Tempi del pensiero. Storia e antologia della filosofia. Età contemporanea [Vol. 3]

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Giuseppe Cambiano Massimo Mori

Tempi del pensiero Storia e antologia della filosofia 3. Età contemporanea

Editori Laterza

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© 2012, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2012 L’Editore Gius. Laterza & Figli si impegna a mantenere invariato il contenuto dell’opera per un quinquennio, come disposto dall’art. 5, Legge 169/2008.

L’editing è stato curato da Gianluca Valle.

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.clearedi.org.

Copertina, progetto grafico e servizi editoriali a cura di Pagina, soc. coop., Bari.

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council. Finito di stampare nel febbraio 2012 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-0991-4

Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2008 valutato da DAS e coperto dal certificato numero IT03-043

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indice del volume 1. schopenhauer 1. 2. 3. 4. 5.

Vita e opere 3 Il mondo come rappresentazione 4 Il mondo come volontà 6 Le vie della liberazione dalla volontà 9 Il nulla e la morte 10 in poche... parole, p. 11

i testi t1 Schopenhauer/Volontà e coscienza

14

[Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, libro II, § 23]

t2 Schopenhauer/La vita è sofferenza o noia

15

[Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, §§ 57-58]

esercizi, p. 17 Schopenhauer/La volontà e le sue manifestazioni • Schopenhauer/La negazione della volontà

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2. kierkegaard 1. Vita e opere 2. La polemica con l’idealismo hegeliano 3. Gli stadi della vita 4. Angoscia e disperazione 5. Il salto verso la fede

19

i testi t3 Kierkegaard/Esistenza contro essenza

20 21 24 25

in poche... parole, p. 25

27

[Kierkegaard Postilla conclusiva non scientifica, parte II, cap. 3, § 1]

t4 Kierkegaard/L’angoscia [Kierkegaard Il concetto dell’angoscia, cap. I, § V]

29

esercizi, p. 33

Kierkegaard/Il paradosso della fede: Abramo

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3. le eredità di hegel e il marxismo 1. 2. 3. 4.

Destra e sinistra hegeliane Feuerbach Marx ed Engels: vita e opere Marx: il rovesciamento della filosofia hegeliana

36 37 41

7. Marx ed Engels: lotta di classe e rivoluzione proletaria

43

8. Marx ed Engels: l’analisi economica 54 del capitalismo

approfondimento Il socialismo utopistico e la riorganizzazione della società, p. 45

5. Marx: la critica dell’economia politica 46 e la condizione dei lavoratori 6. Marx ed Engels: 49 il materialismo storico

53

approfondimento La «rivoluzione industriale e gli economisti classici, p. 53

approfondimento Il materialismo dialettico di Engels, p. 59

9. La Seconda Internazionale 10. Marxismo e rivoluzione russa

60 62

in poche... parole, p. 63 indice del volume

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i testi

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t8 Marx, Engels/Ideologia e classi sociali

t5 Feuerbach/Religione e autocoscienza dell’uomo [Feuerbach L’essenza del cristianesimo, Introduzione, cap. 2]

t6 Marx/Alienazione e oggettivazione [Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto]

t7 Marx/Le tesi su Feuerbach [Marx Tesi su Feuerbach]

[Marx, Engels L’ideologia tedesca, parte I]

66 68

t9 Marx, Engels/Borghesia e proletariato [Marx, Engels Manifesto del partito comunista, passim]

74 78

esercizi, p. 81

72

Feuerbach/Sensibilità e amore • Marx/Comunismo e comunismo rozzo • Marx/Capitale e lavoro salariato • Engels/Nascita ed estinzione dello Stato

alef

4. il positivismo 1. Caratteri generali del positivismo 2. Comte: l’articolazione del sapere

84 85

[Comte Discorso sullo spirito positivo, cap. I, §§ 1-4]

approfondimento Lo sviluppo delle scienze in Francia tra Sette e Ottocento, p. 85

3. 4. 5. 6.

Comte: il progresso dell’umanità Bentham e l’utilitarismo John Stuart Mill Darwin e l’evoluzionismo

89 90 91 96

approfondimento Lo sviluppo delle scienze della vita, p. 97

7. Spencer

i testi t10 Comte/La teoria dei tre stati

98

approfondimento Il positivismo in Germania e in Italia, p. 101

t11 Mill/Che cos’è l’utilitarismo [Mill Utilitarismo, cap. II]

t12 Darwin/La lotta per la vita [Darwin L’origine della specie, cap. IV]

t13 Spencer/La legge dell’evoluzione [Spencer Primi princìpi, parte II: cap. XIV, § 115; cap. XV, §§ 116, 127, 129, 138; cap. XVII, § 145]

104 109 111 114

esercizi, p. 117

in poche... parole, p. 102 Comte/La classificazione delle scienze • Mill/La critica al sillogismo • Mill/L’uniformità della natura • Spencer/Società militari e società industriali

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5. nietzsche 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Vita e opere La nascita della tragedia «Per ogni agire ci vuole oblio» La scienza e lo «spirito libero» Alle origini della morale Il cristianesimo e la morale del risentimento 7. La morte di Dio e l’avvento del superuomo 8. La volontà di potenza come arte

120 122 123 126 127

iv

indice del volume

i testi t14 Nietzsche/Apollineo e dionisiaco [Nietzsche La nascita della tragedia, 1-3 passim]

t15 Nietzsche/La morte di Dio

129

131 133

confronti La volontà in Schopenhauer e in Nietzsche, p. 135

9. La dottrina dell’eterno ritorno

in poche... parole, p. 138

[Nietzsche La gaia scienza, libro III, § 125; libro V, § 343]

t16 Nietzsche/Il superuomo [Nietzsche Così parlò Zarathustra, parte I, Prefazione, 3-4; parte IV, 1-3]

esercizi, p. 151

136

141 145 147

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Nietzsche/La vita e la storia • Nietzsche/Morale dei signori e morale degli schiavi • Nietzsche/La colpa e l’ascetismo • Nietzsche/Vita e volontà di potenza

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6. le reazioni al positivismo tra francia e germania 1. Gli inizi dello spiritualismo in Francia 2. Bergson: tempo, memoria, conoscenza 3. Bergson: lo slancio vitale 4. Il neokantismo 5. Dilthey e lo storicismo tedesco 6. Spengler e il tramonto dell’Occidente 7. Weber: il metodo delle scienze storico-sociali 8. Weber: l’analisi del mondo moderno

i testi 154

t17 Bergson/La durata reale

155 163

t18 Bergson/L’evoluzione creatrice

166 170

t19 Dilthey/L’intuizione del mondo

175

t20 Weber/Protestantesimo e capitalismo

176

[Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, passim]

in poche... parole, p. 182

190

[Bergson L’evoluzione creatrice, cap. I] [Dilthey I tipi di intuizione del mondo e la loro elaborazione nei sistemi metafisici, I, 3-4]

t21 Weber/L’agire sociale

179

186

[Bergson Saggio sui dati immediati della coscienza, cap. II]

[Weber Economia e società, parte I, cap. I, § 2]

193 195 197

esercizi, p. 200

Boutroux/Le leggi di natura • Bergson/L’immagine • Bergson/I due tipi di memoria • Bergson/Intuizione e intelligenza • Dilthey/Comprensione storica e oggettivazione della vita • Spengler/Morfologia della storia universale • Weber/L’oggettività delle scienze storico-sociali

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7. il pragmatismo 1. 2. 3. 4.

Peirce James Dewey: esperienza e conoscenza Dewey: uomo e natura

204 206 208 212

approfondimento L’Inghilterra tra idealismo e realismo: il «caso» Moore, p. 215

i testi t22 James/La volontà di credere [James La volontà di credere, sezz. IV, IX, X]

t23 Dewey/Un nuovo concetto di esperienza [Dewey Intelligenza creativa, sez. I]

219 221

esercizi, p. 223

in poche... parole, p. 216 Peirce/Il significato della credenza • Dewey/La logica strumentale • Dewey/Mente e corpo

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8. il neoidealismo italiano 1. Hegelismo e marxismo nell’Italia unita 2. Croce: la filosofia dello spirito 3. Croce: lo storicismo assoluto

226 227 236

4. Gentile: l’attualismo 5. Gentile: società, diritto, Stato etico

239 245

in poche... parole, p. 246

confronti La concezione della storia e della filosofia in Dilthey e in Croce, p. 237

indice del volume

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i testi

t25 Gentile/Stato etico e moralità

t24 Croce/Intuizione ed espressione artistica [Croce Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I]

249

251

[Gentile Genesi e struttura della società, cap. VI, §§ 7-9]

esercizi, p. 254

Croce/Dialettica degli opposti e dialettica dei distinti • Croce/Male e vitalità nella storia • Gentile/La dialettica del pensiero

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9. husserl e la fenomenologia 1. Le origini della fenomenologia 2. Husserl: alla ricerca della logica pura 3. Husserl: la fenomenologia trascendentale 4. Husserl: la crisi delle scienze e il ruolo della fenomenologia 5. Scheler in poche... parole, p. 273

258 259 262 268 270

i testi t26 Husserl/Atteggiamento naturale e intenzionalità [Husserl Filosofia come scienza rigorosa, passim]

t27 Husserl/La crisi europea e il compito della filosofia [Husserl La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, parte I, §§ 6-7]

276 279

esercizi, p. 282

Husserl/L’epochè • Husserl/Il mondo-della-vita e le scienze • Scheler/L’etica e i valori • Scheler/Simpatia e amore

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10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica 1. Jaspers e la filosofia dell’esistenza 2. Heidegger: essere ed esistenza

286 289

approfondimento Il primo Heidegger fra teologia e fenomenologia, p. 291

3. Heidegger: verità e storia della metafisica 4. Gadamer: l’ermeneutica 5. Gadamer: la verità dell’arte e della storia in poche... parole, p. 310

i testi t28 Heidegger/L’esistenza inautentica e il mondo del «Si»

314

[Heidegger Essere e tempo, parte I, sez. I, cap. 4, § 27]

t29 Heidegger/L’esistenza autentica e la morte

298 305 306

[Heidegger Essere e tempo, parte I, sez. II, cap. 1, § 50]

t30 Heidegger/Il pensiero e la filosofia [Heidegger Lettera sull’«umanismo», passim]

t31 Gadamer/Comprensione e storia degli effetti [Gadamer Verità e metodo, parte seconda, II, 1, c-d]

316 317 320

esercizi, p. 322 Jaspers/Esistenza e mondo • Jaspers/Esistenza e libertà • Heidegger/La verità e l’inizio della metafisica • Heidegger/Nichilismo e metafisica • Heidegger/La tecnica e la poesia • Gadamer/Comprensione e fusione di orizzonti

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indice del volume

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11. freud e la psicoanalisi 1. La nascita della psicoanalisi 2. La teoria della psiche 3. La psicoanalisi e l’origine della civiltà 4. Gli sviluppi della psicoanalisi 5. Lacan e «la rivoluzione copernicana freudiana»

326 329

i testi t32 Freud/Il sogno e l’inconscio [Freud L’interpretazione dei sogni, cap. 7, F]

332 334 338

t33 Freud/Aggressività umana e civiltà [Freud Il disagio della civiltà, 8 passim]

342 344

esercizi, p. 349

in poche... parole, p. 340 Freud/L’egemonia del principio di piacere • Freud/L’Io, il Super-io e il senso di colpa • Jung/L’inconscio collettivo

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12. interpretazioni e sviluppi del marxismo 1. Il marxismo italiano 2. Il «marxismo occidentale» 3. Bloch e Benjamin: marxismo e utopia 4. Horkheimer e la Scuola di Francoforte 5. Horkheimer e Adorno: Illuminismo e ragione 6. Adorno: il negativo e l’arte 7. Marcuse e «il grande rifiuto» 8. Althusser: il marxismo e l’epistemologia

352 354 358 360 362 364 367 370

i testi t34 Gramsci/La storicità delle filosofie [Gramsci Quaderni del carcere, 10, II, § (17); 11, § (62)]

t35 Lukács/Azione e coscienza di classe [Lukács Storia e coscienza di classe, cap. 3, § 1]

t36 Horkheimer, Adorno/Mitologia dell’Illuminismo [Horkheimer, Adorno Dialettica dell’Illuminismo, cap. 1]

t37 Marcuse/Repressione addizionale e immaginazione [Marcuse Eros e civiltà, parte I, cap. 2; parte II, cap. 7]

375 379 382

386

in poche... parole, p. 372 esercizi, p. 390 Bloch/I sogni e la speranza • Benjamin/La storia e l’istante • Horkheimer/La teoria critica • Adorno/La triste scienza e l’industria culturale • Althusser/La pratica teorica

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13. temi e problemi di filosofia politica 1. La grande guerra e la cultura di destra 2. Jünger 3. Schmitt 4. Arendt 5. Habermas e Apel: la prassi e la comunicazione

i testi 394 394 396 398 401

t38 Schmitt/Il politico [Schmitt Il concetto del «politico», §§ 1-2]

t39 Arendt/L’azione e la politica [Arendt Vita activa, cap. 1, § 1; cap. 5, § 24]

407 409

esercizi, p. 412

in poche... parole, p. 405 Habermas/L’etica e l’agire comunicativo

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14. la filosofia di ispirazione cristiana e le nuove teologie 1. 2. 3. 4. 5.

Crisi ed esigenze di rinnovamento Barth Bultmann Tillich Bonhoeffer

416 418 419 421 422

approfondimento Una fede senza Dio?, p. 424

6. Ulteriori sviluppi della ricerca teologica

426

i testi t40 Barth/Il «totalmente Altro» [Barth L’Epistola ai Romani, Commento a Rom. 1, 16-17]

t41 Bonhoeffer/Cristianesimo senza religione [Bonhoeffer Resistenza e resa, Lettere 30.4 e 16.7 del 1944]

431 434

esercizi, p. 436

in poche... parole, p. 429 Bultmann/Mito e demitizzazione • Tillich/Fede e affermazione dell’essere • Hamilton/La morte di Dio • Rahner/La svolta antropologica

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15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia 1. La «filosofia concreta» di Marcel 2. Sartre: esistenza e libertà

440 441

confronti La questione dell’esistenza in Kierkegaard, Heidegger e Sartre, p. 446

3. Sartre: la filosofia dell’impegno 4. Merleau-Ponty: fenomenologia e marxismo

in poche... parole, p. 461

447 449

approfondimento Vicende della fenomenologia e dell’ermeneutica: Lévinas e Ricoeur, p. 452

5. La linguistica e la nascita dello strutturalismo 6. Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale 7. Foucault: il sapere e il potere

approfondimento La stagione post-strutturalista: Deleuze, Derrida, Lyotard, p. 459

i testi t42 Sartre/Il nulla e la libertà [Sartre L’essere e il nulla, parte prima, I, 5; parte quarta, I, 2]

t43 Merleau-Ponty/Corpo, percezione e intersoggettività

452 454 457

[Merleau-Ponty Fenomenologia della percezione, parte seconda, IV]

t44 Foucault/Il potere [Foucault La volontà di sapere]

463

466 468

esercizi, p. 472

Sartre/Il gruppo in fusione • Lévi-Strauss/Le nozioni di struttura e di modello

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16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein 1. Frege: aritmetica e logica

476

approfondimento Logica e matematica nell’Ottocento, p. 478

2. Russell: logica e matematica 3. Russell: linguaggio e conoscenza approfondimento Filosofie della matematica, p. 487

viii

indice del volume

479 484

4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo

488

approfondimento Wittgenstein e la riflessione sulla matematica, p. 493

5. Wittgenstein: linguaggio ed esperienza in poche... parole, p. 497

494

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i testi t45 Russell/L’atomismo logico [Russell La filosofia dell’atomismo logico, 1]

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t47 Wittgenstein/Significato e giochi linguistici 506

500

t46 Wittgenstein/L’etica, il mistico e la filosofia 503 [Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus, 6.41-6.421, 6.4311-7]

[Wittgenstein Ricerche filosofiche, parte I, nn. 11, 23, 43, 65-67, 199]

esercizi, p. 508

Frege/Senso e significato • Russell/La fondazione logica della matematica • Wittgenstein/ Il Tractatus • Wittgenstein/Necessità logica e contingenza empirica • Wittgenstein/Filosofia e terapia linguistica

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17. gli sviluppi della riflessione epistemologica 1. Mutamenti scientifici e problemi filosofici

in poche... parole, p. 535

512

i testi

approfondimento Le scoperte scientifiche tra Ottocento e Novecento, p. 515

2. 3. 4. 5.

Il Circolo di Vienna Schlick Neurath Carnap

t48 Carnap/Logica e metafisica

517 519 520 521

confronti La nozione di verità secondo Russell,Wittgenstein e i neopositivisti, p. 524

6. Popper: la logica della scoperta scientifica 7. Popper: la società aperta 8. Ulteriori sviluppi della filosofia della scienza

[Carnap Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, §§ 1, 3-4]

t49 Popper/La falsificabilità e il cammino della scienza [Popper Logica della scoperta scientifica, parte I, cap. I, § 6; parte II, cap. X, § 85]

t50 Kuhn/Le rivoluzioni scientifiche

526 531

[Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cap. 9]

538

542 545

esercizi, p. 548

532

Carnap/Sintassi logica e principio di tolleranza

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18. la filosofia analitica 1. Filosofia analitica e analisi del linguaggio 2. Austin 3. Quine 4. Filosofi post-analitici 5. Il problema mente-corpo e l’intelligenza artificiale 6. Analisi del linguaggio ed etica applicata

i testi 552 553 554 558 560

t51 Ryle/Lo spettro nella macchina

566

[Ryle Il concetto di mente, cap. I, §§ 1-3]

t52 Searle/La camera cinese [Searle Mente, cervello e intelligenza, cap. II]

570

t53 Engelhardt/Tensione tra princìpi in bioetica 572 [Engelhardt Manuale di bioetica, capp. I e III]

esercizi, p. 574

561

in poche... parole, p. 563 Austin/Asserzioni e atti linguistici • Quine/I due miti dell’empirismo

alef indice del volume

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bibliografia

576

le fonti

599

indice dei nomi

601

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età contemporanea

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le negazioni della volontà

L’oggettivazione della volontà comporta conflitto e sofferenza, in quanto ciò che è essenzialmente unitario viene costretto a contendersi lo spazio e il tempo, nonché a subire la reciproca azione causale. L’uomo deve quindi tendere alla nolontà, cioè alla negazione della volontà. Passaggio preliminare di questo processo è la contemplazione estetica delle idee, platonicamente intese come le entità universali che si sottraggono al principio di individuazione. Per ottenere la liberazione dai mali della vita occorre tuttavia passare all’esercizio della morale, che ha le sue tappe fondamentali nella realizzazione del diritto, nella compassione e infine nella vera e propria ascesi.

1. schopenhauer

gli strumenti in poche… parole

i contenuti il mondo come rappresentazione

A Berlino la più tenace opposizione a Hegel è condotta da Schopenhauer, suo collega all’università. Schopenhauer riprende da Kant la distinzione tra fenomeno e noùmeno, interpretando il primo come semplice parvenza del secondo (il «velo di Maya»). Il mondo fenomenico è il mondo della rappresentazione, che sta alla base della distinzione tra soggetto e oggetto. Essa è prodotta dalle forme a priori della conoscenza: lo spazio e il tempo (le forme della sensibilità) e la causalità (l’unica categoria dell’intelletto, concepito anch’esso come una facoltà intuitiva). Spazio, tempo e causalità costituiscono il principio di individuazione.

2

rappresentazione / apparenza / volontà / pessimismo / ascesi il mondo come volontà

Al di sotto del fenomeno giace la cosa in sé (o noùmeno), che Schopenhauer concepisce come volontà di vivere – unica, eterna e irrazionale –, di cui i singoli fenomeni sono altrettante oggettivazioni. La via di accesso alla cosa in sé è data dal corpo: esso, infatti, è in grado di percepirsi come oggetto tra gli oggetti, ma anche come impulso irrefrenabile a volere, come forza primordiale che sfugge ai canoni della rappresentazione. La volontà di vivere si manifesta attraverso una serie progressiva di gradi: nelle forze della natura (gravità, magnetismo, ecc.), nella vita vegetale e animale, infine nei singoli individui umani. In particolare, negli uomini la volontà di vivere diviene consapevole di se stessa.

1. schopenhauer

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

i testi a. nel manuale t1 Schopenhauer/Volontà e coscienza t2 Schopenhauer/La vita è sofferenza o noia

b. on-line Schopenhauer/La volontà e le sue manifestazioni Schopenhauer/ La negazione della volontà

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1. Vita e opere Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da un ricco commerciante e da una scrittrice di romanzi. Quando Danzica cessa di essere «città libera» e viene inglobata nella Prussia, suo padre – fervente repubblicano – trasferisce la famiglia ad Amburgo. La giovinezza di Arthur è costellata di viaggi, nei quali il padre vede uno strumento di istruzione e di preparazione alla professione del commercio: egli soggiorna per due anni a Le Havre, in Francia (1797-99), visita Praga (1800), compie con i genitori un lungo viaggio attraverso Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera, Austria, Prussia. Dopo la morte del padre, suicida nel 1805, gli succede per breve tempo nell’attività commerciale, ma poi decide di dedicarsi agli studi. La madre, intanto, trasferitasi a Weimar, apre un salotto letterario, frequentato anche da Goethe, con cui il giovane Arthur avrà qualche incontro. Pur vivendo per qualche tempo anch’egli a Weimar, abita in una casa diversa da quella della madre, di cui non approva la condotta emancipata.

gli anni della giovinezza

Al compimento del ventunesimo anno riceve parte dell’eredità paterna, che gli consente di vivere di rendita. Frequenta l’università di Gottinga, dove Jacobi lo introduce alla lettura di Platone e di Kant. Rilevantissima è, inoltre, l’influenza esercitata su Schopenhauer dalla lettura delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana, che asseriscono l’esistenza dell’Uno-tutto (ossia di un’unità sostanziale al di là della molteplicità dei fenomeni). A Berlino segue anche le lezioni di Schleiermacher e di Fichte, che trova insopportabile. Durante un nuovo soggiorno a Weimar, scrive la Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813).

la formazione all’università di gottinga

Separatosi definitivamente dalla madre, dal 1814 al 1818 vive a Dresda. Qui scrive nel 1818 Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicato l’anno successivo. Visita l’Italia nel 1819 (Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli) e nel 1822 (Milano, Firenze, Trento). Nel frattempo, ottenuta la libera docenza, si trasferisce a Berlino, dove tiene lezioni all’università nelle stesse ore di quelle di Hegel, per fargli concorrenza: il risultato è che si trova senza allievi. Giungono le prime – poco favorevoli – recensioni del Mondo. Schopenhauer decide di porvi rimedio non già riscrivendo il libro, ma lavorando a una serie di aggiunte, che saranno raccolte con il titolo di Supplementi e pubblicate come secondo volume nella seconda edizione del Mondo (1844).

la pubblicazione del mondo e l’insegnamento berlinese

Nel 1831 si trasferisce a Francoforte per sfuggire all’epidemia di colera che affligge Berlino (e che costerà la vita a Hegel). Un decennio dopo la morte di Hegel, quando l’hegelismo accusa i primi scossoni, Schopenhauer comincia a raccogliere qualche consenso e a guadagnare qualche discepolo. Ma la fama arriverà soltanto nel 1851 con i Parerga e paralipomena (due volumi), che raccolgono vari saggi, tra cui i noti Aforismi sulla saggezza della vita e La filosofia delle università, aspra requisitoria contro gli ambienti filosofici accademici della Germania. Ora anche il Mondo si vende bene, tanto da consentire una terza edizione (1859). Nel 1860 Schopenhauer muore di polmonite.

gli ultimi trent’anni: la fama e la crisi dell’hegelismo

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2. Il mondo come rappresentazione il primato della rappresentazione

Il mondo come volontà e rappresentazione inizia con le parole: «Il mondo è una mia rappresentazione». Ma che cosa intende Schopenhauer per rappresentazione ? Essa consiste nel rapporto necessario tra soggetto e oggetto. Nessuno di questi due termini, infatti, può stare senza l’altro. Da un lato, il soggetto è «ciò che tutto conosce, senza essere conosciuto da alcuno», ossia ciò che non diventa mai oggetto della conoscenza propria o altrui. Dall’altro, il soggetto non può conoscere se non un oggetto: se non ci fosse un oggetto, il soggetto non conoscerebbe nulla. In questo caso però non ci sarebbe neppure più soggetto, poiché esso è tale soltanto in quanto conosce.

al di là del realismo e dell’idealismo

Erroneamente, il realismo – che Schopenhauer chiama anche materialismo – fa derivare il soggetto dall’oggetto, partendo da una realtà materiale esterna che informa di sé la soggettività. Ma altrettanto erroneamente l’idealismo risolve l’oggetto nel soggetto, come sua produzione interna. Né il soggetto può prevalere sull’oggetto né l’oggetto sul soggetto: la conoscenza, infatti, è data dall’unione di entrambi, intesi come le due componenti indissolubili e indispensabili della rappresentazione.

il punto di partenza: la gnoseologia kantiana

A fondamento della dottrina della conoscenza di Schopenhauer vi è la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, che egli tuttavia interpreta in modo del tutto originale. Come sappiamo, per Kant il fenomeno è l’unico oggetto della conoscenza umana, condizionata dalle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto: in tal senso, esso coincide con la realtà stessa. Detto in termini kantiani, il fenomeno è sinonimo di « apparenza », poiché la cosa in sé – che è al di là del mondo fenomenico – sfugge alla conoscenza umana; ma esso non è «parvenza», cioè realtà ingannevole al di sotto della quale si nasconde la realtà vera. Lo stesso noùmeno – la cosa in sé –, che nella prima edizione della Critica della ragion pura (1781) appare ancora come un indefinibile x soggiacente al fenomeno, nella seconda edizione (1787) viene risolto in un «concetto-limite», necessario per la definizione stessa di fenomeno, ma privo di ogni realtà sostanziale.

il fenomeno è parvenza, il noùmeno è la realtà vera

Qual è invece il valore conoscitivo del fenomeno per Schopenhauer? Pur concordando con Kant che esso è il risultato delle forme a priori della conoscenza umana, egli lo considera come una semplice parvenza. Egli, infatti, lo paragona al «velo di Maya» di cui parla la filosofia indiana, in quanto copre la realtà vera (ovvero la cosa in sé). Se per Kant il fenomeno è il punto d’arrivo della conoscenza umana, per Schopenhauer invece deve essere travalicato per giungere al noùmeno, cioè alla realtà vera delle cose e dell’uomo.

le forme a priori sono interne alla rappresentazione

Anche per Schopenhauer – come per Kant – la filosofia prende le mosse dall’analisi delle forme a priori della conoscenza, sebbene esse vengano intese un po’ diversamente. Per Kant, le forme a priori erano le condizioni in base alle quali il soggetto può conoscere un oggetto. Ma Schopenhauer – come abbiamo appena visto – nega qualsiasi priorità del soggetto rispetto

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all’oggetto, non solo nel senso idealistico fichtiano, per cui il soggetto «pone» l’oggetto, ma anche nel senso trascendentale kantiano, per cui il soggetto «costituisce» l’oggetto. L’elemento veramente originario, da cui dipendono sia il soggetto sia l’oggetto, è la rappresentazione. Le forme a priori, quindi, non saranno condizioni della rappresentazione, bensì sue conseguenze. In altre parole, esse sono già contenute in quel fatto assolutamente primo che è l’indissolubile rapporto tra soggetto e oggetto. Le forme a priori sono tre: lo spazio e il tempo (che corrispondono alle intuizioni pure di Kant) e la causalità (a cui si riducono le dodici categorie kantiane). Lo spazio e il tempo hanno principalmente la funzione di determinare l’oggetto in una pluralità di individui, resi specifici appunto dai loro rapporti spazio-temporali, cioè dall’essere collocati in una determinata posizione e inseriti in una determinata successione di momenti. Spazio e tempo fungono da «principio di individuazione» della materia, differenziando all’interno di essa ciascun oggetto individuale da tutti gli altri. A tale principio concorre anche la causalità, che costituisce l’essenza stessa della materia, percepita attraverso lo spazio e il tempo. Infatti, noi non possiamo percepire le cose nello spazio o nel tempo se non in quanto esse agiscono le une sulle altre, cioè in quanto le une sono causa e le altre effetto. Da questo punto di vista, la rappresentazione della realtà non è altro che la rappresentazione della causalità – cioè dell’azione reciproca degli oggetti – nello spazio e nel tempo.

spazio, tempo e causalità

Schopenhauer dice, in omaggio a Kant, che possiamo continuare a chiamare sensibilità le forme a priori dello spazio e del tempo. Ma avverte giustamente che nel suo sistema l’uso di questo termine è improprio, poiché la sensibilità presuppone già la materia da cui provengono le sensazioni. Nella sua concezione invece la materia – coincidendo con la causalità – nasce soltanto all’interno della rappresentazione. La forma a priori della causalità coincide invece con l’intelletto, inteso – ancora una volta – in modo assai diverso da Kant. Per il filosofo di Königsberg esso è la facoltà del giudizio, cioè della conoscenza mediata, nella quale le rappresentazioni immediate (intuizioni) vengono unificate in una «rappresentazione di rappresentazioni» (concetto). Per Schopenhauer, invece, l’intelletto opera intuitivamente, al pari della sensibilità: infatti la causalità, che è la specifica forma a priori dell’intelletto, non è una categoria in senso kantiano (cioè un concetto che unifica più intuizioni o più concetti), ma – come si è visto – la rappresentazione immediata della realtà come attività.

sensibilità e intelletto

Quali conseguenze comporta questo modo di concepire la sensibilità e l’intelletto? Per Schopenhauer conoscere non significa giudicare, come per Kant: la realtà viene colta intuitivamente nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità. In tal modo, sensibilità e intelletto non sono più kantianamente opposti – come l’aspetto passivo e quello attivo della conoscenza – ma convergono in un’unica conoscenza immediata.

conoscere equivale a intuire la realtà

Se le rappresentazioni proprie della sensibilità e dell’intelletto hanno carattere immediato e intuitivo, quelle della ragione sono invece mediate, cioè 1. schopenhauer

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la ragione unifica le rappresentazioni e si esprime mediante giudizi

«rappresentazioni di rappresentazioni» o concetti. La ragione, quindi, svolge per Schopenhauer una funzione analoga a quella svolta per Kant dall’intelletto. Essa congiunge più rappresentazioni in un’unica rappresentazione, cioè «giudica». Poiché i concetti sono esprimibili soltanto attraverso parole, la ragione è anche la facoltà del linguaggio. Ragione e linguaggio sono le due facce della stessa medaglia: in molte lingue – nota Schopenhauer – esse sono espresse dalla medesima parola, corrispondente al greco logos, che vuol dire appunto «ragione» e «discorso».

la ragione è propria dell’uomo

Il linguaggio e la ragione costituiscono, secondo Schopenhauer, ciò che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi, mentre l’intelletto – avendo ancora per oggetto semplici rappresentazioni immediate – appartiene anche agli animali. Oltre al linguaggio, la ragione è strettamente connessa: a) con la riflessione pratica, cioè con la capacità di orientare l’azione in base alle argomentazioni del pensiero riflesso; b) con la scienza, che è solita ricondurre il caso particolare alla legge naturale, cosa impossibile senza concetti che unifichino sotto di sé una pluralità di rappresentazioni subordinate.

3. Il mondo come volontà al di là della rappresentazione

Come si è detto, per Schopenhauer il mondo della rappresentazione è un velo illusorio che nasconde la vera realtà. Ma come si può attingere la cosa in sé che soggiace al mondo fenomenico? Certamente non attraverso la conoscenza intellettiva e razionale: essa infatti, essendo fondata sulle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, non può uscire dalla sfera della rappresentazione, e quindi del fenomeno. Se l’uomo non fosse altro che soggetto sottostante alle forme a priori del conoscere, non sarebbe mai possibile per lui pervenire al noùmeno. Ma così non è.

corpo-oggetto e corpo-volontà

Oltreché soggetto conoscente, infatti, l’uomo è anche un essere corporeo. Il corpo ha una duplice valenza. 1. Da un lato, esso è soltanto un oggetto tra gli oggetti, sebbene più immediato degli altri: in questo senso esso non sfugge alle leggi della rappresentazione e ricade pienamente nel mondo fenomenico. 2. D’altro lato, il corpo è anche espressione di volontà: in questo senso esso è la sede di una forza assolutamente irriducibile alla rappresentazione, una forza primigenia che non è un oggetto tra gli oggetti e che sfugge a ogni determinazione causale da parte delle altre cose. Attraverso l’esperienza corporea l’uomo può pertanto penetrare al di là del mondo della rappresentazione e pervenire alla cosa in sé, al fondamento noumenico che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica della realtà. La cosa in sé – che Kant aveva dichiarato inconoscibile e che gli idealisti avevano eliminato come contraddittoria – è dunque volontà .

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IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE E COME VOLONTÀ dal mondo come rappresentazione

attraverso il

conosciuto attraverso le tre forme a priori

corpo

non in quanto ma in quanto sede oggetto tra gli oggetti dell’impulso a vivere

spazio tempo causalità

è possibile accedere al La «volontà di vivere» è l’essenza di tutte le cose

squarciando il «velo di Maya» e scoprendo che

mondo noumenico (o cosa in sé)

I caratteri fondamentali di questa volontà noumenica sono due. 1. La volontà è una. Se fosse fenomeno, essa si frantumerebbe in una pluralità di individui. Ma, poiché si trova al di là del mondo fenomenico, la volontà è per forza unica: la cosa in sé, infatti, non è determinata dalle forme a priori dello spazio e del tempo e, quindi, non sottostà al principio di individuazione. Se per assurdo un solo uomo riuscisse ad annientare completamente la volontà che è in lui, verrebbe soppressa la volontà in generale, e il mondo intero sparirebbe. 2. La volontà è irrazionale. Come abbiamo visto, la ragione è la facoltà dei concetti, in quanto opera la sintesi delle rappresentazioni immediate della sensibilità o dell’intelletto: in tal senso, essa appartiene al mondo della rappresentazione, del quale è l’espressione più alta. Essendo al di là del mondo fenomenico, dunque, la volontà non può essere oggetto della ragione. Al contrario, essa si presenta come un’aspirazione senza fine e senza scopo, un tendere che non conduce a nessun ordine e a nessuna acquisizione definitiva. In altre parole, essa è una forza cieca e inconscia, puro istinto, pura «volontà di vivere (in tedesco: Wille zum Leben)» [t1].

le caratteristiche della volontà di vivere

Se da un lato il mondo è rappresentazione (o fenomeno), dall’altro esso è l’oggettivazione della volontà (o cosa in sé). La volontà infinita, infatti, si oggettiva – cioè si realizza – in una serie progressiva di gradi. Al livello più basso vi sono le forze stesse della natura: la gravità, l’impenetrabilità, la solidità, la

le oggettivazioni della volontà

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fluidità, l’elettricità, il magnetismo, le proprietà chimiche e tutte le altre proprietà delle cose. Queste forze non possono però essere considerate come entità fisiche connesse da rapporti causali, come fa generalmente la scienza: al contrario, esse sono forze metafisiche che agiscono indipendentemente dalla legge di causalità, valida solo nel mondo dei fenomeni. Nei successivi gradi della vita animale e vegetale la volontà si oggettiva nelle diverse specie, con tutte le caratteristiche e tutte le forme di impulso vitale che sono a esse proprie. L’ultimo grado di oggettivazione è quello in cui la volontà si realizza nei singoli individui umani: ciascuno di essi appare fornito di uno specifico volere che – sul piano fenomenico – si esprime come volontà razionale . tra la volontà e il mondo della rappresentazione

Tra il mondo fenomenico costituito da una pluralità di individui e la cosa in sé (il puro Wille zum Leben) vi sono tuttavia altre oggettivazioni della volontà che si sottraggono ai rapporti di spazio, tempo e causalità, e quindi anche al principio di individuazione. Secondo Schopenhauer, esse sono paragonabili alle idee di Platone, in quanto al pari di esse costituiscono i modelli universali a cui si conforma la realtà. In altri termini, il mondo fenomenico non è che una pallida immagine e una illusoria moltiplicazione di queste idee. D’altra parte, le idee stesse – a differenza di quanto afferma Platone – non sono ancora la realtà vera, cioè la volontà infinita, ma soltanto il termine intermedio tra quest’ultima e il mondo fenomenico. La dottrina platonica delle idee e quella kantiana della distinzione tra fenomeno e noùmeno convergono quindi, secondo Schopenhauer, verso un’unica verità fondamentale: il mondo che noi conosciamo attraverso l’esperienza sensibile e la conoscenza intellettuale è pura illusione e ci rimanda necessariamente a qualche cosa che sta al di là di esso.

l’irrazionalità dietro alla storia e alle istituzioni sociali

La concezione della cosa in sé come volontà conduce Schopenhauer a un radicale pessimismo . Poiché la volontà è irrazionale, ciò che noi consideriamo nel mondo ordine e armonia è soltanto illusione. L’ordine della società civile e politica non è che il fragile rivestimento di un coacervo di pulsioni e di egoismi, che non tardano a manifestarsi con effetti dirompenti appena venga meno la forza coercitiva che li trattiene. La storia, lungi dall’essere quella progressiva esplicazione del razionale che appariva a Hegel, è una sequela di irrazionalità e di follie. La stessa ragione – nella quale il pensiero illuministico aveva visto lo strumento della trasformazione del mondo – spesso non è che il mezzo per giustificare, dando loro un’apparenza logica, i ciechi impulsi e gli sfrenati egoismi degli uomini.

il «pendolo» che oscilla tra dolore e noia

Una più onesta considerazione della realtà vede a fondamento di essa un’aspirazione senza scopo che conduce a una eterna e inconsulta tensione, a un bisogno che non può mai trovare un soddisfacimento duraturo. La volontà – in quanto è desiderio di qualcosa che deve ancora essere raggiunto – è privazione, e quindi dolore e sofferenza. Ma quando l’oggetto della volontà viene conseguito, la soddisfazione non è che momentanea e si traduce subito in noia. Infatti, quando il bisogno si è placato, la vita – che non è altro che volontà – appare come svuotata di se stessa e priva di senso. Così l’esistenza è una penosa altalena tra due mali: la privazione e la noia [t2].

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Schopenhauer La volontà e le sue manifestazioni

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4. Le vie della liberazione dalla volontà Come abbiamo visto, l’oggettivazione della volontà nel mondo fenomenico è principio di sofferenza e di dolore. La liberazione da questi mali deve quindi necessariamente passare attraverso la negazione del mondo fenomenico, nel quale la nostra individualità è legata alla catena dei bisogni e delle soddisfazioni. Occorre pertanto attingere una forma di conoscenza che non obbedisca più al principio di individuazione e che, quindi, si sottragga alle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità. Schopenhauer individua tre forme di conoscenza non fenomenica, a cui corrispondono tre gradi di liberazione dai mali della volontà.

oltrepassare il mondo fenomenico

La prima forma di conoscenza non fenomenica è data dall’arte, che per Schopenhauer è conoscenza delle idee. Nell’esperienza artistica, infatti, il soggetto riesce a svincolare l’oggetto dalle condizioni spaziali, temporali e causali che lo individualizzano e a contemplarlo come una specie universale, come un’essenza, come l’immediata oggettità della volontà. L’artista appare, così, quale soggetto assoluto di una conoscenza pura, precedente al processo di fenomenizzazione. Anche le idee sono rappresentazioni, ma in esse l’elemento rappresentativo si riduce al fatto primario e universale del necessario rapporto tra soggetto e oggetto. In esse la relazione tra le due componenti della conoscenza non è più determinata dalle forme a priori. Nell’arte, tra soggetto e oggetto non vi è quindi alcuna mediazione, ma il secondo occupa interamente la coscienza del primo, oppure, il che è lo stesso, il primo si perde nel secondo. Naturalmente ciò comporta, da parte dell’artista, la capacità di negare anche la sua propria individualità, liberandosi di tutti gli interessi e di tutte le volontà particolari che lo legano alla determinatezza fenomenica: egli deve diventare un puro contemplatore disinteressato. Questa capacità di liberarsi dall’individualità per contemplare l’universale per tutto il tempo necessario alla realizzazione dell’opera d’arte, è ciò che contraddistingue il genio dall’uomo prosaico. L’arte, tuttavia, costituisce soltanto il primo gradino del processo di negazione della volontà da parte dell’individuo. Essa è pur sempre qualcosa di temporaneo, in quanto è legata al momento della contemplazione dell’idea, sia attraverso l’opera creatrice dell’artista, sia attraverso la fruizione dell’opera d’arte da parte dello spettatore.

l’arte e la contemplazione delle idee

Una più duratura liberazione dai mali della volontà può derivare dalla morale, la quale rappresenta – per così dire – la naturale continuazione dell’attività artistica. La virtù, infatti, nasce sempre da una forma di conoscenza. Attraverso la virtù, però, la conoscenza va al di là delle manifestazioni fenomeniche della volontà e attinge la vera natura della volontà stessa, rendendo l’uomo consapevole delle dolorose conseguenze cui essa porta. In altre parole, attraverso la virtù l’uomo giunge a comprendere la necessità di negare il proprio spontaneo consenso all’impulso della volontà di vivere. In tal senso, la conoscenza ottenuta grazie alla virtù costituisce un quietivo della volontà. Ma, per ottenere questo risultato, occorre estendere dal piano

la morale e la limitazione dell’egoismo

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conoscitivo a quello pratico quella sospensione del «principio di individuazione» che è già stata realizzata dalla contemplazione artistica. In questo modo, l’uomo non considererà più se stesso come un individuo contrapposto ad altri individui, cioè come espressione di bisogni e interessi che lo portano necessariamente a entrare in conflitto con il suo vicino. Al contrario, egli opererà in modo da ridurre a un’unica realtà il proprio io e quello degli altri, eliminando ogni conflittualità tra gli individui. Questo obiettivo viene conseguito in due tempi. 1. Dapprima, il soggetto si limita a non compiere azioni che possano ledere la volontà degli altri, attraverso il diritto. Quest’ultimo si realizza esteriormente nell’ambito dello Stato. 2. Successivamente, il soggetto supera la contrapposizione tra individui assumendo un atteggiamento caritatevole nei confronti del prossimo. In ciò consiste la compassione, che può nascere soltanto nella sfera dell’interiorità dell’uomo. l’ascesi

Si è detto che diritto e compassione negano la volontà, eliminando il conflitto tra uomo e uomo. Ma è soltanto la volontà individuale quella che entrambi possono negare. Un più alto grado del processo di liberazione dai mali della vita richiede invece una negazione della volontà di vivere in se stessa. A questo scopo è finalizzata l’ ascesi , intesa come sistematica mortificazione dei bisogni della vita sensibile – primariamente dell’impulso sessuale. L’ideale a cui ogni procedura ascetica deve tendere è la completa negazione della volontà ovvero – il che è lo stesso – l’affermazione della nolontà, della non-volontà. L’esito finale del processo di negazione della volontà deve quindi condurre al nulla. Con questo termine, Schopenhauer non indica alcunché di positivo, come potrebbe essere l’estasi in cui il mistico perde se stesso ma ritrova la totalità del divino. Il nulla esprime esclusivamente la completa negazione della volontà di vivere, la quale reca con sé anche la negazione del mondo come oggettivazione di questa volontà.

5. Il nulla e la morte il nulla nella sapienza indiana

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Nella formulazione dei concetti di nulla e di nolontà Schopenhauer è stato fortemente influenzato dalla nozione di Nirvana, che è centrale nel pensiero delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana. Tuttavia, nella concezione indiana il Nirvana appare ancora come qualcosa di positivo: un nullatutto in cui l’individuo si perde, risolvendo completamente in esso la sua specificità. In quanto tale, per Schopenhauer il Nirvana degli indiani è ancora un’illusione. Il nulla dev’essere qualcosa di assolutamente negativo, la pura e semplice «nolontà», senza alcun riempimento sostitutivo del vuoto a cui essa conduce. Per questa ragione Schopenhauer adduce come modello più appropriato le vite dei santi, che si sono completamente liberati dal condizionamento della volontà: 1. schopenhauer

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Su ciò non vi è dubbio: da una parte, il fenomeno della volontà, il mondo, non ha per essenza che dolore inconsolabile, e miseria infinita; dall’altra, con la volontà svanisce anche il mondo, e non ci resta dinanzi che il nulla. È bene, dunque, che si meditino la vita e gli atti dei santi; se non direttamente, il che ben di rado ci è concesso nella nostra esperienza personale, nell’immagine almeno che ne offrono la storia o l’arte (e specialmente quest’ultima, improntata da un suggello d’infallibile verità). Questo è, per noi, l’unico mezzo per dissipare la lugubre impressione del nulla; di quel nulla che si delinea quale meta finale in uno sfondo di là dalla santità e dalla virtù, e che temiamo come i fanciulli temono le tenebre. Meglio così, che non illudere il nostro terrore, come fanno gl’indiani, i quali si appagano di miti e di parole vuote di senso come ad esempio l’assorbimento nel Brahm, o il Nirvana dei buddisti. Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla (Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, § 71).

Ma nella tradizione cristiana il vuoto lasciato dalla negazione del mondo si riempie positivamente della comunione tra il santo e la divinità. Attraverso l’ascesi il misticismo cristiano giunge alla totale affermazione di Dio; quello di Schopenhauer è invece un misticismo ateo che rifiuta il mondo per giungere alla pura negatività . Ma in che modo l’uomo – almeno in quanto individuo – può veramente sperimentare il nulla? La sola speranza di raggiungerlo è data dalla morte, la quale «dissipa l’illusione che separa la coscienza individuale dall’universale» e dà la certezza della fine temporale dell’individuo. Paradossalmente, dunque, la morte costituisce l’unica nota di speranza nella pessimistica concezione schopenhaueriana della realtà.

la negazione del mondo per i cristiani e per schopenhauer

in poche... parole Le coordinate del pensiero di Schopenhauer sono molteplici: la dottrina platonica delle idee; la gnoseologia critica kantiana (riletta in termini soggettivisticoidealistici); la sapienza dell’antico Oriente (soprattutto quella indiana e buddista). Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è dato dal concetto di rappresentazione e dalla con-

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Schopenhauer La negazione della volontà

trapposizione tra mondo fenomenico e «cosa in sé». Per il filosofo di Danzica il mondo nel quale viviamo e che cogliamo intuitivamente nelle dimensioni dello spazio, del tempo e della causalità è pura apparenza. Al di là di esso si dispiega il regno della volontà di vivere, che costituisce l’essenza noumenica di tutta la realtà ed è comune a tutti gli

esseri. L’uomo scopre la volontà di vivere grazie al corpo: quest’ultimo, infatti, non è solo un oggetto tra gli oggetti – inserito nel mondo della rappresentazione – ma anche espressione di volontà che si radica direttamente nel mondo noumenico. Le caratteristiche della volontà di vivere (Wille zum Leben) sono opposte a quelle del mondo fenomenico.

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Quest’ultimo è costituito da una pluralità di individui collocati nello spazio e nel tempo e collegati da rapporti di causa e di effetto; la volontà di vivere, invece, è unica, eterna, incausata e priva di scopo.

rappresentazione È il concetto fondamentale della dottrina della conoscenza di Schopenhauer. Costituisce il momento originario da cui scaturisce il rapporto reciproco di soggetto e oggetto, nessuno dei quali è precedente all’altro. La rappresentazione è prodotta dalle forme a priori della conoscenza: da un lato lo spazio e il tempo, che si riferiscono alla sensibilità, dall’altro la causalità, che è la forma a priori dell’intelletto. Spazio, tempo e causalità sono forme dell’intuizione: infatti, a differenza di Kant, anche l’intelletto per Schopenhauer ha carattere intuitivo. Il fenomeno viene quindi immediatamente intuito non solo nello spazio e nel tempo, ma anche in una rete causale. Dalla convergenza di questi elementi nasce il «principio di individuazione», in base al quale il fenomeno si presenta come un individuo tra i tanti, che interagisce causalmente con gli altri individui nel conflitto della vita. apparenza Dal latino apparentia, corrispondente al greco phainòmenon. Il significato di questo termine può avere una connotazione negativa, quando indica ciò che vela e nasconde la realtà vera; una connotazione positiva, quando definisce la realtà stessa nel suo manifestarsi. Nel pensiero moderno prevale nettamente la seconda alternativa, con la difesa kantiana del fenomeno come unico oggetto di conoscenza possibile. L’opposizione della vera realtà (intelligibile o intuibile) all’apparenza (sensibile) attraversa l’intera tradizione idealistica, trovando la più radicale espressione in Hegel che – in base al principio dell’identità tra reale e razionale – confina nel mondo del12

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l’apparenza tutto ciò che è accidentale, cioè non riconducibile alla razionalità dialettica. Schopenhauer riafferma con forza la concezione del mondo come apparenza che nasconde la realtà noumenica, costituita da un’unica volontà irrazionale.

volontà Per Schopenhauer la volontà è innanzitutto quella individuale, che si manifesta fenomenicamente nelle azioni e negli impulsi. In quanto tale essa coincide con il «carattere». Ma il carattere non è che la manifestazione fenomenica di una volontà noumenica, che costituisce la vera essenza della realtà e si manifesta non solo nella volontà umana, ma anche negli animali e negli altri esseri (per esempio attraverso gli impulsi elettrici, le proprietà magnetiche, ecc.). Non essendo condizionata dal principio di individuazione, la volontà è unica, poiché non si rifrange nella pluralità degli individui, e irrazionale, perché non soggiace all’ordine delle connessioni causali. La volontà noumenica sfugge a qualsiasi rappresentazione, in quanto, non facendo parte del fenomeno, non può essere colta dalle forme a priori della conoscenza. L’uomo può pertanto pervenire a essa soltanto attraverso il suo corpo, quale oggettivazione diretta della volontà nel mondo fenomenico, con i suoi istinti e i suoi impulsi. Secondo Schopenhauer, volere equivale a soffrire. «Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento; tuttavia, per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito; l’appagamento è breve e misurato con mano avara [...]. Quindi finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei

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desideri, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo» (Il mondo come volontà e rappresentazione, § 38). Secondo questa prospettiva, la felicità non corrisponde mai ad uno stato di pienezza e di positiva soddisfazione, ma è soltanto una provvisoria mancanza di dolore. Il solo modo per sfuggire alla sofferenza consiste nel limitare la volontà di vivere. Secondo Schopenhauer, tre sono le stra-de percorribili: 1) l’arte, che in quanto conoscenza disinteressata si solleva al di sopra del principio di individuazione, consente al soggetto di distrarsi – seppure provvisoriamente – dalla volontà e dai dolori che essa comporta; 2) la morale, negando lo spontaneo impulso all’egoismo individuale, induce a riconoscere l’unica e comune radice della brama di vivere e promuove la carità nei confronti del prossimo; 3) l’ascesi.

pessimismo La filosofia di Scho-

penhauer è radicalmente pessimista: da questo punto di vista essa si contrappone all’ottimismo sociale degli illuministi e all’ottimismo storico di matrice hegeliana. Secondo il filosofo di Danzica, la società civile e politica non è il frutto della naturale bontà e socievolezza dell’uomo, bensì il fragile rivestimento di conflitti egoistici e di bisogni utilitari. Essa ha una natura puramente convenzionale e serve a controllare gli istinti aggressivi degli individui, altrimenti destinati alla sopraffazione totale. La storia – anziché essere la progressiva manifestazione dello Spirito (come aveva sostenuto Hegel) o della Ragione (come auspicavano gli stessi illuministi, promotori del continuo progresso dell’umanità) – non è altro che una sequela di irrazionalità e di follie. Da questo punto di vista gli uomini – pur di volta in volta diversi a seconda delle epoche storiche – sono an-

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che sempre uguali a se stessi, essendo caratterizzati da un insieme di tratti essenziali: nascita, sofferenza, conflitto, morte. Nelle tre forme dell’arte, della morale e dell’ascesi l’individuo può cercare di negare il mondo, sopprimendo così la brama di vivere che avverte dentro di sé. La soluzione alle innumerevoli sofferenze che essa comporta è, tuttavia, rappresentata solo dalla morte, il nulla al quale

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l’individuo in vita può soltanto aspirare, ma mai raggiungere pienamente.

ascesi Dal greco àskesis, «esercizio». Originariamente designava qualsiasi forma di addestramento; passò poi a indicare l’esercizio consistente nella limitazione e rinuncia dei desideri (in particolare di quelli corporei). In Schopenhauer esprime il processo – insie-

me conoscitivo e pratico – con cui si giunge a negare la volontà irrazionale che sta alla base dell’universo. A differenza dell’ascesi cristiana che porta all’unione estatica con Dio, quella suggerita da Schopenhauer conduce alla liberazione dalla volontà di vivere – a partire dalle sue molteplici oggettivazioni – fino alla perdita di sé nel puro nulla.

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i testi t1 Schopenhauer / Volontà e coscienza Schopenhauer

Il mondo come volontà e rappresentazione

libro II, § 23

Il II e il IV libro del Mondo sono entrambi dedicati al «Mondo come volontà» (mentre il primo e il terzo riguardano il «Mondo come rappresentazione»). Il secondo libro, in particolare, concerne il problema dell’oggettivazione della volontà, descrivendo i diversi gradi attraverso i quali quest’ultima realizza se stessa. La più specifica di queste oggettivazioni è data dai corpi dei singoli individui. Il corpo diventa pertanto la porta attraverso la quale l’uomo, abbandonando il piano della rappresentazione, può rientrare nel mondo della volontà e coglierne l’intima essenza noumenica. Nel § 23, di cui qui si riporta un brano, Schopenhauer mostra come la stessa volontà di vivere che determina le azioni consapevoli dell’uomo stia alla base non solo dei suoi atti fisiologici, ma, discendendo progressivamente la scala degli esseri, anche di tutte le manifestazioni del mondo animale, dalle attività che sembrano connesse a una rappresentazione a quelle che esprimono semplici processi biologici. In questo modo le più alte manifestazioni spirituali dell’uomo, come la rappresentazione e il pensiero, vengono implicitamente assimilate alle più basse espressioni della vita animale nella comune derivazione da una radice inconsapevole.

Finora furon considerati fenomeni della volontà solo quelle modificazioni, le quali non hanno altra causa che un motivo, ossia una rappresentazione. Perciò in tutta la natura si attribuiva una volontà soltanto all’uomo, e tutt’al più agli animali; perché il conoscere, il rappresentare, come ho già notato altrove, è la genuina ed esclusiva caratteristica dell’umanità. Ma che la volontà agisca anche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo subito dall’istinto e dalle tendenze meccaniche degli animali1. Che essi abbiano rappresentazioni e conoscenza, non è cosa che ora ci riguardi; imperocché lo scopo, al quale essi dirigono la loro azione quasi fosse un motivo conosciuto, rimane ad essi del tutto ignoto. Perciò il loro agire avvie1. Finora Schopenhauer ha mostrato

come le rappresentazioni e le azioni consapevoli dell’uomo siano il prodotto della inconsapevole volontà di vivere che agisce nell’uomo attraverso il corpo. Ora egli radicalizza la sua tesi ponendo questa stessa volontà inconscia alla base di tutte le manifestazioni della vita, anche le più basse. In questo modo egli intende mostrare che non c’è

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ne in quel caso senza motivo, non è guidato dalla rappresentazione, e ci mostra immediatamente e chiarissimamente, che la volontà agisce anche senz’alcuna conoscenza2. L’uccello di un anno non ha nessuna rappresentazione delle uova, per le quali costruisce un nido; un giovine ragno non ne ha della preda, per la quale tesse una rete; non il formicaleone della formica, a cui per la prima volta scava una fossa; la larva del cervo volante fora il legno, dove vuol compiere la sua metamorfosi; e quando essa vuol diventare un insetto mascolino, il foro è doppio di quando vuol diventare femmina, per dar posto alle corna, delle quali non ha ancor nessuna rappresentazione. In tali atti di codesti animali è pur palesemente in gioco la

alcuna connessione tra la volontà (intesa come volontà noumenica) e la coscienza, ma che tutte le attività fenomeniche, siano esse coscienti o inconsapevoli, hanno come unica matrice una volontà priva di coscienza. In altri termini la stessa coscienza è una manifestazione fenomenica di una forza cieca e inconsapevole, al pari della produzione del guscio di una chiocciola.

1. schopenhauer

2. Che gli effetti della volontà abbiano le caratteristiche della coscienza o che consistano in manifestazioni puramente biologiche non ha nessuna importanza, poiché anche ciò che appare come coscienza è semplicemente la conseguenza di un impulso inconsapevole.

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volontà, come nelle altre loro azioni; ma essa agisce in un’attività cieca, la quale è bensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne è guidata. Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione, come motivo, non è punto necessaria ed essenziale condizione dell’attività del volere, conosceremo più facilmente l’effetto della volontà in casi dov’è meno appariscente3. Per esempio, non attribuiremo il guscio della chiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, ma estranea alla chiocciola stessa, come non pensiamo che la casa da noi stessi costruita sorga per effetto d’una volontà che non sia la nostra; ma questa casa e la casa della chiocciola conosceremo quali opere della volontà, oggettivantesi in entrambi i fenomeni; volontà che opera in noi secondo motivi, e nella chiocciola ciecamente, come un impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche in noi la stessa volontà agisce in vari modi ciecamente: in tutte le funzioni del nostro corpo, che nessuna conoscenza guida, in tutti i suoi processi vitali 3. In altri termini: non già la rappre-

sentazione cosciente è condizione della

e vegetativi, digestione, circolazione del sangue, secrezione, sviluppo, riproduzione. Non solo le azioni del corpo, ma il corpo medesimo è in tutto e per tutto, come abbiamo mostrato, fenomeno della volontà, volontà oggettivata, volontà concreta: tutto ciò, che in esso accade, deve quindi accadere per effetto di volontà; sebbene qui codesta volontà non sia diretta dalla conoscenza, né determinata da motivi, ma agisca ciecamente in seguito a cause che in tal caso prendono il nome di stimoli.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le considerazioni in base alle quali Schopenhauer conclude che la volontà non è solo caratteristica dell’uomo, ma pervade tutto l’universo. 2. Che rapporto c’è tra rappresentazione e volere? 3. Dove ha sede la volontà nell’uomo?

volontà, ma al contrario la volontà (inconscia) è la condizione della rappre-

sentazione cosciente, come di qualsiasi altra manifestazione della vita.

t2 Schopenhauer / La vita è sofferenza o noia Schopenhauer

Il mondo come volontà e rappresentazione

libro IV, §§ 57-58

Nel IV libro del Mondo, Schopenhauer descrive la dinamica della volontà di vivere, comune a tutti gli esseri viventi. Volere equivale a provare un senso di mancanza e di tensione che si risolve solo per mezzo dell’appagamento del bisogno. Schopenhauer definisce la felicità in termini negativi come momentanea eliminazione dello stato di privazione che la precede. Ciò implica che essa non sia originaria e che dipenda sempre dalla soddisfazione di un desiderio antecedente. Secondo Schopenhauer, la vita di ogni essere oscilla «come un pendolo» tra il dolore – provato perché avverte la mancanza di qualcosa – e la noia – dovuta al raggiungimento dell’obiettivo e alla perdita di stimoli che ne consegue. Ben presto, tuttavia, la volontà di vivere riprenderà nuovamente il sopravvento e la noia lascerà il posto a nuovi bisogni.

Già nella natura incosciente, constatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell’uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor

più eloquente. Volere e aspirare, questa è la loro essenza, una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per esi testi

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senza votato al dolore1. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della noia2. [...] La soddisfazione o, come si dice ordinariamente, la felicità, è per natura essenzialmente negativa, senza nulla di positivo. La felicità non è mai originaria, né ci viene spontaneamente; ma si deve sempre alla soddisfazione di un desiderio. Il desiderio, la privazione, sono infatti condizioni preliminari di ogni gioia. Ma con la soddisfazione cessa il desiderio, e quindi anche la gioia. Dunque, la soddisfazione, la felicità, si riducono in fondo alla liberazione da un dolore e da un bisogno. (Intendendo sotto questo nome non soltanto le sofferenze reali o sensibili ma ogni specie di desiderio che turbi la nostra quiete, e la stessa noia mortale che rende la vita un peso.) Conquistare un bene qualsiasi è ben difficile; ad ogni progetto si oppongono difficoltà senza numero; gli ostacoli si centuplicano ad ogni passo. E quando infine, superati gli inciampi, siamo giunti al fine desiderato, che guadagno abbiam fatto? Nessuno: siamo riusciti semplicemente a liberarci da un dolore, da un desiderio; ci ritroviamo, insomma, nello stato di prima. Il dato primitivo è il bisogno, cioè il dolore. Della soddisfazione, 1. La volontà esprime un bisogno, una mancanza: ma mancare di qualcosa significa soffrire. Inoltre, anche quando tale bisogno sia soddisfatto, ne sorge subito un altro, altrettanto imperioso, poiché la volontà, come già sappiamo, è aspirazione infinita. Quindi, volere è soffrire. 2. La volontà comporta sempre la sofferenza per la mancanza dell’oggetto voluto. In questa argomentazione contro la volontà Schopenhauer osserva

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della gioia, non abbiamo che una conoscenza indiretta, che si deve al ricordo delle antecedenti sofferenze, delle privazioni da cui fummo liberati. Perciò, dei beni e dei vantaggi attualmente posseduti, non sappiamo né renderci un conto preciso né fare un’esatta valutazione; le cose, ci sembra, non potrebbero andare diversamente; infatti, la felicità che quei beni ci danno, è negativa: ci tien lontani dal dolore. Non possiamo sentire il valore dei beni, che dopo averli perduti; la mancanza, la privazione, la sofferenza, sono i soli elementi positivi che si facciano sentire direttamente. Questa è anche la ragione che ci rende così dolce il ricordo di mali superati, ad esempio angustie, malattie, povertà, ecc.; non abbiamo infatti altro mezzo per gustare i beni presenti3. [...] Essendo la felicità negativa, senza niente di positivo, la soddisfazione, l’appagamento non possono durare a lungo: non fanno che liberarci da un dolore o da una privazione, a cui seguiranno di certo un’altra nuova sofferenza, o il languore, un’aspirazione senza oggetto, la noia.

GUIDA ALLA LETTURA 1. La vita dell’uomo, dice Schopenhauer, «oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia». Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono i concetti di «dolore» e «noia». 2. In che senso, secondo Schopenhauer, la felicità è per sua essenza negativa? 3. Qual è, per Schopenhauer, l’unico modo in cui riusciamo ad apprezzare il valore dei beni?

che, anche quando la volontà si acquietasse nell’acquisizione dell’oggetto voluto, il risultato non sarebbe il benessere, ma soltanto la noia, poiché, venendo meno lo stimolo della volontà, verrebbe a mancare anche l’interesse per la vita. Quindi: se si vive (e si vuole) intensamente, si soffre; se si rinuncia all’intensità della vita (e della volontà), ci si annoia. 3. Posto che per l’uomo l’alternativa è quella tra la sofferenza (per un bisogno

1. schopenhauer

innapagato) e la noia (conseguente all’appagamento del bisogno), non è mai possibile – ed è questo l’argomento conclusivo contro la volontà – godere di una vera felicità. Ciò che chiamiamo felicità è soltanto una condizione negativa, cioè la momentanea assenza di un dolore o di una noia (la quale è anch’essa una forma di sofferenza) che ci affliggano positivamente.

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esercizi/1 CHE COSA SO?

9. In che modo l’uomo può pervenire alla «cosa in sé»?

Guida allo studio del manuale

10. Quali sono i gradi di oggettivazione della volontà?

1. Evidenzia le correzioni che Schopenhauer apporta alla distinzione tra «fenomeno» e «noùmeno» fatta da Kant e la conclusione che ne ricava. 2. Evidenzia le forme a priori individuate da Schopenhauer. 3. Evidenzia che cosa distingue gli uomini dagli altri esseri viventi. 4. Evidenzia le caratteristiche della volontà di vivere. 5. Evidenzia le influenze platoniche sul pensiero di Schopenhauer.

11. Qual è la critica che Schopenhauer rivolge all’ottimismo storico di Hegel? E agli illuministi? 12. In che modo la morale può aiutare l’uomo a liberarsi dalla soggezione alla volontà di vivere? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 13. Perché Schopenhauer rifiuta la concezione kantiana del «noùmeno» come limite invalicabile della conoscenza?

6. Evidenzia le influenze esercitate dalla sapienza indiana sul pensiero di Schopenhauer.

14. Che differenza c’è tra la concezione kantiana e quella schopenhaueriana della sensibilità e dell’intelletto?

Dizionario filosofico

15. Perché, secondo Schopenhauer, l’esistenza può essere solo «dolore»?

7. Definisci i seguenti concetti: realismo • idealismo • velo di Maya • principio di individuazione • nolontà • nulla

CHE COSA HO CAPITO?

16. In che cosa consiste la virtù, secondo Schopenhauer, e quali sono le forme in cui si realizza? 17. Perché il Nirvana non costituisce ancora una negazione abbastanza radicale della volontà?

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 8. Che differenza c’è tra la nozione kantiana e quella schopenhaueriana di «intelletto»?

esercizi/1

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tempo – e recuperando una condizione di eccezionalità che non ha più carattere estetico ma religioso (il modello è Abramo, disposto a sacrificare Isacco per volere di Dio). la tragedia dell’esistenza

2. KIERKEGAARD i contenuti

modo venivano rifiutate – come inadatte a cogliere la vera realtà – le categorie fondamentali del pensiero hegeliano: universalità e necessità.

la polemica contro hegel

i tre stadi della vita

La polemica contro Hegel è alimentata a Copenaghen da Kierkegaard, che può essere considerato l’iniziatore dell’esistenzialismo contemporaneo. Egli introduce una netta distinzione tra il piano dell’essenza, che è oggetto del pensiero logico ed è caratterizzata dalla necessità, e il piano dell’esistenza, che può essere colta soltanto da un «pensiero soggettivo» e si risolve nella categoria della possibilità. L’esistenza, infatti, non ha mai carattere universale, ma riguarda sempre il singolo, nella sua irriducibile specificità. In questo

In quanto possibilità, l’esistenza umana si apre a tre alternative o stadi della vita, dotati di valore differente. 1) Nello stadio estetico l’individuo vive nell’immediatezza dell’istante e gode della sua irripetibile eccezionalità (il modello è il Don Giovanni di Mozart). 2) Nello stadio etico l’individuo riconferma con una «scelta» – che è anche una continua ripetizione – la sua adesione a princìpi morali universali (il modello è la figura del marito). 3) Nello stadio religioso l’uomo si affida al rapporto esclusivo con Dio, scegliendo di vivere nel «momento» – inteso come irruzione dell’eternità nel

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2. kierkegaard

La concezione della vita di Kierkegaard è tragica. L’indeterminatezza delle possibilità – in cui consiste l’esistenza dell’uomo – lo porta alla «vertigine» dell’angoscia e alla disperazione. Angoscia e disperazione possono avere come solo esito positivo la fede, che è un salto qualitativo attraverso cui l’uomo si aggrappa a Dio. Essendo il prodotto di un salto senza mediazioni, la fede non può essere giustificata da argomentazioni razionali, ma è effetto del paradosso per cui si accetta ciò che apparentemente è assurdo.

gli strumenti in poche… parole esistenza / possibilità / angoscia / disperazione

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

i testi a. nel manuale t3 Kierkegaard/Esistenza contro essenza t4 Kierkegaard/L’angoscia

b. on-line Kierkegaard/Il paradosso della fede: Abramo

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1. Vita e opere Søren Kierkegaard nasce a Copenaghen nel 1813 da una famiglia dominata dalla severità religiosa del padre, già anziano. Studia teologia all’università della città natale, protraendo gli studi per un decennio, in cui conduce una vita piuttosto disordinata. Soltanto dopo la morte del padre si impegna seriamente nello studio, riuscendo a conseguire la licenza in teologia nel 1840. L’anno successivo ottiene il titolo di magister artium con la dissertazione Sul concetto di ironia con costante riferimento a Socrate.

gli studi teologici a copenaghen

Sempre nel 1841, per motivi religiosi rompe il fidanzamento, durato un anno, con Regina Olsen, che continuerà tuttavia a rimpiangere. Sciolti i legami sentimentali, si reca a Berlino nel 1841-42 per ascoltare Schelling, dalla cui «filosofia positiva» si attende molto. Ma l’entusiasmo iniziale si tramuta presto in una delusione: anche la «filosofia della rivelazione» gli appare troppo speculativa e troppo lontana dalla concretezza dell’esistenza. Tornato a Copenaghen – grazie alla rendita lasciatagli dal padre – può dedicarsi completamente agli studi e alla pubblicazione dei suoi libri. A Copenaghen Kierkegaard rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1855, a soli quarantadue anni. Di quest’ultimo periodo della sua vita gli unici avvenimenti degni di nota sono la polemica diretta contro di lui dal periodico satirico «Il corsaro» e quella da lui stesso condotta contro la Chiesa ufficiale danese, accusata di tradire il vero spirito del cristianesimo.

parentesi berlinese e rientro nella città natale

Le opere di Kierkegaard possono essere divise in due gruppi. Il primo raccoglie gli scritti espressamente religiosi, soprattutto i Discorsi edificanti, che egli continua regolarmente a pubblicare su diversi temi. Il secondo gruppo comprende, invece, le vere e proprie opere filosofiche, quasi tutte pubblicate con uno pseudonimo diverso. Ciò testimonia, da un lato, la volontà di Kierkegaard di prendere le distanze da esse; dall’altro, l’intenzione di sottolineare il carattere soggettivo della filosofia. Tra queste, oltre alla già ricordata tesi di laurea, vanno annoverate: Aut-aut, di cui fa parte il Diario di un seduttore (1843); Timore e tremore (1843); La ripetizione (1843); Briciole filosofiche, o una filosofia in briciole (1844); Il concetto dell’angoscia (1844); Stadi nel cammino della vita (1845); Postilla conclusiva non scientifica (1846); La malattia mortale (1849). Molto importanti sono anche il Diario – che Kierkegaard tenne dal 1834 fino alla morte, e che fu pubblicato postumo – e le cosiddette Carte, ossia gli appunti e i riassunti lasciati inediti.

scritti religiosi e opere filosofiche

Alcune sue opere hanno carattere letterario, altre sono più specificamente filosofiche. Le une e le altre sono, comunque, accomunate dal rifiuto di costruire un sistema filosofico: al contrario, esse presentano un andamento più discorsivo, a volte un po’ rapsodico, in base alla convinzione che la filosofia si possa fare – ed esporre – solo in «briciole».

un pensiero asistematico

2. kierkegaard

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2. La polemica con l’idealismo hegeliano «io stupido hegeliano!»

il primato dell’esistenza sull’essenza

il primato della singolarità sull’universalità

l’ironia e l’infinita soggettività dell’uomo

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«Io stupido hegeliano»: con questa espressione, contenuta nelle Carte, Kierkegaard rimprovera a se stesso la sua breve adesione iniziale – ancora studente – alla filosofia di Hegel: adesione che è stata del resto fortemente ridimensionata da recenti studi. In ogni caso, l’idealismo razionalistico di Hegel appare ben presto a Kierkegaard l’espressione filosofica più contraria alle proprie istanze intellettuali. Il punto di maggiore contrasto con Hegel riguarda il concetto di esistenza . L’oggetto della speculazione hegeliana era infatti l’essenza delle cose, e più precisamente la loro essenza razionale. L’esistenza veniva considerata soltanto in quanto inclusa nell’essenza stessa, cioè in quanto realtà razionale. Al di fuori di questo rapporto con l’essenza razionale, l’esistenza era per Hegel pura accidentalità e – come tale – sfuggiva all’analisi concettuale della filosofia. Già Kant – che viene espressamente invocato da Kierkegaard – aveva invece osservato che l’esistenza è una «posizione assoluta», del tutto indipendente dal concetto della cosa cui si riferisce. Ad esempio, io posso avere una perfetta conoscenza del concetto di cento talleri, senza che questa somma esista effettivamente. Analogamente, Kierkegaard sostiene nel Diario che l’esistenza è altra cosa rispetto all’essenza concettuale: «esistere» viene da ex-sistere, cioè «stare fuori» dal concetto. L’esistenza non è quindi posta dal pensiero insieme all’essenza delle cose, ma è data indipendentemente dall’attività speculativa dell’uomo [t3]. In altri termini il pensiero può riflettere su di essa, non già determinarla e porla in atto. Occupandosi soltanto delle essenze, la filosofia hegeliana aveva per oggetto l’universale. Considerando invece l’esistenza in quanto diversa dall’essenza, Kierkegaard incentra la sua attenzione su ciò che universale non è, cioè sul particolare e sull’individuale. L’esistenza, infatti, non appartiene ai concetti universali, che sono soltanto entità logiche, ma all’individuo nella sua specifica concretezza o – come Kierkegaard preferisce dire – al singolo. Riutilizzando una terminologia aristotelica, egli osserva che a Hegel interessano soltanto i «generi»: non i singoli uomini, ma il genere «uomo». Per Kierkegaard, invece, l’esistenza spetta in senso proprio solo all’individuo. Del resto, la realtà ultima dell’individuo è anche il cuore dell’insegnamento del cristianesimo, che non si rivolge mai all’uomo in generale, ma sempre al singolo uomo, con il suo specifico e particolarissimo rapporto con Dio. La filosofia di Hegel – insensibile alla specificità delle determinazioni individuali – era pertanto essenzialmente anti-cristiana e soltanto una surrettizia operazione concettuale ha potuto far credere il contrario. Interessato soltanto alle essenze universali delle cose, Hegel è il filosofo dell’Assoluto, del quale la soggettività non è che un aspetto parziale e incompiuto. Per Kierkegaard, invece, è impossibile porsi dal punto di vista dell’Assoluto: per quanti sforzi faccia, l’uomo non esce mai – in quanto singolo – dalla sua soggettività. Ciò non impedisce, tuttavia, come Kierkegaard sostiene sin dalla sua tesi di laurea sul Concetto di ironia, che la stessa sogget2. kierkegaard

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tività assuma un valore assoluto. L’ironia socratica – in quanto sapere di non sapere – è una soggettività essenzialmente negativa: anzi, essa esprime una «negatività infinita», perché è negazione di ogni determinazione specifica. Ma, nello stesso tempo, essa contiene in sé una possibilità positiva, cioè «l’infinitezza intera della soggettività»: infatti, la soggettività finita – negando ogni determinazione specifica – si apre nello stesso tempo a una soggettività infinita, cioè all’indeterminatezza dell’esistenza. Ponendosi dal punto di vista dell’Assoluto, Hegel si era proposto di comprendere filosoficamente la necessità dell’essere. Rinunciando a ogni assolutezza e considerando sempre l’esistenza dal punto di vista della soggettività del singolo, Kierkegaard non esce invece dalla sfera della possibilità . Le diverse determinazioni dell’esistenza umana – egli distingue, come vedremo subito, tre condizioni esistenziali fondamentali – costituiscono possibilità che l’uomo liberamente può scegliere o non scegliere. La stessa apertura del soggetto finito alla soggettività infinita – come si è appena visto – è soltanto una possibilità, e l’infinito stesso è inteso in termini di possibilità infinite. In ogni momento della sua vita l’uomo è chiamato a scegliere – o anche a scegliere di non scegliere – tra possibilità diverse. Questa totale apertura verso il possibile costituisce il carattere fondamentale dell’esistenza. Per questa sua definizione delle categorie di esistenza, possibilità e soggettività, Kierkegaard è stato considerato l’ispiratore dell’esistenzialismo contemporaneo [cfr. 10.2 e 15.2].

il primato della possibilità sulla necessità

3. Gli stadi della vita Negli Stadi nel cammino della vita, Kierkegaard distingue tre condizioni o possibilità esistenziali fondamentali, alle quali dà il nome di «stadi». Questi ultimi infatti possono essere considerati come momenti successivi dello sviluppo individuale, anche se – in contrasto con il carattere necessario del processo dialettico hegeliano – tra l’uno e l’altro non vi è nessuna forma di automatismo, bensì un «salto» che può essere colmato soltanto con la libera scelta del singolo.

le alternative esistenziali sono tre

Nella prima opera pubblicata dopo la tesi di laurea, Aut-aut, Kierkegaard delinea i primi due stadi. Lo stadio estetico è incarnato dalla figura del seduttore, che dedica la sua intera esistenza alla conquista dell’animo femminile per il puro piacere della conquista stessa. La vita estetica, infatti, è incentrata sul desiderio e sul godimento. L’esteta non esce dalla sfera della sensualità: per questo il personaggio che meglio lo rappresenta è il Don Giovanni di Mozart. Il seduttore vive nell’elemento dell’immediatezza: egli non compie mai una scelta definitiva, non si impegna mai in nulla, la sua filosofia è il motto oraziano del carpe diem. La vita dell’esteta è una successione ininterrotta di istanti indipendenti gli uni dagli altri: egli passa da un’esperienza all’altra senza che quella precedente lasci una traccia di sé su quella successiva, senza che la sua esistenza abbia una storia. L’unico elemento costante nella sua vita è la ricerca del nuovo e il rifiuto della ripeti-

lo stadio estetico

2. kierkegaard

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zione, considerata come fatale principio di noia. Il suo unico compito è la ricerca dell’eccezionalità, nell’esasperata volontà di diversificarsi da tutti gli altri individui e da tutte le proprie esperienze passate. la vita estetica porta alla disperazione

Proprio a causa dell’assenza di un punto unificatore dell’esistenza, l’esito finale dello stadio estetico è la disperazione, ovvero la presa di coscienza della assoluta vanità di ogni cosa. Anche la disperazione, tuttavia, può essere vissuta in due maniere diverse. 1. Essa può venire considerata come una forma estremamente raffinata di divertimento, che consiste nel non prendere mai nulla sul serio e nel godere della mancanza di senso di ogni cosa: in questo caso non si esce dalla sfera estetica. 2. La disperazione – se autentica – può però anche mostrare all’esteta la vanità delle sue esperienze e spingerlo a compiere il salto verso un genere di vita superiore – lo stadio etico – retto da princìpi completamente diversi. Tra i due stadi, comunque, non c’è alcuna forma di mediazione. Il passaggio dalla disperazione finita (estetica) alla disperazione infinita (etica) è un «salto» che può essere compiuto solo in base alla libera scelta del singolo.

lo stadio etico

Lo stadio etico trova la sua migliore rappresentazione nella figura del marito o – più in generale – nel personaggio del Consigliere di Stato Guglielmo, la cui esistenza è definita dalle sfere del matrimonio, della famiglia, della professione, della fedeltà allo Stato. Se l’esteta trapassa di istante in istante senza impegnarsi mai in nulla, la vita dell’uomo etico è invece contrassegnata dalla scelta. In primo luogo, egli compie la scelta fondamentale tra bene e male; in secondo luogo, egli conferma in ogni istante ciò che ha già scelto per sempre – una certa sposa, una certa professione, ecc. L’uomo etico – a differenza dell’esteta – ama dunque la ripetizione, vedendo in essa una continua riconferma della sua decisione iniziale. Se la vita dell’esteta si frantuma in una miriade di istanti privi di storia, quella dell’uomo etico si sviluppa nella continuità del tempo. All’esasperata ricerca dell’eccezionalità da parte dell’esteta egli contrappone la tranquilla universalità del dovere, di cui l’esistenza etica è una continua realizzazione. Ma per l’uomo etico il dovere non è un’imposizione esteriore (come sarebbe per l’esteta), bensì soltanto «il compito che si è a se stessi», ossia ciò che ciascuno ha deciso di diventare in virtù della sua libera scelta.

la vita etica porta al pentimento

Anche la vita etica, tuttavia, appare limitata. Se sceglie se stesso fino in fondo, l’individuo raggiunge la propria origine, cioè Dio. Ma poiché di fronte alla maestà di Dio l’unico sentimento che l’uomo può provare è quello della propria inadeguatezza morale, l’esito finale della vita etica è il pentimento. L’uomo etico viene così messo di fronte al peccato, che però non è più una categoria etica, bensì una determinazione religiosa. Con il pentimento, dunque, si esce dalla sfera dell’etica, per entrare in quella della religione. Anche in questo caso, il passaggio non è automatico, ma comporta un salto ancora più radicale di quello che divideva lo stadio etico da quello estetico.

lo stadio religioso

Lo stadio religioso è descritto in Timore e tremore, opera che già nel titolo esprime la natura dell’atteggiamento che l’uomo religioso deve avere nei

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confronti del divino. Nella sfera etica l’individuo vive nell’ambito dell’universale: ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è dovere e ciò che è colpa, sono noti a tutti. Nella sfera della religione, invece, il «cavaliere della fede» è assolutamente solo: il suo unico rapporto è quello con Dio. La dimensione religiosa comporta una sospensione dell’etica, poiché essa si impernia esclusivamente sulla volontà di Dio, che può anche divergere dalle leggi dell’etica. La figura emblematica della condizione religiosa è Abramo, che per obbedire a Dio non esita a sacrificare l’unico figlio Isacco . Dal punto di vista morale, egli ha soltanto un dovere, quello di essere un buon padre: l’etica, dunque, lo condanna irrimediabilmente come un assassino. La giustificazione della sua intenzione di uccidere Isacco risiede tutta nella volontà di Dio, la quale si esprime esclusivamente nel rapporto interiore tra il «singolo» Abramo e la divinità. Nessuno lo può capire in base alle regole dell’etica, ed egli stesso non può essere certo di essere nel giusto: la fede è rischio e paradosso. In virtù di essa infatti il singolo – che per l’etica è subordinato all’universalità della legge – afferma la propria superiorità rispetto all’universale in nome del suo rapporto individuale con l’Assoluto:

abramo e i paradossi della fede

La morale è propriamente il generale e, in quanto generale, è ciò che vale per tutti. In altro senso si può dire che è ciò che è valido in ogni istante. [...] Quando l’individuo rivendica la sua individualità di fronte al generale, egli pecca, né può conciliarsi col generale se non riconoscendolo. [...] La fede è, appunto, il paradosso secondo il quale il singolo, come tale, al di sopra del generale, è in regola di fronte a questo, non come subordinato, ma come superiore; e nondimeno (si badi bene) in modo tale che il singolo, dopo essere stato come tale subordinato al generale, diventa allora, per mezzo del generale, il singolo come tale, superiore a quello; in modo che il singolo come tale è in rapporto assoluto con l’Assoluto. Questa posizione sfugge alla mediazione, che si effettua sempre in virtù del generale. Essa è e resta eternamente un paradosso inaccessibile al pensiero (Timore e tremore, Problema I).

GLI STADI DELLA VITA RELIGIOSO

rapporto con l’eternità

rischio/solitudine

paradosso della fede

con un salto dovuto alla libera scelta dell’uomo

ETICO

scelta/ripetizione

dovere/generalità

pentimento

con un salto dovuto alla libera scelta dell’uomo

ESTETICO

alef

immediatezza

Kierkegaard Il paradosso della fede: Abramo

eccezionalità

disperazione

2. kierkegaard

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4. Angoscia e disperazione angoscia e possibilità di scelta

Si è visto che la possibilità è la categoria fondamentale dell’esistenza. La condizione di insicurezza e di inquietudine connessa a questa categoria è l’oggetto dei due scritti che – accanto alle Briciole e alla Postilla – costituiscono il nucleo più propriamente filosofico del pensiero di Kierkegaard: Il concetto dell’angoscia (1844) e La malattia mortale (1849). L’ angoscia è la «vertigine» che scaturisce dalla possibilità della libertà. L’uomo sa di poter scegliere, sa di avere di fronte a sé la possibilità assoluta: ma è proprio l’indeterminatezza di questa situazione che lo angoscia. Egli acquista la coscienza che tutto è possibile: ma, quando tutto è possibile, è come se nulla fosse possibile. La possibilità non si riveste di positività, non è la possibilità della fortuna, della felicità, ecc.; è la possibilità dello scacco, la possibilità del nulla.

l’angoscia e l’ignoranza del futuro

Essa non è presente nella bestia che – priva di spirito – è guidata dalla necessità dell’istinto, né nell’angelo che – essendo puro spirito – non è condizionato dalle situazioni oggettive. L’angoscia è propria di uno spirito incarnato, qual è l’uomo, cioè di un essere fornito di una libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà condizionata dall’ignoranza di ciò che può succedere. Dunque, l’angoscia trae origine dalla libertà, ovvero dalla possibilità di agire in un mondo in cui nessuno sa che cosa accadrà. A questo riguardo, Kierkegaard fa l’esempio dell’angoscia provata da Adamo di fronte al divieto di gustare i frutti dell’albero della conoscenza: egli non sa ancora in che cosa consista la conoscenza, non conosce la differenza tra il bene e il male, non comprende il senso del divieto stesso. Egli non sa che cosa accadrà, eppure è chiamato a scegliere tra l’obbedienza e la disobbedienza [t4].

la disperazione e l’impossibilità di essere se stesso

Strettamente connessa alla categoria della possibilità è anche quella della disperazione , la «malattia mortale» di cui Kierkegaard tratta nel libro omonimo. Tuttavia, se l’angoscia è incentrata soprattutto sui rapporti tra il singolo e il mondo, la disperazione riguarda piuttosto il rapporto del singolo con se stesso. L’angoscia è determinata dalla coscienza che tutto è possibile, e quindi dall’ignoranza di ciò che accadrà. Invece, la disperazione è motivata dalla constatazione che la possibilità dell’io si traduce necessariamente in un’impossibilità. Infatti, l’io è posto di fronte a un’alternativa: o volere o non volere se stesso. Se l’io sceglie di volere se stesso, cioè di realizzare se stesso fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza e con l’impossibilità di compiere il proprio volere. Se invece rifiuta se stesso e cerca di essere altro da sé, si imbatte in un’impossibilità ancora maggiore. Nell’uno come nell’altro caso, l’io è posto di fronte al fallimento, è condannato a una malattia mortale, che è appunto quella di «vivere la morte» di se stesso.

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5. Il salto verso la fede Tanto l’angoscia, quanto la disperazione possono avere un solo esito positivo: la fede. Sia l’esperienza della possibilità del nulla propria dell’angoscia, sia quella della «malattia mortale» rivelata dall’impossibilità dell’io, trovano una soluzione soltanto quando l’uomo compie un salto qualitativo, aggrappandosi a Dio. Il credente non ha più l’angoscia del possibile, poiché il possibile è nelle mani di Dio; né il suo io si perde nella disperazione della propria impossibilità, poiché sa di dipendere da Dio e di trovare in Lui un sicuro ancoraggio. Il passaggio alla fede, tuttavia, è un «salto» senza mediazioni. La fede è, infatti, il risultato di un atto esistenziale con cui l’uomo va al di là di ogni tentativo di comprensione razionale, accettando anche ciò che al vaglio della ragione appare assurdo. L’essenza intima della fede è infatti il paradosso, in base al quale essa è vera proprio perché va al di là delle umane capacità di comprensione.

dio è la fonte di tutte le possibilità

La verità della fede non è una verità oggettiva, determinabile con gli stessi strumenti di indagine con cui si analizza un fenomeno naturale o un problema logico-matematico. Al contrario, essa è soggettiva non nel senso di essere relativa e variabile, ma nel senso di essere fondata esclusivamente sul rapporto del singolo soggetto con la Rivelazione divina. Nella fede ogni uomo è solo con Dio. La fede nasce dalla fusione dell’esistenza dell’uomo – e quindi della temporalità, della finitezza, della possibilità – con l’elemento dell’eternità e dell’infinito.

il rapporto privato con dio

Con la nozione di momento Kierkegaard indica proprio l’irrompere dell’eternità nel tempo con cui Dio si rivela all’uomo. Nel momento l’infinito si manifesta al finito: infatti, la verità che ciascun credente porta soggettivamente nel suo cuore contiene la stessa verità divina. Il cristianesimo è quindi l’unica vera religione, poiché esso soltanto riesce a esprimere questa verità per mezzo della dottrina dell’incarnazione di Dio. La venuta di Dio nel mondo costituisce per i cristiani un evento storico che, tuttavia, richiede il dono della fede per essere accolto. Da questo punto di vista, infatti, non vi è differenza tra i discepoli di Cristo, a lui contemporanei, e tutti i credenti che sono venuti dopo di loro. La tesi centrale del cristianesimo, ossia l’incarnazione di Dio in Cristo, è una verità di per sé assurda, in quanto implica la paradossale inserzione dell’eternità nel tempo. Tale evento si ripete – e viene accettato – tutte le volte che l’uomo riceve il dono della fede, cioè nell’attimo in cui incontra Dio.

incarnazione e dono della fede

in poche... parole Per la definizione delle categorie di esistenza, possibilità, singolarità, Kierkegaard è stato considerato l’ispiratore dell’esistenzialismo contemporaneo. Jaspers

(1883-1969), Heidegger di Essere e tempo (1927), Sartre (1905-80) si richiamano alla sua opera per mettere in luce gli aspetti costitutivi dell’esistenza umana, intenta

a confrontarsi con una serie di situazioni limite, proiettata verso le possibilità future, pervasa dall’angoscia dovuta alla libertà di scelta. Ciò che caratterizza

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maggiormente la filosofia di Kierkegaard è la polemica con l’idealismo di Hegel e il rifiuto di costruire un sistema filosofico. Se Hegel pone l’accento sull’essenza intrinsecamente razionale della realtà e si interessa al «genere» umano inteso come manifestazione dello spirito (Geist), Kierkegaard parte invece sempre dall’esistenza del singolo, dalla sua indeterminatezza e inoggettivabilità. Egli individua tre alternative esistenziali fondamentali tra cui l’uomo è chiamato a scegliere: lo stadio estetico, caratterizzato dalla spasmodica ricerca del nuovo; lo stadio etico, caratterizzato dalla ripetizione e dall’universalità del dovere; lo stadio religioso, caratterizzato dai paradossi della fede e dall’abbandono a Dio inteso come fonte di tutte le possibilità.

esistenza Dal latino existentia, formato da ex, «da», e sistere,

«stare»; in senso derivato, «venire ad essere». Con questo termine Kierkegaard indica il modo di essere proprio dell’uomo. Per chiarirne il significato, egli chiama in causa la distinzione kantiana tra il concetto di una cosa e la sua esistenza, asserendo che l’esistenza è una «posizione assoluta», del tutto indipendente dal concetto della cosa. In altre parole, per Kierkegaard (come già per Kant) non è possibile ricavare l’esistenza di una cosa dalla sua essenza. In profondo disaccordo con Hegel, dunque, il filosofo danese ritiene che l’esistenza non possa essere racchiusa dentro ad un concetto, ma sempre lo ecceda (ex-sistere, nel senso di «stare fuori»). A suo avviso, infatti, l’esistenza non può essere dedotta razionalmente dal pensiero, in quanto si dà all’uomo sempre come un insieme di alternative possibili. Riflettendo su di sé, l’uomo scopre che la propria esistenza appare definita dalle seguenti ca-

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ratteristiche: a) non è mai necessaria e garantita, ma sempre esposta all’indeterminatezza, al rischio e allo scacco; b) consiste in un insieme di possibilità che pongono l’uomo di fronte a scelte continue; c) riguarda sempre il singolo individuo nella sua concretezza e non entità universali (il popolo, lo Stato, la società, ecc.); d) è pervasa dall’angoscia (in quanto è apertura totale al possibile) e dalla disperazione (in quanto è caratterizzata dall’impossibilità di essere se stessi).

possibilità È una delle categorie fondamentali del pensiero di Kierkegaard e, attraverso di lui, dell’esistenzialismo contemporaneo. Essa caratterizza l’esistenza umana, che non è definibile attraverso un’essenza determinata necessariamente una volta per tutte secondo un’astratta logica oggettiva, ma è invece connotata dalla concretezza dell’individualità particolare, o meglio della singolarità irripetibile nella sua specificità. In quanto assoluta singolarità e soggettività, l’esistenza non è determinata da rapporti necessari, ma è un susseguirsi di possibilità. Alla possibilità è strettamente connessa la nozione di scelta: l’uomo deve continuamente fare delle scelte. Anche quando si limita a vivere nell’istante (stadio estetico) senza impegnarsi in nulla, sta comunque scegliendo; così come quando sceglie di essere fedele a un compito (stadio etico), non sceglie una volta soltanto, ma conferma continuamente la stessa scelta (con la «ripetizione» o «ripresa»). Ma la scelta più radicale, la sola che si ri vela una possibilità assolutamente positiva, è la scelta di Dio (stadio religioso), anche se essa, non potendo essere confortata da alcuna considerazione razionale – e in ciò si rivela la forza del protestantesimo di Kierkegaard –, comporta un «salto» qualitativo e l'accettazione

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del paradosso per cui si sceglie l’assurdo.

angoscia Il termine assume rilevanza filosofica con Kierkegaard per indicare il sentimento che l’uomo prova di fronte al proprio modo di essere, ossia all’esistenza. Quest’ultima – non essendo altro che possibilità indeterminata – risulta sempre legata al rischio della scelta. Mentre la paura riguarda sempre un oggetto preciso, l’angoscia non ha oggetto, ma nasce appunto dall’impossibilità di oggettivare l’esistenza – che è pura possibilità – con un atto del pensiero. L’angoscia è, dunque, la «vertigine» che l’uomo prova in relazione agli aspetti di indeterminatezza e di negatività connessi con l’esperienza della propria libertà. disperazione La disperazione, a

differenza dell’angoscia, non riguarda il rapporto dell’individuo con il mondo esterno e le scelte che deve fare in funzione di esso, bensì il rapporto dell'uomo con se stesso. Si aprono infatti due possibilità, entrambe negative. Se l’individuo vuole essere se stesso, è continuamente confrontato con la sua inadeguatezza al compito, in quanto essere finito e «insufficiente». Se non vuol essere se stesso, se vuol evadere da sé, entra in contraddizione con se stesso e si condanna per altra via all’infelicità. L’unico modo per guarire dalla disperazione, che è una «malattia mortale» di cui soffrono tutti gli uomini, è affidarsi alla fede in Dio. In questo modo l’uomo, pur rimanendo fedele al proprio compito, che consiste nell’essere se stesso e nel non tentare di evadere da sé, non si illude di poter essere sufficiente a se stesso. Egli riconosce la sua insufficienza non come un fallimento, ma come l’effetto della sua dipendenza da Dio, dall’Assoluto, che si ottiene soltanto abbandonandosi a esso.

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i testi t3 Kierkegaard / Esistenza contro essenza Kierkegaard

Postilla conclusiva non scientifica

parte II, cap. 3, § 1

Le Briciole di filosofia e la Postilla conclusiva non scientifica, pubblicate rispettivamente nel 1844 e nel 1846 con lo pseudonimo di Johannes Climacus, contengono la definizione delle categorie fondamentali del pensiero kierkegaardiano: esistenza, possibilità, soggettività. La rilevanza filosofica di questi concetti è sottolineata dal fatto che essi sono pensati in opposizione alle categorie di essenza, necessità, assolutezza, che erano state imposte alla cultura filosofica contemporanea dal più influente pensatore del tempo: Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Kierkegaard non nega – come emerge dal seguente passo della Postilla – che queste categorie siano valide nel mondo astratto della logica, cioè di un pensiero che intende prescindere da qualsiasi condizione particolare per conseguire l’oggettività assoluta. Ma egli nega che questa sia la dimensione dell’uomo, il quale non può mai uscire dalla sua concreta situazione esistenziale e dal particolare punto di vista soggettivo imposto dal suo essere un «singolo». Una filosofia che, come quella hegeliana, si proponga di cogliere le cose sub specie aeternitatis, si preclude automaticamente la possibilità di intendere il significato e il destino dell’esistenza umana.

Che il linguaggio dell’astrazione1 non lasci veramente apparire la difficoltà dell’esistente e dell’esistenza, cercherò di spiegarlo a proposito di una questione decisiva, di cui si è molto parlato e scritto. Com’è noto, la filosofia hegeliana ha tolto il principio di contraddizione e più d’una volta Hegel stesso ha citato al suo severo tribunale quei pensatori che rimanevano nella sfera dell’intelletto e della riflessione e che di conseguenza affermavano che c’è un aut-aut. Da allora è diventato un gioco molto apprezzato che appena qualcuno fa allusione a 1. Per linguaggio dell’astrazione Kierkegaard intende qui il metodo filosofico hegeliano, che pretende di cogliere l’essenza universale astraendo dall’«accidentalità» dei casi particolari. Si noti, tuttavia, che per Hegel questo procedimento non è affatto astratto, ma massimamente concreto, poiché esso solo esprime l’essenza della realtà autentica. Hegel e Kierkegaard presuppongono, quindi, due diverse concezioni della concretezza (o dell’astrattezza). Per Hegel è concreta sola la totalità del reale, mentre ogni aspetto parziale di questa totalità, in quanto incompleto, è

un aut-aut, ecco arrivare trotterellando a cavallo un hegeliano2, che ottiene la vittoria e se ne ritorna di corsa a casa3. [...] Eppure sembra che alla base di questa battaglia e di questa vittoria ci sia un equivoco. Hegel ha perfettamente e assolutamente ragione: dal punto di vista dell’eternità, sub specie aeterni, nel linguaggio dell’astrazione, nel puro pensiero e nel puro essere, non c’è alcun aut-aut. Come diavolo potrebbe esserci, se per l’appunto l’astrazione rimuove la contraddizione? Hegel e gli hegeliani dovrebbero piuttosto pren-

astratto (nel senso di una parte «astratta», cioè separata, dalla realtà intera). Per Kierkegaard, invece, la concretezza – la vera realtà – coincide con la singola esistenza, considerata nella sua assoluta specificità e soggettività. Astratto è, viceversa, ogni procedimento inteso ad allontanarsi dall’esistente così concepito, per cogliere una dimensione universale che, negando necessariamente la specificità individuale, perde con ciò stesso di realtà. 2. Kierkegaard si riferisce soprattutto a J.L. Heiberg, che aveva introdotto l’hegelismo in Danimarca, e a H.L. Marten-

sen, vescovo di Copenaghen e capo della Chiesa danese: quest’ultimo, tuttavia, era un hegeliano moderato, contrario agli aspetti dell’idealismo – come l’immanentismo – meno conciliabili con il cristianesimo. 3. Nella prospettiva hegeliana ogni opposizione – e quindi ogni alternativa, ogni aut-aut – si risolve necessariamente in una superiore unità sintetica. L’opposizione non è quindi assolutamente reale, ma possiede un’esistenza soltanto «astratta», essendo il risultato di un’arbitraria separazione di una totalità sintetica in due opposti contrari.

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dersi l’incomodo di spiegare cosa significa questa commedia, d’introdurre nella logica la contraddizione, il movimento, il passaggio, ecc. I difensori dell’aut-aut hanno torto quando invadono il campo del pensiero puro e vogliono difendere in esso la propria causa. Come il gigante Anteo, con cui lottò Ercole, perdeva tutta la sua forza appena veniva sollevato da terra, così l’aut-aut della contraddizione si trova eo ipso eliminato appena è elevato al di sopra dell’esistenza e portato nell’eternità dell’astrazione4. D’altra parte Hegel ha anche completamente torto quando, dimenticando l’astrazione, la pianta in asso e si precipita nell’esistenza per eliminarvi di prepotenza il doppio aut. Infatti è impossibile far questo nell’esistenza, perché allora io sopprimo nello stesso tempo l’esistenza stessa. Quando elimino (astraggo) l’esistenza, non c’è più nessun autaut; quando lo elimino dall’esistenza, elimino anche l’esistenza, e ciò significa che non è

4. Kierkegaard ammette, dunque, che

nel pensiero astratto (cioè in quello che per Hegel è il pensiero massimamente concreto, quello che si pone dal punto di vista dell’Assoluto) non esistono contraddizioni, poiché tale pensiero consiste appunto nella procedura attraverso la quale i punti di vista soggettivi vengono superati da un unico punto di vista oggettivo (o, meglio, assoluto) che li ricomprende e armonizza tutti. Anzi – osserva Kierkegaard – non si capisce perché gli hegeliani introducano la contraddizione per poi dire che non c’è: più semplice sarebbe stato il negarla del tutto, affermando – come avevano fatto gli eleati – che la realtà è una, indivisa e immobile. Il movimento introdotto da Hegel nella realtà è infatti – egli continua – soltanto fittizio, essendo puramente logico, non reale: quando si giunge alla sintesi degli opposti, ci si accorge che in realtà non c’era nessuna opposizione reale, e quindi non c’è stato alcun movimento. Con ciò Kierkegaard mostra però di disconoscere il senso della dialettica hegeliana, per la quale il movimento che scaturisce dalla logica della contraddizione è insito nella struttura stessa della realtà, ed esprime una dimensione ontologica non meno che logica. L’op-

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ch’io lo elimini dall’esistenza5. Se è inesatto dire che c’è qualcosa di vero in teologia che non lo è in filosofia, è invece del tutto esatto dire che c’è qualcosa di vero per un esistente che non lo è nell’astrazione, e parimenti ch’è eticamente vero che l’essere puro è una fantasticheria e ch’è proibito ad un esistente voler dimenticare ch’egli è esistente. [...] Pensare l’esistenza in abstracto e sub specie aeterni è sopprimerla nella sua essenza, ed ha il suo riscontro nel merito tanto strombazzato della liquidazione del principio di contraddizione6. L’esistenza non può essere pensata senza movimento e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni. Trascurare il movimento non è propriamente un capolavoro, e introdurlo come passaggio nella logica, e con esso il tempo e lo spazio, non è che una nuova confusione. Infatti nella misura in cui il pensiero è eterno c’è una difficoltà per l’esistente. L’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere da

posizione che conduce a una sintesi è, per Hegel, una contraddizione reale, anche se opposizione e sintesi si collocano su piani logicamente e metafisicamente diversi. 5. L’errore di Hegel, dice Kierkegaard, non è di aver negato la contraddizione nel mondo del pensiero astratto, ma di averla negata anche nella sfera dell’esistenza. Infatti, l’esistenza non ha nulla a che vedere con l’universale astratto; anzi è l’opposto di esso. Proprio quella individualità, quella particolarità, e quindi quell’opposizione di punti di vista particolari, che è legittimamente esclusa dall’universale, esprime invece l’intima natura dell’esistente. L’esistente è sempre qui e ora, è sempre il singolo individuo, che non esce dalla sua soggettività e non raggiunge mai il punto di vista dell’universale. Pertanto, le contraddizioni, le alternative, gli autaut, che si dissolvono immediatamente sub specie aeternitatis, rimangono irriducibili dal punto di vista dell’esistenza. Se li eliminassimo, se volessimo oltrepassarli in una superiore unità, come vuol fare Hegel, negheremmo con ciò stesso anche l’esistenza. Esistenza e universalità sono termini irriducibili l’uno all’altro: per questo, le contraddizioni che appartengono alla

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sfera dell’esistenza non potranno mai essere risolte in una sintesi, che appartiene alla sfera dell’universale. 6. Anche da questa espressione si evince la totale incomprensione che oppone Kierkegaard a Hegel: quest’ultimo non intendeva affatto «liquidare la contraddizione», bensì farne la struttura portante del suo metodo filosofico, che infatti si fonda sulla «logica della contraddizione». Hegel si proponeva semplicemente di riconoscere alla contraddizione una funzione di conciliazione, e quindi di costruzione progressiva della realtà, anziché attribuirle la tradizionale (aristotelica) funzione di tener separati gli opposti. Per un pensatore religioso come Kierkegaard, il quale ha di mira non tanto la spiegazione (e la giustificazione) del processo della realtà, quanto piuttosto la denuncia della drammaticità dell’esistenza, dell’opposizione assoluta tra uomo e Dio, tra sapere e fede, tra ragione e paradosso, la contraddizione deve, invece, conservare tutta intera la sua capacità di rottura: essa deve diventare lo strumento per mezzo del quale l’uomo è messo di fronte all’alternativa irriducibile, allo scacco, all’angoscia, trovando così l’opportunità di aprirsi all’esperienza religiosa.

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fare con essa. Se li penso li abolisco e quindi neanche li penso più. Sembra pertanto che sia esatto dire che c’è qualcosa che non si lascia pensare: l’esistente. Ma la difficoltà ritorna, e ciò per il fatto che il pensatore esiste, e il pensare pone insieme l’esistenza7.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Che cos’è il linguaggio dell’astrazione secondo Kierkegaard? 2. Kierkegaard accusa Hegel di pensare l’esistenza in astratto. Qual è, invece, il tratto fondamentale di essa? 3. Precisa il senso in cui Kierkegaard utilizza il termine «contraddizione». 4. Perché «pensare pone insieme l’esistenza»?

7. Anche qui riemerge l’estrema con-

trapposizione di Kierkegaard a Hegel. Per Hegel, logica e metafisica coincidono: quanto più una cosa presenta una struttura logica (cioè è razionale), tanto più è reale (identità di reale e razionale). Per Kierkegaard, invece, il movimento reale, per essere tale, non deve essere riducibile al semplice movimento logico, che non è altro che un passaggio del pensiero. Il movimento reale deve quindi contenere in sé qualcosa di irriducibile al pensiero, cioè non de-

ve poter essere pensato interamente. Lo stesso vale per l’esistenza, che è la sede del movimento reale: l’esistente non può essere pensato fino in fondo, poiché esso sfugge alle categorie del pensiero, che sono necessariamente generalizzanti. Tuttavia, pensare ed essere non possono neppure essere divisi, poiché in realtà il pensante (l’uomo) esiste e, dunque, il pensiero stesso è calato nell’esistenza. Si tratterà quindi di spiegare l’esistenza con una forma di pensiero assoluto, oggettivamente lo-

gico, pensiero dell’universale. Occorrerà far ricorso a un pensiero che riconosca l’irriducibilità della contraddizione, la specificità assoluta dell’esistenza in quanto singolo, la forza del paradosso al di sopra dell’argomentazione razionale. Occorrerà, in altri termini, far ricorso a un pensiero soggettivo, a un pensiero che riconosca la natura soggettiva della verità, di contro alla pretesa hegeliana di conoscere la verità nella sua essenza assoluta.

t4 Kierkegaard / L’angoscia Kierkegaard

Il concetto dell’angoscia

cap. I, § V

Il concetto dell’angoscia fu pubblicato nel 1844, con lo pseudonimo di Virgilius Haufniensis. Esso reca come sottotitolo «Semplice riflessione per una dimostrazione psicologica orientata in direzione del problema dogmatico del peccato originale». L’obiettivo del libro è, quindi, quello di spiegare la natura e l’origine del peccato di Adamo. Perciò viene condotta un’analisi psicologica del concetto di angoscia, considerato il presupposto immediato dello stesso peccato originale, anche se il passaggio dalla condizione di angoscia a quello di peccato è un salto qualitativo irriducibile ad alcuna spiegazione. Adamo si trova, infatti, originariamente nella condizione dell’innocenza. A sua volta, innocenza significa ignoranza: ignoranza del bene e del male, ignoranza delle conseguenze della conoscenza, ignoranza di tutto ciò che può accadere. Il divieto divino risveglia in lui la coscienza di potere, ma egli non sa in che cosa questo potere consista. Egli sente su di sé la minaccia della condanna, ma non sa che cosa essa significhi veramente per lui. Ma il non sapere che cosa accadrà, e quindi la consapevolezza che tutto è possibile, genera angoscia, la quale – proprio per la possibilità indeterminata che esprime – è insieme amata e temuta da parte dell’uomo. Proprio nella possibilità di «lasciarsi cadere» in quest’angoscia, di lasciarsi vincere dagli aspetti per cui la si ama, risiede l’antecedente immediato del peccato originale.

L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito, ma è de-

terminato psichicamente nell’unione immediata colla sua naturalità. Lo spirito nell’uomo i testi

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è come sognante1. Questa concezione si trova perfettamente d’accordo con la Bibbia, la quale, negando all’uomo nello stato di innocenza la conoscenza della differenza tra il bene e il male, manda all’aria tutte le fantasticherie cattoliche riguardo al merito. In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora, che cosa è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia2. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia. Sognando, lo spirito proietta la sua propria realtà; ma questa realtà è il nulla, questo nulla l’innocenza lo vede continuamente fuori di sé. L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia. Nella veglia la differenza tra l’io e l’altro da me è posta; nel sonno è sospesa; nel sogno è un nulla accennato. La realtà dello spirito si mostra continuamente come una figura che tenta la sua possibilità, ma appena egli cerca di afferrarla, essa si dilegua; essa è un nulla che può soltanto angosciare. Di qui non può fare, finché non fa altro che mostrarsi. Poiché il concetto dell’angoscia non si trova quasi mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto ch’esso è completamente 1. Lo spirito è sinonimo di consapevolezza. L’uomo innocente-ignorante, come il bambino, non possiede ancora interamente lo spirito. E tuttavia in lui lo spirito è già presente, seppure non portato alla consapevolezza: l’uomo non è la bestia. Questa condizione intermedia è ben espressa dalla metafora del sogno: nell’uomo innocente lo spirito è sognante. 2. L’uomo che si trova nella condizione di ignoranza non ha qualcosa contro cui combattere positivamente. Al contrario, oggetto del non sapere è il nulla. E proprio questo nulla genera angoscia. Chi è assillato da un problema particolare è preoccupato e spaventato, ma non angosciato. L’angoscia nasce dalla totale indeterminatezza della situazione, dal non sapere affatto che cosa potrà accadere. 3. La definizione della libertà come «possibilità della possibilità» è molto

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diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità3. Perciò non si troverà l’angoscia nell’animale, precisamente perché esso, nella sua realtà naturale, non è determinato come spirito. [...] L’angoscia è posta nell’innocenza; in primo luogo, dunque, non è colpa4, in secondo luogo non è un peso che aggravi, né una sofferenza che non sia compatibile colla beatitudine dell’innocenza. Se si osservano i bambini, quest’angoscia si trova in loro più chiaramente determinata come ricerca dell’avventuroso, del mostruoso, del misterioso. Che ci siano bambini nei quali l’angoscia manca, ciò non vuol dir nulla; non l’ha neanche l’animale: quanto meno spirito, tanto meno angoscia. Questa angoscia appartiene così essenzialmente al bambino ch’egli non ne vuol fare a meno; pur angosciandolo, essa lo attira col suo dolce affanno. In tutte le nazioni che hanno serbato il carattere infantile, come il sognare dello spirito, si trova questa angoscia; e quanto essa è più profonda, tanto più profonda è la nazione. Non è che una stupidaggine prosaica il credere che questa sia disorganizzazione5. [...] Come il rapporto dell’angoscia al suo oggetto, a quel qualche cosa che è il nulla (nel lin-

importante poiché spoglia il concetto di libertà di ogni determinazione positiva. La libertà – come viene qui definita – non è la facoltà di fare qualcosa o di esercitare il libero arbitrio, ma è la semplice possibilità dell’indeterminato, la possibilità totale che non esclude alcuna possibilità, il «tutto è possibile» che si traduce in un nulla di determinato. Di qui, l’associazione della libertà all’angoscia. 4. La colpa comporta già la determinazione della scelta, è libertà già consumata. Quindi, essa può generare rimorso e pentimento, non angoscia. L’angoscia è invece connessa con la libertà ancora da esercitare, vale a dire – come si è visto nella nota precedente – con la libertà intesa come semplice possibilità di potere. 5. Si è visto (cfr. n. 1) che l’angoscia è connessa con la fase sognante dello spirito. Essa si manifesta, quindi, in tut-

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te le situazioni che realizzano quella condizione, come nei bambini, nelle nazioni ancora agli albori della loro civiltà, o nell’uomo ancora innocente, come Adamo prima del peccato. Quando invece lo spirito è pienamente desto, come nell’uomo maturo che combatte contro le difficoltà della vita, l’angoscia rimane latente, poiché la determinatezza dei problemi prende il posto dell’assolutamente indeterminato, del nulla che sta alla base dell’angoscia. È chiaro, tuttavia, che le occupazioni mondane costituiscono una sorta di «divertimento» pascaliano che impedisce all’uomo di giungere a considerare la sua natura fondamentale: tutte le volte che l’uomo riesce ad andare al di là della distrazione offertagli dall’azione pratica torna nuovamente a confrontarsi con l’angoscia.

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guaggio comune c’è la frase espressiva «angosciarsi di nulla») è assolutamente ambiguo; così il passaggio dall’innocenza alla colpa, che si può qui stabilire, sarà abbastanza dialettico per dimostrare che la spiegazione è quale dev’essere, cioè psicologica. Il salto qualitativo è fuori di ogni ambiguità; ma colui che, mediante l’angoscia, diventa colpevole, è certo innocente; infatti non era lui, ma l’angoscia, una potenza estranea, che lo prese; una potenza ch’egli non amava, ma di cui si angosciava...: eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell’angoscia ch’egli, pur temendola, amava. Non c’è nel mondo niente di più ambiguo di questo e perciò questa è l’unica spiegazione psicologica, la quale però, per ripeterlo ancora una volta, non pensa mai di voler essere una spiegazione che spieghi il salto qualitativo6. [...] Ancora esiste l’innocenza, ma basta che risuoni una parola ed ecco che l’ignoranza è concentrata. Questa parola, naturalmente, l’innocenza non la può comprendere, ma l’angoscia ha quasi afferrato la sua prima preda: invece del nulla, essa ha avuto una parola enigmatica. Se questo nel Genesi è espresso con le parole

6. Il passaggio dall’angoscia al peccato

comporta un «salto qualitativo» che non è suscettibile di nessuna spiegazione. L’analisi psicologica che Kierkegaard propone arriva, tuttavia, alle soglie di questa spiegazione impossibile. L’angoscia è determinata, come si è visto, dalla possibilità. In particolare, con il divieto di Dio, l’uomo si trova nella condizione, come si vedrà subito dopo (cfr. nota successiva), della «possibilità di potere», cioè di poter fare anche ciò che è stato vietato, di potersi opporre a Dio. Di qui, il rapporto ambiguo che l’uomo ha con l’angoscia: egli la ama e non la ama a un tempo stesso, perché il dischiudersi del mondo della possibilità, in cui essa consiste, è qualcosa che l’uomo insieme vuole e teme. Così, da un lato l’angoscia, in quanto cosa temuta, in quanto possibilità non esperita, rimane sul versante della innocenza; dall’altro essa, in quanto amata, in quanto desiderio di sperimentare il proprio potere, conduce alla colpevolezza del peccato. Da una parte l’angoscia precede il pec-

che Dio disse ad Adamo: «Soltanto dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non devi mangiare» (Gen., 2, 17), vien da sé che Adamo, in fondo, non comprese quelle parole; infatti, come poteva comprendere la differenza tra il bene e il male se questa distinzione sarebbe stata la conseguenza della soddisfazione del frutto?7 Se ora si ammette che il divieto sveglia il desiderio8, si ottiene una conoscenza invece dell’ignoranza, perché Adamo doveva avere conoscenza della libertà se aveva il desiderio di farne uso. Perciò questa spiegazione si trova in ritardo. Il divieto angoscia Adamo, poiché il divieto sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò ch’era rimasto fuori dell’innocenza come il nulla dell’angoscia è entrato ora dentro di essa stessa e qui è di nuovo un nulla, cioè la possibilità angosciante di potere. Cosa sia ciò ch’egli può, egli ne ha idea alcuna; altrimenti si presupporrebbe, come avviene di solito, quel che segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Soltanto la possibilità di potere c’è come la forma più alta dell’ignoranza, come l’espressione più alta dell’angoscia; perché in un senso più alto, questa possibilità è e non è,

cato ed è diversa da esso, dall’altra essa comporta già il peccato. 7. Finché non riceve il divieto divino di gustare i frutti dell’albero della conoscenza, l’uomo è ancora completamente innocente. Egli già conosce l’angoscia, la quale è radicata nell’ignoranza che a sua volta è conseguenza dell’innocenza: ma la sua angoscia è ancora l’angoscia del nulla. Ma quando l’uomo riceve il divieto divino, il nulla diventa qualcosa di più concreto. Ora la possibilità assolutamente indeterminata, in cui consisteva il nulla, diventa la possibilità di poter fare o non fare ciò che è stato vietato, ovvero, più in generale, la possibilità di potere. L’uomo non ha ancora la conoscenza del bene e del male, quindi la sua libertà non si configura ancora come libertà di scelta tra due oggetti definiti. Tuttavia, egli acquista già la consapevolezza di potere in quanto uomo, cioè di pretendere di «essere» davanti a Dio, pur conoscendo la sua incapacità di reggere questo confronto.

8. Kierkegaard allude qui alla tesi so-

stenuta dallo svizzero Usteri (nel suo Sviluppo della dottrina paolina, pubblicato a Zurigo nel 1824), secondo cui il peccato di Adamo è implicito nel divieto divino. Infatti, il divieto avrebbe svegliato in Adamo il desiderio di cogliere il frutto della conoscenza. Ma questa tesi, che Kierkegaard poche pagine prima aveva apprezzato come tentativo di spiegazione psicologica del peccato, ha il limite di anticipare ciò che deve ancora spiegare: la conoscenza del bene e del male. Per Kierkegaard, il divieto non risveglia in Adamo il desiderio di ciò che è proibito (che ancora non conosce), ma soltanto la coscienza della possibilità di potere. Che cosa egli possa rimane, infatti, assolutamente indeterminato, cioè è ancora un nulla. Per questo la possibilità di potere comporta anch’essa l’angoscia, pur differenziandosi dall’angoscia originaria, la semplice angoscia dell’ignoranza.

i testi

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perché egli, in un senso più alto, l’ama e la fugge. Il divieto è seguito dalla condanna: «Allora tu dovrai certamente morire» (Gen., 3, 18). Cosa ciò significhi, Adamo naturalmente non lo comprende affatto; mentre invece nulla c’impedisce, se ammettiamo che questa parola gli fu detta, di immaginare che Adamo ricevesse con essa l’idea del terribile. Anche l’animale, in queste situazioni, può comprendere l’espressione mimica e il movimento nella voce di colui che parla, senza comprendere la parola. Se il divieto sveglia il desiderio, allora anche la parola della pena deve svegliare l’idea del terrore. Ma questo porta alla confusione. Il terrore qui diventa soltanto angoscia, perché Adamo non ha compreso le parole, in modo che troviamo di nuovo soltanto l’ambiguità dell’angoscia. La possibilità infinita di potere, 9. Lo stesso ragionamento fatto da Kierkegaard a proposito del divieto viene ripreso qui in relazione alla condanna. Adamo non sa che cosa significhi morire: quindi, la condanna non ha per lui un contenuto preciso. Essa non suscita il terrore di qualcosa di determinato, così come il divieto non aveva ri-

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che fu svegliata dal divieto, ora si avvicina di più per il fatto che questa possibilità manifesta come sua conseguenza un’altra possibilità9. Così l’innocenza è portata alla sua situazione estrema. Essa è in angoscia rispetto a ciò che è vietato e alla pena. Non è colpevole, eppure vi è un’angoscia come se fosse perduta10. Più in là la psicologia non può andare, ma questo punto lo può raggiungere e soprattutto, nella sua osservazione della vita umana, lo può verificare di continuo.

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che cosa consiste il mistero dell’innocenza? 2. Che differenza c’è tra angoscia e timore? 3. Come viene descritta la situazione nella quale si trova Adamo?

svegliato il desiderio della conoscenza del bene e del male. Egli riceve soltanto l’idea del terribile: alla possibilità del potere si aggiunge, quindi, una nuova terrificante possibilità, ancorché priva di contenuto. Ciò accresce ulteriormente il carattere ambiguo dell’angoscia, ossia il fatto che l’uomo ami e te-

2. kierkegaard

ma insieme la possibilità che essa esprime. Con questo si è alle soglie del peccato originale, al quale tuttavia si perviene, come si è detto, soltanto con un salto qualitativo irriducibile a una spiegazione di qualunque genere. 10. Cfr. n. 6.

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esercizi/2 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale

8. Illustra le diverse concezioni dell’Assoluto di Hegel e di Kierkegaard. 9. In che modo è possibile passare da uno stadio all’altro dell’esistenza?

1. Evidenzia i rapporti intrattenuti con i vari esponenti dell’idealismo tedesco.

10. Perché la disperazione viene definita da Kierkegaard «malattia mortale»?

2. Evidenzia il giudizio di Kierkegaard sulla visione hegeliana del cristianesimo.

11. Che differenza c’è tra paura e angoscia?

3. Evidenzia le figure emblematiche corrispondenti ai diversi stadi della vita. 4. Evidenzia i luoghi in cui la fede viene definita come «rischio» e «paradosso». 5. Evidenzia gli elementi del cristianesimo che maggiormente hanno colpito Kierkegaard. Dizionario filosofico 6. Definisci il significato dei seguenti termini: esistenza • singolo • stadio estetico • angoscia • pentimento • momento

CHE COSA HO CAPITO?

12. Che differenza c’è tra angoscia e disperazione? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 13. Che rapporto c’è tra la biografia e l’opera di Kierkegaard? 14. Perché, secondo Kierkegaard, Hegel non ha colto il vero significato dell’esistenza? 15. Illustra le caratteristiche dello stadio etico, evidenziando le differenze con quello estetico. 16. Schopenhauer e Kierkegaard affermano che l’uomo fa esperienza del nulla, eppure intendono cose profondamente diverse. Quali? 17. Spiega il rapporto tra fede e ragione, secondo Kierkegaard.

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 7. Che cos’è l’«ironia» secondo Kierkegaard? In che relazione sta questa nozione con quella di «possibilità»?

esercizi/2

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Feuerbach alla sfera della politica e dello Stato, affermando contro Hegel la priorità della società civile – come sistema dei bisogni e delle attività economiche volte a soddisfarli – rispetto allo Stato. Il presente è caratterizzato dal modo di produzione capitalistico fondato sull’industria, che genera necessariamente l’alienazione del lavoratore. Questi infatti si trova espropriato non solo dei prodotti del suo lavoro, ma anche di ciò che lo fa propriamente uomo e lo distingue dagli animali: il lavoro e il suo essere sociale. il ruolo del proletariato nella storia

3. le eredità di hegel e il marxismo

Secondo Marx, l’uomo potrà recuperare la propria «essenza sociale» (das kommunistischen Wesen) soltanto attraverso la vittoria del proletariato – la nuova classe formatasi grazie allo sviluppo dell’industria. Questa infatti, è una classe universale in quanto rivendica la liberazione dell’uomo in quanto tale. L’uomo non è un’essenza puramente statica e passiva: costitutiva dell’uomo è infatti la prassi, ossia l’attività volta a trasformare la natura per trarne i mezzi di sussistenza. il materialismo storico

i contenuti destra e sinistra hegeliane

Con la morte di Hegel (1831) i suoi allievi assumono due orientamenti contrastanti: da una parte la cosiddetta destra insiste sulla razionalità del reale, dall’altra la sinistra ritiene che la razionalità non trovi ancora piena realizzazione nelle istituzioni politiche e religiose esistenti. Tra gli esponenti della sinistra hegeliana occorre ricordare i nomi di Strauss, promotore nel 1837 della divisione della scuola hegeliana; di Bauer, filosofo e biblista tedesco inizialmente aderente alla destra; di Feuerbach, fautore di un radicale ateismo.

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dalla teologia all’antropologia

Feuerbach ritiene che la religione sia il risultato dell’oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo in un ente supremo, nel quale esse troverebbero piena soddisfazione e realizzazione. Si tratta allora di trasformare la teologia in antropologia, ritrovando nell’uomo ciò che è stato alienato in un ente estraneo – sia esso Dio o lo spirito assoluto di Hegel. È nel finito che va ritrovato l’infinito, cioè nel vero soggetto, che non è lo spirito, ma l’uomo come essere sensibile e corporeo – di cui il pensiero è solo un predicato. il lavoro nel mondo capitalistico

Marx estende la critica di

3. le eredità di hegel e il marxismo

Ciò che l’uomo è dipende dalla produzione dei mezzi di sussistenza. In ciò consiste il materialismo storico, che mira a spiegare i fatti nella loro successione storica in base ai diversi modi di produzione. Secondo Marx, sono essi a determinare il tipo di rapporti sociali e politici e la stessa formazione di idee religiose, politiche, giuridiche, filosofiche. Il piano dell’economia costituisce la struttura rispetto alla quale tutto il resto delle attività umane si configura come sovrastruttura, la quale tuttavia può esercitare effetti sulla struttura stessa. Quando si ritiene che la sfera delle idee (o sovrastruttura) sia un piano indipendente dalla struttura, si forma l’ideologia che – consapevolmente o no – fornisce un’immagine parziale o distorta

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della realtà e serve solitamente a giustificare l’esistente. la storia come lotta di classe

L’analisi storica dei modi di produzione è la base del socialismo scientifico: essa individua il motore della storia nella lotta delle classi, le quali si formano in base alla loro collocazione entro i vari modi di produzione. Oggi domina la borghesia, che ha trionfato contro l’aristocrazia terriera dell’età feudale ed è proprietaria dei mezzi della produzione industriale. Essa trova contro di sé la nuova classe del proletariato. Il conflitto tra queste due classi sfocerà, secondo Marx ed Engels, in una rivoluzione che porterà all’eliminazione delle classi, della proprietà e della divisione del lavoro e quindi all’instaurazione del comunismo. l’analisi economica del capitalismo

Nell’ultima fase del suo pensiero Marx svolge un’ampia indagine sulla formazione del modo di

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produzione capitalistico. Egli distingue tra valore d’uso e valore di scambio delle merci, le quali hanno la proprietà comune di essere prodotte dal lavoro umano. Il loro valore diventa misurabile quando – grazie al denaro – si determina sul mercato il prezzo delle merci attraverso il meccanismo della domanda e dell’offerta. Tipico del modo di produzione capitalistico è il fatto che la conversione delle merci in denaro e viceversa è finalizzata non all’acquisto di altre merci e al loro consumo, ma all’aumento di denaro. In esso anche il lavoro diventa merce, comprata in cambio di un salario corrisposto a individui giuridicamente liberi, ma costretti a vendere la propria forza-lavoro per sostentarsi. Tale salario corrisponde però solo a una parte del tempo impiegato dall’operaio nella produzione: ciò genera plusvalore e quindi profitto per il capitalista. Marx ritiene che con l’introduzione delle macchine non soltanto aumenti la divisione del lavoro, sempre più parcellizzato, ma si generi l’immiserimento progressivo della classe operaia.

rivoluzione e dittatura del proletariato

L’analisi economica condotta da Marx – incentrata sull’insanabile contraddizione tra profitto e capitale, nonché sul progressivo impoverimento delle classi operaie – è alla base della sua previsione di un collasso del sistema capitalistico, cui dovrebbe seguire l’instaurazione di una nuova società, non più basata sulla proprietà privata e sulla divisione in classi. Questo cambiamento non potrà avvenire di colpo, ma richiederà una fase di transizione, soprannominata da Marx dittatura del proletariato. Dopo di essa, come sostiene Engels, si arriverà all’estinzione dello Stato. Lenin condivide questa tesi, ma considera necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari di professione – ossia di un gruppo cementato da unità ideologica, disciplinato e centralizzato – per guidare il proletariato verso la rivoluzione.

gli strumenti in poche… parole alienazione / prassi / materialismo storico / struttura / sovrastruttura / ideologia / classe sociale / plusvalore / comunismo

approfondimenti Il socialismo utopistico e la riorganizzazione della società

i testi a. nel manuale t5 Feuerbach/Religione e autocoscienza dell’uomo t6 Marx/Alienazione e oggettivazione t7 Marx/Le tesi su Feuerbach t8 Marx, Engels/Ideologia e classi sociali t9 Marx, Engels/Borghesia e proletariato

La «rivoluzione industriale» e gli economisti classici

esercizi

Il materialismo dialettico di Engels

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

b. on-line Feuerbach/Sensibilità e amore Marx/Comunismo e comunismo rozzo Marx/Capitale e lavoro salariato Engels/Nascita ed estinzione dello Stato

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1. Destra e sinistra hegeliane la filosofia dopo hegel

Hegel morì nel 1831 lasciando un folto stuolo di discepoli, impegnati nella pubblicazione delle sue opere e dei resoconti delle sue lezioni – oltre che nella prosecuzione e divulgazione del suo insegnamento. Nacquero riviste come organi della scuola e nel 1843 Karl Ludwig Michelet fonderà addirittura una Società filosofica hegeliana.

la monarchia di luglio e il dibattito tra progressisti e conservatori

La rivoluzione di luglio del 1830 in Francia ebbe delle conseguenze significative sul dibattito intorno alla filosofia hegeliana. In quell’occasione, il popolo di Parigi – dopo il colpo di Stato attuato da Carlo X – scese in piazza e lo costrinse ad abbandonare la capitale, decretando la decadenza della dinastia borbonica. Di lì a breve, Luigi Filippo d’Orléans fu proclamato dal Parlamento «re dei francesi per volontà della nazione», dando inizio alla cosiddetta monarchia di luglio sotto il segno di un moderato liberalismo. Questo episodio della storia recente faceva riflettere i contemporanei: doveva essere interpretato come l’inizio di una nuova epoca, nella quale le classi privilegiate avrebbero progressivamente perso il loro potere, o rappresentava soltanto una minaccia rispetto agli ordinamenti esistenti, di per sé positivi?

la spaccatura della scuola hegeliana

Per gli hegeliani si poneva, dunque, il problema d’intendere il significato della equazione tra reale e razionale, affermata da Hegel. Alcuni l’interpretarono nel senso che ciò che è storicamente realizzato presenta una sua intrinseca razionalità; altri, invece, ravvisando nelle istituzioni politiche e religiose esistenti contraddizioni e aspetti negativi, giunsero alla conclusione che la razionalità non aveva ancora trovato pieno compimento nella realtà. Si formarono così schieramenti opposti, che – riprendendo la distinzione presente nel Parlamento francese – sarebbero stati qualificati nel 1837 da Strauss come destra e sinistra hegeliane. La prima sarà anche identificata con i cosiddetti vecchi hegeliani e la seconda con i giovani.

religione e filosofia: l’ambiguità di hegel

Questa opposizione si originò anzitutto in relazione al problema della religione. Per i vecchi hegeliani la filosofia del maestro si accordava con i contenuti della fede cristiana. Hegel aveva sostenuto che la religione – in particolare quella cristiana – e la filosofia hanno un identico contenuto. La differenza è data dal fatto che nella religione esso è espresso sotto forma di rappresentazione, mentre nella filosofia sotto forma di concetto. Questa tesi era suscettibile di una duplice interpretazione. 1. Da una parte, permetteva di insistere sul contenuto di verità della religione e quindi dei suoi dogmi (l’incarnazione di Cristo o l’immortalità dell’anima), anche se la forma in cui tale verità è espressa non è pienamente adeguata. 2. Dall’altra parte, rendeva possibile sostenere che la rappresentazione religiosa – proprio per la sua inadeguatezza – deve essere abbandonata e sostituita dalla filosofia.

