Teoria e prassi. Corso all'École Normale Supérieure 1975-1976 9788816414464

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Teoria e prassi. Corso all'École Normale Supérieure 1975-1976
 9788816414464

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INDICE

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Nota del curatore francese

PRIMA LEZIONE

13

SECONDA LEZIONE

3.3

TERZA LEZIONE

55

QUARTA LEZIONE

73

QUINTA LEZIONE

91

SESTA LEZIONE

107

SETTIMA LEZIONE

123

OTTAVA LEZIONE

135

NONA LEZIONE

147 157

I curatori

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NOTA DEL CURATORE FRANCESE

J acques Derrida ha tenuto questo seminario sul rapporto tra teoria e pratica all'École Normale Supérieure, dove ha insegnato negli anni '70. Si trattava di un corso per l'aggregazione, il soggetto gli fu imposto. L'interesse filosofico e storico delle nove lezioni dd seminario risiede nella serrata discussione di Marx, in particolar modo della famosa Xl Tesi su Feuerbach", e per l'analisi degli scritti di Althusser. Finora, si è pensato che, con l'eccezione ·di alcune allusioni, Derrida avesse iniziato a trattare Marx in modo sistematico e completo solo nei primi anni '90, quando pubblicò Spectres de Marx. Tuttavia, questo seminario, che risale al 1975-1976, dimostra che non è così. "Si deve farlo": Derrida usa questa frase idiomatica come filo conduttore dd suo seminario. Sfrutta tutte le risorse che essa gli offre per parlare della rdazione tra teoria e pratica. Così, distingue tra due diversi "accenti" di quell'espressione idiomatica: da un lato, «si deve farlo» indica la necessità della prassi, il passaggio dal contemplare e dal dire all'agire e al fare, ma dall'altro, «si deve farlo» può anche riferirsi ad una determinazione di prassi- rivoluzionaria, piuttosto che una determinazione teorica della prassi, come se per essere rivoluzionaria, la prassi debba superare l'opposizione tra teoria e pratica e determinarsi già a partire da sé. Si può considerare che l'uso della forma parlata senza pronome ("deve" [«faut» ] invece di "si deve" [«il faut»]) vada in questa direzione attraverso il suo vigore semplificatore/rustico [rustique]. 7

Teoria e prassi

Il dattiloscritto del seminario è conservato negli archivi dell'Uni~ versiti\ di lrvine in Cnlifornia. La trascrizione e la battitura sono stati elabontti a partire da fotocopie fomite dai bibliotecari responsabili di questi archivi. Fotocopie del datùloscritto sono state depositate anche presso l'!MEC (lnstitut Mémoires de l'édition contemporaine) e possono essere consultati (Fondo Derrida). Composto su una macchina da scrivere e corredato regolarmente di annotazioni a margine, il dattiloscritto a volte rende necessario ricostruire un testo che è rimasto allo stato di preparazione per la presentazione orale. Per consentire una lettura continua, era necessario ricostruire il movimento e la chiarezza di tale discorso, senza, naturalmente, alterare il pensiero. Al fine di non moltiplicare le note a pie' pagina, e lasciandomi guidare da ragioni di leggibilità nel senso più convenzionale della parola, non ho solo corretto errori di distrazione, stabilito una coerenza minima circa le scelte tipografiche, cancellato ripetizioni indesiderate senza avvertire ogni volta il lettore di tali interventi, ma ho anche modificato il testo in più punti, senza segnalarlo esplicitamente. Ecco, a titolo esempli.ficativo, alcuni esempi di questi cambiamenti che non sono stati esplicitamente segnalati: 1. All'inizio della prima sessione del seminario, Derrida menziona diverse locuzioni ("Ho intenzione di farlo"), espressioni idiomatiche ("si deve farlo") e parole isolate ("fare"). A volte le sottolinea, altre volte le mette tra virgolette, e talvolta anche le scrive rinunciando a evidenziarle tipograficamente. Non avendo potuto riconoscere un significato sistematico a questi usi tipografici nelle pagine in questione, mi sono accontentato di segnalare queste locuzioni, frasi idiomatiche e parole isolate usando le virgolette, indicando in questo modo il fatto della loro menzione nel discorso di Derrida. 2. In ogni caso nel corso della prima lezione, troviamo la seguente frase nel dattiloscritto di Derrida: Ce qui revient à dire que non seulement tous les prédicats à partir desquels on pourrait essayer de cerner ce que praxis veut dire dans ce contexte (à savoir, par exemple, !es prédicats de «activité», «activité subjective (de sujets humains)», activité objective (Gegenstand/iche Tatigkeit), !es valeurs de vérité, de pensée, etc., etc., ces prédicats qui ont l'air de contribuer à définir la praxis depuis un réseau de philosophèmes traditionnels, en fait sont à leur tout, devraient etre à leur tour transformés, travaillés, 8

Nota del curatore francese révolutionnés par cette pratique-révolutionnaire, cette activité pratiquement critique et révolutionnaire, «pratique-révolu1ionnaire» cons1i1uan1 une locution elle-meme révolutionnaire en ce sens qu'il ne s'y agirait pas d'une pratique - dont tout le monde comprendrait déjà ce que ça veu1 dire - et qui se préciserait en «révolutionnaire, qui aurait la singularité de devenir révolutionnaire et de recevoir le prédicat de révolutionnaire, mais bien une pratique-révolution, c'est-à-dire une pratique qui ne deviendrait pratique, la pratique qu'elle doit etre, ne donnerait accès à son sens (théoriquement) et à son etre- pratique de pratique, qu'à partir de la pratiquerévolutionnaire1.

