and Their Psychological Concomitants,” pp. 11-21. Si veda anche, di Louis E. Lagrand, After-Death Communication: Final Farewells (New York: Llewellyn, 1997); e Messages and Miracles: Extraordinary Experiences of the Bereaved (New York: Llewellyn, 1999). 7. Si veda Thomas A. Attig, How We Grieve: Relearning the World (New York: Oxford University Press, 1996); and Jeffrey Kauffman, a cura di, Loss of the Assumptive World: A Theory of Traumatic Loss (New York: Brunner-Routledge, 2002). 8. Si veda, ad esempio, Paul C. Rosenblatt, “Grief: The Social Context of Private Feelings,” Journal of Social Issues 44, no. 3 (1988): 67-78. 9. Mary Caroline Crawford, Social Life in Old New England (Boston: Little, Brown, 1914), p. 461. 10. Terry Tafoya, “The Widow as Butterfly: Treatment of Grief/Depression Among the Sahaptin,” articolo inedito.

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11. Si veda Vernon Reynolds e Ralph Tanner, The Social Ecology of Religion (New York: Oxford University Press, 1995), p. 214. 12. Philippe Ariès, “The Reversal of Death: Changes in Attitudes Toward Death in Western Societies,” in Death in America, ed. David E. Stannard (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1975), pp. 134-158. 13. Stephen J. Fleming e Paul J. Robinson, “The Application of Cognitive Therapy to the Bereaved,” in The Challenge of Cognitive Therapy: Applications to Nontraditional Populations, ed. T. M. Vallis, J. L. Howes, e P C. Miller (New York: Plenum Press, 1991), pp. 135-158. Si veda anche Ruth Malkinson, “Cognitive-Behavioral Therapy of Grief: A Review and Application,” Research On Social Work Practice 11, no. 6 (2001): 671-698. 14. Si veda Nancy Hogan, Janice M. Morse, e Maritza Cerdas Tasón, “Toward an Experiential Theory of Bereavement,” Omega: Journal of Death and Dying 33, no. 1 (1996): 43-65; Nancy S. Hogan, Daryl B. Greenfield, e Lee A. Schmidt, “Development and Validation of the Hogan Grief Reaction Checklist,” Death Studies 25, no. 1 (2001): 1-32; e Nancy S. Hogan e Lee A. Schmidt, “Testing the Grief to Personal Growth Model Using Structural Equation Modeling,” Death Studies 26, no. 8 (2002): 615-634. 15. Ibid. 16. Si veda Liam Hyland e Janice M. Morse, “Orchestrating Comfort: The Role of Funeral Directors,” Death Studies 19, no. 5 (1995): 453-474. 17. Sandra L. Bertman, Helen K. Sumpter, and Harry L. Green, “Bereavement and Grief,” in Introduction to Clinical Medicine, ed. Harry L. Green (Philadelphia: B. C. Decker, 1991), p. 682. 18. Si veda Hettie J. E. M. Janssen, Marian C. J. Cuisinier, e Kees A. L. Hoogduin, “A Critical Review of the Concept of Pathological Grief Following Pregnancy Loss,” Omega: Journal of Death and Dying 33, no. 1. (1996): 21-42; e Beverly Raphael e Christine Minkov, “Abnormal Grief,” Current Opinion in Psychiatry 12, no. 1 (1999): 99-102. 19. Sarah Brabant, “Old Pain or New Pain: A Social Psychological Approach to Recurrent Grief,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 4 (1989-1990): 273-279. 20. Ira O. Glick, Robert S. Weiss, e Colin Murray Parkes, The First Year of Bereavement (New York: Wiley, 1974), p. viii; si veda anche Colin Murray Parkes e Robert S. Weiss, Recovery from Bereavement (New York: Basic Books, 1983); e Robert S. Weiss, “Loss and Recovery,” Journal of Social Issues 44, no. 3 (1988): 37-52. 21. Therese A. Rando, The Treatment of Complicated Mourning (Champaign, Ill.: Research Press, 1993). Si veda anche Louis A. Gamino, Kenneth W. Sewell, e Larry W. Easterling, “Scott & White Grief Study: An Empirical Test of Predictors of Intensified Mourning,” Death Studies 22 (1998): 333-355; e, degli stessi autori, “Scott and White Grief Study-Phase 2: Toward an Adaptive Model of Grief,” Death Studies 24 (2000): 633-660. 22. Si veda Kjell Kallenberg e Björn Söderfeldt, “Three Years Later: Grief, View of Life, and a Personal Crisis After Death of a Family Member,” Journal of Palliative Care 8, no. 4 (1992): 13-19; e Hans Stifoss-Hanssen e Kjell Kallenberg, Existential Questions and Answers: Research Frontlines and Challenges (Stockholm: Swedish Council for Planning and Coordination of Research, 1996), p. 54. 23. Therese A. Rando, “The Increasing Prevalence of Complicated Mourning: The Onslaught Is Just Beginning,” Omega: Journal of Death and Dying 26, no. 1 (1992-1993): 43-59. 24. Holly G. Prigerson e Selby C. Jacobs, “Traumatic Grief as a Distinct Disorder: A Rationale, Consensus Criteria, and a Preliminary Empirical Test,” in Handbook of Bereavement Research: Consequences, Coping and Care, ed. Margaret S. Stroebe, Robert O. Hansson, Wolfgang Stroebe, e Henk Schut (Washington, D.C.: American Psychological Association, 2001), pp. 613-637. Si veda anche Holly G. Prigerson e altri, “Consensus Criteria

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for Traumatic Grief: A Preliminary Empirical Test,” British Journal of Psychiatry 174 (1999): 67-73. 25. Prigerson e Jacob, “Traumatic Grief as a Distinct Disorder,” pp. 624-625. 26. Si veda Brian P. Enright e Samuel J. Marwit, “Reliability of Diagnosing Complicated Grief: A Closer Look,” Journal of Clinical Psychology 58, no. 7 (2002): 747-757; Karni Ginzburg, Yael Geron, e Zahava Solomon, “Patterns of Complicated Grief Among Bereaved Parents,” Omega: Journal of Death and Dying 45, no. 2 (2002): 119-132; Margaret Stroebe, Henk Schut, e Catrin Finkenauez; “The Traumatization of Grief? A Conceptual Framework for Understanding the Trauma-Bereavement Interface,” Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences 38, no. 3-4 (2001): 185-201; e Margaret Stroebe e altri, “On the Classification and Diagnosis of Pathological Grief,” Clinical Psychology Review 20, no. 1 (2000): 57-75. 27. Citato in Jerry E. Bishop, “Secrets of the Heart: Can It Be ‘Broken’?” Wall Street Journal, February 14, 1994, pp. B1, 85. 28. Margaret S. Stroebe, “The Broken Heart Phenomenon: An Examination of the Mortality of Bereavement,” Journal of Community & Applied Social Psychology 4 (1994): 47-61. 29. W. D. Rees e S. G. Lutkins, “The Mortality of Bereavement,” British Medical Journal 4 (1967): 13 -16. 30. Arthur C. Carr e Bernard Schoenberg, “Object-Loss and Somatic Symptom Formation,” in Loss and Grief: Psychological Management in Medical Practice, a cura di Bernard Schoenberg e altri (New York: Columbia University Press, 1970), pp. 36-47. 31. Si veda Nicholas R. Hall e Allan L. Goldstein, “Thinking Well: The Chemical Links Between Emotions and Health,” The Sciences 26, no. 2 (March/April 1986): 34-40; Jerome F. Fredrick, “Grief as a Disease Process,” Omega: Journal of Death and Dying 7, no. 4 (1976-1977): 297-305; e Edgar N. Jackson, “The Physiology of Crisis,” nel suo Coping with the Crises of Your Life (New York: Hawthorne Books, 1974), pp. 48-55. 32. Per una rassegna di questi studi si veda Colin Murray Parkes, “Research: Bereavement,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 4 (1987-1988): 365-377. 33. Hans Selye, The Stress of Life, rev. ed. (New York: McGraw-Hill, 1976). 34. George L. Engel, “Sudden and Rapid Death During Psychological Stress,” Annals of Internal Medicine 74 (1971); si veda anche, di Engel, “Emotional Stress and Sudden Death,” Psychology Today, November 1977. 35. Colin Murray Parkes, “The Broken Heart,” nel suo Bereavement: Studies Of Grief in Adult Life, 3rd ed. (Philadelphia: Routledge, 2001), pp. 14-30; citazione p. 17. 36. Si veda, ad esempio, John S. Ogrodniczuk e altri, “Social Support as a Predictor of Response to Group Therapy for Complicated Grief,” Psychiatry 65, no. 4 (2002): 346-357. 37. Si veda Robert M. Sapolsky, “The Solace of Patterns,” The Sciences 34, no. 6 (November-December 1994): 14-16. 38. Sigmund Freud, “Mourning and Melancholia,” Collected Papers, vol. 4 (New York: Basic Books, 1959), pp. 152-170. Pubblicato la prima volta nel 1917. Si veda anche Lorraine Siggins, “Mourning: A Critical Survey of the Literature,” International Journal of Psycho-Analysis 47 (1966): 14-25. 39. Therese A. Rando, “Grief and Mourning: Accommodating to Loss,” in Dying: Facing the Facts, 3rd ed., ed. Hannelore Wass e Robert A. Neimeyer (Washington, D.C.: Taylor & Francis, 1995), pp. 211-241. 40. Si veda l’opera in tre volumi di John Bowlby, Attachment and boss (New York: Basic Books): vol. 1, Attachment (1969); vol. 2, Separation: Anxiety and Anger (1973); e vol. 3, Loss: Sadness and Depression (1982); and The Making and Breaking of Affectional Bonds (London: Tavistock, 1979). Si veda anche Dale Vincent Hardt, “An Investigation of the

