Terapia cognitivo comportamentale delle psicosi 8889627239, 9788889627235

Gli studi scientifici e le osservazioni cliniche sono sempre più a favore di un approccio dimensionale, per valutare e a

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Terapia cognitivo comportamentale delle psicosi
 8889627239, 9788889627235

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TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI A cuRA DI RoGER HAGEN, DouGLAS TuRKINGTON, ToRKIL BERGE AND RoLF W. GRAWE

EDIZIONE ITALIANA A CURA DI GIUSEPPE NICOLÒ PUBBLICATO PER ISPS lNTERNATIONAL Socmrr FOR THE PsYCHOLOGICAL TREATMENTS oF THE ScmzoPHRENIAS AND 0THER PsYCHOSEs

ECLIPSI

Collana

Scienze Cognitive e Psicoterapia, con la Supervisione Scientifica

dell'Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva (IPSICO, Firenze)

Traduzione italiana di:

CBT

for Psychosis.

A symptom-based approach.

Traduzione: Elisa Brumat Cura: Giuseppe Nicolò Videoimpaginazione: Camilla Romoli

Copyright© 2011

ISPS - International Society for the Psychological Treatments of the Schizophrenias and Other Psychoses

Copyright© 2012

Eclipsi srl Via Mannelli 139 50132 Firenze Tel. 055-2466460 www.

eclipsi.it

978-88-89627-23-5

I diritti di traduzione, di riproduzione, di memorizzazione elettronica, di adattamento totale e parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microftlm e le copiefotostatiche) sono riservati per tutti i paesz:

LA SO CIETÀ INTERNAZIONALE PER I TRATTAMENTI PSICOLO GICI DELLA SCHIZOFRENIA E DELLE ALTRE PSICOSI Direttore della collana: Brian Martindale La ISPS (International Sociery for the P[Jchological Treatments of the Schizophrenias and other P[Jchoses) ha una storia che risale a più di cinquant'anni fa, durante i quali ha dominato la ricerca relativa alle spiegazioni biologiche per la psicosi. Ora il vento sta nuovamente cambiando. Si è assistito a un rinnovato interesse in merito ai fattori psicologici coinvolti nella psicosi, che hanno un considerevole potere esplicativo e offrono interessanti possibilità terapeutiche. I governi, le associa­ zioni professionali, gli utenti e i caregiver chiedono sempre più insistentemente interventi caratterizzati da un miglior dialogo e un maggiore ascolto. Oggi, gli psicoterapeuti specializzati nei principali approcci di trattamento sono considera­ ti dei fattori chiave nel trattamento della malattia mentale grave. L'ISPS è una società composita, formata da un numero crescente di profes­ sionisti, familiari, persone con vulnerabilità alle psicosi e altri soggetti, che si sono organizzati in tutto il mondo a livello nazionale, regionale o locale. Queste perso­ ne riconoscono il potenziale umano e d'intervento di un'efficace comprensione psicologica e terapeutica nel campo delle psicosi. I nostri membri adoperano un ampio spettro di approcci, che comprendono quello psicodinamico, sistemico, cognitivo, di arte terapia adattata al bisogno e di gruppo. Siamo particolarmente interessati a instaurare un dialogo significativo con gli operatori e i ricercatori che hanno maggior familiarità con l'approccio biologico. Le nostre attività includono regolari conferenze internazionali e nazionali, newsletter e gruppi di discussione via e-mail in molti Paesi del mondo. Una delle nostre attività è quella editoriale. Routledge ha riconosciuto l'im­ portanza di questo settore, pubblicando la rivista ISPS P[Jchosis: P[Jchologica4 Social and Integrative Approaches (www.isps.org/journal.shtml), a complemento della collana di libri pubblicati, che ha preso il via nel 2004. Queste opere letterarie spaziano tra diversi ambiti all'interno dello spettro delle terapie psicologiche della psicosi e della loro applicazione in diversi setting, con l'obiettivo di informare e educare sia

i professionisti della salute mentale, sia chi si occupa dello sviluppo e dell'attua­ zione delle politiche sanitarie. Alcuni libri, inoltre, sono serviti a diffondere le idee di clinici e ricercatori che sono conosciuti in alcuni Paesi ma non in altri. La nostra

mission

principale

è quella di incoraggiare la diffusione della conoscenza e delle idee esistenti, di promuovere il dibattito sulla salute e di incoraggiare l'attuazione di ricerche in un campo così importante i cui segreti, sicuramente, non possono essere svelati esclusivamente dalle neuroscienze. Per avere maggiori informazioni sull'ISPS, scrivete una visitate il nostro sito web all'indirizzo

www.

mai! a [email protected] o

isps.org.

Altri titoli della collana: Models of Madness: Psychological, Social and Biologica! Approaches to Schizophrenia

A cura difohn Read, Loren R Mosher e Richard P Benta/1 Psychoses: An Integrative Perspective

fohan Cullberg Evolving Psychosis: Different Stages, Different Treatments

A cura difan 0/av fohanessen, Brian V Martindale e fohan Cullberg Family and Multi-Family work with Psychosis

Gerd-Ragna Bloch Thorsen, Trond Gronnestad e Anne Lise Oxenvad Experiences of Mental Health In-Patient Care: Narratives from Service U sers, Carers and Professionals

A cura di Mark Hardcastle, David Kennard, Sheila Grandison e Leonard Fagin Psychotherapies for Psychoses: Theoretical, Cultural, and Clinical Integration

A cura di fohn Gleeson, Eion Killackry e Helen Krstev Therapeutic Communities for Psychosis: Philosophy, History and Clinical Practice

A cura difohn Gale, Alba Realpe ed Enrico Pedriah"

Beyond Medication: Therapeutic Engagement and the Recovery from Psychosis

A cura di David Garfteld e Daniel Mackler Making Sense of Madness: Contesting the Meaning of Schizophrenia

Jim Geekie e fohn Read Psychotherapeutic Approaches to Schizophrenic Psychosis

A cura di Yrjii O. Alanen, Manuel Gonzalez de Chave� Ann-Louise S. Silver e Brian

Martindale

SOMMARIO Prefazione all'edizione italiana

1

Giuseppe Nicolò 3

Prefazione

PARTE I I MODELLI COGNITIVI E L'ASSESSMENTDELLE PSICOSI

CAPITOLO 1

Introduzione. Terapia cognitivo comportamentale delle psicosi: un approccio mirato ai sintomi

7

Roger Hagen e Douglas Turkington CAPITOL02

Modelli cognitivi delle allucinazioni uditive

17

Peter Kinderman CAPITOL03

Modelli cognitivi dei deliri

27

Douglas Turkington, Caroline Bryant e Victoria Lumlry CAPITOLO 4

Assessment dei sintomi psicotici

47

Emmanuelle Peters PARTE II

LA TCC PER I SINTOMI PSICOTICI IN PRATICA CAPITOLO 5

L'alleanza terapeutica nella terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

67

Live E. C. Hoaas, Sara Eidsbo Lindholm, Torkil Berge e Roger Hagen CAPITOL06

L'uso della normalizzazione nella terapia cognitivo-comportamentale della Schizofrenia

Robert Dudlry e Douglas Turkington

87

CAPITOLO 7

Terapia cognitivo-comportamentale e intervento precoce

97

Jean Addington, Enza Mancuso e Maria Haarmans CAPITOLO 8

Allucinazioni imperative Teorie e interventi psicologici

111

Maria Michail e Max Birchwood CAPITOLO 9

La terapia per i sintomi negativi e i disturbi formali del pensiero

129

Neal Stolar e Pau/ Gran! CAPITOLO 10

Il recupero dalla psicosi Un approccio cognitivo interpersonale per la gestione emotiva e la prevenzione delle ricadute

143

Andrew Gumlry CAPITOLO 11

Problemi e soluzioni nella terapia cognitivo comportamentale delle psicosi

161

Tania Lecomte e Claude Ledere PARTE III

LA COMORBILITÀ DELLE PSICOSI CAPITOLO 12

Il trattamento dell'abuso di sostanze in soggetti con disturbi mentali gravi

DavidJ Kavanagh e Kim T. Mueser CAPITOLO 13

ll trattamento cognitivo-comportamentale del trauma nei soggetti al primo episodio psicotico

181

197

Pauline Callcott, Robert Dudlry, Sai!J Standart, Mark Freeston e Douglas Turkington CAPITOLO 14

Il coinvolgimento della famiglia nel trattamento dei disturbi psicotici

215

William R McFarlane CAPITOLO 15

Interventi psicologici per migliorare

il funzionamento lavorativo delle

persone con disabilità psichiatrica

Morris D. Be/4 Jimmy Choi e Pau/ Lysaker

233

PARTE IV TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DEL DISTURBO BIPOLARE CAPITOLO 16

La psicologia del Disturbo Bipolare

259

Sara Tai CAPITOLO 17

Teoria e terapia cognitiva dei disturbi bipolari

]an Scott

271

AUTORI }EAN AnmNGTON, professore d i psichiatria all'University o f Taranto,

ricercatore al Centre of Addiction and Mental Health, Taranto, e direttore del Prime Research e del Psychosocial Treatments in the First Episode Psychosis Program, CAMH, Canada. MoRRis BELL, PhD, professore al dipartimento di psichiatria, Yale Uni­

versity School of Medicine, ricercatore al Rehabilitation Research and De­ velopment Service, VA Connecticut Healthcare System, USA. TORKIL BERGE, PsyD, psicologo presso il V inderen Community Mental

Health Centre, Diakonhjemmet Sykehus, Oslo, Norvegia. MAxBIRCHWOOD, PhD,DSc,professoreallascuoladiPsicologiadell'University

of Birmingham, direttore dell'Early Intervention Service, Birmingham e del So­

lihull Mental Health Foundation NHS Trust, United Kingdom. CAROLINE BRYANT, BSe, assistente ricercatore presso la Newcastle Uni­

versity, United Kingdom. PAULINE CALLC OTT, Registered Mental Nurse presso il Newcastle Cog­

nitive Therapy Centre, Newcastle-upon-Tyne, United Kingdom. }IMMY CHOI professore associato presso il dipartimento di psichiatria

della Yale University School of Medicine, è stato psicologo ricercatore del VA Connecticut Healthcare System, USA. ROBERT DuDLEY, PhD, psicologo clinico consulente del South of Tyne

Early Intervention in Psychosis Service, Northumberland Tyne and Wear Mental Health NHS Trust, ricercatore all'Institute of Neuroscience, New­ castle University, United Kingdom.

MARK FREESTON, PhD, responsabile ricerca e formazione del Newcas­ tle Cognitive T herapy Centre, Newcastle-upon-Tyne, United Kingdom. PAUL GRANT, PhD, Assistant Professar of Psychology in Psychiatry

presso la Psychopathology Research Unit, dipartimento di psichiatria, Uni­ versity of Pennsylvania, USA.

RoLF W. GRAWE, PhD, PsyD, direttore della R & D Unit at the D rug

and Alcohol Treatment Centre in Norvegia centrale. ANDREW GuMLEY, PhD, Senior Lecturer presso la Section of Psycho­

logical Medicine, University of Glasgow, psicologo clinico consulente dell'ESTEEM, North Glasgow First Episode Psychosis Service, United Kingdom. MAruA liAARMANs, MA, MED, psicoterapeuta del Prime Clinic and the

First Episode Psychosis Program (FEPP) presso il Centre of Addiction and Mental Health, Toronto, Canada. RoGER HAGEN, PhD, PsyD, professore associato presso il dipartimento

di psicologia, Norwegian University of Science and Technology, Trond­ heim, Norvegia. LIVE E. C. HoAAs , PsyD, psicologo presso il Norwegian Centre for

V iolence and Traumatic Stress Studies, Oslo, Norvegia. DAVID KAvANAGH, PhD, professore presso la School of Medicine, Uni­

versity of Queensland, Australia. PETER KINDERMAN, MA, MSc, PhD, professore di psicologia clinica,

University of Liverpool, e Honorary Consultant Clinica! Psychologist, Merseycare NHS Trust, United Kingdom. CLAUDE LEcLERC, PhD, professore presso l'University of Quebec e

direttore del Caring Laboratory, University of Quebec, Canada. TANIA LEcoMTE, PhD, Assistant Professar presso il dipartimento di

psicologia, University of Montreal, e Adjunct Professar presso il diparti­ mento di psichiatria, University of British Columbia, Canada. SARA EIDSB0 LINDHOLM, PsyD, psicologo presso il Josefinesgate Com­ munity Mental Health Centre, Oslo University Hospital, Norvegia. VICTORIA LuMLEY, RMN, psicoterapeuta cognitivo presso Tees, Esk

and Wear Valleys NHS Foundation Trust, United Kingdom.

PAUL LYSAKER, PhD, professore associato presso il dipartimento di psi­

chiatria, Indiana University School of Medicine, ed è stato psicologo clini­ co presso il Roudebush VA Medicai Center, Indiana, USA. WILLIAM R. McFARLANE, MD, professore di psichiatria all'University

of Vermont e direttore del Center for Psychiatric Research del Maine Me­ dicai Center, USA. DR MARIA MICHAIL, BSe, MSc, PhD, ricercatore presso la scuola di

psicologia, University of Birmingham, United Kingdom. KIM MuESER, PhD, professore presso il dipartimento di psichiatria,

Dartmouth Medicai School, Hanover, New Hampshire, USA. ENZA MuNUsco, MED, psicoterapeuta del Prime Clinic and the First

Episode Psychosis Program (FEPP) presso il Centre of Addiction and Mental Health, Toronto, Canada. EMMANUELLE R. PErnRS, BSe, MSc, PhD, Senior Lecturer in psicologia cli­

nica presso il King's College London, Institute of Psychiatry, United Kingdom. JAN Scorr, professore all'University of Newcastle-upon-Tyne e Hon­ orary Professar of Psychological Treatments Research presso l'Institute of Psychiatry, London, United Kingdom.

SALLY STANDART,

MR, CPsych, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo

presso il Newcastle Cognitive T herapy Centre, Newcastle-upon-Tyne, United Kingdom. NEAL

SToLAR, MD -PhD, professore associato presso il dipartimento di

psichiatria, University of Pennsylvania, USA.

SARA

TAI, BA (Hons), MSc, D clinPsy, Lecturer in psicologia clinica

presso la School of Psychological Sciences, University of Manchester, United Kingdom. DouGLAS TuRKINGTON, MD, professore di psichiatra sociale presso la

Newcastle University, Newcastle-upon-Tyne, United Kingdom.

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA È stato un

grande piacere e onore per me ricevere la richiesta di curare l'edi­

zione italiana di questo volume. L'importanza dell'argomento e il calibro degli autori mi fa considerare questo lavoro come cruciale per la diffusione della terapia cognitiva per i pazienti gravi nel nostro paese. Il testo ha uno schema molto didattico e fornisce al lettore una buona descri­ zione e approfondimento delle tecniche di terapia cognitiva per il trattamento psicologico delle psicosi. Il punto di forza dell'approccio presentato è quello di fondare l'approccio te­ rapeutico sulla sintomatologia presentata dal paziente e non semplicemente sulla diagnosi posta. Questo libro permette di passare, quasi con semplicità e natu­ ralezza, dalla prospettiva descrittiva a quella fenomenologica, fino a una teoria esplicativa delle psicosi. La modellistica cognitivista è esplicitata con molta chiarezza e dettaglio nella prima parte del volume; il lettore viene guidato, passo dopo passo, alla compren­ sione dei sintomi, all' assessment adeguato, alla conduzione esperta del colloquio. Ciò che avvince nel testo è la capacità degli autori di prendere sempre in conside­ razione l'interazione psicoterapeuta-paziente da ambedue le prospettive. Un aspetto rivoluzionario per chi si occupa di tali problematiche e di pazienti così gravi è che l'approccio proposto considera i sintomi come costrutti personali che ci segnalano lo schema sottostante e ci guidano nell'impostazione del trattamento. I deliri e le allucinazioni vengono spiegati con una modellistica prettamente psicologica, che forse in alcuni casi sembra essere eccessivamente normalizzante. Sicuramente la normalizzazione delle esperienze psicotiche può essere considera­ ta una tecnica efficace nel trattamento, ma l'ipotesi del continuum tra normalità e patologia, tra pensiero normale e patologico, rischia di spingerei a considerare i fenomeni di tali esperienze considerandone solo gli aspetti quantitativi e non quelli qualitativi. In realtà, gli autori insistono molto sull'attenzione che il clinico deve porre su come si siano formate le credenze disfunzionali e patologiche. L'ap­ proccio e le tecniche del colloquio proposte sono di grande utilità nella pratica clinica anche per coloro che adottino un orientamento esclusivamente biologico. La parte del volume dedicata al trattamento è davvero esaustiva e prevede an­ che una parte dedicata agli esordi psicotici, in cui oltre ad essere descritti in detta­ glio gli aspetti tecnici viene anche evidenziata l'efficacia, in termini di costruzione del rapporto sé/ altro, di un intervento precoce, strutturato e intensivo.

Il trattamento dei deliri, delle allucinazioni e dei disturbi formali del pensiero

è molto ben spiegato e corredato di innumerevoli esemplificazioni; viene anche dedicata una parte al trattamento psicologico necessario nella fase di recupero successiva a una esperienza psicotica. La modernità del volume è ravvisabile in particolare per l'attenzione posta al trattamento delle comorbilità e dell'uso di sostanze, oltre che all' assessment e al trattamento delle esperienze psicotiche secondarie a un evento traumatico. Non usuale in un testo di terapia cognitiva è l'enfasi posta sull'importanza del coinvolgimento della famiglia nel trattamento, cui è dedicato un intero capitolo. L'approccio presentato è oltremodo moderno, in quanto considera il sistema fa­ miliare come una risorsa e non come la causa della malattia. L'utilizzo dell'inserimento lavorativo come strumento terapeutico rappresen­ ta un patrimonio ormai imprescindibile, che dovrebbe far parte del trattamento

standard delle psicosi,

e il capitolo ad esso dedicato ci permette di poter sfruttare

al massimo tale opportunità. L'ultima parte del volume, infine, è dedicata al trattamento degli esiti disabili­ tanti della psicosi e dei disturbi bipolari. L' organizzazione del testo ne permette una facile consultazione e un rapido aggiornamento sullo stato dell'arte in tema di terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi. La numerosità dei pazienti con problemi complessi rende necessario l'aggior­ namento sistematico su tali tematiche e sulla letteratura ad essa relativa. Purtrop­ po nel nostro Paese non è facile per i pazienti affetti da psicosi poter usufruire di trattamenti psicologi adeguati, sia per carenza di risorse, sia per le diffuse dif­ ficoltà che incontrano i clinici nell'acquisire una formazione specifica a riguardo. Per tali ragioni, troppo spesso l'unico trattamento di cui beneficiano i pazienti è quello farmacologico. Invece, la forza e la potenzialità di un intervento psicote-, rapeutico sono ormai di tale portata che questo dovrebbe essere garantito come diritto ai pazienti psicotici e ai loro familiari. Un' ultima riflessione da fare è che in tema di trattamento delle psicosi le evo­ luzioni che la scienza ha compiuto in questi anni sono state talmente importanti e rilevanti da trasformare una patologia con prognosi infausta quasi certa in un fenomeno che rappresenta una sfida per il professionista, che può dare a questo e ai suoi pazienti grandi soddisfazioni e risultati. Auguro a tutti una buona lettura. Giuseppe Nicolò

PREFAZIONE

La comprensione dei disturbi psicotici sta andando incontro a una trasformazione considerevole e, negli ultimi decenni, ci si

è

interrogati seriamente in

merito all'utilità e alla validità del sistema di classificazione diagnostico categoriale in uso per le psicosi (Bentall, 2003; van Os e Kapur, 2009). Dagli studi e dalle osservazioni cliniche emerge sempre più chiaramente come un approccio dimensionale basato su sintomi discreti riesca a rendere conto in maniera migliore della presenza di un continuum tra salute e malattia mentale, tra il soggetto "psicotico" e quello "normale". Il libro che state leggendo è stato scritto con l'intento di sviluppare quest'ap­ proccio, dimostrando come il modello cognitivo-comportamentale offra un'ottima cornice per una terapia impostata su questa concezione sintomatica delle psicosi. Il volume racchiude i contributi di esperti internazionali, che hanno con­ siderato diversi aspetti all'interno di questo campo di studi in rapida evoluzione, ed è di grande interesse per tutti i professionisti della salute mentale che operano con pazienti che soffrono di sintomi psicotici.

BIBLIOGRAFIA Bentall, R. P. (2003). Madness Explained. Psychosis and Human Nature. London: Penguin Books. van Os,J. & Kapur, S. (2009). Schizophrenia. The Lancet, 374, 635-645.

PARTE I I MODELLI COGNITIVI E

L'ASSESSMENT DELLE PSICOSI

1 INTRODUZIONE TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI: UN APPROCCIO MIRATO AI SINTOMI Roger Hagen e Douglas Turkington

In questo capitolo metteremo in evidenza le caratteristiche principali della terapia cognitivo-comportamentale (TCC), descrivendone poi l'applicazione ai problemi di tipo psicotico. Nella parte conclusiva introdurremo il resto del libro, chiarendone l'impostazione.

COS'È LA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE? La terapia cognitivo-comportamentale enfatizza l'importanza del ruolo dei pensieri e dei comportamenti nell'origine e nel mantenimento dei problemi di tipo psicologico ed emotivo. Ci sono diversi modi per condurre un intervento cognitivo-comportamentale ma, in ogni caso, i differenti approcci sono accomu­ nati da alcuni fattori relativi ai principi di trattamento e alle tecniche. Cerchere­ mo ora di descriverne brevemente alcuni e, volendo approfondire maggiormen­ te queste tematiche, si possono consultare i testi di Beck (1995) o di Wright et al. (2006). Gli interventi di TCC mirano a trattare disturbi specifici e sono sviluppati su misura per risolvere i problemi presentati dal paziente. All'inizio della terapia, paziente e terapeuta ne concordano gli obiettivi, operazionalizzando le difficoltà della persona e gli obiettivi della terapia tramite la cosiddetta "formulazione co­ ��tiva del caso", che costituisce un'ipotesi in merito alla natura delle difficoltà psicologiche sottostanti ai sintomi del paziente e, a livello teorico, è basata sui modelli riguardanti l'apprendimento e la cognizione umana. Le terapie cognitivo­ comportamentali enfatizzano l'importanza del rapporto collaborativo tra pazien-

8

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

te e terapeuta, in cui entrambi rivestono un ruolo attivo fondamentale per i pro­ gressi nel trattamento. Basandosi sul presupposto che i pensieri e i comportamenti giochino un ruolo importante sia nella genesi che nel mantenimento della maggior parte dei di­ sturbi psicologici, gli interventi cognitivo-comportamentali cercano di ridurre la sofferenza soggettiva e di aumentare le strategie di coping adattive, modificando le credenze maladattive e insegnando nuove abilità (Grant et al., 2005); i diversi approcci si distinguono per la maggior enfasi sui processi comportamentali o su quelli cognitivi (Hollon e Beck, 2004). L'obiettivo degli interventi cognitivo-com­ portamentali è quello di modificare le credenze disfunzionali e i comportamenti maladattivi usando un ampio ventaglio di tecniche, tra cui l'automonitoraggio, l'identificazione e la messa in discussione dei pensieri negativi e delle assunzioni che mantengono in vita i comportamenti e le esperienze problematiche, la decata­ strofizzazione, la programmazione delle attività e gli esperimenti comportamen­ tali, che facilitano ulteriormente l'automonitoraggio e la modificazione delle cre­ denze disfunzionali (Wright et al., 2006). La TCC sembra efficace per numerosi disturbi clinici; esistono anche molte indicazioni relative al fatto che gli interventi di questo tipo producano cambiamenti più duraturi rispetto ad altre tipologie di intervento psicoterapeutico, sia per disturbi di Asse I che di Asse II (Butler et al., 2006).

CHE COS'È LA TCC PER LE PSICOSI? Storicamente, esistono tre paradigmi per la comprensione delle psicosi (Mor­ rison et al., 2004). Il paradigma di malattia, introdotto da Kraepelin (1899-1990) all'inizio del ventesimo secolo, proponeva una netta distinzione tra normalità e anormalità. Le cause di alcune diagnosi di malattia mentale sarebbero state ricon­ ducibili a "tare" ereditarie o a infezioni cerebrali, come ad esempio il disturbo mentale conseguente alla sifilide. Il secondo paradigma si rifà al modello stress-vulne­ rabilità, in base al quale gli individui biologicamente e psicologicamente predispo­ sti possono divenire psicotici se esposti a eventi di vita stressanti (Zubin e Spring, 1977). I disturbi, come la Schizofrenia, sono concepiti come l'estremità di un con­ tinuum che parte dai comportamenti e dalle esperienze normali; un'occasione di cambiamento terapeutico è data quindi dalla possibilità di influenzare l'ambiente e di rafforzare le capacità del paziente di fronteggiare il disturbo psicotico. Il terzo paradigma è quello focali:aato sui sintomi (Bentall, 2003): anziché usare ampie cate­ gorie diagnostiche, viene posto l'accento sui singoli sintomi, come ad esempio le voci, i deliri o le credenze insolite, i disturbi del pensiero e i sintomi negativi. In base a questo paradigma, ci si preoccupa di gestire e comprendere i sintomi e di verificare che il paziente possieda sufficienti abilità a livello sociale e professiona­ le, più che di curare il suo disturbo in quanto tale. La terapia cognitivo-comporta-

Introduzione

9

mentale per le psicosi ha riconosciuto l'importanza di adottare questo paradigma considerato che, con questo approccio, è possibile ottenere risultati terapeutici migliori. Da un punto di vista cognitivo-comportamentale, quelle psicotiche sono delle esperienze singolari e significative in sé, non soltanto epifenomeni di un disturbo sottostante, per cui risulta determinante l'esplorazione delle esperienze individuali e delle credenze relative ai sintomi stessi. Bentall (2003), inoltre, ha proposto come necessario un cambiamento radicale nella concettualizzazione dei sintomi psicotici, che tenga conto del fatto che le più recenti ricerche hanno confutato il legame tra Disturbo Bipolare e Schizofrenia. Ad oggi, i sintomi psicotici come la mania, i deliri e le allucinazioni uditive sono difficili da inserire in categorie diagnostiche prestabilite e sono meglio compren­ sibili se posti su dei continuum. Kingdon et al. (2008), adattando questo approccio, hanno suggerito la possibile esistenza di cinque gruppi distinti di Schizofrenia, a seconda delle cause scatenanti e dei sintomi, ovvero: disturbo dell'emotività (alta vulnerabilità, sintomi negativi e deficit cognitivi), psicosi traumatica (un trauma ha contribuito al determinarsi del disturbo e sono presenti allucinazioni, sotto forma di voci commentanti, e depressione), psicosi indotta da sostanze (uso di allucinogeni, deliri paranoidei e sintomi negativi), psicosi ansiosa (scherni perso­ nali di vulnerabilità e deliri strutturati) e catatonia. In linea con questo approccio, la TCC svolge un ruolo importante sia nella comprensione che nel trattamento dei singoli sintomi. Da quando, per la prima volta, la terapia cognitiva ha descritto i deliri paranoi­ dei (Beck, 1952), è stato ampiamente fornito supporto empirico all'utilizzo della TCC per il trattamento dei sintomi psicotici (Dickerson, 2004; Gaudiano, 2005; Gould et al., 2001; Rathod e Turkington, 2005; Rector e Beck, 2001; Turkington et al., 2006; Tarrier e Wykes, 2004). Per decenni, la psicosi è stata considerata una condizione biologica, insensibile ai trattamenti psicologici; le ricerche più recenti, però, hanno dimostrato come i sintomi positivi si collochino su un continuum di normalità e come, di conseguenza, possano essere trattati con le stesse tecniche cognitivo-comportamentali che si utilizzano per l'ansia e la depressione (Bentall, 2007; Kuipers et al., 2006). Il modello cognitivo concettualizza la psicosi come una combinazione di fattori che dà forma ai sintomi positivi - come i deliri e le allucinazioni uditive (Garety et al., 2001) e li mantiene in vita, tra cui i biases attribuzionali e di ragionamento possono svolgere un ruolo peculiare (Bentall, 2003; Freeman e Garety, 2004). In questa introduzione cercheremo di tracciare una breve sinossi dei processi terapeutici essenziali e degli interventi di TCC per la psicosi. Per i terapeuti che non hanno familiarità con questo approccio, raccomandiamo gli scritti di King­ don e Turkington (2005) e Wright et al. (2008), che serviranno da testi introduttivi per coloro che si stanno avvicinando al trattamento cognitivo-comportamentale -

1O

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

per le psicosi. Alcuni capitoli della seconda parte di questo libro ne esemplificano egregiamente gli aspetti essenziali. L'obiettivo principale della terapia è quello di insegnare al paziente a identifi­ care e monitorare i propri pensieri e le proprie credenze in situazioni specifiche, valutandoli e correggendoli alla luce delle prove oggettive esterne e delle circo­ stanze. Le idee deliranti e le allucinazioni uditive si basano su assunzioni e pensieri che i pazienti ritengono veritieri, tengono in gran considerazione e, spesso, li preoccupano. Queste assunzioni causano delle distorsioni nell'elaborazione delle informazioni, contribuendo a mantenere in vita le credenze deliranti e le allucina­ zioni uditive (Hagen e Nordahl, 2008). Per quanto riguarda l'instaurarsi della relazione tra paziente e terapeuta, la TCC può essere divisa in due fasi. All'inizio, il focus della terapia è centrato sul coinvolgimento del paziente e sulla costruzione dell'alleanza terapeutica. Fattori terapeutici aspecifici - come l'empatia e il calore - sono di enorme importanza nella creazione di una relazione collaborativa. I fattori che favoriscono l'impegno terapeutico sono: adottare uno stile di ascolto attivo, tentare di trovare un linguag­ gio comune per parlare dei sintomi del paziente, essere aperti a tutte le esperienze ed evitare il confronto diretto (Chadwick, 2006; Kingdon e Turkington, 2005). La fase successiva è basata sui processi di psicoeducazione e normalizzazione dei sintomi psicotici, promuovendo anche la comprensione di fenomeni psicologici analoghi. La ricerca ha dimostrato come la normalizzazione sia il fattore maggior­ mente predittivo di un buon esito clinico, quando viene associata ad altre tecniche di formulazione del caso, quali, ad esempio, ricercare gli antecedenti della crisi, de-catastrofìzzare la psicosi e fornire informazioni riguardo ad essa (Dudley et al., 2007). La normalizzazione, che può essere uno strumento per consolidare l'alleanza terapeutica, è strettamente legata all'idea - già enunciata in precedenza - che le esperienze psicotiche si pongano sullo stesso piano di quelle comuni. Il processo di normalizzazione va integrato con quello di psicoeducazione, che sembra essere cruciale per le persone che soffrono di disturbi psicotici visti i miti che circondano questa patologia. La psicoeducazione e l'informazione in merito alla malattia vanno adattate ai sintomi psicotici del singolo individuo; fornite nel modo giusto, possono aiutare le persone a sentirsi ascoltate e comprese e sono quindi molto apprezzate (Kingdon e Turkington, 2005). In questa fase si inseriscono anche l'assessment e la raccolta di informazioni, necessari allo sviluppo e alla condivisione con il paziente della formulazione del caso: l'obiettivo finale è quello di riuscire a comprenderne i sintomi psicotici. In un'ottica cognitivo-comportamentale, quando si lavora con questo tipo di pazien­ ti, le due aree più importanti da indagare sono il modo in cui si manifestano i sin­ tomi e la spiegazione che la persona dà a questi. La formulazione del caso deriva dal processo di assessment, e a volte lo guida, fornendo una cornice per lo sviluppo

Introduzione

11

degli interventi terapeutici (Kingdon e Turkington, 2005) che rappresentano la fase successiva del trattamento. In base alla formulazione si propone un piano di trattamento, in cui paziente e terapeuta sfidano le credenze e i pensieri relativi all'interpretazione dei sintomi stessi, cercando di fornire delle spiegazioni alternative a questi e di sviluppare nuove strategie di coping. L'obiettivo non è la scomparsa dei sintomi psicotici, ma la modificazione delle interpretazioni delle voci e dei deliri e la generazione di spiegazioni alternative a questi fenomeni, meno angoscianti delle preceden­ ti. Anziché focalizzarsi solamente sul decremento dei sintomi, il trattamento si considera efficace se comporta una riduzione del distress emotivo del paziente (Birchwood e Trower, 2006) e un suo miglior funzionamento sociale (furkington et al., 2007). In questa fase, le tecniche cognitive e comportamentali vengono applicate utilizzando una modalità collaborativa ed evitando sempre il confronto diretto. La parte conclusiva della TCC per la psicosi è centrata sulla prevenzione delle ricadute e sulle aspettative di guarigione. Sentimenti di paura, depressione, im­ potenza, disperazione, imbarazzo e vergogna sembrano infatti essere dei fattori antecedenti comuni alla ricaduta (Gumley e Schwannauer, 2006). È essenziale evitare la ricomparsa dei sintomi psicotici- visti i costi personali e la sofferenza che implicano- anche se quest'aspetto, seppur importante, non deve offuscare l'obiettivo della guarigione definitiva e del miglioramento della qualità di vita. La ricerca relativa alla risoluzione delle psicosi suggerisce che, affinché questa sia quanto più completa possibile, paziente e terapeuta devono far leva sia su fattori personali che ambientali (Wilken, 2007). Generare speranza, facendo capire che la guarigione è possibile, oltre a garantire sempre al paziente la disponibilità di un servizio professionale di elevata qualità, sono criteri essenziali, che possiamo considerare presenti nella terapia cognitivo-comportamentale per la psicosi.

I CONTENUTI DI QUESTO LIBRO I contenuti di questo libro seguono la sequenza più logica per l'apprendimento della TCC per la psicosi; l'opera è divisa in quattro parti, ognuna delle quali si fo­ calizza su un aspetto diverso. La prima parte è incentrata sui modelli cognitivi dei sintomi psicotici e sull'assessmentdi questi. Nel capitolo 2 (Kinderman) viene pro­ posto un aggiornamento dei modelli cognitivi delle allucinazioni uditive: nell'am­ bito della TCC è opinione condivisa che queste derivino da distorsioni cognitive, anche se dalle ricerche non emerge un consenso unanime relativamente alla loro specifica natura. Questo capitolo riesamina le differenti teorie e offre degli esem­ pi di come le allucinazioni uditive possano essere meglio comprese in un'ottica cognitivo-comportamentale. Il capitolo 3 (furkington et al.) esplora il modello cognitivo relativo alla formazione e al mantenimento dei deliri. Per illustrare le

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Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

tecniche chiave della TCC relative al coinvolgimento del paziente, alla formulazio­ ne del caso e all'esame di realtà dei deliri verranno proposti dei casi esemplificativi, descrivendo anche la pertinenza dei loro schemi rispetto al contenuto dei deliri. Il capitolo 4 (Peters) tratta l'assessment della psicosi: come accennato in precedenza, negli ultimi anni c'è stato un dibattito crescente e fruttuoso in merito all'utilità di adottare un approccio mirato ai singoli sintomi in sostituzione delle categorie diagnostiche tradizionali. Gli strumenti per l'assessment riflettono questi sviluppi e quindi, in questo capitolo, verranno considerati i vantaggi e gli svantaggi degli strumenti di valutazione tradizionali rispetto a quelli "rymptom-based". La seconda parte del volume si focalizza sul trattamento dei sintomi psicotici mediante l'utilizzo della TCC. Hoaas et al. (capitolo 5) aprono questa sezione de­ scrivendo l'importanza di creare una buona alleanza terapeutica col paziente nel corso della terapia cognitivo-comportamentale. Vengono descritti diversi fattori necessari per la costruzione di questa alleanza, offrendo dei suggerimenti per la creazione di un buon rapporto tra paziente e terapeuta. Dudley e Turkington (ca­ pitolo 6) si occupano del ruolo della normalizzazione nella terapia cognitiva e di come adattare questo strumento per utilizzarlo nell'ambito dei sintomi psicotici, dal momento che costituisce un aspetto centrale del trattamento della psicosi stessa. L'intervento precoce è di massima importanza nel trattamento di questi di­ sturbi; Addington et al. (capitolo 7) illustrano il ruolo della terapia cognitivo­ comportamentale nel trattamento dei soggetti con primo episodio psicotico, sia come parte del trattamento, sia come strumento di prevenzione per chi ha un rischio clinicamente elevato di sviluppare una psicosi conclamata. Quelle impera­ tive sono allucinazioni particolarmente problematiche - e a volte pericolose- di cui si sa ancora poco, per le quali si sente l'esigenza di trattamenti evidence-based. Michail e Birchwood (capitolo 8) presentano un approccio di trattamento mirato a queste, offrendo dei chiari suggerimenti passo dopo passo, dalla formulazione del caso all'intervento, che possono trasformarsi in validi strumenti per i clinici che si trovino a lavorare con pazienti che soffrono di questo tipo di allucinazioni. I sintomi negativi e i disturbi formali del pensiero sono fenomeni comuni della Schizofrenia; tuttavia, nella TCC si è dato scarso rilievo al trattamento di questo tipo di sintomi. Le recenti ricerche, però, sembrano suggerire che le credenze ne­ gative e gli atteggiamenti cognitivi disfunzionali abbiano un ruolo sia nel manteni­ mento dei sintomi negativi che in quello dei disturbi formali del pensiero. Grant e Stolar (capitolo 9) ci mostrano come la terapia cognitivo-comportamentale possa essere adoperata anche per identificare tali credenze e per sviluppare dei punti di vista alternativi ad esse. Come accennato nell'introduzione, la prevenzione delle ricadute è una fase importante del processo terapeutico. Gumley (capitolo 10) presenta, in una cor-

Introduzione

13

nice di terapia cognitivo-comportamentale, un approccio specifico mirato alla guarigione definitiva e alla prevenzione delle ricadute, che considera gli aspetti cognitivi, interpersonali e dello sviluppo coinvolti in questi processi. Nella parte del libro relativa ai trattamenti, infine, Lecomte e Ledere (capitolo 11) si concen­ trano sul paradosso che, nonostante molti studi dimostrino l'efficacia della TCC per la psicosi e le linee guida ne raccomandino l'utilizzo, ci sono comunque dei problemi nel raggiungere l'obiettivo terapeutico. Gli autori descrivono le barriere esistenti e forniscono dei suggerimenti per poterle aggirare al meglio. La terza parte del libro si concentra sulla terapia cognitivo-comportamentale per i disturbi in comorbidità e sui suoi adattamenti necessari per poter lavorare con i familiari dei pazienti e per favorire l'occupazione lavorativa. Le condizioni di comorbidità, come l'abuso di sostanze e i traumi, sono abbastanza comuni nelle persone che soffrono di sintomi psicotici. Kavanagh e Mueser (capitolo 12) dimostrano come l'abuso di sostanze, in persone affette da seria patologia men­ tale, abbia un ampio spettro di effetti negativi. Il miglior approccio per questo tipo di problemi è un trattamento integrato che affronti sia l'abuso di sostanze che i sintomi psicotici; viene quindi proposta una review delle prove di efficacia riguardo a queste modalità di gestione per i pazienti che soffrono di entrambi i disturbi. Negli ultimi tempi, la relazione tra traumi e psicosi è stata oggetto di molte ricerche, che hanno cercato di cogliere il possibile collegamento tra queste variabili psicologiche; Callcott et al. (capitolo 13) si sono occupati delle ricerche e delle prospettive teoriche al riguardo, tenendo anche presente di come ci si possa servire delle attuali conoscenze all'interno del trattamento, in modo da apportare dei benefici alle persone che soffrono sia per le esperienze traumatiche che per i sintomi psicotici. McFarlane (capitolo 14) chiarisce come sia possibile coinvolge­ re al meglio i familiari dei pazienti nel trattamento dei disturbi psicotici: la psico­ educazione rivolta alle famiglie, infatti, è particolarmente efficace nel superare i problemi che limitano le possibilità terapeutiche e il miglioramento della qualità di vita. In questo capitolo, McFarlane descrive il background teorico su cui si basa l'approccio di gruppo multifamiliare, le componenti principali per metterlo in pratica e le prove della sua efficacia. Questa parte del libro termina descrivendo i modi in cui la terapia cognitivo-comportamentale è in grado di ottimizzare i ri­ sultati occupazionali delle persone con disabilità mentale. Beli et al. (capitolo 15) esaminano in profondità come gli interventi psicologici possano essere utilizzati per promuovere lo sviluppo d i abilità fondamentali, quali quella di cercare e tro­ vare un impiego. Nella quarta e ultima parte del volume ci si concentra sulla terapia cognitivo­ comportamentale per il Disturbo Bipolare. Come suggerito da Bentall (2003), la classificazione delle manifestazioni psicotiche nella Schizofrenia e nel Disturbo Bipolare può rappresentare un artefatto fondato su un approccio neo-kraepelinia-

14

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

no di categorizzazione dei disturbi psichiatrici. Queste potrebbero essere meglio comprensibili se collocate su un continuum dei disturbi psicotici. Tai (capitolo 16) sottolinea la crescente importanza attribuita alla comprensione dei sintomi bipo­ lari e dei meccanismi ad essi sottostanti in termini psicologici, discutendo anche le evidenze empiriche relative alla genesi e al mantenimento del disturbo. Scott (capitolo 17) approfondisce ulteriormente questo tema, presentando aspetti chia­ ve dei modelli cognitivi del Disturbo Bipolare, discutendo l'applicabilità ad esso della terapia cognitiva e presentando i risultati degli studi al riguardo disponibili. La terapia cognitivo-comportamentale è un intervento promettente per la psi­ cosi, ma non costituisce semplicemente un insieme di tecniche: è anche un modo di approcciarsi alle persone. A un uomo al quale era stata diagnosticata la Schizo­ frenia è stato chiesto di cosa avrebbe avuto bisogno per vivere fuori dall'ospedale. La sua risposta è servita come spunto di riflessione: ciò di cui necessitava era un posto in cui vivere, qualcosa con cui vivere, qualcosa per cui vivere e qualcuno con cui vivere. Facciamo in modo che coltivare questi desideri divenga la nostra priorità. Ci auguriamo che quest'opera, assieme all'impegno dei pazienti e ai sug­ gerimenti di chi si occupa della TCC per le psicosi (Turkington et al., 2009), for­ nisca degli spunti validi per riuscire a indirizzare queste persone verso un proficuo recupero del proprio funzionamento sociale.

Introduzione

15

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2 MODELLI CO GNITIVI DELLE ALLUCINAZIONI UDITIVE Peter Kinderman

INTRODUZIONE C'è un consenso sempre maggiore in merito al fatto che le allucinazioni uditive derivino da fenomeni percettivi mal interpretati, che le persone non riconoscono come autogenerati e che, invece, attribuiscono a fonti esterne. Più limitato è inve­ ce l'accordo in merito alla specifica natura di questi fenomeni, dato che, di volta in volta, possono essere discorsi sub vocalici, ricordi dissociati, flashback traumatici o semplici intenzioni. Inoltre, si è visto come un vasto insieme di fattori personali, fisici, ambientali, psicologici e situazionali abbia un impatto sui processi centrali che sono coinvolti nel monitoraggio della realtà. Un modello teorico delle allu­ cinazioni uditive deve quindi tener presente la variabilità individuale all'interno di questa cornice generale e, allo stesso tempo, anche le formulazioni del caso proposte ai singoli soggetti durante la terapia devono poter essere altamente indi­ vidualizzate. Se è vero che alcune persone non sono particolarmente in difficoltà quando fanno questo tipo di esperienze, altre le vivono in modo particolarmente stressante. Le terapie psicologiche basate sull'analisi di quanto fin qui esposto possono essere efficaci per aiutare le persone che hanno le allucinazioni; alcune, però, sono altamente personalizzate, in quanto si basano su complesse e sofisti­ cate formulazioni di casi singoli, che contengono molte delle problematiche che verranno discusse in questa sede. È abbastanza tipico che le persone - psicologi e non- considerino le allu­ cinazioni uditive come dei "fenomeni psicotici comuni e disturbanti" (Csipke e

18

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

Kinderman,

2006, p. 365) e, in un certo

senso, questo corrisponde a verità: sono

senza dubbio piuttosto frequenti nelle persone con disturbi mentali e, per molti, possono essere notevolmente fastidiose. Le allucinazioni uditive sono stretta­ mente collegate alla diagnosi di Schizofrenia, dato che quasi il

70%

dei soggetti

che riceve una diagnosi di questo tipo ne riferisce la presenza; in circostanze specifiche, utilizzando il sistema diagnostico dell'ICD-X,

è possibile ricevere una

diagnosi simile anche quando le allucinazioni uditive sono l'unico sintomo osser­ vabile.

È

altrettanto evidente, però, come esse siano un fenomeno più comune e

"normale" di quanto possa sembrare. Innanzitutto, le persone affette da disturbi differenti e solitamente non associati alla psicosi - come il Disturbo Depressi­ vo Maggiore o il Disturbo Fast-Traumatico da Stress - possono sperimentare fenomeni simili (Bentall,

1990).

Le allucinazioni, poi, sono ricorrenti nel lutto,

in quanto le persone frequentemente sentono - o addirittura vedono - i propri cari deceduti, e sono relativamente comuni anche dopo esperienze traumatiche. Inoltre, molti soggetti appartenenti a campioni non clinici sperimentano questo fenomeno abbastanza spesso: le stime relative all'incidenza

lifetime delle alluci­ 1-2% fino al

nazioni nella popolazione generale vanno, infatti, da un prudente

10-15%

(fien,

1991).

Circa il

30-40%

dei soggetti di un gruppo di studenti ha

riferito di aver vissuto degli occasionati e brevi episodi simil-allucinatori, carat­ terizzati, ad esempio, dal riuscire a udire i propri pensieri. In molti hanno quindi concluso che le allucinazioni si collochino sul

"continuum" delle normali esperien­

ze vissute da molte persone. Romme et al.

(1992) hanno verificato

come il

44% dei

soggetti che riferiva di

udire delle voci non stesse ricevendo alcuna cura psichiatrica. In alcuni casi, seb­ bene certamente non in tutti, le allucinazioni possono essere considerate neutre, completamente normali o addirittura componenti positive dell'esperienza umana: ciò che differenzia le persone che hanno problemi di scarsa entità da quelle che ri­ feriscono delle serie difficoltà

è che le prime asseriscono di avere il controllo sulle

proprie voci, cosa che provoca loro una sofferenza significativamente minore. Esistono altre importanti conseguenze psicologiche di queste osservazioni. Come prima cosa, dobbiamo essere cauti su ciò che intendiamo utilizzando il ter­ mine "allucinazione". Nella maggior parte delle ricerche sulle "allucinazioni", in­ fatti, sono stati reclutati soggetti altamente disturbati, che lottano per farvi fronte, in un contesto di significativo ed evidente disturbo psicologico. Esperienze di questo tipo, però, si presentano ovviamente anche al di fuori di un simile con­ testo. Essenzialmente, quindi, si parla di "allucinazioni" per riferirsi a quelle che provocano

distress: come evidenzia Bentall (2003), ciò significa che la decisione di

intervenire per aiutare le persone che esperiscono questi fenomeni non dovrebbe basarsi sul concetto di malattia o sulla presenza di determinati sintomi, quanto piuttosto sul livello di disagio personale sperimentato.

Model l i cognitivi delle al lucinazioni ud itive

19

Malattia cerebrale

Chiaramente, le allucinazioni possono essere causate da un ampio numero di lesioni e/ o danni cerebrali e da intossicazioni chimiche. In effetti, sembra che molte persone dell'Europa occidentale gradiscano assumere una varietà di sostan­ ze stupefacenti, il cui effetto principale è proprio quello di indurre allucinazioni. Il potere dell'LSD, come di altre droghe dopaminergiche, di provocare allucinazioni è proprio quello che ha portato alla cosiddetta "ipotesi dopaminergica della Schi­ zofrenia" (si veda Bentall, 2003). La disfunzione mentale, intesa come malattia biologica, non sembra tuttavia essere un fattore causale particolarmente rilevante. Le allucinazioni - e le espe­ rienze simil-allucinatorie - non solo hanno un'ampia incidenza nella popolazione normale, suggerendo come la malattia mentale non sia un fattore necessariamen­ te associato ad esse, ma anche le indagini mediche su persone con allucinazioni evidenziano come le cause biologiche si riscontrino molto raramente e riguardino principalmente specifiche allucinazioni di ripo visivo. Ciò non significa che i fatto­ ri fisici o biologici non siano importanti, poiché anche la semplice constatazione degli effetti dell'LSD smentisce quest'affermazione, ma che la "malattia" mentale sia raramente la causa principale delle allucinazioni. LE ALLUCINAZIONI

SONO PERCEZIONI MAL INTERPRETATE

Le attuali formulazioni psicologiche relative alle allucinazioni uditive si basa­ no sull'ipotesi che le persone scambino le proprie percezioni interne per eventi esterni (si vedano Morrison e Haddock, 1 997). Più precisamente, sembra che le allucinazioni derivino da una sorta di dialogo interno erroneamente interpretato come proveniente da fonti esterne. Nell'ambito della psicologia moderna, il ruolo del dialogo interno è stato fortemente dibattuto; pur non scendendo nei dettagli, è opportuno rammentare come questo, assieme alle sub-vocalizzazioni, sia un fenomeno estremamente comune, che accompagna praticamente qualsiasi attivi­ tà mentale che implichi l'uso del pensiero o della memoria autobiografica e sia, come sostiene Richard Bentall (Bentall, 2003, p. 197), "un veicolo importante di autoconsapevolezza". Mentre svolgono determinate attività, le persone utilizza­ no sia il dialogo interno che quello esternalizzato, anche se non sempre ne sono consapevoli. Per ragioni abbastanza ovvie, le sub-vocalizzazioni sono state ampiamente studiate nell'ambito delle allucinazioni e tutti gli studi hanno concluso che queste ultime siano dei discorsi sub-vocalici interpretati scorrettamente. Già nel 1 948 si è scoperto come l'attività muscolare delle labbra e della lingua fosse associata alle allucinazioni (Gould, 1 948) e, stranamente, diverse ricerche hanno riportato come queste sub-vocalizzazioni si manifestassero sotto forma di un discorso di-

20

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

scernibile. Durante gli episodi allucinatori, i ricercatori hanno anche rilevato dei suoni udibili (sussurri) di cui le persone non erano consapevoli. Queste scoperte sono state messe in relazione con i risultati di diversi studi che hanno esplorato l'anatomia funzionale delle allucinazioni mediante EEG, SPET e PET; i ricer­ catori hanno evidenziato come le allucinazioni uditive siano significativamente associate con l'attività di specifiche aree del cervello (come, ad esempio, quella di Braca e di Wernicke) legate alla produzione e alla comprensione del linguaggio. Nel loro insieme, questi studi vengono considerati delle prove inconfutabili del fatto che le allucinazioni siano delle forme di dialogo interno mal interpretate.

Perché? In quali circostanze? A questo punto, si potrebbe semplicisticamente concludere che l'origine delle allucinazioni uditive sia ormai stabilita: sono dialoghi interni che vengono inter­ pretati scorrettamente. È anche importante capire, però, perché e in quali circo­ stanze il discorso sub-vocalico sembri provenire da fonti esterne, perché è (o non è) disturbante e cosa si può fare per aiutare le persone che lo vivono con disagio. C ome in tutti i casi di disturbo mentale (Kinderman, 2005), occorre quindi con­ siderare i processi psicologici che intervengono nel determinare la fonte delle esperienze percettive; nel caso delle allucinazioni uditive, sembra che "le persone abbiano difficoltà con !'"analisi della realtà", cioè non siano in grado di discrimi­ nare correttamente gli eventi provenienti da fonti interne da quelli provenienti da fonti esterne (Bentall, 1 990). Per valutare la capacità di analisi della realtà, le ricerche si sono servite di alcune tecniche, diverse ma strettamente correlate tra loro. Probabilmente, la me­ todologia ideale è quella in cui uno sperimentatore legge al soggetto un elenco di parole (queste, quindi, provengono palesemente da una fonte esterna) chie­ dendogli di fornire a ciascuna di esse una risposta. Questo compito può essere presentato come un esercizio di associazione di parole e, in tal caso, la risposta del soggetto è chiaramente auto-generata. In un momento successivo, gli si può pre­ sentare una lista, diversa da quella originale, composta sia da alcuni stimoli iniziali (generati dallo sperimentatore) sia da alcune delle risposte da lui fornite (generate dal soggetto stesso), chiedendogli di determinarne la provenienza (le parole sono state proposte dallo sperimentatore o dalla persona stessa?) . È possibile, a questo punto, misurare la capacità del soggetto di discriminare la fonte considerando la quantità di item indicati erroneamente come generati dallo sperimentatore quan­ do, invece, erano stati prodotti dalla persona stessa. Il fatto che questi item siano collegati logicamente e inseriti in un esercizio di associazione di parole rende questa discriminazione non così semplice come potrebbe sembrare. Bentall e Slade (1 985) hanno scoperto che chi soffre di allucinazioni sbaglia più spesso nell'identificare la fonte di un segnale rispetto a chi non ne è affetto.

Model l i cognitivi del l e al lucinazion i uditi ve

21

Non sorprende, quindi, che le persone che sentono le voci, molto più frequente­ mente delle persone che non hanno tali problemi, considerino alcune percezioni come generate dall'esterno piuttosto che dall'interno. Uno studio su soggetti non clinici tendenti a sperimentare allucinazioni (in base ai punteggi alla Launqy-Slade Hallucination 5cale) ha messo in luce come questi siano più propensi ad attribuire i propri pensieri a fonti esterne rispetto a chi non presenta queste caratteristiche. Le difficoltà nell'identificazione della fonte, o nella discriminazione della realtà, sembrano essere presenti anche riguardo a contenuti diversi da quello specifico delle allucinazioni e, spesso, si sono manifestate relativamente agli elementi for­ niti dai ricercatori, ben diversi dalle intrusioni spontanee che sperimentavano le persone. In quest'ottica, quindi, la comprensione delle allucinazioni si lega al tema del perché questo processo di identificazione della fonte, o di discriminazione della realtà, può fallire.

Compromissione cognitiva Pur non accettando il concetto di malattia o di infermità mentale, alcuni ri­ cercatori hanno proposto che le allucinazioni possano derivare non solo da de­ ficit di "teoria della mente", ma anche da deficit nei processi cognitivi importan­ ti nell'identificazione della fonte, quali, ad esempio, un deficit di memoria o una compromissione della coerenza verbale. Queste ipotesi sono state suffragate da un ampio numero di prove sia psicologiche che neuropsicologiche, che hanno evidenziato la presenza di deficit cognitivi in persone affette da allucinazioni (Bru­ nelin et al., 2006). Sembra abbastanza probabile che tali deficit siano associati alle allucinazioni ed è anche facile comprendere come essi possano portare ad attribuire scorretta­ mente le proprie percezioni a fonti esterne. Allo stesso tempo, però, la presenza di allucinazioni nella vita di ogni giorno di numerosi soggetti definiti "norma­ li" (fien, 1991) suggerisce come queste difficoltà non costituiscano una "causa" delle allucinazioni, ma facciano piuttosto parte di un pattern di vulnerabilità più complesso. Ciò significa che un ampio ventaglio di disfunzioni cognitive, come quelle sin qui descritte, può avere un impatto sui processi discriminativi delle fon­ ti o, più correttamente, possiamo ipotizzare l'esistenza di una relazione circolare. Dato che le allucinazioni possono essere un evento stressante e dato che lo stress ha un impatto negativo su molti processi mentali (si veda Bentall, 2003), infatti, si può supporre che le persone disturbate dalle allucinazioni sperimentino una difficoltà crescente nella discriminazione della realtà. Non c'è da stupirsi, quindi, che le allucinazioni uditive, nelle persone affette da Schizofrenia, peggiorino fino a comportare una flessione del tono dell'umore (Haddock et al., 1993). Questa riflessione serve a chiarire un'importante questione: normalmente ci si aspetta che i fattori biologici abbiano un effetto sui disturbi mentali influendo

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

22

negativamente sui processi psicologici (Kinderman,

2005).

Nel caso delle alluci­

nazioni, però, certi processi psicologici sembrano far parte della normale ardù­ tettura cognitiva; tutte le persone, infatti, adoperano dei meccanisnù di discrinù­ nazione delle fonti per attribuire in modo appropriato le proprie percezioni ed . esperienze, pur non riuscendoci sempre in maniera adeguata. Per ognuno di noi, dunque, vari fattori biologici e situazionali hanno un impatto su questi processi e , influenzano in modo abbastanza naturale le capacità di discriminazione della fonte. Vale la pena, inoltre, sottolineare come gli errori nel monitoraggio della fonte siano comuni e, spesso, influenzati da semplici fattori quali un rumore ambien­ tale, le caratteristiche dello stimolo o le aspettative del soggetto Gohnson et al., 1 993). Nel caso delle allucinazioni patologiche, possono quindi esserci dei fattori più specifici che causano disagio e spingono le persone a cercare aiuto.

Eventi traumatici Esiste una clùara relazione tra le esperienze traumatiche e le allucinazioni. Il rapporto fra trauma e psicosi verrà trattato più dettagliatamente nel capitolo 1 3, ma

è

evidente come, tra gli utenti del servizio psichiatrico in generale, le persone

con esperienze psicotiche e, nello specifico, i soggetti che odono voci, sia adulti che bambini, siano molto comunemente reduci di guerra o vittime di violenze (sessuali comprese) (Read et al.,

2005).

Nel capitolo 1 3 verranno discussi alcuni possibili leganù tra il trauma e la psi­ cosi, ma

è

clùaro come la potente interazione tra i pensieri altamente intrusivi e

molto disturbanti e gli schenù personali del soggetto sia una normale conseguen­ za di un evento traumatico. Molte persone, inoltre, raccontano di aver vissuto delle esperienze dissociative dopo il trauma ed

è facile comprendere

come queste

possano accrescere la probabilità di una scorretta attribuzione della fonte. I ricordi dei traunù, o i pensieri intrusivi che seguono gli eventi traumatici, sono degli esempi di come alcuni fenomeni cognitivi possano essere impropriamente percepiti come provenienti da fonti esterne. Ciò non significa necessariamente che le allucinazioni siano indicative di un abuso sessuale subito nell'infanzia, ma ci indica uno degli elementi che possono contribuire agli errori di attribuzione.

Caratteristiche dei pensieri intrusivi Quelli intrusivi possono essere definiti come dei pensieri indesiderati, inaccet­ tabili o incontrollabili, irrealistici o egodistonici, che affiorano spontaneamente alla coscienza. Sono spesso accompagnati da angoscia e interrompono l'attività mentale in corso. In generale sono comunque molto comuni. Le persone che sperimentano allucinazioni uditive riferiscono frequenti pen­ sieri intrusivi negativi (Csipke e Kinderman,

2006) ,

fenomeno del tutto coerente

con l'idea che le allucinazioni siano subvocalizzazioni interpretate in modo scor-

·

Mode l l i cogn itivi del le al l ucinazioni uditive

23

retto, visto lo stretto legame tra l e due. Gli stati ansiosi si associano tipicamente con un aumento del rimuginio; in particolare, l'ansia può essere definita come uno stato d'animo in cui una persona è pronta o preparata ad affrontare degli eventi negativi imminenti. Questa preparazione può avvenire ripetendosi mentalmente gli eventi che potrebbero verificarsi e le azioni da compiere per fronteggiarli e, spesso, per immaginare tali comportamenti e prepararsi ad agire, le persone ten­ dono a parlare tra sé e sé. Ci sono diverse caratteristiche dei pensieri intrusivi che possono renderne difficoltosa la discriminazione della fonte: in primo luogo, quelli che emergono come risultato dei faticosi processi di rimuginio tendono a venir correttamen­ te identificati come autogenerati, mentre quelli che emergono senza uno sforzo attivo del soggetto (i pensieri che "saltano in mente") vengono più facilmente interpretati in modo scorretto Oohnson et al., 1 993). Inoltre, come già detto, lo stress ha un impatto negativo sul processo di identificazione della fonte e molti pensieri intrusivi negativi sono estremamente disturbanti. I rimuginii ansiosi e, per definizione, i pensieri intrusivi possono quindi sia generare stress, che emer­ gere senza alcuno sforzo. Curiosamente, infine, Morrison e Baker (2000) hanno proposto che i pensieri espressi in seconda persona (ad es., "Sei uno sciocco") possano apparire più facilmente espressi da un'altra persona che sta parlando rispetto a quelli comunicati in prima persona (''Sono uno sciocco'') e, quindi, la loro interpretazione errata sarebbe più probabile. Bias interpretativi

e credenze metacognitive

Alcune credenze metacognitive - ciò che le persone credono in merito all'ac­ cettabilità di certi pensieri e di alcuni processi cognitivi - si possono associare alle allucinazioni (Morrison et al., 1 995). Dato che le credenze in merito all'importanza di avere il controllo sui propri pensieri e all'esserne responsabile possono deter­ minare angoscia e sofferenza nel momento in cui una persona esperisce dei pen­ sieri indesiderati (Lobban et al., 2002), si può comprendere come alcune credenze metacognitive contribuiscano al disagio connesso ai pensieri intrusivi. Le persone predisposte alle allucinazioni sono più consapevoli dei propri pensieri, credono in misura maggiore che essi possano essere controllabili e sono più pronte a credere che certi tipi di pensieri siano pericolosi. Rachman (1 997) ha dimostrato come, quando le persone pensano involontariamente a qualcosa di ripugnante, ovvero hanno pensieri inaccettabili, violenti, blasfemi o di natura sessuale, sperimentino un senso di "contaminazione mentale", ovvero di dissonanza cognitiva.