Nella sua versione corretta e ridaborata da me, la stessa frase appare come segue: Ce qui revicnt à dire non seulement que tous Ics prédicats à partir dcsquels on pourrait essayer de cerner ce que «praxis» veut dire dans ce contexte (à savoir, par exemple, Ics prédicats d' «activitb>, «activité subjective (dc sujets humains)», «activité objective (gegenstiindliche Tiitigleeit)», Ics valeurs de vérité, de pensée, etc., ces prédicats qui ont l'air de contribuer à défìnir la «praxis» depuis un réseau de philosophèmes traditionnels), en fait sont à leur tour, devraient etre à leur tour 1ransformés, travaillés, révolutionnés par cette pratique-révolutionnaire, cette activité pratiquement critique et révolutionnaire - mais que «pratiquc-révolutionnaire» constitue une locution elle-meme révolutionnaire, en ce sens qu'il ne s'y agirait pas d'une pratique dont tout le monde comprendrait déjà ce qu'elle veut dire et qui se préciserait ensuite en «révolutionnaire», qui aurait la singularité de devenir révolutionnaire et de recevoir le prédicat de révolutionnaire, mais que cette pratique-révolution, c'est-à-dire cene pratique qui doit devenir ce qu'elle doit etre, ne donnerait accès à son sens (théoriquement) età son etre-pratique qu'à partir de la pratiquerévolutionnaire. Ciò riconferma il fatto che non soltanto tutti i predicati a partire dai quali si potrebbe cercare di individuare ciò che «praxis» vuol dire in questo contesto - cioè, per esempio, i predicati di «attività», «attività soggettiva (dei soggetti umani)», «attività oggettiva» (gegenstiindliche Tà'tigkeit), i valori di verità, di pensiero ecc., - questi predicati che hanno l'aria di contribuire a definire la «praxis» a partire da una rete di filosofemi tradizionali, sono in effetti a loro volta, dovrebbero essere a loro volta, trasformati, lavorati, ri-

Foglio 12 del dattiloscritto.

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Teoria e prassi voluzionnò dn questa prnssì-rivoluzionnrìa, questa attività praticamente critica e ri\'oluzionnrin -, mn che «pratico-rivoluzionario» costituisca una locuzione essa stessa rivoluziona rin, nel senso che non si tratterebbe di una pmticn in cui tutti comprenderebbero già ciò che vuol dire e che sì preciserebbe in seguito come «rivoluziom1ria», che avrebbe la singolarità di divenire ri,-oluzionarin e di ricevere il predicato di rivoluzionario, ma che questa prassi-rivoluzione, cioè questa prassi che deve divenire ciò che deve essere, non darebbe accesso al suo significato (teoricamente) e al suo essere pratico che a panirc dalla prassi rivoluzionaria2•

Il lettore potrà facilmente constatare che nella revisione di questa frase per la pubblicazione dd seminario, ho corretto due errori di battitura (« à leur tour» al posto di «à leur tout», «gegenstiindliche Tiitigkeit» al posto di «Gegenstiindliche Tiitigkeit»). Inoltre, ho fatto diverse correzioni tipografiche, aggiungendo virgolette dimenticate, chiuso parentesi e identificato sempre le parole o le frasi citate tra virgolette ("prassi", "pratico-rivoluzionario"). Infine, ho leggermente ridaborato la frase poiché la sintassi non era coerente. Derrida usa un "non soltanto" che richiede l'uso di un "ma". Ma questo "ma" non arriva mai. L'unico "ma" che la frase contiene non si riferisce a "non soltanto". Questo è solo un esempio della necessaria ridaborazione di una brutta copia e dd rispetto imperativo dd pensiero. Per questa edizione, che, come si può facilmente dedurre da quanto precede, non vuole essere critica, ho trascritto l'intero testo con questo spirito. Ho anche creato un piccolo apparato di note a fondo pagina. Contiene i riferimenti ai testi citati o nominati da Derrida. Quando Derrida dà la propria traduzione di un testo tedesco o greco, si troverà nelle note la traduzione francese dello. stesso passaggio, spesso la traduzione che Derrida stesso ha consultato. Gli interventi tra parentesi quadre nelle citazioni sono di Derrida. La parola "lavagna" [tableau], che il lettore troverà qua e là, significa che Derrida usa la lavagna nella stanza in cui teneva lezione. Ci sono alcuni fogli separati con parole, nomi o frasi aggiuntive. Potrebbe trattarsi di appunti per tenere a mente alcune cose [aidemémoire]. Vorrei ringraziare calorosamente Marguerite Derrida che mi ha aiutato a decifrare la scrittura di Derrida e che ha sostenuto fin dall'iz

Vedi in/r4, p. 24.

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Nota del curatore francese

nizio il progetto di pubblicazione di questo seminario. E ringrazio anche Hden eJean-Luc Nancy, e Hugo Santiago, che hanno approvato la mia modalità di trascrizione e mi hanno molto gentilmente offerto il loro aiuto nella rilettura dd testo, nella verifica delle citazioni greche, e nd ritrovamento dei riferimenti mancanti. I titolari dei diritti di J acques Derrida e le edizioni Galilée hanno accettato che io adottassi le regole seguite per l'edizione degli altri corsi e seminari di Derrida; permettetemi di ringraziarli.