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Stages of Bereavement,” Omega: Journal of Death and Dying 9, no. 3 (1978-1979): 279-285; e Klass, ‘John Bowlby’s Model of Grief and the Problem of Identification.” 41. L’attaccamente sviluppato dagli animali può risultare doloroso quando gli eventi minacciano e rompono questi legami; si veda Ute Carson, “Do Animals Grieve?” Death Studies 13, no. 1 (1989): 49-62. 42. Erich Lindemann, “The Symptomatology and Management of Acute Grief,” American Journal of Psychiatry 101 (1944): 141-148. 43. Colin Murray Parkes, “Research: Bereavement.” 44. Si veda Dennis Klass, “Developing a Cross-Cultural Model of Grief The State of the Field,” Omega: Journal of Death and Dyìng 39, no. 3 (1999): 153-178. Si veda anche Dennis Klass e Robert Goss, “Politics, Religions, and Grief The Cases of American Spiritualism and the Deuteronomic Reform in Israel,” Death Studies 26, no. 9 (2002): 709729. 45. Margaret Stroebe, “Coping with Bereavement: A Review of the Grief Work Hypothesis,” Omega: Journal of Death and Dying 26, no. 1 (1992-1993): 19-42. Si veda anche George A. Bonanno, a cura di, “New Directions in Bereavement Research and Theory (special issue),” American Behavioral Scientist 44, no. 3 (2001); Torill Christine Lindstrom, “`It Ain’t Necessarily So’: Challenging Mainstream Thinking About Bereavement,” Family & Community Health 25, no. 1 (2002): 11-21; R. J. Russac, Nina S. Steighner, e Angela I. Canto, “Grief Work Versus Continuing Bonds: A Call for Paradigm Integration or Replacement?” Death Studies 26, no. 6 (2002): 463-478; e Margaret Stroebe e altri, “Does Disclosure of Emotions Facilitate Recovery from Bereavement? Evidence from Two Prospective Studies,” Journal of Consulting and Clinical Psychology 70, no. 1 (2002): 169-178. 46. Comunicazione personale. 47. J. William Worden, Grief, Counseling and Grief Therapy: A Handbook for the Mental Health Practitioner; 3rd ed. (New York: Springer, 2002), in particolare pp. 27-57. 48. Therese A. Rando, Treatment of Complicated Mourning (Champaign, Ill.: Research Press, 1993). 49. Phyllis R. Silverman, “Social Support and Mutual Help for the Bereaved,” in Dying, Death, and Bereavement: A Challenge for Living, 2nd ed., ed. Inge Corless, Barbara B. Germino, e Mary A. Pittman (New York: Springer, 2003), pp. 247-265. 50. Margaret Stroebe, Mary M. Gergen, Kenneth J. Gergen, e Wolfgang Stroebe, “Broken Hearts or Broken Bonds: Love and Death in Historical Perspective,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, ed. Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 231-241. 51. Si veda Dennis Klass e Robert Goss, “Spiritual Bonds to the Dead in Cross-Cultural and Historical Perspective: Comparative Religion and Modern Grief,” Death Studies 23, no. 6 (1999): 547-567. 52. Sandra L. Bertman, “Communicating with the Dead: An Ongoing Experience as Expressed in Art, Literature, and Song,” in Between Life and Death, a cura di Robert J. Kastenbaum (New York: Springer, 1979), pp. 124-155. 53. Alexandra Hepburn, “What Do We Really Know About Grief Counseling? Exploring the Contemporary Challenges of Multiculturalism, Postmodernism, and Imaginal Psychology,” The Forum: Newsletter of the Association for Death Education and Counseling 20, no. 6 (November-December 1994): 7-8, 13-14, 18. Si veda anche Simon Shimson Rubin, “Psychodynamic Therapy with the Bereaved: Listening for Conflict, Relationship, and Transference,” Omega: Journal of Death and Dying 39, no. 2 (1999): 83-98. 54. Dennis Klass, “Solace and Immortality: Bereaved Parents’ Continuing Bond with Their Children,” in The Path Ahead, ed. DeSpelder e Strickland, pp. 246-259.

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55. Dennis Klass, “The Inner Representation of the Dead Child and the Worldviews of Bereaved Parents,” Omega: Journal of Death and Dying 26, no. 4 (1992-1993): 255-272. 56. Phyllis R. Silverman, Steven Nickman, e J. William Worden, “Detachment Revisited: The Child’s Reconstruction of a Dead Parent,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 260-270. 57. David E. Balk e Nancy S. Hogan, “Religion, Spirituality, and Bereaved Adolescents,” in Loss, Threat to Life, and Bereavement: The Child’s Perspective, a cura di David W. Adams e Ellie J. Deveau (Amityville, N.Y.: Baywood, in stampa). Si veda anche Nancy Hogan e Lydia DeSantis, “Adolescent Sibling Bereavement: An Ongoing Attachment,” Qualitative Health Research 2 (1992): 159-177. 58. Rando, Treatment of Complicated Mourning, p. 53. 59. Lyn H. Lofland, “Loss and Human Connection: An Exploration into the Nature of the Social Bond,” in Personality, Roles, and Social Behavior, ed. William Ickes e Eric S. Knowles (New York: Springer-Verlag, 1982), pp. 219-242. Si veda anche Kathy Charmaz, “Grief and Loss of Self,” in The Unknown Country: Death in Australia, Britain, and the USA, a cura di Kathy Charmaz, Glennys Howarth, e Allan Kellehear (London: Macmillan, 1997), pp. 229-241. 60. John D. Kelly, “Grief: Re-forming Life’s Story,” in The Path Ahead, ed. DeSpelder e Strickland, pp. 242-245. 61. Carolyn Ellis, “‘There Are Survivors’: Telling a Story of Sudden Death,” Sociological Quarterly 34, no. 4 (1993): 711-730. 62. Mary Anne Sedney, John E. Baker, e Esther Gross, “‘The Story’ of a Death: Therapeutic Considerations with Bereaved Families,” Journal of Marital and Family Therapy 20, no. 3 (1994): 287-296. Si veda anche Jack J. Bauer and George A. Bonanno, “Continuity and Discontinuity: Bridging One’s Past and Present in Stories of Conjugal Bereavement,” Narrative Inquiry 11, no. 1 (2001): 123-158; Kathleen R. Gilbert, “Taking a Narrative Approach to Grief Research: Finding Meaning in Stories,” Death Studies 26, no. 3 (2002): 223-239; e Brian Schiff, Chaim Noy, e Bertram J. Cohler, “Collected Stories in the Life Narratives of Holocaust Survivors,” Narrative Inquiry 11, no. 1 (2001): 159-193. 63. Tony Walter, “A New Model of Grief Bereavement and Biography,” Mortality 1, no. 1 (1996): 7-25; si veda anche James A. Thorson, “Qualitative Thanatology,” Mortality 1, no. 2 (1996): 177-190. 64. Fleming e Robinson, “Application of Cognitive Therapy to the Bereaved.” Si veda anche George A. Bonanno, Anthony Papa, e Kathleen O’Neill “Loss and Human Resilience,” Applied & Preventive Psychology 10, no. 3 (2001): 193-206; Louis A. Gamino, Nancy S. Hogan, e Kenneth W. Sewell, “Feeling the Absence: A Content Analysis from the Scott and White Grief Study,” Death Studies 26, no. 10 (2002): 793-813; Judith A. Murray, “Loss as a Universal Concept: A Review of the Literature to Identify Common Aspects of Loss in Diverse Situations,” Journal of Loss and Trauma 6, no. 3 (2001): 219-241; Robert A. Neimeyer, “Reauthoring Life Narratives: Grief Therapy as Meaning Reconstruction,” Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences 38, nos. 3-4 (2001): 171-183; e Robert A. Neimeyer, Holly G. Prigerson, e Betty Davies, “Mourning and Meaning,” American Behavioral Scientist 46, no. 2 (2002): 235-251. 65. Paul C. Rosenblatt, Parent Grief Narratives of Loss and Relationship (Philadelphia: Brunner/Mazel, 2000), p. 11. 66. Nancy L. Moos, “An Integrative Model of Grief,” Death Studies 19, no. 4 (1995): 337-364. 67. David W. Kissane e Sidney Bloch, “Family Grief,” British Journal of Psychiatry 164 (1994): 728-740. 68. Terry L. Martin e Kenneth J. Doka, Men Don’t Cry... Women Do: Transcending ten-

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der Stereotypes of Grief (Philadelphia: Brunner/Mazel, 2000); si veda anche, di Martin e Doka, “Revisiting Masculine Grief,” in Living with Grief. Who We Are, How We Grieve, ed. Kenneth J. Doka e Joyce D. Davidson (Washington, D.C.: Hospice Foundation of America, 1998), pp. 133-142; e Judith M. Stillion e Susan B. Noviello, “Living and Dying in Different Worlds: Gender Differences in Violent Death and Grief,” Illness, Crisis & Loss 9, no. 3 (2001): 247-259. 69. Margaret Stroebe e Henk Schut, “The Dual Process Model of Coping with Bereavement” (lavoro presentato al Meeting of International Work Group on Death, Dying, and Bereavement, Oxford England, June 1995). 70. Colin Murray Parkes, “Bereavement in Adult Life,” British Medical Journal 316 (1998): 856-859; e “Facing Loss,” British Medical Journal 316 (1998): 1521-1524. Si veda anche, di Parkes, “Bereavement Dissected: A Reexamination of the Basic Components Influencing the Reaction to Loss,” Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences 38, nos. 34 (2001): 150-156; e “Grief Lessons from the Past, Visions for the Future,” Death Studies 26, no. 5 (2002): 367-385. 71. Edgar N. Jackson, Understanding Grief: Its Roots, Dynamics, and Treatment (Nashville: Abingdon Press, 1957), p. 27; si veda anche, di Jackson, The Many Faces of Grief (Nashville: Abingdon Press, 1977). In un’intervista agli autori, il dottor Jackson ha descritto come la morte del suo giovane figlio gli ha dato la spinta per i suoi studi sul dolore. In effetti, i suoi studi sul dolore sono in parte un meccanismo per affrontare, capire e prendere coscienza della perdita. Questo è un esempio di come il sistema individuale di valori di chi rimane determina i modi di affrontare una perdita. 72. Karen S. Pfost, Michael J. Stevens, e Anne B. Wessels, “Relationship of Purpose in Life to Grief Experiences in Response to the Death of a Significant Other,” Death Studies 13, no. 4 (1989): 371-378. 73. Si veda Paul C. Rosenblatt, “Grief The Social Context of Private Feelings,” Journal of Social Issues 44, no. 3 (1988): 67-78. Si veda anche Richard A. Kalish e David K. Reynolds, Death and Ethnicity: A Psychocultural Study (Los Angeles: Ethel Percy Andrus Gerontology Center, University of Southern California, 1976). 74. Unni Wikan, “Bereavement and Loss in Two Muslim Communities: Egypt and Bali compared,” Social Science & Medicine 27, no. 5 (1988): 451-460. 75. Fred Sklar e Shirley F Hartley, “Close Friends as Survivors: Bereavement Patterns in a ‘Hidden’ Population,” Omega: Journal of Death and Dying 21, no. 2 (1990): 103-112. 76. Si veda la voce “Grief, Vicarious,” di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, in Encyclopedia of Death and Dying, ed. Howarth e Leaman, pp. 225-226. 77. Larry A. Bugen, “Human Grief A Model for Prediction and Intervention,” American Journal of Orthopsychiatry 47, no. 2 (1977): 196-206. Si veda anche Sherry L. Chenell e Shirley A. Murphy, “Beliefs of Preventability of Death Among the Disaster Bereaved,” Western Journal of Nursing Research 14, no. 5 (1992): 516-594; e Charles A. Guarnaccia, Bert Hayslip, e Lisa Pinkenburg Landry, “Influence of Perceived Preventability of the Death and Emotional Closeness to the Deceased: A Test of Bugen’s Model,” Omega: Journal of Death and Dying 39, no. 4 (1999): 261-276. 78. Robert J. Smith, John H. Lingle, e Timothy C. Brock, “Reactions to Death as a Function of Perceived Similarity to the Deceased,” Omega: Journal of Death and Dying 9, no. 2 (1378-1979): 125-138. 79. Si veda Robert L. Fulton, “Death, Grief, and Social Recuperation,” Omega: Journal of Death and Dying 1, no. 1 (1970): 23-28; e Bruce J. Horacek, “A Heuristic Model of Grieving After High-Grief Death,” Death Studies 19, no. 1 (1995): 21-31. Si veda anche Ruth Malkinson, Simon Shimson Rubin, e Eliezer Witzsurn, eds., Traumatic and Nontraumatic Loss and Bereavement: Clinical Theory and Practice (Madison, Conn.: Psychosocial Press, 2000).