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Il momento culminante di queste discussioni fu raggiunto con la Vita di Gesù (1835) di David Friedrich Strauss (1808-1874), che si collocava nell’ambito della sinistra hegeliana. La conclusione alla quale egli pervenne è che i Vangeli non sono un resoconto storico attendibile, bensì un mito, un racconto creato liberamente sulla base delle attese e delle credenze suscitate da Gesù nei primi cristiani. Se il contenuto del cristianesimo – la forma più alta di religione – è mitico e ha la sua matrice nell’immaginazione, la religione in generale non può essere innalzata alla sfera del concetto mediante la filosofia, come aveva preteso Hegel. Emerge in tal modo la scissione di religione e filosofia che – secondo la destra hegeliana – Hegel aveva invece inteso conciliare.

strauss: religione e filosofia sono inconciliabili

All’ateismo pervenne l’hegeliano Bruno Bauer (1809-1882). Ostile dapprima a Strauss e allineato sulle posizioni della destra, egli fondò la «Rivista di teologia speculativa» (1836-38). Nel 1839 cominciarono i suoi guai con la censura prussiana e dovette lasciare l’insegnamento prima nell’università di Berlino e poi in quella di Bonn. Nel 1841 pubblicò anonima La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo, dove Hegel viene presentato come il prototipo del vero ateo, colui che ha sostituito Dio con l’uomo e la fede con la filosofia. Nel Cristianesimo svelato (1843) egli sostiene che il cristianesimo aveva elevato a essenza dell’uomo l’infelicità e il dolore: l’uomo, quindi, sarebbe tornato pienamente se stesso soltanto attraverso l’eliminazione totale del cristianesimo.

bauer: primato dell’uomo e rifiuto della religione

Nel 1840 salì sul trono di Prussia Federico Guglielmo IV, che diede avvio alla reazione autoritaria politica e religiosa. In questo contesto, il problema dello Stato s’impose al centro delle discussioni dei giovani hegeliani e la teoria hegeliana dello Stato apparve sempre più una giustificazione dello Stato prussiano. «Critica» fu la loro parola d’ordine: al centro del loro atteggiamento vi era la ripresa del principio hegeliano della negazione dialettica e della contraddizione che muove il mondo. La critica, infatti, mette in luce l’inadeguatezza e la contraddittorietà della realtà rispetto all’idea razionale dello Stato – inteso in senso liberale e democratico – e pone le condizioni per l’azione politica volta a realizzare questa idea. I giovani hegeliani, tuttavia, non costituivano un gruppo compatto, si alleavano e si separavano polemizzando tra loro. L’unico legame era questo comune spirito di opposizione, che permea anche i loro scritti. Essi sono, infatti, in gran parte manifesti, enunciazioni di programmi e tesi, battaglie polemiche.

l’idea razionale dello stato non è ancora realtà

2. Feuerbach Un capovolgimento radicale delle posizioni hegeliane ebbe luogo con Ludwig Feuerbach. Nato nel 1804 a Landshut, in Baviera, egli studiò teologia a Heidelberg, ma nel 1824 si recò a Berlino, dove subì l’influenza di Hegel. Nel 1825 abbandonò la teologia per la filosofia. L’anno successivo andò a completare gli studi a Erlangen, dove nel 1828 ottenne la laurea e la libera docenza in Filosofia. Dal 1829 al 1836 tenne saltuariamente corsi presso 3. le eredità di hegel e il marxismo

vita e opere

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l’università di Erlangen, ma non ebbe successo il suo tentativo di esservi nominato professore straordinario. Già nel 1830, infatti, egli aveva pubblicato anonimi i Pensieri sulla morte e l’immortalità, che lo avevano reso sospetto alle autorità accademiche e religiose del regno di Baviera. Nel 1837 egli si ritirò pertanto a Bruckberg, dove visse sino al 1860 grazie soprattutto ai proventi di una fabbrica di porcellane, di cui la moglie era comproprietaria. In quello stesso anno Feuerbach aveva già pubblicato una Storia della filosofia moderna da Bacone di Verulamio a Spinoza (1833), alla quale fecero seguito i volumi su Leibniz (1837) e su Bayle (1838). Nel 1839 Feuerbach pubblicò il saggio Per la critica della filosofia hegeliana, che diede inizio alla serie dei suoi scritti più noti – comparsi nell’arco di pochi anni: L’essenza del cristianesimo (1841), Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1843), Princìpi della filosofia dell’avvenire (1843), L’essenza della religione (1845). Nell’anno della rivoluzione – il 1848 – gli studenti lo chiamarono a tenere un corso a Heidelberg, ma nel 1849 egli tornò a Bruckberg. Di qui – dopo un dissesto finanziario – Feuerbach si trasferì nel 1860 a Rechenberg (presso Norimberga), dove visse in miseria i suoi ultimi anni sino alla morte, avvenuta nel 1872. l’uomo e l’infinito

Nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach non intende sottoporre il cristianesimo a una critica di tipo illuministico, riducendolo a un cumulo di errori e superstizioni. A suo avviso, la religione – in particolare quella cristiana – ha un contenuto positivo, che consente di scoprire l’essenza dell’uomo. Dalla tesi di Schleiermacher – secondo cui la religione consiste nel sentimento dell’infinito – egli trae la conclusione che l’infinito esprime l’essenza stessa dell’uomo. Nessun individuo singolo, tuttavia, contiene in sé quest’essenza nella sua totalità e compiutezza. Per questo motivo, l’uomo ricorre a Dio e trova in esso l’oggettivazione della propria essenza, cioè dell’infinito.

dio come proiezione dell’uomo

La religione è l’oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo – ossia la proiezione di essi in un ente indipendente dall’uomo, nel quale tali aspirazioni sono pienamente realizzate. La religione ha, dunque, un’origine pratica: l’uomo avverte la propria insicurezza e cerca la salvezza in un essere personale, infinito, immortale e beato, cioè in Dio. Nella religione è l’uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa: quando a Dio si attribuiscono la conoscenza o l’amore infinito, in realtà s’intende esprimere l’infinità delle possibilità conoscitive e dell’amore propria dell’uomo. In Dio e nei suoi attributi l’uomo proietta i suoi bisogni e i suoi desideri e può, dunque, riconoscerli. Per questo motivo, Feuerbach conclude che «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l’uomo ha di sé» [t5].

cristianesimo e alienazione dell’uomo da se stesso

La conoscenza che l’uomo ha di Dio equivale, dunque, alla conoscenza che l’uomo ha di se stesso. Ma nella religione l’uomo non si rende conto che Dio è l’oggettivazione della propria essenza. Solo la filosofia permette di divenire pienamente consapevoli di questo. Ciò spiega, tra l’altro, perché nella storia dell’umanità e degli individui la religione preceda ovunque la filosofia: l’uomo pone la propria essenza fuori di sé prima di riconoscerla come propria. Proiettando la propria essenza su Dio, l’uomo la colloca al di là del suo mondo terreno, sicché per riconquistarla deve negare quest’ulti-

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mo. Qui si annida, secondo Feuerbach, la vera colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano: l’aver condotto all’ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia, in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio. Secondo Feuerbach, la religione e la teologia devono trasformarsi in antropologia: solo attraverso la progressiva negazione di Dio, infatti, diviene possibile per l’uomo riappropriarsi consapevolmente della propria essenza. Detto altrimenti, l’antropologia – che per Feuerbach coincide con la filosofia stessa – si assume il compito di liberare l’essenza dell’uomo e le sue infinite possibilità dalla loro alienazione religiosa in un Ente estraneo. Una volta riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, i predicati che prima gli venivano attribuiti – bontà, saggezza, giustizia – sono invece riscoperti come possibilità e prerogative della stessa essenza umana.

negando dio, l’uomo si riappropria di se stesso

Nelle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia e nei Princìpi della filosofia dell’avvenire, Feuerbach accusa la filosofia hegeliana di essere una forma di teologia. Entrambe, infatti, alienano l’essenza umana in una realtà posta lontano dall’uomo. Ma, mentre nella teologia l’essenza umana è alienata in Dio, nella filosofia speculativa essa è alienata nello Spirito Assoluto, ossia nel pensiero. Nella filosofia hegeliana Dio diventa l’essenza della ragione stessa. Detto altrimenti, Dio non è più rappresentato come essenza autonoma, distinta dalla ragione: di più, le determinazioni che lo qualificano (per esempio, l’infinità) sono da lui attribuite alla ragione stessa. Come abbiamo visto, Feuerbach sostiene che Hegel abbia commesso lo stesso errore della teologia: egli ha cercato di dedurre il finito dall’infinito e di mostrare che il primo è solo un momento negativo del secondo. In realtà, però, non ha fatto altro che ricavare le determinazioni dell’infinito partendo dalla realtà finita.

la teologia mascherata di hegel

Quale sarà, dunque, secondo Feuerbach, il compito della filosofia dell’avvenire? Essa dovrà partire non – come aveva fatto Hegel – dal pensiero autosufficiente, inteso come Soggetto Assoluto, bensì dal vero soggetto, di cui il pensiero è soltanto un predicato. Tale soggetto è l’uomo in carne e ossa, un essere mortale dotato di sensibilità e bisogni:

ritrovare l’infinito nel finito

La nuova filosofia considera e tiene conto dell’essere quale è per noi, non soltanto cioè come una essenza pensante, ma anche come una essenza realmente esistente – l’essere quindi come oggetto dell’essere, come oggetto di se stesso. L’essere come oggetto dell’essere – e solo questo essere è davvero essere e merita il nome di essere – è l’essere del senso, dell’intuizione sensibile, della sensazione, dell’amore. L’essere è quindi un mistero dell’intuizione, della sensazione, dell’amore (Princìpi della filosofia dell’avvenire, § 33).

L’inizio della filosofia non è Dio o l’Assoluto, ma ciò che è finito, determinato e reale. Occorre dunque partire dall’intuizione sensibile, perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo. Il sensibile infatti non ha bisogno di 3. le eredità di hegel e il marxismo

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dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza. In questa prospettiva la natura non è più semplice forma estraniata dello spirito, come aveva asserito Hegel, ma diventa la base reale della vita dell’uomo. l’uomo come essere sensibile

Solo dalla sensibilità deriva il vero concetto dell’esistenza; infatti, solo ciò che è piacevole o doloroso modifica lo stato dell’uomo e mostra che qualcosa esiste o manca. Passione, amore, fame sono dunque la «prova ontologica» dell’esistenza di qualcosa: Nelle sensazioni, e proprio nelle sensazioni più comuni, sono celate le più sublimi verità. L’amore è la vera prova ontologica dell’esistenza di un oggetto fuori della nostra testa, né l’essere può esser provato in altro modo che attraverso l’amore, e in generale attraverso la sensazione. Esiste soltanto ciò la cui esistenza ti allieta e la non esistenza ti addolora. La differenza tra soggetto ed oggetto, tra essere e non essere è quindi una differenza che può dar gioia o dolore (Princìpi della filosofia dell’avvenire, § 33).

La corporeità – diversificandosi come maschio o femmina – conduce al riconoscimento dell’esistenza di un essere differente dall’io, che tuttavia è essenziale per la determinazione della mia esistenza. Il vero principio della vita e del pensiero non è dunque l’io, ma l’io e tu, il cui rapporto più reale si configura come amore, interesse per l’esistenza dell’altro . «La vera dialettica – afferma Feuerbach – non è un monologo del pensiero solitario con se stesso, ma un dialogo fra l’io e il tu». la religione e la dipendenza dell’uomo dalla natura

Il fenomeno religioso continuerà a rimanere al centro delle riflessioni di Feuerbach. Nell’Essenza della religione, egli prende in considerazione non soltanto il cristianesimo, ma la religione in generale: essa ha la sua matrice nel sentimento di dipendenza dell’uomo dalla natura. Feuerbach considera l’individuo come un’entità non autosufficiente, bensì dipendente da una realtà oggettiva: la natura. In questa fase del suo pensiero, col termine «natura» Feuerbach non intende tanto la natura dell’uomo, che si esprime sotto forma di sensibilità. Essa è, più in generale, il mondo da cui l’uomo dipende: tale dipendenza si manifesta all’uomo sotto forma di bisogno. Proprio dalla difficoltà di soddisfarlo nasce la religione. Di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni, l’uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. In questa situazione, Dio viene immaginato come l’essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile.

«l’uomo è ciò che mangia»

Nella sua ultima produzione teorica Feuerbach insisterà sull’importanza della conoscenza della natura e di un rapporto armonico dell’uomo con la natura stessa. Ciò lo condurrà a guardare con interesse agli sviluppi di concezioni materialistiche nelle indagini scientifiche della metà del secolo e a considerare l’alimentazione stessa come la base a partire da cui si costituisce e si perfeziona la cultura umana. Significativo, a questo riguardo, è il titolo di un suo scritto del 1862: Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia.

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3. le eredità di hegel e il marxismo

Feuerbach Sensibilità e amore

alef

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3. Marx ed Engels: vita e opere Karl Marx nacque a Treviri nella Renania – allora sotto il dominio prussiano – il 5 maggio 1818 da una famiglia di ebrei convertiti al protestantesimo. Il padre era avvocato e consigliere di giustizia e nutriva simpatie per la cultura illuministica e liberale. Nell’ottobre del 1835 Marx si reca all’università di Bonn per studiare giurisprudenza, ma dopo un anno si trasferisce a Berlino. Sono gli anni delle polemiche tra gli hegeliani a Berlino, ma anche della reazione assolutistica, che giunge al culmine con l’avvento di Federico Guglielmo IV al trono di Prussia. Marx ha intanto abbracciato la filosofia hegeliana ed è vicino agli hegeliani di sinistra. Fra il 1839 e il 1841 prepara la sua tesi di laurea sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, che invia all’università di Jena, dove nell’agosto del 1841 ottiene la laurea.

la formazione di marx tra bonn, berlino e jena

Marx intraprende la strada del giornalismo politico e dal 1842 collabora alla «Rheinische Zeitung» («Gazzetta renana»), pubblicata a Colonia. All’inizio del 1843 la censura prussiana sopprime il giornale. Nel giugno dello stesso anno Marx sposa Jenny von Westphalen e a fine ottobre si reca a Parigi, dove fonda i «Deutsch-französische Jahrbücher» («Annali franco-tedeschi»). Qui egli pubblica – nel 1844 – l’Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico e Sulla questione ebraica. Nella stessa rivista esce l’Abbozzo di una critica dell’economia politica di Engels. Questo scritto desta l’interesse di Marx, che nel 1844 intraprende un’intensa lettura degli scritti degli economisti: frutto di essa sono i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, pubblicati per la prima volta soltanto nel 1932.

esordi da giornalista e primi scritti

Friedrich Engels era nato a Barmen nel 1820 in una famiglia bigotta e reazionaria. Il padre era un ricco industriale tessile che lo aveva avviato al commercio. Durante il servizio militare a Berlino – dall’ottobre 1841 all’ottobre 1842 – Engels si era avvicinato ai giovani hegeliani, aveva collaborato alle loro riviste e aveva aderito al comunismo. Nel novembre del 1842 si era recato a Manchester a lavorare in una fabbrica tessile di cui il padre era comproprietario; durante il viaggio aveva avuto un primo incontro con Marx, ma senza grande seguito. Di ritorno da Manchester avvenne un secondo incontro con Marx a Parigi: qui inizia la loro ininterrotta amicizia e collaborazione. Insieme decidono di prendere le distanze dai giovani hegeliani berlinesi e scrivono La Sacra Famiglia (1845). Marx – espulso da Parigi – si rifugia con la famiglia a Bruxelles, dove nell’estate Engels lo raggiunge per compiere insieme un breve viaggio in Inghilterra. Di ritorno a Bruxelles essi scrivono L’ideologia tedesca, che sarà pubblicata solo nel 1932. Nel 1845 Engels pubblica La situazione della classe operaia in Inghilterra, frutto delle sue osservazioni dirette della realtà sociale inglese.

il sodalizio intellettuale con engels

I due amici si dedicano alla diffusione delle idee del socialismo scientifico. Nel 1847 Marx scrive in francese la Miseria della filosofia in polemica con la  approfondimento, p. 46]. ContempoFilosofia della miseria di Proudhon [

il manifesto della lega dei comunisti

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raneamente, presso l’Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles tiene una serie di conferenze, che saranno pubblicate nel 1849 col titolo Lavoro salariato e capitale. All’interno della Lega dei giusti – costituita soprattutto da piccoli artigiani – cominciano a prevalere le tesi del socialismo scientifico. Nel congresso della Lega tenuto a Londra nel giugno del 1847 si decide di cambiare il nome in Lega dei comunisti: l’obiettivo di essa è abbattere il dominio della borghesia per fondare una nuova società senza classi e senza proprietà privata. Al motto precedente: «Tutti gli uomini sono fratelli» viene sostituito il nuovo: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Alla fine del 1847 Marx ed Engels sono incaricati di redigere il programma della Lega dei comunisti: nasce il Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra – in tedesco – nel febbraio 1848. dalla germania in inghilterra

Nel marzo 1848 la rivoluzione dilagante in Europa raggiunge anche Colonia, ove si recano Marx ed Engels, che il 1° giugno 1848 fanno apparire il quotidiano «Neue Rheinische Zeitung» («Nuova gazzetta renana»), diretto da Marx sino al 19 maggio 1849. La controrivoluzione è ormai vittoriosa in Germania, Marx deve lasciare la Prussia e si reca a Parigi, ma il 24 agosto 1849 deve rifugiarsi in Inghilterra. Engels rimane a combattere l’esercito prussiano, ma è poi costretto a fuggire in Svizzera e quindi a Genova, dove si imbarca per Londra. Il fallimento della rivoluzione borghese in Germania convince i due amici che il centro motore della rivoluzione si deve spostare in un paese capitalistico avanzato, l’Inghilterra. Matura l’idea che la rivoluzione politica dipenda dall’insorgere di crisi economiche.

marx e il soggiorno a londra

Nel 1850, a Londra, essi tentano di riorganizzare la Lega dei comunisti. Essa, tuttavia, si rivelò presto impossibile anche in Germania e in Francia dopo il colpo di Stato di Luigi Bonaparte nel dicembre 1851. Nel 1852 è deciso lo scioglimento della Lega. Marx analizza queste vicende in articoli poi pubblicati con i titoli Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, mentre Engels lo fa in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania. A Londra Marx con la sua famiglia riesce a sopravvivere grazie all’aiuto economico di Engels, che nel frattempo si è stabilito a Manchester per lavorare in una filiale dell’azienda paterna. Dal 1851 al 1862 Marx collabora al «New York Daily Tribune», commentando soprattutto avvenimenti di politica internazionale. Marx riprende lo studio dell’economia e lavora intensamente a raccogliere dati alla biblioteca del British Museum di Londra, riempendo innumerevoli quaderni di estratti e annotazioni, che saranno pubblicati – per la prima volta nel 1939-41 e poi nel 1953 – con il titolo Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse). Una prima elaborazione di questo materiale è pubblicata, nel 1859, con il titolo Per la critica dell’economia politica, ma il risultato più cospicuo è Il Capitale, il cui primo libro viene pubblicato nel 1867.

gli ultimi vent’anni di marx

Nel 1864, a Londra si costituisce l’Associazione internazionale degli operai – nota anche come Prima Internazionale: in essa l’influenza di Marx è predominante. Nel 1872 il Consiglio generale – su proposta di Engels che temeva l’influenza di Bakunin – viene trasferito a New York. In occasione del congresso di Gotha, che approva la costituzione di un unico partito social-

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democratico in Germania, Marx scrive nel 1875 la Critica al Programma di Gotha, pubblicata da Engels nel 1891. Nel 1881 muore la moglie di Marx e, nel gennaio del 1883, la sua figlia maggiore. Poco dopo, il 14 marzo 1883, a Londra muore anche Marx. Engels gli sopravvive, pubblica propri scritti sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) e su Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886), cura l’edizione postuma del secondo (1885) e del terzo volume (1894) del Capitale di Marx. In corrispondenza con socialisti di tutti i paesi e collaboratore di varie riviste Engels è ormai il punto di riferimento del movimento operaio internazionale, che nel 1893 lo acclama presidente onorario al congresso di Zurigo. Due anni dopo, nel 1895, egli muore a Londra.

engels punto di riferimento per il movimento operaio

4. Marx: il rovesciamento della filosofia hegeliana All’inizio della loro formazione filosofica Marx ed Engels furono entrambi hegeliani. Nella sua tesi di laurea sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, Marx interpreta la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele. È possibile un nuovo cominciamento della filosofia dopo le grandi sintesi sistematiche? Secondo Marx, proprio in questi momenti diventa auspicabile che la filosofia riprenda contatto con la realtà e cerchi una realizzazione nel mondo esterno. In sintonia con l’atteggiamento dei giovani hegeliani e fedele al principio hegeliano dell’unità di ragione e realtà, Marx si propone dunque di mostrare l’inadeguatezza della realtà rispetto a ciò che è razionale. Qual è allora il compito della filosofia dopo Hegel? Essa deve recuperare la sua funzione illuministica di critica razionale della realtà esistente, allo stesso modo in cui – dopo Aristotele – Epicuro («il più grande illuminista greco») aveva portato sino in fondo la critica della religione, combattuto il fatalismo e rivendicato la libertà dell’autocoscienza umana.

la filosofia come critica razionale della realtà

Nell’Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, Marx riprende la tesi di Feuerbach sull’origine della religione [cfr. 3.2]. Questi ha infatti mostrato che la religione è prodotta dall’uomo, ma per uomo si deve intendere non il singolo, bensì «il mondo dell’uomo, lo Stato, la società». In accordo con Feuerbach, Marx asserisce che la religione è «l’oppio del popolo», giacché fornisce una giustificazione e una consolazione nei confronti della miseria reale in cui l’uomo si trova. La vera liberazione dalla religione potrà quindi avvenire soltanto attraverso la generale emancipazione dell’uomo come essere sociale. La critica della religione porta alla conclusione che l’essenza suprema per l’uomo non è Dio, ma l’uomo stesso. Da ciò scaturisce la necessità di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, spossessato della sua essenza.

è l’uomo a creare dio e la religione...

Marx avverte che la critica feuerbachiana alla religione deve essere estesa anche alla sfera della politica e dello Stato. Come si è visto, Feuerbach aveva

... e la società civile a creare lo stato

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mostrato la necessità d’invertire soggetto e predicato nella dialettica hegeliana, facendo dell’uomo il soggetto e di Dio il predicato. Secondo Marx, questa operazione deve essere applicata anche alla concezione hegeliana del rapporto tra Stato e società civile. Per Hegel lo Stato era la realtà incondizionata, da cui dipendeva tutto il resto, la famiglia e la società civile, che solo in esso trovavano realizzazione compiuta, proprio come nella religione tutto dipende da Dio. Per Marx, invece, nella realtà storica la priorità spetta alla società civile, non allo Stato: «Come non è la religione – egli afferma – che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la religione, così non è la costituzione che crea il popolo, ma il popolo la costituzione». lo stato non è la sintesi degli interessi di tutti

Marx condivide l’analisi di Hegel della moderna società civile come sistema di bisogni, il cui principio è l’interesse particolare dei singoli e dei ceti. Tuttavia, egli non accoglie la tesi hegeliana dello Stato come sintesi degli interessi particolari e generali né l’idea che la burocrazia coincida con la classe universale, capace di agire nell’interesse di tutti. Secondo Marx, il processo storico reale è caratterizzato da una tendenza a realizzare l’idea di democrazia, intesa come la massima partecipazione possibile al potere legislativo. A suo avviso, tuttavia, l’emancipazione politica non è ancora quella umana: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è puramente astratta e formale – non sostanziale – in quanto lascia sussistere, anzi favorisce, la disuguaglianza economica e sociale.

la scissione dell’uomo moderno

Nei cosiddetti «diritti dell’uomo», sanciti dalle rivoluzioni americana e francese, si nasconde una mistificazione. Essi infatti non fanno altro che assolutizzare come essenza dell’uomo un tipo particolare di uomo – il bourgeois – ossia l’individuo privato della società borghese. Quest’ultimo è definito dalla proprietà, è mosso da interessi particolari ed è quindi ostile agli altri uomini, considerati come dei limiti alla propria libertà. Secondo Marx, nella società attuale l’uomo conduce una doppia vita: la vita nella comunità politica e la vita nella società civile, nella quale agisce come individuo privato. Nella società borghese – contrassegnata dalla separazione tra pubblico e privato – l’uomo è solo astrattamente membro dello Stato, ossia cittadino (citoyen).

proletariato ed emancipazione dell’uomo

Ma come è possibile completare l’emancipazione politica conseguita dalla rivoluzione francese e così ottenere la piena emancipazione umana? Secondo Marx, questa può essere raggiunta solo attraverso la rivoluzione del proletariato. Nella prima fase del suo pensiero, quella contenuta negli Annali franco-tedeschi e nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, egli non pensa ancora al proletariato internazionale, ma soprattutto a quello tedesco, né parla ancora di comunismo, anche se riconosce nell’esistenza della proprietà privata il fattore principale della disuguaglianza e della degradazione dell’essenza umana. Il proletariato, dunque, e non la burocrazia – come riteneva Hegel – rappresenta la vera «classe universale». Solo attraverso la classe nella quale l’essenza dell’uomo è andata completamente perduta è possibile riconquistare totalmente tale essenza. Il problema è di rendere cosciente il proletariato della sua essenza e, quindi, del suo compito rivoluzionario. La filosofia diventa allora qualcosa che dev’essere realizzato pratica-

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mente e la teoria diventa una forza materiale quando riesce a «impadronirsi» del proletariato: in questo senso si può affermare che il proletariato è «il vero erede della filosofia classica tedesca».

APPROFONDIMENTO

Il socialismo utopistico e la riorganizzazione della società

L’interpretazione della rivoluzione francese e delle sue conseguenze è il problema che sta a cuore a tutti i pensatori francesi dell’età napoleonica e della restaurazione. Alcuni tra loro la considerano come un punto di non ritorno e concentrano la loro attenzione sul futuro, puntando a una organizzazione completamente nuova della società: si tratta delle correnti di pensiero generalmente classificate sotto l’etichetta di socialismo utopistico. In realtà, questi pensatori non si considerano degli utopisti – ossia costruttori di progetti fantastici e inapplicabili – ma tentano di realizzare le loro idee, diffondendole mediante libri e giornali e procedendo talvolta anche a esperimenti pratici. Uno degli esponenti più significativi di questo gruppo di intellettuali fu senz’altro Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon (17601825). Tra le sue opere più importanti occorre ricordare: le Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei (1803), nelle quali enunciò la tesi secondo cui le rivoluzioni scientifiche sono causa di quelle politiche e presentò un progetto di governo dell’umanità affidato a scienziati liberamente eletti; l’Abbozzo di una nuova enciclopedia (1810); Il sistema industriale (1821-22) e il Catechismo degli industriali (1823), in cui tentò di delineare le caratteristiche della nuova società industriale. Secondo Saint-Simon, la rivoluzione francese ha seppellito il vecchio mondo, fondato sul sapere teologico e organizzato su basi feudali. Essa ha anche preparato il

terreno alla nascita di una nuova epoca organica. Quest’ultima si fonderà su un corpo sistematico di credenze – la scienza – diverso da quello che reggeva l’antica società. La società del passato trovava la sua legittimazione in un sistema di credenze teologiche, di cui era portatrice la classe che deteneva il potere spirituale, il clero. La società moderna è invece caratterizzata da un nuovo elemento: l’industria, sorta dal progresso scientifico e dalle sue applicazioni tecniche. Nella nuova epoca industriale – il cui scopo sono le attività produttive – la posizione che nelle precedenti società aristocratiche – fondate sulla guerra – era occupata dalla nobiltà feudale è ora assunta dalle nuove classi produttive (non solo quelle legate alla manifattura, ma anche al commercio e all’agricoltura). Nella nuova epoca gli industriali devono assumere la direzione della vita pubblica, in virtù di un potere fondato non sulla costrizione, ma sul consenso. Tra i membri delle classi produttive, Saint-Simon colloca anche tutti coloro che promuovono il nuovo sistema di credenze fondato sui metodi delle scienze positive. Per sua stessa costituzione, inoltre, la scienza è universale e pacifica. Pertanto, la nuova società scientifico-industriale avrà anch’essa i caratteri dell’universalità. Essa si estenderà all’umanità intera e sarà contrassegnata dalla coesistenza di ordine e di progresso, ossia da una forma di progresso pacifico, senza violente fratture rivoluzionarie. La riorganizzazione della società su nuove basi è l’obiettivo perse-

guito anche da Charles Fourier (1772-1837), ma il perno di tale progetto è ravvisato non tanto nella scienza – come in SaintSimon – quanto nelle passioni umane. Tra le sue opere più significative possiamo ricordare Il nuovo mondo industriale e societario, o invenzione del procedimento d’industria attraente e naturale distribuita in serie passionali (1829). Fourier parte dalla constatazione che la società del suo tempo è un mondo capovolto: in essa l’ordine naturale delle cose è rovesciato, dal momento che vi regnano la miseria e la frode. Rispetto a questa degenerazione prodotta dalla civiltà, la natura rappresenta – come per Rousseau – il polo positivo. Per Fourier, ciò significa che tutte le passioni e le inclinazioni proprie della natura umana sono buone: esse devono pertanto essere assecondate e soddisfatte, mentre sinora sono state considerate cattive e quindi represse. Le passioni fondamentali sono l’amore per la ricchezza e l’amore per i piaceri. Se si vuole raggiungere un’organizzazione armonica della società, occorre far leva su queste due passioni e non reprimerle. Si tratta pertanto di modificare le sfere del lavoro e dei rapporti tra i sessi, assecondando l’impulso naturale tendente al piacere dei sensi nonostante l’opposizione dei doveri e dei pregiudizi. Il lavoro dovrà essere suddiviso in funzioni differenti esercitate da individui differenti secondo i loro gusti – ossia le loro attrazioni passionali – e si dovranno formare gruppi nei quali le passioni individuali siano armonizzate tra lo-

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ro, in modo da evitare ogni conflitto e favorire al tempo stesso l’emulazione e la cooperazione. La passione più importante è il bisogno di varietà: saranno quindi necessari turni brevi di lavoro, per evitare che si cada nella noia, frequenti passaggi all’esercizio di funzioni differenti e mobilità da un gruppo all’altro. In tal modo – diversamente da quanto avviene nell’industria attuale, dove la varietà è repressa e il lavoro è uniforme – potrà costituirsi un’industria attraente, capace di assicurare il massimo della produttività. Su questa base si formeranno le falangi, ossia gruppi di circa 1800 persone di entrambi i sessi, le quali vivranno in falansteri economicamente e socialmente autosufficienti, anche se collegati tra loro. Questi falansteri sono al tempo stesso abitazioni collettive, luoghi di lavoro e di divertimento, circondati da aree coltivabili e foreste. Nei falansteri, secondo Fourier, potrà trovare finalmente compimento la liberazione sessuale, sinora repressa attraverso l’affermazione del predominio maschile sulla donna e l’istituzione della famiglia monogamica. I seguaci di Fourier ten-

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tarono l’esperimento di organizzare un falansterio, ma esso fallì anche per mancanza di mezzi e Fourier – sempre più in disaccordo con essi – lo sconfessò. Pierre-Joseph Proudhon (18091865) nel 1840 pubblicò il suo primo scritto Che cos’è la proprietà?. Nel 1844, a Parigi, entrò in contatto con Bakunin e Marx, con il quale tuttavia interruppe ben presto i rapporti. Nel 1846 pubblicò il Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria, a cui Marx rispose con la Miseria della filosofia [cfr. 3.7]. Nel 1859 pubblicò Sulla giustizia considerata nella rivoluzione e nella Chiesa, forse la sua opera più importante. Contrariamente a quanto pensava Marx, Proudhon ritiene che l’economia non poggi ancora su basi scientifiche. Essa piuttosto deve essere diretta dalla volontà umana e subordinata a obiettivi superiori, in primo luogo alla giustizia. La storia è il dominio della libertà, che ha il proprio fine nella realizzazione della giustizia. Sono possibili due modi di concepire la giustizia: 1) come risultato di un’imposizione da parte di un’autorità esterna superiore

all’individuo; 2) come facoltà dell’individuo stesso di riconoscere la pari dignità di ogni altro individuo. Nel primo caso si pretende di realizzare la giustizia a scapito della libertà individuale, ma Proudhon respinge la legittimità di qualsiasi autorità superiore all’individuo – e precisamente di quella di Dio in ambito religioso, dello Stato nella sfera politica e della proprietà in quella economica. Di qui il suo anarchismo, che significa letteralmente «rifiuto di ogni potere». Lo Stato è considerato un’istituzione assurda o illegale, finalizzata allo sfruttamento dei propri simili mediante la forza, così come la proprietà privata è finalizzata allo sfruttamento del lavoro altrui. Ogni individuo ha invece il diritto di godere della massima libertà, a patto che uguale libertà sia riconosciuta anche a tutti gli altri. Sulla base della libertà e della giustizia, come riconoscimento della pari dignità altrui, è possibile la libera organizzazione di una società mutualistica. In essa i lavoratori-produttori si scambiano i prodotti, in modo da costituire un tutto armonico.

5. Marx: la critica dell’economia politica

e la condizione dei lavoratori l’intuizione di engels

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Nell’Abbozzo di una critica dell’economia politica (1844) – giudicato da Marx «geniale» – Engels mostrava che l’aumento dell’accumulazione capitalistica genera crisi economiche, una riduzione dei salari e l’impoverimento progressivo delle classi lavoratrici, con il conseguente acutizzarsi delle tensioni sociali. Questa situazione sembrava smentire l’esaltazione dei vantaggi della proprietà privata da parte dei teorici dell’economia: secondo Engels, miseria e conflitti sociali potevano essere eliminati soltanto abolendo la proprietà privata – ossia instaurando il comunismo. Stimolato da quest’opera di Engels, Marx s’immerge a Parigi nella lettura degli economisti (in primo  approfondimento, p. 54]) e dei loro critici luogo di Smith e di Ricardo [ (ad esempio, il socialista Proudhon [  approfondimento, sopra]). 3. le eredità di hegel e il marxismo

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Il risultato di questo lavoro sono i quaderni pubblicati – soltanto nel nostro secolo – con il titolo Manoscritti economico-filosofici del 1844. In questo scritto Marx cerca anzitutto di individuare le leggi che regolano il movimento dell’industria e di spiegare – in base a esso – la formazione del proletariato. Il mondo dell’economia non è una totalità di rapporti armonici – come era apparso a Smith – ma un terreno di conflitti, che contraddicono i presupposti di ordine naturale e sociale, di felicità della maggioranza, sostenuti dalla maggior parte degli economisti. Per gli economisti i conflitti sono soltanto accidentali: quando si formulano le leggi economiche, dunque, occorre farne astrazione. Ciò equivale, da un lato, ad attribuire a queste leggi – che di fatto coincidono con quelle della produzione capitalistica – un carattere di immutabilità ed eternità; dall’altro lato, ad assumere la proprietà privata come un fatto che non richiede spiegazioni.

economia capitalista e proprietà privata non sono «fatti» immutabili

 apProprio questo aveva messo in discussione – tra gli altri – Proudhon [ profondimento, p. 46] con la domanda formulata nel titolo del suo scritto Che cos’è la proprietà? (1840), alla quale aveva risposto: un furto. Di fatto, secondo Marx, la società industriale si arricchisce in misura proporzionale all’impoverimento della gran massa della popolazione. L’economia politica – ossia la disciplina che studia le leggi attraverso cui sono prodotti, distribuiti e consumati i beni utili alla soddisfazione dei bisogni umani – sarebbe colpevole di mistificare il rapporto tra l’operaio, il suo lavoro e la produzione. Secondo Marx, infatti, essa occulta l’alienazione che caratterizza il lavoro nella società industriale moderna.

la proprietà è un «furto» e il lavoro è alienato

Nella produzione capitalistica l’ alienazione assume vari aspetti connessi tra loro [t6].

che cos’è l’alienazione?

1. In primo luogo, l’operaio si estrania dal prodotto del suo lavoro: ciò che egli produce non gli appartiene, ma è esclusivo possesso del capitalista, per il quale lavora. 2. In secondo luogo, l’operaio si estrania da sé, ossia non considera il proprio lavoro come parte della sua vita reale. Questa si svolge altrove, a casa, fuori e indipendentemente dal lavoro, che si trova sotto il comando di un potere estraneo. 3. In terzo luogo, l’operaio perde la sua essenza generica (in tedesco: Gattungswesen). Ciò che distingue il genere umano da quello animale è il lavoro. Attraverso di esso l’uomo – sotto la spinta dei bisogni – oggettiva le sue capacità e si appropria della natura. Ma, nell’epoca attuale, il lavoro continua a essere l’espressione più autentica dell’essenza dell’uomo? Marx ritiene che nella moderna produzione capitalistica il lavoro non consista più nella realizzazione positiva della natura umana, ma sia diventato soltanto un mezzo di sopravvivenza individuale. 4. Un’importante conseguenza di ciò è che l’uomo si estrania dall’altro uomo. L’unità organica dell’umanità si realizza oggettivamente nell’attività lavorativa, dove ogni uomo è legato da un rapporto sostanziale con gli altri uomini. Ma nel sistema di produzione capitalistico l’esistenza della proprietà privata comporta la frantumazione dell’essenza sociale degli uomini. In base a essa, infatti, i prodotti non appartengono a coloro che – attraverso la 3. le eredità di hegel e il marxismo

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loro comune attività – ne sono stati i fautori, bensì soltanto a colui che ne è diventato il proprietario. per hegel il lavoro riguarda lo spirito

Secondo Marx, tanto Hegel quanto gli economisti hanno riconosciuto che il lavoro è il tratto costitutivo dell’essenza dell’uomo, ma ne hanno scorto soltanto il lato positivo. Per gli economisti il lavoro è qualcosa di naturale, in qualche modo privo di storia; Hegel invece ha avuto il merito di aver colto il carattere storico del lavoro. Per Hegel, infatti, lo spirito è autoproduzione di se stesso e l’uomo è il risultato del proprio lavoro. Questa autoproduzione è un processo di sviluppo, in cui lo spirito si oggettiva nel mondo – ossia diventa altro da sé – e poi ritorna a sé arricchito da tutte le determinazioni acquisite nel corso del processo. Il lavoro dello spirito è, dunque, un processo di alienazione e disalienazione. Ma questo processo, secondo Hegel, avviene soltanto nel pensiero e coincide con la storia dell’autocoscienza.

per marx disalienazione e disoggettivazione non coincidono

Proprio questo è l’aspetto che Marx non può condividere. Per Hegel, le nozioni di alienazione e di oggettivazione sono equivalenti. Ciò significa che ogni relazione del soggetto con un oggetto altro da sé è alienazione, ossia perdita di sé in altro. La disalienazione – ossia il processo contrario con cui il pensiero ritorna a se stesso – corrisponderà pertanto alla disoggettivazione – ovvero alla negazione di ogni relazione con il mondo oggettivo. Secondo Marx, invece, l’oggettività costituisce per l’uomo un condizionamento intrinseco e ineliminabile – e non semplicemente un aspetto provvisorio da superare dialetticamente.

hegel contro feuerbach...

Da un lato, dunque, Marx riconosce a Hegel il merito di aver colto che l’essenza dell’uomo è suscettibile di perdita (alienazione) e di riappropriazione (disalienazione): in questo modo egli contrappone Hegel a Feuerbach, che aveva concepito l’essenza dell’uomo come qualcosa di statico, di a-storico.

... feuerbach contro hegel

Dall’altro lato, Marx attribuisce a Hegel il torto di concepire il processo di alienazione e disalienazione in maniera idealistica, ovvero come un processo puramente spirituale che riguarda soltanto il pensiero. Contro questo aspetto Marx fa valere l’istanza di Feuerbach, che ha rivendicato il primato della sensibilità e della corporeità. In definitiva, secondo Marx, l’oggettivazione rappresenta un aspetto ineliminabile dell’essenza umana e consiste nell’uso della natura in cooperazione con gli altri uomini. Per questo motivo, l’uomo è al tempo stesso un essere naturale – in quanto è legato costitutivamente alla natura – e un essere storico – in quanto può rimuovere l’alienazione e recuperare la sua essenza senza per questo negare la propria oggettività.

disalienazione ed eliminazione della proprietà privata

La proprietà è «l’espressione materiale, sensibile, della vita umana estraniata» e, pertanto, la soppressione della proprietà e dei rapporti sociali fondati su essa coinciderà con la soppressione di ogni alienazione. Il superamento dell’alienazione avviene dunque con il comunismo , nel quale l’esecuzione delle attività produttive coincide con la realizzazione dell’essenza umana. Marx contrappone nettamente la sua concezione del comunismo a tutte le

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forme di comunismo rozzo, fondate sulla negazione della civiltà: esse pretendono, infatti, di tornare alla «innaturale semplicità» dell’uomo povero e privo di bisogni, non ancora giunto alla proprietà privata . Comunismo significa invece, per Marx, riappropriazione dell’essenza umana in tutta la ricchezza delle determinazioni acquisite durante lo sviluppo storico, ossia la liberazione e manifestazione totale di tutte le facoltà umane. Ciò significa che le tecniche e le produzioni culturali – sviluppate nelle epoche precedenti – restano disponibili anche per una società diversa da quella nella quale si sono formate e possono essere recuperate anche nella futura società comunistica. In che cosa consiste, dunque, il progresso dell’umanità? Per Marx, lo sviluppo tecnico – migliorando i rapporti dell’uomo con la natura – è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la realizzazione dell’essenza umana. Questa infatti include anche i rapporti sociali, dai quali dipende l’uso della tecnica. Nel comunismo l’agire umano sarà contrassegnato dalla libertà e dall’universalità, dall’assenza di ogni costrizione nei rapporti sociali, ma anche dal massimo dominio dell’uomo sulla natura, al fine di soddisfare il maggior numero di bisogni. Il comunismo, per Marx, non è un’utopia o un ideale astratto – come pensavano molti socialisti del tempo – ma l’esito verso il quale procede lo stesso movimento della storia:

il progresso dell’umanità e il comunismo

Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Terzo manoscritto).

6. Marx ed Engels: il materialismo storico Nelle 11 Tesi su Feuerbach di Marx e nell’Ideologia tedesca – opera di Marx ed Engels – Feuerbach è presentato come colui che ha saputo smascherare il mondo rovesciato della religione, rintracciandone la radice antropologica. Secondo i due autori, tuttavia, egli non è stato capace di cogliere adeguatamente il carattere storico della natura umana e le condizioni storiche che rendono possibile il costituirsi della religione stessa. Il problema per Marx ed Engels consiste infatti nell’abolire – più che la religione – le condizioni storiche che la rendono possibile. Questo programma di modificazione storica della realtà trova espressione nella celebre tesi secondo cui i filosofi sinora si sono accontentati di interpretare il mondo, mentre ora si tratta di trasformarlo [t7].

alef

Marx Comunismo e comunismo rozzo

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l’eliminazione della religione deriva dalla disalienazione economica

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il materialismo di feuerbach è superato

Nella filosofia di Feuerbach è ancora forte un’eredità illuministica, soprattutto nella sua concezione della natura umana come essenza priva di storia. In più, il materialismo di Feuerbach – vicino a quello settecentesco – considera l’uomo come entità naturale dotata di corporeità e sensibilità e quindi fondamentalmente passiva. Detto altrimenti, per Feuerbach, la realtà sensibile rappresenta sempre un oggetto già costituito, non un prodotto dall’attività umana. Come si è visto, per questo aspetto Hegel era apparso superiore a Feuerbach, in quanto aveva messo in luce il carattere autoproduttivo dell’attività umana, anche se lo aveva attribuito soltanto allo spirito o al pensiero puro.

l’uomo è il suo lavoro

Secondo Marx ed Engels, invece, la dimensione sensibile dell’uomo non è soltanto passiva, ma si configura come prassi trasformatrice della natura. Di più, nell’Ideologia tedesca si afferma che gli uomini si distinguono dagli animali non per il fatto che sono dotati di pensiero, bensì quando cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza: Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. [...] Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione. L’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dal loro arbitrio (MarxEngels, L’ideologia tedesca, parte I).

In altre parole, ciò che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione: questo è il presupposto fondamentale del materialismo storico . Quest’ultimo si propone di descrivere le varie forme che le attività produttive e la divisione del lavoro hanno assunto nella storia, mostrando come a esse corrispondano determinate forme di proprietà. Secondo Marx, per comprendere il processo storico bisogna partire dallo studio dei modi di produzione della vita materiale. L’analisi storica deve dunque rinunciare al concetto di «essenza umana», muovendo – più che da quanto gli uomini esplicitamente dicono o pensano di essere – dai bisogni dei singoli uomini e dai mezzi che essi utilizzano per soddisfarli. Per questa ragione, inoltre, la storia umana cessa di essere il campo d’azione di soggetti immaginari (l’autocoscienza hegeliana) e si presenta, invece, come l’insieme dei modi in cui gli uomini soddisfano di volta in volta i loro bisogni materiali e dei rapporti sociali che ne derivano. 50

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Per Marx la base della società è economica ed è data dal modo in cui gli uomini si procurano la sussistenza. La soddisfazione dei primi bisogni e l’incremento della popolazione generano nuovi bisogni, per soddisfare i quali occorre una più articolata divisione del lavoro. Il grado di sviluppo delle forze produttive è quindi indicato dal grado di sviluppo della divisione del lavoro: questa ha assunto storicamente varie forme, dando luogo in particolare alla separazione tra città e campagna – cioè tra agricoltura, da una parte, e commercio e industria, dall’altra –, e successivamente anche tra industria e commercio. Il modo di produzione non coincide con la società nella sua totalità, ne è soltanto la base. La società civile, infatti, è costituita dall’insieme delle relazioni materiali tra individui entro un determinato grado di sviluppo delle forze produttive.

aumento dei bisogni e divisione del lavoro

Ai gradi di sviluppo della divisione del lavoro corrispondono forze produttive diverse e diverse forme di proprietà. Marx ed Engels distinguono quattro tipi di proprietà. 1) La proprietà tribale è quella in cui predominano la caccia, la pesca e la pastorizia e dove – successivamente – interviene anche l’agricoltura: in essa la divisione del lavoro è ancora scarsa. 2) La forma di proprietà caratteristica della comunità antica è quella in cui ha fatto la sua comparsa lo Stato e gli schiavi costituiscono la principale forza produttiva. In questa forma compare già la divisione del lavoro tra città e campagna e, quindi, tra agricoltura, industria e commercio. 3) La proprietà feudale è quella in cui predomina l’agricoltura. La società è organizzata gerarchicamente in ordini e corporazioni e incominciano a generarsi le prime forme di capitale. 4) La proprietà caratteristica del modo di produzione capitalistico è quella in cui predomina l’industria.

divisione del lavoro e forme di proprietà

Un importante aspetto della concezione materialistica della storia è che i modi di produzione determinano il carattere dei rapporti sociali e politici e la stessa produzione delle idee: non la coscienza determina la vita, ma la vita determina la coscienza e i suoi prodotti. Questo è il nucleo della distinzione tra struttura e sovrastruttura , secondo la quale le idee e le produzioni culturali – la religione e la stessa filosofia, oltre che la politica e il diritto – non si generano in maniera indipendente, ma sono anch’esse il frutto di determinati tipi di organizzazione economica e sociale. Ciò significa che per comprendere il processo storico occorre partire dai modi in cui gli uomini producono la loro vita materiale, più che da ciò che essi dicono o pensano di essere.

«non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»

Ma, se sono il frutto di precisi rapporti di forza economico-sociali, perché le attività intellettuali – e in particolare la filosofia – appaiono libere di determinarsi da sé? Per rispondere a questa domanda Marx ricorre alla nozione di ideologia [t8]. A suo avviso, i prodotti culturali sono «ideologici» perché danno l’illusione di essere autonome manifestazioni dello spirito umano, ma in verità – spesso senza averne nemmeno coscienza – esprimono le idee della classe dominante e forniscono un’immagine parziale o addirittura rovesciata della realtà, di fatto giustificando l’esistente. Proprio questa era – secondo Marx ed Engels – l’illusione dei giovani hegeliani, che consideravano la genesi delle idee indipendente dalla base materiale. Essi rappresentavano appunto «l’ideologia tedesca», in quanto ritenevano che ba-

le idee e la loro genesi materiale

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I RAPPORTI TRA STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA SOVRASTRUTTURA

Marx intende mettere in evidenza la dipendenza dei fenomeni politici, sociali e culturali dalla struttura economica, senza però intenderla come un rapporto meccanico di condizionamento. Anche la sovrastruttura può influire sulla vita reale degli uomini, sebbene sia per lo più il riflesso della base economica e l’espressione della classe dominante.

Istituzioni politiche e giuridiche

Idee morali

Idee religiose

Idee filosofiche

Idee politiche

Produzioni artistiche e culturali

determina i rapporti sociali, politici e la produzione delle idee

può incidere sulla

STRUTTURA Modi di produzione Divisione del lavoro Rapporti di produzione

stasse la critica delle idee dominanti e la sostituzione di esse con altre idee per condurre gli uomini all’emancipazione. la struttura condiziona la sovrastruttura

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Marx ed Engels si premureranno, tuttavia, di evitare interpretazioni scorrette del rapporto fra struttura e sovrastruttura. Marx – già nell’Introduzione, scritta nel 1857, a Per la critica dell’economia politica – ribadirà che il rapporto tra sviluppo della produzione materiale e sviluppo della produzione artistica non è del tutto parallelo: ciò, tra l’altro, consente di spiegare perché i prodotti dell’arte greca costituiscano ancor oggi un oggetto di godimento estetico, pur essendo mutate le condizioni materiali e il tipo di società in cui ebbero origine. Inoltre, le stesse produzioni culturali e intellettuali possono – a loro volta – agire sulla struttura e sulla vita reale degli uomini – dalle quali derivano. Engels respingerà in seguito ogni interpretazione deterministica del rapporto struttura-sovrastruttura, sostenendo che non si può considerare il fattore economico come l’unico fattore determinante. Tale rapporto – come del resto la tipologia delle forme di proprietà – serve anzitutto a orientare l’analisi storica e la formulazione di programmi politici. Per questo motivo, esso non va inteso come una gabbia entro la quale costringere a forza il materiale empirico fornito dalle vicende storiche. 3. le eredità di hegel e il marxismo

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7. Marx ed Engels: lotta di classe

e rivoluzione proletaria

La concezione materialistica della storia pone, secondo Marx ed Engels, il socialismo su basi scientifiche, perché si fonda sull’analisi del processo storico e delle condizioni reali che porteranno al socialismo ed è, quindi, lon approtana dalle costruzioni utopiche e immaginarie dei primi socialisti [ fondimento, p. 45]. Un esempio tipico di questa erronea impostazione era dato da Proudhon, sottoposto a critica da Marx nella Miseria della filosofia. Proudhon accettava la teoria economica di Ricardo, ma la estendeva a ogni epoca della storia, ricorrendo a leggi e idee eterne come motori della storia. Spiegando i fenomeni economici in termini morali e filosofici, egli mistificava la reale base economica e storica della società capitalistica, con la conseguenza di propugnare – più che la soppressione di quest’ultima – un astratto ideale di giustizia, una migliore distribuzione delle ricchezze e una politica di collaborazione tra le classi.

la critica del socialismo utopistico

A ciò Marx ed Engels contrappongono – soprattutto nel Manifesto del partito comunista – la tesi secondo la quale il motore della storia è la lotta tra le classi . La missione storica delle classi è determinata dalla loro collocazione all’interno di specifici modi di produzione. La divisione del lavoro – da cui deriva la proprietà privata – genera la disuguaglianza sociale e, quindi, i conflitti tra interessi particolari e interesse collettivo, tra l’attività del singolo e chi controlla questa attività: da ciò emerge la lotta di classe. Quando a un determinato grado di sviluppo della divisione del lavoro non corrispondono più rapporti sociali adeguati, allora la relazione tra forze produttive e forme di cooperazione sociale entra in «contraddizione» e si produce una crisi. A essa si accompagna la transizione rivoluzionaria verso un diverso modo di produzione e il dominio di una nuova classe.

la «contraddizione» tra forze produttive e rapporti di produzione

Così è avvenuto con la borghesia nei confronti del precedente mondo feudale: Marx ed Engels tracciano un profilo storico dei trionfi della borghesia sul piano economico e intellettuale. L’ascesa della borghesia coincide con lo sviluppo del capitalismo: solo con la forma moderna della proprietà e la formazione dell’industria, si afferma un modo di produzione esteso su scala mondiale, ma con esso si genera anche una massa ingente di forze produttive – il proletariato industriale – destinato ad abbattere il dominio della borghesia, a sopprimere le classi e a eliminare la divisione del lavoro. Nella rivoluzione i proletari non hanno nulla da perdere – tranne le loro catene – e hanno invece un mondo da guadagnare, sicché Marx ed Engels possono concludere il Manifesto con la parola d’ordine: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» [t9].

borghesia e proletariato

APPROFONDIMENTO

La «rivoluzione industriale» e gli economisti classici

Nella seconda metà del Settecento la vita economica inglese era stata trasformata in profondità da

quella che viene comunemente chiamata rivoluzione industriale. Quest’ultima fu caratterizzata da

due fattori fondamentali. In primo luogo, si applicarono ai processi produttivi – soprattutto

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quelli legati all’industria tessile e metallurgica – le invenzioni e i ritrovati tecnici che si susseguivano ormai rapidamente. L’introduzione delle macchine nei processi di lavorazione ebbe due immediate conseguenze: la vertiginosa crescita della produzione e l’altrettanto rapida riduzione delle manovalanze, sostituite dai mezzi meccanici. In secondo luogo, l’incremento della produzione e dei commerci ebbe come conseguenza la concentrazione di grandi capitali nelle mani della borghesia delle città – tradizionalmente alla guida dell’attività manifatturiera – mentre parallelamente la nobiltà accentrava in sé la ricchezza agricola della nazione. Adam Smith (1723-1790), promotore dell’economia politica come scienza e teorico del liberismo [cfr. vol. II, 13.8] nel suo capolavoro, l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), sosteneva che l’elemento propulsore di ogni attività economica è l’interesse individuale. Apparentemente, gli interessi individuali sono in conflitto: gli imprenditori hanno interesse a pagare il meno possibile il lavoro dei loro operai; questi ultimi, invece, vogliono percepire il salario più alto possibile. Tuttavia, se si adotta un punto di vista generale, gli

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interessi individuali sembrano comporre un tutto armonico e determinare un vantaggio generale da cui traggono profitto anche coloro che sono apparentemente più svantaggiati. L’ottimismo di Smith dovette, tuttavia, scontrarsi con la sempre meno equa distribuzione della ricchezza, la graduale riduzione dell’occupazione e il fenomeno dilagante della povertà. Nel Saggio sui princìpi della popolazione (1798) Thomas Robert Malthus (1766-1834) aveva messo in luce il crescente divario tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza. La popolazione – nota Malthus – cresce infatti secondo una proporzione geometrica (1-2-4-8, ecc.), per cui ogni singolo aumento è principio di moltiplicazione degli aumenti successivi. Viceversa, i mezzi per la sussistenza aumentano soltanto in proporzione aritmetica (1-2-3-4, ecc.). Di conseguenza l’aumento delle risorse non riesce a tenere il passo con la crescita della popolazione: ci saranno sempre più esseri umani e, proporzionalmente, sempre meno risorse sufficienti a sfamarli. Come soluzione Malthus propone un rigoroso controllo delle nascite, cioè un «ritegno morale» che consiste nell’astenersi dal matrimonio e dalle pratiche sessuali.

Anche David Ricardo (1772-1823) – autore di Princìpi di economia politica e delle imposte (1817) – mostra grande interesse per le disfunzioni della società e dell’economia. Pur condividendo i princìpi liberistici di Smith, Ricardo non ritiene che la legge della domanda e dell’offerta possa condurre a un’equa redistribuzione della ricchezza. Egli individua due fattori di sperequazione. Il primo è dato dal rapporto tra la rendita fondiaria – cioè il reddito prodotto dalla proprietà della terra – e la crescita demografica. Per sfamare la popolazione sarà necessario coltivare anche i terreni meno fertili, con maggiori costi di lavoro e una minore rendita. Poiché la popolazione crescerà sempre di più, sarà sempre più vasto il ricorso a terreni sempre meno fertili con rendite sempre più ridotte. In questo modo la «rendita differenziale» – cioè la differenza tra la rendita dei terreni più fertili e quella dei terreni meno fertili – diventerà sempre più grande. Il secondo fattore di sperequazione economico-sociale è dato dalla cosiddetta legge ferrea dei salari. In base alla legge della domanda e dell’offerta, infatti, i salari tendono ad abbassarsi sempre più, fino ad attestarsi al semplice limite di sopravvivenza del lavoratore.

8. Marx ed Engels: l’analisi economica del capitalismo l’inghilterra è il paese più capitalista

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Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 in Europa, Marx ed Engels giungono alla convinzione che il centro della rivoluzione si è spostato in Inghilterra – il paese industrialmente e capitalisticamente più avanzato. Qui l’introduzione del vapore come forza motrice aveva rivoluzionato il sistema della produzione industriale e il sistema dei trasporti; inoltre, negli anni Cinquanta la produzione riceveva un nuovo impulso, dando luogo a vaste concentrazioni industriali, all’espansione dei consumi, a un aumento dei salari, alla diminuzione delle ore lavorative. In questa situazione Marx riprende lo studio dell’economia politica e affronta la questione del metodo dell’analisi economica. I risultati più cospicui di questa riflessione sono gli 3. le eredità di hegel e il marxismo

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appunti pubblicati postumi sotto il titolo di Grundrisse e Per la critica dell’economia politica – uscita nel 1859 e preceduta da un’Introduzione scritta nel 1857, pubblicata anch’essa postuma. L’oggetto dell’economia politica sono individui che producono in società, non isolatamente – come pensavano gli economisti classici (da Smith a Ricardo). L’indagine deve partire dalla realtà – dal concreto –, che inizialmente appare come un «insieme caotico» di determinazioni. Il concreto, anche se caotico, è il punto di partenza per effettuare astrazioni che consentono di ricavare concetti sempre più semplici e sottili. Tali concetti sono le categorie dell’analisi economica (per esempio, quelle di divisione del lavoro, soggetto del lavoro, prodotto, strumento di produzione e così via).

dal concreto all’astratto

Le categorie economiche più complesse si formano, secondo Marx, nella situazione storica in cui lo sviluppo economico ha raggiunto la forma più ricca e articolata, ossia nel modo di produzione capitalistico. Esso è dunque la chiave per comprendere anche le formazioni economiche antecedenti, più arretrate. Detto altrimenti, le categorie che permettono di cogliere la struttura della forma più avanzata di produzione – ossia quella della società borghese – consentono di capire anche «la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati», allo stesso modo in cui «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia».

l’anatomia del capitalismo e delle economie più arretrate

Il problema fondamentale consisterà allora nell’articolare le categorie della formazione economica e sociale capitalistica. A questa impresa Marx si accinge soprattutto con Il Capitale. Il modo di produzione capitalistico si presenta come un’enorme produzione e raccolta di merci: dunque, l’indagine sul capitale deve iniziare con l’analisi della merce. La merce è in primo luogo qualcosa che per le sue qualità può soddisfare bisogni umani di qualsiasi tipo, materiali o intellettuali. In ciò risiede il suo valore d’uso, che si realizza appunto nell’uso, ossia nel consumo che si fa di essa. Rispetto a questo valore si distingue il valore di scambio, che esprime un rapporto di corrispondenza quantitativa tra valori d’uso (per esempio una certa quantità di grano può essere scambiata con una certa quantità di seta o con una d’oro, considerate equivalenti). Ogni merce ha molteplici valori di scambio, in relazione alle merci con cui è scambiata.

il doppio valore della merce

Ma, affinché lo scambio sia possibile, occorre che tutti i valori di scambio delle merci possano essere riportati a un criterio generale di equivalenza. In altre parole, le merci – in quanto valori di scambio – non sono considerate dal punto di vista qualitativo, ossia in base alla loro capacità di soddisfare bisogni umani, ma solo dal punto di vista quantitativo. Le merci hanno valori d’uso differenti (un Cd di Mozart non equivale a un kg di pane, perché soddisfano esigenze tra loro incommensurabili), ma hanno anche una proprietà comune che permette di stabilire quanto ognuna di essa vale rispetto a un’altra (valore di scambio). In tal modo, tutte le merci sono interscambiabili, pur avendo valori d’uso differenti.

l’equivalenza delle merci e il valore di scambio

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il valore di scambio dipende dalla quantità di lavoro

Se si prescinde dal loro valore d’uso, qual è allora la proprietà che tutte le merci hanno in comune? Ognuna di esse è prodotta dal lavoro, ma non da un tipo particolare di lavoro distinto da ogni altro, bensì dal «lavoro umano eguale in astratto». Ciò significa che si fa astrazione dalle differenze esistenti fra i vari tipi di lavoro e «li si riduce al carattere comune che essi possiedono in quanto dispendio di forza-lavoro umana». In tal modo, un bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato – o materializzato – lavoro umano. Tale valore è misurabile in base alla quantità di lavoro contenuta in esso e la quantità di lavoro, a sua volta, è misurata in base alla sua durata temporale. Per determinare questa misura occorre prescindere dal tempo necessario al singolo operaio: è chiaro, infatti, che se egli è inabile o pigro, impiegherà maggior tempo a produrre un oggetto e dunque, paradossalmente, il suo prodotto verrebbe a essere più costoso di quello di un operaio abile e solerte. È invece il tempo di lavoro socialmente necessario – in media – in specifiche condizioni storiche di produzione a determinare il valore dell’oggetto prodotto.

il feticismo delle merci

Le cose – quando sono viste soltanto come merci interscambiabili, senza che si scorga il lavoro umano incorporato in esse – si trasformano in feticci. Si assiste a un fenomeno simile a quello che avviene in ambito religioso, dove un oggetto fabbricato dall’uomo – il feticcio – è tramutato in una divinità autonoma. Questo fenomeno è tipico del modo di produzione capitalistico, nel quale il prodotto domina l’uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici rapporti tra cose.

il ciclo economico del capitalismo

Con il denaro viene determinato sul mercato – attraverso il rapporto tra la domanda e l’offerta – il prezzo delle merci, ossia il loro valore di scambio espresso in termini quantitativi. Tipico del modo di produzione capitalistico è il fatto che la conversione di merci in denaro, e viceversa, è finalizzata non al consumo – attraverso l’acquisto di altre merci – bensì al profitto, ossia all’aumento del denaro. Il primo tipo di circolazione denaro-merci, proprio di un modello generale di società mercantile, è esprimibile con la formula M-D-M (dove D = denaro e M = merce): dalla vendita della merce si ricava denaro, usato allo scopo di acquistare altre merci. Nel capitalismo, invece, la formula è D-M-D’, dove D’ è maggiore di D: infatti, il denaro acquisito a conclusione del ciclo (D’) è aumentato rispetto a quello impiegato inizialmente (D) per acquistare la merce (M).

il profitto e la forza-lavoro

Ma qual è la merce che consente di generare il profitto? Secondo Marx, la fonte del profitto deve essere cercata non nella sfera della circolazione (o vendita) delle merci, bensì in quella della loro produzione. Egli individua questa fonte nella forza-lavoro, ossia nell’energia erogabile per produrre oggetti. La forza-lavoro costituisce un tipo particolare di merce, dotato di capacità produttiva, dal quale può essere estorto profitto, ossia un guadagno rispetto al denaro speso per acquistarlo. Coloro che prestano la propria forza-lavoro sono individui giuridicamente liberi, costretti a venderla come unico mezzo per sostentarsi . Il sistema di produzione delle merci che abbiamo appena esaminato non esiste da sempre, ma è proprio del moderno

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Marx Capitale e lavoro salariato

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mondo capitalistico, nel quale la forza-lavoro stessa è diventata una merce. Altra condizione è l’esistenza dei capitalisti, ovvero di individui che possiedano i mezzi di produzione. I capitalisti spendono parte del loro capitale – sotto forma di salario – per acquistare forza-lavoro allo scopo di generare il profitto. Ma, com’è possibile che l’acquisto di questa merce generi profitto? Come sappiamo, anche la forza-lavoro – in quanto merce – ha un valore di scambio che, al pari di tutte le altre, sarà determinato in base al tempo medio di lavoro richiesto per produrla. Ciò significa che il valore della forza-lavoro è calcolato in base al costo necessario per produrla. Quest’ultimo comprende le spese sostenute per garantire la sopravvivenza dell’operaio, la sua riproduzione e l’apprendimento delle abilità necessarie al suo lavoro. Il profitto – chiamato da Marx anche plusvalore – potrà generarsi soltanto se il salario corrisposto dal capitalista equivale a una sola parte del tempo impiegato dall’operaio nella produzione – e precisamente alla parte che basta a garantire la sussistenza dell’operaio stesso. Se per esempio tale parte equivale a sei ore di lavoro, tutto il lavoro compiuto in altre ore della stessa giornata – ossia il pluslavoro – non è retribuito e genera plusvalore. Il plusvalore sarà allora dato dal rapporto fra due quantità di lavoro nella sfera della produzione, ossia tra il tempo di pluslavoro e il tempo impiegato per produrre la sussistenza del lavoratore.

il profitto e la teoria del plusvalore

il modo di produzione capitalistico è finalizzato alla produzione della merce Per comprendere la formazione del capitale occorre iniziare con l’analisi della merce. La merce ha un doppio valore d’uso

di scambio

società precapitalistiche

società capitalistica

MDM

D M D’

economia di consumo

economia di profitto

Si è detto che il plusvalore è il fine della produzione capitalistica e si forma nella sfera della produzione. Nel Capitale Marx si propone di studiare i dif-

le forme di organizzazione del lavoro

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ferenti modi di organizzare il lavoro nella produzione capitalistica. A fondamento di essi c’è la cooperazione, ovvero il lavoro di molte persone che operano insieme in uno stesso luogo e contemporaneamente secondo un piano. Ciò differenzia i tipi principali di organizzazione capitalistica del lavoro – ossia la manifattura e la fabbrica – dall’artigianato, che non richiede la compresenza spaziale e la contemporaneità nell’esecuzione dei lavori. Il carattere assunto dalla cooperazione nell’economia capitalistica porta ad aumentare la produttività, ma sottrae all’operaio il controllo del proprio lavoro, contrariamente a quanto avviene per l’artigiano.

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profitto, aumento della produttività e del capitale costante

Nello stadio industriale del capitalismo, una parte del capitale è investita nell’acquisto di macchine. Queste ultime costituiscono il capitale costante, mentre i salari corrisposti agli operai costituiscono il capitale variabile. Le macchine sono lo strumento fondamentale per accrescere la produttività. Mentre un artigiano compie un’attività che comporta l’uso di una pluralità di strumenti e l’esecuzione di una pluralità di operazioni, le macchine permettono di suddividere quest’unica attività in molteplici operazioni affidate ciascuna a persone diverse. In tal modo aumenta l’efficienza del lavoro svolto dal singolo operaio, addetto a una sola operazione, ma il lavoro stesso diventa unilaterale e ripetitivo. Più aumenta la specializzazione delle funzioni e più l’operaio è costretto a vendere la sua forza-lavoro, non soltanto perché non possiede i mezzi di produzione, ma anche perché ha perso la capacità di svolgere un mestiere compiuto. Tutte le diverse operazioni necessarie per produrre un oggetto finito sono ormai compiute dal sistema integrato operaio-macchina.

il lavoro alienato dell’operaio

Il culmine è raggiunto con la divisione del lavoro tra macchine differenti e con l’organizzazione del lavoro a catena. In questa situazione gli operai sono al servizio della macchina, devono adattare i loro ritmi di lavoro a quelli della macchina e diventano intercambiabili tra loro, giacché le loro funzioni tendono a livellarsi. Ritorna così in primo piano il tema dell’alienazione trattato da Marx nei suoi anni giovanili [cfr. 3.5]. L’operaio non può più decidere sulle operazioni da compiere né sull’uso delle macchine, ma è del tutto subordinato a decisioni prese da altri: in tal modo, giungono al culmine la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (consistente nelle funzioni direttive) e l’antagonismo tra le forze produttive.

la crisi del sistema capitalistico

Per non soccombere alla concorrenza, il capitalista deve investire in misura crescente il plusvalore ricavato in macchinari – ossia in capitale costante – e per non diminuire i propri profitti deve cercare di tenere sempre più basso il capitale variabile – ossia i salari. Malgrado ciò, Marx è convinto dell’esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di profitto, con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani. A ciò è correlato, come si è visto, l’immiserimento crescente degli operai: con l’introduzione delle macchine – che possono sostituire il lavoro di molti operai – aumentano i disoccupati, cresce anche l’offerta di forza-lavoro sul mercato e i salari tendono a diminuire. In questa situazione si genera la massima contraddizione tra il carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione e il carattere sociale della produzione, tra le forze produttive sempre in 3. le eredità di hegel e il marxismo

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la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

saggio di profitto =

plusvalore capitale costante + capitale variabile

Il significato dei termini

La spiegazione della legge

Saggio di profitto: il profitto non è il plusvalore, ma è il rapporto – esprimibile in percentuale (saggio) – tra il plusvalore e la somma di capitale costante e capitale variabile.

Per aumentare il profitto occorre aumentare la produttività  per aumentare la produttività occorre aumentare il plusvalore  per aumentare il plusvalore occorre aumentare il capitale costante (per l’acquisto di macchinari e tecnologie innovative)  poiché, oltre un certo limite, il capitale variabile non può essere ridotto e poiché il capitale costante è destinato ad aumentare, il saggio di profitto è destinato a diminuire (rapporto di proporzionalità inversa).

Capitale costante: capitale investito nelle macchine, nella loro manutenzione e innovazione. Capitale variabile: salari degli operai.

crescita – il proletariato – e il numero sempre più esiguo di capitalisti: «la produzione capitalistica – afferma Marx – genera essa stessa, con l’inevitabilità di un processo naturale, la propria negazione». Il fatto che lo sviluppo delle forze produttive stesse aumentando, ma al tempo stesso non diminuisse la miseria del proletariato, appariva a Marx la condizione per il sovvertimento dell’assetto capitalistico e la transizione a una nuova formazione economico-sociale. Marx prevedeva che una prima fase sarebbe stata caratterizzata dalla temporanea dittatura del proletariato, che avrebbe condotto all’abolizione delle classi. Al «regno della necessità» – proprio della società capitalistica – sarebbe così subentrato il «regno della libertà», il pieno sviluppo delle capacità umane, reso possibile anche da un uso alternativo delle macchine allo scopo di alleviare la fatica e di accorciare la giornata lavorativa, oltre che di aumentare la produttività. Nella Critica al Programma di Gotha Marx descrive questa nuova società, nella quale lo Stato non era più necessario, come il luogo in cui «il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». Alla prima fase, nella quale il motto è: «A ciascuno secondo il suo lavoro», sarebbe subentrato il comunismo pienamente realizzato, il cui motto è: «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».

APPROFONDIMENTO

l’avvento del comunismo

Il materialismo dialettico di Engels

Marx, nell’ultima fase della sua attività, concentrò tutte le sue forze nella stesura del Capitale. Engels invece si dedicò, da una

parte, alla divulgazione della teoria del materialismo storico e, dall’altra, all’analisi dei problemi delle scienze naturali e allo studio

delle formazioni economiche, sociali e politiche antecedenti al modo di produzione capitalistico. Marx ed Engels salutarono con

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entusiasmo la teoria dell’evoluzione di Darwin sia perché metteva fine a ogni concezione finalistico-antropocentrica della natura, sia perché sottolineava l’intreccio indissolubile tra storia della natura e storia degli uomini. Con essa la storicità appariva una prerogativa non soltanto dell’umanità, ma della natura in generale. Nell’Anti-Dühring Engels polemizza contro le concezioni positivistiche della scienza, per le quali la scienza è un sapere fuori dal tempo. In realtà, secondo Engels, anche la scienza è soggetta a un processo di evoluzione storica. Caduta la pretesa filosofica di raggiungere la verità assoluta, si è aperto lo spazio alle verità accessibili alle scienze positive e a una sintesi dei loro risultati mediante la dialettica. Attraverso teorie come quelle della convertibilità dell’energia in lavoro meccanico, della cellula biologica e dell’evoluzione, le scienze si sono sollevate al di sopra di un livello puramente empirico di raccolta di dati e hanno raggiunto un adeguato livello teorico, caratterizzato dalla formulazione di leggi. Secondo Engels esiste una dialettica della natura, non soltanto

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della storia. Per dialettica si devono intendere non soltanto le leggi del pensiero, ma le leggi esistenti oggettivamente nella realtà. Caratteristica costitutiva della materia è il movimento: di questo, secondo Engels, possono essere individuate tre leggi fondamentali. Esse sono: a) la conversione della quantità in qualità e viceversa; b) la compenetrazione degli opposti, per cui in una totalità a un elemento se ne trova opposto un altro che lo implica ed è, a sua volta, implicato dal primo (ad esempio le cariche elettriche opposte, l’attrazione e repulsione degli elementi chimici); c) la negazione della negazione, per cui ogni realtà è negata per dar luogo a una formazione più alta (ad esempio, il seme – cadendo su un terreno favorevole – è negato come seme, ma germogliando dà luogo alla pianta). Tra il mondo della natura e il mondo umano esiste per Engels intreccio e continuità, ma entrambi i mondi non sono realtà statiche, bensì dinamiche. Nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Engels afferma che lo Stato non è un’istituzione naturale

ed eterna, ma il prodotto di una società giunta a un determinato grado di sviluppo economico-sociale: l’esistenza dello Stato dimostra che tale società si è scissa in classi antagonistiche con interessi economici contrastanti . In particolare, lo scopo dello Stato moderno è di mantenere i rapporti di produzione capitalistici, ratificando democraticamente il dominio di classe mediante il suffragio universale, che tuttavia può diventare utile per la lotta rivoluzionaria del proletariato. Nell’Anti-Dühring Engels sostiene che il modo di produzione capitalistico conduce alla proletarizzazione della maggior parte della popolazione, la quale finirà per impadronirsi dello Stato, trasformando i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. È questa la fase della dittatura del proletariato, che tuttavia condurrà alla soppressione del proletariato in quanto classe e di ogni conflitto di classe. Nella fase matura del comunismo, dunque, avrà luogo non l’abolizione, ma l’estinzione dello Stato: «Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi».

9. La Seconda Internazionale gli «errori» di marx

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Alla fine dell’Ottocento il movimento operaio appare una forza in crescita; nel 1889 è costituita la Seconda Internazionale, che unisce tutti i partiti socialisti di orientamento marxista. All’interno di essa predomina la corrente che interpreta il processo storico come un’evoluzione graduale e inarrestabile verso il socialismo. Alcuni aspetti dell’analisi di Marx, tuttavia, non sembrano trovare immediato riscontro nella realtà, soprattutto non paiono verificarsi l’impoverimento crescente del proletariato e la crisi definitiva del capitalismo. In questa situazione, ci si comincia a chiedere se il modello marxiano di analisi della realtà economica, storica e sociale abbia ancora validità oppure necessiti di una revisione: nasce in tal modo – all’interno della socialdemocrazia tedesca – la tendenza chiamata revisionismo. 3. le eredità di hegel e il marxismo

Engels Nascita ed estinzione dello Stato

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Il principale esponente di essa è Eduard Bernstein (1850-1932), autore di un’opera intitolata I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899). Egli rileva che il capitalismo – anziché crollare – è riuscito a superare indenne le crisi, continuando a garantire i profitti, ma al tempo stesso migliorando le condizioni economiche e sociali del proletariato. In tal modo, la società – anziché polarizzarsi in due classi contrapposte – presenta anche una consistente classe media. Secondo Bernstein, questi errori di previsione della teoria marxiana devono essere imputati alla permanenza in essa di residui hegeliani, in particolare della dialettica, che si pone a un livello eccessivo di generalità, senza tener conto della realtà effettiva. A suo avviso, il socialismo può essere costruito soltanto attraverso un’evoluzione graduale, con una lotta politica e parlamentare e l’alleanza con le forze progressiste della borghesia. Ciò significa che la transizione al socialismo potrà avvenire soltanto attraverso le riforme.

per una transizione graduale e democratica verso il socialismo

In polemica col revisionismo si schierarono, da una parte, coloro che intendevano presentarsi come difensori del marxismo più ortodosso e, dall’altra, quanti scorgevano nella rivoluzione l’unica via per la transizione dal capitalismo al socialismo. Tra gli esponenti della prima direzione è Karl Kautsky (1854-1938). Nel suo scritto Etica e concezione materialistica della storia (1906), Kautsky fondava la propria fiducia nel crollo del capitalismo su una concezione evoluzionistica della storia, concepita come un processo articolato in tappe necessarie, che non potevano essere saltate con rivoluzioni premature. In questo senso egli avrebbe considerato la rivoluzione russa come l’ultima rivoluzione borghese, non come una vera e propria rivoluzione socialistica. La Russia, infatti, era un paese economicamente arretrato e non poteva arrivare al socialismo, se non passando attraverso la fase del capitalismo più sviluppato, che essa non conosceva ancora: secondo Kautsky, la storia non può fare salti. Ciò significa che nella società socialista sarebbero state conservate tutte le conquiste delle epoche precedenti. Da ciò scaturiva anche il rifiuto della violenza come metodo rivoluzionario.

quella russa non è stata una rivoluzione proletaria

Rosa Luxemburg (1870-1919), polacca di origine e appartenente alla corrente di sinistra della socialdemocrazia, era anch’essa ostile al revisionismo. Nel 1914 si schierò contro l’adesione del partito alla guerra e l’anno successivo fondò la Lega di Spartaco; nel 1919 venne uccisa a Berlino dai soldati inviati dal governo socialdemocratico a reprimere un’insurrezione operaia. Nella sua opera L’accumulazione del capitale (1913), la Luxemburg individua nell’imperialismo la condizione che porterà alla crisi decisiva del sistema capitalistico. Impadronendosi progressivamente di nuove aree di mercato, il capitalismo giungerà a un punto in cui non potrà più espandere ulteriormente il suo sistema di produzione: in questa situazione esso sarà destinato a crollare di fronte alla rivoluzione proletaria. Secondo la Luxemburg, la transizione al socialismo può avvenire non mediante la lotta politica parlamentare entro le istituzioni borghesi, ma soltanto attraverso la sollevazione spontanea delle masse, non pilotate dall’alto di un partito. Per questo nel 1917 la Luxemburg saluterà dapprima con entusiasmo la rivoluzione russa, ma non ne condividerà gli sviluppi in direzione della dittatura del proletariato.

crollo del capitalismo e ruolo delle masse

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10. Marxismo e rivoluzione russa la posizione di plechanov

Da tempo il marxismo aveva trovato ampia diffusione anche tra gli intellettuali russi. A ciò aveva contribuito in particolare, con numerosi scritti, Georgij Valentinovicˇ Plechanov (1857-1918), costretto a vivere all’estero dal 1880 al 1917 e primo traduttore in russo del Manifesto del partito comunista. Egli sosteneva che la Russia, fondamentalmente agricola e feudale, non era in grado di superare la fase borghese-capitalistica. Per questo, allo scoppio della rivoluzione in Russia nel 1917, continuò a considerare necessaria la collaborazione con la borghesia, la quale avrebbe contribuito a far uscire la Russia dalla sua arretratezza.

lenin: il ruolo del partito e la transizione verso il regno della libertà

Per questo aspetto egli si scontrava con Vladimir Il’icˇ Ul’janov, detto Lenin (1870-1924), convinto nel 1917 della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza. Per condurre a essa era necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso come avanguardia della classe operaia. Già nel 1902 – in Che fare? – Lenin aveva elaborato la sua concezione del partito, come gruppo fortemente cementato al suo interno dall’unità ideologica, disciplinato e centralizzato nelle sue decisioni ed efficiente sul piano operativo. Alla vigilia della vittoria della rivoluzione nel 1917 egli affrontava in Stato e rivoluzione la questione dei caratteri che avrebbe assunto il periodo di transizione al comunismo. Lenin riteneva necessaria una fase transitoria di dittatura del proletariato, caratterizzata dall’uso della forza per preparare il passaggio al regno della libertà. Infatti, il controllo operaio sulla produzione e la partecipazione dei lavoratori alla direzione dello Stato – attraverso la formazione dei Soviet (consigli) degli operai e dei contadini – avrebbero gradualmente condotto all’estinzione dello Stato stesso.

lenin: gnoseologia materialistica e dialettica della storia

Lenin individua i due elementi fondamentali della teoria marxiana nel materialismo e nella dialettica. In Materialismo ed empiriocriticismo (1909) egli sostiene che la materia, agendo sui nostri sensi, produce le sensazioni: ciò significa che le cose esistono indipendentemente dalle nostre sensazioni e dalla nostra coscienza. Non si può dunque affermare che esista una differenza di principio tra i fenomeni, ossia le cose come appaiono a noi, e le cose in sé, come pretendevano certe forme di kantismo. L’unica differenza rilevante è quella intercorrente fra ciò che è conosciuto e ciò che non lo è ancora. Esiste dunque una verità oggettiva assoluta, a cui ci si avvicina progressivamente: dire che la conoscenza è relativa equivale soltanto a dire che essa non ha ancora conseguito la verità totale, non che non esiste una verità unica. L’errore dei positivisti, dei neokantiani e degli empiristi consiste, secondo Lenin, nel considerare i dati della conoscenza come qualcosa di già costituito e invariabile. La realtà e il processo della conoscenza devono, invece, essere interpretati alla luce della dialettica. Su questo punto Lenin insisterà anche nei Quaderni filosofici, pubblicati postumi nel 1933, frutto anche della sua rilettura delle opere di Hegel. La dialettica – come già per Marx – permette di leggere la storia come lotta di classi, alla quale sarebbe seguito il momento sintetico della società senza classi.

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3. le eredità di hegel e il marxismo

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in poche... parole Pochi anni dopo la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, si formarono due scuole di pensiero – soprannominate destra e sinistra hegeliane – che interpretavano in modo diverso l’eredità filosofica del maestro, specialmente in relazione a tre temi: l’equazione di reale e razionale, il problema dello Stato e della religione. In particolare, gli esponenti della destra asserivano che ciò che si è storicamente realizzato ha una sua intrinseca razionalità, giustificando di fatto gli assetti politici e sociali esistenti. Gli esponenti della sinistra, invece, sostenevano che la razionalità non avesse trovato ancora pieno compimento nella realtà, promuovendo di fatto la critica e il superamento della situazione storica esistente. Tra i più importanti esponenti della sinistra hegeliana, possiamo annoverare Ludwig Feuerbach (1804-1872) e il giovane Marx. Il primo e il secondo sono accomunati dall’aspra critica rivolta alla filosofia hegeliana, accusata di capovolgere il concreto e l’astratto e di mistificare la realtà, trasformandola in una manifestazione necessaria dello Spirito. In particolare, Feuerbach accusa la filosofia hegeliana di essere una forma di teologia mascherata, che fa della Ragione un equivalente di Dio e la tratta come il protagonista assoluto della storia, dimenticando invece che il vero soggetto è l’uomo in carne e ossa, dotato di sensibilità e di bisogni. Di qui l’esigenza, condivisa da Marx, di ridare importanza alla base reale della vita dell’uomo e di «poggiare la dialettica sui piedi e non sulla testa». Marx eredita da Hegel e da Feuerbach il concetto di alienazione, ma lo utilizza per spiegare le caratteristiche del lavoro e la condizione del lavoratore nella società industriale moderna. Marx condivide le critiche di

Feuerbach alla religione, considerata come l’oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo, ma ritiene che la liberazione totale da essa si avrà solo attraverso la generale emancipazione dell’uomo come essere sociale. Per questo motivo, l’analisi della storia e della società non deve rimanere a livello di pura teoria, ma deve essere unita alla prassi, ovvero all’impegno di trasformazione concreta della realtà esistente. «I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo» (Tesi su Feuerbach, 11).

ne a chi detiene i mezzi di produzione; b) estraniato da sé, in quanto non considera il proprio lavoro come parte della sua vita reale; c) espropriato della sua essenza generica, ossia di ciò che lo rende propriamente uomo, il lavoro, che lo distingue dagli animali, e il suo rapporto con gli altri uomini. Nel Capitale egli avrebbe mostrato che l’introduzione delle macchine, contribuendo a un’ulteriore divisione del lavoro, incrementa l’alienazione dell’operaio, addetto ormai a una sola operazione e quindi costretto a un lavoro ripetitivo che lo obbliga ad adattarsi ai ritmi della macchina.

alienazione Letteralmente signi-

prassi Dal greco pràxis, «azio-

fica «diventare altro» o «cedere qualcosa di proprio (per esempio un diritto) ad altri». Il termine era stato ripreso da Hegel per caratterizzare un momento dello sviluppo dello spirito e precisamente il momento in cui l’Idea esce da sé e si oggettiva in qualcosa di «altro» (natura) rispetto al pensiero puro. A esso fa seguito il momento della disalienazione, ossia del ritorno dell’Idea a se stessa come spirito. Per Hegel, dunque, l’alienazione coincideva con l’oggettivazione nella natura, ossia con la relazione del soggetto con un oggetto altro da sé. Feuerbach ravvisava nella religione stessa una forma di alienazione, nel senso che in essa l’uomo come ente finito trasferisce le proprie qualità, moltiplicandole all’infinito, in un altro ente (Dio) considerato oggettivamente esistente. Anche Marx ritiene, come Feuerbach, che protagonista dell’alienazione sia l’uomo in carne e ossa e non lo spirito, come aveva sostenuto Hegel, ma individua il luogo proprio dell’alienazione nel modo di produzione capitalistico, fondato sull’industria. In questa situazione l’individuo è alienato in quanto è: a) espropriato del prodotto del suo lavoro, che appartie-

ne». Con questo termine Marx indica: 1) il lavoro che trasforma la natura; 2) le relazioni costitutive fra gli uomini. Il materialismo storico pone al centro della storia la prassi. Per «rovesciamento della prassi» si intende la relazione dialettica che si instaura tra la prassi stessa e i risultati a cui essa dà luogo. Questi ultimi infatti divengono, a loro volta, le condizioni di ulteriori sviluppi della prassi e così via.

Il punto di partenza del materialismo storico di Marx è che il lavoro – inteso come prassi trasformatrice della natura e produzione dei mezzi di sussistenza – è ciò che distingue l’uomo dall’animale. Per questo motivo, egli si propone di descrivere le varie forme che le attività produttive e la divisione del lavoro hanno assunto nella storia dell’umanità. Quest’ultima non è più, come per Hegel, il campo d’azione dello Spirito o dell’Autocoscienza, ma il teatro d’azione di uomini in carne e ossa, impegnati a produrre materialmente la loro esistenza e legati da precisi rapporti sociali. Per

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comprendere a fondo la società, secondo Marx, occorre studiare – più che le sue istituzioni politiche e sociali o i suoi modi di pensare – la sua struttura economica, e cioè la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione. I rapporti sociali e politici, le istituzioni giuridiche e religiose, le stesse produzioni culturali sono per Marx il frutto di determinate forme di organizzazione economica. A differenza degli hegeliani di sinistra, che attribuivano alle idee la capacità di condurre gli uomini all’emancipazione, Marx ritiene che i prodotti culturali siano per lo più «ideologici», e cioè espressioni della classe dominante, volte a fornire una rappresentazione deformata della realtà e a giustificare l’esistente.

materialismo storico Il materialismo di Marx ed Engels è diverso dalle forme tradizionali di materialismo – rilanciate nel Settecento francese e riprese anche da Feuerbach – secondo cui tutto ciò che esiste è materia (o corpo) o solo la materia e i corpi sono dotati del potere causale di produrre effetti. Per Marx ed Engels l’uomo è sì un’entità corporea dotata di sensibilità, ma è al tempo stesso capace di attività: costitutiva degli uomini è la prassi, grazie alla quale essi costruiscono se stessi nel tempo. Ciò che gli uomini sono dipende, infatti, dalle condizioni materiali nelle quali producono i loro mezzi di sussistenza instaurando un rapporto con la natura e con gli altri uomini. struttura Totalità o insieme di

elementi interdipendenti, tra i quali sussistono relazioni non causali, ma sistematiche e costanti, che possono essere individuate e studiate. Marx usa il termine struttura per indicare il complesso – storicamente variabile – dei rapporti di produzione, che determinano i caratteri assunti dai rappor-

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ti tra le classi sociali e dalle formazioni ideologiche (o sovrastruttura).

sovrastruttura In tedesco Überbau, da über, «sopra», e bau,

«costruzione»). Termine usato da Marx e nel pensiero marxista per indicare l’insieme delle istituzioni politiche e giuridiche, delle idee religiose, politiche, morali e filosofiche e delle produzioni artistiche e culturali, le quali dipendono – per i loro caratteri e per il loro funzionamento – dalla struttura economica, ossia dalla base reale – storicamente variabile – costituita dai rapporti di produzione.

ideologia Coniato originariamente per indicare lo studio delle sensazioni e della formazione delle idee, il termine è usato polemicamente da Marx ed Engels per indicare la funzione che le idee politiche, religiose, giuridiche, filosofiche – e in genere le produzioni culturali – possono svolgere nel giustificare la situazione di volta in volta esistente. Il presupposto di questa nozione di ideologia è la distinzione tra struttura e sovrastruttura. In base a essa, i modi di produzione dei mezzi di sussistenza della vita materiale determinano o, per lo meno, condizionano in maniera decisiva i rapporti sociali e politici e la stessa produzione delle idee. Ciò comporta che le idee circolanti in una determinata epoca storica sono le idee della classe dominante, e cioè di quella che possiede i mezzi di produzione. Quando le idee sono considerate un prodotto autonomo – anziché risultato di processi storici materiali – si perviene, anche senza averne coscienza, a mascherare i caratteri effettivi della realtà storica, fornendone immagini parziali o deformate, con la conseguenza di legittimare lo stato di cose esistente e, quindi, gli interessi della classe dominante. Compito dell’analisi storica – condotta in base ai presupposti del materialismo

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storico – è anche quello di smascherare il carattere ideologico che possono assumere le produzioni culturali. L’analisi delle società umane effettuata da Marx ha stabilito che il motore della storia è la lotta tra le classi. In particolare, egli vede nella rivoluzione francese la cesura tra il mondo medievale e quello moderno: le classi in conflitto erano l’aristocrazia, espressione di rapporti sociali e di proprietà di tipo feudale oramai al tramonto, e la borghesia. Secondo Marx, lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico è segnato dall’ascesa di questa nuova classe sociale, alla quale è tuttavia destinata a contrapporsi il proletariato industriale, e cioè un’ingente massa di forze produttive. Al proletariato spetta, secondo Marx, il compito di abbattere il dominio della borghesia, abolire una volta per tutte le classi sociali, la divisione del lavoro e la proprietà privata. A suo avviso, infatti, la proprietà privata è la principale causa dell’alienazione dell’uomo. La soppressione di ogni alienazione coinciderà, pertanto, con l’eliminazione della proprietà privata, che verrà completamente realizzata soltanto nella società comunista.

classe sociale Il concetto viene introdotto da Hegel, che lo designa tuttavia non con il termine Klasse, bensì con quello di Stand (ceto, stato sociale), talvolta erroneamente tradotto in italiano con «classe». Il termine Klasse viene invece usato da Marx per indicare la posizione occupata da un gruppo di individui all’interno dei rapporti di produzione. In particolare, nel modo di produzione capitalistico la separazione tra mezzi di produzione – che appartengono al capitalista – e forza-lavoro – che i proletari sono costretti a vendere per sopravvivere – determina la polarizzazione tra due classi anta-

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gonistiche: i capitalisti (o la borghesia) e il proletariato. Nell’acquistare coscienza di classe, il proletariato si assume il compito storico di eliminare lo sfruttamento e la divisione in classi, fondata su di esso, ossia di condurre alla realizzazione del comunismo.

plusvalore A differenza del ciclo

economico pre-capitalistico basato sul consumo, quello capitalistico è basato sulla ricerca del profitto: Marx lo descrive con la formula D-M-D’ (denaro-merce-più denaro). A suo avviso, il profitto del capitalista non si determina nel momento della circolazione o della vendita delle merci, bensì in quello della loro produzione. Le merci, infatti, vengono prodotte grazie alla forza-lavoro dei lavoratori che, nel moderno mondo capitalistico, è diventata a sua volta una merce. Per Marx, il profitto del capitalista si genera nel momento dell’acquisto di quella peculiare merce che è la forza-lavoro. In che modo? Il lavoratore riceve un salario che non corrisponde all’intero valore prodotto con il suo lavoro, ma solo a quello che serve ad assicurargli la sussistenza, la riproduzione e l’apprendimento delle competenze necessarie allo svolgimento dei suoi compiti. In altre parole, una parte del lavoro prestato dall’operaio serve ad integrare il suo salario, un’altra parte – chiamata da Marx pluslavoro – genera il plusvalore, ovvero un valore in più non retribuito e offerto gratuitamente al capitalista. Il plusvalore consiste, dunque, nel rapporto tra il tempo di pluslavoro e il tempo impiegato dal lavoratore per assicurarsi la sopravvivenza. Dal plusvalore deriva il profitto: quest’ultimo consiste nel rapporto tra il plusvalore e la somma tra il capitale variabile (speso dal capitalista per

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pagare i salari) e il capitale costante (speso per acquistare e far funzionare i mezzi di produzione). Per aumentare il profitto, il capitalista deve accrescere il plusvalore. Ciò è possibile in due modi: 1) tenendo i salari più bassi possibile, sebbene non si possa andare oltre la soglia della sussistenza dei lavoratori; 2) aumentando gli investimenti in macchinari sempre più rapidi ed efficienti (capitale costante). Emergono così, secondo Marx, le contraddizioni interne al capitalismo. a) Investendo parti sempre più consistenti del suo profitto nel capitale costante, il capitalista è destinato a totalizzare rendimenti via via decrescenti. b) Producendo una quantità eccessiva di merce che il mercato non è in grado di assorbire, si va incontro alle cosiddette crisi cicliche di sovrapproduzione. c) Si determina un contrasto tra il carattere privato dei mezzi di produzione e dei rapporti di proprietà e il carattere sociale della produzione. d) La conseguenza di ciò è la formazione di due classi sociali antagoniste: da una parte, un numero sempre più ristretto di capitalisti; dall’altra, una massa crescente di proletari sempre più poveri e sfruttati.

comunismo

Secondo Marx, il comunismo non è un’utopia, ma «la soluzione dell’enigma della storia», e cioè il risultato di numerosi secoli di lotta di classe. Nell’epoca a lui contemporanea, quella del capitalismo industriale, le classi sociali che si contrappongono sono la borghesia e il proletariato. A suo avviso, il progressivo impoverimento della classe operaia e le contraddizioni interne al sistema capitalistico avrebbero condotto alla rivoluzione e, quindi, alla dittatura del proletariato. Quest’ultima era vista da Marx come un

periodo di transizione, durante il quale si sarebbe giunti alla definitiva abolizione della proprietà privata, dello Stato borghese e delle classi sociali. Alla dittatura del proletariato sarebbe seguita la società comunista vera e propria. Nei Manoscritti economico-filosofici (1844) Marx distingue tra due forme di comunismo: 1) quello rozzo, fondato sulla negazione della civiltà e del progresso tecnico, aspira a recuperare la perduta semplicità dell’uomo povero e privo di bisogni; 2) quello da lui proposto invece mira alla liberazione di tutte le facoltà umane, così come si sono determinate nello sviluppo storico, tecnico e culturale dell’umanità. Nella futura società comunista, l’assenza di costrizione nei rapporti sociali dovrà permettere la libera affermazione dell’essenza sociale dell’uomo e lo sviluppo tecnico avrà come unici scopi quello di assicurare il massimo dominio sulla natura e di soddisfare il maggior numero possibile di bisogni. Anche nella Critica al Programma di Gotha (1875) Marx fa riferimento a due fasi della futura società comunista. La prima, riassumibile con il motto «A ciascuno secondo il suo lavoro», è caratterizzata dalla socializzazione dei mezzi di produzione e dal livellamento salariale, per cui ognuno riceve una quantità di beni equivalente al lavoro prestato, a partire da una misura uguale per tutti. La seconda, riassumibile con il motto «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», è caratterizzata da una superiore forma di uguaglianza, dal lavoro creativo (non costrittivo, come semplice mezzo di sostentamento), dal riconoscimento delle differenze individuali, dal perseguimento di tutte le potenzialità umane.

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i testi t5 Feuerbach / Religione e autocoscienza dell’uomo Feuerbach

L’essenza del cristianesimo

Introduzione cap. 2

Pubblicata nel 1841, un anno dopo la chiamata di Schelling a Berlino per insegnare Filosofia della rivelazione, e quindi nel pieno della restaurazione autoritaria, l’Essenza del cristianesimo di Feuerbach produsse un effetto liberatorio e suscitò entusiasmo tra i giovani hegeliani. «In quel momento – racconterà decenni dopo Engels – tutti fummo feuerbachiani». Lo scritto ha un andamento sistematico e si articola in due parti, volte a mettere in luce rispettivamente l’aspetto positivo e quello negativo della religione. Esse sono intitolate: a) la vera essenza, cioè l’essenza antropologica della religione; b) l’essenza non vera, ossia teologica, della religione. La religione rappresenta, infatti, la coscienza di ciò che l’uomo veramente è, e, in questo senso, la religione ha un contenuto positivo. L’aspetto negativo è che nella religione tale coscienza viene oggettivata ed estraniata in un essere trascendente rispetto all’uomo, a cui l’uomo stesso è asservito. Il brano che segue è tratto dall’Introduzione e riguarda il primo aspetto, ossia la radice antropologica della religione.

Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza che l’uomo ha dell’oggetto è distinguibile dalla coscienza che l’uomo ha di se stesso; ma trattandosi dell’oggetto religioso la coscienza e l’autocoscienza vengono senz’altro a identificarsi. L’oggetto sensibile è esterno all’uomo, quello religioso è in lui, a lui interiore, perciò è un oggetto che non si può scindere dall’uomo, così come non si può da lui scindere la consapevolezza di sé, la coscienza; è un oggetto intimo, anzi di tutti il più intimo, il più vicino. «Dio», dice per esempio Agostino, «ci è più vicino, più congiunto, e perciò anche più facilmente riconoscibile che non le cose sensibili e corporali»1. L’oggetto sensibile è in sé un oggetto indifferente, indipendente dai convincimenti, dal giudizio; l’oggetto della religione invece è un oggetto prescelto: è l’essere più pregiato, il primo, il più eccelso; per sua natura presuppone un giu1. Agostino, De Genesi ad litteram, V,

16. Feuerbach distingue la coscienza che l’uomo ha degli oggetti esterni e quella che ha di sé. L’oggetto divino, cioè Dio, ha la prerogativa di rappresentare questi due aspetti, identificati rispettivamente con la coscienza e l’autocoscienza, collegati tra loro. Dio, infatti, per un verso è nell’uomo, è la vera essenza dell’uomo, ma per l’altro è pro-

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dizio critico, la distinzione fra il divino e il non divino, fra il degno di adorazione e il non degno di adorazione. E qui perciò vale senza riserve la proposizione: ciò che l’uomo pone come oggetto null’altro è che il suo stesso essere oggettivato. Come l’uomo pensa, quali sono i suoi principî, tale è il suo dio: quanto l’uomo vale, tanto e non più vale il suo dio. La coscienza che l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé 2. Tu conosci l’uomo dal suo dio, e, reciprocamente, Dio dall’uomo; l’uno e l’altro si identificano. Per l’uomo, è Dio il proprio spirito, la propria anima; e ciò che per l’uomo è spirito, ciò che è la sua anima, il suo cuore, quello è il suo dio: Dio è l’intimo rivelato, l’essenza dell’uomo espressa; la religione è la solenne rivelazione dei tesori celati dell’uomo, la pubblica professione dei suoi segreti d’amore3. Ma da quanto abbiamo detto non si deve de-

iettato fuori dell’uomo, come se si trattasse di un oggetto o ente esterno all’uomo. 2. Il presupposto di questa tesi di Feuerbach è che nel caso di un oggetto privilegiato come Dio, ossia di un oggetto che l’uomo apprezza al massimo grado ed è perciò distinto da qualsiasi altro oggetto, si esprime, ma in forma oggettivata (cioè come un essere che

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esiste autonomamente), nient’altro che l’essenza dell’uomo stesso, i suoi pensieri e i suoi princìpi. 3. L’aspetto positivo della religione consiste dunque nel fatto di manifestare, anche se in forma oggettivata, la vera essenza dell’uomo. Ciò significa che la religione è la coscienza di ciò che l’uomo realmente è.

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durre che l’uomo religioso sia direttamente consapevole che la coscienza che ha di Dio sia la stessa autocoscienza del suo proprio essere, poiché appunto il non essere consapevole di ciò è il fondamento della vera e propria essenza della religione4. Per evitare questo equivoco diremo meglio: la religione è la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo. Perciò la religione precede sempre la filosofia, nella storia dell’umanità così come nella storia dei singoli individui. L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé 5. In un primo tempo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere, l’uomo, fuori da sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un secondo tempo come soggettivo e umano ciò che le prime religioni sono idolatrie per le religioni posteriori; queste riconoscono che l’uomo ha adorato il proprio essere senza saperlo. In ciò consiste il loro progresso, e di conseguenza ogni progresso nella religione è per l’uomo una più profonda conoscenza di se stesso. Ma ogni religione particolare che definisce idolatrie le sue più antiche sorelle, esclude se stessa – ed invero necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione – da questo destino, da questa natura universale della religione; soltanto alle altre religioni attribuisce ciò che pur sempre rimane – se pure in modo diverso – il vizio della religione in generale. Per il fatto di avere un altro oggetto, un altro contenuto, per il fatto di avere superato il contenuto delle religioni anteriori, immagina di essersi innalzata al di sopra delle leggi ne4. Nel momento in cui l’uomo diventa consapevole che la coscienza che egli ha di Dio è, in realtà, l’autocoscienza di ciò che egli, come uomo, realmente è, si è già fuori dalla religione e si penetra nel territorio della filosofia come antropologia, e non più come teologia. Infatti, è aspetto costitutivo della religione il fatto di ignorare, cioè di non essere consapevole del fatto che Dio e i suoi attributi esprimono soltanto l’essenza dell’uomo. Questo punto è precisato subito dopo dicendo che la religio-

cessarie ed eterne sulle quali si fonda l’essenza di ogni religione, immagina che il suo oggetto, il suo contenuto sia soprannaturale. Ma ciò che la religione da se stessa non può fare, cioè studiare la sua natura come un qualsiasi oggetto, può farlo il pensatore, che perciò penetra nell’essenza della religione e ne rivela ogni segreto6. Il nostro compito è appunto di mostrare che la distinzione fra il divino e l’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la distinzione fra l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo, e che per conseguenza anche l’oggetto e il contenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani. La religione, per lo meno la religione cristiana, è l’insieme dei rapporti dell’uomo con se stesso, o meglio con il proprio essere, riguardato però come un altro essere. L’essere divino non è altro che l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo, cioè dai limiti della corporeità e della realtà, e oggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere da lui distinto. Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono perciò qualificazioni dell’essere umano. GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali differenze Feuerbach rileva tra oggetto sensibile e oggetto religioso? Evidenzia la risposta sul testo. 2. Commenta la seguente affermazione: «la religione è la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo». 3. Qual è, secondo Feuerbach, il compito del filosofo? 4. Metti in luce analogie e differenze tra la nozione hegeliana di alienazione e quella avanzata da Feuerbach in questo brano.

ne è autocoscienza dell’uomo, ma non diretta, bensì indiretta (ossia attraverso l’oggettivazione dell’essenza dell’uomo in Dio). 5. Questa affermazione poggia su uno dei cardini della dialettica hegeliana, secondo la quale l’Idea si estrania da sé (nella natura) prima di tornare a sé, nella piena consapevolezza dello spirito. In questo passo Feuerbach identifica il terreno nel quale ha luogo l’estraniazione non tanto nella natura, quanto in Dio, oggetto della religione.

6. Anche nell’ambito della religione hanno luogo progressi e arricchimenti; tuttavia anche nella religione più pura e perfetta permane, secondo Feuerbach, il difetto costitutivo di proiettare in un ente estraneo i caratteri propri dell’essenza dell’uomo. Solo la filosofia è in grado di smascherare l’illusione che si cela nel cuore della religione: di qui deriva non soltanto il fatto che la filosofia nasce dopo la religione, ma soprattutto la sua superiorità rispetto a ogni forma di religione.

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t6 Marx / Alienazione e oggettivazione Marx

Manoscritti economicofilosofici del 1844

Primo manoscritto

Nel 1932 comparve a Mosca l’edizione di tre manoscritti di Marx con il titolo Manoscritti economico-filosofici del 1844: in essi è contenuto l’abbozzo di un’opera più ampia, progettata da Marx, che avrebbe dovuto comprendere anche la critica del diritto, della morale, della politica e concludersi con un altro scritto, nel quale sarebbe stata stabilita la connessione tra questi domini particolari e svolta una critica globale di essi. Nella parte effettivamente composta, Marx indaga le relazioni dell’economia con lo Stato, il diritto, la vita civile. Il primo manoscritto affronta le questioni del salario, del profitto del capitale, della rendita fondiaria e si conclude con l’analisi del lavoro alienato. A differenza degli economisti classici, Marx non intende descrivere una realtà economica fuori del tempo né assume la proprietà privata come un fatto ovvio, ma cerca di spiegarla come conseguenza del lavoro espropriato nella precisa situazione storica della produzione capitalistica.

La condizione economica attuale Noi partiamo da un fatto economico, attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere1. Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione 1. Caratteristica saliente del modo attuale di produzione, ossia della produzione industriale capitalistica, è che l’operaio, quanto più produce merci e quindi ricchezza, tanto più s’impoverisce e, quindi, tanto meno ha da consumare: nascono di qui le crisi di sottoconsumo e di sovrapproduzione, causate dall’assenza di sbocchi per le merci prodotte. Infatti, l’unica merce di cui l’operaio dispone, ossia se stesso e la propria capacità lavorativa, diventa, secondo Marx, sempre più a buon mercato, sicché egli si trova costretto a cedere la propria forza-lavoro a un prezzo sempre più ridotto: di qui deriva l’ab-

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del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione 2. La realizzazione del lavoro si palesa tale privazione che l’operaio è spogliato fino alla morte per fame. L’oggettivazione si palesa tale perdita dell’oggetto che l’operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari del lavoro. Già, lo stesso lavoro diventa un oggetto di cui egli può impadronirsi solo con lo sforzo più grande e le interruzioni più regolari. L’appropriazione dell’oggetto prodotto si palesa tale estraniazione che più oggetti l’operaio produce, meno può possederne e tanto più cade sotto il dominio del suo prodotto, del capitale3.

bassamento dei salari al minimo della sussistenza. Il mondo attuale risulta dunque un mondo capovolto, nel quale le cose, ossia le merci prodotte, vengono ad assumere maggior valore degli uomini che le producono. 2. Marx definisce il prodotto del lavoro lavoro oggettivato, fissato in un oggetto. Il lavoro umano non può non assumere la forma dell’oggettivazione, ossia estrinsecarsi in un prodotto, attraverso la trasformazione della natura. La specificità del modo capitalistico di produzione è che il prodotto è sottratto all’operaio, anzi appartiene a un altro, ossia al capitalista che ne ha acquistato

3. le eredità di hegel e il marxismo

la forza-lavoro, e pertanto si erge come un ente estraneo di fronte al lavoro dell’operaio, che pure lo ha prodotto. In questa situazione l’oggettivazione assume dunque immediatamente la forma dell’alienazione: l’operaio è espropriato del suo prodotto, che si trova ceduto a un altro. Per descrivere questa situazione è usato a volte anche il termine estraniazione (anch’esso di origine hegeliana), per indicare il divenire estraneo dell’oggetto prodotto rispetto al produttore. 3. L’aumento della produzione nel sistema industriale comporta un grado maggiore di espropriazione dei prodot-

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Espropriazione del prodotto del lavoro Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione: che l’operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che quanto più l’operaio lavora tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo modo interiore, e tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Più è grande questa sua facoltà e più l’operaio diventa senza oggetto. Ciò ch’è il prodotto del suo lavoro, esso non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso4. L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica. [...] Abbiamo finora considerato l’alienazione, l’espropriazione dell’operaio solo secondo un lato: quello del suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto della produzione, dentro la stessa attività producente. Come potrebbe l’operaio confrontarsi come un estraneo col prodotto della sua attività, se egli non si è estraniato da se stesso nell’atto della produzione stessa? Il prodotto non è che il résumé dell’attività, della produzione. Se, dunque, il prodotto del lavoro è la espropriazione, la stesti dell’operaio: essi, infatti, vanno ad accrescere il capitale che controlla il lavoro dell’operaio e, quindi, aumentano il dominio del capitale sull’operaio stesso. 4. Sono qui chiare le tracce della riflessione sulla religione di Feuerbach: l’oggetto prodotto è equiparato a Dio, sicché quanto maggiore è la potenza dell’oggetto, tanto minore è quella del soggetto e quindi è maggiore la sua spogliazione. Feuerbach identificava il soggetto con l’uomo in generale, mentre Marx lo identifica storicamente con

sa produzione dev’essere espropriazione in atto, o espropriazione dell’attività, o attività di espropriazione. Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume soltanto l’alienazione, l’espropriazione, dell’attività stessa del lavoro5.

Espropriazione del lavoro In che consiste ora l’espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d’altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. Come nella religione l’attività spontanea dell’umana fantasia, dell’umano cervello e del cuore umano, opera indipendentemente dall’individuo, cioè come un’atti-

l’operaio all’interno del modo di produzione capitalistico. 5. L’operaio è espropriato del suo prodotto, in quanto la sua stessa attività, consistente nel produrre tale oggetto, gli è stata sottratta, appartiene a un altro. Il capitalista, infatti, è colui al quale per sopravvivere l’operaio ha dovuto cedere la sua capacità lavorativa: in questa situazione il suo lavoro assume un carattere costrittivo, si configura come sacrificio, non come esplicazione delle facoltà umane nel loro rapporto con la natura. Ne deriva la conseguenza

che l’operaio percepisce il proprio lavoro come qualcosa di estraneo, che non gli appartiene, e trova in esso non la realizzazione, bensì la negazione di se stesso. Egli si sente in armonia con se stesso soltanto fuori dal lavoro, ossia a casa, nel tempo libero dal lavoro, sicché il lavoro non è più percepito come esplicazione di se stesso e soddisfazione di un bisogno, bensì soltanto come strumento per soddisfare bisogni che non hanno nulla a che fare col lavoro.

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vità estranea, divina o diabolica, così l’attività del lavoratore non è attività spontanea. Essa appartiene ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso. Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale, ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare, ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici6. [...]

Espropriazione dell’essenza umana Abbiamo ancora da trarre dalle precedenti una terza caratteristica del lavoro alienato. [...] La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso, per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura, non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, ché l’uomo è una parte della natura7. Poiché il lavoro alienato 1) aliena all’uomo la natura, e 2) aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all’uomo il genere; gli riduce così la vita generica ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo estrania l’una all’altra la vita generica e 6. Il modo di produzione capitalistico genera dunque la disumanizzazione dell’operaio, la sua riduzione a un livello di vita puramente animale. Marx aveva di fronte le miserabili condizioni di vita dei lavoratori dell’industria, descritte da molti economisti, in particolare dall’amico Engels. Egli intende precisare che le funzioni biologiche fondamentali sono proprie anche dell’uomo, ma diventano puramente animali quando sono isolate dal resto dell’attività umana e si pongono come l’unico obiettivo da perseguire.

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la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimente nella sua forma astratta e alienata. Giacché primieramente il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appare all’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita. Nel mondo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico. E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto mezzo di vita. L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c’è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è libera attività. Il lavoro estraniato sconvolge la situazione in ciò: che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza. La pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come consapevole ente generi-

7. L’uomo, in quanto entità corporea,

fa parte della natura, ma con la natura egli si trova in un rapporto attivo, che si esprime nel lavoro che trasforma la natura stessa e la rende disponibile alla sua sopravvivenza. Questo rapporto con la natura è dunque costitutivo del genere umano; l’alienazione, invece, sottraendo all’operaio l’attività in cui si esprime questo rapporto con la natura, ossia il lavoro, e i prodotti «naturali» a cui esso dà luogo, gli sottrae al tempo stesso la sua «vita generica» (in tedesco Gattungsleben), che lo qualifica co-

3. le eredità di hegel e il marxismo

me appartenente alla comunità del genere umano. In questa situazione, il lavoro non è più libera attività consapevole, espressione autentica dell’uomo nella sua distinzione dalle altre specie animali, ma si riduce a puro mezzo per la vita individuale: quest’ultima finisce allora per smarrire il suo legame naturale e storico con la dimensione sociale che qualifica propriamente l’essenza del genere umano (in tedesco Gattungswesen).

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co, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche, ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà del medesimo. L’animale produce solo se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo confronta libero il suo prodotto. L’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente, quindi l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come un ente generico. Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa opera sua, dell’uomo, e sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita generica dell’uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. Allorché, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua

8. Marx distingue nettamente fra alienazione e oggettivazione: la prima sottrae all’uomo la sua vita generica, ossia il tratto costitutivo del libero lavoro cosciente che modifica la natura, mentre l’oggettivazione è la forma che necessariamente il lavoro deve assumere e che qualifica l’uomo come «ente generico». Con questa espressione Marx intende sottolineare che l’uomo non è limitato, come gli animali, a condizioni particolari di vita, ma produce in modo libero e consapevole le condizioni di

produzione, è la sua vita generica che gli sottrae, la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura8. Egualmente, quando il lavoro alienato abbassa la spontaneità, la libera attività, ad un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica. La coscienza che l’uomo ha del suo genere si trasforma dunque, attraverso l’alienazione, in ciò: che la vita generica gli diventa mezzo. Il lavoro alienato fa dunque: 3) della specifica essenza dell’uomo, tanto della natura che dello spirituale potere di genere, un’essenza a lui estranea, il mezzo della sua individuale esistenza; estrania all’uomo il suo proprio corpo, come la natura di fuori, come il suo spirituale essere, la sua umana essenza; 4) che un’immediata conseguenza, del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell’uomo dall’uomo9. Quando l’uomo sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l’altro uomo. Ciò che vale del rapporto dell’uomo al suo lavoro, al prodotto del suo lavoro e a se stesso, ciò vale del rapporto dell’uomo all’altro uomo, e al lavoro e all’oggetto del lavoro dell’altro uomo. In generale, il dire che la sua essenza specifica è estraniata dall’uomo significa che un uomo è estraniato dall’altro, come ognuno di essi dall’essenza umana.

esistenza del genere a cui appartiene. Ciò significa che l’umanità è il prodotto dell’attività storica degli uomini e pertanto in determinate situazioni storiche l’uomo può trovarsi ad aver perso il suo essere autentico. L’espressione «ente generico» o «essenza dell’uomo» sarà in seguito abbandonata da Marx, forse perché troppo carica di risonanze filosofiche. 9. Marx ha sviluppato la sua argomentazione in progressione: dapprima ha mostrato che nel lavoro alienato l’uomo

è estraniato dal prodotto del suo lavoro e, di conseguenza, dalla sua stessa attività lavorativa; ma poiché la libera e cosciente attività lavorativa definisce l’essenza generica dell’uomo, il lavoro alienato gli sottrae quest’essenza e conduce l’operaio alienato ad attribuire un primato alla sua esistenza puramente individuale e privata. In tal modo, il lavoro alienato finisce per isolare l’uomo dagli altri uomini, estraniarlo da essi, spezzando il suo legame organico con tutti i membri del genere umano.

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Definisci il concetto marxiano di alienazione. 2. Ricostruisci il processo che porta l’operaio all’alienazione riprendendo i passi opportuni di questo testo. 3. Ricostruisci il ragionamento con cui Marx sostiene che l’alienazione dell’operaio ha origine nell’espropriazione del suo lavoro. 4. Evidenzia le espressioni che mettono in risalto gli effetti disumanizzanti che l’espropriazione del lavoro ha sull’operaio. 5. Che differenza c’è tra la lavorazione del mondo inorganico realizzata dall’animale e quella realizzata dall’uomo?

t7 Marx / Le tesi su Feuerbach Marx

Tesi su Feuerbach

Nei Manoscritti del 1844 Marx definisce Feuerbach «il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana»: Feuerbach ha avuto il merito di mostrare che la filosofia è «religione trasposta in pensieri» e, quindi, è anch’essa una forma di alienazione, a cui occorre sostituire il «vero materialismo», che ha il suo principio nel «rapporto sociale dell’uomo con l’uomo». Poco tempo dopo, nel 1845, Marx avverte la necessità di fare i conti anche con Feuerbach e stende in fretta brevi appunti per un lavoro ulteriore, non destinati alla pubblicazione: sono le 11 Tesi su Feuerbach, pubblicate nel 1888 da Engels, che ravviserà in esse il primo documento di una nuova «concezione del mondo», il materialismo storico. Si tratta di un testo che per un verso guarda al passato, fa un bilancio critico delle sue acquisizioni più significative, rappresentate dall’opera di Feuerbach, ma per l’altro guarda al futuro, indicando le linee portanti non solo di un nuovo metodo, ma anche di un nuovo modo di concepire la filosofia, non più come attività teoretica volta soltanto a comprendere il mondo, ma piuttosto come prassi trasformatrice della realtà.

1. Il difetto principale di tutti i materialismi che si sono susseguiti finora (ivi compreso quello di Feuerbach) è che ciò che ci si presenta, la realtà, la sensibilità viene concepito soltanto sotto forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività sensibile, umana, come prassi; non soggettivamente. Il lato attivo è stato quindi trattato astrattamente, in polemica col materialismo, dall’idealismo – che naturalmente non conosce l’attività reale, sensibile 1. Il materialismo di Feuerbach non si

distingue dalle forme tradizionali di materialismo, in quanto anch’esso riconosce il primato del sensibile e ravvisa nella sensibilità la proprietà essenziale dell’uomo, ma non la concepisce come attività (in greco pràxis) che si sviluppa storicamente nel tempo. Paradossalmente era stato l’idealista Hegel a rico-

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come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili – realmente diversi dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva. Nella Essenza del cristianesimo egli considera quindi schiettamente umano solo il comportamento teoretico, mentre la prassi viene concepita e descritta solo nella sua forma sordidamente giudaica. Egli non comprende quindi il significato «rivoluzionario» dell’attività pratico-critica1.

noscere l’importanza di questa dimensione attiva, pur attribuendola soltanto al pensiero, non alla sensibilità: Hegel aveva infatti interpretato l’attività del pensiero come una sorta di prassi spirituale, mentre la vera prassi, secondo Marx, è sensibile. A sua volta, Feuerbach, smarrendo questa dimensione di prassi, era rimasto impigliato nel pri-

3. le eredità di hegel e il marxismo

mato della teoria rispetto alla prassi. Nell’Ideologia tedesca, scritta poco dopo queste Tesi, si dirà incisivamente che «fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia sono per lui divergenti».

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2. Il problema se il pensiero umano abbia una verità oggettiva non è un problema teorico, ma pratico. Nella prassi l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e la potenza, la concretezza del suo pensiero. La contesa sulla realtà o la non realtà del pensiero – che è isolato dalla prassi – è un problema puramente scolastico2. 3. La dottrina materialistica dei mutamenti delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze devono essere cambiate dagli uomini, e che lo stesso educatore deve essere istruito. Detta teoria deve quindi scindere la società in due parti – di cui una è posta al di sopra della società stessa. La coincidenza del variare delle circostanze e dell’attività umana, ovvero autotrasformazione, può essere intesa e compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria3. 4. Feuerbach prende le mosse dal quel dato di fatto che è l’autoalienazione religiosa e lo sdoppiamento del mondo in due mondi, uno religioso ed uno profano. Il suo lavoro consiste nel dissolvere il mondo religioso nella sua base profana. Ma il fatto che la base profana si stacca da se stessa ed assegna a se stessa un regno indipendente nelle nuvole, questo fatto si può spiegare solo con l’intimo dilaceramento e con 2. Marx respinge il modo tradizionale d’impostare il problema gnoseologico in termini puramente teorici, come problema del rapporto tra pensiero e verità oggettiva. La verità è da lui concepita come risultato della prassi: vero è il pensiero che l’azione realizza, ossia il pensiero che si dimostra tale nella realtà delle cose trasformate dalla prassi. In questa tesi si avverte un’eco del principio hegeliano della connessione di reale e razionale, ma con un nuovo accento posto sulla prassi come anello di congiunzione tra pensiero e realtà. 3. Teorie del condizionamento ambientale sul pensiero e sui costumi degli uomini erano ampiamente diffuse nel Settecento. In queste impostazioni materialistiche il carattere dell’uomo era concepito come il prodotto della sua organizzazione biologica e delle circostanze ambientali. Corollario di questa impostazione era la tesi che l’educazione dei più dev’essere affidata a pochi individui illuminati. Questa impostazione, secondo Marx, presuppo-

la contraddizione interna di questa base profana. Quindi, dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il mistero della sacra famiglia, anche la prima deve essere distrutta teoricamente e praticamente4. 5. Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l’intuizione; ma egli non concepisce la sensibilità come attività pratica dell’uomo sensibile. 6. Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualche cosa di astratto che risieda nel singolo individuo. Essa, nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non procede alla critica di questa essenza reale, è quindi costretto: 1) ad astrarre dal corso storico, a fissare per sé il sentimento religioso ed a presupporre un individuo umano astratto, isolato. 2) L’essenza può quindi essere intesa soltanto come «genere», come generalità interna, muta, che collega in modo naturale molti individui5. 7. Feuerbach non vede quindi che anche il «sentimento religioso» è un prodotto sociale e che l’astratto individuo che egli analizza appartiene ad una determinata forma sociale6.

neva in qualche modo la staticità e immutabilità dei condizionamenti ambientali, trascurando il problema della loro trasformazione radicale, concepibile soltanto come prassi rivoluzionaria. Marx rimprovera quindi a queste forme di materialismo settecentesco, di cui Feuerbach è ancora portatore, di non tener conto della prassi storica dell’uomo come capacità di trasformare la natura e rivoluzionare i rapporti sociali. 4. Il lavoro di Feuerbach dev’essere proseguito: non basta eliminare l’alienazione religiosa, occorre eliminare l’alienazione più radicale che colpisce l’uomo e che consente di spiegare lo stesso costituirsi dell’alienazione religiosa: si tratta dell’alienazione del lavoro, che Marx aveva analizzato nei Manoscritti. 5. Questa tesi cruciale segna l’allontanamento netto dalle posizioni di Feuerbach e, in generale, da ogni impostazione del problema antropologico in termini esclusivamente filosofici e teo-

rici. Marx ritiene non più utilizzabile il concetto di «essenza umana», di cui aveva fatto uso nei Manoscritti, o meglio ritiene che non sia più interpretabile, alla maniera di Feuerbach, come qualcosa di astratto, un’essenza di tipo metafisico, soprastorico. Questa impostazione aveva condotto Feuerbach a presupporre l’esistenza di un individuo isolato, ma questa è per Marx soltanto un’astrazione fittizia, perché l’uomo è l’insieme dei rapporti sociali e l’individuo è costitutivamente inserito in una trama di rapporti sociali. Il legame tra gli individui, più che essere dato dalla loro appartenenza al «genere» umano, e quindi definibile a prescindere dalla storia in cui gli uomini sono coinvolti, dev’essere rintracciato nelle relazioni effettive che storicamente intercorrono tra essi. Solo in questo modo diventa possibile un’analisi critica dei rapporti sociali esistenti nel presente. 6. Anche il fenomeno religioso è per Marx un fenomeno storico e sociale: esso assume configurazioni storiche di-

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8. Ogni vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che inducono la teoria a ripiegare sul misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nel comprendere questa prassi. 9. Il punto più elevato a cui giunge il materialismo intuitivo, il materialismo cioè che non concepisce la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione dei singoli individui e della società civile. 10. Il punto di vista del vecchio materialismo è la società civile, il punto di vista del nuovo è la società umana o l’umanità sociale7. 11. I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo8. verse dipendenti da specifiche relazioni sociali tra gli uomini. Emerge qui un embrione della concezione materialistica, secondo cui le idee e, quindi, anche la religione non sono qualcosa che si genera da sé in completa indipendenza dalle condizioni materiali in cui gli uomini provvedono alla loro vita. 7. Marx contrappone il suo nuovo materialismo al vecchio, che al massimo giungeva a riconoscere l’esistenza della società civile, ma come un insieme di rapporti statici fuori dal tempo tra individui singolarmente presi. Ma in tal modo esso non riusciva ad andare al di là della situazione esistente e a co-

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che cosa consiste, secondo Marx, il carattere ideologico «di tutti i materialismi che si sono susseguiti finora (ivi compreso quello di Feuerbach)»? Qual è il modo che Marx indica per uscire da questa visione ideologica? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alle domande. 2. Qual è il rapporto tra prassi e verità illustrato da Marx nella tesi 2? 3. Nella tesi 6 Marx sostiene che l’uomo è «l’insieme dei rapporti sociali»; confronta questa tesi con quanto viene affermato nel brano tratto dall’Ideologia tedesca [ t8] e indica se vi sono state delle modifiche. 4. Commenta la tesi 11, uno dei passi più famosi di tutta l’opera marxiana.

glierne le contraddizioni che avrebbero portato all’instaurazione della «società umana», ossia alla piena realizzazione dell’uomo nell’insieme dei rapporti sociali. 8. In questa celebre tesi finale è tratta la conclusione di tutte le considerazioni precedenti. Se l’elemento decisivo del nuovo materialismo è nella prassi, concepita non come prassi individuale, ma sociale, è chiaro che la stessa filosofia partecipa al processo di disalienazione e di conquista dell’umanità sociale e della libertà non attraverso l’attività puramente teorica consistente nell’interpretazione e nella comprensione del

mondo com’è di fatto, bensì attraverso la prassi che trasforma questa realtà stessa. Si può notare che Marx non dice che occorre eliminare la filosofia, ma che essa non può identificare il proprio compito in un’interpretazione come puro lavoro teorico, che lascia sussistere il reale com’è, anche quando, come nel caso dei giovani hegeliani, si criticano le interpretazioni precedenti e le si sostituisce con altre. Il lavoro filosofico potrà trovare la sua legittimazione soltanto attraverso il suo inserimento nella prassi rivoluzionaria, volta alla trasformazione della realtà.

t8 Marx, Engels / Ideologia e classi sociali Marx, Engels

L’ideologia tedesca

parte I

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L’ideologia tedesca, composta tra la fine del 1845 e l’autunno del 1846, è il risultato di una riflessione comune di Marx ed Engels, anche se quest’ultimo sostiene di avere contribuito in misura minore. Essa nacque quando – raccontò Marx alcuni anni dopo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) – «decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca; di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel». Per difficoltà editoriali l’opera non fu pubblicata, sicché – prosegue Marx – «abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla critica roditrice dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi»: l’opera sarà pubblicata solo nel 1932. In buona parte è una critica a Bruno Bauer e a Stirner, ma in generale ai giovani hegeliani è imputato il fatto di credere che la vera rivoluzione avvenga nel pensiero, in una critica puramente teorica delle istituzioni e dei pregiudizi: questa posizione è qualificata come ideologia (termine che dapprima significava indagine sulle idee, in particolare sul modo in cui esse si formano). A ciò Marx ed Engels obiettano, soprattutto nella prima parte dello scritto,

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rimasta incompiuta, che le idee sono condizionate, nella loro formazione, dai rapporti sociali di produzione, attraverso i quali gli uomini si procurano i mezzi per la loro sussistenza.