Alexander Garda Diittmann

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PRIMA LEZIONE

Teoria e prassi, dunque. Eh, si deve farlo 1, Quando dico «si deve farlo» che cosa faccio? Di certo, in apparenza, tiro un sospiro di scoraggiamento, con un'ombra di protesta, ironica, davanti a un programma che ci impone di trattare in un solo anno, e sotto la forma di un seminario, una questione di tale importanza, ammesso che sia una. Tento, come tutti gli anni - ma rassicuratevi non andrò oltre quest'anno - l'analisi critica della situazione che ci è imposta, invitandovi a non accontentarvi di criticare - in teoria - ma a tentare di trasformare effettivamente, praticamente questa situazione. Stop in questa direzione. Ma se analizzate più da vicino il sospiro che mi sono lasciato scappare, se lo analizzate al di là di ciò che può tradursi in uno scoraggiamento disincantato, da parte mia, in un'impotenza dichiarata e in rinuncia ad occuparmi, in queste modalità, di un tale argomento, se considerate la locuzione formulata prima «si deve farlo», se la considerate, dico, - ma non potete giustamente considerarla, potete soltanto intenderla in una situazione, come un avvenimento in un

1 Faut le /aire. Questa espressione che è propria dd linguaggio francese, anche familiare, riveste in questo corso un carico particolarmente importante ndl'individuare una s1ru11ura, un elemento essenziale, per la comprensione del rapporto stesso tra teoria e prassi. Le sue possibili rese in lingua italiana (che, in varia misura, sono presenti talvolta simultaneamente nel dettato derridiano) si muovono tra: «si deve farlo»; «occorre il fare» e, idiomatismo per idiomatismo, «è una bella gatta da pdare!» (ndt)

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Teoria e prassi

contesto, e secondo il contesto, un contesto tipicizzato, perché ci sono vari tipi di contesto e In variabilità dei contesti non è assolutamente empirica e atipic~1, essa comporta delle possibilità di regolazione tipica, - se dunque la intendete in un contesto tipicizzato, ci sono almeno due sensi della locuzione «si deve fare» nella nostra lingua, due accentuazioni, due implicazioni. Ciò significa: 1) Pni11a accentuazione (essa ci intratterrà molto a lungo): non è sufficiente parlarne, pensarne, promettere, considerare, osservare comprendere o ricevere passivamente, si deve farlo, detto altrimenti, «ci vuole la pratica». La teoria non basta, «ci vuole la pratica». Ma capite già che la difficoltà di fare, difficoltà che è connotata nella locuzione «si de,·e fado» che vuol sempre dire «non è facile» perché non basta considerare, vagliare, capire, attendere, ricevere passivamente, contentarsi di parlarne o di pensarne o di averne l'intenzione, bisogna proprio farlo e questo è più difficile, questo è il difficile; ma questa difficoltà, dunque, non è soltanto quella che è direttamente enunciata da ciò che dico quando dico «si deve farlo», essa c'è già nella difficoltà di comprendere (pensare, capire, determinare, considerare) ciò che voglio dire quando dico «si deve farlo». Avete visto - o inteso - che prima ancora di sapere ciò che vuol dire «fare» sapevamo che il suo senso, il suo voler-dire non potrebbe determinarsi se non nd contesto di una opposizione: il fare si opporrebbe tanto al pensare, al rappresentarsi, tanto al vagliare, al considerare, tanto al parlare; al dire e ancora a numerosi modi di dire, di linguaggio, dal momento che il linguaggio enuncia ciò che è o ciò che sarà e ciò che sarà precisamente sono la forma della previsione teorica o proprio sotto la forma dell'impegno e della promessa. «Lo farò»: non è sufficiente dire che lo farò, si deve farlo; ma «Io farò» può costituire esso stesso una previsione o un impegno; dicendo «Io farò», questo seminario, posso annunciare che esso entra nelle mie previsioni di farlo, che è soltanto un futuro, ma anche che io mi impegno, con una promessa o un contratto, a farlo; e anche, complicazione supplementare, dire che ho intenzione di farlo non significa che io prometto di farlo; non è la stessa cosa, il medesimo significato, la stessa intenzione dal momento che l'enunciato «Io farò» può significare una previsione teorica o anche un'intenzione senza impegno e senza promessa o anche una promessa; e si potrebbe anche fare un'analisi molto più fine, che faremo senza dubbio più tardi. Per il momento, mi accontento di sottolineare che il fare di «si deve farlo» comporta, oltre la difficoltà che dichiara («è da fare») la difficoltà a comprendere ciò che agisce dicendo

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Prima lezione

«si deve farlo», dal momento che il fare non si determina che in una opposizione; e opporsi a pensare non è opporsi a rappresentarsi né a vagliare, né a parlare o a dire, né a prevedere né a promettere né ad essere passivi; in ogni istante dell'opposizione, «fare» significa altro, e talvolta tutt'altro e non soltanto perché ·è ecc. Il debordare di una filosofia attraverso un'altra, il debordare della filosofia attraverso un "pensiero" che non è più semplicemente/i/oso/ico, questo debordare è il tratto essenziale (ma come può il debordare essere un tratto?) di ogni discorso {ma il discorso è teoria o prassi?) sul rapporto "teoria/prassi". Si tratta anche del tratto del discorso in generale. Se riprendo gli enunciati che ho appena formulato (rilegger-

-~~-~-i~~~?"

7



lbid., p. 29. Cfr. ibid., pp. 38-39.