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80. Richard M. Leliaert, “Spiritual Side of ‘Good Grief’: What Happened to Holy Saturday?” Death Studies 13, no, 2 (1989): 103-117. 81. Arlene Sheskin e Samuel E. Wallace, “Differing Bereavements: Suicide, Natural, and Accidental Death,” Omega: Journal of Death and Dying 7, no. 3 (1976): 229-242. Oltre ad esserci differenti modalità di morte, alcune perdite sono caratterizzate come “ambigue” perché sono in qualche modo non complete o incerte. Ne sono esempio perdite in cui il corpo è presente ma non la mente (come l’Alzheimer, malattie mentali croniche, traumi cerebrali, dipendenze), così come quelle in cui il corpo è assente ma la persona è psicologicamente presente nelle vite dei membri della famiglia e degli amici (come i miliari in missione, i bambini scomparsi, gli ostaggi). Per approfondire l’argomento si veda Pauline Boss, Ambiguous Loss: Learning to Live with Unresolved Grief (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1999). 82. Therese A. Rando, Loss and Anticipatory Grief (Lexington, Mass.: Lexington Books, 1986), p. 24. 83. Si veda Bernard Schoenberg, Arthur C. Carr, Austin H. Kutscher, David Peretz, e Ivan K. Goldberg, a cura di, Anticipatory Grief (New York: Columbia University Press, 1974), p. 4. 84. Sylvia Sherwood, Robert Kastenbaurn, John N. Morris, e Susan M. Wright, “The First Months of Bereavement,” in The Hospice Experiment, a cura di Vincent Mor, David S. Greer, e Robert Kastenbaum (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1988), p. 150. 85. Yvonne K. Ameche, “A Story of Loss and Survivorship,” Death Studies 14, no. 2 (1990): 185-198. 86. Lea Barinbaum, “Death of Young Sons and Husbands” Omega: Journal of Death and Dying 7, no. 2 (1976): 171-175. 87. Si veda Marcia Williams e Bette Frangesch, “Developing Strategies to Assist Sudden-Death Families: A 10-Year Perspective,” Death Studies 19, no. 5 (1995): 475-487; e Alan E. Stewart, “Complicated Bereavement and Posttraumatic Stress Disorder Following Fatal Car Crashes: Recommendations for Death Notification Practice,” Death Studies 23 (1999): 289-321. 88. Robert G. Dunn e Donna Morrish-Vidners, “The Psychological and Social Experience of Suicide Survivors,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 3 (1987-1988): 175-215; David E. Ness e Cynthia R. Pfeffer, “Sequelae of Bereavemen t Resulting from Suicide,” American Journal of Psychiatry 147 (1990): 279-285; Lillian M. Range e Nathan M. Niss, “Long-Term Bereavement from Suicide, Homicide, Accidents, and Natural Deaths,” Death Studies 14, no. 5 (1990): 423-433; e Jan Van der Wal, “The Aftermath of Suicide: A Review of Empirical Evidence,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 2 (1989-1990): 149-171. 89. Carol J. Van Dongen, “Social Context of Postsuicide Bereavement,” Death Studies 17, no. 2 (1993): 125-141. 90. Si veda Charles P. McDowell, Joseph M. Rothberg, e Ronald J. Koshes, “Witnessed Suicides,” Suicide and Life-Threatening Behavior 24, no. 3 (1994): 213-223. 91. Francoise M. Reynolds e Peter Cimbolic, “Attitudes Toward Suicide Survivors as a Function of Survivors’ Relationship to the Victim,” Omega: Journal of Death and Dying 19, no. 2 (1988-1989): 125-133. 92. Gordon Thornton, Katherine D. Whittemore, e Donald U. Robertson, “Evaluation of People Bereaved by Suicide,” Death Studies 13 (1989): 119-126. 93. Lula M. Redmond, Surviving When Someone You Love Was Murdered: A Professional’s Guide to Group Therapy for Families and Friends of Murder Victims (Clearwater, Fla.: Psychological Consultation and Education Services, 1989), pp. 38-39, 46-49, 52-53. 94. James D. Sewell, “The Stress of Homicide Investigations,” Death Studies 18, no. 6 (1994): 565-582.

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95. Si veda June S. Ghurch, “The Buffalo Creek Disaster: Extent and Range of Emotional and Behavioral Problems,” Omega: Journal of Death and Dying 5, no. 1 (1974): 61-63. 96. Terrence Des Pres, The Survivor (New York: Oxford University Press, 1976; Pocket Books, 1977); e Lawrence L. Langer, Versions of Survival: The Holocaust and the Human Spirit (Albany: State University of New York Press, 1982). Si veda anche Robert Jay Lifton, Death in Life: Survivors of Hiroshima (New York: Simon & Schuster, 1967). 97. Si veda la voce: survivors’ grief, di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, in Encyclopedia of Death and Dying, ed. Howarth and Leaman, pp. 221-223. 98. Terry Tafoya, “Coyote, Chaos, and Crisis: Counseling the Native American Male,” articolo inedito. Si veda anche David E. Stannard, American Holocaust: Columbus and the Conquest of the New World (New York: Oxford University Press, 1992). 99. Si veda J. William Worden, “Grieving a Loss from AIDS,” Hospice Journal 7 (1991): 143-150. 100. Ruben Schindler, “Mourning and Bereavement Among Jewish Religious Families: A Time for Reflection and Recovery,” Omega: Journal of Death and Dying 33, no. 2 (1996): 121-129. 101. Kenneth J. Doka, “Disenfranchised Grief,” in The Path Ahead, ed. DeSpelder e Strickland, pp. 271-275; e, curato da Doka, Disenfranchised Grief: Recognizing Hidden Sorrow (Lexington, Mass.: Lexington, 1989). Si veda anche Charles A. Corr, “Enhancing the Concept of Disenfranchised Grief,” Omega: Journal of Death and Dying 38, no. 1 (1998): 1-20. 102. Darlene A. Kloeppel e Sheila Hollins, “Double Handicap: Mental Retardation and Death in the Family,” Death Studies 13, no. 1 (1989): 31-38. 103. Kemi Adamolekun, “In-Laws Behavior as a Social Factor in Subsequent Temporary Upsurges of Grief in Western Nigeria,” Omega: Journal of Death and Dying 31, no. 1 (1995): 23-34. Si veda anche M. A. Sossou, “Widowhood Practices in West Africa: The Silent Victims,” International Journal of Social Welfare 11, no. 3 (2002): 201-209. 104. Glenn M. Vernon, Sociology of Death: An Analysis of Death-Related Behavior (New York: Ronald Press, 1970), p. 159. 105. Mary Kawena Pukui, E. W. Haertig, e Catherine A. Lee, Nana I Ke Kumu (Look to the Source), vol. 1 (Honolulu: Hui Hanai; Queen Lili’uokalani Children’s Center, 1972), pp. 135-136, 141. 106. Nissan Rubin, “Social Networks and Mourning: A Comparative Approach,” Omega: Journal of Death and Dying 21, no. 2 (1990): 113-127. Si veda anche Jason Castle, “Grief Rituals: Aspects That Facilitate Adjustment to Bereavement,” Journal of Loss & Trauma 8, no. 1 (2003): 41-71. 107. Per maggiori informazioni, contattare T.A.P.S., 2001 S Street NW, Suite 300, Washington, DC 20009; (800) 959-8277. 108. Stephen J. Fleming e Leslie Balmer, “Bereaved Families of Ontario: A MutualHelp Model for Families Experiencing Death,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 281-288. 109. Giorgio Di Mola, Marcello Tamburini, e Claude Fusco, “The Role of Volunteers in Alleviating Grief,” Journal of Palliative Care 6, no. 1 (1990): 6-10. 110. Onno van der Hart, Coping with Loss: The Therapeutic Use of Leave-Taking Ritual (New York: Irvington, 1988); e, sempre di van der Hart, “An Imaginary Leave-Taking Ritual in Mourning Therapy: A Brief Communication,” The International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis 36, no. 2 (1988): 63-69. 111. Nancy C. Reeves e Frederic J. Boersma, “The Therapeutic Use of Ritual in Maladaptive Grieving,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 4 (1989-1990): 281-291. 112. Vamik Volkan e C. R. Showalter, “Known Object Loss, Disturbance in Reality Testing, and ‘Re-grief’ Work as a Method of Brief Psychotherapy,” Psychiatric Quarterly 42

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(1968): 358-374; e Vamik Volkan, “A Study of a Patient’s ‘Re-grief’ Work,” Psychiatric Quarterly 45 (1971): 255-273. 113. John Schneider, Stress, Loss, and Grief: Understanding Their Origins and Growth Potential (Baltimore: University Park Press, 1984), pp. 66-76. 114. Lawrence G. Calhoun e Richard G. Tedeschi, “Positive Aspects of Critical Life Problems: Recollections of Grief,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 4 (19891990): 265-272. 115. Georges Bataille, “Sacrifice, the Festival, and the Principles of the Sacred World,” Theory of Religion, trad. Robert Hurley (New York: Zone Books, 1992), p. 48. 116. Julie Fritsch con Sherokee Ilse, The Anguish of Loss (Maple Plain, Minn.: Wintergreen Press, 1988).