E questi rapporti non sono statici o eterni, ma si sviluppano storicamente passando attraverso fasi caratterizzate da modi diversi di produzione e correlative forme di proprietà. Su questi presupposti si costituisce la «concezione materialistica della storia», a cui è strettamente legata una concezione della rivoluzione come trasformazione della realtà storica, economica e sociale, e non come rivoluzione e critica puramente intellettuale. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi 1. Il rapporto fra il livello della produ-

zione di idee e la sfera della produzione materiale, che è la base reale della vita degli uomini, è descritto mediante metafore come «intreccio», «emanazione», «manifestazione», ma l’espressione che forse esprime con maggior chiarezza questo punto è «condizionamento». Quel che rimane ancora indeterminato è se si tratti di un condizionamento necessario, nel senso che, dato un certo assetto economico, possa risultarne soltanto quella determinata produzione di idee o se possa sussistere un certo scarto tra i due piani. Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Marx denominerà l’insieme dei rapporti di produzione «struttura economica della società» e tutte le altre produzioni che si

corrispondono fino alle loro formazioni più estese1. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico2. Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi3; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. [...] Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produ-

elevano su questa base «sovrastruttura» e ribadirà che «il modo di produzione della vita puramente materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita». La precisazione «in generale» lascia supporre che la sovrastruttura non è deducibile in maniera necessariamente uniforme dalla struttura e che le specifiche modalità di relazione, che sempre sussistono tra i due piani, devono essere accertate di volta in volta per via empirica. 2. L’opera dei giovani hegeliani è qualificabile come «ideologia», in quanto, sostenendo il primato della coscienza sulle condizioni materiali di vita, capovolge i rapporti reali tra la base e la sovrastruttura. A sua volta, però, questo capovolgimento non è un’operazione

puramente arbitraria e soggettiva da parte dei giovani hegeliani: anch’esso, in quanto appartiene al livello della sovrastruttura, è l’esito di un processo storico reale e manifesta il fatto che è la realtà stessa a essere capovolta. Nella situazione storica del presente, infatti, le idee morali, politiche, filosofiche e così via appaiono dotate di vita autonoma, mentre nella realtà non lo sono. 3. Questo è un presupposto centrale della concezione materialistica della storia, ossia che non sempre ciò che gli uomini pensano o immaginano di se stessi è una descrizione veritiera e adeguata di ciò che essi realmente sono. Uno dei contrassegni dell’«ideologia» è anzi il mascheramento (conscio o inconscio) dei caratteri propri della realtà.

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zione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio4. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna»5. La divisione del lavoro, che abbiamo già visto6 come una delle forze principali della storia fi4. Dopo aver mostrato la dipendenza

della produzione delle idee dalla base economica, Marx ed Engels precisano che alle relazioni di dominio che si instaurano nella sfera economica e sociale corrisponde un analogo dominio nella sfera delle idee. Per chiarire questo punto è introdotta la nozione di classe: sul piano economico domina la classe che detiene i mezzi della produzione materiale e che pertanto assoggetta a sé la classe operaia; ma poiché la base materiale condiziona quella spirituale, allora la classe detentrice del potere nella sfera economica eserciterà analogo dominio anche nell’ambito spirituale. La conseguenza è che le idee dominanti, in quanto prodotto della classe dominante sul piano economico, saranno necessariamente l’espressione di questo dominio. 5. Secondo Marx ed Engels, una delle

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nora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria. [...] Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di

operazioni tipiche del pensiero ideologico e non scientifico consiste nel presentare come eterno, fuori del tempo e, quindi, dotato di validità assoluta e universale ciò che invece è soltanto storico, frutto di precise condizioni economiche e sociali e quindi destinato a perire insieme al perire di queste condizioni. 6. Prima si è mostrato che le forme di proprietà sono connesse a forme di divisione del lavoro che si susseguono nella storia: per esempio, tra città e campagna e poi tra industria e commercio. La divisione del lavoro tuttavia non s’instaura soltanto tra classi antagonistiche; talvolta essa può prodursi anche all’interno della classe dominante come divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. In questa situazione il lavoro intellettuale si configura come puramente ideologico, ossia come

3. le eredità di hegel e il marxismo

produzione di idee volte a legittimare il potere detenuto di fatto dalla classe dominante. Questa funzione, tuttavia, è subordinata e secondaria rispetto al lavoro manuale, ossia ai membri attivi della classe dominante, i capitalisti detentori dei mezzi di produzione. Il ruolo subordinato degli intellettuali può spiegare l’eventuale insorgere di contrasti con gli altri membri della classe dominante e il formarsi dell’illusione che le idee prodotte dagli intellettuali non siano quelle della classe dominante. In realtà, secondo Marx, questi contrasti apparenti cessano quando la classe dominante nel suo complesso è minacciata da una classe realmente antagonistica, ossia dal proletariato. Soltanto l’esistenza reale del proletariato come classe rivoluzionaria rende possibile la formazione di idee realmente, e non solo apparentemente, rivoluzionarie.

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queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante7. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro, per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell’intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante8. 7. È qui rifiutata una storia di pure idee, svincolata dall’analisi dei condizionamenti storici materiali che hanno reso possibile la produzione di tali idee. Questo tipo di storia è soltanto l’espressione di ciò che la classe dominante immagina a proposito del passato per poter dimostrare la propria superiorità. Ogni nuova classe che acquista posizione dominante tende, infatti, a presentare come parziali, legate a interessi puramente particolari, le

Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanta maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tende a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio. Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classe in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o «l’universale» come dominante. GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che presentano il concetto di ideologia. 2. Che effetti ha la divisione del lavoro all’interno della classe dominante? 3. «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». Illustra brevemente questo giudizio riportando le opportune citazioni che sostengono l’argomentazione marxiana. 4. Marx considera motore della storia la lotta di classe. Evidenzia sul testo le espressioni che sostengono questa tesi.

idee della classe che essa ha sostituito e le proprie, invece, come universali, espressione autentica degli interessi di tutta la comunità. Anche questa, secondo Marx ed Engels, è una delle operazioni tipiche del pensiero ideologico. 8. Nella fase iniziale in cui una classe è in lotta con la classe dominante e riesce a scalzarla dal suo dominio, gli interessi di cui essa è portatrice riguardano tutte le classi in quanto non sono dominanti. Così la vittoria della borghesia

sull’aristocrazia feudale è risultata vantaggiosa non soltanto alla classe borghese, ma anche a quella proletaria, consentendo a molti proletari di accedere alla classe borghese, che in tal modo ha allargato la sua base. Quando invece la nuova classe ha ormai consolidato il suo dominio, allora si sviluppano in maniera netta i suoi interessi particolari ed emergono di conseguenza nuove forme di lotta di classe.

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t9 Marx, Engels / Borghesia e proletariato Marx, Engels

Manifesto del partito comunista

passim

Redatto come programma per la Lega dei comunisti, il Manifesto del partito comunista fu pubblicato nel febbraio del 1848. Esso ha come destinatari in primo luogo i proletari, ai quali sono indicate le linee di un’azione unitaria di lotta. Non si tratta però di un progetto utopistico, in cui il comunismo sia presentato in termini puramente morali come ideale di giustizia e di uguaglianza. Il comunismo è anzi descritto come l’esito di un processo storico che ha il suo asse portante nell’affermazione della borghesia contro il vecchio mondo feudale e nell’instaurazione del modo capitalistico della produzione industriale, che porta alla formazione di una sempre più ampia classe operaia e alla conseguente lotta di classe. Ciò significa che proprio dalla vittoria della borghesia nascono le condizioni per un nuovo passo in avanti nella storia del mondo, ossia la costituzione della classe destinata ad abbattere la borghesia stessa, per eliminare tutte le classi e dar luogo alla società comunistica: una società contrassegnata proprio dalla scomparsa dei conflitti tra le classi che sinora hanno dominato la storia.

Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi1. Quale partito d’opposizone non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari governativi; qual partito d’opposizione non ha rilanciato l’infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari?2 Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e 1. Il termine «spettro» è usato ironi-

camente per indicare, da una parte, l’immagine fittizia che i reazionari hanno del comunismo e, dall’altra, la paura che esso provoca in loro. Il papa era allora Pio IX, mentre Metternich era una delle figure più rappresentative della restaurazione e della rinnovata alleanza fra trono e altare dopo la caduta di Napoleone. Guizot, invece, era sostenitore di idee liberali, ma anch’egli ostile al comunismo, come del resto i democratici filorepubblicani francesi. Quanto allo zar di Russia, Marx ed Engels videro sempre in esso la punta più avanzata dell’oscurantismo europeo. 2. Il termine «comunista» era diventa-

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che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso. A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese. La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi3. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche anteriori della storia troviamo

to un termine valutativo di tipo negativo, usato per denigrare i propri avversari politici. Obiettivo del Manifesto sarà di fornire un’idea non distorta di che cosa sia realmente il comunismo. 3. È qui enunciato uno dei princìpi cardine della concezione materialistica della storia: la lotta delle classi è stata sinora il motore della storia ed è, al tempo stesso, il presupposto che deve orientare l’interpretazione del processo e dei mutamenti storici. Nel testo non è detto chiaramente che cosa si deve intendere per «classe», ma in generale il termine indica tutti coloro che occupano una posizione identica o simile all’interno di un determinato assetto

3. le eredità di hegel e il marxismo

economico e sociale; quando essi acquistano anche coscienza di questa loro posizione e di essere legati da interessi comuni con quanti la condividono, allora si pongono anche le basi per il loro costituirsi in un partito organizzato. Il testo presenta dapprima una concezione dicotomica delle classi come caratteristica di ogni epoca storica, proprio per sottolineare l’antagonismo fra due classi di oppressori e oppressi; ma poco dopo, a proposito delle «epoche anteriori della storia», si parla di una gradazione o gerarchia sociale, più complessa della semplice dicotomia.

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quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato4. [...] Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne 4. Le epoche antecedenti all’affermazione del dominio della borghesia sono caratterizzate da una grande articolazione di ordini o ceti: ciò serve a mostrare quanto la divisione delle classi si sia polarizzata in senso dicotomico nell’epoca moderna e si sia quindi radicalizzata la lotta di classe. L’età moderna è contrassegnata dal contrasto fra la borghesia, ossia, preciserà Engels, «la classe dei capitalisti moderni che sono proprietari dei mezzi della produzione sociale e impiegano lavoro salariato», e il proletariato, ossia «la classe degli operai salariati, che non possedendo nessun mezzo di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere» . Successivamente, Marx ed Engels spiegano come, a partire dal-

alef

Marx Capitale e lavoro salariato

vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato5. Con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio6. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima ad imparare. Quindi le spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro [...]. L’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in

la città medievale, si sia storicamente formata la borghesia e come il suo sviluppo abbia condotto alla creazione di un mercato mondiale e alla formazione del proletariato, cioè della classe destinata a distruggerla. 5. Il mercato è il luogo in cui le merci sono scambiate e ricevono un prezzo. Per sopravvivere il proletariato è costretto a vendere la sua forza-lavoro come merce, ma per poter essere venduta essa deve trovare acquirenti (i capitalisti), sicché per poter continuare a trovare lavoro, ossia a vendere la propria forza-lavoro, i proletari debbono accrescere il capitale dei loro acquirenti. 6. Ritorna il tema dell’alienazione, ampiamente trattato nei Manoscritti

[t6], ma in connessione al tema delle macchine. L’introduzione delle macchine nella produzione industriale le rende il principale fattore produttivo, relega l’operaio a una funzione puramente accessoria rispetto a esse e riduce il prezzo della merce venduta dall’operaio, ossia la sua forza-lavoro. Questo prezzo, ossia il salario, viene così a ridursi al costo minimo per garantire la sussistenza dell’operaio stesso: ne deriva un immiserimento crescente del proletariato e si pongono, quindi, le premesse per un sovvertimento radicale della società. La tesi dell’immiserimento progressivo resterà uno dei punti più controversi delle successive discussioni sul marxismo, sino al Novecento.

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una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società. La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro7. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai

7. Come tutte le merci vendute sul mercato, anche la forza-lavoro è sottoposta alla concorrenza: quanto maggiore è l’offerta di una merce, tanto minore sarà il prezzo pagato per essa. Di qui scaturisce la competizione tra gli operai costretti a vendere la loro forzalavoro; tutto dunque farebbe pensare alla loro impossibilità di associarsi e condurre una lotta comune. Lo sviluppo del capitalismo, invece, dando luogo

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piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili8. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è lo «spettro» che si aggira per l’Europa? 2. Qual è il postulato fondamentale del materialismo storico, enunciato da Marx ed Engels in questo brano? 3. Ricostruisci il processo che ha determinato la condizione di «alienazione» dell’operaio nella società borghese e gli effetti che questo processo continua a produrre su tale condizione. 4. Perché il «tramonto» della borghesia «e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili»?

alla formazione della grande industria e quindi alla concentrazione di grandi masse in un unico luogo di lavoro, legate da un comune interesse, pone involontariamente le condizioni perché queste masse si associno e si organizzino per sovvertire la borghesia. 8. L’aggettivo «inevitabile» sottolinea che il processo storico che condurrà alla vittoria del proletariato ha un carattere di necessità, non può non conclu-

3. le eredità di hegel e il marxismo

dersi con tale esito. Anche questo sarà un punto assai dibattuto nelle discussioni successive sul marxismo, in connessione anche al problema se la rivoluzione e la transizione al comunismo abbiano un carattere puramente oggettivo, ossia dipendano dallo sviluppo delle forze produttive e quindi dalla dinamica economica, oppure dipendano anche dal fattore soggettivo della coscienza di classe.

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esercizi/3 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia i principali esponenti della destra e della sinistra hegeliana. 2. Evidenzia i termini della critica di Feuerbach alla filosofia hegeliana. 3. Evidenzia quali sono gli aspetti della teoria del sensibile elaborata da Feuerbach. 4. Evidenzia le opere frutto del sodalizio intellettuale di Marx e di Engels. 5. Evidenzia il ruolo attribuito da Marx al proletariato nelle sue diverse opere. 6. Evidenzia la concezione dello Stato elaborata da Marx. 7. Evidenzia i caratteri essenziali della «concezione materialistica della storia». 8. Evidenzia le forme di proprietà che, secondo Marx, si sono susseguite nella storia. 9. Evidenzia le posizioni dei pensatori marxisti, citati nel manuale, ostili al revisionismo. Dizionario filosofico 10. Definisci i seguenti concetti: antropologia (Feuerbach) • alienazione (Marx) • comunismo • lotta di classe • ideologia • capitale (costante e variabile) • plusvalore • materialismo dialettico (Engels) • revisionismo (Bernstein) • dittatura del proletariato (Lenin)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 11. A partire da quale avvenimento storico si determinano gli opposti schieramenti della destra e della sinistra hegeliane? 12. Qual è la posizione dei giovani e dei vecchi hegeliani in merito al problema dello Stato? 13. Con quali argomentazioni Feuerbach sostiene

esercizi/3

che Dio è solo una proiezione sublimata dei bisogni umani? 14. Che differenza c’è, secondo Marx, tra emancipazione politica ed emancipazione umana? 15. Che differenza c’è fra «valore d’uso» e «valore di scambio» delle merci, secondo Marx? 16. Definisci il fenomeno del feticismo delle merci, proprio del modo di produzione capitalistico. 17. Qual è il ruolo che Marx assegna alla «dittatura del proletariato»? 18. In che cosa consiste, secondo Marx, il «regno della libertà»? 19. Illustra la concezione della verità sostenuta da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo. Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 20. Perché, secondo Feuerbach, la filosofia di Hegel non è altro che «teologia filosofica»? 21. Qual è la differenza fra il concetto di «alienazione» di Feuerbach e quello di Marx? 22. In che modo Marx interpreta la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele? 23.A cosa conduce l’inversione della dialettica hegeliana promossa da Marx? 24. Illustra la concezione marxiana di «lavoro». 25. In che modo Marx argomenta la tesi che l’economia rappresenta la «struttura» fondamentale di una società? 26. In che modo Hegel, Marx ed Engels definiscono la dialettica? Metti in evidenza analogie e differenze. 27. Che differenza c’è tra il ciclo economico delle società precapitalistiche e quelle capitalistiche? 28. Quali conseguenze trae Marx dall’enunciazione della «caduta tendenziale del saggio di profitto»? 29. Quali caratteristiche dovrà avere la società comunista derivante dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione? 30. Quali aspetti dell’analisi economica di Marx non hanno trovato riscontro nella realtà, secondo Bernstein?

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anche se si applica alla società e non alla natura. bentham e l’utilitarismo

Il principio fondamentale dell’utilitarismo è che le azioni degli uomini debbano essere valutate in base all’aumento della felicità individuale e sociale che sono in grado di produrre. Il suo iniziatore è Bentham, secondo il quale il piacere è il parametro per valutare l’utilità delle cose. Poiché il piacere è quantificabile, è possibile elaborare un’algebra morale che consenta di ottenere il duplice obiettivo della massimizzazione del piacere e della minimizzazione del dolore. mill: induzione e uniformità della natura

4. il positivismo i contenuti i caratteri generali del positivismo

Tra Sette e Ottocento la cultura francese vede rifiorire molte discipline scientifiche, dalla matematica alla fisica, dalla chimica alla biologia. In questa temperie si sviluppa il positivismo, che fa propria l’esigenza di rischiaramento dell’Illuminismo vedendo nella scienza e nella riforma della società le due condizioni per la sua realizzazione. L’assunto fondamentale del positivismo è che oggetto della scienza possano essere soltanto i fatti accertabili empiricamente e che il compito della conoscenza scientifica sia quello di scoprire le leggi, cioè le connessioni costanti tra i fatti.

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comte e la legge dei tre stati

In particolare Comte ritiene che lo stato positivo sia il termine finale di un processo di sviluppo – relativo sia all’individuo sia alla specie – che vede come momenti precedenti lo stato teologico, in cui si cerca di conoscere l’essenza delle cose riferendole a entità soprannaturali, e lo stato metafisico, in cui le cause prime vengono ricondotte a entità astratte immanenti alla natura. Comte ritiene anche che le scienze pervengano allo stato positivo secondo un ordine logicocronologico definito dal criterio della decrescente semplicità e generalità. L’ordine di successione è quindi il seguente: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. Quest’ultima viene intesa come «fisica sociale», cioè come una disciplina che ha la stessa oggettività della fisica,

4. il positivismo

Nel Sistema di logica deduttiva e induttiva Mill espone la sua teoria dell’induzione, rimasta fondamentale nella storia dell’epistemologia contemporanea. Egli ritiene che il procedimento deduttivo non sia efficace, perché le premesse maggiori del sillogismo sono valide soltanto se sono a loro volta ricavate osservando casi particolari. L’induzione è invece un’inferenza produttiva, in quanto consente di estendere a tutti gli individui della stessa classe (cioè di generalizzare) osservazioni che sono state verificate soltanto in alcuni casi. Ciò che permette di operare questa generalizzazione è il principio dell’uniformità della natura, il quale è tuttavia esso stesso il risultato di una induzione, ossia di una generalizzazione così ampia da comprendere tutti i fenomeni. filosofia e biologia

L’evoluzionismo è l’indirizzo di pensiero che ammette una progressiva trasformazione delle specie. Per Lamarck l’evoluzione delle specie è influenzata dal clima e dall’ambiente, che producono modificazioni fisiche trasmissibili ereditariamente. Ma la teoria contemporanea dell’evoluzione è legata al nome di Darwin, per il quale le modificazioni non sono

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causate dall’ambiente, ma da mutazioni di ordine casuale, successivamente sottoposte a una selezione naturale. Poiché in natura non sussistono risorse sufficienti per tutti e conseguentemente vige la lotta per l’esistenza, soltanto i più adatti sopravvivono, trasmettendo poi ereditariamente le loro qualità. Applicata dapprima alle specie subumane, la teoria dell’evoluzione viene successivamente estesa anche all’uomo.

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spencer e la teoria dell’evoluzione

Formulata da Darwin sul piano scientifico, la teoria evolutiva riceve uno sviluppo filosofico da Spencer. Egli ritiene che la conoscenza umana proceda per generalizzazioni successive. I risultati più generali a cui giungono le singole scienze sono a loro volta unificabili dalla filosofia nella legge dell’evoluzione, che vale per tutti i fenomeni, appartengano essi al mondo inorganico, a quello

organico o a quello superorganico (cioè sociale). Spencer ritiene che le generalizzazioni compiute dalle singole scienze – e sistemate sinteticamente dalla filosofia – non possano varcare il limite dell’Inconoscibile. Quest’ultimo può soltanto essere venerato dalla religione.

gli strumenti in poche… parole positivo / induzione / liberalismo / selezione naturale

approfondimenti Lo sviluppo delle scienze in Francia tra Sette e Ottocento Lo sviluppo delle scienze della vita Il positivismo in Germania e in Italia

i testi a. nel manuale

b. on-line

t10 Comte/La teoria dei tre stati t11 Mill/Che cos’è l’utilitarismo t12 Darwin/La lotta per la vita t13 Spencer/La legge dell’evoluzione

Comte/La classificazione delle scienze Mill/La critica al sillogismo Mill/L’uniformità della natura Spencer/Società militari e società industriali

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Caratteri generali del positivismo coordinate storiche e geografiche

Lo sviluppo delle scienze avvenuto in Francia tra Settecento e Ottocento [  approfondimento, p. 85] costituisce lo sfondo culturale da cui emerge la filosofia del positivismo. Questo movimento filosofico e scientifico nasce in Francia all’indomani del congresso di Vienna, in piena età della restaurazione. Più tardi – attorno alla metà dell’Ottocento – esso si svilupperà anche in Inghilterra, in Germania e in Italia, assumendo configurazioni diverse rispetto alla sua matrice francese.

fatti e metodo scientifico

Il carattere fondamentale del positivismo è la riconduzione di ogni forma di conoscenza a un sapere positivo , cioè fondato su fatti empiricamente accertati e scientificamente connessi in un sistema di leggi. La ricerca deve sempre iniziare con l’osservazione e la descrizione dei fatti, considerati come il solo oggetto di una conoscenza autenticamente scientifica. La spiegazione dei fatti così appurati, nonché la previsione di quelli futuri, è quindi possibile attraverso la scoperta delle leggi – cioè delle relazioni costanti tra i fenomeni – e la verifica empirico-sperimentale delle leggi stesse. Ogni forma di conoscenza che si discosti da questa metodologia deve essere respinta come falsa o fantastica.

differenze e affinità con l’idealismo e con il romanticismo

Il positivismo rappresenta perciò una reazione tanto all’idealismo, del quale combatte il tentativo di ricondurre la realtà al pensiero, quanto al Romanticismo, del quale rifiuta soprattutto l’attribuzione di validità conoscitiva all’intuizione artistica e poetica. D’altra parte, è stato osservato come il positivismo condivida con entrambi questi movimenti alcune istanze fondamentali. Con l’idealismo avrebbe in comune la concezione immanentistica della realtà, mentre dal Romanticismo mutuerebbe una certa aspirazione verso l’assoluto, ricercato ora nella scienza anziché nella poesia. In realtà, i legami del positivismo con la tradizione idealistico-romantica appaiono piuttosto tenui, se si tiene conto, invece, della sua diretta filiazione dall’Illuminismo settecentesco.

positivismo e illuminismo

Con il movimento illuministico il positivismo ha infatti in comune i seguenti punti: a) il rigoroso empirismo gnoseologico; b) la stretta correlazione tra filosofia e scienza; c) l’organizzazione enciclopedica del sapere; d) la funzione pratica della conoscenza, finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità; e) la concezione della storia come progresso.

la fiducia nella scienza e nel progresso

All’inizio dell’Ottocento, le scienze – soprattutto quelle biologiche – erano assai più avanzate di quanto non fossero nell’età dell’Illuminismo. Inoltre, l’analisi scientifica dei fenomeni cominciava ad allargarsi dall’ambito naturale a quello sociale: accanto alla fisica, alla chimica, alla biologia, cominciavano ad acquisire un più preciso statuto epistemologico discipline come la sociologia, la psicologia e l’antropologia. Ciò consente ai positivisti di nutrire maggiori certezze sull’infallibilità della conoscenza scientifica e sulla sua progressiva estensibilità a tutte le sfere della conoscenza umana.

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2. Comte: l’articolazione del sapere L’iniziatore del positivismo è generalmente considerato Auguste Comte. Nato a Montpellier nel 1798, studiò all’École polytechnique di Parigi. Nel 1816, poiché la Scuola fu temporaneamente chiusa per ragioni politiche,

APPROFONDIMENTO

la formazione

Lo sviluppo delle scienze in Francia tra Sette e Ottocento

Nei primi decenni dell’Ottocento si assiste in Francia a un vigoroso sviluppo delle scienze, anche in virtù del potenziamento delle istituzioni scientifiche operato dai governi rivoluzionari e da Napoleone. Il piemontese Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) nella Meccanica analitica (1811) si serve del calcolo infinitesimale per operare una compiuta matematizzazione della meccanica, riformulando le nozioni di velocità, accelerazione, forza e così via nei termini di derivate e integrali di funzioni. Mediante il solo calcolo egli deduce – senza far ricorso a figure – tutte le proprietà della meccanica, tradotta così in una disciplina matematica a carattere deduttivo. Pierre Simon de Laplace (17491827) assume le leggi della meccanica analitica come fondamento per il suo sistema cosmologico nella Esposizione del sistema del mondo (1796), formulando l’ipotesi dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa primitiva. Alla base della cosmologia di Laplace – che non ritiene necessaria l’«ipotesi» di Dio e di un suo intervento nel mondo – vi è una concezione rigorosamente deterministica, secondo la quale ogni stato o evento dell’universo è conseguenza di stati ed eventi precedenti e causa di quelli successivi. Se l’uomo fosse in grado di conoscere con esattezza tutte le forze operanti nella natura in ciascun istante, egli potrebbe prevedere con altrettanta esattez-

za gli stati e gli eventi futuri. La necessità di formulare previsioni probabili dipende esclusivamente dall’ignoranza dei dati necessari per una previsione certa. In questo periodo si aprono anche nuovi campi d’indagine, come la teoria del calore e della sua propagazione attraverso i corpi e il vuoto, di cui Joseph Fourier (1768-1830) dà una formulazione in termini matematici. La termodinamica, come calcolo della quantità di lavoro ottenibile da determinate quantità di calore, riceve una prima formulazione da parte di Sadi Carnot (1796-1832). Quest’ultimo individua il presupposto del cosiddetto «primo principio della termodinamica», ossia il fatto che la trasformazione del calore in energia meccanica comporta una dispersione termica. Anche l’elettrologia diventa un capitolo della fisica matematica e la scoperta della pila da parte dell’italiano Alessandro Volta (17451827) permette di condurre una pluralità di esperimenti che confermano le connessioni tra fenomeni elettrici e fenomeni magnetici. Sulla base del concetto di corrente come quantità misurabile André-Marie Ampère (17751836) pone i fondamenti dell’elettrodinamica con la sua Teoria dei fenomeni elettrodinamici (1828). Non in tutti i settori dell’indagine fisica domina la concezione newtoniana di una composizione corpuscolare dei corpi. L’interpretazione della luce come effetto

dell’emissione di corpuscoli non appare in grado di spiegare la corrispondenza tra i fenomeni di rifrazione e i diversi colori (o le diverse intensità luminose) a cui essi danno luogo. In opposizione alla teoria corpuscolare, AugustinJean Fresnel (1788-1827) formula pertanto l’ipotesi che la luce sia il risultato di un moto ondulatorio dell’etere, simile alle onde prodotte da un sasso lanciato nell’acqua. Dove, invece, il modello corpuscolare s’impone definitivamente è nella chimica. Già Lavoisier aveva mostrato che l’elemento chimico è la sostanza che permane invariata attraverso le relazioni e le trasformazioni chimiche. Sulla sua linea si pone Claude-Louis Berthollet (1748-1822), che fornisce anche importanti contributi alla chimica applicata. Il torinese Amedeo Avogadro (1776-1856), infine, pone le basi per pesare gli atomi, assumendo come unità di misura il peso dell’atomo di idrogeno. In tal modo, la teoria della composizione atomica dei corpi riceve una trattazione in termini matematici. Ma il grande sviluppo delle scienze in Francia non si limita alle discipline fisiche e chimiche. Anche le scienze naturali ricevono un forte impulso dalla nuova temperie culturale: ne consegue un approfondimento degli studi biologici che conduce alla nascita di nuove scienze come la paleontologia e l’anatomia comparata.

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interruppe gli studi. A iniziare dal 1817 svolse l’attività di segretario di Saint-Simon, collaborando alle sue iniziative editoriali. Tra i due si stabilì ben presto un intenso scambio intellettuale: se da un lato Comte deve a Saint-Simon [  approfondimento, p. 45] il perfezionamento della propria cultura filosofica e scientifica, dall’altro è difficile stabilire quanto – nella concezione sainsimoniana della società industriale – sia dovuto al giovane allievo-segretario. vicende accademiche e stesura del corso di filosofia positiva

Nel 1824 Comte interruppe la sua collaborazione con Saint-Simon. Continuando a imporsi una severa disciplina di studi – nel 1826 escono le Considerazioni sul potere spirituale – egli tentò inutilmente di ottenere una cattedra all’École polytechnique, che aveva nel frattempo ripreso l’attività. Più tardi riuscirà a diventare soltanto «ripetitore» (funzione pressoché equivalente a quella di assistente) e poi «esaminatore» nelle commissioni per l’ammissione alla Scuola. Pensò allora di tenere privatamente, nel proprio appartamento, un «corso di filosofia positiva». Comte mise per iscritto le lezioni che furono pubblicate – tra il 1830 e il 1842 – con il titolo appunto di Corso di filosofia positiva (sei volumi). Le tesi fondamentali del Corso saranno riprese anche, in forma più popolare, nel Discorso sullo spirito positivo (1844). La fatica sostenuta per redigere le lezioni, oltreché le gravi difficoltà finanziarie e le vicissitudini sentimentali – aveva sposato una ex prostituta che lo abbandonò più volte – furono la causa di una grave crisi nervosa, che lo costrinse dapprima a un ricovero in clinica e poi, uscitone non guarito, lo spinse a un tentativo di suicidio.

la svolta religiosa e conservatrice

L’ultima fase del pensiero di Comte è caratterizzata da una svolta in senso religioso – già evidente nel Discorso sull’insieme del positivismo (1848) – e da un più accentuato conservatorismo politico. Quest’ultimo è determinato dalla delusione provocata in lui dalla rivoluzione del 1848, nella quale egli aveva posto qualche speranza relativamente alla realizzazione del suo programma socio-scientifico. Per questo, egli salutò con favore il colpo di Stato con cui Napoleone III restaurava l’impero, attendendosi dal nuovo governo la realizzazione di quell’«ordine» che egli considerava essenziale per la salute di ogni società. Le dottrine socio-politiche di Comte sono esposte soprattutto nei quattro volumi del Sistema di politica positiva (1851-54) e nell’Appello ai conservatori (1855). Avendo perso il suo impiego all’École polytechnique, negli ultimi anni della sua vita Comte dovette sostentarsi con il «libero sussidio positivista» che alcuni suoi discepoli avevano appositamente istituito per lui. Morì nel 1857.

la legge dei tre stati

Secondo Comte, il passaggio – auspicato da Saint-Simon – dall’epoca teologico-feudale alla nascente società industriale non può essere realizzato con l’attività politica diretta, ma deve essere preceduto da una generale riorganizzazione culturale e scientifica che tenga conto del processo storico attraverso cui le scienze conseguono la loro definitiva validità epistemologica. Sin dal Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società (1824) Comte aveva formulato la «legge dei tre stati», che sarà posta alla base del successivo Corso di filosofia positiva [t10]. Per mezzo di essa sono individua-

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ti tre «stati» o «stadi» (in francese: états), che costituiscono le fasi del processo di sviluppo che riguarda sia l’individuo sia l’umanità intera. Nello stato teologico – che rappresenta l’infanzia dello sviluppo umano (sul piano individuale come su quello del genere) – gli uomini pretendono di conoscere la natura essenziale delle cose. Nel tentativo di attingere questa conoscenza assoluta essi fanno ricorso – per mezzo della fantasia – a una o più entità soprannaturali, identificate dapprima con i feticci delle religioni animistiche, poi con le molteplici divinità del politeismo e, infine, con l’unico Dio del monoteismo.

il primo stato

Lo stato metafisico – corrispondente alla giovinezza – in realtà è soltanto una fase di transizione tra lo stato teologico e quello positivo: in esso si conserva la tendenza a voler conoscere l’essenza delle cose, ma il criterio di spiegazione viene cercato, anziché in entità soprannaturali, in entità astratte immanenti alla natura stessa. Una chiara esemplificazione di questo atteggiamento è la teoria che pretende di spiegare la facoltà dell’oppio di indurre il sonno attraverso la presenza in esso di una vis dormitiva non ulteriormente definibile.

il secondo stato

Nello stato positivo gli uomini – conseguita la maturità sia sul piano dello sviluppo individuale sia su quello della specie – abbandonano la pretesa di conoscere l’essenza delle cose e limitano l’indagine ai fatti fenomenici e alle loro relazioni. La conoscenza umana è quindi soltanto relativa: tuttavia, le relazioni costanti che essa rileva tra i fenomeni mediante l’osservazione e l’esperimento sono conosciute con certezza come leggi necessarie. L’esempio più adeguato di conoscenza positiva è fornito dalla legge di Newton sulla gravitazione universale: essa rinuncia, infatti, a qualsiasi ipotesi metafisica (hypotheses non fingo) e si limita a determinare il carattere unitario del rapporto che connette tutti i fatti dell’universo. L’ultimo dei tre stati previsti da Comte comporta dunque la realizzazione della filosofia positiva, la quale abbandona definitivamente le concezioni teologiche e metafisiche della realtà, per darne invece una spiegazione rigorosamente scientifica.

il terzo stato

Tutte le scienze – per essere veramente tali – devono giungere allo stato positivo. Tuttavia, esse non conseguono questo obiettivo contemporaneamente. Per Comte, una scienza è tanto più semplice quanto più generale è il suo oggetto, mentre è tanto più complessa quanto più particolare è il suo oggetto. Dunque, giungono per prime allo stadio positivo le scienze che sono più semplici e che hanno l’oggetto più generale. Per ultime vi pervengono invece quelle più complesse, che studiano oggetti più particolari .

la classificazione delle scienze

In base a questo criterio, l’ordine di successione secondo cui le scienze hanno conseguito (o devono ancora conseguire) lo stadio positivo è il seguente: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. L’astronomia, la fisica e la chimica appartengono infatti al gruppo di discipline che ha per oggetto la materia inorganica, la quale è più semplice e più generale di quella organica (la materia organica dipende da quella inorganica e non viceversa). All’interno del gruppo delle scienze inorganiche, inoltre, l’astronomia – riguardando esclusivamente i movimenti matematici degli astri – è più sem-

le scienze che studiano la materia inorganica...

alef

Comte La classificazione delle scienze

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plice e più generale della fisica terrestre, cui sono riconducibili la fisica propriamente detta e la chimica. Tra queste ultime due, la fisica in senso proprio – che si occupa soltanto del movimento meccanico – è più semplice e generale della chimica, che studia la composizione degli elementi e le loro reazioni. ... e quelle che studiano la materia organica

Il gruppo delle discipline organiche – di per sé, come si è visto, più complesso e meno generale di quello delle discipline inorganiche – si divide a sua volta in biologia (o fisica organica), che si occupa della struttura e del movimento degli organismi naturali, e sociologia (o fisica sociale), che riguarda invece gli organismi sociali. Poiché questi ultimi sono più complessi e più particolari di quelli naturali, la biologia e la sociologia si collocano rispettivamente al penultimo e all’ultimo posto dell’ordine successivo delle scienze.

la matematica è il modello di tutte le scienze

Dalla classificazione sistematica delle scienze sono escluse sia la matematica sia la psicologia, sebbene per opposti motivi. L’esclusione della matematica non significa che essa non sia una scienza ma – al contrario – che essa è la scienza fondamentale, in quanto costituisce il punto di riferimento di tutte le altre scienze. Il conseguimento dello stato positivo da parte delle singole discipline, infatti, avviene quando esse assumono come proprio il modello della matematica, che è la disciplina più generale e più semplice in assoluto.

la psicologia o è biologia o è sociologia

Per una ragione completamente diversa non rientra nel novero delle discipline classificate la psicologia. Fedele al principio per cui non si dà scienza se non di fatti, Comte ritiene che non sia possibile descrivere i processi della psiche come realtà indipendenti dai «fatti» fisiologici, che ne costituisco-

La classificazione delle scienze

materia organica Sociologia Biologia

materia inorganica Astronomia Fisica Chimica

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Il grafico evidenzia la classificazione delle scienze, dall’astronomia, che studia i fenomeni più generali e meno complessi, alla sociologia, che studia i fenomeni più particolari e complessi. La freccia indica il grado di generalità decrescente. Sono escluse dalla classificazione la matematica, la psicologia e la filosofia.

Matematica (fondamento di tutte le scienze) Psicologia (non ha per contenuto dei «fatti») Filosofia (non ha oggetto specifico)

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no la condizione, o dai «fatti» sociali, che ne rappresentano l’oggettivazione concreta. Nel primo caso la psicologia si risolve in biologia, nel secondo in sociologia. Ammettere l’esistenza di una psicologia che abbia un oggetto autonomo (l’anima o lo spirito), indipendente dai fatti biologici o sociali, sarebbe un’indebita concessione al pensiero metafisico. Anche la filosofia non ha una collocazione specifica all’interno della classificazione delle scienze. Essa infatti non è una scienza fornita di un oggetto proprio (com’era intesa, ad esempio, la metafisica), ma ha semplicemente la funzione di coordinare le varie scienze, studiandone le relazioni reciproche e i princìpi fondamentali comuni (ad esempio: la legge dei tre stati, il principio della semplicità e della generalità, ecc.). Detto altrimenti, la filosofia – rendendo possibile la stessa classificazione delle scienze – fornisce quel «sistema generale delle idee» che è indispensabile per il rinnovamento morale e intellettuale dell’umanità e, di conseguenza, per la riorganizzazione concreta della società.

e la filosofia?

3. Comte: il progresso dell’umanità La possibilità di una riorganizzazione della società su nuove basi rimane sempre l’aspirazione fondamentale di Comte. A tal fine è indirizzata la scienza che si colloca al vertice della piramide delle discipline: la sociologia. Essendo la più complessa e più specialistica delle scienze, essa è l’unica a non avere ancora conseguito pienamente lo stadio positivo. Pertanto, la definizione epistemologica della sociologia appare a Comte il più urgente compito intellettuale, morale e politico del suo tempo: soltanto in questo modo sarà completato l’edificio del sapere positivo e saranno poste le fondamenta per una trasformazione della realtà sociale e politica.

il primato della sociologia

Alla costruzione della scienza sociologica Comte dedica metà del Corso di filosofia positiva – gli ultimi tre dei sei volumi di cui esso si compone. Egli definisce la sociologia come «fisica sociale» e le attribuisce un compito fondamentale:

definizione e articolazione della sociologia

La fisica sociale considera ciascun fenomeno dal duplice punto di vista elementare della sua armonia con i fenomeni coesistenti e del suo collegamento con lo stato anteriore e con lo stato posteriore dello sviluppo umano. Da entrambe queste prospettive essa si sforza di scoprire, per quanto è possibile, le vere relazioni generali che collegano tra di loro tutti i fatti sociali: ognuno di questi appare spiegato, nell’accezione veramente scientifica del termine, quando ha potuto essere convenientemente riportato sia all’insieme della situazione corrispondente sia all’insieme del movimento precedente, mettendo sempre accuratamente da parte qualsiasi vana e inaccessibile ricerca della natura intima e del modo essenziale di produzione dei fenomeni [...]. Questa nuova scienza rappresenta necessariamente, in maniera diretta e continua, la massa della specie umana – attuale, passata e anche futura – come costituente un’immensa ed eterna unità sociale i cui diversi organi, individuali o nazionali, uniti 4. il positivismo

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senza sosta da un’intima e universale solidarietà, contribuiscono inevitabilmente – ognuno in un modo e in un grado determinato – all’evoluzione fondamentale dell’umanità (Corso di filosofia positiva, lezione 48).

Come le altre branche della fisica, la sociologia si divide in statica e dinamica. La statica ha per oggetto le strutture permanenti della società (famiglia, proprietà, ecc.) e trova la sua categoria fondamentale nel concetto di ordine. La dinamica studia invece le trasformazioni della società nel tempo e si incentra sul concetto di progresso. Per Comte, la statica e la dinamica costituiscono i due aspetti inscindibili della sociologia: non è possibile infatti un ordine che non sia finalizzato al progresso, così come non è possibile un progresso che non si realizzi nell’ordine. le fasi della storia dell’uomo

Ricostruendo lo sviluppo della società, la parte dinamica della sociologia propone anche una vera e propria filosofia della storia, scandita nei tre momenti fondamentali già illustrati dalla dottrina dei tre stati. Al primo stato corrisponde un’epoca teologica, nella quale il potere spirituale è detenuto dai sacerdoti e quello temporale dai militari. La finalità fondamentale dell’età teologica è la conquista. L’epoca metafisica – che corrisponde allo stadio intermedio – è una semplice fase di transizione. Essa comporta la progressiva dissoluzione del vecchio sistema teologico, senza compensare tuttavia l’azione demolitrice con un’adeguata opera di ricostruzione sistematica, che si realizza solo nell’ultima fase. All’ultimo stadio – ancora da conseguire – corrisponderà invece un’epoca positiva, in cui il potere spirituale sarà detenuto dagli scienziati e dai tecnocrati, mentre quello temporale sarà affidato agli industriali. L’intera epoca positiva è infatti indirizzata alla realizzazione e alla diffusione della produzione industriale.

4. Bentham e l’utilitarismo

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l’assunto di fondo

Le esigenze di una più equa redistribuzione della ricchezza e di una maggiore emancipazione sociale e culturale delle classi più arretrate, manifestatesi a seguito della rivoluzione industriale, trovarono una formulazione filosofica nella dottrina dell’utilitarismo. Il suo assunto principale è che le azioni devono essere valutate non in base alle intenzioni che le muovono, ma alle loro conseguenze pratiche, e più precisamente in base all’utilità individuale e sociale che rivestono.

l’impegno politico

L’iniziatore del movimento utilitaristico in Inghilterra è generalmente considerato Jeremy Bentham (1748-1832), uomo politico e giurista oltreché filosofo. Egli si occupò della riforma della legislazione britannica in senso liberale, prendendo posizione a favore del suffragio universale, dell’ampliamento del sistema scolastico a beneficio degli strati sociali più bassi e di un più diffuso intervento statale nell’ambito assistenziale. Fondò la «London and Westminster Review», che divenne l’organo del pensiero radical-liberale e utilitaristico. La sua opera principale è l’Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione (1789). 4. il positivismo

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L’utilitarismo inglese è strettamente connesso con la tradizione dell’Illuminismo. L’intera opera di Bentham è infatti un’elaborazione sistematica del principio – già difeso da Helvétius e Beccaria – della «massima felicità per il massimo numero di persone». La felicità viene definita in termini di piacere, così come l’infelicità in termini di dolore. Infatti, se la morale vuole diventare una scienza – e in ciò appare evidente anche il legame tra utilitarismo e positivismo – essa deve fondarsi non già su ideali astratti, ma su fatti concreti, osservabili empiricamente e misurabili quantitativamente. Nella sfera dei comportamenti umani, il piacere e il dolore sono gli unici fatti esattamente quantificabili. Pertanto, essi devono essere assunti a criterio di valutazione di ogni singola azione: saranno eticamente buone le azioni che promuovono il piacere tanto dei singoli quanto della collettività ed eticamente cattive quelle che promuovono invece l’infelicità e il dolore.

l’etica utilitaristica

Non tutti i piaceri sono ugualmente desiderabili, sia perché non sempre sono separabili dai dolori, sia perché diverso è il loro grado e valore. Bentham si propone dunque di elaborare un’algebra morale che presieda al loro calcolo quantitativo, in modo da favorire la massimizzazione del piacere – cioè la produzione del massimo piacere possibile – e la minimizzazione del dolore – cioè la riduzione del dolore alla minima quantità possibile. A questo scopo egli compila una tavola dei requisiti necessari per rendere un piacere autenticamente desiderabile: l’intensità, la durata, la certezza, la prossimità nel tempo, la fecondità (cioè l’essere motivo di altri piaceri), la purezza (il non essere accompagnato da conseguenze dolorose) e l’estensione (il recare vantaggio anche ad altri uomini). Come è sottolineato soprattutto da quest’ultimo requisito, Bentham ritiene che i più grandi piaceri individuali siano quelli che promuovono la felicità di tutti. La ricerca del piacere – se ben intesa – ha quindi necessariamente un esito altruistico, ovvero egoismo e altruismo tendono a coincidere.

il calcolo dei piaceri

Oltreché nell’ambito morale, il principio utilitaristico vale anche nella sfera giuridica. A fondamento dello Stato, infatti, non vi è alcun contratto sociale – Bentham accoglie la critica di Hume al giusnaturalismo contrattualistico – ma l’esigenza utilitaria di collaborare per la promozione della felicità. La legislazione ha il compito di considerare i moventi che informano concretamente le azioni umane e di seguirne l’evoluzione storica, in modo da promuovere quelli che favoriscono l’utile sociale e reprimere quelli che lo ostacolano. Le sanzioni – previste dalle leggi – servono dunque a punire le azioni umane che ostacolano il perseguimento della felicità.

le leggi e la promozione della felicità collettiva

5. John Stuart Mill La connessione tra positivismo e utilitarismo appare evidente in John Stuart Mill (1806-1873), figlio del filosofo James Mill (1773-1836). Pur non volendo essere definito un positivista, il giovane Mill nutrì sempre una grande attenzione per le opere di Comte, con il quale rimase a lungo in corrispondenza, fino a che i due non interruppero la loro relazione episto4. il positivismo

l’influenza del padre e di comte

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lare per ragioni politiche. All’insegnamento del padre sono invece imputabili le sue convinzioni in materia di psicologia e soprattutto la sua adesione ai princìpi dell’utilitarismo etico e sociale. l’influenza di bentham e l’esperienza politica

Tanto dalla tradizione positivistica quanto da quella utilitaristica Mill derivava inoltre un atteggiamento di sospetto nei confronti della metafisica. Da Bentham e dal padre John Stuart Mill ereditò anche la passione per la politica e l’orientamento radical-liberale. Collaborò attivamente alla «London and Westminster Review» – fondata da Bentham – e, dopo aver lavorato nella Compagnia delle Indie orientali, si dedicò alla politica attiva, tentando tra l’altro di raccogliere in un nuovo partito radicale tutti gli oppositori dei conservatori. Il progetto, tuttavia, non fu portato a termine. Conseguentemente Mill si ritirò dalla politica, dedicandosi interamente agli studi.

le opere

Nel 1843 uscì il suo capolavoro, il Sistema di logica deduttiva e induttiva. Seguirono: i Princìpi di economia politica (1848), Sulla libertà (1859), Utilitarismo (1863), i Tre saggi sulla religione, usciti postumi nel 1874.

la logica: «scienza della prova o dell’evidenza»

Nella sua opera fondamentale, Sistema di logica deduttiva e induttiva, Mill sostiene che la logica non si occupa delle verità che ci sono note per coscienza immediata (ad esempio: le sensazioni corporee, i sentimenti o gli stati mentali), ma soltanto delle conoscenze derivate da altre conoscenze «per via d’inferenza». In altri termini, la logica non si preoccupa di indagare la natura delle cose, ma si limita a verificare la validità della connessione tra più proposizioni all’interno di un ragionamento.

denotazione e connotazione

La prima operazione della logica è quella della denominazione, cioè dell’attribuzione di nomi alle cose. Il linguaggio è uno strumento del pensiero, prima ancora che della comunicazione: per questo motivo, ogni indagine logica deve iniziare con un’analisi del linguaggio. È in questo quadro che Mill introduce una famosa distinzione tra termini denotativi e termini connotativi. 1. Un termine è denotativo quando indica semplicemente un oggetto, senza riferimento a qualche sua proprietà o attributo. Ad esempio, sono termini denotativi tutti i nomi propri: quando dico Giovanni, Paolo o Pietro, indico semplicemente un individuo preciso, senza dare alcuna informazione che lo caratterizzi. 2. Un termine è invece connotativo quando indica una o più proprietà relative a un oggetto. Tali sono gli attributi: quando dico «bianco» o «razionale» indico la qualità che caratterizza un determinato oggetto. Ma sono termini connotativi anche i nomi comuni: questi ultimi – oltre a denotare i singoli individui – indicano anche le loro qualità. Ad esempio, il termine uomo denota i singoli individui umani, ma connota anche le qualità (razionalità, corporeità, una certa forma esteriore, ecc.) che li definiscono in quanto uomini.

proposizioni verbali e proposizioni reali

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Questa distinzione è rilevante non soltanto per la classificazione dei nomi, ma anche per quella delle proposizioni che derivano dalla composizione di nomi. In tal modo, è possibile distinguere due tipi di proposizioni. 4. il positivismo

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1. Sono proposizioni verbali quelle in cui il predicato esprime un concetto che è già contenuto nel soggetto. Tali proposizioni non forniscono, pertanto, nessuna nuova informazione. Ad esempio, quando dico che «gli uomini sono razionali», non amplio la mia conoscenza, perché la nozione di razionalità è già compresa in quella di uomo. In altre parole, sono proposizioni – analogamente ai giudizi analitici di cui parlava Kant – necessarie ma improduttive. 2. Sono proposizioni reali, invece, quelle in cui il predicato esprime una connotazione che non era contenuta nel soggetto. Esse comportano quindi un vero – reale, appunto – ampliamento della conoscenza. Ora, affinché un ragionamento o inferenza apporti vera conoscenza occorre che la proposizione conclusiva sia diversa – sul piano del contenuto – da quella di partenza e non una semplice «trasformazione verbale» di essa. Ma quali sono gli strumenti logici per garantire ciò? La logica tradizionale individuava due strade: 1) l’inferenza dal generale al particolare attraverso la deduzione, e quindi il sillogismo (inteso come forma fondamentale della deduzione); 2) l’inferenza dal particolare al generale attraverso l’induzione. Mill intende mostrare che esiste una terza strada, che sta a fondamento di entrambe le vie tradizionali: l’inferenza avviene sempre da particolare a particolare.

l’inferenza dal particolare al particolare

Iniziamo con l’analisi del sillogismo, utilizzando il tradizionale esempio: «Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Dunque Socrate è mortale». Se viene inteso come una dimostrazione di tipo deduttivo – cioè se la conclusione «Socrate è mortale» viene dedotta dalle premesse, come il sillogismo pretende – esso comporta necessariamente una petizione di principio, cioè contiene già nella premessa ciò che si deve dimostrare nella conclusione. Infatti, nella premessa maggiore «Tutti gli uomini sono mortali» è già detto che «Socrate è mortale», poiché nell’espressione «tutti gli uomini» è compreso anche Socrate. Tuttavia, il sillogismo può presentare qualche valore, se non lo si considera soltanto come un procedimento deduttivo. In altre parole, la premessa maggiore «Tutti gli uomini sono mortali» non deve essere considerata il punto di partenza del ragionamento, ma piuttosto il punto di arrivo di una serie di osservazioni particolari. Poiché sperimento che Tizio è mortale, Caio è mortale, Sempronio è mortale, posso presumere che anche Socrate sia mortale e che tutti gli uomini lo siano. In tal modo, la proposizione generale (quella che ritenevo una premessa maggiore) è una formula compendiosa di osservazioni particolari che è però espressa in termini generali, così da poter essere applicata anche a particolari non ancora osservati. Secondo questa prospettiva, le proposizioni generali non sono che il momento intermedio di un ragionamento che va dal particolare al particolare, aggiungendo alla serie dei particolari osservati il particolare a cui si applica la conclusione .

la critica al sillogismo

Mill sostiene che ogni nostra conoscenza abbia un’origine empirica. Ciò significa che ogni inferenza parte dall’osservazione dei casi particolari. Ma qual è allora la vera natura di tutte le nostre generalizzazioni? Per Mill, esse non sono altro che formule derivate da rassegne di casi particolari, attestati

la conoscenza deriva dall’esperienza

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dall’esperienza. Le stesse verità della matematica sono conseguite attraverso generalizzazioni di questo genere: alla loro base vi sono sempre esperienze particolari. Gli oggetti della matematica non sono diversi da quelli empirici, ma sono gli stessi oggetti empirici considerati facendo astrazione da alcune loro qualità: per esempio, il punto geometrico è un punto empirico in cui si astrae dall’estensione, così come nella linea si fa astrazione dall’aspetto della larghezza e così via. i due tipi di induzione

Ma su che cosa si basano le nostre inferenze? Non tanto sulla deduzione, quanto sull’ induzione . A questo proposito, tutttavia, Mill distingue tra due tipi di induzione. 1. L’induzione perfetta è quella in cui si considerano tutti i casi relativi a una certa classe: essa non comporta un vero aumento di conoscenza e l’operazione conoscitiva – di puro carattere analitico – si riduce a una semplice «trasformazione verbale». Per esempio, se dico: «Pietro era ebreo, Paolo era ebreo, Giovanni era ebreo» e così via fino a enumerare tutti i dodici apostoli, per concludere: «quindi tutti i dodici apostoli erano ebrei», in realtà la conclusione non aggiunge nulla di nuovo alle affermazioni sui singoli individui e non è che una loro riformulazione verbale. 2. L’induzione imperfetta è quella che Mill chiama induzione per enumerazione semplice. Essa consiste nel derivare una data qualità dall’osservazione di un certo numero di casi particolari e nell’estenderla a tutti gli individui della stessa classe – anche a quelli che non sono caduti sotto la mia esperienza. Così avviene quando affermo: «Tizio è mortale», «Caio è mortale», «Sempronio è mortale», quindi «tutti gli uomini sono mortali». Procedendo da particolare a particolare, io conseguo un’informazione su una qualità che riguarda tutti gli elementi di una certa classe, anche se non li ho conosciuti uno a uno per esperienza diretta.

l’uniformità della natura

Si è detto che l’induzione imperfetta consente un ampliamento della conoscenza. Ma essa è sempre valida? Se sperimento solo un certo numero di casi individuali, come posso essere sicuro che le osservazioni fatte per essi valgano anche per tutti gli altri casi non verificati? Per secoli gli europei hanno creduto che tutti i cigni fossero bianchi, perché non avevano mai visto un cigno nero. In altri termini: se procedo sempre da particolare a particolare, che cosa garantisce la validità della generalizzazione, cioè del passaggio dal particolare al generale? Mill ritiene che esista un criterio oggettivo per avvalorare questo passaggio e lo ritrova nel principio dell’uniformità della natura, il quale trova la sua migliore espressione nella legge di causalità necessaria. Possiamo estendere alla totalità dei casi di una determinata classe le affermazioni fatte in base all’osservazione di un numero limitato di essi perché supponiamo che la natura sia ordinata da leggi.

circolo vizioso?

È Mill stesso a osservare tuttavia che tale principio – posto a fondamento di ogni induzione – è a sua volta il risultato di un’induzione, cioè di una generalizzazione di casi particolari. Ci troviamo quindi di fronte a quella che a molti è apparsa una petizione di principio. Da un lato, l’induzione trova il

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proprio fondamento nel principio dell’uniformità della natura; dall’altro lato, questo principio si fonda a sua volta su un procedimento induttivo . Mill diede importanti contributi non solo agli studi di logica – si ricordi che la distinzione tra connotazione e denotazione sarà ripresa, seppure in modo diverso, da Frege [cfr. 16.1] – o di gnoseologia, ma anche all’etica, nonché al dibattito economico-politico del suo tempo. L’etica di John Stuart Mill è improntata all’utilitarismo mutuato da Bentham attraverso la mediazione di James Mill. A fondamento della morale sta, anche per lui, il principio dell’utilità, ossia della massima felicità per il maggior numero possibile di persone. A sé John Stuart rivendica l’invenzione del termine «utilitaristico», il quale era tuttavia già stato utilizzato, seppure in un’accezione leggermente diversa, da Shaftesbury. Rispetto alle formulazioni di Bentham e del padre, egli apporta però alcune importanti variazioni, insistendo in particolare sulla necessità di una determinazione qualitativa dei piaceri, in opposizione al calcolo meramente quantitativo di Bentham, in modo da garantire la superiorità dei piaceri intellettuali e morali su quelli puramente sensibili [t11].

la riflessione etica

Nei Princìpi di economia politica Mill distingue tra le leggi della produzione economica, che – come tutti gli altri fatti sociali – obbediscono al principio della necessità naturale, e le leggi della distribuzione, che dipendono invece dalla volontà umana. Il diritto e il costume possono quindi modificare le regole distributive, promuovendo una più equa allocazione dei beni e delle ricchezze. Mill auspica infatti una serie di riforme che si ispirino al criterio utilitaristico del maggior benessere possibile per il maggior numero di individui. Tra l’altro, egli è fautore di una maggiore parificazione sociale dei sessi, della partecipazione dei lavoratori all’impresa, dell’allargamento del diritto di voto, nonché della fondazione di cooperative di produzione. L’utilitarismo si sposa in lui con l’altruismo: egli ritiene, infatti, che l’incremento della felicità altrui sia una delle maggiori cause del proprio piacere.

la concezione dell’economia e della politica

Se l’esigenza di giustizia consente a Mill di apprezzare qualche merito del socialismo, il riconoscimento del valore intangibile della libertà fa di lui un radicale oppositore di questa dottrina. In politica come in economia, Mill è attestato su posizioni di liberalismo radicale. Il suo pensiero economicopolitico punta sempre alla valorizzazione dell’individuo e alla difesa degli spazi di libertà senza i quali nessuna iniziativa individuale può fiorire. Nel saggio Sulla libertà egli pone alla base dell’ordinamento dello Stato la libertà civile, che si distingue in tre determinazioni: a) la libertà di coscienza, di pensiero e d’espressione; b) la libertà di perseguire la felicità secondo il proprio gusto; c) la libertà di associazione. Di conseguenza, Mill è assolutamente contrario a ogni intervento dello Stato nella vita economica e sociale della nazione. Le intromissioni dell’autorità pubblica nella sfera privata sono ammesse soltanto se sono finalizzate a evitare la lesione dei diritti di un individuo da parte degli altri. Il suo liberalismo non gli impedì tuttavia – come si è appena detto – di nutrire un forte sentimento sociale e di adoperarsi, sia pure su basi individualistiche, per una maggiore cooperazione e solidarietà tra le diverse componenti della società.

libertà civile e ruolo dello stato

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6. Darwin e l’evoluzionismo la vita

Nipote del naturalista Erasmus Darwin (1731-1802), Charles Darwin (18091882) si dedicò sin da giovane alla ricerca. Dal 1831 al 1836 compì un viaggio di esplorazione intorno al mondo, durante il quale raccolse molte delle osservazioni che lo portarono più tardi a formulare la sua teoria sulla trasformazione delle specie. Infatti quest’ultima era già presente alla sua mente sin dal 1838, poco dopo la conclusione del viaggio. Ma Darwin attese vent’anni prima di renderla pubblica – appunto nel 1858 – con una comunicazione scientifica alla Società Linneana di Londra. L’anno successivo la teoria veniva ampiamente esposta nel capolavoro di Darwin, Sull’origine della specie per mezzo della selezione naturale, il quale – per quanto strenuamente avversato dagli ambienti religiosi – ebbe un successo strepitoso.

la lotta per l’esistenza

 approfondimento, p. 54], Darwin ritiene Convinto seguace di Malthus [ che le dottrine di quest’ultimo non valgano soltanto per la popolazione umana, ma siano estensibili a tutti gli esseri viventi. In natura non c’è posto per tutti: le risorse naturali non sono infatti sufficienti a garantire l’esistenza degli esseri che si moltiplicano in maniera vertiginosa. Essi sono, pertanto, in guerra perenne gli uni contro gli altri per guadagnarsi uno spazio vitale e adeguati mezzi di sussistenza.

la selezione naturale

Nella lotta per la vita, soltanto i più adatti sopravvivono, trasmettendo poi ereditariamente le loro qualità: in questo modo si tramandano solo le specie più resistenti, mentre quelle che si rivelano inadatte a reggere la lotta sono necessariamente destinate a scomparire [t12]. Darwin riteneva dunque insufficiente la tesi di Lamarck in base alla quale l’ambiente – attraverso la modificazione dei bisogni e delle funzioni – produce una variazione negli organi degli animali. Le modificazioni organiche non si producono in risposta alle esigenze dell’ambiente; viceversa, è l’ambiente a scegliere tra le modificazioni quelle più utili alla sopravvivenza. Ma da dove provengono tali modificazioni, positive o negative che siano? Darwin ritiene che non si possa dare una risposta precisa a questa domanda. Alcune possono avere carattere genetico, altre essere prodotte dal cibo, altre ancora dall’ambiente, dall’uso o dal non uso degli organi (un parziale lamarckismo rimane, quindi, anche in Darwin). In ogni caso, esse non sono risposte funzionali a un’esigenza o a un bisogno, ma effetti casuali di fattori diversi.

l’ipotesi del «grande selezionatore»

 approfondiLa concezione darwiniana della trasformazione delle specie [ mento, p. 97] metteva in crisi la visione ottimistica e armonicistica della natura difesa dai naturalisti aventi un’ispirazione religiosa o semplicemente deistica. Sostenere che in natura vige una lotta per la vita con una conseguente selezione del più adatto significava abbandonare ogni principio di ordine e di armonia del mondo naturale e, quindi, ogni riferimento a una mente ordinatrice che operi direttamente in esso. Al più, rimaneva spazio per una sorta di Essere che esercita la funzione di grande selezionatore – ipotesi non scartata da Darwin – il quale opera sull’intera natura così come il singolo allevatore agisce sui propri animali. Ma, anche in questo caso,

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l’opera della divinità può espletarsi soltanto per mezzo di «cause seconde», cioè può agire solo attraverso le immutabili leggi della natura che prescrivono appunto la lotta per l’esistenza e la selezione naturale . Inoltre, il carattere casuale delle modificazioni delle specie esclude ogni finalismo della struttura animale e getta dubbi anche sulla possibilità di un finalismo complessivo della natura. Inoltre, l’emergenza di variazioni utili alla sopravvivenza si ottiene soltanto attraverso la distruzione di una quantità enorme di energie e di esistenze. Questo spreco contraddice ancora una volta la tradizionale immagine di una natura ben ordinata, nella quale i fini sono conseguiti con il minimo dei mezzi.

la negazione della finalità della natura

Se la selezione naturale è la legge che regola lo sviluppo e la trasformazione delle specie, non c’è nessuna ragione per cui l’essere umano si sottragga a essa. Questa infatti è la conclusione cui Darwin perviene nella sua seconda opera importante – L’origine dell’uomo (1871) –, nella quale il principio darwiniano fondamentale viene esteso dalle specie subumane all’uomo stesso. L’uomo non è stato creato direttamente da Dio, ma deriva da una specie di animali inferiori, e più precisamente dai quadrumani – cioè dalle scimmie.

la posizione dell’uomo nella natura

La selezione naturale non si applica soltanto alla struttura fisica dell’uomo, ma anche alle sue determinazioni intellettuali e morali. In questo modo, essa si estende dall’ambito naturale a quello storico-sociale e permette di giustificare la conflittualità esistente tra le stesse nazioni civili. Pur non diffondendosi a lungo sulle conseguenze sociali dei suoi princìpi scientifici (che saranno invece tratte dagli esponenti del cosiddetto «darwinismo sociale»), Darwin arriva a spiegare alcuni fenomeni storici e sociali – quali il colonialismo e lo stesso sterminio di popolazioni selvagge da parte delle nazioni civili – in termini di sopravvivenza del più adatto.

la spiegazione di fenomeni storico-sociali in termini evoluzionistici

APPROFONDIMENTO

Lo sviluppo delle scienze della vita

Il grande impulso ricevuto dallo sviluppo delle scienze tra Sette e Ottocento non interessò soltanto le scienze esatte – come la matematica, la fisica, l’astronomia e la chimica – ma anche le scienze della vita – come l’anatomia, la biologia, l’anatomia comparata e la paleontologia. A questo sviluppo delle scienze naturali è strettamente connesso uno dei dibattiti scientifici che più influirono sulla cultura filosofica ottocentesca: la discussione sulla trasformazione delle specie. Nel Settecento era prevalente la tesi del fissismo. In base a essa le

specie sono rimaste inalterate nel tempo e presentano, pertanto, gli stessi caratteri che ricevettero all’atto della creazione. Questa tesi – diffusa da Linneo (17071778), il grande naturalista – aveva due vantaggi: sul piano scientifico, garantiva il carattere oggettivo e definitivo delle classificazioni delle specie, e sul piano religioso si accordava con il testo biblico. Già nel Settecento, tuttavia, si era fatta strada l’opposta ipotesi del trasformismo, secondo cui gli esseri viventi avrebbero subìto nel tempo un processo di progressiva modificazione. Generalmente, il trasformismo sette-

centesco – difeso da scienziati come Buffon, Maupertuis, e da filosofi materialisti come La Mettrie, Holbach, Diderot – non era tuttavia inteso come una specifica teoria della trasformazione delle specie: la tendenza alla trasformazione era piuttosto considerata una caratteristica della materia in generale, a cui il pensiero materialistico attribuiva sensibilità e movimento. Inoltre, il trasformismo settecentesco era connesso con la disputa tra i sostenitori della preformazione, secondo cui nell’uovo è già contenuto un individuo in miniatura che attende soltanto di svilupparsi, e quelli

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dell’epigenesi, secondo cui l’organismo risulta da una progressiva differenziazione delle parti nel suo sviluppo embrionale. Ovviamente, l’affermazione della dottrina della trasformazione delle specie doveva passare attraverso la critica del preformismo, il quale affermava la perenne riproduzione dell’identico. Del resto, l’accettazione dell’opposta teoria epigenetica non conduceva necessariamente a una concezione evoluzionistica delle specie. Un trasformismo applicato allo sviluppo delle specie è invece presente in Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), autore di una Filosofia zoologica (1809). Respingendo il fissismo, egli formula una teoria dell’evoluzione delle specie fondata sull’influenza del clima e dell’ambiente. I mutamenti ambientali modificano i bisogni dell’organismo e, di conseguenza, le sue abitudini. Le diverse abitudini fanno sì che vengano più frequen-

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temente utilizzati organi che prima rimanevano inoperosi e, viceversa, che non siano più utilizzati organi prima attivi. In questo modo i primi si sviluppano e i secondi si atrofizzano: ciò è espresso dalla formula secondo cui «il bisogno genera la funzione e la funzione crea l’organo». Le modificazioni fisiche così acquisite dall’individuo a causa dell’influenza ambientale sono poi trasmesse per via ereditaria ai discendenti, dando origine a nuove specie che si trasformano progressivamente adattandosi alle mutazioni ambientali. Le tesi trasformistiche di Lamarck furono aspramente avversate. Uno dei maggiori oppositori fu Georges Cuvier (1769-1832). Questi, studiando resti fossili di invertebrati, giunse a formulare l’ipotesi di apparizioni successive delle specie animali in diverse epoche geologiche, in seguito a cataclismi che avrebbero portato alla scomparsa delle vecchie specie e alla

emergenza di nuove: il diluvio universale – di cui parla la Bibbia – sarebbe l’ultima di queste catastrofi. In questo modo Cuvier riusciva a coniugare il riconoscimento scientifico di una successione di specie diverse con il mantenimento del principio della fissità delle specie. Il trasformismo fu invece ripreso da Geoffroy Saint-Hilaire (17721844), il quale contribuì anche agli studi di anatomia comparata enunciando il principio dell’unitarismo: la natura avrebbe conformato gli animali secondo uno stesso piano architettonico, disponendo gli organi nello stesso modo rispetto alle strutture centrali (ad esempio, la colonna vertebrale dei mammiferi). Il trasformismo fu difeso anche dall’inglese Charles Lyell (1797-1875), cui si deve – tra l’altro – l’uso moderno del termine evoluzione, inteso non più come sviluppo del singolo individuo, bensì come trasformazione delle specie nel corso del tempo.

7. Spencer la vita e le opere

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Herbert Spencer nacque a Derby nel 1820. Autodidatta, divenne ingegnere delle ferrovie a Londra. Nel 1846, essendo entrato in possesso di un lascito ereditario, abbandonò la professione per dedicarsi completamente all’attività di scrittore. Per alcuni anni collaborò alla rivista «The economist». La sua prima formulazione della teoria evoluzionistica risale al 1852, quando pubblicò l’articolo Ipotesi dello sviluppo (nel quale tuttavia non compare ancora il termine «evoluzione»). Nei Princìpi di psicologia (1855) riprese la stessa tesi, applicandola ai cambiamenti della mente umana avvenuti col susseguirsi delle generazioni. Pubblicando nel 1859 l’Origine della specie, Darwin riconobbe il debito contratto con le precedenti formulazioni della teoria  approfondimento, p. 97], tra cui quella di Spencer. Tuttatrasformistica [ via, poiché i Princìpi di psicologia erano passati inosservati, mentre l’Origine della specie riscosse un enorme successo, la paternità della teoria dell’evoluzione venne generalmente attribuita a Darwin. Molto più tardi, Spencer rivendicherà i propri meriti in un articolo – pubblicato in francese – dal titolo Il principio dell’evoluzione (1895). La caratteristica fondamentale dell’opera di Spencer consiste soprattutto nell’aver esteso il principio dell’evoluzione dall’ambito della trasformazione delle specie all’intera realtà. 4. il positivismo

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L’estensione della teoria dell’evoluzione all’intera realtà – compresa quella sociale – viene realizzata nei Primi princìpi (1862). In quest’opera Spencer intende elaborare i fondamenti generali del suo sistema filosofico. Alle singole parti di esso vengono, invece, dedicate le opere successive: i Princìpi di biologia (1864-67), una nuova edizione dei Princìpi di psicologia (1870-72), i Princìpi di sociologia (1876-96), i Princìpi di etica (1892-93). Spencer morì nel 1903. La concezione che Spencer ha della conoscenza presenta almeno due caratteri specificamente positivistici: da un lato, il sapere si fonda su fatti osservati empiricamente; dall’altro, la scienza procede individuando leggi (ovvero relazioni costanti tra fatti accertati). Tuttavia, ciò non significa, per Spencer, che la scienza possa conseguire una conoscenza assoluta di tutta la realtà. Le idee ultime della scienza – i concetti di spazio e tempo, di materia e movimento – rimangono infatti del tutto inconoscibili per l’uomo. Attraverso la spiegazione, la scienza riconduce fatti particolari – documentati dall’esperienza – a regole più generali, per poi sussumere tali regole sotto princìpi più generali, e così via. I princìpi ultimi a cui si giungerà in questo processo di progressiva generalizzazione non saranno però più riconducibili a un altro principio più generale, cioè saranno inspiegabili. Spencer giunge dunque a sostenere il carattere relativo della conoscenza: conoscere significa mettere in relazione fatti con altri fatti secondo criteri di generalizzazione sempre più ampi, ma in nessun modo si giunge a cogliere il principio unitario che sta alla base di tutte queste relazioni. Al di là dei risultati ultimi della scienza vi è, dunque, un Inconoscibile che non potrà mai essere penetrato.

caratteri e limiti della conoscenza

Per Spencer, vi è perfetta compatibilità tra scienza e religione: entrambe si devono arrestare di fronte all’Inconoscibile, che nel caso della scienza rappresenta semplicemente ciò che cade al di fuori di essa, mentre nel caso della religione diventa oggetto di fede e di venerazione. L’Inconoscibile non è dunque concepito da Spencer in forma puramente negativa. Esso corrisponde alla forza misteriosa che si manifesta in tutti i fenomeni naturali e coincide con il fondamento metafisico di ogni realtà empirica.

l’inconoscibile è anche l’oggetto della religione

Conformemente ai canoni del positivismo, per Spencer c’è continuità tra scienza e filosofia. Come si è visto, le singole scienze unificano i fatti empirici in una serie crescente di generalizzazioni che si conclude con i concetti più generali possibili per le singole discipline. A sua volta, la filosofia unifica i risultati relativi alle singole scienze in una generalizzazione superiore, che è la più alta possibile per l’uomo: al di là di essa, infatti, si entra necessariamente nella sfera dell’Inconoscibile. La filosofia svolge dunque – in accordo con i canoni positivistici – la funzione di scienza generale che connette organicamente e sinteticamente i risultati ultimi delle differenti discipline specifiche. Per questo Spencer definisce il suo pensiero come sistema di filosofia sintetica.

la filosofia come scienza generale

I risultati più generali a cui giungono le diverse discipline possono essere riassunti nei seguenti tre princìpi: l’indistruttibilità della materia, la continuità del movimento, la persistenza della forza. Il compito della filosofia

princìpi generali delle scienze e legge dell’evoluzione

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sarà, pertanto, quello di unificare questi tre princìpi in un’unica legge generale, che Spencer individua nella legge dell’evoluzione. Infatti, questa legge spiega la graduale integrazione (ovvero concentrazione) della materia e la conseguente dissipazione del movimento – a cui sinteticamente si possono ricondurre i tre princìpi sopraddetti – mediante un triplice processo: in primo luogo, come un passaggio dall’incoerente al coerente (cioè un processo di progressiva concentrazione); in secondo luogo, come un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’uniforme al multiforme (cioè un processo di progressiva differenziazione); infine, come un passaggio dall’indefinito al definito (cioè come un processo di progressiva determinazione) [t13]. dall’inorganico al superorganico

Questa formulazione generale della legge dell’evoluzione è contenuta nei Primi princìpi: nelle opere successive Spencer non fa che applicarla ai campi delle specifiche discipline. Egli individua, pertanto, diversi livelli di sviluppo evolutivo: oltre all’evoluzione inorganica – che riguarda lo sviluppo della materia e la storia naturale della Terra – e l’evoluzione organica – che concerne la trasformazione delle specie – ci sarà anche un’evoluzione superorganica, che investe lo sviluppo della società. Come esempio di evoluzione inorganica possiamo considerare la formazione del sistema solare da una precedente nebulosa: la progressiva coesione del sistema è stata accompagnata da una graduale specificazione e distinzione del Sole e dei pianeti. Nell’ambito dell’evoluzione organica ricade – come si è detto – la trasformazione delle specie: in particolare, Spencer ritiene che l’adattamento all’ambiente abbia creato nuovi organi (secondo la teoria di Lamarck), i quali sono poi stati selezionati naturalmente in base alla regola della sopravvivenza del più adatto (in accordo questa volta con Darwin). In ogni caso, tutte le modificazioni sono «a priori» per l’individuo, nel senso che esso le eredita dalla specie, ma sono «a posteriori» per la specie, che le deriva dall’influenza ambientale.

l’evoluzione dalle società primitive a quelle industriali

Come esempio di evoluzione superorganica (o sociale), si possono considerare i processi che hanno portato dalle società primitive – scarsamente coese al loro interno e caratterizzate da una limitata differenziazione sociale – alle moderne società industriali – fortemente unitarie, fornite di una precisa divisione del lavoro e di una articolata molteplicità di funzioni sociali. L’applicazione della legge dell’evoluzione all’ambito sociale consente anche a Spencer di spiegare – in analogia con quanto avevano già fatto SaintSimon e Comte – il processo di modernizzazione sociale come un passaggio da società di tipo militare a società di tipo industriale . Nelle società primitive, infatti, la mancanza di coesione doveva essere compensata da una forte centralizzazione del potere, che comportava l’estensione del sistema gerarchico proprio dell’esercito a tutte le relazioni sociali. Viceversa, nelle moderne società industriali la cooperazione forzata delle società militari è stata progressivamente sostituita da una cooperazione volontaria, che produce spontaneamente la coesione degli individui nel tutto.

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Spencer Società militari e società industriali

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APPROFONDIMENTO

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Il positivismo in Germania e in Italia

In ritardo rispetto alla Francia (e, ovviamente, ancor più rispetto all’Inghilterra), la Germania sperimenta la sua rivoluzione industriale soltanto dopo gli anni Trenta. Ciò ha come diretta conseguenza il rapido declino delle filosofie idealistiche e romantiche e l’affermazione del nuovo spirito positivistico. In Germania, tuttavia, il positivismo assume i caratteri del materialismo. Quest’ultimo, se coglieva del positivismo il riferimento esclusivo ai fatti e alle loro leggi, conservava della precedente tradizione tedesca la tendenza alla riduzione sistematica della realtà a un principio unitario. In questo modo, il positivismo tedesco si propone come una forma di monismo, il quale, anziché ricondurre la realtà allo spirito, come aveva fatto il precedente idealismo, la risolve interamente nella materia. Al nuovo clima culturale determinato dallo sviluppo del positivismo in Germania è connessa la nascita della psicologia scientifica che – accanto alla biologia e alla sociologia – va ad aumentare il numero delle discipline aventi ormai un preciso statuto epistemologico. I primi risultati in questo senso sono ottenuti da Ernst Heinrich Weber (1795-1878) e, soprattutto, da Gustav Theodor Fechner (1801-1887), i quali cominciano ad analizzare i dati psichici alla stregua di tutti gli altri fatti scientifici, dischiudendo la possibilità di spiegarli mediante leggi e quantificazioni matematiche. In questo modo, la psicologia si sottraeva al giudizio di non scientificità espresso dal criticismo kantiano e ribadito, all’interno dello stesso positivismo, da Comte. Nello stesso tempo, la psicologia diventava una scienza autonoma, cessando di essere la branca della filosofia nella quale il soggetto rifletteva speculativa-

mente sulla propria «anima». Nella conquista di tale autonomia la psicologia scientifica è certo debitrice della tradizione empirico-associazionistica, che – a iniziare da Hume – aveva considerato le attività psichiche come processi naturali osservabili empiricamente. Malgrado le professioni di «sperimentalismo», tuttavia, quella tradizione affidava ancora l’indagine psicologica all’introspezione (e quindi alla filosofia), mentre le nuove tendenze scientifiche impongono un’analisi dei fatti psichici condotta con strumenti di laboratorio, al pari di tutte le altre scienze. Il maggiore contributo alla creazione di una psicologia sperimentale è dato da Wilhelm Wundt (1832-1920), autore di Linee fondamentali di psicologia fisiologica (1874) e di una Psicologia dei popoli (1911-20). Attraverso la strumentazione scientifica, Wundt si propone di isolare i fatti psichici elementari – cioè le sensazioni – per poterne poi studiare le leggi di connessione (specialmente quella della causalità psichica). Ciò non comporta, tuttavia, un’assimilazione completa delle dinamiche psichiche a quelle fisiche, né una loro dipendenza dai processi bio-fisiologici. Le leggi della psicologia hanno infatti una natura specifica che le distingue da quelle della fisica e delle altre scienze; inoltre, Wundt sostiene la teoria del parallelismo tra mente e corpo, che esclude ogni azione causale della sfera fisico-biologica sui processi psichici. L’oggetto di studio della psicologia non sono però soltanto i fatti, ma anche gli atti psichici, che si distinguono dai primi per la loro spontaneità. Quando tali atti assumono dimensioni complesse – quali il linguaggio, l’esperienza estetica, i costumi, i miti – è pos-

sibile studiarli comparativamente descrivendo i loro prodotti oggettivi: la disciplina settoriale che si occupa di questo studio è la psicologia dei popoli o etno-psicologia o psicologia storico-sociale (Völkerpsychologie). Se il richiamo all’importanza del fatto, come dato di partenza dell’indagine scientifica, accomuna Wundt allo spirito positivistico del secolo, la rivendicazione della spontaneità – e quindi della volontarietà – degli atti, nonché la ripresa della dottrina del parallelismo tra mente e corpo, rivela la presenza di embrionali spunti spiritualistici. Nella seconda metà dell’Ottocento anche l’Italia subisce l’influenza del positivismo francese e inglese, soprattutto nella forma evoluzionistica difesa da Spencer. Le condizioni storiche che hanno consentito questa ricezione sono da ricercarsi nel più avanzato – per quanto tardivo – sviluppo industriale, nelle mutate condizioni politiche conseguenti all’unificazione nazionale, nel progresso della cultura laica che lo Stato promuove contro la prevalenza culturale della Chiesa cattolica, nell’emergenza di una nuova borghesia imprenditoriale. Il maggiore rappresentante del positivismo italiano è Roberto Ardigò (1828-1920), un ex sacerdote che abbandonò la fede e l’abito talare sotto l’influenza della tradizione razionalistica del Rinascimento (il suo primo scritto è su Pietro Pomponazzi). Tra le sue opere: La psicologia come scienza positiva (1870), La formazione naturale nel fatto del sistema solare (1877), La morale dei positivisti (1879), L’inconoscibile di Spencer e il positivismo (1883), Il vero (1891), La ragione (1894). L’autore che ha più influito sul pensiero di Ardigò è Spencer, dal quale egli accoglie l’estensione

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del principio dell’evoluzione alla realtà intera. Ardigò apporta, tuttavia, un’importante correzione alla concezione spenceriana dell’evoluzione, riconducendo le tre determinazioni che la caratterizzavano a una sola: il passaggio dall’indistinto al distinto. Ciò è dovuto al fatto che Ardigò prende come punto di riferimento per la propria teoria dell’evoluzione non i processi biologici – come invece hanno fatto Darwin e Spencer – ma quelli psicologici. Nella sensazione si percepisce dapprima qualcosa di complessivo e di indistinto: solo in un secondo mo-

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mento la coscienza distingue tra un soggetto (o un «Me») e un oggetto (un «non-Me»). Questo processo di progressiva distinzione vale tuttavia per l’intera natura. Non è invece accettabile – ed è questa la seconda presa di distanza di Ardigò dal suo ispiratore – la concezione che Spencer aveva dell’Inconoscibile, inteso come una realtà posta al di là delle nostre possibilità conoscitive. Ardigò obietta che l’Inconoscibile non esiste, così come non esiste il noùmeno kantiano. Si può parlare soltanto di un ignoto, cioè di ciò che non è stato ancora spiegato

dalla scienza, ma che è destinato a diventare noto con il progressivo svilupparsi della nostra conoscenza scientifica. Quanto ai comportamenti umani, Ardigò esclude del tutto la libertà del volere. In tal senso, la morale non è un insieme di norme che possono essere liberamente scelte o rifiutate dal soggetto agente. Al contrario, i valori etici sono il frutto del condizionamento della società, che costringe gli individui a reprimere la loro pericolosità sociale e li indirizza verso comportamenti collaborativi.

in poche... parole Il positivismo è una corrente filosofica e scientifica che nasce in Francia all’indomani del congresso di Vienna (1815) e che successivamente si diffonde in Inghilterra, Germania e Italia. Il contesto culturale del positivismo è dato, da un lato, dai formidabili cambiamenti storico-sociali innescati dalla rivoluzione industriale; dall’altro, dall’assunzione del metodo scientifico a modello della conoscenza, basato sull’osservazione dei fatti e la formulazione di leggi. Per queste ragioni, il positivismo può essere considerato, da un lato, una reazione all’idealismo e al Romanticismo e, dall’altro, una filiazione dell’Illuminismo settecentesco. Con quest’ultimo, infatti, condivide la fiducia nel sapere scientifico, basato sull’esperienza, e nel miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, prodotte da un progressivo accrescimento delle conoscenze non solo in campo naturale (fisica e biologia), ma anche antropologico e sociale. La figura di maggior rilievo del positivismo in Francia è quella di Auguste Comte (1798-1857): a lui si deve la formulazione della cele102

bre legge dei tre stati di sviluppo dell’umanità e la classificazione delle scienze in base al loro grado di semplicità e di generalità. Lo stato positivo, a suo avviso non ancora pienamente raggiunto, è quello in cui l’umanità abbandona definitivamente le concezioni teologiche e metafisiche della realtà, per spiegarla in termini di leggi scientifiche. Tra le figure di maggiore rilievo del positivismo in Inghilterra, occorre ricordare quella di Jeremy Bentham (17481832), fautore di un’etica utilitaristica mirante al raggiungimento della maggiore felicità possibile per il maggior numero possibile di individui, e quella di John Stuart Mill (1806-1873). Nel suo capolavoro Sistema di logica deduttiva e induttiva (1848) Mill spiega l’ampliamento della conoscenza umana grazie all’induzione e al principio dell’uniformità della natura; in campo economico-politico, è fautore di un liberalismo radicale, basato sulla valorizzazione dell’individuo come unica strada per accrescere il benessere e la felicità di tutti.

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positivo Secondo le indicazioni

fornite da Comte il termine positivo ha più significati. 1) Può significare reale in opposizione a chimerico: a differenza della teologia e della metafisica, la filosofia positiva si impegna esclusivamente nelle ricerche che non escono dalla portata conoscitiva dell’uomo. Questo è l’ambito della vera realtà per l’uomo. 2) Può indicare l’utile in contrasto con l’inutile: la ricerca filosofica e scientifica deve essere finalizzata al miglioramento delle condizioni concrete dell’esistenza umana. 3) Può esprimere la certezza in opposizione all’indecisione: il positivismo intende, infatti, proporsi come una guida etico-politica dell’umanità. 4) Può essere sinonimo di preciso in opposizione al vago: la fumosità delle concezioni teologico-metafisiche è sostituita da un pensiero e da un linguaggio che determinano esattamente il proprio oggetto. 5) Infine, può essere contrapposto a negativo: il nuovo pensiero si propone di essere costruttivo, a differenza della filosofia moderna che – si pensi soprattutto all’Illuminismo – ha avuto un carattere essenzialmente critico e distruttivo.

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induzione Indica l’inferenza (il ragionamento) dal particolare al generale, di contro alla deduzione che va dall’universale al particolare (e ha la sua forma canonica nel sillogismo aristotelico). Nella storia della filosofia l’induzione ebbe fortuna alterna. Aristotele la ritenne valida soltanto per la dialettica e la retorica, negandole la validità della scienza dimostrativa, che si deve fondare esclusivamente sul sillogismo. Rifiutata dagli stoici, l’induzione venne invece riconosciuta dagli epicurei. La sua fondazione moderna risale a Francesco Bacone che – con il sistema delle «tavole» (di presenza, di assenza, dei gradi) – la trasformò in un procedimento sistematico di indagine per esaurire l’analisi della «forma» di un fenomeno. La contestazione di Hume – il quale nega la possibilità di inferire conclusioni generali in base a esperienze particolari – verrà ripresa anche nel dibattito epistemologico contemporaneo (Popper). Ma è John Stuart Mill a fornire la teorizzazione classica dell’induzione, sia perché chiarisce che la sua utilità consiste nel compiere generalizzazioni da un numero limitato di casi esaminati, sia perché indica nel principio dell’uniformità della natura (che equivale al principio di causalità) il fondamento logico del procedimento induttivo. liberalismo Dottrina politica che

si propone di difendere la libertà

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all’interno dello Stato. Il liberalismo – i cui presupposti teorici sono solitamente fatti risalire a Locke – si fonda generalmente sul primato dell’individuo e si propone appunto di limitare al massimo l’ingerenza dello Stato nella sfera delle libertà individuali (di pensiero, di espressione, di associazione, ecc.). Uno dei maggiori teorici ottocenteschi del liberalismo fu John Stuart Mill. Inserendosi nel dibattito scientifico sulle trasformazioni delle specie sviluppatosi tra Sette e Ottocento, Charles Darwin (18091882) elabora la teoria dell’evoluzione, basata sui princìpi della lotta per l’esistenza e della selezione naturale del più adatto. Herbert Spencer (1820-1903) ne aveva già dato una prima formulazione nel 1852 e nel 1855, ovvero assai prima della pubblicazione dell’Origine della specie (1858), applicandola ai cambiamenti della mente umana intervenuti con il susseguirsi delle generazioni. Spencer comunque estende il principio dell’evoluzione dall’ambito della trasformazione delle specie all’intera realtà. A suo avviso, infatti, si può parlare non solo di evoluzione organica, ma anche di evoluzione inorganica – riguardante lo sviluppo della Terra e, in generale, della materia – e di evoluzione superorganica – riguardante lo sviluppo della società. Alla fi-

losofia spetta, secondo Spencer, il compito di unificare i risultati ottenuti dalle singole scienze: per questo motivo, i tre princìpi dell’indistruttibilità della materia, della continuità del movimento e della persistenza della forza vengono integrati nell’unica legge generale dell’evoluzione, che regola lo sviluppo di tutta la realtà. Secondo Spencer, l’uomo è in grado di cogliere le connessioni tra i fatti, giungendo ai princìpi generali che regolano la legge dell’evoluzione, ma non è in grado di trovare il principio unitario assoluto che è alla base di tutte le relazioni, da lui soprannominato «Inconoscibile».

selezione naturale È un con-

cetto tipico dell’evoluzionismo di Darwin. Il presupposto è che in natura c’è scarsità di beni, contesi dagli individui delle diverse specie. In questa lotta per la vita sopravvivono soltanto gli individui che presentano il maggior adattamento all’ambiente. La lotta per l’esistenza – non consentendo ai più deboli di perpetuarsi – fa sì che le generazioni successive si avvalgano del patrimonio genetico dei più forti. In questo modo la selezione naturale non opera soltanto sugli individui, ma anche sulle diverse modificazioni organiche che si sono casualmente prodotte (per variazioni genetiche o altre ragioni), in modo da premiare soltanto quelle più utili all’adattamento della specie.

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i testi t10 Comte / La teoria dei tre stati Comte

Discorso sullo spirito positivo

cap. I, §§ 1-4

Comte fu un grande propagandista delle proprie idee. Soprattutto negli ultimi anni, egli cercò di diffondere il credo positivistico con opere divulgative come il Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, del 1848, o apertamente apologetiche come il Catechismo positivista, del 1852. Egli intende rivolgersi direttamente al popolo o, meglio, a quel «proletariato» a cui Marx ed Engels indirizzavano, proprio nel 1848, il Manifesto del partito comunista. Alle esposizioni divulgative appartiene anche il Discorso sullo spirito positivo, che non a caso viene premesso, come una sorta di «Discorso sul metodo», al Trattato filosofico di astronomia popolare del 1844. Proprio all’inizio dell’opera, Comte espone quella che è la dottrina centrale del suo pensiero, già formulata nel 1822 e posta a fondamento del Corso di filosofia positiva (1830-42): la teoria dei tre stati.

Tutte le nostre speculazioni, quali che siano, sono inevitabilmente soggette, sia nell’individuo che nella specie1, a passare successivamente attraverso tre stati teorici differenti, che le denominazioni abituali di teologico, metafisico e positivo potranno, qui, sufficientemente qualificare, per quelli, almeno, che ne avranno ben compreso il vero senso generale. Sebbene dapprima indispensabile, sotto tutti gli aspetti, il primo stato deve ormai essere concepito come puramente provvisorio e preparatorio; il secondo, che non ne costituisce in realtà che una modifica dissolvente, comporta solo un ruolo transitorio, per condurre gradualmente al terzo; ed è questo, il solo pienamente normale, a costituire, in tutti i modi, il regime definitivo della ragione umana.

Stato teologico All’inizio, necessariamente teologico, tutte le nostre speculazioni manifestano spontaneamente una caratteristica predilezione per le 1. Che tra lo sviluppo del singolo indi-

viduo e quello della specie ci sia una corrispondenza diretta è una dottrina più volte ricorrente nella cultura storiografica sei-settecentesca (si pensi, ad esempio, a Vico o a Herder). Nell’ambi-

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questioni più insolubili, sugli oggetti più radicalmente inaccessibili a ogni investigazione decisiva. Per un contrasto che, ai nostri giorni, deve a prima vista sembrare inspiegabile, ma che in fondo è in piena armonia con la vera situazione iniziale della nostra intelligenza in un tempo in cui lo spirito umano è ancora al di sotto dei più semplici problemi scientifici, tale spirito ricerca avidamente, e in un modo quasi esclusivo, l’origine di tutte le cose, le cause essenziali, sia prime che finali, dei diversi fenomeni che lo colpiscono, e il loro fondamentale modo di prodursi, in una parola le conoscenze assolute. Questo bisogno primitivo è naturalmente soddisfatto, tanto quanto lo esige una tale situazione, e anche, in effetti, per quanto possa mai esserlo, dalla nostra iniziale tendenza a trasportare dappertutto il tipo umano, assimilando tutti i fenomeni, quali che siano, a quelli che noi stessi produciamo e che, a questo titolo, cominciano a sembrarci abbastanza noti, per l’intuizione immediata che li accompagna2. Per ben

to del positivismo, Ernst Haeckel tenterà di conferirle dignità scientifica sostenendo la tesi per cui l’ontogenesi – lo sviluppo dell’individuo – è una «ricapitolazione» della filogenesi – dello sviluppo della specie.

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2. A fondamento dello stato teologico

vi è un atteggiamento essenzialmente antropomorfico, in base al quale l’uomo interpreta ogni rapporto causale negli stessi termini in cui egli è causa delle cose e delle azioni che fa. A fonda-

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comprendere lo spirito, puramente teologico, risultato dello sviluppo, via via sempre più sistematico, di questo stato primordiale, non bisogna limitarsi a considerarlo nella sua ultima fase, che si compie sotto i nostri occhi nelle popolazioni più avanzate, ma che non è affatto, anzi è molto lontano dall’esserlo, il più caratteristico3: diviene indispensabile gettare un colpo d’occhio veramente filosofico sull’intero suo naturale itinerario, per valutare la sua fondamentale identità sotto le tre forme principali che gli sono successivamente proprie. La forma più immediata e più accentuata costituisce il feticismo propriamente detto. Il quale consiste soprattutto nell’attribuire a tutti i corpi esteriori una vita essenzialmente analoga alla nostra, ma quasi sempre più energica, per la loro azione d’ordinario più potente. L’adorazione degli astri caratterizza il grado più elevato di questa prima fase teologica, che al principio differisce appena dallo stato mentale cui si arrestano gli animali superiori4. Sebbene si ritrovi con evidenza nella storia intellettuale di tutte le nostre società, questa prima forma della filosofia teologica ha oggi un dominio diretto solo nella meno numerosa delle tre grandi razze che compongono la nostra specie5. mento di ogni realtà vi sarebbe quindi una causa intelligente e intenzionale, sia essa efficiente o finale. In altri termini, le cose sono prodotte da agenti strutturalmente simili all’uomo, ma molto più potenti di lui. Nasce così la concezione di esseri soprannaturali, immaginati a somiglianza dell’uomo, ma forniti di poteri che vanno al di là delle capacità umane, in modo da poter fungere da occulte cause non naturali dei fenomeni naturali. 3. Nella sua forma più raffinata – il monoteismo, che, come si vedrà, succede al feticismo e al politeismo – lo stato teologico estende le sue propaggini fino all’età presente. Bisogna infatti ricordare che i tre stati, pur essendo in successione, non sempre sono cronologicamente separati. Il secondo stato comincia molto prima che il primo finisca e finisce dopo l’inizio del terzo. Ci sono cioè periodi in cui si sovrappongono più stati: lo stato teologico, ad esempio, perdura fino alla rivoluzione francese e, come si è appena visto, le

Nella sua seconda fase essenziale, che costituisce il vero politeismo, troppo spesso confuso dai moderni con lo stato precedente, lo spirito teologico rappresenta nettamente la libera preponderanza speculativa dell’immaginazione, mentre fino allora erano soprattutto prevalse, nelle teorie umane, l’istinto e il sentimento6. La filosofia iniziale vi subisce la più profonda trasformazione che possa comportare l’interezza del suo reale destino, per ciò che la vita è in esso, infine, tolta agli oggetti materiali per essere trasportata misteriosamente a diversi esseri fittizi, per lo più invisibili, il cui continuo attivo intervento diviene ormai la causa diretta di tutti i fenomeni esteriori e anche, in seguito, dei fenomeni umani7. È in questa fase caratteristica, non bene valutata oggi, che bisogna principalmente studiare lo spirito teologico, che vi si sviluppa con una pienezza e una omogeneità ulteriormente impossibili8: è, sotto tutti gli aspetti, il tempo del suo più grande ascendente, mentale e sociale ad un tempo. La maggioranza della nostra specie non è affatto ancora uscita da questo stato, che persiste oggi nella più numerosa delle tre razze umane9, oltre la parte più progredita della raz-

sue manifestazioni sono ancora vive anche quando Comte scrive; ma lo stato metafisico, che logicamente gli succede, inizia in realtà sin dall’età della Riforma. 4. Come si chiarirà successivamente, parlando del politeismo, il feticismo (o animismo) è fondato sull’istinto: in esso non vi è ancora una vera e propria attività rappresentativa, ma semplicemente il sentimento che nelle cose naturali sia nascosta un’anima vitale. 5. Si riferisce ovviamente alla razza nera. 6. Se nel feticismo gli uomini si limitavano a sentire le cose naturali come dotate di vita, con il politeismo essi pervengono, mediante l’immaginazione, a vere e proprie rappresentazioni della divinità. A differenza del feticismo, il politeismo è una espressione del pensiero, ancorché fantastico. 7. Il feticista si limita a introdurre, con il sentimento, la vita all’interno delle stesse cose inanimate. Il politeista trasferisce invece il principio vitale a esseri

immaginari – gli dèi, appunto – esterni alle cose e indipendenti da esse. 8. Il politeismo rappresenta la forma più compiuta dello stato teologico. Infatti, il feticismo non è ancora, come abbiamo visto alla n. 6, una vera espressione di pensiero; mentre il monoteismo, che succede al politeismo, è già una forma di pensiero astratto, che tende quindi a sfumare nello stato metafisico (cfr. n. 10). Soltanto nel politeismo, dunque, il principio fondamentale dello stato teologico, la riconduzione delle realtà naturali ad agenti soprannaturali e invisibili, trova piena espressione nell’elemento che gli è più proprio: il pensiero fantastico, l’immaginazione. Il pensiero immaginativo, infatti, caratterizza i popoli che, come gli antichi Greci o molte odierne popolazioni asiatiche, non sono più primitivi (e quindi hanno superato la fase del feticismo) e non sono ancora completamente civilizzati (e quindi non sono ancora giunti alle astrazioni del monoteismo). 9. La razza gialla.

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za nera e la parte meno avanzata della razza bianca. Nella terza fase teologica, il monoteismo propriamente detto, comincia l’inevitabile declino della filosofia iniziale, che pur conservando per lungo tempo una grande influenza sociale, tuttavia più apparente che reale, subisce da questo momento un rapido declino intellettuale, per una conseguenza spontanea della semplificazione caratteristica, in cui la ragione viene a restringere, via via sempre più, il precedente dominio della immaginazione, lasciando gradualmente sviluppare il sentimento universale, fino ad allora quasi insignificante, dell’assoggettamento necessario di tutti i fenomeni naturali a leggi invariabili10. [...]

Stato metafisico Per sommarie che debbano essere, qui, le spiegazioni generali sulla natura provvisoria e sul ruolo preparatorio della sola filosofia che realmente corrisponde all’infanzia dell’Umanità, esse fanno facilmente comprendere che il regime iniziale differisce troppo profondamente, sotto tutti gli aspetti, da quello che noi vedremo corrispondere alla virilità mentale, perché il passaggio dall’uno all’altro possa originariamente operarsi, sia nell’individuo che nella specie, senza l’ausilio crescente di una specie di filosofia intermedia, essenzialmente limitata a questo ufficio transitorio. Tale è la partecipazione speciale dello stato metafisico propria10. Il monoteismo è una religione che ha in gran parte un fondamento razionale. Esso, inoltre, si basa su concetti astratti, come quello dell’unità. In questo modo comincia a farsi strada l’atteggiamento metafisico, che trova nell’astrazione il suo elemento fondamentale, o perfino il concetto positivo dell’unità della legge a cui è riconducibile una molteplicità di fenomeni naturali. In ogni caso, si indebolisce la facoltà dell’immaginazione che, come abbiamo visto (cfr. n. 8), stava alla base dello stato teologico e costituiva il nerbo della concezione politeistica. 11. Avendo un carattere transitorio tra lo stato teologico – che corrisponde all’infanzia dell’umanità e del singolo uo-

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mente detto all’evoluzione fondamentale della nostra intelligenza, che, ostile a ogni mutamento brusco, può così elevarsi quasi inavvertitamente dallo stato puramente teologico allo stato francamente positivo, sebbene questa situazione equivoca si avvicini, in fondo, ben più al primo che al secondo11. Le speculazioni dominanti vi hanno conservato lo stesso carattere essenziale di tendenza abituale alle conoscenze assolute: solo la situazione vi ha subìto una trasformazione notevole, proprio per meglio facilitare l’incremento delle concezioni positive. Come la teologia, infatti, la metafisica tenta soprattutto di spiegare la natura intima degli esseri, l’origine e la destinazione di tutte le cose, il modo essenziale di produzione di tutti i fenomeni; ma, invece di servirsi degli agenti soprannaturali propriamente detti, li sostituisce via via con entità o astrazioni personificate, il cui uso, veramente caratteristico, ha spesso consentito di designarla col nome di ontologia. È troppo facile oggi osservare senza difficoltà una tale maniera di filosofare che, ancora preponderante nei confronti dei fenomeni più complicati, presenta quotidianamente, anche nelle teorie più semplici e meno arretrate, tante notevoli tracce del suo lungo dominio12. L’efficacia storica di queste entità risulta direttamente dal loro carattere equivoco: e invero, in ciascuno di questi esseri metafisici, inerente al corpo corrispondente senza confondersi con esso, lo spirito può, a volontà, secondo che sia più vicino allo stato teologico o a quello po-

mo – e quello positivo – la maturità virile – lo stato metafisico rappresenta la fase della giovinezza. Per quanto intermedio tra il primo e il terzo stato, esso è tuttavia più vicino al primo, poiché lo stato positivo o è completamente conseguito o non lo è affatto. Non è possibile dare una spiegazione semiscientifica dei fatti: o si consegue la certezza della scienza, della positività, o si rimane nell’errore e nell’ignoranza. Poco importa poi se questo errore si esprima nelle concezioni teologiche, fondate sul riferimento a divinità soprannaturali, oppure su quelle metafisiche, incentrate sul presupposto dell’esistenza di entità astratte. In entrambi i casi, i fatti sono spiegati attraverso finzioni, anzi-

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ché essere indagati nei rapporti necessari che costituiscono la loro unica spiegazione scientifica. 12. Qui si inserisce la seguente nota di Comte: «Quasi tutte le abituali spiegazioni relative ai fenomeni sociali, la maggior parte di quelle che concernono l’uomo intellettuale e morale, una gran parte delle nostre teorie fisiologiche o mediche, ricordano ancora direttamente la strana maniera di filosofare, così argutamente caratterizzata da Molière, senza alcuna grave esagerazione, nell’occasione ad esempio della virtù dormitiva dell’oppio, in conformità con lo scuotimento decisivo che Descartes aveva fatto subire a tutto il regime delle entità».

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sitivo, vedere o una vera emanazione della potenza soprannaturale o una semplice denominazione astratta del fenomeno considerato. Non è più, allora, la pura immaginazione che domina e non è ancora l’autentica osservazione; ma il ragionamento vi acquista molta estensione e si prepara confusamente all’esercizio veramente scientifico13. Si deve, d’altronde, notare che la sua parte speculativa vi si trova dapprima molto esagerata, in forza della tendenza ostinata ad argomentare invece di osservare, che in tutti i modi caratterizza d’abitudine lo spirito metafisico, anche nei suoi organi più eminenti. Un ordine di concezioni così flessibile che non comporta in nessun modo la consistenza così a lungo peculiare del sistema teologico, deve, d’altronde, giungere ben più rapidamente all’unità corrispondente, attraverso la subordinazione graduale delle diverse entità particolari a una sola entità generale, la Natura, destinata a determinare il debole equivalente metafisico della vaga connessione universale risultante dal monoteismo14.

Stato positivo Questa lunga successione di preamboli necessari conduce infine la nostra intelligenza, gradualmente emancipata, al suo stato definitivo di positività razionale, che deve essere qui ca13. La posizione intermedia dello sta-

to metafisico rispetto a quello teologico e a quello positivo si riflette anche nelle facoltà conoscitive e negli strumenti di indagine cui esso fa ricorso. Nello sta-to teologico l’utilizzazione dell’osservazione e del ragionamento è minima, mentre prevale nettamente la facoltà dell’immaginazione. Esattamente il contrario avviene nello stato positivo. Nello stato metafisico, viceversa, si fa già ricorso al ragionamento, ma esso, anziché appoggiarsi sull’osservazione rigorosa dei fatti, si intreccia ancora con l’immaginazione: il risultato è la determinazione di entità astratte, che, pur avendo ancora poco a che vedere con la generalizzazione scientifico-positiva, non sono più così immaginarie e fantastiche da essere identificate con agenti soprannaturali, ma si presentano talvolta come sem-

ratterizzato in modo più particolareggiato dei due stati precedenti. Avendo spontaneamente constatato, in questi esercizi preparatori, l’inanità radicale delle spiegazioni vaghe e arbitrarie proprie della filosofia iniziale, sia teologiche che metafisiche, lo spirito umano rinunzia ormai alle ricerche assolute che convenivano solo alla sua infanzia e circoscrive i suoi sforzi nell’ambito, perciò rapidamente progressivo, della vera osservazione, sola base possibile delle conoscenze veramente accessibili, sagacemente adattate ai nostri bisogni reali. La logica speculativa era fino ad allora consistita nel ragionare, in modo più o meno sottile, secondo princìpi confusi che, non comportando nessuna prova sufficiente, suscitavano sempre dibattiti senza esito. Essa riconosce ormai, come regola fondamentale, che ogni proposizione che non è strettamente riducibile alla semplice enunciazione di un fatto, particolare o generale15, non può presentare nessun senso reale e intelligibile. I princìpi di cui ci si serve sono, essi stessi, soltanto veri fatti, solamente più generali e più astratti di quelli di cui devono formare la connessione. Quale che sia, d’altronde, il modo, razionale o sperimentale, di procedere alla loro scoperta, è sempre dalla loro conformità, diretta o indiretta, con i fenomeni osservati che risulta esclusivamente la lo-

plici rappresentazioni astratte dei fenomeni considerati. 14. Nello stato metafisico, il ragionamento, svincolato dall’osservazione empirica, diventa speculazione astratta. Ma la speculazione è per essenza sistematica: essa tende a ricondurre tutti i fenomeni a una spiegazione unitaria. Per questo il pensiero metafisico giunge ben presto a raccogliere la totalità dei fenomeni sotto un’unica entità astratta, la Natura, concepita come un sistema armonico e totalizzante. La stessa tendenza all’unità era presente anche nello stato teologico, nel quale tuttavia il passaggio dal feticismo, che crede in un numero indefinito di spiriti, al monoteismo, che si concentra su un Dio unico, è assai più lento, poiché l’immaginazione che prevale in quello stato è più incline alla differenziazione che all’unificazione.

15. Un fatto, per Comte, è tanto più generale quanto meno dipende da altri fatti e quanto più gli altri fatti dipendono da esso. I fatti matematici sono i più generali, poiché coinvolgono qualsiasi altro fatto, che deve essere suscettibile di misurazione matematica per poter essere spiegato scientificamente. I fatti fisici, chimici, biologici sono invece vieppiù particolari. Così la legge della gravitazione universale di Newton è un fatto più generale delle leggi astronomiche di Keplero o delle leggi di Galileo sulla gravità, poiché le seconde non sono altro che applicazioni particolari della prima. In questo modo, come si chiarisce subito dopo, nel sapere scientifico i princìpi non sono enunciati speculativi indimostrabili, come avviene nel pensiero metafisico, bensì semplicemente fatti più generali che servono a spiegare fatti più particolari.

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ro efficacia scientifica. La pura immaginazione perde allora irrevocabilmente la sua antica supremazia mentale, e si subordina necessariamente all’osservazione, in modo da costituire uno stato logico pienamente normale, senza cessare tuttavia di esercitare, nelle speculazioni positive, un ruolo capitale e inesauribile per creare o perfezionare i mezzi di connessione, sia definitiva che provvisoria16. In una parola, la rivoluzione fondamentale che caratterizza la virilità della nostra intelligenza consiste essenzialmente nel sostituire, dappertutto, all’inaccessibile determinazione delle cause propriamente dette, la semplice ricerca delle leggi, cioè delle relazioni costanti che esistono tra i fenomeni osservati. Che si tratti di minori o di più sublimi effetti, di urto o di gravità come di pensiero e di moralità, noi non possiamo veramente conoscere che le diverse mutue relazioni, proprie del loro modo di compiersi, senza mai penetrare il mistero della loro produzione17. Non solamente le nostre ricerche positive devono essenzialmente ridursi, sempre, alla valutazione sistematica di ciò che è, rinunziando a scoprirne la prima origine e la destinazione finale; ma importa, inoltre, avvertire che lo stu-

16. Nello stato positivo l’immaginazio-

ne che costituiva la facoltà fondamentale del pensiero teologico e che condizionava ancora in gran parte quello metafisico non scompare completamente. Essa è soltanto subordinata rigorosamente all’osservazione empirica e strumentale: anche nello stato positivo, infatti, l’immaginazione svolge un’importante funzione euristica, in quanto consente di escogitare connessioni che non sono immediatamente evidenti in base alla semplice osservazione. Analogamente, anche il pensiero raziocinante, che caratterizza lo stato metafisico, nella fase positiva non viene affatto rifiutato, ma semplicemente disciplinato, subordinandolo ancora una volta all’osservazione e distinguendolo nettamente dall’immaginazione.

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dio dei fenomeni, invece di poter divenire in alcun modo assoluto, deve sempre restare relativo alla nostra organizzazione e alla nostra situazione. Riconoscendo, sotto questo duplice aspetto, l’imperfezione necessaria dei nostri mezzi speculativi, si vede che, lungi dal poter studiare completamente una esistenza effettiva, essi non potranno garantire in nessun modo la possibilità di constatare così, anche molto superficialmente, tutte le esistenze reali, la maggior parte delle quali forse ci deve sfuggire totalmente18. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è l’atteggiamento di pensiero che caratterizza lo «stato teologico», lo «stato metafisico» e lo «stato positivo»? 2. Lo stato metafisico è indicato da Comte come «transitorio»: individua nel testo gli elementi che ne determinano la transitorietà. 3. Qual è la regola fondamentale adottata dalla mente umana nello stato positivo? 4. Qual è il ruolo dell’immaginazione nello stato positivo? E nei due stati precedenti? 5. Descrivi ciò che caratterizza la «virilità della nostra intelligenza» conseguita nello stato positivo.

Ciò che dello stato metafisico viene completamente respinto è la tendenza alla speculazione, cioè a un uso astratto del ragionamento, svincolato dal riferimento ai fatti accertati attraverso l’osservazione empirica. 17. Questo è il carattere fondamentale dell’atteggiamento positivo. In esso viene completamente abbandonata la pretesa di conoscere l’essenza ultima delle cose, e quindi la loro causa prima. Rinunciando a dare una definizione essenziale delle cose, la scienza si occupa soltanto di fenomeni e si limita a determinare le relazioni necessarie tra di essi – cioè le leggi. 18. Se negli stati teologico e metafisico l’uomo aspira a una conoscenza assoluta della realtà – una conoscenza che colga la causa prima delle cose – il

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pensiero positivo si limita a un sapere relativo. Ciò è da intendersi sia nel senso che esso ha per oggetto soltanto le relazioni, per quanto necessarie, fra i fenomeni, sia nel senso che esso è condizionato dal carattere soggettivo della conoscenza umana. Lungi dal potere determinare l’essenza assoluta della realtà, l’uomo non giunge neppure a conoscere, anche solo fenomenicamente, tutte le realtà esistenti. La scientificità della conoscenza positiva consiste esattamente nel riconoscimento dei propri limiti e nell’abbandono di un atteggiamento gnoseologicamente presuntuoso, che in realtà conduce soltanto a fantasticherie o a interminabili discussioni su ciò che gli uomini non potranno mai conoscere.

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t11 Mill / Che cos’è l’utilitarismo Mill

Utilitarismo

cap. II

L’opuscolo Utilitarismo fu pubblicato dapprima su una rivista, in una serie di articoli, e poi definitivamente, nel 1863, in un unico volume. Lo scritto intende proporre a un vasto pubblico le linee fondamentali di quella filosofia dell’utilità che Mill, attraverso il padre James e Bentham, mutuava da una tradizione anglosassone risalente a Shaftesbury, Hutcheson e Hume. Ma esso ha anche carattere apologetico, poiché Mill si preoccupa soprattutto di mostrare come l’assimilazione dell’utilità alla felicità e al piacere non sia affatto da confondersi con una professione di volgare edonismo. In questo modo, la difesa dei princìpi utilitaristici si intreccia con la rivalutazione dell’epicureismo, che costituisce il loro più remoto referente concettuale. Ma, nello stesso tempo, l’opuscolo comporta anche una correzione del criterio puramente quantitativo cui Bentham e James Mill – gli antecedenti immediati dell’utilitarismo milliano – affidavano la valutazione della felicità e del piacere.

La dottrina che accetta come fondamento della morale l’utilità, ossia il principio della massima felicità, sostiene che le azioni siano giuste in proporzione alla loro inclinazione a promuovere la felicità, ingiuste in proporzione alla loro inclinazione a produrre il contrario della felicità1. Per felicità s’intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità, il dolore e la privazione del piacere2. Occorrerebbe dire molto di più per dare un concetto chiaro del criterio morale propugnato della teoria; in particolare, che cosa essa includa nelle idee di dolore e di piacere, e fino a che punto tale questione sia lasciata aperta. Ma queste spiegazioni supplementari non alterano la teoria della vita su cui si fonda questa teoria della moralità – ossia che il piacere e la libertà dal dolore siano le sole cose desiderabili come fini, e che tutte le cose desiderabili (che nell’ambito dell’utilitarismo sono tanto numerose quanto in qualsiasi altra dottrina) siano desiderabili o per il piacere in loro in1. L’utilitarismo giudica quindi le azio-

ni non in base alle loro intenzioni, ma alle loro conseguenze e, più precisamente, in base alla loro attitudine ad avere o non avere come conseguenza la felicità umana. 2. L’identificazione della felicità con il piacere, ribadita già da Bentham, risale a Locke, il quale nel saggio sull’intelletto umano (II, XXI, 42) aveva scritto: «La felicità, nella sua estensione piena, è il massimo piacere di cui siamo capaci, e l’infelicità il massimo dolore». La

trinseco, o come mezzi per favorire il piacere ed allontanare il dolore. Orbene, una tale teoria della vita suscita in molte persone, e fra loro in alcune fra le più stimabili, una inveterata repulsione. Si considera cosa gretta e degradante supporre che la vita non abbia un fine più elevato del piacere – nessun oggetto di desiderio e di aspirazione migliore e più nobile; la si ritiene una dottrina degna soltanto di porci, cui furono sprezzatamente assimilati nei tempi antichi i seguaci di Epicuro3, e i sostenitori moderni della dottrina sono all’occasione fatti segno di paragoni non meno scortesi da parte dei loro avversari tedeschi, francesi ed inglesi. A codesti attacchi gli Epicurei hanno sempre risposto che non essi, ma i loro accusatori rappresentano la natura umana sotto una luce degradante, poiché l’accusa suppone che gli esseri umani non siano capaci d’altri piaceri che quelli in cui sono capaci i porci4. Se questa supposizione fosse vera, l’imputazione non sareb-

concezione negativa del piacere, come assenza di dolore, è invece di derivazione epicurea. Epicuro riponeva, infatti, la felicità soprattutto nell’aponìa (da a privativo e pònos, «fatica» o «dolore»). Nello stesso modo, ha origine epicurea la concezione del dolore come non-piacere, come piacere impedito. 3. Allusione all’espressione coniata da Orazio: porcus ex grege Epicuri. La polemica anti-edonistica, e più in generale anti-eudemonistica, era particolarmente forte nel filone del Romantici-

smo inglese, rappresentato da Coleridge e Carlyle, che pure non furono ininfluenti nella formazione di Mill. 4. La presa di distanza di Mill dall’edonismo volgare – assumendo come modello la dottrina degli epicurei, ancorché corretta, come si dirà più avanti, da elementi stoici e cristiani – corre su due registri, tra di loro strettamente connessi. Da un lato, egli difende la concezione negativa del piacere, inteso come assenza di dolore; dall’altro, si preoccupa di distinguere una gerarchia

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be oppugnabile, ma non sarebbe più un’imputazione; se infatti le fonti di piacere fossero precisamente le stesse per gli esseri umani e per i porci, una norma di vita abbastanza buona per gli uni sarebbe abbastanza buona per gli altri. La comparazione della vita epicurea a quella delle bestie è sentita come degradante, precisamente perché i piaceri d’una bestia non appagano il concetto che della felicità ha un essere umano. Gli esseri umani hanno facoltà più elevate degli appetiti animali, e non considerano felicità alcuna cosa che non ne implichi l’appagamento, una volta che ne siano resi consapevoli. Non credo davvero che gli Epicurei non abbiano commesso alcun errore nel trarre le loro conseguenze dal principio utilitario. Per farlo in modo sufficiente occorre includervi molti elementi stoici e cristiani. Non si conosce tuttavia una teoria epicurea della vita che non attribuisca ai piaceri dell’intelletto, dei sentimenti, dell’immaginazione e degli impulsi morali un valore molto più elevato come piaceri che a quelli della sensazione pura. dei piaceri, che va dai più bassi piaceri sensibili ai più elevati piaceri intellettuali e morali. Per far ciò, egli si serve della distinzione – per la verità non sempre congrua e perspicua – tra la quantità e la qualità del piacere. 5. Mill opera una duplice distinzione. In primo luogo, distingue tra la natura intrinseca di un piacere e le sue conseguenze contingenti – cioè quelle conseguenze che non dipendono dalla natura stessa del piacere, ma da situazioni esterne. In secondo luogo, a questa prima distinzione egli fa corrispondere quella tra qualità e quantità dei piaceri. La scala gerarchica dei piaceri deve essere compilata in base non già a criteri quantitativi (i suoi vantaggi contingenti), bensì a un giudizio qualitativo sulla loro intrinseca natura. In questo modo, un piacere quantitativamente consistente (cioè durevole, sicuro, ecc.) può risultare meno desiderabile di un altro piacere quantitativamente più modesto, ma qualitativamente superiore. La funzione primaria di questa distinzione milliana è affermare l’intrinseca superiorità dei piaceri intellettuali e morali (per quanto quantitativamente ridotti siano) su quelli materiali (per

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Si deve tuttavia ammettere che gli scrittori utilitaristi in generale hanno posto la superiorità dei piaceri mentali rispetto a quelli fisici principalmente sulla maggiore permanenza, sicurezza, ecc. dei primi – cioè sui loro vantaggi contingenti piuttosto che sulla loro natura intrinseca5. Su tutti questi punti gli Utilitaristi hanno pienamente dimostrato la loro tesi, ma avrebbero anche potuto assumere con perfetta coerenza l’altro fondamento – quello per così dire maggiore6. È perfettamente compatibile con il principio dell’utilità riconoscere il fatto che alcune specie di piacere sono più desiderabili e valide di altre. Sarebbe assurdo che la stima dei piaceri si supponesse dipendente dalla sola quantità, mentre nella stima di tutte le altre cose si considera la qualità non meno della quantità. Se mi si chiede che cosa intenda per differenza di qualità nei piaceri, o che cosa renda un piacere più valido di un altro, puramente in quanto piacere, fuori dell’essere quantitativamente maggiore, non c’è che una sola risposta possibile7. Di due piaceri, se ad uno dànno una de-

quanto quantitativamente consistenti possano essere). Tuttavia, in queste espressioni si può avvertire anche la polemica contro l’utilitarismo di Bentham, il quale aveva proposto una classificazione puramente quantitativa dei piaceri, misurata appunto in base a quelli che per Mill sono i «vantaggi contingenti» del piacere (durata, sicurezza, estensione, purezza, ecc.). La correzione che Mill vuole apportare all’utilitarismo di Bentham e di suo padre James è motivata da una maggiore sensibilità per l’autonomia dei valori spirituali, che gli deriva dalla lettura di Coleridge e di Carlyle. In altri termini, John Stuart Mill pur rifiutando l’antieudemonismo e l’antiutilitarismo dei romantici inglesi, è preoccupato di concedere un giusto spazio nella propria concezione utilitaristica a quei valori spirituali che i romantici assolutizzavano e che i primi utilitaristi trascuravano. 6. Il fondamento per così dire maggiore è appunto la superiorità intrinseca o qualitativa di alcuni piaceri di contro alla semplice superiorità quantitativa, determinata dalle conseguenze contingenti. Appare chiaro, tuttavia, che la di-

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stinzione di Mill è poco perspicua. Non è chiaro, infatti, perché i vantaggi che derivano da un determinato piacere debbano essere conseguenze contingenti e non implicite invece nella stessa natura del piacere stesso. Di conseguenza, anche la determinazione della qualità intrinseca di un piacere in opposizione alla quantità delle sue conseguenze appare sicuramente più sfuggente dell’univoco riferimento benthamiano alla misurazione quantitativa. 7. Mill stesso ammette qui che per definire la qualità dei piaceri non esistono criteri oggettivamente determinabili e comunicabili, quali sono ad esempio i criteri quantitativi di Bentham. Tale definizione è, infatti, demandata a un istinto fondamentale – in ciò si può rinvenire anche l’influenza di Hume e dei moralisti inglesi – per cui immediatamente si sente che un piacere è qualitativamente superiore a un altro. Mill, tuttavia, sembra correggere questa valutazione immediata della qualità di un piacere con un elemento quantitativo, quando dà rilevanza all’umanità – cioè a un elemento numerico – di coloro che esprimono questa valutazione.

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cisa preferenza tutti coloro che abbiano esperienza di ambedue, senza riguardo ad un sentimento di obbligazione morale a preferirlo, quello è il piacere più desiderabile. Se coloro che abbiano di ambedue una competente conoscenza pongono uno dei due sopra l’altro, al punto da preferirlo anche sapendo che può accompagnarsi ad un maggiore disagio, e da non rinunciarvi per nessuna quantità dell’altro piacere di cui sia capace la loro natura, abbiamo ragione di attribuire al godimento preferito una superiorità qualitativa così schiacciante

da rendere la quantità, al confronto, di scarso rilievo. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è il principio fondamentale della morale dell’utilità? 2. La dottrina utilitarista, al pari di quella epicurea, fu ritenuta «degna soltanto di porci». Perché, secondo Mill, questa valutazione è del tutto errata? 3. Perché alcuni piaceri sono da preferire rispetto ad altri?

t12 Darwin / La lotta per la vita Darwin

L’origine della specie

cap. IV

Introducendo l’edizione italiana dell’Origine della specie, Giuseppe Montalenti fa le seguenti osservazioni: «L’importanza del libro di Darwin va veduta sotto due aspetti principali. In primo luogo, essa segna l’avvento della teoria dell’evoluzione [...]. Ora tale teoria, oltre al suo altissimo significato biologico, ne ha uno che interessa più direttamente l’umano genere: sovverte completamente la nozione tradizionale del posto che l’uomo occupa nella natura, lo detronizza da ‘re del creato’, e lo considera alla stregua degli altri fenomeni naturali, come una di quelle forme organizzate che esistono sulla faccia della terra, e che hanno avuto nel corso dei tempi una successione, una storia, la quale appunto si è convenuto di denominare ‘evoluzione’ [...]. Il secondo aspetto della grandezza dell’opera di Darwin consiste nella interpretazione ch’egli dà delle cause dell’evoluzione biologica. Cause strettamente ‘naturali’, cioè suscettibili di quell’analisi scientifica cui egli si dedica con tanta scrupolosa cura e con la ferma intenzione di non indulgere mai alle interpretazioni metafisiche, che, chiamando in azione ‘forze’ o ‘impulsi’ o ‘tendenze’ o ‘disegni’ superiori, introducono nel ragionamento scientifico criteri che alla scienza sono e debbono rimanere estranei». Entrambi questi aspetti emergono con evidenza nelle pagine dedicate da Darwin all’esplicazione del principio della selezione naturale, le più note delle quali vengono riprodotte nel testo seguente.

In quale modo agisce sulla variazione1, la lotta per l’esistenza, che abbiamo brevemente discussa nel capitolo precedente? Può applicarsi allo stato di natura il principio della selezione, che abbiamo visto così potente in mano del1. Si tratta delle variazioni individuali

che per motivi diversi, condizionati in parte ambientalmente in parte geneti-

l’uomo? Vedremo, credo, che questo principio ha un’azione assai efficace. Teniamo ben presente il numero infinito di lievi variazioni e differenze individuali esistenti nella nostra produzione domestica e, in grado minore, nelle

camente, rappresentano l’emergenza della novità nel succedersi delle generazioni. Appunto operando su tali varia-

zioni – cioè su tali novità – la natura seleziona gli individui in base al principio della sopravvivenza del più adatto.

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specie allo stato di natura, e non dimentichiamo altresì quanta forza abbia la tendenza ereditaria. [...] Dal momento che indubbiamente sono avvenute variazioni utili all’uomo, si può dunque ritenere improbabile che altre variazioni in qualche modo utili a ciascun essere, nella grande e complessa battaglia della vita, si presentino nel corso di molte generazioni successive? E se ciò avviene, come possiamo noi dubitare (ricordando che vengono al mondo molti più individui di quanti ne possono sopravvivere) che individui i quali godano di un qualsiasi vantaggio, sia pur minimo, rispetto agli altri, non abbiano una maggiore probabilità di sopravvivere e di riprodursi? D’altra parte possiamo essere sicuri che qualsiasi variazione, anche minimamente nociva, sarà rigorosamente distrutta. La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate selezione naturale o sopravvivenza del più adatto. Le variazioni che non sono né utili né nocive, non saranno influenzate dalla selezione naturale, e rimarranno allo stato di elementi fluttuanti, come si può osservare in certe specie polimorfe, o infine, si fisseranno, per cause dipendenti dalla natura dell’organismo e da quella delle condizioni2. Poiché l’uomo può ottenere, e certamente ha ottenuto, grandi risultati con la sua opera di selezione metodica ed inconscia, che cosa non può fare la selezione naturale? L’uomo può agire solo su caratteri esterni e visibili; la Natura, se mi si consente di personificare con que2. Le variazioni, che insorgono casualmente, possono essere utili, dannose o irrilevanti ai fini della conservazione dell’individuo. Esse, infatti, non sono prodotte in funzione all’ambiente, ma vengono selezionate da esso in base al loro grado di utilità soltanto dopo che si sono sviluppate. 3. In una pagina precedente, qui omessa, Darwin aveva precisato che per natura si deve intendere «soltanto l’azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertati». La personificazione della natura, tuttavia,

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sto nome la conservazione naturale o sopravvivenza del più adatto3, non tiene conto alcuno delle apparenze, a meno che non siano utili a qualche individuo. Essa può agire su ogni organo interno, su ogni ombra di differenza costituzionale, sull’intero meccanismo della vita. L’uomo seleziona soltanto in vista del proprio vantaggio; la Natura soltanto per il vantaggio dell’essere cui rivolge le sue cure. Ogni carattere selezionato è tenuto in piena attività dalla natura, come è implicito nel fatto stesso dell’essere stato selezionato. L’uomo raccoglie in uno stesso paese esseri nati sotto climi diversi; raramente egli esercita ciascun carattere selezionato in modo peculiare e appropriato: nutre con gli stessi cibi tanto i colombi a becco lungo quanto quelli a becco corto; non sottopone a diversi esercizi un quadrupede dalla groppa lunga o dalle lunghe gambe; ed espone allo stesso clima gli ovini a vello lungo e quelli a vello corto. Non permette ai maschi più vigorosi di lottare per il possesso della femmina. Non distrugge rigorosamente tutti gli animali di qualità inferiori, ma, per quanto è in suo potere, protegge tutti i suoi prodotti nel corso mutevole delle stagioni. Egli spesso comincia la selezione da forme semimostruose, o per lo meno con modificazioni abbastanza appariscenti da attirare la sua attenzione o da presentare un evidente vantaggio per lui4. In natura la più lieve differenza di struttura o di costruzione può rovesciare la ben equilibrata bilancia della lotta per l’esistenza, e così essere conservata. Quanto fuggevoli sono i desideri e gli sforzi dell’uomo! Quanto breve è il tempo

pur dovendo essere considerata una pura metafora, è difficilmente evitabile. Così si parla di «affinità chimiche» o di «attrazione» della gravità, senza intendere con questo che gli elementi si sintetizzino, o le parti di materia si attraggano, volontariamente. Nello stesso modo, si può parlare di «selezione naturale» senza presupporre alcuna intenzionalità della natura. 4. Paradossalmente, la selezione è meno incisiva laddove è intenzionale, come nell’uomo, che vuole modificare gli animali da lui allevati. Qui si mira, infatti, a variare soltanto alcuni aspetti –

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quelli che soggettivamente interessano l’uomo. Per far ciò, egli rinuncia a selezionare tutti gli altri, anzi tende a conservarli, operando in maniera antiselettiva per tutto ciò che non lo interessa. La selezione della natura, invece, investe tutti gli aspetti, poiché in essa tutte le variazioni, indipendentemente dalla loro appariscenza e dall’interesse che esse rivestono per l’uomo, vengono passate al vaglio della loro funzionalità in vista della conservazione dell’individuo e, indirettamente, della specie.