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Teoria e prassi

li), noto, rimontando dall'ultimo al primo, che nel «discorso» marxista ulthusseriano, per esempio, ciò che ho identificato come discorso fùosofico sulla teoria e sulla pmssi non poteva lasciarsi così identificare da pane a pane. Sebbene Althusser non ponga questo tipo di problem11, è tuttavia chiaro che nel momento in cui si definisce il progetto marxista di una nuova pmssi della fùosofia, nel momento in cui AJ. thusser definisce il luogo della fùosofia (come lotta di classe nella teoria), il discorso che definisce non è più semplicemente quello della fi. losofìa che si definisce o che si situa; d'altra parte, questo discorso che definisce sé stesso è anche un atto, un gesto politico, una prassi, non è più un linguaggio puramente teorico, e nemmeno una prassi essenzial, mente teorica. Il discorso teorico o filosofico, come il discorso in generale, si deborda nel suo operare. La definizione althusseriana della prassi marxista della filosofia intende debordare non soltanto ogni altra filosofia, ogni storia della filosofia cosl interpretabile e trasformabile a partire da una presa di partito nella lotta di classe, ma essa intende debordare anche il filosofico come tale dal momento che esso è definito ed anche situato in un campo (la lotta di classe) che esso non domina, e che è lontano da riassumersi alla sua istanza filosofica. Filosofia debordata, dunque. Ma è sempre appartenuto al filosofico il debordare, il debordare sé stesso, il comprendere sé stesso e il resto. Tanto che è sempre difficile, instabile, l'affermazione secondo cui il definire o il situare la filosofia non sia esso stesso filosofico. Niente è più filosofico dell'atto di definire o situare il filosofico nel campo generale di ciò che è, dell'essere come questo o quello, qui come produzione o prassi. Allora? Dove situare i bordi attraverso i quali la filosofia si deborda debordandosi essa stessa, attrezzandosi preventivamente? Nel primo degli enunciati che ho appena riletto, c'è la parola "pensiero": il debordamento della filosofia da parte di un «pensiero». Qualunque , cosa si possa esplorare del contenuto semantico di questa parola e che ' cosa si possa rispondere alla domanda «che cosa significa pensare?», che lascio per il momento da parte, la funzione di questa parola nel mio enunciato marcherebbe uno scarto tra il filosofare e il pensare, come se ci fosse in qualche modo un pensare la cui possibilità e il cui luogo non fossero semplicemente filosofici, debordando la filosofia. Ma dove voglio arrivare con questo pensiero? A Heidegger, direte voi, sicuramente, che distingue tra filosofare e pensare e che determina in qualche modo il limite del filosofico a par-

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Quinta lezione

tire da qualcosa come un pensiero che non sarebbe ancora o che non sarebbe già più filosofico. A Heidegger, dunque, ma non così in fretta. Voglio restare ancora un istante nel discorso marxista althusseriano. In Lenin e la filosofia tutto uno sviluppo riprende in parte, in una linea marxista classica, l'idealismo che si collega all'interesse per il pensiero come pensiero puro (e ciò a proposito di Lévi-Strauss). Ma alla pagina precedente, la parola "pensiero" è valorizzata in una forma abbastanza insolita nel discorso marxista. Posta in corsivo, ne fa l'oggetto di una valutazione positiva di cui è difficile dire dove vada a parare, al pensiero come operazione concettuale-filosofica o a un pensiero che sarebbe già più che filosofico. È difficile sapere se nelle poche righe che sto leggendo il pensiero designi il rigore filosofico che concettualizza ciò che non era ancora concettualizzato, o se esso designi ciò che in Lenin, poiché si tratta del pensiero di Lenin, permette di pensare il filosofico come tale, a partire da un pçnsiero che non è più semplicemente filosofico: In fondo Engels, che ha lampi di genio straordinari quando lavora su Marx, non ha un pensiero paragonabile a quello di Lenin. Gli succede spesso di accostare delle tesi piuttosto che pensarle nell'unità del loro rapporto9.

Pensare designa qui, in ogni caso, l'operazione di debordamento in rapporto alla storia della filosofia premarxista. Nessun dubbio che dal punto di vista marxista fino ad oggi, per quanto ne so, non c'è mai stata una lettura marxista riuscita, rigorosa, e, secondo me, soddisfacente, di Heidegger (e neanche di Nietzsche), nessun dubbio che sotto questa non-lettura regga la sicura certezza che Heidegger sia compreso anticipatamente nella "lotta secolare" dell'idealismo e del materialismo, e che egli rappresenti una variante, più o meno sottile, inedita o surdeterminata, dei possibili di questa lotta. Che valore ha questa certezza? Di quale lettura produce un'economia oppure se ne guarda? E quando domando "da quale lettura si protegge?", non mi appello a una lettura che sarebbe soltanto di adesione, ma anche a una lettura eventualmente decostruttrice di Heidegger e delle questioni che Heidegger pone al marxismo, al soggetto del marxismo e di ciò che Heidegger considera come il senso del marxismo. 9

lbid., p. 41.