CAPITOLO 9 1. Adah Maurer, “Maturation of Concepts of Death,” British Journal of Medicine and Psychology 39 (1966): 35-41. 2. Mark W. Speece, “Very Young Children’s Experiences with and Reactions to Death” (Tesi di Master, Wayne State University, 1983). 3. Sandor B. Brent, “Puns, Metaphors, and Misunderstandings in a Two-Year Olds Conception of Death,” Omega: Journal of Death and Dying 8, no. 4 (1977-1978): 285-293. Il figlio, ora adulto, non ha ricordi di questa esperienza della morte. Il dott. Brent ritiene che questo indichi un evento superato con successo. (Comunicazione personale). 4. William G. Bartholome, “Care of the Dying Child: The Demands of Ethics,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, ed. Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 133-143. Si veda anche Judith M. Stillion e Danai Papadatou, “Suffer the Children: An Examination of Psychosocial Issues in Children and Adolescents with Terminal Illness,” American Behavioral Scientist 46, no. 2 (2002): 299-315. 5. Myra Bluebond-Langner, The Private Worlds of Lying Children (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1978). 6. Thesi Bergmann e Anna Freud, Children in the Hospital (New York: International Universities Press, 1965), pp. 27-28. 7. Donna Juenker, “Child’s Perception of His Illness,” in Nursing Fare of the Child with Long-Term Illness, 2nd ed., ed. Shirley Steele (New York: Appleton-Century Crofts, 1977), p. 177. Si veda anche Jo-Eileen Gyulay, The Dying Child (New York: McGraw-Hill, 1978). 8. Marilyn Hockenberry-Eaton, Virginia Kemp, e Coleen Dilorio, “Cancer Stressors and Protective Factors: Predictors of Stress Experienced During Treatment for Childhood Cancer,” Research in Nursing and Health 17 (1994): 351-361. 9. Si veda Maurice Levy e altri, “Home-Based Palliative Care for Children Part 1: The Institution of a Program”, Journal of Palliative Care 6, no. 1 (1990): 11-15; Ciaran M. Duffy e altri, “Home-Based Palliative Care for Children-Part 2: The Benefits of an Established Program,” Journal of Palliative Care 6, no. 2 (1990): 8-14; D. F. Dufour, “Home or Hospital Care for the Child with End-Stage Cancer: Effects on the Family,” Issues in Comprehensive Pediatric Nursing 12 (1989): 371-883; Ida M. Martinson, “Impact of Childhood Cancer on Families at Home,” in Key Aspects of Caring far the Chronically 1ll: Hospital and Home, ed. Sandra G. Funk e altri (New York: Springer, 1993), pp. 312-319; Ida M. Martinson, ed., Home Care for the Dying Child: Professional and Family Perspectives (Norwalk, Conn.: Appleton-Century-Crofts, 1976); Ida M. Martinson e altri, “Home Care for Children Dying of Cancer,” Pediatrics 62 (1978): 100-113; e D. Gay Moldow, Ida M. Martin-

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son, e Arthur Kohrman, Home Care for Seriously Ill Children: A Manual for Parents (Alexandria; Va.: Children’s Hospice of Virginia, 1984). 10. “Children’s Hospice: An Omega Interview [by Robert Kastenbaum] with Ida M. Martinson,” Omega: Journal of Death and Dying 31, no. 4 (1995): 253-261. 11. Si veda John E. Baker, Mary Anne Sedney, e Esther Gross, “Psychological Tasks for Bereaved Children,” American Journal of Orthopsychiatry 62, no. 1 (1992): 105-116; Cathy Krown Buirski e Peter Buirski, “The Therapeutic Mobilization of Mourning in a Young Child,” Bulletin of the Menninger Clinic 58, no. 3 (1994): 339-354; e Stephen Fleming, “Children’s Grief: Individual and Family Dynamics,” in Hospice Approaches to Care, ed. Charles Corr e Donna Corr (New York: Springer, 1985), pp. 197-218. 12. Si veda Linda Goldman, Breaking the Silence: A Guide to Helping Children with Complicated Grief- Suicide, Homicide, AIDS, Violence, and Abuse, 2nd ed. (New York: Brunner Routledge, 2001); e, sempre della Goldman, Life & Loss, 2nd ed. (Philadelphia: Taylor & Francis, 1999). 13. Ute Carson, “A Child Loses a Pet,” Death Education 3 (1980): 399-404. 14. Jane Brody, “When Your Pet Dies,” Honolulu Star-Bulletin & Advertiser, December 8, 1985. 15. Si veda John Archer e Gillian Winchester, “Bereavement Following the Death of a Pet,” British Journal of Psychology 85 (1994): 259-271; Gerald H. Gosse e Michael J. Barnes, “Human Grief Resulting from the Death of a Pet,” Anthrozoös 7, no. 2 (1994): 103112; e Morris A. Wessel, “Loss of a Pet,” in A Challenge for Living: Dying, Death, and Bereavement, 2nd ed., a cura di Inge B. Corless, Barbara B. Germino, e Mary A. Pittman (New York: Springer, 2003), pp. 303-305. 16. Allan Kellehear e Jan Fook, “Lassie Come Home: A Study of ‘Lost Pet’ Notices,” Omega: Journal of Death and Dying 34, no. 3 (1996-1997): 191-202; citazione p. 192. 17. Si veda William J. Kay, a cura di, Pet Loss and Human Bereavement (Ames: Iowa State University Press, 1995); Kelly A. McCutcheon e Stephen J. Fleming, “Grief Resulting from Euthanasia and Natural Death of Companion Animals,” Omega: Journal of Death and Dying 44, no. 2 (2001): 169-188; Lynn A. Planchon, Donald I. Templer, Shelley Stokes, e Jacqueline Keller, “Death of a Companion Cat or Dog and Human Bereavement: Psychosocial Variables,” Society & Animals 10, no. 1 (2002): 93-105; e Wallace Sife, The Loss of a Pet, rev. ed. (New York: Howell, 1998). 18. Avery D. Weisman, “Bereavement and Companion Animals,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 276-280. 19. Studi classici tra i quali Erna Furman, A Child’s Parent Dies: Studies in Childhood Bereavement (New Haven, Conn.: Yale University Press, 1974); e Robert A. Furman, “The Child’s Reaction to Death in the Family,” in Loss and Grief Psychological Management in Medical Practice, ed. Bernard Schoenberg et al. (New York: Columbia University Press, 1970), pp. 70-86. Si veda anche Min-Tao Hsu, David L. Kahn, e Chun-Man Huang, “No More the Same: The Lives of Adolescents in Taiwan Who Have Lost Fathers,” Family & Community Health 25, no. 1 (2002): 43-56; Heather L. Servaty e Bert Hayslip, “Adjustment to Loss Among Adolescents,” Omega: Journal of Death and Dying 43, no. 4 (2001): 311-330; e la voce: death of parents, di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, in Encyclopedia of Death and Dying, ed. Glennys Howarth e Oliver Leaman (New York: Routledge, 2001), pp. 346-347. 20. Phyllis R. Silverman, Steven Nickman, e J. William Worden, “Detachment Revisited: The Child’s Reconstruction of a Dead Parent,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 260-270. Si veda anche Phyllis R. Silverman e J. William Worden, “Children’s Reactions in the Early Months After the Death of a Parent,” American Journal of Orthopsychiatry 62, no. 1 (January 1992): 93-104; e J. William Worden e Phyllis R. Sil-