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in cui egli dispone! E, di conseguenza, quanto sono miseri i risultati della sua opera, al confronto di quelli accumulati dalla natura nel corso di interi periodi geologici! È dunque lecito meravigliarsi che i prodotti della natura abbiano un carattere «più genuino» di quelli dell’uomo, che essi siano infinitamente più adatti alle tanto complesse condizioni di vita, e che portino l’impronta di un magistero assai più perfetto?5 Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età, ma così imperfette sono le nostre cognizioni delle remote ere geologiche che ci è soltanto dato di vedere che le forme viventi attuali sono diverse da come erano una volta. [...] Per far comprendere con chiarezza in qual modo, secondo me, agisce la selezione naturale, mi si permettano uno o due esempi immaginari. Prendiamo il caso di un lupo che si nutra di differenti animali, catturandone alcuni con l’astuzia, altri con la forza, altri ancora con l’agilità, e supponiamo che la sua preda più veloce, ad esempio il cervo, in seguito a cambia-

5. In queste parole si potrebbe ravvisare la presenza di un «disegno» della natura in vista del perfezionamento delle specie. Ma, a parte il rifiuto darwiniano di ogni personalizzazione o ipostatizzazione della natura (cfr. n. 3), il finalismo è escluso dal carattere esclusivamente causale sia dell’emergenza delle variazioni, sia della stessa selezione naturale. Le variazioni sono infatti – come si è detto – il risultato fortuito di una serie di processi naturali, di carattere ambientale o genetico. In esse non si può ravvisare alcun ordine né al-

menti avvenuti nella regione, sia divenuto più numeroso, o che le altre predi abituali del lupo siano diminuite durante la stagione dell’anno in cui il lupo è maggiormente stimolato dalla fame. In tali circostanze i lupi più veloci e più agili avranno maggiore probabilità di sopravvivere e saranno quindi mantenuti in vita o selezionati, sempre a condizione che conservino la forza necessaria per sopraffare la preda, in ogni periodo dell’anno in cui sono spinti a nutrirsi di altri animali. Mi pare che non vi sia ragione di dubitare di questo risultato, come non si può mettere in dubbio la possibilità che ha l’uomo di aumentare l’agilità dei suoi levrieri per mezzo di una selezione accurata e metodica, o con la selezione inconscia, quale è quella operata da chiunque cerca di conservare i cani migliori, pur senza avere l’intenzione di modificare la razza. GUIDA ALLA LETTURA 1. Riassumi il contenuto della lettura con il sistema delle note a margine; poi fai una scheda del testo. 2. Che cos’è la variazione? 3. Evidenzia sul testo le espressioni che illustrano il concetto darwiniano di «selezione naturale». 4. Che cosa intende Darwin per natura? 5. Poni attenzione al seguente passo: «È dunque lecito meravigliarsi che i prodotti della natura abbiano un carattere ‘più genuino’ di quelli dell’uomo, che essi siano infinitamente più adatti alle tanto complesse condizioni di vita, e che portino l’impronta di un magistero assai più perfetto?». Valuta se questo passo lasci intravedere o no una concezione finalistica della natura.

cuna finalità, tant’è che la loro stragrande maggioranza va distrutta. Una funzione ordinativa ha invece la selezione naturale, la quale opera secondo un principio di discriminazione – la scelta del più adatto alla sopravvivenza – che influisce sul miglioramento della specie. Ma anche questo risultato obbedisce esclusivamente alla legge della causalità naturale, perché è il semplice effetto della naturale incapacità del più debole a vincere la lotta per l’esistenza e non risponde a nessun valore orientativo. I più adatti sono i «migliori» solo

dal punto di vista della forza e della capacità di sopravvivenza. Ciò apparirà evidente soprattutto quando la selezione naturale sarà applicata – nell’Origine dell’uomo – alla sfera dell’azione umana: qui sarà chiaro che l’«ordine» instaurato dalla selezione naturale, giustificando la prevaricazione del più debole da parte del più forte, sarà scarsamente adatto a fondare una teoria della convivenza o, ancor meno, della giustizia sociale.

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t13 Spencer / La legge dell’evoluzione Spencer

Primi princìpi

parte II: cap. XIV, § 115; cap. XV, §§ 116, 127, 129, 138; cap. XVII, § 145

Alla definizione della legge dell’evoluzione – esposta nei Primi princìpi, l’opera che sta a fondamento di tutte le altre parti del «sistema di filosofia sintetica» – Spencer giunge attraverso un procedimento di determinazione progressiva. Egli parte dalle due leggi generali che sono espresse dai risultati di tutte le scienze particolari: l’integrazione della materia e la dissipazione del movimento. Questi due processi sono tuttavia accompagnati da leggi costanti – passaggio dall’incoerente al coerente, dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indistinto al distinto – le quali, nel loro insieme, forniscono la legge generale dell’evoluzione.

Dall’incoerente al coerente L’evoluzione, nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme meno coerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento e all’integrazione della materia1. Questo è il processo universale attraverso cui passano gli esseri sensibili, considerati individualmente e nel loro insieme, nella fase ascendente della loro storia. I fatti provano che tale carattere è egualmente manifesto sia nei primi mutamenti che si suppone l’universo abbia subito nel suo complesso, sia negli ultimi mutamenti che ritroviamo nella società e nei prodotti della vita sociale. Dappertutto l’unificazione procede in diversi modi simultaneamente2. Nell’evoluzione del sistema solare, o di un pianeta, o di un organismo, o di una nazione, vi è una progressiva aggregazione dell’intera massa. Essa può venir prodotta dalla crescente 1. Il punto di partenza è il problema della redistribuzione della materia e del movimento nell’universo. Questa redistribuzione può essere considerata nella sua forma primaria, cioè più immediata, oppure tenendo conto anche delle redistribuzioni secondarie che essa comporta. Nel primo caso, si ha l’evoluzione semplice (con un solo livello di redistribuzione), nel secondo, l’evoluzione complessa (con più livelli di redistribuzione). Qui si considera soltanto l’evoluzione semplice, il cui processo si esaurisce nel passaggio dall’incoerente al coerente (o dal meno coerente al più coerente). In altri termini, la redistribuzione conseguente alla semplice integrazione della materia accompagnata da dissipazione di movimento comporta soltanto una progressiva coesione delle parti.

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densità della materia già contenuta in essa o dall’aggiungersi di materia che ne era prima separata oppure da entrambe le cose; ma comporta in ogni caso una perdita di movimento relativo. Nello stesso tempo le parti, nelle quali la materia si è divisa, si consolidano ciascuna al suo interno. Lo constatiamo nella formazione dei pianeti e dei satelliti, sviluppatasi parallelamente alla concentrazione della nebulosa che ha dato origine al sistema solare; lo constatiamo nella crescita di organi distinti, la quale progredisce di pari passo con la crescita di ciascun organismo; lo constatiamo infine nella nascita di particolari centri industriali e di particolari masse di popolazione, che accompagna la nascita di ogni società3. In ogni caso un grado più o meno alto di integrazione locale accompagna l’integrazione generale. Pertanto, al di là della più stretta giustapposi-

2. Il passaggio dall’incoerente al coe-

rente – come poi anche gli altri due aspetti dell’evoluzione – riflette una legge assolutamente generale. Tale generalità è espressa dal fatto che essa è universalmente applicabile sia sincronicamente (cioè a fenomeni diversi appartenenti a uno stesso tempo evolutivo) sia diacronicamente (cioè a momenti diversi del processo). In questo ultimo caso, il grado della coesione, così come quello dell’integrazione della materia e della dissipazione del movimento, sarà ovviamente proporzionale al punto di avanzamento all’interno dell’evoluzione. 3. Si è detto nella n. precedente che la prima determinazione della legge dell’evoluzione – come del resto le altre – vale per ogni fenomeno, indipendentemente dalla sua natura. Spencer con-

4. il positivismo

cretizza questa tesi adducendo tre esempi tratti dai tre ambiti in cui l’evoluzione si scandisce: inorganico (formazione dei pianeti), organico (crescita dell’organismo) e superorganico (sviluppo di determinati centri industriali). In tutti i casi, l’evoluzione passa da momenti di minore coerenza a momenti di maggiore coerenza: ad esempio, i pianeti derivano dalla progressiva compattazione di nebulose, l’articolazione degli organi di un animale dipende dalla progressiva concentrazione della materia organica (un’ameba, che è minimamente coesa, non ha organi distinti), la funzionalità di un centro industriale dipende dal grado di coesione degli individui che lo compongono.

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zione tra i componenti del tutto da un lato e tra i componenti di ciascuna parte dall’altro, troviamo anche una più stretta combinazione tra le parti, che causa la loro reciproca dipendenza4. Soltanto confusamente prefigurata negli esseri inorganici, celesti o terrestri, questa dipendenza reciproca diventa distinta in quelli organici e super-organici. Dalla più bassa forma vivente in su, il grado di sviluppo è indicato dal grado in cui le diverse parti formano un insieme capace di cooperazione. Il passaggio da quelle creature che continuano a vivere nelle singole parti anche se tagliate a pezzi alle altre che non possono perdere alcuna parte importante senza morire, o alcuna parte non importante senza provare gravi disturbi di costituzione, rappresenta un passaggio a creature che, oltre a essere più integrate in quanto a compattezza, sono più integrate anche in quanto consistono di organi che vivono l’uno per l’altro e l’uno per mezzo dell’altro. L’analogo contrasto tra società progredite non ha bisogno di esser illustrato nei particolari: l’incessante processo di coordinazione delle parti le caratterizza tutte quante.

Dall’omogeneo all’eterogeneo Nel caratterizzare come evoluzione semplice l’integrazione della materia e la dissipazione del movimento non accompagnate da re-distribuzioni secondarie abbiamo tacitamente asserito che, ove avvengano tali re-distribuzioni secondarie, si ha automaticamente la complessità5. Ovviamente se, mentre è avvenuta la trasformazio4. La progressiva coesione si realizza dunque su due livelli: da un lato tra le parti e il tutto, dall’altro all’interno delle singole parti, che tendono a costituire ciascuna un piccolo tutto, pur rimanendo organicamente connesse con il tutto complessivo. Il secondo aspetto – la progressiva coesione delle parti in se stesse – prelude al processo di graduale differenziazione che costituisce la seconda determinazione della legge evolutiva. 5. Si passa ora dall’analisi della redistribuzione primaria a quella della redistribuzione secondaria, e quindi dall’evoluzione semplice all’evoluzione

ne dall’incoerente al coerente, si sono avute anche altre trasformazioni, la massa, in luogo di rimanere uniforme, è necessariamente diventata multiforme: la proposizione è identica. Dire che la re-distribuzione primaria è accompagnata da re-distribuzioni secondarie significa dire che, insieme al mutamento da uno stato omogeneo a uno eterogeneo, le componenti della massa, integrandosi, si differenziano. Questo è il secondo aspetto sotto cui dobbiamo studiare l’evoluzione. [...] La formula generale, a questo punto della nostra analisi, deve quindi essere completata. È vero che l’evoluzione, considerata nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme meno coerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento e all’integrazione della materia; ma questa non è tutta la verità. Insieme al passaggio dall’incoerente al coerente c’è un passaggio dall’uniforme al multiforme. Ciò avviene almeno ogni qual volta l’evoluzione è composta, il che capita nell’immensa maggioranza dei casi6. [...] Il nostro concetto di evoluzione deve perciò comprendere tutti questi caratteri: in base alle nozioni di cui ora disponiamo, l’evoluzione è definibile come mutamento da un’omogeneità incoerente a un’eterogeneità coerente, che accompagna la dissipazione del movimento e l’integrazione della materia7.

Dall’infinito al definito L’evoluzione, se da un lato è un mutamento dall’omogeneo all’eterogeneo, d’altro lato co-

complessa. La redistribuzione secondaria della materia e del movimento è conseguenza di quella primaria: analogamente la seconda determinazione della legge dell’evoluzione è conseguenza della prima. Il passaggio dall’incoerente al coerente comporta infatti una progressiva differenziazione delle parti relative alla materia coesa (cfr. n. precedente), cioè un corrispondente passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo. 6. La prima e la seconda determinazione della legge dell’evoluzione stanno in rapporto di conseguenziarietà (nel senso che la seconda consegue dalla pri-

ma), ma non di connessione necessaria (nel senso che la seconda debba sempre conseguire dalla prima). Nelle sue fasi più arretrate l’evoluzione può presentare una natura semplice (non complessa), comportando un solo livello di redistribuzione della materia e del movimento (redistribuzione primaria senza la secondaria). Ma questo avviene molto raramente. 7. La seconda formulazione della legge dell’evoluzione è quindi il risultato della fusione delle prime due determinazioni: passaggio dall’incoerente al coerente e passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo.

i testi

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stituisce un mutamento dall’indefinito al definito. Insieme al passaggio dalla semplicità alla complessità vi è quello dalla confusione all’ordine, da una sistemazione indeterminata a una sistemazione determinata. Lo sviluppo, non importa di quale tipo, presenta non soltanto una moltiplicazione di parti diverse, ma anche un aumento della distinzione con cui queste parti si definiscono l’una rispetto all’altra8. [...] Questo carattere universale dell’evoluzione, pur accompagnando necessariamente quelli già indicati nelle definizioni precedenti, non era però espresso nei termini usati per enunciarle. Occorre perciò modificare ulteriormente la nostra formula. L’idea più precisa che finora possiamo formarci dell’evoluzione è la seguente: un mutamento da un’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente, che accompagna la dissipazione del movimento e l’integrazione della materia9.

Definizione conclusiva Abbiamo così trovato che il concetto definitivo dell’evoluzione deve comprendere la re-distribuzione sia del movimento conservato sia della materia che la compone10. Questa ulteriore precisazione è quasi altrettanto importante del resto. I movimenti del sistema solare hanno per noi un significato eguale a quello posseduto dalla dimensione, dalla forma e dalle distanze relative degli astri che lo compongono; e tra i fenomeni presentati da un organismo si deve ammettere che quell’insieme di azioni sensibili e insensibili, tra loro combinate, che noi chiamiamo vita, non è meno interessante dei suoi tratti strutturali. Lasciando però da parte 8. La terza determinazione – passaggio

dall’indistinto al distinto (o dal meno distinto al più distinto) – non è conseguenza della seconda, ma della prima. Si è visto (cfr. nn. 4 e 5) come il passaggio dall’incoerente al coerente (prima determinazione), essendo applicato ai rapporti interni alle singole parti oltreché a quelli tra le parti e il tutto, comporti una progressiva differenziazione. Da un lato questa differenziazione si presenta come un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo (seconda determinazione), dall’altro come un

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ogni implicito riferimento al modo in cui questi due ordini di fatti ci riguardano, è chiaro che ogni re-distribuzione di materia è necessariamente accompagnata da una re-distribuzione di movimento; e la conoscenza unificata che costituisce la filosofia deve comprendere entrambi gli aspetti di questa trasformazione. [...] La nostra formula richiede pertanto ancora un’aggiunta. Ma è quasi impossibile combinare in modo soddisfacente questa aggiunta con le definizioni precedenti; perciò, per comodità di esposizione, sarà meglio cambiare il loro ordine. Procedendo in questo modo, e fatta la dovuta aggiunta, la formula definitiva può essere così stabilita: l’evoluzione è un’integrazione di materia e una concomitante dissipazione di movimento, durante cui la materia passa da un’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente, e durante cui il movimento conservato subisce una trasformazione parallela.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo i passi che esprimono il concetto di evoluzione come legge universale. 2. In che cosa consiste il passaggio dall’incoerente al coerente e quali tipi di essere riguarda? 3. In che rapporto stanno tra loro la prima e la seconda determinazione della legge dell’evoluzione? 4. In che cosa consiste la complessità – termine introdotto da Spencer durante la trattazione del passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo? 5. La nozione di evoluzione deriva dalla combinazione di due elementi fondamentali. Quali?

passaggio dall’indistinto al distinto (terza determinazione). Progressiva eterogeneità e progressiva distinzione sono dunque due aspetti paralleli del processo di differenziazione che consegue alla progressiva coesione della materia. 9. La terza definizione della legge dell’evoluzione è il risultato della sintesi della prima, della seconda e della terza determinazione. 10. Finora Spencer ha descritto le tre leggi che si risolvono nell’unica legge dell’evoluzione, parlando di integrazio-

4. il positivismo

ne della materia e di dissipazione del movimento. Si potrebbe, quindi, avere l’impressione che la legge dell’evoluzione riguardi solo la redistribuzione della materia, dal momento che del movimento si è parlato solo come movimento dissipato. In questa ultima parte del testo, Spencer precisa però che la redistribuzione riguarda sia la materia sia il movimento, ovviamente quello che rimane in seguito alla dissipazione che si accompagna all’integrazione della materia.

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esercizi/4 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le influenze dell’Illuminismo sul positivismo. 2. Evidenzia i criteri della classificazione delle scienze formulata da Comte. 3. Evidenzia l’assunto fondamentale dell’utilitarismo di Bentham. 4. Evidenzia in che modo, secondo Mill, un ragionamento può apportare nuova conoscenza. 5. Evidenzia il programma del liberalismo radicale promosso da Mill nel saggio Sulla libertà. 6. Evidenzia la posizione di Darwin in merito alla religione. 7. Evidenzia il principio fondamentale della filosofia dell’evoluzione formulata da Spencer. Dizionario filosofico 8. Definisci i seguenti concetti: positivo (Comte) • utilitarismo (Bentham, Mill) • logica (Mill) • evoluzione (Darwin, Spencer) • Inconoscibile (Spencer)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 9. Quali sono, secondo Comte, le tre tappe principali del progresso dell’umanità? 10. Attraverso quale criterio Comte perviene alla «classificazione delle scienze»? 11. Qual è, secondo Comte, il ruolo della filosofia nel sistema generale delle scienze?

esercizi/4

12. Per quali ragioni, secondo Comte, matematica e psicologia vanno escluse dalla classificazione delle scienze? 13. Perché, secondo Comte, la sociologia è «fisica sociale»? 14. In che cosa consiste l’algebra morale teorizzata da Bentham? 15. Perché, secondo Mill, solo l’«induzione imperfetta» determina il conseguimento di nuove conoscenze? 16. Quali sono le ragioni per cui John Stuart Mill ritiene che la conoscenza abbia origine empirica? 17. In che cosa consiste «l’evoluzione superorganica», secondo Spencer? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 18. Le nozioni di «legge» e di «fatto» sono fondamentali per comprendere il programma filosoficoscientifico del positivismo. Spiega perché. 19. Illustra le corrispondenze tra la parte dinamica della sociologia e la filosofia della storia teorizzate da Comte. 20. Quale relazione viene istituita da Bentham fra «utilità» e «piacere»? 21. Quale critica muove John Stuart Mill al sillogismo aristotelico? 22. Illustra, facendo anche degli esempi, la celebre distinzione – introdotta da Mill – tra termini denotativi e termini connotativi e quella tra proposizioni verbali e proposizioni reali. 23. Illustra la relazione che Mill istituisce fra «utilitarismo» e «altruismo», mettendone in evidenza le conseguenze economiche, sociali e politiche. 24. Perché la teoria darwiniana dell’evoluzione ebbe un impatto molto forte sul dibattito ideologico e religioso?

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i contenuti la tragedia, la vita, la storia

Filologo classico, Nietzsche rivolge la propria attenzione alla tragedia greca, nella quale vede conciliati due impulsi vitali fondamentali: l’apollineo, che tende a idealizzare la realtà, conferendole quiete e serenità; il dionisiaco, che tende invece a immergersi senza freni nel caos della vita, dimenticando la propria individualità, e si esprime nella musica. L’influsso del razionalismo, rappresentato da Socrate, ha segnato la fine della tragedia e ha portato all’affermazione dell’uomo

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teoretico ottimisticamente fiducioso in una ragione capace di cogliere la realtà e la verità: nasce di qui, secondo Nietzsche, la cultura della decadenza, che contrassegna anche il presente. Un tratto di essa è la malattia storica, ossia una crescita eccessiva del sapere storico. Ma per Nietzsche la storia – nella compresenza armonica delle sue tre forme (monumentale, antiquaria e critica) – deve servire alla vita, potenziarla, non soffocarne gli impulsi attivi. la genealogia della morale

È soprattutto lo sviluppo della morale che ha finito per danneggiare la vita, a causa di errori e presupposti inconsapevoli

– in particolare l’interpretazione antropomorfica e finalistica della natura. Ciò ha prodotto l’illusione che l’uomo fosse libero e responsabile delle sue azioni. Alla radice delle azioni c’è invece l’istinto di procurarsi piaceri ed evitare dolori. Il cristianesimo – sulla scorta del platonismo – ha attribuito piena verità e bontà a un mondo intelligibile separato dal sensibile, ha condotto a una svalutazione del corpo e ha generato una morale della rinuncia e del risentimento – basata sul senso di colpa e sul bisogno di perseguire ideali ascetici. Nietzsche considera il cristianesimo come una forma di nichilismo della debolezza, una morale degli schiavi fondata sulla negazione della vita e dei suoi impulsi: l’egualitarismo e l’umanitarismo sarebbero gli ultimi eredi di essa. la morte di dio e l’avvento del superuomo

Al nichilismo passivo Nietzsche contrappone invece un nichilismo attivo, consistente in un capovolgimento di tutti i valori. A Zarathustra fa annunciare che Dio è morto e che si può quindi tornare a essere fedeli alla terra e alla vita. La figura che esprime questo oltrepassamento della morale tradizionale da parte dell’uomo è il superuomo, che poggia solo su se stesso e che – come qualsiasi altro organismo vivente – tende ad affermarsi come volontà di potenza. volontà di potenza ed eterno ritorno

La volontà di potenza non ha obiettivi fuori di sé e, pertanto, tende incessantemente ad accrescere la propria potenza. L’eterno ritorno dell’uguale è la formula in cui si compendia, secondo Nietzsche, questo dire continuamente sì alla vita e a tutto ciò che essa contiene: solo riconoscendo la pienezza di ciascun istante della vita e amando ciò che accade nel mondo, si può volere che tutto ritorni eternamente uguale.

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gli strumenti in poche… parole apollineo/dionisiaco / genealogia della morale / morte di Dio / nichilismo / superuomo / eterno ritorno / amor fati

confronti

i testi a. nel manuale t14 Nietzsche/Apollineo e dionisiaco t15 Nietzsche/La morte di Dio t16 Nietzsche/Il superuomo

b. on-line Nietzsche/La vita e la storia Nietzsche/Morale dei signori e morale degli schiavi Nietzsche/La colpa e l’ascetismo Nietzsche/Vita e volontà di potenza

La volontà in Schopenhauer e in Nietzsche

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Vita e opere la formazione

Friedrich Nietzsche nacque a Röcken, nei pressi di Lipsia in Germania, il 15 ottobre 1844; rimase presto orfano del padre, pastore protestante. Nel 1850 la madre si trasferì a Naumburg, dove Nietzsche iniziò i suoi studi e ricevette un’educazione musicale. Nel 1859 entrò nel ginnasio di Pforta, dove rimase sino al 1864, quando si immatricolò come studente di Teologia all’università di Bonn. Qui frequentò soprattutto le lezioni del filologo classico Friedrich Ritschl, che seguì quando questi si trasferì all’università di Lipsia. In questa città cominciarono a farsi avvertire le sofferenze e le malattie che lo angustieranno per tutta la vita, come reumatismi ed emicranie.

l’incontro con wagner e la carriera universitaria

Alla fine del 1868 avviene il suo primo incontro con Richard Wagner; nel frattempo legge Schopenhauer e pubblica articoli su Diogene Laerzio e Teognide. Nel 1869, grazie all’appoggio di Ritschl e del suo condiscepolo Hermann Usener, ottiene l’insegnamento di Lingua e letteratura greca presso l’università di Basilea, in Svizzera. A Basilea diventa collega dello storico Jacob Burckhardt, di cui seguirà le lezioni sulla storia e sulla civiltà greca, stringe amicizia con il teologo Franz Overbeck e, intanto, intrattiene rapporti con Wagner e Cosima von Bülow, che si sposeranno nel settembre successivo. Nominato professore ordinario a Basilea nell’aprile 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana chiede un congedo per arruolarsi come infermiere volontario, ma dopo quindici giorni si ammala di dissenteria e di difterite e viene riportato a casa. Nel gennaio 1872 Nietzsche pubblica il suo primo volume: La nascita della tragedia.

l’attenzione per la cultura greca

La pubblicazione della Nascita della tragedia lascia perplessi Ritschl e Usener, che l’interpretano come un abbandono dei metodi rigorosi della filologia; nel maggio del 1872, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff – che diventerà il maggior filologo classico in Germania a cavallo tra i due secoli – lo attacca nell’opuscolo La filologia del futuro. In quello stesso mese, Nietzsche si reca a Bayreuth per assistere alla posa della prima pietra del teatro progettato da Wagner. Tra il 1872 e il 1873 egli compone una serie di scritti che rimarranno inediti, in particolare il breve saggio Verità e menzogna in senso extramorale e l’opera più ampia La filosofia nell’epoca tragica dei greci.

l’estraneità verso il mondo moderno

Tra il 1873 e il 1874 incomincia invece a pubblicare una serie di scritti polemici, da lui raggruppati sotto il titolo di Considerazioni inattuali: il primo compare nel 1873 ed è rivolto contro David Friedrich Strauss, altri due escono nel 1874 e vertono Sull’utilità e sul danno della storia per la vita e su Schopenhauer educatore, mentre nel 1876 sarà pubblicato il quarto intitolato Richard Wagner a Bayreuth. In questi scritti Nietzsche esalta la musica wagneriana, ma già dall’estate del 1874 cominciano le tensioni nei suoi rapporti con Wagner.

la salute inferma e i soggiorni in italia

Nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Nietzsche ha continuato a svolgere il suo insegnamento presso l’università, ma nel febbraio del 1876 è costretto a chiedere un congedo per motivi di salute e nell’ottobre dello stesso anno parte per l’Italia, dando inizio a una serie di soggiorni

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che dureranno vari anni: da Genova s’imbarca con Paul Rée per Napoli e poi si reca a Sorrento, dove rimane sino al maggio del 1877. A settembre riprende l’insegnamento a Basilea e comincia a dettare a Peter Gast gli aforismi che costituiranno Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, dedicato a Voltaire e pubblicato in due parti, la prima nel 1878 e la seconda nel 1879. Nel maggio 1879 Nietzsche si dimette dall’università di Basilea, che gli concede una pensione, e si reca prima a Zurigo e poi in Engadina, dove scrive Il viandante e la sua ombra. Dopo un breve soggiorno presso la madre, trascorre gran parte del 1880 in Italia, a Riva del Garda e Venezia, poi a Marienbad, in autunno a Stresa e poi a Genova, dove risiede sino all’aprile 1881. Da allora trascorrerà periodicamente i suoi inverni a Genova e in Liguria – in particolare a Rapallo – sino al 1883, e successivamente a Nizza sino al 1888, mentre ogni estate tornerà a Sils-Maria, in Engadina. In questi soggiorni lavora alle sue opere, che escono a ritmo serrato: nel 1881 Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, nel 1882 la Gaia scienza, nel 1883 la prima e la seconda parte di Così parlò Zarathustra, cui farà seguito una terza parte pubblicata nel 1884, mentre la quarta parte non troverà editore e dovrà essere pubblicata a sue spese nel 1885. Nel 1886 pubblica a proprie spese Al di là del bene e del male e ripubblica – con nuove prefazioni – La nascita della tragedia e Umano, troppo umano. L’anno successivo accade lo stesso per Aurora, la Gaia scienza e le prime tre parti dello Zarathustra.

la produzione successiva alle dimissioni dall’università

Nell’estate del 1886 – a Sils-Maria – progetta di scrivere un’opera sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno e nel 1887 pubblica a proprie spese la Genealogia della morale. Tra l’aprile e il giugno 1888 soggiorna a Torino, una città di cui è entusiasta, e vi scrive Il caso Wagner. Dopo aver trascorso l’estate a Sils-Maria, dove lavora al Crepuscolo degli idoli, torna a Torino, dove scrive Ecce homo e Nietzsche contra Wagner. In questo periodo Nietzsche riceve i primi segni del successo delle sue opere in Europa. Il 3 gennaio 1889, mentre si trova a Torino, ha un crollo psichico; il 5 Burckhardt riceve una lettera che gli segnala le gravi condizioni di Nietzsche e avverte Overbeck, il quale si reca a Torino e lo riporta a Basilea, dove viene ricoverato in una clinica per malattie nervose.

il soggiorno torinese e il crollo psichico

Dal maggio 1890 Nietzsche vive a Naumburg, in condizioni sempre più gravi, incapace di riconoscere gli amici, in preda ad accessi d’ira e, dal 1893, paralizzato alla spina dorsale. Dapprima è assistito dalla madre, che però muore nel 1897, e in seguito dalla sorella Elisabeth. Questa, rimasta vedova, aveva fondato nel 1894 un archivio – a Weimar – con l’intento di conservare i manoscritti del fratello e di occuparsi dell’edizione completa delle sue opere. A Weimar, Nietzsche muore il 25 agosto 1900.

gli ultimi anni

La pubblicazione delle sue opere – diretta dalla sorella con la collaborazione di Peter Gast – inizia nel 1895 e comprende anche scritti postumi, alcuni dei quali pubblicati nel 1906 con il titolo La volontà di potenza. Nel 1956 Karl Schlechta avrebbe fornito una nuova edizione delle opere di Nietzsche, in tre volumi, nella quale avrebbe ripubblicato il materiale della Volontà di po-

le varie edizioni degli scritti

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tenza, ma non nell’ordine sistematico arbitrario dato dai primi editori, bensì in quello cronologico. Questo stesso criterio è quello seguito nell’edizione critica delle opere nietzscheane, che ha iniziato a comparire dal 1967 a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari e rende ora possibile uno studio di Nietzsche libero da pregiudiziali ideologiche.

2. La nascita della tragedia filologia e critica della cultura

Il giovane Nietzsche intraprende gli studi di filologia classica, animato dall’ammirazione per il mondo greco e per le sue produzioni artistiche, nelle quali scorge la manifestazione più alta della vita – in opposizione all’assenza di cultura e alla volgarità del mondo moderno. Su questo punto egli si sente in consonanza con la filosofia di Schopenhauer e con il rinnovamento estetico propugnato da Richard Wagner.

l’influenza di schopenhauer e di wagner

Di Schopenhauer egli condivide la polemica contro la filosofia ridotta a scienza oggettiva e impersonale – praticata nelle università – e l’insistenza sulla centralità del problema della vita e del suo significato. A suo avviso, inoltre, Schopenhauer e Wagner hanno contribuito a diffondere una cultura tragica, capace di cogliere l’eterna sofferenza presente nel mondo. Ma questa conoscenza tragica può essere sopportata in modo appropriato soltanto attraverso l’arte: Wagner – già nell’Opera d’arte dell’avvenire (1850) – aveva considerato la tragedia greca come l’espressione di una libera universalità, indicando in essa il modello al quale l’arte rivoluzionaria del presente doveva richiamarsi contro la cultura impoverita e degenerata del mondo moderno. Sulla base di questi presupposti e della riscoperta della grecità arcaica – già avviata a partire dagli inizi del secolo – Nietzsche compone la sua prima opera, La nascita della tragedia.

apollo e dioniso

Di fronte alle idealizzazioni del mondo greco come regno della serenità e dell’armonia, predominanti nella cultura tedesca a partire da Winckelmann, Nietzsche mette in luce come – in quello stesso mondo – siano presenti aspetti inquietanti e dolorosi. I Greci erano dominati, a suo avviso, da due impulsi vitali che egli chiama apollineo e dionisiaco [t14]. Il primo è legato alla figura del dio Apollo e corrisponde alle visioni del sogno, nelle quali la realtà appare idealizzata e luminosa: tali erano gli dèi olimpici, che furono creati dai Greci per sopportare il dolore dell’esistenza. Gli dèi, infatti, vivendo una vita simile a quella umana – ma perfetta e priva di sofferenze – giustificano la vita. L’impulso apollineo è, dunque, un impulso di bellezza, che genera un mondo illusorio e che nell’ambito delle arti figurative trova la sua espressione soprattutto nella scultura. Ma accanto a esso è presente presso i Greci l’impulso dionisiaco, che si riferisce al dio Dioniso e alle esperienze religiose legate al suo culto. Esso è un impulso di ebbrezza, che spinge a immergersi senza freni nel caos della vita – dimenticando la propria individualità – e a riconciliarsi con gli altri e con la natura attraverso la danza e il canto. Sul piano artistico l’impulso dionisiaco trova la sua espressione nella musica. Quando predomina l’impulso dionisiaco, quello

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apollineo risulta indebolito: in questo caso la verità della vita viene ritrovata nell’eccesso, anziché nella misura. La tragedia greca è il frutto della conciliazione tra l’impulso dionisiaco e quello apollineo e rappresenta, agli occhi di Nietzsche, il culmine della civiltà greca. La tragedia si sviluppa in connessione al culto di Dioniso – il dio che soffre, di cui tutti gli eroi tragici (Prometeo, Edipo e così via) sono soltanto maschere. Essa nasce dal rito della processione in onore di Dioniso di uomini mascherati da satiri (esseri per metà animali e per metà umani). Danzando e cantando in stato di eccitazione, questo coro esprimeva le sue emozioni più forti in un mondo apollineo di immagini. In un primo momento la tragedia era costituita unicamente dal coro; soltanto in seguito venne ad aggiungersi l’azione, ossia la parte drammatica (in greco dràma significa, appunto, «azione compiuta»).

l’equilibrio dei due impulsi

Perché questa suprema forma artistica a un certo punto morì? Secondo Nietzsche ciò sarebbe avvenuto con Euripide, che aveva attribuito una parte prevalente al dialogo tra i personaggi – a scapito della musica – e aveva trasformato i miti rappresentati nella tragedia in racconti di vicende dotate di uno sviluppo razionale. In tal modo, egli aveva portato sulla scena l’uomo nella sua quotidianità ed eliminato l’elemento dionisiaco. Secondo Nietzsche la decadenza della tragedia è parallela alla diffusione della filosofia di Socrate, il quale aveva sostenuto che solo chi sa è virtuoso e che soltanto ciò che è razionale è bello.

la decadenza della tragedia

Mentre nella tragedia la vita trovava una giustificazione estetica grazie alla rappresentazione artistica, ora la vita poteva essere giustificata soltanto attraverso la conoscenza. Con Socrate si era così affermato un nuovo tipo di uomo – l’uomo teoretico – il cui supremo interesse è la ricerca della verità: rispetto al pessimismo che pervade la tragedia, questo tipo di uomo è ottimista, perché nutre la fiducia che il pensiero possa giungere – mediante la dialettica e la conoscenza delle cause – a cogliere la realtà nella sua essenza. Ma questa fede, secondo Nietzsche, è puramente illusoria, perché è soltanto un mezzo di cui la volontà si serve per continuare a vivere.

socrate e il primato della razionalità

3. «Per ogni agire ci vuole oblio» Con lo sguardo rivolto alla Grecia arcaica, Nietzsche si sente estraneo al mondo moderno e intraprende una battaglia contro il presente e la sua mancanza di vera cultura, scrivendo le Considerazioni inattuali: esse sono inattuali in quanto enunciano tesi contrastanti con i valori dominanti e operano per costruire un nuovo futuro.

la critica del presente

Nella diagnosi negativa del presente, Nietzsche si incontra con Jacob Burckhardt (1818-1897), lo storico dell’arte, del Rinascimento italiano e dell’età di Costantino. Quest’ultimo – proprio nei primi anni del soggiorno di Nietzsche a Basilea – tiene lezioni sulla civiltà greca e sullo studio della storia, le quali saranno pubblicate postume con i titoli: Storia della civiltà greca

burckhardt e la crisi del mondo moderno

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(1894-1902) e Considerazioni sulla storia mondiale (1905). Sensibile all’insegnamento di Schopenhauer, anche Burckhardt non condivide la concezione ottimistica della storia formulata da Hegel né l’interpretazione del presente come culmine positivo del suo cammino progressivo. Nel mondo moderno, infatti, la libertà dell’individuo è gravemente minacciata dalle tendenze democratiche e socialistiche e dal predominio del mondo degli affari. Ciò non significa che l’attuale momento storico sia caratterizzato da una crescente decadenza; secondo Burckhardt, si deve piuttosto parlare di ascese e cadute relative. Il passaggio da un’epoca a un’altra è segnato da crisi, che portano all’eliminazione di un passato avvertito come oppressivo e all’instaurazione di qualcosa di nuovo: dunque, la crisi è segno di vitalità, in quanto ogni sviluppo spirituale avviene «a forza di urti e di salti», sia negli individui sia nelle collettività. Nella situazione minacciosa del presente l’unica consolazione è riposta nella conoscenza storica, che permette di contemplare in maniera distaccata le vicende del passato. la storia e la vita

Nietzsche condivide la diagnosi negativa del mondo moderno formulata da Burckhardt, ma assume un atteggiamento più combattivo e polemico. A suo avviso, la cultura moderna è in preda a una vera e propria malattia storica. Alla descrizione e alla terapia di questa malattia, Nietzsche tenta di provvedere con la seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e sul danno della storia per la vita . Essa è inattuale perché smaschera gli elementi potenzialmente dannosi contenuti in ciò che per l’epoca presente rappresenta un vanto: la formazione e la conoscenza storica. Il criterio per formulare questa valutazione è dato dalla vita: la storia favorisce e incrementa oppure blocca e atrofizza la vita e l’azione? L’oblio, secondo Nietzsche, è necessario alla vita: Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito. Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplicemente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà (Sull’utilità e sul danno della storia per la vita, 1).

Per poter vivere nel presente, sostiene Nietzsche, occorre dimenticare il passato, che altrimenti ci sovrasterebbe e paralizzerebbe. Ciò non significa che la storia, fondata sulla memoria del passato, sia sempre dannosa: la cosa 124

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Nietzsche La vita e la storia

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importante è ricordare nel momento giusto e nella misura adeguata. La storia deve, quindi, essere posta al servizio della vita, non viceversa. Nietzsche distingue tre tipi di storia, ciascuno dei quali è necessario entro certi limiti per il vivente. Ciascun tipo di storia è infatti nel suo diritto se rimane sul suo terreno; in caso contrario, produce soltanto atteggiamenti unilaterali dannosi per la vita. I rischi inerenti a ogni tipo di storia possono essere combattuti soltanto attraverso la limitazione derivante dagli altri.

i tre tipi di storia

La storia monumentale guarda al passato per rintracciarvi modelli e maestri che non può trovare nel presente. Essa è, dunque, propria di chi è attivo e nutre aspirazioni: dall’osservazione delle vette del passato (i monumenti) deduce che la grandezza fu una volta possibile e lo sarà ancora.

la storia monumentale...

Questo tipo di storia, tuttavia, ha anche un risvolto negativo: a) danneggia il passato stesso, perché dimentica molte parti di esso allo scopo di far emergere soltanto singoli fatti abbelliti; b) può spingere al fanatismo, ossia a identificarsi con questi monumenti del passato, oppure paralizzare la libera creazione artistica, quando i modelli appaiono ineguagliabili.

... e i suoi limiti

La storia antiquaria induce a guardare con fedeltà e amore al passato da cui si proviene, trattandolo con venerazione anche nei suoi aspetti più minuti. Questo tipo di storia è utile alla vita, in quanto ci fa sentire eredi di un passato meritevole di essere conservato.

la storia antiquaria...

Anch’essa, tuttavia, può costituire un pericolo, perché limita il proprio campo visivo soltanto alla tradizione a cui si appartiene e porta ad accettare tutto il passato in quanto è passato, rifiutando invece tutto ciò che è nuovo. In tal modo, dominata da una «furia collezionistica», essa mummifica la vita – non più ravvivata dalla freschezza del presente – e paralizza l’azione.

... e i suoi limiti

La storia critica è propria di chi soffre e ha bisogno di liberarsi del passato per poter vivere: essa porta il passato davanti a un tribunale e lo condanna. Il pericolo di questo tipo di storia è dato dal fatto che questa condanna non elimina la nostra provenienza dal passato: è impossibile, infatti, staccarsi del tutto dalla catena che ci lega a esso.

la storia critica: pregi e difetti

Ma che rapporto c’è oggi, secondo Nietzsche, tra storia e vita? La storia è diventata scienza oggettiva, priva di legami con la vita. La cultura moderna non è, dunque, vera cultura: essa non è viva, ma soltanto una forma di sapere sulla cultura. Per eccesso di storia nasce la presunzione che l’epoca presente sia più giusta di ogni altra epoca, in quanto avrebbe a sua disposizione il sapere oggettivo che permette di misurare imparzialmente il passato. In realtà, ciò conduce – secondo Nietzsche – ad adattare il passato alle opinioni correnti del presente. Ma perché l’ultimo venuto dovrebbe avere il diritto di giudicare chi è vissuto prima? Solo chi costruisce il futuro ha diritto di giudicare il passato, non chi vive adagiato nel presente, paralizzato nelle sue forze vitali. Gli errori del mondo moderno sono quelli di idolatrare il fatto compiuto, di considerare l’epoca attuale come il massimo compimento del processo storico e di ritenere che le masse – proprio perché costituite da molti individui – possano generare qualcosa di grande.

la critica dello storicismo

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gli avversari della conoscenza storica

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Quali sono, dunque, in questa fase del pensiero di Nietzsche, gli antidoti alla malattia storica? Egli ne individua due: 1) l’antistorico – ossia la forza di poter dimenticare; 2) il sovrastorico – ossia la religione, che ha la potenza di distogliere lo sguardo dal divenire per dirigerlo verso ciò che è eterno e immutabile. Non a caso la scienza storica vede nell’arte e nella religione potenti avversari, in quanto essa odia l’oblio e tende a escludere l’eterno. Ma la vita deve dominare la storia, perché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe anche se stessa.

4. La scienza e lo «spirito libero» la svolta «illuministica»: dall’arte alla scienza

La pubblicazione di Umano, troppo umano (1878) – dedicato a Voltaire – segna una svolta nella filosofia di Nietzsche. Egli prosegue la polemica contro la cultura del proprio tempo e le esaltazioni del progresso storico, ma non ravvisa più nell’arte la via per uscire dalla decadenza, bensì nella scienza. Nietzsche ora guarda con interesse, da una parte, all’Illuminismo e ai moralisti francesi del Seicento e del Settecento e, dall’altra, alle scienze naturali. In questa fase la scienza è valutata positivamente da Nietzsche non tanto perché è in grado di pervenire a conoscenze oggettive, bensì perché comporta un atteggiamento metodico e spregiudicato di fronte ai valori correnti, alle abitudini e alle regole imposte dalla società. Infatti, la scienza stessa ha la sua origine e giustificazione nei bisogni della vita: secondo Nietzsche, la conoscenza si è imposta come un bisogno essenziale e, in quanto tale, ha assunto un potere sempre più vasto nel mondo moderno. Ma questo potere crescente non dipende dal fatto che la scienza sia un sapere disinteressato, capace di cogliere la verità. Infatti, anche l’errore può essere utile alla vita e la stessa promozione della scienza nell’età moderna è avvenuta grazie ad alcuni errori inconsapevoli.

la scienza non conosce la realtà in sé

Alla scienza sono stati erroneamente attribuiti il potere di cogliere la bontà e la sapienza divina che regge l’universo e la prerogativa di essere lo strumento per realizzare la felicità umana. Sono questi errori che hanno accresciuto il peso della scienza nella vita moderna. In realtà, la rappresentazione del mondo fornita dalle scienze non coglie affatto le cose come sono in se stesse, in quanto non può andare oltre l’apparenza. Anche la scienza, infatti, ben lungi dall’essere disinteressata e neutrale, nasce dal bisogno vitale di avere certezze e rassicurazioni: è tale bisogno che ha fatto escogitare il metodo della conoscenza scientifica.

alla base della scienza vi sono i bisogni vitali

Quest’ultimo si basa sulla credenza nei legami causali tra cose ed eventi, sulla possibilità di numerare e di compiere astrazioni e generalizzazioni, allo scopo di cogliere presunte essenze stabili delle cose. Ammettere che la scienza possa nascere da errori e da bisogni vitali sembra in contrasto con l’assoluta oggettività che di consueto le viene riconosciuta. Eppure è possibile, secondo Nietzsche, che nella scienza l’interesse personale giochi un ruolo più importante della verità oggettiva e disinteressata, anzi è possibile

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che i due piani siano intrecciati, anziché contrastanti. La filosofia e la scienza hanno dunque la loro ultima origine – più che nell’istinto di conoscenza – in un istinto vitale che si è servito della conoscenza come strumento per la vita stessa.

5. Alle origini della morale Anche il dominio della morale si è costruito, secondo Nietzsche, a partire da presupposti ed errori inconsapevoli. Per questa ragione, esso deve essere sottoposto a un’indagine genealogica, ovvero a un’analisi storica che scopra l’origine delle idee morali e ne ricostruisca le trasformazioni ( genealogia della morale ). Ciò significa che non esistono valori assoluti, ma che i valori e le norme morali – alle quali la vita viene di volta in volta assoggettata – hanno la loro radice nella vita stessa e sono il prodotto di fattori «umani, troppo umani». Pensare a ciò che accade in termini morali – di bene o di male – equivale a ritenere che la natura sia orientata finalisticamente, proprio come l’agire umano. Ma le nozioni di buono e cattivo sono estranee alla natura: il divenire è di per sé innocente. Secondo Nietzsche, dunque, l’uomo è stato educato alla moralità attraverso un processo che lo ha condotto ad attribuire a se stesso qualità puramente immaginarie.

la genesi della morale nella vita dell’uomo

Anche la credenza in un io sostanziale e unitario è puramente illusoria: Nietzsche, infatti, contesta l’evidenza dell’ego cogito («io penso») cartesiano, in base al quale io esisto come qualcosa che pensa e pensare è l’attività di un essere concepito come causa del pensiero. Per sostenere ciò dovrei già sapere che cosa sia il pensare. In realtà, nulla impedisce di sostenere che un pensiero sopraggiunga per iniziativa propria, non perché sono io a volerlo.

l’illusoria credenza nell’io

Non soltanto l’idea di un io sostanziale, ma anche il principio che esista una libertà del volere è del tutto illusorio: in base a esso si crede che esistano azioni morali di cui ciascuno sarebbe responsabile. Questa credenza presuppone che chi compie un’azione, la compia sulla base di una conoscenza. In questo senso, Socrate e Platone avevano nutrito il pregiudizio che alla retta conoscenza dovesse seguire la retta azione; ma ciò, secondo Nietzsche, è continuamente smentito dai fatti. Infatti, nello svolgimento dell’azione entrano in gioco fattori non riducibili alla sola conoscenza, i quali sfuggono all’agente. Detto altrimenti, la scelta di compiere una certa azione non è mai del tutto consapevole e libera.

i moventi delle azioni sono inconsapevoli

Non si può dimostrare che il vero movente delle azioni risieda nella libertà del volere; esso va piuttosto ricercato nell’istinto di conservazione o, meglio, nell’istinto che spinge a procurarsi piaceri e a evitare dolori. Ma, se una scelta libera non è possibile, viene meno anche la possibilità di giudicare moralmente i comportamenti umani? Alcune azioni dannose esercitate nei nostri confronti sono da noi giudicate «cattive» in base all’assunto erroneo che chi ce le infligge sia dotato di una volontà libera: da questa nostra credenza scaturisce il desiderio di vendetta. In realtà queste azioni – che ap-

la ricerca del piacere e la credenza nella volontà libera

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paiono «cattive» a chi le subisce – sono compiute dall’agente allo scopo di procurare piacere a se stesso, non dolore a un altro. Quando si formula un giudizio di valore su un’azione, l’errore consiste nell’assumere come unità di misura l’effetto di essa sugli altri, mettendo in secondo piano l’agente stesso – ovvero il fatto che tale azione risulti utile o dannosa per lui. la società ha sostituito l’utile individuale con l’utile sociale

Da questo errore – comune ai più – trae origine l’idea che le regole della morale siano stabilite dalla società e che l’interesse generale debba prevalere su quello individuale. In realtà, questo modo di pensare è il frutto di un processo di occultamento delle origini individualistiche e utilitaristiche della morale. Per giungere a questo risultato, infatti, la società ha dovuto lottare contro la ricerca egoistica del piacere e dell’utile. In tal modo, essa è pervenuta a trovare i veri moventi dell’azione non nell’utile e nel piacere individuali, ma nell’interesse generale e nel bene comune. Questi valori, tuttavia, non sono – secondo Nietzsche – supremi e oggettivi, giacché anche dietro a essi si nasconde l’utile. La sola differenza è che essi promuovono l’utile sociale anziché quello individuale.

il bene e il male

Come si è visto, la società è la matrice fondamentale dei giudizi di valore. Certi valori possono essere storicamente considerati ora buoni ora cattivi, ma la gerarchia tra i valori è stabilita sempre dai più forti a scapito dei più deboli. In termini nietzscheani, la differenza tra il bene e male è sempre imposta dai signori (coloro che dominano) agli schiavi (coloro che sono dominati): i primi sono detti «i buoni» e i secondi «i cattivi» . Sono i più potenti a imporre i criteri della valutazione morale, elevando se stessi e le proprie azioni a unità di misura di ciò che è buono. Sono loro a vietare a tutti gli altri il diritto di agire in vista del proprio piacere individuale, perché ciò minaccerebbe il loro potere e la loro autorità. In questo quadro, bene è tutto ciò che garantisce e rafforza il potere del gruppo dominante; viceversa, male è tutto ciò che lo minaccia e lo indebolisce. Quando sono i dominatori a determinare la nozione di «buono», sono gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. L’uomo nobile separa da sé quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati d’elevazione e di fierezza – egli li disprezza. [...] L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma non o quasi non per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza. L’uomo nobile onora in se stesso il possente, nonché colui che sa parlare e tacere, che esercita con diletto severità e durezza contro se medesimo e nutre venerazione per tutto quanto è severo e duro (Al di là del bene e del male, cap. 9, § 260).

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Nietzsche Morale dei signori e morale degli schiavi

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In linea generale, i più accolgono la gerarchia dei valori imposta dai signori per paura: in questa situazione essi non misurano le cose e le azioni in base al piacere o al dispiacere che esse procurano loro, ma fingono di condividere i giudizi di valore dominanti. Col tempo questi criteri morali si trasformano in abitudini, inducendo ad attribuire un valore supremo al sacrificio di sé e all’altruismo. Ciò significa che i più non fanno nulla per se stessi, ma cercano di conformarsi a un modello di uomo, che è solo una finzione costruita da chi detiene il potere per il proprio vantaggio. Con l’introduzione della morale si apre un solco fra la natura e la società, sicché la morale viene a configurarsi come strumento di dominio e di repressione dell’individualità da parte della comunità. Le azioni degli individui tendono a subordinarsi all’utile della comunità, dando luogo a quello che Nietzsche chiama istinto del gregge. Con queste tesi, Nietzsche si oppone a ogni tentativo ottimistico di costruire una storia edificante. A suo avviso, l’istituzione della società, dell’etica e dello Stato non corrispondono alle tappe di uno sviluppo lineare e non testimoniano affatto il progresso dell’umanità rispetto a una condizione primitiva. Al contrario, secondo Nietzsche, la civiltà presente è il risultato di un progressivo addomesticamento.

la morale e il conformismo

6. Il cristianesimo e la morale del risentimento Nel corso della storia umana sono state escogitate diverse tavole di valori. Malgrado ciò, la morale ha sempre rappresentato – in tutte le sue varianti storiche – una forma di costrizione esercitata sull’individuo. Una svolta decisiva è rappresentata dal cristianesimo. Nietzsche interpreta il cristianesimo come erede del platonismo. Le tesi fondamentali del platonismo sono tre: 1) la netta distinzione tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (attestato appunto dai sensi corporei); 2) la superiorità del mondo intelligibile – considerato come il fondamento della verità e del valore – sul mondo sensibile – ridotto a semplice apparenza; 3) il distacco dal mondo dell’apparenza sensibile come condizione per accedere al puro mondo delle idee. L’aspirazione verso il mondo intelligibile e la fuga da quello sensibile messe in atto dal platonismo sono divenute, secondo Nietzsche, i presupposti della morale della rinuncia che il cristianesimo avrebbe ereditato e sviluppato.

cristianesimo e platonismo

Nel cristianesimo, tuttavia, la morale della rinuncia inaugurata dal platonismo si sarebbe mescolata con alcuni caratteri specifici della tradizione ebraica. Gli ebrei, secondo Nietzsche, rappresentano emblematicamente gli impotenti, ai quali è negata l’azione. Essi, pertanto, provano odio nei confronti dei potenti e del mondo e si consolano con una vendetta immaginaria. In tal modo, si sarebbe costituita la morale del risentimento, che giunge al suo trionfo con il cristianesimo. In base a essa, le azioni sono avvertite dal soggetto non come manifestazioni della sua forza e della sua accettazione della vita, ma soltanto come reazioni contro ciò che è esterno e contro gli altri. Coloro che si conformano alla morale del risentimento rie-

la radice ebraica del cristianesimo

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scono a dire sì alla vita soltanto perché attribuiscono ad altri la colpa della propria infelicità. l’origine del senso di colpa: tra debito e vendetta

Dal risentimento si sviluppa il senso di colpa, nel quale l’aggressione – anziché scaricarsi all’esterno sugli altri – viene diretta su se stessi: a questo tema è dedicata, in particolare, la seconda dissertazione della Genealogia della morale . La nozione di colpa ha origine dal concetto di debito, ossia di ciò che è dovuto per compensare un danno materiale. Per lungo tempo nella storia umana le pene furono inflitte per ira, non perché si pensava che l’autore di un danno ne fosse responsabile. In altre parole, non si credeva nella libera scelta e pertanto era impossibile giudicare qualcuno colpevole di avere agito in un certo modo – pur potendo agire diversamente. In quelle epoche arcaiche, il piacere di far violenza all’autore di un danno e il dolore che questi ne riceveva erano considerati equivalenti in valore al danno subito. Allora l’umanità non si vergognava della sua crudeltà. Con l’apparizione del Dio cristiano fa la sua comparsa il senso di colpa: si ritiene, infatti, che il dolore e l’infelicità derivino da una colpa commessa nei confronti di Dio, che diventa quindi il massimo creditore. Tratto geniale del cristianesimo è, per Nietzsche, il fatto che sia il creditore stesso (Dio) a sacrificarsi per amore del debitore (l’uomo).

la repressione degli istinti e la creazione di nuovi valori

La colpa trova la sua sede più propria nell’interiorità della coscienza: gli istinti vengono indirizzati verso l’interno, in modo da impedire che si sfoghino all’esterno, sugli altri. Gli istinti dell’uomo primitivo – l’inimicizia, la crudeltà, il piacere dell’aggressione – finiscono così per rivolgersi contro l’uomo stesso. Con il cristianesimo trionfa una nuova malattia, la più grave: la sofferenza che l’uomo impartisce a se stesso. Il fine della moralità è riposto non più nella felicità terrena, bensì nell’infelicità terrena. L’uomo si sente obbligato a fare ciò che non vuole, ma per rendere sopportabile questo dovere finge di agire per amore di Dio e degli uomini, considerati uguali davanti a Dio. Su questa base, i valori morali più importanti diventano l’altruismo, l’abnegazione di sé, l’aspirazione verso ideali ascetici.

il no alla vita

Sin da Platone i filosofi, secondo Nietzsche, hanno provato astio contro la sensualità e il corpo: questo astio, egli trova ora dominante anche in filosofi e artisti da lui prima venerati come Wagner e Schopenhauer. L’ideale ascetico tratta la vita «come un cammino sbagliato» e rappresenta il massimo di risentimento, in quanto vorrebbe signoreggiare sulla vita, usando la forza della vita stessa . Esso è, dunque, costitutivamente legato alla ricerca della sofferenza e conduce alla distruzione della salute e del gusto. Ma in tal modo il cristianesimo manifesta la sua ostilità nei confronti della vita, mascherando la propria nausea per essa con la sua fede in un’altra vita: nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche dirà che la vita finisce dove inizia «il regno di Dio».

per i cristiani questa vita non vale nulla

Se il centro di gravità del tutto è spostato fuori della vita, nell’al di là – cioè nel nulla – si elimina il centro di gravità della vita in generale. Infatti, nel cristianesimo la vita è concepita come qualcosa di «essenzialmente immorale» e proprio per questo la si combatte con la morale della negazione di sé, dell’altruismo e della compassione. In realtà, secondo Nietzsche, si prova

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Nietzsche La colpa e l’ascetismo

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compassione per gli altri soltanto perché inconsciamente si pensa a se stessi. Il cristianesimo è, dunque, una religione per sofferenti, che reprime la virilità, la bramosia di potere e – in generale – ogni istinto, ostacolando l’affermazione dei più forti e favorendo i più deboli. Esso, secondo Nietzsche, rappresenta il nichilismo della debolezza, giacché induce l’uomo a essere stanco di se stesso e riduce a niente la vita. Le moderne tendenze democratiche e socialistiche sono, secondo Nietzsche, eredi dirette della morale cristiana. Egualitarismo e umanitarismo hanno la loro matrice nell’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, la quale ha segnato il destino dell’Europa. Grazie a essa, i mediocri e i deboli hanno imparato a considerare se stessi come meta e culmine della storia. Ciò significa che gli uomini del risentimento – le cui parole d’ordine sono il primato della maggioranza, il livellamento e l’abbassamento dell’uomo – rappresentano la retrocessione dell’umanità.

cristianesimo, ideali democratici e socialisti

In questa situazione, l’utilità comune è la base delle valutazioni morali: il compito dello Stato consiste nel proteggere gli individui e nel ricercare il benessere per il maggior numero possibile di uomini. All’interno dello Stato il singolo viene educato al bene comune. Alla base di tutto ciò, secondo Nietzsche, non c’è l’amore del prossimo, ma la paura di innalzare l’individuo al di sopra della massa. Il risultato è una morale dell’equità che promuove il drastico livellamento delle prerogative e dei desideri individuali e che diffonde la mediocrità. Da ciò scaturisce l’infiacchimento dell’umanità: l’ultimo frutto di questo processo è, per Nietzsche, l’emancipazione della donna.

l’utile comune e la morale della mediocrità

In Al di là del bene e del male, Nietzsche auspica un’Europa capace di acquisire una volontà unica, che ponga fine alla commedia degli staterelli e della democrazia. Ciò può avvenire, a suo avviso, soltanto grazie a una nuova casta dominante: il problema europeo è «la disciplina educativa di una nuova classe governante d’Europa». Paradossalmente, la democratizzazione crescente finisce per formare, da una parte, uomini predisposti alla schiavitù e, dall’altra, tiranni che li sottomettono al loro totale controllo. Solo una società aristocratica potrà condurre a una elevazione del tipo «uomo»; la convinzione di una sana aristocrazia è, infatti, che «la società non può esistere per amore della società», ma per consentire l’innalzamento di individui superiori. Sono queste le tesi che impressioneranno maggiormente i lettori di Nietzsche nei primi anni della sua fortuna: riprendendone alcune – quali l’antidemocrazia e l’antiegualitarismo – e lasciandone in disparte altre – come il rifiuto dell’antisemitismo – il nazismo tenterà nel secolo successivo di appropriarsi del suo pensiero.

la nuova guida dell’europa

7. La morte di Dio e l’avvento del superuomo Nei paragrafi precedenti si è visto come Nietzsche abbia cercato di ricostruire la genesi della morale a partire dagli errori che l’hanno resa possibile. Così facendo, egli ha tentato di mostrare che proprio la morale rappre5. nietzsche

la trasvalutazione di tutti i valori

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senta il pericolo maggiore per la vita e per l’uomo. Già in Umano, troppo umano, Nietzsche formula una serie di alternative, che guideranno la sua riflessione successiva: «Non si possono capovolgere tutti i valori? Ed è forse bene il male? È Dio solo un’invenzione e una finezza del diavolo? È forse tutto in ultima analisi falso? E se noi siamo degli ingannati, non siamo per ciò stesso anche ingannatori? Non dobbiamo anche essere ingannatori?». Ma come può avvenire il capovolgimento – o la trasvalutazione (in tedesco Umwertung) – dei valori morali? Secondo Nietzsche, occorre portare sino in fondo l’impulso dell’uomo teoretico alla verità, ossia quell’«incendio» che – a partire da Platone e dalla fede cristiana – si è propagato sino a noi. Attraverso l’amore per la verità, infatti, è possibile smascherare come errori le stesse «verità» su cui si fonda la morale tradizionale: in primo luogo l’idea stessa di verità, e poi la giustizia, l’amore per il prossimo, l’amore per Dio. dal nichilismo passivo a quello attivo

Liberarsi dall’errore vuol dire liberarsi anzitutto dalla credenza erronea che esista la verità. Ciò non deve, tuttavia, portare alla sostituzione di tale errore con un’altra presunta verità: occorre, infatti, andar oltre la contrapposizione fra verità ed errore, giacché entrambi traggono origine dalla vita. Il processo di liberazione dall’errore giunge a compimento, secondo Nietzsche, con l’ateismo assoluto. Non si tratta tanto di dimostrare che Dio non esiste o di prescrivere l’eliminazione di Dio dalla vita, quanto di prendere atto del declino inarrestabile della fede in Dio e della necessità di liberare l’umanità dal senso di colpa. Dal nichilismo della debolezza perseguito dal cristianesimo occorre passare al nichilismo attivo, ossia alla negazione consapevole dei valori morali, delle credenze religiose, dei presupposti gnoseologici su cui si è fondata l’intera tradizione occidentale.

nichilismo passivo e attivo Platonismo/ Cristianesimo

Svalutazione del sensibile Risentimento, senso di colpa, ideali ascetici

Morte di Dio Trasvalutazione (= rovesciamento) di tutti i valori La Verità non esiste

Tramonto dell’uomo platonico-cristiano e avvento del superuomo

Nichilismo passivo Nichilismo attivo Sì alla vita e alla libera creazione di se stessi

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Nietzsche assegna a Zarathustra (ossia Zoroastro, riformatore della religione iranica) il compito di annunciare la «verità nuova» [t15]. A questo singolare personaggio – costruito come contraltare alla figura di Cristo – Nietzsche fa infatti pronunciare la famosa sentenza «Dio è morto» (in tedesco: Gott ist tot). Che cosa significa questa affermazione? Zarathustra asserisce che «Dio è una supposizione», caduta la quale non c’è più nulla da temere né ci sono speranze ultraterrene da nutrire, ma si può tornare a essere fedeli alla terra e alla vita. Zarathustra è «il senza Dio», che proprio per questo ha acquistato una nuova leggerezza, può danzare, ridere e rovesciare le vecchie tavole di valori, in opposizione ai dispregiatori del corpo, ai rassegnati, allo spirito di gravità.

«rimanete fedeli alla terra»

Con la morte di Dio crollano i valori che dicevano no alla vita e cade anche la supposizione dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. Zarathustra può, quindi, completare il suo annuncio in questi termini: «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva». Non essendoci più un Dio che gli dica che cosa fare, l’uomo deve – con un salto – andare oltre l’uomo com’è stato sinora. Nietzsche, infatti, considera l’uomo come un essere transitorio e lo paragona a una corda tesa fra la bestia e il superuomo . Il superuomo non si trova più – come l’uomo – tra la realtà divina e quella animale, ma fa affidamento soltanto su se stesso ed è pronto a sperimentare nuove forme di vita [t16].

l’annuncio di zarathustra

La nozione di superuomo è andata soggetta a molti fraintendimenti. Nella sua autobiografia – Ecce homo – Nietzsche definisce il superuomo come il «tipo riuscito al massimo grado», radicalmente diverso dall’uomo moderno, buono, cristiano. Egli precisa che sarebbe un errore concepirlo come un eroe o una sorta di mezzo santo e mezzo genio o, addirittura, come l’esemplare di una razza superiore, quasi un ulteriore anello nella catena evolutiva della specie umana. Sarebbe altresì erroneo considerarlo una sorta di modello con tratti e contenuti già definiti nel suo modo di vivere, da proporre all’imitazione di tutti. Ciò equivarrebbe, infatti, a reintrodurre norme e regole d’azione, che soffocherebbero nuovamente la creatività della vita e la formazione di individualità uniche e irripetibili. Più che sostituire nuovi valori ai vecchi, si tratta di eliminare la nozione stessa di valore come norma superiore a cui l’uomo e la vita dovrebbero sottomettersi. Ciò che Zarathustra insegna è una nuova volontà – la volontà libera – capace di creare il nuovo. La morte di Dio e la trasvalutazione dei valori consentono all’uomo di oltrepassare se stesso e di spingersi verso il nuovo, verso ciò che non è ancora stato scoperto né sperimentato. Ma ogni creazione comporta al tempo stesso distruzione: il nuovo può emergere solo attraverso la distruzione del vecchio e, quindi, attraverso la sofferenza.

il superuomo è al di là dell’uomo

8. La volontà di potenza come arte Come si è visto, il superuomo è caratterizzato dalla volontà libera, in quanto dà significato alla propria vita senza subire i condizionamenti della mo5. nietzsche

l’energia inconscia di tutti i viventi

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rale, della religione o della scienza dominanti. Emerge qui il tema della volontà di potenza (in tedesco: Wille zur Macht), presente già in Aurora, ma centrale anche nella Gaia scienza, sul quale Nietzsche ha lasciato numerosi appunti, che costituiranno la base dell’opera postuma pubblicata dalla sorella con questo stesso titolo. La volontà di potenza – energia inconscia propria dei viventi – non ha obiettivi fuori di se stessa, neppure quello dell’autoconservazione. È la morale tradizionale che ha parlato di fini e di intenzioni, ma questa menzogna ha nascosto che alla radice di ogni azione vi è sempre la volontà di potenza. In realtà, anche quando si fa del bene ad altri, lo si fa per mostrare che è vantaggioso per essi rimanere in nostro potere; allo stesso modo, il sacrificio del martire dipende dalla sua avidità di potenza. sì alla vita nella sua interezza

Ma se non sono né i fini né le intenzioni a dare impulso all’azione, che cosa spinge gli uomini ad agire? Secondo Nietzsche, l’unica forza agente è la volontà di potenza, ovvero una quantità di energia accumulata che non attende altro che di esplicarsi. La volontà non è dunque la manifestazione di un presunto io (o anima) – giacché, come abbiamo visto, non esiste un sostrato permanente che causi le nostre azioni [cfr. 5.5]; essa dipende invece dalla vita, che è continuo divenire e necessario superamento di se stessa. Per Nietzsche, la volontà di potenza si configura come un sì detto alla vita in ogni momento e in ogni aspetto – anche al dolore che essa contiene.

oltrepassare se stessi, accrescere la propria energia vitale

In altre parole, la volontà di potenza è essenzialmente volontà che vuole se stessa come potenza e che, quindi, tende incessantemente a potenziarsi e accrescersi . Essa conduce l’uomo ad andare continuamente «oltre (in tedesco: über) se stesso»: il super-uomo (in tedesco: Über-mensch) è colui che riesce a realizzare il continuo oltrepassamento messo in opera dalla volontà. Ciò non significa, tuttavia, che il superuomo persegua intenzionalmente lo scopo di dominare gli altri uomini: in tal caso, infatti, ci troveremmo davanti a una volontà di potenza puramente reattiva, che si lascia condizionare dagli effetti che può produrre su altri.

le interpretazioni e la loro forza vitale

La volontà di potenza è, secondo Nietzsche, alla base delle interpretazioni con cui costruiamo il nostro mondo. Egli afferma che non esistono fatti oggettivi, ma solo interpretazioni. Ogni interpretazione è violenza, unilateralità, aggiunge o toglie qualcosa. Ciò non significa che tutte le interpretazioni, a cui dà luogo la vita, siano equivalenti. Qual è, allora, il criterio per stabilire preferenze tra esse? Secondo Nietzsche, un’interpretazione risulta vera o falsa, giusta o ingiusta, se contribuisce rispettivamente a potenziare o a indebolire la vita. Detto altrimenti, il grado di verità di un’interpretazione dipende dalla quantità di volontà di potenza che si esprime in essa: La verità non è pertanto qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa sia «in sé» fisso e determinato. È una parola per la «volontà di potenza». [...]

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Nietzsche Vita e volontà di potenza

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L’uomo proietta il suo impulso di verità, il suo «fine» in un certo senso fuori di sé come mondo dell’essere, come mondo metafisico, come «cosa in sé», come mondo già esistente. Il suo bisogno inventa già, come creatore, il mondo a cui lavora, lo anticipa: questa anticipazione («questa fede» nella verità) è il suo sostegno. Ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta (La volontà di potenza, vol. VIII, t. II, frammento 65).

A coloro che si affidano alla volontà di potenza esclusivamente reattiva – tipica del passato – i filosofi dell’avvenire, liberi dai pregiudizi della morale, potranno insegnare che «l’uomo non è ancora esaurito per le sue possibilità più grandi». La volontà di potenza, infatti, è essenzialmente creazione: con la morte di Dio l’uomo diventa libero di creare se stesso per mezzo della volontà. Zarathustra è, appunto, presentato da Nietzsche come «uno che vede e vuole e crea, egli stesso, un futuro e un ponte verso il futuro». Quando descrive l’aspetto creativo della volontà di potenza, Nietzsche guarda all’arte. La figura del superuomo sembra modellarsi su quella dell’artista: non l’artista insoddisfatto, risentito o ascetico della tradizione romantica, ma quello libero e sano, che dice sì alla vita e non ha bisogno di rassicurazioni filosofiche o religiose o di modelli da seguire.

CONFRONTI

l’arte di creare se stessi

La volontà in Schopenhauer e in Nietzsche

L’influenza di Schopenhauer su Nietzsche riguarda diversi aspetti del pensiero di quest’ultimo: dalla concezione della tragicità e dell’assurdità della vita alla riflessione sull’arte, alla negazione del carattere lineare e progressivo della storia dell’uomo, alla nozione di volontà. Per Schopenhauer la volontà costituisce la vera essenza della realtà, comune a tutti gli esseri, non soltanto organici, ma anche inorganici. Essa si trova al di là del mondo della rappresentazione e delle sue tre forme a priori (spazio, tempo, causalità); per questo motivo, rimane inaccessibile alla conoscenza rappresentativa e può essere raggiunta dall’uomo soltanto grazie all’esperienza corporea. Il corpo – percepito dal-

l’esterno – ricade anch’esso nell’ambito della rappresentazione; esso può, tuttavia, essere percepito anche dall’interno come espressione di una forza primigenia non oggettivabile, che è il volere. Tale volontà – esistendo al di fuori del principio di individuazione che separa e definisce gli enti fenomenici – è unica, eterna e irrazionale: essa si presenta come una forza cieca e priva di scopo che – collocandosi al di là del mondo fenomenico – non può essere colta dalla ragione, e cioè dalla facoltà di cui l’uomo dispone per sintetizzare le rappresentazioni spaziali, temporali e causali, colte invece dalla sensibilità e dall’intelletto. Schopenhauer chiama questa volontà Wille zum Leben, volontà di vivere, e la identi-

fica come un istinto che vuole perpetuare la sopravvivenza e il volere, come la sorgente inesauribile di tutti i bisogni, come la continua aspirazione priva di fine che agita tutti i viventi. Tale volontà noumenica, che si oggettiva fenomenicamente nel corpo e si manifesta anzitutto attraverso gli impulsi e i desideri individuali, è la principale causa dell’infelicità e dell’insoddisfazione dell’uomo. Per porre rimedio alla sofferenza e al dolore, secondo Schopenhauer, è necessario negare il mondo fenomenico e il principio di individuazione su cui esso si basa, cercando così di fuoriuscire dalla catena dei continui bisogni e delle provvisorie soddisfazioni in cui siamo imprigionati. Possiamo qui rilevare una prima distanza tra 5. nietzsche

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Schopenhauer e Nietzsche: il primo indica nell’arte – e poi nell’ascesi – le strade per distaccarsi dal mondo fenomenico e spegnere la fiamma del desiderio, passando dalla voluntas (= volere sempre qualcosa) alla noluntas (= non voler più nulla). Per Nietzsche, invece, l’arte – quella tragica dei Greci, o quella rivoluzionaria prospettata da Wagner – ha il compito di fornire una «giustificazione estetica» al caos della vita e di aiutare l’uomo a non evadere da essa, ma ad accettarla entusiasticamente in tutti i suoi aspetti (gioia, dolore, lotta, incertezza, irrazionalità, ecc.). Nietzsche riprende da Schopenhauer la nozione di volontà, ma le attribuisce un significato e un valore del tutto differenti. La volontà di potenza (in tedesco, Wille zur Macht) di cui parla Nietzsche non va intesa in termini schopenhaue-

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riani, unicamente come volontà di vivere: l’autoconservazione è soltanto una conseguenza indiretta di essa. Il termine indica in Nietzsche – influenzato su questo punto dalle scienze biologiche del tempo – una prerogativa di tutti i viventi. Essa è alla base di ogni azione e corrisponde a una quantità di energia accumulata che tende a estrinsecarsi e potenziarsi incessantemente. La volontà di potenza non ha scopi al di fuori di se stessa: dunque, essa non è subordinata a fini ultraterreni o a princìpi di fede – che finiscono per negare la vita – né alla considerazione degli effetti che il proprio agire può avere su altri. La volontà di potenza dice sì alla vita in maniera incondizionata, in quanto la accetta in tutti i suoi aspetti – anche quelli dolorosi. Contrassegni di essa sono la salute, la forza, la creatività, in opposizione alla ma-

lattia, alla debolezza, alla passività, al risentimento e al senso di colpa. La volontà di potenza consente all’uomo di oltrepassare se stesso e di dive-nire superuomo (über, «oltre», Mensch, «uomo»), e cioè un uomo diverso da quello platonico-cristiano, che si libera delle «menzogne di millenni» ed è capace di vivere senza riferimenti assoluti o certezze metafisiche. Nella prospettiva della volontà di potenza, non vi sono cose in sé, princìpi morali o verità eterne, ma soltanto la libera attività di creazione con cui il superuomo costruisce se stesso e il mondo. La volontà di potenza conferisce significati sempre nuovi alla realtà, senza renderli mai dei princìpi definitivi e senza adeguarsi passivamente a modelli preesistenti, accrescendo continuamente se stessa e il proprio amore incondizionato per la vita.

9. La dottrina dell’eterno ritorno la volontà vince l’irreversibilità del tempo

Abbiamo visto come la volontà di potenza consista nella libera creazione da parte dell’uomo, che cerca di andare incessantemente oltre la sua umanità, formatasi per opera di millenarie convenzioni sociali, morali e religiose. Eppure, nel suo dispiegarsi, la volontà incontra un ostacolo: l’impossibilità di tornare indietro e di modificare il passato. Ma se fosse impacciata dal passato e lo avvertisse come vincolo, la volontà non sarebbe più libera e, quindi, non sarebbe veramente volontà di potenza. Per essere libera, la volontà di potenza deve dire: «Così volli che fosse». È questo l’altro insegnamento fondamentale di Zarathustra: «Tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse». L’ eterno ritorno dell’uguale – dice Nietzsche in Ecce homo – è la suprema formula (di origine stoica) con cui si dice sì alla vita, a tutto il piacere e a tutta la sofferenza che essa contiene. Solo se si è pienamente felici si può volere questa ripetizione eterna e soltanto con l’eterno ritorno si supera del tutto il nichilismo passivo, il no alla vita.

ogni attimo è voluto per se stesso

Come si può volere non solo il futuro, ma anche il passato – con tutte le scelte, le gioie e le sofferenze che lo hanno segnato? Il passato si presenta a noi come un dato immodificabile, del tutto fuori dalla sfera d’azione della nostra volontà. Per volere anche il proprio passato, occorre sostituire alla

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concezione lineare e progressiva del tempo – propria del cristianesimo e della mentalità moderna – una concezione ciclica del tempo, in cui ogni istante non sia valutato in funzione degli altri momenti o della totalità del tempo. Questa concezione porta a riconoscere e ad accogliere ogni momento come avente in se stesso un significato e, quindi, a volere che esso ritorni per l’eternità. Nell’aforisma 341 della Gaia scienza, Nietzsche mostra come la prospettiva dell’eterno ritorno permetta di distinguere tra l’uomo platonico-cristiano e il superuomo: per il primo, l’idea di rivivere questa vita – senza la proiezione verso la futura ricompensa ultraterrena – è solo un peso («il peso più grande»); per il superuomo, invece, l’eterno ritorno coincide con l’accettazione entusiastica della propria vita, amata così tanto da volere che essa si ripeta infinite volte. Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? (Nietzsche, La gaia scienza, libro IV, n. 341)

Si può allora parlare – con gli stoici – di amor fati , una nozione che aveva nell’Antichità – e probabilmente anche in Nietzsche – una base cosmologica. Essa significa infatti non solo sopportare, ma amare tutto ciò che accade necessariamente nel mondo e, quindi, «non voler nulla di diverso da quello che è». Ciò è indispensabile, secondo Nietzsche, per procedere con un salto alla costruzione del superuomo. Per Nietzsche, l’amor fati rappresenta l’antidoto alla morale della rinuncia con la quale il cristianesimo e le varie forme di platonismo hanno spinto gli uomini a mortificare la vita terrena in vista di quella ultraterrena. Volendo l’eterno ritorno di tutto ciò che accade, infatti, il superuomo dimostra di accettare la vita in tutti suoi aspetti – nel suo essere libero gioco di creazione e di distruzione.

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amare la vita così com’è

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in poche... parole Nella seconda metà dell’Ottocento tende a imporsi la convinzione sempre più diffusa che la civiltà occidentale stia procedendo irresistibilmente verso il progresso. Alle scoperte in campo scientifico e tecnico che portano maggiore benessere e sicurezza per tutti si aggiungono la diffusione dell’istruzione pubblica, una legislazione sociale volta a proteggere i ceti più deboli, l’affermarsi in campo politico di tendenze egualitarie. Di fronte a questo quadro, da molti ritenuto positivo, alcuni arretrano sgomenti e si domandano se ciò rappresenti un reale progresso oppure sia soltanto lo stadio terminale di una malattia che ha colpito l’Occidente. Chi più radicalmente si pose questo interroga-tivo fu Friedrich Nietzsche. Le fasi del pensiero nietzscheano sono diverse. 1) Il periodo giovanile è segnato dal forte influsso esercitato da Schopenhauer e da Wagner e dall’interesse per il mondo greco: a questa fase, appartengono scritti come La nascita della tragedia (1872), Considerazioni inattuali (1873-76), in cui Nietzsche cerca di ricostruire la nascita e la decadenza della tragedia attica, attribuendo all’arte il ruolo di fornire una giustificazione estetica della caoticità dell’esistenza. Si tratta anche del periodo in cui Nietzsche sferra un attacco polemico contro le filosofie idealistiche insegnate nelle università tedesche e contro lo storicismo imperante. 2) Il periodo intermedio – soprannominato «illuministico» o «genealogico» – è segnato dalla fiducia nella scienza, intesa non come insieme di conoscenze oggettive, ma come atteggiamento critico e spregiudicato capace di risalire ai bisogni vitali e di ricostruire i processi storici che hanno prodotto le credenze e i valori dell’uomo occidentale. A questo 138

periodo appartengono scritti quali Umano, troppo umano (187880) e La gaia scienza (1882), in cui Nietzsche smaschera il carattere utilitaristico delle nozioni (illusoriamente universali) di bene e di male, la funzione repressiva delle regole sociali, l’origine platonico-cristiana della morale. 3) L’ultima fase del pensiero di Nietzsche è quella che ha inizio con la pubblicazione di Così parlò Zarathustra (1883-85) e che continua fino al 1889, anno in cui le condizioni psichiche del filosofo si aggravano irrimediabilmente. Durante questo periodo, contrassegnato dall’annuncio della morte di Dio e del crollo di tutti gli assoluti, Nietzsche elabora le dottrine del superuomo e della volontà di potenza e ritorna sulla teoria dell’eterno ritorno, anticipata nella Gaia scienza.

apollineo/dionisiaco Coppia di

termini introdotta da Nietzsche per indicare i due impulsi vitali che avrebbero dominato il mondo greco arcaico e dalla cui conciliazione sarebbe sorta la tragedia. Il primo è connesso al dio Apollo e sta a indicare l’aspetto luminoso e rassicurante, che porta a idealizzare la realtà nelle figure degli dèi, che vivono una vita simile a quella degli uomini, ma perfetta. L’impulso connesso a ciò è dunque un impulso che produce belle forme e trova la sua espressione soprattutto nella scultura. Il dionisiaco è invece connesso al dio Dioniso e alle forme di culto legate a questa divinità, che è anche il dio del vino. Esso esprime dunque un impulso di ebbrezza, che induce a dimenticare la propria individualità per immergersi nel caos della vita e riconciliarsi con gli altri e con la natura attraverso la danza e il canto. L’espressione artistica specifica del dionisiaco è data dalla musica. Nella tragedia il mondo delle

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emozioni e della sofferenza viene espresso musicalmente in un mondo apollineo di immagini, ma con Euripide la parte narrativa e recitativa avrebbe preso il sopravvento mettendo in scena l’uomo nella sua quotidianità ed espellendo l’elemento dionisiaco.

genealogia della morale In ter-

mini generali, per «metodo genealogico» Nietzsche intende un tipo di indagine storico-critica, volta a ricostruire l’origine e le trasformazioni delle idee, delle credenze e dei valori sui cui si sono fondate per secoli la mentalità e la condotta dell’uomo occidentale. A suo avviso, infatti, non esistono verità o norme morali di carattere assoluto, poiché ognuna deriva dai bisogni vitali dell’uomo, primo fra tutti quello di rassicurarsi dall’angoscia provata di fronte alla caoticità e alla tragicità dell’esistenza. Grazie a questo metodo, sarà possibile mostrare come spesso un principio o un valore siano stati generati per reazione rispetto a una realtà o a un’esigenza del tutto opposte: «per esempio, il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall’egoismo, la verità dagli errori» (Umano, troppo umano). Nietzsche applica il metodo genealogico alla morale occidentale, per rivelare il carattere illusorio dei suoi presupposti e per risalire alla sua origine storica. Tra i falsi fondamenti della morale, Nietzsche indica: 1) la credenza in un io sostanziale, regista dei propri pensieri e delle proprie azioni; 2) l’esistenza del libero arbitrio; 3) il carattere universale e disinteressato della distinzione tra bene e male. In rapporto a quest’ultimo punto, Nietzsche è convinto che nel mondo arcaico gli individui agivano non misurando l’effetto delle proprie azioni sugli altri, ma solo per pro-

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curarsi piacere ed evitare il dolore: alla base della morale vi è, dunque, la ricerca dell’utile individuale. Inoltre, secondo Nietzsche, la società è possibile solo in quanto educa ognuno a privilegiare l’utile generale rispetto a quello individuale: i valori e le norme vengono imposti dai più forti (i signori) alla massa dei più deboli (gli schiavi), i quali per paura li interiorizzano e si abituano a seguirli. Quanto alle origini storiche della morale, Nietzsche ritiene che l’uomo occidentale moderno sia l’erede della tradizione platonico-cristiana. La commistione del platonismo – con la separazione tra mondo intelligibile e mondo sensibile – e del cristianesimo – con l’invenzione del senso di colpa e dell’uguaglianza di tutti davanti a Dio – ha condotto l’uomo occidentale a reprimere gli istinti vitali e a capovolgere i valori dominanti nelle società arcaiche – l’inimicizia, la crudeltà, il piacere dell’aggressione – in quelli dell’altruismo, dell’abnegazione di sé, dell’umiltà, con l’effetto di ridurre a niente la vita terrena, in attesa dell’al di là.

morte di Dio In Così parlò Zarathustra, Nietzsche fa annunciare a

Zarathustra – il riformatore dell’antica religione iranica del mazdeismo – la morte di Dio. Dopo un lungo periodo di meditazione solitaria, Zarathustra torna in mezzo agli uomini per diffondere la «verità nuova»: si tratta dell’avvento del superuomo, e cioè di un nuovo tipo di uomo che si è liberato della fede in Dio, ha smesso di nutrire speranze ultraterrene, vive al di là del bene e del male, dicendo sì alla vita in tutti i suoi aspetti e sperimentando liberamente nuove forme di esistenza. In questo quadro, la morte di Dio non costituisce soltanto l’affermazione di un radicale ateismo verso tutte le religioni che prospettano soluzioni anti-vitali e anti-mondane, ma anche la fine della nozione stessa di Verità e Valore, e cioè di tutte le certezze me-

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tafisiche assolute (di carattere gnoseologico, morale o religioso) che l’uomo si è costruito per conferire un ordine rassicurante al flusso caotico della realtà. Nella seconda metà dell’Ottocento, il vecchio Dio cristiano è stato infatti rimpiazzato da altre strutture metafisiche, a cui si è comunque riconosciuto il carattere di fondamento esplicativo della realtà o di valore di tutti i valori: ad esempio, l’adorazione positivistica del «fatto», la fiducia nel progresso storico, le tendenze democratiche e socialistiche, ecc. L’accettazione della morte di Dio costituisce il primo passo verso la nascita del superuomo, il solo in grado di vivere rinunciando a tutti gli assoluti e di creare il nuovo, senza subire la costrizione di princìpi o norme superiori.

nichilismo Dottrina che nega la

realtà delle cose o dei concetti e dei valori che sono comunemente considerati importanti. Nichilisti erano detti i rivoluzionari russi dell’Ottocento, che operavano per l’abbattimento totale dell’ordine e dei valori dominanti. Nietzsche ha distinto due forme di nichilismo: 1) il nichilismo passivo (o della debolezza), proprio della tradizione cristiana occidentale, il quale dice no alla vita; 2) il nichilismo attivo, che annuncia la morte di Dio – inteso come fondamento dei valori di questa tradizione – e il tramonto dell’uomo. In tal modo, il nichilismo attivo prepara l’avvento del superuomo ed è espressione della volontà di potenza che dice sì alla vita in tutti i suoi aspetti.

superuomo Termine introdotto da Nietzsche per indicare la figura che va oltre l’uomo formatosi storicamente sotto l’influsso della morale, del platonismo e del cristianesimo. In tal senso, il superuomo è l’opposto dell’uomo che soffoca gli impulsi vitali, svaluta la corporeità e la vita, sacrifica se stesso a favore di altri e della società. Prendendo atto della morte

di Dio e del declino inarrestabile della fede in Dio, vengono a cadere il timore di future punizioni divine e la speranza in un mondo ultraterreno superiore a quello terreno. In tal modo il superuomo può con un salto abbandonare i vecchi codici di valori e superare l’uomo com’è stato sinora. Perfino l’uomo, infatti, al pari di tutte le cose che sempre divengono, è un’entità transitoria. Il superuomo poggia soltanto su se stesso – non più su Dio – e dice sì alla vita, accettandola in tutti i suoi aspetti.

eterno ritorno Nietzsche presenta la dottrina dell’eterno ritorno nell’aforisma 341 della Gaia scienza [cfr. p. 137] e in un capitolo, intitolato «La visione e l’enigma», della parte III di Così parlò Zarathustra. La dottrina dell’eterno ritorno deve essere compresa in relazione alle nozioni di superuomo e di volontà di potenza. Il superuomo, come si è visto, è colui che crea liberamente se stesso attraverso la volontà di potenza, e cioè assecondando la spinta incessante ad oltrepassare se stesso verso nuove forme di vita. Il principale scoglio al totale dispiegamento della volontà di potenza è rappresentato dall’irreversibilità del tempo: il passato, infatti, appare come un dato immodificabile, che vincola irrevocabilmente le scelte presenti e ostacola la creatività del superuomo. Di qui l’esigenza di volere non solo il presente e il futuro, ma anche il passato: «Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: ‘ma così volli che fosse!’ – Finché la volontà che crea non dica anche: ‘ma io così voglio! Così vorrò!» (Così parlò Zarathustra, parte II, Della redenzione). Per far ciò, occorre rinunciare alla concezione unidirezionale del tempo, propria della tradizione ebraico-cristiana, e adottare la concezione ciclica, 5. nietzsche

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di origine storica, secondo la quale – terminato un ciclo cosmico – tutto ciò che è accaduto nel mondo si ripeterà infinite volte, sempre nello stesso modo. Mentre nella concezione progressiva del tempo, ogni istante è destinato a essere consumato dal successivo e a differire il proprio valore nel futuro, nella concezione ciclica

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ogni attimo è dotato di significato in se stesso. Volendo l’eterno ritorno di tutto ciò che accade, dunque, il superuomo non rinvia la propria felicità in un ipotetico altrove, ma dimostra di amare ogni attimo della sua vita, con le sue gioie e i suoi dolori.

amor fati Espressione latina che

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significa letteralmente «amore del fato o del destino», usata da Nietzsche per indicare non tanto l’accettazione passiva, quanto piuttosto l’amore di tutto ciò che accade necessariamente nel mondo. Esso è un tratto fondamentale del superuomo, che accetta integralmente la vita e non vuole nulla di diverso da ciò che è.

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i testi t14 Nietzsche / Apollineo e dionisiaco Nietzsche

La nascita della tragedia

1-3 passim

La nascita della tragedia è la prima opera pubblicata da Nietzsche: essa comparve nel gennaio del 1872 e, in una seconda edizione migliorata, nel 1874, ma ebbe una lunga gestazione. Nietzsche cominciò a lavorarvi già nell’inverno fra il 1868 e il 1869 e, agli inizi del 1870, tenne due conferenze, a Basilea, su «Il dramma musicale greco» e su «Socrate e la tragedia», il cui contenuto anticipa il volume. Esso ha per oggetto non soltanto la tragedia, ma l’intera cultura ellenica, dalle sue manifestazioni più arcaiche sino alla sua decadenza, iniziata con Socrate e culminata nell’età alessandrina. Questa interpretazione complessiva del mondo greco è intrecciata da Nietzsche con la sua concezione filosofica della vita, che tuttavia assume la forma non di una trattazione sistematica, ma di una ricostruzione storica del passato e dei suoi effetti sul mondo moderno. Qui sono riportati i capitoli iniziali, nei quali Nietzsche distingue e descrive i due impulsi dominanti nell’esperienza della vita e del mondo, propria dei Greci, l’apollineo e il dionisiaco, e le espressioni artistiche corrispondenti a essi.

L’apollineo Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente1. Questi nomi noi li prendiamo a prestito dai greci, che rendono percepibili a chi capisce le profonde dottrine occulte della loro visione dell’arte non certo mediante concetti, bensì mediante le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e 1. Come obiettivo della propria trattazione, Nietzsche indica la costruzione di una teoria dell’arte, la quale parte però da un’intuizione, più che da una dimostrazione logica in termini puramente concettuali. Si tratta dell’intuizione che fa cogliere come alla base dell’arte esistano due istinti o impulsi fondamentali, paragonati da Nietzsche alle due polarità antagonistiche del maschile e del femminile. L’arte si afferma pienamente soltanto quando tra

Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine «arte» solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della «volontà» ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica2.

questi due istinti contrastanti avviene una riconciliazione. L’intuizione può cogliere questo fatto, secondo Nietzsche, se si guarda al mondo greco e, in particolare, agli dèi dei Greci: qui emergono due divinità, Apollo e Dioniso, che Nietzsche chiama «artistiche», in quanto appaiono legate alle due manifestazioni artistiche antitetiche della scultura e della musica. 2. Le due arti, scultura e musica, sono riconducibili a due impulsi contrastanti,

che Nietzsche equipara ai due fenomeni fisiologici del sogno e dell’ebbrezza: in questo senso, esse hanno un legame intrinseco con esperienze della vita. Nella tragedia attica questi due impulsi riescono a fondersi, dando luogo alla forma più alta di arte, ma ciò non dipende dall’iniziativa consapevole di singoli poeti, bensì è frutto di quello che Nietzsche chiama «un miracoloso atto metafisico», dipendente da una volontà sovraindividuale. Nietzsche riprende

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Per accostarci di più a quei due impulsi, immaginiamoli innazitutto come i mondi artistici separati del sogno e dell’ebbrezza; fra questi fenomeni fisiologici si può notare un contrasto corrispondente a quello fra l’apollineo e il dionisiaco. Nel sogno apparvero dapprima alle anime degli uomini, secondo la rappresentazione di Lucrezio3, le magnifiche figure degli dèi; nel sogno il grande scultore vide le incantevoli forme di esseri sovrumani, e il poeta ellenico, interrogato sui segreti della creazione poetica, avrebbe ugualmente ricordato il sogno e dato un ammaestramento simile a quello che Hans Sachs dà nei Maestri cantori: Amico mio, proprio questa è l’opera del poeta, che egli interpreti e noti il suo sognare. Credetemi, la più vera illusione dell’uomo gli viene aperta nel sogno: ogni arte poetica e poesia non è che interpretazione del sogno vero4. La bella parvenza dei mondi del sogno, nella cui produzione ogni uomo è artista pieno, è il presupposto di ogni arte figurativa, anzi, come vedremo, altresì di una metà essenziale della poesia. Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte le forme ci parlano, non c’è niente di indifferente e di non necessario. [...] questo concetto di volontà da Schopenhauer: come essa conduce talvolta i due sessi opposti ad accoppiarsi e in tal modo a generare nuova vita, così avviene anche con questi due impulsi artistici contrapposti. 3. Il riferimento è a Lucrezio, Sulla natura delle cose, V, 1169-1182. È propria dell’epicureismo la concezione secondo cui gli dèi esistono: poiché ogni conoscenza ha il suo punto di partenza nella percezione di immagini formate da atomi provenienti dagli oggetti, le quali riproducono le sembianze di questi oggetti, così sarà anche per la conoscenza degli dèi. In questa prospettiva, il sogno è interpretato come una delle esperienze nelle quali ha luogo la percezione delle immagini delle divinità [cfr. vol. I, 6.5]. 4. Sono versi pronunciati dall’artigiano-poeta Hans Sachs, uno dei protagonisti dell’opera di Wagner I maestri cantori di Norimberga. Il sogno è presentato da Nietzsche come l’ambito nel

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5. nietzsche

Il dionisiaco Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre5. Si trasformi l’inno alla «gioia» di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco6. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la «moda sfacciata» hanno stabilite fra gli uomini7. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria8. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto

quale la realtà viene idealizzata e le figure appaiono in tutto lo splendore della loro bellezza. In questo senso, il sogno è l’ambito appropriato per la manifestazione del divino nella sua forma apollinea, ossia bella, serena e armoniosa. D’altra parte, è proprio questa idealizzazione che fa del sogno stesso un mondo illusorio, contrastante con il dolore ineliminabile dall’esistenza umana. 5. Nell’esperienza legata al culto del dio Dioniso, al quale era attribuita, fra l’altro, l’invenzione del vino, l’impulso dominante era, secondo Nietzsche, l’ebbrezza, che trovava espressione nella danza e nel canto corale. Grazie a essa il singolo cessava di avvertirsi come tale e, quindi, condannato al «principio di individuazione» (di cui aveva parlato Schopenhauer), ma si sentiva congiunto al tutto e alla natura, alla terra e agli animali, che non gli apparivano più come entità distinte da lui e perciò ostili.

6. Il riferimento è all’ultimo tempo

della Nona sinfonia di Beethoven, in cui il coro canta «L’inno alla gioia» di Schiller. In esso risuona l’invito: «Siate abbracciate, o genti (in tedesco, Millionen)», che equivale a un incoraggiamento alla pace e alla concordia universali. 7. L’esperienza dionisiaca è soprattutto un’esperienza di liberazione da ogni vincolo, sia da quello dell’individualità, sia da quelli imposti dalle convenzioni e dalle norme sociali. 8. Era Schopenhauer che aveva mostrato, nell’esperienza che squarcia il «velo di Maya», la via di accesso al principio unitario del tutto: la volontà [cfr. 1.3]. Schopenhauer desumeva l’espressione «velo di Maya» dalla filosofia indiana: essa indicava per lui il mondo illusorio dei fenomeni, dei sogni e del principio di individuazione.

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di volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli animali parlano, e la terra dà latte e miele, così anche risuona in lui qualcosa di soprannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira ora in estasi e in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dèi. L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria9. [...] Il canto e la mimica di tali invasati dai duplici sentimenti furono per il mondo omerico dei greci qualcosa di nuovo e di inaudito. In particolare suscitò in esso spavento e orrore la musica dionisiaca. Se, a quanto sembra, la musica era già conosciuta come un’arte apollinea, lo era solo, parlando rigorosamente, come onda del ritmo, la cui forza plastica veniva sviluppata per la rappresentazione di stati apollinei. La musica di Apollo era architettura dorica in suoni, ma in suoni solo accennati, quali appartengono alla cetra. È tenuto cautamente lontano, come non apollineo, proprio l’elemento che costituisce il carattere della musica dionisiaca, e pertanto della musica in genere, la violenza sconvolgente del suono, la corrente unitaria della melodia e il mondo assolutamente incomparabile dell’armonia10. Nel ditirambo dionisiaco l’uomo viene stimolato al massimo potenziamento di tutte le sue facoltà simboli9. Il culmine dell’esperienza dionisiaca è dato dall’estasi, in cui l’uomo fa tutt’uno con il principio unitario del tutto e, quindi, non è più un individuo separato dal resto. In quest’esperienza l’uomo non è più consapevole nel suo agire e nel suo produrre opere d’arte, anzi si è trasformato egli stesso in un’opera d’arte, in un prodotto della creatività della natura. 10. La musica è l’elemento dominante nella forma d’arte dionisiaca: caratteristica saliente di essa è di non essere subordinata alla rappresentazione, come avviene invece nel caso dell’arte apollinea per eccellenza, la scultura. Lo scatenamento del puro suono ha l’effetto di sconvolgere violentemente la serenità e l’equilibrio, che Nietzsche ritiene propri del mondo descritto nei poemi omerici.

che; qualcosa di mai sentito preme per manifestarsi, l’annientamento del velo di Maia, l’unificazione come genio della specie anzi della natura11. Ora l’essenza della natura deve esprimersi simbolicamente; è necessario un nuovo mondo di simboli, e anzitutto l’intero simbolismo del corpo, non soltanto il simbolismo della bocca, del volto, della parola, ma anche la totale mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra. In seguito crescono all’improvviso e impetuosamente le altre capacità simboliche, quelle della musica, come ritmica, dinamica e armonia. Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche, l’uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente: il ditirambico seguace di Dioniso viene quindi compreso solo dai suoi simili!12 Con quale stupore dové guardare a lui il greco apollineo! [...] Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme differenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Promoteo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, in-

11. Cfr. n. 8. Si ricordi che per Schopenhauer la volontà è il principio infinito che vive in ogni essere della natura e genera inevitabilmente infelicità e dolore, dal momento che ogni volere è sempre segno di una mancanza che si cerca di colmare. A causa della volontà di vivere, gli individui, secondo Schopenhauer, si trovano impigliati in una lotta incessante tra loro; essi pertanto perirebbero, se non intervenisse quello che egli chiamava il «genio della specie», ossia l’amore e il desiderio di accoppiarsi. Per Schopenhauer, dunque, l’amore è anch’esso un prodotto della volontà di vita e non il risultato di scelte individuali. Il ditirambo è la forma musicale poetica, impiegata nei culti dionisiaci per inneggiare al dio. 12. Anche per Schopenhauer la musi-

ca rappresentava la forma più alta di arte: in essa, infatti, si sarebbe manifestato il principio universale della volontà, senza alcuna restrizione in formulazioni concettuali. La musica, infatti, non ha immediati riferimenti semantici a cose, pensieri o immagini: in essa al posto dei concetti e dei segni subentrano i simboli. Secondo Nietzsche, nell’esperienza dionisiaca è addirittura il corpo a farsi simbolo del tutto nella forma della mimica e della danza, poiché esso si muove in sintonia con il flusso della musica. Per raggiungere questo stato, l’uomo deve essere pervenuto al vertice della «alienazione di sé», ossia deve essere uscito totalmente da se stesso come individuo per fare tutt’uno con la natura.

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somma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici etruschi – fu dai greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici13. Fu per poter vivere che i greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli. Altrimenti quel popolo che aveva una sensibilità così eccitabile, che bramava così impetuosamente, che aveva un talento così unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare l’esistenza, se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa da una gloria superiore? Lo stesso impulso che suscita l’arte, come completamento e perfezionamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere, fece anche nascere il mondo olimpico, in cui la «volontà» ellenica si pose di fronte uno specchio trasfiguratore. Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente!

13. Nietzsche intende mostrare che

anche nelle profondità del mondo apollineo si cela il mondo dionisiaco. Ciò significa che le immagini e il sogno di dèi che vivono sereni e gioiosi sul monte Olimpo, liberi dalle sofferenze e dall’infelicità, sono escogitati dalla cultura apollinea soltanto allo scopo di mostrare un mondo perfetto, che consenta di continuare a vivere, nonostante i dolori dell’esistenza. La rappresentazione artistica degli dèi olimpici era un modo per nascondere e, in certo modo, superare la potenza ostile della natura. Nietzsche enumera una serie di prota-

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L’esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto14.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Definisci i concetti di «apollineo» e «dionisiaco». 2. Quali sono le forme d’arte proprie dello spirito apollineo, di quello dionisiaco e della sintesi di entrambi? 3. Che ne è del «principio di individuazione» durante le feste dionisiache? 4. Che differenza c’è tra la musica apollinea e quella dionisiaca? 5. A quale esigenza profonda risponde la creazione del mondo degli dèi olimpici da parte dei Greci? 6. «Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente!». Che cosa intende Nietzsche per teodicea in questo contesto? A quale altro importante filosofo dell’età moderna è legato questo termine?

gonisti di miti, da Prometeo a Edipo e a Oreste, i quali esemplificano il carattere doloroso della vita, ben noto ai Greci. Nel mondo olimpico, escogitato dall’immaginazione, la vita appare invece come trasfigurata e potenziata e, quindi, induce a continuare a vivere. 14. Il contenuto dei poemi omerici è interpretato da Nietzsche come espressione del mondo apollineo e olimpico. Egli richiama l’attenzione sul carattere particolare che, all’interno di essa, verrebbe ad assumere la teodicea. Con questo termine s’intende la dottrina che mira a dimostrare l’esistenza di

una giustizia divina, contro i tentativi di negarla partendo dalla presenza del male nel mondo, interpretato come incompatibile con tale giustizia. Nel mondo olimpico sarebbe la stessa vita condotta dagli dèi a giustificare la vita umana, nel senso che, vivendo la loro vita, gli dèi renderebbero la vita in sé qualcosa di desiderabile per gli uomini. Ciò spiegherebbe, secondo Nietzsche, perché gli eroi omerici avvertano come dolorosa, più che l’esistenza, la morte, l’abbandono della vita.

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t15 Nietzsche / La morte di Dio Nietzsche

La gaia scienza

libro III, § 125; libro V, § 343

La gaia scienza, pubblicata nel 1882 (ma il V libro vi fu aggiunto nella seconda edizione del 1887), esprime il senso di liberazione avvertito da Nietzsche per essere riuscito a cogliere gli errori che soffocano la vita e le impediscono di manifestarsi pienamente. Egli si rende conto che sta verificandosi un evento di portata epocale, l’estinzione della credenza in Dio: è questo evento che consente di liberarsi dalla cappa del passato, da tutti i valori imposti contro la vita, e quindi di procedere in direzione di una nuova scienza contrassegnata dalla «gioia», al di là del bene e del male e delle tendenze metafisiche e ascetiche ostili alla vita. In un capitolo di Ecce homo, intitolato «Perché io sono un destino», Nietzsche dirà che: «La scoperta della morale cristiana è un avvenimento che non ha uguali, una vera catastrofe, chi può far luce su di essa, quindi, è una force majeure, un destino – spacca in due la storia dell’umanità. Si può vivere prima di lui o dopo di lui». Nietzsche vedrà se stesso come il punto di divaricazione tra passato e avvenire e così concluderà, prima di piombare nella sua crisi finale: «Sono stato capito? – Dioniso contro il crocifisso».

L’uomo folle1. Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli?2 Non è il nostro un eterno precipitare? E 1. Dagli appunti stesi da Nietzsche per la preparazione della Gaia scienza risulta che questo «uomo folle» era da lui identificato con Zarathustra, l’antico leggendario riformatore della religione persiana, che diventerà il protagonista di Così parlò Zarathustra. La raffigurazione dell’uomo folle, che di giorno con la lanterna in mano cerca Dio, è una variazione, ma con una significativa sostituzione di Dio al posto dell’uomo, del-

all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?3 Non ci fu mai un’azione

l’aneddoto del cinico Diogene che allo stesso modo andava in giro cercando «l’uomo». 2. Nelle bozze, prima della correzione finale, il testo diceva: «E senza questa linea, senza questo punto – che ne sarà di tutta la nostra architettura? continueranno le nostre case a stare in piedi? continueremo noi stessi a stare in piedi?». Ossia, ora che la fede in Dio sta scomparendo e Dio è morto perché

noi l’abbiamo ucciso, su quali basi poggerà la vita, che finora si è retta su questa credenza e sulla tavola di valori, comandi e divieti costruita a partire da essa? Venuto meno il punto di riferimento saldo rappresentato da Dio, non si rischierà di andare vagando senza direzioni nel nulla? 3. L’evento straordinario della morte di Dio, ucciso dagli uomini che non credono più nella sua esistenza, potrebbe

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più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini4. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!». Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem æternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?». [...] Quel che significa per la nostra serenità. Il maggiore degli avvenimenti più recenti – che «Dio è morto», che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa. Almeno a quei pochi, lo sguardo, la diffidenza di sguardo dei quali è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più «antico». Ma in sostanza si può generare un senso di colpa; in realtà, secondo Nietzsche, esso segna un momento di trapasso decisivo, che può essere giustificato soltanto nella prospettiva che gli uomini diventino essi stessi dèi e diano avvio a un’epoca più alta della storia, nella quale con la morte di Dio viene meno anche ogni senso di colpa. In queste proposizioni di Nietzsche si pongono le premesse del tema

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dire, che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione del maggior numero perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che propriamente è accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea. Una lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, decadimenti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi5: chi già da oggi potrebbe aver sufficiente divinazione di tutto questo, per far da maestro e da veggente di questa mostruosa logica dell’orrore, per essere il profeta di un offuscamento e di una eclisse di sole, di cui probabilmente non si è ancora mai visto sulla terra l’uguale?... Perfino noi, per nascita divinatori d’enigmi, noi che siamo in attesa per così dire sulle montagne, piantati fra l’oggi e il domani, interiormente tesi nella contraddizione tra l’oggi e il domani, noi primogeniti e figli prematuri del secolo imminente, noi che già dovremmo scorgere le ombre che ben presto avvolgeranno l’Europa: com’è che perfino noi le guardiamo salire senza una vera partecipazione a questo ottenebramento, soprattutto senza preoccuparci e temere per noi stessi? Siamo forse ancor troppo soggetti alle più immediate conseguenze di questo avvenimento: e queste più immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non sono per nulla tristi e rabbuianti, ma piuttosto come un nuovo genere, difficile a descriversi, di luce, di felicità, di ristoro, di rasserenamento, di rincoramento, d’aurora... In re-

del superuomo, anche se tale termine qui non è ancora introdotto. 4. Affiora qui un altro tema persistente nell’opera di Nietzsche: il senso della sua inattualità, la convinzione che quanto egli dice e annuncia è prematuro e in anticipo sui tempi. Egli presenta la sua filosofia come una filosofia per il futuro, la quale tuttavia si innesta su avvenimenti in corso, che sfuggono pe-

rò ai suoi contemporanei. Tale è la morte di Dio, che sono gli uomini ad aver ucciso, senza rendersene conto, tanto è vero che continuano a tributargli onori nelle chiese. 5. In un appunto, Nietzsche precisava che l’evento della morte di Dio oggi sfugge «perché gli avvenimenti più grandi vengono compresi per ultimi e più tardi di tutti gli altri».

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altà, noi filosofi e «spiriti liberi», alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto»6. 6. La morte di Dio rappresenta l’evento che porta con sé la caduta della vecchia e finora dominante concezione dell’uomo, della sua morale e dei valori collegati a essa, e pertanto può essere salu-

GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché la notizia della morte di Dio viene annunciata da un «folle»? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alla domanda. 2. «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?»: evidenzia sul testo le espressioni che indicano la risposta di Nietzsche al problema posto dal folle. 3. Quale effetto ha l’annuncio del folle sui filosofi e sugli spiriti liberi? 4. Quale effetto ha la morte di Dio sul futuro della morale europea? Perché?

tato dai veri filosofi, che si trovano in bilico tra il presente e l’avvenire, come una liberazione. Essa, infatti, elimina gli ostacoli che impedivano l’esplorazione di nuove possibilità umane, con

tutti i rischi che può comportare questa apertura verso ciò che non è ancora stato esperimentato né creato.

t16 Nietzsche / Il superuomo Nietzsche

Così parlò Zarathustra

parte I, Prefazione, 3-4; parte IV, 1-3

Così parlò Zarathustra è costituito di quattro parti, pubblicate fra il 1883 e il 1885. Prima di stendere la parte IV, Nietzsche aveva progettato di scrivere un’opera sull’«uomo superiore», ossia su come arrivare, nel mondo odierno dominato dalla plebe e dall’ideale dell’uguaglianza e, di conseguenza, da un indebolimento e abbassamento dell’uomo stesso, a una nuova nobiltà. È questo lo sfondo sul quale viene elaborata la riflessione di Nietzsche sul «superuomo», in connessione col tema della morte di Dio. Il personaggio a cui Nietzsche affida questi temi è Zarathustra, lo Zoroastro dei Greci, l’antico riformatore della religione persiana. Tale opera nietzscheana è costruita, da una parte, sul modello delle antiche raccolte di detti e fatti memorabili di un sapiente e, dall’altra, sulla scrittura in brevi versetti propria dei testi biblici, in particolare dei Vangeli, di cui, per vari aspetti, intende essere la parodia. Nietzsche fa qui l’esperimento di una nuova forma stilistica di prosa poetica, che assume toni lirici e oracolari e presta una particolare attenzione alla musicalità del ritmo e alla ricchezza di immagini e simboli.

Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato1. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa 1. Chi parla è Zarathustra, che, dopo dieci anni di soggiorno sui monti, giunge in città e parla alla folla radunata nel

grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha

mercato. Il presupposto dell’affermazione di Zarathustra è che l’uomo non è un’entità fissa e definita una volta per

tutte, ma è ciò che egli può fare di sé creativamente, superandosi, ossia andando appunto «oltre» l’uomo.

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da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna2. Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio3. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!4 In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: – essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma questa anima era anch’essa macilenta, orri-

2. Nietzsche allude alla tematica dar-

winiana dell’evoluzione dell’uomo dalla scimmia, ma la interpreta in chiave etica, più che biologica. Quando un’entità è giudicata qualcosa di vergognoso, essa appare meritevole di essere superata: ciò vale per la scimmia rispetto all’uomo e ciò deve, dunque, valere anche per l’uomo stesso rispetto a ciò che è «oltre» l’uomo, il superuomo. L’evoluzione della civiltà sino al momento attuale dimostra, invece, secondo Nietzsche, che l’uomo, anziché procedere oltre l’uomo stesso, è regredito alla scimmia: è avvenuta, dunque, un’evoluzione alla rovescia, una decadenza. 3. Parlare di speranze ultraterrene

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da e affamata; e crudeltà era la voluttà di questa anima!5 Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere? Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù6. L’ora in cui diciate: «Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l’esistenza!». L’ora in cui diciate: «Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere!». L’ora in cui diciate: «Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile!». L’ora in cui diciate: «Che importa la mia giustizia! Non mi vedo trasformato in brace ardente! Ma il giusto è brace ardente!».

equivale a somministrare il veleno che intossica e uccide la vera vita, quella terrena. Costitutiva del superuomo è, invece, la fedeltà alla terra, l’attaccamento alla vita e alla corporeità; mentre la morale contemporanea rappresenta il culmine del disprezzo per la vita. Essa, infatti, è frutto delle filosofie che hanno ridotto il mondo sensibile a pura apparenza, immaginando un vero mondo al di là di quello terreno, e del cristianesimo che, conseguentemente, ha insegnato a riporre le proprie speranze solo nell’aldilà. 4. Oggi che Dio è morto e, con Dio, il presunto mondo sovrasensibile, la terra e la corporeità possono ridiventare i veri oggetti di culto.

5. Nietzsche allude al senso di colpa e

agli ideali ascetici che martoriano il corpo e l’individuo e sono, quindi, anch’essi forme di crudeltà [t20]. 6. Sono qui compendiati i tratti caratteristici, secondo Nietzsche, dell’uomo moderno, che riduce la felicità alla semplice sicurezza della propria vita ed esercita la ragione e la virtù soltanto per frenare il libero manifestarsi della vita. Questo atteggiamento è segno di mancanza e debolezza, di quella che poco dopo Nietzsche chiama «accontentabilità». Il trapasso al superuomo è invece contrassegnato dal disprezzo verso tutto ciò.

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L’ora in cui diciate: «Che importa la mia compassione! Non è forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocifissione». Avete già parlato così? Avete mai gridato così? Ah, vi avessi già udito gridare così! Non il vostro peccato – la vostra accontentabilità grida al cielo, la vostra parsimonia nel vostro peccato grida al cielo! Ma dov’è il fulmine che vi lambisca con la sola lingua! Dov’è la demenza che dovrebbe esservi inoculata? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è un fulmine e quella demenza! – Zarathustra aveva detto queste parole, quando uno della folla gridò: «Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!». E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all’opera7. Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto8. 7. La folla si era radunata nella piazza

del mercato per assistere alle esibizioni di un funambolo, non per ascoltare il discorso di Zarathustra. 8. È qui ribadito chiaramente che l’uomo non è un’entità stabile, ma un «tramonto», nel senso di qualcosa che giunge al termine, e, al tempo stesso, un cammino, una «transizione», nel senso di qualcosa che può condurre oltre l’uomo stesso. Per illustrare questo punto, Nietzsche usa anche la metafora del ponte tra la bestia e il superuomo. Essendo, dunque, qualcosa di transitorio, che può regredire o procedere oltre, l’uomo non può essere concepito come uno scopo finale, qualcosa che abbia valore in se stesso e intorno al quale tutto debba ruotare; esso è, invece, qualcosa che deve tramontare per lasciar sorgere il superuomo. Questo cammino verso il superuomo non è tut-

Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo. [...] Quando per la prima volta venni dagli uomini commisi la sciocchezza degli eremiti, la grande sciocchezza: mi misi sul mercato9. E quando parlai a tutti, non parlai a nessuno. A sera, però, erano miei compagni funamboli e cadaveri; e io stesso ero quasi un cadavere. Ma il mattino seguente giunse a me una nuova verità: fu allora che imparai a dire: «Che mi importano il mercato e la plebe e il rumore della plebe e gli orecchi della plebe!». Voi, uomini superiori, imparate questo da me: sul mercato nessuno crede a uomini superiori. E, se volete parlare lì, sia pure! Ma la plebe dirà ammiccando: «Noi siamo tutti eguali»10. «Voi uomini superiori, – così ammicca la plebe – non vi sono uomini superiori, noi siamo tutti eguali, l’uomo è uomo; davanti a Dio – siamo tutti eguali!»11. Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto! Da-

tavia sicuro e garantito, anzi comporta l’estremo pericolo, paragonato da Nietzsche alla sospensione su un abisso e alla situazione di un funambolo sulla corda, che, per non cadere, non deve guardarsi indietro né fermarsi. 9. Siamo ora nella parte IV del libro. La scena (che è anche una parodia dell’ultima cena) è ambientata nella caverna in cui dimora Zarathustra: insieme a lui sono a banchetto vari ospiti, uomini e animali. A essi Zarathustra, che riconosce di aver commesso in passato l’errore di aver voluto parlare a tutti e afferma ora con certezza: «Io sono una legge solo per i miei, non sono una legge per tutti», rivolge un discorso concernente l’uomo superiore. 10. Il mercato rappresenta il luogo dove domina la folla, la plebe, il dèmos dei Greci, la cui parola d’ordine è l’uguaglianza di tutti, con la connessa

negazione dell’esistenza di uomini superiori. Con questo riferimento al mercato, Nietzsche allude al luogo pubblico in cui i cittadini delle antiche democrazie greche si riunivano per discutere e prendere deliberazioni comuni su un piano di completa uguaglianza. A ciò, egli contrappone una visione aristocratica, fondata sul riconoscimento della disuguaglianza necessaria tra gli uomini. 11. Il cristianesimo, proclamando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, rappresenta di fatto, secondo Nietzsche, un sostegno alle concezioni ugualitarie e democratiche moderne. Per gli uomini superiori, che intendono distinguersi dalla plebe, Dio rappresenta, afferma Nietzsche poco dopo, il «più grande pericolo». Ma se Dio è morto, come proclama Zarathustra, tale morte deve portare inevitabilmente

i testi

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vanti alla plebe, però, noi non vogliamo essere eguali. Uomini superiori, fuggite il mercato! Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto! Uomini superiori, questo Dio era il vostro più grave pericolo. Da quando egli giace nella tomba, voi siete veramente risorti. Solo ora verrà il grande meriggio, solo ora l’uomo superiore diverrà – padrone!12 Avete capito queste parole, fratelli? Voi siete spaventati: il vostro cuore ha le vertigini? Vi si spalanca, qui, l’abisso? Ringhia, qui, contro di voi il cane dell’inferno? Ebbene! Coraggio! Uomini superiori! Solo ora il monte partorirà il futuro degli uomini. Dio è morto: ora noi vogliamo, – che viva il superuomo. I più preoccupati si chiedono oggi: «come può sopravvivere l’uomo?». Zarathustra invece chiede, primo e unico: «come può essere superato l’uomo?»13. Il superuomo mi sta a cuore, egli è la prima e unica cosa, – e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non il più sofferente, non il migliore. – Fratelli miei, ciò che io posso amare nell’uomo è che egli sia un trapasso e un tramonto14. E anche in voi è molto che mi fa amare e sperare. Che voi disprezzaste, ecco, uomini superiori, ciò che mi fa sperare. Gli uomini del grande disprezzo sono, infatti, quelli della grande venerazione. Che voi abbiate disperato, in ciò è molto da onorare. Perché voi non imparaste a rassegnarvi e modestia e senno e diligenza e riguardo e il lungo eccetera delle piccole virtù.

con sé il crollo di ogni ugualitarismo e aprire lo spazio per la formazione di una nuova aristocrazia. 12. La morte di Dio pone fine, al tempo stesso, alla morale degli schiavi, fondata sul risentimento e sullo spirito di vendetta nei confronti dei più forti, e rende dunque possibile il risorgere della figura del padrone. 13. Secondo Nietzsche, la preoccupa-

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5. nietzsche

Ciò che è femmineo, ciò che discende da servi e in particolare tutto l’intruglio plebeo: ciò vuole oggi dominare su tutto il destino dell’uomo – oh, schifo! schifo! schifo! Ciò chiede e chiede e di chiedere non si stanca: «come conservare l’uomo nel modo migliore, per il tempo più lungo, con il massimo del piacere?». Con ciò, essi sono i padroni di oggi. Questi padroni di oggi, oh fratelli miei, superateli, – questa piccola gente: essi sono il pericolo maggiore per il superuomo! Superate, ve ne prego, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole assennatezze, i riguardi minuscoli, il brulichio delle formiche, il benessere miserabile, la «felicità del maggior numero»! –

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che permettono di definire il concetto di «superuomo». 2. «Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia». Quale messaggio vuole darci Nietzsche con questa affermazione? 3. Nietzsche utilizza in un significato negativo i termini «mercato» e «plebe». Evidenziane le ragioni. 4. «Fratelli miei, ciò che io posso amare nell’uomo è che egli sia un trapasso e un tramonto». Commenta questo passo riportando le opportune citazioni del testo. 5. «Superate, ve ne prego, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole assennatezze, i riguardi minuscoli, il brulichio delle formiche, il benessere miserabile, la ‘felicità del maggior numero’». Commenta questo passo riportando le opportune citazioni del testo.

zione fondamentale dell’età contemporanea è di garantire la sopravvivenza degli uomini, proteggendoli dalla natura e dagli altri uomini e procurando loro un benessere crescente, identificato con la felicità che dovrebbe essere distribuita al maggior numero possibile di individui. Ma in tal modo la felicità viene degradata, per Nietzsche, al livello delle piccole e mediocri virtù bor-

ghesi della rassegnazione, dell’assennatezza, dell’accontentarsi di poco e l’uomo stesso viene indebolito, ridotto a un essere malato, incapace di vivere pienamente. A ciò Zarathustra oppone la richiesta che l’uomo, giunto a questo punto massimo di estenuazione e di decadenza, venga superato, lasciando emergere il superuomo. 14. Cfr. n. 8.

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esercizi/5 CHE COSA SO?

12. Quali sono gli antidoti alla malattia storica proposti da Nietzsche?

Guida allo studio del manuale

13. Perché con Umano, troppo umano (1878) Nietzsche propone la scienza, e non più l’arte, come via per uscire dal malessere della vita quotidiana?

1. Evidenzia le forme d’arte nelle quali l’impulso apollineo e quello dionisiaco hanno trovato espressione nel mondo greco. 2. Evidenzia gli aspetti principali della concezione della storia di Burckhardt. 3. Evidenzia – con due colori diversi – i caratteri positivi e negativi dei tre tipi di storia analizzati da Nietzsche nella II Considerazione inattuale. 4. Evidenzia i differenti contesti in cui ricorre il termine «istinto». 5. Evidenzia l’argomentazione con cui Nietzsche sostiene che i moventi dell’agire umano sono la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. 6. Evidenzia gli aspetti del platonismo ereditati dal cristianesimo. 7. Evidenzia alcuni fraintendimenti a cui può andare soggetta la nozione di superuomo. 8. Evidenzia la concezione del tempo che si addice allo stile di vita del superuomo. Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti: malattia storica • genealogia della morale • risentimento • senso di colpa • morte di Dio • trasvalutazione dei valori

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. Da che cosa trae origine la tragedia greca secondo Nietzsche? 11. Che ruolo hanno avuto le figure di Euripide e di Socrate nella storia della tragedia greca?

esercizi/5

14. Che relazione c’è, secondo Nietzsche, tra il bene e l’utile? 15. Perché Nietzsche sostiene che il cristianesimo è l’erede del platonismo? 16. Quale futuro Nietzsche vorrebbe per l’Europa? 17. Qual è il messaggio di Zarathustra? 18. In che senso il superuomo può essere assimilato alla figura dell’artista? 19. Che rapporto c’è tra la dottrina nietzscheana dell’«eterno ritorno dell’uguale» e quella stoica dell’amor fati? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 20. Illustra l’influenza di Schopenhauer e di Wagner nelle differenti fasi del pensiero di Nietzsche. 21. Illustra la critica allo storicismo. 22. Qual è la critica che Nietzsche rivolge all’ego cogito cartesiano? 23. Perché il vero movente delle azioni non è da trovarsi, secondo Nietzsche, nella libertà del volere? 24. Illustra il processo in base al quale i signori arrivano a imporre agli schiavi la loro gerarchia di valori. 25. Quali sono gli effetti che, secondo Nietzsche, il cristianesimo ha avuto sulla cultura europea? 26. Che rapporto c’è tra la «morte di Dio» e l’avvento del «superuomo»? 27. Perché il superuomo è «al di là del bene e del male»? 28. Illustra la differenza tra la «volontà di vivere» (Schopenhauer) e la «volontà di potenza» (Nietzsche). 29. Illustra il significato della celebre affermazione nietzscheana, in base alla quale «non ci sono fatti oggettivi, ma solo interpretazioni».

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spazializzato) e che sono qualitativamente indifferenziati (tempo omogeneo). In una coscienza intesa come durata, invece, non ci sono istanti isolati, ma solo un unico processo spontaneo di espansione della coscienza. Una distinzione analoga a quella tra le due forme di temporalità è operata da Bergson tra intelligenza e intuizione. La prima procede per analisi e sintesi, rimanendo però esterna al proprio oggetto; la seconda implica invece l’immedesimazione completa tra conoscente e conosciuto. L’intelligenza è adatta alla conoscenza scientifica e alla conduzione degli aspetti pratici della vita, ma soltanto l’intuizione può cogliere la durata reale e l’essenza metafisica dell’uomo e della realtà.

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania i contenuti caratteri generali dello spiritualismo

Lo spiritualismo nasce in Francia nella prima metà dell’Ottocento come reazione al positivismo. Il suo assunto fondamentale è che nella coscienza si manifestino con immediata evidenza la verità e i valori, cui è pertanto possibile pervenire attraverso la semplice introspezione. Tipica dello spiritualismo è la difesa della libertà dell’uomo, che talvolta viene contrapposta alla necessità della natura, talaltra viene estesa all’intera natura sotto forma di spontaneità.