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Teoria e prassi

Poiché c'è un'impresa di debordamento del discorso marxista e del suo sp11zio met11fisico da parte di Heidegger; ed è a questo controdebordamento che volevo arrivare. Tutto si s,·olge intorno alla questione della tecnica di cui abbiamo visto annunci11rsi come un luogo essenziale, come uno schema, uno schem11tismo (nel senso analogicamente kantiano, se volete) nell'opposizione "teoria/prassi". Nel testo di Heidegger LA questione della tecnica (1953) non c'è alcuna allusione al materialismo dialettico. Ma nella Lettera sul/'«umanismo» (1946) si trova al tempo stesso lo schema essenziale che situa la tecnica secondo Heideigger, che sarà sviluppata qualche anno più tardi nella conferenza sulla tecnica, e un situarsi del marxismo in rapporto a tale questione della tecnica. Mi riferisco dunque, per questo primo situarsi, alla Lettera sul/'«umanismo». Ne avevamo già circoscritto l'essenziale quando avevo citato quella sorta di ambiguo omaggio che Heidegger rende a Marx, a Marx che riconosce la storicità nell' essenzialità dell'essere, e soprattutto al materialismo moderno in quanto esso non è rifiutabile, in quanto esso non consiste essenzialmente nell'affermazione che tutto non è che materia, ma in una «determinazione metafisica»10, secondo la quale ogni ente appare come materiale del «lavoro» >, «pensata in anticipo», da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, come il «processo che si organizza da sé stesso» (sich selbst einrichtender Vorgang) della «produzione incondizionata» cioè la «oggettivazione» (Vergegenstiindlichung) del reale, dell'«effettivo» (des Wirklichen), da parte dell'uomo «sperimentato come soggettività»11. Che cosa vuol dire tutto ciò? E in che cosa ciò può, da una parte, essere una definizione del materialismo dialettico e, dall'altra, riferirsi a qualcosa come la tecnica? Prendiamo questi enunciati alla lettera e parola per parola. Non è falso che per tutto il materialismo dialettico l'ente in generale sia determinato in ultima istanza come materia e come materia di un lavoro e di una prassi, come materia riferita ad una prassi. È proprio ciò che distingue, secondo Marx stesso, il materialismo dialettico da quello di Feuerbach. Bisogna qui - dal momento che Heidegger parla dell'ente come materia di un lavoro, cioè

•0 11

Lett~fl sul'um,mismo,

cit., p. 70.

Ibidem.

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Quinta lezione

come un processo di produzione incondizionato, cioè di una oggettivazione di un reale (effettivo) da parte dell'uomo come soggettività bisogna citare qui una volta di più la Prima Tesi su Feuerbach che abbiamo già commentato: la concordanza tra questo testo di Heidegger e questa Tesi è alla lettera. Che cosa rimprovera Marx a Feuerbach? Eh, precisamente di non comprendere il rapporto con l'attività umana come prassi e come soggettività:

Il principale difetto d'ogni materialismo fmo ad oggi, compreso quello di Feuerbach è che l'oggetto (Gegenstand), la realtà (Wirklichkeit), la sensibilità (Sinnlichkeit),vengono concepiti solo sotto la forma dell'obietto (Object) o dell'intuizione (Anschauung); ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente (nicht subjektiv) 12 • Come avevo sottolineato la volta scorsa leggendo con voi questo passaggio, "soggettivo" designa qui il rapporto dell'oggetto all'attività dd soggetto umano come prassi. Ed è a ciò che Marx richiama Feuerbach. Ed è perciò che, senza contraddizione, Marx chiama più sotto questa attività come una "attività oggettivan (gegenstiindliche Tiitigkeit). L'attività pratica-critica rivoluzionaria che conclude la Tesi suppone tutto questo movimento. Ecco dunque ciò che Heidegger vuol richiamare quando parla ddla materia come materiale di un lavoro umano, di una soggettività. Allora si dirà: ma c'è soltanto questo equivoco testo ddle "Tesi su Feuerbach"; Heidegger si rapporta come fa spesso a un Marx ancora "giovane", non tiene ancora conto della rottura. Ma oltre a tutte le variazioni che ora si conoscono intorno alla rottura (l'autocritica di Althusser che abbiamo visto sopra), è chiaro che su questo punto e su questo tema nessuna rottura, neanche µn'ipotesi di rottura, avrebbe avuto senso o possibilità. Si vi riferite all'Introduzione generale alla critica del[' economia politica ( 1857) vedrete il ruolo fondamentale che vi gioca il concetto di produzione; e se non c'è una produzione generale, come ricorda Marx, se la produzione in generale non è che un'astrazione, egli precisa che è indispensabile che le determinazioni che valgono per la produzione in generale vengano isolate in modo che per l'unità - che deriva dal fatto che il soggetto, l'urna12 K. Marx, Tesi su Feuerbach, in N. Merker, ÙJ concezione materialistica della storia, dr., p. 50.

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Teoria e prassi

nitil, e il soggetto. la natura, sono gli stessi - non vada poi dimenticata la differenze essenzinle11 • Tesi fondamentali che non bisogna perdere di vista e che sostiene tutto il discorso: ogni ente, come materia, appare come rapporto di produzione tra un soggetto e un oggetto, un'wnanità e una natura che sono fondamentalmente identiche. Il fondo è dunque la natura come produzione, l'unità della totalità dell'ente come produzione, quali che siano le differenziazioni e le determinazioni ulteriori di questa produzione. Quando Heidegger parla così di «processo che si organizza da sé stesso» della «produzione incondizionata», si comprende subito perché egli dica «che si organizza da sé stessa» (sich selbst einrichtend) e «incondizionata». Incondizionato e organizzantesi da sé stesso precisamente perché, questa produzione, è l'ultima istanza, la determinazione ultima dell'essere come natura, messa in opera dalla prassi umana. Niente la condiziona e dunque essa si svolge, si organizza da sé medesima. Essa è dunque la determinazione ultima dell'ente in quanto ente, in quanto esso è ed appare. È per questo che Heidegger dice qui che essa è una «determinazione metafisica» di ciò che è, di ciò che è nella totalità, cioè della natura - come unità di cui l'uomo fa parte, seco~do Marx - determinazione dell'ente come produzione incondizionata. Ed è su questa «produzione» (qui «Herstellung», altrove «Produktion») che bisogna ponare la questione della tecnica. Questa determinazione non è una determinazione tra altre, secondaria e tardiva; essa riprende, nella sua specificità moderna, un'eredità [relais] che, per gradi, riconduce a tutta la storia della metafisica, e in questa storia, secondo Heidegger, la tecnica non costituisce un problema particolare. Non si può comprendere l'essenza del materialismo dialettico - e dunque del suo concetto di produzione senza riferirsi all'essenza della tecnica, quella tecnica sulla quale, dice Heidegger, si è «scritto molto ma si è pensato poco»14 • La tecnica rinvia, e non solamente secondo l'etimologia, alla techne greca che Heidegger vuol far apparire come nient'altro che una modalità della verità, un modo di manifestazione dell'ente, un tipo dell'aletheuein. Ecco il gesto in effetti insolito e inedito di Heidegger: pensare la techne come aletheia o piuttosto far apparire come la determinazione dell'a., K. Marx, Per la mtica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 173. M. Heidegger, Lellera sul/'«umanismo», cit., p. 71.