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verman, “Parental Death and the Adjustment of School-Age Children,” Omega: Journal of Death and Dying 32, no. 2 (1996): 91-102. 21. Al Santoli, “We Never Knew Our Fathers,” Parade (May 27, 1990), pp. 21-22. Sons and Daughters in Touch, c/o Friends of the Vietnam Veterans Memorial, 1350 Connecticut Avenue, N.W., Suite 300, Washington, DC 20036. 22. Si veda Gregg M. Furth, The Secret World of Drawings: Healing Through Art (Boston: Sigo Press, 1988); e Maare E. Tamm e Anna Granqvist, “The Meaning of Death for Children and Adolescents: A Phenomenographic Study of Drawings,” Death Studies 19, no. 3 (1995): 203-222. 23. Barbara Betker McIntyre, “Art Therapy with Bereaved Youth,” Journal of Palliative Care 6, no. 1 (1990): 16-23. 24. Betty Davies, “The Study of Sibling Bereavement: An Historical Perspective,” in Dying, Death, and Bereavement, 2nd ed., a cura di Corless, Germino, e Pittman, pp. 287302. Si veda anche Darlene E. McCown e Betty Davies, “Patterns of Grief in Young Children Following the Death of a Sibling,” Death Studies 19, no. 1 (1995): 41-53. 25. David E. Balk, “Sibling Death, Adolescent Bereavement, and Religion,” Death Studies 15, no. 1 (1991): 1-20. 26. Nancy Hogan e Lydia DeSantis, “Adolescent Sibling Bereavement: An Ongoing Attachment,” Qualitative Health Research 2, no. 2 (1992): 159-177. Si veda anche Nancy S. Hogan e David E. Balk, “Adolescent Reactions to Sibling Death: Perceptions of Mothers, Fathers, and Teenagers,” Nursing Research 39, no. 2 (1990): 103-106; e Nancy S. Hogan e Daryl B. Greenfield, “Adolescent Sibling Bereavement: Symptomatology in a Large Community Sample,” Journal of Adolescent Research 6, no. 1 (1991): 97-112. 27. Nancy S. Hogan e Lydia DeSantis, “Things That Help and Hinder Adolescent Sibling Bereavement,” Western Journal of Nursing Research 16, no. 2 (1994): 132-153. 28. Sono disponibili guide per adulti e bambini su una serie di argomenti. Per informazioni su queste pubblicazioni www.dougy.org. 29. Dana Cable, Laurel Cucchi, Faye Lopez, e Terry Martin, “Camp Jamie,” American Journal of Hospice and Palliative Care 9, no. 5 (1992): 18-21. 30. HUGS Fact Sheet. Per maggiori informazioni contattare HUGS (Help, Understanding, and Group Support for Hawaii’s Seriously Ill Children and Their Families), 3636 Kilauea Avenue, Honolulu, HI 96816; (808) 732-4846, www.hugslove.org. 31. Lori S. Wiener e altri, “National Telephone Support Groups: A New Avenue Toward Psychosocial Support for HIV-Infected Children and Their Families,” Social Work with Groups 16, no. 3 (1993): 55-71. 32. Per un esempio di questo network, si vedano i seguenti articoli pubblicati in Children’s Health Care 31, no. 1 (2002): Haven B. Battles e Lori S. Wiener, “STARBRIGHT World: Effects of an Electronic Network on the Social Environment of Children with Life-Threatening Illnesses” (47-68); Ruth T. Brokstein, Susan O. Cohen, e Gary A. Walco, “STARBRIGHT World and Psychological Adjustment in Children with Cancer: A Clinical Series” (29-45); e Ann Hazzard, Marianne Gelano, Marietta Collins, e Yana Markov, “Effects of STARBRIGHT Worid on Knowledge, Social Support, and Coping in Hospitalized Children with Sickle Cell Disease and Asthma” (69-86). 33. Sunshine Foundation, 1041 Mill Creek Drive, Feasterville, PA 19052, (215) 3964770 or (800) 767-1976, www.sunshinefoundation.org; Starlight Children’s Foundation International, 5900 Wilshire Blvd., Suite 2530, Los Angeles, CA 90036, (323) 634-0080, www.starlight.org. 34. Si veda Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland, “Using Life Experiences as a Way of Helping Children Understand Death,” in Beyond the Innocence of Childhood: Factors Influencing Children’s and Adolescents’ Perceptions and Attitudes Toward Death, ed. David W. Adams e Eleanor J. Deveau (Amityville, N.Y: Baywood, 1995), pp. 45-54.

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35. Si veda Myra Bluebond-Langner, In the Shadow of Illness: Parents and Siblings of the Chronically Ill Child (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1996); e, di Bluebond-Langner, “Worlds of Dying Children and Their Well Siblings,” Death Studies 13, no. 1 (1989): 1-16. Si veda anche Linda & Birenbaum e altri, “The Response of Children to the Dying and Death of a Sibling,” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 3 (19891990): 213-228; John Graham-Pole, Hannelore Wass, Sheila Eyberg, e Luis Chu, “Communicating with Dying Children and Their Siblings: A Retrospective Analysis,” Death Studies 13, no. 5 (1989): 465-483; e T. Havermans e C. Eiser, “Siblings of a Child with Cancer,” Child: Care, Health, and Development 20 (1994): 309-322. 36. Joanna H. Fanos e Lori Wiener, “Tomorrow’s Survivors: Siblings of Human Immunodeficiency Virus-Infected Children,” Developmental and Behavioral Pediatrics 15, no. 3 (June 1994, Supplement): S43-S48. Si veda anche Anne Hunsaker Hawkins, A Small Good Thing: Stories of Children with HIV and Those HIV Care for Them (New York: Norton, 2000). 37. Questo e gli aneddoti seguenti da Gyulay, The Dying Child, pp. 17-18. 38. Si veda Mary A. Fristad e altri, “The Role of Ritual in Children’s Bereavement,” Omega: Journal of Death and Dying 42, no. 4 (2001): 321-339; e Phyllis R. Silverman e J. William Worden, “Children’s Understanding of Funeral Ritual,” Omega: Journal of Death and Dying 25, no. 4 (1992): 319-331. 39. Carol F. Berns, “Bibliotherapy: The Use of Literature in Working with Bereaved Children,” Omega: Journal of Death and Dying. Si veda anche Elizabeth P. Lamers, “Helping Children During Bereavement,” in Dying, Death, and Bereavement, 2nd ed., ed. Corless, Germino, e Pittman, pp. 267-286. 40. Erik Erikson, Childhood and Society (New York: Norton, 1950), p. 233.

CAPITOLO 10 1. Charles W. Brice, “Mourning Throughout the Life Cycle,” American Journal of Psychoanalysis 42, no. 4 (1982): 320-321. 2. Erik H. Erikson, The Life Cycle Completed: A Review (New York: Norton, 1982), p. 67. Vedi anche Christina Rocke e Katie E. Cherry, “Death at the End of the 20th Century: Individual Processes and Developrnental Tasks in Old Age,” International Journal of Aging and uman Development 54, no. 4 (2002): 315-333. Sul desiderio degli anziani di creare una continuità nella loro vita relativamente ai significati culturali, vedi Gay Becker, “Dying Away From Home: Quandaries of Migration for Elders in Two Ethnic Groups,” Journal of Gerontology: Social Sciences 57B, no. 2 (2002): S79-S95. 3. Laura S. Smart, “Parental Bereavement in Anglo American History,” Omega: Journal of Death and Dying 28, no. 1 (1993-1994): 49-61. 4. Vedi Mildred J. Braun and Dale H. Berg, “Meaning Reconstruction in the Experience of Parental Bereavement,” Death Studies 18, no. 2 (1994): 105-129; Brian DeVries, Rose Dalla Lana, e Vilma T. Falck, “Parental Bereavement over the Life Course: A Theoretical Intersection and Empirical Review,” Omega: Journal of Death and Dying 29, no. 1 (1994): 47-69; Harriett Sarnoff Schiff, The Bereaved Parent (New York: Crown, 1977); e Kay Talbot, What Forever Means After the Death of a Child: Transcending the Trauma, Living with the Loss (New York: Brunner-Routledge, 2002). 5. “Native Peoples,” Glenbow Museum, Calgary, Alberta, Canada. 6. Dennis Klass, “Solace and Immortality: Bereaved Parents Continuing Bond with Their Children,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1995), pp. 246-259.

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7. Laura S. Smart, “The Marital Helping Relationship Following Pregnancy Loss and Infant Death,” Journal of family Issues 13, no. 1 (1992): 81-98. 8. Dennis Klass, Parental Grief. Solace and Resolution (New York: Springer, 1988). 9. Kathleen R. Gilbert, “Interactive Grief and Coping in the Marital Dyad,” Death Studies 13, no. 6 (1989): 605-626. Vedi anche Kathleen R. Gilbert e Laura S. Smart, Coping with Infant or Fetal Loss: The Couple’s Healing Process (New York: Brunner/Mazel, 1992). 10. Vedi Cynthia Bach-Hughes e Judith Page-Lieberman, “Fathers Experiencing a Perinatal Loss,” Death Studies 13, no. 6 (1989): 537-556; Judy Rollins Bohannon, “Grief Responses of Spouses Following the Death of a Child: A Longitudinal Study,” Omega: Journal of Death and Dying 22, no. 2 (1990-1991): 109-121; Nancy Feeley e Laurie N. Gottlieb, “Parent’s Coping and Communication Following Their Infant’s Death,” Omega: Journal of Death and Dying 19, no. 1 (1988-1989): 51-67; and Reiko Schwab, “Paternal and Maternal Doping with the Death of a Child,” Death Studies 14, no. 5 (1990): 407-422. 11. “Fetal and Infant Deaths,” Statistical Abstract of the United States: 1999, 119th ed. (Washington, D.C.: Government Printing Office, 1999), p. 97. 12. Dorland’s Illustrated Medical Dictionary, 26th ed. (Philadelphia: Saunders, 1985), p. 828. 13. Ibid., pp. 664, 1251. 14. Leverett Millen e Samuel Roll, “Solomon’s Mothers: A Special Case of Pathological Bereavement,” American Journal of Orthopsychiatry 55, no. 3 (1985): 411-418. 15. Vedi Phyllis R. Silverman, Lee Campbell, Patricia Patti, e Carolyn Briggs Style, “Reunions Between Adoptees and Birth Parents: The Birth Parent’s Experience,” Social Work 33, no. 6 (1988): 525-528; e Silverman, Patti, e Campbell, “Reunions Between Adoptees and Birth Parents: The Adoptive Parents View,” Social Work 39, no. 5 (1994): 542548. Sulle esperienze di perdita degli adottati, vedi Susan B. Edelstein, Dorli Burge, e Jill Waterman, “Helping Foster Parents Cope with Separation, Loss, and Grief,” Child Welfare 80, no. 1 (2001): 5-25. 16. Glen W. Davidson, “Death of a Wished-for Child: A Case Study,” Death Education 1, no. 3 (1977): 265-275. Vedi anche Susan Roos, Chronic Sonoro: A Living Loss (New York: Brunner-Routledge, 2002). 17. Judith A. Savage, Mourning Unlived Lives: A Psychological Study of Childbeuring Loss (Wilmette, Ill.: Ghiron, 1989). 18. Ibid., p. xiii. 19. Irwin J. Weinfeld, “An Expanded Perinatal Bereavement Support Committee: A Community Wide Resource,” Death Studies 14, no. 3 (1990): 241-252. 20. Irving G. Leon, “Perinatal Loss: Choreographing Grief on the Obstetric Unit,” Amerìcan Journal of Orthopsychiatry 62, no. 1 (1992): 7-8. 21. Larry G. Peppers, “Grief and Elective Abortion: Breaking the Emotional Bond?” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 1 (1987-1988): 1-12. 22. Vedi William R. LaFleur, Liquid Life: Abortion and Buddhism in Japan (Princeton, N J.: Princeton University Press, 1992); e Marie Okabe, “Japan Shrine Honors Infants Never Born,” Los Angeles Times, November 13, 1982. 23. Kenneth J. Doka, “Disenfranchised Grief” (documento presentato all’incontro annuale della: Association for Death Education and Counseling, Atlanta, Spring 1986); e, a cura di Doka, Diserafranchised Grief-recognizing Hidden Sorrow (Lexington, Mass.: Lexington, 1989). Vedi anche Charles A. Corr, “Enhancing the Concept of Disenfranchised Grief,” Omega: Journal of Death and Dying 38, no. 1 (1998): 1-20. 24. John DeFrain e altri, “The Psychological Effects of a Stillbirth on Surviving Family Members,” Omega: Journal of Death and Dying 22, no. 2 (1990-1991): 81-108; vedi anche