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bergson: tempo e conoscenza

Il rappresentante principale dello spiritualismo francese è Bergson. Contro i positivisti egli sostiene innanzitutto che i dati della coscienza hanno sempre carattere qualitativo e non quantitativo, che li rende irriducibili ai fenomeni fisici. La stessa opposizione si ha tra il tempo della coscienza e quello esteriore. La coscienza è costituita dalla durata reale, cioè da un flusso ininterrotto, in cui i momenti precedenti si fondono senza soluzione di continuità con quelli successivi. Nella scienza e nella conduzione pratica della vita quotidiana vige invece una concezione del tempo come successione di istanti distinti che si giustappongono (tempo

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

bergson: una sola vita, una sola realtà

A partire dall’Evoluzione creatrice Bergson estende la nozione di durata all’intera realtà, considerata come un unico Tutto. Alla base della realtà vi è uno slancio vitale che spinge in avanti la materia, facendola espandere in diverse direzioni. Bergson interpreta, così, l’evoluzione non come l’effetto di un determinismo biologico, ma come l’espansione di un principio spirituale. La stessa materia non è una realtà separata dallo spirito, ma indica il grado di inerzia che lo slancio vitale trova nella sua espansione. il neokantismo

Nella seconda metà del XIX secolo si sviluppa la tendenza a recuperare il kantismo in funzione critica nei confronti dell’idealismo e del positivismo. Con il positivismo tuttavia il «ritorno a Kant» ha in comune l’assunzione delle scienze fisico-matematiche come modello della scienza in generale. Questo indirizzo assume il nome di neokantismo (o neocriticismo) e si sviluppa soprattutto in due centri della Germania, che danno vita ad altrettante scuole. 1) Rappresentanti della Scuola di Marburgo sono Cohen e Natorp, che insistono sul carattere rigorosamente formale della

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conoscenza. All’insegnamento della Scuola di Marburgo è legato anche Cassirer, il quale individua – accanto alla struttura logica dell’esperienza scientifica – altre forme a priori alla base delle attività non scientifiche dell’uomo (la religione, l’arte, la morale). Egli elabora così una filosofia delle forme simboliche, in base alla quale le diverse sfere della cultura rappresentano il contenuto dello spirito mediante segni simbolici. 2) La Scuola del Baden è caratterizzata dal fatto di porre in primo piano il problema dei valori, considerati nella loro universalità e necessità. Tra i suoi esponenti più significativi possiamo ricordare Windelband e Rickert. dilthey e lo storicismo

Lo storicismo è accomunato al neokantismo dal fatto che si pone anch’esso il problema della possibilità e della validità della conoscenza, ma circoscrive l’indagine al problema della conoscenza storica. Fondamentale in questo senso è la distinzione operata da Dilthey tra scienze dello spirito e scienze della natura. Esse si distinguono 1) in base all’oggetto: nelle scienze della natura l’oggetto conosciuto è esterno al soggetto conoscente; nelle scienze dello spirito soggetto

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e oggetto sono omogenei, in quanto fanno entrambi parte del mondo umano; 2) in base al tipo di esperienza: le scienze naturali fanno riferimento all’esperienza esterna, le scienze dello spirito a quella interna o esperienza vissuta; 3) in base al metodo: le scienze della natura si propongono la spiegazione causale dell’oggetto, mentre le scienze dello spirito mirano a una sua comprensione attraverso categorie come significato, fine, valore. Nel suo periodo più maturo Dilthey sostiene che la comprensione si applica alle «espressioni oggettive» del divenire della vita. In altri termini, la conoscenza del mondo umano non è più data immediatamente dall’introspezione, ma ha per oggetto i prodotti storici in cui tale mondo si oggettiva. Dilthey precisa che il mondo storico è strutturato in base a connessioni dinamiche più o meno generali e tali da costituirsi ciascuna attorno a valori e scopi propri: dall’individuo ai sistemi di organizzazione sociale e alle epoche storiche. Ne consegue la negazione dell’esistenza di valori assoluti e la relatività di tutti i fenomeni storici. Per quanto aspiri a una universale intuizione del mondo, anche la filosofia deve essere storicizzata e relativizzata.

weber: metodo e compito delle scienze sociali

Diversamente da Dilthey, per Weber ciò che distingue le scienze sociali da quelle della natura non è l’oggetto, ma il metodo. Mentre le scienze naturali hanno per oggetto leggi generali, le scienze sociali sono orientate verso l’individualità. La ricerca storico-sociale ha per Weber due condizioni di possibilità. La prima è il riferimento al valore, come strumento di selezione dei dati significativi. Esso deve tuttavia essere distinto dal giudizio di valore – cioè dalla presa di posizione valutativa nei confronti degli avvenimenti studiati – che è rigorosamente escluso dalla conoscenza scientifica. La seconda condizione consiste nel ricorso alla spiegazione causale, che è tuttavia puramente condizionale (non ha carattere necessario) ed è realizzata mediante i giudizi di possibilità oggettiva. Negli ultimi anni della sua vita Weber indirizza i suoi interessi verso la sociologia, che intende ora differenziare dalle scienze storiche. Se queste ultime hanno per oggetto l’individualità, la sociologia si occupa delle uniformità dei comportamenti, che devono essere oggetto di comprensione. In base a questi presupposti Weber formula una classificazione dei tipi fondamentali di agire sociale.

gli strumenti in poche… parole durata reale / immagine / memoria / intelligenza / intuizione / slancio vitale / valore / comprensione / spiegazione / connessione dinamica / avalutatività / giudizi di possibilità oggettiva / tipo ideale

i testi a. nel manuale t17 Bergson/La durata reale t18 Bergson/L’evoluzione creatrice t19 Dilthey/L’intuizione del mondo t20 Weber/Protestantesimo e capitalismo t21 Weber/L’agire sociale

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

b. on-line Boutroux/Le leggi di natura Bergson/L’immagine Bergson/I due tipi di memoria Bergson/Intuizione e intelligenza Dilthey/Comprensione storica e oggettivazione della vita Spengler/Morfologia della storia universale Weber/L’oggettività delle scienze storico-sociali

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1. Gli inizi dello spiritualismo in Francia antecedenti e caratteri generali dello spiritualismo

Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppa in Francia – parallelamente al positivismo – la corrente filosofica dello spiritualismo, destinata a conservare la sua vitalità anche nella seconda metà del secolo e nel Novecento. Il carattere fondamentale di questo movimento consiste nell’assunto che ogni verità scaturisce dalla coscienza attraverso il metodo dell’osservazione interiore. In questa prospettiva la componente spirituale dell’esistenza assume un valore nettamente superiore all’elemento materiale: di qui l’opposizione dello spiritualismo a ogni forma di materialismo, di empirismo sensistico e di positivismo, in quanto espressione di scientismo naturalistico. In realtà, la tradizione spiritualistica aveva profonde radici nella storia della filosofia francese. Essa risale sicuramente a Montaigne, si ripresenta in chiave razionalistica in Cartesio e in Malebranche, per poi venire esplicitamente riproposta da Pascal attraverso l’alternativa tra «ragione» e «cuore».

cousin e il primato dell’elemento spirituale

Victor Cousin (1792-1867) è il primo a usare il termine «spiritualismo», da lui definito come la filosofia che «insegna la spiritualità dell’anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane, le obbligazioni morali, la virtù disinteressata, la dignità della giustizia e la bellezza della carità; e al di là dei limiti di questo mondo essa mostra un Dio, autore e tipo dell’umanità, che, dopo averla creata evidentemente per uno scopo eccellente, non l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino». La sua opera filosoficamente più rilevante è Del vero, del bello e del bene, pubblicata per la prima volta nel 1820.

ravaisson: l’abitudine tra spirito e materia

Un altro esponente dello spiritualismo francese è Félix Ravaisson (18131900), autore di studi storici e di alcune brevi opere teoriche, tra cui l’importante tesi di dottorato su L’abitudine (1838). Secondo Ravaisson, la coscienza è il principio di ogni verità e il mondo naturale stesso non è che semplice apparenza. Ma, se la stessa realtà sensibile deve essere ricondotta all’attività dello spirito, come si può giustificare l’apparenza della materialità? Ciò si spiega – secondo Ravaisson – mediante l’abitudine, che costituisce un ponte di passaggio dall’attività spirituale all’inerzia materiale. Infatti, pur nascendo dallo spirito, l’abitudine – attraverso la ripetizione meccanica degli atti – comporta una progressiva perdita della consapevolezza e della libertà. Il risultato ultimo di questo processo è la produzione di una realtà che – sebbene conservi la sua radice spirituale – è ormai completamente inerte e inconscia: questa è la materia.

boutroux e i diversi gradi della realtà

Alla critica dei princìpi positivistici mira invece il contingentismo di Émile Boutroux (1845-1921), autore di due saggi che ebbero grande risonanza: Sulla contingenza delle leggi di natura (1874) e L’idea della legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea (1895). Lo scopo che Boutroux si prefigge è quello di confutare il determinismo e il meccanicismo positivistici, sostenendo che anche una interpretazione rigorosamente scientifica della realtà lascia ampio spazio alla contingenza e alla libertà. Boutroux osserva che le diverse realtà oggetto dell’analisi scientifica – la materia, i corpi

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inorganici, gli organismi, l’uomo – si collocano su una scala gerarchica, i cui gradi sono caratterizzati da una sempre maggiore varietà, particolarità e individualità. In tal modo, ogni grado della realtà presenta un carattere specifico e irriducibile ai gradi inferiori. Detto altrimenti, ogni livello di realtà è contingente rispetto a quelli precedenti, in quanto presenta un elemento di novità rispetto a essi: i corpi hanno qualità che non sono contenute nella semplice materia, caratterizzata soltanto dall’estensione e dal movimento; gli organismi sono espressione di una vita che è estranea ai corpi inorganici; l’uomo manifesta in sé un elemento spirituale irriducibile alla vita biologica. Come esistono diversi gradi di realtà, nello stesso modo si distinguono diversi tipi e livelli di leggi: logiche, matematiche, meccaniche, fisiche, chimiche, biologiche, sociologiche e psicologiche. Ora, la contingenza non riguarda solo il rapporto tra i diversi tipi di leggi – che sono irriducibili le une alle altre – ma anche il concetto stesso di legge. Le leggi sono, infatti, tanto più necessarie quanto più sono astratte, mentre diventano sempre più indeterminate e contingenti quanto più specifica è la realtà cui si applicano . Circoscritta così la portata delle leggi naturali, Boutroux afferma di conseguenza la limitata estensibilità della scienza. La sua funzione consiste nell’operare su simboli che rappresentano la realtà, così da determinare il più possibile i loro rapporti reciproci e da orientare la condotta pratica dell’uomo. Ma al di là della scienza rimane un vasto ambito di realtà irriducibile alla rappresentazione simbolica: in questa sfera entrano la morale, il diritto, l’arte, e soprattutto la religione, che ha il suo strumento nella fede e la sua fonte nella dimensione interiore della coscienza.

boutroux e i limiti della scienza

2. Bergson: tempo, memoria, conoscenza La maggiore figura dello spiritualismo francese – ed europeo in generale – è senz’altro quella di Henri Bergson. Nato a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea di origine polacca, egli studiò all’École Normale seguendo i corsi di Boutroux. Nel 1889 conseguì il dottorato in Filosofia con due dissertazioni, rispettivamente in latino e in francese. La seconda – il Saggio sui dati immediati della coscienza – fu pubblicata nello stesso anno e risultò un successo. La seconda opera importante – Materia e memoria – apparve nel 1896 ed ebbe una notevole influenza su William James e su Marcel Proust (di cui Bergson sposò una cugina). Tre anni dopo, Bergson fu chiamato a insegnare al Collège de France. Al 1903 e al 1907 risalgono rispettivamente l’Introduzione alla metafisica e l’opera più famosa di Bergson, L’evoluzione creatrice. Da ricordare anche Durata e simultaneità (1922), dedicata alla discussione della teoria della relatività di Einstein.

la formazione e la chiamata al collège de france

Negli anni successivi la fama di Bergson crebbe enormemente: divenuto Accademico di Francia, nel 1927 gli fu conferito il premio Nobel per la Letteratura. La sua ultima opera importante è del 1932: Le due fonti della morale e

conferimento del nobel e ultimi anni

alef

Boutroux Le leggi di natura

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della religione. Negli ultimi anni i suoi interessi religiosi divennero più forti ed egli si avvicinò al cattolicesimo, senza tuttavia abbracciarlo ufficialmente per solidarietà con la comunità ebraica ormai oggetto delle persecuzioni naziste. Quando i tedeschi invasero Parigi (1939), egli si iscrisse spontaneamente nelle liste degli ebrei, rifiutando l’esenzione offertagli dai nazisti in virtù della sua celebrità. Morì a Parigi – ancora occupata dai tedeschi – nel 1941. bergson e la cultura contemporanea

L’influenza di Bergson sul mondo filosofico contemporaneo è stata grandissima. Oltreché – come si è accennato – sul pragmatismo americano attraverso William James [cfr. 7.2], essa si esercitò sull’esistenzialismo francese, sulla fenomenologia di Max Scheler e – attraverso il confronto di Bergson con Einstein – sulla riflessione contemporanea relativa ai rapporti tra scienza e filosofia.

i dati della coscienza

Il Saggio del 1889 inizia con una presa di distanza dalla tendenza – caratteristica del positivismo in generale e della psicologia scientifica in particolare – a considerare gli stati psichici come oggetto di una misurazione quantitativa, cioè esprimibile matematicamente, al pari delle grandezze fisiche. Contro questo orientamento Bergson difende invece il carattere qualitativo dei dati della coscienza. Ciò vale assolutamente per gli stati della coscienza che non dipendono da una modificazione esterna, quali ad esempio un sentimento di gioia oppure un sentimento estetico o morale. L’aumento dell’intensità di una gioia che cresce in noi non consiste in una semplice espansione quantitativa, per cui la letizia sarebbe dapprima racchiusa in un piccolo angolo della coscienza per poi occupare uno «spazio» sempre maggiore di essa. Al contrario, esso corrisponde alla successione di fasi qualitativamente diverse: in principio si manifesta come una generica apertura verso il futuro, poi si esprime in un senso di leggerezza, per diventare infine – nelle sue espressioni più alte – una qualità indefinibile paragonabile a un calore o a una luce.

l’esempio di un foglio di carta

Non solo i «dati» della coscienza che riguardano le impressioni interne hanno carattere qualitativo, ma anche quelli che derivano da impressioni esterne, per quanto in questo caso occorra tenere conto anche della «quantità» della causa che li provoca. Certamente le diverse percezioni che noi abbiamo di un foglio di carta dipendono dalla differente quantità di luce impiegata per illuminarlo nei singoli casi. Tuttavia, il risultato di questa diversa intensità dell’illuminazione ha per noi un effetto qualitativo: se ben illuminata, la carta appare bianca, mentre con gradi più deboli di luce essa apparirà gialla o grigiastra. Attraverso questa opposizione tra qualità e quantità, Bergson perviene così ad affermare la specificità dei dati della coscienza, i quali non possono essere assimilati – come tendeva a fare la psicologia scientifica – ai dati fisici, né essere studiati con gli stessi strumenti utilizzati per l’indagine scientifico-naturale.

tempo spazializzato e durata reale

La rilevanza di quest’impostazione appare in tutta la sua portata quando, nelle pagine centrali dell’opera, viene esaminato il problema del tempo. Bergson era alla ricerca di una definizione del tempo che evitasse la tradi-

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zionale concezione quantitativa condivisa tanto dal pensiero scientifico quanto dal comune modo di pensare. In questa concezione il tempo è inteso come una successione indefinita di istanti omogenei e uniformi, anche se distinti gli uni dagli altri, analogamente a quanto avviene nella serie dei numeri naturali, dove a ogni unità segue un’altra unità identica alla prima. In questo modo si opera una sorta di spazializzazione del tempo, poiché ogni interpretazione quantitativa del tempo comporta necessariamente – per la sua descrizione – il ricorso alla metafora dello spazio. Se invece si abbandona il modello matematico-quantitativo – cui si è tradizionalmente legati – ci si rende conto che il tempo è piuttosto una successione di stati qualitativi della coscienza, gli uni diversi dagli altri, ma anche gli uni intimamente connessi con gli altri. In questa successione, infatti, i momenti precedenti si fondono con i momenti immediatamente successivi, senza che sia possibile individuare cesure interne al tutto, così come in una melodia le note – pur essendo qualitativamente diverse tra di esse – si fondono in un processo unitario senza soluzioni di continuità. A questa intuizione qualitativa del tempo Bergson dà il nome di durata reale [t17].

La spazializzazione del tempo (T1 = t2 - t1) (T2 = t3 - t2)… t1

t2

t3

t4

t5

t6

a

b

c

d

e

f

(A = b - a) (B = c - b)… Il tempo trascorso T1(= t2-t1) tra un istante (t1) e l’altro (t2) viene fatto corrispondere – nella concezione quantitativa del tempo – al segmento spaziale A (= b-a).

Il tempo trascorso T2 (= t3-t2) tra un istante (t3) e l’altro (t2) viene fatto equivalere al segmento spaziale B (= c-b), e così via.

La contrapposizione della durata reale al tempo spazializzato non significa che Bergson svaluti la concezione spaziale del tempo. Quest’ultima, infatti, continua a essere indispensabile nella descrizione – compiuta dalla meccanica in particolare e dalla fisica in generale – dei fenomeni del mondo inorganico. Ma essa appare inadatta a esprimere sia l’evoluzione temporale nell’ambito biologico (ad esempio la crescita di un organismo e, in generale, tutti i fenomeni della vita), sia l’esperienza del tempo che ciascun uomo ha nella propria coscienza. La stessa esistenza spirituale dell’io – che si risolve nel flusso ininterrotto della vita della coscienza – coincide infatti con la durata reale. Nel fluire dell’esistenza stati coscienziali sempre nuovi si aggiungono continuamente ai precedenti, senza cancellarli o distinguersi nettamente da essi, ma saldandosi con essi e conservandoli in una nuova totalità spirituale. La memoria non è, dunque, una facoltà specifica, ma è la durata

la vita degli organismi e della coscienza

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reale stessa, è l’essenza della vita spirituale del soggetto, per il quale le impressioni più recenti crescono assieme ai vecchi ricordi, attribuendo così alla coscienza configurazioni sempre nuove. flusso di coscienza e libertà

Questa nuova concezione del tempo e della vita della coscienza fornisce a Bergson anche gli argomenti per combattere il determinismo imperante nel positivismo e difendere la libertà dell’uomo. In base alla concezione della durata reale, infatti, le passioni, i desideri e le volontà non sono realtà distinte che si succedono nel tempo, bensì espressioni di un unico flusso di coscienza. Le singole azioni dell’uomo sono quindi il risultato dell’intero intreccio di dati coscienziali che costituisce la sua stessa vita spirituale. In questo flusso della coscienza, inoltre, gli stati successivi non sono conseguenza necessaria di quelli precedenti, ma comportano l’emergere di un elemento di novità e di spontaneità assolutamente irriducibile agli stati precedenti. In questo flusso continuo e unitario della coscienza – indipendente da ogni condizionamento esterno e fonte inesauribile di novità – risiede la libertà umana.

la relazione tra il corpo e lo spirito

Si è detto che la durata reale esprime l’intima essenza della coscienza. Ma quale rapporto intercorre tra la coscienza e la materia? In altre parole, che rapporto c’è tra la vita interiore del soggetto che sente in sé il flusso della memoria – «l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro» – e la realtà dell’universo corporeo in cui l’uomo vive e agisce? A questa domanda cerca di rispondere la seconda importante opera di Bergson – Materia e memoria – il cui sottotitolo recita significativamente «Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito».

la materia secondo gli idealisti e i realisti

Nella Prefazione alla prima edizione dell’opera Bergson asserisce che la filosofia «non è altro che il ritorno cosciente e riflesso ai dati dell’intuizione» e che – attraverso l’analisi dei fatti e il confronto delle varie dottrine – essa deve condurci alle stesse conclusioni del senso comune. Ma in che modo l’uomo comune – all’oscuro delle discussioni tra filosofi – concepisce la materia? Secondo Bergson, egli ne ha una percezione immediata che non separa – come invece fanno gli idealisti e i realisti – la sua esistenza dalla sua apparenza. I primi – soprattutto Berkeley – riducono l’oggetto materiale a una rappresentazione del soggetto conoscente; i secondi – il modello è Cartesio – pensano alla realtà materiale come a una «cosa» preesistente alla rappresentazione e avente una natura diversa da essa.

la materia secondo l’uomo comune

Viceversa, Bergson – che vuole attenersi ai dati dell’esperienza immediata – definisce la materia come un insieme di immagini , intendendo con quest’ultimo termine qualcosa che sta a metà tra la rappresentazione e la cosa . L’uomo comune crede infatti che esista una realtà distinta da lui (in accordo con i realisti e in opposizione agli idealisti), la quale tuttavia coincide perfettamente con la percezione che egli ha di essa (in accordo con l’idealismo e in opposizione al realismo). In altri termini, egli non ritiene che esista una realtà diversa dalle immagini della coscienza, ma nello stesso tempo è certo che tali immagini hanno una realtà autonoma, esistendo indipendentemente dalla coscienza.

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Bergson L’immagine

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Le immagini che compongono l’universo non sono ovviamente accostate le une alle altre a capriccio, ma sono stabilmente connesse in un insieme di relazioni: queste ultime sono le leggi della natura. Tra le diverse immagini ve ne è però una che presenta un carattere particolare e privilegiato poiché – oltre a sottostare alle leggi naturali – ha anche la facoltà di modificare le altre immagini in base a criteri propri. Inoltre, mentre le altre immagini sono conosciute soltanto dall’esterno (come vedremo, mediante la percezione), questa immagine particolare viene vissuta dall’interno. Tale immagine è il nostro corpo. Ma qual è la funzione del corpo? Essa consiste nel selezionare le immagini, ovvero nel conservare quelle utili alla soddisfazione dei propri bisogni e nel tralasciare le altre. Così facendo, il corpo delimita un campo di immagini in mezzo a un’infinità di altre immagini messe da parte: questo è il campo della percezione. Poiché, come si è detto, la selezione operata dal corpo è guidata da interessi e bisogni, la percezione non ha un carattere puramente conoscitivo, ma operativo. In altri termini, per Bergson percepire significa agire, ossia modificare la realtà materiale in base alle esigenze del nostro corpo.

il corpo è l’immagine che seleziona le immagini

Finora abbiamo trattato soltanto della materia, anche se all’interno di essa abbiamo individuato un’immagine – il corpo – che svolge una funzione particolare: esso, come si è visto, è soltanto materia che agisce (o meglio reagisce) ad altra materia in vista dei propri bisogni. Ma la reazione del corpo nei confronti della rimanente realtà materiale si esaurisce completamente nella materia stessa oppure è determinata da qualcosa che va al di là di essa? In altri termini, si tratta di rispondere alla seguente domanda: il cervello, ovvero l’organo corporeo dell’organizzazione del pensiero, determina l’intera vita psichica e – attraverso di essa – il comportamento dell’uomo  approfondimento, p. (come sosteneva la psicologia associazionistica [ 101])? Oppure esiste un livello spirituale superiore – irriducibile alle funzioni fisico-chimiche del cervello – dal quale piuttosto esse dipendono?

il cervello determina la vita psichica?

Innanzitutto, occorre osservare che la percezione attraverso la quale l’uomo conosce il mondo e agisce su di esso comporta un riferimento – per quanto minimo si possa supporre – alla memoria. Infatti, da un lato, percepisco e agisco in base a interessi e bisogni che si collocano nel passato (per quanto prossimo) rispetto alla mia percezione-azione (che invece è sempre attuale); dall’altro lato, questi interessi sono anch’essi condizionati da percezioni-azioni precedenti.

la relazione tra percezione e memoria

Ora, Bergson opera una distinzione fondamentale tra due tipi di memoria . La memoria-abitudine è l’insieme dei meccanismi motori con i quali l’organismo rielabora una risposta a determinati stimoli. Quando compio un’azione meccanica – ad esempio, recito a memoria una poesia – mi servo della memoria-abitudine. La memoria pura contiene i «ricordi indipendenti» e coincide con la durata reale della coscienza (ovvero con la sostanza spirituale dell’io). Quando penso a diversi momenti della mia storia personale – per esempio alle ripetute letture che ho fatto, in tempi diversi, per imparare la poesia, con le diverse situazioni, le diverse impressioni, i diversi stati d’animo a esse connessi – faccio riferimento alla memoria pura.

la memoriaabitudine e la memoria pura

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la continuità tra ricordiimmagine e ricordi puri

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Abbiamo detto che la percezione corporea comporta un riferimento alla memoria. Ma quale delle due memorie delineate poc’anzi interviene in essa? Ovviamente la prima a essere interessata è la memoria-abitudine, che sollecita le risposte motorie adeguate alla situazione sulla base delle esperienze precedenti. Ma, in realtà, i contenuti specifici della memoria-abitudine non sono altro che una selezione di alcuni tra i numerosissimi ricordi contenuti nella memoria pura. Tra le due forme di memoria sussiste quindi un rapporto di stretta interconnessione. Da un lato, la memoria-abitudine attinge all’inesauribile serbatoio della memoria pura i ricordi necessari ad attivare le risposte motorie della percezione. Dall’altro, alcuni ricordi puri vengono recuperati grazie alla memoria-abitudine, riportati alla superficie e trasformati in ricordi-immagine, diventando così le cause immediate delle nostre reazioni motorie .

«in una coscienza c’è infinitamente di più che nel cervello corrispondente»

Non vi è, quindi, alcuna soluzione di continuità nel processo che va dai ricordi collocati nella memoria pura, ai ricordi-immagine, con cui opera la memoria meccanica dell’abitudine, e – attraverso di essi – alla percezione. Ciò equivale a dire che la memoria-abitudine – espressione puramente organica e materiale dell’attività cerebrale – non è autonoma, ma dipende dalla memoria pura. Quest’ultima, come abbiamo visto, coincide con la durata reale della coscienza: per questo motivo, essa è indipendente dalla sfera della materia e cade completamente nelle regioni dello spirito. In questo modo Bergson intendeva dimostrare l’impossibilità di ridurre la vita psichica e i processi mentali all’attività cerebrale.

le due forme di conoscenza

Abbiamo visto che l’essenza della coscienza è durata reale; tuttavia, noi siamo irresistibilmente portati a pensare che i diversi istanti si giustappongano gli uni agli altri come se si collocassero su una ideale linea geometrica. Perché avviene questo? Perché abbiamo difficoltà a penetrare la nostra durata interiore? Bergson cerca di rispondere a queste domande nell’Introduzione alla metafisica (1903). In quello scritto, egli ricorda anzitutto che noi possediamo due forme di conoscenza .

il funzionamento dell’intelligenza

In primo luogo, possiamo conoscere un oggetto dall’esterno, descrivendone i singoli caratteri e servendoci di simboli per rappresentarli. Ad esempio, di una città possiamo scattare molte fotografie parziali e cercare poi di ricostruirne l’insieme combinando le diverse rappresentazioni fotografiche. In altri termini, noi possiamo analizzare l’oggetto, per ricomporre poi sinteticamente i diversi aspetti cui si è giunti attraverso il procedimento analitico. Questo è il modo di procedere dell’ intelligenza .

l’intuizione

In secondo luogo, possiamo cogliere l’oggetto dal di dentro e penetrare la sua intima essenza compiendo un atto di identificazione simpatetica con esso. In questo modo l’oggetto non viene ricostruito mediante la giustapposizione delle sue rappresentazioni parziali o simboliche, ma colto immediatamente nella sua totalità. Ciò avviene, ad esempio, quando – anziché ricomporre l’immagine di una città attraverso le fotografie dei suoi diversi aspetti – la conosco per esperienza diretta, vivendo in essa, percorrendone effettivamente le strade e sentendone pulsare la vita. Questa seconda forma di conoscenza è l’ intuizione .

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a Bergson I due tipi di memoria b Bergson Intuizione e intelligenza

a

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Intuizione chiamiamo qui la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile. L’analisi, al contrario, è l’operazione che riporta l’oggetto a elementi già conosciuti, vale a dire comuni a questo oggetto e ad altri. Analizzare consiste, dunque, nell’esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è. Sicché ogni analisi è una traduzione, uno sviluppo in simboli, una rappresentazione fatta da punti di vista successivi, da cui si segnano altrettanti punti di contatto tra l’oggetto nuovo, studiato, e altri che si crede già di conoscere. Nel desiderio, eternamente insaziato, di abbracciare l’oggetto intorno a cui è condannata a girare, l’analisi moltiplica senza fine i punti di vista, per completare una rappresentazione sempre incompleta; varia senza soste i simboli, per perfezionare una traduzione sempre imperfetta. Per questo prosegue all’infinito. Ma l’intuizione, ove sia possibile, è un atto semplice (Introduzione alla metafisica, §1).

Si è visto che l’intelligenza scompone e ricompone i suoi oggetti, costruendo al posto di essi delle rappresentazioni simboliche. Dunque, soltanto l’intuizione assolve completamente alla funzione conoscitiva, in quanto permette di conoscere la realtà come essa veramente è. Esclusivamente con l’intuizione, ad esempio, si può penetrare dal di dentro la vita della coscienza e coglierla come durata reale, nella totalità del suo sviluppo. In virtù dell’intuizione è quindi possibile riscoprire la validità della metafisica, intesa come scienza assoluta del reale: «Se esiste un mezzo per possedere una data realtà assolutamente invece di conoscerla relativamente, per porsi in essa invece di assumere punti di vista su di essa, per averne l’intuizione invece di farne l’analisi, insomma, per coglierla all’infuori di qualsiasi espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. La metafisica è, dunque, la scienza che pretende di fare a meno dei simboli» (ibid.). La crisi della metafisica, affermata sia dagli empiristi sia dai razionalisti, è dovuta semplicemente al fatto che gli uni e gli altri, seppure per strade diverse, hanno analizzato la realtà con le procedure dell’intelligenza, anziché limitarsi a coglierla con un atto d’intuizione. Pertanto, la capacità conoscitiva dell’intelligenza appare limitata. Le rappresentazioni statiche e parziali di cui essa si serve consentono una conoscenza soltanto relativa. Come sappiamo, l’intelligenza non coglie l’unità assoluta dell’oggetto, ma ricompone i diversi aspetti della realtà, precedentemente isolati gli uni dagli altri.

la riscoperta della metafisica

La conoscenza propria dell’intelligenza, se appare insufficiente dal punto di vista teoretico, svolge invece adeguatamente la funzione pratica di orientare l’azione umana. L’intelligenza esprime il modo di procedere proprio della scienza, da intendere non come un sapere teoretico – così l’avrebbero erroneamente concepita i positivisti – bensì come una forma di conoscenza tecnica rivolta all’azione. Agire nel mondo significa, infatti, attivare un processo di adattamento del soggetto alla situazione oggettiva presente. Per operare sulle cose si dovrà pertanto pensare in termini spaziali, ovvero delimitare in modo fisso e stabile i contorni degli oggetti e le loro relazioni. In altre parole, sarà necessario interrompere il flusso della vita reale in una

intelligenza e conoscenza scientifica

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pluralità di elementi immobili, così come avviene nelle pellicole cinematografiche, nelle quali il movimento viene spezzettato nei singoli fotogrammi, cioè in una pluralità di immagini statiche giustapposte in una sequenza spaziale. la scienza e l’omogeneità del tempo

L’altro compito della scienza – dovuto al suo carattere pratico, non teoretico – è quello di prevedere gli avvenimenti futuri sulla base di quelli passati, in modo da consentire il migliore adattamento possibile da parte dell’uomo. Ma la previsione implica l’omogeneità tra passato e futuro. Ciò comporta la necessità di considerare tempi e cose future al di fuori della durata reale, ovvero di spogliarli dalla loro specificità qualitativa. Oltreché spazializzato, il tempo dovrà quindi essere reso anche omogeneo, così da poter essere sottoposto a misurazione matematica.

il primato dell’«homo faber» sull’«homo sapiens»

La contrapposizione operata da Bergson tra intuizione e metafisica, da un lato, e intelligenza e scienza, dall’altro, non intende semplicemente svalutare le seconde di fronte alle prime. Bergson stesso ricorda che «prima di speculare si deve vivere». L’esigenza fondamentale della vita è quella di rispondere continuamente alle sollecitazioni che provengono dalla realtà materiale, fornendovi risposte adeguate. L’uomo può soddisfare questa esigenza solo facendo ricorso all’intelligenza e alla scienza. Le categorie con cui esse definiscono la realtà materiale non devono essere tuttavia trasferite dal piano operativo a quello teoretico, pretendendo che attraverso di esse si possa anche «conoscere» la realtà. La realtà è attingibile soltanto attraverso lo strumento della metafisica: l’intuizione. I procedimenti dell’intelligenza, dunque, non sono errati in quanto tali, ma solo se vengono applicati ad ambiti che non sono di loro competenza.

agire nella realtà non significa conoscerla

L’intelligenza – e la scienza che da essa dipende – permette all’uomo di intervenire sulla realtà nella quale vive, per meglio adattarsi a essa, ma non di conoscerla. Ciononostante, proprio a causa della priorità del vivere sullo speculare, l’uomo tende spontaneamente ad applicare gli schemi mentali del sapere scientifico alla realtà. In tal modo, egli scambia per conoscenza assoluta quella che è invece solo una prospettiva pratico-operativa sulla realtà, ottenuta mediante la frammentazione della durata in una molteplicità di istanti immobili.

concetti e parole cristallizzano la durata reale

L’intuizione della realtà comporta, inoltre, la rinuncia a due strumenti che erroneamente riteniamo indispensabili per la conoscenza: la concettualizzazione e il linguaggio. I concetti, infatti, sono i simboli che utilizziamo per indicare i «pezzi» della realtà astratti dal flusso vitale attraverso il procedimento dell’analisi intellettuale; le parole sono i simboli fonetici con cui li comunichiamo agli altri. Concetti e parole sono i mezzi di cui si serve abitualmente il sapere scientifico-intellettuale: essi comportano necessariamente la frammentazione, la spazializzazione e, quindi, la distorsione della realtà. Quest’ultima può essere colta nell’unità assoluta della sua durata reale soltanto attraverso l’intuizione e, pertanto, non può essere né concettualizzata né espressa in termini linguistici.

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3. Bergson: lo slancio vitale Nelle opere che abbiamo finora considerato, Bergson riferisce la nozione di durata reale esclusivamente alla coscienza, alla dimensione dello spirito in opposizione alla materia. Ma è possibile estendere la durata all’esistenza in generale? Nell’Evoluzione creatrice – la sua opera più famosa – egli risponde affermativamente a questa domanda.

si può concepire l’universo come un tutto che dura?

Bergson stesso afferma che, a prima vista, si rivela difficile ammettere l’esistenza della durata nel mondo inorganico. Qui la materia appare costituita da singoli corpi che sono isolati gli uni dagli altri e non presentano nessuna forma di mutamento interno: il cambiamento sembra, anzi, dover essere spiegato meccanicisticamente come la semplice azione reciproca di elementi – molecole, atomi, elettroni – che in sé rimangono immutabili. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare – continua Bergson – che la frantumazione della realtà inorganica in una miriade di «sistemi isolati» è conseguenza inevitabile del nostro modo «scientifico» e intellettuale di rappresentarci il mondo. Se interpretiamo il più piccolo avvenimento fisico – ad esempio, lo zucchero che sciolgo in un bicchiere d’acqua – non con gli occhi della scienza, ma in relazione alla nostra esperienza personale, esso assumerà un significato completamente diverso. Il processo di scioglimento dello zucchero non sarà più scandito dal tempo matematico che registra le trasformazioni di alcuni elementi chimici, ma coinciderà con la mia attesa e con la mia impazienza, cioè sarà inglobato all’interno della durata pura della mia coscienza.

la durata nel mondo inorganico

Se anche nel mondo inorganico esistono indizi per ammettere la possibilità di una durata della realtà in generale, questa supposizione diventa ancora più forte passando al mondo organico. È vero che anche qui assistiamo alla concentrazione della materia organica in individui singoli e separati, ma questa «tendenza all’individuazione» è controbilanciata da una altrettanto forte «tendenza alla riproduzione», che spinge l’organismo al di là dell’individualità e stabilisce un elemento di continuità tra le generazioni. Inoltre, lo stesso singolo individuo non è più – come appare almeno esteriormente nel corpo inorganico – una realtà statica e immutabile, ma un essere che cresce, si trasforma e invecchia, secondo un processo di sviluppo continuo assai simile a quello della coscienza.

lo sviluppo continuo degli esseri organici

Il principio della durata appare pertanto estendibile all’intera realtà, considerata come un unico Tutto. Per Bergson, alla base di esso vi è infatti uno slancio vitale , che spinge in avanti la materia verso realizzazioni sempre più complesse. Tale slancio si espande a raggiera sviluppandosi in innumerevoli direzioni, anche se non in tutte con la stessa forza e con la stessa capacità formatrice. Si spiega così la divisione tra mondo vegetale e mondo animale. Del resto, anche le diverse specie animali corrispondono a diverse ramificazioni dell’unica vita che sorregge l’universo: per questo si possono riscontrare analogie morfologiche tra gli animali che si collocano ai gradi più bassi della scala biologica e quelli che hanno conseguito le realizzazioni più

intuizione e slancio vitale

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alte [t18]. Ma in che modo l’uomo può conoscere lo slancio vitale che sorregge lo sviluppo dell’intero universo? Per rispondere a questa domanda Bergson recupera la nozione di intuizione discussa nell’Introduzione alla metafisica, ma – anziché contrapporla all’intelligenza – la considera ora come la radice comune dell’intelligenza stessa e dell’istinto. l’intuizione come ritorno dell’intelligenza all’istinto

L’intelligenza e l’istinto determinano l’azione pratica degli esseri viventi in risposta alle sollecitazioni dell’ambiente. Esse, tuttavia, si differenziano in quanto l’istinto è la capacità di servirsi di strumenti già organizzati, mentre l’intelligenza implica la capacità di costruire strumenti artificiali che sopperiscano alla deficienza di quelli naturali. L’istinto si realizza negli animali, l’intelligenza nell’uomo. L’istinto opera inconsciamente, mentre l’intelligenza è sempre consapevole di sé e nasce, anzi, proprio dalla presa di coscienza di un problema da risolvere o di una difficoltà da superare. Pur seguendo tendenze diverse, istinto e intelligenza non sono mai completamente separabili. Dal momento che perfino nel comportamento più intelligente rimane sempre un residuo di reazione istintivo, è sempre possibile un ritorno consapevole dell’intelligenza all’istinto. Ciò avviene quando l’istinto diventa conscio di sé, perde il suo carattere interessato e si trasforma in immediata capacità di cogliere il proprio oggetto. In questo caso l’istinto acquista la coscienza dell’intelligenza, conservando insieme l’immediatezza che l’intelligenza ha invece perduto: esso diventa, dunque, intuizione. Il conseguimento della coscienza da parte dell’istinto consente all’uomo di intuire lo slancio vitale che attraversa l’intero universo, di cui lui stesso fa parte.

al di là del meccanicismo e del finalismo

Di fronte a questa interpretazione vitalistica dell’universo le opposte concezioni del meccanicismo e del finalismo perdono il loro significato. Tanto il primo quanto il secondo presuppongono una realtà già data, nella quale sono contenuti tutti gli sviluppi futuri. Non importa poi se questa realtà è intesa come un insieme di particelle e di atomi che si combinano tra di loro secondo leggi causali necessarie (come avviene nel meccanicismo), oppure è concepita come un disegno originario preesistente che condiziona lo sviluppo cosmologico e biologico (come sostiene invece il finalismo). In realtà, l’evoluzione comporta – secondo Bergson – l’idea che non esiste nessuna realtà data, ma soltanto una realtà in movimento – la vita universale, lo slancio vitale – che si dà e si fa da se stessa, espandendosi e modificandosi continuamente. Inoltre, sia il meccanicismo sia il finalismo partono dal presupposto che la realtà naturale sia il risultato della composizione di un’infinità di parti distinte. Essi divergono soltanto nello scegliere i criteri che hanno presieduto a quest’opera di composizione: complicate leggi naturali per il meccanicismo o un’unica volontà intelligente per il finalismo.

l’evoluzione creatrice

La critica al meccanicismo e al finalismo comporta che, per Bergson, non si possa distinguere tra una materia che viene plasmata e una o più forze formatrici (meccaniche per il determinismo, volontarie per il finalismo) che la trasformano. A maggior ragione non ci sono, da un lato, cose create e, dall’altro, un loro creatore. La realtà è sempre una sola, sia che la consideriamo sotto la forma dello slancio vitale che sta alla base dell’evoluzione, sia

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che consideriamo i singoli risultati del processo evoluzionistico. Essa si fa da sola, perché è intrinsecamente sviluppo, movimento, divenire, durata. In tal senso, l’evoluzione è insieme soggetto e oggetto di se stessa: è evoluzione che dà a se stessa la propria materia. Secondo questa prospettiva, la materia stessa si risolve nell’unica realtà dello slancio vitale, perdendo così ogni autonomia e ogni specificità. Se nelle opere precedenti Bergson aveva mantenuto netto il suo dualismo – di tempo e durata, quantità e qualità, intelligenza e intuizione, scienza e metafisica e, appunto, materia e spirito – nell’Evoluzione creatrice la materia si risolve in una manifestazione dello spirito. È vero che egli continua a parlare della materia bruta come di ciò che oppone resistenza allo slancio vitale. Tale resistenza, tuttavia, non deve essere intesa come un ostacolo esterno, urtando contro il quale la vita universale arresta la propria corsa, bensì come il limite interno alla forza vitale stessa. Infatti, quando una particolare diramazione dello slancio vitale ha sviluppato al massimo le sue potenzialità, non può far altro che ripiegarsi su se stessa, senza per questo bloccare l’espansione dello slancio vitale nel suo insieme.

la materia come momento dello slancio vitale

L’evoluzione creatrice offre la prospettiva di uno slancio vitale che è principio di ogni realtà dell’universo: ciò indurrebbe a pensare che Bergson – in materia religiosa – si sia attestato su di un radicale monismo panteistico. E di fatto non mancò chi, da parte cattolica, gli mosse questa accusa. Ma Bergson si difese sostenendo che il suo pensiero non solo non poggiava su presupposti panteistici, ma costituiva una vera e propria confutazione del panteismo. Il significato di questa affermazione appare chiaro dalla lettura dell’ultima sua opera importante, Le due fonti della morale e della religione (1932).

la svolta religiosa

Esistono due tipi di morale, cui corrispondono altrettanti tipi di società. Le società storicamente esistenti sono società chiuse, poiché in esse i singoli individui sono condizionati e non dispongono di alcun margine di libertà effettiva. La società è la fonte dell’obbligazione morale, che non è una norma della ragione, ma una costrizione sociale interiorizzata dall’individuo attraverso l’abitudine a osservarla. Sotto questo aspetto, le società umane non differiscono sostanzialmente da quelle delle formiche: in entrambi i casi la struttura dell’organizzazione sociale e le regole del comportamento individuale sono il risultato dell’evoluzione naturale, che ha promosso il massimo adattamento possibile dell’individuo alla totalità sociale. Nel caso delle formiche, queste regole sono imposte dall’istinto; per quanto riguarda gli uomini, dall’«abitudine a contrarre le abitudini», la quale – come intensità e regolarità – ha una forza paragonabile a quella dell’istinto.

le società chiuse e la morale dell’obbligo

Alle società chiuse si contrappone la società aperta, che lascia spazio alla novità e alla libertà. Il fondamento di questa nuova società è la morale aperta propugnata dalle grandi figure morali. Quest’ultima non è ristretta a un singolo gruppo sociale e non ha intenti conservativi, ma spinge tutti a continuare in piena libertà – sul piano dell’azione e dell’iniziativa umana – lo slancio creatore della vita.

le società aperte e lo slancio vitale

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le religioni statiche come reazione naturale all’intelligenza

Alla contrapposizione tra morale chiusa e morale aperta corrisponde, sul piano religioso, quella tra religione statica e religione dinamica. Religioni statiche sono le religioni storiche le quali – malgrado i vari riferimenti a rivelazioni positive – hanno tutte un’unica origine naturale. Esse sono, infatti, un prodotto dell’evoluzione inteso a correggere la tendenza analitica dell’intelligenza che rischia di rivolgersi contro la vita stessa. Lo spirito parcellizzatore dell’intelligenza, ad esempio, induce gli uomini a chiudersi nel loro egoismo; oppure, li spinge a prevedere il futuro e la morte, paralizzando la loro fiducia e capacità d’iniziativa. Per ovviare a ciò, l’evoluzione naturale stessa ha prodotto la religione che ha creato credenze e pratiche intese a restituire all’uomo l’apertura verso il prossimo, la fiducia nel futuro e nell’immortalità, il senso della protezione da parte di un essere onnipotente.

le religioni dinamiche e l’amore mistico

La religione dinamica viene invece fatta coincidere da Bergson con il misticismo. Soltanto i grandi mistici possono conoscere intuitivamente la natura di Dio, che è «amore e oggetto di amore». Ma l’amore di Dio richiede la creazione di esseri che possano essere amati e che, a loro volta, lo riamino. La creazione non è altro che «un’intrapresa di Dio per creare dei creatori, per aggiungere degli esseri degni d’amore». Sotto questa luce, i risultati cui si perveniva nell’Evoluzione creatrice appaiono provvisori. In quell’opera, l’analisi si fermava agli effetti naturali dello slancio creatore, ma tali effetti sono la base e il ponte di passaggio per un’espansione non più fisica, ma soltanto spirituale: un’espansione d’amore.

4. Il neokantismo affinità e differenze con il positivismo

A partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento si delinea nella cultura tedesca un vero e proprio ritorno a Kant. Esso trova le sue principali ragioni nella reazione all’idealismo, da un lato, e agli esiti materialistici del positivismo, dall’altro. Certamente la filosofia di Kant non era stata assente dalla scena culturale della prima metà del secolo, anzi era stata un termine di riferimento essenziale per i pensatori idealisti, così come per i loro avversari (ad esempio, Schopenhauer). Ciò che tuttavia caratterizza in modo nuovo questo «ritorno a Kant» è l’esperienza del positivismo. Se è vero, come abbiamo detto, che esso si presenta come una reazione ai suoi esiti materialistici, è anche vero che al positivismo lo accomunano, da un lato, la concezione della scienza fisico-matematica come modello di ogni conoscenza, dall’altro, l’esigenza di fondare le scienze dell’uomo da un punto di vista epistemologico. Naturalmente, il Kant al quale si vuole ritornare non ha per tutti gli stessi connotati. Il tratto comune delle varie forme di neokantismo consiste, tuttavia, nell’intendere l’attività filosofica come una riflessione critica sui risultati e sui metodi delle scienze.

la scuola di marburgo

L’espressione filosoficamente più significativa del movimento neokantiano è costituita dalla cosiddetta Scuola di Marburgo, dal nome della sede uni-

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versitaria in cui insegnarono o nella quale si formarono i suoi principali esponenti. L’iniziatore della scuola fu Hermann Cohen (1842-1918), professore a Marburgo dal 1873 al 1912 e in seguito alla Scuola superiore ebraica di Berlino. Il suo pensiero è esposto nel Sistema di filosofia, che si articola significativamente in tre parti: Logica della conoscenza pura (1902), Etica della volontà pura (1904) ed Estetica del sentimento puro (1912). Esso era stato preceduto da tre ampi studi su La teoria kantiana dell’esperienza (1871), La fondazione kantiana dell’etica (1877) e La fondazione kantiana dell’estetica (1879). Cohen ritiene che la Critica della ragion pura – di cui privilegia la seconda edizione – debba essere considerata come una teoria dell’esperienza, e in particolare dell’esperienza scientifica fisico-matematica, della quale deve garantire la validità. In altri termini, la critica non ha nulla da dire sui contenuti del sapere, ma si determina come riflessione sulla forma della conoscenza: la filosofia di Kant è «la critica del sistema, dei metodi e dei princìpi di Newton». Le dottrine esposte nel Sistema di filosofia costituiscono per Cohen uno sviluppo e – per così dire – un aggiornamento del pensiero di Kant. Innanzi tutto, Cohen chiarisce che la filosofia è una logica della scienza – cioè del sapere universalmente valido – e ha il compito di mostrare le condizioni che rendono possibile la scienza come tale. Ma quali sono queste condizioni? Per spiegare questo punto Cohen fa riferimento al modo in cui la matematica costruisce i suoi oggetti producendoli: Cohen ritiene, infatti, che la conoscenza scientifica proceda allo stesso modo. Il principio unico e originario di quest’ultima è il pensiero puro: esso produce gli oggetti della scienza, ma non in senso idealistico, bensì nel senso in cui nella matematica si parla di una «x» da determinare.

cohen e i fondamenti della conoscenza scientifica

L’altro principale esponente della scuola è Paul Natorp (1854-1924), professore a Marburgo dal 1892 e autore della Dottrina platonica delle idee (1903) e dei Fondamenti logici delle scienze esatte (1910). Egli si mantiene fedele alla maggior parte dei capisaldi del pensiero di Cohen, estendendoli anche ai campi della pedagogia e della psicologia. Quest’ultima non è considerata come una disciplina empirica, ma viene fatta coincidere con la logica – a sua volta intesa come conoscenza pura. Natorp insiste particolarmente sull’aspetto logico-metodologico della filosofia, per cui essa trasforma ogni fatto in problema: ciò comporta il riferimento a premesse sempre più fondamentali, nello sforzo di una sempre più rigorosa (ma mai definitiva) legalizzazione dell’esperienza. In questa direzione, si muove anche la sua interpretazione della dottrina platonica delle idee, considerate come le norme della conoscenza vera, i princìpi della sua universalità e necessità.

natorp e le idee platoniche

Ernst Cassirer nasce a Breslavia nel 1874. Addottoratosi con Cohen a Marburgo nel 1899, insegna a Berlino come libero docente e ad Amburgo dal 1919. L’avvento del nazismo nel 1933 lo costringe all’esilio (Cassirer era ebreo), dapprima in Inghilterra e in Svezia e, infine, negli Stati Uniti, dove insegna a Yale e alla Columbia University, e dove muore nel 1945. Tra le sue opere a carattere storico sono da ricordare: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna (in quattro volumi: 1906, 1908, 1920,

vita e opere di cassirer

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postumo), Vita e dottrina di Kant (1918), Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), La filosofia dell’Illuminismo (1932). Tra le opere a carattere più squisitamente teoretico vanno menzionate: Concetto di sostanza e concetto di funzione (1910), Filosofia delle forme simboliche (in tre volumi: 1923, 1925, 1929), Saggio sull’uomo (1944). l’interesse per le forme della cultura e per il linguaggio

Il punto di partenza di Cassirer è evidente soprattutto nelle opere di carattere storico, nelle quali privilegia il problema filosofico della conoscenza. L’interpretazione cassireriana di Kant – soprattutto quando ribadisce la normatività della struttura logica dell’esperienza scientifica – deve molto a Cohen, ma presenta anche un aspetto di novità. Cassirer ammette, infatti, la possibilità di più forme che rendono possibile non soltanto la scienza, ma anche la morale, l’arte e la religione. E in luogo della preferenza di Cohen per la Critica della ragion pura si ritrova in Cassirer una considerazione privilegiata per la Critica del giudizio in quanto approdo problematico del criticismo a una filosofia della cultura in generale. Anche nel suo lavoro storiografico di maggior mole, quello sulla storia del problema della conoscenza (tradotta in italiano con il titolo fuorviante di Storia della filosofia moderna), l’impostazione si era venuta evolvendo da un iniziale interesse – nei primi due volumi – per i problemi gnoseologici legati alle scienze esatte a una più ampia considerazione delle diverse forme culturali. E nello studio sul concetto di funzione – che nella scienza moderna si è venuto sostituendo a quello di sostanza – Cassirer mette in luce l’importanza del linguaggio, e quindi del segno, nella costituzione degli oggetti di cui si occupa la scienza. In questo modo, Cassirer estendeva la cosiddetta «rivoluzione copernicana» di Kant dal piano puramente epistemologico a tutte le forme della cultura, riconosciute nella loro irriducibile autonomia.

la nozione di forma simbolica

Nella Filosofia delle forme simboliche Cassirer presta attenzione a ogni attività spirituale nella sua forma caratteristica, nel suo manifestarsi peculiare, nel suo esser così, in una ricchezza di forme che rispecchia la stessa ricchezza della vita. Ciò che accomuna le diverse sfere della cultura (linguaggio, mito, religione, arte, ecc.) è la loro natura di forme simboliche in quanto rappresentano mediante segni simbolici il contenuto dello spirito. «Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero ma il suo organo necessario ed essenziale [...]. L’atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l’atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico».

da «animale razionale» a «animale simbolico»

Il compito della filosofia sarà, allora, quello di mostrare come attraverso l’espressione simbolica si generino le varie forme della realtà spirituale. A questo compito è preliminare la considerazione del linguaggio, inteso come l’attività specificamente umana attraverso la quale si organizza l’esperienza – immediata e grezza – in un mondo di simboli. Il mito, l’arte, la religione, la storia fanno parte dell’universo simbolico, sono i «fili che costituiscono l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza». Se tutte le forme della vita culturale dell’uomo sono forme simboliche, allora anche l’uomo potrà essere ormai definito animal symbolicum. «In tal modo si indicherà ciò che lo

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caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie, e si potrà capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà». Le dottrine di Windelband e di Rickert rappresentano l’espressione principale del secondo indirizzo del neokantismo, qualificato su base geografica come Scuola del Baden o del «sud-ovest», dalle sedi universitarie (Friburgo e Heidelberg) dove essi hanno insegnato.

la scuola del baden

Il pensiero di Wilhelm Windelband (1848-1915) è esposto in Preludi – una raccolta di saggi e discorsi pubblicata nel 1883 e accresciuta nelle edizioni successive – e nell’Introduzione alla filosofia (1914). La filosofia ha il compito di ricercare i princìpi a priori che garantiscono non soltanto la validità del conoscere, ma anche quella del volere e del sentire: questi princìpi sono valori universali e necessari. Windelband distingue tra validità empirica delle leggi naturali e validità normativa dei valori: le prime si esprimono in giudizi che affermano, per esempio, l’essere di un oggetto o una relazione tra rappresentazioni; i secondi entrano in gioco nei giudizi valutativi, del tipo «questa cosa è buona (o vera o bella)». I giudizi del secondo tipo sono quelli della filosofia, alla quale Windelband riconosce – in accordo con l’impostazione neokantiana – un compito essenzialmente critico nei confronti del sapere scientifico, che è invece del tutto autonomo. I valori non hanno un’esistenza di fatto, ma non per questo cessano di valere incondizionatamente. Essi costituiscono quella che Windelband chiama coscienza normale, una sorta di ideale dover-essere presente e agente in tutte le coscienze empiriche.

windelband e la filosofia dei valori

Una simile impostazione conduce Windelband a sostenere – nel saggio Storia e scienza della natura – una distinzione di metodo (fondata sulla diversità dello scopo conoscitivo) tra scienze della natura e scienze dello spirito. Windelband chiama le prime scienze nomotetiche, in quanto sono orientate alla ricerca di leggi (non importa se della natura o del mondo umano), e le seconde scienze idiografiche, in quanto si propongono di cogliere i processi nella loro individualità. In una delle sue ultime opere – l’Introduzione alla filosofia – egli riformulerà la distinzione tra conoscenza storica e scienza naturale: la conoscenza storica è quella che riguarda il mondo della cultura e che – a differenza della scienza naturale – ha relazione con i valori. Il terreno della realizzazione empirica dei valori è infatti la realtà storica.

la distinzione tra scienze nomotetiche e ideografiche

I temi della speculazione di Windelband verranno ripresi in forma sistematica dal suo allievo più importante, Heinrich Rickert (1863-1936), i cui scritti più significativi sono I limiti della formazione dei concetti delle scienze della natura (1896-1902), Il concetto di filosofia (1910), Sistema di filosofia (1921) e Problemi fondamentali della filosofia (1934). Anche per Rickert la scienza naturale è orientata verso la ricerca di leggi generali; tuttavia, essa incontra un limite – l’individualità dei fenomeni – oltre il quale non può andare. La sola forma di conoscenza dei processi individuali è la conoscenza storica. Rickert sottolinea che la distinzione tra scienza naturale e conoscenza storica è puramente metodologica, poiché i fatti fisici e quelli della vita interiore possono essere entrambi oggetto di conoscenza naturalistica o storica: «la

rickert: scienze naturali e conoscenza storica

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realtà diventa natura se la consideriamo dal punto di vista del generale e della legge, diventa storia se la consideriamo dal punto di vista del particolare e dell’individuale». la costituzione dell’oggetto storico in base al valore

Si è detto che la conoscenza storica ha per oggetto l’individuale, ma esso si ottiene quando alla molteplicità di elementi che costituiscono il contenuto dell’esperienza si attribuisce un «significato». Detto altrimenti, è il riferimento a un valore ciò che riduce a individualità il coacervo dell’esperienza, trasformandolo così in oggetto storico. L’intero ambito oggettivo della conoscenza storica si fonda, dunque, sul riferimento a «valori culturali» validi incondizionatamente: l’ambito della conoscenza storica è il mondo della cultura. Ciò non significa che le scienze della cultura procedano a «valutazioni»: semplicemente procedono attraverso un riferimento al valore, cioè individuano il loro oggetto sulla base dei valori che indirizzano il concreto agire dell’uomo.

5. Dilthey e lo storicismo tedesco la storia come problema

A un’esigenza critica in senso kantiano si può ricondurre l’avvio del dibattito – nella filosofia tedesca della fine dell’Ottocento – sul carattere, sul metodo e sull’oggetto delle discipline che studiano l’uomo e la realtà sociale nella loro dimensione storica. Analogamente al movimento neocriticistico – il quale cercava di giustificare gli sviluppi della scienza sulla base teorica della Critica della ragion pura – ci si propone in questo caso di determinare le condizioni di possibilità e di validità della conoscenza storica. Ciò comporta evidentemente un allargamento dell’indagine critica a un campo del sapere che era rimasto per lo più estraneo alla riflessione kantiana, soprattutto perché si era venuto costituendo scientificamente soltanto nell’Ottocento.

caratteri dello storicismo tedesco contemporaneo

Questo dibattito si sviluppa tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e gli anni Venti del nostro secolo, influendo in misura significativa non soltanto sul pensiero filosofico ma anche sulla ricerca storica e sulle scienze sociali novecentesche. Lo storicismo – nel suo significato più generale – asserisce che la realtà umana e la vita sociale sono essenzialmente storiche e che la storia costituisce, pertanto, il principale strumento per la loro comprensione. In questo senso, si può parlare di diversi «storicismi» nella cultura moderna e contemporanea, da Vico al marxismo o a Croce. Quello tedesco contemporaneo, tuttavia, si caratterizza – oltre che per l’aspetto metodologico, a cui si è già fatto cenno – per il conseguente rifiuto di ogni filosofia della storia, almeno da parte dei suoi maggiori esponenti. Tra le premesse dello storicismo contemporaneo, oltre alla crisi della speculazione idealistica e alla reazione a certi esiti del positivismo, ci sono la ripresa del criticismo e soprattutto il grande sviluppo degli studi storici nell’Ottocento.

la vita di dilthey

L’inizio del movimento storicistico tedesco si fa comunemente risalire al 1883, l’anno di pubblicazione della Introduzione alle scienze dello spirito di Wilhelm Dilthey. Nato a Biebrich, in Renania, nel 1833, studiò a Heidelberg e a

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Berlino. Divenne professore di Filosofia a Basilea nel 1867, poi in altre università tedesche. Dal 1882 fu professore all’università di Berlino dove concluse il suo insegnamento nel 1906. Morì a Siusi, nel Tirolo allora austriaco, nel 1911. I suoi primi interessi di storico si rivolsero dapprima alle manifestazioni letterarie, religiose e filosofiche del Romanticismo tedesco e culminarono nella pubblicazione (1867-70) di una vasta biografia di Schleiermacher rimasta incompiuta. In seguito, Dilthey allargò il proprio campo di indagine alla cultura del Rinascimento e della Riforma, all’Illuminismo e all’idealismo: Intuizione del mondo e analisi dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma (189194), Il secolo XVIII e il mondo storico (1901), Esperienza vissuta e poesia (1906), La storia giovanile di Hegel (1905-6).

la produzione giovanile

Nel 1883 era apparso il primo degli studi teorici importanti – L’introduzione alle scienze dello spirito – nel quale Dilthey si proponeva di giustificare l’autonomia delle scienze dello spirito rispetto a quelle naturali. La ricerca impostata in quest’opera venne ripresa e sviluppata in una serie di scritti successivi. Nelle Idee di una psicologia descrittiva e analitica (1894), Dilthey attribuisce alla psicologia una funzione fondante nei confronti delle altre scienze dello spirito.

la fase della definizione delle scienze dello spirito

Questa posizione verrà abbandonata negli ultimi scritti, che rappresentano il risultato più maturo delle sue ricerche: Studi sulla fondazione delle scienze dello spirito (1905-10) e La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). È ancora importante ricordare i saggi sull’Essenza della filosofia (1907) e I tipi di intuizione del mondo (1911), nei quali la stessa filosofia è considerata nella sua dimensione storica, come una particolare – e quindi relativa – intuizione del mondo.

gli ultimi scritti

Nell’Introduzione alle scienze dello spirito Dilthey fornisce sostanzialmente un insieme di criteri di distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, delineando nel contempo una sorta di enciclopedia di queste ultime. Il primo e fondamentale criterio della distinzione tra le scienze storiche e quelle della natura è costituito dall’omogeneità tra soggetto e oggetto della ricerca, cioè dall’appartenenza del soggetto conoscente allo stesso «mondo» sul quale verte l’indagine.

la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito

Nelle scienze della natura soggetto e oggetto sono tra loro distinti; nelle scienze dello spirito essi si presentano invece indissolubilmente connessi. Infatti, le scienze naturali studiano un complesso di fenomeni esterni all’uomo, mentre le scienze della storia e della società studiano un dominio di cui l’uomo fa parte integrante e di cui ha coscienza immediata. In tale esperienza immediata l’uomo si riconosce sovrano del proprio volere, responsabile delle proprie azioni e libero di sottoporre tutto al vaglio del pensiero. Dunque, la natura è il mondo della necessità meccanica – esprimibile in forma di leggi – mentre la storia è il dominio della libertà.

l’uomo appartiene al mondo storico-sociale che studia

Ma a quale di questi due mondi l’uomo propriamente appartiene? Per Dilthey, l’uomo è una vivente unità psico-fisica, giacché fa contemporanea-

il dualismo spirito-materia

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mente parte del mondo della natura e del mondo della storia. Da un lato, quindi, l’uomo è sottoposto ai condizionamenti meccanico-naturali; dall’altro, è un soggetto libero. A questo riguardo, Dilthey precisa che processi spirituali e processi materiali non sono tra loro comparabili, e soprattutto che i primi non possono essere derivati dai secondi. l’esperienza vissuta e l’unità del mondo umano

L’altro criterio di distinzione tra le scienze dello spirito e le scienze della natura è che le prime si fondano sull’esperienza interna, mentre le seconde si basano sull’esperienza esterna. I processi naturali possono essere conosciuti soltanto attraverso la percezione esterna; i processi storico-sociali sono «comprensibili dall’interno». Mentre il rapporto con la natura è un rapporto fra termini estranei, quello con il mondo umano si presenta come un rapporto immediato, giacché il soggetto conoscente ne è parte integrante. L’uomo ha infatti un’esperienza immediata della vita spirituale nella propria interiorità, un’esperienza che non comporta nessuna mediazione concettuale. I dati delle scienze dello spirito derivano dall’esperienza interna che l’uomo ha di sé. Questa coscienza immediata del proprio stato interiore – che Dilthey chiama esperienza vissuta – include anche la comprensione che si può avere degli altri uomini. Nell’esperienza vissuta, dunque, trova espressione immediata l’unità stessa del mondo umano che costituisce l’oggetto delle scienze dello spirito.

i metodi della spiegazione e della comprensione

Si è detto che le scienze della natura e le scienze dello spirito hanno oggetti differenti – rispettivamente la natura e la storia – e che si basano su differenti tipi di esperienza – rispettivamente la percezione esterna e l’esperienza vissuta. Quali sono, dunque, i metodi con cui ricercano i loro oggetti? Le scienze naturali si propongono di fornire una spiegazione (Erklären) causale dei fenomeni, mentre le scienze dello spirito mirano a una comprensione (Verstehen) del mondo umano, servendosi di categorie come quelle di significato, fine, valore.

quali sono le scienze dello spirito?

Per Dilthey, la struttura stessa del mondo umano è storica, giacché storico è il suo nucleo fondamentale, cioè l’individuo, costituito da un complesso di

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Scienze della natura

Scienze dello spirito

esperienza esterna (Erfahrung)

esperienza vissuta (Erlebnis)

oggetto esterno all’uomo

oggetto omogeneo all’uomo

spiegazione

comprensione

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rapporti storicamente condizionati, dai quali sorgono i sistemi di cultura e di organizzazione della società. Le scienze dello spirito abbracciano, dunque, sia le discipline che studiano le manifestazioni del mondo umano nella loro individualità (ad esempio, la storia nelle sue diverse forme: politica, letteraria, artistica), sia le discipline di tipo generalizzante che tendono alla scoperta delle uniformità presenti nel mondo umano (ad esempio, la psicologia, la sociologia, ecc.). Negli scritti posteriori all’Introduzione Dilthey non solo riprende temi già affrontati – la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, da un lato, e tra spiegazione e comprensione, dall’altro; la natura essenzialmente storica dell’uomo – ma approda anche a una più matura formulazione della sua «critica della ragione storica». In questa fase del suo pensiero, egli ritiene che la conoscenza del mondo umano non sia più data immediatamente nell’introspezione, ma possa essere raggiunta soltanto attraverso la considerazione dei prodotti storici in cui esso si esprime.

le oggettivazioni dell’umano

Mediante l’idea dell’oggettivazione della vita noi perveniamo per la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza di ciò che è storico. Tutto è qui sorto dall’attività spirituale e reca quindi il carattere della storicità: perfino nel mondo sensibile esso si inserisce come prodotto della storia. Dalla distribuzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case in una strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino alla sentenza del tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del proprio carattere nella sua manifestazione di vita, è domani, quando ci sta dinanzi, storia. Col procedere del tempo noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, dai castelli della monarchia assoluta. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua distanza nel tempo (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, sez. II, III, 1).

Mediante un richiamo alla tradizione ermeneutica della cultura tedesca – a cui Dilthey si era accostato attraverso lo studio di Schleiermacher – la comprensione della vita viene ora definita come «il processo in cui perveniamo a conoscere, in base a segni dati sensibilmente, un elemento psichico del quale essi sono l’espressione». La comprensione si configura, dunque, come un riferimento retrospettivo alle oggettivazioni dell’«Erleben» (cioè del divenire dei vissuti di coscienza). Riprendendo un termine hegeliano, Dilthey chiama queste espressioni oggettive della vita con il nome di «spirito oggettivo» .

la comprensione dello «spirito oggettivo»

Accanto a quelle di vita e di spirito, l’altra nozione fondamentale per caratterizzare la struttura del mondo storico, è quella di connessione dinamica . Il mondo storico si presenta come una connessione generale che comprende una molteplicità pressoché infinita di connessioni particolari – dagli individui (che sono connessioni limitate dalla nascita e dalla morte) ai sistemi di cultura e di organizzazione sociale, alle epoche storiche. Ogni connessione ha il proprio centro in se stessa e si differenzia dalle altre per i valori che produce e per i fini che realizza. Ciò significa che non esistono valori e sco-

la struttura interna del mondo storico

alef

Dilthey Comprensione storica e oggettivazione della vita

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pi assoluti. Infatti, ogni connessione particolare – costituendosi attorno a scopi e valori specifici – non è altro che un aspetto parziale e relativo del mondo storico nel suo insieme. ogni epoca storica è diversa dall’altra

Ma, se ogni connessione particolare è autocentrata, occorre concludere che non esiste alcun rapporto tra di esse? Secondo Dilthey, le connessioni particolari non sono prive di relazioni reciproche: per esempio, le epoche storiche trapassano sì una nell’altra, ma è possibile comprenderle perché ognuna di esse conserva alcune tendenze dell’epoca precedente e ne contiene altre che preparano il passaggio a quella successiva. Ciò che Dilthey intende sottolineare non è tanto la relatività dei valori, quanto piuttosto il carattere finito di ogni fenomeno storico. In tal modo, egli nega la possibilità di una conoscenza globale della realtà storico-sociale, come quelle a cui aspirano la filosofia della storia o la sociologia positivistica. La liberazione dalla pretesa di un senso oggettivo dello sviluppo storico e della vita nella sua totalità costituisce anzi, per Dilthey, «l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo».

le filosofie sono prodotti storici

Il riconoscimento della fondamentale storicità del mondo umano – che costituisce la principale eredità lasciata da Dilthey al pensiero filosofico del Novecento – conduce al riconoscimento della storicità della filosofia stessa, accomunata in questo a qualsiasi altra manifestazione dell’attività spirituale. In altre parole, le dottrine filosofiche – in quanto forme di oggettivazione della vita – sono anch’esse dei prodotti storici, sebbene con alcune peculiarità. In primo luogo, esse si fondano sulla totalità della coscienza e si propongono di affrontare «il mistero del mondo e della vita»; inoltre, vantano una pretesa di validità universale.

affinità e differenze con l’arte e la religione

In quanto fondata sulla totalità della coscienza, la filosofia presenta analogie con l’arte e la religione, anch’esse tese a risolvere il mistero del mondo e della vita; ma, in quanto avanza pretese di validità incondizionata, essa se ne differenzia, avvicinandosi piuttosto al pensiero concettuale delle scienze. Queste, tuttavia, indagano aspetti specifici della natura o del mondo storico, mentre la filosofia ambisce a una conoscenza globale. Essa – afferma Dilthey, rimettendo in circolazione un termine che avrà molta fortuna – è una intuizione del mondo (in tedesco: Weltanschauung). Un’intuizione del mondo è un atteggiamento di fronte alla vita: non soltanto una forma di conoscenza, ma anche un insieme di valori, di scopi e di norme [t19]. Anche arte e religione sono intuizioni del mondo, ma non hanno pretese di validità assoluta. Tuttavia, questa pretesa della filosofia è naturalmente contraddetta dal fatto che tutte le dottrine filosofiche sono – a loro volta – dei prodotti storici.

le tre impostazioni filosofiche fondamentali

Pur fondandosi sulla totalità della vita psichica, la filosofia concepisce il mondo privilegiando di volta in volta la conoscenza causale, il sentimento o la volontà: si determinano in questo modo i tre tipi di dottrine filosofiche, che Dilthey chiama rispettivamente materialismo, idealismo oggettivo e idealismo della libertà. Il primo è rappresentato dalle varie forme di naturalismo, da Democrito ed Epicuro a Hobbes, agli enciclopedisti settecente-

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schi e al positivismo; il secondo è quello che da Eraclito e dallo stoicismo giunge fino a Spinoza, Shaftesbury, Goethe, Schelling, Schleiermacher e Hegel; l’ultimo comprende la filosofia ellenistico-romana, la filosofia cristiana, Kant, Fichte. L’intera storia della filosofia è caratterizzata dalla lotta incessante tra queste tre differenti impostazioni, destinata a non aver fine per l’impossibilità di una spiegazione incondizionata della realtà. Qual è allora la funzione che Dilthey riconosce alla filosofia? Essa consiste nell’«autoriflessione storica» e nell’indagine critica sulle proprie possibilità e sui propri limiti.

6. Spengler e il tramonto dell’Occidente Oswald Spengler (1880-1936) è l’autore di una fortunata opera – Il tramonto dell’Occidente – pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della Prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra. È questo un periodo in cui comincia ad accentuarsi la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi sociale, economica e politica, in primo luogo, ma anche crisi intellettuale e di valori, insomma crisi delle certezze che l’inizio del secolo aveva ereditato dall’ottimismo ottocentesco. L’opera di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania vengono interpretati come il tramonto dell’intera civiltà occidentale. In un quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della civiltà europea.

dal crollo della germania al crollo della civiltà

Per Spengler ogni civiltà è un organismo ed è quindi soggetta alla nascita, alla crescita, alla decadenza e alla morte. Questo ciclo di sviluppo ha il carattere dell’ineluttabilità, in quanto risulta necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui l’organismo dispone all’inizio della sua vita. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama «logica organica della storia», che ha il suo principio nella necessità del destino. Il futuro della civiltà occidentale può essere previsto in maniera esatta, perché essa è destinata alla decadenza e alla scomparsa come tutte le altre: «a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi». Spengler va quindi in cerca dei sintomi della decadenza dell’Occidente nell’analisi dei fenomeni economici e politici del mondo contemporaneo, e li trova nell’affermazione della borghesia, nel primato dell’economia sulla politica, nella democrazia .

ogni civiltà è destinata a finire

Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, diverso è invece il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui – in senso radicalmente relativistico – la dottrina diltheyana dell’autoreferenzialità delle epoche storiche: ogni civiltà costituisce un mondo a sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria concezione della natura e della storia. Una comprensione effettiva è possibile, quindi, solo nell’ambito di una stessa civiltà. I valori di una civiltà appartengono soltanto a essa e non sono pos-

il relativismo dei valori

alef

Spengler Morfologia della storia universale

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sono essere condivisi dalle altre: ciò preclude la possibilità di una comprensione reciproca tra civiltà differenti.

7. Weber: il metodo delle scienze storico-sociali la formazione e gli esordi accademici

Max Weber nacque a Erfurt nel 1864, figlio di un uomo politico, deputato del partito nazional-liberale. Condusse i suoi studi, secondo il costume del tempo, in diverse università (Heidelberg, Berlino, Gottinga e poi ancora Berlino). Dopo l’abilitazione, insegnò a Friburgo e dal 1896 a Heidelberg. Ma il brillante inizio della carriera accademica fu interrotto – nel 1897 – da una grave crisi nervosa, che costrinse Weber a lasciare l’insegnamento e le ricerche per alcuni anni.

gli scritti metodologici e la riflessione sulla società moderna

Egli ritornò al lavoro nel 1901, rinunciando all’insegnamento universitario. Negli anni successivi pubblicò gli studi metodologici, i principali dei quali sono tradotti in italiano col titolo Il metodo delle scienze storico-sociali, e i celebri lavori sullo spirito del capitalismo e il suo rapporto con l’etica protestante. Nel 1904 diventò condirettore della prestigiosa rivista «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», nella quale pubblicò la maggior parte dei suoi studi. In questi stessi anni prese forma il problema centrale – storiografico e sociologico – di Weber, quello del processo di razionalizzazione della società moderna. Tra il 1910 e la fine della guerra mondiale attese alla composizione dei saggi e dei materiali che costituiranno le grandi opere – incompiute o pubblicate postume – sull’Etica economica delle religioni universali, su Economia e società, sulla Storia economica.

l’attività politica degli ultimi anni

Gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra videro Weber impegnato nell’attività politica attraverso la collaborazione alla «Frankfurter Zeitung», sulle cui pagine – pur approvando le ragioni ideali e politiche della guerra – prese posizione contro la politica ufficiale del Reich. A questo riguardo, occorre ricordare che Weber partecipò alla commissione d’armistizio e prese parte all’elaborazione della costituzione repubblicana di Weimar. Nel 1918 ritornò all’insegnamento. Morì a Monaco nel 1920. I suoi ultimi significativi scritti sono il saggio Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e le due conferenze su Scienza come professione e Politica come professione.

scienze della natura e scienze storico-sociali

In accordo con Rickert, Weber asserisce che le scienze della natura sono orientate verso la ricerca di leggi generali, mentre le scienze storico-sociali studiano le realtà individuali. In altre parole, è il metodo adottato dalle scienze sociali a permettere la definizione del suo oggetto, e non le presunte qualità intrinseche o ontologiche di esso. In tal modo, se l’interesse della ricerca è rivolto alla conoscenza di regolarità secondo leggi universali, si costituisce l’oggetto della scienza naturale; se invece è rivolto alla conoscenza dei processi individuali, si costituisce l’oggetto storico.

il riferimento al valore e la ricerca

Weber recupera da Rickert non solo questa importante distinzione, ma anche la nozione di riferimento al valore [cfr. 6.4], inteso come criterio di se-

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lezione del dato delle scienze storico-sociali. L’oggetto storico infatti presuppone «la relazione dei fenomeni culturali con idee di valore», in quanto riguarda processi ai quali il ricercatore attribuisce significati culturali. Il distacco di Weber dalla filosofia dei valori è, tuttavia, netto a proposito del modo d’essere dei valori: essi non sono più forniti di una validità incondizionata e metastorica, ma sono i valori di una determinata cultura che lo studioso assume per condurre la propria ricerca. La ricerca storico-sociale ha quindi un punto di partenza «soggettivo», un particolare punto di vista che stabilisce l’oggetto e la direzione dell’indagine. Ma quali sono, allora, le condizioni fondamentali che permettono alle scienze storico-sociali di conseguire risultati «oggettivamente» validi, pur muovendo da presupposti «soggettivi»? È il problema che Weber affronta nei saggi metodologici più importanti: L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) e Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura (1906) .

come ottenere risultati oggettivi?

Egli parla di « avalutatività » delle scienze sociologiche ed economiche per evidenziare come gli studiosi – nel descrivere i fenomeni storico-sociali – debbano astenersi dal fornire giudizi di valore su di essi, magari indicando come avrebbero dovuto essere o svolgersi. Weber distingue, infatti, la relazione al valore – che si è visto essere il criterio con cui il ricercatore individua l’oggetto della sua indagine – dal giudizio al valore – che è invece una presa di posizione valutativa (cioè l’approvazione di valori, la prescrizione di comportamenti, la difesa di scopi pratici, di posizioni politiche, ecc.). La ricerca sociale deve accertare ciò che è, non indicare ciò che deve essere. Giudicare della validità dei valori è, dunque, per Weber «una questione di fede, forse un compito della considerazione speculativa [...] sicuramente non l’oggetto di una scienza empirica». Ciò che lo scienziato sociale invece può fare – senza compromettere l’oggettività della sua indagine – è misurare l’efficacia con cui i valori assunti come scopo dell’agire sono perseguiti dai mezzi scelti per la loro realizzazione, ovvero analizzare le conseguenze derivanti dalla scelta di certi valori e dall’impiego di determinati mezzi.

l’esclusione dei «giudizi di valore»

Le scienze storico-sociali non possono mai dare una spiegazione completa ed esauriente di un avvenimento, dal momento che gli antecedenti ai quali un avvenimento può essere ricondotto sono – in linea di principio – infiniti. Ma alla ricerca storica spetta «la spiegazione causale di quegli elementi e di quegli aspetti dell’avvenimento in questione che rivestono un significato universale da determinati punti di vista, e perciò un interesse storico». Ciò può avvenire mettendo in relazione l’evento o il processo storico reale con processi storici possibili costruiti concettualmente. Se – eliminando o modificando un elemento della situazione – il processo possibile si discosterà da quello reale, allora l’elemento in questione potrà essere considerato in rapporto causale con l’evento che si intende spiegare. I giudizi di possibilità oggettiva – così Weber chiama i procedimenti di imputazione causale di questo tipo – mettono capo a un tipo di spiegazione condizionale, che nega il postulato positivistico (valido per le scienze naturali) del legame tra causalità e necessità. Tali giudizi portano alla scoperta delle

il ricorso alla spiegazione condizionale

alef

Weber L’oggettività delle scienze storico-sociali

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condizioni che favoriscono (e del grado in cui lo favoriscono) o che impediscono il verificarsi di un determinato avvenimento. i tipi ideali

Per far ciò, è necessario immaginare delle sequenze di avvenimenti che non si sono date empiricamente, e ricorrere a concetti generali che hanno il carattere di tipi ideali . Weber li definisce in questo modo: Il tipo ideale non è una rappresentazione del reale, ma intende fornire alla rappresentazione un mezzo di espressione univoco. [...] Esso è ottenuto mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale (Il metodo delle scienze storico-sociali, passim).

Ma quali sono le conseguenze dell’adozione dei tipi ideali da parte delle scienze sociali? 1. Le uniformità di comportamento constatate in questo modo non sono leggi vere e proprie, ma costruzioni concettuali che nella loro purezza ideale si ritrovano raramente, e a volte mai. Ciononostante, esse sono l’unico mezzo per costruire rappresentazioni della realtà empirica. 2. La ricerca storica – di per sé volta all’individualità – deve servirsi a scopo euristico delle scienze sociali astratte. In seguito, lo studio delle regolarità dell’agire umano arriverà a rappresentare uno scopo autonomo della ricerca storico-sociale, lo scopo della sociologia.

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Scienze naturali

Scienze storico-sociali

oggetto: regolarità secondo leggi generali

oggetto: individualità

spiegazione causale (causalità necessaria)

spiegazione causale (causalità condizionale)

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giudizi di possibilità oggettiva

regole dell’esperienza tipi ideali

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8. Weber: l’analisi del mondo moderno Il problema della natura e della genesi del capitalismo era largamente dibattuto nella cultura tedesca degli ultimi anni dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Erano da poco stati pubblicati da Engels il secondo e il terzo libro del Capitale di Marx, e le teorie marxiane cominciavano ad acquisire diritto di cittadinanza accademica presso economisti e storici. Uno dei primi studiosi ad aver considerato il Capitale come opera scientificamente valida fu Werner Sombart (1863-1941), condirettore con Weber dell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» e autore del libro Il capitalismo moderno (1902). In quest’opera, l’autore presentava il capitalismo moderno come il risultato della combinazione della tendenza al maggior guadagno possibile con un orientamento razionale dell’agire.

il contributo di sombart

Anche Weber – come Sombart – riconosceva nel razionalismo economico il carattere del capitalismo moderno. Anch’egli infatti individuava come suoi caratteri costitutivi l’organizzazione razionale dell’impresa, la tendenza al profitto sulla base del calcolo del capitale, la redazione di bilanci preventivi e consuntivi, la separazione tra impresa e amministrazione domestica, l’impiego del lavoro formalmente libero, l’esistenza di un libero mercato. Ma accanto a questi elementi, Weber indicava un aspetto che – dal punto di vista marxiano – si direbbe «sovrastrutturale». Si tratta dello spirito del capitalismo, cioè di una specifica mentalità economica che – a suo avviso – affonda le sue radici nel terreno della religione.

il capitalismo come mentalità

Il problema di Weber è quello di spiegare «il particolare carattere del capitalismo occidentale e, in seno a questo, di quello moderno, e le sue origini». Non era nuova la constatazione del più avanzato grado di sviluppo economico e civile delle società in cui si erano diffuse le confessioni riformate. Weber ne trae spunto per impostare la sua tesi del rapporto tra la mentalità capitalistica e l’etica economica del protestantesimo ascetico (cioè del calvinismo e delle sètte anabattistiche e puritane). Il credente di queste confessioni – convinto che la sua salvezza o la sua dannazione siano decretate da Dio dall’eternità e non dipendano dalle sue opere – cerca una «conferma» della grazia divina, e la trova nel successo economico. In tal senso, il compimento del proprio dovere nel mondo e la riuscita economica sono interpretati come un segno dell’elezione divina. Si caricano, quindi, di significato religioso i caratteri dell’operosità, dello zelo, della coscienza rigorosa e severa, che si traducono nella concezione della professione come vocazione e in una condotta di vita metodica. In seguito, il capitalismo si è spogliato di questo senso etico-religioso, ma è rimasta la tendenza al profitto – concepito come scopo a sé – ed è rimasto l’abito di una condotta metodica («razionale») di vita [t20].

successo mondano ed elezione divina

È evidente che la teoria weberiana dell’origine dello spirito capitalistico è in contrasto con la concezione marxiana, dal momento che rovescia il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura [cfr. 3.6]. Occorre, tuttavia, sottolineare che l’opera di Weber non si propone affatto di sostenere un

la critica a marx e il ruolo della sovrastruttura

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qualsivoglia primato di fattori «spirituali» su quelli materiali. Egli, infatti, rifiuta ogni pretesa di spiegazione onnicomprensiva dei fenomeni storico-sociali e ogni assolutizzazione di princìpi, giacché l’unica forma possibile di spiegazione è, come si è visto, quella condizionale. Dalla sua ricerca egli trae soltanto la conclusione – limitata al problema del sorgere della mentalità economica razionale del capitalismo – che vi è uno stretto rapporto tra questa e l’etica economica del protestantesimo ascetico. l’oggetto della sociologia

Negli ultimi anni della sua vita, gli interessi di Weber si orientarono sempre di più verso la sociologia, con lo scopo di determinarne la specificità rispetto alla ricerca storica e alle altre scienze sociali. Già nel saggio Su alcune categorie della sociologia comprendente (1913), Weber definiva la sociologia come lo studio dell’agire sociale, cioè di quell’agire che si riferisce all’agire di altri individui. Essa si occupa dell’agire umano sotto due aspetti: 1) in quanto è fornito di senso, ossia di un termine di riferimento e di una direzione rispetto a esso; 2) in quanto mostra nel suo corso connessioni e regolarità – al pari di ogni altro accadere. Si tratta di una disciplina che ha per scopo la ricerca di uniformità di comportamenti, e quindi la formulazione di generalizzazioni: in questo senso, essa si avvicina alla scienza naturale.

il metodo della sociologia

La sociologia si distingue dalla scienza naturale perché richiede il ricorso alla comprensione (Verstehen). Le connessioni e le regolarità dell’atteggiamento umano devono, infatti, essere «interpretate»: esse non sono leggi assolute – alla maniera della sociologia positivistica – ma uniformità espresse in forma di tipi ideali e constatabili empiricamente. Viene ripreso qui un concetto di chiara matrice diltheyana, ma con un significato assai diverso: la comprensione deve sempre essere controllata con la spiegazione causale.

sociologia e ricerca storica

Da questo punto di vista, si precisa in modo nuovo il rapporto tra scienza sociale e ricerca storica: esse rappresentano due direzioni di ricerca autonome e tra loro complementari. La storiografia mira alla spiegazione causale di eventi individuali che rivestano un significato culturale, la sociologia «elabora concetti di tipi e cerca regole generali dell’accadere». La complessa (e incompiuta) costruzione di Economia e società si presenterà, allora, come lo studio sistematico dei rapporti tra i tipi di atteggiamento (e le corrispondenti forme di relazione sociale) e le forme di organizzazione economica.

agire sociale e razionalità

Secondo Weber, la sociologia si basa su una prima generale classificazione dei tipi fondamentali di agire sociale. All’inizio di Economia e società, infatti, Weber distingue tra «agire razionale rispetto allo scopo», «agire razionale rispetto al valore», agire «affettivo» e agire «tradizionale» [t21]. Gli ultimi due rappresentano forme di atteggiamento non razionale, i primi due forme di razionalità contrapposte. Essi sono disposti in un ordine decrescente di intelligibilità, e proprio il richiamo alla nozione di intelligibilità ci consente di delineare meglio il problema della razionalità, così centrale nella sociologia di Weber. «Razionale», per Weber, è ciò che si può comprendere in base a una relazione tra mezzi e scopo: quanto più un comportamento umano è fondato su una relazione tra mezzi e scopo, tanto più risulta com-

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prensibile, cioè calcolabile e prevedibile. Come si è già detto, la razionalità non consiste, per Weber, nella conoscenza di leggi oggettive della società, e tantomeno nella rivelazione di significati immanenti alla storia o alla natura umana. Essa presuppone il disincantamento del mondo. Con questa espressione Weber intende indicare il progressivo abbandono da parte dell’uomo della spiegazione della realtà in termini magici in favore di una concezione tecnico-scientifica. Dal punto di vista scientifico il mondo è privo di senso: l’unico senso è quello che in esso viene introdotto dall’agire razionale. A questo riguardo, Weber introduce – nel capitolo sulle «Categorie sociologiche fondamentali dell’agire economico» di Economia e società – la distinzione tra razionalità formale e razionalità materiale. La prima consiste nella nel semplice calcolo – formale – del rapporto tra mezzi e fini, la seconda riguarda l’agire subordinato a determinati contenuti – materiali – di carattere valutativo. Questa distinzione, secondo Weber, non è riscontrabile soltanto nella sfera economica, ma è operante, oltreché nel capitalismo moderno, anche nelle istituzioni sociali che lo accompagnano: il diritto razionale-formale, l’amministrazione burocratica, il moderno sapere scientifico. La prevalenza della razionalità formale su quella materiale costituisce infatti uno dei tratti fondamentali della modernità.

le forme della razionalità occidentale

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in poche... parole Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppa in Francia la corrente filosofica dello spiritualismo, i cui primi esponenti – ricollegandosi alla tradizione filosofica francese inaugurata da Montaigne e proseguita da Cartesio, Malebranche e Pascal – furono Victor Cousin, Félix Ravaisson ed Emile Boutroux. In opposizione ad ogni forma di materialismo e di empirismo, che avevano preso piede in età illuministica, e in contrasto con lo scientismo positivistico, essi intendono mettere in luce il primato dello spirito sull’elemento materiale: come la coscienza individuale, anche la realtà si configura come un divenire continuo, caratterizzato dalla contingenza, dalla libertà e dalla ricerca della novità. La maggiore figura dello spiritualismo francese ed europeo fu Henri Bergson, cui venne attribuito il Nobel per la Letteratura nel 1927. Il punto di partenza della filosofia di Bergson è l’esame dei dati immediati della coscienza, che appare come un flusso continuo e unitario di stati qualitativi sempre differenti. A questo riguardo, Bergson conclude che non è possibile trattare i dati della coscienza come delle grandezze fisiche, quantitativamente misurabili, perché l’essenza dell’io è la durata, che ha carattere qualitativo. Bergson, inoltre, affronta il tema della relazione tra la percezione e la memoria: la prima è il frutto di una selezione delle immagini operata dal corpo e guidata da bisogni e interessi determinati; la seconda rappresenta il termine di riferimento della percezione. Ogni percezione si basa, infatti, su interessi e bisogni che si collocano nel passato e che risultano a loro volta condizionati da percezioni o azioni precedenti. Più esattamente, la percezione implica un riferimento ad uno dei due tipi 182

di memoria delineati da Bergson. Il primo è la memoria-abitudine, grazie alla quale reagiamo adeguatamente agli stimoli della situazione presente richiamando i meccanismi motori già messi alla prova nel passato. La memoria-abitudine si radica, tuttavia, sulla memoria-pura, che coincide con la durata reale della coscienza. Dopo avere distinto tra due possibili forme di conoscenza della realtà, l’intelligenza di cui si serve la scienza e l’intuizione di cui si serve la metafisica, Bergson nell’Evoluzione creatrice (1907) estende la durata dal piano della coscienza a quello dell’intera realtà, giungendo a sostenere che l’universo è come una totalità vivente, attraversata da un unico slancio creatore.

durata reale Espressione con cui Bergson indica la dimensione del tempo all’interno della coscienza. La durata esprime l’essenza della coscienza, costituita da un flusso ininterrotto di «dati immediati» che si fondono gli uni con gli altri in una irresolubile continuità. In tal senso, la durata reale coincide con la memoria propria dell’io. Bergson contrappone al tempo inteso come durata reale il tempo spazializzato, o tempo omogeneo. Quest’ultimo trae origine dall’operazione con cui l’intelletto applica alla durata della coscienza uno schema spaziale a essa estraneo. Nell’Evoluzione creatrice, la durata reale viene estesa dalla coscienza all’intera realtà e si manifesta come lo «slancio vitale» che sta alla base del processo evolutivo. immagine Contro l’idealismo, che ritiene che la realtà sia spirito, e il realismo, che suppone l’esistenza reale della materia, Bergson sostiene che la materia è un insieme di immagini. Queste ultime sono definite dal fatto di stare a metà tra la rappresentazione e la

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cosa. Il corpo è un’immagine particolare, che ha la funzione di selezionare le altre immagini in base ai suoi interessi e bisogni. Si definisce così il campo della percezione, ovvero l’ambito delle immagini conservate in mezzo alle infinite altre che vengono dimenticate. Le immagini selezionate dal corpo attraverso la percezione vengono immagazzinate nella memoria.

memoria Per Bergson, è possibile distinguere due tipi di memoria. Da un lato, c’è la memoria-abitudine che ha carattere puramente organico: sulla base degli stimoli ricevuti dalla percezione, essa prepara una risposta motoria all’ambiente. D’altro lato, c’è una memoria pura che contiene i ricordi indipendenti dalla percezione immediata e coincide con l’intera durata della coscienza. Le due memorie sono strettamente connesse tra loro. È dal serbatoio della memoria pura che vengono tratti i «ricordi puri» necessari per orientare la risposta motoria, ma, d’altra parte, soltanto attraverso la memoria-abitudine questi ricordi puri possono divenire «ricordi immagine» effettivamente operativi. È dunque impossibile ridurre i processi mentali all’aspetto fisiologico della vita psichica (memoria-abitudine), dimenticando che la sorgente profonda è sempre di natura spirituale (memoria pura). intelligenza Per Bergson l’intelligenza ha tre caratteristiche: a)

essa è fondata sul procedimento discorsivo dell’analisi e della sintesi, poiché scompone l’oggetto nelle sue componenti per mezzo di rappresentazioni parziali e spesso simboliche; b) essa riguarda soprattutto l’attività dell’uomo come homo faber, capace di costruire strumenti artificiali (in opposizione all’istinto, che è la capacità – posseduta anche dagli animali – di servirsi degli organi corporei) e di

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variarne indefinitamente la composizione; c) essa presuppone la concezione del tempo spazializzato, poiché soltanto la suddivisione quantitativa del tempo in istanti discreti consente la scomposizione dell’oggetto.

intuizione Essa prevede che l’oggetto sia colto dall’interno in maniera immediata, con una sorta di identificazione da parte del soggetto. Non ha quindi alcuna funzione sul piano pratico, ma è indispensabile per cogliere quelle realtà – come la coscienza e la sua durata reale – che si sottraggono a ogni parcellizzazione e a ogni divisione temporale. Soltanto attraverso l’intuizione è possibile una metafisica, cioè la penetrazione della realtà nella sua essenza. slancio vitale In francese: élan vital. Termine con cui Bergson indica il principio spirituale che sta alla base del processo evolutivo, imprimendo in esso una forza di sviluppo che non è né determinata né preordinata finalisticamente. «Lo slancio vitale di cui parliamo consiste, in sostanza, in un’esigenza di creazione. Esso non può creare in modo assoluto, perché incontra davanti a sé la materia, cioè il movimento opposto al proprio; ma esso si impadronisce di questa materia, che è pura necessità, e tende a introdurre in essa la maggior somma possibile d’indeterminazione e di libertà» (Evoluzione creatrice). In tal senso, lo slancio vitale è evoluzione che dà a se stessa la propria materia: quest’ultima non costituisce una realtà estranea allo spirito, ad esso contrapposta, ma il limite interno alla forza vitale. La materia rappresenta il provvisorio ripiegamento dello slancio vitale su se stesso, dopo che una sua particolare diramazione ha raggiunto il massimo dispiegamento delle sue potenzialità, senza per questo arrestarne il flusso interminabile.

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Non solo in Francia, ma anche in Germania si diffondono, nella seconda metà dell’Ottocento, alcune correnti filosofiche che si configurano come reazioni agli esiti materialistici del positivismo: il neokantismo e lo storicismo. I filosofi neokantiani promuovono un ritorno alla filosofia kantiana, intesa anzitutto come indagine critica sui risultati e sui metodi delle scienze, estendendo la riflessione epistemologica dalle scienze fisico-matematiche alle scienze dell’uomo. Si possono distinguere due indirizzi fondamentali del neokantismo, denominati in base alla collocazione delle università in cui si affermarono: 1) la Scuola di Marburgo, i cui maggiori esponenti furono Hermann Cohen, Paul Natorp ed Ernst Cassirer; 2) la Scuola del Baden, all’interno della quale si sono distinti Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert. Cohen mette in luce il carattere produttivo della conoscenza scientifica che procede costruendo i propri oggetti. A Cassirer si deve la riflessione critica sulle forme che rendono possibile non soltanto la scienza, ma anche la morale, l’arte e la religione: di qui l’interesse per il linguaggio e il simbolo, considerati come mezzi attraverso cui l’uomo organizza l’esperienza e accede alla dimensione della cultura. Il dibattito sul carattere assoluto o relativo dei valori caratterizza, invece, la Scuola del Baden: in particolare Windelband opera una distinzione tra le scienze della natura (da lui chiamate nomotetiche, perché volte all’individuazione di leggi universali) e le scienze dello spirito (da lui chiamate ideografiche, perché volte a cogliere i processi nella loro individualità). Tra queste ultime, egli inserisce la conoscenza storica, il cui oggetto specifico è dato dal mondo della cultura: quest’ultimo viene inteso come il campo della realizza-

zione empirica dei valori. Come Windelband, anche Rickert ritiene che la conoscenza storica abbia per oggetto l’individuale: quest’ultimo si ottiene riferendo la complessità dell’esperienza e il concreto agire dell’uomo ad un significato unificante, e cioè ad un valore.

valore (In greco àxion, ciò che è

stimato, apprezzato). A iniziare dal neokantismo il termine viene a indicare ciò che accomuna il bene, il bello e il vero. La Scuola del Baden (Windelband e Rickert) sviluppa una «filosofia dei valori» intesa a garantire l’oggettività del valore, fondato sull’a priori kantiano: in questo contesto si apre un vasto dibattito a proposito dell’assolutezza o della relatività dei valori (il quale rappresenta la continuazione del dibattito sull’oggettività o soggettività del bene). Al principio della relatività dei valori è particolarmente sensibile lo storicismo tedesco che – considerandoli come prodotti del processo storico (Dilthey) – giunge a negare l’esistenza di valori assoluti e a ritenerli espressioni temporanee di singole civiltà (Spengler). L’inizio dello storicismo tedesco contemporaneo si fa risalire comunemente al 1883, l’anno della pubblicazione dell’Introduzione alle scienze dello spirito di Wilhelm Dilthey. Il tratto fondamentale di questa corrente filosofica consiste nel ritenere che il mondo umano e sociale siano essenzialmente storici e che, quindi, la storia sia lo strumento principale per la loro comprensione. Alcuni tratti comuni allo storicismo e al neokantismo sono dati dalla reazione agli esiti materialistici del positivismo, dall’attenzione per i prodotti culturali dell’uomo, intesi come espressione della sua attività spirituale, e dalla ripresa di una forma di criticismo, con la ricerca delle condizioni di possibilità e di validità della conoscen-

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za storica. I nuclei più importanti del pensiero di Dilthey sono i seguenti. 1) La distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito: le prime si basano sull’esperienza esterna e impiegano il metodo della spiegazione; le seconde, invece, si basano sull’esperienza vissuta e impiegano il metodo della comprensione. 2) L’attuazione di una vera e propria «critica della ragione storica»: la conoscenza del mondo umano può essere raggiunta soltanto passando attraverso l’esame dei suoi prodotti storici (e cioè, hegelianamente, dello «spirito oggettivo»). Secondo questa prospettiva, il mondo umano si presenta come un insieme di connessioni dinamiche, ognuna delle quali ha il suo centro in se stessa ed è caratterizzata da scopi e valori particolari, rivelando il carattere finito di ogni realtà storica e l’impossibilità di reperire un senso ultimo della storia. 3) Le dottrine filosofiche sono dei prodotti storici ed ogni filosofia esprime un’«intuizione del mondo», e cioè un atteggiamento complessivo nei confronti della vita, basato su conoscenze, valori e scopi. In altri termini, anche le filosofie sono per Dilthey delle oggettivazioni della vita spirituale dell’uomo: ognuna di esse – a differenza dell’arte e della religione – pretende di avere una validità assoluta, ma è destinata a scontrarsi col limite invalicabile della sua storicità.

comprensione / spiegazione

Con il termine «comprensione» Dilthey indica il metodo delle scienze dello spirito, che consiste nell’immedesimazione o «empatia» con l’oggetto della ricerca, in modo da riviverne psicologicamente i significati immanenti. Essa si contrappone quindi alla «spiegazione» delle scienze sociali, che esplicita nessi causali e leggi costanti, presenti oggettivamente nei fatti. La comprensione è quindi 184

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rivolta verso l’interno e si basa sull’esperienza vissuta (Erlebnis), che consente di immedesimarsi nei fatti storici e di renderli comprensibili cogliendone le finalità e il valore. La spiegazione, invece, considera l’oggetto esclusivamente come esterno.

connessione dinamica In Dil-

they indica la struttura incentrata intorno a un fine o a valori che conferiscono unità alle varie componenti. Le connessioni dinamiche esprimono sempre una totalità autoreferenziale, cioè un insieme dotato di valori e significati propri. Tali significati non sono quindi mai assoluti, ma sempre relativi alla connessione stessa. Le connessioni possono collocarsi su diversi livelli, dall’individuo (che è già una totalità con una finalità propria) alle formazioni culturali, dalle epoche storiche al mondo storico nel suo complesso. Uno dei maggiori rappresentanti della cultura tedesca della seconda metà dell’Ottocento fu Max Weber. Interessato al dibattito metodologico sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito che aveva luogo in quegli anni tra alcuni esponenti del neokantismo e dello storicismo, l’opera di Weber è nota anche per l’analisi della genesi e della natura del capitalismo moderno, per la definizione dello statuto epistemologico della sociologia, per lo studio delle differenti tipologie del potere, per l’approfondimento dei risvolti etici dell’attività politica e scientifica. Le prime opere di Weber sono volte a definire l’oggetto e il metodo delle scienze storicosociali, basato sull’esclusione dei giudizi di valore, sul ricorso alla spiegazione causale di tipo condizionale, sull’utilizzo di tipi ideali. In ambito economico, Weber ha cercato di rovesciare la dottrina marxiana del primato della struttura sulla sovrastruttu-

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ra, mostrando come lo spirito del capitalismo affondi le sue radici nel terreno della religione, cioè mettendo in relazione la ricerca del successo economico con i princìpi etici del protestantesimo ascetico (la ricerca dell’elezione divina). In ambito sociologico, Weber ha indagato le differenti forme dell’agire sociale, ovvero di quell’agire che si riferisce all’agire di altre persone, e il processo di razionalizzazione tipico delle società occidentali. Quest’ultimo conduce al disincantamento del mondo, e cioè al progressivo abbandono da parte dell’uomo delle credenze magico-sacrali in favore di una concezione tecnico-scientifica della realtà. Il disincantamento del mondo si accompagna, secondo Weber, al primato della razionalità formale: nelle società capitalistiche moderne, infatti, la gran parte delle azioni umane appare guidata dal calcolo dei mezzi più appropriati per raggiungere fini determinati e non da princìpi di ordine valutativo.

avalutatività È il termine usato da Weber per indicare la doverosa assenza di giudizi di valore. Weber distingue, infatti, i «giudizi di valore» dalla «relazione al valore». Il giudizio di valore comporta una presa di posizione valutativa pro o contro determinati oggetti storici. La relazione ai valori è, invece, il criterio indispensabile che permette di distinguere i fatti significanti per la ricerca da quelli che non lo sono. In sostanza, essa corrisponde agli interessi teoretici che orientano la ricerca. Se la relazione ai valori è fondamentale nella scienza storica, il giudizio di valore toglie scientificità alla ricerca, che dev’essere sempre completamente «avalutativa». giudizi di possibilità oggettiva In Weber sono i giudizi che

rendono possibile la spiegazione causale (condizionale). Essi sono

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costruzioni ipotetiche di processi causali diversi da quello che si suppone essere stato effettivamente operante, per verificare quale conseguenza sarebbe derivata dall’assenza o dal mutamento di una particolare componente della serie causale. Il procedimento avviene nel modo seguente. 1) Si definisce la spiegazione causale ritenuta valida, ad esempio: la vittoria dei Greci a Maratona è stata la causa (nel senso della condizione) del futuro sviluppo culturale dell’Occidente. 2) Si ipotizza una serie causale diversa, ad esempio: la vittoria dei Greci è sostituita con quella dei Persiani. 3) Se le conseguenze che «ci si deve aspettare» logicamente in tal caso sono irrilevanti – in quanto non modificano sostanzialmente la re-

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altà storica – allora la serie causale che si è individuata è errata (la battaglia di Maratona non sta alla base dello sviluppo culturale dell’Occidente). Ma se sono da aspettarsi conseguenze completamente diverse (la cultura religioso-teocratica dei Persiani avrebbe impedito il nascere di una civiltà occidentale improntata alla libertà e alla democrazia), allora è confermata l’importanza della battaglia di Maratona come causa/ condizione dell’attuale cultura occidentale.

tipo ideale Nelle scienze storico-sociali qualsiasi concetto e qualsiasi regola empirica hanno un carattere «tipico-ideale». Il tipo ideale, sia esso un concetto generale o una regola empirica, non è

la rappresentazione di un dato reale ma il risultato di una costruzione concettuale, ottenuta mediante l’accentuazione unilaterale di alcuni elementi della molteplicità del dato empirico, in sé coerente e priva di contraddizioni. In quanto tale il tipo ideale è un’utopia nel senso letterale della parola. Esso pone astrattamente in luce gli elementi essenziali di un certo fenomeno o di un certo gruppo di fenomeni e serve come criterio di comparazione al quale deve essere riferito il dato empirico. Per esempio, sono tipi ideali i concetti, da Weber largamente usati, di «capitalismo», «economia cittadina», «feudalesimo», «imperialismo», ecc., ma anche complesse costruzioni concettuali, come il marxismo.

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i testi t17 Bergson / La durata reale Bergson

Saggio sui dati immediati della coscienza

cap. II

Il brano che riportiamo è tratto dal Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), che è diviso in tre capitoli. Il primo riguarda la definizione della natura qualitativa degli stati di coscienza, mentre il terzo utilizza gli argomenti maturati nei primi due per una misurata difesa della libertà umana. È nel secondo capitolo, tuttavia, che viene trattato il problema fondamentale dell’opera, oggi tornato a rivestire interesse per la speculazione filosofica contemporanea: la natura del tempo.

Ci sono infatti, come mostreremo in dettaglio tra breve, due possibili concezioni della durata, l’una priva di ogni mescolanza, l’altra nella quale interviene surrettiziamente l’idea di spazio1. La durata assolutamente pura è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore. Perché ciò avvenga, non ha bisogno di immergersi interamente nella sensazione o nell’idea che si dà, poiché allora, al contrario, cesserebbe di durare. E non ha nemmeno bisogno di dimenticare gli stati anteriori: basta che, ricordandosi di essi, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro, ma che li organizzi con esso, come avviene quando ci ricordiamo le note di una melodia fuse, per così dire, insieme2. Ma non si potrebbe dire che, sebbene queste note si succedano, noi le percepiamo comunque le une nelle altre, e che il loro in1. Ci sono, dunque, due concezioni possibili del tempo. La prima è quella del tempo spazializzato, cioè della durata fittiziamente raffigurata mediante la metafora dello spazio. La seconda è quella della durata considerata come essa viene immediatamente esperita nella coscienza, senza reinterpretarla secondo schemi temporali che non le sono propri: questa è la durata reale. 2. Per attingere la durata reale occorre semplicemente «lasciarsi vivere», cioè non proiettare sui dati della coscienza

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sieme è paragonabile a un essere vivente le cui parti, per quanto distinte, si compenetrano per l’effetto stesso della loro solidarietà?3 La prova di ciò è che quando andiamo fuori misura insistendo più del necessario su una nota della melodia, ciò che ci avverte del nostro errore non è la sua esagerata lunghezza in quanto tale, ma il cambiamento qualitativo che in questo modo abbiamo apportato all’insieme della frase musicale. È quindi possibile concepire la successione senza la distinzione come una compenetrazione reciproca, una solidarietà, una organizzazione intima di elementi, ciascuno dei quali, pur rappresentando il tutto, può essere distinto e isolato solo mediante un pensiero capace di astrazione. È certamente questo il modo in cui un essere contemporaneamente identico e mutevole, che non avesse alcuna idea dello spazio, si rappresenterebbe la durata. Ma, familiarizzati con l’idea dello spazio, addirittura ossessionati da essa, l’intro-

modelli interpretativi esterni (come quello spaziale). Per questo occorre evitare di isolare la singola sensazione da quelle che l’hanno preceduta, perché in questo modo si introduce nella successione dei dati della coscienza un rapporto di distinzione e di giustapposizione che è proprio dello spazio, ma non del tempo. Al contrario, bisogna lasciare che la singola sensazione sia compenetrata dalle precedenti e si fonda con esse, in modo da costituire un unico flusso privo di interruzioni o scansioni.

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3. Se si vuole individuare un modello

della durata reale tratto dall’ambito scientifico, esso non può più essere tratto dal campo della matematica (della quantità e dello spazio), ma – come indica il riferimento all’«essere vivente» – da quello della biologia (della qualità e della vita). Il modello biologico presuppone infatti il concetto di totalità organica, nella quale le singole parti sono inseparabili dall’intero.

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duciamo a nostra insaputa nella rappresentazione della pura successione; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da percepirli simultaneamente, non più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve, proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata attraverso l’estensione, e la successione assume per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi4. Segnaliamo inoltre che quest’ultima immagine implica la percezione, non più successiva, ma simultanea, del prima e del dopo, e che sarebbe contraddittorio ipotizzare una successione che al tempo stesso fosse una pura successione e che si mantenesse in un solo e medesimo istante. Ora, quando si parla di un ordine di successione nella durata e di una sua reversibilità, si tratta di quella successione pura che abbiamo definito sopra e che è priva di mescolanza con l’estensione, oppure di quella successione che si dispiega in spazio, in modo tale che se ne possano abbracciare contemporaneamente più termini separati e giustapposti? La risposta non è dubbia: per stabilire un ordine tra termini bisogna infatti dapprima distinguerli e poi confrontare i posti che occupano; li si percepisce allora come molteplici, simultanei e distinti; in una parola, li giustapponiamo, e l’ordine che stabiliamo deriva dal fatto che la successione diventa simultaneità e si proietta nello spazio5. In breve, quando spostando un dito lungo una superficie o una li4. La concezione tradizionale dello

spazio come addizione progressiva di istanti è, dunque, il risultato di una proiezione surrettizia e ingiustificata dello schema spaziale ed estensionale nella sfera della temporalità e dell’intenzionalità. 5. Nella concezione del tempo spazializzato i diversi istanti non vengono percepiti originariamente come successivi, ma come simultanei. Essi sono, infatti, grandezze distinte le une dalle altre, in modo tale da poter dire che l’istante t2 è diverso dall’istante t1 perché viene dopo di esso. Per la stessa ragione, essi sono considerati come omogenei, cioè qualitativamente non differenziati, per cui si può parlare di una loro reciproca reversibilità: l’istan-

nea avrò una serie di sensazioni di qualità diverse, delle due cose l’una: o mi raffigurerò queste sensazioni solo nella durata, ma allora esse si susseguiranno in modo tale che non potrò, in un momento dato, rappresentarmene più d’una come se fossero simultanee e tuttavia distinte; – oppure distinguerò un ordine di successione, ma ciò perché io possiedo non solo la facoltà di percepire una successione di termini, ma anche quella di disporli insieme dopo averli percepiti; insomma, ho già l’idea di spazio. L’idea di una serie reversibile nella durata, o anche semplicemente di un certo ordine di successione nel tempo, implica dunque di per sé la rappresentazione dello spazio, e non può essere utilizzata per definirlo. Per dare a questa argomentazione una forma più rigorosa, immaginiamo una linea retta infinita, e su questa linea un punto materiale A che si sposta. Se questo punto prendesse coscienza di se stesso, sentirebbe di star cambiando, in quanto si muove: percepirebbe una successione; ma questa successione avrebbe per esso la forma di una linea? Certamente, a condizione però che in qualche modo esso potesse sollevarsi al di sopra della linea che percorre e percepire simultaneamente più punti giustapposti di essa: ma con ciò stesso darebbe luogo all’idea di spazio, ed è nello spazio, non nella durata pura, che vedrebbe svolgersi i cambiamenti che subisce6. Tocchiamo qui con mano l’errore di coloro che considerano la durata

te t2 potrebbe essere collocato al posto dell’istante t1, poiché ciò che li distingue è soltanto il loro ordine di successione, cioè il fatto che t2 venga dopo t1. In altri temini, nella concezione spaziale del tempo gli istanti sono percepiti come simultanei, cioè nel loro isolamento e nella loro indifferenza rispetto agli altri. Soltanto in un secondo tempo essi vengono ordinati in una successione temporale attraverso un procedimento di giustapposizione spaziale, per cui su una ideale linea di sviluppo l’istante t2 è collocato accanto a t1, l’istante t3 accanto a t2, e così via. Nella durata reale, viceversa, ciascuno stato d’animo è inseparabile da quelli che lo precedono e viene definito qualitativamente proprio dal fatto che in esso

confluiscono tutti i precedenti dati della coscienza. In altri termini, nella durata reale, la percezione della successione è originaria: in nessun modo si potrebbe invertire l’ordine di successione, connotando, ad esempio, la sensazione attuale come precedente a quella provata dieci minuti fa. 6. Nella durata pura (o reale) non esiste una pluralità di istanti autonomi che si collocano in un determinato ordine di successione. Esistono invece soltanto singoli stati di coscienza che, al loro interno, ricomprendono tutti gli stati precedenti, sentiti però non come qualcosa di diverso dallo stato presente, ma come le componenti del suo contenuto. La sensazione che ho avuto un minuto fa non è un’unità temporale

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pura come una cosa analoga allo spazio, ma di natura più semplice. Essi tendono a giustapporre gli stati psicologici, a formarne una catena o una linea, e non immaginano affatto di far intervenire in questa operazione l’idea dello spazio propriamente detta, l’idea di spazio nella sua totalità, in quanto lo spazio è un mezzo a tre dimensioni. Ma non è forse evidente a tutti che per scorgere una linea sotto forma di linea bisogna porsi al di fuori di essa, rendersi conto del vuoto che la circonda, e pensare, di conseguenza, uno spazio a tre dimensioni? Se il nostro punto cosciente A non ha ancora l’idea di spazio – ed è proprio questa l’ipotesi in cui ci dobbiamo porre – la successione degli stati attraverso cui passa non potrà assumere per lui la forma di una linea; le sue sensazioni si aggiungeranno invece dinamicamente le une alle altre, organizzandosi tra loro come le note di una melodia dalla quale ci lasciamo cullare. In breve, la durata pura potrebbe essere una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si penetrano, senza contorni precisi, senza alcuna tendenza a esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri, senza alcuna parentela con il numero: sarebbe l’eterogeneità pura. Ma per il momento non insisteremo su questo punto: ci basta infatti aver dimostrato che, dall’istante in cui si attribuisce la più piccola omogeneità della durata, si introduce surrettizziamente lo spazio. [...] Che la nostra concezione abituale della durata derivi da una graduale invasione dello spazio nel campo della coscienza pura, lo prova moldistinta da quella che vivo ora, così come in un gregge di pecore la quattordicesima pecora è distinta dalla quindicesima. La concezione spaziale del tempo, invece, fa di ogni istante una unità distinta e omogenea che, come si è visto nella n. 5, riceve il suo significato temporale dall’essere inserita a un certo punto della successione spaziotemporale. 7. La concezione che solitamente abbiamo della durata, cioè del tempo, è di tipo spaziale. Essa è infatti il risultato, come abbiamo visto nelle note precedenti, della proiezione di uno schema spaziale sull’elemento del tempo: attraverso questo schema è possibile tra-

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to bene il fatto che per togliere all’io la facoltà di percepire un tempo omogeneo, basta staccare da lui quello strato più superficiale di fatti psichici che egli utilizza come regolatori7. Il sogno ci pone proprio questa condizione, poiché il sonno, allentando il gioco delle funzioni organiche, modifica soprattutto la superficie di comunicazione tra l’io e le cose esterne. Allora non misuriamo più la durata, la sentiamo; da quantità, ritorna allo stato di qualità; non c’è più valutazione matematica del tempo trascorso; essa ha lasciato il posto a un istinto confuso che, come tutti gli istinti può commettere degli errori grossolani ma talvolta anche procedere con una straordinaria sicurezza. Anche allo stato di veglia, l’esperienza quotidiana dovrebbe insegnarci a cogliere la differenza tra la durata-qualità, quella che la coscienza afferra immediatamente, e che probabilmente l’animale percepisce, e il tempo per così dire materializzato, il tempo divenuto quantità a causa di un dispiegamento nello spazio. Mentre scrivo queste righe, un orologio vicino batte le ore; ma il mio orecchio distratto se ne accorge solo quando si sono già fatti sentire parecchi colpi; dunque non li ho contati. Eppure, mi è sufficiente uno sforzo d’attenzione retrospettiva per fare la somma dei quattro colpi che sono già stati suonati, e aggiungerli a quelli che sento. Se allora, rientrando in me stesso, mi interrogo attentamente su ciò che è appena accaduto, mi accorgerò che i primi quattro suoni avevano colpito il mio orecchio e scosso la mia coscienza, ma che le sensazioni prodotte da

sformare l’elemento qualitativo che contrassegna la durata in quanto tale – come successione di stati d’animo diversi gli uni dagli altri nella loro singola specificità, ancorché fusi gli uni con gli altri – in un elemento quantitativo, cioè in segmenti di tempo omogeneo, privo di qualificazioni eccetto quella della misurabilità matematica. Ma questa operazione di spazializzazione non è una attività originaria della coscienza: al contrario, essa presuppone l’intervento di una riflessione simbolica – come si vedrà successivamente, di natura intellettuale – che va al di là della mera coscienza «immediata», poiché proietta su di essa gli schemi interpretativi –

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necessariamente spaziali e quantitativi – che servono a regolare il rapporto tra l’io e il mondo esterno. Per attingere la durata reale, aveva sostenuto Bergson all’inizio del testo (cfr. n. 2), bisogna «lasciarsi vivere», cioè occorre liberare la nostra coscienza da qualsiasi proiezione che non appartenga al suo sentimento immediato. Lo stesso risultato si ottiene nel sogno, dove, venendo meno il problema del rapporto con la realtà esterna, le determinazioni della coscienza non vengono più spazializzate e quantificate, ma percepite nel loro elemento qualitativo e vissute come un flusso irriducibile a misurazioni.

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ognuno di essi, invece di giustapporsi, si erano fuse le une nelle altre in modo da formare un insieme con una propria specificità, in modo da farne risultare una specie di frase musicale. Per valutare retrospettivamente il numero dei colpi, ho cercato di ricostruire questa frase con il pensiero; la mia immaginazione ha battuto un colpo, poi due, poi tre, e finché non è giunta proprio al numero quattro, la sensibilità, consultata, ha risposto che l’effetto totale differiva qualitativamente. Aveva quindi constatato a suo modo la successione dei quattro colpi battuti, ma non con un’addizione8, in modo del tutto diverso, e senza fare intervenire l’immagine di una giustapposizione di termini distinti. In breve, il numero dei colpi battuti è stato percepito come qualità, e non come quantità; è questo il modo in cui la durata si presenta alla coscienza immediata, ed essa conserva questa forma finché non cede il posto a una sovrapposizione simbolica, ricavata dall’estensione. – Quindi, per concludere, di-

8. Occorre distinguere tra addizione e

successione. La durata reale fornisce la semplice successione dei dati, in modo che ciascun dato che sopraggiunge si fonde e confonde con i precedenti, pur aggiungendo qualcosa di qualitativamente specifico. L’addizione è, invece, una successione per giustapposizione progressiva, ovvero una successione nella quale le singole unità che via via si aggiungono conservano la loro distinzione rispetto alle precedenti e si collocano spazialmente accanto a esse. 9. Si tratta della distinzione, operata da Bergson nelle pagine di questo capitolo che non sono qui antologizzate, tra la molteplicità numerica o quantitativa e la molteplicità qualitativa (caratteristica della durata reale). Nel primo caso, la molteplicità è data da una pluralità di elementi distinti e omogenei, che dà luogo appunto al numero. L’esempio addotto da Bergson stesso è quello del gregge di pecore: si tratta di una pluralità di individui quantitativamente distinti (ciascuna pecora è un’unità irriducibile alle altre) e qualitativamente omogenei (sono sommate soltanto pe-

stinguiamo due forme di molteplicità9, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente. Al di sotto della durata omogenea, simbolo estensivo della vera durata, una psicologia attenta riesce a districare una durata i cui momenti eterogenei si compenetrano; al di sotto della molteplicità numerica degli stati di coscienza, una molteplicità qualitativa; al di sotto di un io dagli stati ben definiti, un io in cui la successione implica fusione e organizzazione. Ma la maggior parte delle volte noi ci limitiamo al primo di essi, e cioè all’ombra dell’io proiettata nello spazio omogeneo. La coscienza, tormentata da un insaziabile desiderio di distinguere, sostituisce il simbolo alla realtà, oppure scorge quest’ultima solo attraverso il primo. E siccome l’io così rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare, esso lo preferisce, e perde di vista, a poco a poco, l’io fondamentale10.

core, senza prendere in considerazione le loro differenze individuali). In questo caso, la molteplicità è data dall’addizione di unità a unità, secondo uno schema giustappositivo di matrice spaziale, in modo da formare un determinato numero. Nel secondo caso, invece, la molteplicità è data dalla pluralità di elementi continui – le sensazioni che si succedono nella coscienza – i quali sono qualitativamente differenziati (ogni sensazione è diversa dalle altre), ma quantitativamente indeterminati, poiché gli elementi successivi si amalgamano immediatamente con quelli precedenti (le sensazioni successive si confondono con quelle precedenti in un’unica coscienza). Questo secondo tipo di molteplicità, dunque, non è numerica, e può assumere l’aspetto di numero soltanto se interviene la rappresentazione simbolica dello spazio. Nell’esempio qui addotto, la molteplicità numerica è quella che mi consente di dire, giustapponendo le singole unità secondo un modello di successione spaziale, che ho già sentito esattamente quattro colpi di orologio. La molte-

plicità della durata reale è invece quella che comporta la consapevolezza di aver sentito più colpi che rimangono tuttavia indistinti e come fusi in un’unica esperienza. 10. Alle distinzioni tra molteplicità numerica e molteplicità qualitativa, e tra tempo spazializzato e durata reale, corrisponde anche la distinzione tra l’io rifratto e l’io fondamentale. Il primo è quello che procede sempre quantificando il proprio oggetto e applicando a esso la rappresentazione dello spazio. Il secondo è invece quello che, precedentemente a ogni riferimento allo spazio, esprime i dati immediati della coscienza e coglie la durata reale. Il primo è indispensabile per regolare il rapporto tra io e mondo esterno e per agire sulla realtà; il secondo è necessario per cogliere l’io nella sua essenza. Ma, in realtà, abituato a servirsi sempre dell’io rifratto, l’uomo ne proietta i metodi anche sulla vita interiore, spazializzando e quantificando anche ciò che di per sé ha esclusivamente carattere qualitativo.

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Dividi il testo in paragrafi e assegna un titolo a ognuno di essi. 2. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono il concetto di «durata» elaborato da Bergson. 3. Quale funzione riveste, nell’esposizione del concetto di «durata», la metafora della melodia e dell’essere vivente? 4. Che cosa serve a spiegare l’esempio della linea infinita e dello spostamento su di essa del punto A? 5. Elenca gli errori della concezione spazializzante del tempo. 6. In cosa consiste la «concezione abituale della durata» di cui parla Bergson? 7. Alla fine di questa lettura Bergson conclude: «Quindi distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata». In che senso la durata vera si fonda sull’«io fondamentale»?

t18 Bergson / L’evoluzione creatrice Bergson

L’evoluzione creatrice

cap. I

L’evoluzione creatrice è l’opera più famosa di Bergson e, probabilmente, quella che più contribuì ad assicurargli il premio Nobel per la letteratura. Dal punto di vista concettuale essa, da un lato, mostra una profonda continuità con le opere precedenti – riprendendo e sviluppando i temi della durata reale, dell’opposizione tra intuizione e intelligenza, della limitazione del valore conoscitivo attribuito alla scienza dalla tradizione positivistica. D’altro lato, la novità dell’opera consiste nell’estendere il principio della durata dalla sfera della coscienza all’ambito dell’esistenza in generale, attenuando la contrapposizione dualistica tra materia e spirito fortemente presente nelle opere precedenti.

Ritorniamo, così, dopo un lungo giro, all’idea dalla quale eravamo partiti: quella di uno «slancio originario» della vita, che passa da una generazione di germi alla generazione seguente, mediante organismi sviluppati che servono a collegare i germi stessi. Questo slancio, conservandosi sulle linee di evoluzione tra le quali si divide, è la causa profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente, che si addizionano, che creano specie nuove. In generale, quando le specie hanno cominciato a divergere, a partire da 1. L’evoluzione, intesa come un unico slancio vitale che si espande a raggiera in più direzioni, consente di giustificare, insieme, la diversificazione delle specie e il carattere unitario del pro-

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una fonte comune, esse accentuano la loro divergenza col progredire della loro evoluzione. Tuttavia, su determinati punti, esse potranno e dovranno, anzi, evolvere identicamente, se si accetta l’ipotesi di uno slancio comune. È ciò che ci resta a dimostrare, in maniera più precisa, in base all’esempio stesso che abbiamo scelto: la formazione dell’occhio nei Molluschi e nei Vertebrati. In tal modo, l’idea di uno «slancio originario» potrà, d’altra parte, diventare più chiara1. Due punti sono ugualmente notevoli in un or-

cesso evolutivo, per cui sono riscontrabili analogie morfologiche in specie anche lontane tra loro. Naturalmente, questi due caratteri erano presenti – e pienamente giustificati – anche nella

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concezione classica, di matrice darwiniana, dell’evoluzione, sebbene la loro spiegazione fosse più complessa.

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gano quale è l’occhio: la complessità della struttura e la semplicità della funzione. L’occhio si compone di parti distinte quali la sclerotica, la cornea, la retina, il cristallino, ecc. L’analisi di ciascuna di queste parti andrebbe all’infinito. Per non parlare che della retina, si sa che essa comprende tre strati sovrapposti di elementi nervosi – cellule multipolari, cellule bipolari, cellule visive – ciascuno dei quali ha la sua individualità e costituisce, certamente, un organismo molto complesso: e questo non è che uno schema semplificato della delicata struttura di questa membrana. La macchina occhio è, dunque, composta di un’infinità di macchine, tutte di una complessità estrema. Tuttavia, la visione è un fatto semplice. Non appena l’occhio si apre, si ha la visione. E proprio perché il funzionamento è semplice, la più leggera distrazione della natura nella costruzione di questa macchina infinitamente complicata avrebbe resa impossibile la visione. Ciò che sconcerta è proprio il contrasto tra la complessità dell’organo e l’unità della funzione2. Una teoria meccanicistica ci farà assistere alla costruzione graduale della macchina sotto l’influenza delle circostanze esteriori, che o intervengono direttamente mediante un’azione sui tessuti, o, indirettamente, mediante la selezione dei tessuti più adatti. Ma, qualunque forma

2. Questo punto è per Bergson di capitale importanza per mostrare la superiorità della propria concezione evolutiva sulle tradizionali posizioni del meccanicismo e del finalismo. Ciò che – sempre secondo l’interpretazione bergsoniana – arrovella i sostenitori tanto del primo quanto del secondo è il divario tra la complessità costitutiva dell’organo e la semplicità della funzione da esso svolta. Nella prospettiva di Bergson questa diversità è facilmente spiegabile facendo ricorso alle due forme fondamentali di conoscenza: l’intelligenza e l’intuizione. L’intelligenza, che procede per analisi, scomponendo la realtà in pezzi la cui ricomposizione appare poi estremamente complessa, vede nell’organo, nella fattispecie nell’occhio, una macchina o uno strumento estremamente articolato nella sua

prenda questa tesi, anche a supporre che valga a spiegare, in una certa misura, la struttura delle singole parti dell’occhio, essa non riesce, tuttavia, a gettare alcuna luce sulla loro correlazione. Sopravviene, allora, la dottrina della finalità. Essa dice che le parti sono state unite insieme secondo un piano prestabilito, in vista di un fine. In tal modo, assimila il lavoro della natura a quello dell’operaio che procede, anch’esso, mediante la riunione di parti in vista della realizzazione di un’idea o dell’imitazione di un modello. Il meccanicismo rimprovererà, dunque, a ragione, al finalismo il suo carattere antropomorfico. Ma non si accorge ch’esso stesso procede secondo questo metodo, salvo a troncarlo a mezzo. Senza dubbio, esso ha fatto «tabula rasa» del fine da perseguire o del modello ideale, ma anch’esso ritiene che la natura abbia lavorato, come l’operaio umano, unendo insieme parti distinte. Un semplice sguardo sullo sviluppo di un embrione gli avrebbe mostrato, tuttavia, che la vita procede in modo affatto diverso. Essa non procede per associazione e addizione di elementi, ma per dissociazione e sdoppiamento3. Bisogna, dunque, sorpassare entrambi i punti di vista, quello del meccanicismo e quello del finalismo, i quali si basano, in fondo, su concetti cui l’intelletto è stato condotto dallo spet-

struttura. Per l’intuizione, invece, esso non è che l’espressione unitaria di una forza vitale altrettanto unitaria nella sua radice, ancorché poi differenziatasi in una miriade di diramazioni. Ecco perché il vedere è una funzione semplice, così come io, all’interno della mia esperienza personale, sento la semplicità dell’atto con cui alzo la mano, per quanto esso appaia assai complesso a un’analisi intellettuale esterna che lo scomponga nelle singole frazioni di movimento e nelle singole componenti dinamiche. 3. L’errore comune al meccanicismo e al finalismo sarebbe, dunque, quello di ritenere che gli organismi naturali siano il risultato di una composizione di parti (e, in ultimo, di elementi indivisibili), cioè che si proceda dai molti all’uno. Non importa, poi, se quest’opera

di composizione viene intesa come guidata da un’intelligenza superiore (come fa il finalismo, peccando di antropomorfismo, ma riuscendo a dare ragione delle connessioni tra le parti), oppure come l’esito di una cieca azione meccanico-causale (che evita l’antropomorfismo, ma non spiega l’organicità delle relazioni delle parti in un tutto). In realtà – sostiene Bergson – l’evoluzione non va dai molti all’uno, ma dall’uno ai molti. Essa parte, cioè, da un unico slancio vitale, che poi si differenzia progressivamente nelle singole specie e nei singoli individui. L’unitarietà e la semplicità della funzione dell’occhio è quindi data dal fatto che l’occhio stesso non è una realtà composita, ma la manifestazione unitaria di una ramificazione dell’unica forza vitale che sorregge l’evoluzione.

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tacolo del lavoro dell’uomo. Ma in qual senso sorpassarli? Dicevamo che, quando si analizza la struttura di un organo, si può andare, di decomposizione in decomposizione, all’infinito, sebbene il funzionamento del tutto sia un atto semplice. Questo contrasto tra la complicazione all’infinito dell’organo e la estrema semplicità della funzione è precisamente ciò che dovrebbe aprirci gli occhi. [...] Se io alzo la mano da A in B, questo movimento mi appare, al tempo stesso, sotto due aspetti: sentito dall’interno, è un atto semplice, indivisibile; percepito dall’esterno, è il percorso di una determinata curva. In questa linea potrò distinguere quante porzioni vorrò, e la linea stessa potrà essere definita come una determinata coordinazione di quelle posizioni tra loro. Ma le infinite posizioni e l’ordine che le collega le une alle altre sono scaturiti automaticamente dall’atto indivisibile per il quale la mia mano è andata da A in B. Il meccanicismo consisterebbe qui nel non tener conto che delle posizioni; il finalismo nel non tener conto che del loro ordine: ma l’uno e l’altro si lascerebbero sfuggire il fatto del movimento, che è la realtà stessa. In un certo senso, il movimento è qualcosa di «più» delle posizioni e del loro ordine, poiché basta porlo, nella sua semplicità indivisibile, per avere, al tempo stesso, e le infinite posizioni successive e il loro ordine, con in più qualcosa che non è né ordine, né posizione, ma che è l’essenziale: la mobilità4. In un altro senso, il movimento è qualcosa di «meno» della serie delle posizioni e dell’ordine che le collega: poiché, per disporre dei punti in un certo ordine, bisogna dapprima rappresentarsi tale ordine e, di poi, realizzarlo con quei punti: occorre un lavoro di riunione, e occorre dell’intelligenza. Invece, il movimento semplice della mano non implica nulla di tutto ciò: non è intelligente, nel senso umano della parola, e non è una riunione di elementi, poiché non è

4. È ovvio tuttavia che il movimento, inteso qui non come processo spazializzato, ma come divenire unitario, come durata, non può essere conosciuto attraverso l’analisi intellettuale, ma de-

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costituito di elementi5. Lo stesso si dica per il rapporto tra l’occhio e la visione. Vi è nella visione qualche cosa di «più» delle cellule che compongono l’occhio e della loro coordinazione reciproca: in questo senso, né il meccanicismo, né il finalismo si spingono così lungi come sarebbe necessario. Ma, in altro senso, meccanicismo e finalismo vanno troppo lungi, l’uno e l’altro, poiché attribuiscono alla natura la più formidabile delle fatiche di Ercole, supponendo che essa abbia sollevato sino all’atto semplice della visione una infinità di elementi infinitamente complicati; mentre, invece, la natura non ha sostenuto, per formare un occhio, fatica maggior di quanto ne abbia sostenuta io per alzare la mano. Il suo atto semplice si è diviso automaticamente in una infinità di elementi che noi scorgiamo coordinati secondo una medesima idea, allo stesso modo che il movimento della mia mano lascia cadere fuori di sé una infinità di punti che corrispondono ad una stessa equazione.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Dividi il testo in paragrafi e assegna un titolo a ognuno di essi. 2. Che cosa cerca di mostrare Bergson con l’esempio della formazione dell’occhio nei molluschi e nei vertebrati? 3. Esponi, in un testo non più lungo di 15 righe, la differenza tra la teoria dell’evoluzione di Bergson e quella di Darwin. 4. Bergson accomuna nella stessa critica le teorie finalistiche e quelle meccanicistiche. Evidenzia i passi in cui viene svolta tale critica. 5. Che cosa cerca di mostrare Bergson attraverso l’esempio del movimento della mano?

v’essere colto attraverso l’intuizione. L’intelligenza non basta: occorre quel di «più» che è offerto dall’intuizione. 5. Il movimento come durata è nello stesso tempo qualcosa di «meno» ri-

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

spetto al movimento spazializzato dell’intelligenza, appunto perché fa a meno delle schematizzazioni concettuali e linguistiche di cui l’intelligenza si serve nelle sue descrizioni analitiche.

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t19 Dilthey / L’intuizione del mondo Dilthey

I tipi di intuizione del mondo e la loro elaborazione nei sistemi metafisici

I, 3-4

La dottrina delle intuizioni del mondo, esposta in alcuni saggi degli ultimi anni della vita di Dilthey, assume come suo punto di partenza la vita, cioè la matrice più profonda a cui si possano ricondurre i prodotti dello spirito umano. Di fronte alla vita, riflettendo su di essa, l’uomo si forma quella che Dilthey chiama «esperienza della vita», di volta in volta differente nei singoli individui. Con il passare delle generazioni questa esperienza di vita si universalizza e agisce sugli uomini anche quando non ne sono consapevoli. «Tutto quanto ci domina sotto forma di costume, di consuetudine, di tradizione è fondato su tali esperienze di vita». Nella molteplicità delle visioni del mondo è possibile riscontrare affinità, che consentono di costruire una tipologia; ma questa, avverte Dilthey, può essere soltanto provvisoria, «nient’altro che uno strumento per vedere in modo storicamente più profondo».