1•

98

Quinta lezione /etheia (physis) in techne sia un evento fondamentale da cui è dipesa tutta la storia della metaf1Sica: In quanto fonna della verità (Gesta/t der Wahrheit) la tecnica ha il suo fondamento nella storia della metafisica. Questa, a sua volta, è una fase eminente della storia dell'essere, e finora la sola che possiamo abbracciare con il nostro sguardo. Si possono prendere varia posizioni sulle dottrine del comunismo e sulla loro fondazione, ma sul piano della storia dell'essere (seinsgeschicht/ich) resta fenno che in esso si esprime una esperienza elementare di ciò che è la storia del mondo (we/tgeschichtlich). Chi prende il comunismo solo come «partito» o come «visione del mondo» pensa in modo altrettanto angusto di coloro che pensano che con il termine «americanismo» si indichi solo, e per giunta in modo spregiativo, un particolare stile di vita1'. Qual è allora il gesto proposto da Heidegger e che egli chiama qui «pensare»? È il _gesto di «liberarci» Cfreimachen) da questa determinazione "te~~c~ "·:da· questa interpretazione tecrtlca'dèl pensiero clie"eglffà risalire a Platone ed Aristotde. È all'interno di questa dètenniriazione tecnica - che si confonde con la metafisica stessa - che si produce l'opposizione tra teoria e prassi. Infatti, secondo lui, è proprio perché i greci dopo Platone ed Aristotde hanno pensato il pensiero ·come iéchne, proprio perché essi lo hanno pensato al servizio della praxis e aella poiesis, dell'agire e dd fare, dd produrre, che si è venuti a determinare - cosa che è per lo meno paradossale - a detenninàre il pensiero come teoretico. Detto altrimenti, il teoretico non si oppone a pàrtire da questo momento al tecnico e, in esso, al pratico; il teoretico è un modo dd pensiero come prassi. Il pensiero, preso in sé stesso, dice Heidegger (ma cosa vuol dire qui «in sé stesso»?) non è prassi, ma a partire dal momento in cui esso si determina in base all'esigenza pratica, si è arrivati, per reazione, a determinare l'essenza del pensiero come teoria. Per reazione, precisa giustamente Heidegger, si tratta di un «tentativo reattivo» (reaktiver Versuch) per salvare l'autonomia, la proprietà del pensiero, la sua Eigenistiindigkeit in rapporto al fare e all'agire della prassi. Ma questa reattività teoretica dipende quindi to-

1'

lbid. Nel testo di Derrida si trovano qui - dopo la citazione - tre puntini di so-

spensione.

99

Teoria e prassi talmente nella sua stessa possibilità da una prima destinazione o determinazione del pensiero come praxis o poiesis e dunque come techne. Anche se il teorico non è che un11 specificazione del pratico e più generulmente del tecnico. Il tradizionale teoreticismo è un effetto del suo prassismo e non il suo opposto, uno specifico effetto del suo iniziale prussismo e dunque del suo tecnicismo. In un senso leggermente differente, in apparenza, ma forse fondamentalmente analogo, Heideggcr parlerebbe qui della teoria come di una prassi teorica. Il teorico non gode di un privilegio se non all'interno di uno spazio che privilegia la dimensione pratica e tecnica:

r

Se vogliamo imparare a sperimentare puramente questa essenza del pensiero di cui parliamo, il che coincide con il compierla, bisogna che ci liberiamo dell'interpretazione tecnica del pensiero la cui origine rimonta a Platone e ad Aristotele. A quest'epoca il pensiero medesimo ha valore di ttchne, esso è l'agire della riflessione (Verfahren der Ober/egens) al servizio del fare e del produrre. Ma allora la riflessione è già posta dal punto di \'ÌSta della praxi's e della poiesis. È per questo che il pensiero, se lo si considera in se stesso, non è «pratico». Questo modo di caratterizzare il pensiero come theoria, e la determinazione di conoscere come attitudine «teoretica», si produce già all'interno dell'interpretazione tecnica del pensiero. È un tentativo di reazione per conservare ancora al pensiero un• autonomia di fronte all'agire e al fare 16•

Che ne è dunque di questa tecnica di cui la prassi e la teoria sarebbero insomma dei derivati, divenendo così la loro opposizione secondaria per quanto importante possa essere? L'interesse di questo tentativo, qualunque cosa pensiamo del suo valore e della sua necessità, sta nel fatto che esso pretende risalire al di qua di un'opposizione e comprendere la legge di questa opposizione e di questa alternativa, l'interminabile dibattito da cui essa non può uscire perché i due termini appartengono di fatto alla medesima combinatoria di un medesimo sistema. Che cos'è dunque la tecnica? Non posso qui seguire passo passo, come tuttavia bisognerebbe fare, tutto l'itinerario heideggeriano su tale questione. Rinvio soprattutto ai primi due saggi raccolti in Saggi e conferenze (La questione della tecnica e Scienza e meditazione (Besinnung): un solo insieme, 1953 ).