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John DeFrain, “Learning About Grief from Normal Families: SIDS, Stillbirth, and Miscarriage,” Journal of Marital and Family Thitry 17, no. 3 (1991): 215-232. 25. Jay Ruby, “Portraying the Dead,” Omega: Journal of Death and Dying 19, no. 1 (1988-1989): 1-20; a Joy Johnson e S. Marvin Johnson, con James H. Cunningham and Irwin J. Weinfeld, A Most Important Picture: a Very Tender Manual for Taking Pictures of Stillborn Babies and Infants Who Die (Omaha: Centering Corp., 1985). 26. DeFrain e altri, “Psychological Effects of a Stillbirth,” p. 87. 27. Mark H. Beers and Robert Berkow, (a cura di) The Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 17th ed. (Whitehouse Station, N J.: Merck Research Laboratories,1999), p. 2196. 28. Beverly Raphael, The Anatomy of Bereavement (New York: Basic Books, 1983), p. 229. 29. “Deaths and Death Rates by Leading Cause of Death and Age: 2000,” Statistical Abstract of the United States: 2002, 122nd ed. (Washington, D.C.: Government Printing Office, 2002), p. 82. 30. Committee on Trauma Research, National Research Council, Injury in America: A Continuing Public Health Problem (Washington, D.C.: National Academy Press, 1985). 31. Jerome L. Schulman, Coping with Tragedy: Successfully Facing the Problem of a Seriously Ill Child (Chicago: Follett, 1976), p. 335. Vedi anche Marilyn McCubbin e altri, “Family Resiliency in Childhood Cancer,” Family Relations 51, no. 2 (2402): pp. 346-347 32. Kay Talbot, “Mothers Now Childless: Survival After the Death of an Only Child,” Omega: Journal of Death and Dying 34, no. 3 (1996-1997): 177-189. Vedi anche, di Talbot, What forever Means After the Death of a Child. 33. Gordon Riches e Pam Dawson, “Communities of Feeling: The Culture of Bereaved Parents,” Moriality 1, no. 2 (1996): 143-161. 34. Un’introduzione sulla morte dei genitori, by Lynne Ann DeSpelder and Albert Lee Strickland; in Encyclopedia of Death and Dying, a cura di Glennys Howarth e Oliver Leaman (New York: Routledge, 2001), pp. 346-347. 35. Joan Delahanty Douglas, “Patterns of Change Following Parent Death in Midlife Adults,” Omega: Journal of Death and Dying 22, no. 2 (1990-1991): 123-137; vedi anche Rachel A. Pruchno e altri, “Death of an Institutionalized Parent: Predictors of Bereavement,” Omega: Journal of Death and Dying 31, no. 2 (1995): 99-119. 36. Marion Osterweis, Fredric Solomon, e Morris Green, (a cura di) Bereavement: Reactions, Consequences, and Care (Washington, D.C.: National Academy Press, 1984), p. 85; vedi anche Andrew E. Scharlach e Karen I. Fredriksen, “Reactions to the Death of a Parent During Midlife,” Omega: Jonrnal of Death and Dying 27, no. 4 (1993): 307-319. 37. Miriam S. Moss, Sidney Z. Moss, Robert Rubinstein, e Nancy Resch, “Impact of Elderly Mother’s Death on Middle Aged Daughters,” International Journal of Aging and Human Development 37, no. 1 (1992-1993): 1-22; vedi anche Jennifer Klapper, Sidney Moss, Miriam Moss, and Robert L. Rubinstein, “The Social Context of Grief Among Adult Daughters Who Have Lost a Parent,” Journal of Aging Studies 8, no. 1 (1994): 2943; e Sidney. Moss, Robert L. Rubinstein, e Miriam S. Moss, “MiddleAged Son’s Reactions to Father’s Death,” Omega: Journal of Death and Dying 34, no. 4 (1996-1997): 259277. 38. Sull’impatto della morte della madre sulla vita delle persone, nonché una guida su come affrontare la perdita, vedi Harold Ivan Smith, Grieving the Death of a Mother (Minneapolis: Augsburg, 2003). 39. Debra Umberson e Meichu D. Chen, “Effects of a Parent’s Death on Adult Children: Relationship Salience and Reaction to Loss,” American Sociological Review 59, no. 1 (1994): 152-168. 40. Raphael, Anatomy of Bereavement, p. 177.

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CAPITOLO 11 1. Judith M. Stillion, “Premature Exits: Understanding Suicide,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder and Albert Lee Strickland (Mountain View, Cali.: Mayfield, 1995), pp. 182-197. 2. “Death Rates by Selected Causes,” Statistical Abstract of the United States: 2002, 122nd ed. (Washington, D.C.: Government Printing Office, 2002), p. 80. 3. Mark H. Beers e Robert Berkow, a cura di, The Merck Manual of Diagnosis and Therapy, 17th ed. (Whitehouse Station, N J.: Merck Research Laboratories, 1999), p. 1545. 4. Glen Evans e Norman L. Farberow, The Encyclopedia o f Suicide (New York: Facts on File, 1988), p. 208. 5. Vedi Robert J. Homant e Daniel B. Kennedy, “Suicide by Police: A Proposed Typology of Law Enforcement Office-Assisted Suicide”, Policing: An International Journal of Police Strategies & Management 23, no. 3 (2000): 339-355.

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CAPITOLO 12 1. Da: Letters of E. B. White, raccolto e curato da Dorothy Lobrano Guth (New York: Harper & Row, 1976), p. 558. 2. Vedi Harvey M. Sapolsky, “The Politics of Risk,” Daedalus: Journal of the American Academy of Arts e Sciences 119 (Fall 1990): 83-96. 3. Kevin Young, “Violence, Risk, e Liability in Male Sports Culture,” Sociology of Sport Journal 10 (1993): 373-396. 4. Kawahito Hiroshi, “Death e the Corporate Warrior,” Japan Quarterly 38 (April-June 1991): 149-157. 5. James A. Thorson e F C. Powell, “To Laugh in the Face of Death: The Games That Lethal People Play,” Omega: Journal of Death and Dying 21, no. 3 (1990): 225-239. 6. Kenneth J. Doka, Eric C. Schwartz, e Catherine Schwarz, “Risky Business: Reactions to Death in Hazardous Sports” (documento presentato al convegno annuale della Association for Death Education e Counseling, Atlanta, 1986); vedi anche, degli stessi autori, “Risky Business: Observations on the Nature of Death in Hazardous Sports,” Omega: Journal of Death and Dying 21, no. 3 (1990): 215-223. 7. Michael C. Roberts, “Prevention/Promotion in America: Still Spitting on the Sidewalk (Lee Salk Distinguished Service Award Address),” Journal of Pediatric Psychology 19, no. 3 (June 1994): 267-281. 8. Robert Kastenbaum e Ruth Aisenberg, The Psychology of Death: Concise Edition (New York: Springer, 1976), p. 319. Vedi anche K. David Pijawka, Beverly A. Cuthbertson, e Richard S. Olson, “Coping with Extreme Hazard Events: Emerging Themes in Natural e Technological Disaster Research,” Omega: Journal of Death and Dying 18, no. 4 (1987-1988): 281-297; e Alan E. Stewart e Janice Harris Lord, “Motor Vehicle Crash Versus Accident: A Change in Terminology Is Necessary,” Journal of Traumatic Stress 15, no. 4 (2002): 333-335. 9. Charles Perrow, Normal Accidents: Living with High Risk Technology (New York: Basic Books, 1984). 10. Malcolm Gladwell, “Blowup,” New Jorker January 22, 1996, 32-36. 11. “Japan Braces for Major Earthquake,” Associated Press Online (September 1, 1997). 12. Robert I. Tilling, U.S. Geological Survey, Eruptions of Mount St. Helens: Post, Present, and Future (Washington, D.C.: Government Printing Office, n.d.). 13. Vedi Gerard Fryer, “The Most Dangerous Wave,” The Sciences 35, no. 4 (July-August 1995): 38-43. 14. Philip Sarre, “Natural Hazards,” in Key Ideas in Human Thought, a cura di Kenneth McLeish (New York: Facts on File, 1993), pp. 502-504. 15. Neil Thompson, “The Ontology of Disaster,” Death Studies 19, no. 5 (1995). 501-510. Vedi anche International Work Group on Death, Dying, e Bereavement, “Assumptions e Principles About Psychosocial Aspects of Disasters,” Death Studies 26, no. 6 (2002): 449-462.