TRATTAMENTO Come già discusso nel capitolo 1 , i trattamenti psicologici e psicosociali per i fenomeni psicotici sono fondati su solide basi empiriche e hanno un notevole

24

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

supporto anche da parte delle Istituzioni. Nello specifico, gli approcci psicolo· , gici nei confronti delle allucinazioni si sono dimostrati efficaci; Haddock et al. (1 998) hanno preso in considerazione una serie di tecniche diverse, che sono state sviluppate appositamente per le allucinazioni, come quelle di distrazione, ottenendo risultati a volte ambivalenti. I ricercatori hanno indagato l'effetto di una serie di manipolazioni ambientali sulla gravità delle allucinazioni uditive ed essenzialmente hanno concluso che gli interventi che hanno un maggior impatto (non necessariamente risolutivo) sulle allucinazioni siano quelli che prevedono delle verbalizzazioni. Quando alle persone che sperimentano allucinazioni viene chiesto di impegnarsi in qualche tipo di attività verbale (ad esempio, leggere ad alta voce del materiale significativo), si riscontra un effetto positivo sulle allucina­ zioni stesse. Ciò supporta ed è coerente con il modello che le considera come un dialogo interno scorrettamente interpretato. Haddock et al. (1 998) hanno anche rilevato gli effetti positivi degli approcci terapeutici che cercano di affrontare alcuni elementi psicologici causali, ovvero quei fattori cognitivi, già argomentati in precedenza, che contribuiscono all'in­ terpretazione dei pensieri intrusivi o delle sub-vocalizzazioni come provenienti da fonti esterne. In particolare, Haddock e collaboratori hanno messo in luce gli effetti positivi di quegli interventi che includono la modificazione delle credenze metacognitive, in cui (si veda Morrison, 2004) i terapeuti utilizzano le tecniche convenzionali della terapia cognitivo-comportamentale per elicitare le metacre­ denze di base dell'individuo riguardo alle allucinazioni stesse, al significato che hanno per la persona, al loro contenuto, ecc .. Queste devono essere modificate per limitare il disagio causato dall'esperienza allucinatoria e dal contenuto delle voci. Il terapeuta deve indagare le credenze della persona in merito ai disturbi mentali in generale, alla malattia mentale nello specifico e, in particolare, al fenomeno delle allucinazioni. Queste variano molto da persona a persona (Kinderman et al., 2006) e sono indubbiamente rilevanti, tanto che la loro modificazione nel corso della terapia può determinare un atteg­ giamento normalizzante nei confronti del problema. Le credenze metacognitive, quindi, possono e debbono essere elicitate e modificate; indipendentemente se relative ai disturbi mentali, alle allucinazioni o ai pensieri in generale, possono in­ f;ttti contribuire sia al disagio che all'attribuzione scorretta della fonte: se si pensa che questi fenomeni siano anormali e particolarmente negativi (ad es., "Ciò può solamente voler dire che sono pazzo"), provocheranno disagio e saranno oggetto di una cattiva interpretazione. Chiaramente, quest'approccio andrebbe abbinato alla psicoeducazione, fornendo spiegazioni alternative comprovabili e chiarendo il significato psicologico delle allucinazioni. I terapeuti, inoltre, possono concen­ trarsi ulteriormente sul significato personale di queste esplorando la natura della relazione del soggetto con le proprie voci o, più propriamente, con l'entità rite-

Model l i cognitivi delle alluc i nazioni uditive

25

nuta responsabile delle stesse, considerandone anche il potere, la benevolenza o la malevolenza percepiti (Chadwick e Birchwood, 1 994). Ciò potrebbe essere di rilevanza notevole, in quanto sembra esistere una relazione significativa tra le allucinazioni e i temi di status sociale e di dominanza/ sottomissione. Per avere maggiori dettagli sui metodi di trattamento delle allucinazioni uditive, si veda il capitolo 8.

CONCLUSIONI Chiaramente, c'è ancora molto da imparare sulle allucinazioni. Così come per gli altri fenomeni psicotici, ci sono molti argomenti riguardo alle loro cause e al loro trattamento che richiedono di essere indagati più approfonditamente, ma, in ogni caso, le allucinazioni uditive sembrano poter essere sia comprese che trat­ tate. Queste appaiono come fenomeni cognitivi - o, più comunemente, dialoghi interni - mal interpretati. Le ricerche, effettuate per lo più su soggetti non clinici, hanno permesso di comprendere le caratteristiche di quelle percezioni che ten­ dono a essere scorrettamente interpretate, che generalmente sono automatiche, indesiderate ed emotivamente cariche. Oggigiorno, esiste un ampio consenso in merito alla natura delle esperienze e degli eventi che influenzano la tendenza a interpretare le percezioni in modo errato e conducono, quindi, alle allucinazioni uditive. Non sorprende che siano proprio gli stessi eventi, ad esempio i traumi e gli abusi, che determinano anche ricordi traumatici e pensieri emotivamente carichi, intrusivi e indesiderati. Grazie a quest'interpretazione del fenomeno al­ lucinatorio, ci siamo avvicinati alle relative tecniche terapeutiche, volte ad aiutare le persone a comprendere i processi intrusivi e le interpretazioni errate di que­ sti. Grazie agli interventi - relativamente semplici - sin qui delineati, è possibile quindi assumere un atteggiamento ottimistico nei confronti degli individui che soffrono di allucinazioni uditive.

26

Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi

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3 MODELLI CO GNITIVI DEI DELIRI Douglas Turkington, Caroline Bryant e Victoria Lumley

INTRODUZIONE Le teorie cognitive dei deliri possono rappresentare un collegamento tra le spiegazioni biologiche e fenomenologiche della Schizofrenia e la sua sintomato­ logia. Storicamente, i deliri sono stati considerati come:

False credenze, mantenute con assoluta certezza a dispetto delle evidenze conttarie e al di là del background sociale, educativo, culturale e religioso del paziente. (Hamilton, 1984) Esistono anche molte idee relative ai deliri che contraddicono questa defini­ zione, come ad esempio:

I deliri, spesso, contengono un nucleo di verità e si collegano a interessi e idee premorbose. (Kingdon e Turkington, 1 994) Ci sono anche molte altre credenze, bizzarre e assolutamente prive di qual­ siasi fondamento scientifico, che un'ampia fetta di popolazione condivide, come quelle riguardo alla telepatia, ai fantasmi, agli extraterrestri, agli oroscopi, ecc. (Kingdon et al., 1 994). In determinate circostanze, chiunque può sviluppare del­ le credenze deliranti: nella popolazione generale, ideazioni paranoidi e credenze deliranti transitorie sono molto più comuni di quanto si potrebbe immaginare

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

28

(Freeman et al.,

2005).

In ogni caso, nel corso degli anni, i ricercatori ne hanno

proposto molte concettualizzazioni differenti, giungendo alla conclusione che i deliri siano un fenomeno complesso, articolato in molteplici e diversi elementi e sottogruppi. Roberts

(1 991)

ha proposto che i deliri possano essere meglio compresi in

relazione alla storia di vita del paziente e acquisiscano senso nelle sue narrazioni. Sulla base di tale lavoro,

è

apparso evidente come i deliri si presentino in forme

diverse nei differenti pazienti: alcuni sembrano sviluppare credenze deliranti nella fase prodrornica del proprio disturbo, spesso in associazione con sintomi nega­ tivi; per altri, invece, i deliri sembrano emergere dopo un lungo periodo di ansia crescente e sembrano quasi finalizzati a ridurne l'escalation e a proteggere il pazien­ te da una depressione sottostante (Kingdon e Turkington,

1 998).

Alcuni autori

sostengono, infatti, che i deliri possano agire come una sorta di difesa psicologica: la valutazione dello stile attributivo della persona può permettere di identificare le modalità di pensiero correlate alla depressione che spiegano le possibili cause di alcune credenze deliranti e i possibili rinforzi che le mantengono in vita. Turkington e Kingdon

(1 996) hanno proposto una TCC per i deliri che parte

da un livello più superficiale (creare un'alleanza terapeutica, costruire una rela­ zione di fiducia, sviluppare una rosa di spiegazioni alternative, formulare do­ mande di circostanza, ridurre l'investimento emotivo e comportamentale) , per giungere poi a uno più profondo (dialogo socratico, esame di realtà e lavoro sugli scherni) . Turkington et al. lirio in un'ottica

evidence-based,

(1 996)

hanno anche ridefinito il concetto di de­

prendendo le distanze da una visione dicotomica

della separazione tra salute mentale e psicopatologia. In precedenza, si riteneva di poter chiaramente stabilire se una persona avesse o meno dei deliri ma, alla luce dei fatti, sembra necessario collocare questi fenomeni su un

continuum

con

la normalità. Ciò permette di comprendere meglio l'efficacia della TCC per il trattamento delle psicosi, tenendo anche conto del fatto che una visione "tutto niente" della patologia non et al.

è evidence-based

(Strauss,

1 969).

o

Secondo Turkington

(1 996: 1 27):

Un delirio è una credenza (probabilmente falsa) che si colloca al limite estremo del continuum del consenso generale. Non differisce dalle idee sopravvalutate o dalle credenze normali e continua a essere considerato credibile nonostante la presenza di evidenze contrarie. Può essere sensibile al cambiamento allorché le prove ven­ gano ricercate in modo collaborativo e avvicinandosi più possibile alle idee comu­ ni e tipiche del background sociale, culturale, educativo e religioso del paziente. In questo capitolo verranno presi in considerazione i due principali tipi di deliri e i modelli cognitivi che ne spiegano la comparsa e il mantenimento.

Mode l l i cogn itivi dei del iri

29

Deliri di Tipo I e di Tipo II Esistono due tipi principali d i deliri, denominati di Tipo kington et al.,

2005). I

deliri di Tipo

I

I

e di Tipo

II

(fur­

sono collegati a deficit cognitivi e a sintomi

negativi, come l'appiattimento affettivo, e, di solito, sono mantenuti con minor convinzione e investimento emotivo.

I

pazienti, spesso, saltano alle conclusioni

riguardo a esperienze soggettive bizzarre che non riescono a comprendere pie­ namente e a cui tentano di dare un senso ricorrendo ad argomenti di attualità che compaiono negli articoli di giornale e nei notiziari. Un tempo, i contenuti dei deliri di Tipo

I

erano frequentemente a carattere religioso ma, negli anni, si sono

spostati verso tematiche quali

I

deliri di Tipo

II,

microchip, satelliti, telefoni cellulari e alieni.

al contrario, sono raramente collegati ai sintomi negativi.

Compaiono solitamente dopo un periodo di intensa e crescente ansia, attorno

ai 35 anni, e sono tipici della psicosi ansiosa, un sottotipo di Schizofrenia. Soli­ tamente, sono deliri persecutori strutturati o di grandiosità, che si presentano in assenza di sintomi negativi e che possono insorgere in pazienti con traumatico alle spalle (si veda il capitolo

1 3),

un

episodio

con la funzione di proteggerli dai

sentimenti intollerabili che potrebbero sperimentare nel momento in cui si trova­ no in situazioni ricollegabili al trauma, ad esempio nel corso di particolari ricor­ renze o di altre giornate simbolicamente rilevanti.

I MODELLI COGNITIVI RELATIVI ALLA COMPARSA E AL MANTENIMENTO DEI SINTOMI PSICOTICI

Teoria della mente e deficit cognitivi La teoria della mente (foM; Theory of Mind)

è, essenzialmente, la

capacità di

cogliere i propri e gli altrui stati mentali, quali ad esempio le credenze, le sensa­ zioni o le intenzioni. Un deficit nella ToM può comportare una generale incapacità

di differenziare tra soggettività e

oggettività, il che, a sua volta, può contribuire a

mantenere in vita false credenze sotto forma di deliri. Un deficit nella ToM, nel­ lo specifico, può giustificare problemi connessi all'automonitoraggio dei propri stati interni - come il delirio di essere sotto il controllo degli alieni - e difficoltà nel monitoraggio della mente degli altri, dei loro pensieri e delle loro intenzioni, che possono determinare deliri di riferimento e di persecuzione (Frith,

1 992). Le

persone affette da questo tipo di deliri possono infatti essere incapaci di com­ prendere adeguatamente le motivazioni, le attitudini e le intenzioni altrui (Frith,

2004). Questo tipo di manifestazioni insorge quando il soggetto percepisce

che le

azioni degli altri sono divenute "ambigue" e ipotizza l'esistenza di un complotto. Ftith

(2004)

pensava che l'appiattimento affettivo e il ritiro sociale connessi ai

sintomi negativi della Schizofrenia fossero un'ulteriore manifestazione dei deficit nella ToM. Abu-Akel e Bailey

(2000) hanno ampliato l'idea originale,

suggerendo

30

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

che in alcuni pazienti possa esservi un'iperattività della stessa, in base alla quale il soggetto sovra-atttibuisce alcune intenzioni a sé o agli altri - così come si riscon­ tra in alcuni deliri - oppure, ancora, una ToM intatta ma l'incapacità di utilizzare le informazioni che fornisce. Le prove empiriche a supporto del ruolo della ToM nei sintomi deliranti della Schizofrenia sono tuttavia contraddittori e rendono difficile sostenere tale tesi. In ogni caso, alcune ricerche recenti confermano l'ipo­ tesi che, nella Schizofrenia, siano presenti dei deficit nella ToM, particolarmente in chi manifesta sintomi negativi o disturbi del pensiero e del linguaggio (Freeman e Garety,

1 999).

Le contraddizioni emerse dalle ricerche precedenti potrebbero

essere superate se questi deficit venissero considerati come stato-dipendenti, no­ nostante che la cronicità del disturbo,

il

livello di compromissione cognitiva e

l'intelligenza del paziente abbiano un peso su questi risultati.

Le capacità e i livelli

della ToM possono anche differire da compito a compito (in studi precedenti, ad esempio, ci si

è

serviti sia di fotografie che di vignette scritte) . I deficit della ToM

sono comunque coinvolti sia nella genesi che nel mantenimento di alcuni deliri, il che ha delle implicazioni nella pratica clinica della TCC.

Distorsioni cognitive e formazione dei deliri Alcune persone possono essere maggiormente inclini verso determinate cre­ denze - ad esempio, che le persone parlino di loro - quando si trovano in uno stato mentale che le rende particolarmente vulnerabili. Alcuni studi hanno testato l'ipotesi che le persone affette da Schizofrenia possiedano una tendenza a servirsi abitualmente di un basso numero di informazioni per prendere una decisione e, quindi, "saltino subito alle conclusioni", sviluppando affrettatamente credenze, spesso inaccurate (Garety e Freeman,

1 999), che possono mutare rapidamente se " test delle perle" è uno stru­

si presentano delle prove incompatibili con esse. Il mento particolare che

è

stato utilizzato per indagare questa tematica.

Il test delle perle Ci sono due barattoli nascosti e, da uno di questi, viene estratta una perla alla volta. Nel primo barattolo il rapporto tra perle nere e perle bianche è pari a

85:15,

nel

secondo il rapporto tra i due colori è invertito. Chiedendo ai pazienti, cui veniva lasciato a disposizione tutto il tempo che desideravano, di decidere da quale dei due barattoli venivano estratte le perle, si è potuto constatare come le persone che sof­ frivano di deliri tendessero a prendere una decisione dopo averne viste solo alcune, mentre

gli altri

partecipanti aspettassero più a lungo prima di formulare un'ipotesi

(Peters e Garety, 2006). Le ricerche di Van Dael e collaboratori (2006) indicano che le persone predisposte a sviluppare Schizofrenia e i loro parenti più prossimi posso­ no presentare la tendenza a saltare alle conclusioni. Sono necessarie ulteriori ricerche per valutare se il fenomeno sia circoscritto o meno a particolari tipi di delirio.

Mode l l i cognitivi dei de l iri

31

Stile attributivo depressivo e formazione dei deliri Nei pazienti che sperimentano deliri, lo stile attributivo potrebbe essere consi­ derato

un

meccanismo di difesa, che protegge dalla differenza percepita tra come

si pensa di essere visti dagli altri e come, invece, si vorrebbe apparire. Le esterna­ lizzazioni delle attribuzioni causali - come i deliri di persecuzione - possono ma­ scherare alcune credenze negative e rappresentazioni di sé sottostanti funzionali a evitare uno stato d'animo intollerabile o una perdita dell'autostima derivante dai ripetuti eventi di vita negativi. Questi deliri generalmente sono strutturati e carat­ terizzati da grandiosità e, spesso, compaiono dopo che alcuni schemi di base del paziente, con funzione compensatoria, sono stati ripetutarnente invalidati. I deliri strutturati, tradizionalmente, sono stati concepiti come basati su uno stato d'ani­ mo caratterizzato da percezioni deliranti - con il resto del sistema di credenze adattato logicamente a questo tipo di errore - oppure come un accumulo di deliri secondari che sfocia in un intricato sistema delirante, dove ogni affermazione delirante deriva da quella precedente, all'interno di un piano generale che mantie­ ne una logica, un ordine e una consistenza interna. La strutturazione del delirio non

è

semplicemente presente o assente, ma può esserci in misura maggiore o

minore. In particolare, i deliri di Tipo II sono collegati al contenuto degli schemi sottostanti, del tipo: "Non valgo nulla, sono sbagliato, non sono degno di essere amato e sono cattivo". A queste credenze di base negative su di sé conseguono le distorsioni cognitive, come la tendenza a esternalizzare gli elogi per gli eventi positivi o le critiche per quelli negativi riferendoli a una singola persona o a un gruppo. L'esternalizzazione e la personalizzazione sono legate a un della mente che, probabilmente,

è

meglio descrivibile come

deficit nella teoria

un

problema per­

vasivo di empatia, ad esempio il percepire l'altra persona come incapace di un determinato sentimento nei nostri confronti. Questo modello di genesi e man­ tenimento del delirio paranoide apre la strada a un intervento estremamente fo­ calizzato, basato sull'esame di realtà, la correzione delle distorsioni cognitive, i

role-p!C!Jing e l'inversione dei ruoli, volto a incrementare l'empatia. Anche il lavoro sugli schemi aiuta a rendere più funzionali e meno disturbanti le credenze negati­ ve su di sé (furkington e Siddle, 1 998), come quella "Sono cattivo". Ad esempio, su una scheda di monitoraggio dei dati positivi una paziente annotava solo le azioni malvagie compiute nel corso di una giornata. Potrebbe essere utile porre su un

continuum una

serie di personaggi - storici o immaginari - dove a un estre­

mità si posiziona chi è buono al l OO% e all'altra chi

è cattivo al

l OO%. Il paziente,

quindi, può essere incoraggiato a riconsiderare la propria ubicazione su questa scala immaginaria modificando il punteggio di malvagità che si

è

attribuito in

precedenza. Può anche essere utile operazionalizzare un costrutto negativo, come

ad esempio: "Cosa farebbe una persona cattiva nel corso della giornata?". Questo

32

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

modello, quindi, implica l'applicazione di una varietà di tecniche sia cognitive che comportamentali che, come descritto poc'anzi, possono ridurre il l'angoscia e, in alcuni casi, anche il delirio paranoide. Consideriamo ora il caso di una persona che presentava lo schema maladattivo "Non valgo nulla". Per compensare tale credenza negativa in merito al proprio valore e per avere successo sul posto di lavoro, lavorava continuamente, sia du­ rante il giorno che nella maggior parte dei fine settimana, oltre a ricercare conti­ nuamente l'approvazione degli altri facendo loro dei regali molto costosi. Tutto

è

andato bene fino a quando gli affari non hanno cominciato a peggiorare e gli in­ cassi a scarseggiare. Aumentando ulteriormente il carico lavorativo e deprivandosi del sonno, questa persona ha iniziato a provare un'ansia crescente. La percezione di fallimento e la mancanza di approvazione sono state scongiurate quanto più a lungo possibile, ma l'opinione negativa di sé non si

è modificata, cosa che avrebbe

permesso di evitare sia i livelli d'ansia crescenti, sia la comparsa di depressione. Dopo un periodo di stato d'animo delirante, il suo schema compensatorio lo ha portato a sviluppare un vero e proprio delirio di grandezza, per eliminare l'an­ sia ed evitare la comparsa della depressione. Prima che il delirio si manifestasse completamente, ha avuto una percezione delirante: vedendo il segno dei dollari lampeggiare in una vetrina, ha creduto di essere l'erede della fortuna di Getty1 • In un caso del genere, il dialogo socratico e l'esame di realtà probabilmente non risulterebbero utili, mentre

è

cruciale esaminare minuziosamente gli antecedenti

per giungere a una formulazione condivisa delle credenze del paziente. Potrebbe quindi seguire un intervento più approfondito rispetto al sistema delirante, che si spinga a livello degli schemi. Se ad esempio il paziente, dopo aver sfogliato l'album di famiglia, accede al ricordo delle relazioni e dei legami familiari, può rendersi conto di essersi considerato privo di valore basandosi su false premesse. Quando ciò accade - ovvero quando, nel corso della TCC, i sistemi deliranti si indeboliscono - possono emergere sentimenti di colpa, vergogna, tristezza o rab­ bia, su cui

è

necessario lavorare.

Stigma, preoccupazione e ruminazione Nel mondo occidentale, lo stigma

è un problema particolare e

tristemente at­

tuale per le persone che soffrono di problemi mentali. La Schizofrenia

è uno dei

disturbi maggiormente stigmatizzati, dato che le persone sviluppano e manten­ gono degli stereotipi negativi a causa delle informazioni trasmesse dai e dalla società in generale, che comportano giudizi di

status

mass-media

e discriminazione.

Anche se la maggior parte delle ricerche si concentra sull'importanza dello stigma

1 John Paul Getty (1892-1 976), magnate americano del petrolio che, mezzo secolo fa, era l'uomo più ricco del mondo (N.d.T.).

Mode l l i cogn itivi dei deliri

33

esterno, o pubblico, quello internalizzato, ovvero rivolto verso di sé, può esse­ re un problema anche quando il livello oggettivo dello stigma esterno o addirittura inesistente. Lo stigma internalizzato

è

è

basso

la percezione soggettiva di

essere svalutato ed emarginato, indipendentemente dal livello oggettivo di discri­ minazione.

Le persone, applicando i pregiudizi e gli stereotipi su di sé, si sentono

svalutate e si vergognano, tentando di nascondere i propri problemi per mezzo del segreto e del ritiro (Corrigan,

1 998).

In ogni caso, l'esperienza transitoria di

sintomi psicotici - come le idee paranoidi e le allucinazioni uditive

-

è tanto co­

mune quanto quella dei pensieri ossessivi, anche in soggetti apparentemente sani Oohns e van Os,

2001).

Solitamente, entrambi i fenomeni vengono interpretati

negativamente a causa della natura altamente stigmatizzante della cultura occi­ dentale. Una persona che sviluppi delle pseudo-allucinazioni dovute a disturbi del sonno, legati allo

stress sul lavoro, potrebbe interpretare

questi sintomi transitori

nel modo seguente: "Sono certo di aver appena sentito una voce che mi chiamava. . . sto diventando matto . . . se avessi un crollo psichico perderei il lavoro . . . forse verrei ricoverato in un reparto psichiatrico . . . verrei imbottito di farmaci . . . sarei un pericolo per gli altri . . . la vita sarebbe davvero insopportabile". Questo stile metacognitivo di rimuginio e ruminazione sui propri pensieri, tipico del mo­ dello dello stigma, si basa su credenze negative stigmatizzanti. Il crescendo di interpretazioni ansiogene relative alla pseudo-allucinazione originaria può portare ad ansia crescente e a ulteriore deprivazione di sonno, mantenendo in vita ed esacerbando l'esperienza allucinatoria. Il modello dello stigma fa pensare che per "agganciare" il paziente psicotico. sia utile fornire precocemente delle spiegazioni normalizzanti, dato che queste possono favorire una maggior collaborazione e generare una prima esperienza positiva: l'intensità delle allucinazioni, infatti, cala grazie alla riduzione dell'ansia percepita che, in una situazione del genere, potreb­ be anche fungere da variabile di mantenimento. Similmente, altri sintomi psicotici (come i deliri di inserzione del pensiero e le idee di riferimento) sono soggetti a catastrofìzzazioni analoghe: anche in questi casi, quindi, può essere utile fornire da subito le spiegazioni normalizzanti.

Deliri "in linea con la cultura" I pazienti affetti da deliri paranoidi di Tipo I manifestano delle tipiche distor­ sioni cognitive, che includono l'inferenza arbitraria (saltare alle conclusioni senza prima avere le informazioni adeguate) e l'ingigantimento (essere maggiormente convinti di qualcosa rispetto a quanto lo sarebbero le altre persone). Coloro che soffrono di sintomi psicotici incomprensibili necessitano di dare senso alla propria esperienza e, in mancanza di dati di realtà, sviluppano questi deliri, tipicamente "in linea con la cultura" (rapimenti alieni, controllo da parte di satelliti, tormento

tramite

laser,

ecc.) e non-jasperiani nelle caratteristiche (Kingdon e Turkington,

34

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

1 994) .

Spesso si associano a una carenza di attenzione dovuta a deficit cognitivi e,

di solito, sono sorprendentemente sensibili all'intervento psico-educazionale, agli

homework che implicano un esame di realtà e

alla formulazione e verifica di ipotesi

alternative.

Il modello dell'evitamento Anziché catastrofizzare i sintomi psicotici, alcuni pazienti vanno alla ricerca di comportamenti protettivi. Per queste persone, i sintomi sono

un

segnale di

pericolo da tenere sotto controllo e, quindi, non desiderano né sperimentarli né conoscerne le origini, ma piuttosto evitano qualsiasi situazione in cui potrebbero emergere dei pensieri paranoidi. Se questi ultimi tendono a manifestarsi in situa­ zioni sociali, il paziente le eviterà strenuamente. A causa di questi comportamenti protettivi, i pensieri paranoidi non hanno mai la possibilità di estinguersi, poiché sono mantenuti attivamente in vita dallo stile di

coping del

paziente. Quando, a

causa del processo di catastrofizzazione, si esacerbano i sintomi psicotici e con­ temporaneamente

è

presente un uso massiccio e disabilitante di comportamenti

protettivi di evitamento, si possono sviluppare dei deliri paranoidi. L'abbandono

è possibile solo nel momento in cui sono state delle strategie di coping più funzionali che si sono dimostrate

dei comportamenti di evitamento proposte al paziente

efficaci nella gestione dei sintomi quando sono state adoperate durante i compiti a casa o nel corso delle sedute. Allo scopo, si possono efficacemente impiegare le spiegazioni normalizzanti e i diari del pensiero, incoraggiando nel frattempo all'abbandono graduale dei comportamenti protettivi. Questo modello, inizial­ mente proposto per le allucinazioni, può essere applicato anche ad alcuni deliri.

Il modello traumatico Durante la terapia, i pazienti che soffrono di allucinazioni uditive critiche e minacciose, o visive e/ o somatiche, e che presentano in concomitanza sia depres­ sione che bassa autostima spesso scoprono di essere stati vittime di abuso ses­ suale nel corso dell'infanzia o di aver vissuto un trauma in adolescenza (Kingdon e Turkington,

1 998).

Il trauma interpersonale (abuso o bullismo)

sintomi positivi della Schizofrenia (Read et al.,

2005)

è

associato ai

e in questi casi, solitamente,

un successivo evento di vita negativo funge da innesco per la comparsa di voci minacciose o per la genesi di un delirio. Se il paziente non

è

in grado di valutare

la situazione e di identificare il legame tra il pensiero intrusivo attuale e il trauma subito nel passato, i ricordi intrusivi connessi al trauma possono venire mal inter­ pretati ed essere percepiti come allucinazioni (Steel et al.,

2005).

Spesso, il clinico

evita di andare a indagare gli eventi traumatici e a lavorare su di essi nel timore di procurare sbalzi di umore verso tonalità depressive. L'aumento dell'arousal do­ vuto agli esiti post-traumatici, però, così come la conseguente deprivazione di

Mode l l i cognitivi dei del iri

35

sonno, peggiorano i sintomi psicotici. Il contenuto dei deliri, solitamente, è di tipo persecutorio e riguarda il mondo esterno alla persona. Tuttavia, può riguardare anche se stesso, come nel caso della convinzione di emettere un cattivo odore o dei deliri compensatori di grandezza. In situazioni simili, generalmente, una formulazione strutturata del caso - in cui il contenuto dei sintomi psicotici venga collegato alle conseguenze dell'abuso - può permettere al paziente di iniziare il proprio processo di guarigione e di rielaborazione del trauma, alleggerendo il disagio collegato ai propri schemi negativi. Di solito, questi pazienti hanno subito ripetuti ricoveri e sono ad alto rischio di suicidio a causa della compresenza di deliri di persecuzione, di allucinazioni commentanti e imperative e di depressione. L'esperienza della psicosi stessa può anche essere causa di un trauma, dato che molti pazienti, già vulnerabili, sono poi vittime di aggressioni, pestaggi e violenza sessuale. Ancora una volta, questi episodi spesso non vengono rivelati, ma contri­ buiscono a esacerbare le allucinazioni, i deliri di persecuzione e i sintomi negativi. I deliri, nell'ambito della psicosi traumatica, devono essere affrontati tramite la ristrutturazione cognitiva o gli approcci esperienziali (si veda il capitolo 1 3).

Il modello dell'ansia Questo modello sottolinea l'importanza dell'ansia nella genesi e nel manteni­ mento dei deliri, in particolare della paranoia. I pensieri ansiosi riguardano l'anti­ cipazione di una minaccia e di un danno fisico, sociale o psicologico e, in quanto tali, possono comportare la formulazione di pensieri di natura paranoica, soprat­ tutto in reazione a stressor interpersonali o a un trauma. Le credenze negative su di sé preesistenti - come quella di essere vulnerabili o deboli - possono combi­ narsi con una valutazione negativa degli altri, considerati pericolosi o inaffidabili, generando la sensazione di minaccia o la paranoia (Freeman et al., 2002). I deliri paranoidi, quindi, possono rappresentare una reazione di difesa psicologica con­ seguente a meccanismi di apprendimento e innescata da un aumento dell'ansia. Freeman e Garety (1 999) sostengono che la maggior parte di coloro che soffrono di allucinazioni persecutorie, anche in situazioni che non attivano direttamente la paranoia, abbia anche uno stile di pensiero caratterizzato da eccessivo rimu­ ginio, fenomeno che provoca un livello di sofferenza molto elevato. L'aumento dell'ansia, associato ai deliri di persecuzione, dà vita inoltre a dei processi - come i "comportamenti protettivi" - considerati preventivi della catastrofe temuta (Fre­ eman et al., 2001; Freeman et al., 2007). Tali atteggiamenti, tuttavia, fungono da fattori di mantenimento, in quanto la persona, così facendo, è convinta di poter effettivamente evitare la minaccia: "Il motivo per cui non sono stato aggredito è che mi sono allontanato in tempo dalla strada e sono ritornato a casa". Ciò significa che, in parte, la percezione di minaccia persiste a causa dell'incapacità di acquisire ed elaborare delle prove contrarie.

Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi

36

Deliri mascherati da disturbi del pensiero Solitamente, i pazienti con disturbi formali del pensiero - quali accelerazione ideativa, deragliamento e uso di neologismi - sono particolarmente sensibili a deter­ minati argomenti, che sono in grado di scatenare la disorganizzazione del pensiero. Se il paziente viene aiutato a identificarli, stabilendo collegamenti logici e dando spiegazioni ai propri pensieri, è possibile riuscire ad ottenere una maggior coerenza

1991). Chiedendogli ripetutamente com'è arrivato Z, lo si può incoraggiare a considerare anche Y Durante il dialogo terapeuti­

formale (furkington e Kingdon, da X a

co, vengono chieste spiegazioni anche riguardo ai neologismi, che diventano ogget­ to di discussione e di confronto. Il tema sottostante ad essi riguarda solitamente la minaccia e, spesso, è di tipo delirante. Identificandolo ed evidenziandolo, è possibile ottenere una riduzione dell' arousal e una maggior coerenza del discorso. I pericoli e le minacce che li sottendono, infatti, sono spesso stati percepiti in modo errato o ingigantiti e, nel corso della terapia, possono venir gradualmente corretti.

Deliri collegati ai sintomi negativi primari Il modello cognitivo relativo alla comparsa dei sintomi negativi primari (alogia, appiattimento affettivo e autismo) si rifà al lavoro di Bleuler

(1 91 1), che

conside­

rava questi fenomeni i sintomi primari della Schizofrenia (oltre all'ambivalenza e all'allentamento dei nessi associativi) e credeva che rappresentassero delle strate­ gie difensive da livelli intollerabili di

stress.

Senza dubbio, questi sintomi sono più

comuni nei pazienti con alti livelli di vulnerabilità e minor capacità di gestire lo

stress,

che manifestano Fobia Sociale o Agorafobia secondarie e che vengono più

facilmente istituzionalizzati. Da molto tempo è noto come tali pazienti possano gradualmente "animarsi" tramite una terapia non troppo invasiva e supportiva. La TCC può essere utile se viene condotta usando uno stile conversazionale gen­ tile e lento, programmando le attività e ponendosi obiettivi minimi. Nel momento in cui i pazienti iniziano lentamente a percepire e a utilizzare le emozioni e a pre­ sentare un'attività cognitiva più logica, è utile prendere in considerazione anche i

minimi elementi fobici compresenti. I

sintomi negativi, generalmente, migliorano

nel momento in cui si affrontano parallelamente quelli positivi coesistenti (King­ don e Turkington,

1 994) ,

partendo da quelli che implicano un minor coinvolgi­

mento emotivo, come ad esempio i deliri di Tipo I.

Un modello cognitivo integrato dei deliri Garety et al., nel

200 1 ,

hanno proposto una sintesi di questi elementi, che si

basava su un modello bio-psicosociale e che tentava di includere tutte le eviden­ ze scientifiche più recenti. Sicuramente, la Schizofrenia ha una componente di vulnerabilità genetica, di cui sono responsabili un ristretto numero di geni, che agiscono indipendentemente e i cui effetti si sommano, detti

"multiple hil'.

Può

Model l i cognitivi dei deliri

37

esservi una predisposizione biologica alla Schizofrenia collegata a un trauma pe­ rinatale o a un'infezione virale materna;

è

anche più comune in chi nasce in città

piuttosto che in aree rurali, nonché in coloro che si trasferiscono dalle città alle campagne. Sembra, quindi, che l'effetto cumulativo di queste variabili si riscontri più facilmente nelle aree urbane più povere, difficilmente accessibili o con una scarsa presenza di servizi di ostetricia. In tali aree, inoltre, tendono a manifestarsi più alti livelli di deprivazione emotiva e di abusi di vario tipo, che portano alla for­ mazione di schemi negativi, che a loro volta tendono a mantenere i sintomi psi­ cotici. Esistono anche delle zone specifiche nelle quali è più facile reperire droghe allucinogene, che possono attivare e mantenere le idee di persecuzione e i deliri e che, spesso, sono gli unici luoghi dove si insediano i nuovi immigrati e coloro che richiedono asilo politico, ovvero quei soggetti tra i quali notoriamente vi

è

una

maggior incidenza di Schizofrenia, in particolar modo tra gli immigrati di seconda generazione, che si dibattono fra conflitti culturali e ricerca di sostegno (M:urray, 2002). L'ipotesi stress-vulnerabilità implica una prevalenza diversa di Schizofrenia in ambienti differenti; tale ipotesi ha trovato conferma negli studi condotti nel Regno Unito. Le persone provenienti da specifici contesti e con un determinato patrimonio genetico (dovuto alla deriva genetica in alcune aree della città), che hanno ricevuto carenti cure ostetriche e sviluppato schemi negativi, manifestano più facilmente sintomi psicotici a causa di stressor ambientali, come l'abuso di dro­ ghe, i traumi o l'accumularsi di problemi sociali. Gli schemi negativi, la mancanza

di sostegno sociale,

l'uso di allucinogeni e un ambiente deprivato portano a vitti­

mizzazione e mantengono in vita i sintomi psicotici, inclusi i deliri.

DAI MODELLI ALLA TERAPIA In ogni situazione particolare in cui si manifestano i deliri, qualsiasi modello sopra esposto può essere il più adatto o contribuirne alla spiegazione. La descri­ zione del caso che segue costituisce un esempio tipico, che evidenzia la necessità

di avere un modello

di riferimento per poter proporre un intervento adeguato.

Esempio di un caso: Jack Presentazione delproblema Quando si

è

presentato, Jack era convinto di avere un microchip impiantato

all'altezza del petto, in grado di tracciare ogni suo movimento e attività sociale. Tutto era iniziato alcuni anni prima, quando aveva subito un piccolo intervento in anestesia generale, durante il quale era convinto che qualcuno avesse impiantato l'apparecchiatura in modo da potergli controllare la vita. Jack era sicuro che il congegno fosse in grado di controllare i suoi processi cognitivi e, in qualche misura, anche i suoi movimenti e i suoi comportamenti.

38

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

Aveva interrotto qualsiasi attività sociale e stava iniziando a evitare le situazioni in cui temeva che il dispositivo si sarebbe attivato (comportamenti protettivi); era preoccupato che i suoi amici/ familiari fossero in qualche modo coinvolti e insisteva per farsi rivelare chi altro fosse implicato nel complotto, in modo da po­ terlo "tenere alla larga". In famiglia, il livello di tensione era alto e i rapporti con i genitori erano molto difficili; quelli sul lavoro erano ancora più problematici e gli sembrava che nessuno avesse voglia di ascoltare i suoi problemi. I genitori di Jack ne mettevano spesso in dubbio le convinzioni (confronto), cosa che lo faceva infuriare e lo rendeva più restio a considerare spiegazioni alternative. Quando gli veniva proposto di considerare la possibilità di essere affetto da una malattia mentale, Jack diveniva particolarmente suscettibile; i tentativi di cura precedenti lo avevano reso verbalmente aggressivo, arrabbiato e isolato (stigma). Si rifiutava di assumere qualsiasi tipo di farmaco ed era chiaro come, secondo lui, l'unica cosa che gli avrebbe dato sollievo fosse la rimozione del microchip. In seduta, Jack era molto restio a parlare, memore delle esperienze prece­ denti in cui le sue credenze erano state messe in discussione e le sue esperienze invalidate. Riferiva di non credere più a nessuno, ma si è mostrato disponibile a un approccio psicologico tramite il quale avrebbe potuto approfondire il funzio­ namento del dispositivo, avendo anche l'opportunità di parlare dei suoi timori e sperando di ricevere ascolto da parte della propria famiglia.

Storia personale Jack aveva circa quarant'anni e viveva con i genitori, che gestivano un'impresa di costruzioni in una piccola città. Aveva una sorella maggiore, che era sposata. En­ trambi i genitori venivano descritti come persone molto dedite al lavoro, che "anda­ vano sempre avanti, cascasse il mondo". Jack riferiva di essersi spesso vergognate e sentito umiliato da bambino (schema di vulnerabilità); aveva frequentato la scuola locale e descriveva il padre come una persona molto controllante e con una menta­ lità forte, che spesso si esprimeva duramente riguardo al modo in cui Jack avrebbe dovuto lavorare. Jack riferiva la totale mancanza di supporto emotivo da parte dei familiari, asserendo che sia lui che il padre erano persone molto testarde. Nell'anno precedente all'operazione, si era sottoposto a una lunga cura an­ tibiotica e si era da poco separato dalla sua compagna. La salute dei genitori era recentemente peggiorata, tanto che questi gli avevano chiesto di occuparsi dell'azienda di famiglia per poter andare in pensione. Jack aveva iniziato a lavorare molto, nel corso delle giornate, per assicurarsi che tutte le incombenze fossero state portate a termine e non riusciva a dormire a sufficienza.

Formulazione del caso Jack si sentiva molto controllato e dominato dal padre e paragonava costan-

Mode l l i cognitivi dei del iri

39

temente le proprie capacità alle sue. Le esperienze dei suoi primi anni di vita sembravano essere state particolarmente influenti per lo sviluppo dello schema maladattivo di base di essere debole e di non avere alcun controllo. Per compen­ sare questa visione negativa di sé, Jack aveva sviluppato l'assunzione disfunzio­ nale "Devo essere forte per avere il controllo" e cercava di tenere disattivato il proprio schema maladattivo (''Sono debole") assicurandosi di non esprimere mai le emozioni, che considerava un segno di debolezza. Da bambino aveva subito un intervento chirurgico, esperienza traumatica che ave­ va comportato un periodo di dolorosa dipendenza dagli altri e innescato sentimenti di vulnerabilità. La recente operazione era stato un evento critico che aveva riattivato le sue paure di perdita di controllo. I tentativi estremi di sopprimere le emozioni avevano innalzato il suo livello di stress, influenzando la sua vulnerabilità alla psicosi. Presumibilmente, l'ambiente ospedaliero aveva riattivato i ricordi traumatici e le emozioni dell'infanzia non elaborate, provocando elevati livelli d'ansia e di angoscia e una conseguente interpretazione errata degli eventi. La decisione dei suoi genitori di andare in pensione gli aveva provocato un'ansia smisurata, che aveva ulteriormente favorito la riattivazione dello schema maladattivo (debolezza e incapacità di controllo). Jack aveva quindi iniziato a cercare delle spiegazioni per i cambiamenti del proprio stato emotivo e, nel tentativo di fare chiarezza, si era recato all'ospedale per parlare ai medici delle proprie preoccupazioni. La formulazione cognitiva del caso (vedi figura 3.1 ), focalizzata principalmente sui pensieri, sulle sensazioni fisiche e sui comportamenti, indica come, dirigendosi verso l'ospedale, l'uomo avesse esperito i sintomi fisiologici dell'ansia (senso di oppressione al petto) e avesse interpretato queste sensazioni fisiche in modo di­ sfunzionale, strutturando la credenza (delirio) di essere controllato dall'esterno attraverso un dispositivo. Nella figura 3.2 è raffigurata la formulazione del caso sotto forma di diagramma. Dopo l'episodio, Jack era entrato in uno stato di ipervigilanza, raccogliendo delle prove sostanziali a sostegno del suo delirio, accrescendo l'ansia e mante­ nendo in vita le distorsioni cognitive (bias confirmatorio). La sua percezione di minaccia era ulteriormente mantenuta dall'evitamento delle situazioni implicanti contatti sociali che, secondo lui, avrebbero attivato il "dispositivo". I comporta­ menti protettivi riducevano il suo disagio emotivo in maniera intermittente, man­ tenendo vivi i deliri e impedendogli di rilevare le prove ad essi contrarie. È stato quindi ipotizzato che le credenze di essere controllato dall'esterno potessero fungere da meccanismo di evitamento dello schema, consentendogli di tenersi alla larga dalle situazioni che gli provocavano disagio emotivo, ansia e paura. Queste credenze gli davano anche l'opportunità di esternalizzare e proiet­ tare la rabbia e la frustrazione vissute nell'infanzia quando, per lungo tempo, si era sentito indifeso.

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

40

SITUAZIONE Recarsi all'ospedale. Individuare il medico responsabile.

SENSAZIONI FISICHE Pesantezza al petto, aumento della frequenza cardiaca, malessere, stomaco sottosopra.

COMPORTAMENTO

EMOZIONI

Andarsene dall'ospedale.

Panico, ansia, rabbia, terrore e paura.

PENSIERI Qualcuno vuole impedirmi di andarci. Sono tenuto sotto controllo. Sto diventando pazzo.

FIG.

3.1 .

Formulazione cognitiva del caso.

Una formulazione più dettagliata dei processi implicati nel mantenimento dei deliri di Jack è illustrata nella figura 3.2.

Processo terapeutico Nelle prime sedute, si è permesso a Jack di parlare apertamente delle sue creden­ ze riguardo al "dispositivo", validando così le sue esperienze e, al contempo, racco­ gliendo informazioni per giungere a una formulazione del caso iniziale. Jack era in grado di identificare il modo in cui il congegno influiva su emozioni e comporta­ menti e la formulazione gli ha offerto una buona opportunità per normalizzare le proprie reazioni. Il processo di normalizzazione è stato utile a fortificare l'alleanza terapeutica e ha creato un ambiente sicuro per esplorare le emozioni del paziente. Nel corso delle sedute individuali, ci si è focalizzati sui processi di scoperta guidata, dando a Jack l'opportunità di rivalutare le proprie convinzioni distorte e di considerare delle spiegazioni alternative al fatto di essersi sentito diverso dopo l'operazione. Sono emerse le seguenti ipotesi:

Mode l l i cogn itivi dei del iri

41

ESPERIENZE PRECOCI Relazione sottomessa con il pad re, interventi chirurgici, ospedalizzazione, deprivazione emotiva.

CREDENZE DI BASE Non ho il controllo, sono debole.

o

ASSUNZIONI DISFUNZIONALI Se dimostro le mie emozioni, gli altri penseranno che sono un debole. Devo sempre essere forte per mantenere il controllo.

EVENTI SCATENANTI Operazione per estrarre il dente del giudizio. Opprimenti impegni a livello lavorativo.

FIG. 3.2. 1.

2.

3. 4.

La formulazione del caso di Jack.

Overdose di sedativi Troppi antibiotici Assenza di una fase pre-operatoria Essere stato drogato da qualcuno

Al momento, Jack non desiderava formulare ulteriori ipotesi alternative e le richieste successive del terapeuta avevano suscitato in lui rabbia e lo avevano portato a minacciare di abbandonare la terapia. Considerando questo processo psicologico più in profondità, basandosi sulla formulazione si è ipotizzato che, nel momento in cui Jack vagliava delle possibilità alternative, si attivasse in lui la credenza di base di essere debole e di non avere il controllo. Le sedute si sono quindi focalizzate sulla costruzione dell'alleanza terapeutica. Jack desiderava gestire gli argomenti della seduta e aveva la sola necessità di scoprire chi volesse controllarlo e perché, esprimendo spesso la sua frustrazione per non aver rice­ vuto risposta ai suoi interrogativi. Quando il terapeuta, usando un approccio tradizionale, tentava di far considerare a Jack la possibilità di individuare dei modi alternativi di pensare, egli si arrabbiava e minacciava di andarsene. Per

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

42

guadagnare la sua fiducia, è stato necessario validare il disagio emotivo asso­ ciato alle sue preoccupazioni: Jack desiderava ancora rimuovere il microchip e quindi, per evitare che interrompesse la terapia, è sembrato opportuno aiutarlo a valutare le diverse opzioni. Per migliorare la relazione, il terapeuta ha preno­ tato al paziente delle radiografie e ha organizzato degli incontri con la polizia e il medico di famiglia, nel tentativo di ottenere delle risposte e di sostenerlo in questo percorso. Jack, alla fine, ha stabilito che l'unica possibilità di andare avanti con la terapia era che "il dispositivo gli venisse rimosso dal petto". Tuttavia, quando tentava di comunicare questo desiderio agli altri, veniva considerato affetto da malattia mentale. Aveva vagliato le seguenti possibilità riguardo dispositivo: 1. 2. 3. 4.

Farlo rimuovere Lasciare il paese Andare alla polizia Far buon viso a cattivo gioco (accettazione).

Nel corso della terapia, si è continuato a esplorare i modi in cui avrebbe po­ tuto "far buon viso a cattivo gioco" e, alla fine, Jack è giunto alla conclusione che potesse essergli utile effettuare alcuni test per riuscire a capire che controllo avesse il dispositivo su di lui. In questo modo, la relazione è migliorata, cosa che ha facilitato il processo terapeutico. Le sedute si sono focalizzate sullo scoprire qualcosa in più sul dispo­ sitivo: per capire in quali situazioni si innescava, Jack è stato incoraggiato a tenere un diario di automonitoraggio, grazie al quale è riuscito a comprendere la formu­ lazione cognitiva. È divenuto consapevole, infatti, del livello di paura e di rabbia associati alla potenziale attivazione del dispositivo, riuscendo anche a trovare una modalità di gestione di queste forti emozioni in grado di ridurre il suo livello di attivazione generale. Per sviluppare una formulazione completa del caso, è stata ricostruita la storia di vita del paziente dalla sua nascita fino alla comparsa della psicosi. Alla fine, Jack ha iniziato a parlare delle proprie relazioni ed emozioni, manifestando come "provare delle emozioni" fosse una cosa a lui estranea. Nel corso di diverse se­ dute, il paziente ha parlato delle proprie esperienze precoci, del rapporto con il padre e di come, da bambino, si sentisse controllato. I livelli di sofferenza e di ansia di Jack associati alla presenza del microchip sono diminuiti significativamente: sebbene fosse ancora convinto della presenza di un dispositivo nel suo petto, questo non era più attivo e non interferiva più con la sua vita. Jack ha comunicato al terapeuta di aver accettato la presenza dell'impianto e di aver finalmente imparato a "far buon viso a cattivo gioco": il dispositivo non

Mode l l i cogn itivi dei del iri

43

si attivava più diverse volte al giorno e, negli ultimi sei mesi, non si era innescato affatto. Era giunto a credere che la batteria che lo alimentava si fosse scaricata.

I miglioramenti, in termini di benessere emotivo,

sono risultati evidenti in tutti

gli ambiti di vita: Jack si impegnava sul lavoro e aveva iniziato a occuparsi della ditta di famiglia. Il livello di fiducia nelle proprie capacità sembrava essere aumen­ tato molto e aveva ritrovato un equilibrio sia nella vita sociale che lavorativa. Il lavoro sui rapporti familiari aveva favorito la comprensione delle paure di Jack da parte dei genitori e suo padre aveva iniziato a coinvolgerlo di più nelle decisioni relative alla ditta. I genitori avevano scoperto che il figlio era assolutamente in grado di gestirla e che, quindi, potevano finalmente andare in pensione. Jack, sotto consiglio del suo psichiatra, aveva deciso di "comportarsi in modo da contrastare le proprie credenze" e, recentemente, aveva iniziato ad assume­ re quotidianamente una piccola dose di antipsicotico, poiché aveva capito come questo lo aiutasse a gestire gli effetti emotivi del dispositivo. In questo caso, quin­ di, i fattori di mantenimento implicati sembravano essere lo stile attributivo de­ pressivo (''Sono debole", "Se le cose vanno male la causa

è

da imputare a forze

esterne"), l'ansia e l'evitamento.

CONCLUSIONI Nella psicosi, dunque, non esiste un modello unico che renda conto della ge­ nesi e del mantenimento dei deliri, dato che, per ogni persona, questi sembrano derivare dall'interazione tra i diversi tipi di vulnerabilità descritti in precedenza, gli specifici fattori di vita stressanti, gli schemi maladattivi e lo stile metacognitivo. In ogni caso, una conoscenza dei diversi modelli illustrati permette di utilizzare le tecniche della TCC più adatte al caso. Sono necessarie ulteriori ricerche in merito ai vari modelli e, in particolare,

è

necessario concentrarsi s� studi basati su casi

singoli e su piccoli gruppi di pazienti. Sarà possibile, in questo modo, compren­ dere quale modello si adatti meglio ai diversi tipi di deliri e quale tecnica sia più efficace a seconda delle circostanze.

44

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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ASSESSMENT DEI SINTOMI PSICOTICI Emmanuelle Peters

INTRODUZIONE In ambito clinico, con il termine psicosi ci si riferisce ai sintomi positivi di questi disturbi, ovvero a convinzioni inusuali (deliri) ed esperienze anomale (al­ lucinazioni e altre percezioni atipiche), così come a disturbi del pensiero e del linguaggio. Negli ultimi anni, si è assistito a un crescente e fruttuoso dibattito in merito all'utilizzo di un approccio mirato ai singoli sintomi, anziché alle categorie diagnostiche tradizionali in uso in psichiatria (Bentall, 2003; van Os et al., 1999). Questi sviluppi della letteratura scientifica si riflettono sia sugli strumenti per l'assessment delle psicosi, che sui vari interventi cognitivo-comportamentali pensati per i soggetti affetti da queste esperienze destabilizzanti. In questo capitolo, l'as­ sessment per le psicosi verrà preso in considerazione in termini di: 1) strumenti di misura sintomatologici, con un enfasi sulle allucinazioni e i deliri; 2) aree impor­ tanti per l' assessment nella terapia cognitivo-comportamentale (TCC) delle psicosi. Saranno descritti diversi approcci di assessment con l'ausilio di esempi clinici.

STRUMENTI DI MISURAZIONE DEI SINTOMI Il recente approccio basato sui sintomi ha portato allo sviluppo di un insie­ me di scale se(f-report e di interviste che si concentrano sulle singole dimensioni sintomatologiche. Attualmente, quella più usata è la P!)lchotic Symptom Rating Sca­ les (PSYRATS; Haddock et al., 1 999), un'intervista semi-strutturata che valuta le dimensioni psicologiche - piuttosto che le categorie - di deliri e allucinazioni. La sottoscala delle allucinazioni uditive contiene 1 1 item (che ne indagano la fre-

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quenza, l'intensità, la durata, l'invasività e le credenze in merito alla loro origine e al loro controllo), mentre quella dei deliri ne include 4 (convinzione, preoccu­ pazione, compromissione del funzionamento e distress). L'intervistatore assegna un punteggio a tutti gli item su una scala ordinale a cinque punti. Attualmente, la PSYRATS è la scala più utile per l'assessment delle modificazioni dei sintomi nella psicosi, anche se le scale ordinali utilizzate per valutare alcuni item sono scar­ samente sensibili al cambiamento (quella che valuta le convinzioni deliranti, ad esempio, ha un punteggio che va dal 5 1 al 1 00%). Anche il PersonalQuestionnaires (PQs; Brett-Jones et al., 1 987) indaga le dimensioni psicologiche della convinzio­ ne, della preoccupazione e della sofferenza relative ai deliri, oltre alla frequenza e all'intensità delle allucinazioni e alla sofferenza che queste generano. Il PQs diffe­ risce dagli altri questionari, in quanto si adatta alla singola persona, utilizzando le sue stesse parole per descriverne le credenze, le esperienze o le sensazioni.

Strumenti di misura specifici per i deliri Oltre alla PSYRATS, altri strumenti di misura per la valutazione specifica dei deliri sono: il Maudslry Assessment rf Delusions Schedule (MADS; Buchanan et al., 1 993), il Delusions-Symptoms-States Inventory - fuvised (DSSI-R; Foulds e Bedford, 1 97 5), la Brown Assessment rf Beliifs Scale (BABS; Eisen et al., 1 998) e la Conviction rf Delusional Beliifs Scale (CDBS; Combs et al., 2006), ognuno dei quali si focalizza su un aspetto diverso del problema. Il MADS prevede un'intervista approfondita che indaga le diverse manife­ stazioni dei deliri, tra cui il grado di convinzione, i fattori di mantenimento e le emozioni ad essi collegati, i comportamenti, la preoccupazione, l'organizzazione e l'insight. Sebbene sia un'intervista lunga, alcune parti possono essere adoperate singolarmente. I due aspetti più importanti ai fini dell'intervento riguardano le "reazioni alle ipotetiche contraddizioni" e la "capacità di adattamento", che valu­ tano l'impatto potenziale o reale di informazioni incompatibili con il delirio del paziente. Il DSSI-R è un questionario se!freport basato sulle quattro classi gerarchiche di disagio psicologico proposte da Foulds e Bedford (197 5), ovvero stati distimici, sintomi nevrotici, deliri integrati e deliri di disintegrazione. I deliri integrati sono in genere di persecuzione, di grandezza o di espiazione; i deliri di disintegrazione si trovano al vertice della gerarchia (7 item per ogni tipo di delirio) e sono valutati con risposte Vero-Falso, chiedendo al paziente, in aggiunta, di esprimere il pro­ prio grado di convinzione nelle affermazioni. Questa scala non è molto utilizzata nella pratica clinica e i pazienti che presentano deliri diversi rispetto a quelli previ­ sti non ottengono punteggi significativi. In ogni caso, potrebbe essere utile come misura della psicopatologia generale per quegli individui che hanno difficoltà nel­ la comunicazione verbale.

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La BABS viene somministrata dal clinico per valutare la natura delirante delle credenze in tutta una serie di disturbi psichiatrici, come ad esempio il Distur­ bo Ossessivo-Compulsivo, il Disturbo di Dismorfismo Corporeo, i Disturbi dell'Umore con manifestazioni psicotiche, l'Anoressia Nervosa, ecc .. In un pri­ mo momento, si fa emergere la credenza dominante (ossessione, preoccupazione, idea o delirio), quindi si valutano i 7 item relativi alla gravità della stessa su una scala a 5 punti, che va da "non delirante/meno patologico" a "delirante/più pa­ tologico". I 7 item indagano il grado di convinzione nelle credenze, la percezione del punto di vista altrui, la capacità di formulare visioni alternative alla propria, la fissità delle idee, i tentativi di confutarle, l'insight e le idee di riferimento. La CDBS, infine, valuta nello specifico la qualità della convinzione delirante, tramite item che esplorano l'ambito cognitivo, emotivo e comportamentale. Altre scale sono state sviluppate per misurare l'ideazione delirante e la para­ noia nella popolazione generale. Il Delusions Inventory (40-item PDI; Peters et al., 1999b; 21-item PD I; Peters et al., 2004), deriva dal Present Sfate Examination (Wing et al., 1 974) e valuta su una scala a 5 punti i livelli di distress, di preoccupazione e di convinzione relativi alla credenza delirante. Altri strumenti di misura si sono concentrati su tipologie specifiche di delirio, come la Magica/ Ideation Scale (Eck­ blad e Chapman, 1 986) - che indaga principalmente il pensiero superstizioso - e la Referentia/ Thinking Scale (Lenzenweger et al., 1 997). Per l'assessment della paranoia abbiamo il maggior numero di strumenti a di­ sposizione. La Paranoia Scale (Fenigstein e Vanable, 1 992) e il Paranoia and Suspi­ ciousness Questionnaire (PSQ; Rawlings e Freeman, 1 996) sono stati costruiti per misurare il livello di paranoia negli studenti del college, anche se alcuni item non ri­ guardano la persecuzione e sono maggiormente correlati all'auto-consapevolezza e alle difficoltà interpersonali tipiche dei disturbi nevrotici. Il Persecutory Ideation Questionnaire (PIQ; McKay et al., 2006) è una scala composta da 10 item, costruita per indagare più nello specifico le idee di persecuzione, piuttosto che il concetto più ampio di paranoia. Da una prospettiva leggermente differente, Morrison et al. (2005) hanno sviluppato uno strumento di misura se!f-report per valutare le credenze metacognitive sulla paranoia, che prevede quattro sottoscale: credenze negative riguardo alla paranoia, credenze riguardo alla paranoia come strategia di sopravvivenza, credenze positive generali e credenze normalizzanti. Freeman e i suoi colleghi hanno pubblicato diversi strumenti di misura per la paranoia. La Paranoia Checklist (Freeman et al., 2005) è stata progettata per rilevare i pensieri paranoidi di natura più clinica rispetto alla Paranoia Scale e costituisce uno strumento di assessment multidimensionale dell'ideazione paranoide. Tutti gli item sono valutati su scale a 5 punti che misurano la frequenza della credenza, la convinzione nella stessa e il distress che provoca. Freeman et al. (2007) hanno anche pubblicato la State Social Paranoia Scale, per valutare nello specifico la para-

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noia di stato; gli autori suggeriscono che potrebbe rivelarsi utile in quegli studi sperimentali che hanno l'obiettivo di misurare le variazioni degli stati paranoidi momento per momento. Ad oggi, lo strumento più completo è la Paranoid Thou­ ghts Scale (Green et al., 2007), che indaga le idee di riferimento e di persecuzione e che, come il PDI, ne valuta anche il grado di convinzione, di distress e di preoc­ cupazione.