16

M. Heidegger, ùllera su//'«umanismo», cit., pp. 32-33.

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Quinta lezione

Ciò rispetto a cui io dovrei limitarmi nel tempo di cui disponiamo e tenuto conto della nostra problematica è indicare una via di lettura, di interpretazione e di problematizzazione di questi testi heideggeriani. Questi testi nel loro insieme costituiscono forse un tentativo di pensare l'unità della storia della metafisica a partire dal suo bordo. La storia della metafisica si raccoglierebbe per esempio in questa determinazione della verità come tecnica, dell'aletheuein come techne, determinazione a partire dalla quale la coppia "teoria/prassi" si pone e si lascia cosl situare e derivare ma in modo tale che, contrariamente all'apparenza, la prevalenza teoreticistica che si può ritrovare nella storia della filosofia non si oppone a una prevalenza prassistica, non più di quanto l'idealismo teoreticistico si opporrebbe a un qualche materialismo prassistico ma, al contrario, costituirebbe l'effetto (reattivo senza dubbio, ma effetto) di un progetto pratico e, fin dall'inizio, tecnico, all'origine della filosofia. Allora, se quanto abbiamo detto funziona, per cominciare dalle questioni più generali, prima questione: forse che Heidegger non presume - in un modo che bisognerebbe evidentemente precisare, e che non è quello del pregiudizio o di un errore, ma che riprodurrebbe forse la presunzione o l'assunzione della filosofia, del filosofico come tale, cioè quella dell'unità della tradizione e del suo elemento, del suo medium, - forse che Heidegger non riproduce la filosofia, il rapporto della filosofia· a se stessa, nel momc;nto stesso in cui propone di debordarla, di pensarla, di pensare il filos·ofico a partire dal suo bordo, di pensare la metafisica come determinazione dell'aleteheuen nella techne, determinazione che coprirebbe tutto lo spazio teorico-pratico e, per esempio, l'epoca moaerna e marxista di questa determinazione? Prima questione, primo tipo di questione. ·· -Forse che - seconda questione - pretendendo di risalire, attraverso il pensiero, se volete, al di ~ della metafisica, della tecno-metafisica~ forse che-Heideggèr riproduce ·questa ricerca "reattiva" vorre66e risalire pÌù vicino alla propria origine, e salvare il più inizialé, il più proprio, quel più originario· che la determinazione tecnica aèllii verità avrebbe in qualche modo messo aìla deriva·, dèportatò,-inInacciato? Ciò che legittima, come primo approccio; le.inie élue questìorii - che sono d'altra parte indissociabili - è che evidentemente Heidegger pretende pensare la situazione concettuale storica moderna della tecnica e della coppia "teoria/prassi» risalendo àll'alba dell'antichità greca, ciò che suppone la continuità di una tradizione.

non

che

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Teoria e prassi

Beninteso, non si tratta di un ritorno fùologico o etimologico, né, Heidegger lo precisa, di un rinnscùnento moderno dell'antico, né di unà curiositì\ storica. Ma di risvegliarsi a ciò che, essendo stato «pensato e poetato» (das Gedacthe tmd Gedichtete) dull'alba dell'antichità greca, sotto forma poetica per esempio, è ancora oggi «presente», «cosl presente (gegenwiirti'g) che la sua essenza (Wesen) rùnastu chiusa ad esso stesso, ci sta davanti», così presente «che essa ci viene incontro da ogni parte, soprattutto e proprio là dove non ce l'aspettiamo, cioè appunto nel dominio dispiegato della tecnica moderna (Herrschaft der modemen Technik), che è completamente estranea all'antichità, ma che ha tuttavia la propria origine essenziale (Wesenherku/t) proprio in quest'ultima» 17• Il ritorno a questa origine essenziale è dunque possibile e deve attraversare un elemento senza dubbio molto differenziato, ma le cui differenze non toccano l'unità fondamentale. Un'altra legittùnazione preliminare per le mie questioni: la reattività verso il più originario, il progetto di salvare ciò che è proprio del cominciamento, e al di qua della tecno-metafisica, questo progetto è annunciato chiaramente. Naturalmente ciò non si presenta in modo reattivo, esso mira al contrario a cancellare un teoreticismo reattivo che reagisce ad un prassismo essenziale della filosofia. Nondimeno ci si può chiedere se questo gesto non riproduca una volta di più lo stesso schema che vorrebbe contraddire. Un indizio o un punto di riferùnento: verso la fine de La questione della tecnica, si dice che, se la tecnica non è in sé stessa minacciosa, l'essenza della tecnica rappresenta il pericolo essenziale e che la minaccia ha attentato all'uomo nel suo essere. Tale minaccia consiste nel fatto che «all'uomo può essere rifiutato di far ritorno a un disvelamento più originario (iirsprunglicheres Entbergen) e di esperire così l'appello di una verità più iniziale (den Zuspruch einer an/anglicheren Wahrheit zu er/ahren)» 18• Naturalmente, ove c'è il pericolo, e Heidegger cita qui Holderlin, «cresce ciò che salva» (wiichst das Rellende auch) ma si tratta di salvare risalendo all'appello il più iniziale e il più originario. Quale differenza può esserci tra ciò che è chiamato altrove, a proposito del teoreticismo, «tentativo reattivo» e