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16. Vedi James W. Pennebaker e Kent D. Harber, “A Social Stage Model of Collective Coping: The Loma Prieta Earthquake and the Persian Gulf War,” Journal of Social Issues 49, no. 4 (1993): 125-145; e Kathleen M. Wright e altri, “The Shared Experience of Catastrophe: An Expeed Classification of the Disaster Community,” American Journal of Orthopsychiatry 60, no. 1 (1990): 35-42. 17. Gail Walker, “Crisis-Care in Critical Incident Debriefing,” Death Studies 14, no. 2 (1990): 121-133. Per uno sguardo complessivo circa gli effetti psicologici, e di altro genere, di disastri sulle vittime e raccomandazioni di intervento, vedi Fran H. Norris e altri, “60,000 Disaster Victims Speak: Part I, An Empirical Review of the Empirical Literature, 1981-2001,” Psychiatry 65, no. 3 (2002): 207-239; e “60,000 Disaster Victims Speak: Part II, Summary e Implications of the Disaster Mental Health Research,” Psychiatry 65, no. 3 (2002): 240-260. Vedi anche Carol North e altri, “Coping, Functioning, e Adjustment of Rescue Workers After the Oklahoma City Bombing,” Journal of Traummtic Stress 15, no. 3 (2002): 171-175; e “Psychiatric Disorders in Rescue Workers After the Oklahoma City Bombing,” American Journal of Psychiatry 159 (2002): 857-859. 18. Beverly McLeod, “In the Wake of Disaster,” Psychology Today (October 1984), pp. 54-57. 19. “Murder Victims by Age, Sex, and Race,” Statistical Abstract of the United States: 2002, 122nd ed. (Washington, D.C.: Government Printing Office, 2002), p. 186. 20. “Murder-Circumstances e Weapons Used,” Statistical Abstract of tle United States: 2002, p. 186. 21. “Vietnam Style Triage Techniques Used to Treat Urban Assault Weapon Injuries,” Bulletin of the Park Ridge Center (May 1989): 11-12. Vedi anche Wendy Max e Dorothy P. Rice, “Shooting in the Dark: Estimating the Cost of Firearm Injuries,” Health Affairs 12, no. 4 (1993): 171-185. 22. Vedi Ronald K. Barrett, “Urban Adolescent Homicidal Violence: An Emerging Public Health Concern,” Urban League Review 16, no. 2 (1993): 67-75; Dewey G. Cornell, “Juvenile Homicide: A Growing National Problem,” Behavioral Sciences and the Law 11 (1993): 389-396; Robert H. Durant e altri, “Factors Associated with the Use of Violence Among Urban Black Adolescents,” American Journal of Public Health 84, no. 4 (1994): 612-617; e James A. Mercy, “Youth Violence as a Public Health Problem,” Spectrum (Summer 1993): 26-30. 23. American Medical Association, Council on Scientific Affairs, “Firearms Injuries e Deaths: A Critical Public Health Issue,” Public Health Reports 104 (1989): 111-120. Vedi anche Lele Ropp e altri, “Death in the City: An American Childhood Tragedy,” Journal of the American Medical Association 267, no. 21 (1992): 2905-2910. 24. Ice-T, “The Killing Fields,” in The Path Ahead: Readings in Death and Dying, a cura di Lynne Ann DeSpelder e Albert Lee Strickland (Mountain View, Calif.: Mayheld, 1995), pp. 178-181. Vedi anche John M. Hagedorn, “Homeboys, Dope Fiends, Legits, e New Jacks,” Criminology 32, no. 2 (1994): 197-219. 25. Bruce L. Danto, Mark L. Taff, e Lauren R. Boglioli, “Graveside Deaths,” Omega: Journal of Death and Dying 33, no. 4 (1996): 265-278. 26. Mitch Albom, “Random Shooting Paralyzes Football Player,” Detroit Free Press, December 28, 1994, p. Cl. 27. Ciato in Drew Leder, “Guns e Voices,” Second Opinion 20, no. 2 (1994) 83-89. 28. Joseph D. Giuliano, “A Peer Education Program to Promote the Use of Conflict Resolution Skills Among At-Risk School Age Males,” Public Health Reports 109, no. 2 (1994): 158-161. 29. Betsy McAlister Groves e altri, “Silent Victims: Children Who Witness Violence,” Journal of the American Medical Association 269, no. 2 (1993): 262-264. Vedi anche Sondra

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49. United Nations Population Fund, “Overview of Adolescent Life,” State of World Population 2003, http://www.unfpa.org/swp/2003/english/ch1/index.htm (attivo al 10 ottobre, 2003). 50. Christie W. Kiefer, “Militarism e World Health,” Social Science & Medicine 34, no. 7 (1992): 719-724. 51. Sam Keen, Faces of the Enemy: Refections of the Hostile Imagination (San Francisco: Harper & Row, 1986), p. 71. 52. Gil Elliot, “Agents of Death,” in Death: Current Perspectives, a cura di Edwin S. Shneidman, terza ed. (Mountain View, Calif.: Mayfield, 1984), pp. 422-440. 53. Ibid. 54. Citato in Shono Naomi, “Mute Reminders of Hiroshima’s Atomic Bombing”, Japan Quarterly (July September 1993): 267-272. Vedi anche Robert Jay Lifton, “Psychological Effects of the Atomic Bomb in Hiroshima: The Theme of Death,” in The Threat of Impending Disaster: Contributions to the Psychology of Stress, a cura di George H. Grosser, Henry Wechsler, e Milton Greenblatt (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1964), pp. 152-193. 55. Robert Jay Lifton e Eric Olson, Living e Dying (New York: Praeger, 1974), p. 32. 56. Vernon, Sociology of Death, p. 46. 57. Toynbee, “Death in War,” p. 367. 58. Joel Baruch, “Combat Death,” in Death: Current Perspectives, a cura di Edwin S. Shneidman (Palo Alto, Calif.: Mayfield, 1976), pp. 92-93. 59. Da una comunicazione personale. 60. Vedi Harvey J. Schwartz, “Fear of the Dead: The Role of Social Ritual in Neutralizing Fantasies from Combat,” in Psychotherapy of the Combat Veteran, a cura di H. J. Schwartz (New York: SP Medical & Scientific Books, 1984), pp. 253-267. Vedi anche Robert Jay Lifton, Home from the War: Vietnam Veterans, Neither Victims Executioners (New York: Basic Books, 1985). 61. Theodore Nadelson, “Attachment to Killing,” Journal of the American Academy of Psychoanalysis 20, no. 1 (1992): 130-141. 62. Vedi Harold A. Widdison e Howard G. Salisbury, “The Delayed Stress Syndrome: A Pathological Delayed Grief Reaction?” Omega: Journal of Death and Dying 20, no. 4 (1989-1990): 293-306. 63. Michael Browning, “Homer’s `Iliad’ Has Lessons for Vietnam Nightmare,” Honolulu Advertiser, February 12, 1995, pp. B1, B4. Vedi anche Jonathan Shay, Achilles in Vietnam: Combat Trauma and the Undoing of Character (New York: Atheneum, 1994). 64. Paul Recer, “A Different Johnny,” Associated Press wire story, March 3, 1991. 65. L’esempio citato qui ‘The Lost Patrol’ e “walking meditation” sono tratti da Mafia Beckstrom, “Vietnam Vets Find Peace in Healing Ceremonies: Rituals Help End the War Within,” Utne Reader (March-April 1991): 34-35. Vedi anche Rod Kane, Veteran’s Day: A. Vietnam Memoir (New York: Crown, 1989), e Michael Norman, These Good Men: Friendships Forged from War (New York: Crown, 1989). 66. Da Barbara Carton, Washington Park Service, in Honolulu Star-Bulletin & Advertiser, August 11, 1985. 67. Marian Faye Novak, Lonely Girls with Burning Eyes: A Wife Recalls Her Husband’s Journey Home from Vietnam (Boston: Little, Brown, 1991), p. 3. 68. Keen, Faces of the Enemy, pp. 10-14. 69. Debra Umberson e Kristin Henderson, “The Social Construction of Death in the Gulf War,” Omega: Journal of Death and Dying 25, no. 1 (1992): 1-15. 70. Keen, Faces of the Enemy, pp. 180-181. 71. ibid., p. 137.

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72. Epigrafe anonima in Aref M. Al-Kattar, Religion and Terrorism: An Interfaith Perspective (Westport, Conn.: Praeger, 2003), p. 3. 73. Vedi Philip Jenkins, Images of Terror: What We Can and Can’t Know Ahout Terrorism (New York: Aldine de Gruyter, 2003), p. 28; e Walter Laqueur, No End to War: Terrorism in the Twenty-First Century (New York: Continuum, 2003), p. 233. 74. Vedi, per esempio, Caleb Carr, The Lessons of Terror: An hlistory of Warfare Against Civilians, Why It was Always Failed and Play It Will Fail Again (New York: Reom House, 2002), pp. 7, 9, 12-14. 75. Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary, undicesima edizione (Springfield, Mass.: MerriamWebster, 2003), p. 1049. 76. Walter Laqueur, The Age of Terrorism (Boston: Little, Brown, 1987), p. 72. 77. Cindy C. Combs e Martin Slann, Encyclopedia of Terrorism (New York: Facts on File, 2002), pp. 208-211. 78. Tom Pyszczynski, Sheldon Solomon, e Jeff Greenberg, In the Wake of 9/11: The Psychology of Terror (Washington, D.C.: American Psychological Association, 2003), pp. 8, 16, 127. 79. Sul 17 settembre 1862, nella battaglia di Antietam, seimila soldati furono uccisi o mortalmente feriti, e altri sedicimila furono feriti e sopravvissero. Alla fine durante la guerra civile morirono 620.000 persone. Vedi James M. McPherson, “The Lesson of Antietam,” The American Scholar 71, no. 1 (2002): 64-65. 80. Nilufer Gole, “Close Encounters, Islam, Modernity, e Violence,” in Understeing September 11, ea cura di Craig Calhoun, Paul Price, e Ashley Timmer (New York: New Press, 2002), pp. 332-344. 81. Richard Bernstein e lo Staff del New York Times, Out of the Blue: The Story of September 11, 2001, from Jihad to Ground Zero (New York: Times Books, 2002), p. 3. Vedi anche Brian Doyle, “Leap,” The American Scholar 71, no. 1 (2002): 69-70. 82. Cathy Trost e Alicia C. Shepard, Running Toward Danger Stories Behind the Breaking News of 9/11 (Lanham, Md.: Rowman & Littlefield, 2002), p. xiii. 83. Harold Dow, citato in Trost e Shepard, Running Toward Danger, p. 247. 84. William Langewiesche, American Ground: Understanding the Word Trade Center (New York: North Point, 2002), p. 45. 85. Lynne Ann DeSpelder, “September 11, 2001 and the Internet,” Mortality 8, no. 1 (2003): 138-89. 86. Craig Calhoun, Paul Price, e Ashley Timmer, “Introduction,” in Calhoun, Price, e Timmer, Understeing Septemher 11, p. 4. Vedi anche Shashi Tharoor, “The Global Century,” The American Scholar 71, no. 1 (2002): 66-68. 87. Vedi Marita Sturken, “Memorializing Absence,” in Calhoun, Price, e Timmer, Understanding September 11, pp. 374-384, esp. 378-381. 88. Langewiesche, American Ground, p. 99. 89. Langewiesche, American Ground, pp. 69, 156. 90. Loolwa Khazzoom, “For Zaka Rescue Volunteers, Grisly Deaths Are a Part of Life,” Global News Service of the Jewish People, September 29, 2003, http://www jta.org (data di accesso: 9 ottobre 2003). 91. Michael Schudson, “What’s Unusual About Covering Politics as Usual,” in Journalism After September 11, a cura di Barbie Zelizer e Stuart Allan (New York: Roudedge, 2002), pp. 38-39; vedi anche l’introduzione di Zelizer e Allan, pp. 8-9. 92. Gli Autori ringraziano la Professoressa Carla Sofka per aver fornito informazioni sul progetto archiviato presso il New York State Museum, che cataloga e preserva documenti creati da bambini in risposta agli eventi occorsi l’11 settembre 2001. 93. Philip Jenkins, Images of Terror: What We Can e Can’t Know About Terrorism (New York: Aldine de Gruyter, 2003), pp. 82-83.