Strumenti di misura specifici per le allucinazioni Oltre alla PSYRATS, esistono strumenti di misura specifici per la rilevazione delle allucinazioni, quali l'Auditory Hallucinations Record Form (AHRF; Slade, 1 972), il Se!f-Report Form (Hustig e Hafner, 1 990) e il Menta! Health Research Institute Unu­ sual Perceptions Schedule (MUPS; Carter et al., 1 995). Sono anche disponibili degli strumenti per la valutazione della presenza di allucinazioni nella popolazione ge­ nerale, quali la Launqy-Siade Hallucination Scale (LSHS; Launay e Slade, 1 981), la Structured Interview for Assessing Perceptual Anomalies (SIAPA; Bunney et al., 1 999) e la Cardiff Anomalous Perceptions Scale (CAPS; Bell et al., 2006). Per mezzo dell'AHRF si identificano gli stimoli che attivano le voci; il que­ stionario deve essere compilato nell'arco di un paio di settimane. I pazienti, in momenti predeterminati, registrano la presenza/ assenza delle voci, la loro inten­ sità, una serie di variabili ambientali valutate a livello soggettivo (ad es., rumore, numero di persone, attività), il proprio stato d'animo e la "qualità" delle voci su 1 5 scale di misura. Il modulo se!f-report di Hustig e Hafner indaga le dimensioni dell'esperienza allucinatoria su scale che valutano la rumorosità e la chiarezza del­ le voci, la sofferenza e la distraibilità che provocano, oltre allo stato d'animo del paziente e al suo livello di convinzione. Il MUPS è uno strumento completo, pensato per registrare le esperienze delle persone riguardo alle allucinazioni uditive nel modo più ampio possibile; com­ prende un'intervista semi-strutturata, che indaga le caratteristiche delle allucina­ zioni uditive, compresa l'insorgenza e il decorso, la frequenza, il volume, il tono, la localizzazione e altri fenomeni ad esse associati, come i deliri. Vengono anche presi in considerazione altri aspetti delle allucinazioni, come le strategie di coping, i fattori intervenienti e le reazioni del paziente. Questo strumento risulta troppo lungo per utilizzarlo nella pratica clinica, ma alcune sue sezioni possono essere impiegate in maniera indipendente. La LSHS è stata largamente usata nella ricerca per individuare l'attività alluci­ natoria nella popolazione generale; è uno strumento relativamente breve (1 2 item) che misura le allucinazioni visive e uditive, nonché la vividezza e l'invadenza delle stesse. Altre scale più recenti hanno ampliato il campo d'indagine, includendo al loro interno item che esplorano altre modalità sensoriali. La SIAPA è un'intervista strutturata per la rilevazione delle sottili anomalie percettive e attentive, che si

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distinguono dalle allucinazioni riguardo alle diverse modalità sensoriali (uditiva, visiva, tattile, olfattiva e gustativa). È utile ai fini di ricerca, ma ha una scala di valutazione a 5 punti che presenta dei problemi (passa direttamente da "mai" a "raramente"; da "per metà del tempo" a "spesso" a "sempre"). La CAPS, più uti­ le per valutare le percezioni anomale riguardo a qualunque canale sensoriale (Beli et al., 2006), è la versione del PDI per le allucinazioni e include alcune sottoscale che misurano la sofferenza, l'intrusività e la frequenza delle stesse. Una dimensione importante delle esperienze allucinatorie riguarda le creden­ ze in merito alle voci udite (Chadwick e Birchwood, 1 994). Il Belieft about Voices Questionnaire - Revised (BAVQ-R; Chadwick et al., 2000) e il Cognitive Assessment rf Voices Interview Schedule (CAVIS; Chadwick et al., 1 996) si occupano nello specifi­ co di questi aspetti. Il BAVQ-R è composto da 3 5 item divisi in 5 sottoscale che esplorano la natura delle voci (malevolenza/benevolenza), il loro potere (onnipo­ tenza) e il bisogno di obbedirvi (coinvolgimento/tentativo di resistere), su scale a 4 punti. Il CAVIS valuta le voci, i sentimenti e i comportamenti della persona in relazione ad esse e le credenze in merito alla natura della voce, il suo potere, il suo scopo e il suo significato, nonché le conseguenze dell'obbedirle o del di­ sobbedirle. Morrison e collaboratori (2002) hanno anche proposto una scala, da poter usare anche con soggetti non clinici, per valutare l'interpretazione delle voci, ovvero l'Interpretations rf Voices Inventory (lVI), composto da 3 sottoscale relative alle credenze positive in merito alle voci, alle credenze metafisiche e alle preoccupazioni riguardo alla perdita di controllo. Diversi strumenti di misura sono stati usati per indagare le allucinazioni im­ perative. La Voice Acceptance and Action Scale (VAAS; Shawyer et al., 2007) è uno strumento composto da 3 1 item sviluppato per misurare l'impatto psicologico delle allucinazioni. Valuta la capacità di accettazione delle allucinazioni uditive e imperative e le azioni che il soggetto mette in atto conseguentemente (in base ai principi della Acceptance and Commitment Therapy; Hayes et al., 1 999). Birchwood e collaboratori hanno anche proposto una serie di scale per valutare l'obbedienza alle imposizioni Qa Voice Compliance Scale; Trower et al., 2004) e il potere percepito delle voci ( Voice Power Dif.ferential Scale; Birchwood et al., 2004). L"'Intervista per coloro che sentono le voci" (Romrne ed Escher, 2000) è uno strumento clinico basato sul modello di "empowermenf' proposto da Romme ed Escher e dal gruppo di auto-aiuto degli "uditori di voci". Sebbene questa inter­ vista sia abbastanza completa, se ne possono usare anche le singole componenti. Nonostante si sia dimostrata utile all'interno del processo di assessment, non sono disponibili dati in merito alla sua attendibilità e alle altre sue proprietà psicometri­ che. Essa indaga la natura dell'esperienza psicotica, le caratteristiche delle voci, la storia delle allucinazioni uditive, gli stimoli che fungono da innesco, le credenze in merito all'origine delle voci, l'impatto di queste sulla qualità della vita del paziente,

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il suo rapporto con le voci stesse, le strategie di coping, le esperienze dell'infanzia, la storia del trattamento e la rete sociale del soggetto. Un uteriore strumento è la Trobe University Coping with Auditory Hallucinations Interview Schedule (Farhall e Gehrke, 1 997), che consiste in un'intervista strutturata abbastanza lunga che si concentra sul modo in cui i pazienti gestiscono le proprie allucinazioni; la cornice teorica su cui si basa è quella proposta da Lazarus e Fol­ kman (1 984) riguardo allo stress e alle modalità di coping.

Strumenti di misura specifici per i disturbi del pensiero Nella ricerca, i deliri e le allucinazioni hanno ricevuto più attenzione rispetto ai disturbi del pensiero e questo si riflette sul minor numero di strumenti di misura a riguardo disponibili. Quelli maggiormente usati sono la Scalefor the Assessment o/ Thought, Language and Communication (Andreasen, 1986), dove i punteggi vengono assegnati in base alle risposte del soggetto a un'intervista, e il Comprehensive Index o/ Positive Thought Disorder (Marengo et al., 1 986), che utilizza le prove di compren­ sione della WAIS-R, oltre a un test sui proverbi, per indagare il pensiero bizzarro.

Strumenti di misura specifici per i sintomi negativi In modo simile, a parte gli strumenti di valutazione psichiatrici generali, esi­ stono poche scale specifiche per i sintomi negativi. La Suijective Experience o/ Negative Symptoms Scale (SENS; Selten et al., 1 993), una scala di valutazione per autosomministrazione che misura la gravità dei sintomi negativi e la percezione di sofferenza associata ad essi, costituisce una rara eccezione. Al soggetto viene richiesto di paragonarsi ad altre persone della stessa età rispetto a indici di moti­ vazione, entusiasmo e funzionamento sociale e di valutare il disagio conseguente al proprio livello di funzionamento percepito. In alcuni casi, i ricercatori si sono serviti di strumenti di assessment che misurano il funzionamento sociale e la qualità di vita per indagare i sintomi negativi. Alcuni indicatori si possono trarre dalla Global Assessment o/ Functioning Scale (GAF; DSM-III-R, APA, 1 987) o dalla sua versione modificata, la Social and Occu­ pational Functioning Assessment Scale (SOFAS Goldman et al., 1 992). La Social Beha­ viour Scale (Wykes e Sturt, 1 986) è composta da 21 item che valutano su una scala a 5 punti le conseguenze comportamentali dei sintomi, nello specifico quelle che possono ostacolare l'inserimento sociale e lavorativo. Lo strumento può fornire un punteggio totale, se si sommano tra loro tutti gli item con punteggio pari o su­ periore a 2, oppure può essere utilizzato per monitorare i cambiamenti alle singole sottoscale. La Social Functioning Scale (Birchwood et al., 1 990) misura la performance sociale in diverse aree; può essere completata dal paziente, da una persona che si prende cura di lui o da un educatore (ne esistono diversi formati); sono disponibili criteri normativi per vari campioni di riferimento (ad es., i disoccupati).

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Esistono diverse scale che misurano la qualità della vita, ma tendono a essere troppo lunghe per poter essere impiegate con i soggetti psicotici. Fa eccezione il Manchester Short Assessment of Quality ofLife (MANSA; Priebe et al., 1 999), che va­ luta la soddisfazione in aree quali l'impiego lavorativo, le finanze, il tempo libero, le amicizie, le relazioni, l'alloggio e la salute fisica e mentale.

TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI I due fattori più importanti da identificare per capire se è possibile lavorare con i pazienti psicotici sono le esperienze dolorose portate in terapia e la spie­ gazione che ne dà il paziente, ovvero il "modello" o la prospettiva utilizzata per interpretare le proprie esperienze. Anziché usare un gergo psichiatrico e parlare di "voci" o "deliri'', fin dall'inizio dell'assessment è fondamentale utilizzare la ter­ minologia adoperata dal paziente per descrivere la propria esperienza psicotica. Egli, ad esempio, può non capire che sta "sentendo delle voci" se a rivolgergli la parola è il proprio padre oppure un fantasma che al contempo riesce anche a vedere. L'uso di parole quali "Schizofrenia" o "malattia mentale" può essere offensivo per il paziente e andrebbe evitato, a meno che questi non preferisca una spiegazione incentrata su un modello medico. Nel corso dell'assessment, è cruciale tenere a mente che l'obiettivo finale del terapeuta è di cercare di capire il paziente, piuttosto che quello di tentare di cam­ biarlo mettendo in discussione la presenza di voci o i deliri. Una delle strategie iniziali da utilizzare per favorire la relazione terapeutica è quella di empatizzare con la sua sofferenza conseguente ai propri vissuti, anziché sfidarlo. È utile utilizzare il cosiddetto metodo dell'"imbuto": in prima istanza si effet­ tua un assessment generico riguardo alle esperienze disturbanti, che può includere sintomi positivi e negativi, disturbi emotivi e qualità di vita in generale; una volta identificati i problemi specifici, ciascuno può essere considerato più approfondi­ tamente. Riguardo alle allucinazioni, può essere utile partire dall'identificazione delle caratteristiche delle voci (va però tenuto presente che sono comuni anche allu­ cinazioni di altro tipo: visive, somatiche e tattili). Altri fattori importanti sono la frequenza/ durata delle voci, la loro rumorosità, frequenza, provenienza e natura. Ne andrebbe identificato anche il contenuto, nonostante alcuni pazienti possano non essere pronti a parlarne finché non hanno stabilito un rapporto di fiducia con il terapeuta, poiché giudicano alcuni argomenti imbarazzanti o pericolosi. La PSYRATS (Haddock et al., 1 999) o !'"Intervista per coloro che sentono le voci" di Romme ed Escher (2000) possono essere strumenti preziosi per condur­ re questa fase dell'assessment. Anche un classico ABC può risultare utile, ovvero l'identificazione degli antecedenti (o degli stimoli che fungono da innesco) e delle

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conseguenze. Gli stimoli di innesco possono essere sia ambientali (dove, quando, ecc.) che interni, ovvero emotivi (ad es., l'ansia). Le conseguenze da ricercare dovrebbero essere, quindi, sia comportamentali che emotive, facendo anche at­ tenzione all'impatto generale sul funzionamento. Quanto le persone tentano di resistere o quanto, viceversa, obbediscono alle proprie voci, specialmente nel caso delle allucinazioni imperative, è un fattore importante da valutare. Per applicare l'ABC al di fuori del contesto delle sedute, può essere utile incoraggiare il paziente a tenere un diario delle voci. È anche cruciale valutare le credenze delle persone in merito alle proprie voci (Chadwick e Birchwood, 1 994), dal momento che la maggior parte del lavoro terapeutico si concentra sul tentativo di modificare queste credenze, in modo da ridurre il disagio emotivo e rafforzare la sensazione di controllo, piuttosto che ri­ durre la frequenza delle allucinazioni stesse. Altri fattori importanti sono la natura delle voci (A chi appartengono? Sono buone o no?), la loro causa percepita (Che cosa le causa?), il loro potere (Quanto potenti sono?) e la percezione di controllo su di esse (Quanto controllo ha il paziente sulle voci? Quanto controllo hanno le voci sul paziente?). Anche il tipo di relazione che la persona instaura con le proprie allucinazioni è un fattore chiave (Birchwood et al., 2000). Nuovamente, strumenti di valutazione utili riguardo agli aspetti cognitivi e interpersonali delle voci includono !'"Intervi­ sta per coloro che sentono le voci" di Romme ed Escher (2000) e la PSYRATS, così come il Cognitive Assessment if Voices Interview Schedule di Chadwick e collabo­ ratori (1 996). È importante considerare i deliri come composti da più dimensioni, anziché come false credenze tutto-o-nulla (Peters et al., 1 999a). Una volta identificato il contenuto e il numero dei deliri, le loro dimensioni fondamentali da valutare sono la convinzione (In che misura ci crede?), il rimuginio (Per quanto tempo ci pen­ sa?), il disagio emotivo (Quanto sono disturbanti?) e l'invalidazione (Che impatto hanno sulla vita del paziente?). La PSYRATS indaga tutte queste dimensioni e permette di chiedere ai pazienti di valutare di volta in volta i propri livelli di con­ vinzione, rimuginio e disagio emotivo su una scala da O a 100 o, alternativamente, su qualsiasi altra scala di tipo Likert. Come le voci, anche i deliri sono spesso strettamente legati a elementi emo­ tivi (Freeman e Garety, 2003) e vanno identificati sia i loro potenziali fattori di mantenimento che i comportamenti protettivi. I deliri, in special modo quelli di natura grandiosa o persecutoria, possono anche essere legati all'autostima; tale relazione, che va esplorata prima di tentare di modificare le credenze del paziente, può essere sia diretta (ad esempio, evidenziarne la bassa autostima; Freeman et al., 1 998) che indiretta (ad esempio, proteggerlo dalla scarsa autostima; Bentall et al., 2001). Può anche essere utile valutare la flessibilità cognitiva relativa ai de-

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liri (ad es., la misura i n cui il paziente è disposto a d accettare l'idea che esistano

delle spiegazioni alternative), dato che vi sono alcune evidenze preliminari che la flessibilità si associ a un esito positivo della terapia cognitivo-comportamentale (Garety et al., 1 997). Nella pratica clinica, nell'ambito degli interventi sulle psicosi, non ci sono delle distinzioni nette tra le fasi di creazione di un'alleanza terapeutica, di assessment e d'intervento, sebbene i primi due elementi rimangano dei fattori terapeutici chiave nel corso di tutta la terapia. Per valutarne gli esiti, la PSYRATS risulta lo stru­ mento più utile, poiché aiuta a cogliere le modificazioni dei sintomi psicotici. In ogni caso, devono essere valutate anche altre aree, come i problemi emotivi del paziente, il suo funzionamento e la sua qualità di vita, oltre alla sua soddisfazione nei riguardi della terapia. Uno strumento di recente pubblicazione è il CHOICE (CHoice '!f Outcome In Cognitive behat•ioural therapyfor thep.rychosEs; Greenwood et al., 2010), volto a indagare un'ampia gamma di fattori che va oltre la mera modifica­ zione dei sintomi. È stato sviluppato con la consulenza degli utenti dei servizi, allo scopo di ricavare un nuovo strumento per valutare l'efficacia degli interventi che riflettesse le effettive necessità dei pazienti, oltre agli obiettivi del terapeuta. Que­ sto questionario include 24 item che esplorano i potenziali esiti della terapia, valu­ tati su una scala a 1 0 punti, tra cui: "La capacità di affrontare i problemi in modo diverso", "La consapevolezza di non essere l'unico a vivere esperienze inusuali", "La capacità di prendere le distanze da esperienze emotivamente sconvolgenti (ad es., pensieri o voci)", "La capacità di mettere in discussione il proprio modo di vedere le cose", "La capacità di affrontare i pensieri e le sensazioni che preoccu­ pano"; "La capacità di comprendere se stessi e il proprio passato"; "La capacità di formulare propositi positivi e scopi nella vita" e altti due obiettivi della terapia.

RIASSUNTO DELLE AREE DI ASSESSMENT: 1 . Riguardo ai deliri Contenuto i. ii. Convinzione, rimuginio, sofferenza emotiva iii. Impatto a livello comportamentale iv. Modalità di esordio (ad es., eventi di vita) v. Esempi quotidiani vi. Stimoli di innesco e conseguenze (ABC) vii. Strategie di coping viii. Analisi di pensieri/ credenze/ emozioni/ comportamenti, legati a eventi interni ed esterni, e discussione su cosa è "psicotico" e cosa è "normale". ix. Fattori di mantenimento (inclusi altri sintomi psicotici, processi emo­ tivi, comportamenti protettivi, ambiente, abuso di alcol o droghe)

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Modificazioni nel corso del tempo (incluso l'adattamento ai sintomi) xi. Significato delle credenze deliranti (per sé e per gli altri) xii. Visione di sé senza i deliri (ad es., essere perseguitati potrebbe essere meglio di essere matti) Xlll . Ordine gerarchico delle credenze deliranti disturbanti (se necessaria)

x.

2. Per quanto riguarda le voci: 1. Fattori di innesco: ambientali (dove, quando, ecc.) e interni o emotivi (ad es., l'ansia) 11. Conseguenze: comportamentali ed emotive, così come l'impatto generale sul funzionamento iii. Frequenza iv. Contenuto v. Quantità Vl. Provenienza vu. Tipo vrn. Resistenza o obbedienza alle voci lX. Strategie di coping x. Credenze in merito alle voci a. Natura (Di chi sono? Sono buone o cattive?) b. Causa/origine (Che cosa le causa? Da dove provengono?) c. Potere (Quanto potenti sono?) e. Controllo (Quanto controllo si ha sulle voci?) 3. Per quanto riguarda la psicosi in generale: 1. Bias cognitivi: saltare alle conclusioni, deficit della Teoria della Mente, bias attribuzionali (di personalizzazione o di esternalizzazione, ma an­ che normali bias nella formazione delle credenze) ii. Deficit cognitivi (difficoltà di concentrazione, di memoria, di pianificazione e di abilità nel gestire informazioni complesse) iii. Modello di malattia iv. Atteggiamento nei confronti della terapia farmacologica v. Rischio (ad esempio, che il paziente esegua ciò che dicono le voci, che agisca in base ai deliri) 4. Per quanto riguarda la persona: 1. Credenze personali (ad es., religione) 11. Rapporto con i servizi m. Supporto sociale e rapporti interpersonali 1v. Obiettivi e pianificazione a breve e a lungo termine

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Credenze di base, assunzioni e scherni disfunzionali (a volte) vi. Storia di vita (a volte) vii. Attività quotidiane v.

S. Disturbi secondari:

i. ii. 111 .

Altri disturbi emotivi (tono dell'umore basso, ansia, preoccupazione, pensieri intrusivi) Distorsioni cognitive (analoghe a quelle riscontrabili nei disturbi d'an­ sia e nella depressione) Uso di sostanze

6. Altre aree da esplorare: Reazione alle ipotetiche contraddizioni (una certa flessibilità in merito 1. ai deliri predice un esito positivo) ii. Accomodamento (elaborare le proprie esperienze in relazione ai deliri) iii. Flessibilità cognitiva

CASI CLINICI Il primo esempio che proponiamo è un resoconto dell' assessment che illu­ stra come utilizzare una serie di scale standardizzate per ottenere informazioni esaustive in più aree, pur con alcune difficoltà che possono poi essere superate grazie a una valutazione più approfondita. Ci sono diversi vantaggi nell'utiliz­ zo di strumenti standardizzati, dato che questi possono essere somministrati anche da uno psicologo clinico prima dell'inizio della terapia vera e propria, risparmiando tempo al terapeuta e permettendogli di concentrarsi sulla rela­ zione terapeutica e procedere direttamente all'assessment cognitivo-comporta­ mentale. Inoltre, gli strumenti di misura possono indicare ai professionisti alle prime armi quali sono le aree da indagare. L'assessment riportato di seguito ha permesso di raccogliere una moltitudine di dati sia qualitativi che quantitativi, da poter agevolmente comunicare ai responsabili del caso o ad altri membri del team multidisciplinare. Va tenuta presente l'importanza di ripetere la valutazio­ ne al termine della terapia, per permettere un'analisi obiettiva degli esiti. Nel secondo caso che presentiamo non è stato utilizzato un assessment standardizza­ to, ma viene riportata una valutazione approfondita in merito alle allucinazioni uditive.

Caso 1: assessment generale con diversi strumenti di misura standardizzati La ringrazio per avermi inviato X. Questa relazione riassume i risultati dell'as­ sessment iniziale, ottenuti grazie all'utilizzo di strumenti standardizzati. La valuta-

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Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

zione verrà ripetuta al termine della terapia, in modo da rilevare qualsiasi modi­ ficazione incorsa. Durante il processo di assessment, X ha lavorato in modo collaborativo, man­ tenendo un buon contatto oculare e un'adeguata concentrazione. In ogni caso, ha obiettivamente ritenuto problematico raccontare le proprie esperienze e si è commosso in diverse occasioni. Lo PSYRATS-Beliifs Questionnaire (punteggio totale = 1 9) ha rivelato come X creda che le persone complottino contro di lui e "giochino con la sua men­ te", che parlino in codice e che le conversazioni con lui siano permeate da "significati nascosti". Ha valutato la propria convinzione pari al 50%, nel sen­ so che a volte riesce a concepire questi sospetti come "pensieri disturbanti", mentre in altri casi ne è convinto al 1 00%, a seconda di ciò che accade e di come si sente. Anche se questi pensieri sono sempre sullo sfondo, il controllo che riesce a esercitarvi è variabile. Quando "vengono a galla", il paziente si sente in colpa e crede di meritarsi una punizione; questi sono presenti per almeno quattro ore nel corso della giornata, sono estremamente disturbanti e causano una moderata compromissione del funzionamento. X sostiene, ad esempio, di non rispondere al telefono perché pensa che gli altri lo utilizzino per giocare con la sua mente; si isola inoltre dalla famiglia e dagli amici nel ten­ tativo di non attivare i propri brutti pensieri. Attualmente non lavora perché è in malattia ma, con l'aiuto di sua moglie, si sente in grado di potersi muovere in società. X non riporta alcuna manifestazione di allucinazioni uditive, per cui non è stato somministrato lo PSYRATS-Voices Questionnaire. In termini di disagio emotivo generale, X ha ottenuto un punteggio di 39 al Beck Depression Inventory e di 49 al Beck Anxiety Inventory, che indicano una sinto­ matologia, sia ansiosa che depressiva, di livello grave. Le risposte al Beck Depression Inventory evidenziano come il paziente si senta in colpa e pensi di meritare una punizione, biasimando se stesso per qualsiasi cosa brutta possa accedere. Sebbene nel passato abbia avuto idee suicidarie, al momento non sta considerando questa ipotesi. Dal Beck Anxiety Inventory emergono attacchi di panico (con due episodi nell'ultimo mese), incapacità di rilassarsi e paura che possa accadere il peggio. Le risposte alla Beck Cognitive Insight Scale indicano come talvolta riconosca di saltare troppo presto alle conclusioni e di non essere disposto a prendere in considera­ zione altre prospettive in merito ai propri problemi. Alla SENS, X ha riportato di essere scarsamente motivato a fare le cose e di avere un basso livello di energia, anche se si adopera per tenersi occupato durante il giorno. Ha riferito di non sentire la necessità di relazionarsi con gli altri - dato che ha l'impressione che le persone giochino con la sua mente - ma richiede molti contatti con la moglie.

Assessment dei si ntomi psicotici

59

Il MANSA ha rivelato come, in generale, abbia dei sentimenti ambivalenti ri­ guardo alla propria vita: è insoddisfatto del lavoro e delle amicizie, dalle quali si è allontanato. È anche deluso dalla propria salute mentale, anche se è contento del proprio stato di salute fisica, così come del rapporto con la moglie e della propria abitazione. X sembra pronto a impegnarsi nella terapia; al questionario CHOICE ha iden­ tificato un insieme di obiettivi, tra cui quelli di liberarsi dei pensieri disturbanti, di ridurre l'isolamento e di riacquistare la propria forza e la propria fiducia.

Caso 2: un assessment cognitivo-comportamentale per le allucinazioni uditive 1.

2.

3.

4.

Natura: le voci che X sente sono di uomini, donne e bambini, alcuni cono­ sciuti (genitori, sorella) e altri no. È particolarmente predominante una voce di donna, che sente "familiare" anche se non conosce "personalmente" il soggetto da cui proviene. Le voci tendono a essere parecchio rumorose e la paziente, a volte, risponde loro mentalmente. In alcuni casi le voci si rivol­ gono anche ad altre persone (ad es., a sua madre e a suo padre), anche se X comprende che gli altri non riescano a sentirle. Contenuto: le voci sono solitamente sgradevoli e dicono cose del tipo: "Siamo noi ad avere il controllo", "Saremmo felici di liberarci di te" e "Ti stai vantan­ do". A volte minacciano di violenza fisica sia la paziente ("Ti faremo male") sia gli altri, ad esempio i suoi genitori. Altre volte la esortano a fare delle cose, solitamente di scarsa importanza, come non guardare la tv. Il tema che trattano più di frequente riguarda la sua disoccupazione prolungata, di cui si vergogna e che sembra contribuire pesantemente alla sua scarsa autostima. X riferisce comunque che, da quando è stata ricoverata, le voci sono divenute un po' più "simpatiche". Antecedenti: X trova difficile identificare qualsiasi potenziale antecedente che possa scatenare le voci, dal momento che le sente di continuo. In ogni caso, peggiorano quando è a casa; sebbene migliorino quando esce, si inasprisco­ no quando rientra, cosicché evita di uscire per la maggior parte del tempo. Se si reca in un posto nuovo, le voci tendono ad attenuarsi, ricomparendo però dopo un po'; le preoccupazioni, quindi, sono presenti anche quando non ci sono le voci. Queste sembrano anche essere influenzate dagli stati emotivi, poiché la paziente riferisce che reagiscono al modo in cui si sente: se è de­ pressa, ad esempio, esse dicono "Saremmo felici di liberarci di te", quando invece è allegra dicono "Ti stai vantando". Impatto emotivo: X dice che le voci le creano uno "stato mentale particolare", la fanno diventare "depressa" (a volte le viene da piangere, altre volte si in­ furia), la "buttano giù" e le causano "tensione mentale". Ritiene anche che

60

Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi la rendano "antipatica", sia perché a loro non piace che lei sia simpatica, sia perché le creano uno stato d'animo sgradevole. Dichiara di essere molto spaventata dalle voci, tanto da chiudere tutte le porte e le finestre di casa pen­ sando "Stanno per venirrni a prendere". In linea di massima, non la lasciano mai in pace e ogni giorno è come una battaglia.

5.

Impatto sui comportamenti:

le voci della paziente sembrano essere la ragione

principale del suo isolamento. Dà loro ascolto, ma solo per quanto riguarda cose futili, come il non guardare la televisione. Tende anche ad andare a letto presto, in modo da potersene liberare. In passato, si è anche confrontata con i vicini, dato che pensava che potessero essere loro a parlarle. Sente anche che le voci la portano a effettuare controlli (X ha un concomitante Disturbo Ossessivo-Compulsivo) ; deve stare costantemente "in guardia" e sentire che "la sua mente

è

libera" (cosa che riesce a ottenere per mezzo dei controlli),

altrimenti le voci peggiorano.

6.

Credenze in merito alle voci:

X è confusa in merito all'origine delle voci: da una

parte, le sue credenze in merito ai demoni e a Satana

(è Testimone di Geova) le

fanno credere che esse appartengano a queste entità, anche se non ha mai fatto nulla per evocarle. Dall'altra parte, anche se sembra disposta ad accettare che probabilmente ci sia qualcosa che non va nella sua testa, non risulta esserne ve­ ramente convinta, ma si lascia persuadere da opinioni altrui. Crede che le voci abbiano un potere su di lei (''Sono più forti di me'') e delle intenzioni malevole nei suoi confronti. Sente di non poter fare nulla per controllarle e che esse reagiscano a ciò che lei pensa. Sebbene a volte riesca a resistervi, ritiene che, se non obbedirà loro, peggioreranno sempre più. Afferma che le voci sembrano talmente reali che a volte si stupisce di come gli altri non riescano a sentirle.

7.

Strategie di coping. è

stato difficile individuare delle strategie di

coping,

dal mo­

mento che la paziente asserisce di non poter fare niente, essendo le voci così travolgenti. Crede che per attenuarle possa essere utile andare a dormire oppure recarsi da sua sorella ma, come già specificato, nel momento in cui rientra a casa queste peggiorano. Dice anche di non riuscire a sentirle quando è in vacanza, anche se poi si preoccupa del loro ritorno (e che ce ne possano essere altre) quando farà rientro a casa. In ogni caso, continua ad andare in vacanza e a trovare sua sorella per "riposare la mente", ma evita di uscire per altri motivi. Dice anche che, nel passato, andare dallo psicologo le aveva fatto "riposare la mente", almeno per l'ora della seduta. Trova molto difficile distrarsi, anche ascoltando musica con le cuffie.

8.

Obiettivi:

X non riesce a immaginare come la terapia possa aiutarla a gestire

le voci, ma desidera sfruttare quest'opportunità per aumentare la propria fiducia e autostima, con l'obiettivo finale di riuscire a trovare un lavoro e condurre, semplicemente, "una vita normale".

Assessment dei si ntomi psicotici

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PARTE II LA TCC PER I SINTOMI PSICOTICI IN PRATICA

5 L'ALLEANZA TERAPEUTICA NELLA TERAPIA CO GNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI Live E. C. Hoaas, Sara Eidsb0 Lindholm, Torkil Berge e Roger Hagen

Negli ultimi anni, si è cercato di comprendere in modo sempre più approfondito quali siano i fattori che contribuiscono all'alleanza terapeutica nella TCC, nonché quelli che favoriscono lo sviluppo della relazione, come l'empatia, la condivisione di obiettivi, la collaborazione, il calore, la genuinità e i rinforzi positivi: affinché la TCC abbia successo, i pazienti devono sentirsi capiti e coinvolti nella relazione terapeutica. In questo capitolo ci concentreremo sui modi in cui il terapeuta può stabilire un'al­ leanza con il paziente; dapprima descriveremo alcuni aspetti generali dell'alleanza terapeutica, per poi illustrare come ottenere lo stesso risultato con le persone affette da disturbi psicotici e come poter affrontare gli eventuali problemi relazionali.

ELEMENTI DELL'ALLEANZA TERAPEUTICA CHE HANNO RICEVUTO UN SUPPORTO EMPIRICO Secondo Bordin (1 994), l'alleanza terapeutica è composta da tre fattori mu­ tualmente dipendenti: 1. 2. 3.

accordo sugli obiettivi terapeutici; metodi e tecniche da utilizzare, da entrambe le parti, per raggiungere que­ sti obiettivi; legame emotivo caratterizzato da calore, fiducia reciproca e stima.

Il modello di Bordin considera sia gli aspetti tecnico-metodologici della rela­ zione sia quelli emotivi: nonostante siano stati proposti dei modelli alternativi, è

68

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

universalmente riconosciuto come questi tre fattori siano invariabilmente coin­ volti nell'alleanza terapeutica. Il fulcro è rappresentato dal grado in cui paziente e terapeuta stabiliscono un rapporto collaborativo e orientato al risultato. In ambito psicoterapeutico, le ricerche hanno documentato chiaramente l'im­ portanza dell'alleanza terapeutica ai fini di un trattamento efficace e in letteratura viene comunemente sottolineato come la forza dell'alleanza terapeutica instaurata nella fase precoce del trattamento sia di estrema importanza per gli esiti futu­ ri. Ciò sembra essere vero indipendentemente dall'orientamento terapeutico, dal tipo di paziente e dalla metodologia d'indagine utilizzata. Gli studi condotti su pazienti psicotici sono in linea con questi dati (McCabe e Priebe, 2004) . In uno studio qualitativo, volto a valutare l'esperienza dei pazienti psicotici sottoposti a TCC, Messari e Hallam (2003) hanno evidenziato come la maggior parte dei partecipanti enfatizzasse il valore di una relazione terapeutica basata sul rispetto e la fiducia. Tra i pazienti con disturbi psicotici, una più forte alleanza è risultata associata a un minor livello di percezione di problematicità e di gravità del disturbo da parte del paziente (Neale e Rosenheck, 1 995), a un livello di funzionamento generale e sociale superiore (Svensson e Hansson, 1 999), a una miglior compliance nei confronti degli homework (Dunn et al., 2006) e a minori tassi di drop-out. La qualità dell'alleanza terapeutica si è mostrata inoltre predittiva dell'ade­ renza al trattamento farmacologico antipsicotico (Day et al., 2005), del buon outco­ me della riabilitazione e della performance lavorativa (Davis e Lysaker, 2007). Dopo aver citato i risultati delle principali ricerche relative al ruolo di una buona alleanza terapeutica, approfondiremo i fattori centrali che vi contribuiscono.

Empatia In tutte le terapie di successo, un fattore chiave è la capacità di entrare nel mondo del paziente con empatia, in modo da comprendere come concepisce se stesso e la propria vita. Il terapeuta lo incoraggia a verbalizzare le proprie espe­ rienze e si preoccupa di verificare di averle comprese correttamente. Il concetto di empatia è però indubbiamente difficile da descrivere e, in effetti, non ne esiste una definizione universalmente accettata. In ogni caso, prevede sia una compo­ nente emozionale (sentire ciò che l'altro sente, rispondere in modo attento ai sen­ timenti dell'altro) sia cognitiva (comprendere il modo in cui il paziente esperisce il mondo) (Bohart et al., 2002). Un aspetto essenziale dell'empatia, quindi, è l'espressione di un atteggiamento attento nei confronti del paziente, che dimostri di comprenderne i vissuti. Possiamo considerare l'empatia come una condizione ideale, che non sem­ pre è possibile raggiungere, ma per la quale possiamo fare del nostro meglio. A volte, la volontà di comprendere manifestata dal terapeuta è più importante della comprensione in sé. Poiché l'obiettivo è raggiungere la condizione di empatia, il

l'al leanza terapeutica nel la terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

69

terapeuta ascolta e si forma le proprie impressioni mentre, al contempo, cerca di rimanere in contatto con i propri pensieri e le proprie emozioni. In tal modo, con­ tribuisce a creare un clima di riflessione, che favorisce l'insight e il cambiamento. Bohart et al. (2002) hanno descritto diversi modi in cui l'empatia può contri­ buire a promuovere il cambiamento. La sensazione di sentirsi capiti accresce la soddisfazione del paziente nei confronti del trattamento e, quindi, la volontà di cambiare. L'empatia può fungere da esperienza emozionale correttiva, comuni­ cando al paziente che merita rispetto e ascolto e dandogli la possibilità sia di espri­ mere i propri sentimenti e bisogni che di comprendere quelli degli altri. Ricevere un supporto empatico, inoltre, può aumentare il senso di sicurezza del paziente e quindi incoraggiarlo ad affrontare tematiche più intime e complesse. Può anche rafforzare la scoperta di sé, la capacità e la motivazione a lavorare sulle proprie emozioni, oltre ad aiutare a esprimere i propri pensieri e a riflettere sui propri problemi. Nella letteratura relativa agli esiti della psicoterapia, l'empatia è una variabi­ le importante - dato che influenza la creazione dell'alleanza terapeutica -, ma nell'ambito della TCC per la psicosi questo costrutto è stato esaminato relativa­ mente poco. Approfondendo questi studi, probabilmente sarà possibile perfe­ zionare sia il modo di condurre il trattamento che gli esiti dello stesso per quelle persone che sperimentano allucinazioni e deliri. Si è visto, ad esempio, come i terapeuti che hanno partecipato a un training di tre giorni relativo alla gestione di allucinazioni e deliri siano riusciti a modificare le proprie attitudini e la propria empatia, comprendendo meglio l'esperienza soggettiva dei sintomi psicotici dei propri pazienti (McLeod et al., 2002).

Considerazione positiva del paziente e congruenza La congruenza è la capacità di una persona di essere se stessa, genuina e au­ tentica. Ciò implica che il terapeuta sia consapevole di sé e desideri condividere questa consapevolezza. Secondo Rogers (1 957), la genuinità del terapeuta è una condizione preliminare per la considerazione positiva del paziente e l'empatia, oltre ad essere il principale fattore che contribuisce al cambiamento. Altri autori hanno affermato che la considerazione positiva del paziente e la genuinità potreb­ bero far parte di un'attitudine generale all"'apertura". Gli studi sulla relazione tra la congruenza e gli effetti del trattamento hanno prodotto risultati ambivalenti; uno studio in particolare, però, suggerisce come questa caratteristica sia partico­ larmente importante per la creazione di un'alleanza terapeutica forte (Klein et al., 2002). Per essere autentico, il terapeuta deve essere consapevole e disposto a condi­ videre le proprie esperienze interiori nel qui e ora: ciò implica sia concedersi un coinvolgimento emotivo nei confronti del paziente, sia riuscire a manifestargli

70

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

questi sentimenti (Klein et al., 2002). È però importante adeguare il grado di genuinità a seconda delle necessità terapeutiche del paziente e del momento, dato che alcune persone, ad esempio, si aspettano un approccio più formale da parte del terapeuta. Questo tema verrà discusso in seguito, nella sezione dedicata alla se!fdisclosure. Secondo Rogers (1957), "accettazione" significa accogliere il paziente incon­ dizionatamente, indipendentemente dalle sue condizioni, azioni o sentimenti. Ciò ha una serie di implicazioni per quanto concerne la terapia con soggetti psicoti­ ci: per offrire un'accettazione incondizionata, infatti, il terapeuta deve mostrarsi aperto e tollerare tutte le sfaccettature del paziente, incluse quelle che rappre­ sentano una sfida e sono difficili da accettare, il che è possibile solo se mantiene un atteggiamento non dominante e non giudicante. Quando il terapeuta accetta il paziente, diventa anche più semplice per quest'ultimo accettarsi a sua volta. L'accettazione terapeutica non implica solamente accogliere le esperienze del pa­ ziente nel qui e ora, ma anche il suo diritto di scelta relativamente al modo in cui desidera cambiare.

Condivisione degli obiettivi e collaborazione Tryon e Winograd (2002) hanno effettuato una review delle ricerche riguardanti l'importanza di stabilire obiettivi condivisi e una collaborazione, evidenziando come gli effetti terapeutici aumentino quando il terapeuta e il paziente sono re­ ciprocamente coinvolti nella terapia e quando quest'ultimo lavora attivamente sui propri problemi tra una seduta e l'altra. Sulla base di tali dati, gli autori racco­ mandano che il paziente svolga una parte attiva nella definizione degli obiettivi da raggiungere attraverso il processo di cambiamento, poiché ciò ha una valenza terapeutica: nel momento in cui il paziente percepisce il collegamento tra i com­ piti e gli obiettivi, comprende meglio il razionale della terapia e riesce ad averne una visione d'insieme. Ai fini collaborativi, fin dall'inizio del trattamento, è utile fare in modo che sia il paziente ad arrivare a comprendere i propri problemi, anziché recepire pas­ sivamente una spiegazione teorica da parte del terapeuta. Ciò è in linea con le ricerche che mettono in luce l'influenza negativa sull'alleanza terapeutica dell'ec­ cessivo controllo della conversazione da parte del terapeuta e del tentativo troppo accentuato di imporre la propria visione su ciò che andrebbe fatto durante la terapia. Gli obiettivi del trattamento e gli strumenti adoperati, in ogni caso, de­ vono sempre rimanere oggetto di discussione col paziente per tutta la durata del trattamento. Alcuni pazienti hanno obiettivi vaghi, come ad esempio "Voglio stare me­ glio", "Voglio avere meno problemi" o "Desidero una vita migliore", che sono difficili da operazionalizzare e problematici da utilizzare per impostare la terapia;

l'alleanza terapeutica nella terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

71

altri, invece, ne hanno di completamente irrealistici e irraggiungibili. L e abilità creative del terapeuta sono messe alla prova nel discutere col paziente gli obiettivi e il percorso della terapia.

Selfdisclosure Hill e Knox (2002) definiscono la se!fdisclosure una dichiarazione del terapeuta in cui questi esprime qualcosa di personale. Questa tecnica può essere articolata in quattro forme: •

Se!fdisclosure sui fatti ("Ho studiato all'università di Oslo") Se!fdisclosure sulle emozioni (''Quando mi sono trovato in una situazione analoga, mi sono arrabbiato molto.")



Se!fdisclosure sull'insrght ("Mi è successa una cosa simile quando me ne sono andato da casa, perché ho realizzato che la difficoltà maggiore nel trasferirmi era quella di lasciare mia madre da sola.") Se!fdisclosure sulle strategie (''Quando mi è capitata una cosa del genere, sono andato a farmi una passeggiata.")

Sulla base dei dati di ricerca, Hill e Knox hanno fornito delle raccomanda­ zioni in merito all'uso della se!fdisclosure: deve essere usata per validare, nor­ malizzare, modellare e rafforzare l'alleanza o per offrire un modo alternativo di pensare o di comportarsi. Non andrebbe adoperata, invece, per soddisfare i bisogni del terapeuta o se distoglie l'attenzione del paziente, interrompe il flusso della conversazione, mette a disagio il paziente, azzera la distanza pro­ fessionale tra terapeuta e paziente o risulta troppo stimolante per quest'ultimo. È importante che il terapeuta monitori attentamente le reazioni del paziente alle se!fdisclosures, gli chieda come lo fanno sentire e usi queste informazioni per valutare se e come utilizzarle in seguito. La se!fdisclosure ha un impatto maggiore su alcuni pazienti rispetto ad altri nel contribuire alla creazione di una relazione basata sulla fiducia.

FASI DI CAMBIAMENTO E MOTIVAZIONE Quando si pianifica il corso del trattamento, Prochaska e DiClemente (1984) consigliano di valutare la fase di cambiamento in cui si trova il paziente, poiché all'inizio della terapia solo pochi sono pronti per una modifica del proprio com­ portamento, per accettare consigli pratici e per essere coinvolti attivamente. La grande maggioranza dei pazienti, invece, si trova nella cosiddetta fase pre-contem­ plativa, in cui non riconosce i propri problemi o in cui gli svantaggi connessi alla eventuale modifica del comportamento sembrano essere maggiori dei vantaggi, oppure in quella contemplativa, dove si ammette i propri problemi, ma c'è una

72

Terapia cogn itivo-comportamentale delle psicosi

grande ambivalenza nei confronti del cambiamento e poca speranza di riuscire a farcela. Se la terapia si focalizza sul cambiamento quando il paziente si trova ancora in una di queste fasi, è probabile che l'esito sarà un drop-out. Il terapeuta dovrebbe quindi valutare ciò di cui il paziente ha più bisogno al momento - ad esempio, di aumentare la propria consapevolezza considerando il "prezzo" che paga per il proprio comportamento - piuttosto che spingere verso la modifica­ zione comportamentale e lo sviluppo di strategie di coping alternative, adattando di conseguenza gli obiettivi della terapia. È importante che questi siano realistici e che i processi siano adattati in base allo stadio in cui si trova il paziente, per evitare di causare contrattempi inutili e di facilitare la demoralizzazione. Un valido strumento da poter utilizzare nelle situazioni in cui il paziente è fortemente ambivalente nei confronti del trattamento è l'intervista motivazionale (Arkowitz et al., 2008), tramite la quale si indaga questa ambivalenza in maniera sistematica e neutrale. Questo strumento si è dimostrato utile anche per i pazienti con disturbi psicotici.

Resistenza o contrapposizione psicologica Da una prospettiva socio-psicologica, la resistenza è stata definita come "con­ trapposizione psicologica" (Brehm e Brehm, 1 98 1). Si tratta di un modo di reagire universale nel momento in cui si percepiscono dei tentativi di influenzamento da parte di altri e si teme che la propria possibilità di scelta possa ridursi. A volte, la contrapposizione psicologica in terapia genera un effetto boomerang. la persona diventa oppositiva e fa il contrario di ciò che le è stato detto al fine di affermare la propria libertà (Beuder et al., 2006). La contrapposizione psicologica è un fenomeno a cui il terapeuta deve pre­ stare particolare attenzione quando tenta di stabilire l'alleanza terapeutica: la mo­ tivazione al cambiamento del paziente deve essere principalmente interna. La persuasione e la manipolazione aumentano facilmente la resistenza, mentre la sensazione di avere libertà di scelta può rafforzare l'impegno verso il cambia­ mento. Qualcuno sostiene che attivare la resistenza in terapia possa promuovere il cambiamento a lungo termine, poiché si può lavorare sulla resistenza stessa. Le ricerche però dimostrano come la psicoterapia abbia più successo quando il terapeuta riesce a evitarne la comparsa (Beuder et al., 2006). La terapia efficace dovrebbe quindi mirare a creare quanta meno contrapposizione psicologica pos­ sibile, aiutando il paziente a raggiungere i propri obiettivi. Alcune persone hanno una tendenza particolarmente forte alla contrapposi­ zione psicologica, in quanto danno un grosso valore alla propria indipendenza. Nei casi peggiori, il bisogno di indipendenza può avere caratteristiche auto-di­ struttive, nel senso che la persona può compulsivamente affermare il contrario di quanto espresso dagli altri. In questi casi, è particolarmente importante che il

73

L'al leanza terapeutica nella terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

terapeuta scelga la strada che attivi la minor resistenza possibile e minimizzi la pressione nei confronti del paziente. Ai fini del cambiamento, l'obiettivo

è

quello

di creare uno spazio terapeutico caratterizzato da libertà e responsabilizzazione del paziente stesso.

Aspettative e preferenze È importante

cogliere le aspettative del paziente in fase iniziale e negoziarne

con lui di più realistiche o parziali. Allo stesso tempo, occorre cercare di rinfor­ zare il suo ottimismo e le sue speranze realistiche di cambiamento. Le aspettative positive sembrano, di per sé, favorire il cambiamento (Arnkoff et al., 2002). Il terapeuta deve quindi riuscire a trasmettere aspettative positive e speranza e, al contempo, rinforzare il paziente che sta procedendo bene. Non si dovrebbero prospettare dei cambiamenti radicali all'inizio della terapia, ma si può far capire che anche quelli di modesta entità sono un segno che la terapia sta funzionando. Andrebbe trasmesso ottimismo senza essere irrealistici: se all'inizio il paziente

è

scettico, bisognerebbe cercare di dimostrargli - anziché tentare di convincerlo che la terapia funziona. Non siamo ancora in grado di definire precisamente in che modo gli esiti terapeutici siano influenzati dalle aspettative. Uno studio condotto su pazienti affetti da Disturbo di Panico o Disturbo d'Ansia Generalizzato ha evidenziato come i pazienti con aspettative positive fossero più disposti a impegnarsi negli

homework

anche nelle fasi precoci della terapia, accettando quindi l'esposizione

alle situazioni temute. Ciò ha contribuito ad alleviare i sintomi, rafforzando l'al­ leanza terapeutica e le aspettative nei confronti del trattamento futuro (\X'estra et al., 2007) .

Il

contributo dei pazienti Una conclusione importante delle ricerche in ambito psicoterapeutico

è

che

i pazienti attivi, che discutono apertamente dei propri pensieri e delle proprie sensazioni, sono quelli che ottengono i risultati migliori (Bachelor et al., 2007) ; all'opposto, la posizione difensiva e l'ostilità si associano a un'alleanza terapeutica più fragile e a risultati più scarsi. I pazienti possono fornire un contributo attivo alla psicoterapia, proponendo in prima persona degli argomenti di discussione, fidandosi del terapeuta, partecipando attivamente alla conversazione, seguendo i propri buoni propositi e i suggerimenti del terapeuta ed esponendosi alle situa­ zioni difficili. Il terapeuta, dal canto suo, può far sentire importante il paziente, ponendogli molte domande, cercando di approfondirne i pensieri e chiedendo­ gli quali potrebbero essere degli accorgimenti utili nella situazione attuale. Nella TCC, ci sono diversi metodi volti a incoraggiare e ad accrescere il ruolo attivo del paziente.

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Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

Riparare le rotture dell'alleanza terapeutica La terapia è caratterizzata da continue - e più o meno consce - negoziazioni tra terapeuta e paziente in merito alle modalità e agli obiettivi del trattamento. Nell'alleanza terapeutica possono periodicamente verificarsi delle crepe - o rot­ ture - sia per divergenze di opinioni riguardo a certe attività e agli obiettivi del trattamento, sia per problemi nel rapporto tra paziente e terapeuta. Un esempio potrebbe essere quello del paziente che, sentendosi sopraffatto dall'ottimismo del terapeuta, non crede che questi riesca a cogliere realmente la gravità dei suoi problemi, oppure può sentirsi sotto pressione a fare qualcosa per cui non si sente ancora pronto, come ad esempio esporsi a una situazione temuta. Può quindi as­ sumere un atteggiamento passivo nelle conversazioni, non eseguire gli homework o partecipare alle sedute in modo discontinuo. Le piccole o grandi rotture nell'al­ leanza terapeutica sono più frequenti di quanto i terapeuti credano e invece, pur­ troppo, talvolta questi le ignorano (Katzow e Safran, 2007). Per riuscire a individuarle, la miglior opportunità che ha il terapeuta è quella di chiedere al paziente un ftedback aperto e diretto: ciò presuppone il saper affronta­ re le critiche senza mettersi sulla difensiva. Diversi studi, ad esempio, evidenziano come riuscire a riparare le rotture dell'alleanza terapeutica dopo un fallimento nello stabilire un rapporto empatico sia un fattore di cambiamento importante. In uno studio, Strauss et al. (2006) hanno messo in luce come, nella TCC per il Di­ sturbo di Personalità Evitante e per quello Ossessivo, la riparazione delle rotture dell'alleanza terapeutica sia un predittore di miglior esito.

DIFFICOLTÀ NELLO STABILIRE UN'ALLEANZA TERAPEUTICA NELLA TERAPIA DELLE PSICOSI La TCC si fonda sia su una buona relazione, sia su strategie concrete che aiuti­ no i pazienti a capire e gestire le esperienze psicotiche. In questo tipo di terapia è necessario che i pazienti psicotici lavorino attivamente e siano coinvolti in modo creativo e positivo, pur con tutte le difficoltà che possono manifestare. Devono essere in grado di considerare il terapeuta degno di fiducia e sentirsi sicuri e ri­ spettati, in modo da poter riferire le proprie esperienze e i propri pensieri, che spesso sono spaventosi e imbarazzanti. Ottenere questo rappresenta spesso una sfida, soprattutto quando il paziente è sospettoso e paranoico e considera minac­ ciose le domande del terapeuta. Nella nostra esperienza, abbiamo visto come alcuni pazienti con disturbo psi­ cotico abbiano un'insight scarso - o nullo - rispetto alla propria patologia. Le spiegazioni che si sono dati in merito ai propri problemi possono aiutarli a dare un significato alle proprie esperienze e, quindi, a sperimentare meno disagio; ma se uno scarso insight può anche essere inizialmente funzionale, creerà certamente dei problemi in seguito: se il paziente non è consapevole di avere un problema,

L'al leanza terapeutica nel la terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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infatti, sarà scarsamente motivato a iniziare una terapia. In questi casi, una buona relazione terapeutica è, spesso, l'unica ragione per cui un paziente possa tornare per la seduta successiva. I pazienti possono percepire la diagnosi di Schizofrenia come stigmatizzante sia a causa dei propri pregiudizi, sia di quelli altrui. Questa diagnosi può provoca­ re paura e insicurezza e si associa spesso a sentimenti di disperazione. Lo stigma, usualmente, è definito come un qualcosa di negativo che deriva da una fonte esterna e su cui la persona non esercita alcun controllo. Il paziente è considerato una vittima passiva di atteggiamenti negativi altrui. Per quanto riguarda la Schizo­ frenia, però l'effetto più devastante dello stigma è spesso causato dall'interioriz­ zazione delle valutazioni negative, sebbene questo sia un processo cognitivo che può essere invertito e modificato. Sembra più efficace e realistico modificare il modo in cui il paziente e la sua famiglia reagiscono allo stigma che non promuo­ vere una campagna ad ampio spettro volta a modificare le attitudini negative della popolazione generale nei confronti di questa malattia. Molti pazienti subiscono un doppio stigma, dato che possono presentare anche un problema di abuso alco­ lico, con tutti gli stereotipi e i pregiudizi ad esso associati. Altri potenziali ostacoli al raggiungimento di una buona alleanza terapeutica sono le differenze culturali, i deficit cognitivi, i disturbi di personalità, la paranoia, l'ostilità, la grandiosità, lo scarso desiderio di cooperare, le attitudini negative da parte della famiglia e delle altre persone, la detenzione, il grave ritiro sociale o il dover assumere una terapia farmacologica considerata eccessiva.

Trauma e psicosi Le ricerche hanno dimostrato la presenza di un più alto numero di traumi precoci nei pazienti psicotici rispetto alla popolazione generale (Shevlin et al., 2008) . Sembra che frequentemente questi pazienti abbiano subito qualche tipo di abuso o di mancanza di cure (per avere qualche informazione in più in merito al rapporto fra trauma e psicosi, si veda anche il capitolo 1 3) che, secondo il modello stress-vulnerabilità, ha rivestito un ruolo importante sia nel determinare la vulne­ rabilità, sia nell'innescare i sintomi psicotici. Va anche tenuto presente che le espe­ rienze psicotiche, di per sé, possono essere traumatiche Oackson et al., 2004). Nella fase prodromica, molti pazienti hanno sperimentato una profonda e durevole sensazione di assenza o distorsione della coscienza di sé: un'esperienza terrorizzante, dolorosa e traumatica, spesso trascurata nel corso del trattamento. È importante che il terapeuta valuti attentamente le esperienze psicotiche stes­ se e i trattamenti ricevuti in passato, oltre a qualsiasi altro eventuale trauma subito prima, durante o dopo l'esordio della psicosi. È fondamentale verificare cosa ha compreso il paziente e quali sono le sue interpretazioni e attribuzioni relative a

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Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

questi episodi. Bisogna anche considerare seriamente le difficoltà nell'attribuire un significato e nel dare un senso alle proprie esperienze in conseguenza della psicosi, come dimostrano le affermazioni di un paziente riportate di seguito. Nel corso del trattamento, quindi,

è necessario

aiutare i pazienti a guardare la propria

esperienza psicotica da un'altra prospettiva, in modo da renderla più comprensi­ bile e gestibile. "Mi isolavo sempre di più e avevo un sacco di idee strane. Ero depresso e desi­ deravo suicidarmi. Tutto stava cadendo a pezzi, non funzionava più nulla. Tutto era caotico, sia pensieri che emozioni. Ero molto ansioso e inquieto, depresso . . . Ero in ansia perché avevo paura di me stesso! Avevo sia pensieri auto-distruttivi che distruttivi in generale, era una cosa così spaventosa! Tutto questo periodo mi è molto poco chiaro ed è difficile da ricordare."

Già dall'inizio del trattamento, il terapeuta dovrebbe informarsi sulle esperien­ ze traumatiche precoci, in modo che il paziente percepisca che

è lecito discuterne

e che egli vuole - e può - affrontarle e gestirle. Le esperienze traumatiche relative all'esordio psicotico possono essere esemplificate dalle seguenti affermazioni di un paziente: "Verso Pasqua mi è stato detto che stavano per arrestarmi e che non dovevo lascia­ re l'ufficio. Ero terrorizzato! Sono arrivati due poliziotti. Credo che la cosa si sareb­ be potuta gestire in un altro modo. Sono andato via con la polizia, gli agenti erano in uniforme. Non osavo fare nulla! Era surreale, bizzarro, così assurdo! Non so descrivere come fosse assurdo nella mia mente! Non ho detto un granché, era asso­ lutamente orribile! Mi sentivo così in ansia, così terrorizzato di ciò che mi aspettava e delle conseguenze. Non avevo mai avuto alcuna esperienza con la psichiatria."

Con questi pazienti, però, può essere sconsigliabile scendere in descrizioni dettagliate del trauma in una fase precoce del trattamento. cosa di cui possono voler discutere ma, come

è

È certamente un qual­

noto a chi si occupa di traumi,

dovrebbero farlo solo nel momento in cui si trovano in una situazione relazionale stabile. Può essere utile introdurre un immaginario "pulsante antipanico", con­ cordato in anticipo: se la conversazione diventa troppo pesante, il paziente può comunicarlo per mezzo di un segnale particolare o qualcosa di analogo.

Collaborazione orientata all'obiettivo La terapia

è

un incontro tra persone in cui le tecniche e la relazione agisco­

no in sinergia. Nella pratica clinica,

è

difficile dividere il processo terapeutico in

parti discrete, distinguendo tra fattori comuni, fattori inerenti il terapeuta, fattori

L'alleanza terapeutica nella terapia cogn itivo-comportamentale delle psicosi

77

inerenti il paziente e tecniche. L'alleanza terapeutica deve prevedere, come pre­ cedentemente menzionato, non solo una relazione sicura, calda e genuina, ma anche un efficace accordo in merito agli obiettivi e agli strumenti della terapia. Dei buoni risultati si ottengono quando paziente e terapeuta collaborano per raggiungere degli obiettivi specifici, partendo dai problemi e dall'esperienza reale del paziente. La nostra esperienza ci dice che nella TCC esistono molte tecniche utili per stabilire e mantenere una buona alleanza terapeutica. L'atteggiamento e i modi con cui si approccia il paziente sono importanti in tutte le fasi della terapia, ma

in

particolare nella prima fase della TCC per le psicosi. Va data la priorità a quei

fattori attivi menzionati in precedenza, come l'empatia, la congruenza e le aspet­ tative realistiche e positive, mentre, contemporaneamente, si adoperano delle tec­ niche specifiche che contribuiscono a stabilire l'alleanza.

È importante giungere a una

formulazione del caso individualizzata, in colla­

borazione con il paziente, dato che si parte da questa per capire assieme come si sono sviluppati i problemi e quali siano i fattori di mantenimento. In ogni caso, soprattutto nei disturbi psicotici gravi, spesso

è

difficile giungere a una formu­

lazione completa e, quindi, occorre essere flessibili e proporre degli obiettivi di trattamento temporanei che il paziente possa condividere. In questi casi,

è

fonda­

mentale introdurre l'approccio cognitivo in modo tale che il paziente si convinca che possa essergli utile.

È

essenziale approcciare quest'ultimo in un modo non

troppo diretto, poiché può temere di essere frainteso: "Era come se lei �a terapeuta) avesse stravolto tutto quello che le avevo detto. Diceva che ero molto paranoico: da quel momento in poi, ho negato tutto. Senti­ vo che aveva abusato della mia fiducia e aveva travisato le cose che le avevo detto in confidenza. Era difficile sentir dire quelle cose su di me. Mi sentivo come se mi avesse detto che ero un'incompetente e temevo di non riuscire più a venirne fuori."

L'abilità del terapeuta di tollerare, accogliere e accettare le esperienze bizzarre, come i sintomi psicotici, col paziente,

È

è

di grande importanza per stabilire una collaborazione

quindi fondamentale non arrendersi se non si riesce a capirlo

subito. Prendendosi il tempo necessario, grazie alla perseveranza e al suo aiuto, il terapeuta riuscirà a comprenderlo meglio. L'obiettivo

è

quello di andare incontro all'altra persona indipendentemente

da dove si trovi nel suo percorso di vita, per cercare di vedere e capire i suoi pro­ blemi dal suo punto di vista. Ciò rende possibile costruire l'alleanza e il terapeuta sarà percepito come empatico proprio perché sta cercando di capire. Come ha detto un paziente:

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Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi "Credo che sia possibile avere un dialogo proficuo anche con le persone malate, purché vengano trattate con compassione, empatia e cura. Ne sono convinto! Abbiamo bisogno di avere qualcuno che stia dalla nostra parte."

In terapia hanno un ruolo fondamentale la genuinità, l'apertura e l'accettazio­ ne positiva incondizionata: se non si

è

autentici si verrà facilmente scoperti e i

semi del sospetto e della sfiducia germoglieranno e daranno i loro frutti. La sfida sta nell'essere onesti mostrando, allo stesso tempo, rispetto nei confronti delle assunzioni e delle convinzioni del paziente e trattandolo in modo autentico. Il terapeuta può empatizzare con la rabbia e le esperienze del paziente, senza neces­ sariamente confermarne tutte le convinzioni deliranti. Dall'altra parte, infatti, una comprensione o una manifestazione di empatia eccessive possono spaventare al­ cuni pazienti, che potrebbero abbandonare il trattamento. La nostra esperienza ci dice che, affinché la terapia abbia successo,

è

necessaria una reale "sintonia

emotiva" con la condizione attuale del paziente. Nella TCC, il terapeuta cerca sempre di essere chiaro e concreto e assume

un

ruolo attivo. Ciò contribuisce alla prevedibilità del trattamento e crea al contempo una cornice sicura, ottimale per i pazienti con disturbo psicotico. Approcciandosi alle esperienze e ai problemi del paziente all'interno di questa cornice teorica, si riescono ad aggirare gli eventuali ostacoli, quali ad esempio la mancanza d'insight e le esperienze traumatiche, come nel caso che riportiamo. "A quel punto, il controllo della mia vita mi stava sfuggendo sempre più veloce­ mente di mano ed ero sempre più confuso. Mi stavo perdendo, non mi riconosce­ vo più; le idee e i pensieri mi apparivano sfocati. Si cambia a seconda di quanto si riesce a comprendere se stessi, e io non riuscivo più a capirmi: ero come un estraneo a me stesso."

Grazie alla TCC, i pazienti imparano a porsi domande in merito alla propria rappresentazione della realtà e diventano maggiormente aperti a modificare le assunzioni relative a sé e a ciò che li circonda: l'instght riveste un ruolo centrale nel processo di guarigione. Il dialogo socratico può essere utile ad aiutare i pazienti a raggiungere un livello più profondo di insight. Molte persone affette da psicosi hanno una minor capacità di ragionare e di formulare spiegazioni alternative, oppure possono avere una credenza delirante talmente radicata da non riuscire a comprendere come sia possibile pensarla diversamente. Se il paziente

è

mente convinto che i propri pensieri corrispondano alla verità, forse non

ferma­

è utile

provare a fargli vedere le cose da un'altra prospettiva. Dato che lo stato mentale del paziente e il suo livello di insight possono variare rapidamente - spesso di ora in ora - è importante che il terapeuta ne sia costantemente consapevole e gli chie-

L'alleanza terapeutica nella terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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da spesso se al momento ha la stessa percezione delle proprie allucinazioni o dei propri deliri che aveva l'ultima volta in cui ne hanno parlato.