Dalle mutevoli esperienze della vita emerge, di fronte all’apprendimento orientato verso la totalità, il volto della vita: volto contraddittorio, vitalità e al tempo stesso legge, ragione e arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e quindi chiaro forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme. L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della vita e le esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al centro di tutte le cose incomprensibili stanno la procreazione, la nascita, lo sviluppo e la morte. Il vivente sa della morte, e non è tuttavia in grado di intenderla1. Già dal primo sguardo a un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò poggia anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a qualcosa di altro, di estraneo e di terribile. Nel fatto della morte vi è quindi una forza che costringe a rappresentazioni fantastiche che hanno il compito di rendere intelligibile questo fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei trapassati generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa e della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella misura in cui l’uomo sperimenta nella società e nella natura una lotta permanente, l’annientamento continuo di una creatura da parte di 1. Il mistero della vita si presenta di fronte a ciascuno in modo contraddittorio e mutevole: pur nella chiarezza di ogni singolo dettaglio, l’insieme risulta oscuro ed enigmatico. Neppure lo scorrere delle generazioni consente di avvicinarsi alla comprensione del tutto. In

un’altra, la spietatezza di ciò che opera nella natura. Emergono strane contraddizioni che nell’esperienza della vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono mai risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi presente verso qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e l’autonomia del nostro volere, tra la limitatezza di ogni cosa nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di oltrepassare ogni limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e babilonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di Hegel, il Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe. Ogni grande impressione mostra all’uomo la vita in un aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal momento che queste esperienze si ripetono e si connettono, sorgono le nostre disposizioni interiori nei confronti della vita2. Da una relazione vitale la vita intera riceve una colorazione e un’interpretazione nelle anime affettive o pensierose – così sorgono le disposizioni universali. Esse cambiano man mano che la vita mostra all’uomo aspetti sempre nuovi; ma nei diversi individui predominano, secondo la loro essenza, determinate disposizioni di vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete, sensibili, e vivono nel godimento

particolare, la morte risulta incomprensibile alla vita; l’uomo si rende conto di trovarsi di fronte a una realtà imperscrutabile. Così, dalle diverse esperienze di vita nascono in ciascun uomo le disposizioni interiori nei confronti di essa.

2. È attraverso un meccanismo psico-

logico che si formano le disposizioni interiori nei confronti della vita, dove si conservano le grandi impressioni e quelle che si ripetono.

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immediato; altri perseguono, attraverso il caso e il destino, grandi scopi che danno durata alla loro esistenza; vi sono nature gravi che non sopportano la transitorietà di ciò che amano e posseggono, e alle quali la vita appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità e da sogni, oppure che cercano qualcosa di permanente al di là di questa terra. Le più universali tra le grandi disposizioni di vita sono l’ottimismo e il pessimismo. Essi si differenziano però in svariate sfumature. A chi lo contempla in qualità di spettatore, il mondo – estraneo – appare come uno spettacolo variopinto e fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita secondo un progetto, lo stesso mondo appare invece familiare, di casa: egli sta nel mondo a pie’ fermo e appartiene ad esso. Queste disposizioni di vita, le innumerevoli sfumature della posizione di fronte al mondo, costituiscono il terreno per la formazione delle intuizioni del mondo3. In queste si compiono, sulla base delle esperienze di vita in cui sono operanti le molteplici relazioni vitali degli individui nei confronti del mondo, i tentativi per risolvere il mistero della vita. E proprio nelle loro forme superiori si fa valere in modo particolare un procedimento: la comprensione di un dato incomprensibile mediante uno più chiaro. Ciò che è chiaro diventa mezzo di comprensione o fondamento di spiegazione di ciò che è incomprensibile. La scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali dalle situazioni omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica originaria esprimono il significato e il senso della totalità. Quella conosce, queste

3. Sulla base delle disposizioni di vita,

nelle varie forme che esse assumono, nascono le diverse visioni del mondo, che costituiscono la base dei diversi tentativi di risolvere l’enigma rappresentato dalla vita. Accade così che ciò che è più noto e che appare maggiormente chiaro venga assunto a criterio

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intendono. Una tale interpretazione del mondo, che rende trasparente la sua essenza molteplice attraverso un’essenza più semplice, comincia già col linguaggio, per svilupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di un’intuizione mediante un’altra affine che la rende in qualche senso più chiara, nella personificazione che avvicina e rende comprensibile umanizzando, oppure attraverso ragionamenti analogici, che determinano il meno noto a partire dal più noto sulla base dell’affinità e così si accostano ormai al pensiero scientifico4. Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica originaria cercano di rendere qualcosa intelligibile e capace di suscitare impressione, ciò avviene mediante il medesimo procedimento.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Delinea il rapporto che Dilthey istituisce fra vita e visione del mondo utilizzando le opportune citazioni. 2. Che cosa sono, secondo Dilthey, le «disposizioni interiori nei confronti della vita»? E quali sono le più universali tra esse? 3. Qual è il sapere che «conosce» e quali, invece, i saperi che «intendono»? 4. Come si costituiscono le intuizioni del mondo (Weltanschauungen)? Evidenzia sul testo la risposta.

di spiegazione di ciò che è incomprensibile. È ciò che accade nel linguaggio, nel mito, nella religione, nell’arte e da ultimo nella metafisica, dove si tratta sempre di determinare ciò che è meno noto attraverso ciò che è più noto. 4. L’intuizione del mondo, di cui Dilthey ha appena cercato di mostrare la

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

genesi, rappresenta il fondamento comune dell’arte, della religione e della filosofia. L’analisi condotta nel seguito dell’opera metterà in luce le differenze tra queste tre forme di intuizione del mondo, ma anche il loro comune carattere storico.

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t20 Weber / Protestantesimo e capitalismo Weber

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

passim

Ciò che distingue il capitalismo moderno dalle forme economiche che lo hanno preceduto è per Weber «l’organizzazione razionale-capitalistica del lavoro (formalmente) libero». Mettendo l’accento sull’aggettivo razionale, egli sposta l’analisi dal piano strutturale a quello della formazione degli atteggiamenti. La razionalità è un imperativo rigoroso che investe tutti gli aspetti dell’esistenza, le cui origini devono essere rintracciate in un nuovo modo di atteggiarsi di fronte al mondo: per Weber, queste origini sono, almeno all’inizio, di carattere essenzialmente religioso. Soltanto sotto l’influenza di una fede religiosa che insegni l’assoluta trascendenza di Dio, il mondo può essere spogliato di ogni residuo significato magico, disincantato. Il problema della genesi del capitalismo diventa così il problema della genesi dei suoi attori, cioè degli imprenditori. Ampiamente discussa da molti punti di vista, questa impostazione è tuttavia un imprenscindibile punto di partenza di molti tentativi moderni di spiegare il processo di modernizzazione. Essa è richiamata in molti luoghi dell’opera di Weber e trova la sua espressione classica nel saggio su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.

Si può controllare il proprio stato di grazia specialmente confrontando il proprio stato dell’animo con quello che, secondo la Bibbia, fu proprio degli Eletti, per esempio dei patriarchi. Solo un eletto ha realmente la fides efficax, egli solo è capace, in seguito alla rinascita (regeneratio) ed alla santificazione (sanctificatio) che ne consegue, di aumentare, durante tutta la vita, la gloria di Dio con opere buone, in realtà e non nella sola apparenza. Ed in quanto egli è cosciente del fatto che la sua condotta, per lo meno nel suo carattere fondamentale e nel costante proposito (propositum oboedientiae), riposa su di una forza in lui vivente per la maggior gloria di Dio, che dunque non soltanto è voluta, ma soprattutto è operata da Dio, egli rag-

1. Nelle analisi delle dottrine teologi-

che del protestantesimo, Weber non si riferisce direttamente agli scritti dei riformatori: non sono infatti tanto le dottrine teologiche a interessarlo, quanto la loro applicazione nella pratica. Pertanto, egli prende in esame soprattutto gli sviluppi sei-settecenteschi, in particolare attraverso scritti che riflettevano la concreta esperienza pastorale dei ministri religiosi, sia presbiteriani inglesi e scozzesi, sia metodisti e quaccheri delle colonie americane. Il capoverso che qui precede, e che riassume la dottrina calvinistica della grazia, pa-

giunge il sommo bene cui tende questa religiosità: la certezza della grazia1. [...] Non si dice ancora, come Franklin2: «Il tempo è denaro» ma questa sentenza vale, per così dire, in senso spirituale: esso è infinitamente prezioso, perché ogni ora perduta è tolta al lavoro a servizio della gloria di Dio. Senza valore, talvolta addirittura riprovevole, è anche la contemplazione inattiva, per lo meno se essa avviene a spese del lavoro professionale. Poiché essa è meno accetta a Dio dell’adempimento attivo della sua volontà nella professione. Oltre a ciò vi è per essa la domenica, e secondo il Baxter quelli stessi, che sono pigri nella loro professione non hanno tempo per Dio, quando ne è l’ora3. [...]

rafrasa una pagina della Westminster Declaration del 1657. Colui che si crede eletto, cioè strumento della Provvidenza, non può credere che la sua opera (o meglio l’opera che Dio compie per suo mezzo) non possa essere produttiva e buona. 2. Benjamin Franklin (1706-1790), uomo d’affari, scienziato, filosofo e uomo politico americano. Autodidatta intraprendente e geniale, fu un po’ l’ambasciatore del mondo americano tra gli illuministi europei. Qui Weber si riferisce al Consiglio ad un giovane commerciante, che Franklin aveva pubblicato

per diffondere l’esortazione al lavoro, alla probità e al risparmio. 3. Richard Baxter (1615-1691) fu uno dei più importanti pastori puritani inglesi, noto per la sua predicazione e i suoi scritti. Weber cita con molta frequenza i suoi sermoni. Ci sono molte ragioni che giustificano una indefessa attività: in primo luogo, essa è l’unico modo per onorare Dio, e, inoltre, è anche l’unico modo di disperdere i dubbi sulla propria salvezza. L’ozio è quindi visto come il nemico più pericoloso; il tempo deve essere speso al servizio della gloria di Dio.

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La parabola di quel servo, che fu scacciato perché non aveva messa a frutto la libbra a lui affidata, sembrava esprimere chiaramente questo comando. Volere esser povero significava, come spesso si portava per argomento, lo stesso che volere esser malato, e sarebbe stato riprovevole come santificazione delle opere e dannoso alla gloria di Dio. Ed infine il chieder l’elemosina da parte di uno che fosse stato capace di lavorare, era cosa non solo colpevole come pigrizia, ma anche, conformemente alla parola dell’apostolo, contraria all’amor del prossimo. Come il rafforzamento del significato ascetico della professione stabile mette, moralmente, in miglior luce il moderno ceto dei professionisti specializzati, così l’interpretazione in senso provvidenziale delle possibilità di guadagno conferisce un alone morale all’uomo d’affari moderno. L’aristocratica indifferenza del gran signore e la ostentazione da parvenu del ricco borioso sono ugualmente odiose all’ascesi. Un raggio di approvazione morale investe in pieno l’austero self-made man borghese: God blesseth his trade è una espressione costantemente usata per quegli Eletti, che avevano seguito con successo quelle disposizioni divine, e tutta la forza del Dio del Vecchio Testamento, che ricompensa appunto in questa vita i Suoi della loro pietà, doveva agire nel medesimo senso anche per il Puritano, che secondo il consiglio di Baxter, controllava il proprio stato di grazia colla statura spirituale degli eroi biblici, ed interpretava le sentenze della Bibbia «come gli articoli di un codice»4. [...] Ciò che l’epoca, religiosamente così viva del XVII secolo, lasciò alla sua utilitaria erede, fu 4. Il profitto e la ricchezza, riprovevoli quando conducono alla pigrizia e alla dissipazione, devono essere encomiati se sono il risultato del compimento del proprio dovere. Nella misura in cui essa implica uno sforzo incessante, la ricerca del guadagno è dunque un dovere dell’uomo d’affari. Il risultato dell’etica puritana è stato anche quello di produrre la formazione di capitale necessaria ai futuri sviluppi: «Se colleghiamo – dice Weber – le limitazioni sul consu-

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soprattutto una straordinaria buona coscienza – diciamo pure una buona coscienza farisaica – riguardo al guadagno di denaro, purché compiuto secondo le vie legali. [...] Era sorto un ethos professionale specificamente borghese. Colla coscienza di essere nella piena grazia del Signore e di essere da lui visibilmente benedetto, l’imprenditore borghese, se si manteneva nei limiti di una correttezza formale, se la sua condotta morale era irreprensibile, e l’uso che faceva della sua ricchezza non era urtante, poteva accudire ai suoi interessi, lo doveva anzi fare5. [...] Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via, secondo la concezione di Baxter, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli «eletti». Ma il destino fece del mantello una gabbia di acciaio. Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia. Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre, da questa gabbia. Il capitalismo vittorioso in ogni caso, da che posa su di un fondamento meccanico, non ha più bisogno del suo aiuto. Sembra impallidire per sempre anche il roseo stato d’animo del suo sorridente erede: l’Illuminismo, e come un fantasma di concetti religiosi che furono, si aggira nella nostra vita il pensiero del dovere professionale. Ove l’adempimento di questo non possa esser posto direttamente in relazione coi più alti beni spirituali della civiltà, o dove inversamente non debba esser sentito anche soggettivamente come semplice costrizione economica, per lo più l’individuo

mo con la soppressione dei vincoli posti all’attività acquisitiva, il risultato pratico è ovvio: la formazione di capitale, a causa di una costrizione ascetica al risparmio». L’espressione God blesseth his trade significa Dio benedice i suoi commerci. 5. Il passaggio dal XVII al XVIII secolo segna il passaggio dell’entusiasmo religioso alla buona coscienza utilitaristica. È sorta e cresciuta un’etica specificamente economica. L’uomo d’affari

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

borghese può, anzi deve, accudire ai suoi interessi. Ma non è questa la sola eredità dell’etica del protestantesimo ascetico al capitalismo moderno; accanto a essa c’è «la confortante assicurazione» che i beni del mondo siano distribuiti in modo ineguale per opera della Provvidenza e per i suoi segreti fini, e c’è il riconoscimento e l’accettazione, sulla base del concetto di vocazione, dei ruoli diversi e complementari dell’imprenditore e dell’operaio.

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rinuncia ad ogni spiegazione di esso6. Nel paese, dove più fortemente si è sviluppato, negli Stati Uniti, l’attività economica, spogliata del suo senso etico-religioso, tende ad associarsi a passioni puramente agonali, che non di rado le imprimono precisamente il carattere di uno sport.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Riassumi attraverso un sistema di note a margine il contenuto del testo. 2. L’analisi del protestantesimo che Weber propone non è teologica, ma sociologica e conclude con il seguente giudizio: «non si dice ancora, come Franklin: “il tempo è denaro” ma questa sentenza vale, per così dire, in senso spirituale». Su quali elementi poggia il giudizio di Weber? 3. Costruisci sul tuo quaderno una tabella in cui indicare gli elementi propri dell’etica protestante e quelli propri del capitalismo.

6. Alla fine della sua ricerca, Weber

sottolinea la totale perdita di senso etico-religioso dell’attività economica nel mondo del suo tempo. Ormai il capitalismo vittorioso posa su un fondamento meccanico. La stessa cosa ribadirà significativamente nell’ultimo suo corso di lezioni (1919-20), che poi è di-

ventato la Storia economica: «la radice religiosa dell’uomo economico moderno si è disseccata». Al suo posto subentra un utilitarismo senza fede che guida il comportamento economico. Il mantello leggero è diventato la gabbia d’acciaio: il puritano volle essere un professionista, noi dobbiamo esserlo. È

assente ogni prognosi sul futuro del capitalismo, ma il quadro che si disegna nelle ultime pagine di Weber è quello di una crescente burocratizzazione, al pari di tutti gli aspetti della vita moderna. Sarà questo uno dei temi fondamentali della sua sociologia.

t21 Weber / L’agire sociale Weber

Economia e società

parte I, cap. I, § 2

I concetti di razionalità, razionalismo, razionalizzazione ricorrono con grande frequenza nell’intera opera di Weber. Non ci si deve meravigliare, quindi, se l’opera conclusiva (ancorché non conclusa) dell’attività dei suoi ultimi anni di vita, Economia e società, si apre con una tipologia dei modi di agire razionale. Dei modi di agire, perché la razionalità non è un attributo dell’essere umano né una legge del processo storico: questi, di per sé, non sono né razionali né irrazionali. La razionalità è, invece, un carattere che può essere attribuito all’agire sociale dei singoli, a seconda che sia orientato in base alla considerazione dei mezzi necessari per la realizzazione di un determinato scopo, oppure in base al perseguimento di un valore al quale viene attribuita validità incondizionata.

Come ogni agire, anche l’agire sociale può essere determinato1: 1) in modo razionale rispetto allo scopo – da aspettative dell’atteggiamento di oggetti del 1. Non ogni agire è un agire sociale.

«L’agire sociale (comprendendo il tralasciare e il subire) può essere orientato in vista dell’atteggiamento passato, presente o previsto come futuro, di altri individui», siano questi individui sin-

mondo esterno e di altri uomini, impiegando tali aspettative come «condizioni» o come «mezzi» per scopi voluti e considerati razionalmente in qualità di conseguenza;

goli e noti o una molteplicità indeterminata di persone. Un esempio di Weber: lo scontro tra due ciclisti è un semplice avvenimento analogo agli eventi naturali; sarebbe agire sociale, invece, il loro tentativo di evitarsi, il

passare a vie di fatto o discutere pacificamente di diritti di precedenza. I quattro tipi (ovviamente si tratta di tipi ideali) di determinazione dell’agire sociale che seguono sono disposti in ordine di intelligibilità decrescente.

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2) in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalla sua conseguenza; 3) affettivamente – da affetti e da stati attuali del sentire; 4) tradizionalmente – da un’abitudine acquisita. 1. L’atteggiamento rigorosamente tradizionale – al pari della pura imitazione passiva [...] – sta precisamente al limite, e spesso al di là di ciò che si può definire, in generale, un agire orientato «in base al senso». Infatti esso è assai sovente una specie di oscura reazione a stimoli abitudinari, che si svolge nel senso di una disposizione una volta acquisita. La massa di tutto l’agire quotidiano acquisito si avvicina a questo tipo – il quale non soltanto si inserisce come caso-limite nella sistematica delle forme di atteggiamento, ma anche, dato che il legame con il patrimonio dell’abitudine può essere consapevolmente mantenuto in un grado e in un senso diverso (come si vedrà in seguito), viene ad accostarsi al tipo dell’agire affettivo2. 2. Il comportamento rigorosamente affettivo sta esso pure al limite, e sovente al di là dell’agire consapevolmente orientato «in base al senso»; e può essere una specie di reazione, priva di ostacoli, ad uno stimolo che va oltre la vita quotidiana. Esso costituisce una sublimazione quando l’agire condizionato affettivamente si presenta come liberazione cosciente di una situazione del sentimento: esso si trova allora, nella maggior parte dei casi (anche se non sempre), sulla via della «razionalizzazione in vista di un valore» o dell’agire in vista di uno scopo, oppure di entrambi3. 3. L’orientamento affettivo dell’agire e l’orientamento razionale rispetto al valore si distin-

2. L’agire rigorosamente tradizionale, cioè fondato su un’abitudine acquisita, rappresenta un caso-limite, in quanto soltanto al limite può essere considerato fornito di senso.

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guono per la consapevole elaborazione dei punti di riferimento ultimi dell’agire e per l’ordinamento progettato in maniera conseguente, che si riscontrano nel secondo. Per il resto essi hanno in comune il fatto che il senso dell’agire è riposto non in un risultato che stia al di là di questo, ma nell’agire in quanto tale, configurato in un certo modo. Agisce affettivamente chi soddisfa il suo bisogno, attualmente sentito, di vendetta o di gioia o di dedizione o di beatitudine contemplativa o di manifestazione di affetti (sia di carattere inferiore sia di carattere sublime). Agisce in maniera puramente razionale rispetto al valore colui che – senza riguardo per le conseguenze prevedibili – opera al servizio della propria convinzione relativa a ciò che ritiene essergli comandato dal dovere, dalla dignità, dalla bellezza, dal precetto religioso, dalla pietà o dall’importanza di una «causa» di qualsiasi specie. L’agire razionale rispetto al valore (nel significato che assume nella nostra terminologia) è sempre un agire secondo «imperativi» o in conformità a «esigenze» che l’agente crede gli siano poste4. Noi intendiamo parlare di razionalità rispetto al valore solamente in quanto l’agire umano si orienta in base a tali esigenze – ciò che avviene in misura assai diversa, ma il più delle volte alquanto modesta. Come sarà posto in luce, esso riveste un significato abbastanza rilevante perché lo si debba considerare un tipo particolare – sebbene non ci si proponga qui, del resto, di fornire una classificazione esauriente dei tipi dell’agire. 4. Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo colui che orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze, ed infine anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco: in ogni caso egli non agisce quindi, né affettivamente (e in

3. Anche l’agire affettivo che, come quello tradizionale, è una forma di atteggiamento non razionale, si può considerare un caso-limite nello stesso senso.

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4. Nell’agire razionale rispetto al valore l’agire si conforma a imperativi o a «esigenze» ai quali viene attribuito un valore assoluto, prescindendo dalla considerazione delle conseguenze.

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modo particolare non emotivamente) né tradizionalmente5. La decisione tra gli scopi in concorrenza e in collisione, e tra le relative conseguenze, può da parte sua essere orientata razionalmente rispetto al valore: allora l’agire risulta razionale rispetto allo scopo soltanto nei suoi mezzi. Oppure l’individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati semplicemente come dati indirizzi soggettivi di bisogni, in una scala stabilita in base alla loro urgenza da lui consapevolmente misurata, e di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione (principio dell’«utilità marginale»)6. L’orientamento dell’agire razionale rispetto al valore può quindi essere in relazioni assai differenti con l’atteggiamento razionale rispetto allo scopo. Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò perché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore in sé (la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta

5. L’agire razionale rispetto allo scopo è il tipo più propriamente razionale, dal momento che l’agire razionale rispetto al valore, dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo «è sempre irrazionale». Esso implica sempre la considerazione degli scopi e dei mezzi per raggiungerli e la loro influenza reciproca. 6. Weber utilizza qui la nozione economica di «utilità marginale» per spiegare la disposizione degli scopi secondo un’ordine di soddisfazione determinato dalla misura della loro urgenza. L’utilità marginale, detta anche grado finale di

conformità al dovere). Ma l’assoluta razionalità rispetto allo scopo è anche soltanto un casolimite, di carattere essenzialmente costruttivo. 5. Assai di rado l’agire, e in particolare l’agire sociale, è orientato esclusivamente nell’uno o nell’altro modo. E così pure questi tipi di orientamento non costituiscono affatto, naturalmente, una classificazione esauriente dei modi di orientamento dell’agire, ma sono tipi concettualmente puri – creati per scopi sociologici – ai quali l’agire reale si avvicina più o meno, o dei quali, ancor più di frequente, risulta mescolato. Soltanto il risultato può dimostrarne l’opportunità per noi7.

GUIDA ALLA LETTURA 1. L’agire sociale viene definito da Weber in relazione a quattro «tipi ideali». Costruisci sul tuo quaderno una tabella in cui indicare i caratteri che Weber attribuisce a ognuno dei «tipi ideali» di «agire sociale». 2. I tipi di orientamento dell’agire sociale individuati da Weber sono «concettualmente puri». Che cosa significa questa affermazione? Che cosa ne dimostra, dunque, la validità? 3. Qual è, tra i tipi di agire classificati da Weber, quello più razionale?

utilità, indica il rapporto di convenienza tra un bene economico e un individuo: si basa sulla constatazione del fatto che il possesso di dosi progressive di un dato bene da parte di un individuo ne attenua l’utilità presso il possessore fino a raggiungere un livello di indifferenza. 7. Weber ribadisce qui che si tratta di tipi ideali e di una classificazione non esauriente degli orientamenti. Che sia euristicamente feconda lo prova il seguito dell’analisi sociologica weberiana, dove essa viene messa continuamente alla prova sia nello studio del-

l’agire concreto individuale, sia nella sociologia dei gruppi sociali e nella storia economica. Il tipo ideale del capitalismo, per esempio, o dello stato razionale moderno, come di qualunque impresa organizzata burocraticamente, risulteranno definibili in termini di razionalità rispetto allo scopo. L’economia pianificata o uno stato socialista lo saranno in termini di razionalità rispetto al valore, senza dimenticare che si tratta di tipi «puri», ai quali l’agire sociale si avvicina più o meno e che in esso sono per lo più mescolati.

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esercizi/6 CHE COSA SO?

14. Perché, secondo Bergson, la psicologia scientifica è destinata al fallimento?

Guida allo studio del manuale

15. In che senso la durata reale della coscienza rende manifesta la libertà propria dell’uomo?

1. Evidenzia le espressioni che illustrano i caratteri fondamentali della filosofia di Boutroux. 2. Evidenzia le espressioni che illustrano la concezione bergsoniana di «percezione» e «memoria». 3. Evidenzia i concetti chiave dell’Evoluzione creatrice di Bergson. 4. Evidenzia le caratteristiche generali del «ritorno a Kant» compiuto dalla Scuola di Marburgo. 5. Evidenzia i caratteri generali dello storicismo tedesco contemporaneo. 6. Evidenzia la tesi sostenuta nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. 7. Evidenzia la contraddizione insolubile in cui, secondo Dilthey, versa la filosofia. 8. Evidenzia la tesi sostenuta nel Tramonto dell’Occidente di Spengler. 9. Evidenzia le diverse occorrenze del termine «razionalità», impiegato da Weber. Dizionario filosofico 10. Definisci i seguenti concetti: tempo spazializzato (Bergson) • durata (Bergson) • slancio vitale (Bergson) • intuizione (Bergson) • spiegazione (Dilthey) • comprensione (Dilthey) • valore (Windelband e Rickert) • connessione dinamica (Dilthey) • giudizio di possibilità oggettiva (Weber) • tipo ideale (Weber)

16. Qual è il ruolo del corpo secondo Bergson? 17. Perché Bergson distingue fra «memoria-abitudine» e «memoria pura»? 18. A quale obiettivo filosofico di ordine generale cerca di rispondere Materia e memoria? 19. In che modo Bergson riscopre la validità della metafisica? 20. Quali caratteri Bergson attribuisce alle «religioni statiche» e alle «religioni dinamiche»? 21. In che modo Cohen intende l’attività filosofica? 22. In che cosa consiste la «novità» della lettura kantiana di Cassirer? 23. Come definisce Cassirer le forme simboliche? Quali sono le principali? 24. Che differenza c’è, secondo Windelband, tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche? 25. Illustra come Dilthey ha realizzato il proposito di condurre una «critica della ragione storica». 26. Che cosa intende Spengler con il concetto di «logica organica della storia»? 27. Che differenza c’è, secondo Weber, tra relazione al valore e giudizio di valore? 28. Perché, secondo Weber, i «giudizi di possibilità oggettiva» sono necessariamente «giudizi condizionali»? 29. Qual è, secondo Weber, il tratto caratteristico della razionalità occidentale?

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 11. Chi sono gli iniziatori della tradizione spiritualistica francese?

Trattazione sintetica di argomenti (max 15-20 righe) 30. Illustra la concezione della «durata» teorizzata da Bergson.

12. Che cosa rivela, secondo Ravaisson, l’abitudine?

31. Illustra la concezione della scienza elaborata da Bergson.

13. Qual è il concetto di «legge» naturale elaborato da Boutroux?

32. Illustra i contributi di Bergson al dibattito filosofico sul rapporto tra anima e corpo.

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esercizi/6 33. Illustra le ragioni per cui Bergson nell’Evoluzione creatrice rifiuta sia la concezione meccanicistica sia quella finalistica della natura. 34. In che senso la distinzione bergsoniana tra società aperta e società chiusa trae origine dalla sua teoria dello slancio vitale? 35. Perché la filosofia della Scuola del Baden viene di norma indicata come «filosofia dei valori»? 36. Quali sono i criteri in base ai quali Dilthey distingue tra scienze della natura e scienze dello spirito? 37. Illustra in che modo, per Dilthey, la costituzione del mondo storico secondo connessioni dinamiche conduca al relativismo e alla «liberazione dell’uomo».

esercizi/6

38. Illustra in che cosa consiste la tesi weberiana dell’«avalutatività» delle scienze storico-sociali. 39. Che differenza c’è, secondo Weber, tra le spiegazioni causali fornite dalle scienze naturali e quelle fornite dalle scienze storico-sociali? 40. Illustra la tesi di Weber circa il carattere del capitalismo occidentale e le sue origini. 41. In quale modo Weber classifica i tipi fondamentali dell’agire sociale? 42. Confronta la concezione della sociologia di Weber con quella di Comte.

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e l’abduzione, o ragionamento ipotetico da convalidare sperimentalmente. Alla logica peirciana è strettamente connessa la semiotica, in cui la nozione di segno viene riferita da un lato all’oggetto (il significato del segno), dall’altro al destinatario della comunicazione segnica (interpretante). la teoria della verità di james

7. il pragmatismo i contenuti il pragmatismo: una filosofia americana

Il pragmatismo costituisce il più originale contributo americano alla filosofia contemporanea. Esso rappresenta una filiazione dell’empirismo, nel senso che pone l’esperienza alla base di ogni conoscenza umana. Il concetto di esperienza dei pragmatisti è, però, molto più elastico di quello della tradizione empiristica classica. L’esperienza, infatti, non consiste nella semplice ricezione passiva dei dati, ma comporta immediatamente una risposta attiva dell’uomo. In tal senso, essa non è costituita da singole percezioni isolate e irrelate, ma è data anche dalle relazioni tra le cose (sia quelle tra gli oggetti, sia

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Se per Peirce il pragmatismo – cui egli preferisce il termine «pragmaticismo» – è una teoria del significato, per James è una teoria della verità: le conseguenze di un’idea hanno carattere individuale, nel senso che – se corrispondono alle aspettative dell’individuo che ha l’idea – coincidono per lui con la verità. A ciò è connessa la dottrina jamesiana della volontà di credere, in base alla quale l’uomo può credere alla verità di alcuni assunti – non verificabili empiricamente – su base puramente emozionale. Questo è possibile quando l’affermazione presenti tre requisiti specifici: essere viva, importante e obbligata. lo strumentalismo di dewey

quelle tra l’oggetto esperito e il soggetto che esperisce). Sulla base di questi presupposti, l’assunto fondamentale del pragmatismo è che il significato di un termine o una proposizione è dato dalle conseguenze pratiche che ci si attende da essi. la teoria della credenza e del segno di peirce

Questo assunto generale è sviluppato da Peirce nella teoria della credenza, intesa come un’abitudine che fornisce una regola d’azione. Il significato della credenza consiste nelle sue conseguenze pratiche. Due credenze con le stesse conseguenze sono la stessa credenza. Oltre che per le dottrine pragmatistiche, il pensiero di Peirce è rilevante per la logica. Egli distingue infatti tre tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione

7. il pragmatismo

L’assunto pragmatistico che connette il significato di un’idea alle sue conseguenze pratiche si traduce in Dewey in una completa riforma della logica, intesa come teoria dell’indagine. La logica consente di passare da una situazione indeterminata e problematica – che crea disagio e dubbio – a una situazione determinata, in cui il problema è risolto in maniera univoca. I momenti del processo di indagine sono: la formulazione dell’«idea», intesa come progetto complessivo; la chiarificazione dell’idea attraverso il ragionamento e il linguaggio; la conferma mediante esperimento, che si traduce in un giudizio finale. dewey e il rifiuto del dualismo

Influenzato da Hegel, Dewey trasferisce in ambito empiristico e

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pragmatistico il monismo idealistico. Viene quindi rifiutato ogni dualismo tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo o tra individuo e ambiente, che nell’esperienza appaiono sempre strettamente connessi gli uni agli altri. Anche la coscienza non esiste indipendentemente dalla realtà, ma si costituisce soltanto nel momento in cui il soggetto si trova

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di fronte a una situazione problematica. l’etica e l’estetica di dewey

La stessa esigenza monistica si trova nella teoria della valutazione. I valori sono esigenze sentite immediatamente che si giustificano da sé, ma non possono essere considerati indipendentemente dai

mezzi utili per realizzarli. In altre parole, un fine per cui non ci sono mezzi non è un valore. Anche nell’opera d’arte il fine (il valore artistico) è inseparabile dai mezzi atti a realizzarlo. Negli oggetti strumentali il fine è esterno, mentre nel capolavoro artistico è interno all’oggetto stesso.

gli strumenti in poche… parole credenza / volontà di credere / situazione problematica / strumentalismo / transazione

i testi a. nel manuale

b. on-line

t22 James/La volontà di credere t23 Dewey/Un nuovo concetto di esperienza

Peirce/Il significato della credenza Dewey/La logica strumentale Dewey/Mente e corpo

approfondimento L’Inghilterra tra idealismo e realismo: il «caso» Moore

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

7. il pragmatismo

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1. Peirce le origini del pragmatismo

Negli Stati Uniti – verso la fine dell’Ottocento – si sviluppa la corrente del pragmatismo, che costituisce il più originale contributo americano alla filosofia contemporanea ed esercita una vasta influenza anche sulla cultura europea. L’iniziatore della nuova corrente è considerato, dagli stessi contemporanei, Charles Sanders Peirce (1839-1914), anche se egli – come si vedrà tra poco – prese ben presto le distanze dagli ulteriori sviluppi del movimento. Figlio di un famoso matematico che insegnò Fisica e Astronomia a Harvard, egli tentò insistentemente – senza riuscirvi – di ripercorrere la carriera accademica del padre. Non ebbe successo nemmeno nella pubblicazione delle sue opere che, fatta eccezione per alcuni sia pur importantissimi articoli, rimasero inedite. Le sue opere sono ora raccolte nei sei volumi della Raccolta di scritti di Ch.S. Peirce (Collected Papers of Ch.S. Peirce), editi negli anni 1931-35.

il significato della credenza

Il concetto che lega la filosofia di Peirce alla nascita del pragmatismo, esposto in due saggi divenuti immediatamente famosi – Il fissarsi della credenza (1877) e Come rendere chiare le nostre idee (1878) – è quello di credenza . Che cosa, dunque, è la credenza? Abbiamo visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l’irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione, o, per dirla in breve, di un’abitudine. Mentre acquieta l’irritazione del dubbio, che è il motivo per pensare, il pensiero si rilassa, e si ferma in riposo per un momento quando la credenza è raggiunta. Ma dal momento che la credenza è una regola per l’azione, l’applicazione della quale implica ulteriori dubbi e pensieri, nello stesso tempo in cui essa è un punto d’arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero. Ed è per questo che mi sono permesso di chiamarla pensiero in riposo, sebbene il pensiero sia essenzialmente un’azione. L’esito finale del pensare è l’esercizio della volizione, e di questo il pensiero non fa più parte; ma la credenza è solo uno stadio dell’azione mentale, un effetto del pensiero sulla nostra natura, il quale effetto influenzerà il futuro pensare. L’essenza della credenza è lo stabilirsi di un’abitudine, e differenti credenze si distinguono dai differenti modi d’azione che fanno sorgere. [...] Per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abitudini essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abitudine implicata da essa (Come rendere chiare le nostre idee, II).

Quando si trova in una situazione di dubbio, l’uomo dà inizio a una «ricerca» che mette capo a una credenza, ovvero a un’abitudine (habit) che costituisce una regola d’azione. Il significato della credenza risiede nelle azioni che essa comporta in risposta a una situazione di dubbio : due credenze che conducano alle medesime azioni sono eguali, anche se possono essere formulate in termini diversi. pragmatismo e pragmaticismo

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Peirce sostiene dunque che le diverse conseguenze delle credenze servono a distinguere i loro diversi significati. Tuttavia, il fatto che una credenza si 7. il pragmatismo

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riveli più efficace di altre – cioè consenta di uscire da una situazione di dubbio meglio di altre – non implica che essa sia anche la più vera. Per prendere le distanze dalla tendenza – propria degli altri pragmatisti – a far coincidere l’efficacia con la verità, Peirce rifiuterà successivamente il termine pragmatismo, sostituendolo con quello – «abbastanza brutto da non essere rubato» – di pragmaticismo. Per consolidare la credenza si possono seguire diversi metodi: la «tenacia» di chi si rifiuta di mettere in discussione le proprie idee; l’«autorità» che esclude le altre opinioni; il «metodo a priori» o «metafisico» che procede in base al puro ragionamento; e, infine, il «metodo scientifico» che si fonda sul procedimento sperimentale. Se dal punto di vista dell’efficacia tutti questi metodi possono essere accettati, dal punto di vista della verità solo il metodo scientifico può essere considerato valido: esso soltanto, infatti, è in grado di riconoscere i propri errori e di correggere progressivamente se stesso. Per usare un’espressione di Peirce, soltanto il metodo scientifico è fallibilista e consente pertanto – attraverso un processo di progressiva autocorrezione – un graduale avvicinamento alla verità.

efficacia e verità delle credenze

Ma da che cosa dipende la chiarezza di un’idea o di una credenza? Secondo Peirce essa non è data immediatamente dalla sua evidenza – come asserisce l’intuizionismo filosofico – ma dipende dalla consapevolezza delle conseguenze pratiche che essa comporta. Il suo rifiuto non riguarda soltanto l’intuizionismo cartesiano o razionalistico in genere, ma anche l’empirismo tradizionale, in quanto considera i dati dell’esperienza come immediatamente evidenti. Per Peirce, al contrario, l’esperienza stessa è il frutto di un’inferenza: le nostre percezioni non consistono nella semplice ricezione passiva di un dato, ma comportano un «giudizio percettivo» sui contenuti dell’esperienza. Ad esempio, quando diciamo che un certo oggetto è giallo, dobbiamo già possedere il concetto di giallo per poterlo applicare al caso particolare, cioè dobbiamo formulare un «giudizio», anche se – a differenza dei giudizi intellettuali – esso viene espresso inconsapevolmente.

la critica dell’empirismo

Abbiamo parlato di inferenza, cioè di ragionamento. Peirce ne distingue tre tipi: 1) la deduzione, che va dal generale al particolare; 2) l’induzione, che va dal particolare al generale; 3) l’abduzione (o ragionamento ipotetico), che consiste nel formulare un’ipotesi causale partendo da un effetto dato (ad esempio, «Se c’è cenere [effetto], ci deve essere stato un fuoco [causa]»). La validità del ragionamento abduttivo può comunque essere garantita solo dalla procedura sperimentale: soltanto accendendo un fuoco posso effettivamente verificare se esso produce cenere. In tal senso, il procedimento abduttivo coincide con quello ipotetico-sperimentale che caratterizza la scienza moderna da Galilei in poi. Ovviamente le conclusioni cui giunge l’abduzione non sono definitive, ma aprono la strada a nuove ricerche e a nuove conclusioni, secondo il modello di approssimazione progressiva alla verità che caratterizza il metodo scientifico.

la teoria dell’inferenza

Il crescente interesse per le questioni di logica porterà Peirce a formulare anche un’originale teoria dei segni (o semiotica). Per segno si deve inten-

la semiotica

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dere ogni atto che consenta una comunicazione. Ogni segno comporta necessariamente un duplice riferimento: da un lato all’oggetto, che costituisce il significato del segno; dall’altro all’interpretante, cioè al destinatario della comunicazione segnica, che deve comprendere e, appunto, interpretare il significato del segno. Per esempio, il termine «cavallo» è un segno che può riferirsi a un determinato animale soltanto quando vi sia una persona che, sentendo quella parola, coglie quel significato. Ma – e questo è l’elemento di maggiore originalità – l’interpretante stesso non è che un segno, poiché il pensiero (in base al quale l’interpretante coglie il significato del segno) non è che una forma di linguaggio. In quanto segno, dunque, l’interpretante rimanda a sua volta a un oggetto e a un altro interpretante. La conseguenza importante di questa dottrina è che ogni cosa ha una funzione semiotica e, più precisamente, ogni cosa può svolgere la funzione di segno – oggetto o interpretante, a seconda del contesto nel quale viene inserita.

2. James

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vita e opere

Se Peirce ha dato l’avvio al movimento pragmatista, colui che ne promosse la diffusione sul piano internazionale fu senz’altro William James (18421910). Egli proveniva da una facoltosa e colta famiglia americana: il padre, Henry, era esponente di rilievo della filosofia trascendentalista e il fratello maggiore – anch’egli di nome Henry – era un famosissimo scrittore (Il giro di vite, I bostoniani). Dopo aver viaggiato a lungo in Europa, William insegnò Psicologia e Filosofia a Harvard. Tra le opere filosofiche di maggior rilievo: Princìpi di psicologia (1890); La volontà di credere e altri saggi di filosofia popolare (1897), Le varietà dell’esperienza religiosa (1902), Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare (1907), Il significato della verità (1909), nonché i postumi Saggi sull’empirismo radicale (1912).

l’interazione tra la mente e il mondo

Nei Princìpi di psicologia, James descrive la vita psichica dell’individuo nei termini di un flusso di sensazioni (stream of feelings) che si succedono ininterrottamente, compenetrandosi le une con le altre. In questo modo, James si contrapponeva alla scuola associazionistica, che presuppone una giustapposizione successiva e meccanica di sensazioni distinte e indipendenti. Inoltre, secondo James, la mente umana non è una realtà separata dal mondo naturale: piuttosto, l’una e l’altro sono i due aspetti diversi di un’unica realtà o, almeno, di un unico complesso di realtà interagenti. Si spiega così la sua famosa teoria dell’azione riflessa, in base alla quale ogni atto psichico è la risposta a uno stimolo che proviene dal mondo esterno, senza che si possa separare la prima dal secondo. Detto altrimenti, l’ambiente esterno influenza la vita psichica, la quale a sua volta – attraverso l’azione maturata in risposta alla sollecitazione ricevuta – modifica l’ambiente. Questa interazione non va tuttavia intesa in senso deterministico, poiché la risposta dell’individuo all’ambiente contiene sempre una componente di spontaneità. 7. il pragmatismo

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La concezione jamesiana del pragmatismo esplicita due aspetti contenuti nella teoria psicologica dell’azione riflessa: l’esito pratico di ogni processo mentale e il suo orientamento verso il futuro. Per James – come per Peirce – il significato di un’idea o di una teoria è dato dalle sue conseguenze pratiche future. Ma, mentre per Peirce quest’affermazione implica soltanto – come si è visto – una teoria del significato, per James essa si trasforma in una teoria della verità. Le conseguenze di cui parla Peirce sono sempre generali e verificabili, per cui il metodo pragmatistico viene pensato soprattutto in vista della sua utilizzabilità in ambito scientifico, rendendo possibile distinguere le diverse teorie sulla base dei loro diversi effetti pratici. Per James, invece, la validità di un’idea o teoria è misurata dalla sua capacità di sortire l’effetto che l’individuo soggettivamente si attende, senza pretendere riscontri sul piano generale. In altri termini, la verità di un’idea viene a coincidere con la sua efficacia pratica: cosa che Peirce negava esplicitamente.

una nuova concezione della verità

Si spiega così perché il pragmatismo di James sia strettamente connesso con la dottrina della volontà di credere . Essa sostiene che ci sono casi in cui l’uomo non ha bisogno di attendere una verifica empirica della sua credenza, ma può credere esclusivamente in base a una disposizione emotiva o passionale. Perché ciò sia legittimo occorrono, tuttavia, alcune condizioni. In primo luogo, bisogna che la questione non sia immediatamente verificabile mediante l’esperienza scientifica o storica: non posso credere che un asino possa volare o che Lincoln non sia esistito. Inoltre, occorre che l’opzione – cioè la scelta tra il credere o il non credere – sia viva (cioè stimoli il mio interesse), importante (non banale) e obbligata (cioè non possa essere rinviata senza che ciò comporti, di fatto, una scelta negativa). È questo il caso delle questioni etiche (è possibile promuovere un miglioramento morale del mondo?) o religiose (esiste Dio?). In questi casi non soltanto si ha diritto a credere, ma la credenza può produrre essa stessa la propria verificazione [t22]. Un alpinista che, per superare un burrone, deve compiere un salto al limite delle proprie forze, avrà maggiori probabilità di riuscire nell’impresa se – credendo di avere energie sufficienti – le impiegherà tutte nel salto: nello stesso modo il mondo può diventare veramente migliore se noi crediamo in questa possibilità e lavoriamo in questo senso.

l’influenza della volontà sulle credenze

Nell’ultima fase del suo pensiero – in seguito alla lettura di Materia e memoria di Bergson [cfr. 6.2] – James riprenderà la concezione psicologica di una completa integrazione tra mondo psichico e mondo naturale, divenendo fautore di un empirismo radicale. Nei saggi postumi dedicati a questa prospettiva egli parla infatti di un’unica sostanza reale, che di per sé non è né spirituale né materiale: questa sostanza è da lui denominata esperienza pura e si rifrange in una pluralità di elementi, anch’essi né pura coscienza soggettiva né semplice oggetto di coscienza. Il processo della conoscenza è dato esclusivamente dal fatto che i diversi elementi dell’esperienza pura si determinano secondo rapporti reciproci diversi, configurandosi ora come «conoscente» ora come «conosciuto».

la fase dell’empirismo radicale

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3. Dewey: esperienza e conoscenza la vita

Il pragmatismo assume una configurazione particolare nella concezione filosofica di John Dewey. Nato a Burlington, nel Vermont, nel 1859, egli studiò alla John Hopkins University, dove ricevette una formazione di tipo neohegeliano, ma su di lui influirono poi potentemente il pragmatismo di Peirce e di James e le dottrine dell’evoluzionismo darwiniano. Studiò anche presso l’università del Michigan, dove si specializzò in Psicologia, laureandosi con una tesi sulla psicologia in Kant. Dal 1894 al 1904 insegnò all’università di Chicago: qui fondò la «scuola laboratorio» per bambini, la quale si basava sui nuovi princìpi pedagogici introdotti da Dewey stesso. Dal 1904 al 1929 insegnò alla Columbia University di New York. In questa città morì nel 1952.

gli scritti

Le opere più importanti di Dewey sono Esperienza e natura (1925), La ricerca della certezza (1929) e, soprattutto, Logica, teoria dell’indagine (1938). Sono comunque da ricordare: Come pensiamo (1910), Saggi di logica sperimentale (1916), Natura e condotta dell’uomo (1922), Una fede comune (1934), L’arte come esperienza (1934), Il conoscente e il conosciuto (1939), Teoria della valutazione (1939), Libertà e cultura (1939). Importantissimi per gli sviluppi della pedagogia contemporanea sono Democrazia ed educazione (1916), Esperienza ed educazione (1938), Educazione oggi (1940).

che cos’è l’esperienza?

Come per altri pragmatisti, anche per Dewey il punto di partenza è l’esperienza. Al pari di Peirce e di James, egli non la definisce sul piano della conoscenza astratta, ma su quello dell’azione pratica. L’esperienza è data, infatti, dall’interazione tra l’organismo e l’ambiente in cui esso opera: è un sentire che è sempre anche un reagire. Esperienza è camminare in una strada, consumare un pasto, parlare con un vicino, costruire un garage o innamorarsi. Di conseguenza, l’esperienza è attività non meno che passività: l’organismo che esperisce qualcosa da un lato riceve uno stimolo da parte dell’ambiente, dall’altro rielabora questo stimolo in una risposta (è qui particolarmente evidente l’influenza della psicologia di James). Inoltre, se per l’empirismo classico il materiale dell’esperienza era costituito da dati isolati e indipendenti l’uno dall’altro, secondo Dewey l’esperienza coglie soprattutto le relazioni tra le cose, sia quelle che riguardano i nessi tra gli oggetti della realtà naturale e sociale, sia quelle che concernono il rapporto tra l’organismo e la realtà [t23].

l’esperienza non è sempre armonica

Non sempre l’ambiente agisce sull’individuo in modo conforme alle sue necessità e alle sue aspettative. In parte, le energie dell’ambiente naturale favoriscono le funzioni organiche, promuovendo la crescita, la salute, l’adattamento. In parte, quelle energie agiscono invece contro le funzioni dell’organismo, provocando disturbi, malattia e morte. Analogamente, l’ambiente sociale agisce sull’individuo in parte favorevolmente, in parte sfavorevolmente. Da questo punto di vista, la nostra esperienza è anche esperienza di disagi, di errori, di mancanze, di disordine, in ogni caso di una insufficiente capacità dell’organismo di adattarsi all’ambiente. È così

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possibile anche l’esperienza di cose puramente negative, come la morte, in risposta alla quale l’individuo reagisce in maniera diversissima, dall’indifferenza alla disperazione, dal rifugio nella religione alla stipulazione di un’assicurazione sulla vita. Un’altra caratteristica dell’esperienza, per Dewey, è che essa precede ogni intellettualizzazione. L’empirismo classico ha sbagliato ritenendo che essa mi dia, ad esempio, la sensazione del blu. La mia «sensazione» del blu è, infatti, già il risultato di una successiva riflessione sull’esperienza. In realtà, l’esperienza consiste nel fatto che io scrivo una lettera con una penna blu, o sono infastidito da una luce blu. Analogamente, l’esperienza non è ancora riflessione consapevole sugli aspetti problematici dell’esistenza. Soltanto quando portiamo alla coscienza questi aspetti problematici, cominciamo a riflettere su di essi: e qui si inizia la conoscenza, che deriva dall’esperienza, ma non è identica con essa. Se non si presenta alcuna situazione di disagio, l’esperienza può non diventare conoscenza, come avviene, ad esempio, quando mi servo di una penna blu perfettamente adatta a scrivere una lettera. Ma, se mi trovo tra le mani una penna blu e intendo invece sottolineare una parola in rosso, porto il fatto alla coscienza e ne faccio un problema. A questo punto non ho più soltanto esperienza, ma concettualizzazione, ragionamento, inizio di conoscenza.

la conoscenza come concettualizzazione dell’esperienza

Considerazioni analoghe valgono anche per il concetto di coscienza. Per Dewey la coscienza è il momento in cui l’esperienza rivela la sua dimensione problematica, innescando così il processo conoscitivo. Tutte le azioni compiute durante la giornata fanno parte della mia esperienza: ma soltanto in un certo numero di casi l’esperienza si traduce in coscienza, perché si fa sentire l’esigenza di una sua correzione o trasformazione. Un uomo che cammina per la strada è soltanto un organismo che interagisce con l’ambiente; ma se la strada è piena di pozzanghere, quell’uomo, che ora guarda dove mette i piedi, è un organismo che ha sviluppato in sé la funzione della coscienza. La coscienza non è, quindi, una condizione ontologica assoluta, ma soltanto una funzione relativa a una particolare condizione transitoria.

la conoscenza inizia là dove l’esperienza diventa coscienza

Il problema della conoscenza viene trattato da Dewey nella forma più completa in Logica, teoria dell’indagine: egli la definisce come un processo di manipolazione dell’esperienza, volto a eliminarne progressivamente gli aspetti conflittuali o problematici in modo da adattare le cose all’uso che vogliamo farne. Il pensiero e i giudizi attraverso i quali esso si esprime non sono intesi da Dewey come dei procedimenti esclusivamente mentali, ma come delle vere e proprie azioni volte a operare una trasformazione della realtà. Nulla è più lontano da Dewey di quella che egli chiama «la teoria della conoscenza come spettacolo», per cui essa consiste nella contemplazione o ricezione passiva di una realtà esterna indipendente dall’uomo.

la logica e lo studio della conoscenza

La logica coincide, dunque, per Dewey con una teoria dell’indagine, indirizzata a trasformare una situazione indeterminata in una situazione completamente determinata . Per situazione indeterminata si deve intendere una condizione esistenziale nella quale esistono alcuni elementi di discre-

la logica e le fasi dell’indagine

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Dewey La logica strumentale

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panza rispetto ai fini, agli interessi o alle esigenze dell’individuo che opera in essa. Quando questi elementi siano trasformati in modo da eliminare ogni causa di disturbo da parte dell’ambiente, la situazione indeterminata si converte in una situazione determinata. La situazione indeterminata ci è data dall’esperienza, che però – come abbiamo visto –, precedendo ogni forma di riflessione, non ci rende ancora consapevoli di quali siano gli elementi da rimuovere o trasformare e su quali altri elementi si possa invece contare come termini di riferimento utili alla nostra azione modificatrice. dalla situazione indeterminata a quella problematica

Ciò avviene con la trasformazione della situazione semplicemente indeterminata in una situazione problematica , nella quale siano appunto dati con chiarezza i termini del problema da risolvere. Definita la situazione problematica, il soggetto della ricerca deve formulare un’idea, intesa come una previsione generica sul tipo di soluzione che si intende perseguire. Nella sua vaghezza, l’idea fornisce soltanto un suggerimento sulla direzione che deve prendere la ricerca, ma non consente ancora il passaggio all’azione pratica. Occorre chiarire, dunque, l’idea nella sua portata e nelle sue implicazioni, in modo da determinare le singole fasi dell’intervento e il rapporto che esse hanno con gli aspetti determinati della situazione. Ciò è possibile soltanto attraverso il ragionamento che formalizza l’idea traducendola in un linguaggio simbolico.

la soluzione può essere formalizzata in due modi

Questo può avvenire a due livelli. La formalizzazione può essere data dal linguaggio ordinario, che consente di risolvere un problema quotidiano facendo riferimento al semplice senso comune; oppure essa può servirsi del linguaggio della scienza, il quale permette un più elevato grado di generalizzazione e di universalità. Il senso comune e la scienza mettono capo, quindi, a due attività di ricerca che sono distinte soltanto dal diverso grado di formalizzazione simbolica a cui fanno ricorso: in entrambi i casi, tuttavia, si tratta di procedimenti che utilizzano una precisa sintassi logica.

dall’esperimento al giudizio finale

Il ragionamento da solo non può comunque dare piena garanzia dell’efficacia dell’idea. L’ultima parola spetta all’esperimento, con il quale le precedenti fasi della ricerca si traducono in azione pratica. Si deve notare, tuttavia, che già la formulazione dell’idea e l’articolazione del ragionamento hanno carattere operazionale: essi non consistono nell’analisi teorica della situazione, ma sono intrinsecamente compenetrati dall’azione cui mettono capo. Ancora una volta, pensare e agire non sono attività distinte, ma i due aspetti di una stessa attività. Se l’esperimento ha esito positivo, l’idea svolta dal ragionamento si traduce in un giudizio finale. Esso sancisce definitivamente la scelta operativa fatta, che da questo momento in poi viene considerata come «decisione direttiva di attività future». Con il giudizio finale, la conoscenza è acquisita e l’indagine conclusa.

verità e soluzione dei problemi

Ma se – come abbiamo visto – la conoscenza consiste nel trasformare una situazione indeterminata in una determinata secondo la logica dell’indagine, che cos’è la verità secondo Dewey? La concezione che egli ha della verità è più vicina a quella di Peirce [cfr. 7.1] che a quella di James: la verità non è data dall’efficacia di un’idea o di una credenza per un singolo individuo,

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LA TEORIA DELL’INDAGINE le fasi 1. dubbio

2. idea

3. ragionamento

4. esperimento

5. giudizio finale

trasforma l’indeterminatezza in «situazione problematica»

ipotesi di soluzione del problema

formalizzazione dell’idea in linguaggio simbolico

verifica pratica dell’ipotesi

conclusione dell’indagine e «decisione direttiva di attività future»

ma dal riconoscimento unanime – ottenuto applicando una precisa sintassi logica e facendo ricorso finale all’esperimento – che determinate procedure sono in grado di risolvere determinati problemi. Per Dewey, inoltre, le «proposizioni» di cui ci serviamo nell’indagine – cioè le formulazioni relative ai modi di agire per risolvere il problema – non sono né vere né false: esse sono soltanto strumenti che utilizziamo per chiarificare l’idea e rendere possibile la sua verifica sperimentale. Di qui la denominazione di strumentalismo che Dewey dà al suo pensiero. La verità compete soltanto al giudizio che è stato conclusivamente provato in via sperimentale. Come si vede, anche per Dewey – come per Peirce – il pragmatismo trova la sua più naturale e completa applicazione nell’ambito della scienza. Dewey, inoltre, accoglie da Peirce anche il principio del fallibilismo, per cui i risultati di un’indagine scientifica sono definitivi soltanto nella misura in cui non intervengono altri giudizi a dimostrarne la falsità. I giudizi sono considerati «verità stabilite» non in quanto siano incorreggibili, ma solo nel senso che per il momento non vi sono ragioni per metterli in discussione o continuare la ricerca su di essi. Anche per Dewey la verità è un ideale cui tendere, più che un traguardo effettivamente conseguibile.

dewey, peirce e il modello della conoscenza scientifica

La teoria della verità di Dewey getta luce anche sulla sua concezione della filosofia. Tradizionalmente, la filosofia ha esercitato – secondo lui – una funzione illusionistica: essa ha tranquillizzato gli animi mostrando come nella realtà ci fosse ordine, armonia, stabilità. Viceversa la filosofia – ed è questo uno dei punti su cui Dewey prende maggiore distanza da Hegel – deve rendere consapevole l’uomo che la realtà è anche disordine, conflittualità, instabilità, ma nello stesso tempo che l’intelligenza umana è in grado di trasformare operativamente questa realtà in modo da renderla più omogenea con le proprie esigenze. La filosofia è «l’intelligenza diventata consapevole della propria natura e dei propri metodi». La natura dell’intelligenza è quella di approntare strumenti per risolvere problemi; i suoi metodi sono quelli descritti nella teoria dell’indagine. La filosofia è essenzialmente un metodo di chiarificazione; ma, appunto per questo, essa si traduce immediatamente in operatività e costituisce la più concreta speran-

filosofia e intervento sulla realtà

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za – da parte dell’uomo – di poter conservare e sviluppare il proprio sistema di valori.

4. Dewey: uomo e natura i due poli dell’indagine

Abbiamo visto che il mondo dell’esperienza costituisce una realtà unitaria, nella quale non ci sono elementi isolati, ma un unico complesso di relazioni. Questo vale ovviamente anche per il processo di indagine che abbiamo descritto sopra. L’individuo che conduce l’indagine non è una realtà esterna alla situazione in cui opera e che intende modificare; non c’è un soggetto della conoscenza autonomo e contrapposto a un oggetto: soggetto e oggetto sono funzioni che emergono nel corso stesso dell’indagine. Il soggetto è un organismo che «diventa un soggetto conoscente in virtù del suo impegno in operazioni di ricerca controllata». Analogamente, l’oggetto è quella parte dell’esperienza che il soggetto circoscrive in base ai propri interessi e bisogni, al fine di conoscerla e di intervenire su di essa per modificarla.

l’interdipendenza di soggetto e oggetto

Naturalmente, soggetto e oggetto sono strettamente connessi l’uno all’altro, nel senso che uno esiste soltanto in quanto esiste l’altro. Per indicare questa relazione, Dewey usa negli ultimi scritti il termine transazione , mutuato dal mondo dell’economia e degli affari. Qui la transazione indica il rapporto che viene a instaurarsi tra un compratore e un venditore, che non esistono però l’uno indipendentemente dall’altro: il compratore è tale perché esiste un venditore e viceversa. Nello stesso modo, un organismo si costituisce come soggetto solo in quanto definisce una determinata porzione di esperienza come oggetto e viceversa.

al di là del dualismo cartesiano

Ispirata alla stessa esigenza monistica è la concezione deweyana del rapporto mente-corpo . Contro ogni interpretazione dualistica di questa relazione, Dewey precisa che l’uomo è un’unità psico-fisica. La mente non può esistere indipendentemente dalle condizioni organiche del corpo, così come questo, a sua volta, non può sussistere se non in dipendenza dalle condizioni ambientali. Noi non abbiamo espressioni linguistiche adeguate per esprimere tale unità psico-fisica – osserva Dewey – per cui dobbiamo ricorrere all’espressione composta «mente-corpo». Ma le due parole che la compongono non indicano due realtà diverse, bensì, ancora una volta, due aspetti o funzioni dello stesso organismo: Il nostro linguaggio è così permeato dei significati di teorie che hanno separato il corpo dalla mente, costituendone due regni esistenziali nettamente divisi fra di loro, che noi non disponiamo di parole che designino il fatto esistenziale così come esso realmente è. [...] La realtà corporeo-mentale designa semplicemente ciò che realmente ha luogo quando un corpo vivente entra in rapporto con situazioni di discorso, di comunicazione e di partecipazione. Nell’espressione «corpo-mente», nella quale le due parole sono separate da un trattino, «corpo» designa l’operazione continuata, che conserva via via i

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Dewey Mente e corpo

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propri risultati, registrata e cumulativa di fattori che sono continui con il resto della natura, tanto inanimata quanto animata; mentre la parola «mente» designa i caratteri e le conseguenze che sono differenziali, che indicano dei tratti che emergono quando il «corpo» si trova impegnato in una situazione più ampia, più complessa e più interdipendente (Esperienza e natura, cap. VII).

Per Dewey, dunque, l’elemento «corpo» esprime l’accumularsi e il persistere di determinati effetti dell’ambiente sull’organismo; mentre, la componente «mente» si riferisce alla capacità di quest’ultimo di elaborare risposte che conducano a un’ulteriore modificazione dell’ambiente. Poiché l’uomo è in continua interazione con l’ambiente, la sua azione non può essere guidata – kantianamente – da una ragione intesa come facoltà contrapposta agli impulsi della sensibilità. Per Dewey, infatti, è impossibile una netta distinzione tra razionalità e istinto. La volontà non può essere considerata come una forza morale che si sottrae all’influenza dei condizionamenti ambientali: essa coincide piuttosto con l’abitudine, cioè con una somma di esperienze passate che predispongono l’uomo ad agire in un modo piuttosto che in un altro. La stessa libertà assume un carattere particolare nel contesto deweyano. Essa non comporta né il libero arbitrio né la capacità kantiana di essere principio di una serie causale, ma è data semplicemente dagli spazi di novità, di originalità e creatività che caratterizzano la risposta mentale dell’uomo allo stimolo puramente fisico dell’ambiente.

il problema morale: volontà e libertà

Tenendo conto di ciò, come è possibile distinguere un’azione buona da una cattiva, un’azione giusta da una ingiusta, o anche – poiché il problema si pone negli stessi termini – una cosa bella da una brutta? Nella sua Teoria della valutazione, Dewey risponde alla prima questione dicendo che i valori nascono sempre da un’esigenza insoddisfatta e coincidono con la condizione che soddisfa tale esigenza. Ma proprio perché il valore reclama la propria soddisfazione, è necessario l’esame del rapporto tra mezzi e fini. La questione morale non può, dunque, essere affrontata occupandosi soltanto dei valori in sé – cioè dei fini cui si tende – ma anche dei mezzi necessari per conseguirli. Ciò significa, inoltre, che non ci sono valori o fini in sé che debbano essere acquisiti a ogni costo. Qualsiasi valore può infatti essere rifiutato, se la sua realizzazione rende sproporzionato il rapporto mezzi-fini.

l’origine dei valori e i criteri di scelta

Dewey insiste molto sull’interdipendenza di mezzi e fini, tanto da far entrare ciascuno dei due termini nella definizione dell’altro. Così i mezzi sarebbero parti frazionarie dei fini, cioè non qualcosa di esterno e puramente strumentale al fine, ma già una sua parziale realizzazione. Analogamente, i fini sarebbero mezzi procedurali: indicando il fine interno allo stesso procedimento, essi fungerebbero anche da mezzi della sua realizzazione.

il rapporto mezzi-fini nelle azioni umane

Non a caso Dewey recupera – contro ogni tendenza della scienza moderna – la nozione classica di «fine naturale»: ogni processo naturale o sociale ha in se stesso un fine che costituisce la molla del proprio sviluppo. La tendenziale convergenza tra mezzi e fini ha come conseguenza la spontaneità del

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processo che conduce alla realizzazione del fine stesso: se compio un lavoro perché mi piace, il fine non è soltanto nello scopo che mi propongo mediante il lavoro (costruire un manufatto), ma già nel lavoro stesso che – essendo gratificante – non è più soltanto un mezzo ma anche un fine. La convergenza tra mezzi e fini è, quindi, una condizione essenziale della felicità a cui l’uomo tende naturalmente. l’arte e la sua particolare «utilità»

La considerazione del rapporto tra mezzi e fini è di fondamentale importanza anche nell’ambito dell’arte. Nell’attività estetica, infatti, il fine – l’opera d’arte – non è diverso dai mezzi impiegati per realizzarlo, cioè dalla creatività dell’artista e dai materiali che egli ha realizzato. E, viceversa, i mezzi impiegati in tale attività non hanno un fine esterno a sé, come avviene nelle attività che mettono capo a prodotti strumentali (ad esempio, il martello fatto per battere). Da questo punto di vista, l’opera d’arte presenta una forma finale che non è posseduta dagli oggetti strumentali: in essa, appunto, i fini da realizzare (l’oggetto estetico) e i mezzi impiegati per la loro realizzazione (il talento dell’artista, le tecniche, il bronzo, i colori, ecc.) coincidono. Ciò tuttavia non deve far dimenticare che – al pari di ogni altro valore – anche l’arte è mezzo oltreché fine. Ciò significa che non c’è differenza qualitativa tra le arti belle e le arti utili: l’arte è «utile» perché esercita una funzione sociale, rendendo comunicabile l’esperienza dell’artista e allargando in generale la sfera della creatività.

elogio della democrazia e difesa della libertà

In ambito politico Dewey è uno strenuo difensore del valore e dei metodi della democrazia. Come nella natura l’individuo è in continua interazione con l’ambiente, così nella democrazia ognuno collabora con le proprie forze al benessere della totalità e riceve a sua volta sostegno dal corpo collettivo. Dewey non nasconde, tuttavia, che nelle democrazie esistenti – anche in quella americana – non sempre l’interazione tra individuo e totalità si è sviluppata in modo equilibrato (come del resto avviene anche nella natura): spesso i gruppi sociali più elevati traggono vantaggi maggiori dal loro apporto alla vita sociale di quanto non facciano i ceti inferiori. La responsabilità di questa situazione è in gran parte attribuibile, secondo Dewey, al liberalismo classico, che ha indissolubilmente connesso la difesa della libertà politica con quella della libertà economica (cioè, il liberalismo con il liberismo). Contro questa concezione, Dewey promuove invece una forma di liberalismo radicale, che garantisca l’effettiva libertà di ciascun membro della società politica anche attraverso interventi dello Stato, senza per questo adottare modelli socialistici o comunistici della società.

l’educazione del bambino alla scuola attiva

Alle riflessioni sulla democrazia è anche connessa la pedagogia di Dewey, che ebbe grandissima fortuna non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa. L’attività scolastica del bambino è infatti intesa da Dewey come partecipazione attiva e spontanea alla vita della comunità scolastica: una corretta educazione infantile può, a suo avviso, predisporre gli individui alle regole della vita democratica e rivelarsi in futuro l’unico potente mezzo per rafforzare e diffondere la democrazia. Ma, al di là della relazione con la politica, la pedagogia di Dewey appare come l’applicazione pratica dei

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suoi più rilevanti assunti filosofici. Al centro di essa vi è la nozione di scuola attiva, il cui principio fondamentale – «imparare facendo» (learning by doing) – è che l’insegnamento non deve essere subìto passivamente attraverso la ricezione di nozioni mnemoniche, ma deve essere il risultato dell’attività volontaria del bambino, impegnato in lavori che rispondano ai suoi interessi e alle sue scelte. L’opera dell’educatore deve quindi limitarsi a suscitare in lui i giusti interessi, a fornirgli i materiali e a guidarlo nella realizzazione dei suoi lavori. Nella «scuola laboratorio» che Dewey fece aprire presso il dipartimento di Pedagogia dell’università di Chicago i bambini cucinavano, coltivavano l’orto e preparavano manufatti. Le stesse discipline tradizionali – leggere, scrivere, far di conto, la storia, la geografia, ecc. – venivano insegnate partendo da interessi concreti, legati appunto all’attività lavorativa dei bambini. Non è difficile scorgere sullo sfondo di queste dottrine pedagogiche i temi fondamentali della riflessione filosofica di Dewey: il principio dell’interazione tra individuo e ambiente, la situazione problematica come condizione del processo cognitivo, il carattere strumentale del pensiero, la teoria del rapporto mezzi-fini.

APPROFONDIMENTO

l’esperienza di chicago

L’Inghilterra tra idealismo e realismo: il «caso» Moore

Anche in Inghilterra – come in Francia – si sviluppò, nella seconda metà dell’Ottocento, una forte reazione alla cultura positivistica. Ma, mentre in Francia tale reazione comportò un ritorno allo spiritualismo, considerato l’autentica tradizione filosofica nazionale, in Inghilterra non esisteva un analogo termine di riferimento. Il vero antidoto contro la cultura positivistica doveva essere cercato non nell’empirismo, la corrente filosofica inglese che rappresentava una delle matrici fondamentali del positivismo, ma nell’idealismo di Hegel, più o meno adattato alle esigenze della cultura anglosassone. L’obiettivo generale di questo «ritorno a Hegel» era la restaurazione dei valori dello spirito che il positivismo – con il suo naturalismo scientifico – aveva ampiamente ridimensionato, o perfino rifiutato. Tra i maggiori

rappresentanti del neoidealismo inglese occorre citare Francis Herbert Bradley (1846-1924). Nella sua opera più importante, Apparenza e realtà (1893), egli suggerisce di andare al di là del mondo dell’esperienza, basato sulle relazioni tra dati molteplici che conducono inevitabilmente a rapporti contraddittori, per attingere un Assoluto che nella sua unicità è privo di contraddizioni. Il neoidealismo trovò una diretta e puntuale opposizione da parte del realismo, che cominciò a svilupparsi in Inghilterra – all’inizio del Novecento – a opera di Bertrand Russell [cfr. 16.2] e George Edward Moore (1873-1958). Le strade percorse da Russell e da Moore a un certo punto si divisero, poiché il primo si orientò verso l’atomismo logico e il secondo attuò un recupero della filosofia

del senso comune. Essi tuttavia, coetanei e compagni di studi a Cambridge, seguirono inizialmente lo stesso percorso, contrassegnato soprattutto dai loro contributi in difesa del realismo, i Princìpi di matematica di Russell e la più specifica Confutazione dell’idealismo di Moore. Quest’ultima apparve su «Mind», la rivista che – diretta a lungo dallo stesso Moore – diventerà l’organo filosofico del realismo inglese. In La confutazione dell’idealismo Moore analizza a scopo critico quello che per lui è l’assunto fondamentale di ogni posizione idealistica: il principio berkeleyano per cui «essere è essere percepiti». Moore osserva che questa proposizione è molto ambigua, poiché pretende di asserire l’identità di due termini, «essere» e «essere percepiti», che non so-

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no affatto identici. La loro diversità appare evidente se pensiamo alla differenza che intercorre tra il «giallo» (essere) e la mia «sensazione del giallo» (essere percepito): dove è chiaro che nella seconda è contenuto qualcosa che nella prima era assente, cioè l’elemento della coscienza. La confutazione del principio berkeleyano appare ancora più chiara se confrontiamo tra di loro sensazioni diverse, ad esempio la «sensazione del blu» e la «sensazione del rosso»: entrambe le sensazioni – in quanto tali – contengono un elemento comune, quello della coscienza; mentre il «blu» e il «rosso» non hanno nulla in comune. Quindi, gli oggetti della sensazione (il «giallo», il «blu», il «rosso») sono altra cosa rispetto alle sensazioni del giallo, del blu o del rosso che noi proviamo nella nostra coscienza. L’essere non è riconducibile all’essere percepito, ma ha una sua realtà autonoma. Nella Confutazione, Moore considera oggetto della coscienza tanto le qualità (il giallo, il rosso) quanto gli oggetti fisici (la mia

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mano, questo tavolo). In un successivo saggio su La natura e la realtà degli oggetti di percezione (1905) Moore distingue invece nettamente tra i dati sensoriali (sense-data), che ci sono forniti dalla percezione attuale, e gli oggetti fisici tridimensionali, che non ci sono dati da questo tipo di percezione. Si presentano allora due tipi di problemi. Il primo è: che cosa dimostra l’esistenza degli oggetti fisici, cioè di un mondo esterno a noi? A questa domanda, Moore risponde in due importanti opere: Difesa del senso comune (1925) e La prova di un mondo esterno (1939). Non abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza degli oggetti esterni – argomenta Moore – perché «sappiamo già» che esistono: cioè, a fondamento della certezza del mondo esterno c’è un atto intuitivo, una conoscenza immediata. Il secondo problema è, invece, quello di chiarire la relazione che intercorre tra i dati sensoriali e gli oggetti esterni, cioè tra ciò che percepiamo immediatamente e ciò che conosciamo immediatamente. Su quale fondamento si basa, ad

esempio, l’asserzione secondo cui il bianco, il morbido, il liscio (che percepisco attualmente) sono parte della superficie della mia mano (che conosco altrettanto immediatamente)? Questa relazione, secondo Moore, rimane problematica, poiché esistono difficoltà a sostenere sia che le qualità percepite siano parte della superficie della mano, sia che ne costituiscano una semplice «apparenza», sia che la superficie della mano sia un termine che riunisce in sé le diverse qualità della mano. Queste ultime considerazioni mostrano come la ricerca filosofica di Moore proceda con estrema cautela, preoccupata di non introdurre affermazioni che non siano dimostrabili più che di estendere l’ambito di ciò che si può affermare. Lo strumento più adatto per condurre una tale ricerca, con tutte le cautele che essa comporta, è l’analisi del linguaggio ordinario, poiché proprio in esso trova l’espressione migliore quel senso comune che sta alla base della nostra conoscenza.

in poche... parole Il pragmatismo è un indirizzo di pensiero sorto negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento e diffusosi più tardi in Europa, dove esercita una vasta influenza soprattutto a partire dai primi decenni del Novecento. L’iniziatore di questa corrente fu Charles Sanders Peirce: a lui si deve l’elaborazione del concetto di credenza, la critica dell’intuizionismo cartesiano e dell’empirismo classico, la formulazione di un’originale teoria semiotica (dei segni). Secondo Peirce, la 216

verità di una credenza può essere accertata solo mediante il metodo sperimentale e i dati dell’esperienza non sono immediati, ma il frutto di un’inferenza. Peirce individua tre tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione e l’abduzione. Il ragionamento abduttivo coincide con il procedimento ipotetico-sperimentale, il solo in grado di approssimarsi progressivamente alla verità. Secondo Peirce, infine, ogni cosa ha una funzione semiotica, cioè può svolgere la funzione di se-

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gno (o come oggetto o come interpretante).

credenza Secondo Peirce la cre-

denza indica un’abitudine che costituisce una regola d’azione. Il significato della credenza è dato dalle sue conseguenze pratiche, cioè dalle azioni che essa suggerisce per risolvere una situazione di dubbio. Le conseguenze pratiche di cui parla Peirce hanno sempre carattere generale e sono pertanto abiti di azione – cioè procedure di comportamento – universalizzabi-

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li. La teoria della credenza è difatti elaborata da Peirce pensando soprattutto alle credenze scientifiche e alle abitudini procedurali che esse comportano. Anche James condivide la riconduzione del significato della credenza ai suoi effetti pratici. Ma egli riferisce la credenza a singole idee più che a enunciati: ad esempio, questa è per me una sedia se posso sedermici sopra, anche se in realtà si configura come un tronco tagliato o una tinozza rovesciata; viceversa una sedia esposta in un museo non è più uno strumento per sedersi, ma un oggetto di contemplazione estetica. Secondo James, dunque, le conseguenze pratiche dell’idea non esprimono soltanto un significato, ma la verità dell’idea. William James promosse il pragmatismo a livello internazionale, mettendo in secondo piano gli aspetti logico-metodologici evidenziati da Peirce e accentuandone gli aspetti etici e vitalistici. L’attenzione di James si concentra sulla vita psichica degli individui, da lui definita come un «flusso di sensazioni» (stream of feelings) che si fondono l’una nell’altra, sull’interazione reciproca tra la mente e l’ambiente, sulle basi emotive e passionali della credenza. Nell’ultima fase del suo pensiero, James si orienta verso una forma di monismo o di empirismo radicale, in base a cui vi è un’unica sostanza reale, né esclusivamente spirituale né esclusivamente materiale, una unica esperienza pura che si configura come una pluralità di relazioni.

volontà di credere È una delle

tesi più note di James. Nel caso di alcune credenze non suscettibili di verifica empirica – quali sono generalmente gli enunciati morali o religiosi – è legittimo credere in essi sulla base di una disposizione emotiva e prerazionale. In questo caso, infatti, la mia credenza può

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contribuire alla verificazione stessa della credenza. Facciamo un esempio: credere in Dio significa avere una concezione più sicura e armoniosa della vita; ma se non credo in Dio avrò scarse occasioni di riscontrare tale armonia nell’esistenza; se invece credo in lui mi sentirò confortato e sollevato anche nei momenti più difficili e, di fatto, la mia fede produrrà gli effetti che mi aspetto dall’esistenza di Dio. Lo sviluppo più importante del pragmatismo nel Novecento è rappresentato dallo strumentalismo di John Dewey. Il suo punto di partenza è costituito dall’esperienza, che – a differenza di Peirce e di James – egli non definisce sul piano della conoscenza, ma su quello dell’azione. A suo avviso, l’esperienza coincide con l’interazione tra l’organismo e l’ambiente e precede l’intervento della riflessione intellettuale. Secondo Dewey, il rapporto tra l’organismo e l’ambiente non è sempre armonico: ogni volta che si presenta una situazione di disagio (o per il mancato adattamento del primo al secondo o per la non conformità del secondo alle esigenze del primo), l’esperienza tende a tradursi in conoscenza, e cioè in un’attività di concettualizzazione con la quale si riflette sugli aspetti problematici dell’esistenza. Secondo Dewey, la conoscenza non consiste in un rapporto contemplativo con la realtà, ma in un processo di manipolazione dell’esperienza, con cui l’uomo si sforza di intervenire sulla realtà e di adattare le cose alle sue esigenze pratiche. Per Dewey, conoscere qualcosa equivale a trasformare una situazione indeterminata in una situazione completamente determinata, individuando attraverso il ragionamento le possibili soluzioni ai problemi così delineati. Sulla scia di James, anche per Dewey l’esperienza rivela una stretta in-

terdipendenza tra il soggetto e l’oggetto, tra la mente e il corpo, di modo che l’uno non può esistere senza l’altro. In ambito etico ed estetico, è assai rilevante la riflessione sull’origine dei valori e sul rapporto mezzi-fini. La questione morale non può essere affrontata occupandosi solo dei valori in sé, ma anche dei mezzi adoperati per raggiungerli. Nell’ambito delle azioni umane, così come in quello delle creazioni artistiche, fini e mezzi tendono a compenetrarsi l’uno con l’altro, in quanto i mezzi (il talento, le tecniche, i materiali) attraverso cui si vuole raggiungere uno scopo (l’opera d’arte) sono momenti integranti dello scopo stesso. In ambito politico, Dewey fu strenuo difensore di un liberalismo radicale e in ambito pedagogico fu promotore del principio dell’«imparare facendo», centrato sugli interessi concreti e sull’attività volontaria del bambino.

situazione problematica Con questa espressione Dewey indica una situazione indeterminata che diventa un problema per la coscienza, creando una condizione di incertezza e di dubbio. Situazione problematica e coscienza sono dunque correlate: l’una nasce quando nasce l’altra. Se, trovandomi in una città sconosciuta, passeggio a caso guardando le vetrine, può darsi che perda l’orientamento. Quando ciò avviene la situazione si configura come indeterminata, perché non sono più in grado di orientarmi e non so dove dirigermi. Tuttavia la situazione da indeterminata diventa problematica soltanto quando prendo coscienza di aver perso l’orientamento, ad esempio cessando di guardare le vetrine e decidendo di tornare in albergo. Solamente allora – essendo consapevole del problema e sentendolo come un disagio e fonte di dubbio – comincerò a pensare in che modo risol-

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verlo (per esempio consultando una guida o chiedendo informazioni, ecc.). Ovviamente ciò vale anche, e soprattutto, quando le situazioni prima indeterminate e poi problematiche hanno rilevanza scientifica.

strumentalismo Termine con il

quale Dewey, volendo dare una connotazione specifica al proprio pragmatismo, sottolinea il caratte-

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re strumentale dell’indagine e degli strumenti logici (proposizioni, ragionamenti, ecc.) di cui essa si serve: l’una e gli altri, infatti, non sono altro che «strumenti» per risolvere una situazione problematica.

transazione Con questo termine

Dewey indica il rapporto di stretta interconnessione tra gli aspetti della realtà, per esempio tra soggetto e oggetto, tra mente e cor-

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po, tra conoscenza e ambiente, ecc. La transazione si distingue dall’interazione perché quest’ultima avviene tra elementi separati e indipendenti, mentre la transazione costituisce i termini del rapporto (il soggetto è tale perché c’è un oggetto, la mente è tale perché c’è il corpo), esattamente come avviene nella sfera economica da cui il termine è tratto (il compratore è tale perché c’è il venditore).

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i testi t22 James / La volontà di credere James

La volontà di credere

sezz. IV, IX, X

La volontà di credere è una raccolta di saggi, pubblicata nel 1897, che desume il titolo dal più noto degli scritti che la compongono. In quest’ultimo James trasforma il pragmatismo peirciano da dottrina metodologica per determinare il significato di una credenza in uno strumento concettuale per difendere il diritto alla fede, laddove non si tratti di questioni dimostrabili razionalmente o scientificamente, ma di dottrine morali e religiose. «In tal modo – come ha scritto Nicola Abbagnano – il pragmatismo è per James soltanto un ponte di passaggio allo spiritualismo». Dopo aver descritto le condizioni alle quali è possibile «voler credere» [cfr. 7.2], James, nel brano riportato qui di seguito, spiega la legittimità del diritto a credere – James stesso ammette che l’espressione «diritto a credere» è per alcuni versi più giusta di «volontà di credere» – quando si verifichino quelle condizioni.

In breve, la tesi che intendo difendere è la seguente: la nostra natura di esseri passionali non soltanto ha titolo legittimo, ma ha anche il dovere di decidere una scelta tra proposizioni, ogni volta che si tratti realmente di una vera scelta che non può essere decisa, per sua natura, su una base puramente intellettuale 1, infatti, in queste condizioni, dire «non decidere, ma lascia aperta la questione», è a sua volta una decisione dettata dalle passioni, proprio come decidere per il sì o per il no, ed è accompagnata dallo stesso rischio di perdere la verità2. Questa tesi, espressa in termini così astratti, diverrà presto chiara. [...] Un organismo3 sociale di qualsiasi tipo, grande o piccolo, è quello che è perché ciascun membro svolge il suo compito confidando che gli altri membri svolgeranno simultaneamente il 1. L’ambito in cui vige il diritto-dovere

di credere è dunque circoscritto a due livelli. In primo luogo, esso riguarda soltanto le questioni che non possono essere dichiarate vere o false in base a un procedimento razionale (o empirico-razionale, come nel caso delle questioni scientifiche). In secondo luogo, tra le opzioni non dirimibili razionalmente e scientificamente sono suscettibili di un atto di fede solo quelle che presentano congiuntamente i caratteri della vitalità, dell’inevitabilità e dell’im-

loro. In tutti i casi in cui un certo risultato desiderato viene raggiunto con la cooperazione di molte persone indipendenti, la sua esistenza, come fatto, è una semplice conseguenza della fiducia, preliminare e reciproca, delle persone che sono immediatamente interessate. Un governo, un esercito, un sistema commerciale, una nave, un’università, una squadra di atletica si trovano in questa condizione; senza di essa non soltanto non si giunge ad alcun risultato, ma non si riesce nemmeno a fare un tentativo. Un intero treno, con tutti i suoi passeggeri (anche abbastanza ben piantati individualmente) saranno derubati da pochi ladri, semplicemente perché questi ultimi possono contare sulla reciproca collaborazione, mentre ogni singolo passeggero teme che, se fa qual-

portanza. In questi casi – e solo in questi casi – la decisione su base emotiva non solo è legittima, ma è doverosa. 2. Si risente qui l’eco dell’argomentazione pascaliana per cui, quando si tratta di decidere sull’esistenza di Dio, la sospensione della decisione equivale a una decisione negativa. Del resto, James stesso ammette esplicitamente l’influenza su di lui dell’argomento pascaliano della «scommessa». 3. L’ambito delle opzioni in cui vige il diritto a credere si può dividere in due

sfere: da un lato, quella dei comportamenti individuali e sociali che possono essere influenzati dalla fiducia nel loro esito positivo; dall’altro, quella delle questioni etiche e religiose. In questo capoverso, James si sofferma sulla prima sfera, anche perché trattando di essa è più facile mostrare empiricamente come la fede possa a volte produrre la sua stessa verificazione. Ma il suo obiettivo finale è l’applicazione della volontà di credere alla morale e alla religione.

i testi

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che movimento di resistenza, verrà fatto secco prima che qualcun altro gli venga in aiuto. Se ognuno di noi credesse che tutto il treno insorgesse immediatamente insieme a noi, come un sol uomo, insorgeremmo individualmente e allora non si tenterebbe mai una rapina al treno. Ci sono quindi casi in cui un fatto non può giungere a verificarsi se non esiste preliminarmente la fiducia che possa effettivamente giungere a compimento. E nel caso che la fiducia in un fatto possa contribuire a creare quel fatto, sarebbe una logica folle quella che affermasse che la fede che se ne va per la sua strada senza aspettare la prova scientifica è «la forma più bassa di immoralità» nella quale possa cadere un essere pensante. Eppure questa è la logica con cui i nostri assolutisti scientifici pretendono di regolare le nostre vite! Quindi, nelle verità che dipendono dalla nostra azione personale, la fiducia basata sul desiderio è certamente una cosa legittima e forse anche indispensabile. A questo punto però si dirà che questi in fondo non sono altro che semplicissimi casi umani e non hanno nulla a che fare con le grandi questioni cosmiche, come il problema della fede religiosa. E quindi affrontiamo direttamente questo tema. Le religioni hanno forme così diverse fra loro che quando parliamo del problema religioso lo dobbiamo considerare nei suoi tratti più generici e nel senso più ampio. Che cosa intendiamo quindi con l’ipotesi religiosa? La scienza dice che le cose esistono; la moralità dice che alcune cose sono migliori di altre; la religione, nella sua essenza, dice due cose. In primo luogo, dice che le cose migliori sono quelle più eterne, le cose che sono più grandi di noi, quelle che nell’universo scagliano l’ultima pietra, per così dire, e dicono l’ultima parola. [...] La seconda affermazione della religione è che noi ci sentiremo meglio fin da questo momen4. Si noti come l’essenza della religione viene spogliata da James di ogni riferimento alla metafisica e alla teologia tradizionali. La religione è, infatti, ricondotta a due aspetti essenziali: a) l’affermazione di valori superiori a

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to se crediamo che la sua prima affermazione sia vera4. Consideriamo ora quali sono gli elementi logici della situazione nel caso che l’ipotesi religiosa sia vera in entrambe le sue parti. (Naturalmente dobbiamo ammettere questa possibilità fin dall’inizio. Se dobbiamo discutere il problema, esso deve comportare un’ipotesi vivente. Se per qualcuno di voi la religione fosse un’ipotesi che non può avere alcuna possibilità vitale di essere vera, allora non muovete un passo di più. Io parlo soltanto agli «altri»). Procedendo in questo modo, vediamo in primo luogo che la religione si offre come scelta di grande importanza. Si suppone che, fin da ora, ci guadagnamo qualche cosa con la nostra credenza, e che perdiamo, se la credenza ci manca, qualche bene vitale. In secondo luogo, la religione è un’opzione che si impone a forza, per tutto il bene che essa comporta. Non possiamo sfuggire al problema restando scettici e aspettando maggiori lumi, perché, sebbene noi evitiamo l’errore comportandoci in quel modo, nel caso che la religione non sia vera, perdiamo i suoi beni nel caso che lo sia, con la stessa certezza con cui li perderemmo nel caso che decidessimo apertamente di non credere affatto. È come se un uomo esitasse indefinitamente di chiedere ad una certa donna di sposarlo perché non è perfettamente sicuro che questa si riveli un angelo dopo che lui l’ha portata a casa. Quella possibilità di fare l’esperienza di che cosa sia un angelo, comportandosi lui in quel modo, gli verrebbe meno, proprio come se si risolvesse a sposare un’altra donna. Lo scetticismo quindi non consiste soltanto nell’evitare una certa scelta; è invece la scelta di un tipo particolare di rischio. È meglio correre il rischio di perdere la verità che avere la possibilità di commettere un errore: questa è la posizione di quel signore che impone il suo veto sulla verità5. [...] Se la religione fosse vera e le prove a suo favo-

quelli umani (ma non per questo assoluti); b) la necessità morale soggettiva di accettare come veri questi valori. 5. La conclusione dunque è la seguente. In primo luogo, la verità della religione non può essere verificata da pro-

7. il pragmatismo

cedimenti razionali o scientifici. Esiste, quindi, la condizione preliminare perché la religione possa essere dichiarata vera in base a un atto di fede. In secondo luogo, l’opzione religiosa – dire di sì o di no all’esistenza di Dio e di un ordi-

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re fossero ancora insufficienti, io non vorrei usare i vostri strumenti per spegnere i fuochi della mia natura (questo mi darebbe la sensazione che dopo tutto in questa faccenda i vostri strumenti hanno avuto qualche loro influsso) nei confronti dell’unica possibilità che ho nella vita di mettermi dalla parte vincente; quella possibilità infatti dipenderebbe, naturalmente, dalla mia disponibilità a correre il rischio di agire come se il mio bisogno passionane assiologico del mondo – è viva, importante e ineludibile. Esistono, quindi, anche le condizioni conclusive perché si abbia il diritto di credere alla religione.

le di guardare al mondo in una prospettiva religiosa possa avere significato profetico e veridico.

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che modo la nostra natura di esseri passionali influisce sulla formazione delle credenze? Evidenzia sul testo la risposta. 2. Su quali affermazioni si basa l’ipotesi religiosa? A che scopo James ricorre in questo testo all’esempio della religione? 3. Evidenzia sul testo le espressioni che indicano l’appartenenza di James al pragmatismo.

t23 Dewey / Un nuovo concetto di esperienza Dewey

Intelligenza creativa

sez. I

La nozione di esperienza occupa una posizione centrale nel pensiero deweyano. Ma essa è rilevante soprattutto per la nuova accezione in cui essa viene assunta da Dewey (e, in generale, dai pragmatisti) rispetto alla tradizione dell’empirismo classico. Consapevole di ciò, in un saggio del 1916, intitolato Necessità di un risanamento della filosofia e pubblicato in un volume collettivo (vi collaborò tra gli altri anche Mead) dal titolo Intelligenza creativa. Saggi sull’atteggiamento pragmatico, egli enuclea chiaramente i punti di divergenza tra la vecchia e la nuova concezione.

Una critica della filosofia attuale dal punto di vista della qualità tradizionale dei suoi problemi deve cominciare da qualcosa, e la scelta del principio è arbitraria. A me è sembrato che la nozione di esperienza implicita nelle questioni più attivamente dibattute offra un punto di partenza naturale. Poiché, se non vedo errato, è proprio il concetto tradizionale di esperienza comune alla scuola empiristica e ai suoi avversari che tiene vivi molti dibattiti anche su argomenti che da esso sono chiaramente del tutto lontani, mentre quel concetto stesso è del tutto 1. Per la tradizione filosofica l’esperienza è una forma di conoscenza: più precisamente, per l’empirismo classico essa è la prima e fondamentale forma della conoscenza. Per Dewey, invece, la conoscenza, pur nascendo dall’espe-

insostenibile alla luce della scienza e della prassi sociale attuali. Per conseguenza io comincio con una breve esposizione di alcuni dei contrasti principali fra la caratterizzazione ortodossa dell’esperienza e quella congeniale alle condizioni presenti. 1) Il punto di vista ortodosso considera l’esperienza primariamente come un fatto conoscitivo. Ma ad occhi che non guardano attraverso lenti invecchiate essa appare sicuramente come un fatto del rapporto tra essere vivente e il suo ambiente naturale e sociale1. 2) Secondo

rienza, non è originariamente costitutiva di essa. L’esperienza è primariamente data da un’interazione ambientale tra soggetto e oggetto o, come egli ebbe a esprimersi in Democrazia ed educazione, un «fatto attivo-passivo».

«Ogni trattazione dell’esperienza – dirà poco dopo Dewey – deve oggi accordarsi con la considerazione che esperimentare significa vivere, e che il vivere procede dentro e a causa del mezzo ambiente, e non nel vuoto». L’espe-

i testi

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la tradizione l’esperienza è (almeno primariamente) una cosa psichica, compenetrata di «soggettività». Quello che l’esperienza suggerisce di se stessa è un mondo genuinamente oggettivo che entra nelle azioni e nelle passioni degli uomini e che subisce modificazioni attraverso le loro risposte2. 3) Nella misura in cui la dottrina consacrata ammette qualcosa al di là del mero presente, è il passato esclusivamente che conta. L’essenza dell’esperienza viene posta nella registrazione di ciò che è avvenuto, nel riferimento a un precedente. L’empirismo viene concepito come legato a ciò che è stato o che è «dato». Ma la esperienza nella sua forma vitale è sperimentale, sforzo di cambiare il dato; è caratterizzata da una proiezione, da un protendersi verso il futuro. Il suo tratto saliente è la connessione con un futuro3. 4) La tradizione empiristica è legata al particolarismo. I nessi e le continuità vengono supposti come estranei all’esperienza, come sottoprodotti di dubbia validità. Un’esperienza che è un sottostare a un ambiente e uno sforzo per dominar-

rienza è, dunque, una condizione originaria dalla quale si sviluppa, come momento successivo, la conoscenza. L’esperienza è immediata, comportando l’incontro tra un essere vivente e il suo ambiente, precedentemente a ogni riflessione: esperienza è consumare un pasto, parlare con un amico, guardare un quadro. La conoscenza comporta, invece, un aspetto riflessivo, che scaturisce dalla percezione di un aspetto problematico dell’esperienza: mi chiedo come avviene la digestione, se il mio amico abbia torto o ragione, se il quadro sia bello o che cosa esso rappresenti. 2. Nella prospettiva tradizionale (non soltanto empiristica), l’esperienza è una rappresentazione sensoriale-mentale della realtà. Pertanto, essa è sostanzialmente soggettiva, sia nel senso (cosa su cui insistono gli avversari dell’empirismo) che è individuale e connessa a particolari condizioni percettive, sia nel senso che in ogni caso essa è data dalle «impressioni» che il soggetto riceve dalla realtà ovvero dalle idee che da queste impressioni derivano (si pensi a Hume). Nei casi estremi (Berkeley), la realtà stessa viene

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lo in nuove direzioni è pregnante di nessi4. 5) Nell’accezione tradizionale, esperienza e pensiero sono termini antitetici. E l’inferenza, in quanto è altra cosa da un ravvivamento di ciò che è stato dato in passato, va oltre l’esperienza; e perciò essa o è priva di validità oppure è una misura della disperazione colla quale, usando l’esperienza a guisa di trampolino, noi ci lanciamo in un mondo di cose stabili e di altre persone. Ma l’esperienza, presa libera dalle restrizioni imposte dall’antico concetto, è piena di inferenza. Non esiste all’evidenza nessuna esperienza cosciente senza inferenza; la riflessione è nativa e costante5. GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono le caratteristiche dell’esperienza secondo la tradizione empiristica classica? Evidenziale sul testo. 2. Quali sono i tratti dell’esperienza che gli empiristi non sarebbero stati in grado di vedere e che, invece, Dewey mette in primo piano?

ridotta all’essere percepita da parte del soggetto. Nella prospettiva di Dewey, invece, l’esperienza è assolutamente oggettiva, essendo data dall’interazione tra un essere vivente e il mondo naturale in cui esso vive e opera: le nostre stesse rappresentazioni di quel mondo, che a noi appaiono «soggettive», non sono che una componente del contenuto oggettivo dell’esperienza, un fatto che interagisce con gli altri fatti. 3. Comportando l’interazione tra organismo e ambiente, l’esperienza non riguarda soltanto l’azione del «mondo esterno» sul «soggetto», la quale, isolata dal resto, appare necessariamente come passata, come un dato conoscitivo che si può soltanto registrare. Al contrario, l’esperienza concerne anche la risposta che l’organismo dà alla sollecitazione dell’ambiente; risposta che, come ogni evento operativo, è rivolta alla modificazione dell’ambiente, cioè al futuro. 4. Per Locke, l’esperienza fornisce soltanto idee semplici, non ulteriormente scomponibili: toccherà all’intelletto il comporle in idee complesse. Analogamente, per Hume le impressioni empiriche sono di per sé «sciolte e separa-

7. il pragmatismo

te» le une dalle altre. Dewey viceversa, concependo l’esperienza come interazione tra organismo e ambiente, dà ampio risalto alle interconnessioni: anzi, l’esperienza non è costituita da fatti, ma da relazioni tra fatti. 5. Nell’empirismo tradizionale la cesura tra esperienza (passiva) e intelletto (attivo) è netta. Il pensiero può soltanto riordinare i dati dell’esperienza secondo criteri che non sono però più di derivazione empirica. Pertanto – nota Dewey – l’elaborazione discorsiva del pensiero, cioè l’inferenza che parte dal particolare empirico dato per giungere a conclusioni generali, o è rifiutata come non valida o è accettata nella sua sola funzione pratica di orientamento dell’azione (si pensi alla critica humiana alla nozione di causalità). Nella prospettiva pragmatistico-strumentalistica di Dewey, viceversa, il pensiero è la prosecuzione dell’esperienza: più esattamente, è il momento in cui l’esperienza, da risposta immediata all’ambiente, si trasforma in consapevolezza di un problema e, quindi, in risposta mediata da un ragionamento logico.

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esercizi/7 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le occorrenze del termine «fallibilismo» presenti in questo capitolo. 2. Evidenzia le espressioni che definiscono la nozione di verità per Peirce, James e Dewey. 3. Evidenzia le espressioni che definiscono il nuovo concetto di esperienza sostenuto da Dewey. 4. Evidenzia il ruolo del ragionamento nella formulazione delle possibili soluzioni di una situazione problematica. 5. Evidenzia le espressioni che giustificano la definizione del pensiero politico di Dewey come «liberalismo radicale». 6. Evidenzia i punti qualificanti della pedagogia di Dewey. Dizionario filosofico 7. Definisci i seguenti concetti: pragmaticismo (Peirce) • abduzione (Peirce) • flusso di sensazioni (James) • strumentalismo (Dewey) • transazione (Dewey) • learning by doing (Dewey)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 8. Quali sono i metodi con cui, secondo Peirce, formiamo e fissiamo le «credenze»?

11. Quali sono i tratti caratterizzanti dell’ultima fase del pensiero di James, detta anche empirismo radicale? 12. Quali sono le fasi della logica dell’indagine, elaborata da Dewey? 13. Perché l’esperimento è, secondo Dewey, la sola garanzia dell’efficacia dell’idea? 14. Che cosa sono i valori per Dewey e in che modo è possibile agire preferendo l’uno all’altro? 15. Che differenza c’è, secondo Dewey, tra arti belle e arti utili? 16. Illustra la relazione che Dewey istituisce fra «libertà» e «valore». Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 17. Con quale argomentazione Peirce sostiene che anche l’esperienza è frutto di un’inferenza? 18. Illustra la teoria semiotica di Peirce. 19. In quali casi, secondo James, l’uomo vuole credere anche senza una verifica sperimentale delle sue credenze? 20. Qual è, secondo Dewey, il compito della filosofia? Confronta la sua concezione con quella di Dilthey. 21. Illustra la concezione deweyana del rapporto fra mente e corpo. 22. Che cosa intende Dewey per coscienza? In che cosa si differenzia la sua posizione da quella degli idealisti e da quella dei realisti? 23. Illustra il rapporto fra esperienza, valore e democrazia nel pensiero di Dewey.

9. Da che cosa dipende, secondo Peirce, la chiarezza di un’idea?

24. Confronta la nozione di valore proposta da Dewey con quella discussa – nell’ambito del neokantismo tedesco – da Windelband e da Rickert.

10. Qual è la tesi avanzata da James con la sua teoria dell’azione riflessa?

25. Che cosa intende Dewey per convergenza di mezzi e di fini?

esercizi/7

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conoscenza dell’universale concreto, ossia del concetto che è sintesi di individualità e universalità; 2) l’attività pratica, che si articola in economia, volizione del particolare, cioè dell’utile, ed etica, volizione dell’universale, cioè del bene. politica, scienza e filosofia

8. il neoidealismo italiano i contenuti hegelismo e marxismo nell’italia unita

Verso la fine dell’Ottocento ha luogo anche in Italia una reazione contro il positivismo e si affermano filosofie che si richiamano all’insegnamento hegeliano, già diffuso nell’Ottocento soprattutto nella cultura meridionale. Figure di spicco dell’hegelismo napoletano furono Bertrando Spaventa, per il quale la filosofia italiana del Rinascimento aveva precorso gli sviluppi del pensiero europeo successivo e preparato l’Italia ad essere una nazione libera come le altre, e Francesco De Sanctis, noto per le sue riflessioni sull’opera d’arte, specialmente letteraria, intesa come espressione della

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coscienza morale di un popolo. Antonio Labriola, attivo a Roma, fu invece sensibile alle sollecitazioni provenienti dal materialismo storico di Marx e di Engels: il suo contributo più importante consiste nella critica del rapporto di derivazione deterministica della sovrastruttura (l’arte, la religione, la morale) dalla struttura economico-sociale. croce e le forme dello spirito

Partendo da un’analisi critica del marxismo, considerato un semplice canone di interpretazione storica, Croce perviene all’elaborazione di una filosofia dello spirito, che distingue tra due attività fondamentali: 1) l’attività teoretica (o conoscitiva), che si articola in estetica, conoscenza intuitiva dell’individuale, e logica,

8. il neoidealismo italiano

Nella sfera economica Croce fa rientrare anche la politica, che è volontà che persegue l’utile e quindi non è né morale né immorale, ma anche la scienza, perché i concetti di cui essa fa uso sono finzioni utili, ossia pseudoconcetti. È soltanto con la filosofia che si ha conoscenza dell’universale concreto, che è storico, perché la realtà stessa è storica. In questo senso Croce denomina la propria concezione storicismo, come identità di filosofia e storia e – precisamente – storia dello sviluppo dello spirito universale nelle sue forme. dialettica dei distinti e circolarità dello spirito

Riallacciandosi a Hegel, Croce sostiene che la relazione tra le forme dello spirito è dialettica. Hegel aveva sostenuto che anche tra le forme dello spirito assoluto sussiste una dialettica culminante nella filosofia come superamento dell’opposizione tra le forme inferiori dell’arte e della religione. In realtà per Croce la dialettica degli opposti è operante all’interno di ciascuna delle forme, ma tra queste forme stesse vige una dialettica dei distinti, che non porta al superamento di nessuna di esse, in quanto ogni forma implica la precedente ed è implicata dalla successiva. In ciò consiste quella che Croce chiama circolarità dello spirito, che si sviluppa sempre più arricchito passando continuamente attraverso tutte le sue forme. la storia e la libertà

La storia stessa è per Croce opera dello spirito, che è libertà – e non tanto dei singoli individui. Secondo questa prospettiva, la storia può essere concepita come progressiva

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realizzazione della libertà anche attraverso momenti (ad esempio, il fascismo) che si presentano apparentemente come la negazione di essa. È sulla consapevolezza di ciò che si può costituire la storia come azione, la quale ha il suo principio nella libertà. gentile e la critica del marxismo

Anche Gentile inizia con un’analisi del marxismo, da lui considerato una filosofia della prassi. La caratteristica principale di quest’ultima è che non concepisce l’oggetto come un dato, ma come l’esito dell’azione umana, che a sua volta torna a modificare il soggetto. Affermando il primato della base materiale, ossia dell’economia, rispetto al pensiero e allo spirito, il marxismo ha però scambiato il relativo con l’assoluto,

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perché solo lo spirito è suscettibile di storia.

significa superare l’alterità come tale, riportandola alla sua unità.

il pensiero è atto puro

il volere universale e lo stato etico

Pensare è attività, poiché il pensiero è in quanto pone l’oggetto e quindi fa: nulla esiste se non nell’atto in cui è pensato. In ciò consiste l’attualismo, che identifica il pensare con il pensare in atto (o pensiero pensante); il pensiero astratto (o pensiero pensato) è, invece, ciò che è diventato un fatto – e non è più atto. Soggetto del pensiero non è l’io empirico (o individuale), ma l’Io trascendentale. Quest’ultimo va concepito come un processo creativo, e non come una sostanza: se fosse tale, infatti, sarebbe già un fatto (ossia pensiero pensato). L’Io trascendentale è unico, è l’unità dello spirito di contro alla molteplicità degli io empirici e delle cose: per esso conoscere

Poiché il volere coincide con il conoscere che si traduce in realtà, Gentile può anche sostenere l’identità di teoria e prassi. Il volere come volere comune e universale è lo Stato, la cui volontà è il diritto che trova la propria attuazione nella legge (ossia volontà voluta). Fuori dello Stato non ci sono dunque diritti o libertà individuali, né l’etica può fungere da criterio di giudizio della politica e dell’azione dello Stato. Lo Stato appare dunque come una sorta di persona morale che ha fini e volontà superiori a quelli degli individui: in ciò consiste lo Stato etico, che per Gentile doveva trovare attuazione nel fascismo.

gli strumenti in poche… parole dialettica dei distinti / «l’intuizione è espressione» / concetto / pseudoconcetto / attività pratica / atto puro / Stato etico

i testi a. nel manuale t24 Croce/Intuizione ed espressione artistica t25 Gentile/Stato etico e moralità

b. on-line Croce/Dialettica degli opposti e dialettica dei distinti Croce/Male e vitalità nella storia Gentile/La dialettica del pensiero

confronti La concezione della storia e della filosofia in Dilthey e in Croce

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Hegelismo e marxismo nell’Italia unita il ritorno a hegel

Negli ultimi decenni dell’Ottocento il positivismo aveva raggiunto in Italia i suoi massimi trionfi [  approfondimento, p. 101], grazie soprattutto a brillanti risultati conseguiti nell’ambito di discipline e ricerche particolari (dalla psicologia alla sociologia). Malgrado ciò, esso aveva al contempo mostrato chiari segni di debolezza sul piano dell’elaborazione filosofica generale. L’offensiva antipositivistica destinata a ottenere i maggiori successi è quella sferrata – all’inizio del nuovo secolo – da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile, che si richiamano entrambi alla tradizione hegeliana. Già verso il 1843, il pensiero hegeliano era penetrato a Napoli, soprattutto per la trattazione dell’estetica e per la concezione della storia, intesa come manifestazione progressiva dello spirito del mondo in singoli popoli e nazioni.

spaventa: la filosofia è manifestazione dello spirito di un popolo

Figura di spicco dell’hegelismo napoletano fu Bertrando Spaventa (18171883). Nel 1860, egli veniva chiamato a insegnare Filosofia all’università di Bologna e l’anno successivo a quella di Napoli: in concomitanza con la formazione dell’unità nazionale, egli avvertiva l’esigenza d’individuare una tradizione filosofica nazionale. Il suo presupposto era che la filosofia è la manifestazione più significativa della vita di un popolo libero, in quanto in essa si compendiano hegelianamente tutti i momenti antecedenti dello spirito.

filosofia italiana ed europea

La filosofia italiana, secondo Spaventa, non era nata nell’antica Magna Grecia o dalla Scolastica, come comunemente si pensava, ma nel Rinascimento, come affermazione di libertà nei confronti dell’autorità dello stesso pensiero scolastico. Bruno e Campanella avevano precorso gli sviluppi successivi della filosofia europea – ossia, rispettivamente, la dottrina della sostanza di Spinoza e il cogito di Cartesio. A sua volta Vico, sintetizzando l’oggettivismo di Bruno con il soggettivismo di Campanella, aveva anticipato la grande filosofia tedesca. In precedenza Spaventa aveva criticato Rosmini e Gioberti, ma ora li equiparava a Kant e Hegel: con essi la filosofia italiana aveva riacquistato la sua peculiarità nazionale e, al tempo stesso, si era ricongiunta all’Europa. Rosmini e Gioberti, infatti, affermando il primato del soggetto conoscente (o spirito), avrebbero suggerito – secondo Spaventa – un nuovo cominciamento per la logica hegeliana. Per entrambi, infatti, l’essere «non è fuori dell’atto del pensare». Il punto di partenza della logica, dunque, non è «l’essere assolutamente vuoto e indeterminato», ipotizzato da Hegel, ma l’atto stesso del pensare.

il primato filosofico della nazione italiana

Nell’ottica di Spaventa, dunque, la filosofia italiana assumeva una funzione di precorrimento: essa aveva posto i semi, che avevano trovato sviluppo presso altre nazioni, da cui erano tornati al luogo di origine – in Italia – in forma nuova e arricchita. In tal modo, venivano poste le basi per non essere, nel futuro, «scissi dalla vita universale» e per divenire «nazione libera ed uguale nella comunità delle nazioni».

l’estetica di de sanctis

Dall’estetica di Hegel trasse ispirazione Francesco De Sanctis (1817-1883). Dapprima esule a Torino e a Zurigo, dove insegnò, fu poi ministro del-

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l’Istruzione nell’Italia unita e autore di numerosi studi di critica letteraria, oltre che di una celebre Storia della letteratura italiana. Egli considerò l’opera d’arte il prodotto autonomo della fantasia, facoltà creatrice spontanea, che realizza una sintesi compiuta di contenuto e di forma. Nell’opera d’arte la forma non è qualcosa che viene ad aggiungersi dall’esterno al contenuto, ma si genera in connessione a esso nella mente dell’artista. Poiché l’artista è sempre legato a una precisa situazione storica, l’opera d’arte è al tempo stesso espressione della coscienza morale e civile di un popolo. Secondo questa prospettiva, la storia della letteratura è contemporaneamente storia morale e civile di una nazione. Nei suoi ultimi anni, De Sanctis avrebbe salutato con favore la diffusione del darwinismo, visto come affermazione dei contenuti reali della vita, contro le evasioni romantiche dalla realtà. Sulla filosofia di Hegel si formò Antonio Labriola (1843-1904). A partire dal 1874 fu professore di Filosofia morale e Pedagogia nell’università di Roma e, dal 1887, ebbe anche l’incarico di Filosofia della storia. Inizialmente vicino alla Destra storica, nel 1879 compì un viaggio in Germania, su incarico del ministero dell’Istruzione Pubblica, per studiarvi l’ordinamento scolastico. Qui cominciò a nutrire simpatia per il movimento socialista, ma soltanto verso il 1890 aderì esplicitamente al marxismo, intrattenendo rapporti epistolari con Engels e Kautsky e pubblicando opere orientate in questo senso, quali In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), Del materialismo storico (1896) e Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898-99).

vita e opere di labriola

Nel 1890, la lettura dei testi di Marx e di Engels lo condusse a ravvisare nel materialismo storico la spiegazione oggettiva della dinamica storica attraverso la lotta di classe. Alle teorie che separavano il piano dei valori da quello degli interessi materiali di cui le classi sociali sono portatrici, Labriola contrappose le tesi che «le idee non cascano dal cielo» e la storia delle idee «non consiste nel circolo vizioso delle idee che spieghino se stesse». Per questa via Labriola riprendeva il tema del rapporto fra struttura e sovrastruttura [cfr. 3.6], respingendo tuttavia ogni riduzione deterministica della seconda alla prima. Si trattava, invece, di un processo complicato di derivazione e mediazione fra questi piani, che invitava a guardarsi dalla tentazione di dedurre meccanicamente i prodotti dell’attività storica umana (l’arte, la religione, la morale) dalla situazione economica e sociale, che pure era la base imprescindibile di essi. L’uomo – affermava Labriola – «produce e sviluppa se stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano anche determinate correnti di opinioni, di credenze, di fantasia, di aspettazioni».

le idee non sono «mere apparenze e bolle di sapone»

2. Croce: la filosofia dello spirito Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (in Abruzzo) nel 1866, da una famiglia di ricchi proprietari terrieri; compì i suoi primi studi a Napoli, ma nel 1883 i suoi genitori morirono entrambi durante il terremoto di Casamicciola. Da allora egli visse a Roma presso un cugino del padre, Silvio Spaventa, 8. il neoidealismo italiano

la formazione da autodidatta

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autorevole esponente della Destra storica, fratello di Bertrando. Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza, Croce preferì seguire i corsi filosofici di Antonio Labriola, e rinunciò così a laurearsi. Nel 1886 tornò a Napoli, ove si dedicò a ricerche erudite di storia e letteratura, e nel 1893 compose la memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Tra il 1895 e il 1900, stimolato da Labriola, si immerse nello studio del marxismo, scrivendo alcuni saggi poi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxista (1900). l’amicizia con gentile e la distanza dall’accademia

Nel frattempo strinse amicizia con Giovanni Gentile, anch’egli impegnato nella critica del marxismo, il quale divenne il suo principale collaboratore nella rivista «La Critica», da lui fondata nel 1902 per propugnare la rinascita dell’idealismo. Tale rivista – con i suoi articoli di filosofia, storia e critica letteraria – avrebbe esercitato un’influenza determinante sulla vita culturale e politica italiana sino al 1943. In contatto con le figure più rappresentative della cultura europea, Croce svolse la sua attività fuori dalle università attraverso questa rivista e con i suoi scritti, mantenendo un distacco critico verso la figura del filosofo professionale dedito alla speculazione pura.

i volumi della «filosofia dello spirito»

Nel 1902 Croce pubblicò l’opera che gli avrebbe dato vasto successo anche presso un pubblico non strettamente interessato ai problemi filosofici: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Essa costituisce il primo volume di quella che fu chiamata da Croce «Filosofia dello spirito». Gli altri volumi sono: Logica come scienza del concetto puro (1909), Filosofia della pratica. Economia ed etica (1909) e Teoria e storia della storiografia (1917).

la collaborazione con laterza

l’attività politica e l’antifascismo

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Nel 1906 per sua iniziativa prese avvio presso Laterza – l’editore dei suoi scritti – la «Collezione dei classici della filosofia moderna», il cui primo volume è l’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, tradotta da Croce stesso. In quello stesso anno egli pubblicò il saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. Nominato senatore nel 1910, Croce assunse un atteggiamento di neutralità durante la Prima guerra mondiale, né condivise gli atteggiamenti nazionalistici antitedeschi. Nel 1920-21 fu ministro della Pubblica Istruzione nel governo presieduto da Giolitti. Di fronte all’avvento del fascismo, nel 1922, mantenne dapprima un atteggiamento di cautela, vedendo nel fascismo stesso una «reazione giovanile patriottica», che si sarebbe spenta presto consentendo la restaurazione di uno Stato liberale rafforzato. Dopo il delitto Matteotti (1924) assunse una netta posizione antifascista in difesa della libertà, rompendo definitivamente i rapporti di amicizia con Giovanni Gentile. Nel 1925, in risposta a un Manifesto degli intellettuali fascisti scritto da Gentile, contrappose un altro manifesto, sottoscritto da vari intellettuali antifascisti, nel quale denunciava il ricorso alla violenza e la soppressione della libertà di stampa da parte del regime. Per vent’anni, con il suo atteggiamento e i suoi scritti – tra i quali ebbero notevole successo la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), la Storia d’Europa nel secolo XIX (1932) e La storia come pensiero e come azione (1938) – Croce fu un punto di riferimento per quanti si opposero al regime fascista. 8. il neoidealismo italiano

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Dopo la liberazione fu ministro nei governi Badoglio e Bonomi e presidente del partito liberale, ma dal 1948 tornò a dedicarsi prevalentemente agli studi, curando la pubblicazione dei «Quaderni della Critica» (1945-51) e occupandosi dell’Istituto di Studi storici da lui fondato a Napoli, città nella quale morì nel 1952.

gli ultimi anni

Il primo scritto teorico di Croce – La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893) – ha come obiettivo polemico la tesi d’impronta positivistica, sostenuta dallo storico Pasquale Villari, secondo cui la storia è scienza e deve quindi assumere a modello le procedure delle scienze. Per Croce, invece, la storia non può essere scienza: quest’ultima, infatti, ha per oggetto l’universale, ossia l’astratto, mentre la storia – come l’arte – riguarda il concreto, l’individuale. Per questo motivo, la storia consiste nella narrazione di ciò che è accaduto e non presuppone l’esistenza di un disegno prestabilito o provvidenziale. Con questa affermazione, Croce si contrapponeva a Hegel e interpretava la storia come il risultato dell’agire degli uomini, sulla base delle condizioni oggettive, ma anche degli ideali che ne orientano l’azione. Per questo aspetto, egli si ispirava all’insegnamento di Labriola, che negli ultimi anni del secolo – come si è visto [cfr. 8.1] – andava abbracciando decisamente il marxismo e sollecitava anche Croce a occuparsene.

la storia non è una scienza

Da Labriola – a cui dedica il volume Materialismo storico ed economia marxista (1900) – Croce tuttavia si discosta, asserendo che il materialismo storico è un canone d’interpretazione storica più che una filosofia generale della storia. In altre parole, il marxismo richiama l’attenzione dello storico sul sostrato economico delle società in modo da comprenderne meglio le configurazioni e gli avvenimenti. Alla luce di queste considerazioni, Il Capitale di Marx si presenta a Croce – più che come un trattato di economia o una ricerca storica – come una costruzione ipotetica e astratta di carattere sociologico e comparativo, volta a chiarire le condizioni del lavoro nelle società e la formazione del profitto del capitale. Secondo questa prospettiva, il socialismo non rappresenta per Croce lo sbocco inevitabile di un processo prevedibile in base alla conoscenza scientifica delle leggi della storia; esso gli appare invece fondato su un presupposto morale – anziché scientifico – che richiede di essere perseguito grazie alla persuasione e alla forza del sentimento.

il marxismo e l’interpretazione della storia

Lo studio della storia in tutte le sue manifestazioni metteva Croce di fronte alla pluralità di forme nelle quali si esplica l’attività umana. Egli cercò di cogliere lo specifico di ciascuna forma distinguendola da ogni altra attraverso un procedimento di esclusione e di negazione che evitasse sovrapposizioni e confusioni:

la storia e l’attività spirituale dell’uomo

Noi, per esempio, parliamo dello spirito ossia dell’attività spirituale in genere; ma parliamo anche, a ogni istante, delle forme particolari di quest’attività spirituale. E, mentre le consideriamo tutte come costitutive della compiuta spiritualità (e la deficienza di alcuna d’esse ci offende e ci muove al rimedio, e l’assenza totale o quasi ci spaventa come assurda o mostruosa), siamo poi vigili e gelosi perché l’una non si confonda con l’altra; e perciò riproviamo chi giudi8. il neoidealismo italiano

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ca d’arte con criterî morali, o di moralità con criterî artistici, o di verità con criterî utilitarî, e via. Ché, se dimenticassimo la distinzione, uno sguardo alla vita ce la farebbe subito ricordare: la vita, che ci mostra quasi anche esteriormente distinte le sfere dell’attività economica, scientifica, morale, artistica, e l’unico uomo ci fa apparire specificato ora come poeta, ora come industriale, ora come uomo di Stato, ora come filosofo (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, cap. IV).

Mediante la tecnica della distinzione, Croce elaborò – a partire dal 1900 – un vero e proprio sistema, da lui denominato filosofia dello spirito. Per spirito si deve intendere non un’entità divina trascendente, ma l’attività spirituale umana nella sua universalità, che travalica la dimensione finita dei singoli individui. le quattro forme dello spirito

Già nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Croce formulava la teoria delle quattro forme dello spirito, ossia dei modi in cui lo spirito – nel suo sviluppo storico – opera in maniera universale e costante. In generale, egli distingue due attività dello spirito. 1) L’attività teoretica riguarda la conoscenza e si articola, a sua volta, in due forme: a) l’estetica, ossia la conoscenza dell’individuale; b) la logica, ossia la conoscenza dell’universale. 2) L’attività pratica mira al perseguimento di fini attraverso l’azione e si articola, a sua volta, in due forme: a) l’economia, consistente nella volizione del particolare, cioè dell’utile; b) l’etica, consistente nella volizione dell’universale, cioè del bene.

SPIRITO attività teoretica

ciò che è vivo...

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attività pratica

estetica

economia

logica

etica

Quali sono le relazioni che intercorrono tra le forme dello spirito? La risposta a questo interrogativo ripropone il problema della dialettica: su questo punto, Croce avverte la necessità di prendere posizione rispetto alla filosofia di Hegel. Ciò avviene nella Logica, ma è già oggetto di trattazione specifica nel saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. In Hegel, Croce ravvisa una filosofia antimetafisica e antiteologica, che ha concepito se stessa come comprensione storica e razionale di tutte le attività dell’uo8. il neoidealismo italiano

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mo: per Hegel, la realtà è storia e non esistono valori o idee soprastoriche. La dialettica degli opposti costituisce la legge di sviluppo della realtà: quest’ultima, infatti, appare articolata in una serie di opposizioni che si riconciliano attraverso sintesi superiori. In altri termini, senza contraddizione e opposizione non ci sarebbero svolgimento e vita. Qual è l’errore che Hegel avrebbe commesso nel modo di concepire la dialettica, secondo Croce? Egli avrebbe considerato come opposti anche quelli che sono invece soltanto dei distinti, ossia le forme dello spirito. Non si può dire, per esempio, che l’arte e la filosofia siano opposte l’una all’altra e, quindi, che la filosofia rappresenti il superamento dell’arte. Secondo Croce, infatti, l’opposizione è operante all’interno di ciascuna forma dello spirito – nell’estetica fra bello e brutto, e nella logica tra vero e falso –, non già tra una forma e l’altra – vero e bello non sono tra loro opposti come lo sono, invece, vero e falso . Ciò significa che esiste una dialettica dei distinti , diversa dalla dialettica degli opposti, estesa indebitamente da Hegel alle forme dello spirito. Tra i distinti esiste un nesso di implicazione, per cui ogni grado o forma implica la precedente ed è implicata dalla successiva. Così la filosofia implica l’arte, in quanto deve fondarsi su intuizioni e rappresentazioni individuali: la conoscenza estetica, infatti, fornisce il materiale a quella logica. A sua volta, come si vedrà, la conoscenza è implicata dalla volizione, che da parte sua è materia per una successiva intuizione.