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94. Combs e Slann, Encyclopedia of Terrorism, p. 166. 95. Bruce D. Berkowitz, The Nera Face of War. How War Will Be Fought in the 21st Century (New York: Free Press, 2003), pp. 16-17; vedi anche Philip Bobbitt, The Shield of Achilles: War, Peace, and the Course of History (New York: Rnopf, 2002), pp. 811, 821. 96. Mark Juergensmeyer, “Religious Terror e Global War,” in Calhoun, Price, e Timmer, Understending September 11, pp. 27-49; citato a p. 29. Vedi anche Kelton Cobb, “Violent Faith,” in 1l September: Religious Perspeetives on the Causes e Conseguences, a cura di Ian Markham e Ibrahim M. Abu-Rabi (Oxford: OneWorld, 2002), pp. 130-163; e Bruce Lincoln, Holy Terrors: Thinking About Religion After September 11 (Chicago: University of Chicago Press, 2003). 97. Laqueur, No End to War, pp. 71, 91. 98. Aaron T. Beck, “Prisoners of Hate,” Behaviour Research e Therapy 40, no. 3 (2002): 209-216, e Prysoners of Fate: The Cognitive Basis of Anger; Hostility, and Violence (New York: HarperCollins, 1999). 99. Pyszczynski, Solomon, e Greenberg, In the Wake of 9/11, p. 149. 100. Beck, “Prisoners of Hate,” p. 216. 101. Tharoor, “Global Century,” p. 68. 102. J. Travis, “New Drugs Beat Old Flu,” Science News 162 (September 28, 2002): 196. 103. Vedi Allan M. Bret e Martha Gardner, “Antagonism e Accommodation: Interpreting the Relationship Between Public Health and Medicine in the United States During the 20th Century,” American Journal of Public Health 90, no. 5 (2000): 707-715. 104. Travis, “New Drugs Beat Old Flu.” Vedi anche Monica Schoch-Spana, “’Hospital’s Full-Up’: The 1918 Influenza Pandemic,” Public Health Reports 116 (2001): 32-33. 105. Robert Kastenbaum, “Reconstructing Death in Postmodern Society,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 7-18. 106. Joint United Nations Programme su HIV/AIDS (UNAIDS), “AIDS Epidemic Update” (December 2002). Vedi anche Renee Danziger, “The Social Impact of HIV/AIDS in Developing Countries,” Social Science & Medicine 39, no. 7 (1994) 905-917. 107. United Nations Population Fund, “HIV/AIDS e Adolescents,” State of World Population 2003, http://www.unfpa.org/swp/2003/english/cha/index.htm (data di accesso 10 ottobre 2003). 108. United Nations Population Fund, “HIV/AIDS e Adolescents.” 109. Peter Piot, “AIDS: A Global Response,” Science 272 (June 28, 1996): 1855. La questione etica rigurardante HIV/AIDS è trattata in special modo in: Health Care Analysis 10, no. 1 (2002), che include i seguenti saggi: Robert M. Sade, “HIV/AIDS as an Epidemic: Ethical Issues at the 20th Anniversary” (1-4), Charles S. Bryan, “HIV/AIDS e Bioethics: Historical Perspective, Personal Retrospective” (5-18), David Kelley, “What Are the Public Obligations to AIDS Patients?” (37-48), Jan N. Narveson, “AIDS in the Third World: How, If at All, Do We Help?” (109-120), e Samuel H. Nelson, “The West’s Moral Obligation to Assist Developing Nations in the Fight Against HIV/AIDS (87-108). 110. Vedi Mary Catherine Bateson e Richard Goldsby, Thinking AIDS: The Social Response to the Biological Threat (Reading, Mass.: Addison Wesley, 1988); Douglas Crimp, a cura di, AIDS: Cultural Analysis, Cultural Activism (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1988); Eve K. Nichols, Mobilizing Against AIDS, rev. ed. (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1989); e Rey Shilts, And the Band Played On: Politics, People, e the AIDS Epidemic (New York: Viking Penguin, 1988). 111. Malcolm D. Gibson, “AIDS and the African Press,” Media, Culture & Society 16 (1994): 349-356. 112. Karen A. Bonuck, “AIDS and Families: Cultural, Psychosocial, e Functional Impacts,” Social Work in Health Care 18, no. 2 (1993): 75-89.

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113. Ronald Keith Barrett, “Elephant People: The Phenomena of Social Withdrawal e Self-Imposed Isolation of People Dying with AIDS,” AIDSPatient Care (October 1995): 240-244. 114. “DMV Reverses AIDS Plate Denial,” Associated Press Online (October 25, 1994). 115. Charles E. Rosenberg, “What Is an Epidemic? AIDS in Historical Perspective,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 29-32. 116. Questa descrizione delle diagnosi e dei trattamenti di HIV e AIDS è stata vista principalmente in: Robert Berkow, a cura di, The Merck Manual of Diagnosis e Therapy, sedicesima ed. (Rahway, N.J.: Merck Research Laboratories, 1992), pp. 55, 77, 83, 86; Robert Berkow, a cura di, The Merck Manual of Medical Information: Home Edition (Whitehouse Station, N.J.: Merck Research Laboratories, 1997), pp. 926-932; e Virginia F. Sendor e Patrice M. O’Connor, Hospice & Palliative Care: Questions e Answers (Lanham, Md.: Scarecrow Press, 1997), pp. 46-47. 117. Vedi Floyd E. Bloom, “Breakthroughs of the Year: 1996,” Science 274 (December 20, 1996): 1987; Jon Cohen, “Exploiting the HIV-Chemokine Nexus,” Science 275 (February 28, 1997): 1261-1264; e “The Pathogenesis of AIDS: A Special Report,” Science & Medicine 4, no. 2 (March-April 1997): 6-13. 118. Jerry D. Durham, “The Changing HIV/AIDS Epidemic: Emerging Psychosocial Challenges for Nurses,” Nursing Clinics of North America 29, no. 1 (1994): 9-18. 119. Jon Cohen, “The Daunting Challenge of Keeping HIV Suppressed,” Science 277 (July 4, 1997): 32-33. 120. Citato in Jon Cohen, “Advances Painted in Shades of Gray at a D.G. Conference,” Science 275 (January 31, 1997): 615. 121. Margaret A. Chesney, “Health Psychology in the 21st Century: Acquired Immunodeficiency Syndrome as a Harbinger of Things to Come,” Health Psychology 12, no. 4 (1993): 259-268. 122. Vedi Laurie Garrett, The Coming Plngue: Newly Emerging Diseases in a World Out of Balance (New York: Farrar, Straus:& Giroux, 1994). Vedi anche Berkow, ed., The Merck Manual of Diagnosis e Therapy, pp. 211-220. 123. Bernard Le Guenno, “Emerging Viruses,” Scientifc American (October 1995): 56-64. 124. Vedi Gunjan Sinha e Burkhard Bilger, “Skeletons in the Attic: Has the Scourge of Athens Returned to Haunt Us?” The Sciences 36, no. 5 (September-October 1996): 11; e Matt Crenson, “Researcher: Plague Sparked Ebola,” Associated Press Online (January 20, 1997). 125. Paul Recer, “Origin of 1918 Flu Pandemic Found,” Associated Press Online (March 20, 1997). 126. Rodrick Wallace e Deborah Wallace, “Inner-City Disease e the Public Health of the Suburbs: The Sociogeographical Dispersion of Point Source Infection,” Environment e Planning Abstracts 25 (1993): 1707-1723; e “The Coming Crisis of Public Health in the Suburbs,” Milbank Quarterly 71, no. 4 (1993): 543-564. Vedi anche Rodrick Wallace e altri, “Will AIDS Be Contained Within U.S. Minority Urban Populations?” Social Science & Medicine 39, no. 8 (1994): 1051-1062. 127. Rodrick Wallace e John Pittman, “Recurrence of Contagious Urban Desertification e the Social Thanatology of New York City,” Environment e Planning Abstracts 24 (June 1992): 1-6. 128. Wallace e Pitmann, “Recurrence of Contagious Urban Desertifcation,” p. 1. 129. Richard Rothenberg, “Chronicle of an Epidemic Foretold: A Response to the Wallaces,” Milbank Quarterly 71, no. 4 (1993): 565-574. 130. Mitchell Duneier, Slim’s Table: Race, Respectability, e Masculinity (Chicago: University of Chicago Press, 1992), p. 75.

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131. Rachel Nowak, “WHO Calls for Action Against TB,” Science 267 (March 24, 1995): 1763. Vedi anche Stuart B. Levy, “The Challenge of Antibiotic Resistance,” Scientific American 278, no. 3 (March 1998): 40-53. 132. Charles J. Hanley, “Malaria Stages Comeback,” Associated Press Online (May 12, 1996). 133. Daniel Leviton, “Horrendous Death: Improving the Quality of Global Health,” in The Path Ahead, a cura di DeSpelder e Strickland, pp. 165-168; vedi anche, a cura di Leviton, Horrendous Death, Health, and Weil-Being (New York: Hemisphere, 1991).

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Collana diretta da Francesco Campione Volumi pubblicati: 1. Francesco Campione, Contro la morte. Psicologia ed etica dell’aiuto ai morenti, 2003.

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