Un'organizzazione flessibile della struttura terapeutica L'ordine del giorno ideale per le sedute spesso non ha senso per i pazien­ ti psicotici: bisogna quindi essere flessibili e la conversazione deve focalizzarsi maggiormente sugli argomenti di vita quotidiana. Si può ad esempio stabilire un contatto con un paziente ospedalizzato all'interno del reparto, anziché nello studio del terapeuta, oppure fare delle sedute più brevi. Al contrario di quanto avviene nella TCC per il trattamento dei Disturbi d'Ansia e dell'Umore, per quel­ lo delle psicosi, solitamente, l'ordine del giorno delle sedute è più indefinito nelle prime fasi, per poi strutturarsi gradualmente nel corso della terapia. È comunque importante che il terapeuta abbia sempre in mente una struttura della seduta in base alla quale procedere, dato che sia la strutturazione che la prevedibilità sono costruttive nella terapia dei pazienti psicotici. È utile familiarizzare con il paziente all'inizio di ogni seduta, parlando, ad esempio, delle cose che sono accadute dall'ultima volta in cui ci si è incontrati. Il terapeuta dovrebbe sforzarsi di mantenere un atteggiamento naturale e amiche­ vole, come quando incontra davvero un proprio amico. È anche necessario valu­ tare attentamente ogni homework: i compiti devono essere concordati assieme, in modo che il paziente possa effettivamente portarli a termine e questi risultino ri­ levanti per i suoi bisogni. I pazienti psicotici hanno spesso problemi nell'eseguire i compiti, specialmente quelli scritti, e, almeno nei primi tempi, può essere appro­ priato non assegnarne loro. Andrebbe poi concordato un obiettivo comune per le sedute, dato che lo scopo finale è quello di coinvolgere il paziente per motivarlo al cambiamento. A fine seduta gli si chiede di riassumere quello di cui si è discusso, per accertarsi di quanto è stato recepito e correggere qualsiasi incomprensione. Gli si chiede anche di fornire un feedback riguardo all'utilità percepita della seduta e un'opinione sulla qualità del rapporto col terapeuta.

Come favorire il coinvolgimento Il terapeuta cerca di far familiarizzare il paziente con il modello cognitivo­ comportamentale; ciò può essere fatto condividendo i risultati positivi della TCC o dei programmi di auto-aiuto, ad esempio per le fobie o l'ansia da prestazione. Si può dimostrargli, inoltre, come l'utilità del metodo sia stata documentata dalle ricerche, dandogli così una maggior speranza che questo possa aiutarlo a miglio­ rare la propria qualità di vita e il proprio funzionamento sociale. Si sottolinea come la TCC non sia un qualcosa che il terapeuta o il paziente portano avanti in­ dividualmente, ma come preveda una collaborazione attiva con obiettivi comuni, dandogli così modo di conoscerla.

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Terapia cogn itivo-comportamentale del l e psicosi La nostra esperienza ci dice che la prima seduta può essere quella più impor­

tante, sia per il paziente che per il terapeuta. Molte persone con disturbo psicotico si approcciano al terapeuta con sospetto e reticenza, rivelando molto poco di quello che stanno sperimentando. I pazienti possono trovare difficile credere a un'altra persona, sia a causa dei propri sintomi, sia perché possono aver vissuto delle esperienze negative nel corso di trattamenti precedenti.

A

volte sono gli

stessi sintomi psicotici che, di per sé, contribuiscono a minare la volontà di impe­ gnarsi, come quando un paziente ha delle allucinazioni imperative che gli dicono "Non ascoltare la terapeuta, non ti crederà.". Un terapeuta empatico, interessato e che mostri rispetto riuscirà ad arginare lo scetticismo, la sfiducia e l'ansia del paziente: "Nella prima seduta, la psicologa mi ha fatto veramente una buona impressione. In passato, invece, avevo avuto delle esperienze davvero brutte. Lei ha usato un approccio attento, si è presa del tempo per ascoltarmi e sono stato effettivamente compreso. Ero imbarazzatissimo nel dire qualsiasi cosa la prima volta che ci sono andato. Mi sono preso del tempo prima di azzardarmi a proferire parola, princi­ palmente riguardo all'ansia e alla depressione, e poi ai miei intenti suicidari e ad altre cose ancora. Sono stato trattato amichevolmente."

L'obiettivo

è

di essere aperti nella comunicazione; onesti e chiari riguardo a

ciò che si pensa e al perché lo si pensa.

È importante, per quanto possibile, che il

dialogo avvenga tra pari e in un'atmosfera rilassata: ''Abbiamo iniziato ad approfondire gli argomenti in modo graduale. Ho citato molti esempi tratti dalla letteratura; era un modo per parlare di alcune cose in con­ dizioni di sicurezza [ . . . ], senza incutere timori.

È importante riuscire

ad avere un

dialogo col paziente; ottenere la fiducia di qualcuno e far sì che creda in noi sono processi che richiedono tempo."

Il terapeuta deve fare in modo che le sedute costituiscano, per quanto possi­ bile, esperienze positive e piacevoli. Una caratteristica dei disturbi psicotici

è

che

i pazienti, spesso, non sono molto abili nel gestire le situazioni sociali e hanno collezionato molti rifiuti: può essere quindi utile, di tanto in tanto, portare la con­ versazione su argomenti neutri ma coinvolgenti. Il terapeuta deve usare un linguaggio comprensibile e non metaforico, senza essere ironico ed evitando il confronto diretto. Per massirnizzare il coinvolgi­ mento del paziente,

è

anche utile creare una relazione sincera, stabilire obiettivi

comuni, usare un linguaggio appropriato e fornire delle buone spiegazioni in me­ rito a ciò che si sta facendo e al perché lo si sta facendo. Il terapeuta deve essere

L'alleanza terapeutica nel la terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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amichevole e confidenziale, nella misura in cui è possibile. L'uso ottimale delle self-disclosures può contribuire a rendere il terapeuta una persona meno ambigua e quindi meno pericolosa e "spaventosa" agli occhi del paziente. Il terapeuta può anche fungere da modello per il paziente, che tramite apprendimento osservativo impara ad affrontare le situazioni difficili. Nelle prime fasi della terapia potrebbe essere necessario prendere l'iniziativa e andare a trovare a casa i pazienti psicotici, dato che spesso manca loro la con­ sapevolezza di malattia e non sono motivati alla terapia. Sono importanti sia un buon lavoro preliminare, sia una raccolta delle informazioni salienti sul paziente, sulla sua famiglia e sulle altre persone per lui significative. Il terapeuta dovrebbe essere curioso, familiarizzare col paziente e tenersi aggiornato in merito alle sue preoccupazioni. Le credenze e le assunzioni del terapeuta possono indebolire la relazione tera­ peutica e minare i progressi del trattamento: per evitare che queste interferiscano in modo troppo massiccio, può essere consigliabile che, in preparazione della seduta, si esaminino i propri sentimenti e le proprie aspettative in merito a ciò che potrà accadere durante l'incontro. Alcuni pazienti non desiderano collaborare: possono, ad esempio, essere stati ricoverati contro la loro volontà e non avere consapevolezza di malattia. Sentono il terapeuta come uno contro di loro, che li sta obbligando a rimanere in ospedale e li sta forzando ad assumere farmaci. Per comprendere il legame tra le esperienze precoci dei pazienti e i loro atteggiamenti e le loro aspettative nei confronti del trattamento, nel corso della prima seduta può essere utile indagare le esperienze positive e negative con le terapie precedenti. Occasionalmente, il terapeuta può cercare di prendere le distanze dal resto del sistema, in modo da creare un'alleanza col paziente. Frasi del tipo "Non ho niente a che fare con il tuo ricovero" o "Non sono io che posso decidere quali farmaci tu debba assumere" possono aiutare a ottenere questo distanziamento. In generale, la relazione si potenzia dimostran­ do interesse ed essendo premurosi nei confronti del paziente. Spesso, nella fase iniziale, può essere utile aiutarlo a raggiungere gli obiettivi più pratici, anche se questo non fa parte delle responsabilità tipiche del terapeuta: occupandosene in prima persona, anziché delegandole ad altri membri dello stqff, il terapeuta dimo­ stra con le proprie azioni che si sta prendendo cura del paziente e che desidera realmente aiutarlo. I deficit cognitivi possono costituire un ostacolo significativo al coinvolgimento attivo del paziente. Dato che molti hanno difficoltà a ricordare gli appuntamenti, può essere utile programmare tutte le sedute alla stessa ora e astenersi dall'asse­ gnare compiti a casa, che possono apparire ingestibili e generare frustrazione. È anche importante essere flessibili in termini di struttura e durata delle sedute: per alcuni pazienti quindici minuti sono più che sufficienti, mentre altri possono aver

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Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

bisogno di sedute più lunghe del normale, in cui discutere di argomenti di vita quotidiana prima di riuscire ad affrontare i temi più difficili. Il terapeuta deve essere perseverante, ma anche in grado di farsi da parte se il paziente è troppo a disagio. È importante che la conversazione sia fluente, in modo che il paziente non consideri la terapia come una sorta di interrogatorio o, all'opposto, come qualcosa di noioso o poco interessante. I pazienti possono avere diversi livelli di tolleranza al silenzio: alcuni non riescono a gestire lunghe pause e sperimentano ansia, che può peggiorare i sintomi psicotici.

N ormalizzazione La normalizzazione è uno dei fattori fondamentali per il successo della TCC per le psicosi e implica un atteggiamento terapeutico caratterizzato da empatia (si veda il capitolo 6): in questo modo si riesce a contrastare la stigmatizzazione. I sintomi psicotici vengono posti su un continuum di fenomeni normali; ciònono­ stante, molte persone li vivono come un qualcosa di drammatico, che causa stress e ansia: realizzare di non avere il controllo sulla propria vita, sui propri pensieri e sui propri sentimenti è davvero spaventoso. È questo il tipo di esperienza che il terapeuta deve affrontare, sottolineando come lo stress emotivo sia normale e comprensibile e aiutando il paziente a vedere come non sia l'unico con questi pensieri e queste sensazioni. Un modo per farlo è quello di normalizzare i sintomi psicotici, mettendo in luce gli effetti dei diversi fattori di stress sul loro sviluppo. Il modello stress­ vulnerabilità - che specifica come i fattori di vulnerabilità, uniti allo stress, possano generare questo tipo di sintomi - può aiutare il paziente a darsi delle spiegazioni. Ci si può anche servire delle prove scientifiche che documentano come vi sia­ no condizioni normali in cui si possono sperimentare sintomi psicotici o strane percezioni, quali la deprivazione o assenza di sonno, la paura (ad es., quando si viene presi in ostaggio), l'abuso fisico o sessuale o le alterazioni organiche (psicosi indotta da farmaci) . Altri possibili fattori scatenanti di cui discutere potrebbero essere l'assunzione di alcol o droghe, il ritiro sociale, la stimolazione cerebrale, le perdite, i lutti, le allucinazioni ipnagogiche o ipnopompiche (immediatamente prima e dopo l'addormentamento) e gli stati di trance. A differenza dei disturbi psicotici, questo tipo di esperienze non dura nel tempo ma ha alcune analogie con questi. Si può anche dimostrare come alcune credenze insolite siano molto diffu­ se nella popolazione generale, rendendo difficile separare nettamente quest'ulti­ me da quelle dei pazienti. Il rischio maggiore della normalizzazione è quello di minimizzazione ecces­ sivamente i problemi del paziente: se viene proposta incautamente e in modo non validante, questi può credere che le altre persone affrontino simili esperienze senza grossi problemi e, di conseguenza, che ci sia qualcosa di sbagliato in lui.

L'alleanza terapeutica nel la terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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CONCLUSIONI Abbiamo illustrato come la TCC, nei casi eli psicosi, possa gettare le basi per stabilire una buona alleanza terapeutica. L'approccio è caratterizzato da rispetto, individualizzazione e normalizzazione. Ci si preoccupa della persona - più che della diagnosi - ed esistono dei metodi specifici per ridurre gli effetti dannosi dei pregiudizi e dello stigma. Inoltre, nella TCC, un presupposto fondamentale è che il paziente e il terapeuta abbiano ugual valore e collaborino attivamente al processo terapeutico. Anche se la TCC per la psicosi ha dato risultati promettenti, questo tipo eli approccio non funziona con tutti i pazienti e non tutti i terapeuti sono in grado di padroneggiare il metodo adeguatamente: è importante esserne coscienti, per valutare realisticamente ciò che è possibile ottenere con una terapia individuale. Va tenuto presente, però, che una buona relazione terapeutica, caratterizzata da alleanza, interesse, rispetto e cura nei confronti del paziente, può, eli per sé, con­ tribuire a ridurre gli effetti negativi del disturbo psicotico grave sulla vita quoti­ diana e la rete sociale eli questo.

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Terapia cogn itivo-comportamentale delle psicosi

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L'al leanza terapeutica nella terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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6 L'USO DELLA NORMALIZZAZIONE NELLA TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLA SCHIZOFRENIA* Robert Dudley e Douglas Turkington

IL RUOLO DELLA NORMALIZZAZIONE NELLA TERAPIA COGNITIVA La normalizzazione è un processo centrale non solo nella TCC delle psicosi (fCCp), ma anche nella terapia cognitivo-comportamentale classica (fCC), dato che si basa sul modello cognitivo che sottolinea come la valutazione di un evento - sia interno che esterno - determini le reazioni emotive e comportamentali suc­ cessive (Beck, 1 995). Tale modello presuppone che, comprendendo il pensiero automatico o la valutazione, l'emozione e il comportamento conseguenti acqui­ steranno un significato: se prendiamo per buoni i primi, infatti, c'è una buona probabilità che ci sentiamo e reagiamo coerentemente ad essi. Nella TCC, uno degli obiettivi è quello di aiutare la persona a valutare il mondo, gli altri e se stesso per quello che realmente sono, senza sovrastimare la minaccia (ad es., "Le mie palpitazioni sono normali; si tratta di una reazione di arousal e non del segnale di un attacco cardiaco.") o sopravvalutare l'evento (ad es., ''Anche se ho perso il lavoro non significa che sono un fallito."). Nella TCC, la normalizzazione viene usata in più modi. Nel modello cogniti­ vo, ad esempio, lo stress che deriva dall'esperienza problematica è considerato un qualcosa di normale e comprensibile; il terapeuta, quindi, dirà a una persona che soffre di rituali di lavaggio qualcosa del tipo: "Lei ritiene che possa esserci del ve* Questo capitolo si basa sul lavoro intrapreso da Dudl� e coJJaboratori (2007); ringraziamo per il loro contributo Caroline Bryant, Katherine Hammond, Ronaki Siddle e David Kingdon.

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Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

leno sulle sue mani e che, quindi, rischi di essere responsabile della morte dei suoi bambini. Non c'è dubbio che si senta ansioso e desideri lavarsele.". Questo stile di colloquio viene adottato sin dalla prima seduta e costituisce una potente forma di normalizzazione. Il terapeuta, inoltre, aiuta i propri pazienti a vedere come non siano gli unici a provare certe sensazioni o a formulare certi pensieri: ciò può incrementare l'autostima, facilitare l'uso di strategie di coping migliori e limitare la stigmatizzazione. La normalizzazione può aiutare a ridurre le reazioni emotive secondarie - come l'essere infastiditi per il fatto di provare ansia o tristi perché si è depressi - e i comportamenti secondari che perpetuano i sintomi primari, quali i comportamenti protettivi e il ritiro sociale. La normalizzazione si può ottenere procurando al paziente del materiale informativo da leggere (ad es., relativo alla riposta attacco/fuga, per normalizzare le sensazioni fisiche provate durante un episodio d'ansia, oppure ad esempi di persone che accusano sintomi depressivi dopo aver perso il lavoro). Anche la se!f disclosure è un potente strumento di normalizzazione: il terapeuta può raccontare di com'è riuscito a superare la propria fobia di parlare in pubblico, oppure può riportare una propria esperienza di pensieri intrusivi quando si trova a lavorare con una persona che soffre di ossessioni (Salkovskis, 1 999). La norma­ lizzazione può anche essere considerata un ingrediente terapeutico fondamentale degli interventi di gruppo, dato che i pazienti, interagendo tra loro, entrano in contatto con altre persone che hanno problemi simili ai propri. Normalizzare le esperienze è anche il fulcro degli attuali modelli dei disturbi d'ansia, in base ai quali è fondamentale modificare le valutazioni catastrofiche - o controproducenti - di fenomeni normali, come le sensazioni corporee (che portano al Disturbo da Panico, all'Ipocondria e alla Fobia Sociale), i pensieri e gli impulsi intrusivi (che provocano il Disturbo Ossessivo-Compulsivo e il Disturbo d'Ansia Generalizzato) e i ricordi intrusivi (che determinano il Di­ sturbo Post-Traumatico da Stress). Un elemento chiave che accomuna tutti gli approcci ai disturbi d'ansia è la normalizzazione di questi fenomeni fisiologici o cognitivi. È importante tenere a mente come la TCC non sia l'unica a servirsi di un approccio normalizzante, che viene comunemente utilizzato anche nel model­ lo medico. Un buon esempio è quello dell'asma: è utile che la persona che ne soffre sappia che chiunque abbia una seria infezione ai polmoni avrà un respiro sibilante; ciò aiuta a ridurre i pensieri catastrofici in merito al significato dei broncospasmi, quali "Il mio male è incurabile e morirò". Un altro esempio è quello dell'epilessia: spiegando al paziente come le convulsioni siano estrema­ mente comuni e possano capitare a chiunque, lo si tranquillizza, si attenuano i sentimenti di vergogna e si favorisce una maggior compliance nei confronti dei farmaci anticonvulsivanti.

L'uso della normal izzazione nella TCC della Schizofrenia

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DEFINIZIONE DI NORMALIZZAZIONE Quando parliamo di normalizzazione, non intendiamo asserire che determi­ nate esperienze sono un segno di salute o di benessere, quanto piuttosto che rientrano nello spettro del funzionamento normale ed è controproducente vi­ vede con angoscia e percepirle come una disabilità. Alcuni modelli cognitivi dei sintomi psicotici - come anche quello del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Sal­ kovskis, 1999) - sostengono che le credenze deliranti e le allucinazioni partano da esperienze normali. La differenza tra le esperienze che assumono proporzioni angoscianti e quelle che non le assumono non starebbe tanto nell'esperienza in sé o nella sua incontrollabilità, quanto nell'interpretazione che ne dà la persona.

NORMALIZZARE I SINTOMI PSICOTICI Questa visione della normalizzazione ci porta immediatamente a riflettere sulla possibilità di applicarla anche all'esperienza psicotica. La maggior parte di noi sa bene cosa significhi sentirsi giù o in ansia: la nostra esperienza personale, pertanto, ci porta a empatizzare spontaneamente con chi soffre di problemi de­ pressivi o di disturbi d'ansia. Il messaggio che dovremmo trasmettere è che anche questo tipo di esperienze non sono di per sé problematiche e che tutti possono viverle senza esserne particolarmente turbati. Invece, le esperienze psicotiche (e, nello specifico, quelle che vengono etichettate come "Schizofrenia'') sono solita­ mente catastrofizzate - più che normalizzate - non solo da parte del paziente, ma anche dalla società e dai media; sono state da sempre considerate qualitativamente diverse da quelle normali e un segnale di un'alterazione funzionale causata presu­ mibilmente da un processo biologico patologico (Bentall, 2003). Questa visione delle psicosi non è priva di conseguenze: il solo fatto di eti­ chettare un soggetto psicotico come malato mentale comporta una maggior per­ cezione di imprevedibilità e pericolosità del suo comportamento (Angermeyer e Matschinger, 2005). I medici, solitamente, catastrofizzano la diagnosi di Schi­ zofrenia e trovano difficile comunicarla direttamente al paziente, !asciandogli il compito di identificarla con altri mezzi: può venirne a conoscenza da un caregiver, può riconoscerne i sintomi guardando un programma televisivo in cui se ne parla o navigando su internet oppure, ancora, può dedurla leggendo il foglietto illu­ strativo dei farmaci che gli sono stati prescritti. Queste modalità, ovviamente, lo inducono a trarre conclusioni spiacevoli sulle motivazioni per cui la diagnosi non gli è stata comunicata direttamente, portandolo a catastrofizzare il problema, a ritenere di essere "pazzo", di non avere "alcuna speranza" di guarigione o di fi­ nire "rinchiuso" (Bentall, 2003). C'è anche una diffusa convinzione che discutere dei sintomi psicotici con un paziente possa esacerbarne i problemi; anche non facendolo, però, può percepirsi "incurabile", sperimentando un'angoscia ancora maggiore (Kingdon e Turkington, 2005). In ogni caso, grazie alle ricerche, è stato

90

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

messo sempre più in evidenza come le esperienze psicotiche siano presenti anche nella popolazione generale, pur a diversi livelli su un siano

un

continuum di gravità,

e non

fenomeno qualitativamente differente dalle esperienze normali (van Os

et al., 200 1 ) . Le indagini sulla popolazione generale sono state condotte tramite questionari o interviste per misurare i sintomi psicotici e si

è

visto come certi

sintomi - dalla paranoia alle allucinazioni - siano relativamente comuni anche in gruppi di soggetti apparentemente "sani". Van Os e collaboratori (2001 ) , ad esempio, hanno evidenziato come il 25% delle persone intervistate abbia occasio­ nalmente sperimentato sintomi psicotici, mentre Freeman e collaboratori (2005) hanno riscontrato come più di un terzo dei 1 .200 studenti universitari intervistati, nel corso della settimana precedente, avesse avuto dei pensieri paranoidi in merito alle intenzioni altrui. Dalle interviste sono emersi dei pensieri relativi al fatto che amici, conoscenti o sconosciuti avrebbero potuto essere ostili o guardarli male deliberatamente. La sospettosità e l'ideazione paranoide, quindi, sembrano essere all'ordine del giorno per molte persone: ben il 52% dei soggetti ha espresso l'idea di "Dover stare in guardia nei confronti degli altri" almeno una volta a settimana. Una piccola parte di questi ha riferito anche di credere che ci potesse essere qual­ cuno che complottava o che stava cospirando attivamente contro di loro (1'8% nel corso della settimana appena trascorsa) . La prevalenza dei sintomi nella popola­ zione generale può essere un elemento chiave nel processo di normalizzazione, in quanto mostra come la presenza di esperienze psicotiche "normali" sia di gran lunga superiore al numero delle malattie mentali vere e proprie identificate. Johns e collaboratori (2004) hanno indagato i sintomi psicotici auto-riferiti dalla popolazione generale: la prevalenza annuale bilità di occorrenza

è

è

risultata del 5.5% e la proba­

risultata maggiore tra le persone che presentavano, in con­

comitanza, abuso di sostanze, sintomi nevrotici, eventi di vita avversi o vittimiz­ zazione. Ognuno di questi fattori di rischio

è

stato documentato nella letteratura

scientifica e può essere usato come parte del processo di normalizzazione. Una delle variabili socio-demografiche influenti evidenziata da Johns e collaboratori (2004)

è l'urbanizzazione

e, da alcune ricerche precedenti,

è

emerso come la pre­

valenza dei sintomi psicotici nella popolazione generale aumentasse all'aumentare del livello di urbanizzazione (van Os et al., 200 1 ) . Le persone che vivono in aree altamente urbanizzate possono identificarsi con questi dati scientifici e, per loro, può essere utile sapere che un'ampia fetta di popolazione ha più o meno lo stesso tipo di malattia. Altri studi mostrano come la vittimizzazione e gli eventi di vita stressanti, in particolare, aumentino i livelli di ideazione paranoide. Spesso, alcuni eventi di vita significativi precedono l'insorgenza della psico­ si, al pari di quella della depressione o del Disturbo Post-Traumatico da Stress (Zubin e Spring, 1 977): le allucinazioni, ad esempio, sono abbastanza comuni

in

chi ha subito abusi sessuali prolungati o particolarmente violenti (Ensink, 1 992).

L'uso della normal i zzazione nel la TCC della Schizofrenia

91

Molte persone non parlano di questi avvenimenti anche quando n e hanno l'op­ portunità; nel momento in cui decidono di aprirsi, però, può essere utile sottoli­ neare loro il possibile legame di questi con la sintomatologia, al fine di illustrare in che modo quest'ultima possa essersi sviluppata. Grassian (1 983) ha evidenziato come i prigionieri tenuti in isolamento prolungato fossero più propensi a ma­ nifestare sintomi psicotici.

Le

allucinazioni possono anche essere provocate da

un'eccessiva permanenza a letto o da altre deprivazioni sensoriali (Slade, 1 973). Dalle ricerche

è

anche emerso come la deprivazione di sonno possa essere un

fattore d'innesco per i sintomi psicotici, dato che può provocare illusioni, alluci­ nazioni e ideazione paranoide. Questi dati possono essere mostrati ai pazienti che sperimentano fenomeni simili, in modo da farli sentire meno alienati a causa delle proprie esperienze. Abbiamo visto, quindi, come la normalizzazione sia una componente tipica della TCC per il trattamento dei disturbi non psicotici, come anche le esperienze psicotiche non siano qualitativamente differenti dalle altre esperienze, soprattutto considerando le circostanze in cui queste si sviluppano, e come possano essere vissute senza particolare disagio. Ci concentreremo quindi adesso sul processo di normalizzazione nella terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi (fCCp).

IL PROCESSO DI NORMALIZZAZIONE NELLA TCC DELLE PSICOSI All'inizio della TCCp,

è

importante coinvolgere il paziente e creare un'alle­

anza terapeutica che permetta un rapporto collaborativo (si veda il capitolo

5).

Questo primo passo cruciale generalmente richiede empatia, calore, genuinità e accettazione incondizionata da parte del terapeuta, che dovrà anche dimostrare

di conoscere le modalità tipiche di manifestazione delle esperienze psicotiche (al­ lucinazioni, percezioni deliranti, deliri strutturati, ecc.) . I terapeuti, spesso, riman­ gono spiazzati dinanzi alla complessità del sistema delirante ma, durante la fase iniziale, si può arrivare a una formulazione del caso che spieghi l'insorgenza dei sintomi tale da permettere di iniziare la terapia. Il terapeuta può anche fornire del materiale scritto, proporre degli esempi di casi e fare delle

se!f disclosures in merito

a come ha adoperato una particolare tecnica per superare un proprio problema (ad es., l'ansia) . Il processo di normalizzazione può essere usato come strumento terapeutico per creare l'alleanza, esplorando dapprima aree tematiche non minacciose per il paziente, per poi affrontare la sintomatologia vera e propria, in modo da ridurre

il suo eventuale imbarazzo. La normalizzazione può essere d'aiuto per gettare le basi della formulazione del caso e per fare in modo che il paziente diventi un agente attivo del proprio trattamento. Nell'approcciarsi al paziente, il terapeuta dovrebbe anche trasmettere precisione e accuratezza, facendo attenzione a non

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Terapia cognitivo-comportamentale de l le psicosi

invalidarne le esperienze con segnali verbali o non verbali, come ad esempio sfi­ dando direttamente una credenza delirante. Bisogna anche evitare di impiegare la normalizzazione in modo estremo, in quanto ciò potrebbe essere percepito come una minimizzazione del problema. Se usata indiscriminatamente, il paziente può percepire che le altre persone sono in grado di gestire problemi simili ai propri (ad es., tutti sentono le voci) che lui non sa gestire; inoltre, se durante la terapia non vengono trattati alcuni terni importanti, la persona può convincersi di essere cattiva (specialmente se i problemi vengono normalizzati; ad es., "Se non

è la ma­

lattia a produrre certe cose, allora devo essere una persona cattiva."). Il terapeuta dev'essere consapevole di ciò che fa quando asserisce che i sintomi psicotici sono normali, identificando al contempo i condizionamenti derivanti dalle proprie cre­ denze personali (Garrett et al.,

2006).

Dopo aver coinvolto il paziente nella terapia,

è utile

fornirgli una spiegazione

dei sintomi che percepisce come più disturbanti, oltre ad affrontare le sue idee catastrofiche

in

merito alla "pazzia". Si può fargli capire come probabilmente

esistano delle motivazioni comprensibili che giustificano la comparsa dei sintomi e come chiunque, in determinate circostanze stressanti, possa sviluppare dei sin­ tomi psicotici. Si può approfondire il fatto che esiste un predisposizione familiare a reagire in questo modo, così da aiutare la persona a sentirsi meno diversa e iso­ lata. Si possono poi condividere i risultati delle ricerche in merito alla prevalenza dei sintomi psicotici nella popolazione generale Oohns et al.,

2004),

oppure gli

studi specifici in merito a particolari esperienze di vita, come gli abusi sessuali

o

l'isolamento. Può anche venire introdotta l'ipotesi stress-vulnerabilità (Zubin e Spring, 1 977), che spiega semplicemente come la vulnerabilità e lo stress si combinino tra loro producendo i sintomi caratteristici della psicosi. Può essere necessario esaminare più dettagliatamente gli antecedenti dell'esordio psicotico e specificare i diversi stressor che tipicamente innescano i sintomi. Il periodo che ha preceduto l'esordio andrebbe indagato per mezzo di domande dirette, ma anche di tecniche immagi­ native o role plqy. In una prima fase, si possono individuare i pensieri automatici ricorrenti, per poi indagare, nelle sedute successive, gli scherni sottostanti relativi alla percezione di successo personale, al bisogno di approvazione e di controllo. .La normalizzazione può aiutare la persona a comprendere come, in periodi di stress e preoccupazione, chiunque abbia pensieri automatici negativi, pensieri intrusivi e ossessioni con caratteristiche simili all'esperienza allucinatoria (ad es., possono essere abbastanza violenti e avere natura sessuale o religiosa) . Il paziente può quindi realizzare come anche gli altri sperimentino ansia a causa dei propri pensieri, ma anche come la maggior parte delle persone decida di non reagirvi. Questo processo di normalizzazione può aprire la strada all'uso di tecniche

im­

maginative e di role plqy, per lavorare a livello degli scherni e affrontare le credenze

L'uso del la normal i zzazione nella TCC della Sch izofrenia in merito alle voci, allo scopo d i aiutare

il paziente

93

a gestire le allucinazioni impe­

rative in modo diverso (Morrison et al., 2004) .

È UNA PARTE IMPORTANTE DEL TRATTAMENTO?

LA NORMALIZZAZIONE Sappiamo che la TCC

è

efficace per coloro che soffrono di sintomi psicotici

persistenti (Sensky et al., 2000); pur avendone dimostrato l'efficacia, però, non abbiamo dati convincenti relativi ai meccanismi di cambiamento implicati. Ge­ neralmente, la TCC

è

composta da alcuni elementi fondamentali (Beck, 1 995),

quali una buona relazione terapeutica, l'empirismo collaborativo, l'uso di tecniche cognitivo-comportamentali mirate al cambiamento e di modelli specifici per ogni disturbo che stanno alla base della formulazione del caso. Gli studi riguardo agli elementi attivi nel trattamento sono abbastanza limitati; ci sono però delle prove a sostegno del fatto che una buona alleanza terapeutica potenzi l'efficacia delle terapie supportate empiricamente (Raue e Goldfried, 1 994) e di come utilizzare un

approccio terapeutico efficace determini un'alleanza terapeutica migliore (De­

Rubeis et al., 2005) . Non esiste invece praticamente alcuna ricerca in merito alle componenti efficaci nel trattamento dei disturbi psicotici: in linea di massima, vi è solo la prova empirica che una - o tutte - queste componenti siano necessarie. Sebbene non siano supportati da prove empiriche, gli elementi menzionati poc'anzi sono inclusi nei manuali di trattamento TCCp (ad es., Morrison et al., 2004) . In questi approcci, spesso, si pone l'enfasi principale sulla costruzione dell'alleanza terapeutica e della motivazione del paziente, sulla normalizzazione dei sintomi psicotici e sulla decatastrofizzazione delle valutazioni relative ciò che significa essere affetti da un disturbo psicotico come la Schizofrenia (Kingdon e Turkington, 2005) . Sembra quindi che la TCCp si basi sia sugli elementi chiave della TCC, che su quelli più specifici per la condizione psicotica, ma che

il processo

relazionale e

il

ruolo della formulazione del caso siano considerati particolarmente importanti (Morrison et al., 2004) . La formulazione del caso è il processo in cui si integrano le specifiche infor­ mazioni fornite dal paziente con

il

modello cognitivo, e serve sia a comprende­

re l'origine e i fattori di mantenimento delle difficoltà attuali, sia a orientare

il

terapeuta verso i punti fondamentali dell'intervento (Kuyken et al., 2009). Per questo motivo, viene considerata spesso la chiave di volta della TCC.

A

dispetto

del suo ruolo centrale, però, attualmente non ci sono prove della sua efficacia nel produrre un esito positivo: anche se è una delle componenti principali della TCC, quindi, dispone di prove sorprendentemente scarse in merito al suo valore terapeutico. Nel caso di persone affette da un disturbo psicotico, la formulazione aiuta a giungere a una comprensione del problema condivisa ed

è particolarmen-

94

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

te importante nel momento in cui si lavora con sintomi che, all'inizio, possono sembrare "incomprensibili". Nella TCCp, la formulazione del caso è fortemente legata alla normalizzazione, dato che il terapeuta cerca di generare e verificare assieme al paziente una spiegazione alternativa, nuova e meno minacciosa ai suoi vissuti: in questo processo, quindi, tutte le informazioni normalizzanti relative ai sintomi risultano cruciali. A tutt'oggi, solo due studi si sono occupati della formulazione del caso nella TCCp. Nel primo, condotto da Chadwick e collaboratori (2003), è emerso come, dal punto di vista del paziente, questa non abbia alcun impatto sulla percezione della qualità della relazione terapeutica, sui sintomi psicotici o sui livelli di ansia e _depressione. Il secondo studio (Dudley et al., 2007), randomizzato e controllato, si è occu­ pato invece di capire quali fossero gli elementi della TCCp più usati con i soggetti affetti da Schizofrenia che rispondevano al trattamento, rispetto a quelli non-re­ sponders (Sensky et al., 2000). Durante ogni seduta, il terapeuta compilava dei mo­ duli nei quali doveva indicare le componenti terapeutiche adoperate e, in questo modo, è emerso come le tecniche specifiche che distinguevano i responders dai non-responders fossero soprattutto la psicoeducazione in merito alla Schizofrenia e la condivisione di informazioni ed esperienze personali. Entrambe sembravano fungere da processi normalizzanti, dato che aiutavano il paziente a dare un senso allo sviluppo dei sintomi, andando a rappresentare gli elementi costitutivi della formulazione.

CONCLUSIONI Alcune prove preliminari, quindi, dimostrano il valore della formulazione del caso nella TCCp e, al suo interno, il ruolo cruciale della normalizzazione. In ogni caso, ci si può legittimamente chiedere fino a che punto sia possibile normalizzare le esperienze psicotiche. Ognuno di noi ha sperimentato delle lacune nella propria memoria, forse dimenticando il nome di qualcuno o di qualcosa, ma pochi po­ trebbero adoperare quest'esperienza per normalizzare l'amnesia o la demenza. Lo stesso problema si pone per i sintomi psicotici: in che misura possiamo affermare che queste esperienze siano normali? Probabilmente ci siamo sentiti sospettosi nei confronti di qualcuno o abbiamo sentito una voce che pronunciava il nostro nome mentre ci stavamo svegliando, ma questi vissuti sono davvero paragonabili a quelli di credere che i propri genitori siano stati uccisi e sostituiti da impostori alieni o di udire una voce che grida per ore e ore che siamo delle persone malva­ gie? Potrebbe esserci un limite relativo alla frequenza, al volume e alla nitidezza di una voce - o al suo contenuto - che renda questa esperienza diversa da quella di tutte le altre persone ma, al momento, non sappiamo se esista soltanto una differenza di livello o anche di qualità dell'esperienza stessa. Ciò rappresenta un

L' uso della norma lizzazione nel l a TCC della Schizofrenia

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problema per i clinici e i ricercatori che seguano i modelli TCCp, in quanto non è chiaro il grado fino al quale è possibile normalizzare queste esperienze. Va però considerato che ciò che rende anormale un'esperienza è, in qualche misura, culturalmente determinato: l'apparente miglioramento riscontrabile in soggetti provenienti da società non occidentali che hanno sintomi psicotici (Bentall, 2003) potrebbe essere in parte attribuibile alla differente valutazione che qua ne viene data. Anche quando questo tipo di esperienze viene definito normale, però, è importante ricordare che le spiegazioni che ne diamo possono mutare nel corso del tempo, ed è effettivamente questo ciò che accade. Nonostante ci siano poche prove empiriche a sostegno dell'efficacia della nor­ malizzazione, questo processo viene inserito sempre più spesso nei manuali di terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi d'ansia e depressivi. Attualmente, sembra essere uno dei fattori più importanti per il successo della terapia cogniti­ vo-comportamentale con persone affette da disturbi psicotici ed è stata introdot­ ta in alcuni recenti manuali per il trattamento (Kingdon e Turkington, 2005) e vo­ lumi di auto-aiuto (ad es., Turkington et al., 2009); inoltre, può essere facilmente insegnata agli psichiatri durante il tirocinio (Garrett et al., 2006). La sfida, ora, è quella di diffondere sempre più questo tipo di formazione, offrendo la possibilità di ricevere un trattamento basato sulla TCC anche a chi, a causa della cronicità del problema o delle comorbilità, richieda un trattamento più intensivo.

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Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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Journa/ of Abnormal

7 TERAPIA CO GNITIVO COMPORTAMENTALE E INTERVENTO PRECOCE Jean Addington, Enza Mancuso e Maria Haarmans

INTRODUZIONE Nella letteratura scientifica relativa al trattamento della Schizofrenia, gli ambiti dell'intervento precoce e della prevenzione rivestono un ruolo particolarmente importante. Le ricerche più recenti si sono occupate sia delle fasi appena prece­ denti all'esordio nei casi tardivi, sia di quelle immediatamente successive all'esor­ dio nei casi precoci, ipotizzando che i ritardi nel trattamento impediscano la gua­ rigione e abbiano un impatto negativo sugli esiti: oggigiorno l'obiettivo è quello di individuare e trattare la Schizofrenia quanto più tempestivamente possibile, minimizzando la durata del periodo privo di trattamento. Gli studi sulla pre-insor­ genza - ovvero quelli che si occupano del rischio di manifestare la Schizofrenia in futuro - sono i più controversi, dato che lo sviluppo di un disturbo è solo un evento probabile e non qualcosa di certo. Gli studi di genetica hanno evidenziato come, nonostante in fase premorbosa esista un rischio imputabile al patrimonio cromosomico, la possibilità effettiva di sviluppare una patologia psicotica sia re­ lativamente bassa (approssimativamente del 1 0-20%). Il fatto che siano presenti dei sintomi e una certa disabilità nel corso dell'ipotetica fase prodromica della Schizofrenia potrebbe fungere da fattore predittivo per diagnosticare la presenza del disturbo attraverso nuovi elementi. Da sempre, nel periodo che precede la malattia, si riscontra la presenza di lievi deficit clinici, psicosociali e cognitivi, ma solo negli ultimi decenni è stato possibile identificare in modo attendibile e sistematico i soggetti "prodromici" basandosi sull'esistenza di sintomi psicotici sottosoglia e/ o sulla familiarità per la Schizofre-

98

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

nia, associate a segni di compromissione del funzionamento sociale. Le persone che sembrano essere in fase prodromica - per la Schizofrenia o altri disturbi psicotici - hanno un'altra probabilità (che, nella maggior parte degli studi, varia dal 20 al 50%) di virare verso una psicosi conclamata all'incirca entro i due anni successivi. In fase prodromica sono già presenti sintomi e disabilità e molte per­ sone cercano aiuto fin dalla comparsa di questi segnali perché, anche se attenuati o sottosoglia, rimangono comunque debilitanti.

INTERVENTO PER IL PRIMO EPISODIO Gli obiettivi dell'intervento precoce sono di ridurre il ritardo nell'accedere a un trattamento e di offrire una cura ottimale nei primi - e più critici - anni se­ guenti all'esordio. Il trattamento offerto, spesso,

è caratterizzato da programmi

specifici per il primo episodio psicotico, che hanno lo scopo di minimizzare la probabilità di ricaduta e la disabilità, oltre ad accrescere la possibilità di guari­ gione. Molte persone giovani, dopo il primo episodio psicotico, vanno incontro a una remissione dei sintomi positivi entro il primo anno, con tassi di recupero variabili (Addington, 2008) . In ogni caso, una percentuale significativa di questi pazienti continua a soffrire di sintomi disabilitanti, positivi e negativi, che rendo­ no difficile sia il lavoro che l'autogestione. Affinché i soggetti psicotici giungano a una vera e propria guarigione, la far­ macoterapia va associata a un intervento psicologico e, in quest'ambito, gli esi­ ti della terapia cognitivo-comportamentale per le psicosi (fCC) sono alquanto promettenti: molte

review e

meta-analisi recenti, infatti, dimostrano l'efficacia di

questo approccio in soggetti con decorso cronico (farrier e Wykes, 2004; Tur­ kington et al., 2006). Questo capitolo si concentra sull'utilizzo della TCC con quei soggetti che si trovano nelle prime fasi del disturbo psicotico.

Il razionale della TCC dopo il primo episodio psicotico Anche seguendo le linee guida, ci sono delle limitazioni signific ative agli inter­ venti farmacologici che si sono dimostrati efficaci. In primo luogo, nei primi anni di trattamento, circa il 60% dei soggetti al primo episodio psicotico non aderisce al trattamento farmacologico, circa il 40% smette di assumere i farmaci già nei primi sei mesi e più del 60% ha dei periodi intermittenti di non aderenza al trat­ tamento. Anche assumendo regolarmente i farmaci, inoltre, nell'anno successivo al primo episodio la ricaduta rimane un fenomeno frequente (Addington, 2008). Il recupero del funzionamento (sociale, professionale, scolastico e interpersona­ le), poi, rimane un problema, dato che non sempre

è naturale conseguenza di un è stata am­

miglioramento significativo dei sintomi. L'efficacia della TCC, infine,

piamente dimostrata nel trattamento della depressione, dell'ansia e dell'abuso di sostanze, che si ritrovano spesso in comorbilità con il primo episodio psicotico.

Terapia cognitivo-comportamentale e i ntervento precoce

99

Studi sull'efficacia della TCC per il primo episodio psicotico Gli studi che hanno valutato l'efficacia della TCC nella fase iniziale della psi­ cosi sono abbastanza limitati, anche se in uno di questi il trattamento cognitivo­ comportamentale si è rivelato superiore a quello non strutturato (treatment as usual, TAU) nel ridurre i sintomi positivi e nel limitare il tempo tra l'episodio critico e il recupero. Alfollow-up a cinque anni, però, l'unica differenza significativa è risultata un incremento della percezione di "controllo sulla malattia" in soggetti che, oltre alle generiche attività di supporto, avevano ricevuto un trattamento cognitivo­ comportamentale specifico (Drury et al., 2000). Le limitazioni di questo studio includono la ristrettezza del campione (i 2/3 dei soggetti avevano una storia di cronicità e di episodi multipli), i bias dello sperimentatore, la multimodalità del trattamento e il mancato controllo di fattori aspecifici come il rapporto con il terapeuta. Jackson e collaboratori (1 998) hanno sperimentato la psicoterapia a orienta­ mento cognitivo per la psicosi precoce (Cognitive(y Oriented P[Jchotherapy for Ear(y P[Jchosis, COPE) - volta a promuovere l'adattamento alla malattia - su un cam­ pione di 80 pazienti al primo episodio psicotico. Alfollow-up a un anno l'unica pe­ culiarità di chi era stato sottoposto alla COPE - rispetto a un gruppo di controllo e a chi si era rifiutato di partecipare ai gruppi - riguardava la modalità di coping, caratterizzata da integrazione anziché da "sealing over' (N.d.T.: per integrazione si intende la capacità del soggetto che è nella fase di recupero di avere consapevo­ lezza della propria esperienza di malattia; i soggetti che invece isolano l'episodio psicotico non integrandolo nella propria esperienza sono definiti appunto sea­ ling over.) Gackson et al., 2001). In uno studio successivo non randomizzato, 9 1 soggetti al primo episodio psicotico sono stati sottoposti alla COPE; Jackson e collaboratori (2005), tuttavia, non hanno riscontrato differenze tra questi soggetti e i gruppi di controllo in alcuna misurazione relativa agli esiti. Le limitazioni dello studio includevano un'assegnazione dei soggetti ai gruppi non randomizzata e una scarsa considerazione della non-compliance farmacologica. Uno degli studi randomizzati controllati condotti con la metodologia più ri­ gorosa è stato il SoCRATES (Lewis et al., 2002) . I ricercatori hanno reclutato un campione rappresentativo di grandi dimensioni (n = 3 1 5; di cui 1'83% al primo episodio psicotico); una parte dei soggetti, durante la fase acuta del disturbo, è stata sottoposta a un protocollo di trattamento TCC della durata di 5 settimane (10 sedute totali), un'altra parte ha ricevuto una normale assistenza psichiatrica (routine care, RC) associata a una terapia supportiva (supportive therapy, ST) e un'altra parte ancora ha ricevuto la sola RC (Lewis et al., 2002; Tarrier et al., 2004). Dopo 70 giorni, nel gruppo sottoposto a TCC i sintomi positivi sono migliorati più ra­ pidamente rispetto agli altri gruppi (Lewis et al., 2002) . Dopo 1 8 mesi, i soggetti del gruppo TCC e quelli del gruppo ST hanno ottenuto risultati più significativi

1 00 Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

rispetto a quelli del gruppo RC, ma non si sono evidenziate differenze significati­ ve tra i gruppi rispetto all'impatto della TCC e della ST sui sintomi e sulla proba­ bilità di ricaduta o di nuova ospedalizzazione (farrier et al., 2004), con l'eccezione delle allucinazioni uditive, che hanno risposto meglio alla TCC rispetto alla ST. La TCC, quindi, è risultata più efficace della RC, ma non significativamente superiore alla ST. Probabilmente, il limite principale di questo studio sta nel fatto che non è durato un tempo sufficiente affinché la TCC avesse effetto. Anche solo con la RC, infatti, ci si aspetta un alto tasso di recupero in fase acuta, dato che circa 1'85% dei pazienti al primo episodio psicotico risponde bene al trattamento far­ macologico standardizzato. In quest'ottica, quindi, è naturale che l'impatto della TCC sui sintomi positivi in fase acuta sia limitato. In uno studio randomizzato controllato più recente, di Jackson e collaboratori (2008), 62 persone al primo episodio psicotico in fase acuta sono state sottoposte a una terapia individuale. I soggetti sono stati assegnati casualmente a 20 sedute di terapia cognitiva, articolata in 1 4 settimane (ACE; Actit•e Cognitive Therapy for Ear/y P!Jchosis), o a un trattamento supportivo amicale (Befriending contro/ condition; BF). Dopo tre mesi di trattamento, il gruppo ACE ha mostrato un miglioramento nel funzionamento generale, ma non riguardo ai sintomi positivi o negativi. Al termine delle sedute, entrambi i gruppi sono migliorati: nell'ACE si è riscontrato un funzionamento generale moderatamente superiore, ma nessuno dei due trat­ tamenti ha dato risultati significativi sui sintomi positivi o negativi. Al follow-up a un anno, non vi erano evidenze sostanziali che il gruppo ACE avesse ottenuto risultati superiori a quello BF, in base ai punteggi agli strumenti di misura: i dati suggeriscono, infatti, che il gruppo BF recuperi tutte le differenze di funziona­ mento inizialmente riscontrate verso la metà o la fine del trattamento. Questo studio dimostra come il recupero funzionale avvenga in tempi più brevi con un intervento di TCC, ma anche come i suoi vantaggi non siano superiori a quelli di una terapia aspecifica che preveda il contatto con un terapeuta e implichi delle aspettative in merito alla terapia stessa. Sembra che il numero medio di sedute (ACE = 9; BF = 7) sia stato troppo basso per affrontare adeguatamente le neces­ sità di questo gruppo di soggetti, soprattutto se si considera che molti di questi presentavano almeno un altro disturbo concomitante (il 47%). Il numero di sedu­ te, oltretutto, è stato inferiore al previsto, dato che per il terapeuta - che avrebbe dovuto tenerne 20 in 1 4 settimane - era troppo complicato riuscire a gestirne più di una a settimana. Se i pazienti non riuscivano a partecipare per una settimana, inoltre, non potevano più recuperare le sedute perse, dato che il completamento della terapia doveva avvenire entro un periodo di tempo ben preciso. I pazienti, quindi, potevano incontrare il terapeuta una sola volta a settimana, ma non era­ no disponibili tutte le settimane. Altre limitazioni di questo studio includono la ristrettezza del campione e la mancata inclusione di un gruppo di controllo con

Terapia cognitivo-comportamentale e intervento precoce 1 01 normale assistenza psichiatrica, per determinare se i miglioramenti non fossero ascrivibili agli elevati standard qualitativi di quest'ultima. Per determinare l'impatto della TCC su soggetti al primo episodio psicotico servono quindi altre ricerche; in particolare, è necessario valutare in dettaglio cosa - e per quali persone - funziona, oltre a capire in quali casi la TCC può essere più utile. Comprendendo meglio i meccanismi di funzionamento del trattamento, sarà possibile sviluppare altre terapie efficaci e basate sulle evidenze. Nonostante le scarse prove di efficacia, però, emerge come la TCC sia un intervento appro­ priato, quantomeno per il primo episodio psicotico.

L'intervento in fase pre-psicotica Più di recente, nel campo dell'intervento precoce, si è considerata l'opportunità di un trattamento per i soggetti ad alto rischio psicotico - ovvero per coloro che, pre­ sumibilmente, manifesteranno una psicosi. Si è quindi pensato di cercare di indivi­ duare i sintomi psicotici attenuati o sottosoglia che indicano una psicosi imminente. Sono stati definiti i criteri per individuare i soggetti ad alto rischio di manifestare un disturbo psicotico nell'immediato futuro, che comprendono un recente declino fun­ zionale, una vulnerabilità genetica e/ o dei sintomi psicotici recenti sottosoglia o di breve durata. Se sono soddisfatti questi criteri, il rischio di viraggio in psicosi aumen­ ta, in un anno, approssimativamente del 1 0% e fino a circa il 25-40%, come riportato in alcuni studi che presenteremo più avanti. L'affidabilità di questi criteri è eccellente e gli studi che se ne sono serviti sostengono l'ipotesi che le persone prodromiche siano sintomatiche e a rischio - alto e imminente - di un esordio psicotico. A tutt'oggi, sono stati pubblicati pochi studi relativi agli interventi sui gruppi ad alto rischio clinico. Nel primo, McGorry e collaboratori hanno sottoposto 59 soggetti randomizzati "ad altissimo rischio" a sei mesi di trattamento attivo (risperidone 1 -3 mg/ die in abbinamento a una forma di TCC modificata) o a un intervento generico basato sull'ascolto dei bisogni (McGorry et al., 2002). A bre­ ve distanza di tempo, un numero significativamente minore di soggetti sottoposti al trattamento attivo ha manifestato un primo episodio psicotico (9, 7% contro il 36%). Non si sono tuttavia riscontrate differenze significative a sei mesi dal ter­ mine del trattamento, dato che anche la maggior parte dei soggetti appartenenti al gruppo di trattamento attivo hanno poi sviluppato sintomi psicotici (il 19% contro il 36%). Le limitazioni di questo studio includono il fatto che né i soggetti né i valutatori sono stati assegnati in cieco al gruppo, non vi sono dati riguardo al rispettivo contributo farmacologico e psicoterapico e non è stata controllata l'aderenza alla terapia farmacologica. A dispetto di queste limitazioni, lo studio di McGorry si è rivelato senza dubbio fondamentale. Il secondo e più rigoroso studio, randomizzato e a doppio cieco, ha visto coinvolti 60 soggetti in fase prodromica in cerca di aiuto. Si è confrontata l'ef-

1 02 Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi ficacia di un basso dosaggio di un antipsicotico (olanzapina) rispetto al placebo nel prevenire o ritardare l'esordio psicotico (Miller et al., 2003). Al follow-up a un anno, soltanto il 1 6% dei soggetti trattati con olanzapina ha poi manifestato psicosi franca, contro il 35% di quelli ai quali era stato somministrato il placebo; l'olanzapina, inoltre, è risultata associata a un miglioramento più sostanzioso dei sintomi prodromici rispetto al placebo (McGlashan et al., 2006). Pur non essendo statisticamente significativi, i risultati sono probabilmente limitati dalle ristrette dimensioni del campione. Il terzo studio pubblicato, l'Earfy Detection and Intervention Eva/uation (EDIE), riguarda un trial di TCC a singolo cieco randomizzato su soggetti ad alto rischio psicotico (Morrison et al., 2004). 58 partecipanti sono stati assegnati casualmente per sei mesi alla TCC o al solo monitoraggio dei sintomi e tutti i soggetti sono stati valutati mensilmente per 1 2 mesi. A un anno di distanza, la TCC ha ridotto significativamente sia la probabilità di sviluppare sintomi psicotici - valutati tra­ mite la Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS) - sia quella di dover assumere farmaci antipsicotici e di soddisfare i criteri per la diagnosi di disturbo psicotico secondo il DSM-IV La TCC è anche riuscita ad attenuare i sintomi positivi all'in­ terno del campione. È da notare come il 95% dei soggetti abbia spontaneamente acconsentito a partecipare a questo studio, fatto che dimostra il loro interesse e la loro volontà di impegnarsi in una terapia psicologica.

IL RAZIONALE DELLA TCC PER I SOGGETTI AD ALTO RISCHIO CLINICO Questi tentativi di prevenire o ritardare l'insorgenza psicotica, con una sola eccezione, hanno previsto l'uso di farmaci, prevalentemente antipsicotici. Nei soggetti potenzialmente prodromici, tali farmaci sembrano alleviare i primi sin­ tomi e, eventualmente, ritardarne l'insorgenza. Chi partecipa ai trial farmacologici (McGorry et al., 2002; Miller et al., 2003) solitamente si trova nel periodo di pre­ insorgenza più avanzato, visti l'alto tasso di riduzione dei sintomi psicotici, gli scarsi livelli di funzionamento e l'alta frequenza di evoluzione in psicosi concla­ mata. Bisogna valutare attentamente la fattibilità, la sicurezza e l'etica delle ricer­ che relative agli interventi precoci, dato che i tria/ clinici in cui si utilizza la terapia farmacologica con soggetti prodromici hanno sollevato molte controversie e di­ battiti (Bentall e Morrison, 2002) . Infatti, anche se i nuovi farmaci antipsicotici presentano dei vantaggi rispetto a quelli di prima generazione, non sono esenti da effetti collaterali - come l'aumento di peso -, problema particolarmente rilevante nei casi di falsi positivi. Alla luce di queste difficoltà, è stato necessario definire un razionale per de­ cidere come applicare i vari trattamenti psicologici ai sintomi psicotici quando il disturbo è in fase emergente. Bentall e Morrison (2002) hanno proposto che

Terapia cognitivo-comportamentale e intervento precoce

1 03

gli approcci di trattamento psicologico potrebbero costituire un primo passo più sicuro e accettabile nell'attuazione degli interventi preventivi, che potrebbe di per sé ridurre o evitare l'assunzione di farmaci. Dato che i soggetti a cui ver­ rebbero applicati, inoltre, sono alla ricerca di aiuto, potrebbero beneficiare di un intervento psicologico anche se fossero dei falsi positivi (ovvero, non a rischio di psicosi) . Il periodo prodromico della Schizofrenia

è articolato i n diverse fasi e i diffe­

renti trattamenti - ovvero, la farmacoterapia e l'intervento psicologico - potreb­ bero rivelarsi appropriati ed efficaci in specifici momenti. Gli antipsicotici potreb­ bero essere indicati nella fase prodromica più tardiva, quando i sintomi psicotici attenuati divengono chiaramente evidenti e la persona

è, potenzialmente, sull'orlo

della crisi psicotica vera e propria. Gli interventi psicologici, invece, potrebbero essere più utili durante la fase prodromica precoce e meno sintomatica, dato che in questo periodo i sintomi sono meno gravi e più aspecifici; i soggetti presenta­ no una costellazione più ampia di preoccupazioni e desiderano comprendere le proprie difficoltà percettive, gestire lo stress, la depressione, l'ansia, i disturbi del sonno e il declino nel proprio funzionamento, nonché essere sostenuti in questo difficile periodo di vita. Per intervenire su questi sintomi e questo tipo di preoc­ cupazioni, un trattamento psicologico risulta più appropriato rispetto a quello farmacologico. Sembra che la TCC costituisca un valido intervento per i soggetti ad alto ri­ schio (French e Morrison, 2004), dato che allevia sia i sintomi psicotici attenuati che quelli intermittenti, aiutando a gestirli e a ridurre il disagio emotivo ad essi associato (farrier and Wykes, 2004) e il rischio di ricaduta. In secondo luogo, tale approccio rappresenta un valido aiuto per la depressione, l'ansia e i problemi emotivi aspecifici che sono spesso presenti in fase prodromica. Nei soggetti ad alto rischio clinico si sono riscontrati significativi problemi con la metacognizione e con gli schemi di sé, ovvero con quei processi che, tipicamente, sono il

target

della TCC (French e Morrison, 2004). Gli approcci di terapia cognitivo-compor­ tamentale si sono dimostrati utili anche nel trattamento dell'abuso di sostanze, un fattore importante che contribuisce allo sviluppo della psicosi nei soggetti a rischio. Tali interventi, infine, ben si adattano al modello stress-vulnerabilità, essendo dei preziosi strumenti per trasmettere le strategie di

coping protettive

nei

confronti di quegli stressor ambientali che rappresentano un rischio per il viraggio psicotico. La TCC, quindi, costituisce il modello di intervento psicologico più pro­ mettente per:

1)

affrontare i sintomi e le preoccupazioni presenti nel periodo

ipoteticamente prodromico; 2) insegnare delle strategie potenzialmente efficaci per proteggersi dall'impatto degli comparsa dei sintomi psicotici.

stressor ambientali che possono

contribuire alla

1 04

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

L'utilizzo della TCC nell'esordio precoce Spesso, si utilizza la TCC in progetti di ricerca con pazienti ad alto rischio clinico. I trattamenti attuali per questo tipo di pazienti sono ben descritti nell'eccellente volu­ me di French e Morrison (2004) e in un recente manuale che illustra gli interventi psi­ cologici per i soggetti ad alto rischio psicotico di Addington e collaboratori (2005). In tutto

il

mondo sono stati proposti dei pacchetti di intervento per soggetti

al primo episodio psicotico, che includono tipicamente un trattamento farmaco­

case management psichiatrico e una serie di interventi psicologici TCC individuale, gruppi specifici per le va­

logico ottimale, un

che comprendono: psicoeducazione,

rie fasi della malattia, servizi di inserimento lavorativo e sostegno alle famiglie. In questi casi, il focus della TCC

è

l'esperienza soggettiva dei sintomi psicotici

e il tentativo di comprendere quanto sta accadendo. Le allucinazioni e i deliri vengono posti sul

continuum delle normali credenze

e si cerca di esplorare e com­

prendere le percezioni anomale contestualizzandole nella realtà sociale, culturale e psicologica dell'individuo (French e Morrison, 2004) . I sintomi psicotici posso­ no rispecchiare le preoccupazioni di ogni giorno, come il timore di venire esclusi, ridicolizzati o feriti dagli altri, così come quello di essere indegni. Per facilitare l'adattamento ai sintomi, si utilizzano la psicoeducazione e la normalizzazione, in particolare con i soggetti giovani. La TCC per l'esordio psicotico precoce deve adattarsi alle fasi evolutive critiche caratteristiche delle persone giovani. Nel processo di guarigione dei giovani adulti al primo episodio psicotico,

è fondamentale

comprendere l'impatto travolgente e

disorganizzante dei sintomi e, al contempo, facilitare il processo di individuazione e di costruzione della propria identità, minimizzando l'interruzione delle attività lavorative e sociali. L'impatto relazionale dell'esordio psicotico

è

considerevole,

in particolare per quei giovani adulti che hanno da poco stabilito dei rapporti fra pari, intimi e lavorativi: la terapia individuale con una persona giovane nella prima fase del disturbo dovrebbe riuscire ad arginare questi fenomeni.

Gli obiettivi della TCCper l'esordio psicotico precoce Nel corso della

TCC, è

necessario approcciarsi ai sintomi e alle esperienze

anomale, ma anche all'impatto che la malattia ha sulla persona. Per i pazienti al primo episodio psicotico - e, in alcuni casi, per persone ad alto rischio clinico ciò può riguardare l'isolamento dalla propria famiglia e dal gruppo di amici, i pro­ blemi nelle relazioni sociali e lavorative, la depressione e la demoralizzazione,

il

rischio maggiore di autolesionismo, eteroaggressione e abuso di sostanze. In ogni caso, gli obiettivi della

TCC

includono la riduzione dello

stress

e della disabilità

associati ai fenomeni psicotici conclamati o subclinici, l'aumento

dell'ins�ht nei

confronti del disturbo psicotico e delle esperienze anomale, il miglioramento del tono dell'umore, dell'autostima e del funzionamento sociale e lavorativo.

Terapia cogn itivo-comportamentale e intervento precoce 1 05

UN APPROCCIO MODULARE ALLA TCC PER L'ESORDIO PSICOTICO PRECOCE Per rispondere ai bisogni delle persone che sperimentano il primo episodio psi­ cotico, Addington e Gleeson hanno proposto un approccio modulare (2005), che include lo sviluppo della relazione, la psicoeducazione, la promozione dell'adat­ tamento ai sintomi, il trattamento dell'ansia o della depressione compresenti, l'in­ segnamento delle strategie di coping, la prevenzione delle ricadute e il trattamento dei sintomi positivi e negativi. Ognuno di questi approcci è illustrato in appositi manuali e si basa su modelli di trattamento supportati empiricamente, che offro­ no prospettive tra loro complementari alla TCC delle psicosi (ad es., Chadwick et al., 1 996; Fowler et al., 1 995; Kingdon e Turkington, 2005; Morrison, 2002) . Il manuale tratto dalla sintesi dei diversi testi appena citati, lo STOPP (Systematic

Treatment o/ Persistent P!]chosis: A P!]chologica!Approach to Facilitating Recovery in Young People with First-Episode P!]chosis; Herrmann-Doig et al., 2003) , è l'unico che ha un focus specifico sul trattamento del primo episodio psicotico. Un vantaggio di que­ sto approccio modulare è la possibilità di utilizzare una serie di interventi idonei a trattare un'ampia gamma di problemi e a rispondere alle diverse necessità dei pazienti in fase di esordio. Nonostante che la TCC sia efficace in diverse fasi della malattia - pazienti in fase acuta in regime di ricovero o ambulatoriale, pazienti in remissione o in lunga degenza - per ottimizzarne le potenzialità e ottenere un recupero ottimale dei pazienti al primo episodio psicotico si raccomanda di intra­ prendere questo tipo di intervento solo una volta avviata la terapia farmacologica, quando si sono stabilizzati ed è iniziata la remissione dei sintomi. Il trattamento tipico dura circa 6 mesi, per un totale di 20 sedute. Una descrizione più dettagliata dei suddetti moduli è disponibile altrove (Addington e Gleeson, 2005) .