17

M. Heidcggcr, Scienu e meditazione, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo,

Mursia, Milano 1976, p. 30. 18

M. Heidcgger, L4 questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 38.

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Quinta lezione

questa salvezza, questo salva-condotto verso l'origine? In che cosa questo "salvo" sarebbe affermativo? È un problema. I problemi che ho appena delineato sono semplici e preliminari. Non vorrei tuttavia che essi fossero troppo semplici, semplificati o semplicisti e, prima ancora di misurarli con il testo di Heidegger - con la forza e la ricchezza di un testo che tali problemi, in ogni caso, anche se legittimi, non potrebbero ridurre o impoverire, limitare a qualsiasi tipo di schema corrente, problemi che, in ogni caso, il suo testo com• prende potentemente - prima di commisurare tali questioni al testo, io prendo due precauzioni molto generali. La prima concerne l'unità della tradizione filosofica e del medium attraverso il quale Heidegger vuole ricondurci al di qua della tecnometafisica. Questa unità non è una semplice omogeneità ripetitiva e indifferenziata per Heidegger; egli vi riconosce degli spostamenti es• senziali, cioè dei mutamenti irriducibili, per esempio quella della concettualità latina o della tecnica moderna, che progettano uno spazio nuovo. Ma questi spostamenti non sono assoluti, non sono delle rotture o delle eterogeneità radicali e già per pensarli come spostamenti occorre ricondurli all'origine essenziale e all'unità di un elemento, di un medium storico. La seconda precauzione riguarda ciò che minaccia e la salvezza. Non si tratta secondo Heidegger di una reazione contro la tecnica nella modalità che si identifica spesso come ideologia reazionaria e natu• ralistica o ecologista. Heidegger vi insiste spesso: la tecnica non è "diabolica", e non si tratta di risalire al di qua della tecnica, antica o moderna. Nondimeno, se la tecnica non è minacciosa, l'essenza della tecnica - essenza che, di per sé, non è tecnica (inizio del testo, commentare) - è il pericolo. Ciò evidentemente evita la reazione, la reattività contro la tecnica nel suo schema ideologico corrente, ma può anche aggravarla molto, radicalizzarla, essenzializzarla, e darle il suo peso di pensiero, il suo peso pensante. Avendo preso queste due precauzioni, cerchiamo di fare in modo che la nostra vigilanza critica, nella lettura di Heidegger, come di ogni altro testo, non ci dissimuli l'imponanza e la necessità di ciò che vi si produce. Dal momento che non avrei il tempo oggi di andare più oltre nella lettura di questi due testi - e in ogni caso mi accontenterei di uno schema - invece di abbordarla, questa lettura, voglio fare una piccola deviazione attraverso Aristotele. Capita che in questi due testi, il rife103

Teoria e prassi

rimento aristotelico giochi un ruolo centrale, una volta, ne La questione dt!lla tecnica, a proposito dellu causalità e delle quattro cause, un' altra volta, uncom più prossima al nostro problema, in Scien1.11 e meditazio11e, u proposito delln differenza fra teoria e prassi, tra il bios praktikos e il bios theoretikos. Pnrto da questo secondo riferimento che si trova più prossimo al nostro problema. Nel momento in cui ci si domanda, essendo partiti dall'enunciato corrente «la scienza è la teoria del reale» (Die Wisse11schaft ist die Theorie des Wirklichen), ciò che vuol dire «teoria», la parola «teoria», Heidegger ce lo ricorda dicendo che questa parola viene dal verbo theorein forma di thea e di orao. Thea come in "teatro", è l'aspetto, l'apparenza visibile, aspetto che Platone chiama eidos. Aver visto questo aspetto, è eide11ai, sapere. Il secondo componente, è orao, contemplare, considerare nella luce. Il modo di vita che si accorda al teorein, i greci lo chiamano il bios theoretikos. Il bios praktikos si accorda piuttosto all'agire (hande/n) e al "produrre" (herstellen). Non bisogna dimenticare tuttavia che il bios theoretikos è anche concepito come un'attività, e la più alta, la forma compiuta dell'esistenza umana. Il theorein ha rapporto con ciò che si vede (con l'occhio sensibile o intellettuale [commentare]) con l'aspetto della cosa presente, secondo gli aspetti che importano all'uomo, importano (importante: valore, onore, dignità, impegno, affare: prassi ecc.) che riguardano l'uomo secondo il suo «apparire» (scheinen) e in ciò in cui brilla (fenomeno, Schein) la presenza degli dei. In più, il theorein è ciò che permette di percepire, di esporre i principi e le cause delle cose presenti. È a questo punto che Heidegger, notando che non può affrontare questo tema che esigerebbe di afferrare ciò che l'esperienza dei greci comprendeva in queste parole che noi interpretiamo da molto tempo come principium e causa, principio, fondamento e causa, è a questo punto che Heidegger rinvia tra parentesi a un testo di Aristotele che egli non commenta e che io vorrei aprire con voi. È l'Etica a Nicomaco (VI, cap. 2, 1139a sgg.). Aristotele ha appena diviso le «virtù dell'anima» (tes psyches are/as) tn due tipi: le virtù del «carattere» (ethos) e le virtù dell' «intelletto» (dianoia). E come egli·ha trattato nei dettagli le virtù etiche cosi intraprende subito la spiegazione delle altre, delle virtù dianoetiche. Egli ci ricorda che aveva tra di esse anche distinto tra le due parti dell'anùna quella che è logon echon, che è la ragione, e quella che è alogon, la parte irrazionale. Proseguendo la divisione, Heidegger distingue all'inter104

Quinta lezione

no della parte che ha il logos, logon echon, ancora due parti: è là che la teoria e la prassi appaiono - all'interno del logos, dunque."Una delle parti dell'anima ci permeue·ar