... e ciò che è morto nella filosofia di hegel

Lo spirito è tutto in ciascuna forma, ma passa da una all’altra, dispiegandosi e arricchendosi. Come sappiamo, Hegel aveva pensato i rapporti fra arte, religione e filosofia, applicando ai distinti «la forma triadica, che è propria della sintesi degli opposti»: ciò lo aveva condotto a parlare di superamento di alcune forme dello spirito assoluto da parte di altre (ad esempio, l’arte da parte della religione; l’arte e la religione da parte della filosofia). Secondo Croce, ciò non è possibile giacché ogni forma rappresenta un grado necessario della vita dello spirito.

dalla dialettica degli opposti alla dialettica dei distinti

In ciò consiste la critica al panlogismo hegeliano, ossia alla pretesa di sostituire il pensiero filosofico a tutte le attività e processi dello spirito, che devono invece essere salvaguardati nella loro distinzione e connessione reciproca. Lo spirito passa tra le varie forme per una necessità intrinseca alla sua natura, che è di essere insieme arte e filosofia, teoria e prassi. La relazione dei distinti nell’unità dell’attività spirituale è paragonabile, secondo Croce, «allo spettacolo della vita, in cui ogni fatto è in relazione con tutti gli altri». Il simbolo più adeguato per rappresentare l’unità dello spirito nella distinzione delle sue forme non è dunque la serie lineare, in cui la posizione di ciascuna forma è fissata staticamente, ma il circolo – inteso dinamicamente – in cui ogni punto è insieme primo e ultimo. In ciò consiste appunto la circolarità dello spirito, che si sviluppa progressivamente attraverso le sue varie forme, ritornando sempre arricchito a ciascuna di esse.

la circolarità dello spirito

La prima forma dello spirito è l’estetica: oggetto di essa è l’arte, che Croce considera come una forma di conoscenza. Ma conoscenza di che cosa? Come abbiamo già visto, l’estetica è distinta dalla logica: per questo motivo,

l’estetica e l’intuizione artistica

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Croce Dialettica degli opposti e dialettica dei distinti

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l’arte non può essere conoscenza dell’universale, la quale è propria dell’intelletto e consiste nella produzione di concetti. L’arte è, invece, conoscenza intuitiva dell’individuale che si esprime attraverso la produzione di immagini (o fantasia). Ma che cos’è l’intuizione, secondo Croce? Essa è un atto spirituale, che si distingue da tutto ciò che è puramente passivo, meccanico o naturale (la percezione, la sensazione). In termini crociani, «l’intuizione è espressione» [t24]. Per Croce, lo spirito «non intuisce se non facendo, formando, esprimendo» in parole, suoni, colori. Più precisamente, nell’atto estetico l’attività espressiva dà forma al materiale offerto dalle sensazioni: l’arte è, dunque, forma e non può essere ridotta alla riproduzione passiva di una realtà naturale esterna. A questo proposito, Croce ribadisce – come aveva mostrato Vico – che il linguaggio non è puro suono, ma appunto espressione e perpetua creazione. l’intuizione e l’irrilevanza delle tecniche

Ma che rapporto intercorre tra l’intuizione puramente interiore, da un lato, e il momento della sua realizzazione tecnica in opere o prodotti, dall’altro? Secondo Croce, l’esecuzione di un’opera non aggiunge nulla all’intuizione artistica vera e propria, ma risponde soltanto alla necessità pratica di riprodurre l’immagine formata interiormente per renderla disponibile a se stessi e comunicarla ad altri. Da questo punto di vista, perdono rilevanza le distinzioni tra le varie arti o tra i vari generi letterari: esse sono solo classificazioni empiriche estrinseche rispetto all’unità dell’espressione artistica.

il bello e la fruizione dell’opera

Il bello è il valore dell’espressione, ossia coincide con l’espressione riuscita, e non può essere confuso con il piacevole o il sublime o il comico e così via, ossia con determinazioni puramente psicologiche. Né si può parlare di un bello naturale, perché ciò equivarrebbe ad attribuire alla natura una capacità intuitiva ed espressiva, che è invece propria dello spirito. Al contrario del bello, il brutto corrisponde invece all’attività espressiva impacciata e ha la sua causa nell’interferenza della volontà che persegue fini pratici all’interno del processo di formazione artistica. Quando allora un prodotto spirituale si può dire bello? Secondo Croce ciò può avvenire soltanto rivivendo interiormente il processo spirituale compiuto dall’artista, servendosi del segno fisico, ossia dell’opera che questi ha lasciato. Ciò significa che l’attività giudicatrice (gusto) s’identifica con l’attività che produce (genio). Per giudicare un poeta occorre, dunque, elevarsi alla sua altezza, far tutt’uno con lui.

l’arte ha il proprio fine in se stessa

In seguito, Croce tornò quasi ininterrottamente a riflettere sul fenomeno artistico in numerosi saggi – dal Breviario di estetica (1912) alla raccolta intitolata La poesia (1936). Egli insiste sul fatto che l’intuizione propria dell’arte ha un carattere lirico, in quanto è accompagnata dal sentimento: nell’intuizione lirica ha luogo una sintesi a priori di sentimento e immagine, per cui senza immagine il sentimento è cieco, mentre senza sentimento l’immagine è vuota, ossia si riduce a un vano fantasticare. Tuttavia, non si tratta di un’espressione sentimentale immediata, ancora aderente al particolare, bensì di un’espressione che placa e trasfigura il sentimento, riannodando il particolare all’universale: in ciò consiste la poesia. A essa Croce contrappone la letteratura, ovvero tutte le forme espressive (ad esempio, le opere di-

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dascaliche o di intrattenimento) che hanno valore principalmente culturale. Emerge qui uno dei tratti che più hanno contribuito al successo dell’estetica crociana: la rivendicazione dell’autonomia dell’arte. L’arte non è riducibile alle altre forme dello spirito e, pertanto, non può essere valutata secondo le categorie del vero, dell’utile, del piacevole o del moralmente buono. L’arte può rappresentare contenuti che dal punto di vista morale sono riprovevoli, ma essa non è per questo moralmente riprovevole. Per questa ragione, non possono venirle affidati compiti di istruzione o di educazione morale o politica. L’arte – in quanto conoscenza dell’individuale – è distinta e indipendente dalla conoscenza per concetti, ossia dalla conoscenza dell’universale. Alla trattazione di questa ultima forma di conoscenza Croce dedicò la Logica come scienza del concetto puro. L’attività logica (o pensiero) sorge sulla base delle intuizioni, che colgono il molteplice nella sua individualità: per questo aspetto, dunque, essa presuppone la conoscenza intuitiva propria dell’estetica. Ma la conoscenza logica va oltre l’intuizione, per cogliere ciò che è universale nell’individuale, ossia il concetto . Croce definisce il concetto come universale concreto. Esso è universale, perché trascende le singole rappresentazioni (per esempio, il concetto di bellezza non si esaurisce nelle singole rappresentazioni di cose belle); è concreto, perché è immanente a ciascuna rappresentazione (per esempio, il concetto di bellezza non esiste in un presunto altro mondo come le idee platoniche, ma è presente in ogni cosa bella).

la logica e il concetto

Rispetto ai concetti, Croce distingue gli pseudoconcetti : essi sono finzioni concettuali, il cui contenuto è dato da una o più rappresentazioni (per esempio, la nozione di cane o di casa) oppure da astrazioni prive di rappresentazione (per esempio, la nozione di triangolo). Nel primo caso, si ha una concretezza senza universalità, in quanto il cane o la casa non sempre sono esistiti sulla terra: si hanno allora pseudoconcetti empirici; nel secondo caso, invece, si ha universalità senza concretezza, poiché il triangolo in quanto tale non esiste mai nella realtà: si hanno, perciò, pseudoconcetti astratti. Croce esclude che tali finzioni concorrano alla formazione di concetti veri e propri. Ciò non vuol dire che gli pseudoconcetti siano errori. Essi infatti non traggono origine dall’attività teoretica e conoscitiva dello spirito, ma dall’ attività pratica che li escogita allo scopo di poter richiamare – con un solo nome – una molteplicità di rappresentazioni.

gli pseudoconcetti e la loro funzione

Secondo Croce, sia le scienze naturali (incluse la sociologia e la psicologia) sia quelle matematiche fanno uso di pseudoconcetti. Tanto le leggi generali a cui pervengono le prime quanto i princìpi astratti su cui si basano le seconde, infatti, non sono altro che pseudoconcetti. Per Croce, le leggi scientifiche sono costruzioni utili, ma arbitrarie, in quanto presuppongono come fisso ciò che è mobile. La matematica, dal canto suo, si fonda su princìpi ipotetici che servono al fine pratico di contare e calcolare. Riprendendo suggestioni rintracciabili nella contemporanea riflessione epistemologica (Mach e Poincaré), Croce insiste sul carattere convenzionale, pratico ed economico delle scienze. In opposizione alla cultura positivistica, dunque,

le scienze non hanno valore conoscitivo

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egli sottrae ogni capacità realmente conoscitiva alle scienze, che cessano di essere il modello per eccellenza della conoscenza. gli storici formulano giudizi individuali

Abbiamo visto che l’attività logica consiste nella formazione dei concetti. Pensare, infatti, equivale a pensare concetti. Il pensiero, d’altra parte, è intrinsecamente connesso alla sua espressione verbale. Pensare concetti equivale, dunque, a formulare giudizi. Questi ultimi, secondo Croce, possono essere di due tipi: 1) la definizione, nella quale soggetto e predicato sono entrambi universali (per esempio: «L’arte è intuizione»); 2) il giudizio individuale, in cui il soggetto è individuale e il predicato universale (per esempio: «Quest’opera d’arte è bella»). Questo secondo tipo di giudizio è largamente impiegato dagli storici che riconducono i fatti riferiti dalle fonti sotto un concetto universale (per esempio, guerra, Stato, ecc.). Ogni giudizio individuale, vertendo sull’elemento intuitivo o percettivo (il soggetto a cui si attribuisce un predicato), è un giudizio storico: esso comporta sempre il riferimento a una realtà di fatto – ossia a un fatto storico – dal momento che nella realtà non si trovano, né sono concepibili, fatti immutabili.

l’identità di filosofia e storia

Richiamandosi a Vico, Croce sostiene che si può conoscere solo ciò che si è fatto: in tal modo la conoscenza storica viene a coincidere con la conoscenza tout court. La filosofia, in quanto conoscenza della realtà, coincide con la storia, dal momento che la realtà è storia. Ciò significa anche che ogni filosofia è sempre storicamente condizionata: non esiste, per Croce, una filosofia definitiva fondata su verità soprastoriche e ultime. La filosofia è la storia dello sviluppo dello spirito attraverso le forme in cui, di volta in volta, si attua.

il rapporto tra attività teoretica e attività pratica

Fin dall’Estetica, Croce ha distinto l’attività dello spirito in teoretica e pratica: quest’ultima dipende dalla volontà come produttrice di azioni. Con l’attività teoretica l’uomo comprende le cose, mentre con quella pratica le muta, ma per mutarle egli si fonda sulla conoscenza. Tra attività pratica e attività teoretica esiste, dunque, lo stesso rapporto che sussiste tra logica ed estetica: la prima presuppone la seconda. Secondo Croce, infatti, la volontà cieca non è propriamente volontà, in quanto nessuna azione è possibile se non è preceduta da una conoscenza intuitiva o logica, ossia storica. Ciò non significa che la conoscenza teoretica indichi che una determinata cosa, o uno scopo, è buona o cattiva, utile o dannosa: la conoscenza, come abbiamo visto, ha a che fare con ciò che è vero. Ma, se il pensiero in quanto tale pensa sempre il vero, che cos’è l’errore? Esso non consiste nella non adeguatezza fra il pensiero e il suo oggetto, ma nasce dall’interferenza di motivi pratici, passioni o interessi con l’attività teoretica.

le forme dell’attività pratica: l’economia e l’etica

L’attività economica è la volontà che ha per oggetto l’individuale, ossia l’utile. L’utile non deve essere tuttavia confuso con l’egoistico, perché questo rientra nell’ambito della morale. Come abbiamo visto, invece, la sfera economica – essendo autonoma – non è soggetta a giudizi morali. Ciò comporta che sia possibile perseguire coerentemente un fine economico, anche se sul piano etico esso risulta immorale. Secondo Croce, l’etica implica l’economia, ossia la volizione dell’universale

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implica la volizione del particolare; al contrario, l’economia è del tutto autonoma rispetto all’etica. Detto altrimenti, fra economia e morale – fra il momento dell’utile e quello del bene – egli ritrova lo stesso rapporto che intercorre fra estetica e logica: la seconda presuppone la prima, ma non viceversa.

il rapporto tra l’economia e l’etica

Per Croce, non vi può essere moralità, se non s’incorpora e cala nell’utile: «Volere economicamente è volere un fine; volere moralmente è volere il fine razionale», ossia il bene. Ma ciò non sarebbe possibile, se il fine universale (il bene) non fosse voluto anche come fine particolare. In altre parole, se il fine universale non fosse avvertito dall’individuo anche come un fine particolare, egli non si sentirebbe moralmente interessato a perseguire il bene.

il rapporto tra l’etica e l’economia

Secondo Croce, non esistono altre forme dello spirito al di là delle quattro da lui individuate. Come si è visto, egli riconduce le scienze empiriche e matematiche alla sfera dell’attività pratica. Così è anche per la religione: nella misura in cui contiene elementi morali, essa è riconducibile all’attività morale; in quanto contiene, invece, elementi mitici – e quindi afferma l’universale come mera rappresentazione attraverso l’immagine di Dio – rientra nell’estetica. Analogamente, il diritto è riconducibile alla sfera pratica: la legge, infatti, è una classificazione di azioni e di sanzioni e funziona come gli pseudoconcetti. Si tratta, cioè, di schemi comodi per agire e utili per mantenere l’ordine sociale, che tuttavia rimangono astratti, perché la volontà si esprime sempre in azioni concrete, individuali.

la religione e il diritto non sono forme dello spirito

Anche la politica, a cui Croce dedica vari saggi – in particolare gli Elementi di politica (1925) –, non è una sfera autonoma dell’attività dello spirito: essa rientra nell’economia, ossia nella volontà che persegue l’utile. Da questo punto di vista, gli atti politici non sono né morali né immorali. Su questo punto, Croce si riallaccia al pensiero di Machiavelli, scopritore dell’autonomia della politica, caratterizzata da proprie leggi e propri fini. Per un altro verso, Marx gli aveva insegnato quanto fossero determinanti gli interessi economici, la forza e la lotta nella stessa vita politica.

la politica rientra nell’economia

L’utile per Croce è individuale, sicché alla base della politica vi sono le azioni utilitarie degli individui: contrariamente a quanto pensano Hegel e Gentile, nella politica il primato spetta agli individui – non allo Stato. Quest’ultimo non esiste come entità superiore agli individui stessi, né può pretendere di assorbire in se stesso la vita etica. Per questo aspetto, Croce tiene dunque fermo uno dei presupposti del liberalismo e scorge nella libertà la via per promuovere non la democrazia, ma l’aristocrazia dello spirito. Lo Stato è tale soltanto quando si attua nell’atto concreto del governo e ha come suoi momenti costitutivi la forza e il consenso.

il primato degli individui

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3. Croce: lo storicismo assoluto storia e storiografia

Il terreno su cui si svolgono le azioni degli individui è la storia: gli eventi storici dipendono dalle volizioni e dalle azioni dei singoli, ma risultano sempre dall’incontro delle azioni di più individui e, in tal senso, sono opera dello spirito. Nell’ultimo volume della «Filosofia dello spirito» – Teoria e storia della storiografia – Croce afferma che tutto il sistema filosofico da lui elaborato puntava verso «il problema della comprensione storica». Ma il termine storia può assumere due significati: in primo luogo, gli eventi storici (in latino, res gestae) e, in secondo luogo, la ricostruzione razionale di essi, ossia la storiografia (in latino, historia rerum gestarum). Per il primo aspetto, Croce ribadisce che il soggetto della storia è «l’umanità comune a tutti», non l’individuo empirico o la somma degli individui. Ciò non vuol dire che gli eventi storici siano il risultato dell’azione di una ragione o di una provvidenza trascendente rispetto agli individui, ma soltanto che alla trama della storia collaborano tutti gli individui – non alcuni in particolare – in un processo infinito.

la differenza tra storia e cronaca

Ma che cosa induce a studiare il passato, ossia a compiere indagini storiografiche? Non l’esigenza di conservare il ricordo di ciò che è ormai trascorso: in tal caso, secondo Croce, si ha soltanto la cronaca, che è storia morta, passata, non storia viva. Secondo Croce, «solo un interesse presente ci può muovere a indagare un fatto passato»: i documenti e i libri del passato diventano storia per noi soltanto quando li rielaboriamo secondo i nostri bisogni spirituali. In ciò consiste la tesi crociana, secondo cui ogni storia è sempre storia contemporanea. In quanto tale, infatti, la storia ha una genesi pratica, negli interessi della vita presente.

la giustificazione del passato

Che rapporti intercorrono, dunque, tra la storiografia – che è una forma dell’attività teoretica – e l’azione etica e politica? La conoscenza storica – sottolineava Croce in Teoria e storia della storiografia – non appartiene all’attività pratica dello spirito, ma assume tale attività a proprio oggetto. In questo senso, alla storiografia non appartengono le categorie di bene e male, sicché «per essa non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni», una volta che si sia compreso il loro significato all’interno del processo storico. Secondo questa prospettiva, la storia «non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice» di ciò che è avvenuto .

la comprensione storica

Nei saggi raccolti nella Storia come pensiero e come azione, Croce approfondiva il problema del rapporto tra la storiografia e l’azione etica e politica nella storia. Egli sottolineava che la conoscenza storica, ossia la storia come pensiero, ha il compito di «superare la vita vissuta per rappresentarla in forma di conoscenza». In questo senso, la storiografia assume un «ufficio catartico», libera dalla servitù nei confronti del passato e dei fatti, proprio in quanto li assume a oggetto di conoscenza. Il sapere storico non deve assolvere o condannare il passato, bensì comprenderlo: in tal senso, esso si presenta come un’opera di chiarificazione del passato a partire dal presente e diventa condizione indispensabile per un’azione efficace nella storia.

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Su questa base si costituisce la storia come azione, il cui principio è la libertà: essa si esprime nella lotta, nell’accettazione o nella ripulsa di situazioni o di programmi in nome di ideali morali. In questo senso, Croce può affermare che la moralità è «la lotta contro il male», ossia contro le continue insidie tese alla vita e alla libertà. La storia appare, allora, non un idillio né una tragedia, ma un dramma, nel quale male e dolore continuano a ripresentarsi, ma sempre soltanto come stimoli e ostacoli da superare: il principio direttivo è pur sempre il bene, ossia lo spirito che è libertà. Croce ritiene che la definizione più appropriata della sua filosofia sia storicismo, ossia «l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia», nel suo perenne svolgimento e lotta.

la storia e il dramma della libertà

Dopo l’avvento del fascismo, Croce afferma il primato della libertà nella vita dello spirito. A ciò si collega la tesi, già formulata da Hegel, che la storia e lo sviluppo dello spirito consistono nella progressiva realizzazione della libertà: anche nei periodi storici in cui la libertà appare minacciata e negata, essa tuttavia continua a essere formatrice di storia. Questa tesi si poteva anche prestare alla giustificazione dei momenti storici giudicati moralmente negativi, come il fascismo; ma considerando tali momenti come puramente accidentali e come condizioni per un ulteriore avanzamento, essa poteva generare negli antifascisti la fiducia nella transitorietà di essi e servire come criterio per valutare le diverse epoche storiche secondo il grado di libertà da esse realizzato.

fascismo e libertà

Nell’ultima fase del suo pensiero, Croce pone alla base di ogni attività spirituale il vitale. La vita non si arresta mai in nessuna delle forme che via via assume e nel suo ritmo è, indissolubilmente, amore e dolore. Al vitale sono riconducibili i periodi di apparente barbarie o decadenza. Il male e la malattia, infatti, non sono per Croce realtà positive: è nello sforzo di attuare altre forme che i momenti inferiori vengono giudicati irrazionali e negativi. Il vitale è, dunque, l’elemento dialettico che fa uscire le altre forme dello spirito dalla loro immobilità, le spinge a lottare e affermarsi: in questo senso, esso appare a Croce come una forza terribile, un’«irrequietezza che non si soddisfa mai». In un saggio del 1946, intitolato La fine della civiltà, egli avanza il dubbio che le civiltà insidiate da questa negatività possano perire, anche se lo spirito non muore. Solo un’etica del lavoro intesa a risolvere i problemi posti dalla vita può costituire, ai suoi occhi, la via per superare il negativo che si cela persistentemente nel cuore di essa .

l’ultimo croce: il vitale e la fine della civiltà

CONFRONTI

La concezione della storia e della filosofia in Dilthey e in Croce

Lo storicismo è un indirizzo filosofico che nasce in Germania alla fine dell’Ottocento. Wilhelm Dilthey è considerato l’iniziatore di questa corrente di pensiero con la pubblicazione dell’Introduzione alle scienze dello spirito nel 1883.

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Croce Male e vitalità nella Storia

Il punto di partenza dello storicismo consiste nel ritenere che la realtà umana e sociale siano essenzialmente storiche, indicando nella conoscenza storica il principale strumento per la loro comprensione. Per questi motivi, lo

storicismo tedesco contemporaneo – proprio a partire da Dilthey – ha esteso l’indagine critica di matrice kantiana alle condizioni di possibilità della ricerca storica, riconoscendo alle discipline storico-sociali uno statuto autonomo.

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In particolare, secondo Dilthey, la storia (nelle sue diverse forme: politica, letteraria, artistica, ecc.) non costituisce soltanto una delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), ma coincide con la struttura stessa del mondo umano. Le scienze dello spirito hanno l’obiettivo di studiare le manifestazioni umane nella loro individualità e di scoprire le uniformità presenti nel mondo storico-sociale. Ciò è possibile, secondo Dilthey, perché vi è omogeneità tra il soggetto (= l’uomo) e l’oggetto della ricerca (= le produzioni spirituali dell’uomo) e perché – grazie all’esperienza vissuta (Erlebnis) – ogni individuo è in grado di comprendere interiormente la vita spirituale dell’altro. Mentre le scienze della natura (Naturwissenschaften) cercano di spiegare causalmente i fenomeni individuando delle leggi universali e necessarie, le scienze dello spirito mirano alla comprensione del mondo umano, allo scopo di rivivere il valore e il significato immanente delle esperienze storiche nella loro individualità. Negli scritti posteriori all’Introduzione diventa centrale la nozione di «connessione dinamica» (Wirkungszusammenhang), con la quale Dilthey cerca di mettere in luce il carattere finito di ogni fenomeno storico. Dilthey distingue diversi livelli di connessione – dall’individuo, costituito sempre da un insieme di rapporti storicamente determinati, alle differenti formazioni culturali, dai sistemi di organizzazione sociale alle epoche storiche – ognuno dei quali si configura come una struttura che ha in sé il proprio centro, dotata di significati e di valori propri. Ogni connessione esprime un carattere parziale e relativo del mondo storico, che non può dunque essere mai abbracciato nella sua globalità, al contrario di quanto sostengono le filosofie della storia e la sociologia di stampo positivistico, sempre alla 238

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ricerca del senso oggettivo delle cose. In questo quadro, anche la filosofia e le dottrine filosofiche sono dei prodotti storici, e cioè oggettivazioni della vita dello spirito. La filosofia viene definita da Dilthey come una «intuizione del mondo» (Weltanschauung), e cioè come un atteggiamento complessivo dell’uomo di fronte al «mistero del mondo e della vita». Tale intuizione, in quanto esprime il rapporto della coscienza individuale con il mondo che la circonda, non consiste soltanto in una forma di conoscenza, ma è anche sempre un insieme di valori, scopi e norme. A differenza delle intuizioni artistiche o religiose del mondo, l’intuizione filosofica ha una pretesa di validità assoluta e universale, che viene tuttavia contraddetta dalla sua natura di prodotto storico, al pari delle altre oggettivazioni dello spirito. La sola funzione universale che Dilthey riconosce alla filosofia è quella dell’«autoriflessione storica»: indagando criticamente sui propri limiti e sulle proprie possibilità, essa ci rende sempre più consapevoli del carattere plurale e relativo delle visioni del mondo. Il tema della storia è stato sempre al centro della riflessione di Benedetto Croce fin dalla sua prima opera teorica, intitolata La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893). Sulla scia di Dilthey e dello storicismo tedesco, Croce polemizza con la concezione positivistica della storia, secondo la quale essa sarebbe una scienza in grado di enunciare leggi universali e necessarie (del tipo di quelle naturali) e di fornire spiegazioni causali degli eventi. Per Croce, la scienza riguarda l’universale, mentre la storia – come l’arte – riguarda l’individuale; per questo motivo, essa consiste nella narrazione delle azioni degli uomini, i quali subiscono l’influsso di condizionamenti oggettivi, ma cercano anche di attuare gli ideali in cui credono. Il problema

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della storia viene affrontato sistematicamente nel volume Teoria e storia della storiografia (1917). In quest’opera, Croce sostiene che «un fatto è storico in quanto è pensato»: occorre, dunque, distinguere il piano degli eventi storici (in latino, res gestae) da quello della ricostruzione razionale di essi (in latino, historia rerum gestarum), che Croce chiama «storiografia». La storiografia è la conoscenza della vita dello spirito, che si sviluppa progressivamente nelle opere della fantasia, del pensiero, nell’attività economica e nell’agire morale. Per Croce, si può conoscere solo ciò che si è fatto: di qui scaturisce la tesi dell’identità di filosofia e di storia. Poiché la realtà e la vita sono storia, la conoscenza filosofica di esse non potrà che essere storicamente situata: in tal senso, la filosofia è la storia dello sviluppo dello spirito attraverso le forme in cui si attua (estetica, logica, economia, etica) e non può fondarsi su verità ultime o soprastoriche. Un’altra definizione che Croce dà della filosofia è quella di «metodologia della storiografia», intesa come delucidazione delle categorie del giudizio storico e dei concetti che guidano l’interpretazione storica. Croce distingue tra giudizio definitorio (utilizzato dai filosofi) e giudizio individuale (utilizzato dagli storici), ma alla fine ritiene che si implichino reciprocamente: infatti, non è possibile conoscere fatti particolari, se non assumendoli dentro a categorie logiche generali; d’altra parte, non è possibile fare uso di concetti generali se non applicandoli all’elemento intuitivo o concreto. Ogni giudizio individuale è un giudizio storico, che però presuppone un giudizio definitorio; pertanto, la filosofia implica la storia. Croce è, inoltre, persuaso che «ogni vera storia è storia contemporanea», in quanto solo i bisogni o gli interessi della nostra vita presente possono spingerci a in-

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dagare un fatto passato. Come si è visto, la storiografia è filosofia, in quanto attiene all’attività teoretica dello spirito, e assume come proprio oggetto di indagine l’attività pratica dell’uomo: ciò significa che nella pratica storiografica non possono rientrare valutazioni di ordine morale. Il suo unico obiettivo è la comprensione dei fatti e delle motivazioni per cui sono accaduti: in tal senso, la storia «non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice». Dopo l’avvento del fascismo, Croce raccoglie nel volume La storia come pensiero e come azione (1938) le sue ultime riflessioni sulla storia:

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per rispondere all’accusa di giustificazionismo, Croce afferma che «la storia si fa come libertà e si pensa come necessità». In altri termini, la storia come pensiero, ossia la conoscenza storica, ha come unico scopo quello di comprendere ciò che è avvenuto, mostrandone l’intrinseca razionalità e necessità. La storia come azione è, invece, quella che gli uomini effettivamente vivono e che è caratterizzata dalla progressiva ricerca della libertà. Croce definisce la sua posizione filosofica nei termini di uno «storicismo assoluto», per il quale «la vita è realtà e storia e nient’altro che storia». Ri-

prendendo le tesi hegeliane, la storia si configura come un dramma nel quale lo spirito incontra continue insidie e ostacoli all’affermazione della propria libertà, ostacoli che però alla fine riesce sempre a superare. In questo quadro, anche i momenti storici giudicati moralmente negativi (come il fascismo) rappresentano le tappe necessarie di un ulteriore avanzamento, in vista di una maggiore grado di libertà: «in istoria, non c’è mai decadenza che non sia insieme formazione o preparazione di vita nuova, e, pertanto, progresso».

4. Gentile: l’attualismo Mentre Croce svolse la propria attività in piena libertà e indipendenza economica – grazie a cospicui beni di famiglia – fuori dalle università, Giovanni Gentile fu legato al mondo della scuola e dell’università e, dopo l’avvento del fascismo, occupò posizioni di prestigio nelle più importanti istituzioni culturali del regime. Nato a Castelvetrano (in Sicilia) nel 1875, egli compì i suoi studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa sotto la guida di Donato Jaja, che gli fece conoscere l’opera di Bertrando Spaventa. Di qui trae origine il persistente interesse di Gentile per la storia della filosofia italiana, il cui primo frutto fu il volume Rosmini e Gioberti (1898), seguito da numerosi altri. Contemporaneamente si dedicò allo studio del marxismo, pubblicando il volume La filosofia di Marx (1899), che lo mise in contatto con Benedetto Croce; dal 1903 collaborò attivamente alla rivista «La Critica», da questi fondata.

la formazione alla normale

lo studio del marxismo e l’amicizia con croce

Dopo aver insegnato per vari anni Filosofia nei licei – in particolare a Napoli – fu professore di Filosofia dal 1907 al 1914 all’università di Palermo e poi, dal 1914 al 1918, presso quella di Pisa. È questo il periodo in cui Gentile elabora ed espone le linee fondamentali del suo sistema in una serie di scritti: L’atto del pensiero come atto puro (1912); La riforma della dialettica hegeliana (1913); Teoria generale dello spirito come atto puro (1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-23).

l’elaborazione del sistema

Nazionalista durante la guerra, nel 1918 ottiene la cattedra di Filosofia nell’università di Roma e successivamente aderisce al fascismo interrompendo l’amicizia con Croce e fondando, nel 1920, il «Giornale critico della filosofia italiana».

l’adesione al fascismo e la rottura con croce

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gli incarichi politici e culturali

Ministro della Pubblica Istruzione dal 1922 al 1924, procede alla riforma della scuola, assegnando il primato alla formazione umanistica, nettamente distinta da quella tecnico-scientifica. Nel 1925 è posto a capo dell’Enciclopedia Italiana, sostenuta finanziariamente da Giovanni Treccani, alla quale chiama a collaborare anche studiosi non fascisti. In essa compare la voce «Dottrina del fascismo», almeno in parte ispirata al suo pensiero, nella quale si afferma che «lo Stato è tutto e l’individuo nulla». La sua adesione al fascismo allontana da lui i suoi primi discepoli, Giuseppe Lombardo Radice, Adolfo Omodeo e Guido De Ruggiero. Dopo il 1929 e il Concordato con la Chiesa cattolica, la posizione di Gentile come intellettuale laico risulta indebolita all’interno del regime fascista. Malgrado ciò, egli rivestirà ancora cariche prestigiose come quella di direttore della Scuola Normale di Pisa e, nel 1943, di presidente dell’Accademia d’Italia.

gli ultimi anni

Anche dopo l’8 settembre 1943, egli restò fedele a Mussolini e aderì alla Repubblica di Salò. Nell’aprile del 1944 fu ucciso sotto casa sua a Firenze da un gruppo di partigiani.

la critica del marxismo

Anche Gentile – come Croce – mosse i primi passi discutendo il marxismo. Nell’opera La filosofia di Marx (1899) – dedicata a Croce e nota anche a Lenin – Gentile si chiede se la concezione materialistica della storia sia o no una filosofia della storia. In quanto ha adottato la forma dialettica, Gentile ritiene che il marxismo sia una filosofia della storia. A suo avviso, tuttavia, i marxisti avrebbero considerato prevedibile anche ciò che non può esserlo e che, pertanto, non appartiene alla filosofia della storia: la materia, il fatto economico. Oggetto di quest’ultima, infatti, è l’articolazione dialettica dell’idea – e non la materia.

il marxismo come filosofia della prassi

Fondandosi soprattutto sulle Tesi su Feuerbach, Gentile rinviene in Marx una filosofia della prassi. Ai suoi occhi, Marx ha il merito di criticare il materialismo tradizionale poiché questo concepisce l’oggetto come un dato, anziché come un processo, e il soggetto come rappresentazione passiva di tale oggetto. Marx, invece, concepisce «l’oggetto intrinsecamente legato all’attività umana»: è la prassi umana che produce e modifica l’oggetto, il quale a sua volta viene a modificare anche il soggetto, in modo che «l’effetto reagisce sulla causa e il loro rapporto si rovescia, l’effetto facendosi causa della causa, che diviene effetto pur rimanendo causa». In ciò consiste il cosiddetto rovesciamento della prassi: «La prassi, che aveva come principio il soggetto e termine l’oggetto, si rovescia, tornando dall’oggetto (principio) al soggetto (termine)». Per Marx, il rovesciamento della prassi contrassegna la vita sociale dell’individuo: questi è, a un tempo, colui che pone i vincoli sociali e colui che ne subisce gli effetti. Seguendo il ritmo dialettico della prassi umana, è possibile determinare a priori lo sviluppo della storia, ossia costruire una filosofia della storia. Lo sviluppo della prassi produce divisioni nella realtà, sicché la lotta di classe non è un fatto accidentale e ha, anzi, uno sbocco inevitabile. Alla luce di queste considerazioni, secondo Gentile, la filosofia della storia di Marx appare segnata dal determinismo o finalismo.

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Ma qual è il maggiore errore filosofico di Marx, secondo Gentile? Egli ha considerato il pensiero non come un’attività reale, ma soltanto come una «forma derivata e accidentale dell’attività sensitiva». A ciò Gentile opponeva una tesi, che avrebbe costituito il nucleo portante della sua futura filosofia: «O il pensiero è, e pensa; o non pensa, e non è pensiero. Se pensa, fa». A ben vedere, il Marx teorico della prassi, a cui andava il consenso di Gentile, era già in qualche modo contenuto – e in forma migliore – nella tradizione idealistica di Fichte e di Hegel: il processo del reale tornava a essere risolto nella coscienza che il soggetto ne ha. Il problema di Gentile, negli anni successivi, sarebbe stato di fare i conti con questa tradizione.

la critica a marx

Al centro dell’elaborazione sistematica compiuta da Gentile vi è il presupposto che il pensare è essenzialmente attività: su questa base, egli distingue fra pensiero astratto e pensiero concreto e identifica il pensiero concreto con il pensare in atto. Nulla, per Gentile, esiste propriamente se non nell’atto in cui viene pensato: in questo senso, egli definisce attualismo la propria posizione filosofica. Il pensiero che non è attuale – ossia non è in atto – non è più nostro, ma diventa qualcosa di pensato. Nel momento in cui l’atto del pensiero è concepito come già compiuto – ossia come un fatto – esso non è più propriamente atto; il pensare è, invece, «atto in atto» e, in quanto tale, è inoggettivabile. Detto altrimenti, il pensare in atto non può essere considerato come un oggetto, perché si troverebbe fissato e irrigidito: esso è invece pura attività, che è solo in quanto «si viene facendo».

pensiero astratto e pensiero in atto

Da questo punto di vista, si può dire che non esistono fatti spirituali, ma soltanto atti; anzi, più esattamente, soltanto l’atto dello spirito che – nel pensare – pone perennemente se stesso. In ciò consiste l’autoctìsi (dal greco autòs, «se stesso», e ktìzein, «fondare», «creare»), ossia l’attività di autocreazione dello spirito, che non dipende da alcun presupposto. In altri termini, nulla precede né trascende lo spirito, che è assoluta immanenza del pensiero a se stesso o, il che è lo stesso, atto puro .

l’autocreazione dello spirito

Secondo Gentile, la tradizione filosofica – da Platone a Hegel, sino a Croce – ha compiuto un errore fondamentale: quello di concepire il pensiero come oggetto – anziché come atto – e di studiare le relazioni tra i concetti come se si trattasse di oggetti dati. Per designare questa posizione, Gentile usa l’espressione dialettica del pensato: essa è attenta soltanto alla molteplicità e particolarità dei concetti e delle cose, anziché all’unità dell’atto pensante, e concepisce la conoscenza come rispecchiamento di verità già date. Alla dialettica del pensato sfugge che la verità è legata al tempo, è svolgimento e progresso; la dialettica del pensare invece:

il pensiero non è un dato

Non conosce mondo che già sia; che sarebbe un pensato; non suppone realtà, di là dalla conoscenza, e di cui toccherebbe a questa d’impossessarsi; perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti dell’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E in questo atto vede perciò la radice di tutto. In guisa che tutto quello che è è in virtù del pensare: e il pensare così non è più postuma e vana fatica, che intervenga quando non c’è più nulla da fare nel mondo, anzi è la stessa cosmogo-

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nia. La storia del pensiero pertanto nella nuova dialettica diventa il processo del reale, e il processo del reale non è più concepibile se non come la storia del pensiero (La riforma della dialettica hegeliana, parte I, cap. I). kant e hegel: la riscoperta del pensiero pensante

Per primo, dunque, Kant ha avuto il merito di mostrare che il soggetto non è un dato, ma una funzione, un’operazione; il suo limite è, però, consistito nel considerare fisse e prestabilite le categorie: in quanto tali, anch’esse rientrano nella dialettica del pensato. Lo stesso Hegel aveva cercato una dialettica oggettiva della natura e della storia, fissandone tappe e momenti come risultati e prodotti del pensiero e dell’attività umana. E anche nella logica aveva assunto come punto di partenza l’essere vuoto e indeterminato per dedurne il divenire, anziché partire dall’atto del pensiero.

spaventa e il farsi del pensiero

Spaventa aveva intravisto la strada giusta, riconoscendo che l’essere è atto di pensare [cfr. 8.1]: su questa base, Gentile ritiene di poter operare una riforma della dialettica hegeliana. Essa consiste nel passare dalla dialettica del pensato – per la quale il punto di partenza è il pensiero pensato – alla dialettica del pensare – per la quale il punto di partenza è il pensiero pensante. In base a quest’ultima, il mondo non sussiste come un dato fisso e irrigidito, indipendente dall’atto del pensiero; inoltre, la verità – come già aveva colto Vico – non è un fatto, ma un farsi .

la dialettica del pensare

Per spiegare il farsi del pensiero, Gentile ricorre alla metafora del fuoco e del combustibile: al primo è continuamente necessario il secondo per non spegnersi. Allo stesso modo, il pensiero pensato deve fornire continuamente nuovo combustibile al pensiero pensante. Ma da dove il pensiero pensante deriva il suo combustibile? Secondo Gentile, che qui riprende considerazioni e tematiche già sviluppate da Fichte, il pensiero pensato è posto dal pensiero stesso. Il pensiero in atto – come si è visto – non è limitato da qualcosa di esterno, che gli pre-esista o lo trascenda. Per questo motivo, esso può trarre l’alimento necessario alla sua incessante attività soltanto da se stesso. Detto altrimenti, il pensiero pensante – negandosi – crea e pone l’altro da sé, ovvero il pensiero pensato. Quest’ultimo è chiamato da Gentile fatto o natura. La natura è il risultato dell’attività spazializzatrice e temporalizzatrice del pensiero, il quale viene fissato come un fatto a sé stante, indipendente dal pensiero stesso. Ma, in quanto pensiero pensato, la natura è errore, ossia un momento continuamente superato nell’atto del pensare. L’errore, infatti, nel momento stesso in cui è pensato – e quindi riconosciuto come errore – è di fatto già superato.

il soggetto del pensare in atto

Si è visto come il pensiero astratto corrisponda al pensiero pensato e come, invece, il pensiero concreto corrisponda al pensare in atto. Ma qual è il soggetto di questo pensare in atto? Per Gentile, non può trattarsi dell’io empirico. L’io empirico, infatti, è un fatto e appartiene a ciò che egli ha chiamato natura. In altre parole, l’io empirico non pensa in atto, ma è posto dal pensiero pensante come altro da sé: esso è, dunque, l’oggetto – e non il soggetto – del pensiero in atto. Il soggetto del pensiero pensante non può essere una sostanza o uno stato, ma un processo creativo, a cui Gentile dà il nome di Io trascendentale. Per esso niente è già fatto, ma tutto è sempre da

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Gentile La dialettica del pensiero

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fare. Detto altrimenti, il soggetto del pensiero in atto coincide con l’atto stesso del pensare. L’Io trascendentale, pertanto, non è altro che l’attività pura del pensare nella sua irriducibilità a ciò che pensa. Come abbiamo visto, la natura (o fatto) è posta dal pensiero in atto come altro da sé. Ora, i diversi pensieri – considerati non dal punto di vista dell’oggetto che in essi è pensato, ma dal punto di vista dell’atto che li pone – rivelano la loro unica origine. In ciò consiste l’unità dell’Io trascendentale: nell’atto del pensare, infatti, la molteplicità viene riassorbita nella sua unità. Alla base di questa concezione vi è una precisa dottrina della conoscenza, secondo la quale «conoscere è identificare, superare l’alterità come tale»: nel momento in cui qualcosa è conosciuta, essa non può essere altro dal soggetto trascendentale che la conosce e, dunque, fa tutt’uno con esso. Il ragionamento impiegato da Gentile a proposito degli altri io è identico a quello che viene utilizzato a proposito dell’errore: nel momento in cui l’altro è pensato, esso viene posto entro l’atto del pensare e, quindi, superato in quanto altro.

l’io trascendentale e la molteplicità degli io empirici

Abbiamo visto come l’io trascendentale sia l’atto stesso del pensare e come in esso si risolva la molteplicità degli io empirici e delle cose. Questi aspetti dell’attualismo di Gentile influenzano il suo modo di concepire il processo educativo – un tema di cui si occupò a più riprese, dal Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1913-14) a La riforma dell’educazione (1920). L’educazione consiste in un processo di autoeducazione, attraverso il quale si realizza l’unità – nel soggetto trascendentale – di maestro e allievo. Rispetto a ciò le tecniche didattiche o le conoscenze psicologiche perdono di importanza, giacché presuppongono una relazione di alterità fra i protagonisti del processo educativo. L’educazione, invece, rappresenta un potente veicolo di coesione e unificazione delle individualità empiriche, tale da condurre alla formazione di un unico spirito. Queste considerazioni di Gentile si prestarono a un’utilizzazione politica, indicando nell’educazione lo strumento capace di condurre gli individui a trovare la propria vera identità nella superiore unità dello Stato.

attualismo e pedagogia

Gentile insiste sul carattere unitario della realtà spirituale, che scaturisce dall’unità dell’Io trascendentale, in polemica contro la tendenza opposta – affermata da Croce [cfr. 8.2] – a tener ferma la distinzione tra le varie forme dello spirito. Mentre Croce ribadisce la distinzione fra attività teoretica e attività pratica dello spirito, Gentile teorizza la sostanziale identità di teoria e prassi. Distinguere fra teoria e prassi sarebbe possibile soltanto supponendo che la teoria consista nella conoscenza di un mondo già dato e la prassi nella costruzione di una nuova realtà a opera della volontà. Ma – come abbiamo visto – per Gentile il conoscere non è pura contemplazione passiva, bensì pensiero in atto e perciò è prassi. In tal modo, ogni atto spirituale è pratico, sicché il volere non è altro che «la concretezza del conoscere» che si traduce in realtà.

pensare in atto è agire

Rispetto alla dialettica dei distinti teorizzata da Croce, Gentile ritiene che i distinti – ovvero le forme dello spirito – rientrino in una logica del pensato,

l’unità dello spirito

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non del pensiero. Non per questo egli intende distruggere o togliere valore ai concreti processi particolari, ma soltanto ricondurli – al di là delle loro differenze – all’unità che è fondamento di tutti. Per far ciò, egli riconsidera i momenti della filosofia hegeliana dello spirito assoluto – arte, religione e filosofia – alla luce del proprio attualismo, ma conservando lo schema dialettico triadico, sempre di origine hegeliana. l’arte e la religione sono forme di pensiero astratto

L’arte rappresenta il momento dell’esaltazione del soggetto – il sentimento come pura soggettività – che si libera dai vincoli della realtà. Rispetto a essa, la religione rappresenta l’antitesi, in quanto esaltazione dell’oggetto e negazione del soggetto nell’oggetto, ossia in Dio. Nella religione al concetto di autoctìsi, come creazione che il soggetto fa di se stesso, si sostituisce quello di eteroctìsi, ossia di creazione da parte di un’entità oggettiva; al concetto del conoscere come posizione dell’oggetto da parte del soggetto si sostituisce quello di rivelazione che l’oggetto fa di sé al soggetto; alla volontà che crea il bene si sostituisce la grazia che il bene – cioè Dio – fa di sé al soggetto. Sia l’arte sia la religione sono, secondo Gentile, posizioni astratte del pensiero, in quanto isolano soltanto un lato dell’atto concreto del pensare – la soggettività o l’oggettività.

la filosofia come concreta unità di soggetto e oggetto

Rispetto all’arte e alla religione, la filosofia costituisce il momento della sintesi: nel concreto atto del pensare, infatti, il pensiero crea se stesso e insieme il proprio oggetto. In quanto tale, la filosofia è «la immanente sostanza di ogni vita spirituale», ossia il pensiero concreto operante in tutte le forme (l’arte, la religione o la scienza). Fuori della filosofia non c’è propriamente attività spirituale e, poiché il pensiero si fa e si sviluppa storicamente, la filosofia fa tutt’uno con la propria storia.

il circolo di filosofia e storia della filosofia

Gentile riprende da Hegel la concezione dell’unità della filosofia nel suo sviluppo storico, al quale ogni filosofo contribuisce con le proprie costruzioni. A questo riguardo, Gentile parla di circolo di filosofia e storia della filosofia, nel senso che per fare storia della filosofia occorre filosofare e per fare filosofia occorre presupporre la storia della filosofia. Chi ricostruisce storicamente una filosofia del passato deve, infatti, avere un concetto unitario di che cosa sia la filosofia nella sua totalità.

la critica della scienza

Per quanto riguarda la scienza, Gentile non le riconosce la posizione di primato che le era stata data dalla cultura positivistica, ricollocando piuttosto la filosofia al vertice del sapere. A suo avviso, infatti, la scienza assomma in sé i difetti propri sia dell’arte sia della religione: 1) come la religione, essa pretende di essere un sapere puramente oggettivo, ossia di liberare l’oggetto dalla soggettività; 2) come l’arte, essa presume di conoscere l’oggetto attraverso la sensazione, che – essendo inevitabilmente soggettiva – le impedisce tuttavia di raggiungere l’universalità propria della filosofia. La scienza assume dogmaticamente i dati forniti dalla sensazione, presupponendo quindi l’esistenza dell’oggetto come qualcosa che sta separato e autonomo di fronte al pensiero. Anche nella scienza, dunque, è immanente una filosofia, ma questa si riduce a una forma unilaterale di naturalismo e materialismo: ogni scienza, infatti, trasforma tutto ciò di cui si occupa in natura, ossia in una serie di dati esterni all’atto concreto del pensare.

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5. Gentile: società, diritto, Stato etico Il soggetto della prassi è libero ma proprio per questo, secondo Gentile, ha bisogno degli altri io. Al chiarimento di questo punto e all’analisi della comunità umana e del suo fondamento, Gentile dedicò la sua ultima opera, scritta nel 1943 e pubblicata postuma – nel 1946 – col titolo Genesi e struttura della società. In essa, egli respinge tutte le concezioni atomistiche della società, che la considerano come l’aggregato di una molteplicità di individui empirici.

la critica dell’atomismo sociale

A suo avviso, i veri attori sociali non sono gli individui empirici, ma l’Io trascendentale che – come abbiamo visto – è unità vivente di universale e particolare. Il soggetto trascendentale, infatti, è pensiero pensante in cui l’universale si fa e si pone incessantemente e, quindi, ha necessità del molteplice. In tal senso, secondo Gentile, un individuo è veramente tale solo in quanto è Io trascendentale, ovvero un’unità che pone e risolve in sé la molteplicità: a esso la comunità è immanente come sua legge, nel senso che «ogni io è noi, ma non un noi già fatto e preesistente», bensì un noi che mira a farsi universale. Esiste, secondo Gentile, una societas in interiore homine: già nel dialogo interiore di ciascuno con se stesso c’è chi parla e chi ascolta e, dunque, è presente l’umanità.

la società dentro di noi

La società è «la realtà del volere nel suo processo» e il volere come volere comune e universale è lo Stato. La nazione non s’identifica con il suolo, il modo di vita e la tradizione comune: tutto ciò costituisce soltanto la materia della nazione, che richiede, invece, la coscienza di tale materia e, insieme, il fare di essa l’oggetto della propria volontà. In questo senso, Gentile afferma che lo Stato crea la nazionalità, non viceversa.

stato e nazione

Fuori dello Stato, secondo Gentile, non esiste alcun diritto, nessun presunto diritto naturale. Il diritto è l’attuazione della volontà dello Stato in quanto volontà dei cittadini, ossia in quanto volontà universale. Tale attuazione ha luogo nella legge, nella quale gli individui empirici trovano il loro limite.

che cos’è il diritto?

Contro le teorie liberali, che rivendicano l’autonomia di una sfera privata individuale, Gentile riprende da Hegel la nozione di uno Stato che – in quanto volere universale superiore alle volontà puramente individuali – non ha limiti al di sopra di sé e non riconosce nulla fuori di sé. Con queste tesi, Gentile continuava a fornire un sostegno teorico alla concezione dello Stato propria del fascismo. A suo avviso, l’errore del liberalismo consiste nel presupporre una libertà individuale fuori dello Stato, mentre soltanto nello Stato l’uomo è propriamente libero. In questo senso, è un’operazione di astrazione contrapporre l’etica alla politica e ravvisare nella prima il criterio per giudicare la seconda. In realtà, è impossibile un’etica a-politica, in quanto la politica è l’attività dello spirito in quanto Stato.

contro il liberalismo

Lo Stato, come si è visto, non è un’entità oggettiva contrapposta all’individuo, ma è l’autocoscienza del soggetto trascendentale in quanto volontà universale. Ciò fa dello Stato stesso una sorta di persona morale, con fini e

l’immanente eticità dello stato

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volontà superiori a quelli degli individui, e, pertanto, la suprema manifestazione della vita etica: è questa la nozione di Stato etico. Nella superiore moralità dello Stato, il limite rappresentato dalle leggi viene riconosciuto dagli individui come limite proprio. In altre parole, il momento coercitivo della forza viene interiorizzato e fatto proprio sotto forma di consenso: si realizza in tal modo una sintesi di autorità e libertà [t25].

in poche... parole Nell’Italia post-unitaria la cultura di stampo positivistico fino ad allora dominante comincia a dare i primi segni di debolezza. Bertrando Spaventa, figura di rilievo dell’hegelismo napoletano, avverte l’esigenza di individuare una tradizione filosofica nazionale, facendola iniziare nel Rinascimento italiano. Antonio Labriola, per lungo tempo docente all’università di Roma, aderisce al marxismo, dando importanti contributi alla teoria del materialismo storico. L’offensiva antipositivistica conobbe, tuttavia, i suoi maggiori successi all’inizio del Novecento grazie a Benedetto Croce e Giovanni Gentile, entrambi promotori di un ritorno all’idealismo hegeliano, sebbene criticato e corretto in alcuni suoi aspetti essenziali. Gli apporti più significativi di Croce alla cultura italiana ed europea del tempo possono essere raccolti attorno a quattro nuclei tematici principali: 1) la critica della dialettica hegeliana degli opposti e la teorizzazione della circolarità dello spirito, che si sviluppa esprimendosi distintamente nelle quattro forme dell’estetica, della logica, dell’economia e dell’etica; 2) la riflessione estetica sul rapporto tra intuizione ed espressione e la rivendicazione dell’autonomia dell’arte rispetto alle altre forme dello spirito (il bello non ha niente a che fare con il vero, 246

l’utile, il buono); 3) l’elaborazione dello storicismo assoluto, in base al quale «la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia» e la riflessione sui compiti della storiografia; 4) l’esaltazione della libertà come scopo ultimo dello spirito umano in tutte le epoche storiche e la difesa del primato degli individui rispetto allo Stato.

dialettica dei distinti Croce ri-

prende da Hegel la nozione di dialettica come processo e articolazione intrinseca della realtà e del pensiero. Ciononostante, egli ritiene che la dialettica hegeliana degli opposti non sia adeguata a descrivere le forme dello spirito e i loro rapporti reciproci. L’opposizione è interna a ciascuna forma dello spirito: per esempio, nell’estetica tra bello e brutto, nella logica tra vero e falso, nell’economia tra utile e dannoso, nell’etica tra buono e cattivo. Tra le quattro forme dello spirito sussiste invece, secondo Croce, una dialettica dei distinti, per cui ciascuna forma è implicata dalla precedente e implica la successiva. Così la logica come conoscenza dell’universale concreto presuppone l’estetica, ossia la conoscenza intuitiva dell’individuale. A sua volta la conoscenza è implicata dalla volizione, che senza di essa sarebbe soltanto volontà cieca. Nell’ambito delle forme pratiche dello spirito, inoltre, l’etica presuppone l’economia, in quanto

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il fine universale – il bene – non può non essere voluto anche come fine particolare. In ciò consiste la circolarità tra le forme dello spirito, dalla quale esso esce continuamente arricchito.

«l’intuizione è espressione»

Per Croce l’estetica costituisce la prima forma della vita dello spirito e l’arte è conoscenza intuitiva dell’individuale. Con il termine «intuizione» Croce intende un atto spirituale non assimilabile alla percezione passiva delle cose, ma un’attività espressiva che dà forma al materiale offerto dalle sensazioni. Un’intuizione «che non sia parola, canto, disegno, pittura, scultura, architettura, parola per lo meno mormorata tra sé e sé, canto per lo meno risonante nel proprio petto, disegno e colore che si veda in fantasia e colorisca di sé tutta l’anima e l’organismo, è cosa inesistente» (Aesthetica in nuce). A suo avviso, gli aspetti esecutivi o tecnici di un’opera non aggiungono nulla all’intuizione artistica, ma servono soltanto a comunicare ad altri l’immagine formatasi interiormente. In tal senso, il bello corrisponde all’espressione riuscita e il brutto a quella incompiuta, dovuta ad interferenze di altre forme dello spirito. Croce parla anche di «intuizione lirica», intendendo con essa la sintesi a priori di sentimento e di immagine: «il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’im-

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magine senza il sentimento è vuota». Grazie all’intuizione lirica, infatti, l’immagine (= la forma) trasfigura il sentimento (= il contenuto), che altrimenti potrebbe restare sul piano della «tumultuosa passionalità» individuale o decadere a «vano fantasticare», attribuendogli un valore e una portata universali. In ciò consiste la poesia, che Croce distingue dalla letteratura, ovvero da tutte le forme espressive che hanno carattere didascalico, erudito o di mero intrattenimento.

concetto Per Croce la logica co-

stituisce la seconda forma della vita dello spirito e corrisponde all’attività di pensiero. Essa si fonda sull’intuizione, ma va oltre essa, in quanto coglie l’universale nell’individuale. Il pensiero si articola tramite i concetti, che Croce definisce come «universali concreti». I concetti sono universali, perché trascendono le singole rappresentazioni; sono concreti perché sono immanenti a questa o quella rappresentazione. Per Croce, pensare concetti equivale a formulare giudizi. A suo avviso, è possibile distinguere due tipi di giudizi: a) le definizioni, nelle quali soggetto e predicato sono entrambi universali (ad esempio, l’uomo è un animale ragionevole); b) i giudizi individuali, nei quali il soggetto è individuale e il predicato è universale (ad esempio, Pietro è un uomo). I giudizi individuali, secondo Croce, sono sempre dei giudizi storici, in quanto presuppongono la sintesi dell’elemento intuitivo-individuale (= il soggetto, la realtà di fatto) con quello logico-universale (= il predicato): «se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà». Gli storici fanno largo uso di giudizi individuali, in quanto cercano di ricondurre i fatti

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storici riferiti dalle fonti sotto un concetto universale (ad esempio, Stato, guerra, ecc.).

pseudoconcetto Termine usato da Croce per indicare le nozioni generali, differenti dal concetto puro o universale concreto, escogitate e impiegate dalle varie scienze (sia quelle naturali, incluse la sociologia e la psicologia, sia quelle matematiche) per scopi puramente mnemonici o classificatori. Croce distingue tra due tipi di pseudoconcetti: 1) quelli empirici sono concreti senza essere universali (ad esempio, nozioni quali «casa», «gatto», «rosa» raccolgono sotto un unico nome una serie di individui simili che non sono sempre esistiti); 2) quelli astratti sono universali senza essere concreti (ad esempio, nozioni quali «triangolo», «moto libero» non si riferiscono a realtà effettivamente esistenti). In altre parole, gli pseudoconcetti empirici «contengono alcuni oggetti o frammenti della realtà, ma non la contengono tutta»; al contrario, gli pseudoconcetti astratti hanno portata universale, ma non hanno per oggetto nulla di reale (il «triangolo» e il «moto libero» non esistono nella realtà). In questo quadro, secondo Croce, le leggi scientifiche o i princìpi matematici – essendo formati da pseudoconcetti – non possiedono un autentico valore conoscitivo, ma attengono piuttosto all’attività pratica dello spirito, che con un solo nome può richiamare una molteplicità di rappresentazioni. attività pratica La vita dello

spirito si attua, secondo Croce, nelle sfere dell’attività teoretica (estetica e logica) e dell’attività pratica (economia ed etica). Con l’attività teoretica l’uomo conosce le cose, con l’attività pratica agisce per mutarle. L’attività pratica implica quella teoretica, ma non viceversa: nessuna azione della volontà sarebbe possibile, infatti, se non fosse preceduta da una co-

noscenza intuitiva o logica (non si saprebbe su quale realtà intervenire); ciò non significa, tuttavia, che la conoscenza teoretica possa fornire indicazioni sull’utilità o sulla bontà dello scopo da perseguire. L’attività economica è, per Croce, la volontà che ha per oggetto l’utile individuale; l’etica, invece, è la volontà che ha per fine il bene universale. Anche in questo caso, l’etica implica l’economia, ma non il contrario, perché la volizione dell’universale presuppone la volizione del particolare. Per Croce, infatti, è possibile perseguire coerentemente un fine individuale, anche se ciò è immorale; non è, invece, possibile perseguire un fine morale (il bene universale) se ciò non fosse avvertito dall’individuo come qualcosa di utile per sé. L’altro protagonista della cultura italiana della prima metà del Novecento fu Giovanni Gentile. Amico di Croce e dal 1903 suo collaboratore nella rivista da questi fondata, «La Critica», Gentile aderì successivamente al fascismo – interrompendo i rapporti con il filosofo napoletano – e ricoprì importanti incarichi accademici e politici. Nominato ministro della Pubblica Istruzione, dal 1922 al 1924 fu il promotore di un’epocale riforma della scuola che assegnava un indiscusso primato alla formazione umanistica rispetto a quella tecnico-scientifica. Sul piano filosofico, gli apporti di Gentile si concentrano attorno a tre principali nuclei tematici: 1) l’elaborazione dell’attualismo, e cioè della dottrina che individua nel pensiero in atto e nell’Io trascendentale il principio di tutta la realtà; 2) la critica alla dialettica crociana dei distinti e la tesi dell’unità dello spirito, in base alla quale non ha senso separare attività teoretica e attività pratica; 3) l’analisi della comunità umana, intesa come un «noi universale» presente nei

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singoli individui, e la conseguente teorizzazione dello Stato etico.

atto puro Con questa espressio-

ne Gentile ha designato il pensiero pensante, come pensiero in atto che nel pensare pone se stesso senza alcun presupposto: in questo senso esso è puro, ossia indipendente da ogni contenuto o condizione empirica. Ciò che è pensato dal pensiero in atto diventa pensiero astratto, ossia un fatto oggettivato, ormai separato dall’atto del pensiero. Nell’atto puro il pensiero è interamente immanente a se stesso. L’errore delle metafisiche tradizionali consiste invece nell’introduzione della trascendenza, ossia nel porre che esista qualcosa di altro rispetto al pensiero in atto, per esempio la natura, le cose esterne, gli altri io o Dio. Dall’unità dell’atto del pensiero, che supera l’alterità come tale e ripor-

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ta tutto a se stesso, scaturisce il carattere unitario della realtà spirituale. Ciò significa che la filosofia permea tutte le forme e attività dello spirito e fuori della filosofia non c’è propriamente attività spirituale. E ogni atto spirituale è anche sempre pratico, perché volere non è altro che la concretezza del conoscere che si traduce in realtà. Lo Stato stesso, come volere comune e universale, non è un fatto, un’istituzione, un apparato privo di vita, ma atto.

Stato etico Per Gentile, la so-

cietà non è costituita da singoli individui ma dall’Io trascendentale, e cioè da un’unità vivente che tende a riassorbire in sé la molteplicità. In tal senso, la comunità è immanente ad ogni individuo come scopo a cui ognuno tende: «ogni io è noi, ma non un noi già fatto e preesistente», un noi che

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aspira a divenire universale. In questo quadro, lo Stato rappresenta il volere comune e universale, che annulla in sé le singole volontà individuali. Per Gentile, dunque, sulla scia di Hegel, non vi è alcuna separazione tra sfera pubblica e privata, lo Stato non è un’entità esterna che si contrappone agli individui e non ha limiti sopra di sé. Lo Stato, inoltre, coincidendo con la volontà universale dei cittadini, è la suprema manifestazione della vita etica di un popolo, e cioè moralità realizzata. Soltanto all’interno dello Stato, infatti, l’uomo può essere veramente libero: i cittadini considerano le finalità e la volontà dello Stato come superiori alle proprie, interiorizzandole e facendole proprie. Nello Stato etico prospettato da Gentile scompare la contrapposizione tra autorità e libertà, tra obbedienza e consenso.

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i testi t24 Croce / Intuizione ed espressione artistica Croce

Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale

parte I, cap. I

L’Estetica è l’opera che diede immediata celebrità a Croce: essa è lo sviluppo di una memoria che egli aveva letto, in tre sedute, all’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1900. Qui sono riportate le pagine iniziali, nelle quali Croce individua i caratteri costitutivi dell’arte nel fatto di essere conoscenza intuitiva, inscindibile dall’espressione. L’espressione, tuttavia, non deve essere confusa con l’estrinsecazione fisica in lettere scritte, suoni o colori materiali: Croce chiarisce che questo aspetto rientra nell’attività pratica dello spirito, non in quella conoscitiva che è specifica dell’arte. I passi riportati sono anche significativi per illustrare il metodo usato da Croce, soprattutto nei suoi scritti a carattere maggiormente sistematico, ossia nei volumi costituenti la «Filosofia dello spirito»: egli procede, infatti, alla determinazione dei significati dei concetti, mediante negazioni e distinzioni rispetto ad altri concetti imparentati o affini od opposti.

La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti1. Continuamente si fa appello, nella vita ordinaria, alla conoscenza intuitiva. Si dice che di certe verità non si possono dare definizioni; che non si dimostrano per sillogismi; che conviene apprenderle intuitivamente. Il politico rimprovera l’astratto ragionatore, che non ha l’intuizione viva delle condizioni di fatto; il pedagogista batte sulla necessità di svolgere anzitutto nell’educando la facoltà intuitiva; il critico si tiene a onore di mettere da parte, innanzi a un’opera artistica, le teorie e le astrazioni e di giudicarla intuendola direttamente; l’uomo pratico, infine, professa di vivere d’intuizioni più che di ragionamenti2. 1. Croce impiega una procedura dico-

tomica, ossia di divisione per due, distinguendo le due forme possibili di conoscenza, caratterizzate da due serie parallele di proprietà: da una parte, la conoscenza intuitiva, che avviene mediante la fantasia, ha per oggetto l’individuale, ossia entità singole, e dà luogo alla produzione di immagini; dall’altra, invece, la conoscenza logica (a cui Cro-

Ma a questo ampio riconoscimento che la conoscenza intuitiva riceve nella vita ordinaria, non fa riscontro un pari e adeguato riconoscimento nel campo della teoria e della filosofia. Della conoscenza intellettiva c’è una scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. – Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della intellettiva? È un servitore senza padrone; e, se al padrone occorre il servitore, è ben più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca; l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha

ce dedicherà una trattazione apposita, la Logica come scienza del concetto puro), che avviene mediante l’intelletto, ha per oggetto l’universale, ossia le relazioni tra le cose, e dà luogo alla produzione di concetti. 2. Tratto saliente della conoscenza intuitiva è di essere immediata, ossia di cogliere il proprio oggetto senza dover ricorrere a passaggi intermedi e, quin-

di, senza dover effettuare ragionamenti o sillogismi. Pur essendo valutata positivamente nell’ambito della vita ordinaria, tale conoscenza, secondo Croce, non ha ricevuto adeguato riconoscimento sul piano teorico ed è anzi di solito svalutata rispetto alla conoscenza logica: alla rivalutazione teorica di essa, Croce intende appunto provvedere con l’Estetica.

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bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi proprî, validissimi3. E se è indubitabile che in molte intuizioni si possono trovare mescolati concetti, in altre non è traccia di simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario. L’impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di un paese, delineato da un cartografo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, o quelle con le quali chiediamo, comandiamo e ci lamentiamo nella vita ordinaria, possono ben essere tutti fatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali. Ma, checché si pensi di questi esempî, e posto anche si voglia e debba sostenere che la maggior parte delle intuizioni dell’uomo civile siano impregnate di concetti, v’è ben altro, e di più importante e conclusivo, da osservare. I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. Le massime filosofiche, messe in bocca a un personaggio di tragedia o di commedia, hanno colà ufficio, non più di concetti, ma di caratteristiche di quei personaggi; allo stesso modo che il rosso in una figura dipinta non sta come il concetto del color rosso dei fisici, ma come elemento caratterizzante di quella figura. Il tutto determina la qualità delle parti4. Un’opera d’arte può essere piena di concetti filosofici, può averne, anzi, in maggior copia, e anche più profondi, di una dissertazione filosofica, la quale potrà essere, a sua volta, ricca e riboccante di descrizioni e intuizioni. Ma nonostante tutti quei concetti, il 3. Contro la tradizionale subordinazio-

ne della conoscenza intuitiva, immediata, rispetto a quella intellettiva e concettuale, Croce rivendica a pieno titolo l’autonomia e la dignità di essa. 4. Croce rileva che molte intuizioni sono di fatto mescolate a concetti, ossia a elementi propri della conoscenza logica, piuttosto che di quella intuitiva, ma fa osservare che, in tal caso, i concetti stessi vengono a essere modificati a

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risultato dell’opera d’arte è un’intuizione; e, nonostante tutte quelle intuizioni, il risultato della dissertazione filosofica è un concetto. I Promessi sposi contengono copiose osservazioni e distinzioni di etica; ma non per questo vengono a perdere, nel loro insieme, il carattere di semplice racconto o d’intuizione. Parimente, gli aneddoti e le effusioni satiriche, che possono trovarsi nei libri di un filosofo come lo Schopenhauer, non tolgono a quei libri il carattere di trattazioni intellettive. Nel risultato, nell’effetto diverso a cui ciascuna mira e che determina e asservisce tutte le singole parti, non già in queste singole parti staccate e considerate astrattamente per sé, sta la differenza tra un’opera di scienza e un’opera d’arte, cioè tra un atto intellettivo e un atto intuitivo. [...] Vi è un modo sicuro di distinguere l’intuizione vera, la vera rappresentazione, da ciò che le è inferiore5: quell’atto spirituale dal fatto meccanico, passivo, naturale. Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola «espressione» un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazione dell’uomo,

opera del contesto globale, di carattere intuitivo, nel quale si trovano inseriti e perdono, quindi, il loro carattere specifico per diventare elementi integranti dell’intuizione. 5. Ossia dalla pura e semplice sensazione o associazione di sensazioni. La sensazione, infatti, è puramente passiva, non richiede alcun intervento da parte del soggetto che la subisce e, pertanto, non è propriamente un atto

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spirituale, come lo è invece l’intuizione. Non si deve dimenticare che, per Croce, spirito significa principalmente attività. A dimostrare il carattere attivo e spirituale dell’intuizione sta, secondo Croce, il fatto che essa è sempre al tempo stesso anche espressione, ossia si traduce e dà sempre luogo alla produzione di immagini, che possono essere di varia natura, non necessariamente soltanto verbali.

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oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura geometrica, se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuire davvero il contorno d’una regione, per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in grado di disegnarlo così come esso è in tutti i suoi meandri? A ognuno è dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in quel punto che riesce, a formolare a sé stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni pas-

sano allora, per virtù della parola, dall’oscura ragione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dall’espressione.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono le caratteristiche della conoscenza intuitiva e della conoscenza logica? 2. In che modo è possibile distinguere l’intuizione vera da ciò che le è inferiore? 3. Che rapporto c’è tra intuizioni e concetti nell’opera d’arte? Evidenzia sul testo la posizione di Croce.

t25 Gentile / Stato etico e moralità Gentile

Genesi e struttura della società

cap. VI, §§ 7-9

L’ultima opera di Gentile, Genesi e struttura della società, che ha per sottotitolo Saggio di filosofia pratica, fu composta nel 1943 e pubblicata postuma nel 1946. Come buona parte degli scritti e delle acquisizioni teoriche di Gentile, anche questa è il risultato delle sue lezioni universitarie: in questo caso si tratta di un corso tenuto all’università di Roma nel 1942-43 sulla «dottrina trascendentale del volere e della società». Elaborata in un momento drammatico della storia italiana, in cui Gentile ribadisce la sua fedeltà al fascismo, in quest’opera giungono a maturazione, e con nuovi sviluppi, i temi che avevano guidato la sua riflessione etico-politica e che lo avevano indotto a dare il proprio sostegno al regime; in particolare, la sua concezione della società, dello Stato, del diritto e della politica.

La forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex) è il volere voluto, che si pone come limite della libertà. Questo limite è necessario, e non può mancare. È il momento del diritto, dello Stato come autori1. Gentile ha definito poco prima il di-

ritto come la volontà dello Stato, che si traduce in leggi, ossia in volere voluto, oggettivato in norme, le quali regolano i rapporti tra Stato e cittadini (diritto pubblico) o tra cittadini e cittadini (diritto privato). Nello Stato e, quindi, anche nel diritto, che ne è espressione, la

tà, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio1. Lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità. Impossibile quindi che non gli competa la stessa moralità dell’individuo, quando nel-

volontà del cittadino è attuata come volontà universale, non come interesse particolare: le leggi rappresentano, pertanto, dei limiti posti alla libertà degli individui empirici, singolarmente presi. Di fronte alla volontà universale dello Stato deve, dunque, cedere ogni arbitrio puramente individuale: in que-

sto senso, è costitutivo dello Stato il momento dell’autorità e della forza, ma ciò non significa, secondo Gentile, che lo Stato sia negazione della libertà, anzi nel seguito egli cerca di mostrare che proprio nello Stato si attua una più alta libertà.

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l’individuo lo Stato non sia un presupposto – limite della sua libertà – ma la stessa attualità concreta del suo volere2. La distinzione regge nel terreno empirico finché si distingua e opponga l’individuo allo Stato. Allora si può pensare una moralità individuale non congruente con la legge dello Stato. Ma, comunque, lo Stato come volere ha una legge universale, un imperativo categorico, che non può essere altro che moralità3. E le incongruenze non possono riguardare altro che la diversità dei problemi da risolvere, sempre diversi anche nell’ambito della cosiddetta moralità individuale. Da questo concetto dello Stato deriva la sua immanente eticità. Della quale vuole spogliarlo chi? Chi ha interesse a osteggiarlo: l’opposizione che ne fa bersaglio a’ suoi colpi, comincia naturalmente dal farne una res, scevra di valore, immeritevole perciò di qualsiasi rispetto. Ma chi nega l’eticità dello Stato, s’affretta ad apprestargli con la sinistra quel che gli ha strappato con la destra. Perché lo Stato di cui si disconosce il valore etico è... quello degli altri. Al quale giova sostituirne un altro che, ben inteso e ben trattato, potrà esser sì rivestito del valore che la concezione morale e religiosa della vita può conferirgli facendone uno strumento delle sue finalità superiori. Senza avvertire che una cosa (strumento) non potrà mai acquisire alcun valore; e che perciò, su questa via, non c’è altra possibile via d’uscita che la teocrazia. La quale foggia o postula uno Stato, che coincidendo con la stessa divina volontà ricade nel concetto del contestato Stato etico. Ma se la teocrazia non è parola vuota, non c’è ragione di adombrarsene. Perché nessun dub2. Il diritto e le leggi, poste dallo Stato,

sono volontà voluta, ossia codificata in norme fisse: esse, quindi, rappresentano un momento astratto rispetto alla concretezza del volere in atto, ossia alla volontà volente, in cui consiste la moralità. Questa è, infatti, definita da Gentile come lo «spiritualizzarsi del voluto nell’atto del volere»: ciò significa che nella moralità è superata la positività del diritto, nel senso che in essa i limiti posti dal diritto e dalle leggi vengono riconosciuti e fatti propri. In tal modo, questi limiti, diventando auto-limitazio-

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bio che il volere dello Stato è un volere divino, sia che s’intenda nella immediatezza della sua autorità, sia che più pienamente si assuma come l’attualità concreta del volere. C’è sempre Dio: il Dio del vecchio e del nuovo Testamento. La ribellione morale che provoca lo Stato etico è la riconferma della sua eticità. Perché una forza amorale non potrebbe mai dar luogo ad apprezzamento etico. La ribellione nasce ogni volta che dello Stato si senta la forza, e non si riconosca il valore (positivo)4. Ma in questo caso gli si attribuisce bensì un valore, ancorché negativo; come al peccatore che si vuol ravveduto, pentito, redento; e si considera perciò capace di ciò. La prova flagrante dell’eticità dello Stato è nella coscienza dell’uomo di Stato. I luoghi comuni delle divergenze tra morale e politica rientrano nella casistica della dottrina morale. Nessuna più efficace riprova dell’eticità dello Stato che il moralismo, di buona o cattiva lega, ingenuo o retorico, con cui s’industriano di venir toccando e tentando di risanare le piaghe morali della convivenza politica gli avversari della dottrina dello Stato etico. I quali dopo avere logicamente spogliato lo Stato e la politica, in cui esso si attua, d’ogni attributo morale, inorridiscono della umanità che essi si sono artificialmente foggiata in mente: umanità senza umanità, poiché la moralità è certamente la caratteristica più essenziale dello spirito umano. Uno Stato per sua natura anetico non è perciò immorale; ma è peggio che immorale. Io

ni, non tolgono nulla alla libertà, ma risultano manifestazioni della forza stessa della libertà. 3. Opporre la moralità allo Stato significa, secondo Gentile, concepire la moralità come una prerogativa propria dei singoli individui empirici. Essa, invece, è propria dello Stato, che è il vero e unico individuo, sintesi di particolare e universale, in quanto è volontà dell’universale e va, dunque, oltre la particolarità degli interessi puramente individuali. In tal senso, Gentile respinge ogni tentativo di trovare la moralità

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fuori dallo Stato e parla, dunque, di eticità immanente allo Stato. 4. Come si è visto, secondo Gentile, solo astrattamente si può contrapporre allo Stato una presunta moralità individuale, sicché coloro che teorizzano e mettono in opera questa contrapposizione si riducono a fare del moralismo astratto, auspicando, in realtà, pur sempre uno Stato, anche se diverso da quello che essi combattono su un presunto piano morale autonomo.

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direi che sia inumano, se è vero, come s’è avvertito, che nessuna forma di attività umana è concepibile che non sia per sé stessa subordinata alla legge morale. Peggio che immorale. Perché l’immorale è destinato a redimersi e ricrearsi nella moralità; laddove l’amorale è per definizione escluso da ogni possibilità di moralizzarsi. E può l’uomo tollerare che nell’ambito del suo operare qualche cosa si sottragga all’impero di quella legge morale che è la creatrice della sola vita possibile all’uomo? Anche gli animali domestici che l’uomo s’è indotto ad ammettere nel circolo della sua vita quotidiana, egli li assoggetta ad una rudimentale regola di condotta, a una elementare distinzione di lecito e illecito, che in tutti i modi cerca loro di inculcare fino al punto di poter confidare che essi, comunque, se la siano appropriata e l’osserveranno. Così innanzi alla feroce forza che fa nomarsi dritto, innanzi a questo Briareo dalle cento braccia, che mette le mani per tutto e fa e disfà l’opera degli individui che sono in concreto la realtà morale, pura forza immane e ignara di ogni norma di giustizia, ecco scattare il naturale bisogno dell’anima umana di proclamare e difendere la moralità, ossia la salvezza dello spirito. Codesta forza andrà bensì riconosciuta e conservata, ma in quanto utile ai fini dello spirito che essa ignora, e che perciò la trascendono. Lo spirito, moralità, è libertà. Ebbene lo Stato, che per sé stesso ignora que-

5. Solo attraverso lo Stato etico, se-

condo Gentile, la moralità e la libertà, che ne è il presupposto, possono trovare adeguato fondamento e realizzazione. Infatti, un’umanità lasciata a se stessa sarebbe preda di una totale amoralità, al di fuori di ogni regola e legge morale. Se le cose stanno così, non ha senso, secondo Gentile, pretendere di assoggettare lo Stato, che è intrinsecamente morale, in quanto volontà che vuole l’universale, a una presunta superiore legge morale. Questo è l’errore del moralismo, che non si rende conto che la vera sede della moralità è lo Stato stesso, che perciò è definibile come Stato etico. È evidente, in queste pagine, la polemica di Gentile

sta libertà, la quale lo trascende come qualcosa di affatto superiore e incommensurabile, deve con le sue instituzioni favorire e promuovere l’esercizio di questa libertà5. Deve? Ma dunque ha un dovere morale? È anch’esso etico come ogni singolo individuo che ha i suoi doveri verso la libertà e che noi distinguiamo nel seno dello Stato? Sarà come un animale da addomesticare; giacché che altro è addomesticare un animale se non ammetterlo, come si diceva, nella nostra società, nella nostra famiglia, e quindi contradire in pratica a quella natura sub-umana e però antisociale che gli si è attribuita senza troppo pensarci su? Lo Stato sordo alla legge morale appunto perciò si finisce con volerlo assoggettare ad una guida superiore, quasi ad un’artificiale moralizzazione e umanizzazione. E dall’arbitrarietà dell’assunto, scaturisce una sorta di zelo impaziente, di violenta frettolosità di strafare. Per la quale in questi filosofi della politica non è più la moralità che si fa innanzi con la sua schietta ed eloquente semplicità, ma un moralismo passionato ed oratorio che si riversa sulla storia e la sommerge in un indistinto movimento di luci e di ombre soprannuotanti al reale processo storico, in cui si viene realizzando lo Stato: col risultato di ridurre il grande problema dello Stato, che è il problema della storia universale, al piccolo problema borghese del dare e dell’avere di questo o quello Stato, di questo o quel partito dominante, di questo o quell’uo-

contro i teorici liberali, in particolare Croce, per i quali lo Stato è soltanto uno strumento di salvaguardia e protezione degli individui e delle loro libertà, non un’entità dotata di valore superiore ai singoli individui, una persona morale o una sostanza etica. Per Gentile, lo Stato etico (e il governo in cui esso s’incarna e che ha il compito di fare le leggi e di farle rispettare) è sintesi di coazione e di consenso: per quanto coatto, il consenso comporta pur sempre, a suo avviso, un minimo di spontaneità. Governo e cittadini possono essere opposti soltanto se si concepiscono gli individui come la sorgente esclusiva di tutti i loro diritti e doveri e lo Stato come un semplice strumento di coordina-

zione delle libere attività individuali. Secondo Gentile, questa concezione liberale dello Stato è tipica di un preciso momento storico, legato allo sviluppo della società borghese e industriale europea a partire dalla fine del Seicento: essa è, dunque, una dottrina storicamente contingente, elaborata per risolvere un problema storico contingente, ossia il superamento dello Stato feudale, fondato esclusivamente sull’autorità. A suo parere, questo problema è ormai stato risolto e superato dalla superiore dottrina dello Stato etico, in cui si realizza la sintesi dei due momenti dell’autorità e della libertà, che non possono più essere contrapposti astrattamente l’uno all’altro.

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mo di Stato di fronte all’ideale morale. Tanto più cresce l’ansia morale quanto più questa è stata negata là dove è la sua sede. L’ansia, l’affanno... e la retorica traggono motivo dalla disperazione di mai più abbracciarsi col vivo della vita morale.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo l’espressione che definisce la concezione gentiliana di «diritto». 2. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono la concezione gentiliana di «Stato». 3. Ricostruisci il ragionamento con cui Gentile sostiene la tesi della natura «etica» dello Stato. 4. Su che cosa Gentile fonda la sua concezione dello Stato etico? 5. Che cosa sarebbe uno Stato che disconoscesse il proprio fondamento etico?

esercizi/8 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le espressioni che illustrano il clima culturale e le linee del dibattito filosofico in Italia dopo l’unificazione nazionale. 2. Evidenzia la posizione di Croce sul socialismo. 3. Evidenzia il ruolo della conoscenza intuitiva per Croce. 4. Evidenzia le critiche che Croce muove alla filosofia hegeliana nelle differenti fasi del suo pensiero. 5. Evidenzia perché per Croce la religione, il diritto e la politica rientrano nella sfera dell’attività pratica. 6. Evidenzia la posizione politica di Croce nelle differenti fasi del suo pensiero. 7. Evidenzia qual è stato, secondo Gentile, l’errore di Marx.

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8. Evidenzia le espressioni che illustrano la distinzione gentiliana fra dialettica del pensato e dialettica del pensare. 9. Evidenzia le critiche che Gentile muove alla filosofia hegeliana. 10. Evidenzia la distinzione gentiliana tra autoctìsi e eteroctìsi. 11. Evidenzia la posizione di Gentile sul ruolo della filosofia rispetto all’arte e alla religione. 12. Evidenzia le critiche di Gentile alle concezioni atomistiche della società. Dizionario filosofico 13. Definisci i seguenti concetti: precorrimento (Spaventa) • universale concreto (Croce) • pseudoconcetti (Croce) • circolarità dello spirito (Croce) • autoctìsi (Gentile) • Io trascendentale (Gentile) • Stato etico (Gentile)

esercizi/8

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CHE COSA HO CAPITO?

Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe)

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)

25. Che differenza c’è, per Croce, tra definizioni e giudizi individuali? Fai degli esempi.

14. In che modo Labriola reinterpreta la teoria marxiana di struttura e sovrastruttura?

26. Illustra la concezione estetica di Croce.

15. Perché, secondo Croce, il materialismo storico non è una filosofia della storia? 16. Quali sono le forme dello spirito secondo Croce? Qual è la caratteristica propria di ognuna? 17. Qual è la posizione di Croce nei confronti della dialettica hegeliana? 18. Con quale argomentazione Croce riafferma il principio dell’autonomia dell’arte? 19. Ricostruisci l’argomentazione con cui Croce critica la concezione positivista della storia.

27. Perché Croce sostiene la distinzione fra poesia e letteratura? 28. Ricostruisci l’argomentazione crociana sul rapporto fra storia e storiografia. 29. In che cosa consiste la tesi crociana dell’identità di storia e filosofia? 30. Che rapporto c’è, secondo Croce, fra economia ed etica? 31. Ricostruisci l’argomentazione crociana per cui la storia è progressiva realizzazione della libertà.

20. Che cos’è il vitale per Croce?

32. In che cosa consiste la tesi gentiliana del rovesciamento della prassi?

21. Perché Gentile distingue «pensiero astratto» e «pensiero concreto»?

33. Qual è il soggetto del pensiero in atto secondo Gentile?

22. Qual è la posizione di Gentile in merito alla dialettica dei distinti, teorizzata da Croce?

34. Illustra le conseguenze della tesi gentiliana dell’«unità dello spirito» sul rapporto io-altri.

23. Gentile parla di circolo di filosofia e storia della filosofia. Che cosa vuol dire?

35. Come avviene il processo educativo secondo Gentile?

24. Che cosa intende dire Gentile con la formula societas in interiore homine («la società è interiore all’uomo»)?

36. Illustra la concezione dello Stato di Gentile.

esercizi/8

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coscienza e sono intenzionati dagli atti della coscienza. In tal modo, si diventa spettatori disinteressati non delle singole cose empiriche, ma delle loro essenze universali e necessarie. la coscienza trascendentale come fondamento

9. husserl e la fenomenologia i contenuti la fenomenologia come scienza rigorosa

Riprendendo da Brentano il concetto di intenzionalità – secondo cui i fenomeni psichici sono atti con i quali la mente è sempre in relazione a un oggetto – Husserl mette a punto la fenomenologia pura. Il suo obiettivo è quello di descrivere le leggi logiche che operano soggettivamente nel vissuto concreto della conoscenza, partendo dagli oggetti colti negli atti conoscitivi. Su questa base la fenomenologia può presentarsi come scienza rigorosa in grado di realizzare l’idea di conoscenza

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assoluta a partire da un fondamento certo. il superamento dell’atteggiamento naturale

Per far ciò, il fenomenologo deve neutralizzare tutte le conoscenze e i pregiudizi derivanti dall’atteggiamento naturale – e, pertanto, anche quelli delle scienze empiriche. Tali conoscenze, infatti, assumono come ovvia l’esistenza del mondo e degli oggetti. Per liberarsi da ogni presupposto, secondo Husserl, occorre operare l’epochè. Grazie a essa è possibile mettere tra parentesi l’esistenza delle cose del mondo e assumere l’atteggiamento fenomenologico. Dopo l’epochè, infatti, il mondo si presenta come un insieme di fenomeni che si danno alla

9. husserl e la fenomenologia

Ciò su cui però non è possibile sospendere il giudizio, come aveva già mostrato Cartesio, è il fatto che io sto pensando, ossia la coscienza pura (o trascendentale). A differenza di Cartesio, tuttavia, essa non deve essere concepita come una sostanza, ma come una funzione. Più precisamente, la coscienza pura è ciò che resta dopo l’attuazione dell’epochè o – il che è lo stesso – ciò che non può essere messo tra parentesi. La coscienza pura è, dunque, il fondamento – assolutamente certo ed evidente – grazie al quale il mondo e le cose acquistano senso. il mondo-della-vita e le scienze

Secondo Husserl, le scienze e la cultura europea – di cui esse sono espressione – stanno attraversando una crisi. Le scienze europee, infatti, si sono ridotte a mere scienze di fatti che prescindono da ogni riferimento al soggetto e quindi dal problema del senso dell’esistenza e del mondo in generale. In altre parole, nelle scienze è andato dimenticato il fondamento di ogni sapere possibile, che conferisce senso alle scienze stesse. Tale fondamento è dato, secondo Husserl, dalla soggettività trascendentale che si radica nel mondo-della-vita. Questo è il regno delle evidenze originarie comuni a tutti gli uomini in quanto soggetti conoscenti. Dalla crisi delle scienze sarà possibile uscire solo attraverso la riduzione fenomenologica (o epochè), capace di mettere in luce le strutture di questa sorgente ultima di tutte le formazioni conoscitive. scheler e l’etica dei valori

Il metodo fenomenologico fu esteso anche ad altri ambiti

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dell’esperienza umana, in particolare a quello della vita emotiva e dell’etica da parte di Scheler. A suo avviso, la sfera dei sentimenti è autonoma da quella del conoscere, ma è anch’essa caratterizzata dall’intenzionalità: anch’essa, infatti, è dotata di

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contenuti propri dati a priori. Tali contenuti originari sono i valori, ossia le qualità inerenti alle cose, oggetto del sentire intenzionale. Avendo per oggetto i valori, l’etica può essere detta materiale, non formale, come quella kantiana, che eliminava dalla vita morale il

sentimento e le emozioni. I valori costituiscono un mondo oggettivo, gerarchicamente strutturato secondo leggi a priori. I valori più alti sono i valori della persona, i quali possono essere intuiti solo attraverso un atto di amore.

gli strumenti in poche… parole intenzionalità / evidenza / epochè / coscienza pura / ontologia / mondo-dellavita / valore / simpatia

esercizi

i testi a. nel manuale t26 Husserl/Atteggiamento naturale e intenzionalità t27 Husserl/La crisi europea e il compito della filosofia

b. on-line Husserl/L’epochè Husserl/Il mondo-della-vita e le scienze Scheler/L’etica e i valori Scheler/Simpatia e amore

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Le origini della fenomenologia il problema della conoscenza tra psicologia e logica

Nella seconda metà dell’Ottocento uno dei modi più consueti di affrontare il problema della conoscenza consiste nel chiedersi quali siano i processi psicologici attraverso i quali si formano le idee. A tale domanda è possibile rispondere per via empirica, grazie ai metodi della psicologia sperimentale, che studia i meccanismi della percezione e dell’apprendimento. A questa posizione – denominata psicologismo – studiosi di logica come Frege [cfr. 16.1] obiettano che essa non è in grado di affrontare il problema della validità della conoscenza stessa: arrivare a scoprire come si producono, si associano e si trasformano le idee non basta a dimostrare che esse siano vere oggettivamente – ossia indipendentemente da chi le pensa, da quando e da come le pensa.

brentano e la polemica con la psicologia sperimentale

Una posizione autonoma all’interno di queste discussioni è assunta da Franz Brentano (1838-1917). Sacerdote sino al 1873, quando – in seguito alla proclamazione dell’infallibilità del papa – abbandonò la Chiesa, Brentano fu professore nelle università di Würzburg e di Vienna. Nel 1895 lasciò l’insegnamento e trascorse gran parte della sua vita a Firenze. La sua opera più nota è la Psicologia dal punto di vista empirico (1874). Studioso di Aristotele, al quale dedicò numerose opere, Brentano considera la psicologia come scienza dei fenomeni psichici, fondata sul metodo dell’analisi e della descrizione. In tal senso, egli polemizza con la psicologia sperimentale, che invece si basa sull’osservazione diretta degli atti psichici o indiretta a partire dai loro effetti fisici. Secondo Brentano, infatti, i fenomeni psichici sono nettamente distinti da quelli fisici; d’altra parte, gli atti psichici non possono essere osservati come se si trattasse di oggetti, perché nel momento in cui li si osserva, li si distrugge nella loro peculiarità.

il primato della psicologia sulle altre scienze

Ciò non significa che la psicologia sia inferiore alle scienze fondate sull’osservazione: queste ultime, anzi, non hanno accesso diretto agli oggetti che intendono descrivere, ma costituiscono soltanto congetture a partire dal modo in cui gli oggetti appaiono a chi li osserva. Al contrario, la psicologia coglie direttamente i suoi oggetti e, pertanto, è la prima tra le scienze, la scienza del futuro. Le leggi psicologiche da essa scoperte potranno infatti fornire una base sicura all’agire (sia degli individui, sia delle masse) e, quindi, produrre effetti benefici sulla vita sociale.

la scoperta dell’intenzionalità

Diversamente dalla tradizione che si richiama a Cartesio o a Locke, Brentano ritiene che i fenomeni psichici non siano idee, ma atti con i quali la mente è in relazione a un oggetto. Il loro tratto caratteristico è, infatti, l’ intenzionalità . I fenomeni psichici si riferiscono sempre necessariamente a oggetti: così, per esempio, la percezione rimanda sempre a qualcosa di percepito, il desiderio a qualcosa di desiderato. In generale, dunque, la coscienza è sempre coscienza di (qualcosa), ovvero è sempre correlata a un contenuto oggettivo di cui ha evidenza immediata. Secondo Brentano, non esistono propriamente atti psichici inconsci. Infatti, noi non possiamo percepire i nostri atti mentali, senza essere al tempo stes-

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so coscienti di essi: per esempio, non possiamo udire un suono, senza essere al tempo stesso coscienti non solo del suono, ma anche dell’atto di udirlo. In questo caso, non si hanno due distinti atti di coscienza – la percezione del suono e la coscienza di percepirlo – ma un solo atto con due oggetti diversi, il suono (ossia un fenomeno fisico) e l’atto di udirlo (ossia un fenomeno psichico, distinto dai fenomeni fisici, in quanto caratterizzato dall’intenzionalità).

ad esempio: la percezione di un suono

L’atto mentale più semplice, secondo Brentano, è la rappresentazione, ossia il semplice avere un oggetto di fronte alla mente: essa fornisce l’oggetto agli altri atti, che costituiscono modalità diverse di riferirsi a esso. Tra questi sono fondamentali il giudizio, nel quale un oggetto è affermato o negato, e il sentimento, in cui esso è amato o odiato. A sua volta, inoltre, ciascun atto di giudizio si differenzia da un altro in base all’oggetto, ossia al suo contenuto intenzionale.

la classificazione degli atti psichici

2. Husserl: alla ricerca della logica pura Entro questo orizzonte di problemi e – in generale – nell’atmosfera neokantiana delle università di lingua tedesca, che pone al centro dell’indagine filosofica il problema della conoscenza, si muovono le prime ricerche di Edmund Husserl. Nato nel 1859 a Prossnitz, in Moravia, da famiglia ebrea, studiò matematica e fisica, prima presso l’università di Lipsia e poi – dal 1878 – in quella di Berlino, dove seguì i corsi dei matematici Kronecker e Weierstrass, laureandosi con quest’ultimo nel 1883. Nel 1884 tornò a Vienna, dove si avvicinò a Brentano e, nel 1887, sostenne l’esame per la libera docenza a Halle. In questo stesso anno, dopo essersi convertito alla confessione evangelica, sposò Malvine Charlotte Steinscheider, anch’essa ebrea convertita. Nel 1891 pubblicò la sua prima opera Filosofia dell’aritmetica, poi nel 1900 e 1901 i due volumi delle Ricerche logiche.

la formazione e i primi scritti

Nominato nel 1901 professore straordinario all’università di Gottinga, vi rimase sino al 1916, quando divenne professore a Friburgo. In questo periodo fondò la rivista che poi divenne l’organo del movimento fenomenologico, lo «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung» («Annuario di filosofia e di ricerca fenomenologica»), sul quale compariranno scritti importanti dei suoi primi discepoli (Scheler e Heidegger) e alcuni dei suoi scritti più significativi – quali Filosofia come scienza rigorosa (1911) e il primo volume delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913).

la carriera accademica: da gottinga a friburgo

Nel dopoguerra, la sua filosofia cominciò a essere conosciuta anche fuori dalla Germania: nel 1922 tenne una conferenza a Londra sulla fenomenologia e, nel 1929, altre conferenze alla Sorbona di Parigi, poi ripetute a Strasburgo. Il testo di queste conferenze fu trascritto in francese – sotto la guida di Alexandre Koyré – da Gabrielle Pfeiffer ed Emmanuel Lévinas, compa-

la diffusione della fenomenologia e la rottura con heidegger

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rendo nel 1931 con il titolo Meditazioni cartesiane. Intanto, nel 1928, sulla cattedra di Friburgo gli era successo Heidegger, mentre egli si dedicava alla composizione di altre opere, come Logica formale e trascendentale (1929) e una Postilla alle «Idee», da apporre come premessa alla traduzione inglese di quest’opera, uscita nel 1931: in essa, egli prendeva posizione, tra l’altro, contro la filosofia di Heidegger. l’esperienza del nazismo e le conferenze di vienna e di praga

Con l’avvento del nazismo nel 1933, fu radiato dall’università di Friburgo in quanto ebreo, proprio nel periodo in cui Heidegger ne era rettore; stessa sorte toccò al figlio, professore di Diritto, che nel 1936 emigrò negli Stati Uniti. In alcune conferenze, tenute a Vienna e a Praga nel 1935, Husserl rilanciò il programma fenomenologico come via di salvezza dai pericoli di disumanizzazione e irrazionalismo che minacciavano la cultura europea: esse costituiscono l’abbozzo della sua ultima opera – rimasta incompiuta – che sarà pubblicata postuma con il titolo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954).

la morte e gli inediti

Nel 1938 Husserl morì a Friburgo. I suoi numerosi manoscritti – grazie a Hermann Leo van Breda – furono salvati dalla distruzione e trasferiti all’università di Lovanio, dove costituiscono il fondo degli «Archivi Husserl». A partire dal 1950 ha preso avvio – sotto il titolo «Husserliana» – la pubblicazione di questi inediti: tra essi si possono ricordare i volumi secondo e terzo delle Idee (1966). Altri scritti sono stati pubblicati dal suo allievo Ludwig Landgrebe (Esperienza e giudizio, 1939) e da Gerd Brand (Mondo, io e tempo, 1955).

dallo psicologismo...

Il primo scritto di Husserl – Filosofia dell’aritmetica (1891) – è dedicato a Brentano, dal quale egli riprende il concetto di intenzionalità. Anche per Husserl, esso è il tratto caratteristico degli atti psichici che «tendono» sempre verso il loro oggetto. Su questa base, Husserl esamina la genesi del concetto di numero: esso deriva, a suo avviso, da un atto unitario della mente, che dirige intenzionalmente la sua attenzione su molteplicità di oggetti riuniti in un aggregato specifico (per esempio, un insieme di mele). A partire da ciò, la mente ricava per astrazione il concetto generale di aggregato, inteso come collezione delle unità costitutive di una molteplicità; procedendo a contare tali unità, si perviene al concetto di numero. Husserl riconosce l’esistenza autonoma dei numeri come forme generali, ossia come strutture rappresentative costanti del soggetto, le quali condizionano l’attività conoscitiva. Nella misura in cui descrive tali strutture nella loro genesi empirica, egli resta tuttavia legato allo psicologismo.

... alle ricerche logiche

In seguito a una recensione critica di Frege [cfr. 16.1], che gli rimprovera di confondere il piano logico con quello psicologico, e alla lettura di Bolza approfondimento, p. 479], Husserl si allontana progressivamente no [ dallo psicologismo. Egli riconosce che la logica non è riducibile a un insieme di regole tecniche – puramente formali – utili per compiere ragionamenti o deduzioni corrette. Al contrario, essa ha a che fare con il significato dei concetti e, quindi, con il loro contenuto oggettivo. Si pone, quindi, la

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necessità di affrontare il problema delle relazioni tra logica e psicologia: a ciò Husserl provvede con le Ricerche logiche. Le leggi che descrivono i processi psicologici sono generalizzazioni che partono dall’esperienza e, pertanto, non hanno validità necessaria, ma possono essere modificate e corrette in base all’accertamento di fatti empirici. I princìpi logici e matematici sono, invece, necessariamente veri: in tal senso, il rapporto fra premesse e conclusioni nei ragionamenti non può essere ridotto all’accertamento empirico di relazioni di coesistenza o di successione di atti psichici. In altre parole, una logica pura non si può fondare su basi empirico-psicologiche, ma non può neppure avere un carattere puramente formale. Essa, invece, deve essere la teoria di ogni possibile tipo di ragionamento, ovvero determinare le condizioni ideali di possibilità della scienza in generale.

la validità dei princìpi logicomatematici è assoluta

Su questa base, Husserl esamina il concetto di significato. Egli ritiene che l’unità minima di significato non sia il termine linguistico singolarmente preso, ma la proposizione, la quale in generale enuncia che qualcosa è o non è. La logica studia la proposizione a prescindere dal fatto che essa sia vera o falsa oppure che sia formulata verbalmente o pensata da qualcuno; per questo aspetto, dunque, essa è pienamente indipendente dalla psicologia e non si configura come scienza del pensiero. Per proposizione, Husserl non intende i singoli enunciati. Ad esempio, l’enunciato «La tovaglia è bianca» può essere pronunciato – o anche soltanto pensato – una o più volte, in tempi e luoghi diversi, da diverse persone, ma la proposizione è il significato (tovaglia bianca) comune a ognuno di essi.

la logica studia le proposizioni

In altre parole, la proposizione è l’essenza degli enunciati, ossia il loro contenuto oggettivo permanente, che non dipende dal fatto che qualcuno li dica (o li pensi) né si esaurisce nell’atto empirico di pensarli (o di dirli). Questa essenza gode di un’esistenza autonoma rispetto ai singoli enunciati, allo stesso modo degli universali (per esempio, la bianchezza), i quali non sono entità singole, ma l’insieme o l’essenza di una molteplicità di cose singole (in questo caso, le singole cose bianche).

la proposizione è il significato oggettivo degli enunciati

Secondo Husserl, di queste essenze abbiamo un’esperienza autoevidente, caratterizzata da una certezza superiore a ogni certezza fornita dalle scienze empiriche: egli chiama tale esperienza intuizione categoriale, per distinguerla dalla semplice intuizione empirica, che coglie soltanto oggetti individuali. La logica pura consiste nella descrizione delle essenze, che sono alla base di ogni tipo di indagine e di scienza. Per Husserl, essa ha il compito di mostrare come le leggi logiche si diano e operino in ogni vissuto (in tedesco, Erlebnis) di coscienza. Come abbiamo visto, ogni atto psichico ha un correlato intenzionale. Partendo dalla considerazione degli oggetti intenzionali, la logica pura descrive le leggi logiche che regolano ogni possibile conoscenza – ossia le strutture fisse secondo cui il pensiero si articola insieme ai suoi oggetti.

la logica e l’intuizione categoriale

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3. Husserl: la fenomenologia trascendentale lo scopo della fenomenologia

Secondo Husserl, l’ideale della vera filosofia consiste nel realizzare l’idea della conoscenza assoluta – sulla base di un fondamento certo – e la fenomenologia è il metodo che consente di pervenire a questo obiettivo. Questo programma è delineato e svolto da Husserl negli scritti successivi alle Ricerche logiche, nella Filosofia come scienza rigorosa e, soprattutto, nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Per costituirsi come scienza rigorosa, la filosofia non deve assumere nulla come ovvio e indiscutibile, ma deve pervenire criticamente a un fondamento dotato di evidenza assoluta.

il superamento dell’atteggiamento naturale

A tale scopo, essa non può partire dall’atteggiamento naturale, che assume il mondo come un insieme di fatti ovvi: le stesse scienze empiriche si fondano su questo presupposto e identificano la conoscenza con l’accertamento di fatti ritenuti oggettivi e indiscutibili. Ma l’esperienza delle cose è variabile e mutevole e, quindi, non può garantire l’oggettività e la validità della conoscenza, sicché le scienze della natura non possono propriamente risolvere i problemi di una teoria della conoscenza [t26].

il metodo della fenomenologia: l’epochè

Occorre, invece, liberarsi da ogni presupposto, sia dalle credenze comuni, sia da quelle proprie di tali scienze, così come dai contenuti dottrinali di tutte le filosofie precedenti. A ciò provvede quella che Husserl chiama riduzione fenomenologica (in tedesco, phänomenologische Reduktion) oppure, con un termine desunto dallo scetticismo antico, epochè . Essa consiste nel mettere tra parentesi l’atteggiamento naturale e tutto ciò che esso comporta: per esempio, l’assunzione dell’esistenza del mondo o la distinzione di soggetto e oggetto quali dati ovvi. Essa, tuttavia, non ha un compito puramente distruttivo nei confronti delle credenze o dei pregiudizi diffusi e, in questo senso, non coincide con il dubbio scettico. Ecco una delle numerose definizioni di epochè che Husserl fornisce, mettendo l’accento sul peculiare punto di vista a cui essa permette di avere accesso: Noi che per filosofare ricominciamo radicalmente da capo operiamo l’epochè a partire dall’atteggiamento naturale che la precede necessariamente, e non casualmente, a partire cioè da quell’atteggiamento che inerisce costantemente alla storicità, alla vita e alla scienza. Tuttavia è ora necessario rendersi veramente conto che l’epochè non è affatto un’astensione abituale e irrilevante, bensì che grazie ad essa lo sguardo del filosofo si rende veramente libero, libero specialmente dai vincoli più forti e più universali, e perciò più occulti, dai vincoli dell’essere-già-dato del mondo. Questa liberazione equivale alla scoperta della correlazione universale, in sé assolutamente conclusa e assolutamente autonoma, di mondo e di coscienza del mondo. Quest’ultima non è altro che la vita di coscienza della soggettività che produce la validità del mondo, la soggettività che nelle sue continue attuazioni (Erwerben) ha sempre un mondo ed è sempre attivamente formatrice. Infine risulta che la correlazione assoluta dev’essere intesa nel senso più vasto, come correlazione dell’essente di ogni genere e in ogni senso, da un lato, e di un’assoluta soggettività dall’altro, in quanto è costitutiva del senso e della validità d’essere. Occorre soprattutto rile-

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vare che l’epochè dischiude al filosofo un nuovo modo di esperienza, un nuovo modo di pensare, di teorizzare, in cui egli, posto al di sopra del suo essere naturale e al di sopra del mondo naturale, non smarrisce nulla del suo essere e delle sue verità obiettive, nulla dei risultati spirituali della sua vita nel mondo e della vita storica della comunità; egli si impedisce soltanto – in quanto filosofo, nella peculiarità dell’orientamento dei suoi interessi – di persistere nell’atteggiamento naturale della sua vita nel mondo, di porre cioè sul terreno del mondo dato problemi, domande sull’essere, problemi di valore, problemi pratici, domande attorno all’essere e al non-essere, attorno alla validità, all’utilità, al bello, al buono, ecc. Infatti tutti gli interessi naturali sono posti fuori gioco. Ma il mondo, che era prima per me e che continua ad essere, in quanto mondo mio, nostro, umano, valido attraverso i modi soggettivi, non è scomparso; durante la conseguente attuazione dell’epochè esso rimane il puro correlato della soggettività che gli conferisce il suo senso d’essere, e in base alla cui validità esso «è» (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, III parte, § 41).

La modificazione dell’atteggiamento naturale deve condurre, secondo Husserl, all’assunzione dell’atteggiamento fenomenologico: in base a esso, quelli che prima erano semplicemente gli oggetti del mondo si presentano ora come oggetti intenzionati dalla coscienza . Ogni atto di coscienza, infatti, ha una natura intenzionale, in quanto si dirige verso qualcosa; il compito del fenomenologo è quello di descrivere ciò che si dà alla coscienza (ovvero l’oggetto a cui l’atto si riferisce) nei modi in cui esso si dà:

quando le cose diventano fenomeni di coscienza

Che cosa voglia dire l’affermazione che l’oggettualità c’è e che essa si dimostra come una oggettualità che è ed è così per la conoscenza, deve risultare evidente dalla coscienza stessa e divenire così comprensibile senza equivoci. A tal fine è necessario lo studio dell’intera coscienza, dal momento che essa presenta possibili funzioni conoscitive in tutte le sue conformazioni. Ma dal momento che ogni coscienza è sempre «coscienza-di», lo studio essenziale della coscienza implica anche quello del significato e dell’oggettualità della coscienza come tale. Studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua essenza generale (studio che può perseguire interessi che siano lontani dalla teoria della conoscenza e dall’indagine della coscienza) significa tenere dietro ai suoi modi di datità ed esaurire, attuando i relativi processi di «chiarificazione», il suo contenuto essenziale (Filosofia come scienza rigorosa, passim).

Ad esempio, io vedo un tavolo. Dopo l’epochè, io non sono più interessato al tavolo come all’oggetto sul quale posso mettere un vaso o sul quale consumo i miei pranzi e le mie cene. Una volta messa tra parentesi l’esistenza del tavolo, esso diventa un oggetto di coscienza e io posso cogliere i suoi modi di darsi a me. Nell’atteggiamento fenomenologico, cesso di avere attenzione per il tavolo e passo a considerare la mia percezione del tavolo. Il tavolo non è più l’oggetto che mi sta di fronte, ma si rivela ora come il contenuto intenzionale di un mio vissuto di coscienza – la mia percezione di questo tavolo.

alef

Husserl L’epochè

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la descrizione del dato intenzionale

A questo punto, l’analisi fenomenologica può proseguire, approfondendo o il lato soggettivo del dato intenzionale (che cosa significa percepire un oggetto «in carne ed ossa»? Quali sono le caratteristiche generali della percezione?) o il lato oggettivo di esso (quali sono le caratteristiche generali del tavolo? Che cosa fa di un oggetto un tavolo?). Soffermiamoci, per il momento, sul lato oggettivo del nostro contenuto intenzionale: il tavolo può assumere forme differenti (circolare o rettangolare), poggiare su quattro gambe laterali o su un solo asse centrale, essere di vari colori o materiali, ma che cosa permette di chiamarlo ancora un tavolo? Continuando così, il fenomenologo giunge a definire l’essenza del tavolo, ovvero i tratti caratteristici che differenziano un tavolo da tutti gli altri oggetti. Ad esempio, fa parte dell’essenza del tavolo essere un oggetto materiale formato da un piano orizzontale sorretto da uno o più elementi verticali, attorno a cui le persone si siedono.

«alle cose stesse»

Sospendendo l’affermazione della realtà del mondo, il mondo stesso diventa un insieme di fenomeni che si danno alla coscienza – ossia di oggetti ai quali la coscienza si rapporta intenzionalmente nei propri atti. Si tratta di imparare a guardare le cose per come esse si danno all’interno dei vari atti di coscienza (atti di rappresentazione, di percezione, di ricordo e così via). Si comprende, allora, il significato del programma husserliano di tornare «alle cose stesse»: avendo messo tra parentesi l’esistenza del mondo come un dato ovvio, l’atteggiamento fenomenologico consiste nell’atteggiamento puramente teoretico di uno «spettatore disinteressato». Lo sguardo di tale spettatore è diretto non verso le cose empiriche nella loro accidentalità, bensì verso le essenze.

l’intuizione eidetica

La riduzione fenomenologica – mettendo tra parentesi l’oggetto naturale nella sua singolarità – prepara la via a quella che Husserl chiama intuizione delle essenze. Anche le essenze, infatti, possono essere conosciute: esse sono le strutture di senso su cui si fondano le distinzioni tra i vari oggetti (ad esempio, persona, cosa, sedia, quadro, ecc.) e gli atti di coscienza (ad esempio, percezione, rappresentazione, fantasia, ecc.). Torniamo all’esempio del tavolo percepito. Dopo l’epochè il fenomenologo non guarda più a esso nella sua individualità empirica, ma nella sua esemplarità. In altre parole, assumendo il punto di vista dello spettatore disinteressato, questo tavolo qui lo aiuta a definire l’essenza del tavolo in generale: partendo da esso, infatti, egli può mettere a fuoco le caratteristiche minime che ogni tavolo deve possedere per essere tale. Allo stesso modo, la percezione di un oggetto particolare gli può dire qualcosa su che cos’è la percezione in generale: ogni percezione, infatti, è caratterizzata da specifiche proprietà (eidetiche) che la rendono diversa da un atto di immaginazione o di fantasia.

che cosa rimane dopo l’epochè?

Si è visto come l’epochè consista nella sospensione della credenza nell’esistenza del mondo. Come aveva indicato Cartesio, il dubbio può investire l’esistenza delle cose e degli altri, tutte le mie conoscenze acquisite, ma non il fatto che io sto pensando. Dal momento stesso che dubito di ogni cosa, infatti, si affaccia in me un’incrollabile certezza: e cioè che io esisto in quanto penso e dubito. Allo stesso modo, Husserl si chiede: che cosa rimane, una

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volta che sia stata operata la riduzione fenomenologica? Ciò che resta, a suo avviso, è la coscienza pura (o trascendentale) – che appunto per questo egli chiama anche residuo fenomenologico. A differenza di Cartesio la coscienza non è una sostanza, ma la funzione originaria e universale che costituisce il mondo. Ad esempio, io vedo un quadro. La coscienza pura di quel quadro non è la res cogitans – la mia mente – che ospita l’idea del quadro. Non bisogna, infatti, confondere la coscienza pura con la coscienza empirica dei singoli individui, che invece deve essere sottoposta a riduzione. La coscienza pura non è una realtà sostanziale – mente, anima, psiche – ma il modo di presenza di una qualunque realtà. Detto altrimenti, la coscienza pura non è altro che un punto di vista, o meglio, quello specifico punto di vista da cui chiunque vedrebbe quello che vedo io se fosse al mio posto. La coscienza pura è il modo in cui quel quadro si dà a me – o a chiunque si trovi al mio posto – indipendentemente dal fatto che esista o non esista, dal fatto che posso distruggerlo o comprarlo. Dopo l’epochè non sono interessato al quadro come a un oggetto d’uso o di scambio, ma solo alla mia percezione del quadro. D’altra parte, posso neutralizzare il fatto di essere io a vivere questa percezione e guardare a essa come all’atto di un io in generale (o io puro): la mia percezione mi interessa ora solo per ciò che in essa sarebbe vissuto da chiunque si trovi al mio posto.

la coscienza pura non è la coscienza empirica

Detto altrimenti, la coscienza pura del quadro è ciò che rimane dopo aver messo tra parentesi l’esistenza del quadro, l’esistenza di me che lo guardo, e aver puntato l’attenzione sul puro atto del guardare il quadro. La riflessione è una proprietà fondamentale del vissuto: grazie a essa, ogni Erlebnis può essere colto e analizzato. In altri termini, è possibile dirigere uno sguardo riflessivo sugli atti stessi della coscienza e del pensiero: in tal modo, essi diventano oggetto di quella che Husserl chiama percezione immanente, la quale è dotata di evidenza assoluta. Ciò significa che – mentre il mondo naturale e le cose che gli appartengono possono essere e non essere – la percezione immanente garantisce necessariamente l’esistenza del suo oggetto, ossia del vissuto intenzionale della coscienza.

la percezione immanente dei vissuti di coscienza

IL PASSAGGIO DALL’ATTEGGIAMENTO NATURALE A QUELLO FENOMENOLOGICO atteggiamento naturale (= il mondo è assunto come un insieme di fatti ovvi)

epochè (= riduzione fenomenologica)

sospensione del giudizio sull’esistenza di cose e di fatti del mondo

intuizione delle essenze (= attraverso la riflessione sugli atti e sugli oggetti intenzionati dalla coscienza pura)

coscienza pura (= ciò che resta dopo l’epochè)

atteggiamento fenomenologico (= fatti del mondo diventano fenomeni, ossia oggetti intenzionali della cocienza)

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i vissuti di coscienza: noesi e noema

Il mondo e la realtà hanno senso soltanto se riferiti alla coscienza, la quale ha appunto la proprietà di conferire senso a essi. Ogni vissuto intenzionale è costituito da due aspetti. 1) L’aspetto soggettivo è detto noesi (letteralmente, «l’operazione del pensare») e coincide con l’atto intenzionale che conferisce senso (il percepire, il ricordare, il desiderare, ecc.). 2) L’aspetto oggettivo è detto noema (letteralmente, «ciò che è pensato») e corrisponde all’oggetto intenzionato (il percepito, il ricordato, il desiderato, ecc.).

le ontologie regionali

Come abbiamo visto, il mondo – con tutti i suoi oggetti – si dà all’interno dei vissuti di coscienza in diversi modi (ora nella percezione, ora nell’immaginazione, ecc.). In ogni vissuto di coscienza è possibile isolare un noema, ossia l’oggetto di quel vissuto (il percepito, l’immaginato, ecc.). Dal punto di vista noematico, è possibile suddividere il mondo in differenti ontologie regionali (cosa, persona, mondo spirituale). A ciascuna di esse appartengono, dunque, specifiche essenze regionali: grazie a esse è possibile ricavare la costituzione fondamentale di ogni conoscenza possibile e il fondamento ontologico di tutte le scienze empiriche. La fenomenologia, tuttavia, è diversa dall’ontologia tradizionale che assume le unità di cui essa si occupa nella loro identità, come se si trattasse di qualcosa di saldo e definito. La fenomenologia invece assume le varie unità – ossia le essenze – nel flusso che le correla al vissuto della coscienza e ha lo scopo di descrivere la costituzione delle realtà oggettive all’interno della coscienza pura. Alla trattazione di questi temi è dedicata la terza parte delle Idee, pubblicata postuma.

l’analisi costitutiva della realtà mondana

Nella seconda parte, pubblicata anch’essa postuma, Husserl fornisce un’analisi fenomenologica dei modi in cui si costituiscono i tre strati della realtà mondana. 1. Il primo è quello delle cose materiali, ossia il campo delle realtà trascendenti spazio-temporali, governate dalla pura causalità, oggetto della percezione e delle scienze naturali. 2. Il secondo è quello del corpo proprio, ossia della totalità liberamente mobile degli organi di senso, e delle nature animali. 3. Il terzo strato è quello della psiche, in quanto flusso temporale di Erlebnisse connessi tra loro e con il corpo proprio: a partire da essa si costituisce l’io vero, che non trapassa negli Erlebnisse. L’io, tuttavia, richiede il tu, il noi, l’altro, il mondo: su questa base si costituisce il mondo spirituale, in cui la persona – nell’associazione con le altre persone – è centro di un mondo circostante che si presenta come orizzonte aperto ai dati oggettivi naturali e sociali. La vita spirituale ha la sua legge fondamentale nella motivazione, sicché l’io si configura come io libero: ciò conferisce al mondo spirituale un primato ontologico su quello puramente naturale.

il radicalismo di cartesio e la ricerca dell’evidenza

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Husserl era consapevole del fatto che la sua esigenza di un nuovo, radicale cominciamento e di una nuova, radicale fondazione della conoscenza presentava analogie con il programma perseguito da Cartesio. Su questo punto egli ritorna nelle Meditazioni cartesiane. Anche oggi, secondo Husserl, è andato perso il senso dell’unità della scienza a causa della mancanza di chia-

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rezza sui princìpi di essa. Per questo motivo occorre far rivivere il radicalismo di Cartesio. La scienza cerca verità valide per tutti, ma non può pretendere ad alcuna validità definitiva, se manca l’evidenza assolutamente certa – immune da ogni dubbio – del suo fondamento. Questa non può essere cercata nel mondo quale appare all’esperienza comune e alle stesse scienze naturali, perché – come aveva mostrato Cartesio – tale mondo potrebbe essere un sogno o un’apparenza. Mettendo il mondo tra parentesi, tuttavia, io pervengo non a un mero nulla, bensì a me stesso come coscienza pura, nella quale e per la quale l’intero mondo oggettivo è per me. Infatti, dopo l’epochè io scopro di possedere un mondo continuativo che è «per me» e di essere dato a me stesso in un’esperienza evidente. Il tempo, come coesistenza e successione dei momenti di vita, è la forma universale che sta alla base dell’io. Emerge qui l’evidenza incontrovertibile dell’io sono, erroneamente trasformato da Cartesio in una sostanza pensante: si tratta, invece, dell’io o ego trascendentale, inseparabile dalle sue esperienze vissute. L’ego trascendentale è il polo identico dei momenti di vita della coscienza e l’universo delle possibili forme che essi possono assumere. Questa è l’evidenza originaria: «Non ha senso – dice Husserl – voler cogliere l’universo dell’essere vero come qualcosa che stia al di fuori dell’universo della coscienza possibile». Il mondo e le cose acquistano senso soltanto attraverso l’io, sicché si può affermare che la soggettività trascendentale è «l’universo della possibilità di senso».

l’evidenza originaria è l’io trascendentale

Avendo il suo fondamento nell’evidenza dell’io trascendentale, la fenomenologia è definita da Husserl idealismo trascendentale, diverso dall’idealismo psicologico alla Berkeley, ma anche da quello di Kant, che continua a mantenere un mondo di cose in sé come concetto limite. A differenza dell’idealismo tradizionale, l’idealismo trascendentale non nega l’esistenza del mondo, ma ha il suo unico scopo nel chiarimento del senso di questo mondo.

una nuova forma di idealismo

Il rischio del primato accordato all’io può consistere in una forma di solipsismo, che rinchiuda il soggetto in se stesso e lo renda inaccessibile agli altri. Nelle Meditazioni cartesiane, Husserl si premura di mostrare che l’intersoggettività è costitutiva della soggettività trascendentale. Secondo Husserl, infatti, io esperisco originariamente il mondo come intersoggettivo, ossia come «un mondo che è per tutti e i cui oggetti sono disponibili a tutti». Entro questa sfera comune, io cerco di delimitare la sfera specifica di ciò che è «mio proprio», ma ciò presuppone il concetto di «altro». In tal modo, si dilegua l’apparenza di solipsismo, anche se continua a valere il principio secondo cui tutto ciò che è per me – compresi quindi gli altri soggetti – può attingere il proprio senso esclusivamente dalla mia sfera di coscienza.

l’io trascendentale è compatibile con l’esistenza degli altri?

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4. Husserl: la crisi delle scienze

e il ruolo della fenomenologia non è più possibile una filosofia universale?

Nell’opera pubblicata postuma – La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale – Husserl affronta il tema della crisi radicale in cui versa l’umanità europea. La causa di essa deve essere ricercata nella crisi dell’idea di filosofia come scienza della totalità dell’essere, di cui le singole scienze rappresentano diramazioni specifiche. Secondo Husserl, l’umanità europea – a partire dal Rinascimento – si era costituita come autonoma grazie a questa concezione della filosofia. Essa mirava a dare alla vita regole fondate sulla ragione, allo scopo di rendere liberi. A partire dal Settecento, la possibilità di una metafisica era diventata un problema ed era crollata la fede in una filosofia universale e nella capacità della ragione di determinare ciò che l’essere è. In altri termini, cadono «la fede in una ragione assoluta che dia senso al mondo, la fede nel senso della storia, nel senso dell’umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell’uomo di conferire un senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale».

le scienze moderne non si pongono il problema del senso

Il crollo della fiducia in una filosofia universale si estende anche a tutte le scienze moderne, in quanto eredi dello stesso ideale di razionalità. Nonostante i loro successi empirici, infatti, anche le scienze sono travagliate da paradossi e da problemi di fondazione. In discussione non è tanto il valore delle conoscenze specifiche acquisite dalle singole scienze, quanto il significato che la scienza nel suo complesso ha e può avere per l’umanità. Alla base della crisi vi è la riduzione dell’idea della scienza a scienza di fatti, la quale prescinde da qualunque riferimento al soggetto che compie l’indagine scientifica. Ciò vale anche per le cosiddette scienze dello spirito, nelle quali l’avalutatività diventa l’ideale da perseguire. Escludendo in linea di principio i problemi del senso dell’esistenza e del mondo in generale, la scienza finisce con l’estraniarsi dagli uomini; ne consegue, secondo Husserl, che «le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto».

l’umanità autentica e la guida della ragione

Per comprendere la crisi del presente occorre, dunque, secondo Husserl, riconsiderare la storia dell’umanità. In tal modo è possibile rendersi conto che il senso dell’umanità autentica è quello di una umanità «fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così». Questa nozione di umanità compare, secondo Husserl, per la prima volta in Grecia con la nascita della filosofia. Quest’ultima è intesa come attività teoretica puramente disinteressata e guidata dalla ragione, mirante a un sapere universale dotato di fondamento assoluto.

la fenomenologia e il fine dell’umanità

Si è originato in questo modo un tèlos (un fine) consistente nella realizzazione di un’umanità pienamente razionale: questo fine è un compito infinito, di cui anzitutto i filosofi sono responsabili. Essi sono chiamati da Husserl funzionari dell’umanità, in quanto sono i custodi del vero essere razionale dell’umanità. Per uscire dalla crisi del presente occorre recuperare il senso originario di questo tèlos, proseguendo l’eredità trasmessa dai primi filosofi greci, la quale è andata smarrita, originando la crisi delle scienze stesse. Ciò

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è possibile soltanto attraverso la filosofia fenomenologica, capace di volgere uno sguardo pienamente disinteressato verso le cose stesse e di rintracciare nella soggettività trascendentale il fondamento di ogni sapere possibile [t27]. Attraverso la fenomenologia, la filosofia può recuperare il tèlos della ricerca e la realizzazione di un’umanità integralmente e liberamente fondata sulla ragione. Indicando nella fenomenologia la prosecuzione più adeguata dell’ideale di una libera indagine razionale – priva di presupposti e mirante a una validità universale – Husserl intendeva opporsi all’irrazionalismo, che ormai egli vedeva minacciare la vita spirituale e materiale dell’Europa e soprattutto della Germania. A tale irrazionalismo imperante le scienze non sembravano più in grado di opporre alcun baluardo. Per questa ragione, egli assegnava alla filosofia il compito etico di salvaguardare il significato autentico dell’idea di umanità.

la fenomenologia come baluardo contro l’irrazionalismo

Ma quando, secondo Husserl, la crisi dell’umanità europea – ossia della razionalità filosofica così come è stata fondata dai Greci – si è manifestata per la prima volta? A suo avviso, ciò è accaduto nell’età moderna con Galilei, che ha utilizzato la matematica per indagare scientificamente la natura, riducendola a un insieme di entità e di forze oggettivamente misurabili. La più importante conseguenza della matematizzazione della natura è, secondo Husserl, l’obiettivismo, ossia la tendenza a trattare il mondo come un dato ovvio, distinto e indipendente dal soggetto che lo conosce. Di qui trae origine il dualismo cartesiano tra natura e mondo psichico, che è la premessa per la specializzazione delle varie scienze e per la costruzione di una psicologia oggettivistica. In questa prospettiva, la stessa soggettività – l’anima o la mente – viene considerata come una res, ossia come una cosa indagabile con i metodi delle scienze della natura.

la matematizzazione della natura e l’obiettivismo moderno

Questo atteggiamento obiettivante nei confronti della natura e dell’uomo ha condotto a dimenticare il fondamento sul quale si esercitano le stesse operazioni delle scienze naturali e che Husserl chiama il mondo-della-vita (in tedesco, Lebenswelt). Con questa espressione egli intende riferirsi all’esperienza che noi abbiamo del mondo prima della formazione di categorie e giudizi. Tale esperienza prescientifica e precategoriale costituisce il fondamento e la sorgente delle conoscenze stesse delle scienze. In tal senso, il mondo-della-vita è definito da Husserl anche come «un regno di evidenze originarie», esperite nella loro immediatezza e comuni a tutti gli uomini in quanto soggetti conoscenti.

il regno del mondodella-vita

Secondo Husserl, la riduzione fenomenologica rappresenta la via di accesso al mondo-della-vita nella sua correlazione con la soggettività trascendentale. Grazie alla riduzione, infatti, il mondo cessa di presentarsi nell’ovvietà dell’atteggiamento naturale e si rivela invece come il prodotto della soggettività trascendentale, che ne costituisce il senso e la validità d’essere. Il primo in sé non è, dunque, l’essere del mondo nella sua ovvietà – come presumono le scienze naturali – ma la soggettività, che nelle sue forme prescientifiche pone ingenuamente l’essere del mondo e poi, nelle varie scien-

la riscoperta della soggettività trascendentale

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ze, lo rende oggettivo. La fenomenologia – in quanto riflessione del soggetto conoscente su se stesso e sulla propria vita conoscitiva – può ritornare a questa sorgente ultima di tutte le formazioni conoscitive e, su questa base, costruire una filosofia universale fondata in maniera pura e definitiva .

5. Scheler la vita e le opere

Max Scheler nacque a Monaco nel 1874, da padre protestante e madre ebrea. Nel 1889 si convertì al cattolicesimo, ma dieci anni dopo abbandonò la fede cattolica. Nel 1893 si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’università di Monaco, ma l’anno dopo passò alla facoltà di Filosofia dell’università di Berlino, dove insegnavano – tra gli altri – Dilthey e Simmel. Nel 1895 si trasferì a Jena, dove si laureò nel 1897. Dopo aver insegnato nell’università di Jena, divenne nel 1907 assistente di Lipps all’università di Monaco, ma nel 1910 a causa di un adulterio dovette abbandonare l’insegnamento in questa università. Nel 1911 fu a Göttingen, dove insegnava Husserl, e nel 1912 si stabilì a Berlino, dove strinse amicizia con lo storico delle origini del capitalismo, Werner Sombart. In quello stesso anno pubblicò un saggio Sul risentimento e l’anno successivo (1913) – sullo «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», la rivista fondata da Husserl – la prima parte del Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, mentre la seconda comparve nel 1916. Nel 1915 Scheler si convertì una seconda volta al cattolicesimo, compose saggi di critica alla civiltà borghese moderna e interventi a favore della guerra. Terminato il conflitto, fu nominato nel 1919 professore di Filosofia e Sociologia all’università di Colonia. Nel 1921 pubblicò L’eterno nell’uomo, ma l’anno successivo ebbe una crisi che lo condusse nuovamente ad abbandonare il cattolicesimo. Negli ultimi anni della sua vita, terminata nel 1928, quand’era appena stato chiamato a insegnare Filosofia all’università di Francoforte, Scheler compose numerosi scritti: Essenza e forme della simpatia (1923), Problemi di una sociologia del sapere (1924), Le forme del sapere e la società (1926), La posizione dell’uomo nel cosmo (1927).

la sfera emotiva è dotata di contenuti propri

Convinto che il neokantismo della Scuola di Marburgo [cfr. 6.4] – disattento alla dimensione storica dell’esperienza vissuta – non fosse in grado di cogliere le peculiarità della vita spirituale e culturale dell’uomo, Scheler ritenne di aver trovato il metodo adeguato per affrontare questi problemi nella fenomenologia di Husserl. Per Scheler, anche la sfera dei sentimenti – non solo quella conoscitiva – è caratterizzata dall’intenzionalità. Quella del sentimento è una sfera autonoma dal conoscere, in quanto è dotata di contenuti propri – dati a priori e non derivati dalle conoscenze di dati di fatto: La vera sede di ogni a priori di valore (compreso quello morale) è la conoscenza dei valori, anzi la visione dei valori, che ha luogo nel sentire, nel preferire e infine nell’amare e nell’odiare, così come è sede degli a priori di valore la «conoscenza morale», cioè quella relativa alle connessioni di valore, al loro grado di «altezza» o di «bassezza». Questa conoscenza si compie dunque in funzioni e

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atti specifici che sono toto cœlo diversi da ogni percepire e pensare, e costituiscono l’unica possibile via di accesso al mondo dei valori. I valori e i loro ordinamenti brillano non già nella «percezione interna» o nella introspezione (che ci dà solo elementi psichici), ma nello scambio vivo con il mondo (sia esso psichico, fisico o altro ancora), nell’amore, nell’odio, ossia nella pienezza di quegli atti intenzionali (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, I, II, A).

b

Gli atti del sentimento sono correlati intenzionalmente ai valori . Scheler li definisce come qualità inerenti alle cose, che si danno a conoscere grazie al sentire intenzionale (in tedesco, Gefühl), dotato di un’evidenza pari a quella che gli atti del percepire o del ricordare hanno dei loro oggetti. I valori costituiscono, dunque, un mondo oggettivo, caratterizzato da proprie leggi a priori, che è compito dell’etica mettere in luce e descrivere. Con queste considerazioni, Scheler poneva fine al primato del problema della conoscenza, sostenuto da alcuni neokantiani e – in qualche modo – ancora condiviso da Husserl.

l’essere dei valori

Alla fondazione dell’etica Scheler dedicò una delle sue opere più importanti, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. L’obiettivo polemico di essa è costituito dal formalismo etico kantiano. Kant aveva espulso il sentimento e le emozioni dalla vita morale e aveva ravvisato il fondamento della morale in una legge universale della ragione, puramente formale e priva di contenuti, la quale comanda incondizionatamente – a prescindere da ogni esigenza di felicità. Secondo Scheler, invece, la vita morale include sentimenti ed emozioni, che ci consentono di avere accesso ai valori. Come abbiamo visto, i valori sono oggettivi e universali e non possono essere derivati dall’esperienza, che è sempre variabile e mutevole, ma sono intuiti direttamente: il valore, infatti, non è qualcosa che viene aggiunto alle cose a opera di un giudizio che fa seguito alla rappresentazione o percezione di tali cose. Inoltre, secondo Scheler, non esistono soltanto i valori positivi, ma anche quelli negativi (ad esempio, il falso, il brutto, l’ingiusto e così via). L’etica, dunque, non è puramente formale, ma è dotata di un proprio contenuto a priori, dato dall’intuizione dei valori: in questo senso, essa è definibile come etica materiale .

etica formale ed etica materiale

A gradi diversi del sentimento risulta correlata, secondo Scheler, una gerarchia oggettiva dei valori: a) ai sentimenti sensibili sono correlati i valori sensibili compresi nella gamma tra gradevole e sgradevole; b) ai sentimenti corporei – legati allo stato del corpo – sono correlati i valori del nobile e del volgare, dell’utile e del dannoso, su cui si fonda anche la vita associata; c) ai sentimenti vitali – legati alle funzioni del corpo – sono correlati i valori vitali, come la generosità, il coraggio e così via; d) ai sentimenti dell’anima (o dell’io) sono correlati i valori spirituali e conoscitivi del vero e del falso, del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto; e) ai sentimenti propri della persona sono correlati i valori religiosi del sacro.

l’ordine dei valori

La gerarchia dei valori è disposta secondo strati che vanno dal livello corporeo a quello spiritualmente più puro della persona. Su questa base, Scheler

la persona

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a Husserl Il mondo-della-vita e le scienze b Scheler L’etica e i valori

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può criticare Husserl per aver posto al vertice l’io trascendentale, che è una funzione universale puramente conoscitiva e impersonale. A suo avviso, invece, il primato va alla persona, ridotta da Husserl a pura esemplificazione empirica dell’io trascendentale. La vita morale consiste nella piena realizzazione della persona umana e, quindi, include costitutivamente sentimenti ed emozioni, in particolare la simpatia e l’amore.

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io e gli altri

La persona è l’uomo nella sua totalità e individualità, nell’unità di tutti i suoi atti. Essa ha per correlato costitutivo il mondo e la partecipazione emotiva alla vita delle altre persone: in ciò consiste propriamente la simpatia . A questo tema Scheler dedica un’opera apposita, Essenza e forme della simpatia (1923). La percezione dell’altro precede quella dell’io, sicché la conoscenza dell’altro non deriva per analogia dalla conoscenza di se stessi: ognuno, infatti, prima di arrivare a pensare pensieri propri e a concepirsi come io, pensa in base alle credenze che dominano nell’ambiente e provengono dalla tradizione. Percepire e conoscere l’altro, tuttavia, non è ancora simpatia, ossia sentire-con l’altro: la simpatia è un fenomeno originario, una funzione innata, grazie alla quale si va oltre se stessi e si riconosce l’altro a partire da una partecipazione affettiva. La partecipazione affettiva può assumere vari aspetti, che vanno dal contagio (o fusione emotiva) all’identificazione o all’immedesimazione: sull’immedesimazione intenzionale e cosciente si fonda la simpatia.

la differenza tra simpatia e amore

La simpatia, tuttavia, non deve essere confusa con l’amore: la prima, infatti, è puramente reattiva e cieca di fronte al valore dell’altro e, quindi, si differenzia dal secondo, che è attivo e poggia sul riconoscimento della persona altrui nella sua diversità e irripetibilità. Senza amore, la persona è soltanto un animale sociale, un’entità oggettiva e sostituibile, mentre nell’amore ciascuno è veramente se stesso e l’io diventa propriamente persona .

risentimento e invidia

Secondo Scheler, il mondo moderno ha dimenticato e nascosto la simpatia e l’amore. Egli riprende da Nietzsche il concetto di risentimento e lo considera come il contrassegno non della morale cristiana, bensì delle morali moderne: è il risentimento, infatti, che porta a ritenere la natura soltanto come un ambito da dominare e gli altri uomini soltanto come strumenti – o addirittura ostacoli – in vista del benessere economico. L’invidia – matrice del risentimento – genera lo spirito di concorrenza, che è alla base dell’economia moderna e del mondo borghese.