Relazione terapeutica, assessment e formulazione del caso In questa fase, sono previste la costruzione dell'alleanza terapeutica, l'asses­ sment e lo sviluppo di una concettualizzazione dei problemi attuali. La relazione non si instaura solo tra terapeuta e paziente, ma anche tra quest'ultimo e la terapia stessa, grazie alla presentazione del modello cognitivo. La creazione di una for­ mulazione personalizzata del caso comincia già nella prima seduta; essa permette al terapeuta e al paziente di giungere a una comprensione condivisa degli elementi chiave che contribuiscono allo sviluppo e al mantenimento dei sintomi psicotici e delle altre difficoltà presenti. La formulazione viene fatta durante l'assessment, ma prosegue nel corso di tutta la terapia. Valutare il background del disturbo significa inquadrare l'episodio psicotico in uno specifico contesto biologico, psicologico e sociale, che viene inserito nella formulazione e aiuta il paziente a dare un sen­ so alle relazioni tra queste componenti. La formulazione indirizza la terapia, ad esempio nella scelta dell'intervento e nella durata e frequenza delle sedute.

1 06 Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

Psicoeducazione Nella fase iniziale della TCC,

è

importante che il paziente comprenda il con­

cetto di psicosi e il significato che esso riveste per lui. La psicoeducazione, inoltre, riguarda i sintomi, la diagnosi, le teorie a riguardo, i modelli esplicativi, l'impat­ to dell'uso di sostanze, i farmaci, i segnali precoci, la natura della guarigione e le strutture e il personale coinvolto nel trattamento. Questo tipo di conoscenze favorisce il processo di normalizzazione che, a sua volta, aiuta a ridurre i vari timori.

L'adattamento ai sintomi La mutata percezione di benessere e del senso di sé, associati alla natura trau­ matica di un episodio psicotico, possono giocare un ruolo significativo nella capa­ cità di recupero del soggetto all'esordio. In questo modulo, quindi, ci si concen­ tra sull'individuo per valutare la sua capacità di comprendere i sintomi psicotici, l'impatto che hanno su di lui e la sua possibilità di adattarsi alla malattia. Facendo un bilancio dei punti di forza e dei limiti del paziente, incrementandone le abilità di

coping e

proponendogli dei piani realistici per il futuro, lo si aiuta a realizzare

il proprio potenziale nonostante la presenza della psicosi. L'autostima aumenta prendendo le distanze dagli aspetti negativi del proprio ambiente e focalizzandosi sui propri punti di forza e sui propri risultati. Alcuni interventi di questo modulo prevedono di affrontare le ansie sociali, di aumentare le competenze relazionali e di migliorare l'autostima dei pazienti. Grazie a queste risorse e abilità, questi ultimi possono iniziare a mettere in atto i cambiamenti per migliorare il pro­ prio funzionamento, con la speranza che queste modificazioni siano, a loro volta, auto-rinforzanti.

Il trattamento delle psicopatologie secondarie Le psicopatologie secondarie derivano dalla difficoltà nell'adattamento ai sin­ tomi e includono tipicamente depressione, ansia e abuso di sostanze: grazie a questo modulo, i pazienti imparano qualcosa di più in merito alla natura di queste problematiche. Gli interventi classici prevedono la ristrutturazione cognitiva, in cui vengono esaminate le credenze e le assunzioni sottostanti, per modificarle e sostituirle con altre più appropriate. Questi possono essere affiancati da interven­ ti di gruppo per la gestione dell'ansia o dell'abuso di sostanze.

Incremento delle strategie Le strategie di

di

coping

coping aiutano a gestire i sintomi positivi e negativi, oltre

ai pro­

blemi funzionali ed emotivi associati alla loro presenza: per prima cosa, vanno identificati i sintomi positivi che saranno oggetto del trattamento. Tra le tecniche disponibili vi sono l'incremento delle strategie di

coping, i training di assertività e la

Terapia cognitivo-comportamentale e intervento precoce

1 07

registrazione quotidiana dell'utilità e del piacere percepito delle attività. Per aiu­ tare i pazienti a ottenere un miglior funzionamento, nonostante i sintomi, sono disponibili delle specifiche strategie cognitive e comportamentali. La

TCC

può essere utilizzata anche con i pazienti che necessitano di un ap­

proccio comportamentale più strutturato, ad esempio con quelli che manifestano sintomi negativi e scarso funzionamento sociale. L'intervento sui sintomi negativi tipicamente include compiti quali l'automonitoraggio comportamentale, la pia­ nificazione e la programmazione delle attività, il

training di assertività, la registra­

zione giornaliera dell'utilità e del piacere percepito dalle attività e l'assegnazione graduale delle stesse. I giovani pazienti che sperimentano sintomi negativi spesso s'impegnano in attività che per loro non sono particolarmente piacevoli e che, quindi, possono mantenere gli stati d'animo negativi e contribuire alla persistenza dei sintomi stessi. Gli aspetti cognitivi della terapia prevedono l'analisi e la mo­ dificazione delle percezioni di sé e degli altri che possono contribuire a scarsa autostima e disperazione (se, ad esempio, gli altri sono percepiti come "troppo esigenti" e se stessi come "un fallimento") .

Prevenzione delle ricadute Per prevenire le ricadute sono stati descritti diversi interventi che si basano sui principi generali della

TCC,

tra cui il monitoraggio dei primi segnali di ricaduta

e la ristrutturazione cognitiva degli schemi di sé che si possono associare a un elevato rischio di ricaduta (per ulteriori dettagli sulla prevenzione delle ricadute si veda il capitolo 10) .

Tecniche per affrontare i deliri e le credenze in merito alle voci In letteratura, sono state descritte delle tecniche specifiche per affrontare i sintomi positivi (si vedano anche i capitoli

1,

2,

3

e

8).

Quando si lavora con le

allucinazioni uditive, ad esempio, si possono analizzare - in modo critico e col­ laborativo - le credenze in merito all'origine e alla natura delle voci; si può inco­ raggiare il paziente a tenere diari delle stesse, a riattribuirne la fonte e ad adottare strategie di

coping più funzionali.

Gli interventi per i deliri possono includere l'identificazione dei loro fatto­

ri precipitanti

e di mantenimento, la modificazione delle valutazioni maladattive

dei sintomi stessi e la generazione di ipotesi alternative alle credenze bizzarre (furkington et al., 2006) .

È

possibile stabilire una buona relazione con i giovani

pazienti all'esordio psicotico ed esplorare sistematicamente e collaborativamen­ te le basi logiche ed empiriche delle loro credenze deliranti.

È

meglio evitare il

confronto diretto con pazienti che delirano, dal momento che questa strategia può rafforzare - anziché indebolire - la convinzione nella credenza stessa. Biso-

1 08 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi gnerebbe incoraggiarli a effettuare degli esperimenti comportamentali per indi­ viduare alcune prove a disconferma di questa, in modo da generare delle ipotesi alternative, per poi analizzare i loro scherni allo scopo di comprendere la genesi delle credenze distorte. Per minimizzare la resistenza,

è opportuno

considerare gli

elementi di prova delle credenze più periferiche e, solo in un secondo momento, di quelle più centrali (Chadwick et al., 1 996) : in questo modo, infatti,

è

possibile

contenere le reazioni emotive estreme.

RIASSUNTO In questo capitolo,

è

stato descritto l'utilizzo della TCC come intervento per

quei giovani pazienti al primo episodio psicotico e per quelli ad alto rischio clinico di sviluppo di una psicosi. Nonostante ci siano diversi studi a sostegno dell'effi­ cacia della TCC per il trattamento delle psicosi, le pubblicazioni relative agli esiti di questo tipo di intervento sui pazienti al primo episodio psicotico sono molto scarse. Alcuni studi presentano limiti metodologici, ma i risultati in merito all'uti­ lizzo della TCC con soggetti ad alto rischio clinico sono comunque promettenti. Al momento, nel Regno Unito, in Canada e in Australia si stanno replicando alcune delle ricerche più importanti. Dato che la TCC sembra rispondere adegua­ tamente ai bisogni delle persone giovani,

è

necessario condurre nuovi studi per

determinare quali sono i suoi aspetti che funzionano, nonché per chi e in quali condizioni questo tipo di intervento può funzionare al meglio. Solo scoprendo i meccanismi d'azione della TCC riusciremo a ottenere terapie più efficaci e basate sulle evidenze.

Terapia cogn itivo-comportamentale e intervento precoce 1 09

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8 ALLUCINAZIONI IMPERATIVE TEORIE E INTERVENTI PSICOLOGICI Maria Michail e Max Birchwood

INTRODUZIONE La Schizofrenia colpisce lo 0,8% della popolazione del Regno Unito, soli­ tamente si manifesta nel corso dei primi anni della vita adulta e, nella maggior parte dei casi, determina disabilità persistente (Birchwood e Jackson, 2001). Porta con sé un alto rischio di suicidio (il 1 0%) e di comportamenti autolesivi (Harris e Barrowclough, 2001 ) ; a confronto con la popolazione normale, le persone affette da Schizofrenia sono più a rischio di perpetrare atti aggressivi (Brennan et al., 2000). Nonostante le terapie farmacologiche si siano evolute, circa il 50% dei soggetti continua a manifestare sintomi resistenti al trattamen­ to (Kane, 1 996) o conseguenti alla scarsa compliance farmacologica (N ose et al., 2003) . Tra i sintomi più importanti - e disturbanti - resistenti al trattamento vi sono le allucinazioni imperative (Shawyer et al., 2003). A tutt'oggi, non si sa molto rispetto alla fenomenologia e ai processi che soggiacciono allo sviluppo e al man­ tenimento di questo tipo di sintomi e, a parte gli alti livelli di contenimento e le elevate dosi di farmaci, non sono disponibili altri interventi terapeutici (Shawyer et al., 2003; Trower et al., 2004). In una recente rassegna relativa alle allucinazioni imperative, Shawyer e collaboratori (2003, p. 1 04) concludono che esse "costitu­ iscono uno dei sintomi più inquietanti della psicosi. Il loro trattamento standard ha un'efficacia limitata e c'è un'assoluta necessità di individuare trattamenti più efficaci per questi fenomeni".

1 1 2 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

PREVALENZA E FENOMENOLOGIA DELLE ALLUCINAZIONI IMPERATIVE Nei soggetti affetti da Schizofrenia prevalgono le allucinazioni imperative. Una recente review di otto studi, a cura di Shawyer e collaboratori (2003), ha rileva­ to un tasso medio di prevalenza del 53%, in un range che spazia dal 1 8 all'89%, su un campione di pazienti psichiatrici adulti. È stato anche evidenziato come il 48% delle allucinazioni imperative stimoli azioni dannose o pericolose (Shawyer et al., 2003); tasso che tra i pazienti in regime di ricovero aumenta fino al 69% (Rogers et al., 2002). Questo indice è significativamente maggiore nella popolazione fo­ rense, dove 1'83% delle persone che sente le voci riferisce di aver sperimentato allucinazioni imperative a istigazione "criminale" (Shawyer et al., 2003). In un recente studio di Trower e collaboratori (2004), gli ordini che sono stati riferiti più di frequente riguardano l'uccidersi (25 pazienti su 38), il farsi del male (1 2 su 38) e il fare del male agli altri (14 su 38). Alcuni soggetti hanno riferito di aver udito anche ordini innocui (ad es., "Prepara una tazza di tè", "Lavati le mani") o che implicano trasgressioni sociali più lievi (ad es., gridare in pubblico, rompere una finestra). La severità dei comandi può variare, ma in ogni caso la maggior parte di essi determina alti livelli di sofferenza e depressione (Shawyer et al., 2003; Trower et al., 2004).

ALLUCINAZIONI IMPERATIVE E PERICOLOSA OBBEDIENZA Non c'è un legame diretto tra allucinazioni imperative e pericolosità per sé e per gli altri, anche se gli studi hanno dimostrato come i pazienti psicotici siano più propensi a perpetrare atti violenti o aggressivi (Brennan et al., 2000). In una re­ view della letteratura relativa all'epidemiologia degli atti violenti nella Schizofrenia, Walsh e collaboratori (2002) hanno messo in luce come circa il 20% dei pazienti ricoverati per la prima volta in ospedale avesse messo in atto un comportamento aggressivo o violento prima del ricovero. In ogni caso, è stato difficile provare l'esistenza di un'associazione tra i sin­ torni positivi della Schizofrenia e il rischio di agirli o assecondarli. Nello studio MacArthur (Appelbaum et al., 2000; Monahan et al., 2001) non si è riscontrato alcun legame tra la presenza di deliri o allucinazioni imperative e la violenza (ad es., aggressione o minaccia con un'arma), anche se i pensieri violenti sono risultati un forte predittore di aggressività nei sei mesi successivi. In un'ulteriore analisi dello studio MacArthur, Rogers (2004, 2005) ha eviden­ ziato come un altro predittore significativo dell'aggressività fosse la credenza del paziente di essere obbligato a "obbedire" alla voce. Nelle allucinazioni imperative, sono il contenuto dei pensieri del paziente, e il modo in cui questo contenuto riflette lo schema relazionale con l'ipotetico persecutore che dà ordini, a essere

Allucinazioni imperative 1 1 3 TAB. 8.1. Tipi di allucinazioni imperative e comportamenti con cui queste vengono assecon­ date o gestite, in base a uno studio su un campione di

38 soggetti.

Gestione

Tipo di comando

Esempio

Obbedienza

Uccidersi

"Fatti un'overdose" "Impiccati" "Accoltellati"

Nove pazienti hanno Mettere da parte tentato il suicidio.

molte compresse e

Un paziente si è

pianificare di

suicidato durante la

assumerle.

ricerca.

Avvolgersi una sciarpa o una cintura attorno al collo. Portare sempre un coltello con sé.

Uccidere

"V ai e uccidi qualcuno "

Quattro pazienti

altre persone

'Tagliagli la gola " 'Vccidi tuo marito "

hanno cercato di

sé (come un coltello o

uccidere qualcuno

un'ascia) .

Portare un'arma con

soffocandolo, avvelenandolo o aggredendolo con un'arma. Farsi del male

"Dattifuoco " 'Tagliati le braccia" "Cammina in me:;;xo alla strada"

Nove pazienti si

Scorticare vecchie

sono fatti del male

ferite (in modo da

tagliandosi,

dimostrare alla voce

ingerendo piccoli

che ci si sta ferendo) .

oggetti o balzando di Stare sul cordolo del fronte alle macchine

marciapiede (senza

in corsa.

però scendere in strada) .

Fare del male ad altre persone

"Coipiscili" 'Tocca i tuoifigli" 'Violenta la tua vicina"

Sette pazienti hanno

Colpire gli altri

fatto del male ad altre debolmente. persone colpendole,

Essere verbalmente

aggredendole

minacciosi (anziché

verbalmente o

attaccare fisicamente) .

attaccandole.

predittivi del rischio di violenza verso sé o verso gli altri (Beck-Sander et al., 1 997; Trower et al., 2004). In uno studio di Shawyer e collaboratori (2003), il 48% delle allucinazioni imperative esortava le persone a commettere azioni dannose o pericolose e oltre il 30% dei soggetti assecondava completamente le proprie

1 1 4 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

voci (solitamente facendo del male a sé o ad altre persone), mentre un altro 30% tentava di resistervi. Trower e collaboratori (2004) hanno identificato un signifi­ cativo numero di soggetti che tentava di "gestire" le voci tramite comportamenti protettivi, appositamente messi in atto durante l'esperienza allucinatoria poten­ zialmente pericolosa, per riuscire a limitarne la minaccia percepita. Per gestire le voci, alcuni pazienti possono anche assecondare un comando innocuo per igno­ rarne uno più pericoloso, anche se corrono comunque il rischio di dover obbedire a quest'ultimo in un secondo momento. Nella tabella 8.1 ci sono alcuni esempi di come possano essere assecondate o gestite le voci, tratti da uno studio recente su soggetti affetti da allucinazioni imperative (frower et al., 2004). A dispetto di questi dati epidemiologici, però, non è sempre facile riuscire a determinare a priori chi asseconderà le voci e chi non lo farà. Anche riuscire a ca­ pire perché le persone vi reagiscono in modi diversi (assecondandole o tentando di gestirle) è un tema che richiede ulteriori approfondimenti.

ALLUCINAZIONI IMPERATIVE: UN MODELLO COGNITIVO Come precedentemente accennato, la relazione tra le allucinazioni imperative e l'obbedienza alle stesse è molto complessa: spesso si crede che la presenza di questi sintomi scateni inevitabilmente una reazione cognitiva e comportamen­ tale (ad es., che il paziente le assecondi sempre), ma alcune ricerche (frower et al., 2004) hanno dimostrato come esista una considerevole varietà di reazioni da parte delle persone che ne soffrono. In una review della letteratura in merito alle allucinazioni imperative, Braham e collaboratori (2004) hanno messo in luce come la loro mera presenza non sia sufficiente a determinare l'obbedienza alle stesse; questa relazione è mediata, piuttosto, da fattori quali il potere e l'autorità della voce, la sua natura (ad es., "È il diavolo"), le credenze del paziente in merito alla sua benevolenza o malevolenza e il suo scopo e significato (ad es., "Mi sta punendo per i miei peccati"). Per riuscire a comprendere meglio il rapporto tra le allucinazioni imperative e l'esecuzione degli ordini quindi, è importante esamina­ re il ruolo delle credenze in merito alle prime.

Un modello cognitivo delle voci e la sua applicazione alle allucinazioni imperative Secondo il modello cognitivo delle allucinazioni uditive di Chadwick e Bir­ chwood (1 994) e Birchwood e Chadwick (1 997), le reazioni emotive (quali sof­ ferenza, rabbia e depressione) e comportamentali (assecondarle o gestirle) nei confronti delle voci non sono scatenate unicamente dal loro contenuto o dalla loro natura; sembrano invece fondamentali le credenze della persona in merito al loro scopo e significato. Seguendo i principi base della terapia razionale-emotiva-

A l l ucinazioni imperative 1 1 5 B:

Credenze

Potere, autorità, natura.

A:

Esperienza della voce

C: Conseguenze

Emotive: paura, depressione.

Comportamentali: assecondarle, gestirle.

FIG.

8.1.

Modello cognitivo delle allucinazioni imperative 1 •

comportamentale, la figura

8.1

illustra tramite un classico ABC come una voce

- considerata evento interno attivante (A) - attivi diverse valutazioni da parte dell'individuo, basate sul proprio sistema di credenze (B), e come siano queste a innescare gli effetti cognitivi e comportamentali (C). Le voci costituiscono lo stimolo che attiva le credenze centrali del soggetto riguardo al loro potere, alla loro autorità e alla necessità di sottomettersi al loro volere che, a loro volta, elicitano delle reazioni emotive, quali paura, depressione

o euforia, nonché delle risposte comportamentali, quali l'obbedienza alle voci stesse o il tentativo di gestirle

in

qualche modo. Queste azioni potrebbero essere

classificate come comportamenti protettivi, dato che sembrano "salvare" il pa­ ziente (ad es., "Se non faccio quello che la voce mi ordina morirò"), ma, come effetto collaterale, mantengono in vita le sue credenze prive di fondamento. Un altro aspetto importante di questo modello cognitivo

è

la natura della re­

lazione percepita con le proprie voci e il loro ruolo nel determinare sofferenza, paur;t e reazioni emotive. Chadwick e Birchwood

(1 994)

hanno dimostrato come

i diversi modi di relazionarsi alle proprie voci - con paura, tranquillità, sottomis­ sione o resistenza - riflettano le differenze principali tra le credenze sulle stesse, che si riferiscono principalmente al loro potere, alla loro natura e al loro significa­

to. In particolare, il concetto di potere si riferisce alle credenze relative a quanto sia possibile riuscire a controllare le voci e a quanto sia obbligatorio obbedirvi. 1

Riprodotto su concessione di Byrne e collaboratori,

2006.

116

Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

La natura riguarda credenze relative a "chi" appartiene la voce: comunemente essa viene ascritta a un'identità sovrannaturale, quale uno spirito, un fantasma, Dio o il diavolo. Le credenze sul significato e lo scopo della voce derivano dal tentativo di darvi una spiegazione e di comprenderne la provenienza. Chadwick e Birchwood (1 994) sostengono che le credenze sull'identità delle voci e sul loro significato portino a definirle "malevole" o "benevole": se il paziente crede che la voce lo stia punendo per qualcosa di sbagliato commesso in passato, questa verrà probabilmente ritenuta malevola (intento di nuocere); mentre, se crede che gli ab­ bia dato una missione speciale da compiere (come salvare il mondo), la percepirà come benevola (intento di salvare e proteggere). Va tenuto presente, però, che le credenze relative alle voci non sono sempre aderenti al loro contenuto: nel 31% dei casi sono scollegate da questo, il che suggerisce che sia il significato attribuito alla voce - anziché la voce in sé - ad essere oggetto delle valutazioni (Chadwick e Birchwood, 1 994). Le ricerche supportano empiricamente la relazione tra le credenze relative al potere delle voci e le reazioni emotive e comportamentali ad esse conseguenti. Birchwood e collaboratori (2000; 2004) ritengono che abbia un ruolo centrale la differenza di potere percepita tra la voce e chi la ode: la prima, solitamente, viene valutata come dominante, onnipotente e umiliante, mentre la persona si consi­ dera subordinata, umiliata e inferiore. Il grado di impotenza nei confronti della voce dominante è anche strettamente correlato alla sofferenza soggettiva e alla depressione. L'inadeguatezza e l'inferiorità esperita dai soggetti che odono le voci in relazione alle altre persone in generale è intrinsecamente connessa al potere percepito delle voci. Ciò suggerisce che le relazioni interpersonali con gli altri (in termini di potere/subordinazione o di status superiore/inferiore) si rispecchino nel rapporto soggettivo con le voci: una persona che crede di essere inferiore alle proprie voci si sentirà anche inferiore agli altri nell'ambiente sociale in cui si muove, e viceversa. In termini di obbedienza alla voce, Beck-Sander e collabora­ tori (1 997) hanno dimostrato come sia la valutazione individuale del potere della voce - e non il suo contenuto - che predice le reazioni del soggetto a questa: più la voce è percepita come potente e controllante, più la persona vi obbedirà. Que­ sta relazione è mediata dalla valutazione dell'intenzionalità della voce (malevola o benevola) e delle conseguenze del resistervi: una voce "benevola" viene spesso ascoltata, indipendentemente dal suo contenuto, mentre una "malevola" può atti­ vare una resistenza iniziale ma poi, inevitabilmente, viene assecondata o gestita in qualche modo (Beck-Sander et al., 1 997; Birchwood e Chadwick, 1 997). Per sintetizzare, il modello cognitivo delle voci suggerisce che, più che la voce in sé, sia la valutazione che il paziente ne dà (potere, natura, significato) a deter­ minare il suo grado di sofferenza e il fatto che vi obbedisca o meno. Questo mo­ dello sottolinea l'esigenza di comprendere in profondità i processi implicati nel

Allucinazioni imperative

117

mantenimento delle valutazioni disfunzionali; diviene quindi importante capire come e perché si generino.

TEORIA DEL RANGO SOCIALE Birchwood e collaboratori (2000; 2004) hanno dimostrato come il rapporto tra una voce e colui che la ode segue le stesse regole di una relazione sociale: se una persona si sente inferiore alla voce si percepirà di rango inferiore e questo si ripercuoterà anche sulle sue relazioni nell'ambiente sociale in cui vive. Il mecca­ nismo soggiacente a questo fenomeno può essere spiegato tramite la teoria del rango sociale, che offre un modello esplicativo dei confronti sociali e dei conflitti interpersonali, nel tentativo di comprendere il comportamento umano. Questa teoria è stata utilizzata anche per affrontare la psicopatologia da un punto di vista evoluzionistico. Secondo Price (citato in Gilbert e Allan, 1 998), la teoria del rango sociale suggerisce che l'accesso alle risorse - come il cibo e il territorio - faccia emergere un conflitto tra i pretendenti, nel quale c'è chi vince e c'è chi perde. In caso di sconfitta, è importante che i perdenti abbiano un meccanismo di inibi­ zione interna, che li faccia smettere di competere, riducendo i comportamenti di sfida. Ci sarebbero quindi due processi principali: a) escalation (minacciare gli altri, continuare a combattere, ecc.) e b) de-escalation (fare marcia indietro, desistere). La de-escalation si presenta nel momento in cui la persona che è in posizione di svantaggio inibisce i propri atteggiamenti competitivi, adattandosi al fatto di aver perso (Gilbert e Allan, 1 998), e manda al contempo dei segnali di sottomissione al vincitore per segnalare la conclusione del conflitto. Per quanto riguarda gli esseri umani, la teoria del rango sociale suggerisce che la vita sociale sia organizzata in termini gerarchici: chi si trova in alto è più dominante, mentre chi è nelle posizioni inferiori gode di minor potere e controllo (Trower e Gilbert, 1 989) . Inoltre, chi si trova in posizione dominante desidera ottenere uno status ancora più alto in termini di gerarchie di potere, o almeno mantenere quello in essere. Il bisogno di essere attraente per gli altri gioca un ruolo significativo nel motivare le persone a cercare di assicurarsi uno status nella gerarchia e, inoltre, influenza le relazioni di gruppo (Gilbert, 1 997). Essere svalutato e percepito come socialmente non attraente può rappresentare una minaccia non solo per la propria identità sociale, ma anche per i legami già esistenti. Per scongiurare quest'eventualità, le persone mettono in atto diverse strategie mirate a ridurre la minaccia percepita e le sue conseguenze. Trower e Gilbert (1 989) hanno proposto l'esistenza di due sistemi che si attivano in caso di esito sfavorevole di un confronto sociale. Il "sistema di difesa" comporta delle strategie comportamentali mirate a inibire gli attacchi e manifestare se­ gnali di sottomissione e a rinegoziare la relazione con l'altro dominante, non­ ché uno stato di aumentata allerta, in cui le persone sono pronte a ritirarsi o a

1 18

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

manifestare segnali di sottomissione al fine di scoraggiare ulteriori attacchi da parte di chi è più dominante. Anche il processo di gestione delle voci ha una funzione simile. Il "sistema di sicurezza", invece, prevede un approccio più po­ sitivo alle gerarchie sociali: gli altri non sono percepiti come minacce costanti al proprio rango, ma piuttosto come una fonte di sicurezza e sostegno. I segnali che i membri del gruppo si scambiano mirano ad aumentare il contatto e il rinforzo positivo. I ranghi sociali, secondo Gilbert (1 989), sarebbero rappresen­ tati mentalmente in uno schema cognitivo dominante/sottomesso e sarebbero usati come guida nei rapporti sociali tra gli individui. In quest'ottica, anch'essi seguono la teoria di Beck sugli scherni disfunzionali, che illustra come questi rimangano silenti fino a che un evento simile a quello che ne ha determinato la formazione non li riattiva (Beck et al., 1 979) . Prendendo in considerazione i principi di base della teoria del rango sociale e le evidenze empiriche di come la relazione con le voci si rifletta sui rapporti sociali quotidiani (Birchwood et al., 2000; 2004), possiamo comprendere come' si generino le valutazioni in merito al potere e alla natura della voce. Come proposto da Byrne e collaboratori (2006), la relazione dominante/ sottomesso percepita tra questa e il soggetto che la ode potrebbe essere guidata dai suoi scherni inter­ personali. Su questa base, tali autori, nel loro manuale di terapia cognitivo-com­ portamentale delle allucinazioni imperative, propongono che le azioni pericolose commesse da coloro che ne soffrono derivino dalle credenze sul potere delle voci stesse e dalla convinzione di dover obbedire loro o cercare di gestirle, pena conseguenze pesanti per sé o per gli altri.

TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DELLE ALLUCINAZIONI IMPERATIVE (TCCAI) Il modello di TCC per le allucinazioni imperative, descritto nel manuale di Byrne e collaboratori (2006), è stato sviluppato sulla base del modello cognitivo delle voci e della teoria del rango sociale. La TCCAI mira a ridurre la tendenza ad obbedire alle voci o a tentare di controllarle nei seguenti modi: •





indebolendo la percezione del potere delle voci e della loro capacità di danneggiare e far vergognate la persona; aumentando il senso di efficacia di colui che sente le voci; rnigliorandone l'efficacia interpersonale.

Descriveremo brevemente i diversi passi dell'intervento proposto da Byrne e collaboratori (2006) e, con il loro permesso, forniremo degli esempi di casi tratti dal suddetto manuale.

Allucinazioni imperative 1 1 9

TCCAI Fase 1: assessment, relazione terapeutica e formulazione del caso -

L'obiettivo principale di questa fase è quello di individuare e valutare i sintomi psicotici, in particolare le allucinazioni imperative, e le reazioni cognitive, com­ portamentali ed emotive ad essi associate. L'assessment è un processo continuo che prosegue nel corso di tutta la terapia, con lo scopo di valutare gli esiti dell'inter­ vento. Il coinvolgimento del paziente nella relazione terapeutica è estremamente importante e può risultare abbastanza difficoltoso, data la natura disturbante e distraente delle voci. Nella creazione e nel mantenimento della relazione terapeu­ tica, quindi, è fondamentale seguire le seguenti linee guida:





stabilire un buon rapporto e una relazione di fiducia col paziente per mezzo dell'ascolto empatico; incoraggiarlo a fornire un resoconto dettagliato delle proprie esperienze e credenze; anticipare le sue difficoltà di coinvolgimento nella relazione terapeu­ tica e indebolire le credenze che potrebbero renderla difficoltosa o minacciarla (ad es., le voci potrebbero fare dei commenti contro il terapeuta); definire un simbolico "pulsante antipanico" (ad es., picchiettare con la mano per tre volte quando non ci si sente a proprio agio) per dare al soggetto il controllo della terapia.

In questa fase, è importante aiutare la persona a distinguere tra fatti e creden­ ze: sentire una voce, ad esempio, è un'esperienza reale, ma percepirne il potere e l'incapacità di controllo è frutto di un sistema di credenze. Durante l'assessment e la formulazione del caso, va identificata la credenza chiave riguardo alla voce impe­ rativa; questo processo è continuo e passibile di modifica nel corso della terapia. Le credenze di base si riferiscono a:







potere della voce e possibilità di controllarla; obbedienza o resistenza alla voce e tentativi di gestirla; natura della voce; scopo e significato della voce.

Dopo aver sviluppato una formulazione del caso basata sul modello appena presentato, la si comunica provvisoriamente al paziente, in modo da assicurarsi di averla condivisa. In seguito, è possibile esplorare le origini psicologiche di questa peculiare relazione tra la voce e la persona.

1 2 0 Terapia cogn itivo-comportamentale delle psicosi

TCCAI - Fase 2: promuovere la percezione di controllo sulle voci Gli obiettivi di questa fase sono di: 1) incrementare la capacità della persona di resistere alle proprie voci, incoraggiandolo a cercare prove contrarie alla propria percezione del loro potere; 2) aumentare le abilità del soggetto di mantenere un certo controllo sulle proprie voci e raccogliere prove contrarie al loro potere; 3) portare il paziente a comprendere quali sono i fattori che amplificano o riducono la presenza delle voci producendo un sollievo immediato. Per promuovere la percezione di controllo è necessario sviluppare o rin­ forzare un repertorio di strategie di coping che riduca il disagio del paziente e la sua necessità di obbedire alle voci; alcune di queste comunemente utilizzate sono: guardare la TV, ascoltare la radio, indossare le cuffie, cantare mentalmen­ te le strofe della propria canzone preferita o affrontare assertivamente la voce. Un'altra strategia utile per migliorare il controllo sulle voci è quella di porre dei confini simbolici tra queste e colui che le ode (ad es., "spegnere" l'interruttore della voce).

TCCAI - Fase 3: modificare le credenze riguardo al potere delle voci L'obiettivo generale di questa fase della TCCAI è quello di affrontare lo squi­ librio di potere percepito dal paziente - che determina sofferenza e obbedienza alle voci - e, nello specifico di: •





ridurre il potere percepito della voce e aumentare quello della persona che la ode; ridurre l'obbedienza alle voci, i tentativi di gestirle e gli altri comporta­ menti protettivi, incrementando la resistenza alle stesse; indebolire la convinzione che il paziente è o sarà punito o danneggiato dalle voci; indebolire la convinzione in merito alla natura malevola delle voci.

Contrastare le credenze sul potere delle voci implica metterne in discussione le prove, seguire una linea di ragionamento logico che ne evidenzi le incongruen­ ze, incoraggiare all'esame di realtà nel tentativo di smentirle, "normalizzare" le qualità della voce e incoraggiare la persona a reagirvi più assertivamente.

TCCAI - Fase 4 e 4a: ridurre i comportamenti protettivi e l'obbedienza alle voci I comportamenti protettivi rivestono una funzione di mantenimento impor­ tante, in quanto in apparenza sembrano scongiurare le conseguenze temute (ad

Allucinazioni imperative 1 2 1 es., "Se non faccio ciò che chiede la voce, mi accadrà qualcosa di terribile."). Tali strategie di coping sono normali, anche se disfunzionali, e sembra che i pazienti siano restii a ridurle perché sperimenterebbero un aumento dell'ansia e si senti­ rebbero meno in grado di resistere ai comandi delle voci. Per testare la validità di una credenza si possono utilizzare gli esperimenti comportamentali; ad esempio, omettendo un comportamento protettivo per te­ stare la previsione che accadrà qualcosa di catastrofico. Ciò può rivelarsi parti­ colarmente utile per mettere alla prova la credenza che la voce punirà il paziente se questi non la asseconda: lo si invita a ridurre il grado di obbedienza (ad es., resistendo ai comandi più pericolosi e assecondando quelli più innocui) e a notare come l'esito temuto non si verifichi, indebolendo di conseguenza la sua credenza. Il passo successivo per spostare il potere percepito dalla voce alla persona che la ode è quello di mettere in discussione il comando stesso. Alla voce il paziente può provare a rispondere in modo più assertivo; ad esempio, in risposta a un coman­ do, può chiedere: "Perché dovrei farlo?" o "Perché non lo fai tu?". Tali modifi­ cazioni comportamentali sono pensate affinché il paziente reagisca alle credenze disfunzionali sul potere delle voci in linea con le nuove credenze più funzionali, indebolendo ulteriormente le prime e rafforzando le seconde. A questo punto egli è pronto per andare alla ricerca di prove della propria padronanza e del pro­ prio controllo sulle allucinazioni.

TCCAI Fase 5: affrontare questioni più generali di potereinterpersonale e prevenire le ricadute -

L'obiettivo di questa fase è quello di modificare il comportamento interper­ sonale generale dell'individuo, per modificarne il suo rango sociale percepito e, conseguentemente, ridurre la probabilità che si sottometta alle voci. L'intervento è utile anche a ridurre gli eventi negativi che possono scatenare o esacerbare le voci o agire da fattori di mantenimento (prevenzione delle ricadute).

TCCAI

-

Fase

6:

lavorare sui significati personali

In questa fase, è possibile continuare a fornire spiegazioni alternative al fe­ nomeno delle voci basandosi su una prospettiva evoluzionistica. La presenza in anamnesi di eventi traumatici o emotivamente salienti può dare un senso ai pro­ blemi attuali sulla base del contesto di vita in cui sono insorte le voci e le credenze associate: l'obiettivo è quello di identificare le origini psicologiche delle allucina­ zioni e della loro natura. Dopo essere giunti a una formulazione condivisa del problema, si possono affrontare e sfidare le credenze negative del paziente riguar­ do a se stesso. Ciò è particolarmente importante, dato che, per alcune persone, tali credenze, o una scarsa autostima, possono influenzare e orientare il pensiero delirante (pensiero inferenziale).

1 22 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

L'ESEMPIO DI UN CASO: RALPH2 Background Ralph è un uomo di 33 anni che ha iniziato a sentire le voci all'età di 1 6. Rac­ conta di essere stato abusato sessualmente quando aveva 9 anni; è stato vittima di bullismo da parte di un gruppo di pari, sia a livello fisico che emotivo, oltre a essere stato schernito da loro proprio per l'abuso subito. È diventato sempre più aggressivo e difficile da contenere ed è stato preso in carico dai Servizi a 1 4 anni, dato che la madre non riusciva più a gestirlo. A 1 6 anni, ancora minorenne, ha subito una condanna detentiva per furto; è stato in questo periodo che ha iniziato a sentire la voci. Tra i 22 e i 25 anni ha avuto un periodo di remissione sintomatologica ma, negli anni seguenti, ha iniziato a udire le voci praticamente ogni giorno.

Fase

1:

assessment

Nel corso dell'assessment iniziale, Ralph ha riferito di aver udito tre voci ma­ schili, ostili e dominanti, rispetto alle quali si è sentito estremamente sottomesso. Il contenuto di queste era sempre aggressivo e comprendeva minacce fisiche (ad es., "Stiamo per accoltellarti"), svalutazioni della persona (ad es., "Sei un perver­ tito", "Sei malvagio") e intimazioni di fare del male a se stesso o agli altri (ad es., "Ucciditi, meriti di morire"; "Vai a prendere un martello e uccidi X �a persona che aveva abusato di lui]"; "Uccidi tuo padre") . Di conseguenza, Ralph si sentiva estremamente spaventato, inferiore e debole. Ha riferito di udire le voci almeno una volta al giorno e che, spesso, queste duravano per almeno quattro ore, di non avere alcuna scelta se non quella di assecondarle e di tentare di gestirle urlando e imprecando contro di loro, accendendo la TV o la radio e bevendo alcolici. La Voice Power Scale (Birchwood et al., 2000) ha evidenziato come Ralph ri­ tenesse che le voci fossero molto più potenti, forti, superiori, autorevoli e ben informate di lui, nonché molto più in grado di danneggiarlo rispetto a quanto si sentisse capace di proteggersi. Credeva che le voci fossero così potenti perché:



2

non aveva alcun controllo su di esse; erano frequenti; parlavano rumorosamente e insistentemente; se gli dicevano qualcosa, doveva essere vera; avevano assunto il controllo della sua mente.

Riprodotto su concessione di Byrne e collaboratori, 2006.

A l l uci nazioni i mperative 1 23

Credenze sulla natura delle voci Ralph ha riferito di essere sicuro al 1 00% che una delle voci appartenesse al suo abusatore e che le altre due fossero del diavolo, perché "sembrava che fosse proprio così".

Credenze sul significato delle voci Ralph credeva di essere perseguitato a causa delle brutte cose che aveva fatto in passato: da giovane aveva rubato e scassinato, si sentiva responsabile della morte di sua madre e credeva che le voci fossero una punizione perché era stato abusato sessualmente, fatto del quale si riteneva colpevole.

Credenze sull'obbedienza/ resistenza alle voci In passato, Ralph era incorso in due overdose a causa delle voci; si era anche tagliato superficialmente le vene dei polsi nel tentativo di obbedirvi. Ha riferito di essersi sempre sentito obbligato a obbedire alle voci, ma di aver resistito al co­ mando di uccidere altre persone per paura di finire in prigione, sebbene temesse che prima o poi avrebbe eseguito anche questo comando se le voci avessero con­ tinuato a essere così insistenti. Nella maggior parte dei casi, aveva assecondato l'ordine di alzarsi dal letto.

Credenze in merito al controllo sulle voci Ralph credeva di avere un controllo solo marginale sulle voci che udiva.

Comportamenti target Il comportamento più problematico, la cui interruzione è stata un obiettivo dell'intervento, era l'obbedienza agli ordini di fare del male a sé o agli altri, incluso il tagliarsi le vene (comportamento di accondiscendenza) .

Fase 2: Intervento Modificare le credenze in merito al controllo sulle voci Aiutato dal terapeuta, Ralph ha sviluppato una serie di strategie di coping che lo hanno aiutato ad avere una maggior percezione di controllo sulle voci: ha scoper­ to come, nel momento in cui queste divenivano troppo disturbanti, parlare con qualcuno di cui aveva fiducia gli giovasse. Altre strategie che per lui sono risultate utili sono state: dire alla voce di fermarsi o di andarsene (ad alta voce, se era da solo, o tra sé e sé, quando era in compagnia) , ascoltare la radio o guardare ilfootball in tv, mantenersi impegnato incontrando degli amici, assumere regolarmente i farmaci. Queste strategie sono state costantemente rinforzate e gli è stato sugge­ rito che avrebbero potuto garantirgli un certo margine di controllo sulle voci.

1 24 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

Esplorare le evidenze pro e contro ilpotere delle voci Usando le strategie di

coping appena menzionate,

Ralph ha iniziato a percepi­

re di avere un maggior controllo sulle voci e di non essere una vittima indifesa. Da questo ne ha tratto delle prove di avere lo stesso potere e voci. Gradualmente,

è divenuto

status delle proprie

sempre più consapevole di come queste spesso

peggiorassero (diventando più rumorose e frequenti) quand'era depresso o an­ sioso. Anche apprendere delle strategie per gestire l'ansia e la depressione lo ha quindi fatto sentire più capace di controllare le voci.

È stata infine esplorata la sua

credenza che queste fossero potenti in quanto ciò che dicevano doveva necessa­ riamente essere vero: •

Le voci dicevano: "Hai ucciso tua madre". Sono state quindi esplorate le circostanze del decesso della madre ed

è

emerso come Ralph credesse

che avrebbe dovuto fare qualcosa di più per arrestarne il tumore; grazie al terapeuta, ha compreso come lui e la sua famiglia avessero fatto tutto il possibile per aiutare la donna nel corso della sua malattia, come sua madre fosse morta per causa di quest'ultima e come lui non fosse in alcun modo direttamente responsabile del decesso della madre. •

Le voci dicevano che Ralph era un pervertito, ma non esisteva alcuna prova a sostegno di quest'osservazione; non aveva mai approfittato ses­ sualmente di un'altra persona e, anzi, da bambino era stato vittima di abusi, non certo colui che li aveva commessi.

Le voci dicevano che Ralph era cattivo. Lui stesso, però, ha definito cat­ tiva una persona che non si senta in colpa o addirittura goda nel fare del male a qualcuno fisicamente o emotivamente e che, in ogni caso, non aiu­ ti le persone in difficoltà. Non esistevano prove che Ralph fosse cattivo, anzi, i fatti dimostravano come egli fosse una persona gentile e premuro­ sa, non amasse infastidire gli altri e tantomeno volesse farli star male.

Tali prove hanno aiutato Ralph a modificare la propria credenza che le voci avessero tale valore e potere, facendogli sorgere dubbi in merito all'attendibilità del loro contenuto. Ciò lo ha portato a concludere che esse mentissero e che lui non dovesse credere a ciò che affermavano; in seguito ha compreso anche come non dovesse dare ascolto alle voci quando lo maltrattavano o dicevano cose spia­ cevoli nei confronti suoi o degli altri.

È stata anche messa in discussione la credenza che, siccome le voci si facevano

sentire di frequente - e a volte con volume sostenuto -, fosse necessario obbe­ dirvi. Ciò chiedendogli provocatoriamente di considerare se dire continuamente a qualcuno "Sei una giraffa rosa" avrebbe reso reale quest'affermazione. Ralph ha compreso come il fatto che qualcuno dica ripetutamente qualcosa non significhi

A l lucinazioni imperative 1 2 5 automaticamente che sia vera o che si debba reagirvi di conseguenza. Gradual­ mente, ha iniziato a considerare possibile decidere se ritenere vero o falso ciò che dicevano le voci e se eseguire o meno i loro comandi.

Ridurre l'obbedienza Inizialmente, Ralph ha scelto di resistere ai comandi più pericolosi quali quelli di far del male a se stesso o agli altri, ma di assecondare la voce che lo invitava ad alzarsi dal letto, considerandola assolutamente innocua. Gli è stato però spiegato come un'accondiscendenza di questo tipo costituisca comunque un comporta­ mento protettivo che gli avrebbe impedito di mettere alla prova le sue credenze relative alla necessità di assumere una posizione di sottomissione in termini di rango sociale. Dopo aver riformulato la cosa in questi termini, Ralph ha accettato di provare a resistere anche a questo comando più banale, per vedere se si sareb­ bero verificate le conseguenze temute, che ovviamente non si sono verificate. Va sottolineato come spesso il modo migliore per aiutare il paziente a rivalutare le allucinazioni imperative sia proprio quello di iniziare da comandi innocui di questo tipo.

Modificare le credenze sul significato e la natura delle voci Ralph credeva di essere perseguitato a causa delle sue colpe del passato. Gli è stata proposta una spiegazione alternativa, ovvero che gli eventi stressanti dell'in­ fanzia e dell'adolescenza avessero contribuito allo sviluppo del problema mentale di cui soffriva. Come sostenuto da Birchwood e collaboratori (2000), infatti, il rapporto tra una persona e le proprie voci rispecchia spesso lo schema interper­ sonale dominante/ sottomesso che si attiva e si è attivato nel rapporto con altre persone nel corso della propria vita; può quindi essere importante lavorare su queste relazioni. Sono stati messi in luce i parallelisrni nel rapporto tra Ralph di oggi e le proprie voci e tra Ralph bambino e la persona che lo aveva abusato. Da bambino, infatti, egli si era sentito incapace di reagire al suo abusatore e, allo stes­ so modo, al momento attuale si percepiva sottomesso alle voci, proprio come era accaduto allora. Ralph è riuscito a cogliere questo parallelismo tra la posizione so­ ciale assunta durante l'episodio di vittirnizzazione e la conseguente relazione con le proprie voci, cosa che lo ha reso più assertivo nei confronti di quest'ultime e degli altri significativi. Ha capito, ad esempio, di poter fare delle scelte riguardo al proprio comportamento e di poter contraddire i comandi delle voci. Nel tempo, ha iniziato a descrivere diverse situazioni in cui è riuscito a essere assertivo con gli amici, i familiari e lo stqff. ha deciso, ad esempio, di traslocare dall'appartamento in cui viveva a un alloggio popolare sovvenzionato, perché sentiva che ciò sareb­ be stato positivo per la sua salute mentale; ha iniziato a ricercare attivamente il supporto di persone di fiducia, nonostante fosse ancora disturbato dalle voci o da

1 2 6 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi altri fenomeni mentali, e a parlare più apertamente delle proprie esperienze con loro, non sentendosi più in imbarazzo nel farlo.

Esiti Voice Power Differential (VPD) Scale (Birchwood et al., 2000) e le Contro/ and Distress Scales della Psychotic Symptom Rating Scales (PSYRATS; Haddock et al., 1 999). La VDP misura la diffe­ Prima e dopo il trattamento, sono state somministrate la

renza percepita di potere tra la voce e colui che la ode su una scala a cinque punti, sia complessivamente che riguardo a una serie

di

sottodimensioni. La PSYRATS

valuta invece la gravità delle allucinazioni uditive e dei deliri, nonché la quantità e l'intensità del disagio associato a questi sintomi. Nel caso di Ralph, si trata una riduzione della sofferenza, che

è

è

riscon­

risultata associata a uno spostamento

nell'equilibrio del potere a suo favore. I risultati indicano come la maggior parte delle credenze in merito alle voci che sono state affrontate si siano modificate significativamente: al termine della terapia, Ralph percepiva di avere più controllo sulle proprie voci e di avere un potere analogo a queste; non sentiva più di dover necessariamente obbedire ai comandi più pericolosi - di fare o farsi del male - e non credeva più di essere perseguitato. Inoltre, i risultati hanno evidenziato come, dopo

il trattamento, Ralph

fosse meno disturbato dalle voci, pur continuando a

sentirne di malevole. Per quanto riguarda la loro natura, gli era sorto qualche dub­ bio che appartenessero davvero al suo stupratore, anche se ne era ancora in parte convinto. Sentiva di aver tratto beneficio dall'opportunità di parlare delle proprie voci, sia perché aveva appreso come gestirle, sia perché si era reso conto che era in grado di mettere in dubbio ciò che dicevano e di resistervi.

CONCLUSIONI Le allucinazioni imperative sono tra i sintomi della Schizofrenia più pericolosi e disturbanti, dato che si associano ad alti livelli di disagio emotivo e depressione e sono resistenti al trattamento. In questo capitolo, abbiamo proposto nel dettaglio

il

modello cognitivo delle allucinazioni imperative, al fine di comprendere i pro­

cessi sottostanti allo sviluppo e al mantenimento di questi sintomi nelle persone affette da Schizofrenia. Abbiamo anche presentato un tipo di intervento innovati­ vo, basato sull'opera di alcuni nostri colleghi (Byrne et al., 2006), che si concentra principalmente sulle credenze in merito alle voci.

I risultati preliminari delle ricer­ è in corso un trial clinico

che (frower et al., 2004) suggeriscono la sua utilità, ma

su larga scala che fornirà risultati più definitivi circa l'efficacia dell'intervento e la durata dei suoi effetti.

Al l ucinazioni imperative

1 27

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9 LA TERAPIA PER I SINTOMI NEGATIVI E I DISTURBI FORMALI DEL PENSIERO Neal Stolar e Paul Grant

I SINTOMI ''NON PRODUTTIVI" DELLA SCHIZOFRENIA Gli studi di analisi fattoriale relativi ai sintomi della Schizofrenia, condotti in tutto il mondo e in diverse culture (Andreasen et al., 2005), convergono su una loro scomposizione in tre fattori: 1) sintomi psicotici produttivi (o positivi) (al­ lucinazioni e deliri); 2) sintomi di disorganizzazione (comportamento bizzarro e disturbi formali del pensiero); 3) sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, avolizione, anedonia e asocialità). Questi studi fanno parte di un filone emergente della letteratura che mira a una revisione della definizione troppo limitata della Schizofrenia che ha trovato spazio in ambito psichiatrico negli ultimi 40 anni e che ha preso in considerazione prevalentemente i sintomi psicotici produttivi (Carpenter, 2006). Anche se questa soluzione tridimensionale torna a rendere me­ rito alle pionieristiche descrizioni più precise e accurate della Schizofrenia (Bleu­ ler, 1 9 1 1 ; Kraepelin, 1 9 1 3), la pietra miliare del suo trattamento continua a essere la farmacoterapia, che interviene principalmente sui sintomi positivi. Il fatto che i sintomi negativi e la disorganizzazione cognitiva e comportamentale non siano il focus dei trattamenti può chiarire perché la loro presenza si associ a un esito peggiore di questi (Kirkpatrick et al., 2006). Negli ultimi quindici anni, la terapia cognitiva si è affermata come tratta­ mento innovativo ed efficace per i soggetti affetti da Schizofrenia e Disturbo Schizoaffettivo (Wykes et al., 2008), ma anche in questo caso gli sforzi tera­ peutici si sono concentrati principalmente sui sintomi positivi. Una possibile spiegazione di ciò è che questi ultimi sono di natura cognitiva: le allucinazioni,

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Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi

spesso, si presentano sotto forma di "voci" con un contenuto verbale comuni­ cabile - che riflette potenzialmente una cognizione automatica o "calda" (Beck et al., 2009) - e i deliri, per definizione, sono delle credenze riferite dal soggetto (APA, 2000). Gli altri due cluster di sintomi, invece, sono tipicamente privi di un contenuto verbale significativo: i pazienti con sintomi negativi sono caratteriz­ zati da una riduzione della comunicazione verbale e non verbale (Kirkpatrick et al., 2006), mentre i disturbi formali del pensiero rendono spesso il contenu­ to verbale difficile - se non impossibile - da comprendere (Andreasen, 1 979). Un altro problema comune è la difficoltà, o impossibilità, a coinvolgere in un processo terapeutico basato sull'empirismo collaborativo - presupposto fonda­ mentale della terapia cognitiva - quei pazienti significativamente disorganizzati che presentano appiattimento affettivo e scarso coinvolgimento nella vita stessa (Kingdon e Kirschen, 2006) . Va notato, infatti, come i ricercatori inglesi abbia­ no adottato la definizione TCCp (Wykes et al., 2008) proprio per enfatizzare il concetto che, nella Schizofrenia, la terapia cognitiva si rivolge principalmente alla dimensione psicotica produttiva. Anche se i sintomi negativi e i disturbi del pensiero hanno un contenuto co­ gnitivo limitato, noi riteniamo che dei processi psicologici attivi e specifici contri­ buiscano a quelle che, in superficie, potrebbero sembrare deficit comportamentali, linguistici ed emotivi. Anche la nostra formulazione è simile - e deve molto - a quella di Beck dei primi anni '60, che ha messo in evidenza come gli aspetti co­ gnitivi della depressione non siano degli epifenomeni, ma degli elementi fonda­ mentali che influenzano i fattori emozionali e comportamentali. Noi riteniamo che coloro che soffrono di sintomi negativi o di disturbi del pensiero abbiano basse aspettative rispetto alla soddisfazione e/ o al piacere che possono trarre dalle attività quotidiane, quali la carriera scolastica, il lavoro e le interazioni sociali. Crediamo inoltre che queste aspettative siano degli elementi chiave in entrambe le dimensioni sintomatologiche: quando si prevede di non riuscire in un'attività o di non provare piacere nello svolgerla, il desiderio di impegnarvisi è spesso completamente assente (sintomi negativi); nel momento in cui la si svolge effet­ tivamente, siamo soggetti ad un forte stress e, in ambito comunicativo, può ma­ nifestarsi disorganizzazione (disturbi formali del pensiero). Sulla base di questa ipotesi, presenteremo la concettualizzazione cognitiva di queste problematiche e l'approccio terapeutico cognitivo concepito specificamente per i sintomi negativi e i disturbi formali del pensiero.

CONCETTUALIZZAZIONE COGNITIVA DEI SINTOMI NEGATIVI I sintomi negativi includono una compromissione dell'attività verbale (alo­ gia), non verbale (appiattimento affettivo) e dell'espressività, così come una

La terapia per i sintom i negativi e i disturbi formali del pensiero 1 3 1 diminuzione dell'impegno nelle attività costruttive (avolizione) , piacevoli (ane­ donia) e sociali (asocialità) (Kirkpatrick et al., 2006). L'indipendenza di questo gruppo di sintomi alle analisi fattoriali è considerata una prova della validità di costrutto dei sintomi negativi della Schizofrenia. Un'ulteriore prova della loro indipendenza proviene dal loro profilo temporale: i sintomi negativi - come quelli di disorganizzazione formale del pensiero - tendono a presentarsi più precocemente, ad essere più stabili nel decorso cronico della Schizofrenia e ad avere una prognosi peggiore, rispetto alle altre dimensioni sintomatologi­ che, in un periodo di jòllow-up tra i 5 e i 1 O anni. I farmaci antipsicotici hanno dimostrato un'efficacia limitata nei confronti dei sintomi negativi, rendendo prioritaria la ricerca relativa ai possibili nuovi trattamenti per questi aspetti della Schizofrenia. A partire dai lavori di Hughlings Jackson (1931 ), i modelli eziologici dei sinto­ mi negativi si sono appellati alla neurobiologia degenerativa. Una delle ipotesi è che la perdita di tessuto cerebrale causi la compromissione delle capacità cogni­ tive individuali caratteristica di questa sintomatologia, supportata dagli studi che hanno riscontrato un ampliamento dei ventricoli cerebrali associato alla presenza di importanti sintomi negativi. Un altro approccio teorico, basato sullo studio di pazienti con lesioni del lobo frontale, propone che la compromissione del fun­ zionamento di tale area cerebrale provochi una riduzione dei livelli di attivazione e che, a sua volta, questa causi la perdita di motivazione, la riduzione dell'emo­ tività e del comportamento volontario. Un terzo approccio attribuisce la causa dei sintomi negativi al deterioramento cognitivo - ovvero ai deficit di memoria, di attenzione e delle funzioni esecutive - che sembra caratterizzare la maggior parte dei soggetti con diagnosi di Schizofrenia. Anche se le prove a sostegno di questi modelli neurobiologici sono contrastanti (Stolar, 2004), tutti concettualizzano i sintomi negativi come conseguenze di deficit biologici: il paziente è considerato "limitato" dalla propria neurobiologia, al punto da non potersi più impegnare in attività costruttive, da non poter generare risposte espressive, ecc .. La recente pubblicazione scaturita dal consenso tra esperti sui sintomi negativi (NIMH-MA­ TRICS; Kirkpatrick et al., 2006) prosegue su questa linea, evidenziando i limiti concettuali, di misurazione e di progettazione delle ricerche esistenti, in modo che la neurobiologia alla base dei sintomi negativi possa essere chiarita meglio e, soprattutto, possa rispondere al trattamento con farmaci psicoattivi o altri dispo­ sitivi adeguati. Condividiamo la preoccupazione di Tarrier (2006) relativa al fatto che tale pub­ blicazione si limiti a considerare gli aspetti biologici dei sintomi negativi, ponendo troppa enfasi sulla farmacoterapia. La letteratura degli ultimi anni, invece, sta ini­ ziando a delineare gli aspetti psicologici di questi sintomi. Si è visto, ad esempio, come pazienti anedonici con diagnosi di Schizofrenia mantengano la capacità di

1 32 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi provare piacere in misura equivalente a un gruppo di soggetti di controllo non clinici (Gard et al., 2007); tale risultato è in contrasto con il presupposto che que­ sti pazienti siano affetti da un deficit neurobiologico che impedisce loro di provare piacere. Sembra piuttosto che sia un bias cognitivo a differenziare i due gruppi: i pazienti psicotici si aspettano erroneamente di non divertirsi e, di conseguenza, si impegnano in attività piacevoli in misura minore rispetto ai soggetti del grup­ po di controllo. Rector (2004), analogamente, ha messo in luce come un'elevata presenza di sintomi negativi si associ a un atteggiamento del tipo: "Se non faccio bene qualcosa, tanto vale che non la faccia affatto". La correlazione tra specifici atteggiamenti mentali e sintomi negativi è risultata moderatamente significativa, pur controllando il livello di depressione. Questo insieme di credenze è stato successivamente denominato "atteggiamento prestazionale disadattivo" (Grant e Beck, 2009a), in quanto tali atteggiamenti mentali, iper-generalizzati e inaccurati, alimentano un circolo vizioso di evitamento, apatia, passività e isolamento, pro­ teggendo il paziente dal dolore di un fallimento, ma provocandogli uno stato di infelicità e una vita vuota. Integrando gli studi relativi ai fattori psicologici dei sintomi negativi, Beck e collaboratori (2009) hanno ipotizzato che le credenze negative disfunzionali contribuiscano all'evitamento delle attività costruttive che si osserva nei soggetti affetti da Schizofrenia. I fattori che contribuiscono alla perdita di motivazione e all'evitamento sono: le scarse aspettative di godere dell'evento (ad es., "Non mi piacerà''), di avere successo in compiti sociali e non (ad es., "Non sarò abbastanza bravo"), di essere accettato socialmente (ad es., "Cosa posso aspettarmi? Ho una malattia mentale."), nonché le ipotesi disfattiste riguardo alla propria peiforman­ ce (ad es., "Se non sono sicuro di farcela, tanto vale non provarci nemmeno."). Tali credenze negative e generalizzate ostacolano la capacità del paziente di in­ traprendere qualsiasi azione (compresi il dialogo e l'espressione emotiva). Questi fattori cognitivi (così come la demoralizzazione e la paura del rifiuto) possono non essere espliciti, a seconda del grado di insight del paziente: i sintomi negativi, solitamente ritenuti primari, potrebbero quindi anche essere secondari a questi atteggiamenti mentali negativi. Infine, proponiamo un modello vulnerabilità-stress in cui le credenze di­ sfunzionali fungono da mediatore nella catena causale che collega i deficit co­ gnitivi, i sintomi negativi e lo scarso funzionamento riscontrati nella Schi­ zofrenia. Il pruning neuronale anormale, l'allargamento dei ventricoli e altri fattori fisiologici possono produrre delle alterazioni nella neuro-trasmissione, con conseguente scarsa capacità integrativa del cervello, limitate risorse di elaborazione e scarsa performance cognitiva. In soggetti con vulnerabilità bio­ logica per i sintomi negativi, i fattori cognitivi, combinati con una scarsa disponibilità di risorse di elaborazione, daranno presumibilmente vita a fat-

La terapia per i sintomi negativi e i disturbi formali del pensiero 1 33 tori di stress, come gli insuccessi sociali e/ o scolastici. Questi, a loro volta, innescheranno un circolo vizioso, determinando lo sviluppo di credenze e atteggiamenti negativi che, a loro volta, perpetuano ed esacerbano i sintomi negativi di avolizione e apatia.

CONCETTUALIZZAZIONE COGNITIVA DEI DISTURBI FORMALI DEL PENSIERO Nella Schizofrenia, i disturbi formali del pensiero, assieme all'appiattimento affettivo e al comportamento bizzarro, costituiscono la dimensione della cosid­ detta disorganizzazione (Andreasen et al., 2005), che risulta correlata a uno scarso funzionamento scolastico, lavorativo e sociale. Il disturbo del pensiero è consi­ derato un fenomeno secondario al disturbo del linguaggio che si riscontra nei soggetti schizofrenici. McKenna e Oh (2005) riportano quattro approcci teorici relativi al disturbo del pensiero, che in letteratura è stato considerato come (1) di­ sfasia; (2) incompetenza comunicativa; (3) fenomeno di alterazione delle funzioni esecutive; (4) fenomeno dissemantico. Come evidenziato da Andreasen (1 979), le forme positive dei disturbi del pen­ siero includono la perdita dei nessi associativi (vari modi di "perdere il filo" del discorso, come fornire risposte tangenziali a una domanda) e l'uso idiosincratico del linguaggio, coniando neologismi (ovvero, creando parole nuove) o utilizzando approssimazioni (ovvero, usando parole esistenti in un modo nuovo). All'estre­ mo, i disturbi formali del pensiero positivi si manifestano con incoerenza del linguaggio o insalata di parole (utilizzo casuale delle parole). I sintomi negativi del disturbo del pensiero includono l'interruzione del flusso cognitivo e la povertà del contenuto del linguaggio, che risulta caratterizzato da concretezza, persevera­ zione, uso di assonanze ed ecolalia. Di seguito, riportiamo un esempio di un'intervista contenente alcuni passaggi in cui si evidenzia un disturbo formale del pensiero:

Intervistatore: C'è qualche membro della sua famiglia con cui lei è in contatto? Paziente: Beh, solo con la mia fidanzata. Che è, che è, Carrie. In effetti non è una parente. Ci siamo appena incontrati. Ha 47 anni. Io 45. Ci sia­ mo appena incontrati. E, sì, era in programma. In effetti ci siamo in­ contrati per caso, sì, in infermeria. Ci siamo detti ciao. E, sì, io ho 45 anni. Lei 4 7. Lei ha una figlia. Lei ha una nipote. Lei ha una figlia. E ha una nipote. Ho visto sua figlia di persona [perseverazione]. Ora non la vedo da un po' solo perché, per caso, le ho detto chi è in ve­ rità la mia fidanzata, che è, sì, che è Jill. Non ho una donna sola. Lei loro mi fanno credere che vada tutto bene. Perché, sì, a volte forse potrebbe anche essere. Non sì, insomma. Lei ha dei suoceri [inca-

1 34 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi erenza] . C'è un bosco trascurato, o un negozio di Mary's a casa sua1• [Perdita di associazione (leggera). La parola "trascurato" ("mes.ry") è quella che qui suona in modo strano. Può esserci un bosco e/ o un grande magazzino L'vfary's vicino a casa della donna. Probabilmente, la frase si basa sui suoni simili di "mes.ry" e "Mary's".]. Intervistatore: Dunque, mi sta dicendo che non vede la sua fidanzata da un po'; ma per lei è importante avere una relazione sentimentale? Pa=\fente: [Dopo una lunga pausa] Eh? Intervistatore: Mi ha detto di non aver visto la sua fidanzata per un anno o giù di lì, ma questa relazione è importante per lei? Ritiene importante avere un rapporto sentimentale con qualcuno? Paziente: Va bene. Mi dispiace. Ho un piccolo blocco mentale. Mi dispiace [Possibile blocco con insight ed etichettamento dell'evento. Di solito, il blocco si verifica nel mezzo di un discorso piuttosto che all'inizio di una risposta, come in questo caso. Quest'ultima eventualità, spes­ so, deriva da una mancanza di attenzione o dalla difficoltà di com­ prensione della domanda e, quindi, è più difficile considerare questo episodio specificamente come un blocco] . Questa è una domanda, giusto? Mi dispiace, ]anice. Mi andava di dire un altro nome solo perché non mi piace citare il nome di mio nonno o di mio padre, ma non volevo offendere nessuno. Così come tu mi puoi chiamare "sdolcinato" o "Nell" o "fratello cornftake". Non è un problema [al­ lentamento nessi associativi].

È stato osservato come i sintomi dei disturbi formali del pensiero peggiori­ no quando l'argomento di conversazione è emotivamente saliente o quando il paziente viene criticato da un membro della propria famiglia (Rosenfarb et al., 1 995). Ciò è in linea con la nostra esperienza clinica che dimostra come il pazien­ te rimanga abbastanza lucido quando si affrontano argomenti neutri (del tipo, "Come sei arrivato qui?") o positivi (ad es., lo sport), ma come il disturbo del pensiero si evidenzi pesantemente quando si toccano argomenti importanti per il trattamento. Per questo motivo, siamo convinti che gli aspetti situazionali e psico­ logici giochino un ruolo centrale nell'attivazione di questi disturbi. Nello specifi­ co, il disturbo formale del pensiero sembra essere, almeno in parte, una reazione di stress ad argomenti e situazioni "calde": in questo senso, sarebbe un fenomeno analogo alla balbuzie, in cui è evidente come dei particolari pensieri (come "Non mi capiranno" o "Sono stupido"), elicitati da determinate situazioni, aumentino 1 N.d.T: assonanza intraducibile. La frase originale è "There's a messy forest, or a Macy's at her house" e le parole "messj' e "Macy'!' si pronunciano in modo molto simile.

La terapia per i s intomi negativi e i disturbi formali del pensiero

1 35

la difficoltà comunicativa. Un ulteriore circolo vizioso può essere innescato dal

feedback

sociale, dato che coloro che ascoltano

il

paziente si sforzano di capire

quanto sta dicendo e diventano sempre più frustrate e impazienti, mentre

il

suo

livello di tensione e la sua ideazione intrusiva riguardo al fallimento crescono costantemente, con

il risultato che il discorso diventa sempre più disorganizzato.

Ripetute esperienze di questo tipo possono portare

il paziente a cercare di evitare

le interazioni sociali, cosa che può parzialmente spiegare l'associazione tra i di­ sturbi del pensiero e uno scarso funzionamento relazionale. Come nell'ansia e nella depressione, alcuni pensieri automatici specifici e de­ terminate credenze distorte facilitano la comparsa dei disturbi formali del pen­ siero. Le nostre ricerche indicano come i pazienti che ne soffrono presentino una paura intensa di essere giudicati negativamente; questo timore media

il

rapporto

tra deterioramento cognitivo e disturbi del pensiero, anche quando i sintomi psi­ cotici negativi e quelli depressivi sono statisticamente controllati (Grant e B eck, 2009b). Anche se queste ricerche sono in fase embrionale, crediamo che la com­ prensione dei disturbi formali del pensiero migliorerà grazie agli studi che pren­ dono in considerazione gli aspetti psicologici, quali le credenze e le aspettative disfunzionali.

TERAPIA COGNITIVA PER IL TRATTAMENTO DEI SINTOMI NEGATIVI E DEI DISTURBI FORMALI DEL PENSIERO Anche se, tradizionalmente, i trattamenti psicosociali per i sintomi negativi si basano su metodi comportamentali, quali social skills training,

token economy e tecniche

di riabilitazione psichiatrica, non è chiaro quale di questi approcci possa nello speci­ fico essere utile per i disturbi formali del pensiero. La terapia cognitiva, nonostante la sua tradizionale enfasi sui sintomi positivi della Schizofrenia, ha iniziato a fornire dei risultati promettenti anche per quanto riguarda i sintomi negativi (Beck et al., 2009). Ad esempio, Sensky e collaboratori (2000), in uno studio che ha confrontato pazienti ambulatoriali - con sintomi positivi resistenti al trattamento - con soggetti appartenenti a un gruppo di controllo che ha ricevuto una terapia di supporto aspe­ cifica, hanno evidenziato come la terapia cognitiva avesse prodotto una riduzione significativa dei sintomi negativi, che si

è mantenuta alfollow-up dopo nove mesi dal

termine del trattamento. Questi risultati si sono dimostrati particolarmente stabili nel tempo, dato che i pazienti sottoposti alla terapia cognitiva hanno continuato a

5 anni dal !riai d'inter­

manifestare un tasso inferiore di sintomi negativi anche al follow up dopo termine del trattamento (furkington et al., 2008). Similmente, in un

vento mirato ai sintomi negativi, Rector e collaboratori (2003) hanno dimostrato come la terapia cognitiva, rispetto al trattamento classico, fosse in grado di ridurre maggiormente la sintomatologia negativa nei 9 mesi successivi.

1 36 Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi

In sostanza, incoraggiati da questi risultati, crediamo che le strategie cognitive possano incrementare l'efficacia del trattamento dei sintomi negativi e dei distur­ bi formali del pensiero. La terapia cognitiva è stata sviluppata da Aaron T. Beck all'Università della Pennsylvania, avendo in mente dei casi difficili da trattare. Un presupposto generale di quest'approccio consiste nello stabilire, assieme al paziente, degli obiettivi realistici del trattamento sia a lungo che a breve termine. Durante la terapia, terapeuta e paziente collaborano attivamente per raggiungere passo per passo gli obiettivi prefissati; i disturbi formali del pensiero, la scarsa motivazione e altri sintomi - come le allucinazioni e i deliri - vengono affrontati nel momento in cui ostacolano il raggiungimento di tali obiettivi.

Sintomi negativi Per accedere agli obiettivi del paziente che sperimenta sintomi negativi, spesso è necessario un lungo periodo di valutazione con domande specifiche e dirette. Può essere necessario coinvolgere la sua famiglia e/ o lo st4f dei servizi di salute mentale che lo ha in carico per determinarne i bisogni attuali e valutarne i mi­ glioramenti ottenuti nel corso della terapia. Con coloro che manifestano sintomi negativi, a volte è necessario modificare leggermente la terapia: bisogna avere pazienza, dato che le risposte del paziente possono essere lente e prive di dettagli significativi e le domande aperte possono dover essere seguite da altre più dirette o a risposta chiusa. A causa del decadimento cognitivo che spesso accompagna i sintomi negativi, il terapeuta può essere costretto a usare un dialogo lento e ripetitivo, chiedendo al paziente di ripetere alcune domande chiave per testarne il livello di comprensione. Riuscire a stabilire l'ordine del giorno può essere difficile e ostacolato dall'apatia del paziente: in questi casi, il terapeuta può utilizzare un approccio flessibile e concedergli tempi più lunghi per fornire una risposta, infor­ mandosi sugli avvenimenti recenti e sulle preoccupazioni del paziente a riguardo, identificando degli obiettivi comuni a lungo termine (relazioni, lavoro, hobry) e of­ frendogli una rosa di possibilità per i temi da affrontare in seduta. Con l'avanzare della terapia, è possibile che il paziente stesso riesca a formulare degli obiettivi e a proporre l'ordine del giorno. Dato che i modelli biologici dei sintomi negativi postulano una diminuzione dell'attività dei centri neuronali preposti a motivare il comportamento (Stolar, 2004), le situazioni esterne possono stimolare il paziente. In questo senso, il tera­ peuta svolge un ruolo primario, aiutandolo a identificare gli obiettivi e promuo­ vendo la sua motivazione e la sua messa in atto di comportamenti finalizzati a una meta. Gli strumenti terapeutici principali di questo processo di riattivazione comportamentale sono la programmazione delle attività - con le valutazioni di utilità e piacere - e l'assegnazione graduale di attività (Beck et al., 2009): più è con­ creto il piano e più sono immediati gli esiti, meglio è. In linea con quanto esposto,

La terapia per i s intomi negativi e i disturbi formal i del pensiero

1 37

i rinforzi - incluso il far presente al paziente i progressi fatti - dovrebbero essere immediati e i singoli passi finalizzati a una meta dovrebbero essere ben evidenzia­ ti - o anche scritti

A

-

in modo che fungano da ulteriore spunto.

livello cognitivo, riuscire a identificare e contrastare le aspettative negative

del paziente nei confronti delle proprie abilità può contribuire a invertire il cir­ colo vizioso di rassegnazione e delusione. Più che la presenza di pensieri negativi riguardo alle conseguenze delle azioni, possiamo riscontrare una carenza di co­ gnizioni nei confronti di queste, nel senso che ogni attività (incluso il dialogo e le espressioni facciali) può essere considerata priva di valore. Aiutare un paziente a pensare alle conseguenze positive di determinate azioni può indurre pensieri motivanti e un'analisi costi-benefici aiuta ad esaminare i vantaggi e gli svantaggi del metterle in atto o di non intraprenderne alcuna.

Le assunzioni e le credenze

dei pazienti cronici possono essersi sviluppate molto tempo addietro e non essere necessariamente associate a situazioni recenti.

A

livello comportamentale esse

si manifestano con un atteggiamento eccessivamente prudenziale, la passività e l'allontanamento dai rischi potenziali. Queste credenze vanno messe in discus­ sione, in quanto interferiscono con i nuovi obiettivi del paziente, che includono un impegno maggiore nei confronti della vita - oltre a una miglior qualità della stessa. In modo simile, le allucinazioni e i deliri, che provocano sintomi negativi secondari, possono divenire degli ostacoli per il raggiungimento degli obiettivi del paziente; a maggior ragione, in quanto tali, devono essere affrontati per mezzo di tecniche cognitive e comportamentali (Beck et al.,

2009).

Disturbi formali del pensiero Come in tutte le terapie, all'inizio del trattamento

è

necessario instaurare un

buon rapporto con il paziente. Se il disturbo formale del pensiero

è

causato da

pensieri automatici negativi collegati alla performance sociale (incluso il dialogo), esso può essere ridotto semplicemente grazie alla costruzione dell'alleanza tera­ peutica, che implica fiducia e confidenza. Uno degli autori ha trattato una donna affetta da Schizofrenia che, durante la prima seduta, aveva manifestato un severo disturbo del pensiero, che

è

poi virtualmente scomparso durante la seconda. La

paziente ha riferito di essere stata molto ansiosa all'idea di dover cambiare terapeu­ ta: probabilmente, quindi, era più ansiosa nella prima seduta e molto di meno in quelle seguenti, cosa che ha drasticamente ridotto il disturbo del pensiero stesso. L'assessment cognitivo dei disturbi formali del pensiero può essere iniziato non appena se ne individua la presenza. Una componente fondamentale dell'assessment riguarda l'analisi del contenuto del linguaggio, dato che le sue distorsioni possono avere un significato psicologico importante. Occorre impegnarsi il più possibile per individuare le idee che il paziente sta tentando di comunicare, rivolgendo un'attenzione particolare alla comparsa di temi specifici nella conversazione. Con

1 3 8 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi delle domande pertinenti si raggiunge un duplice scopo: si incrementano le abi­ lità di problem-solving del paziente e, al contempo, questi apprezza il fatto di venire compreso. Quest'ultimo aspetto, di per sé, può aiutare a ridurre i suoi livelli di stress e, potenzialmente, a diminuire le alterazioni formali del pensiero. Quando le alterazioni sono intermittenti, o oscillano nella gravità durante il corso della seduta, è necessario utilizzare una seconda componente dell'assessment cognitivo: la scoperta guidata dei pensieri automatici antecedenti alla reazione da stress, che a sua volta si manifesta con la disorganizzazione dell'eloquio. Il tera­ peuta può identificare i temi o le situazioni (come la presenza di alcuni membri della famiglia in seduta) che intensificano le alterazioni formali del pensiero; può quindi porre delle domande specifiche per esplorare i pensieri automatici che determinano questo fenomeno. Le persone affette da Schizofrenia, quando affrontano temi personali ed emo­ tivamente carichi, manifestano un eloquio disorganizzato in conseguenza del di­ sturbo del pensiero. Per ridurre i sintomi di quest'ultimo, si possono utilizzare dei metodi terapeutici mirati alla regolazione delle emozioni e alla riduzione dello stress. Le tecniche standard della terapia cognitiva per gestire depressione, ansia e rabbia, così come per rendere emotivamente più tollerabili gli effetti di alluci­ nazioni e deliri, possono migliorare indirettamente l'organizzazione dell'eloquio. Kingdon e Turkington (1994), inoltre, suggeriscono di usare regolarmente il role­ plqy per aiutare il paziente a mettersi nei panni dell'ascoltatore e a comprendere come la sua comunicazione possa risultare incomprensibile per gli altri e come sarebbe opportuno adoperare un linguaggio più chiaro. L'efficacia di questo me­ todo è stata dimostrata tramite alcuni studi che hanno evidenziato come i pazienti siano in grado di riorganizzare dei discorsi sconnessi formulati in precedenza, di chiarire il significato di alcuni neologismi utilizzati e di migliorare la propria mo­ dalità di comunicazione dopo aver ascoltato le registrazioni dei propri discorsi. Terapeuta e paziente, infine, lavorano insieme per perfezionare lo stile di comu­ nicazione, in parte per facilitare il raggiungimento degli obiettivi stessi della terapia. Nelson (2005) raccomanda di rivolgere direttamente delle domande al paziente quando alcune parti del suo discorso non sono chiare. Pinninti e collaboratori (2005) suggeriscono: (1) di seguire la regola delle cinque frasi, in base alla quale terapeuta e paziente limitano il discorso a cinque frasi alla volta, in modo che la di­ sorganizzazione abbia una minor possibilità di manifestarsi con la lunghezza della conversazione; (2) di prendersi delle pause di due minuti per rilassarsi utilizzando la respirazione profonda o passando a un tema di conversazione neutro quando il materiale emotivamente carico provoca i disturbi del pensiero; (3) di chiedere al paziente quali sono le difficoltà comunicative che ha con le altre persone. È meglio rimanere silenziosamente in ascolto finché i passaggi sono chiara­ mente comprensibili, in modo che il paziente abbia un feedback positivo quan-

La terapia per i sintomi negativi e i disturbi forma l i del pensiero 1 39 do utilizza una modalità di comunicazione precisa (e possa anche correggere i passaggi non adeguatamente espressi), per poi concentrarsi sulle affermazioni incoerenti. Se necessario, si possono porre delle domande più generali (''Cosa intendevi con ?"), cercando di cogliere i significati dal contesto e dal tono con cui viene espresso l'argomento in questione. Il materiale chiaramente divergente e irrilevante (come le assonanze) può essere in gran parte ignorato, ma non biso­ gna fare l'errore di interpretare come insignificante del materiale emotivamente rilevante. Ad esempio, la prima di una serie di parole in rima tra loro può essere importante (''Sono depresso, oppresso, confesso, eccesso."). Dato che la terapia cognitiva della Schizofrenia non si

è

ancora focalizzata

sui disturbi formali del pensiero, rimane ancora molto lavoro da fare per testare l'utilità di questi specifici approcci. Migliorare l'organizzazione dell'eloquio può comunque aiutare molte persone affette da Schizofrenia ad affrontare le allucina­ zioni, i deliri e i sintomi negativi che, in precedenza, sarebbero stati intrattabili a causa delle alterazioni formali del pensiero stesso. Per ipotizzare quali pensieri negativi una persona formuli prima che il discor­ so si disorganizzi, può essere utile far riferimento a quanto emerso durante la terapia cognitiva con altri pazienti. Questa strategia può essere importante poi­ ché, nei casi più gravi di disturbo formale del pensiero, risulta difficile accedere ai pensieri automatici del paziente. Quelli che emergono nei casi meno complessi (ad es., "Non saprei cosa dire") possono quindi essere considerati validi anche nel trattamento dei casi più difficili, fintanto che il disturbo formale del pensiero non

è

diminuito e non

è

possibile iniziare la terapia cognitiva vera e propria, ac­

cedendo ai pensieri automatici specifici del paziente. Oltre a determinare gli an­ tecedenti delle alterazioni formali del pensiero, potrebbe essere utile esplorare le reazioni cognitive agli effetti di questo problema sugli altri (che possono portare al suo peggioramento o mantenimento) . L'ipotesi che il pensiero disorganizzato, conseguente all'ansia, possa portare a un blocco della pianificazione e del com­ portamento suggerisce che le strategie di gestione dello

stress - come le

tecniche

di rilassamento e quelle per il trattamento cognitivo di depressione, ansia e sin­ tomi positivi - possano ridurre anche i sintomi negativi. Le tecniche cognitive di base per identificare e modificare i pensieri automatici possono essere utili a contrastare direttamente il pensiero disorganizzato e a facilitare l'emissione di un comportamento maggiormente adattivo.

RIASSUNTO Anche se, a livello superficiale, i sintomi negativi e i disturbi formali del pen­ siero sembrano essere privi di un contenuto cognitivo significativo - e, quin­ di, non affrontabili con le strategie terapeutiche cognitive - noi ipotizziamo che essi derivino, almeno in parte, dalle credenze negative disfunzionali riguardo alle

1 40 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi aspettative eli insuccesso e/ o eli assenza eli piacere. Queste credenze esitano in una riduzione delle attività (incluse affettività ed eloquio appiattiti), nel caso dei sintomi negativi, o nella disorganizzazione del pensiero (che comporta l'eloquio disorganizzato), che è secondaria al forte stress connesso al tentativo eli intra­ prendere delle attività nonostante le aspettative negative. Vi sono dati a sostegno eli questa ipotesi per quanto riguarda i sintomi negativi e i risultati preliminari suggeriscono che essa sia applicabile anche ai disturbi formali del pensiero. La terapia cognitiva standard - che prevede eli elicitare i pensieri negativi automatici e eli esaminarne la veridicità - può essere usata anche per questo tipo eli sintomi, introducendo le opportune modifiche quando questi intralciano l'aspetto comu­ nicativo della terapia. Dato che i pazienti possono manifestare scarse aspettative eli successo anche nel corso delle sedute, il processo eli costruzione dell'alleanza terapeutica è cruciale per ottenere dei risultati. Raffinando ulteriormente le strate­ gie eli terapia cognitiva per i sintomi negativi e per i disturbi formali del pensiero, molti eli quei pazienti finora considerati intrattabili con la psicoterapia potranno iniziare a vivere una vita più piena.

La terapia per i s intomi negativi e i d isturbi formal i del pensiero 1 41

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1 70 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi concluso uno studio, randomizzato e controllato, che ha confrontato un gruppo di TCC con uno di skills training per soggetti al primo episodio psicotico, ottenen­ do risultati positivi in termini di riduzione dei sintomi, aumento dell'autostima e del funzionamento sociale (Lecomte et al., 2008). Anche se questo intervento di gruppo era rivolto ai soggetti al primo episodio psicotico, i clinici che lo hanno applicato ritenevano che ne avrebbero potuto beneficiare anche persone con un decorso più lungo di malattia. Senza dubbio, utilizzando il nostro manuale, sono stati condotti molti gruppi, al di fuori del nostro studio, con pazienti più anziani, ottenendo comunque risultati positivi. La TCC delle psicosi in setting di gruppo, in molti contesti, è più applicabile rispetto a quella individuale, utilizzata nella mag­ gior parte degli studi del Regno Unito, dato che sono necessari meno terapeuti per gestire un maggior numero di pazienti. Tipicamente, un gruppo include tra i 4 e gli 8 partecipanti e impegna 2 clinici per un periodo che va dalle 5 alle 12 setti­ mane. La durata della terapia individuale varia da caso a caso, ma è spesso di circa 9 mesi, per cui trattare più persone impegna molto più tempo del professionista. La terapia di gruppo, inoltre, sembra avere effetti positivi già dopo tre mesi se, ad esempio, prevede incontri per due volte a settimana. Un altro grande vantaggio dell'intervento di gruppo riguarda la normalizzazione del paziente (si veda il capitolo 6). Abbiamo visto, infatti, come un aspetto impor­ tante nel condurre la TCC delle psicosi sia quello di aiutare i pazienti a sentirsi meno alienati normalizzando le loro esperienze, ad esempio spiegando loro come anche altre persone ne abbiano di simili (Kingdon e Turkington, 2005). Per illustra­ re questo concetto, si possono anche portare esempi di altre persone in condizioni di sofferenza, deprivazione di sonno e sensoriale ma, ai fini della normalizzazione, ascoltare le esperienze degli altri all'interno di una terapia di gruppo è uno strumen­ to molto più potente. Il gruppo permette anche di lavorare su una delle più comuni conseguenze della psicosi, l'isolamento sociale. Che sia esso legato all'ansia sociale (Lysaker e Hammersley, 2006), alla paranoia (Huppert e Smith, 2005), alla sensa­ zione di incompetenza relazionale (Couture et al., 2006) o allo stigma derivante dall'avere una malattia mentale (Birchwood et al., 2006), ha comunque delle gravi conseguenze sull'integrazione della persona nella società. Un intervento di gruppo offre l'opportunità al paziente di interagire con gli altri in un contesto sicuro e non giudicante e, quindi, di mettere in pratica le proprie abilità sociali e di creare delle amicizie. La costruzione della coesione del gruppo, tipicamente, richiede dalle 6 alle 8 sedute e determina sentimenti di appartenenza al gt;pppo stesso, simpatia ed empatia per l'altro, nonché scambi di inviti tra i singoli pazienti per attività ricreative al di fuori del gruppo (Spidel et al., 2006). In un contesto gruppale, i partecipanti possono aiutarsi vicendevolmente, proponendo agli altri delle alternative per le loro credenze o provando a imitare le loro strategie di coping. L'approccio di gruppo, inoltre, è molto meno impegnativo per il terapeuta, dato che i partecipanti sono de-

Problemi e soluzioni nella terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi 1 71 gli agenti terapeutici attivi, dei co-terapeuti, che si avvalgono degli altri partecipanti, ma al contempo suggeriscono loro le tecniche da utilizzare nel corso delle sedute.

È quindi evidente come il training, per i professionisti che desiderano condurre un

gruppo di

TCC,

rispetto a

un

trattamento individuale delle psicosi, possa essere

molto più breve, specialmente se l'intervento si basa su

un

manuale.

Formare i terapeuti tramite un workshop intensivo e partecipativo Le modalità con cui viene condotto un

workshop influenzano

profondamente

quanto i partecipanti recepiscono e memorizzano l'informazione. Secondo gli

span attentivo di circa 30% delle informazioni trasmesse per frontale classica. Questo è ancor più vero se il materiale pre­

studi a riguardo, la maggior parte delle persone ha uno

1 5-20 minuti e,

tipicamente, ricorda solo il

mezzo della lezione sentato

è

prevalentemente didattico - anziché interattivo - e se l'insegnamento

non include alcuna esercitazione pratica. Il nostro per la

TCC

team ha organizzato un training

di gruppo delle psicosi partecipativo, breve e intensivo, che ha otte­

nuto risultati positivi in termini di acquisizione effettiva delle abilità insegnate. Il

training è stato sviluppato avendo in mente due obiettivi: (1)

che fosse abbastanza

breve in modo che la maggior parte delle persone che lavorano nell'ambito della salute mentale potesse seguirlo e

(2)

che fosse condotto con modalità quanto più

vicine possibile a quelle di un gruppo di trattamento reale. Il primo obiettivo, in linea con le esigenze dei direttori degli ospedali psi­ chiatrici e delle autorità regionali, era che il

training non durasse più di tre giorni.

Questo sia per motivi finanziari che gestionali, dal momento che, ove un profes­ sionista si fosse assentato

a

lungo per frequentare il corso, il lavoro si sarebbe

accumulato e sarebbe stato necessario reclutare temporaneamente del personale per farvi fronte: tre giorni - e in alcuni casi anche due - era il massimo che si potesse concedere. In tre giorni, il primo può essere dedicato agli aspetti teorici - con lezioni condotte in modo interattivo, piccoli gruppi di discussione, esempi di casi e possibilità di fare domande durante tutta la giornata - e gli altri due ai

role-plqy, con supervisione diretta. I contenuti sono relativi ai principi e alle regole della terapia di gruppo, alle basi della TCC per le psicosi e alle applicazioni delle tecniche più comuni in setting di gruppo. Si illustrano anche i risultati di alcune ricerche, oltre alle linee guida per la supervisione (spiegate in seguito) . Il training di due giorni è un po' più complesso, dal momento che chiediamo ai partecipanti di familiarizzare per conto proprio con il modello della TCC per le psicosi prima del workshop, leggendo alcuni capitoli selezionati da libri specifici e il manuale sul trattamento di gruppo: senza questa fase di preparazione, non sarebbe possibile partecipare attivamente. Sebbene si raccomandi di leggere in anticipo la stessa do­ cumentazione anche a coloro che seguono il

training di tre giorni, in quest'ultimo

1 72 Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi viene riservato uno spazio maggiore alla revisione dei concetti e al chiarimento dei dubbi di tipo teorico, clinico ed empirico. Il secondo obiettivo è diretta conseguenza del primo: affinché un workshop così breve sia efficace, è necessario mirare a un apprendimento su più livelli, servendo­ si di molteplici metodi di insegnamento. Per ottenere un reale cambiamento biso­ gna agire su tre livelli di conoscenza: sapere (cioè, acquisire concettualmente l'in­ formazione recepita), saper fare (apprendere e applicare specifiche abilità) e saper essere (adottare i valori e la filosofia dello specifico approccio) (Lecomte, 2006). Il sapere costituisce il focus della maggior parte dei training tradizionali e viene facil­ mente trasmesso attraverso una presentazione orale (assistita da Powerpoinf) e del­ le letture consigliate. La strategia principale per trasmettere il saper fare è quella di condurre il workshop in modo che ricalchi il formato di un gruppo di terapia reale, offrendo così ai partecipanti un'esperienza da poter replicare. I co-trainerinterven­ gono allo stesso modo in cui i co-terapeuti interagirebbero all'interno del gruppo terapeutico; ai partecipanti viene chiesto di prendere parte al workshop in modo analogo a quello in cui condurrebbero un gruppo di TCC. Quest'ultimo è stato pensato per essere condotto da due co-terapeuti che collaborano, alternandosi nel condurlo: raccomandiamo, infatti, che ogni terapeuta scelga un co-terapeuta che abbia punti di forza e qualità complementari alle proprie e che sia di sesso diverso, in modo da costruire una buona alleanza con il maggior numero di partecipanti possibile. Il gruppo può anche essere un'esperienza piacevole - nonostante i temi toccati possano, a volte, essere difficili - e, quindi, anche il training deve risultare un'opportunità di apprendimento gradevole. A ogni partecipante viene chiesto di impegnarsi in più role-play, come co-terapeuta o come membro del gruppo, in modo da apprendere concretamente come applicare le abilità apprese. A due al­ lievi alla volta viene chiesto di preparare una seduta, leggendo il manuale e utiliz­ zando le informazioni che sono state trasmesse loro, per poi mettere in scena una parte di questa di fronte agli altri partecipanti, che fanno la parte dei pazienti. Ai partecipanti viene offerta supervisione durante la preparazione della sedu­ ta, nel corso della stessa (quando lo necessitano e se sembrano allontanarsi dal contenuto previsto o dall'obiettivo) e dopo il role-plqy. Viene immediatamente dato loro un feedback positivo e, a volte, si chiede a uno dei co-terapeuti di rico­ minciare da capo se un elemento non è stato adeguatamente considerato oppure se l'intervento non ha colto nel segna; tutti i partecipanti devono ricoprire il ruolo di co-terapeuta almeno una volta. Le sedute da simulare sono quelle che sembra­ no più difficili o impegnative, al fine di assicurarsi che le cose vadano, per quanto possibile, come nella realtà clinica. Anche se, prima di iniziare il role-plqy, esso potrebbe apparire stressante, i partecipanti apprezzano molto questa strategia di apprendimento, non solo perché permette loro di applicare le abilità acquisite, ma anche perché da essa traspare rispetto e fiducia nella loro competenza.

Problemi e soluzioni nella terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi 1 73 Nel corso di tutto il

workshop,

inoltre, viene posta una particolare enfasi

sull'aspetto del saper essere. Il ruolo del terapeuta come collaboratore e facilita­ tore, più che come esperto, e l'attenzione a cercare di capire il paziente, anziché a sforzarsi di cambiarlo, riflettono l'importanza di determinati valori e della filoso­ fia sottostante alla TCC delle psicosi. Quest'ultima viene spesso contestata ener­ gicamente, specialmente dallo stajfinfermieristico (e da altre figure professionali), precedentemente formato a evitare di trattare direttamente i sintomi psicotici e ad aiutare i pazienti "facendo le cose al posto loro" e/ o trovando delle soluzioni per loro il prima possibile, anziché rispettare i loro tempi e aiutarli a trovarne per conto proprio. Per quanto concerne il saper essere, quindi, si incoraggiano i par­ tecipanti a "mettere in pratica ciò che predicano", ovvero a imparare a identificare il proprio

stress e le proprie vulnerabilità,

a usare strategie di

coping funzionali,

ad

essere autentici (ovvero, ad agire allo stesso modo sia in terapia che fuori da essa), a riconoscere i propri punti di forza come terapeuti - in modo da poterli sfruttare al massimo - e le aree che invece necessitano di migliorare. Tutti questi aspetti, assieme al feedback fornito dopo l'esecuzione dei

role-plqy,

aiutano i terapeuti a

sviluppare un senso di competenza che li renderà in grado di condurre i gruppi di TCC dopo aver partecipato al nostro

workshop.

Vengono infine proposte spe­

cifiche strategie che servono a perfezionare le proprie competenze, come quelle di intervisione.

Intervisione tra colleghi Per mantenere e affinare le competenze come terapeuta cognitivo-comporta­ mentale di gruppo per le psicosi, sono necessarie sia la pratica che la supervisione. Dato che non ci sono abbastanza terapeuti competenti, accessibili e disponibili a garantire una supervisione a tutti coloro che ne hanno bisogno, una soluzione quella di incoraggiare l'intervisione tra colleghi. Il presupposto

è

è

che la maggior

parte dei professionisti della salute mentale che lavorano in determinati contesti abbiano partecipato a un

workshop, ricordino le

specifiche informazioni che sono

state trasmesse loro e abbiano imparato a condurre le sedute, maturando deter­ minate capacità. Ogni operatore, pertanto, dovrebbe essere in grado di fornire

feedback

costruttivi a coloro che conducono i gruppi di TCC. Raccomandiamo

che le sedute di gruppo vengano videoregistrate (almeno in parte), ad esempio durante l'incontro per il pranzo settimanale. Il livello di

stress

per il terapeuta,

causato dall'esposizione del proprio operato di fronte ai colleghi, dovrebbe es­ sere ridotto dal fatto che ognuno ha già effettuato una sessione di pubblico durante il

workshop e,

role-plqy in è a conoscenza del livello di stress ricevere feedback costruttivi e positivi. Abbiamo

di conseguenza,

che implica e dell'importanza di

riscontrato come questa formula funzioni molto bene, in particolare se accompa­ gnata da

workshop

saltuari di "ripasso" o da sporadiche supervisioni esterne. Ad

1 74 Terapia cogn itivo-comportamentale del l e psicosi esempio, alcune équipe hanno richiesto un workshop di un giorno su problematiche specifiche emerse durante la conduzione dei gruppi, un anno dopo il corso ini­ ziale, mentre altre hanno chiesto una supervisione di due ore per essere rassicu­ rate relativamente ai processi che si sono attivati nei gruppi, anche se tutto stava procedendo al meglio. Ci siamo resi conto di come i terapeuti siano più abituati a ricevere una supervisione da parte di colleghi "esperti" e di come l'intervisione tra pari, all'inizio, possa risultare destabilizzante, nel momento in cui gli viene co­ municato che hanno le competenze necessarie per farla. Nell'ambito della terapia di gruppo, ai professionisti che operano nel campo della salute mentale viene in­ segnato a "buttarsi", dato che alle spalle hanno una struttura chiara della terapia, una conoscenza di base e una preparazione pregressa, ma viene anche detto che la vera competenza si sviluppa solo per mezzo dell'esperienza, dell'auto riflessio­ ne e deifeedback, imparando dai propri successi e dai propri errori. Le stesse linee guida si applicano alla supervisione, specificando l'importanza di accettare che la conduzione dei gruppi di TCC per le psicosi potrebbe non riuscire a chiunque: partecipando al workshop, i professionisti riescono a capire se possiedono o meno le capacità di sapere, saper fare e saper essere necessarie a condurre i gruppi. In alcuni casi, i direttori delle strutture ci hanno chiesto di fare loro i nomi di coloro i quali avrebbero avuto più possibilità di avere successo immediato nella conduzione di un gruppo, ad esempio diventando "leader' del team e trascinando gli altri. Una volta terminati i primi gruppi, i terapeuti "leader' che li hanno gestiti direttamente spesso danno il via a nuovi gruppi assieme ad altri terapeuti che, a loro volta, condurranno dei gruppi assieme ad altri, e così via.

CONCLUSIONI La TCC delle psicosi ha dimostrato la sua efficacia in diversi studi e deve esse­ re accessibile ai pazienti che desiderano usufruirne. In ogni caso, la realtà politica del Nord America è che ci sono pochi fondi destinati alla salute e, ancora meno, alla salute mentale; ciò ha delle dirette conseguenze sulla possibilità di proporre nuovi interventi che necessitano di formazione specifica, come la TCC. Sono state discusse due possibili soluzioni: 1) attendere che ci siano più fondi e più persone formate all'interno dei contesti istituzionali prima di applicare la TCC per le psicosi o 2) modificare l'approccio, rispettandone la filosofia di base, per rendere la TCC rapidamente accessibile a chi ne ha bisogno. In questo capitolo, abbiamo cercato di illustrare l'importanza di puntare alla prima soluzione - cer­ cando di fare in modo che vengono proposti training all'interno delle strutture cliniche e facendo pressione per avere più fondi statali - applicando al contempo la seconda, cioè sviluppando una forma di TCC per le psicosi che abbia una struttura definita e un formato gruppale, più facilmente applicabili alla realtà cli­ nica del Nord America. L'approccio di gruppo non sostituisce quello individuale

Problemi e soluzioni nella terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi 1 75

applicato da un terapeuta esperto, ma potrebbe essere un buon compromesso o un aggiunta a quest'ultimo. L'approccio di gruppo presenta molti vantaggi, tra cui la promozione della socializzazione, la sistematizzazione in un manuale struttura­ to di cui i terapeuti possono servirsi e la possibilità di essere appreso tramite un training breve. Inoltre, nel training utilizziamo gli allievi stessi come co-trainer, per mostrare come dei co-terapeuti, che siano dei pari, possano aiutare il recupero dei pazienti, ponendosi come modelli di comportamento che hanno condiviso esperienze simili e che conoscono già approfonditamente molte delle questioni che questi potrebbero sollevare. I gruppi di TCC per le psicosi possono anche precedere altri interventi più specifici. Dopo aver completato le 24 sedute, ad esempio, alcuni desiderano la­ vorare su tematiche legate all'intimità: possono quindi richiedere altre 8 sedute individuali in cui si impiegano tecniche cognitivo-comportamentali con cui han­ no già familiarità (Ledere et al., 2006). Altre tematiche che potrebbero richiedere più spazio rispetto a quello che è dedicato loro nel manuale riguardano problemi con l'abuso di sostanze, la scarsa autostima e le difficoltà nella gestione dello stress, ognuno dei quali può essere trattato in sedute successive, usando tecniche e concetti cognitivo-comportamentali analoghi. Il setting di gruppo nel trattamento delle psicosi è stato anche modificato per essere utilizzato in regime di ricovero ospedaliero breve, verrà adattato per uso forense e c'è il progetto di svilupparne una forma adatta ad essere offerta all'interno dei centri per l'impiego. Anche se sono necessari studi più approfonditi per determinare l'efficacia della TCC di gruppo nei vari contesti, riteniamo che l'intervento proposto possa essere attuato con successo nei servizi di salute mentale dell'America settentrionale e, forse, anche in quelli di altri Paesi.

1 76 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

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PARTE III LA COMORBILITÀ DELLE PSICOSI

12 IL TRATTAMENTO DELL'ABUSO DI S OSTANZE IN SOGGETTI CON DISTURBI MENTALI GRAVI David ]. Kavanagh e Kim T. Mueser

INTRODUZIONE Le ricerche dell'ultimo ventennio evidenziano come i pazienti affetti da distur­ bi mentali gravi - quali Schizofrenia, Disturbo Bipolare o Depressione Maggiore resistente al trattamento - corrano un rischio maggiore di abusare di alcol o di sostanze stupefacenti Gli studi sulla popolazione generale negli Stati Uniti, in .•

Europa e in Australia, ad esempio, hanno mostrato un tasso di abuso pari a circa il 1 5%, rispetto a quello del 40-50% che si

è

riscontrato tra i soggetti affetti da

patologia mentale grave (ad es., Regier et al., 1 990). Tra questi ultimi, anche il tas­ so di abuso di sostanze attuale o ricorrente risulta altrettanto elevato, attestandosi intorno al 25-40%. Nei vari campioni, sono state riscontrate delle analogie per quanto concerne i fattori di vulnerabilità all'abuso, ovvero il genere maschile, la giovane età, lo stato civile nubile/ celibe, la scarsa educazione (Kavanagh et al., 2004) e, in persone con disturbi psicotici, una storia familiare di abuso di sostanze, la presenza di un Disturbo della Condotta nell'infanzia o di un Disturbo Antisociale di Personalità (Mueser et al., 1 999). Una delle poche relazioni specifiche tra le caratteristiche del paziente e la vul­ nerabilità all'abuso di sostanze riguarda il funzionamento sociale premorboso: mentre nella popolazione generale non si osserva una chiara relazione tra questi due aspetti, nei soggetti con disturbo mentale grave una miglior competenza so­ ciale premorbosa

è

spesso associata a un incremento del rischio (Salyers e Mue­

ser, 200 1 ) . In prima battuta, questa relazione potrebbe apparire controintuitiva,

1 82 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi dal momento che, nella Schizofrenia, un buon funzionamento sociale premorbo­ so predice un miglior decorso della patologia. Una possibile spiegazione di questi risultati è che ai soggetti socialmente più competenti, rispetto a chi è socialmente isolato o evitante, vengano direttamente offerte sostanze illecite, che essi siano più facilmente esposti all'uso collettivo delle stesse e che riescano a garantirsene un rifornimento costante (Mueser et al., 1 998). In linea con questi dati, è anche emerso come i pazienti affetti da psicosi e concomitante abuso di sostanze presentino, in media, un funzionamento sociale migliore e sintomi negativi meno gravi rispetto a chi è affetto unicamente da Schizofrenia (Salyers e Mueser, 2001). Non è semplice spiegare in modo lineare la direzione di questo rapporto: in fase premorbosa, il rischio di esposizione alle so­ stanze e uso regolare delle stesse sarebbe più elevato negli individui più sani (nel caso di uso di nicotina, ad esempio, si rilevano anche effetti biochimici positivi sul funzionamento sociale e sulla motivazione) e il miglior funzionamento rela­ zionale potrebbe derivare dall'"utilizzo sociale" delle droghe, che rende i contatti umani più tollerabili e meno stressanti. Nei soggetti con patologia mentale severa, infatti, la disinibizione sociale è frequentemente citata come giustificazione prin­ cipale per l'abuso (Mueser et al., 1 995).

EFFETTI DELL'ABUSO DI SOSTANZE SUI DISTURBI PSICOTICI Nella popolazione generale, i problemi legati all'uso di sostanze sono definiti in termini di assunzione costante delle stesse, nonostante il loro impatto negativo sulla salute, sul funzionamento o sui ruoli sociali (al lavoro, in famiglia o a scuola). Nella dipendenza, oltre alle conseguenze fisiche, si nota una compromissione del­ la capacità di autocontrollo e, nei soggetti psicotici, anche un'assunzione modesta può avere effetti nocivi e interagire negativamente con il decorso della malattia. Spesso, l'abuso di sostanze interferisce con l'aderenza alla terapia farmacolo­ gica e contribuisce ad acutizzare i sintomi e il rischio di ricadute e di riospedaliz­ zazione (Drake et al., 1 996). Rispetto al solo disturbo mentale, un concomitante abuso di sostanze produce un rischio maggiore di: precarietà abitativa e vagabon­ daggio, problemi finanziari, sovraccarico per i familiari, esposizione a malattie infettive, violenza, conseguenze penali, demoralizzazione e suicidio. È dimostrato come l'uso di sostanze, oltre ad aggravare il decorso di malattia, possa innescare un disturbo psicotico nei soggetti predisposti (Kavanagh et al., 2004; Salyers e Mueser, 2001); questo è un aspetto particolarmente importante, dati i cambiamenti di ruolo, sociali e professionali che si verificano tra la tarda adolescenza e la prima età adulta. L'età di esordio predice gli esiti funzionali a lun­ go termine: in adolescenza, l'utilizzo di cannabis si associa ai sintomi prodromici e, in prospettiva, alle manifestazioni conclamate della Schizofrenia. Anche se l'ef-

I l trattamento del l'abuso di sostanze i n soggetti con di sturbi mentali gravi 1 83 fetta risente di potenziali variabili intervenienti, l'entità del suo uso è direttamente correlata al rischio di malattia (Arseneault et al., 2004). Basandosi su questi dati, alcuni ricercatori hanno proposto che la cannabis possa precipitare l'esordio della Schizofrenia in determinati soggetti che, altrimenti, non manifesterebbero il di­ sturbo. L'uso di questa sostanza prima dei 1 4 anni sembra particolarmente predit­ tivo della futura psicosi, suggerendo la particolare importanza di questa fase dello sviluppo neurologico. Non sarà mai possibile sapere se una persona non avrebbe manifestato i sintomi psicotici se solo si fosse astenuta dall'uso di cannabis; in ogni caso, le evidenze raccomandano di evitare l'assunzione di sostanze, in particolare se il soggetto è in giovane età e se c'è un alto rischio familiare di psicosi. Si osservano anche delle correlazioni tra l'abuso di alcol e il Disturbo Bipo­ lare: a differenza di quanto si verifica quando il primo è conseguente al secondo, un'assunzione eccessiva di alcol precedente alla malattia si lega a un'età di esordio più precoce. Nelle famiglie dei soggetti in cui l'alcolismo precede il Disturbo Bipolare, i tassi di Disturbo Bipolare sono inferiori, suggerendo la presenza di una minore vulnerabilità genetica. Queste persone tendono anche ad avere meno manifestazioni acute e una guarigione più rapida rispetto alle persone in cui il Disturbo Bipolare si è manifestato più precocemente. L'abuso di alcol, quindi, può sostenere il primo episodio maniacale in soggetti che, altrimenti, avrebbero manifestato il disturbo in età più avanzata o non l'avrebbero sviluppato affatto (Strakowski e DelBello, 2000).

QUALCOSA DI PIÙ DELLA "DOPPIA DIAGNOSI"? La comorbilità tra l'abuso di sostanze e un disturbo mentale può essere defi­ nita brevemente "doppia diagnosi". Prendere alla lettera quest'espressione, però, fa sorgere due tipi di problemi: in primo luogo, se l'abuso multiplo di sostanze è endemico (in particolare la dipendenza da nicotina; Kavanagh et al., 2004), lo è anche la co-occorrenza di più disturbi psichiatrici o sub-clinici, dato che, oltre alla psicosi e all'abuso di sostanze, spesso sono contemporaneamente presenti depressione, ansia o un disturbo di personalità (Mueser et al., 1 999). Nonostante alcuni di questi problemi regrediscano in seguito alla riduzione o all'astinenza da sostanze - spesso, infatti, i sintomi ansiosi o depressivi migliorano senza un trattamento specifico (Margolese et al., 2006) -, ciò non sempre accade. L'anda­ mento del trattamento può anche essere influenzato da alcuni sintomi transitori o secondari: la disforia, ad esempio, mina l'autoefficacia e distorce negativamente le aspettative di risultato (Kavanagh, 1 992) , pregiudicando l'impegno del paziente a modificare il proprio comportamento. Le persone con disturbi mentali, inoltre, corrono un rischio maggiore di soffrire di problemi fisici, e la dipendenza da nicotina e gli abusi di sostanze in questo giocano un ruolo importante (Brown et al., 2000). Come accennato, il quadro è ulteriormente complicato dalla presenza

1 84 Terapia cogn itivo-comportamentale delle psicosi di

deficit multipli di competenze

e di altre difficoltà di ordine pratico, relazionale

e funzionale, che non scompaiono completamente e spontaneamente anche una volta risolti i problemi di abuso e i disturbi mentali.

Al

di là delle definizioni, può essere importante concettualizzare questi pa­

zienti come un sottotipo con manifestazioni complesse: anziché adottare una prospettiva monolitica, quindi, gli operatori dei servizi - già avvezzi alla gestione di situazioni eterogenee - possono considerare le diverse problematiche che pre­ sentano. Riconcettualizzando in questi termini la comorbilità tra abuso di sostan­ ze e disturbi mentali,

è

possibile prendere in considerazione l'intera gamma di

problemi che saranno oggetto di trattamento.

MODELLI DI TRATTAMENTO DEI DISTURBI CO-OCCORRENTI Tradizionalmente, il trattamento dell'abuso di sostanze nei disturbi psicotici può basarsi su un approccio di tipo parallelo o sequenziale. Nell'approccio paral­ lelo i problemi vengono trattati separatamente - ma contemporaneamente - da più professionisti (che, solitamente, lavorano per servizi diversi) , mentre in quello sequenziale gli sforzi si concentr�o inizialmente sul trattamento o sulla stabiliz­ zazione di un disturbo, per poi occuparsi dell'altro in un secondo momento. Entrambi gli approcci non sono però esenti da problemi. In quello parallelo si riscontrano difficoltà nell'accedere sia ai servizi di salute mentale che a quelli per le dipendenze. Spesso manca un jollow-up dei pazienti una volta concluso il trattamento. Si riscontrano, inoltre, scarso coordinamento tra i servizi, problemi di comunicazione sullo stato e sui progressi del paziente, e incongruenze negli obiettivi e nei trattamenti. Il problema principale dei trattamenti sequenziali, in particolare dei soggetti psicotici con problemi di abuso, riguarda invece la diffi­ coltà nel trattare separatamente i singoli disturbi, data la tendenza dell'uno a esa­ cerbare l'altro (Hides et al.,

2006). Alla fine degli anni '80, le review della letteratura

scientifica relativa al trattamento delle comorbilità hanno messo in luce l'ineffi­ cacia degli approcci tradizionali, evidenziando la necessità di modelli terapeutici più validi. Gli approcci più recenti tendono a integrare il trattamento per i diversi distur­ bi ed

è lo

stesso clinico (o lo stesso

team di clinici) che si assume la responsabilità 1 991): sono stati quindi creati diver­

della gestione di entrambi (Minkoff e Drake,

si programmi di trattamento per le varie comorbilità in un'ottica di integrazione. Applicare materialmente il concetto di "integrazione" non significa necessa­ riamente creare servizi appositi per la gestione delle comorbilità. Anche se, a pri­ ma vista, l'idea potrebbe sembrare allettante, considerando l'ipotesi di utilizzare programmi che coinvolgano tutti i soggetti con comorbilità, va tenuto presente che quest'ultima è la regola - e non l'eccezione - sia nel contesto della salute men-

I l trattamento del l'abuso d i sostanze i n soggetti con d i sturbi mentali gravi 1 85 tale che in quello dell'abuso di sostanze. Se esistessero tali servizi, inoltre, alcune persone potrebbero non manifestare "sufficiente comorbilità" e

ciò

impedireb­

be loro di accedervi. Integrazione significa, piuttosto, riconsiderare radicalmente l'organizzazione dei servizi esistenti per poter affrontare i disturbi co-occorrenti di quelle persone che, altrimenti, soddisferebbero

i criteri per rivolgersi a un altro

servizio dedicato. Nonostante le differenze tra i diversi programmi individuali esistenti, la mag­ gior parte di essi condivide caratteristiche quali la completezza, la valorizzazione della motivazione, la minimizzazione dello

stress conseguente al trattamento e una

filosofia basata sulla massima riduzione del danno per la salute e sulla sensibiliz­ zazione riguardo alle conseguenze dell'abuso condotta in modo assertivo.

Servizi integrati I servizi per il trattamento dell'abuso di sostanze nei pazienti con grave pato­ logia mentale prevedono una presa in carico globale e si occupano della gestione di una vasta gamma di esigenze degli utenti, siano esse di tipo medico o farma­ cologico, di autogestione della malattia o di controllo dell'àssunzione di sostan­ ze, di ricerca di alloggio e di reinserimento lavorativo, di abilità sociali e attività ricreative. Al di là degli intenti riabilitativi, per aiutare i pazienti a raggiungere l'astinenza e mantenere una vita gratificante anche senza assumere sostanze (ad esempio, ampliando la rete sociale e impegnandosi in attività che non compor­ tano l'abuso),

è

di fondamentale importanza soddisfare prioritariamente queste

esigenze di base.

Potenziare la motivazione Solitamente, le persone entrano in contatto con i servizi per le dipendenze nel momento in cui l'assunzione di sostanze ha causato loro seri problemi legali (ad esempio, guida in stato di ebbrezza) o di funzionamento e sono quindi costrette a intraprendere un percorso riabilitativo. I pazienti con comorbilità, invece, giun­ gono in terapia a causa di altri disturbi e, spesso, senza una specifica motivazione a lavorare sulla dipendenza; nei programmi di trattamento integrati, quindi, il potenziamento della motivazione del paziente a intervenire su questo aspetto una priorità (Miller e Rollnick,

è

2002).

Il concetto degli "stadi di trattamento" (Osher e Kofoed,

1 989),

ripreso da

quello degli "stadi di cambiamento" del modello di Prochaska e Di Clemente

(1 984),

si rivela utile a massimizzare la motivazione e l'impegno del paziente.

Nella fase dell'impegno egli non ha ancora stabilito una relazione col terapeuta ed

è

quindi di fondamentale importanza che questi vi stabilisca un'alleanza prima

di tentare di persuaderlo a lavorare sui problemi legati all'uso di sostanze (ad es., avvicinandolo ad altri pazienti della comunità o aiutandolo a risolvere una

1 86 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi crisi o un problema momentaneo) . Nella fase della persuasione i pazienti hanno un contratto terapeutico e vedono un professionista a intervalli regolari, ma non sono interessati a mantenere l'astinenza. Prima di occuparsi dell'assunzione di sostanze, quindi, l'obiettivo

è

quello di condurre dei colloqui motivazionali per

aiutarli a sviluppare delle abilità alternative per soddisfare i propri bisogni che, in precedenza, venivano soddisfatti tramite l'uso della sostanza (come la socializza­ zione o la gestione dei sintomi) . Nella fase di

trattamento attivo si propongono delle

strategie per affinare il controllo (ad esempio, sviluppando le abilità volte a gestire le situazioni ad alto rischio). Nella fase di prevenzione delle volezza che

ricadute, con la consape­ è sempre possibile ricadere nell'abuso, va pensato un piano per scon­

giurare quest'evenienza, estendendo il recupero ad altre aree di funzionamento della persona (come il lavoro e le relazioni sociali). Dato che la motivazione e l'impegno al cambiamento sono spesso altalenanti, in particolare nelle prime fasi,

è infrequente una regressiov-e allo stadio precedente; prima di impegnarsi nel trattamento attivo è quindi necessario identificare la presenza di alcuni tentativi non

iniziali di cambiamento, con l'obiettivo di verificare che ogni paziente nel gruppo si trovi all'incirca allo stesso stadio. In ogni caso, queste regole vanno applicate con una certa flessibilità: se l'osta­ colo principale all'inizio del cambiamento

è costituito da una scarsa autoefficacia,

prima che la persona si conceda di poter provare a modificare il proprio compor­ tamento può essere necessario offrirle un breve

ski/1 training per gestire le proprie

principali preoccupazioni (ad esempio, riguardo all'astinenza dalla sostanza) . Può anche essere opportuno realizzare un esperimento comportamentale, per vedere, ad esempio, se fumare una sigaretta in meno al giorno ha delle conseguenze ne­ gative. Un obiettivo iniziale può essere quello di prevedere l'interruzione dell'as­ sunzione della sostanza per un breve periodo (ad esempio, una settimana), per consolidare l'autoefficacia del paziente e verificare i benefici che può ottenere. In questi casi, può essere necessario un programma motivazionale dettagliato, se non addirittura uno

ski/1 training specifico: se il paziente non viene attivamente sostenu­

to in questa fase, infatti, si possono perdere delle occasioni per tendere a obiettivi più ambiziosi e a lungo termine. In ogni caso, anziché proporre

ski/1 training che

mirano a una modificazione comportamentale costante e generalizzata, il soste­ gno deve concentrarsi sulla situazione del momento. Solo dopo aver ridotto l'am­ bivalenza e l'incertezza verso l'impegno al cambiamento può essere data priorità al "trattamento attivo": nei vari stadi di trattamento, la natura dell'intervento e ilfocus attentivo vanno tarati sulle priorità del momento, di modo che ne venga immedia­ tamente apprezzato il valore. Dovrebbe essere questo il principio che orienta la conduzione delle sedute, anziché una rigida interpretazione del modello a stadi. Molte persone con patologie mentali sono scarsamente interessate a risolvere il problema dell'abuso, dati i potenti e immediati effetti positivi della sostanza,

I l trattamento del l'abuso di sostanze in soggetti con di sturbi mental i gravi 1 87 la mancanza di obiettivi e di fonti alternative di piacere o, ancora, a causa della presenza di un tono dell'umore depresso e di scarsissima motivazione, molto fre­ quenti in questa popolazione.

È

stato visto come, nelle persone affette da gravi

disturbi mentali, la gestione delle contingenze (ad es., l'utilizzo di rinforzi mo­ netari) possa essere efficace nel far aumentare il numero di controlli delle urine cui i soggetti si sottopongono (Sigmon e Higgins,

2006). Nel momento in cui si è che questi comportamenti

elimina la contingenza di rinforzo, però, il rischio

adattivi tornino ai livelli precedenti e che, al contempo, le ricompense esterne ab­ biano minato la motivazione intrinseca del paziente. In ogni caso, se l'entità delle ricompense

è

contenuta, se queste vengono abbinate al riconoscimento sociale,

se l'enfasi principale del trattamento

è

posta sulla motivazione intrinseca e se si

evita l'utilizzo di ricompense, la gestione delle contingenze garantirà un'astinenza a breve termine senza il rischio che i risultati ottenuti svaniscano con il passare , del tempo (Bellack et al., 2006).

Riduzione dello stress dovuto al trattamento Le persone affette da disturbi mentali gravi risentono particolarmente degli effetti dello

stress interpersonale

(Zubin e Spring, 1 977) , che può inficiare il de­

corso del disturbo psichiatrico e dell'abuso di sostanze. Per ridurre lo

stress e otti­

mizzare la relazione terapeutica, nei programmi di trattamento integrati si evitano gli approcci diretti e stressanti, privilegiando l'impiego di tecniche supportive, che aiutino i pazienti a prendere consapevolezza dei benefici di una gestione alterna­ tiva della sostanza (per appurare gli effetti a lungo termine dell'uso di sostanze, ad esempio, si utilizza il dialogo socratico).

Filosofia della riduzione del danno In passato, i servizi avevano come unico obiettivo di trattamento l'astinenza e, in alcuni casi (come in molti programmi che si occupano di dipendenza da alcol e droghe negli Stati Uniti), si continua a perseguire questo scopo. La maggior parte dei programmi d'intervento integrati per il trattamento dell'uso di sostanze in comorbilità, d'altra parte, adotta un approccio più pragmatico, che incoraggia l'astinenza ma, al contempo, cerca di ridurre gradualmente l'uso di sostanze e i conseguenti effetti nocivi del loro utilizzo (ad esempio, incoraggiando i pazienti a utilizzare aghi sterili o pipe ad acqua, nonché a praticare sesso sicuro) . Anche se l'uso continuativo di sostanze espone questi soggetti a rischio di ricadute, molti inizialmente non desiderano mettere al primo posto l'astinenza (o non si sentono in grado di farlo). Concentrandosi sulla riduzione del danno, il terapeuta non legittima l'uso della sostanza - può infatti esprimere le proprie preoccupazioni in merito agli effetti negativi dell'uso continuativo -, ma fa in modo che il paziente punti a obiettivi intermedi e funzionali, che ne consolidano

1 88 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

la relazione terapeutica, ne migliorano la percezione di auto-efficacia, ne attenua­ no alcuni rischi e pericoli dettati dall'assunzione di sostanze e ne rafforzano la motivazione a perseguire ulteriori obiettivi.

Sensibilizzazione dei familiari Molti pazienti con uso di sostanze in comorbilità non sono facilmente coin­ volgibili nel trattamento e possono avere difficoltà a ricordare e rispettare gli ap­ puntamenti, in particolare durante le riacutizzazioni dei sintomi. A differenza di molti servizi specifici per il trattamento delle dipendenze, in cui sono previste solo sedute individuali, i programmi di trattamento integrato sensibilizzano l'intera co­ munità al fine di coinvolgere e mantenere i pazienti in trattamento (Drake et al., 1 998). Una comunicazione assertiva con i familiari può fare la differenza tra una temporanea battuta d'arresto nel trattamento e il drop-out vero e proprio, tra una lieve esacerbazione dei sintomi e una ricaduta vera e propria. Tramite incontri di sensibilizzahone è possibile coinvolgere nel trattamento altre persone significative, come ad esempio i membri della famiglia del paziente (Mueser e Fox, 2002).

ruCERCHE SUL TRATTAMENTO INTEGRATO Negli ultimi anni è aumentato il volume di ricerche sull'efficacia dei trattamen­ ti integrati. Abbiamo reperito tutti gli studi randomizzati e controllati in cui sono stati coinvolti soggetti con psicosi e abuso di sostanze tramite ricerche sui database e analisi della letteratura, nonché contattando personalmente i ricercatori a noi noti (Kavanagh e Mueser, 2007). Abbiamo escluso gli studi quasi-sperimentali, quelli che non includevano partecipanti con patologia mentale grave o abuso di sostanze e quelli che non riportavano gli esiti dell'intervento rispetto all'uso della sostanza. Sono stati identificati 20 studi, la maggior parte dei quali includeva un numero significativo di pazienti affetti da Schizofrenia, anche se molti compren­ devano anche pazienti con altre diagnosi. I campioni esaminati prevedevano sia soggetti giovani al primo episodio psicotico che pazienti con disturbi cronici e disabilitanti, e le dimensioni del campione oscillavano tra 25 e 485 soggetti, con una mediana di 1 1 6. Benché nella maggior parte degli studi ci fosse una presenza massiccia di maschi (mediana = 74%, range = 48-97%), l'età media (range = 2144, mediana = 34), la diagnosi, la cronicità e la gravità della patologia dei pazienti variavano ampiamente da studio a studio e la durata dei trial andava da 3 mesi a 5 anni a partire dalla baseline (mediana = 1 2 mesi). Anche le tipologie di intervento variavano significativamente e comprendeva­ no trattamenti residenziali, individuali o di gruppo, interventi di case management per l'erogazione di trattamenti integrati e interventi motivazionali brevi. La durata dell'intervento variava da una singola seduta di 30-45 minuti a un trattamento di comunità di tre anni.

I l trattamento del l'abuso d i sostanze in soggetti con disturbi menta l i gravi 1 89

Le prime ricerche sui programmi di trattamento integrato presentavano molti limiti, tra cui l'utilizzo di strumenti di misura poco adatti a indagare l'abuso di sostanze. Nel corso del tempo, il rigore scientifico degli studi di efficacia è note­ volmente aumentato; analizzando le pubblicazioni, abbiamo assegnato un pun­ teggio a ogni studio in base a dieci criteri metodologici (partecipazione di più del 50% dei partecipanti reclutati, diagnosi confermata da colloquio clinico, utilizzo di procedure di randomizzazione adeguate, baseline equivalente agli altri studi o controllo statistico delle differenze, equivalenza rispetto agli altri studi del tempo di contatto, meno del 33% di drop-out, controlli indipendenti di aderenza al proto­ collo, report in merito all'uso di sostanze, valutazioni cieche e analisi di intention to !rea�. Il punteggio totale di rigore metodologico, che nel 1 993 era risultato di 2, nel 2006 è passato a una media di 7 e, nel 2007, di 5,75. I dati permettono quindi di trarre alcune c9nclusioni preliminari: 1.

2.

3.

4.

Efficacia limitata dell'intervento breve. Paragonati alle condizioni di controllo, gli interventi brevi tendono ad avere effetti limitati, specialmente a lungo ter­ mine. Nel caso di disturbi co-occorrenti, il ruolo principale degli interventi brevi - come il colloquio motivazionale - sembra essere quello di coinvolge­ re il paziente nel trattamento, ma sono necessari interventi successivi prima di apprezzare miglioramenti nell'uso di sostanze o nei sintomi. Scarso aumento di ifficacia con un case managementpiù intenso. Gli studi che hanno comparato i trattamenti integrati condotti da team di trattamento di comunità con quelli proposti da team standard di case management hanno evidenziato un beneficio aggiuntivo dei primi solo limitato - se non addirittura inesistente sul consumo di sostanze o sui sintomi psichiatrici (ad es., Morse et al., 2006). Risultati migliori grazie alla terapia cognitivo-comportamentale di lunga durata. Gli in­ terventi per i Disturbi da Uso di Sostanze e per le patologie mentali gravi che si sono protratti per periodi più lunghi (ad es., da 6 a 9 mesi) e che hanno utilizzato tecniche cognitivo-comportamentali hanno avuto tendenzialmente esiti migliori. Nonostante ciò, i risultati possono non rimanere stabili nel tempo e le differenze rispetto all'uso di sostanze tra le diverse condizioni di trattamento possono non mantenersi. Solitamente, il trattamento integrato sembra essere il migliore. I programmi integrati tendono a ottenere risultati migliori rispetto a quelli non-integrati, anche se questi risultati sono ambigui e l'efficacia effettiva sull'abuso di sostanze ten­ de a essere modesta e incoerente. Analisi più approfondite della letteratura che comprendevano programmi di trattamento integrato per la comorbilità e una vasta gamma di metodologie di ricerca - come gli studi quasi-speri­ mentali - hanno comunque messo in luce una maggior efficacia di questi trattamenti (ad es., Drake et al., 2008).

1 90 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi

Le fonti di variabilità tra gli studi controllati analizzati sono: il tipo di campio­ ne (ad es., primo episodio

vs psicosi

cronica, gravità delle condizioni di comorbi­

lità, livello di instabilità abitativa), il tipo di intervento (ad es., intervento breve di potenziamento della motivazione, terapia cognitivo-comportamentale, intervento familiare, ACT, trattamento residenziale) e la durata del trattamento (dalla seduta singola fino a

3 anni di case management intensivo). La variabilità di questi parametri è talmente ampia che nessun singolo intervento standardiz­

all'interno degli studi zato

è

stato incluso in più di una pubblicazione.

DIREZIONI FUTURE: PERFEZIONARE I TRATTAMENTI È

possibile- che alcuni trattamenti esistenti rappresentino il massimo che

è

possibile offrire alle persone affette da patologia mentale grave con concomitante abuso di sostanze e che la loro efficacia solo parziale sia dovuta alla gravità dei problemi, più che alle carenze dell'intervento. In ogni caso, desideriamo offrire degli spunti di riflessione su alcuni aspetti potenzialmente rilevanti, con l'obietti­ vo di massimizzare l'efficacia delle terapie proposte: alcune di queste caratteristi­ che sono già presenti in diversi approcci, ma rimarcarle ulteriormente potrebbe comunque essere utile per affinare le pratiche correnti.

1.

Etifasi sul miglioramento della qualità di vita. Una sfida particolarmente impegna­ tiva consiste nel convincere i pazienti a lavorare sull'abuso di sostanze: se smettono di usarle, infatti, devono rinunciare a una gratificazione immediata e potente, a una fonte di benessere immediato, a un'attività ricreativa molto piacevole e, in molti casi, a gran parte dei loro contatti sociali. Per quanto ri­ guarda la qualità di vita, quindi, i benefici del trattamento devono superare le rinunce e questo deve trasmettere al paziente degli strumenti per affrontare i periodi in cui i costi sembrano superare i benefici. In alcuni casi, ciò significa concentrarsi su elementi diversi che influenzano la qualità della vita (come trovare un alloggio più consono) prima di affrontare il tema dell'abuso di sostanze.

2.

Uso sapiente delle contingenze di ritiforzo per sostenere il cambiamento iniziale e svi­ luppo di ritiforzi naturali per mantenere l'autocontrollo. Le contingenze possono prevedere piccoli incentivi pecuniari e premi per l'astinenza, parallelamente all'osservazione dei benefici derivanti da un diverso uso della sostanza. Per massimizzare i vantaggi di quest'approccio

è

opportuno concentrarsi sugli

aspetti giudicati importanti dalla persona durante la valutazione.

3.

Riduzione dell'impegno cognitivo e comportamentale. Sottoporre il paziente a un mag­ è un vantaggio, special­

gior numero di moduli di trattamento non sempre

mente se questi gli richiedono un impegno simultaneo. I pazienti con disturbi

I l trattamento del l'abuso di sostanze in soggetti con disturbi mental i gravi 1 91

4.

mentali gravi, infatti, spesso convivono con problemi di attenzione e memoria prospettica: bisogna quindi tener presente che gli strumenti volti a ricordare al paziente di utilizzare determinate strategie all'interno del proprio ambiente - o di compensare i problemi derivanti dai sintomi - possono incrementare l'efficacia del trattamento. È possibile massimizzare l'efficacia di questi stru­ menti se, di volta in volta, ci si concentra su cambiamenti anche minimi, che però influenzano positivamente le problematiche da gestire (ad esempio, per un paziente depresso, con pochi passatempi, importanti sintomi negativi e scarso funzionam�nto generale, potrebbe essere utile concentrarsi su attività piacevoli che non prevedano l'assunzione di sostanze e non richiedano una peiformance eccessiva, dato che i benefici sono trasversali ai problemi). Enfasi suipunti diforza e sui miglioramenti. Spesso, i deficit manifestati da questi pazienti sono talmente gravi e pervasivi da oscurare le loro capacità indi­ viduali e i risultati che ottengono: concentrarsi sui punti di forza mantiene alta la motivazione e l'autoefficacia sia del paziente che del terapeuta. Dato il rischio elevato di ricaduta nei comportamenti di abuso o di riacutizzazione dei sintomi (e che uno di questi fattori riattivi l'altro), può essere importante soffermarsi sui risultati ottenuti fino a quel momento. Analogamente, è ne­ cessario mantenere un atteggiamento orientato verso la guarigione, tenendo conto delle oggettive difficoltà - croniche o ricorrenti -, ma dando impor­ tanza all'autogestione del paziente e alla sua qualità di vita. Potrebbe anche essere utile considerare le implicazioni di quest'idea per i trattamenti.

DIREZIONI FUTURE: PERFEZIONARE I TRATTAMENTI BASATI SULLE EVIDENZE Considerare la ricerca qualcosa di più di un test sull'efficacia dell'integrazione dei servizi Come già accennato, il trattamento integrato - proposto da un singolo te­ rapeuta o da un team - garantisce che le persone affette da più disturbi in co­ morbilità non siano escluse dai programmi d'intervento, che questi abbiano una coerenza interna e che vengano evitati i potenziali blocchi nella comunicazione tra le parti. È difficile immaginare che un trattamento privo di queste caratteristi­ che possa essere più efficace, anche se sarebbe teoricamente possibile offrirlo in servizi distinti che, però, lavorino a stretto contatto. Il rinforzo della motivazione, la riduzione dello stress dovuto al trattamento, l'adozione di una filosofia basata sulla riduzione del danno e l'utilizzo di strategie di sensibilizzazione dei familiari sono qualità tipiche degli approcci integrati. Tuttavia, potrebbe anche esistere un servizio privo di tutti queste caratteristiche, considerato che, di per sé, l'integra­ zione non è sinonimo di efficacia.

1 92 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi Il concetto di integrazione ha aiutato i servizi che non avevano ancora adotta­ to questa visione a constatare come, spesso, le persone che vi accedono abbiano esigenze complesse. Il perfezionamento dei trattamenti, tuttavia, potrebbe richie­ dere una revisione di determinati quadri concettuali. Con l'eccezione degli inter­ venti motivazionali, infatti, è da sempre privilegiato un approccio multifattoriale: è giunto però il momento di scomporre questi interventi e il sotteso concetto di integrazione,'"allo scopo di isolare solo quegli elementi che garantiscono un esito positivo al trattamento. Determinando quali sono i fattori più efficaci e massi­ mizzandone l'impatto, sarà possibile ottimizzare gli interventi epurandoli dalle componenti superflue e riuscendo, così, a semplificare i trattamenti e a ridurre i costi. Riteniamo, infatti, che l'elemento chiave dell'integrazione non sia tanto il tipo di servizio che eroga l'intervento, quanto piuttosto l'insieme di intenti e obiettivi mirati a comprendere la molteplicità dei vissuti della persona. Ogni aspetto del trattamento considera la coesistenza di altri problemi e questa concezione menta­ le di integrazione si è fusa con aspetti più pratici, legati all'erogazione dei servizi. L'intervista motivazionale pensata per le persone affette da psicosi è caratte­ rizzata da sedute più brevi, maggiori ripetizioni e sintesi, unfocus su uno o due ar­ gomenti chiave e un maggior uso di diagrammi rispetto alla sua versione standard. La povertà del linguaggio e di contenuti di questi pazienti richiederanno maggiore sostegno e, se è presente depressione, servono sforzi più consistenti per far rievo­ care loro i successi e attribuirli alle proprie capacità. Ciò dimostra come persone diverse possano aver bisogno di questi interventi in misura differente. Anche la natura e il grado di collegamento tra i disturbi in comorbilità varia da persona a persona e l'uso di sostanze può esacerbare i sin­ tomi psicotici in un individuo ma non in un altro, che può invece manifestare i problemi più classici legati all'abuso, di natura legale ed economica. Nel pri­ mo caso, la gestione dei sintomi psicotici prevede necessariamente di intervenire sull'uso di sostanze, mentre questo potrebbe essere meno necessario nel secondo caso (ed essere rimandato, ad esempio, alla fase di prevenzione delle ricadute). Quest'approccio all'integrazione suggerisce di modificare il trattamento in base a all'analisi funzionale iniziale che includa tutti i problemi; ciò è compatibile con il concetto di integrazione e costituisce una buona prassi clinica, ma non è ancora stato testato empiricamente con studi controllati.

Utilizzo di approcci più raffinati per evidenziare gli effetti del trattamento Dagli studi emerge come sia gli interventi integrati che quelli non integrati garantiscano dei miglioramenti significativi rispetto all'abuso di sostanze, special­ mente nei primi 6-12 mesi di trattamento. Molti di questi studi, però, hanno un

I l trattamento del l'abuso d i sostanze in soggetti con distu rbi menta l i gravi 1 93 valore statistico limitato ed

è quindi difficile

dimostrare la superiorità dei tratta­

menti integrati rispetto agli approcci alternativi. Uria soluzione potrebbe essere quella di offrire un trattamento standardizzato e relativamente breve a tutti i par­ tecipanti, per poi randomizzare quei soggetti che manifestano ancora problemi legati all'abuso di sostanze una volta concluso l'intervento (ad es.,

6

mesi dopo)

e destinarli a trattam�nti più specifici. In questo modo sarebbe possibile ottimiz­ zare

i

costi dell'intervento, riducendone i tempi per quei pazienti che presentano

un rapido miglioramento rispetto alla dipendenza da sostanze nel corso del trat­ tamento integrato e potenziando gli sforzi nei confronti di quelli che, nonostante il trattamento, manifestano ancora problemi di dipendenza. Si potrebbe anche obiettare che la maggior parte delle ricerche sottostirni il reale impatto del trattamento, focalizzandosi principalmente sull'astinenza, sui momenti di ricaduta e su analoghi indici di successo finale. Dato che questa popo­ lazione clinica manifesta un decorso altalenante - caratterizzato da miglioramenti discontinui rispetto all'uso di sostanze, ai sintomi e al funzionamento generale, ma anche da battute d'arresto nel corso delle crisi sintomatiche -, considerare i cambiamenti all'interno di aree specifiche non permette di cogliere adeguatamen­ te la presenza di un andamento terapeutico positivo. Potrebbe essere necessario utilizzare degli indici più sensibili, che considerino i miglioramenti anche parziali o transitori, per rilevare gli effetti più microscopici del trattamento.

RIASSUNTO E CONCLUSIONI Nonostante i recenti perfezionamenti dei trattamenti e dei metodi di ricerca, non ci sono prove definitive che attestino la superiorità di determinati interventi sul lungo periodo. L'obiettivo

è

quindi quello di massimizzare l'efficacia dei trat­

tamenti esistenti e di spostare l'attenzione della ricerca a un livello più specifico, individuando quali sono le componenti efficaci e i predittori di risposta affidabili, nonché aumentando la sensibilità delle analisi da utilizzare in questo campo d'in­ dagine.

1 94 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

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13

IL TRATTAMENTO COGNITIVO COMPORTAMENTALE DEL TRAUMA NEI SOGGETTI AL PRIMO EPISODIO PSICOTico· Pauline Callcott, Robert Dudley, Sally Standart, Mark Freeston e Douglas Turkington

INTRODUZIONE Spesso i soggetti psicotici hanno subito uno o più traumi nel corso dell'in­ fanzia e/ o in età adulta (Larkin e Morrison,

2006)

e questo comporta una serie

di sfide per i clinici. In primo luogo, quando i pazienti presentano una sintoma­ tologia apparentemente slegata da esperienze traumatiche precoci, va appurata l'eventuale presenza di queste ultime usando tatto e sensibilità. Il modello di rife­ rimento della psicosi, inoltre, andrebbe integrato con i dati sulla frequenza delle esperienze traumatiche e quindi riformulato per giustificare la manifestazione del disagio sotto forma di sintomo psicotico, anziché di Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS) . Tutte queste informazioni costituiranno un valido supporto al trattamento e la revisione dei modelli permetterà di giungere a una formulazione del caso che giustifichi, in modo condiviso e accettabile, l'impatto del trauma sullo sviluppo e il mantenimento dei sintomi attuali, riducendo la sofferenza del paziente e aiutandolo a evitare o ritardare la ricaduta. In questo capitolo tenteremo di spiegare come il trauma si colleghi alla psicosi, in modo da sensibilizzare i clinici rispetto al suo ruolo all'interno del disturbo e da consentire loro di raccogliere informazioni con molto tatto, per poi vedere come affrontare l'esposizione al trauma in base ai modelli dei sintomi psicotici. *

Vorremmo ringraziare chi ha contribuito a questo lavoro, estendendo la nostra gratitudine a Han­ nah Osborne, che ci ha assistito nella raccolta dei dati, così come a Brian Martindale e altri colleghi del servizio di intervento precoce per la psicosi, che ci hanno aiutato a reclutare i partecipanti e hanno sostenuto la nostra ricerca.

1 98 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi Esporremo infine alcuni casi che illustrano le modificazioni che occorre apporta­ re alla TCC tenendo conto della presenza di questi processi. Nel perseguire questi obiettivi, diverrà chiaro come non esista una relazione univoca tra il trauma e le esperienze psicotiche; in ogni caso, è di fondamentale importanza comprendere e considerare il ruolo che può aver giocato l'esperienza traumatica per riuscire a stabilire una solida alleanza terapeutica e personalizzare la TCC, riducendo al minimo la sofferenza associata ai sintomi psicotici.

IL RUOLO DEL TRAUMA NELLA PSICOSI Trauma in età infantile Per alcune persone, le esperienze traumatiche della prima infanzia rappresenta­ no un fattore di vulnerabilità per le difficoltà future, inclusa la comparsa delle psi­ cosi. Sappiamo questo grazie al lavoro di ricercatori come Janssen e collaboratori (2004) che, in uno studio prospettico, hanno reclutato dalla popolazione generale un campione di oltre 4.000 soggetti che non manifestavano sintomi psicotici alla baseline. Un'analisi relativa allo sviluppo di esperienze psicotiche condotta dopo due anni ha messo in luce come chi era stato abusato prima dei 1 6 anni avesse una maggior probabilità di manifestare sintomi psicotici. Questi dati indicano anche l'esistenza di un rapporto "dose-risposta": rispetto al gruppo di persone non abusate, chi aveva subito un abuso "lieve" aveva il doppio di probabilità di sviluppare sintomi psicotici nel biennio successivo, mentre chi aveva subito un abuso "grave" aveva una probabilità addirittura di 48 volte maggiore. Le prove dimostrano, quindi, che le esperienze traumatiche precoci incremen­ tano il rischio della successiva comparsa di sintomi psicotici e che, nello speci­ fico, può esserci un'associazione tra l'abuso in età infantile e la vulnerabilità alle esperienze allucinatorie. Ensink (1 992), ad esempio, ha rilevato come il 27% dei soggetti che aveva subito incesto manifestasse allucinazioni per tutta la vita. In uno studio su 200 pazienti ambulatoriali, Read e collaboratori (2006) hanno ri­ levato la presenza di allucinazioni nel 1 9% di pazienti non abusati, nel 47% dei soggetti esposti ad abuso fisico nell'infanzia, nel 55% di quelli esposti ad abuso sessuale e nel 7 1 % di chi li aveva subiti entrambi. C'è quindi un'associazione tra esperienze traumatiche precoci e vulnerabilità ai sintomi psicotici in generale e alle allucinazioni in particolare - ma, dato che non tutte le persone psicotiche hanno subito un trauma nel corso dell'infanzia, va anche considerato il possibile ruolo dei traumi in età adulta. -

Trauma in età adulta Nei pazienti psicotici si possono riscontrare sintomi di DPTS non preceden­ temente identificati e alte percentuali di eventi traumatici vissuti in età adulta

Il trattamento cognitivo-comportamenta le del trauma 1 99 (Larkin e Morrison, 2006). Come vedremo nei paragrafi successivi, il trauma può influire in diversi modi sulla comparsa della psicosi. Il trauma comefattore precipitante - o di innesco -per la psicosi Le aggressioni - di tipo violento o sessuale - e gli stupri possono superare le capacità di coping del soggetto e, quindi, fungere da fattori di innesco per la com­

parsa di una crisi psicotica. Di nuovo, si riscontra una particolare associazione tra il trauma e la comparsa di allucinazioni. Romme ed Escher (1 996) hanno rilevato come, nel 70% dei soggetti, le allu­ cinazioni comparissero dopo un'esperienza traumatica (si veda anche il capito­ lo 2), sebbene sotto la definizione di "trauma" rientrassero incidenti, ma anche traslochi, innamoramenti, gravidanze e altre situazioni che non necessariamente avrebbero potuto soddisfare i criteri per il DPTS. Per far chiarezza, Honig e col­ laboratori (1 998) hanno intervistato tre gruppi di persone affette da allucinazioni (soggetti non clinici, pazienti con Disturbo Dissociativo della Coscienza e pazien­ ti schizofrenici), scoprendo come in molti casi avessero subito un abuso (emoti­ vo, fisico o sessuale) e come comunque, in entrambi i gruppi clinici, la maggior parte dei soggetti facesse risalire l'esordio delle manifestazioni allucinatorie a un particolare trauma.

Interazione tra trauma in età adulta e preesistente vulnerabilità alla psicosi Le ricerche sperimentali indicano che le esperienze traumatiche vengono in­

terpretate diversamente a seconda dello stile soggettivo di elaborazione delle in­ formazioni; ciò fa ipotizzare che esista una possibile relazione tra una maggior vulnerabilità alla psicosi e un impatto più negativo del trauma. Secondo Steel e collaboratori (2008), lo stile di elaborazione dell'informazione dei soggetti a rischio psicotico è caratterizzato da una "scarsa integrazione percettiva": l'infor­ mazione attuale, cioè, non si integra adeguatamente con le esperienze passate. Per verificare quest'ipotesi, Holmes e Steel (2004) hanno mostrato ad alcuni soggetti non clinici un video di un incidente (per riprodurre un'esperienza traumatica), chiedendo loro di riferire la frequenza di immagini o pensieri intrusivi nella setti­ mana successiva. Effettivamente, chi presentava una sintomatologia maggiore alla baseline riferiva più facilmente la presenza di pensieri intrusivi.

Psicosi comefattore di rischio per il trauma La psicosi può anche essere antecedente all'evento traumatico. Nei primi stadi di sviluppo dei sintomi psicotici, ad esempio, il paziente può iniziare ad accusare o

minacciare gli altri a causa del timore generato dalle allucinazioni o dalle credenze deliranti, mettendosi quindi in situazioni che aumentano il rischio di sperimentare un'esperienza traumatica. Questi atteggiamenti possono effettivamente indurre

200 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi gli altri a reagire in modo ostile e talvolta innescare addirittura un'aggressione. Se il paziente cerca di gestire i sintomi emergenti con l'assunzione eccessiva di alcol o sostanze illegali, poi, amplifica involontariamente il rischio di essere vittima di eventi avversi. Una volta che la psicosi si è stabilizzata, la persona può essere priva di supporti sociali o di una struttura lavorativa, della vicinanza della famiglia o di relazioni interpersonali importanti, mettendosi quindi in situazioni in cui è più facile essere vittimizzati e sfruttati. Una psicosi emergente o stabilizzata, quindi, incrementa potenzialmente il rischio di essere vittima di esperienze traumatiche. Una delle sfide più impegnative per il terapeuta consiste nel lavorare col pa­ ziente per aiutarlo a collegare le esperienze traumatiche ai sintomi, in modo da determinare se questi siano riconducibili a specifici stressor. Un'altra complicazione è rappresentata dal fatto che molti professionisti, per fare diagnosi e valutare i rischi, sono più abituati a considerare la mera presenza dei sintomi, anziché il loro contenuto e significato. Ciò potrebbe rappresenta­ re un'occasione sprecata, come si evince dal commovente racconto di Boevnik (2006) sulla sua esperienza pluriennale come utente dei servizi di salute mentale: Nessuno mi ha mai chiesto cosa mi era successo. Nessuno mi ha mai domandato: "cos'è che ti ha fatto impazzire?". Sono stato osservato, diagnosticato e trattato come una persona disturbata, ma nessuno si è mai posto il problema di capire cosa

mi fosse capitato nella vita. (Boevnik, 2006, p. 1 8)

È però di fondamentale importanza capire perché la persona abbia manifesta­ to sintomi psicotici anziché un DPTS. Ciò è rilevante sia a livello teorico che clini­ co, dato che, finora, gli interventi cognitivo-comportamentali per il DPTS si sono dimostrati più efficaci di quelli per il trattamento della psicosi. Alla stragrande maggioranza delle persone psicotiche non viene offerta una TCCp specifica, ma solo una terapia farmacologica, che, pur risultando solitamente efficace (Davis et al., 1 993), sembra essere inadeguata per circa il 60% dei soggetti, che continuano a manifestare sintomi residui - positivi e negativi - anche dopo il trattamento (Curson et al., 1 988). È possibile che la TCC abbia un impatto così limitato per­ ché non viene attribuito il giusto peso alle esperienze traumatiche alla base del problema, evitando di affrontarle direttamente nel corso del trattamento.

MODELLI DEL TRAUMA E DELLA PSICOSI Nella TCCp, i diversi modelli teorici che illustrano lo sviluppo e il manteni­ mento dei sintomi psicotici (ad es., Garety et al., 2001) hanno in comune alcu­ ni elementi. Come prima cosa, la sofferenza è attribuita alla valutazione di un determinato evento; questa valutazione è a sua volta riconducibile a credenze

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 201 più stabili, che si sono formate a causa delle esperienze vissute nel corso dello sviluppo. L'esordio psicotico è scatenato da eventi precipitanti rispetto ai quali le capacità di coping della persona sono insufficienti, oppure la cui risonanza - o il cui significato - la fa accedere alle credenze più negative su di sé o sugli altri. In tutti i modelli, infine, l'obiettivo del trattamento non è la scomparsa dei sintomi, quanto piuttosto una rivalutazione dell'esperienza, che riduca il grado di sofferenza ad essa associato e il suo impatto sul comportamento del paziente. Nonostante la comprovata esistenza di alcuni meccanismi chiave, le prove relative all'efficacia dei trattamenti basati su questi modelli sono ancora scarse. Considerato il ruolo del trauma nella psicosi (Larkin e Morrison, 2006), que­ sti modelli sono stati recentemente rivisti per includervi alcune caratteristiche di quello del DPTS (ad es., Ehlers e Clark, 2000). Per comprendere lo sviluppo e il mantenimento della sofferenza e guidare le scelte del trattamento, alla base del­ la formulazione del caso dev'esserci l'esperienza peculiare della persona. Questi modelli devono rendere conto dell'impatto del trauma, creando dei collegamenti tra le esperienze di vita, gli eventi traumatici, le credenze su di sé e sugli altri, i sin­ tomi e le condizioni attuali del paziente. Come già accennato, infatti, coloro che soffrono di psicosi hanno vissuto precocemente degli eventi avversi, che possono aver contribuito allo sviluppo di convinzioni negative su di sé (come persone vul­ nerabili, prive di valore o non degne di essere amate) e sugli altri (maligni, crudeli e rifiutanti) . Garety e collaboratori (2001) hanno sottolineato il ruolo delle esperienze pre­ coci avverse nel determinare una vulnerabilità cognitiva alla psicosi. Questo per­ corso di sviluppo determinerebbe un modello multifattoriale di mantenimento, rappresentato nella figura 1 3. 1 . Analogamente, Birchwood e collaboratori (2000) ritengono che gli schemi interpersonali siano importanti per stabilire la modalità di elaborazione soggettiva delle allucinazioni: è più probabile, ad esempio, che chi ha alle spalle dei vissuti di emarginazione e subordinazione nelle relazioni interpersonali assuma lo stesso atteggiamento nei confronti delle voci. Il lavoro di Morrison (Larkin e Morrison, 2006) mette in luce come chi è stato esposto a un trauma - in particolare nel cor­ so dell'infanzia - possa essersi creato una falsa percezione di sé e altre credenze patogene: è come se, nelle persone abusate nell'infanzia, prevalessero schemi di sfiducia e vulnerabilità. Diversi studi suggeriscono come, tra i soggetti psicotici, chi è stato abusato da bambino sia più incline a manifestare sintomi dissociativi. Ross e collaboratori (1994) hanno reclutato 84 persone con diagnosi di Schizofrenia, dimostrando come una storia di abuso infantile si associasse a punteggi più elevati sia alle scale di valutazione delle esperienze dissociative, sia a quelle relative ai sintomi positivi della Schizofrenia.

202 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi Esperienze nel corso dello sviluppo

Credenze su di sé,

Esperienze anomale

sul mondo e sugli altri

\

l-



Evento c____ __ ___,

Stile di elaborazione dell'informazione

. - --

l(:

'-/



Saltare alle conclusioni

Attribuzioni esterne ----' -

Ricerca di significato

Valutazione della minaccia





,�

·--------�---------, r-----fi----__---. z--� Rea i oni si olog ic h e A n si pau ra

'-.. :::..

Evitamento, ruminazione, ipervigilanza

Soppressione del pensiero

FIG.

1 3. 1 . Un modello di mantenimento dei sintomi psicotici basato sul lavoro di Garety e collaboratori (2001).

La dissociazione può rivestire un ruolo importante nella genesi dei sintomi psicotici, incrementando la percezione di esperienze anomale (come ricordi intru­ sivi,flashback, attivazione fisica e paura - figura 1 3. 1) e, di conseguenza, provocan­ do la comparsa dei sintomi. La particolarità è che queste esperienze non vengono consciamente collegate al trauma, forse perché, durante l'esperienza traumatica, il paziente si trovava in uno stato dissociativo e, quindi, il suo ricordo presenta delle lacune temporali o spaziali circoscritte. È probabile, quindi, che qualsiasi fenome­ no che faccia rivivere l'esperienza - come un flashback - venga percepito come un qualcosa di inusuale, ma scollegato dall'evento traumatico. Se una persona adulta ha subito un trauma mentre era sotto l'effetto di alcol o droghe valuterà più facilmente gli eventuali ricordi intrusivi o i flashback come esperienze anomale inspiegabili, dato che l'alterazione dello stato di coscienza indotto dalle sostanze potrebbe averne compromesso la corretta codifica al mo­ mento del trauma stesso.

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 203 Se un trauma h a scatenato l a comparsa dei sintomi psicotici, l a visione d i s é o degli altri del paziente potrebbe risultare compromessa. Ad esempio, se una per­ sona che considera gli altri generalmente buoni, gentili e affettuosi, subisse un'ag­ gressione, può esserle molto difficile integrare questi punti di vista e, per dare un senso a quanto accaduto, può formulare un'interpretazione paranoidea delirante. Ancora, se generalmente gli altri sono ritenuti gentili e premurosi, la crudeltà o la scarsa cortesia possono essere giustificate immaginando di non avere avuto a che fare con persone, ma con alieni.

È chiaro, quindi, come le esperienze traumatiche

influenzino lo sviluppo e il mantenimento dei sintomi psicotici (in particolare del­ le credenze deliranti e delle allucinazioni uditive) a causa del conflitto che creano con le credenze su di sé e sugli altri preesistenti.

È

anche probabile che si verifi­

chino sempre più esperienze anomale collegate ai traumi - non necessariamente a quello originario - a causa della dissociazione o dell'abuso di alcol o sostanze, che alterano la capacità di elaborare adeguatamente le esperienze.

TCC DELLA PSICOSI (TCCP) BASATA SULLA FORMULAZIONE DEL CASO Il secondo obiettivo di questo capitolo

è quello di illustrare

come sia possibile

integrare la TCCp con i modelli della psicosi che incorporino il trattamento del trauma. Il modello del DPTS di Ehlers e Clark

(2000)

si occupa specificamente

dell'elaborazione dei ricordi associati al trauma: i fastidiosi foshback sembrano in­ fatti derivare da un'elaborazione solo parziale di tali ricordi. Il trattamento prevede quindi di "rivivere" questi ricordi esponendosi ad essi e utilizzando tecniche quali la riattribuzione verbale e la scoperta guidata, per consentire l'integrazione del ri­ cordo traumatico in memoria senza che esso scateni più le emozioni associate. Nel caso di esperienze di abuso infantile, i cui ricordi potrebbero essere più confusi, Smucker (Smucker e Dancu,

1 999)

suggerisce di utilizzare un modello

di intervento in tre fasi: nella prima (esposizione), dopo che paziente e terapeuta hanno esaminato i flashback, si inizia il processo di esposizione ai ricordi. La fase successiva

è quella dell' empowerment, in cui il sé adulto viene introdotto nel ricordo

traumatico tramite l'immaginazione guidata, in modo che possa parlare con il sé abusato "da uomo a uomo". L'ultima fase, dell'accudimento di sé, prevede di far dialogare l'adulto con se stesso bambino, perdonandolo. Per ridurre la sofferenza associata alla rievocazione delle immagini mentali - e gestire le allucinazioni visive e i foshback - Smucker utilizza anche la "trasforma­ zione" delle immagini, chiedendo alla persona di commentare le "cose che in esse non vanno" e di trasformare le rappresentazioni spaventose e disturbanti in qualcosa di divertente. Grazie agli attuali modelli di comprensione delle psicosi

è possibile

capire che

ruolo assuma il trauma. Le prove empiriche, però, sono ancora piuttosto scarse e

2 04 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi non è ben chiaro come gestire al meglio il vissuto traumatico nel contesto di una psicosi conclamata: è per questo che possono essere utili gli studi su casi singoli (si vedano Larkin e Morrison, 2006). Lo scopo finale di questq capitolo è quello di descrivere il lavoro di ricerca di un terapeuta cognitivista che si è occupato di pazienti al primo episodio psicotico, tentando di adattare i trattamenti e di arriva­ re al cuore degli elementi traumatici che giocano un ruolo nella psicosi. Di seguito viene proposta una panoramica sul setting in cui si è svolto il suo lavoro e sulla natura del trattamento che propone.

Intervento precoce per le psicosi: contesto Un terapeuta cognitivo lavorava in un servizio EIP (Ear!J Intervention in P.ry­ chosis) ai cui utenti venivano offerti vari interventi (tra cui case management, terapia farmacologica, inserimento lavorativo e sociale, coinvolgimento e intervento fa­ miliare). Il servizio aveva l'obiettivo di promuovere il funzionamento ottimale della persona e, all'interno di questo contesto, la TCC rappresentava un interven­ to specifico per il trauma.

Formazione e capacità del terapeuta Il terapeuta era un infermiere psichiatrico, con una formazione post-laurea in terapia cognitiva e una comprovata esperienza lavorativa con pazienti affetti da depressione, ansia e DPTS.

Partecipanti Sono stati identificati e reclutati 1 2 pazienti: 1 0 hanno partecipato a più di 4 sedute e 7 hanno effettivamente completato il trattamento. È da quest'ultimo gruppo che abbiamo tratto la casistica e gli esempi descritti in questo capitolo. Tutti e 1 2 i partecipanti, almeno per un periodo, erano stati sottoposti a ricovero ospedaliero e avevano avuto una qualche forma di esperienza allucinatoria, so­ prattutto uditiva, ma anche sensoriale o visiva.

Contenuto e formato della terapia Le sedute erano ambulatoriali (anche se, spesso, ci si recava a casa della persona) e a cadenza settimanale, con una media di 1 5 incontri (in un range da 2 a 30) nel corso di 5 mesi. La TCC praticata era basata sui modelli della psicosi (Garety et al., 2001) e del DPTS (Ehlers e Clark, 2000), basati sulle evidenze, e prevedeva l'uso dei manuali di trattamento TCCp (Kingdon e Turkington, 2005). La TCCp è stata scelta come approccio di elezione sia per la sua comprovata efficacia in relazione alla Schizofrenia e al DPTS, sia per la sua capacità di coinvolgere il paziente nel trat­ tamento, cosa importante dovendogli chiedere di rievocare esperienze traumatiche potenzialmente molto dolorose. Le strategie finalizzate a coinvolgere il paziente

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 205 includevano il domandargli apertamente quale fosse la natura dell'esperienza trau­ matica, il mettersi nei suoi panni, il lavorare su una lista di problemi da lui proposta e

il concentrarsi su obiettivi condivisi per ridurre la sua sofferenza. Gli obiettivi principali riguardavano la riduzione dello stress e della possibilità

di ricaduta, la promozione dei punti di forza e la costruzione della resilienza: non si è ritenuto necessario bloccare la comparsa dei sintomi, ma si è lavorato per ridurne l'impatto. La psicosi

è un

problema complesso, con implicazioni sia per l'individuo che

per la sua famiglia, dato che comporta problemi di tipo pratico, economico e abitativo, lavorativo ed educativo, sociale e interpersonale. Per aiutare i pazienti a gestire queste difficoltà, è stato essenziale il ruolo del coordinatore del progetto d'intervento, che ha permesso al terapeuta di concentrarsi sul trattamento del trauma.

Risultati Nel riportare i risultati, è importante evidenziare come nessun paziente sot­ toposto alla TCCp orientata al trauma sia stato ricoverato in ospedale durante la terapia. Dato che questo approccio può procurare elevati livelli di sofferenza nell'affrontare gli argomenti correlati al trauma, è fondamentale sapere che que­ sto non rischia necessariamente di provocare una ricaduta. Nel corso della TCCp, se necessario, è stato offerto offerto un supporto psichiatrico supplementare, in termini di sedazione notturna e di aumento del numero delle visite di controllo. Sono emersi anche dati relativi a un miglioramento del funzionamento genera­ le: alla fine del trattamento, un partecipante ha sospeso l'assunzione di antipsicotici e antidepressivi e ha iniziato a lavorare (dopo un breve programma di reinseri­ mento lavorativo, affiancato da un volontario), un altro ha stabilito una relazione sentimentale duratura (diventando anche padre) e un terzo ha ripreso a studiare a tempo pieno. Naturalmente, dobbiamo essere cauti nell'interpretare i risultati ot­ tenuti su un campione così ristretto, ma c'è ragione di essere ottimisti e di ritenere che questa forma di terapia, in combinazione con altri elementi del servizio EIP, abbia aiutato gli utenti a raggiungere obiettivi importanti. Lo scopo principale della ricerca, comunque, era quello di riuscire a stabilire il ruolo dei traumi nel contesto della psicosi e a comprendere come adattare gli approcci terapeutici per risolvere i diversi casi. Riporteremo qui di seguito alcuni esempi che illustrano le caratteristi­ che principali del caso e le modalità di trattamento utilizzate.

TRAUMA SINGOLO NELL'ADULTO: UN CASO CLINICO A. era un uomo di

21

anni che era stato aggredito da tre persone. I dettagli ef­

fettivi e i ricordi dell'esperienza erano abbastanza vaghi dato che, al momento del fatto, il paziente era sotto effetto di alcol e altre sostanze illegali. Pur non avendo

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

2 06

alle spalle una storia di psicosi, circa tre mesi dopo l'evento A. si era presentato al servizio lamentando paranoia, allucinazioni visive e uditive. Durante il ricovero, durato 1 2 giorni,

è

stato sottoposto a una terapia farmacologica.

A. ha iniziato il trattamento psicoterapeutico alcuni mesi dopo la dimissione, dato il persistere dei sintomi: temeva di venir aggredito non solo da chi lo aveva già fatto in passato, ma anche da altre persone. Evitava di uscire e, se lo faceva, pretendeva di essere accompagnato da un familiare di fiducia; diceva inoltre di stare costantemente "in guardia" e di sentirsi tremendamente in ansia (cosa che tentava di gestire fumando

cannabis).

Anche se non ricordava i particolari dell'ag­

gressione, diceva che, quando si sentiva particolarmente attivato, aveva delle im­ magini mentali intrusive di persone che lo attaccavano. Ritenendo di riuscire a leggere nella mente degli altri, era certo che i pensieri e le intenzioni altrui fossero malevole e, quindi, credeva di essere a rischio di aggressione. Basandosi sul modello rappresentato nella figura 1 3. 1 , si

shback

è

capito come i fla­

provocassero un'intensa attivazione anche negli ambienti in cui A. era og­

gettivamente al sicuro. Data l'assenza di ricordi dell'evento traumatico, ciò non ve­ niva collegato al passato, ma vissuto come una minaccia attuale. Quest'esperienza "anomala" era la conseguenza di un

bias nell'elaborazione

dell'informazione, che

portava A. a trarre conclusioni affrettate e a basarsi su un'attribuzione esterna: l'at­ tivazione, quindi, veniva interpretata come una conferma della minacciosità degli altri. A. tentava di gestire la cosa facendo estrema attenzione ai segnali di ostilità o malevolenza da parte delle altre persone ed evitando la maggior parte delle situa­ zioni. Dato che non aveva mai verificato se fosse effettivamente perseguitato, con­ tinuava a credere che gli altri non fossero affidabili e che le sue strane esperienze fossero la conferma che c'era effettivamente qualcosa che non andava.

Trattamento In questo caso si

è usato

l'approccio TCCp

standard, ma non è

stato possibile

esporre A. al ricordo traumatico in quanto, al momento dell'aggressione, era sot­ to l'effetto di alcol e farmaci e, quindi, la codifica dell'informazione era stata solo parziale. Ciò ha fatto sì che per il paziente non fosse possibile recuperare il ricor­ do e ri-esporsi ad esso: la decisione di procedere comunque in tal senso avrebbe potuto dar vita a un ipotetico scenario "e se . . . ", potenzialmente controprodu­ cente. Data l'impossibilità di accesso al trauma originario, si sono analizzate le conseguenze dell'aggressione basandosi sul modello rappresentato in figura 1 3. 1 , che

è

servito d a base per la concettualizzazione del caso e h a contribuito a fare in

al è stata poi perfezionata consideran­

modo che il paziente desse un significato meno angosciante e più funzionale senso di minaccia percepito. La formulazione

do il modello del DPTS di Ehlers e Clark (2000), in cui l'attivazione fisiologica è considerata una reazione ai ricordi intrusivi. Era fondamentale fornire al paziente

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 2 0 7 una spiegazione accettabile che giustificasse l a sua paura e l'intensa attivazione da lui sperimentata fuori casa. L'obiettivo della terapia non è stato quello di convin­ cerlo dell'assenza di cospirazioni contro di lui, bensì di fornirgli una spiegazione alternativa e più realistica ai suoi vissuti. Le esperienze di A. sono state riconcettualizzate come flashback, parlando più di DPTS che di psicosi. Le immagini intrusive sono state collegate all'ansia, giusti­ ficandone la presenza con lo stato alterato di coscienza al momento dell'aggres­ sione e, quindi, con l'incapacità di codificare efficacemente i ricordi. Si è anche affrontata la convinzione del paziente che la causa di quanto vissuto al momento fosse da attribuire alla pericolosità degli altri - e quindi incontrollabile - usando il "metodo della moviola". Questa strategia, utilizzata anche nei trattamenti del DPTS, consiste nel chiedere al paziente di "proiettare mentalmente" un'immagi­ ne o un ricordo (in questo caso solo parziale), per poi bloccarlo o "congelarlo", facendolo scorrere avanti o indietro. Questa tecnica, assieme alla scoperta gui­ data, ha aiutato il paziente a stabilire come, in effetti, potesse in qualche modo controllare la propria esperienza, che ben si adattava alla spiegazione alternativa (la formulazione) che si trattasse solo di flashback, e non di segnali di ostilità da parte degli altri. Dal momento che era stato aggredito, non sorprendeva che fosse restio a uscire di casa e che non si sentisse al sicuro fuori dalle pareti domestiche. Per aiutarlo a gestire le proprie paure, ci si è serviti di esperimenti comportamentali, volti a fargli verificare l'inutilità dello stare "in allerta" quando usciva e a fargli capire come, essendo vigile, l'attenzione fosse costantemente diretta verso mi­ nacce potenziali, con conseguente impatto sul suo livello d'ansia. Si sono anche messi in luce gli effetti dell'evitamento e, col tempo, A. ha accettato di recarsi in alcuni posti da solo, arrivando anche a tornare sul luogo in cui era stato aggredito senza stare "in allerta". Si è anche promosso l'utilizzo di forme di gestione dello stress alternative alla cannabis, circoscrivendo l'uso della sostanza a quando era in compagnia di amici.

Risultati e riassunto A. ha riferito una riduzione della sofferenza associata ai flashback, una minor convinzione nella credenza che gli altri volessero aggredirlo e un miglioramento del tono dell'umore; ciò si rifletteva nella capacità di recarsi da solo in molti posti. Come si è visto, non è stato possibile avvalersi di interventi terapeutici mirati ad esporsi al ricordo del trauma, perché mancavano le informazioni essenziali per il recupero del materiale mnestico. Ci si è quindi concentrati sul tentativo di giustificare la sensazione attuale di minaccia, normalizzando la presenza delle esperienze percettive come conseguenza del trauma. La formulazione del caso ha fornito al paziente una spiegazione meno angosciante delle proprie esperienze del

2 08 Terapia cognitivo-comportamenta le delle psicosi momento e questa è stata verificata attivamente con esperimenti comportamenta­

li, volti a promuovere un aumento delle attività e a ridurre gli evitamenti.

L'IMPATTO DI TRAUMI MULTIPLI: ESEMPIO DI UN CASO Tratteremo ora il caso di dall'ex Unione Sovietica.

B.

B.,

una donna di

22

servizi poco dopo il suo arrivo e aveva trascorso

flashback,

anni arrivata nel Regno Unito

viveva in Inghilterra da tre anni, si era presentata ai

18

mesi in ospedale. Riferiva

incubi, sospettosità e diffidenza nei confronti degli altri, allucinazioni

visive e uditive e tono dell'umore basso. Aveva tentato più volte di farsi del male e, durante il ricovero, le erano stati prescritti diversi farmaci antipsicotici, che aveva continuato ad assumere anche dopo la dimissione.

B.

diceva di aver vissuto diverse esperienze traumatiche; in particolare, aveva

assistito all'uccisione di alcuni membri della sua famiglia durante l'adolescenza. Aveva anche raccontato come, da bambina, fosse stata rapita e trattenuta in un'al­ tra famiglia per diversi mesi. Non sapeva né come né perché le fosse capitato ciò, ma riteneva che la sua famiglia avesse avuto un ruolo nell'accaduto; questo aveva creato in lei sentimenti contrastanti, specialmente nei confronti della madre che, secondo lei, avrebbe dovuto proteggerla. Usando la figura caso, si

è

1 3. 1

per costruire assieme a

B.

una formulazione del suo

compreso come le esperienze precoci l'avessero portata a sviluppare

credenze negative sugli altri e ad essere particolarmente cauta, sospettosa e diffi­ dente nei confronti loro. I traumi in sé non giustificavano l'esordio psicotico, ma l'aver assistito all'ec­ cidio dei suoi familiari e la paura per la propria incolumità avevano provocato, in seguito, la comparsa di ricordi intrusivi. In particolare,

B. vedeva un membro della

sua famiglia che tentava di parlarle, accusandola della carneficina. La cosa veniva vissuta come un flashback, più che come un'allucinazione, anche se il fatto non era mai accaduto. Quest'esperienza le procurava molta ansia, facendola sentire in pericolo, ma B. era anche profondamente triste per la perdita dei propri familiari. Cercava di gestire la situazione spostando lo sguardo dall'immagine e distraendo­ si, in modo da scacciare la visione. Quando ciò accadeva, però,

B.

si dissociava a

posteriori e non riusciva a ricordare dei significativi intervalli di tempo.

Trattamento Anche se in questo caso erano presenti degli elementi di DPTS, la natura estrema dei vissuti di questa persona comportava diverse problematiche dal pun­ to di vista terapeutico. Nel trattamento, si

è

tentato di normalizzare i flashback e

i sintomi psicotici: la normalizzazione, però, non deve mai lasciar credere che quanto

è

accaduto sia normale o che le esperienze psicotiche e i sintomi siano

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 209 comuni o poco importanti. Con il termine "normalizzazione", piuttosto, si sotto­ linea come una reazione simile all'esperienza traumatica rientri nella gamma delle reazioni normali e come la maggior parte delle persone abbia dei flashback dopo un trauma, così come molti riferiscono di sentire occasionalmente delle voci nel corso della vita. Chi ha subito un trauma in età infantile può avere degli schemi di vulnerabi­ lità personale e di pericolosità altrui che rendono difficile la partecipazione alla terapia. N el trattamento, quindi,

è

stata posta particolare enfasi sulla costruzione

della relazione, esplicitando volutamente le aspettative degli altri (ad es., del tera­ peuta). Le domande relative alle esperienze traumatiche sono state poste con un esplicito razionale condiviso con B. Una volta convenuto con lei che poteva essere importante esaminare queste esperienze per comprendere le sue difficoltà attuali, le

è

stata proposta una concettualizzazione basata sulla figura

trattamento,

B.

1 3. 1 .

Nel corso del

ha iniziato a capire come le sue difficoltà attuali potessero essere

considerate come una forma di DPTS, ed essere stata vittima di un trauma era ovviamente meno doloroso rispetto all'essere folle. Con questo razionale sono state poi introdotte alcune tecniche di gestione dei sintomi per ridurre il livello di attivazione. Un altro obiettivo

è

stato quello di portarla alla comprensione delle

esperienze allucinatorie: grazie alla formulazione,

B. ha capito come le allucinazio­

ni sui familiari fossero delle esperienze intrusive, comprensibili considerando che aveva assistito all'uccisione dei suoi parenti e tenendo conto che la persona oggetto dell'allucinazione aveva avuto un ruolo importante nella sua vita. I pensieri e le im­ magini intrusive sono state interpretate come esperienze anomale, che prendevano la forma di un familiare che dialogava con lei. Sono stati realizzati degli esperimenti comportamentali, che consistevano nell'osservare l'allucinazione e conversare con lei, anziché evitarla guardando altrove;

B.

ha iniziato a capire come questa persona

non le apparisse solo per cercare vendetta, ma anche per altre ragioni. Una volta ridotta la sofferenza causata dalle allucinazioni,

è

stato possibile

lavorare direttamente sul trauma, usando la ristrutturazione cognitiva e l'esposi­ zione al ricordo di particolari momenti dell'esperienza traumatica. Vi era però la complicazione dell'elevato livello di dissociazione sperimentato da

B.

sia durante

il trauma, sia quando veniva attualmente sottoposta a stress. Per aiutarla a rimanere aderente alla realtà durante il lavoro sul ricordo, ci si è serviti di tecniche di "anco­ raggio", in cui sono stati usati alcuni oggetti personali (foto scattate in ambiente domestico e piccoli portachiavi) con particolare valore affettivo. Rielaborare le esperienze passate ha fatto riemergere alla memoria di B. l'entità degli orrori cui aveva assistito, il forte senso di colpa per essere sopravvissuta e la convinzione che la responsabilità della morte dei familiari fosse da addossare a lei. Questa convinzione

è

stata messa delicatamente in discussione, usando la tecnica

del grafico a torta, per far individuare alla paziente altri fattori importanti legati

2 1 O Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi alla morte dei suoi familiari che, altrimenti, sarebbero potuti rimanere nell'om­ bra. Il lavoro

è

stato lento e difficile: B. era stata vittima di molteplici traumi e la

possibilità di elaborare il dolore per le perdite subite era stata compromessa dalla necessità di fuggire dal suo paese di origine, dall'esigenza di essere ricoverata e dalla richiesta di asilo politico. L'essere stata precocemente rapita e presa in custodia da un'altra famiglia era stata un'esperienza chiaramente dannosa, che aveva provocato in lei una sorta di ambivalenza nei confronti della famiglia d'origine e la tendenza a sospettare che gli altri potessero deluderla o abbandonarla. Un processo chiave della terapia la creazione di un rapporto di fiducia con la paziente, che

è

è

stata

stata costantemente

incoraggiata a cercare di soddisfare le proprie necessità relazionali in modo adul­ to, anziché mantenere un atteggiamento di chiusura e rifiuto a priori. B. riteneva che gli altri dovessero sempre prendersi cura di lei: se ciò non accadeva, voleva dire che se ne infischiavano. Per aiutarla a superare questa idea disfunzionale e a migliorare il proprio tono dell'umore,

è

stato utilizzato un approccio basato sulla

riattivazione comportamentale, in cui le attività principali prevedevano un allar­ gamento della rete delle amicizie e delle relazioni interpersonali, per darle modo di vedere come i suoi bisogni potessero essere soddisfatti. Chiaramente, tutto ciò tenendo conto della sua posizione molto svantaggiata, di persona richiedente asilo politico, con scarse disponibilità economiche, condizioni abitative precarie, ridotti contatti sociali, difficoltà linguistiche e incapacità di trovare lavoro; tutti fattori che non contribuivano a una strutturazione delle attività quotidiane e com­ portavano severe ristrettezze economiche. con lo psichiatra e

il case manager,

È

stato quindi necessario collaborare

che si sono occupati dei fattori che incidevano

sul funzionamento generale (esigenze abitative, richiesta di asilo, gestione dei far­ maci, ecc.). Con l'aiuto del coordinatore, infine,

è

stato proposto alla paziente un

piano di prevenzione delle ricadute.

Risultati e riassunto B. ha partecipato a

32

sedute e, alla valutazione al termine del trattamento, si

sono notati un miglioramento del tono dell'umore, una riduzione della frequenza delle allucinazioni visive e uditive e della sofferenza ad esse associata. La paziente non

è

più stata ricoverata in ospedale e, dopo la conclusione della terapia, ha

instaurato una relazione sentimentale stabile e ha avuto il suo primo figlio. Vista l'importanza che lei attribuiva all'essere un buon genitore, durante la gravidanza e nei mesi successivi al parto si

è cercato di assicurarle un particolare

sostegno.

CONCLUSIONI Quanto più si approfondisce la natura e l'origine dei sintomi psicotici, tanto più

è

probabile che vengano menzionate delle esperienze traumatiche (Read et

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 2 1 1 al., 2006): gli operatori, quindi, hanno il dovere di cogliere ogni opportunità per informarsi su quanto accaduto. Il trauma può aver giocato un ruolo determinan­ te, accentuando la vulnerabilità dei soggetti psicotici o provocando la comparsa del disturbo. Per aiutare questi pazienti, quindi, dev'essere riconosciuto il ruolo degli eventi di vita traumatici e questo deve essere integrato nei modelli teorici di riferimento, in modo che i clinici identifichino, con

il

dovuto tatto, tali vissuti e

creino, assieme al paziente, una formulazione del caso condivisa che tenga conto del peso effettivo del trauma. Questa va poi utilizzata per ideare e proporre un trattamento efficace che aiuti ad alleviare lo

stress.

In ambito cognitivo-comportamentale, le conoscenze teoriche sul modo in cui trauma, dissociazione e psicosi si collegano tra loro sono ancora in fase em­ brionale. Il lavoro qui esposto si basa sul modello attuale dei sintomi psicotici che, pur giustificando apparentemente la manifestazione del trauma sotto questa forma sintomatologica, può non tenere conto di alcuni meccanismi cruciali nel collegare questi due aspetti tra loro. Potremmo dover rivedere la nostra concezio­ ne del rapporto tra trauma e psicosi: Kingdon e Turkington (2005), ad esempio, ipotizzano l'esistenza di 5 diversi tipi di psicosi, tra cui quella "traumatica", ca­ ratterizzata dalla presenza di allucinazioni uditive e considerata si colloca lungo

un

un

fenomeno che

continuum con il Disturbo Borderline di Personalità e il DPTS

(dove però i sintomi - in particolare le voci - vengono esternalizzati). Nel modello di Mueser e collaboratori (2002) si ipotizza che, nei soggetti con disturbo mentale grave, il DPTS medi gli effetti negativi del trauma, sia diretta­ mente (con sintomi quali l' evitamento, l'iperattivazione fisiologica e i flashback), sia indirettamente, tramite i suoi correlati comuni (abuso di sostanze, ri-traumatiz­ zazione e difficoltà interpersonali). Tale approccio, che mette in evidenza il ruolo del trauma ai fini della comprensione della psicosi, può contribuire ad affinare i metodi di intervento, occupandosi di quei processi che non sono sufficientemen­ te articolati nei modelli attuali. Dall'illustrazione dei casi presentati si può cogliere la complessità della relazio­ ne che intercorre tra le esperienze di vita traumatiche e i sintomi psicotici. Ci sono diverse strade che portano alla psicosi e il trauma può influenzare la persona in modi differenti, sebbene si ritrovino degli elementi comuni. Innanzitutto, le per­ sone menzionate in questo capitolo sono state vittime di episodi traumatici che, almeno a livello semantico, sono in relazione con il contenuto dei sintomi psicoti­ ci. A volte questo aspetto diviene chiaro con il passare del tempo, una volta com­ presi i dettagli del trauma, ma in ogni paziente c'è una connessione tra l'esperien­ za traumatica e il contenuto delle allucinazioni o la natura delle credenze deliranti: i clinici, quindi, devono tenere a mente che le esperienze apparentemente bizzarre dei pazienti possono trovare origine nella realtà della loro esperienza personale. In secondo luogo, la natura dell'esperienza traumatica può essere sempre diversa

212

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

(aggressione, omicidio, ecc.), ma in ogni caso ha un forte connotato interperso­ nale: non si tratta semplicemente di eventi fortuiti, bensì di atti deliberatamente commessi da terzi. Infine, benché i trattamenti siano stati personalizzati e guidati dagli obiettivi suggeriti dal singolo paziente, esistono diverse analogie: ogni volta si

è creata con

questo una solida alleanza terapeutica e ci si

è premurati di offrir­

gli una spiegazione per lo sviluppo e il mantenimento dei suoi sintomi psicotici, riferendosi esplicitamente all'esperienza traumatica. Ciò nel tentativo di fornirgli una spiegazione alternativa - meno disturbante, ma allo stesso tempo più accet­ tabile - per i sintomi sperimentati. Queste visioni alternative, che sono state poi sottoposte a verifica per mezzo di esperimenti comportamentali, erano ricche di informazioni normalizzanti, che aiutavano la persona a riconoscere come le proprie esperienze (voci, visioni e credenze bizzarre) fossero reazioni comuni a esperienze di vita fuori dal comune. Ove necessario, il trattamento deve concen­ trarsi anche sulle credenze stabili su di sé e sugli altri, pianificando un intervento di prevenzione delle ricadute a seconda della vulnerabilità della persona. Ci sono quindi delle affinità tra le persone traumatizzate, sebbene presentino sintomi diversi nel contesto della psicosi.

È difficile definire precisamente i limiti

entro cui poter considerare traumatica un'esperienza: i vissuti dei pazienti descritti in questo capitolo erano chiaramente identificabili come traumatici (aggressione, omicidio), ma abbiamo avuto modo di vederne molti altri in cui anche un abuso emotivo o un abbandono avevano rivestito un ruolo significativo nel successivo sviluppo dei sintomi psicotici. Nonostante un abuso emotivo grave o protratto nel tempo non rientri strettamente nella definizione di "evento di vita traumati­ co" (in cui la persona teme per la propria incolumità fisica), può avere comunque un profondo impatto e contribuire alla comparsa della psicosi. Un uomo, ad esempio, ci ha raccontato di essere stato a lungo vittima di

bing.

mob­

Anche dopo aver lasciato il lavoro, continuava ad avere la sensazione che i

suoi ex colleghi lo spiassero e lo controllassero; riferiva inoltre un'intensa sfiducia e sospetto nei confronti degli altri e credeva che i

computer che

adoperava conte­

nessero delle cimici per sorvegliarlo. Era costantemente attento a cogliere possi­ bili segnali di minaccia: credeva che le macchine parcheggiate nel suo quartiere fossero messe lì appositamente per osservarlo e pedinarlo e si sentiva costante­ mente in pericolo. Sembrava che le esperienze di

mobbing e vittimizzazione subite

avessero avuto un forte impatto sugli schemi di sé (come inadeguato e privo di va­ lore) e degli altri (crudeli, maliziosi e inaffidabili). Anche se in questo caso non si poteva parlare di un vero e proprio trauma, sembra che questi episodi, così come negli altri esempi, avessero avuto un forte impatto sulle relazioni interpersonali. Rimane aperta la questione di come poter distinguere le comuni esperienze di vita avverse da quelle che, invece, hanno un impatto profondamente traumatizzante.

Il trattamento cognitivo-comportamentale del trauma 2 1 3

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14 IL COINVOLGIMENTO DELLA FAMIGLIA NEL TRATTAMENTO DEI DISTURBI PSICOTICI William R. McFarlane

INTRODUZIONE In fase di esordio si ritrovano i sintomi principali di tutte le psicosi - impor­ tanti alterazioni cognitive, emotive, sensoriali e comportamentali - che hanno la loro massima espressione nella Schizofrenia. Nell'ambito di questo disturbo, però, la principale fonte di disabilità è rappresentata dai sintomi negativi che, nella maggior parte dei casi, permangono nel corso di tutta la vita. I sintomi psicotici e la disabilità funzionale destabilizzano molto le famiglie che, spesso, si sobbar­ cano

il carico maggiore per l'assistenza e il supporto psicologico dei pazienti che deficit funzionali conseguenti al disturbo psicotico. Tali deficit, solita­

presentano

mente, precedono i sintomi psicotici, permangono nonostante il trattamento e peggiorano col tempo e con la comparsa di ogni episodio acuto successivo. Dato che, spesso, non vengono considerati parte del disturbo, risultano l'aspetto più disorganizzante e gravoso per i familiari, che si ritrovano a dover gestire il pazien­ te compensando tali

deficit.

Lo

stress dei

familiari, a sua volta, innesca dinamiche

relazionali che possono avere effetti devastanti sul paziente stesso. La psicoeduca­ zione nei confronti della famiglia risulta particolarmente efficace nel contrastare queste dinamiche, migliorando il funzionamento familiare e le capacità di

coping

dei singoli membri della famiglia stessa, con effetti positivi sul paziente, sia a livel­ lo clinico che di funzionamento. Di seguito descriveremo il

background teorico del

modello di intervento sui familiari, le sue componenti principali, le sue caratteri­ stiche tecniche e le sue evidenze di efficacia.

2 1 6 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi Le prove scientifiche dimostrano come i principali disturbi psicotici siano cau­ sati da deficit genetici o dello sviluppo che interessano il funzionamento cerebrale; è però anche dimostrato come lo sviluppo dei sintomi psicotici sia influenzato dallo stress psicosociale. Il modello stress-diatesi, o stress-vulnerabilità, offre una cornice concettuale ampiamente accettata - e supportata empiricamente - per spiegare la relazione tra fattori scatenanti (stressor), vulnerabilità, formazione dei sintomi (diatesi) ed esiti. Una persona con vulnerabilità genetica, la cui capacità innata di tollerare lo stress è insufficiente rispetto alle stimolazioni interne ed ester­ ne a cui è esposta, può andare incontro a un episodio psicotico. Questo principio è alla base dell'ipotesi biopsicosociale: i principali disturbi psicotici deriverebbero dalla continua interazione tra specifici disturbi cerebrali su base biologica e speci­ fici fattori psicosociali e ambientali. I fattori psicosociali, dunque, rappresentano le cause prossimali di esordio iniziale e di ricaduta nei casi stabilizzati (si vedano i capitoli 7 e 1 0). Il trattamento si basa su una teoria semplice e plausibile: il primo episodio si manifesta in un di­ sturbo emergente, le cui cause prossimali sono analoghe a quelle che provocano le ricadute. I trattamenti per la prevenzione delle ricadute tentano di "contenere" le cause prossimali, dopo il recupero dal primo episodio, riducendo la vulnerabilità per lo sviluppo dei sintomi negativi. Nello specifico, nei soggetti a rischio, fattori stressanti quali le transizioni di ruolo, l'isolamento sociale, l'emotività familiare espressa, i conflitti, l'esasperazione, la separazione dalla famiglia di origine, lo stigma e altri eventi di vita possono causare la comparsa degli episodi psicotici. Per quanto riguarda le fasi prossimali dell'insorgenza dei sintomi, quindi, la teoria biopsicosociale propone un modello interattivo e basato sul feedback ambientale, rispetto a un modello biologico causale più semplice e lineare. In questa cornice concettuale, alcuni sintomi, anche banali, possono provocare ansia, rabbia, rifiuto sociale, confusione e altre reazioni da parte dei membri della famiglia; reazioni che, a loro volta, esacerbano i sintomi principali e costituiscono fattori stressanti (psicologici e fisiologici) per le persone vulnerabili. Il risultato finale è un circolo vizioso, sia per il paziente che per la sua famiglia.

Emotività espressa . Elevati livelli di critica e ipercoinvolgimento emotivo da parte dei familiari predicono l'esacerbazione dei sintomi e il rischio di ricaduta. In un'ampia meta­ analisi, Bebbington e Kuipers (1994) hanno riportato i dari tratti da 25 studi, che hanno coinvolto 1 .346 pazienti, provenienti da 1 2 Paesi diversi, che mostrano come il livello di emotività espressa predica la probabilità di ricaduta nella Schi­ zofrenia e nel Disturbo Bipolare. Per migliorare la definizione del concetto, sono stati proposti dei modelli circolari; Cook (Cook et al., 1989), ad esempio, ha evi­ denziato come l'emotività espressa dei parenti più stretti rifletta i processi transa-

I l coi nvolgi mento della fam igl ia nel trattamento dei di sturbi psicotici 2 1 7 zionali tra il paziente e la propria famiglia, confermando come il funzionamento di quest'ultima sia condizionato da alcuni aspetti della malattia, e viceversa. Alcuni studi recenti hanno confermato la presenza di una relazione tra la sin­ tomatologia psicotica e le reazioni dei membri della famiglia, che si riflettono nei livelli di emotività espressa a seconda dello stadio di malattia: nelle prime fasi della psicosi questa è meno pronunciata, ma aumenta nel corso del tempo. Hooley e Richters (1 995) hanno dimostrato come i tassi di commenti critici e di ostilità da parte dei familiari si innalzino rapidamente nei primi anni di malattia: sono pari al 14% nelle famiglie in cui il disturbo si è manifestato da meno di un anno, al 35% dopo 1 -3 anni dall'esordio e hanno un picco del 50% dopo 5 anni. In uno studio, sono state confrontate le componenti dell'emotività espressa (ostilità/rifiuto, ca­ lore, ipercoinvolgimento emotivo) in tre gruppi: due di questi erano composti da soggetti affetti da un disturbo dell'umore o schizofrenico stabilizzati, mentre il terzo da soggetti ad alto rischio di esordio psicotico. I punteggi di rifiuto e iper­ coinvolgimento da parte dei genitori sono risultati identici nei primi due gruppi, ma marcatamente inferiori nel terzo gruppo di soggetti a rischio (McFarlane e Cook, 2007). Questi dati suggeriscono, quindi, che l'emotività espressa familiare sia in gran parte secondaria ai sintomi manifestati dalle persone giovani con psi­ cosi emergente. L'emotività espressa è associata anche alla credenza dei familiari in merito alle cause del comportamento conseguente al disturbo: i genitori descritti come critici, o ostili, reputano erroneamente il paziente responsabile del proprio com­ portamento disturbato e sgradevole, mentre quelli più accettanti considerano gli stessi comportamenti come sintomi caratteristici della malattia. Il rischio di un'errata attribuzione si corre particolarmente nella fase prodromica e al primo episodio psicotico, durante il quale i sintomi e i deficit progrediscono lentamente e sembrano esacerbare le caratteristiche di personalità e il comportamento tipici della persona. Un soggetto con deficit cognitivi, paranoide, arrabbiato, ostile, labile affettivamente, che nega la malattia, socialmente ritirato o anedonico, riceverà più difficilmente il sostegno emotivo ottimale. Se i membri della famiglia notano la presenza di questi sintomi in una persona che amano e hanno una conoscenza scarsa e insufficiente delle manifestazioni della malattia, reagiranno con maggior coinvolgimento, intensità emotiva o critica.

Stigma Spesso lo stigma comporta ritiro sociale, demoralizzazione e perdita di auto­ stima; può avere degli effetti di vasta portata sul funzionamento sociale, special­ mente sul posto di lavoro o a scuola. Grazie alla disponibilità di nuovi farmaci e all'attuale attenzione al miglioramento del funzionamento e alla riabilitazione, questi aspetti diventano obiettivi centrali dell'intervento. Come evidenziato da

2 1 8 Terapia cognitivo-comportamentale del le psicosi Iink e collaboratori

(1991),

anche dopo che i sintomi e i livelli di funzionamento

sono migliorati nel corso del tempo grazie a una diagnosi e a un trattamento appropriati, lo stigma incide pesantemente e continuativamente sul benessere. Anche la famiglia risulta colpita dallo stigma, con conseguente ritiro e isolamento che, a loro volta, sono associati a un impoverimento della rete sociale e del soste­ gno emotivo, a un maggiore carico, al peggioramento della qualità della vita e alla riacutizzazione di patologie mediche. Lo stigma interiorizzato, inoltre, riduce la probabilità che il paziente colga i segnali precoci e richieda e accetti il trattamento, in particolare al primo episodio psicotico.

Comunicazione familiare La modalità comunicativa "deviante" in famiglia (uno stile di comunicazione distratto o vago) si associa in maniera consistente alla Schizofrenia (si veda capitolo

9)

il

e, nello studio prospettico sugli esiti a lungo termine dei fattori predi­

sponenti, questo si

è dimostrato un predittore

di esordio della psicosi schizofre­

nica nelle famiglie con adolescenti disturbati ma non ancora psicotici (Goldstein,

1 985). Alcuni studi più recenti hanno

dimostrato come, nei familiari, questo stile

comunicativo sia correlato alla presenza di disfunzioni cognitive analoghe, anche se meno severe, a quelle che si osservano nei pazienti affetti da Schizofrenia. Ciò suggerisce che vi siano alcuni membri della famiglia che faticano a mantenere l'attenzione su un argomento, con importanti implicazioni per il trattamento. Il risultato di questo

è

che potrebbe accadere che un bambino con una lieve com­

promissione cognitiva apprenda a dialogare in un contesto poco incline a com­ pensare e a correggere i suoi disturbi del pensiero.

Isolamento sociale Si

è

visto come, in caso di disturbi mentali gravi e cronici, un maggior so­

stegno sociale ne migliori il decorso e prevenga il deterioramento (Penninx et al.,

1 996).

I membri della famiglia dei pazienti più gravi sembrano essere isolati,

preoccupati e oberati dai problemi di questi. Brown e collaboratori (Brown et al.,

1 972)

hanno dimostrato come il

90%

delle famiglie con alta emotività espressa

siano poco numerose e isolate socialmente. Il sostegno sociale attutisce l'impatto degli eventi di vita avversi ed

è

uno dei fattori chiave che predice la

nei confronti della terapia farmacologica, l'atteggiamento verso

il

compliance

trattamento, il

rischio di ricaduta e la qualità di vita del paziente, nonché il carico percepito dai suoi familiari. L'ampiezza della rete sociale si restringe con il numero di episodi psicotici, nel periodo che precede l'esordio ulteriormente durante il primo episodio.

è

inferiore alla norma e diminuisce

I l coinvolgimento del la famiglia nel trattamento dei disturbi psicotici 2 1 9

Gli effetti della psicosi sulla famiglia Gli studi dimostrano come alcuni familiari di pazienti con disturbo psicoti­ co stabilizzato manifestino

deficit sub-clinici e

anormalità analoghi; il trattamento

delle prime fasi della psicosi deve quindi compensare alcune di queste difficoltà. I

deficit dei familiari comportano una riduzione delle capacità di coping che, invece,

sarebbero essenziali per aiutare il paziente. I disturbi psicotici, inoltre, comporta­ no, per i familiari, ansia, rabbia, confusione, stigma, rifiuto ed esacerbazione dei disturbi medici. In seguito all'esordio psicotico l'organizzazione della famiglia va incontro a diversi cambiamenti, tra cui l'alienazione di fratelli e sorelle, i gra­ vi disaccordi rispetto all'atteggiamento supportivo vs controllante da tenere nei confronti del paziente, la nascita - o esacerbazione - di conflitti coniugali che possono sfociare persino nel divorzio. Quasi tutte le famiglie sperimentano un certo grado di demoralizzazione e di senso di colpa, che possono anche veni­ re inavvertitamente rinforzati da alcuni clinici. Nella fase prodromica, i membri della famiglia sono disorientati dai cambiamenti - spesso drammatici - a livello emotivo, cognitivo e comportamentale del paziente, a cui possono reagire con rabbia, rifiuto, profonda ansia e preoccupazione.

Studi prospettici sulle interazioni familiari prima dell'esordio In uno studio prospettico, Tienari e collaboratori

(2004)

hanno dimostrato

come l'emotività espressa e la comunicazione "deviante" in famiglia - special­ mente se dirette verso la persona a rischio - predicano l'esordio psicotico, intera­ gendo con il rischio genetico (avere una madre biologica affetta da Schizofrenia) o psichiatrico (presenza di sintomi non psicotici e difficoltà comportamentali). A sostegno dell'ipotesi riguardante il ruolo dello stress (o del rischio ambientale) nel modello stress-diatesi, il

Finnish Adoption

Stucfy ha combinato e testato rigorosa­

mente i fattori di rischio psicosociale, quelli genetici e la loro interazione tramite un disegno di ricerca che ha tenuto in considerazione gli aspetti evolutivi. I dati hanno fornito la prima prova convincente dell'interazione geni-ambiente per lo spettro dei disturbi schizofrenici: il rischio di esordio

è

risultato maggiore tra i

soggetti geneticamente vulnerabili adottati da famiglie con livelli più alti di emo­ zioni negative espresse o coartate (appiattimento affettivo, mancanza di umori­ smo), oltre che con problemi di demarcazione dei confini interni (invischiamento generazionale, struttura familiare caotica, comunicazione inusuale) . Non si

è

ri­

scontrato, invece, un incremento dell'incidenza dei disturbi psicotici nei soggetti geneticamente a rischio adottati da famiglie in cui i fattori di stress erano minori. Nei bambini vulnerabili, quindi, determinate dinamiche familiari contribuiscono all'insorgenza della Schizofrenia, mentre le famiglie più sane rivestono addirittura un ruolo protettivo (riuscendo a impedire il manifestarsi della malattia in individui geneticamente predisposti) .

2 20 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi Sintomi prodromici precoci

FIG. 14.1.

Esordio acuto

Interazioni biopsicosociali nei sintomi prodrornici tardivi della Schizofrenia.

Un modello I

Sintomi prodromici tardivi

di

causalità reciproca

fattori sopra descritti portano alla comparsa della psicosi grazie a: 1) una sensibilità di base nei confronti della stimolazione esterna e 2) una discrepanza tra la capacità di elaborazione delle informazioni del soggetto e la complessità degli stimoli a cui è sottoposto. I deficit cognitivi subclinici, le ripercussioni della psicosi sulla famiglia e gli stili di coping caratteristici di questa si sommano e vanno a costituire gli stress esterni conseguenti alla malattia, ma che a loro volta inne­ scano un circolo vizioso che culmina in una psicosi conclamata. Questi fattori diventano quindi i potenziali obiettivi dei gruppi di psicoeducazione familiare (si veda la figura 1 4.1). Psicoeducazione nei confronti della famiglia: esiti nella Schizofrenia e in altri disturbi psicotici Gli interventi familiari modificano le influenze ambientali riducendo le fonti di stress psicologico e sociale, evitando un'eccessiva stimolazione e tamponando gli effetti degli eventi di vita negativi per il paziente. In base al modello psicoedu­ cativo della famiglia, i disturbi psicotici e i disturbi dell'umore sono considerati come disturbi mentali sensibili all'ambiente sociale. Questa forma di trattamento, quindi, è considerata bimodale, in quanto affronta sia direttamente la malattia (tramite i farmaci) sia l'ambiente sociale (per mezzo di tecniche che riducono le sollecitazioni emotive sul paziente per portarle a livelli tollerabili, riducendo le influenze negative delle interazioni interpersonali, i cambiamenti nel sistema e la complessità dello stesso). Questo scopo si raggiunge educando, formando e sostenendo i membri della famiglia e le altre persone che, a turno, stanno vicine ai pazienti, li proteggono e li guidano.

I l coinvolgimento della famiglia nel trattamento dei disturbi psicotici

22 1

I dati di efficacia degli interventi familiari, definiti di psicoeducazione familiare, di

management comportamentale della famiglia o di lavoro

con la famiglia (ma non

di terapia familiare) sono davvero considerevoli. Più di 20 studi clinici controllati hanno dimostrato un tasso di ricaduta e di riospedalizzazione marcatamente infe­ riore tra i pazienti le cui famiglie avevano ricevuto una psicoeducazione, rispetto a quelli che avevano beneficiato soltanto dei trattamenti individuali

50%

standard (20review

in due anni) . Nell'ultimo decennio sono state pubblicate almeno otto

della letteratura scientifica (e tutte hanno evidenziato modello di intervento) e, dal

1 978

un

effetto significativo del

a oggi, gli effetti benefici di questo approccio

sui disturbi schizofrenici sono stati rigorosamente dimostrati. Nel complesso, i tassi di ricaduta per i pazienti le cui famiglie beneficiano dell'approccio psicoe­ ducazionale si attestano intorno al

1 5%

annuo, a fronte di un

30-40%

per quelli

sottoposti a terapia individuale, in combinazione con quella farmacologica, o solo a quest'ultima. Nella maggior parte degli studi

è

emerso come la riduzione della

recidiva sia analoga sia nei pazienti che assumono terapia farmacologica che in quelli che non l'assumono. McFarlane e collaboratori hanno dimostrato come applicando una versione della psicoeducazione nei confronti della famiglia in sedute di gruppo si otten­ gano tassi di ricaduta inferiori e un miglior inserimento lavorativo dei pazienti ri­ spetto alle sedute con le singole famiglie (McFarlane, Link et al., Lukens et al.,

1 995).

La spiegazione più semplice di questi dati

1 995; McFarlane, è che il maggior

sostegno reciproco, presente solo nel formato multifamiliare, riduca la vulnerabi­ lità di ricaduta, probabilmente riducendo l'ansia e la sofferenza generale e aumen­ tando le strategie di

coping dei familiari (Dyck et al., 2002). Sono stati condotti due

studi - contemporaneamente in sette centri diversi - per testare gli effetti diffe­ renziali della terapia familiare singola rispetto a quella di gruppo multifamiliare, utilizzando lo stesso metodo psicoeducazionale per la Schizofrenia. I risultati mi­ gliori si sono ottenuti nei gruppi composti da più famiglie, in particolare per i pa­ zienti alla prima ospedalizzazione, e con un minor tasso di ricaduta in un arco di tempo di 4 anni (1 2,5% l'anno) . Entrambi questi studi randomizzati suggeriscono che vi sia un effetto multidimensionale che spiega i migliori

outcome clinici.

Questi

dati sono in linea con quelli di altri studi recenti che hanno evidenziato notevoli miglioramenti nella peiformance lavorativa dei pazienti affetti da Schizofrenia, ove al trattamento di base siano associati altri interventi - come quelli di inserimento lavorativo - pensati specificatamente per raggiungere obiettivi funzionali (McFar­ lane et al.,

1 996; McFarlane

et al.,

2000).

Alcuni studi recenti, condotti in contesti culturali e territoriali diversi, hanno confermato la riduzione del rischio di ricaduta nel caso in cui venga implemen­ tato un intervento familiare, rispetto a condizioni di controllo. L'utilità di questo approccio sembra essere stata dimostrata in contesti abbastanza diversi, tanto da

222 Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi paterne ipotizzare la generalizzabilità ad altre culture e Paesi, specialmente con gli opportuni adattamenti. Questi studi hanno dimostrato gli effetti significativi dell'intervento sui fami­ liari su varie aree di funzionamento, non considerando necessariamente il basso tasso di ricadute come indice principale di successo. Molti pazienti - e i loro fami­ liari - sono più preoccupati degli aspetti funzionali della malattia - specialmente quelli legati all'alloggio, al lavoro e alle relazioni sociali, interpersonali e sentimen­ tali - che della remissione sintomatologica, che sembra essere un obiettivo più astratto. Molti dei modelli menzionati in precedenza - in particolare le versioni americane di Falloon, Anderson e McFarlane - considerano la remissione dei sintomi (l'assenza di ricaduta) come l'obiettivo principale dell'intervento e come il primo passo necessario verso la riabilitazione e la guarigione. Questi model­ li, inoltre, includono delle componenti per favorire il miglioramento funzionale e gli studi a riguardo hanno documentato dei progressi significativi proprio in quest'ambito. Diversi ricercatori - tra cui anche il nostro team - hanno spostato il focus dell'intervento sui familiari, considerando gli aspetti più "umani" della ma­ lattia e delle condizioni di vita, che riguardano: •









Miglioramento del benessere familiare (Cuijpers, 1 999); Maggior partecipazione, da parte del paziente, all'intervento di riabilita­ zione lavorativa (Falloon et al., 1 985); Tassi di inserimento lavorativo significativamente maggiori (McFarlane et al., 2000); Minor presenza di sintomi psichiatrici, inclusi quelli negativi (Dyck, et al., 2000); Miglior funzionamento sociale (Montero et al., 2001); Minor stress familiare (Dyck et al., 2002); Riduzione dei costi per la cura (Rund et al., 1 994).

Visto il convincente supporto empirico, la psicoeducazione familiare è sta­ ta inclusa nelle linee guida per il trattamento dello Schizophrenia Patient Outcomes Research Team (PORT), suggerendo che tutti i familiari che sono in contatto con pazienti affetti da malattie mentali siano sottoposti a un intervento della durata di almeno tre mesi, che includa l'informazione sulla malattia stessa, il sostegno fami­ liare, un intervento in caso di crisi e un training di abilità di problem-solving (Lehman et al., 1 998). Altri protocolli (APA, 1 997) raccomandano come buona prassi che le famiglie beneficino di un programma educazionale e di sostegno. Un gruppo di esperti - che include clinici afferenti a varie discipline, famiglie, pazienti e ricerca­ tori - ha enfatizzato l'importanza del coinvolgimento delle famiglie nel processo di trattamento e nella riabilitazione (Coursey et al., 2000).

I l coinvolgi mento del l a famiglia nel trattamento dei disturbi psicotici

223

È importante notare come la maggior parte degli studi abbia considerato so­ lamente la psicoeducazione familiare per la Schizofrenia o per i disturbi schizoaf­ fettivi. In ogni modo, diversi studi controllati dimostrano l'utilità degli interventi per le famiglie anche nel caso dj altri disturbi psichiatrici, tra cui: •







Doppia diagnosi dj Schizofrenia e Disturbi da Uso di Sostanze (McFarla­ ne, Lukens et al., 1 995); Disturbo Bipolare (Miklowitz et al., 2000); Disturbo Depressivo Maggiore (Leff et al., 2000); Disturbi dell'umore nell'infanzia (Fristad et al., 2009); Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Van Noppen, 1 999); Anoressia Nervosa (Geist et al., 2000); Disturbo Borderline dj Personalità (Gunderson et al., 1 997).

IL TRATTAMENTO PSICOEDUCAZIONALE DI GRUPPO NELLA FASE PRODROMICA E NEGLI STADI INIZIALI DEL PRIMO EPISODIO PSICOTICO Il modello dj trattamento psicoeducativo dj gruppo multifamiliare qui descrit­ to è pensato per supportare le famiglie nella gestione del carico emotivo e dello stress durante la fase prodromica e dj esordio dei pazienti. Questo approccio a) mitiga l'ansia e l'esasperazione dei familiari, b) riduce il senso di confusione fornendo loro conoscenze, guida diretta, problem-solving e abilità di coping, c) impedisce il loro ritiro sociale e rifiuto proprio attraver­ so la partecipazione a un gruppo multifamiliare, che contrasta lo stigma e la demoralizzazione e d) riduce la rabbia, fornendo loro una spiegazione più scientifica e socialmente accettabile dei sintomi e della disabilità funzionale del paziente. In breve, allevia il fardello della gestione dj quest'ultimo e, al contem­ po, coinvolge maggiormente la famiglia nel processo di cura e riabilitazione, compensando - non in senso peggiorativo - i sintomi sub-clinici che è facile che molti familiari manifestino. L'obiettivo dell'intervento è quello di fornire il supporto ottimale, il più precocemente possibile, a chi sta vivendo il primo episodio psicotico. L'intervento dj gruppo multifamiliare, che include elementi di psicoeducazione e di management familiare comportamentale, viene descritto brevemente di seguito (per una trattazione più completa si veda McFarlane, 2002). Il modello di intervento è diviso in quattro fasi che corrispondono, in linea di massima, a quelle dj un episodio di Schizofrenia, dalla fase acuta a quella dj recupero e riabilitazione, che nello specifico sono: 1) coinvolgimento; 2) psicoeducazione; 3) recupero e 4) riabilitazione sociale/professionale (An­ derson et al., 1 986).

224

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

Coinvolgimento Il contatto con le famiglie dei nuovi pazienti dovrebbe iniziare nelle 48 ore successive al ricovero per l'esordio psicotico. Gli incontri iniziali con il pazien­ te sono volutamente brevi e non stressanti; egli partecipa ad almeno una delle sedute con la famiglia, e non partecipa ad almeno una di queste. Se il paziente è palesemente scompensato, non presenzia a questi incontri, ma solo a quelli individuali con il terapeuta. L'obiettivo è di stabilire un rapporto con i familiari e di ottenere il loro consenso a partecipare al trattamento: il professionista sotto­ linea l'importanza di collaborare con la famiglia per aiutare il paziente a guarire, evitando un peggioramento o una futura ricaduta. Chiede quindi ai familiari di stabilire una stretta collaborazione con lo stciff clinico allo scopo di fornire al paziente il miglior ambiente post-ospedaliero per il suo recupero. In particolare, le sedute servono a chiarire quali siano le prime avvisaglie sintomatologiche e i fattori precipitanti specifici per la persona, individuando la rete sociale che può esserle di supporto, ma empatizzando al contempo col vissuto di ogni membro della famiglia relativo all'insorgenza dei sintomi psicotici e al decorso della ma­ lattia. Una parte degli incontri è dedicata al senso di perdita di ogni familiare e al modo in cui rimpiange tale perdita. Nel processo di coinvolgimento della famiglia è necessario offrire informazioni e indicazioni specifiche, modellate sul singolo caso, soprattutto nelle fasi prodromiche del disturbo e al primo episodio. Questa fase prevede tipicamente 3-7 sedute per famiglia, nel formato di gruppo multifamiliare, ma possono essere necessari più incontri per coinvolgere un nu­ mero sufficiente di famiglie.

Psicoeducazione Una volta coinvolta la famiglia, e mentre il paziente viene trattato, questa è invitata a partecipare a un workshop di gruppo che coinvolge 5 o 6 famiglie e che prevede incontri della durata di circa sei ore, effettuati in un'atmosfera formale e quasi scolastica. Durante tali incontri vengono fornite informazioni biologiche, psicologiche e sociali in merito al disturbo psicotico e alla sua ge­ stione, utilizzando metodi didattici diversi (video, diapositive, letture, discussio­ ni e momenti di domande e risposte), nonché informazioni relative al modo in cui lo staff clinico, il paziente e la famiglia continueranno collaborare. Vengono anche illustrate le linee guida per la gestione del disturbo, oltre alla sottostante vulnerabilità allo stress e al sovraccarico di informazioni (si veda lo schema se­ guente). I pazienti partecipano al workshop solo se sono clinicamente stabilizzati, disponibili, interessati e apparentemente in grado di tollerare lo stress che ne può derivare.

I l coinvolgi mento della fam iglia nel trattamento dei d isturbi psicotici

225

LINEE GUIDA PER LE FAMIGLIE: COME ACCELERARE LA GUARIGIONE E PREVENIRE LE RICADUTE

Credete nelle vostre capacità di influenzare l'esito: potetefarlo

Procedete lentamente, un passo alla volta. Non abbiate fretta. Concedete al paziente il tempo per guarire: la guarigione richiede tempo. Preparatevi per il passo successivo. Prevedete quali potrebbero essere le fonti di stress. Considerate l'idea dipoter assumere deifarmaciper tutelare il vostro benessere

Dovrete percorrere una lunga strada. I farmaci funzionano e talvolta sono ne­ cessari anche quando vi sembra di sentirvi bene. Parlate con il vostro medico che può aiutarvi a trovare il farmaco migliore per voi e la dose più adatta. Abbiate pa­ zienza, ci vuole tempo. Assumete solo i farmaci prescritti e al dosaggio prescritto. Cercate di ridurre le vostre responsabilità e le vostre fonti di stress, al­ meno per i prossimi sei mesi

Prendetevela comoda. Utilizzate un metro di giudizio personalizzato. Paragona­ te questo mese a quello appena trascorso, non all'anno passato o a quello a venire. Usate i sintomi delpaziente come indicatori

Se ricompaiono rallentate, semplificatevi la vita, cercate aiuto e sostegno, e fate­ lo rapidamente. Imparate a riconoscere i primi campanelli di allarme e i cambiamen­ ti nei sintomi. Consultatevi con il vostro medico di famiglia o lo psichiatra. Create un ambiente protettivo

Mantenete la calma. La fretta normale, ma cercate di mitigarlo.

è

normale, ma rallentate. Anche il disaccordo

è

Lasciate a ciascuno ilproprio spazio

Una pausa serve a tutti. Va bene aiutare gli altri, ma va anche bene dire "no". Stabilite dei limiti

Tutti devono sapere quali sono le regole. Poche e chiare regole aiutano a fare ordine. Ignorate quello che non potete cambiare

Lasciate che alcune cose scivolino via. Non ignorate mai, però, la violenza o la minaccia di suicidio. Rendete le cose semplici

Dite quello che dovete dire in modo chiaro, calmo e positivo. Svolgete le vostre attività come avete sempre fatto

Ristabilite le routine familiari il prima possibile. Mantenete i contatti con la vostra famiglia e i vostri amici. Risolvete i problemi un passo alla volta.

226

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

In questa fase, i clinici personalizzano l'approccio psicoeducazionale e la condi­ visione di informazioni in base al singolo paziente e all'esperienza unica e in conti­ nua evoluzione della singola famiglia, a partire dalla valutazione effettuata nella fase di coinvolgimento. La psicosi viene sempre considerata una condizione reversibile e trattabile, alla stregua del diabete. Il nucleo del problema viene definito in termini di estrema sensibilità alle stimolazioni sensoriali, allo stress duraturo e alle pressioni ec­ cessive, ai cambiamenti troppo rapidi, alla complessità delle situazioni, all'esclusione sociale, all'uso di droghe o alcol o, anche, a esperienze emotive negative. Per quanto riguarda le eventuali responsabilità, i clinici prendono una posizione netta: né il paziente né la famiglia hanno determinato questa fragilità; indipendentemente da quale ne sia la causa biologica di fondo - genetica o di sviluppo neurologico - essa fa comunque parte della struttura dell'individuo, con i relativi vantaggi e svantaggi. Le famiglie sono esplicitamente invitate a non attribuirsene la colpa.

Recupero In questa fase i clinici incontrano i pazienti e le loro famiglie ogni due setti­ mane in un setting di gruppo multifamiliare. L'obiettivo è quello di pianificare e mettere in atto delle strategie per gestire le difficoltà del paziente che si sta ripren­ dendo da un episodio acuto di psicosi, oppure di facilitarne il rientro dalla fase prodromica. Le principali aree tematiche affrontate includono la compliance verso il trattamento, la riduzione dei fattori di stress, l'evitamento di alcuni eventi di vita, delle droghe e/o dell'alcol, la riduzione delle aspettative dei familiari durante il periodo di manifestazione dei sintomi negativi e l'aumento temporaneo della tolleranza nei confronti di questi. Per aiutare le famiglie ad aderire ai principi delle linee guida, si utilizzano due tecniche particolari, ovvero il problem solving e lo skill training per la comunicazione (Falloon et al., 19 84).

Riabilitazione sociale/professionale Circa un anno dopo l'inizio del trattamento, o a un anno dall'episodio acuto, la maggior parte dei pazienti inizia a manifestare segni di un ritorno alla normalità e a impegnarsi attivamente nei rapporti con le persone. Questo, solitamente, è indicativo del fatto che i sintomi negativi stanno diminuendo e che il paziente può essere stimolato in modo più intenso. L'obiettivo di questa fase riguarda quindi i bisogni riabilitativi della persona, occupandosi delle aree di funzionamento in cui si riscontrano i deficit più comuni: abilità sociali, rendimento scolastico e capacità di trovare e mantenere un lavoro.

Gruppi multifamiliari In questi gruppi si affrontano argomenti relativi all'emotività espressa, all'iso­ lamento sociale, alla stigmatizzazione e al carico emotivo delle famiglie, attraverso

I l coi nvolgimento del la fam igl ia nel trattamento dei disturbi psicotici psicoeducazione,

training

e

mode/ing.

227

Alcuni sforzi del terapeuta si concentrano

sulla modulazione dell'espressione emotiva e sulla chiarificazione e semplificazio­ ne della comunicazione, ma l'efficacia dell'approccio deriva per lo più dai fattori impliciti nel

setting gruppale,

quali l'ampliamento della rete sociale, la riduzione

della stigmatizzazione, l'opportunità di creare uno spazio condiviso per il mutuo aiuto, di ascoltare esperienze simili alla propria e di apprendere delle soluzioni utili e spendibili suggerite dagli altri membri del gruppo. Dopo l'esordio del primo episodio psicotico, da

5-7

un

gruppo stabile - composto

famiglie - si incontra con due clinici, con cadenza quindicinale, solitamen­

te per tre anni; in precedenza, tutti i membri delle famiglie hanno partecipato a un

workshop psicoeducazionale. A meno che non sia palesemente

scompensato, il

paziente partecipa al gruppo, anche se la decisione viene presa di volta in volta in base al suo stato mentale e all'ipersensibilità nei confronti delle stimolazioni che, di tanto in tanto, questo può fornire. Ogni seduta dura un'ora e mezza.

ESEMPIO DI UN CASO L'approccio di gruppo multifamiliare offre spesso ai pazienti l'opportunità di su­ perare problemi che sembravano insormontabili e che limitavano la loro possibilità di agire. All'inizio ci si concentra sulla prevenzione delle ricadute e sul superamento dei sintomi acuti, mentre la seconda fase mira al raggiungimento degli obiettivi di vita del paziente, con l'aiuto della famiglia e del gruppo. Il caso qui presentato illu­ stra come l'approccio di gruppo multifamiliare promuova il recupero funzionale, quasi sempre procedendo per piccoli passi e curando con attenzione il processo di

problem-solving, con il contributo di molti - e spesso tutti - i membri del gruppo. R. era una donna di circa 25 anni, con un grave problema mentale in fase

di

buon compenso. Cercava di prendersi cura di sé e di assumere metodicamente i farmaci. Anche se viveva da sola, sua madre frequentava regolarmente il tratta­ mento di gruppo multifamiliare assieme a lei. Recentemente, aveva iniziato a lavo­ rare per 20 ore a settimana come operatrice in una residenza per adulti con ritardo mentale grave. Fino a ora, aveva gestito bene sia la terapia che il lavoro, ma sentiva di non riuscire a ricordare tutte le informazioni che acquisiva e ciò la faceva sen­ tire stressata e inadeguata. Anche se era affiancata da un operatore specializzato, non desiderava ricevere supervisione mentre operava, né parlare della propria malattia con il datore di lavoro. Si stava chiedendo cosa poter fare per sentirsi meno stressata e avere un maggior controllo della situazione mentre imparava qualcosa di nuovo. Il gruppo le ha proposto di gestire la cosa come segue.

Punto

1:

qual è il problema?

Come si può ricevere sostegno durante l'apprendimento e approcciarsi meglio al lavoro per avere successo?

228

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

Punto 2: elencare tutte le possibili soluzioni Il gruppo ha suggerito a R. di: •









rileggere quanto già precedentemente elaborato dal gruppo, nel corso del trattamento, in merito all'esecuzione di compiti specifici; chiedere una descrizione scritta del lavoro da eseguire; parlare con i colleghi di cosa ci si aspetta dal suo lavoro nel corso del tirocinio e dell'apprendistato; non aver paura di porre domande; chiedere un ulteriore periodo di tirocinio, se sente di averne bisogno, e chiedere al datore di lavoro che la aiuti a imparare le cose più importanti; sapere chi chiamare in caso di necessità; prendere nota delle domande da fare al supervisore e appuntare le risposte; annotare i compiti svolti durante il tirocinio.

Punto 3: discutere ogni possibile soluzione R. ha ritenuto valide tutte le proposte e non ne ha eliminata alcuna durante questa fase del problem-solving.

Punto 4: scegliere la soluzione - o la combinazione di soluzioni - migliore R. ha deciso, con l'approvazione della madre, di provare le seguenti soluzioni: •



prendere nota delle domande da fare al supervisore e appuntare le rispo­ ste; annotare i compiti svolti durante il tirocinio; parlare con i colleghi di cosa ci si aspetta dal suo lavoro nel corso del tirocinio e dell'apprendistato.

Punto 5: pianificare come portare avanti la soluzione migliore •



portare con sé un block-notes e una penna fin dal primo giorno di lavoro; cercare di avvicinare un collega che sembri gentile e che abbia lavorato lì già da un po'; chiedergli cosa poter fare per imparare il lavoro nel modo meno stressante possibile. È possibile, infatti, scambiarsi informazioni e suggerimenti utili!

R. ha provato a mettere in pratica questi suggerimenti, scoprendo come fos­ sero effettivamente utili per migliorare la propria performance al lavoro e renderla più adeguata e meno isolata.

I l coi nvolgimento del la fam igl ia nel trattamento dei di sturbi psicotici 2 2 9

CONCLUSIONI Diversi studi hanno dimostrato l'efficacia della psicoeducazione nei confronti della famiglia e dei gruppi multifamiliari; in particolare, questi ultimi sembrano essere particolarmente utili nelle prime fasi della malattia. La nostra esperienza ci suggerisce che il trattamento orientato alla famiglia, supportivo e psicoeduca­ zionale, sia ben accetto dalle famiglie e, da quanto emerso dagli studi clinici, esso sembra soddisfare molte delle loro esigenze. L'efficacia di questi metodi è fon­ data anche a livello teorico, in quanto viene utilizzata una strategia di evitamento dello stress, di protezione del paziente e di "tampone" delle sue difficoltà, mentre il setting di gruppo multifamiliare costituisce un elemento di sostegno e favorisce l'ampliamento della rete sociale.

230

Terapia cognitivo-comportamentale del l e psicosi

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15 INTERVENTI PSICOLOGICI PER MIGLIO RARE IL FUNZIONAMENTO LAVORATIVO DEllE PERSONE CON DISABILITÀ PSICHIATRICA* Morris D. Beli, Jimmy Choi e Paul Lysaker

INTRODUZIONE I disturbi psichiatrici gravi (come la Schizofrenia e gli altri disturbi psicotici, i disturbi dell'umore e il DPTS) sono comunemente accompagnati da inattività e da compromissione del funzionamento lavorativo. Attualmente, i sondaggi (Be­ cker, 2002) indicano che più del 75% delle persone con questi disturbi desidera riprendere a lavorare ma, quando trova un impiego, spesso questo non prevede un'attività adeguata: non riuscire a ottenere o mantenere un lavoro provoca un profondo sconforto. Come confermato dalle ricerche, il fatto stesso di essere senza lavoro può deteriorare la salute mentale e fisica in soggetti precedentemen­ te sani e le conseguenze sono addirittura peggiori per le persone con disturbi mentali gravi. I servizi sociali quali il "lavoro con sostegno" (SE; supported empl'!Jment) aiuta­ no le persone con disabilità mentale grave e continuativa a ottenere degli impieghi stabili all'interno del proprio ambiente, trovando loro le opportunità adatte e spesso offrendo loro, parallelamente, servizi di alloggio e assistenziali. Attual­ mente, l'SE è considerato uno strumento di comprovata efficacia (Bond et al., 2002) . Come emerso dallo studio del Patient Outcomes R.esearch Team degli Stati *

Programma finanziato da Morris D. Bell e Paul Lysaker del Rehabi/itation and Development Service,

Department of Veterans AJ!airs degli Stati Uniti. 1

Impiego retribuito presso un regolare posto di lavoro con supporto continuativo per persone con disabilità (N.d.T.)

234

Terapia cogn itivo-comportamentale del le psicosi

Uniti, però, a tutt'oggi i soggetti con patologia mentale grave non trovano alcun servizio eli inserimento lavorativo nei servizi eli salute mentale e lo studio rac­ comanda fortemente eli implementarli. Una versione manualizzata dell'SE per i soggetti con patologia mentale grave (PMG), chiamata

Support (JPS),

Individuai Placement and

ha reso possibile attivare questo tipo eli servizio. L'IPS comprende

una serie eli strumenti, tra cui le linee guida per la formazione dello

st4f clinico,

degli amministratori e degli utenti e una scala eli misura della conformità al pro­ gramma; prevede anche che vi siano dei consulenti esterni che supervisionano la realizzazione dei servizi nella struttura (Becker,

2002) .

Nonostante l'SE sembri essere più efficace eli altri servizi eli inserimento la­ vorativo per la PMG, gli esiti occupazionali rimangono modesti: solo la metà dei soggetti ottiene un lavoro continuativo e, tra questi, molti hanno difficoltà a man­ tenerlo; un terzo delle persone lavora a tempo pieno, ma con mansioni non par­ ticolarmente complesse. I tassi d'impiego, inoltre, sono significativamente peg­ giori per chi ha una diagnosi eli Schizofrenia, il che suggerisce che questi pazienti possano aver bisogno eli interventi più mirati, che tengano in considerazione le specifiche caratteristiche della malattia collegate alle difficoltà lavorative. L'SE, quindi, risolve solo parzialmente il problema: può offrire al paziente sostegno e opportunità lavorative appropriate, ma la disabilità occupazionale ri­ mane evidente. Le persone con patologia mentale grave trovano comunque pro­ blematico adempiere alla propria mansione e, spesso, le loro difficoltà interper­ sonali incidono sul lavoro, provocandone in circa il

50%

dei casi l'interruzione,

con conseguente licenziamento o abbandono dell'impiego senza avere prospetti­ ve alternative. In questo capitolo, presenteremo alcuni interventi psicologici per massirnizzare l'efficacia del servizio eli inserimento lavorativo, ognuno dei quali si occupa eli un

deficit conseguente

alla malattia che non può essere superato unica­

mente per mezzo del sostegno offerto sul posto eli lavoro.

I GRUPPI DI FEEDBACKLAVORATIVO E DI DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI Chi beneficia dei servizi eli inserimento lavorativo frequenta un gruppo (che prevede, eli solito, da

4 a 8 partecipanti e un

facilitatore) una volta a settimana per

circa un'ora, in cui viene valutata la sua performance lavorativa, vengono affrontati gli eventuali problemi incontrati e impostati gli obiettivi per la settimana succes­ siva. Abbiamo condotto questi gruppi in

setting

diversi, sia per i programmi eli

lavoro con sostegno che per quelli di lavoro occasionale. Per poter avere un feedback sistematico, abbiamo creato il

ventory

Work Behavior In­

(WBI), uno strumento standardizzato per la valutazione della performance

lavorativa (Bryson et al., sue modalità

1 997). Una descrizione dettagliata del suo sviluppo, delle eli somministrazione e delle sue proprietà psicometriche è clispo-

Interventi psicologici per migliorare il funzionamento lavorativo

235

nibile altrove (Bryson e t al., 1 997). I l WBI viene compilato d a un professionista qualificato che osserva le persone sul posto di lavoro e svolge dei colloqui con i loro supervisori. Le scale del WBI includono: attitudini lavorative, qualità del lavoro, competenze sociali, capacità di cooperazione e modalità di presentazione; sono derivate da un'analisi fattoriale e rappresentano dimensioni simili a quelle di altri strumenti (come ad esempio il Work Personaliry Proftle). Il WBI ha mostra­ to un buon grado di accordo tra valutatori, una solida struttura fattoriale e una buona validità concorrente e discriminante. Sono state trovate anche evidenze dalla sua validità predittiva (Bryson et al., 1 999); i punteggi dalla terza settimana di lavoro predicono infatti il numero di ore lavorate in un programma lavorativo remunerato della durata di 6 settimane; i migliori predittori sono: competenze sociali, modalità di presentazione e capacità di cooperazione. L'insieme dei pun­ teggi delle ultime 6 settimane lavorative al WBI predice inoltre il numero di ore lavorate e la paga ricevuta a un jollow-up a 6 mesi. Questi risultati indicano che la performance, misurata con il WBI, ha una relazione significativa con gli esiti lavo­ rativi successivi. Nel corso degli incontri, solo la metà dei lavoratori riceve un feedback setti­ manalmente, mentre tutti partecipano al processo di problem-solving e alla defini­ zione degli obiettivi. Il facilitatore (solitamente un consulente del lavoro o un clinico) assume un atteggiamento empatico, prende atto - e si congratula - per le conquiste fatte dai pazienti e li invita ad affrontare realisticamente i problemi. In questo modo si favorisce l'apprendimento sociale, dato che i membri del gruppo si aiutano vicendevolmente e imparano dalle esperienze degli altri par­ tecipanti. Ogni settimana, le persone riferiscono i propri progressi rispetto agli obiettivi individuali prefissati e ne propongono degli altri - spesso basandosi sulfeedback ricevuto dal WBI - che possono prevedere di aumentare le ore di la­ voro, di rispettare una maggior puntualità, di avere un aspetto più presentabile, di accorciare le pause o di avvicinare un collega per pranzare in compagnia. Nei programmi che iniziano con un lavoro saltuario, o con il desiderio di cercarne uno migliore, gli obiettivi potrebbero anche riguardare la stesura del curriculum vitae, il crearsi una rete per ottenere un altro impiego o l'affrontare un colloquio di lavoro. Attualmente sono in corso degli studi sperimentali per determinare se l'erogazione di ricompense per aver raggiunto l'obiettivo incrementi o meno i risultati professionali. Di tale sperimentazione non sono però ancora dispo­ nibili i risultati.

Razionale Ci sono diverse ragioni per ritenere che fornire regolarmente un feedback sulla performance lavorativa e definire gli obiettivi sia particolarmente importante per i pazienti con disturbi psichiatrici.

236

Terapia cogn itivo-comportamentale delle psicosi

In primo luogo questi ultimi, se gravi, riducono spesso la capacità di percepire accuratamente se stessi e gli altri. I

deficit relativi al riconoscimento delle emozioni,

alla teoria della mente, alla memoria e alle funzioni cognitive possono rendere ancora più complicato comprendere cosa sta accadendo nel proprio ambiente sociale mentre si lavora. Il feedback, oltre a fornire informazioni in merito alle attitudini lavorative, valuta anche le abilità sociali, le modalità di presentazione e le capacità di cooperazione sul posto di lavoro. Benché questi comportamenti interpersonali siano cruciali per il successo lavorativo, spesso non vengono af­ frontati direttamente dai supervisori o dai colleghi. I primi sono abituati a con­ frontarsi con i lavoratori che arrivano ripetutamente in ritardo o che fanno molti errori e sono capaci di dare loro buoni suggerimenti per aiutarli a migliorare in questi ambiti; spesso, però, non amano affrontare temi relativi al ritiro sociale, agli atteggiamenti inadeguati o alle difficoltà ad accettare le critiche, perché possono non sentirsi a proprio agio nel toccare questi argomenti, perché credono di fare un favore alla persona non dicendole nulla o, ancora, perché non hanno un'idea chiara su come porre rimedio a tali problemi. Lasciando le cose invariate, però, le difficoltà possono accumularsi, per poi esplodere in un evento critico che può provocare la perdita del lavoro. Un feedback costante e sistematico può aiutare il paziente a cogliere i segnali provenienti dall'ambiente sociale in merito al suo atteggiamento interpersonale; grazie alla definizione degli obiettivi e al problem­

solving, inoltre, è possibile superare con successo questi ostacoli. In secondo luogo, i disturbi psichiatrici possono inficiare la motivazione e la fiducia in se stessi. Un feedback regolare garantisce una rassicurazione costante su quanto la persona sta facendo correttamente, indicandole al contempo cosa perfezionare.

A

causa della sensazione di indegnità che li pervade, spesso que­

sti pazienti credono che gli altri lavoratori li considerino inadeguati: un feedback accurato sul modo

in

cui vengono percepiti dai loro supervisori può ridurne la

diffidenza e dare loro maggior fiducia nell'interazione con i colleghi. Visualizzan­ do i grafici che mostrano i loro progressi nel corso del tempo, inoltre, i pazienti vengono incoraggiati dalle evidenze concrete dei propri successi: una volta fissati e raggiunti gli obiettivi, sviluppano una maggior sensazione di auto-efficacia e sono più disposti ad accettare nuove sfide. La letteratura scientifica relativa alla psicologia del lavoro e delle organizza­ zioni, infine, avvalora l'efficacia del feedback lavorativo e della definizione degli

Bu­ ilding a Practicalfy Usiful Theory of Goal Setting and Task Motivation: a 35-Year Ocfyssry, Locke e Latham (2002) hanno riportato una review della letteratura riguardante la motivazione al lavoro e gli esperimenti sul feedback lavorativo e la definizione de­ obiettivi nel migliorare la produttività individuale e delle aziende. Nel volume

gli obiettivi, concludendo con una riflessione riguardo alla generalizzabilità della teoria ad essi sottostante:

Interventi psicologici per migl iorare i l funzionamento lavorativo

237

I n linea con l a teoria della definizione degli obiettivi, s i è visto come avere delle mete specifiche e impegnative aumenti la performance relativa a più di 100 mansioni differenti, analizzando i risultati di oltre 40.000 lavoratori, provenienti da almeno otto Paesi del mondo, nel corso di simulazioni di laboratorio e sul campo. Le varia­ bili prese in considerazione sono state: la quantità e la qualità del lavoro, il tempo impiegato, i costi, il comportamento sul posto di lavoro e altre. Gli intervalli di tempo considerati nei vari studi sono stati da 1 minuto a 25 anni. In breve, quella della definizione degli obiettivi è una delle teorie della motivazione al lavoro tra le più valide e utili nella psicologia delle organizzazioni.

Supporto empirico Gli studi pubblicati sulle riviste di psicologia del lavoro e delle organizzazio­ ni confermano l'utilità delle valutazioni della performance lavorativa e del feedback costante per massimizzare la produttività, sottolineando come l'abbinamento di quest'ultimo e della pianificazione degli obiettivi porti a una miglior performance rispetto a quando questi elementi non sono combinati. Altri studi dimostrano come

un

feedback

frequente e specifico incoraggi all'autovalutazione e come que­

sto, assieme alla pianificazione, faciliti il raggiungimento degli obiettivi stessi. Esistono solo pochi studi relativi all'utilizzo della valutazione lavorativa e del

feedback nei setting riabilitativi psichiatrici: in uno studio controllato (Kravetz et al., 1 990), 49 partecipanti a un programma di formazione professionale sono stati randomizzati in modo che una parte di essi ricevesse un feedback sui punteggi relativi alle sue caratteristiche lavorative e si incontrasse in gruppo per discutere sull'importanza di queste caratteristiche. I risultati hanno evidenziato dei miglio­ ramenti significativi nelle persone che ricevevano

un

feedback rispetto alle altre. In 1 975), 75 persone definite

un secondo studio controllato (Hartlage e Johnsen,

"disoccupate croniche" sono state randomizzate in modo che una parte di queste guardasse quotidianamente un video del proprio comportamento lavorativo e un'altra parte ricevesse

15

minuti di

counseling.

Dopo due settimane, questo se­

condo gruppo ha mostrato maggior produttività, ha lavorato per più tempo e ha tenuto comportamenti sociali più adeguati sul posto di lavoro; anche al follow-up rispetto all'inserimento lavorativo

è risultato migliore. Un terzo studio controllato 1 972), su 60 pazienti affetti da Schizofrenia partecipanti a un pro­ gramma di riabilitazione, ha paragonato l'utilizzo di feedback specifici (su velocità e accuratezza nel lavoro) rispetto a feedback aspecifici, evidenziando come i primi facilitassero l'acquisizione di maggior accuratezza nella propria performance. Un nostro studio, infine (Beli, Lysaker e Bryson, 2003), ha coinvolto 74 pa­ (Fishwick et al.,

zienti affetti da Schizofrenia inseriti in un programma per il cambiamento di lavo­

ro che sono stati randomizzati in modo che una parte di essi ricevesse un feedback sulla propria performance lavorativa e si impegnasse nella definizione degli obiettivi,

238

Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi

standard. Il primo gruppo ha mostrato un maggior miglioramento generale nella performance lavorativa e un maggior miglio­ mentre un'altra parte ricevesse i servizi

ramento al WBI relativamente a: competenze sociali, capacità di cooperazione e modalità di presentazione; il punteggio totale del

test, inoltre, è

risultato signifi­

cativamente più alto. I pazienti hanno anche lavorato per più ore a settimana du­ rante i

6 mesi di lavoro transitorio, ottenendo dei miglioramenti nella dimensione of Lift scale (che riflette un aumento della motivazione,

intrapsichica della Qualz!J

della sensazione di avere uno scopo e della gioia di vivere). Tali dati, tutti stati­ sticamente significativi, indicano come il ftedback specifico e la definizione degli obiettivi possano incrementare la performance lavorativa, in particolare per quanto riguarda i comportamenti interpersonali - che i supervisori affrontano con più difficoltà - e accrescere la produttività generale e la motivazione, la sensazione di avere un obiettivo e la gioia di vivere. Questi studi sono diversi tra loro per tipo di campionamento, modello di in­ tervento e attività lavorativa ma, combinati con quelli assai più numerosi relativi ai lavoratori "normali", sottolineano i benefici del ftedback costante e della defini­ zione degli obiettivi per migliorare la performance lavorativa. Negli studi successivi, che si sono serviti della TCC o dei programmi di "recupero cognitivo" (descritti in seguito), sono stati inclusi i gruppi di ftedback lavorativo e di definizione de­

gli obiettivi come parte dei servizi riabilitativi, anche perché siamo convinti che questi possano essere agevolmente abbinati agli altri interventi psicologici e ne facilitino la generalizzazione degli effetti.

IL PROGRAMMA DI INTERVENTO LAVORATIVO DI INDIANAPOLIS: UN APPROCCIO COGNITIVO­ COMPORTAMENTALE Il programma di intervento lavorativo di Indianapolis (IVIP;

cational Intervention Program)

Indianapolis Vo­

offre ai lavoratori degli interventi settimanali, sia di

gruppo che individuali, che hanno come

target le

credenze e i comportamenti

che potrebbero interferire con la capacità di mantenere il proprio impiego. Al­ cuni esempi di credenze e comportamenti che possono portare a scarsi risultati lavorativi includono l'aspettativa di essere rifiutati dai colleghi o dai supervisori, indipendentemente da quanto ci si impegni, o la tendenza a essere verbalmente aggressivi quando si riceve una critica. Nel modello IVIP si utilizzano i gruppi per esporre il materiale didattico, mentre le sedute individuali servono a discutere col paziente come applicare queste abilità nel corso della settimana seguente. Entrambe le modalità d'intervento si basano sui principi della terapia cogni­ tivo-comportamentale (fCC); i gruppi sono condotti da due co-terapeuti che seguono un manuale d'intervento e un ordine del giorno

standard,

che prevede

tre sezioni: introduzione, intervento e riepilogo. Gli obiettivi principali dell'in-

Interventi psicologici per migl iorare i l funzionamento lavorativo TAB. 15.1.

239

Descrizione dei moduli didattici dell'IVIP.

Titolo del modulo

Numero e titolo della seduta

Obiettivi della seduta (esempi di concetti e abilità a cui dedicarsz)

Pensare e lavorare

1 . Errori cognitivi e lavoro

Riconoscere l'impatto dei pensieri negativi

Modificare il pensiero controproducente

2.

Identificare i pensieri automatici negativi che si ripercuotono sul lavoro Modificare le cognizioni disfunzionali utilizzando il modello delle 4 A 1 Applicare il modello delle 4 A alle espe­ rienze lavorative dei pazienti

Barriere lavorative

3.

Problem-solving barriere Identificare le barriere lavorative potenziali o attuali lavorative Utilizzare i passaggi del problem-solving per superare le barriere lavorative

4. Gestire le emozioni

Identificare gli stati emotivi che minacciano il lavoro Utilizzare gli strumenti della TCC per gestire le emozioni difficili

Relazioni sul posto di lavoro

5.

Accettare e imparare dal feedback

Saper discernere la critica costruttiva da quella distruttiva Applicarsi passo per passo per migliorare tenendo conto deifeedback lavorativi

6.

Esprimersi efficace­ mente

Imparare i principi della comunicazione assertiva Allenarsi a fornire unfeedback lavorativo in modo efficace

Valutazione di sé 7. Pensare sia alle più realistica proprie capacità che ai propri limiti

Identificare gli errori del pensiero che compromettono un'adeguata autovalutazione Identificare i propri punti di forza, le proprie limitazioni e i cambiamenti necessari

8.

Gestire il successo

Definire successo e fallimento per mezzo del modello cognitivo Modificare i pensieri disfunzionali in merito al fallimento lavorativo

1 N.d.T.: Il modello delle

4A

enfatizza la connessione tra essere consapevoli, pronti a rispondere, attivi e ac­

cettanti (in inglese "aware", "answering", "acting", "accepting". Nella traduzione italiana le l'acronimo vanno perse).

4 A che

formano

240 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi traduzione, che dura 1 0- 15 minuti, sono: 1) aiutare i partecipanti a identificare i potenziali problemi sul posto di lavoro; 2) fornire loro dei rinforzi sociali positivi per i risultati ottenuti; 3) stabilire un collegamento con l'ultima seduta; 4) verifica­ re la comprensione del materiale didattico, riassumendone al contempo i concetti principali. Anche se l'IVIP prevede un ordine del giorno standard, secondo la prassi tipica della TCC, il conduttore del gruppo mette a punto volta per volta, assieme ai partecipanti, l'ordine del giorno specifico della seduta. L'intervento vero e proprio dura generalmente 30-40 minuti e prevede tre attività: 1) esporre il materiale didattico della settimana; 2) aiutare i partecipanti a mettere in pratica quanto esposto con specifici esercizi applicativi e 3) offrire un feedback lavorativo. La parte didattica dell'IVIP è organizzata in 4 moduli da due incontri, in quanto tratta da altre fonti e opportunamente adattata, per un totale di 8 sedute, che vengono presentate in un ordine specifico e ripetute almeno 3 volte durante i 6 mesi di durata del programma. Il contenuto di ognuno di questi moduli è riassunto nella tabella 15.1. Nella parte didattica, il materiale viene presentato prima in maniera astratta, per poi essere calato sulla realtà lavorativa dei singoli partecipanti, attraverso l'uso di role plrg videoregistrati, preparati o spontanei, del rilassamento muscolare pro­ gressivo e della registrazione dei pensieri emersi in seduta. Il feedback lavorativo, l'ultimo aspetto della parte inerente l'intervento, si basa sul Work Behavior Inventory (Bryson et al., 1 997) e, nelle prime 8 settimane, viene fornito quindicinalmente, poi mensilmente. La parte finale delle sedute di gruppo è il cosiddetto riepilogo, durante il quale il conduttore chiede ai partecipanti di riassumere ciò che hanno imparato e/ o di identificare ciò che secondo loro ha avuto il maggior impatto. Il conduttore può anche fornire un feedback ai membri del gruppo in merito alla propria esperienza, premettendo gli argomenti che verranno affrontati la settimana successiva. Grazie agli incontri di counseling individuale previsti dall'IVIP, i partecipanti hanno modo di rivedere e applicare il materiale didattico appreso negli incontri di gruppo, imparando inoltre a identificare e concettualizzare le proprie preoccupa­ zioni a riguardo usando l'approccio cognitivo-comportamentale. Generalmente, le sedute cominciano la settimana precedente all'inizio del lavoro; le prime due fungono da introduzione e hanno almeno 4 obiettivi: 1) iniziare a stabilire un'al­ leanza terapeutica; 2) abituare i partecipanti a rispettare routine e orari; 3) valutare le aspettative dei partecipanti in merito al lavoro e 4) occuparsi degli ostacoli im­ mediati e/ o potenziali per il successo lavorativo. In questa fase, il terapeuta aiuta i partecipanti a identificare e superare le barriere lavorative iniziali, servendosi per lo più di metodi comportamentali. Le sedute individuali sono strutturate in modo analogo a quelle di gruppo (introduzione, intervento e riepilogo). Prima dell'inizio di queste, i partecipanti

Interventi psicologici per migliorare i l funzionamento lavorativo

241

valutano il grado di convinzione e l'impatto delle principali credenze, precedente­ mente identificate assieme al terapeuta in modo collaborativo. In seguito, durante l'introduzione, essi riferiscono il grado di impegno posto nell'esecuzione dei com­ piti da svolgere tra una seduta e l'altra, fornendo anche un breve aggiornamento riguardo all'ultima settimana lavorativa e comunicando le eventuali preoccupa­ zioni per la propria salute mentale. Il terapeuta rivede anche i compiti scritti che sono stati assegnati al paziente durante l'ultima seduta di gruppo: generalmente, per completarli sono sufficienti 1 5 minuti, ma i partecipanti con problemi cogni­ tivi possono aver bisogno di più tempo. Per incentivare il completamento degli esercizi scritti, per ogni prova portata a termine viene erogata una retribuzione pari a un'ora di lavoro.

Razionale A causa di diversi fattori - tra cui lo stigma riguardo alla malattia mentale e alle sue conseguenze - molti soggetti schizofrenici credono di avere competenze limitate, di godere di scarsa considerazione agli occhi dei membri della propria comunità e di avere poche possibilità di successo in ambito lavorativo nonostante l'eventuale supporto ricevuto. Possono pensare di non riuscire ad autodetermi­ nare le proprie vite e si aspettano di fallire sia nel contesto sociale che in quello lavorativo (Lysaker e Buck, 2006). In linea con queste osservazioni, si è visto come nella Schizofrenia le credenze negative su di sé predicano esiti lavorativi peggiori. Con queste premesse, molti soggetti affetti da Schizofrenia iniziano il lavoro aspettandosi delle difficoltà, cre­ dendo di riuscire a ottenere poco nonostante gli sforzi e, quindi, perdendo delle opportunità quando si trovano in contesti competitivi. L'IVIP è stato sviluppato per aiutare i pazienti affetti da disturbi dello spettro schizofrenico a identificare e monitorare i pensieri e i comportamenti disfunzionali relativi al lavoro, conceden­ dosi un'opportunità di successo. Il gruppo insegna alla persona a cogliere i nessi tra pensieri, emozioni e comportamenti, mentre le sedute individuali le offrono l'occasione di comprendere e modificare la percezione di sé sul lavoro.

Supporto empirico A tutt'oggi, un solo studio randomizzato e controllato ha esaminato l'impatto dell'IVIP sugli esiti lavorativi (Lysaker et al., 2005a): dal Midwestern Veterans Admi­ nistration Medicai Center sono stati reclutati 50 partecipanti, affetti da Schizofrenia o Disturbo Schizoaffettivo, a cui sono stati offerti 6 mesi di collocamento lavo­ rativo; metà di questi ha seguito il programma IVIP e l'altra metà un semplice supporto lavorativo standard, che prevedeva un incontro settimanale di gruppo in cui i partecipanti erano invitati a condividere le proprie perplessità e ricevano assistenza attraverso strategie di problem-solving.

242 Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi Tutti i partecipanti erano uomini e in media avevano

48,1

anni (DS =

5,7),

1 2,5 anni di scolarizzazione (DS = 1 ,2) e 1 0,5 anni di ospedalizzazione psichiatri­ 9,52), la prima delle quali avvenuta mediamente a 24,7 anni (DS = 6,2).

ca (DS =

Uno psichiatra loro assegnato si occupava della gestione farmacologica. Tutti i soggetti erano in fase post-acuta di malattia, ovvero non erano stati re­ centemente ricoverati, la terapia farmacologica non era stata modificata, né c'era­ no state delle variazioni nella condizione abitativa nel corso del mese precedente all'inizio dello studio; motivo di esclusione sono state, invece, una diagnosi di ritardo mentale o la presenza di altri disturbi neurologici. Dopo la randomizzazione, ogni settimana sono state registrate le ore lavorate, mentre la performance lavorativa

è stata valutata quindicinalmente per mezzo del Work Behavior Inventory (WBI) . I livelli di fiducia in se stessi e di autostima sono stati misurati, alla baseline e dopo 5 mesi, tramite la Beck Hopelessness Scale e la Ro­ senberg Se!f Esteem Scale. L'analisi della varianza (ANOVA) ha evidenziato come i

partecipanti al gruppo IVIP avessero lavorato in modo statisticamente significa­ tivo (p