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Scheler Simpatia e amore

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in poche... parole Nella seconda metà dell’Ottocento, gli psicologi sperimentali affrontano il problema della conoscenza cercando i processi psichici che portano alla formazione delle idee; studiare i meccanismi dell’apprendimento e della percezione non risolve, però, la questione della validità oggettiva della conoscenza stessa. Per questo motivo, Franz Brentano cerca di fondare una psicologia intesa come scienza dei fenomeni psichici nettamente distinti da quelli fisici. A suo avviso, i fenomeni psichici non sono oggetti, ma atti caratterizzati dall’intenzionalità e la coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Secondo Brentano, non esistono atti psichici inconsci, in quanto non si può essere coscienti di un oggetto rappresentato (giudicato, voluto) senza essere coscienti dell’atto che lo rappresenta (giudica, vuole).

intenzionalità Brentano riprende questo termine dalla filosofia scolastica medievale, nella quale indicava il riferimento del concetto a qualcosa di esterno da sé. Per il filosofo tedesco, l’intenzionalità è il tratto specifico dei fenomeni psichici: questi ultimi sono atti che si riferiscono a qualcosa di diverso dagli atti stessi (ad esempio la percezione rimanda a qualcosa di percepito, il desiderio a qualcosa di desiderato e così via). Per Edmund Husserl, la filosofia non deve assumere nulla come ovvio e scontato, ma deve pervenire a un fondamento dotato di evidenza assoluta. A questo scopo, egli distingue tra atteggiamento naturale e atteggiamento fenomenologico, a cui si può avere accesso soltanto dopo avere effettuato l’epochè. Mettendo «fuori circuito» l’esistenza delle cose o la distinzione tra soggetto

e oggetto, infatti, il filosofo si libera da ogni presupposto e da ogni costruzione teorica, per esaminare ciò che appare alla coscienza (i fenomeni). Dopo avere attuato l’epochè, le cose del mondo si presentano alla coscienza come oggetti di atti intenzionali, da descrivere nei modi in cui si danno e nei limiti in cui si danno. Husserl chiama «fenomenologia» questo nuovo modo di affrontare il problema della conoscenza: «La fenomenologia della conoscenza è scienza dei fenomeni di conoscenza nel doppio senso: da una parte, delle conoscenze come apparenze, rappresentazioni, atti di coscienza, in cui si presentano queste o quelle oggettualità e se ne diviene consapevoli (passivamente o attivamente); e dall’altra parte è scienza di queste oggettualità stesse in quanto in tali forme si presentano. La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare» (L’idea della fenomenologia). L’epochè, pur sospendendo la credenza nell’esistenza del mondo, non può mettere tra parentesi la coscienza pura (o l’ego trascendentale): quest’ultima non è una realtà sostanziale (anima, mente, psiche), ma l’insieme dei vissuti di coscienza esaminati nei loro aspetti universali, i modi in cui qualcosa appare a qualcuno. Compito del fenomenologo è quello di porsi come «spettatore disinteressato» che conosce non le cose empiriche ma le essenze, e cioè le strutture di senso sulle quali si basano le distinzioni tra gli oggetti e i vari atti di coscienza, suddividendo così la realtà in differenti ontologie regionali (cosa materiale, persona, mondo spirituale).

evidenza (Dal latino evidentia, traduzione del greco enàrgheia). Il

darsi a vedere, il presentarsi e manifestarsi di una cosa per quello che è. Nella filosofia contemporanea Husserl riprende da Cartesio il concetto di evidenza per indicare il carattere di verità immediata con cui i fenomeni e le loro caratteristiche essenziali si danno alla coscienza pura, una volta compiuta la riduzione fenomenologica.

epochè Termine greco indicante

la «sospensione del giudizio o dell’assenso», praticata dagli scettici antichi, di fronte a cose oscure o a tesi rispetto a cui si possono dare argomentazioni equivalenti sia favorevoli sia contrarie; essa consiste nel non affermare né negare. Il termine è stato ripreso da Husserl per indicare la messa tra parentesi dell’atteggiamento naturale, che assume come un dato ovvio l’esistenza del mondo o la distinzione soggetto-oggetto. Con l’attuazione dell’epochè – detta anche «riduzione» – il fenomenologo riesce a ottenere la progressiva liberazione da ogni credenza dogmatica e ad assumere l’atteggiamento fenomenologico. Sospendendo la fede nella realtà del mondo, infatti, il mondo stesso si presenta come un insieme di fenomeni – ovvero di oggetti intenzionali che si danno alla coscienza. In tal modo grazie all’epochè si può accedere alle «cose stesse», che non sono cose empiriche singolari – alla cui esistenza si è interessati – ma essenze universali e necessarie di cui si può diventare spettatori disinteressati. Non tutto, però, può essere oggetto di epochè: a essa si sottrae la coscienza pura, perché – come già aveva mostrato Cartesio – non posso sospendere il giudizio sul fatto che io sto pensando.

coscienza pura Nella fenomeno-

logia husserliana, la coscienza indica il flusso delle esperienze vissute (Erlebnisse). All’interno di ogni vissuto di coscienza è possibile distin-

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guere gli atti (percepire, immaginare, rappresentare...) dagli oggetti a cui questi atti si riferiscono (percepito, immaginato, rappresentato...). In tal senso, la caratteristica principale della coscienza è l’intenzionalità: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, ossia tende sempre verso un oggetto che va al di là di essa. Husserl distingue, inoltre, tra coscienza empirica e coscienza pura. Nel primo caso, si tratta dell’io empirico, l’io che ognuno è in quanto risulta spazio-temporalmente situato nel mondo. Attraverso l’epochè si attua una modificazione dell’atteggiamento naturale, per cui si sospende il giudizio sull’esistenza di fatti o cose incontrati nel mondo. L’io empirico non può sottrarsi all’epochè, giacché esso coincide con l’esperienza ovvia e ingenua che ho di me. Ma una volta che è stato eliminato dalla coscienza tutto ciò che riguarda me, che cosa rimane? Rimane la coscienza pura con ciò che in essa si dà, nei modi in cui si dà. La coscienza pura non è una sostanza, alla maniera di Cartesio, ma semplicemente il modo di presenza di una qualunque realtà. Ad esempio, io guardo una ragazza. Dopo l’epochè, mi rivolgo all’atto del guardare una ragazza: nel primo caso, l’io che guarda la ragazza è quello empirico; nel secondo, l’io che si rivolge all’atto di percezione è l’io puro. Attraverso la riflessione, il fenomenologo mette in luce le caratteristiche generali di questo atto di percezione, la sua stratificazione (ad esempio, l’atto del vedere si intreccia con atti di immaginazione), le sue componenti (lato soggettivo, lato oggettivo). Ma ciò che trova, non vale solo per lui: i contenuti della coscienza pura vengono presi in considerazione per ciò che in essi vi è di essenziale (ossia comune a tutti, in tutti i tempi e luoghi). In questo senso la coscienza pura è il punto di partenza per la costruzione della fenomenologia come scienza rigorosa. 274

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ontologia (Dal greco on, «ente», e lògos, «discorso»). Termine coniato in età moderna per indicare la disciplina che studia l’essere in generale. Nella filosofia contemporanea la nozione di ontologia generale è ripresa da Husserl per indicare la logica pura, ossia l’insieme delle leggi logiche che sono operanti in ogni vissuto di coscienza e che regolano ogni possibile conoscenza. A essa egli affianca le cosiddette ontologie regionali, le quali hanno per oggetto le essenze regionali, ossia le strutture ideali di tutti gli individui appartenenti a una determinata regione d’essere (ad esempio la cosa materiale, la persona, il mondo spirituale, e così via). Nell’opera pubblicata postuma – La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale – Husserl affronta il tema della crisi dell’umanità europea che ha smarrito il senso della propria esistenza e del mondo in generale. La matematizzazione della natura operata dalle scienze e l’obiettivismo, ossia la tendenza a trattare il mondo e l’uomo come realtà separate e indipendenti, hanno condotto a dimenticare il mondo-della-vita nella sua correlazione con la soggettività trascendentale. Il mondo-della-vita non è quello assunto dalle scienze naturali, ma quello dell’esperienza prescientifica e precategoriale che viene costituito dalla soggettività trascendentale. In questo quadro, la fenomenologia si pone come la sola filosofia autenticamente universale, in grado di riscoprire nella soggettività la sorgente ultima di tutte le formazioni conoscitive e di realizzare l’ideale di un’umanità integralmente fondata sulla ragione.

mondo-della-vita (In tedesco, Lebenswelt). A partire dall’età mo-

derna, con Galilei, le scienze della natura hanno trasformato il mondo in un insieme di entità e di forze

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matematicamente misurabili. Da qui ha tratto origine il dualismo cartesiano di res cogitans (= cosa pensante, anima, mente) e res extensa (= cosa estesa, materia) e la conseguente contrapposizione gnoseologica di soggetto e oggetto. Questa descrizione del mondo viene data per scontata e rientra nell’atteggiamento naturale con cui ognuno di noi si rapporta a se stesso e alle cose, trattandoli come meri «fatti». Grazie all’epochè è, tuttavia, possibile, secondo Husserl, sospendere l’atteggiamento naturale e divenire consapevoli che «la scienza è una realizzazione dello spirito umano», che il mondo da essa descritto è una costruzione teorica basata sull’esperienza preriflessiva e precategoriale del soggetto. Husserl chiama «mondo-della-vita» questo «regno di evidenze originarie», comune a tutti i soggetti conoscenti e sempre già dato come sfondo di tutte le elaborazioni simboliche che lo riguardano: «esso è dato del tutto naturalmente a tutti noi, a noi in quanto persone nell’orizzonte dell’umanità, in qualsiasi connessione attuale con gli altri; è ‘il’ mondo comune a tutti [...] il mondo è un terreno costante di validità, una sorgente costantemente disponibile di ovvietà, e noi, sia in quanto uomini pratici sia in quanto scienziati, ci occupiamo sempre di esso» (La crisi delle scienze europee). Secondo Husserl, il mondo-della-vita rappresenta il correlato della soggettività trascendentale, che gli attribuisce senso e validità d’essere, prima della formazione delle categorie e dei giudizi. Max Scheler trova nella fenomenologia di Husserl il metodo per affrontare i problemi legati alla vita emotiva e morale dell’uomo, che i neokantiani di Marburgo avevano lasciato irrisolti. Egli pone fine al primato del problema gnoseologico, ampiamente sostenuto dai neokantiani e in parte

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condiviso dallo stesso Husserl, per concentrarsi sulla sfera dei sentimenti. Quest’ultima gli appare caratterizzata da precisi contenuti dati a priori e non derivabili dalle conoscenze di fatto. Per Husserl, l’intuizione delle essenze (Wesensschau) permetteva di conoscere le strutture di senso alla base dei vissuti di coscienza; allo stesso modo, per Scheler, l’intuizione emotiva (Gefühl) è in grado di cogliere i valori (buono, giusto, bello, ma anche cattivo, ingiusto, brutto, ecc.) come qualità inerenti alle cose. Scheler critica Kant perché poneva il fondamento dell’etica nella legge formale della ragione, che comanda incondizionatamente il dovere, escludendo dalla vita morale dell’uomo i sentimenti e le emozioni. Egli prospetta, invece, un’etica materiale dotata di contenuti, i valori appunto, articolati secondo una gerarchia oggettiva (da quelli sensibili a quelli religiosi). Scheler non

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condivide l’impostazione idealistico-costitutiva della fenomenologia husserliana, che individua nell’io trascendentale il fondamento impersonale di ogni esperienza possibile. A suo avviso, il fine della vita morale consiste nella piena realizzazione della persona che si rapporta originariamente al mondo e all’altro. Per Scheler, infine, sono gli atti di amore e non quelli di simpatia, a riconoscere la persona per quello che è, nella sua irripetibile individualità.

valore Termine che si diffonde nella seconda metà dell’Ottocento in Germania per indicare ciò che è apprezzato e ritenuto meritevole di scelta, dando luogo a un dibattito sull’assolutezza o relatività dei valori. Per Scheler i valori sono colti intenzionalmente non dall’intelletto, ma dal sentimento e diventano oggetto di scelta preferenziale. Essi sono qualità inerenti alle cose e al tempo stesso contenuti propri

del sentimento. In tal senso, i valori sono dati a priori – ovvero non ricavati dalla conoscenza empirica – e costituiscono un mondo oggettivo, gerarchicamente strutturato da leggi a priori. Al vertice della gerarchia oggettiva dei valori si collocano quelli della persona, ossia dell’uomo nella sua totalità e individualità e nell’unità dei suoi atti: essi sono oggetto di intuizione da parte di atti di amore.

simpatia (Dal greco sympàtheia, da syn, «con», e pàschein, «patisco», «subisco»). Nell’ambito della filosofia contemporanea, Scheler ha distinto la simpatia dal semplice contagio o fusione emotiva, ossia dal fatto di provare la stessa emozione: si può, infatti, provare simpatia o compassione per un dolore altrui, senza per questo provare questo stesso dolore. In questo senso la simpatia è essenziale per la comprensione degli altri e il riconoscimento dell’alterità delle persone.

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i testi t26 Husserl / Atteggiamento naturale e intenzionalità Husserl

Filosofia come scienza rigorosa

passim

Pubblicato come lungo articolo sulla rivista «Logos», nel 1911, Filosofia come scienza rigorosa è una sorta di manifesto della fenomenologia, uno scritto programmatico in cui sono indicate le vie che occorre percorrere per costruire la filosofia come sapere certo, assolutamente fondato. A tale scopo, essa non può essere confusa con nessuna delle scienze naturali, tanto meno con una psicologia intesa come scienza empirica basata su dati di fatto: quest’ultima, infatti, rientra nell’orizzonte dell’atteggiamento naturale, che non mette in discussione, ma piuttosto assume come ovvi, i dati dell’esperienza, senza coglierli nella loro correlazione con gli atti di coscienza, nei quali essi si danno. Si riportano qui le pagine in cui Husserl conduce una critica all’atteggiamento naturale e fa valere, in opposizione a esso e come costitutiva del metodo fenomenologico, l’intenzionalità.

Ogni scienza della natura è ingenua nei suoi punti di partenza: la natura che essa vuole prendere in esame, per essa esiste semplicemente. Le cose ci sono ovviamente, come cose che stanno in quiete o in movimento, mutevoli nello spazio infinito e, come cose temporali, nel tempo infinito: noi le percepiamo, noi le descriviamo in semplici giudizi di esperienza. L’obiettivo della scienza della natura è quello di conoscere queste datità ovvie in maniera oggettivamente valida e scientificamente rigorosa, e ciò vale anche per la natura nel senso più ampio, nel senso psicofisico e, rispettivamente, per le scienze che la prendono in esame, particolarmente la psicologia1. Lo psichico non è un mondo per sé, esso è dato come un Io e come un vissuto dell’Io (in un senso del resto molto diverso), e similmente esso si mostra connesso empiricamente a determinate cose 1. Husserl chiama «naturale» l’atteg-

giamento che assume come scontata e ovvia l’esistenza delle cose nel mondo: questo atteggiamento è alla base non soltanto del modo comune di vedere le cose, ma anche delle scienze della natura, che si pongono soltanto l’obiettivo di conoscere le cose come fatti oggettivi di per sé indiscutibili, senza indagare più a fondo le ragioni per le quali essi si

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fisiche, chiamate corpi. Anche questa è una pre-datità ovvia: compito della psicologia è perciò quello di esaminare scientificamente questo psichico nella connessione naturale psicofisica nella quale esso esiste ovviamente, di determinarlo in maniera oggettivamente valida e di scoprire il complesso delle leggi del suo formarsi e trasformarsi, del suo comparire e del suo disparire2. Ogni determinazione psicologica è eo ipso psicofisica, e precisamente nel senso amplissimo (al quale a partire da ora teniamo fermo) che essa infallibilmente ha nel tempo stesso un significato sul piano fisico. Anche quando quella scienza empirica che è la psicologia mira alla determinazione di puri e semplici eventi coscienziali e non di dipendenze psicofisiche nel consueto senso ristretto, questi eventi sono tuttavia pensati come eventi di natura, cioè appartenenti a coscienze uma-

danno come ovvi alla coscienza. Tra le scienze della natura, Husserl include anche la psicologia, nella misura in cui essa intende modellarsi sulle scienze fisiche, assumendone le procedure di osservazione e di sperimentazione. 2. Analogamente alle altre scienze della natura, anche la psicologia considera il mondo dei fenomeni psichici come un insieme di dati oggettivi, che si pre-

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sentano di fatto intrinsecamente connessi al piano della corporeità. In questo senso, gli oggetti della psicologia possono essere definiti più propriamente come fenomeni psicofisici. L’individuazione delle leggi psichiche può allora avvenire, anche per via sperimentale, attraverso il rilevamento dei rapporti di causalità e di correlazione tra il piano fisico e quello psichico.

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ne o a animali, che per parte loro hanno una connessione ovvia e implicita con corpi umani od animali3. L’eliminazione del rapporto con la natura significherebbe per lo psichico la perdita del carattere di fatto naturale determinabile in maniera oggettivo-temporale, in breve di fatto psicologico. Teniamo quindi ben fermo che ogni giudizio psicologico implica in sé, espressamente o meno, che la natura fisica venga posta come esistente. Da ciò consegue palesemente che, se si possono fornire degli argomenti decisivi in forza dei quali si può affermare che la scienza fisica della natura non può essere filosofia in senso specifico, che mai e poi mai essa può servire come fondamento della filosofia e che solo sulla base della filosofia precedentemente illustrata può essere equivocamente utilizzata in senso filosofico ai fini della metafisica, allora tutti gli argomenti siffatti dovrebbero trovare senz’altro applicazione alla psicologia4. Ora argomenti del genere non mancano affatto. È sufficiente ricordare solo l’«ingenuità» con la quale la scienza della natura assume – secondo quanto asserito in precedenza – la natura come data, una ingenuità che in essa è per così dire immortale e che, per esempio, si ripete in ogni momento del suo procedere, là dove essa fa ricorso alla semplice esperienza e in conclusione 3. Husserl ritiene che la psicologia del

suo tempo, modellandosi sulle scienze della natura, presupponga in ogni caso che i fenomeni psichici appartengano a esseri dotati di corporeità e rientrino, quindi, negli eventi naturali osservabili: proprio per questo è legittimo applicare a essi i metodi d’indagine propri delle scienze fisiche, capaci di garantire l’oggettività dei risultati. 4. Il fatto che le scienze naturali diano luogo a conoscenze oggettive non legittima, secondo Husserl, i tentativi di identificare con esse la filosofia o di considerarle il fondamento o il modello della filosofia, come avveniva in pensatori che traevano ispirazione dal positivismo. La filosofia, infatti, cerca un punto di partenza e un fondamento assolutamente certo, senza dare nulla per presupposto, mentre le scienze della natura assumono come dati ovvi le cose e gli eventi del mondo e, quindi, non

riconduce all’esperienza tutti i metodi scientifici empirici. La scienza della natura, nel suo genere, è certamente alquanto critica. Un’esperienza isolata, anche se replicata, ha ancora per essa un valore quanto mai limitato. Nell’ordinamento e nella connessione metodica delle esperienze, nel gioco scambievole dell’esperienza e del pensiero secondo regole logiche fisse, l’esperienza valida si distingue dalla non valida, ogni esperienza mantiene un determinato livello di validità e viene a enuclearsi la conoscenza oggettivamente valida in generale, la conoscenza naturale. Ma per quanto questo tipo di critica dell’esperienza, finché ci manteniamo nel campo della scienza della natura e pensiamo nei termini del suo atteggiamento, possa essere soddisfacente per noi, è ancora possibile e indispensabile una critica che ponga al tempo stesso in questione l’intera esperienza in generale e il pensiero scientifico empirico5. Come può l’esperienza, in quanto coscienza6, dare un oggetto o coglierlo? Com’è che le esperienze si giustificano o possono giustificarsi reciprocamente per mezzo di esperienze, e non solo superarsi o rafforzarsi soggettivamente? Come fa un gioco della coscienza logicoempirica a affermare quanto è oggettivamente valido per cose che sono in sé e per sé? Perché le cosiddette regole del gioco della coscienza

mettono in discussione la supposizione che sta alla base dell’atteggiamento naturale. 5. In una certa misura, anche nelle scienze della natura, che non si accontentano della semplice osservazione di fenomeni isolati o anche ripetuti, ma cercano rapporti regolari tra essi, ossia leggi universalmente valide, è presente, secondo Husserl, un grado di criticità. Finché si rimane nell’ambito specifico di tali scienze, questo grado è sufficiente, ma non è più tale quando si vuole ritrovare il fondamento assolutamente certo dell’esperienza in generale e, quindi, anche delle stesse scienze empiriche. In questo caso, occorre procedere a una critica ancora più radicale, la quale conduca a non assumere nulla come ovvio, neppure l’esistenza della natura come di un dato oggettivo. 6. Ogni esperienza comporta sempre il riferimento a un soggetto che la vive e

ne è consapevole. Si tratta allora di chiedersi in che senso è possibile il costituirsi della relazione del soggetto, ossia della coscienza, con i suoi oggetti e, di conseguenza, quali siano le condizioni di possibilità per il costituirsi di una conoscenza oggettivamente valida di essi. In altri termini, non è possibile, secondo Husserl, parlare di conoscenza delle cose, come se queste fossero entità a sé stanti, indipendenti dalla coscienza, a cui esse di volta in volta si danno nel flusso dell’esperienza vissuta. Se le cose stanno così, è chiaro che la questione del fondamento della conoscenza non può prescindere dal riferimento alla coscienza. Ma le scienze della natura non sono in grado di rispondere a questo problema, in quanto, come si è visto, presuppongono come un dato ovvio il mondo della natura e non avvertono la necessità di cogliere la loro relazione costitutiva con gli atti della coscienza.

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hanno un loro rilievo per le cose? Com’è che la scienza della natura deve divenire comprensibile in ogni suo aspetto, nella misura in cui essa presume, in ogni suo livello, di porre e conoscere la natura come un qualcosa che è in sé di fronte al flusso soggettivo della coscienza? Tutto questo diviene un enigma, non appena è fatto oggetto di una seria riflessione. Tutti sanno che la teoria della conoscenza è la disciplina che intende dare una risposta a questi interrogativi, ma finora essa non ha risposto in maniera scientificamente chiara, senza discordanze e in modo decisivo, a dispetto di tutto il lavoro di ricerca e di riflessione che vi hanno rivolto i maggiori scienziati. Ora c’è solo bisogno di mantenere il livello di questa problematica in termini di rigorosa consequenzialità (di una consequenzialità che è certo mancata a tutte le teorie della conoscenza sinora date), per individuare il controsenso di una «teoria della conoscenza scientifico-naturale», e così pure di ogni teoria della conoscenza psicologica. Alcuni enigmi, per parlare in generale, sono in linea di principio immanenti alla scienza della natura: ovviamente le loro soluzioni, derivate da premesse e risultati, sono in linea di principio trascendenti. Volere attendere la soluzione di ogni problema proprio della scienza della natura come tale – proprio di essa in tutti i suoi aspetti, dal principio alla fine – dalla scienza della natura stessa, o anche solo pensare che essa possa contribuire con delle premesse di un qualche tipo alla soluzione di un problema del genere, vorrebbe dire muoversi in un circolo vizioso. È anche chiaro che in una teoria della cono-

7. L’aggettivo tetiche (dal greco thèsis,

«posizione») è un semplice rafforzativo del sostantivo posizioni. Per Husserl, è l’atteggiamento naturale che pone e assume come un dato ovvio l’esistenza delle entità naturali, che si presentano nello spazio e nel tempo, oltre che connesse tra loro da rapporti di causalità. Nell’ambito di queste entità, la psicologia empirica del tempo faceva rientrare anche le facoltà e i fenomeni psichici dell’uomo. 8. Emerge qui un concetto fondamen-

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scenza che voglia mantenere la coerenza del proprio senso, ogni maniera di porre la natura pre-scientificamente deve essere esclusa in linea di principio, così come lo è ogni maniera di porla scientificamente, e che perciò vanno escluse anche tutte le affermazioni che implicano posizioni tetiche esistenziali7 di complessi di cose nei termini di spazio, tempo e causalità. E tutto ciò si estende palesemente anche a tutte le posizioni esistenziali concernenti l’esistenza dell’uomo che indaga, delle sue facoltà psichiche e simili. Se inoltre la teoria della conoscenza vuole nondimeno indagare i problemi del nesso coscienza-essere, essa può avere dinanzi agli occhi l’essere solo come correlato della coscienza, come «intenzionato» coscienzialmente, cioè come percepito, ricordato, atteso, rappresentato con l’immaginazione, fantasticato, identificato, distinto, creduto, presunto, valutato e così via8. Si ha così modo di constatare che la ricerca deve essere indirizzata alla conoscenza scientifica essenziale della coscienza, a quello che la coscienza stessa, in tutte le sue distinte conformazioni, «è» nella sua essenza, ma contemporaneamente anche a quello che essa «significa», come pure alle diverse maniere in cui essa intende l’oggettuale, ed eventualmente lo comprova come un essere «valido», «effettivo», conformemente all’essenza delle sue conformazioni – ora cioè in maniera chiara e ora oscura, ora come qualcosa di effettivamente presente o di supposto come presente, ora con un segno ora con un’immagine, ora in maniera diretta, ora con l’aiuto del pensiero, ora in questo ora in quel modo di attenzione e così in altre innumeri forme.

tale della fenomenologia: il concetto di intenzionalità. Esso consente di vedere come le cose – ciò che, in generale, Husserl chiama l’essere, ossia tutto ciò che è – non siano propriamente conoscibili a prescindere dalla coscienza rispetto alla quale esse si danno: ciò significa che esse devono essere analizzate in quanto correlati della coscienza, come poli di atti psichici intenzionali. D’altra parte, l’intenzionalità caratterizza costitutivamente la coscienza come coscienza di qualcosa:

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come una cosa è in quanto è percepita o ricordata o immaginata e così via, così il percepire, il ricordare, l’immaginare sono sempre correlati a qualcosa di percepito, ricordato, immaginato. L’analisi fenomenologica della coscienza è, dunque, al tempo stesso analisi degli atti intenzionali della coscienza e dei loro contenuti oggettuali, nelle varie modalità in cui essi si danno nel vissuto della coscienza stessa ed è dalla loro correlazione con la coscienza che essi ricevono significato.

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni di Husserl che illustrano «l’atteggiamento naturale» e riformulalo con parole tue. 2. Perché, secondo Husserl, «ogni scienza della natura è ingenua nei suoi punti di partenza»? 3. Perché Husserl include anche la psicologia fra le scienze naturali? 4. Cosa significa l’espressione: «la scienza della natura, nel suo genere, è certamente alquanto critica»? 5. Come si caratterizza l’atteggiamento fenomenologico? 6. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono il concetto di «intenzionalità» e riformulalo con parole tue.

t27 Husserl / La crisi europea e il compito della filosofia Husserl

La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale

parte I, §§ 6-7

Alla sua morte, Husserl lasciò una mole imponente di manoscritti: alcuni di essi, risalenti agli ultimi anni della sua vita, furono pubblicati nel 1954 con il titolo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Le prime due parti di quest’opera, tuttavia, erano già state pubblicate da Husserl stesso nel 1936 sulla rivista «Philosophia», che usciva a Belgrado. Egli le presentava come parti di un più ampio lavoro volto a «fondare, attraverso una considerazione storico-teleologica degli inizi della nostra situazione critica, scientifica e filosofica, l’inevitabile necessità di un rivolgimento fenomenologico-trascendentale». Novità saliente è la prospettiva storica e insieme etica, con la quale Husserl affronta i compiti odierni della filosofia, che egli vede rappresentata nella sua forma più alta dalla fenomenologia, erede dello spirito della prima filosofia greca, orientata alla realizzazione di una piena umanità, fondata sulla ragione.

Le uniche battaglie veramente significative del nostro tempo sono battaglie tra un’umanità che già è franata in se stessa e un’umanità che è ancora radicata su un terreno, e che lotta appunto per questo inserimento o per uno nuovo1. Le vere battaglie spirituali dell’umanità europea sono lotte tra filosofie, cioè tra le filosofie scettiche – o meglio tra le non-filosofie, che hanno mantenuto il nome ma che hanno per1. Husserl vede incombere sulla sua

epoca – sono gli anni drammatici di poco successivi alla presa del potere da parte dei nazisti in Germania – la minaccia di una nuova barbarie irrazionalistica. La vera battaglia del suo tempo avviene, a

duto la coscienza dei loro compiti – e le vere filosofie, quelle ancora vive. Ma la vitalità di queste ultime consiste in questo: esse lottano per il loro senso vero e autentico e perciò per il senso di un’autentica umanità. Portare la ragione latente all’autocomprensione, alla comprensione delle proprie possibilità e perciò rendere evidente la possibilità, la vera possibilità, di una metafisica – è questo l’unico modo per portare

suo avviso, sul terreno dello spirito: contro questo nuovo irrazionalismo deve ergersi un’umanità ancora fedele al proprio compito, che consiste nella realizzazione della propria piena razionalità. Poiché la filosofia è la manifestazione

più autentica di tale razionalità, è chiaro che, per Husserl, solo la filosofia può contrastare la barbarie incombente: il suo problema è quello di mostrare che questo compito può essere assolto solo dalla filosofia fenomenologica.

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la metafisica, cioè la filosofia universale, sulla via laboriosa della propria realizzazione. Solo così sarà possibile decidere se quel tèlos2 che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così, – nel movimento infinito dalla ragione latente alla ragione rivelata e nel perseguimento infinito dell’auto-normatività attraverso questa sua verità e autenticità umana, sia una mera follia storico-fattuale, un conseguimento casuale di un’umanità casuale in mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse, oppure se piuttosto nell’umanità greca non si sia rivelata quell’entelechia che è propria dell’umanità come tale. L’umanità (Menschentum) in generale è per essenza un essere uomini entro organismi umani (Menschheiten) generativamente e socialmente connessi, e se l’uomo è un essere razionale (animal rationale), lo è soltanto se tutta la sua umanità è un’umanità razionale – latentemente orientata verso la ragione oppure espressamente orientata verso quell’entelechia che è pervenuta a se stessa, che si è rivelata a se stessa e che ormai guida coscientemente, per una necessità essenziale, il divenire umano. La filosofia, la scienza non sarebbero allora che il movimento storico della rivelazione della ragione universale, «innata» come tale nell’umanità. 2. Il termine greco tèlos significa

«scopo», «fine», qualcosa che è già potenzialmente e parzialmente presente e operante in tutte le fasi del processo che portano al compimento e alla realizzazione del fine stesso. Secondo Husserl, l’umanità europea è un insieme unitario, che cronologicamente va dai Greci sino all’Europa moderna, proprio in virtù di questo tèlos, presente e operante già nei primi filosofi greci: esso consiste nell’obiettivo della realizzazione della piena umanità, fondata sulla ragione filosofica. Si tratta di un processo storico, che non è puramente accidentale, bensì esprime la teleologia intrinseca alla vicenda dell’intera umanità: la storia appare a Husserl come un processo dotato di una sua intrinseca razionalità e logica interna. Per designare questo itinerario teleologico, ossia volto a realizzare il proprio fine in

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Così sarebbe realmente se questo movimento, che oggi non è ancora concluso, si fosse dimostrato proprio quest’entelechia giunta in modo autentico ed effettivo sulla via di un puro realizzarsi, o se la ragione, effettivamente e pienamente cosciente di se stessa, si fosse rivelata nella forma che le è per essenza peculiare, cioè nella forma di una filosofia universale, procedente in un’evidenza conseguentemente apodittica, capace di un’auto-normatività e provvista di un metodo apodittico3. Solo così sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta e se non sia un mero tipo antropologico empirico come la «Cina» o l’«India»; e inoltre: se lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un non-senso storico4. [...] Ma noi stessi, noi filosofi del presente: che cosa possono e devono significare per noi considerazioni di tipo di quelle che abbiamo abbozzato? Siamo forse venuti qui soltanto per ascoltare una prolusione accademica? Possiamo tornare tranquillamente al lavoro che abbiamo interrotto, ai nostri «problemi filosofici», alla costruzione della nostra propria filosofia? Possiamo seriamente farlo dopo che abbiamo scoperto con certezza che la nostra filosofia, come quelle di tutti gli altri filosofi presenti e

maniera sempre più compiuta, Husserl utilizza il termine aristotelico entelechìa, che significa letteralmente «atto perfetto o compiuto»: si tratta, infatti, della realizzazione compiuta di quel tèlos, che secondo Husserl caratterizza propriamente l’umanità. In altri termini, l’umanità è realmente tale, se è orientata a realizzare compiutamente, in forme latenti o esplicitamente consapevoli, come è nel caso della filosofia, la razionalità che è il suo segno distintivo. 3. Nella filosofia, la ragione universale si rivela storicamente, ma questa rivelazione trova la sua espressione compiuta e adeguata solo nella forma autentica della filosofia, ossia in una filosofia dotata di validità universale. Una filosofia del genere può costituirsi a condizione di poggiare su un fondamento assolutamente evidente e in-

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contestabile: solo essa può essere autonormativa, ossia derivare le leggi e le regole che la governano non da altro (per esempio, dalla tradizione o da altre forme di sapere), ma esclusivamente da se stessa. Già questi accenni rinviano alla fenomenologia, come unica filosofia che mira a una fondazione assoluta di se stessa e di ogni altra forma di sapere. 4. Per Husserl, il concetto di umanità europea non è un concetto empirico: esso non descrive, infatti, le proprietà di un gruppo particolare di uomini, accidentalmente uniti tra loro da caratteri fisici o psicologici comuni. L’umanità europea è portatrice dell’idea di umanità in generale, che è presente come tèlos fin dai primi filosofi greci: si tratta dell’ideale di un’umanità compiutamente razionale e, quindi, pienamente autonoma e libera. In questo senso,

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passati, non avrà che l’effimera esistenza di una giornata nell’ambito della flora filosofica che sempre di nuovo si rinnova e che poi torna a sfiorire? Proprio in questo sta la nostra miseria, la miseria di noi tutti, noi che non siamo filosofi letterari, noi che, educati dai veri filosofi del nostro grande passato, viviamo della verità e che solo vivendo così siamo e vogliamo essere nella nostra propria verità. Ma come filosofi del presente siamo caduti in una penosa contraddizione esistenziale. Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza universale. Noi sappiamo di essere chiamati a questo compito in quanto vogliamo essere seriamente filosofi. Eppure, come tener fermo a questa fede, che ha un senso soltanto in relazione con un fine uno, unico e a noi tutti comune, cioè con la filosofia? Noi siamo riusciti a comprendere, anche se soltanto nelle linee più generali, come il filosofare umano e i suoi risultati non abbia affatto il significato puramente privato o comunque limitato di uno scopo culturale5. Noi siamo dunque – e come potremmo dimenticarlo? –, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella nostra vocazione interiore personale, include anche la responsabilità per il vero essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un tèlos, e che se può essere realizzato, lo può soltanto attraverso la filosofia. È possibile – di fronte a questo «se» esistenziale – sfuggire? E se non è possibile, che cosa dobbiamo fare per poter credere, noi che già crediamo; noi che non possiamo continuare seria-

l’europeizzazione del resto del mondo potrebbe essere interpretata non come un fatto puramente accidentale e privo di significato, bensì come un momento essenziale di estensione all’intera umanità di quel processo di umanizzazione che può avvenire soltanto attraverso la razionalità. 5. Husserl rifiuta di concepire la filosofia come un’attività puramente specialistica, dedita all’esplorazione di campi

mente nel nostro precedente filosofare se esso ci dà a sperare filosofie ma non una filosofia? Le nostre prime considerazioni storiche ci hanno rivelato non soltanto l’attuale situazione di fatto e la sua miseria come un semplice dato di fatto, ci hanno anche ricordato che noi, in quanto filosofi, per quanto riguarda quei fini che sono indicati dal termine «filosofia», per quanto riguarda i concetti, i problemi, i metodi, siamo eredi del passato. È chiaro (e che cosa altrimenti ci potrebbe aiutare?) che occorrono esaurienti considerazioni storiche e critiche per giungere, prima di qualsiasi decisione, a un’atto-comprensione radicale, che occorre indagare ciò che originariamente si perseguiva con la filosofia, ciò che tutte le filosofie e tutti i filosofi, storicamente intercomunicanti, hanno perseguito; e tutto ciò attraverso una considerazione critica di ciò che nella propria finalità e nel proprio metodo rivela quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine (Ursprungsechtheit) che, una volta penetrata, lega a sé apoditticamente la volontà. GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché Husserl definisce le filosofie scettiche, che attuano l’epochè, «non-filosofie»? 2. Evidenzia sul testo le espressioni che caratterizzano le «vere filosofie, quelle ancora vive». 3. Come Husserl definisce l’umanità in generale e il suo tèlos (fine)? 4. Qual è la «contraddizione esistenziale» nella quale sono caduti i filosofi del presente? 5. Quale compito – non soltanto teoretico – Husserl assegna alla filosofia?

particolari, privi di significato universale per l’intera vita umana. In questo senso, l’attività del vero filosofo non può essere esclusivamente privata, ma è necessariamente pubblica, perché riguarda il destino dell’umanità razionale, che proprio nella filosofia trova la sua più alta e consapevole espressione. La filosofia ha così, necessariamente, una funzione etica di portata universale e richiede, quindi, l’assunzione di com-

piti e responsabilità che non riguardano soltanto chi filosofa in quanto individuo. Per assolvere al suo vero compito, la filosofia deve riallacciarsi, secondo Husserl, a quel tèlos, che sin dall’inizio ha contrassegnato l’essenza della filosofia: si tratta, allora, di realizzare consapevolmente le eredità del passato, che consentono di giungere a una comprensione più piena degli scopi autentici della filosofia.

i testi

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esercizi/9 CHE COSA SO?

15. In che cosa consiste l’atteggiamento fenomenologico?

Guida allo studio del manuale

16. Che differenza c’è, secondo Husserl, tra ontologia generale e ontologie regionali?

1. Evidenzia la concezione della psicologia che Brentano teorizza. 2. Evidenzia la definizione di numero data da Husserl nella Filosofia dell’aritmetica. 3. Evidenzia che cosa intende dire Husserl con l’espressione «spettatore disinteressato». 4. Evidenzia le occorrenze del termine «persona» in Husserl e in Scheler. 5. Evidenzia in che modo Husserl cerca di evitare l’accusa di solipsismo. 6. Evidenzia qual è, secondo Husserl, il fine (tèlos) dell’umanità. 7. Evidenzia il significato dei termini «ego trascendentale» e «soggettività trascendentale». 8. Evidenzia la critica di Scheler all’etica di Kant. Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti:

17. Quali sono, secondo Husserl, i tre strati della realtà mondana? 18. Che rapporto c’è, secondo Husserl, tra percezione immanente, riflessione ed Erlebnis? 19. In che modo, nelle Meditazioni cartesiane, Husserl risponde all’accusa di solipsismo? 20. Qual è stato il ruolo di Galileo nella storia del pensiero filosofico e scientifico europeo? 21. In che cosa consiste il mondo-della-vita (Lebenswelt) e come è possibile avere accesso a esso? 22. A che cosa sono correlati gli atti del sentimento secondo Scheler? 23. Qual è la gerarchia dei valori illustrata da Scheler in Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori? Trattazione sintetica di argomenti (max 15-20 righe)

intenzionalità (Brentano) • epochè (Husserl) • logica pura (Husserl) • essenza (Husserl) • coscienza pura (Husserl) • noesi e noema (Husserl) • mondo-della-vita (Husserl) • persona (Scheler)

24. Qual è la classificazione degli atti mentali, secondo Brentano?

CHE COSA HO CAPITO?

26. Qual è, per Husserl, l’obiettivo della logica pura?

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. Perché, secondo Brentano, non possono esistere atti psichici inconsci? 11. Perché Frege accusa l’Husserl della Filosofia dell’aritmetica di «psicologismo»? 12. Che cosa intende Husserl col termine «proposizione»? 13. Che differenza c’è tra intuizione empirica e intuizione categoriale? 14. In che cosa consiste l’atteggiamento naturale?

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25. Perché la fenomenologia – pur affermando il primato della coscienza – non può essere considerata una prospettiva «psicologistica»? 27. Quale obiettivo vuole raggiungere Husserl con l’elaborazione della fenomenologia? 28. Per Husserl, la coscienza pura è il flusso delle esperienze vissute. Per ogni Erlebnis è possibile distinguere un lato soggettivo e uno oggettivo. Spiega con parole tue, facendo anche degli esempi, l’articolazione interna degli Erlebnisse. 29. Che rapporto c’è tra la concezione cartesiana dell’evidenza e quella husserliana? 30. Che cosa differenzia l’idealismo trascendentale di Husserl da quello di Berkeley o da quello di Kant? 31. Perché, secondo Husserl, l’intersoggettività è costitutiva della coscienza trascendentale?

esercizi/9

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esercizi/9 32. Che cosa intende Husserl per «crisi delle scienze europee»?

35. Che rapporto c’è tra mondo-della-vita e soggettività trascendentale?

33. Qual è la nozione di umanità europea che si afferma per la prima volta in Grecia con la nascita della filosofia?

36. Che differenza c’è, secondo Scheler, tra amore e simpatia?

34. Confronta la nozione husserliana di mondo-della-vita con quella crociana di vitale, mettendo in luce analogie e differenze.

esercizi/9

37. Il mondo moderno, secondo Scheler, è segnato dal risentimento. Confronta la nozione nietzscheana di risentimento con quella di Scheler.

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nella quotidianità stessa la struttura dell’esistenza come essere-nel-mondo, inteso come un prendersi cura delle cose in quanto utilizzabili, ed essere-con gli altri. Nella quotidianità domina il Si impersonale (si fa, si dice) e quindi l’esistenza si manifesta come inautentica. Invece l’esistenza autentica, avvertendo l’angoscia verso il nulla, si configura come essere-per-la-morte. La morte è qui intesa come nullificazione possibile di tutte le proprie possibilità e quindi come la possibilità decisiva, grazie alla quale ci si sottrae al Si e alla dispersione nella quotidianità. la verità e la storia della metafisica

10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica i contenuti jaspers: esistenza e trascendenza

Per Jaspers la filosofia stessa è esistenza, che non può essere ridotta a qualcosa di semplicemente presente, ma è contrassegnata dalla trascendenza, dall’andare oltre se stessa alla ricerca dell’essere autentico e di se stessi. In primo luogo si ha un trascendere verso il mondo, che si presenta come ciò che circoscrive e non è ulteriormente oltrepassabile. Nasce di qui lo scacco che conduce l’uomo a cercare il proprio

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orientamento al di là del mondo di volta in volta dato e a configurarsi come esistenza possibile aperta a ciò che non è già dato. Ma questa scelta esistenziale si riconosce al tempo stesso legata alla situazione da cui proviene: situazioni-limite sono quelle – come il dolore o la morte – che risultano invalicabili e producono angoscia. heidegger e l’analitica esistenziale

Il punto di partenza di Heidegger è dato dalla domanda su che cosa sia «l’essere»: essa può essere posta solo dall’esserci, ovvero dall’uomo inteso come esistenza possibile. L’analitica esistenziale fa emergere

10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica

Temporalità e storicità sono per Heidegger tratti costitutivi dell’esserci. Ciò significa che la tradizione predetermina sempre in qualche modo la domanda sull’essere e quindi anche il modo in cui è concepita la verità. Da Platone in poi la verità è stata concepita come corrispondenza tra essere e pensiero o linguaggio, ma in tal modo è andato smarrito il significato originario di essa, consegnato nella parola greca alètheia. In base a esso, la verità è non-nascondimento, e non un dato cui corrisponde qualcosa di semplicemente presente. L’epoca della metafisica, che inizia con Platone e arriva sino a noi, è caratterizzata dall’oblio dell’essere, e cioè dallo smarrimento della differenza ontologica che intercorre tra essere ed ente. Con esso avviene la riduzione dell’essere all’essere dell’ente inteso come qualcosa di presente e rappresentabile, ossia come un oggetto che può essere controllato e padroneggiato. il nichilismo e la tecnica

In tal modo la metafisica diventa umanesimo, ossia attribuzione all’uomo di un predominio che culmina nella tecnica e trova la sua espressione estrema nella volontà di potenza e nel nichilismo di Nietzsche, per cui dell’essere non ne è più niente. Per la tecnica la

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natura è un deposito di risorse energetiche utilizzabili e quindi una somma di enti semplicemente presenti e disponibili alla manipolazione dell’uomo, che tende ad affermarsi come signore della terra. Ma proprio nella tecnica si rivela il pericolo come tale e quindi può avvenire la svolta, che prepara all’oltrepassamento della metafisica e quindi a un altro inizio rispetto all’epoca della metafisica.

ancora pensato. Questo compito è affidato da Heidegger al pensiero, che è modo originario di custodire la verità, estraneo alla scienza, e consiste nel porsi in ascolto del linguaggio. Il linguaggio infatti non è un puro strumento di comunicazione, ma è la casa dell’essere, il luogo in cui l’essere si dà storicamente all’uomo.

pensiero e linguaggio

Per Heidegger comprensione e interpretazione sono strutture costitutive del modo di essere dell’uomo. Questo tema è sviluppato dal suo allievo Gadamer in una filosofia ermeneutica, che mira a portare alla luce l’esperienza di verità che avviene nella comprensione e interpretazione

L’uomo non dispone dell’essere, ma è pastore dell’essere. Per ridestare l’attesa nell’essere che è stato obliato occorre ricordare ciò che è stato detto nella storia della metafisica, specie nei primi pensatori preplatonici, ovvero il non

gadamer e l’ermeneutica

dell’arte, della storia e del linguaggio. In questi ambiti, esperienza non significa conoscenza oggettiva disinteressata, ma essere coinvolti e modificati. Così nella comprensione della storia il passato è integrato nella vita del presente, se ci si mostra disponibili a lasciarsi dire qualcosa dal passato, liberandosi dai propri pregiudizi. Ciò comporta una riabilitazione della tradizione non solo nel senso che siamo sempre radicati nel passato, ma nel senso che la tradizione è un linguaggio che si rivolge a noi come interlocutori in un dialogo. Mettendosi in ascolto della tradizione, infatti, l’interprete può essere coinvolto in un’esperienza di verità che lo trasforma.

gli strumenti in poche… parole esistenza / esserci / interpretazione / angoscia / essere-per-la-morte / metafisica / nichilismo / tecnica / circolo ermeneutico / fusione degli orizzonti

approfondimento

i testi a. nel manuale t28 Heidegger/L’esistenza inautentica e il mondo del «Si» t29 Heidegger/L’esistenza autentica e la morte t30 Heidegger/Il pensiero e la filosofia t31 Gadamer/Comprensione e storia degli effetti

b. on-line Jaspers/Esistenza e mondo Jaspers/Esistenza e libertà Heidegger/La verità e l’inizio della metafisica Heidegger/Nichilismo e metafisica Heidegger/La tecnica e la poesia Gadamer/Comprensione e fusione di orizzonti

Il primo Heidegger fra teologia e fenomenologia

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Jaspers e la filosofia dell’esistenza dalla psichiatria alla filosofia

Karl Jaspers nacque nel 1883 a Oldenburg, in Germania. Iniziò a studiare Giurisprudenza, ma deluso passò a Medicina; nel 1909 si laureò, specializzandosi in Psicologia e Psichiatria. Fra il 1908 e il 1915 lavorò in una clinica psichiatrica a Heidelberg e nel 1913 pubblicò un trattato di Psicopatologia generale: nel 1916 ottenne la cattedra di Psicologia nell’università di Heidelberg. Nel 1919 pubblicò la Psicologia delle visioni del mondo; ma l’opera più rilevante di Jaspers – frutto del suo insegnamento a Heidelberg, dove nel 1922 divenne professore ordinario di Filosofia – è quella intitolata Filosofia (tre volumi) e pubblicata nel 1931.

l’esperienza del nazismo

In alcune lezioni tenute a Groninga e a Francoforte – poi raccolte nei volumi Ragione ed esistenza (1935) e Filosofia dell’esistenza (1938) – egli cominciò a formulare le linee delle ricerche che avrebbe continuato nel dopoguerra. Jaspers non fu immediatamente ostile al partito nazionalsocialista, giunto al potere in Germania nel 1933, ma prese progressivamente le distanze da esso. Nel 1938, avendo una moglie ebrea, fu costretto a rinunciare definitivamente all’insegnamento. Al termine della guerra, nel 1945, egli riprese la sua cattedra a Heidelberg, con un corso nel quale affrontava la questione della colpa della Germania: nel gennaio del 1945, infatti, un altro esule, Thomas Mann, aveva chiamato il popolo tedesco a prendere coscienza della colpa inespiabile della Germania nei confronti dell’umanità.

gli ultimi anni in svizzera

Sino alla fine della sua vita, Jaspers tornerà incessantemente a discutere i gravi problemi del presente, come nello scritto La bomba atomica e il futuro dell’umanità (1958). Nel 1947 egli pubblicò il primo volume di un vasto progetto, rimasto incompiuto, di «logica filosofica», con il titolo Sulla verità. Un altro scritto fondamentale – La fede filosofica – fu pubblicato l’anno successivo (1948), quando Jaspers abbandonò la Germania per andare a insegnare all’università di Basilea in Svizzera, dove morì nel 1969.

l’obiettivo dell’attività filosofica

Il compito della filosofia consiste anzitutto nella chiarificazione dell’ esistenza . Egli concepisce la filosofia come connessione ordinata di pensieri e non come una serie di aforismi; malgrado ciò, fu sempre contrario a intenderla come costruzione di un sistema. La filosofia non è un’attività disinteressata, che mira soltanto alla conoscenza delle cose del mondo, ma è una forma di pensiero che include necessariamente il riferimento a se stessi, alla propria situazione, e trasforma colui che pensa. Infatti, le domande della filosofia – che cos’è l’essere? perché esiste qualcosa e non il nulla? chi sono io? – scaturiscono dall’esistenza. Ora, l’esistenza può essere soltanto chiarita, ma non definita come un oggetto qualsiasi: essa è infatti sempre la mia esistenza, non un oggetto che io posso guardare in maniera distaccata. Jaspers definisce l’esistenza come «ciò che non diventa mai oggetto, l’origine partendo dalla quale penso e agisco, ciò che si rapporta a se stessa e, in ciò, alla sua trascendenza».

filosofia e trascendenza

Costitutivo dell’esistenza è l’essere in rapporto con la trascendenza, ossia con ciò che è altro e al di là di essa. Pertanto, il filosofare – in quanto chia-

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rificazione dell’esistenza – non è altro che il perenne movimento con cui ci si pone alla ricerca dell’essere e di se stessi. L’esistenza si distingue dal mero esserci (in tedesco, Dasein, letteralmente «essere qui»): con questo termine Jaspers intende tutte le cose semplicemente presenti nel mondo. Anche l’uomo è esserci, ma egli ha la prerogativa di essere esistenza, ossia ha la possibilità di non ridursi a un’entità semplicemente presente, oggettivamente definita e compiuta una volta per tutte. L’uomo infatti non è un essere autosufficiente e chiuso in se stesso, ma è sempre in relazione ad altro. Ne consegue che il filosofare – come ricerca dell’essere autentico mediante il pensiero – deve oltrepassare tutto ciò che è dato oggettivamente e che non coincide mai con l’essere autentico. Questa operazione non avviene automaticamente e necessariamente, ma è una possibilità per l’esserci: questi, infatti, può anche rimanere soddisfatto del suo mondo e badare soltanto alla propria conservazione. In tal caso, l’uomo non è esistenza aperta verso la trascendenza, verso ciò che è oltre il puro fatto di esserci. Secondo Jaspers, l’uomo esiste sempre in un mondo:

il mondo come orizzonte

Il mondo, come ambito di ciò che si conosce, è l’estraneo. Rispetto ad esso io sto a distanza; ciò che si può conoscere intellettualmente e sperimentare empiricamente mi respinge da sé; è per me l’altro a cui io rimango indifferente, rimesso come sono alla potente causalità che domina il reale e alla coercizione logica che presiede l’universale validità. In quest’ambito non sono al sicuro perché non odo alcuna voce che mi sia affine. [...] Insensibile, né benevolo, né spietato, sottomesso a leggi rigorose o affidato al caso, il mondo non sa di sé. Non lo si può capire perché si presenta impersonalmente, se lo si riesce a chiarire in qualche particolare, resta comunque incomprensibile nella sua totalità. Ciò non toglie che io conosca il mondo anche in un altro modo. Un modo che me lo rende affine e che mi consente di sentirmi, in esso, a casa mia, al sicuro. Le sue leggi sono quelle della mia ragione, per cui, sistemandomi in esso, mi sento tranquillo, costruisco i miei strumenti e li conosco. Mi parla; in esso soffia una vita a cui partecipo, e nell’affidarmici, mi sento presso di me. Mi è familiare nelle piccole cose e in quelle che mi sono presenti, mentre mi affascina nella sua grandezza; la sua vicinanza mi disarma, la sua lontananza mi attira. Non segue i sentieri che attendo, ma anche quando mi sorprende con insospettate realizzazioni o inconcepibili fallimenti, alla fine conservo, anche nel naufragio, un’indefettibile fiducia in esso (Filosofia, libro II, cap. 1).

Per quanto io estenda il mio orizzonte, non posso mai oltrepassare il mondo entro il quale mi trovo e posso procedere. Esso consiste nella totalità delle cose che di volta in volta si presentano come oggetti e della quale fa parte anche l’uomo in quanto esserci empirico. In tal senso, dunque, il mondo è «ciò che tutto abbraccia e circoscrive» (in tedesco, Umgreifende). Orientandomi nel mondo, io oltrepasso i limiti di fronte ai quali di volta in volta mi trovo, ma risorgono sempre altri limiti. Allo stesso modo, avanzando entro uno spazio, oltrepasso di volta in volta l’orizzonte dato, che tuttavia continua a ripresentarsi, anche se ampliato, fornendo un limite al mio sguardo. Se questo orizzonte circoscrivente fosse definitivamente superato, si arrive10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica

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rebbe a conoscere il mondo nella sua globalità e il mondo stesso si presenterebbe come totalità compiuta. In realtà la totalità del mondo resta sempre soltanto un pensiero limite .

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lo scacco della scienza

Alla luce di queste considerazioni, Jaspers affronta il tema della crisi della scienza moderna. Essa, infatti, non è riuscita a dare ciò che all’inizio sembrava promettere, ossia una visione globale del mondo sulla quale fondare i valori in maniera stabile e universale. In questa situazione di scacco il mondo viene a trovarsi frantumato in una molteplicità di prospettive e ogni pretesa di comprenderlo globalmente si scontra continuamente con nuovi limiti. Ma proprio avvertendo questo scacco, l’uomo arriva a concepirsi come esistenza in rapporto alla trascendenza e quindi a cercare il proprio orientamento al di là del mondo così com’esso è dato.

l’apertura al possibile

In tal modo, l’esistenza si richiama a se stessa come esistenza possibile: «il mio esserci – dice Jaspers – non è esistenza, ma l’uomo è, nell’esserci, possibile esistenza», ossia si rapporta all’autentico se stesso come a ciò che egli può e deve realizzare. Mentre il mero esserci sussiste soltanto empiricamente, l’esistenza è soltanto come libertà dell’esistenza possibile. Non tutto per l’esistenza è, infatti, già deciso; anzi per essa – che è possibilità aperta – essere significa decidere e decidere da sé in direzione dell’essere o del nulla: in questo senso, dice Jaspers, «io sono responsabile di me perché voglio me stesso». Per non decadere a mero esserci l’esistenza rifiuta il mondo; d’altra parte essa è attratta dal mondo, che costituisce l’ambito della sua realizzazione. Questa tensione tra esistenza e mondo – né unificabili né separabili completamente – è un processo che non giunge mai a compimento.

l’esistenza è libertà di scegliere

Come si è visto, la libertà  consiste nella possibilità propria dell’uomo di mettere in gioco se stesso: ciò significa che è comunque possibile anche non essere liberi. Essenziale nella scelta è il fatto che sono io a scegliere, decidendo di essere me stesso: ciò costituisce un salto e rende la scelta incondizionata, in quanto implica che il partito scelto venga mantenuto, che io sia responsabile di me stesso e delle conseguenze delle mie azioni. La mia scelta diventa allora l’unica vera, non è più una possibilità fra tante altre, perché se fosse tale non sarebbe veramente la mia scelta. Secondo Jaspers, dunque, la libertà coincide con l’esistenza stessa: «Io sono quando scelgo e, se non sono, non scelgo».

l’essere in situazione

Ma nel cercare di essere autenticamente me stesso, io mi riconosco legato alla situazione da cui provengo. Solo tenendo conto di questo, mi è dato ritrovare la possibilità che mi è più propria. Secondo Jaspers, nella decisione il singolo si scopre esistente in una situazione, ovvero proveniente da un passato. È vero che con la decisione ciascuno è origine delle proprie azioni, ma non può neppure pensarsi come inizio assoluto, in quanto nessuno ha scelto i propri genitori, il luogo in cui è nato e così via. In tal senso, l’uomo non può pretendere di cambiare il mondo nella sua totalità, ma soltanto di realizzarsi in esso partendo dalla propria origine, ossia dalle possibilità che trova già date. L’uomo non può uscire da una situazione senza entrare in un’altra: la situazione è qualcosa d’invalicabile. 10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica

a Jaspers Esistenza e mondo b Jaspers Esistenza e libertà

a

b

alef

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Il fatto di essere sempre in una situazione è ciò che Jaspers chiama situazione-limite (un concetto che egli aveva già introdotto nella Psicologia delle visioni del mondo). Situazioni-limite sono anche il non poter vivere senza lotta e dolore e il dover morire. Carattere proprio di esse è la loro inevitabilità; esse sfuggono alla nostra comprensione, «sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo». Se non possono essere evitate, tali situazioni possono tuttavia essere affrontate realizzando in noi l’esistenza possibile: «Sperimentare situazioni-limite ed esistere – afferma Jaspers – è la stessa cosa». Di fronte a esse emerge l’angoscia, che è la vertigine della libertà di fronte alle scelte, il momento critico in cui si è consapevoli di poter essere annullati.

angoscia e situazioni-limite

Ogni angoscia nasce dall’angoscia della morte. L’uomo può rimanere paralizzato davanti a essa o superarla, abbandonando l’esserci tramite il suicidio, oppure può nascondersi le situazioni-limite e dimenticarle o voltare le spalle al mondo, rifugiandosi in una relazione immediata con la divinità. Ma il vero modo di sopportare l’angoscia consiste nel raggiungere la decisione che dà luogo all’azione incondizionata. Quest’ultima è espressione dell’esistenza cosciente di sé, che trova così ciò che per essa è essenziale e non si disperde nel mondo.

l’uomo di fronte alla morte

2. Heidegger: essere ed esistenza Martin Heidegger nacque il 26 settembre 1889 a Messkirch, in una zona cattolica del Baden; avviato agli studi dal padre – sacrestano nella chiesa di San Martino – ottenne nel 1909 la maturità presso il liceo di Friburgo. Dapprima egli tentò di entrare nella Compagnia di Gesù, ma per la sua debole salute dovette lasciare il noviziato e allora intraprese gli studi teologici presso l’università di Friburgo, frequentando anche la facoltà di Scienze matematiche e naturali. La lettura di scritti di Brentano e delle Ricerche logiche di Husserl lo orientò verso la filosofia: nel 1911 egli pubblicò uno dei suoi primi saggi (Nuove indagini di logica) e nel 1913 ottenne il dottorato presso la facoltà di Filosofia dell’università di Friburgo, con una dissertazione dal titolo La dottrina del giudizio nello psicologismo, pubblicata nel 1914. Grazie all’appoggio dello storico cattolico Heinrich Finke ottenne una borsa di studio da una fondazione istituita in onore di san Tommaso d’Aquino, sicché poté procedere alla composizione di uno scritto su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, con il quale ottenne – nel 1915 – la libera docenza (esso sarà pubblicato nel 1916).

la formazione e le prime opere

Nell’ottobre del 1914 Heidegger era stato richiamato alle armi, ma era stato quasi subito esonerato dal servizio per le sue condizioni di salute. Tre anni dopo, nel 1917, egli sposò Elfride Petri, di religione luterana, e cominciò ad allontanarsi dal cattolicesimo. Nel frattempo, nel 1916, sulla cattedra di Filosofia dell’università di Friburgo, come successore di Rickert, era giunto Husserl. Heidegger intrecciò rapporti sempre più stretti col nuovo maestro,

l’incontro con husserl

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che nel 1919 lo fece nominare suo assistente e successivamente avrebbe contribuito – insieme a Natorp – a farlo chiamare come professore all’università di Marburgo. In questi stessi anni Heidegger strinse amicizia con Wilhelm Szilasi, un ricco ebreo ungherese, anch’egli frequentatore di Husserl, ed entrò in rapporti con Jaspers. l’insegnamento universitario a marburgo e a friburgo

Heidegger insegnò a Marburgo dal 1923 al 1928: qui incontrò il teologo Rudolf Bultmann e prese parte al suo seminario su san Paolo; nel 1927 divenne professore ordinario di Filosofia. A Marburgo si costituì anche la prima cerchia dei suoi discepoli, tra i quali Karl Löwith, Hans Georg Gadamer e Hannah Arendt. Negli intervalli lasciati liberi dall’insegnamento, Heidegger si rifugiava in una baita a Todtnauberg, nella Foresta Nera, dove scrisse Essere e tempo, pubblicato nel 1927 nello «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», diretto da Husserl, a cui l’opera è dedicata. Poco dopo egli lasciò Marburgo per succedere a Husserl sulla cattedra di Friburgo. Nel 1929 pubblicò: Kant e il problema della metafisica, Sull’essenza del fondamento e Che cos’è la metafisica?

i rapporti col nazismo e l’esperienza del rettorato

All’avvento del nazismo fu nominato rettore dell’università di Friburgo, carica tenuta dall’aprile del 1933 all’aprile del 1934. Nel maggio del 1933 pronunciò il famoso discorso rettorale su L’autoaffermazione dell’università tedesca, nel quale rivendicò la funzione dell’università nel formare i giovani tedeschi, ai quali era affidato il destino della nazione sotto la guida del Führer. Heidegger era convinto che dal movimento nazionalsocialista potesse emergere la rigenerazione della Germania; anche se ne respingeva gli aspetti razzistici, egli approvava tuttavia di fatto le leggi che vietavano agli ebrei di ricoprire incarichi pubblici. Tra le vittime di esse ci fu il figlio di Husserl, che perse la cattedra: da allora data il definitivo allontanamento tra l’allievo e il vecchio maestro. Durante il suo rettorato, Heidegger appoggiò l’orientamento militaristico e nazionalistico del partito e provvide anche a far allestire un centro sportivo militare.

il ritorno all’insegnamento

Nel 1934, tuttavia, all’interno del partito nazionalsocialista, venne acquistando influenza un gruppo vicino al teorico della razza Alfred Rosenberg, il quale osteggiava Heidegger, che lasciò la carica di rettore per dedicarsi esclusivamente alla ricerca e all’insegnamento. Nel 1936, su invito di Giovanni Gentile e del direttore dell’Istituto italiano di Studi germanici, Giuseppe Gabetti, egli si recò a Roma dove tenne due conferenze su Hölderlin e l’essenza della poesia e su L’Europa e la filosofia tedesca. Qui – tra i suoi ascoltatori – incontrò uno dei suoi primi allievi, l’ebreo Karl Löwith, col quale si mostrò ancora convinto che il nazismo fosse la via tracciata per la Germania.

la svolta filosofica e la fine della guerra

Nei corsi universitari tenuti in questi anni, in parte pubblicati da lui stesso dopo la guerra e in parte postumi, Heidegger maturò quella che egli stesso avrebbe chiamato la svolta (in tedesco, Kehre) del suo pensiero. Uno dei primi documenti pubblici di essa è lo scritto La dottrina platonica della verità (1942). In seguito pubblicò Dell’essenza della verità (1943) e Dilucidazioni della poesia di Hölderlin (1944). Anche se tenuto in disparte dal nazismo, Hei-

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degger non lo rinnegò mai, pur ritenendo che esso – legato al massiccio impiego della tecnica e dell’organizzazione – non conducesse a un vero superamento dell’epoca moderna. Nel 1940, egli scorse nelle strepitose vittorie della Germania l’annuncio della possibilità di un nuovo inizio, ma – quando cominciarono a mutare le sorti della guerra (inverno 1942-43) – egli ritenne imminente la parabola rovinosa dell’intero Occidente, minacciato dal nichilismo estremo, che egli identificava con il comunismo. Verso la fine del 1944 egli fu arruolato nella milizia popolare; quando – nel 1945 – i francesi occuparono la zona di Friburgo, gli fu vietato l’insegnamento: anche una perizia, stesa da Jaspers, lo dichiarò inadatto a educare la gioventù. Dopo la guerra, Heidegger non ritrattò mai esplicitamente la sua adesione e le sue dichiarazioni favorevoli al nazismo.

il divieto di insegnamento

Nel 1947 Heidegger ripubblicò lo scritto su Platone insieme alla Lettera sull’«umanismo», in cui prendeva decisamente le distanze dall’esistenzialismo umanistico di Sartre e respingeva ogni tentativo di qualificare la sua filosofia come esistenzialismo. Nel 1949, ritornò sulla scena pubblica con alcune conferenze tenute a Brema. Per iniziativa del suo allievo, Gadamer, venne pubblicata nel 1950 una raccolta di scritti di vari autori per celebrare il suo sessantesimo compleanno; nello stesso anno uscirono alcuni suoi saggi sotto il titolo complessivo di Sentieri interrotti (in tedesco, Holzwege).

il ritorno sulla scena pubblica

Dal semestre invernale 1950-51 poté riprendere a tenere ufficialmente i suoi corsi presso l’università di Friburgo. Da allora iniziò la pubblicazione di molti dei suoi scritti, che riprendono i contenuti di lezioni tenute anche prima della guerra o riproducono il testo di conferenze: tra essi si può ricordare Introduzione alla metafisica (1953), Che cosa significa pensare? (1954), Saggi e discorsi (1954), Che cos’è la filosofia? (1956), Identità e differenza (1957), In cammino verso il linguaggio (1959), Nietzsche, in due volumi (1961), e la raccolta Segnavia (1967, in tedesco Wegmarken). Heidegger morì il 26 maggio 1976.

i corsi a friburgo e le ultime opere

APPROFONDIMENTO

Il primo Heidegger fra teologia e fenomenologia

Nel 1907, come racconta Heidegger stesso, Konrad Gröber – che sarebbe poi diventato arcivescovo di Friburgo – gli diede da leggere lo scritto di Franz Brentano Sul molteplice significato dell’essere secondo Aristotele (1862). Tra gli insegnanti a Friburgo c’era il teologo Carl Braig, autore di un libro Sull’essere (1896), contenente ampie citazioni da Aristotele, san Tommaso e Suárez: anch’esso fu letto da Heidegger. Questi due testi lo misero di fronte alla doman-

da che per lui rimase sempre centrale: che cos’è l’essere? In questo periodo egli studiò anche matematica, scienze naturali e logica e tra il 1909 e il 1910 lesse le Ricerche logiche di Husserl, che influenzarono i suoi primi scritti. Del maestro Heidegger condivideva in primo luogo la lotta contro lo psicologismo, ossia contro la riduzione della logica alla genesi empirica dei concetti e delle proposizioni. Egli, inoltre, considerava la fenomenologia come

il metodo essenziale per portare un chiarimento alla questione dell’essere. Ma la fenomenologia husserliana si era posta come compito quello di cogliere l’essenza delle cose grazie all’epochè, ovvero grazie alla riduzione dell’esistenza storica del soggetto. Al contrario, per Heidegger, la storicità della vita costituisce un fatto ineliminabile e irriducibile, del quale la fenomenologia non poteva non tenere conto. Il corso tenuto da Heidegger nel

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semestre invernale 1919-20 verteva sui problemi della fenomenologia pura. Al centro egli poneva la vita intesa come realtà autosufficiente, sempre collocata in situazioni storiche. La vita, secondo Heidegger, non può essere colta per mezzo di un metodo scientifico oggettivo e distaccato; occorre invece superare l’opposizione fra teoria e prassi, tra descrizione psicologica e decisione esistenziale. La fenomenologia ritiene di poter pervenire alla comprensione originaria dell’esperienza mediante un atteggiamento puramente teoretico, modellato sulle scienze. Per Heidegger, invece, l’atteggiamento scientifico – irrigidendo la vita – non può coglierne l’elemento specifico. Per questo motivo, la fenomenologia deve configurarsi piuttosto come ermeneutica della fatticità, ossia come interpretazione che la vita dà di se stessa quale di fatto è. Costitutivo della vita è, tra l’altro, il fatto di appartenere a un mondo, ma è proprio il mondo che la riduzione fenomenologica di Husserl – mirando a raggiungere l’io puro e le sue strutture – mette tra parentesi. In tal modo, secondo Heidegger, la fenomenologia pura si priva della possibilità di cogliere la vita. L’esigenza di riformare la fenomenologia husserliana si fa strada in Heidegger mentre rifletteva – oltre che sulla Scolastica – sui mistici tedeschi e sui caratteri del-

essere e tempo e il distacco da husserl

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l’esperienza religiosa. Nel 1959 egli dirà: «Senza questa origine teologica non sarei mai giunto sulla via del pensiero». La teologia protestante di quegli anni andava riscoprendo la centralità delle attese escatologiche dei primi cristiani, in opposizione alla riduzione del cristianesimo a semplice costruzione teologica. I nomi di Lutero e di Kierkegaard erano diventati emblematici di un nuovo modo di rapportarsi alla fede nel suo significato originario. Nel semestre invernale 1920-21 il corso di Heidegger ha per titolo Introduzione alla fenomenologia della religione. Il punto centrale del pensiero di san Paolo è da lui scorto nella convinzione che la fede del cristiano si fonda sulla speranza nel ritorno di Cristo. Questo è l’evento, che non può essere determinato né calcolato in anticipo, è l’evento possibile che può irrompere improvvisamente nella vita del cristiano. L’esperienza di vita del primo cristianesimo ha dunque un carattere storico, in quanto ravvisa il fine della vita nel compimento temporale di questo evento. L’attesa dell’evento diventava così, per Heidegger, il senso profondo della vita in generale. Nel corso della storia del cristianesimo, tuttavia, questo senso della vita – fondato sull’attesa del ritorno di Cristo – era stato soffocato da un apparato metafisico-teologico inadeguato a esprimerlo. Così era avvenuto, per

esempio, in Agostino con il neoplatonismo. Su questo tema Heidegger si soffermò nel corso del semestre estivo del 1921. Nel cristianesimo – dopo la contaminazione col neoplatonismo – si erano imposte la distinzione tra cose visibili e cose invisibili e la concezione di Dio come sommo bene: ciò significava che Dio può essere compreso soltanto a partire da qualcos’altro e, precisamente, a partire dalle cose create. Contro questo modo di intendere la divinità era insorto il giovane Lutero, per il quale l’essenza di Dio non può essere compresa a partire dalle sue opere, ma solo dal fatto che Dio si è fatto uomo ed è morto sulla croce, ossia a partire dall’esperienza reale della vita. Al contrario, secondo Heidegger, la metafisica neoplatonica aveva assegnato un primato al vedere: in base a esso l’essere è concepito come ciò che è davanti agli occhi nella sua costante presenza, non come un evento atteso sempre possibile. In realtà, l’identificazione dell’essere con la semplice presenza costituiva, secondo Heidegger, il presupposto non solo del neoplatonismo ma dell’intera storia del pensiero occidentale. Si tratta, dunque, di ridestare l’attenzione per il problema del senso dell’essere e di rimettere in discussione la definizione – accettata acriticamente dall’Antichità a oggi – dell’essere come essere presente.

Dalla domanda «che cos’è l’essere?» parte l’opera più celebre di Heidegger, Essere e tempo (1927), la quale – pur essendo dedicata al maestro – segna il definitivo distacco dalla fenomenologia husserliana. Il termine essere può essere usato in molti significati, nel senso di esistere oppure di essere vero o come copula che collega un soggetto e un predicato. Il problema è se esista un significato primario che consenta di pensarli tutti nella loro unità.

è impossibile definire l’essere

Solitamente si dice che essere è il concetto più generale di tutti: di qualunque cosa, infatti, si può dire che è. Ma se è il concetto più generale, esso non può essere definito. Una definizione richiede, infatti, l’esibizione del

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genere entro il quale l’oggetto da definire viene distinto mediante una differenza specifica. Ma l’essere, essendo il concetto più generale, non può essere incluso in un genere più ampio. Per giungere al concetto di essere occorre allora percorrere un’altra strada. La domanda sull’essere – come ogni domanda – comporta che ci sia qualcosa che viene cercato (in questo caso l’essere) e qualcosa che viene interrogato (ossia un ente). Ora, osserva Heidegger, ciò che è interrogato su che cos’è l’essere non può essere un ente tra gli altri. Infatti, perché un ente si interroghi sul senso dell’essere, occorre che esso comprenda la domanda che si sta ponendo. Ciò vuol dire che deve esserci un ente a cui appartenga la comprensione dell’essere.

la domanda intorno all’essere

L’ente, che può porsi il problema dell’essere, è chiamato da Heidegger esserci . Egli usa questo termine in un significato diverso da Jaspers, per il quale «esserci» indica non solo l’uomo, ma tutte le cose in quanto semplicemente presenti nel mondo [cfr. 10.1]. L’esserci ha un primato rispetto agli altri enti, in quanto – a differenza di essi – ha una comprensione dell’essere e può porsi alla ricerca del suo senso. Inoltre, l’esserci ha la peculiarità che, «nel suo essere, ne va di questo essere stesso»: in altre parole, il suo essere non è qualcosa di dato stabilmente, ma è sempre in gioco.

solo l’esserci comprende il problema dell’essere

Per Heidegger, l’esistenza è l’«essenza» dell’esserci. Egli utilizza qui il termine «essenza» in un’accezione differente da quella in cui è impiegata nella tradizione filosofica. Solitamente con «essenza» si intende l’essere proprio di un ente, ovvero la proprietà o l’insieme di proprietà permanenti che definiscono ciò che un ente è. Ora, come si è visto, l’esserci non è mai dato una volta per tutte, ma è sempre aver-da essere, ossia possibilità d’essere. Ciò significa che l’essere proprio dell’esserci (ovvero la sua «essenza» tra virgolette) non consiste in un insieme di qualità permanenti, ma appunto nell’esistenza. In altre parole, i caratteri dell’esserci non hanno nulla in comune con le proprietà assolute e stabili di un ente semplicemente presente (ad esempio, una casa deve per forza avere porte e finestre per essere tale), ma sono sempre e solo possibili maniere di essere dell’esserci (ad esempio, posso essere autenticamente me stesso o disperdermi nel mondo; posso cercare gli altri o chiudermi in me stesso, ecc.).

qual è l’«essenza» dell’esserci?

Come abbiamo visto, l’esserci è l’ente che si pone la domanda sull’essere. Ciò vuol dire che il senso dell’essere gli è già in qualche modo accessibile; se non avesse una comprensione media e vaga dell’essere, infatti, non avrebbe per lui alcun senso porsi la domanda sull’essere. In altre parole, il fatto che l’esserci si ponga il problema dell’essere rivela che esso si rapporta in qualche modo all’essere. Ora, la comprensione media dell’essere – così come i comportamenti del cercare, dell’afferrare, dell’avere accesso a – sono modi di essere dell’esserci. Dunque, fa parte della costituzione dell’esserci l’essere-in-rapporto all’essere. Per questo motivo, l’esposizione del problema dell’essere deve cominciare dall’esposizione dell’essere dell’esserci. In altre parole, prima di esporre in modo esplicito e trasparente il problema del senso dell’essere, occorre rendere trasparente l’esserci nel suo essere.

l’esserci è sempre già in rapporto all’essere

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l’analitica esistenziale dell’esserci

Ciò equivale a delucidare i modi d’essere dell’esserci (o esistenziali). La ricerca che mette in luce le strutture fondamentali dell’esistenza è chiamata da Heidegger analitica esistenziale, antecedente a ogni psicologia, antropologia o biologia. Ma qual è il metodo che consente all’esserci di mostrarsi per come esso è? Secondo Heidegger, il metodo fenomenologico consiste nel «lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé»: grazie a esso le strutture dell’esistenza si manifestano alla comprensione propria dell’esserci. Ora, «l’esserci – dice Heidegger – comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso».

l’esserci tende a fuggire a se stesso

Ciò significa che l’esserci può conquistarsi o perdersi: nel primo caso si ha l’esistenza autentica e nel secondo quella inautentica, dove «autentico» e «inautentico» significano letteralmente «appartenente o no a se stesso». L’esserci – nella sua quotidianità media – si rapporta a se stesso in modo inautentico, ossia tende a non appartenere a se stesso. Secondo Heidegger, tuttavia, anche in seno alla quotidianità media – e pertanto in maniera inautentica – si manifestano le strutture dell’esistenza. Ciò comporta che l’analitica esistenziale vada contro la tendenza dell’esserci a dimenticare o fuggire se stesso.

l’esserci come essere-nel-mondo

Nella sua quotidianità media l’esserci – anziché giungere al possesso di sé – tende per lo più a disperdersi nel mondo. Ciò significa che, nella sua quotidianità, l’esserci si rapporta a se stesso a partire dal mondo, come insieme degli enti semplicemente presenti. Detto altrimenti, l’esserci tende a comprendere il proprio essere in base agli enti con i quali si rapporta costantemente, ma in tal modo gli rimane nascosto il suo specifico modo di essere. In generale, dunque, l’esserci si costituisce essenzialmente come essere-nelmondo (in tedesco, In-der-Welt-sein). Con questa espressione Heidegger intende indicare – più che il semplice trovarsi spazialmente dentro o a contatto con qualcosa – l’essere presso (o l’essere familiare con) le cose del mondo, proprio dell’esserci. In tal senso, essere-nel-mondo equivale per l’esserci – anzitutto e per lo più – a prendersi cura (in tedesco, Sorge) di se stesso, degli altri e delle cose.

la cura delle cose utilizzabili

Il rapporto dell’esserci con il mondo non è puramente conoscitivo: su questo punto Heidegger si allontana da tutte le impostazioni filosofiche, in particolare neokantiane, che avevano assegnato una posizione privilegiata al problema della conoscenza. Il mondo, al quale l’esserci si rapporta nella sua quotidianità media, è chiamato da Heidegger mondo-ambiente: esso è costituito dalle cose intese come utilizzabili, ossia come strumenti, mezzi in vista di qualcos’altro. Ciò spiega perché nei confronti del mondo l’esserci eserciti quella che Heidegger chiama visione ambientale preveggente: essa consiste nel prendersi cura pratica delle cose, che – in quanto utilizzabili – sono vicine all’esserci non solo in senso spaziale, ma «a portata di mano» in vista di determinati fini. Quando, invece, l’esserci si limita a considerare le cose nella loro semplice presenza, si genera l’atteggiamento teoretico, che è dunque soltanto un modo derivato e particolare del prendersi cura del mondo.

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Il mondo è costituito non soltanto dalle cose utilizzabili (o semplicemente presenti), ma anche da enti che sono come l’esserci, ossia dagli altri uomini, sicché l’essere-nel-mondo è anche sempre essere-con (in tedesco mitsein) altri. L’esserci ha sempre cura degli altri, anche se di fatto per lo più non se ne cura o crede di poterne fare a meno; anzi esso per lo più si muove nella soggezione agli altri, non è autenticamente se stesso. Nella quotidianità, infatti, ciascuno è intercambiabile e domina il Si (in tedesco man) – indeterminato e anonimo – in cui tutte le possibilità si trovano livellate e ricondotte all’uniformità [t28]. Nelle pagine che Heidegger dedica a questo tema è avvertibile la critica, diffusa nella Germania del suo tempo, alla massificazione e spersonalizzazione prodotte dalla moderna civiltà tecnica.

la cura degli altri e il livellamento nel «si» impersonale

Due sono i modi di essere fondamentali dell’esserci, sia quando cerca di essere se stesso sia quando – nella quotidianità media – fugge da se stesso: il sentirsi situato (in tedesco, Befindlichkeit) e il comprendere (Verstehen). L’esserci si avverte sempre emotivamente situato nel mondo, gettato in esso, senza che ciò dipenda dalla sua iniziativa. Nel sentirsi un essere-gettato nel mondo – cosa che Heidegger chiama anche effettività o fatticità, per distinguerla dalla semplice presenza nel mondo – l’esserci incontra se stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca di se stesso. La struttura propria del sentirsi situato viene alla luce nella paura: solo l’esserci per cui ne va del suo essere, infatti, può spaventarsi e si sente aperto al rischio. D’altra parte, avvertendosi situato, l’esserci comprende se stesso in base alla sua esistenza, anche se tende a occultare questa sua comprensione. Questa struttura esistenziale della comprensione è chiamata da Heidegger progetto, nel senso letterale di «gettare avanti»: la comprensione progetta l’essere dell’esserci nel suo poter essere, che non è qualcosa di già dato. D’altra parte, progetto non equivale al semplice escogitare piani, perché l’esserci si comprende sempre a partire da possibilità date. Quando sviluppa la comprensione, l’esserci giunge all’ interpretazione , che consiste nell’appropriarsi di ciò che ha compreso e quindi nell’elaborare le possibilità progettate nella comprensione. Il discorso, a sua volta, è l’articolazione linguistica del sentirsi situato e della comprensione.

le strutture esistenziali dell’esserci

La chiacchiera è il modo di essere della comprensione o interpretazione propria dell’esserci nella sua quotidianità, il quale si regola sul Si: «Le cose stanno così perché così si dice». La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza appropriarsi preliminarmente della cosa da comprendere: essa diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto, ma in tal modo l’esserci smarrisce la sua apertura alla possibilità.

l’esserci nella sua quotidianità: la chiacchiera...

La tendenza al «vedere», caratteristica della quotidianità, è la curiosità: essa non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, ma soltanto di vedere, è incapace di soffermarsi e cerca continuamente la distrazione e il nuovo.

... la curiosità...

In questa situazione sembra che tutto sia compreso, ma non lo è: l’equivoco è la comprensione dell’esserci fondata nel «Si», la quale finisce per non sapere neppure a che cosa si riferisca il «Si».

... l’equivoco

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l’uomo si lascia vivere nell’inautenticità

Nella connessione di chiacchiera, curiosità ed equivoco si rivela il modo fondamentale dell’esserci nella quotidianità: Heidegger lo chiama la deiezione, ossia lo scadere dell’esserci al livello di un fatto, il suo disperdersi nel mondo e nella dimensione pubblica del «Si». Qui l’esserci non vive in modo autentico, ma «si» vive ed è nella tranquillizzante presunzione di possedere e raggiungere tutto. L’inautenticità, d’altra parte, non è uno stato di fatto, ma è una possibilità. Proprio perché l’inautenticità è una possibilità e non un dato di fatto necessario, l’esserci può scegliere a un certo punto di vivere in modo autentico.

l’angoscia e l’apertura dell’esserci

Immedesimandosi al «Si», l’esserci fugge dalla possibilità di essere autenticamente se stesso e si priva della sua apertura. Questa è invece propriamente caratterizzata dalla situazione emotiva dell’ angoscia : come già aveva mostrato Kierkegaard – a cui Heidegger si richiama – l’angoscia è diversa dalla paura, perché ciò che essa si trova davanti non è mai un ente definito, ma qualcosa di indeterminato. Ciò genera una sorta di spaesamento dal mondo, che appare privo di significato e tale da non poter più offrire nulla. L’angoscia è una situazione rara, ma è in essa che l’esserci si manifesta come essere possibile, sottratto a quello stato di nascondimento, in cui si trova quand’è immerso nel «Si» anonimo. Nell’angoscia l’esserci sperimenta la libertà e la possibilità di ritrovare se stesso. Nel momento in cui si apre a questa possibilità, l’esserci è già sempre proiettato avanti rispetto a sé, ossia si «progetta» (nel senso letterale del termine).

la morte come possibilità

Nell’esserci, dunque, c’è sempre qualcosa che ancora manca: l’esserci non può mai esperirsi come un ente totalmente compiuto, ma sempre soltanto come poter essere. Per essere autenticamente tale, secondo Heidegger, l’esserci deve anticipare «costantemente la possibilità estrema e insuperabile», ossia la propria morte [t29]. Per morte non si deve qui intendere la conclusione della vita. La morte come fatto non è mai la propria morte: in quanto tale, essa è l’annichilimento dell’esserci. La morte è, invece, la possibilità più propria dell’esserci. Essa è propria dell’esserci, perché nessuno può assumersi il morire di un altro: di fronte alla possibilità della morte l’esserci è insostituibile. Essa è autenticamente possibilità – o meglio, «la possibilità delle possibilità» – perché è presente in ogni momento della vita dell’esserci, che pertanto non è mai data una volta per tutte. Ammettere la possibilità della morte equivale, per l’esserci, a riconoscere di non essere altro che possibilità d’essere (o esistenza).

la decisione di essere se stesso

Nell’esistenza quotidiana e inautentica, la morte è considerata un evento noto a tutti – «si muore», appunto – e l’angoscia si banalizza assumendo la forma della paura. Essere-per-la-morte , d’altra parte, non vuol dire realizzare la morte suicidandosi, perché in tal caso l’esserci si priverebbe della sua possibilità più propria, trasformandola in un fatto. Si tratta invece di assumersi con una decisione anticipatrice la possibilità della morte, mantenendola come possibilità: in tal modo l’esserci si sottrae al «Si» e alla sua dispersione, si comprende come un essere finito e si dispone a essere autenticamente se stesso come poter-essere:

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L’essere-per-la-morte non concerne la «realizzazione» della morte; tuttavia non consiste neppure nel sostare dinanzi ad essa come semplice possibilità. Un tale atteggiamento si risolverebbe nel «pensare alla morte». Esso consisterebbe nel pensare a questa possibilità, calcolando il come e il quando della sua realizzazione. Questo scervellarsi sulla morte non la priva certamente del suo carattere di possibilità, poiché la morte è pensata come qualcosa che verrà, ma la svuota, tentando di controllarla per mezzo di calcoli. La morte, come possibile, deve allora palesarsi il meno possibile nella sua possibilità. Al contrario, nell’essere-per-la-morte – quand’esso, comprendendo, abbia posto in chiaro questa possibilità come tale – la possibilità deve esser compresa proprio come possibilità, deve esser posta in atto come possibilità e in ogni comportamento verso di essa deve esser sopportata come possibilità (Essere e tempo, parte I, sez. II, cap. 1, § 53).

Heidegger chiama la scelta di scegliere se stesso – con un termine diffuso nella cultura del tempo – decisione: ponendosi in lotta contro la non verità del «Si», la decisione svela l’esserci a se stesso nel suo poter-essere autentico.

ESSERCI esistenza inautentica dominata dal «Si» impersonale

esistenza autentica essere-nel-mondo Angoscia

Essere-per-la-morte

Come si è visto, la cura costituisce la struttura fondamentale dell’esistenza. Essere-nel-mondo significa prendersi cura di sé, degli altri e delle cose. Ciò che, secondo Heidegger, rende possibile il prendersi cura proprio dell’esserci nei tre modi fondamentali della gettatezza, della deiezione e del progetto è la temporalità nelle sue tre dimensioni di passato, presente e futuro. Nell’esistenza inautentica il tempo è concepito come un’infinita successione di «ora», di cui non si può pensare il termine. Nell’orizzonte dell’inautenticità, infatti, il futuro è pensato essenzialmente come oggetto di attesa, il passato come oggetto di ricordo e il presente come attesa di possibilità che illusoriamente si ritengono svincolate dal passato. Ciò significa che nell’esistenza inautentica il tempo si costituisce soltanto come somma di tre momenti, non come unità. 10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica

la temporalità inautentica

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la temporalità autentica

Nell’esistenza autentica, invece, secondo Heidegger, la temporalità non è trattata come un ente: propriamente essa non è, ma «si temporalizza», ossia passato, presente e futuro non sono tre fasi distinte, ma soltanto aspetti diversi di un unico processo di temporalizzazione (Heidegger chiama ciò l’ekstatikòn, che in greco significa l’«andar fuori di sé»). La temporalità autentica rende dunque possibile l’unità dell’esistenza come unità di passato, presente e futuro e non è più pensata privilegiando il presente; anzi il senso primario dell’esistenzialità è riposto nell’avvenire, in cui per l’esserci ne va del suo essere.

la storicità dell’esserci

L’esserci è dunque caratterizzato dalla mobilità, ma questa mobilità è diversa dal moto di un ente semplicemente presente all’interno del tempo: essa consiste nello storicizzarsi dell’esserci. L’esserci non è temporale perché sta nella storia, ma esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere. Nella concezione ordinaria, per storico s’intende solitamente il passato, in quanto non è più presente o in quanto è ancora presente, ma inefficace o in quanto ancora efficace nel presente: ciò che domina in questa concezione è il riferimento al presente. Storia è invece propriamente, secondo Heidegger, lo storicizzarsi nel tempo dell’esserci esistente: l’esserci non può mai essere passato, perché non può essere qualcosa di compiuto e definitivo, né una semplice presenza, dato che il suo essere è esistenza e quindi poter-essere.

la ripresa del passato nel futuro

La decisione autentica – in quanto decisione anticipatrice della possibilità della morte – sottrae l’esserci alla molteplicità caotica delle possibilità e fa dell’esistenza un destino. Nella decisione autentica, infatti, l’esserci – in quanto poter-essere – assume liberamente il suo passato come vincolante per il futuro e si mantiene fedele a esso.

3. Heidegger: verità e storia della metafisica l’incompiutezza di essere e tempo

Essere e tempo rimase un’opera incompiuta: «Il chiarimento della costituzione dell’essere dell’esserci – dice Heidegger alla fine di essa – resta soltanto una via: il fine è l’elaborazione del problema dell’essere in generale». Heidegger si rese conto di aver chiarito l’essere dell’esserci come temporalità, ma di avere ancora aperto davanti a sé il problema del rapporto fra tempo ed essere. In seguito, egli sosterrà di aver dovuto interrompere la sua opera per la mancanza di un linguaggio adatto ad affrontare la questione dell’essere al di fuori dalle categorie della metafisica tradizionale. Per Heidegger, infatti, la tradizione ha il potere di predeterminare e di condizionare la prospettiva entro la quale ci si pone la domanda sull’essere. La pretesa di Husserl di iniziare radicalmente da zero, partendo dalle cose stesse, appare a Heidegger un’illusione. Per porsi in modo adeguato il problema dell’essere, dunque, occorre procedere alla distruzione della metafisica tradizionale, ovvero portare allo scoperto i presupposti – rimasti nascosti – della sua interpretazione dell’essere. Secondo Heidegger, infatti, l’intera tradizione

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metafisica occidentale ha pensato l’essere a partire dall’ente, inteso come semplice presenza. La ricerca di Heidegger – successiva a Essere e tempo – si pone l’obiettivo di ripercorrere i momenti cruciali della storia della metafisica. L’essenza della metafisica si rende comprensibile, se si parte dal problema della verità. Secondo Heidegger, questo termine possiede un significato originario diverso da quello che poi ha assunto nella storia della metafisica. A suo avviso, infatti, «verità» non è qualcosa di già dato, ma piuttosto il processo con cui qualcosa emerge da una iniziale condizione di nascondimento, senza per questo giungere mai in piena luce. Tale significato, secondo Heidegger, sarebbe implicito nella parola greca alètheia, che indica propriamente «ciò che non è celato», «ciò che è sottratto al velamento che lo nasconde».

la storia della metafisica e il concetto di verità

In La dottrina platonica della verità (1942) Heidegger sostiene che a partire da Platone si determina un mutamento radicale dell’essenza della verità. In quel testo egli prende in considerazione il mito della caverna narrato nella Repubblica. Secondo Heidegger, prima dentro la caverna (da imprigionati e da liberi) e poi fuori di essa (alla luce del sole) le cose si mostrano agli uomini secondo gradi diversi di evidenza (ombre delle cose, cose, idee). Ogni grado, tuttavia, è caratterizzato dalla lotta tra ciò che è svelato e ciò che continua a rimanere velato. Platone – nel definire l’essenza della verità – non tiene fermo anche questo aspetto della velatezza, ma rivolge la sua attenzione solo alla svelatezza, che egli intende come idea. Ciò che è vero si esaurisce tutto in ciò che è svelato – ossia nell’idea – senza tenere conto di ciò che invece rimane velato:

platone e il fraintendimento dell’essenza della verità

La storia narrata nel mito della caverna fa vedere ciò che ancora veramente accade nel presente e nel futuro dell’umanità occidentale: l’uomo pensa nel senso dell’essenza della verità come correttezza del rappresentare tutto ciò che è secondo «idee», e valuta ogni realtà in base a «valori». La sola cosa decisiva non è quali idee e quali valori vengano posti, ma il fatto che, in generale, il reale sia interpretato in base a «idee» e il «mondo» valutato in base a «valori». S’è così richiamata alla memoria l’essenza iniziale della verità. In questo richiamo, la svelatezza si rivela come il tratto fondamentale dell’ente stesso. Il richiamo all’essenza iniziale della verità deve tuttavia pensare questa essenza in modo più iniziale. Esso perciò non può mai assumere la svelatezza solo nel senso di Platone, cioè nel soggiogamento all’idèa. Concepita in senso platonico la svelatezza resta vincolata al riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e all’asserire. Seguire questo riferimento significa abbandonare l’essenza della svelatezza (La dottrina platonica della verità, passim).

In tal modo, l’apprendimento e la conoscenza si configurano essenzialmente come un vedere, un conformarsi all’idea. Ciò significa che la verità diventa correttezza dello sguardo rivolto all’idea: tale correttezza consiste nella corrispondenza del conoscere all’oggetto nel suo essere presente . Ma in tal modo la verità viene privata del tratto fondamentale della velatezza: senza velamento, infatti, non vi potrebbe essere alcuno s-velamento (dove s-

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Heidegger La verità e l’inizio della metafisica

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verità come corrispondenza e come «non nascondimento»

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indica il processo con cui si toglie il velamento, senza poterlo mai eliminare del tutto). Secondo Heidegger, proprio della verità è il non darsi mai nella sua totalità e compiutezza. Già in Essere e tempo Heidegger aveva mostrato l’inadeguatezza della concezione tradizionale della verità come corrispondenza tra il pensiero o la proposizione e i fatti a cui essi si riferiscono: questa concezione, infatti, poggia sul presupposto che l’essere sia da intendere come qualcosa di semplicemente presente, il quale può dunque essere rispecchiato nel pensiero o nella proposizione. che cos’è la metafisica?

Nella concezione platonica, come si è visto, la velatezza cade in oblio a favore del solo svelamento. In tal modo, la filosofia diventa metafisica – nel senso etimologico del termine – ovvero sapere orientato verso «ciò che è al di là delle cose sensibili». Nel caso di Platone, la filosofia diviene un sapere orientato verso l’idea, intesa come l’essere vero e proprio dell’ente. Di qui si sviluppa la metafisica come onto-teo-logia: 1) essa è ontologia – ossia dottrina dell’essere dell’ente – in quanto assume come tratto fondamentale dell’essere la sua presenza costante; 2) essa è teologia, perché si pone alla ricerca del fondamento di ogni ente e lo trova in Dio (inteso come l’ente massimamente presente). La teologia, dunque, continua a pensare l’essere come un ente semplicemente presente, anche se superiore a tutti gli altri. La conseguenza è che essere ed ente non sono distinti in modo che l’essere possa essere problematizzato nella sua verità.

l’oblio della differenza tra essere ed ente

La metafisica, secondo Heidegger, non riesce a pensare la differenza ontologica tra essere ed ente, ma crede di poter ricondurre tutto l’essere all’ente. Dalla concezione platonica della verità come correttezza scaturisce, inoltre, la conseguenza che il luogo in cui si decide della verità è il pensiero, non l’essere. Ora, poiché l’idea è concepita da Platone come il valore, il pensiero consiste nel pensare secondo valori: in tal modo, si pongono le radici del soggettivismo e dell’umanismo, che rientrano a pieno titolo nell’alveo della metafisica. Il mutamento nell’essenza della verità segna, secondo Heidegger, tutta la metafisica occidentale. Poiché pensa l’essere come ente semplicemente presente, la metafisica è la storia dell’oblio dell’essere a favore dell’ente. La metafisica è, dunque, preda di un errore, ma non si tratta di un errore dovuto all’iniziativa umana e pertanto correggibile: esso è invece un evento – e precisamente l’evento in cui resta nascosto il fenomeno originario della verità. Come si è visto, la verità è «non-nascondimento» e ogni epoca – anche quella della metafisica – risulta caratterizzata dalla compresenza di svelamento e velamento. Il termine greco epochè – da cui deriva quello di «epoca» – viene qui assunto da Heidegger non nel senso in cui lo aveva inteso Husserl, e cioè come riduzione fenomenologica o sospensione dell’atteggiamento naturale, bensì come sospensione dell’essere stesso, che mentre si manifesta anche si sottrae.

da platone a nietzsche

Secondo Heidegger, l’epoca della metafisica cominciata con Platone giunge a compimento con la filosofia di Nietzsche. Egli torna a riflettere su Nietzsche a più riprese – in lezioni e scritti – per una decina di anni (dal 1936 al 1946): il frutto di queste riflessioni sarà raccolto in due volumi intitolati Nietzsche e pubblicati nel 1961. Con il detto di Nietzsche «Dio è morto» giun-

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ge al termine ciò che era cominciato con Platone, ossia la fondazione della verità in un ente supremo (le Idee, i Valori, Dio). Per Nietzsche, il platonismo aveva posto il vero nell’idea sovrasensibile e svalutato la vita corporea. Sulla linea del platonismo si collocano il giudaismo e il cristianesimo che mettono l’ente nelle mani di Dio e in tal modo lo sottraggono al controllo dell’uomo. In opposizione al platonismo e alle sue forme, Nietzsche pensa l’essere come volontà di potenza. Caduta la distinzione platonica tra sovrasensibile e sensibile, la volontà di potenza si scopre come sorgente di significati e di valori che trovano in essa la propria giustificazione. Secondo Heidegger, anche Nietzsche rimane entro l’ambito della metafisica. Pensando la volontà di potenza come ciò che è costante e l’essere nella figura del superuomo, Nietzsche porta il soggettivismo alle sue estreme conseguenze: la volontà di potenza, infatti, è soggettività incondizionata che istituisce ogni valore. Si è visto come per Nietzsche la volontà di potenza sia l’essere stesso. Ciò equivale a ridurre l’essere alla sfera di azione e di significazione del soggetto. In tal modo, l’essere è semplicemente ciò che è presente al soggetto e, pertanto, in sé non è niente:

nietzsche e il culmine del soggettivismo

L’essere è divenuto valore. [...] In realtà, mentre è elevato a valore, l’essere è nel contempo abbassato a condizione posta dalla volontà di potenza come tale. Questa valutazione e attribuzione di dignità all’essere poggia sulla svalutazione della dignità della sua essenza. Quando l’essere dell’ente è degradato a valore e la sua essenza è determinata su questa base, all’interno di questa metafisica, cioè all’interno della verità dell’ente come tale, è smarrita, per tutta la durata dell’epoca, ogni via di accesso all’essere come tale (Heidegger, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», passim).

D’altra parte, la stessa volontà di potenza è concepita da Nietzsche come presenza del soggetto a se stesso. Per Heidegger, dunque, la volontà di potenza rappresenta la massima affermazione della metafisica della presenza e la filosofia di Nietzsche rientra nel nichilismo , ossia nella storia in cui «dell’essere non ne è più niente» . Secondo Heidegger, con Nietzsche giunge a manifestarsi il tratto fondamentale della nostra epoca come lotta per il dominio della terra. Heidegger elabora queste riflessioni negli anni in cui avverte l’instaurarsi di una lotta planetaria, nella quale la Germania è stretta fra la morsa del comunismo, da una parte, e le democrazie occidentali, dall’altra. Nel discorso rettorale del 1933, egli aveva collegato alla rivoluzione nazionalsocialista la speranza che i tedeschi potessero ritrovare il cammino «verso la loro destinazione» attraverso una decisione comune. In seguito, egli riconobbe nel nazismo – pur mai esplicitamente rinnegato – la presenza di aspetti ambivalenti: da una parte, il senso del ritorno alla terra patria, cantato da Hölderlin; dall’altra, anche un impiego massiccio della tecnica e un’organizzazione totale della vita. Per questo aspetto il nazismo rimaneva ai suoi occhi nell’alveo della metafisica, anche se il suo trionfo avrebbe potuto preparare l’avvento di una nuova epoca.

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Heidegger Nichilismo e metafisica

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il dominio del mondo e il nazionalsocialismo

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la situazione del mondo dopo la guerra

Nell’epoca attuale il dominio del mondo si attua anzitutto come dominio della tecnica. Dopo la guerra, Heidegger affermerà che nel mondo attuale tutto ciò che è, è massificato a causa della riduzione planetaria delle distanze e della diffusione dei mezzi tecnici di comunicazione e si presenta sotto la minaccia di un annientamento totale da parte della bomba atomica.

la tecnica secondo i greci

La domanda che egli si pone riguarda l’essenza della tecnica . Solitamente la tecnica è concepita come uno strumento in vista di un fine e rientra in quel modo specifico del fare umano, che è il produrre (in greco pòiesis, in latino pro-ducere, ossia «portare qualcosa a essere presente»). Per Heidegger, il produrre fa apparire l’ente, ovvero lo conduce dalla velatezza nella svelatezza. Ora, come si è visto, la verità è svelamento (ossia velatezza e svelatezza, a un tempo), sicché anche la tecnica – in quanto produrre – appartiene all’ambito della verità . Questo era il modo in cui, secondo Heidegger, i Greci concepivano la tecnica.

l’essenza della tecnica moderna

Anche la tecnica moderna è un modo dello svelamento, con la differenza che in essa la natura appare come deposito di risorse energetiche utilizzabili. Nella tecnica moderna, l’essere dell’ente coincide con il suo essere rappresentabile e padroneggiabile: ciò significa che esso è reso presente disponibile alla conoscenza e alla prassi umana. La tecnica conferisce, dunque, all’uomo la possibilità di accrescere il proprio valore sino a configurarsi come signore della terra. Ma in tal modo, dell’essere si dimentica la sua verità di evento: infatti, l’essere – nello svelarsi – anche si nasconde e, quindi, si sottrae a una totale disponibilità. Nella tecnica moderna giunge al culmine, secondo Heidegger, la nullità dell’essere e quindi del mondo, ridotto a una somma di enti semplicemente presenti e disponibili alla manipolazione umana.

tecnica e nichilismo

In tal senso, la tecnica rappresenta il culmine del nichilismo e l’esito estremo dell’epoca della metafisica. Nel mondo della tecnica l’uomo smarrisce la sua essenza, che consiste nel salvaguardare la verità e porla al riparo nella sua inesauribilità. Lungi dal rappresentare il disincanto del mondo – come aveva voluto Max Weber [cfr. 6.8] – la tecnica odierna soggioga il mondo al suo incantamento; per questo, secondo Heidegger, essa è un pericolo per l’umanità. Ciò non significa che la salvezza consista in un ritorno nostalgico a una situazione pretecnologica. Piuttosto, la tecnica può cessare di essere praticata in vista del dominio della natura e l’uomo può giungere ad acquisire l’abbandono (in tedesco Gelassenheit) necessario per usarne gli strumenti. In tal modo, l’uomo lascia essere il mondo e non lo riduce a oggetto di manipolazione e di sfruttamento. Si possono così porre le condizioni per un possibile nuovo inizio rispetto all’epoca della metafisica, giunta ormai al suo compimento.

l’oltrepassamento della metafisica

La domanda centrale dell’ultimo Heidegger è: com’è possibile trovare un altro inizio, non più legato all’epoca della metafisica e al suo modo di pensare l’essere? Heidegger ritiene che l’esistenzialismo – nella formulazione che ne ha dato Sartre [cfr. 15.3] – appartenga integralmente all’epoca della metafisica. Nella Lettera sull’«umanismo» (1947), egli rifiuta la qualifica di

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Heidegger La tecnica e la poesia

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LA STORIA DELLA METAFISICA SECONDO HEIDEGGER Umanismo (primato del soggetto)

Epoca della metafisica

Oblio del senso dell’essere

Verità come corrispondenza

Nichilismo («dell’essere non ne è più niente») Tecnica (dominio del mondo, in quanto insieme di enti utilizzabili)

esistenzialista, poiché l’esistenzialismo – a suo avviso – è soltanto una delle forme del soggettivismo moderno. La svolta – dopo Essere e tempo – consiste invece in una ripresa del problema dell’essere, che non assuma più l’esistenza umana come il luogo privilegiato di chiarificazione del senso dell’essere. La svolta è caratterizzata dal fatto che l’uomo non dispone dell’essere, ma è pastore dell’essere: la cura dell’uomo consiste nel custodire l’essere come evento (in tedesco Ereignis). Per Heidegger, come abbiamo visto, l’essere di volta in volta avviene come insieme di velamento e di svelamento. Ora, il velamento appartiene all’essenza della verità e, quindi, l’oblio a esso connesso non è mai definitivamente eliminato. Se l’oblio della verità dell’essere appartiene all’essenza della verità, il compito consisterà piuttosto nel ripercorrere la storia della metafisica per pensare ciò che è rimasto velato (o non pensato) in essa. Questo spiega perché la produzione dell’ultimo Heidegger sia un continuo confrontarsi con i testi canonici della tradizione filosofica a partire dagli antichi greci – in particolare con i primi, che egli chiama «pensatori» per distinguerli dai filosofi dell’epoca della metafisica (che inizia con Platone). Il pensiero si fa dunque interpretazione storica, allo scopo di recuperare ciò che è rimasto dimenticato e occultato nella tradizione metafisica.

reinterpretare la storia della metafisica

Ora, l’interpretazione non consiste in una ricostruzione storiografica oggettiva con pretese di scientificità, ma è a sua volta esperita come evento. L’interpretazione non considera ciò che è già stato pensato come qualcosa di fisso e irrigidito una volta per tutte, bensì come qualcosa su cui occorre ancora riflettere, in modo che ne possa emergere l’impensato. In tal modo, s’intreccia un dialogo con la tradizione, a partire dal luogo che si occupa nella tradizione stessa. Quest’ultima determina storicamente ciò che è da interpretare e i presupposti che guidano l’interpretazione. Ciò significa che non si può mai raggiungere una visione definitiva e totale, in quanto di volta in volta si occupa sempre e soltanto un luogo limitato e circoscritto nella

pensare l’impensato è un compito infinito

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storia della verità, in cui l’essere si mostra, senza che si possa mai disporre completamente di esso. «il linguaggio è la casa dell’essere»

Per custodire la verità è essenziale il linguaggio [t30]. Tradizionalmente il linguaggio è considerato soltanto in termini di comunicazione verbale, come un ente che ha la proprietà di essere segno o uno strumento per informare sugli enti e, in tal modo, metterli a disposizione dell’uomo. Nell’orizzonte della metafisica, il dire consiste nel prendere qualcosa come costantemente presente, in modo da poter tornare costantemente su esso. Al contrario, secondo Heidegger, il linguaggio è l’evento in cui l’essere e il mondo si danno storicamente all’uomo. L’uomo, infatti, non crea il linguaggio, ma – nascendo – trova già sempre il linguaggio. Per questo motivo, esso è chiamato da Heidegger «la casa dell’essere», ossia il luogo in cui le cose si mostrano all’uomo. In quanto è predeterminato dal linguaggio in cui storicamente si trova, non è mai propriamente l’uomo che parla, ma «il linguaggio che parla l’uomo», facendolo essere ciò che è.

il linguaggio è l’accadere della verità

Nel linguaggio l’essere è custodito e protetto nel suo manifestarsi e nascondersi; in esso l’uomo può trovare il cammino verso la sua essenza che è il pensiero. Nel linguaggio, infatti, si decide sempre il destino e si prepara una nuova epoca, in quanto ogni mutamento delle parole essenziali del linguaggio determina – al tempo stesso – il mutamento del modo in cui le cose e il mondo si mostrano e sono per l’uomo. Ogni accadere della verità è essenzialmente un accadere linguistico: per questo, secondo Heidegger, occorre preservare la forza delle parole più elementari della lingua greca e tedesca (le lingue per eccellenza del pensiero, a suo avviso), le quali hanno determinato la storia del pensiero occidentale.

il «pensiero poetante»

I modi in cui il linguaggio parla sono molteplici: il pensiero è uno di questi, ma accanto a esso c’è, secondo Heidegger, la parola poetica. Abitualmente pensare e poetare sono nettamente distinti; in realtà, secondo Heidegger, essi sono strettamente imparentati, anche se rimangono diversi per la maniera di dire propria di ciascuno. Il pensatore, infatti, «dice l’essere», ossia porta a espressione il non detto attraverso ciò che è detto nel pensiero della metafisica; invece il poeta «nomina il sacro», ossia inventa un nuovo linguaggio e in tal modo inaugura una nuova apertura dell’essere. Pensare e poetare, tuttavia, sono imparentati fra loro, in quanto entrambi prendono congedo da ciò che è abituale, per volgersi a ciò che è rimasto non detto e che è meritevole di essere detto nel futuro.

in cammino verso la verità

Per questo Heidegger torna ripetutamente a esercitare il suo pensiero sui versi di Trakl, George e soprattutto di Hölderlin. Con questi poeti egli si pone in cammino, cercando di far emergere ciò che è rimasto non pensato. In tal modo, Heidegger cerca di portare alla luce anche i presupposti che hanno determinato il modo di parlare dell’epoca della metafisica. Per questa via si può fare esperienza della verità come cammino che non giunge a compimento, sicché Heidegger può presentarsi come un «viandante diretto nelle vicinanze dell’essere». Un pensatore, che è in cammino e non è giunto né può giungere alla meta, non ha, dunque, dottrine da comunicare

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e trasmettere, ma può soltanto indicare – a sua volta – itinerari possibili e così preparare l’avvento di una nuova epoca.

4. Gadamer: l’ermeneutica Nato nel 1900 a Marburgo, Hans Georg Gadamer ha studiato nell’università di questa città, dove nel 1922 ha conseguito il dottorato in Filosofia con Natorp e nel 1929 la libera docenza con Heidegger. A Marburgo egli ha studiato anche filologia classica, soprattutto con Paul Friedländer, e ha seguito lezioni di storia delle religioni e di teologia tenute rispettivamente da Walter Otto e Rudolf Bultmann. Il primo ampio scritto di Gadamer è l’Etica dialettica di Platone. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo (1931).

la formazione

Dopo un periodo di insegnamento a Marburgo, Gadamer passa all’università di Lipsia, dove con l’approvazione delle autorità sovietiche di occupazione è nominato rettore nel 1946-47. Successivamente passa a insegnare a Francoforte e poi, nel 1949, a Heidelberg, sulla cattedra già tenuta da Jaspers. Dal 1953 è direttore della «Philosophische Rundschau» e nel 1960 pubblica la sua opera più importante Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica. Altri scritti, che illustrano e approfondiscono i temi della sua opera maggiore sono: Il problema della coscienza storica (1963, in francese), La ragione nell’età della scienza (1976), L’idea del bene in Platone e Aristotele (1978). A partire dal 1985 è in corso di pubblicazione l’edizione completa delle sue opere. Gadamer muore a Heidelberg nel 2002.

la carriera accademica e le opere principali

Allievo di Heidegger a Marburgo, Gadamer ha sviluppato alcuni aspetti del suo pensiero elaborando un’ermeneutica filosofica. Tradizionalmente con ermeneutica (dal greco hermenèus, che indica colui che fa da interprete e media fra chi enuncia un messaggio e chi lo riceve) s’intende la tecnica dell’interpretazione, impiegata in discipline come la teologia, la filologia classica e la giurisprudenza, allo scopo di comprendere il significato di testi sacri o profani o delle leggi. Nell’Ottocento l’ermeneutica si era posta l’obiettivo di capire un autore meglio di quanto si fosse egli stesso compreso: per far ciò, si riteneva necessario riprodurre il passato in modo da riviverlo. La comprensione di un testo era vista come condizionata da un circolo fra la totalità del testo e le sue singole parti: il senso del tutto è ricostruibile a partire da quello delle parti, ma quest’ultimo – a sua volta – presuppone che si sia conferito un significato preliminare al tutto. In queste prospettive, il problema dell’interpretazione appariva proprio delle cosiddette scienze dello spirito – in primo luogo della storiografia.

l’ermeneutica nell’ottocento

In Essere e tempo Heidegger aveva mostrato che la comprensione è un esistenziale fondamentale dell’esserci: l’esserci ha la prerogativa di comprendere se stesso e l’interpretazione è l’articolazione di questa comprensione, consistente nell’appropriarsi di ciò che si è compreso. In tal modo, l’interpretazione cessava di essere soltanto un problema metodico e gnoseologico delle cosiddette scienze dello spirito, ma si trasformava in un più generale

a partire da heidegger: comprensione e pre-comprensione

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problema ontologico. Anche nella prospettiva di Heidegger essa appariva caratterizzata da un circolo: la comprensione, infatti, è sempre condizionata da una pre-comprensione (in tedesco, Vorverständnis) che si è venuta costruendo storicamente e nella quale l’esserci si trova situato. A sua volta, la pre-comprensione è anche sempre messa in gioco e modificata dalla comprensione. verità e interpretazione

Questo è il punto di partenza, che determina l’obiettivo dell’ermeneutica filosofica di Gadamer: mettere in chiaro le strutture della comprensione e dell’interpretazione come strutture proprie dell’esistenza storica dell’uomo. Intento di Gadamer non è di costruire un metodo – inteso come insieme di regole da applicare al dominio delle scienze dello spirito – ma di portare alla luce l’esperienza di verità, che avviene nella comprensione e nell’interpretazione. Riprendendo Heidegger, Gadamer ritiene che il comprendere non sia uno dei possibili atteggiamenti del soggetto, limitato soltanto ad ambiti particolari della sua esperienza: esso invece caratterizza «il modo di essere dell’esistente stesso come tale». L’ermeneutica, dunque, non è una semplice tecnica interpretativa, ma «il movimento fondamentale dell’esistenza», nella sua finitezza e nella sua storicità, il quale abbraccia l’intera esperienza umana del mondo.

la verità al di fuori delle scienze oggettive

Essendo costitutivo dell’esistenza stessa, il comprendere non è mai un atteggiamento puramente teoretico – come già aveva mostrato Heidegger – e dunque non si realizza sulla base di una distinzione tra un soggetto che comprende e un oggetto che viene compreso. Contro queste forme di oggettivismo – alla base dell’impostazione tipica delle scienze umane, non soltanto di quelle naturali – Gadamer intende mostrare che accadono esperienze di verità anche al di fuori dai metodi propri delle varie scienze: se ci si attiene esclusivamente a questi metodi, tali esperienze non sarebbero possibili. Per «esperienza» si deve pertanto intendere non un rispecchiamento oggettivo e distaccato dell’oggetto, ma un esserne toccati e modificati. Nella sua opera maggiore Gadamer studia tre ambiti nei quali avviene un’esperienza extra-metodica della verità: l’arte, la storia e il linguaggio.

5. Gadamer: la verità dell’arte e della storia l’arte come forma di conoscenza

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L’esperienza dell’arte è abitualmente dominata – soprattutto a partire da Kant – da quella che Gadamer chiama differenziazione estetica. Si tratta di un’operazione di astrazione, con la quale si prescinde da tutto ciò che radica un’opera d’arte nel suo contesto vitale originario e, quindi, da tutte le funzioni religiose o profane che essa vi assolveva e dalle quali traeva il suo significato. Un’espressione concreta di questa operazione è data dal museo, in cui l’opera d’arte è per definizione strappata al suo mondo originario di appartenenza, per appartenere soltanto alla coscienza estetica. In tal modo l’opera d’arte è colta come qualcosa di semplicemente presente, oggetto di un puro vedere o di un puro udire, ma ciò non costituisce per Gadamer la 10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica

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vera e propria esperienza estetica. Dall’incontro con l’opera d’arte, infatti, si impara anche a comprendere se stessi. L’esperienza estetica è, dunque, un modo dell’autocomprensione. Ciò è possibile in quanto «l’arte è conoscenza», secondo Gadamer, e l’esperienza dell’opera d’arte fa partecipi di tale conoscenza. Per cogliere questo punto, occorre dunque far riferimento a un concetto di esperienza più ampio dei concetti di conoscenza e di realtà propri delle scienze della natura. L’esperienza dell’opera d’arte instaura un rapporto con un evento che non è concluso e di cui si entra a far parte. Per chiarire che cosa sia questo evento, Gadamer parte dal concetto di gioco, ma spogliato da ogni arbitrarietà e soggettività. Il gioco ha un’essenza propria, indipendente dalla coscienza dei giocatori, che lo avvertono come una realtà che li trascende: esso si produce attraverso i giocatori, che partecipano al gioco, sicché ogni giocare è al tempo stesso un esser-giocato. Anche l’opera d’arte, secondo Gadamer, è gioco e, quindi, un evento che non è separabile dalla fruizione e comprensione degli spettatori.

l’opera d’arte come evento e come gioco

Il problema è come sia possibile l’identità dell’opera d’arte, che si presenta diversa nel mutare dei tempi a coloro che di volta in volta cercano di comprenderla. Per illustrare questo punto, Gadamer ricorre all’analogia con la festa: anche la festa è sempre identica, ma al tempo stesso esiste soltanto in quanto è celebrata ogni volta nel mutare delle circostanze storiche. In ciascuna di queste circostanze si tratta di mediare ciò che è identico con il presente, che è sempre storicamente mutevole. Alla festa si assiste in quanto si partecipa: essa ha il carattere della contemporaneità. Così è anche, secondo Gadamer, per l’esperienza dell’arte: fare in modo che l’opera d’arte non sia un fatto puramente passato, ma sia mediata con il presente.

l’opera d’arte in rapporto col presente

Queste considerazioni valgono anche per l’esperienza di verità che ha luogo nella storia: anche in questo caso compito dell’ermeneutica è la mediazione del passato con il presente. L’ermeneutica di Schleiermacher riteneva che si dovesse ricostruire la fisionomia originaria del passato, in base al presupposto che il vero significato di esso può essere capito soltanto in riferimento al suo mondo originario. A questa impostazione Gadamer muove l’obiezione – già avanzata da Hegel – che il passato restaurato non è più quello originario e occorre, invece, percorrere la via dell’integrazione del passato nella vita del presente. L’ermeneutica tradizionale era condizionata dal miraggio dell’oggettività e, quindi, non riconosceva pienamente il carattere storico del comprendere. Quest’ultimo, come aveva mostrato Heidegger, si costituisce a partire da una pre-comprensione che anticipa il senso di ciò che dev’essere interpretato.

la storicità del comprendere

L’interpretazione consiste allora nel mettere alla prova la legittimità della propria pre-comprensione (presente), mettendosi in ascolto del passato. In ciò consiste il cosiddetto circolo ermeneutico , in cui il pregiudizio gioca un ruolo importante. Era stato l’Illuminismo a svalutare i pregiudizi, considerati frutto di precipitosità o abdicazioni all’autorità. Di per sé, invece, il termine «pregiudizio» significa solo un giudizio pronunciato prima di aver

l’interpretazione e il ruolo del pregiudizio

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effettuato un esame completo e definitivo di tutti gli elementi rilevanti. Ciò non vuol dire, però, che questo giudizio sia necessariamente falso o infondato. In quanto esseri finiti, gli uomini sono sempre inseriti in un orizzonte di pregiudizi e, quindi, entro una tradizione. Ma pregiudizi e tradizione non sono entità negative, dalle quali sia possibile e necessario liberarsi totalmente: essi possono, invece, rappresentare possibilità positive. L’ideale illuministico di una ragione assoluta non rientra tra le possibilità degli uomini, i quali sono sempre legati a un momento storico, sicché la ragione non è mai totalmente padrona di sé, ma sempre subordinata a situazioni entro le quali agisce: [I pregiudizi] costituiscono un orizzonte, l’orizzonte del nostro presente, in quanto rappresentano i limiti oltre i quali noi non siamo in grado di guardare. Bisogna però badare a non ritenere che quello che definisce e delimita l’orizzonte del presente sia un insieme fisso di idee e di valutazioni, una specie di sfondo rigido sul quale si staccherebbe l’alterità del passato. In realtà, l’orizzonte del presente è sempre in atto di farsi, in quanto noi non possiamo far altro che mettere continuamente alla prova i nostri pregiudizi. Di questa continua messa alla prova fa parte anche, in prima linea, l’incontro con il passato e la comprensione della tradizione da cui veniamo. L’orizzonte del presente non si costruisce dunque in modo indipendente e separato dal passato (Verità e metodo, parte seconda, II, 1, d). il rapporto tra presente e passato

La rivalutazione del pregiudizio e della tradizione spiegano perché Gadamer non proceda a quella distruzione e superamento della metafisica, progettati da Heidegger, e ritenga invece di poter instaurare un proficuo legame di continuità con le filosofie di Platone e Aristotele, alle quali ha dedicato numerosi saggi. Per Gadamer, il passato è qualcosa di vivo, che continua ancora a parlare e interpellare, sicché comprendere il passato significa inserirsi nel vivo del processo storico, che lo trasmette sino a noi. Questa trasmissione è caratterizzata dal fatto che – in ciascun momento di essa – passato e presente continuamente si sintetizzano. L’interpretazione emerge, infatti, dall’incontro di due movimenti, quello della trasmissione storica e quello dell’interprete, anch’esso mobile nella sua storicità. La distanza temporale fra il testo del passato e l’interprete non è un ostacolo che deve essere superato; anzi essa è la condizione di possibilità dell’esperienza della verità nell’incontro col passato. Nell’incontro con l’altro, che dal passato avanza una pretesa di verità, noi, prendendo sul serio questa pretesa, poniamo in questione i nostri pregiudizi.

l’influsso della tradizione

Questo incontro non avviene fuori dal tempo, ma si colloca in quella che Gadamer chiama «storia degli effetti» (in tedesco Wirkungsgeschichte) [t31]. Essa non è solo la storia della fortuna di un testo nei secoli, ma la catena delle interpretazioni passate, le quali influiscono sulla pre-comprensione che l’interprete ha dell’oggetto da interpretare, senza che egli se ne renda sempre conto. Noi siamo già sempre sottoposti agli effetti di questa storia, che decide anticipatamente di ciò che si presenta a noi come problematico e come oggetto di ricerca.

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L’inserimento nel vivo di questa trasmissione storica è chiamato da Gadamer fusione di orizzonti . Essa emerge dall’incontro tra due orizzonti storici, quello del testo da interpretare e quello dell’interprete: quando ciò avviene, l’interpretazione si configura come un intendersi sulla verità della cosa detta nel testo e non nel solo capire le intenzioni dell’autore. A sua volta, questa nuova interpretazione viene a inserirsi come un ulteriore anello nella catena della Wirkungsgeschichte: il comprendere è, dunque, un processo mai concluso e definitivo. Nel corso storico, infatti, ogni nuovo interprete può mettere in luce sempre nuove possibilità di senso di ciò che è tramandato nei testi del passato.

la comprensione come processo interminabile

Secondo Gadamer, nella comprensione avviene anche sempre un’applicazione del testo da interpretare alla situazione particolare dell’interprete. Il modello è dato dalla struttura dialogica di domanda e risposta elaborata da Platone. Per comprendere questo punto occorre tener conto del fatto che la tradizione, per Gadamer, non è semplicemente un insieme di oggetti o fatti del passato da conoscere o padroneggiare: la tradizione è, in primo luogo, un linguaggio che si rivolge a noi come l’interlocutore in un dialogo. Solo in quanto il testo pone un problema all’interprete e deve essere trasformato da qualcosa di estraneo in qualcosa di familiare, allora può aver luogo un’esperienza ermeneutica, nella quale la fusione di orizzonti si articola come struttura dialogica .

il dialogo fra il testo e l’interprete

«Condurre un dialogo – dice Gadamer – significa mettersi sotto la guida dell’argomento che gli interlocutori hanno di mira», ma all’inizio del dialogo, c’è la domanda che il testo pone a noi, che siamo così chiamati in causa dalla parola del passato. Ciò significa che l’interpretazione non è soltanto la ricostruzione e riproduzione dell’opinione altrui, ma è integrazione rispetto a ciò che è detto nel testo. Infatti un dialogo, quando è autentico, non riesce mai come vogliono gli interlocutori, i quali – più che guidarlo (si ricordi il modello del gioco) – sono guidati da esso: il risultato di un dialogo non può mai essere conosciuto in anticipo. Nel dialogo viene, dunque, a manifestarsi qualcosa che non appartiene soltanto a uno dei due interlocutori, all’autore del testo o a chi lo interpreta: si tratta, invece, di qualcosa di comune che li unisce. In tal modo, ha luogo la fusione di orizzonti che accade nella comprensione: essa si dispiega nel linguaggio, è sempre un fatto linguistico.

l’imprevedibilità del dialogo

Per questa attenzione particolare rivolta al linguaggio Gadamer si può richiamare ancora una volta a Heidegger: il linguaggio non è uno strumento di cui si possa disporre arbitrariamente, ma è il luogo in cui l’essere e le cose si danno all’uomo. L’uomo non può fare esperienza del mondo se non attraverso il linguaggio, è attraverso il linguaggio che egli è interpellato dalla tradizione. Ma il linguaggio non è un’entità semplicemente presente e disponibile all’uomo, bensì ha il carattere dell’evento, attraverso il quale ciò che è detto nei testi della tradizione afferra e trasforma l’interprete. Questa è la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere, sicché Gadamer può concludere che «l’essere, che può venir compreso, è linguaggio».

essere e linguaggio

alef

Gadamer Comprensione e fusione di orizzonti

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in poche... parole L’esistenzialismo è un indirizzo filosofico affermatosi in Europa dopo le drammatiche esperienze della Prima guerra mondiale. Tornato d’attualità nel secondo dopoguerra, ha esercitato la sua influenza anche sulla vita artistico-letteraria e sul costume. Il tema centrale di esso è l’analisi dell’esistenza, intesa come il modo di essere specifico dell’uomo: questo modo di essere ha i caratteri della finitudine e della problematicità, in quanto è costitutivamente legato alla possibilità di realizzare se stessi o di perdersi. Una prima esposizione articolata di questa impostazione filosofica, lontana dall’ottimismo sicuro di sé di molte filosofie ottocentesche, fu data da Karl Jaspers. A lui si devono la definizione della filosofia come attività di chiarificazione dell’esistenza, l’analisi del rapporto tra l’uomo (inteso come apertura al possibile) e il mondo («ciò che tutto abbraccia e circoscrive»), la riflessione sull’importanza della decisione grazie alla quale il singolo si scopre sempre in situazione e riesce a sopportare l’angoscia di fronte alla morte. Sebbene Martin Heidegger abbia polemicamente rifiutato l’etichetta di «esistenzialista», i temi affrontati nel suo capolavoro del 1927 – Essere e tempo – hanno dato un grande impulso alle filosofie dell’esistenza, soprattutto in Francia (Jean-Paul Sartre) e in Italia (Nicola Abbagnano). In quest’opera, che segna il distacco definitivo dal suo maestro Husserl e dalla fenomenologia, Heidegger intende riproporre il problema del senso dell’essere, nella convinzione che esso non desti più il minimo interesse o la minima perplessità. L’unico ente che può rispondere alla domanda «che cos’è l’essere?» è l’esserci, perché è il solo ad avere una comprensione del senso dell’essere – anche se me310

dia e vaga – e perché è sempre in rapporto all’essere: l’essere dell’esserci, infatti, non è mai dato una volta per tutte, ma è sempre una possibilità d’essere. L’esposizione del problema dell’essere deve cominciare, per Heidegger, dall’analitica esistenziale, e cioè dall’esposizione dei modi di essere dell’esserci. La conclusione alla quale egli giunge in Essere e tempo è che la struttura fondamentale dell’esistenza umana è la cura, ovvero il prendersi cura (nel senso di «preoccuparsi») delle cose, degli altri e di se stesso; ciò che, invece, rende possibile l’esserci e la struttura stessa della cura è la temporalità. Vi sono due modi di comprendere la temporalità: quello inautentico, in cui il tempo viene vissuto come somma di passato, presente e futuro; quello autentico, in cui le dimensioni del tempo sono vissute nella loro unità e l’esserci – avendo deciso di assumere la morte come «la possibilità delle possibilità» – si proietta verso l’avvenire.

esistenza Nella filosofia contemporanea il termine possiede la comune accezione di realtà di fatto. A partire da Kierkegaard – che individua il tratto specifico dell’esistenza umana nella dimensione della possibilità – esso indica il modo di essere proprio dell’uomo. Per Jaspers l’esistenza non è un oggetto che possa essere studiato o esaminato imparzialmente, perché non può mai essere ridotta a una cosa semplicemente presente nel mondo: caratteristiche dell’esistenza sono, infatti, l’unicità e l’irripetibilità. In particolare essa è sempre esistenza possibile e ha come tratto costitutivo il rapporto possibile con la trascendenza, l’andare oltre di sé alla ricerca del proprio autentico essere. L’esistenza è sempre connessa a situazioni date e – in quanto possibilità aperta – richie-

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de la decisione e la scelta in direzione dell’essere o del nulla. All’esistenza, dunque, appartiene la libertà.

esserci (traduzione del tedesco Dasein, formato da da, «qui», e sein, «essere»). Jaspers usa que-

sto termine per indicare tutte le cose semplicemente presenti nel mondo. In tal senso, anche l’uomo è esserci: ad esso appartiene tuttavia la possibilità di esistere, e cioè di non vivere come un’entità oggettivamente definita una volta per tutte. La caratteristica fondamentale dell’esistenza umana è la libertà, ovvero la possibilità di scegliere me stesso e di vivere autenticamente. Mentre l’esserci è ciò che sussiste soltanto empiricamente, l’esistenza è per l’uomo la possibilità di mettere continuamente in gioco se stesso, cercando di andare al di là del mondo così com’esso è dato. Lo stesso termine è usato da Heidegger in modo diverso: in Essere e tempo, «esserci» non indica genericamente tutte le cose semplicemente presenti nel mondo (tra cui l’uomo), ma il modo di essere specifico dell’uomo. L’essenza dell’esserci non consiste in un insieme di qualità permanenti e stabili, come quelle di un ente semplicemente presente, ma nell’aver-da essere, e cioè nella possibilità d’essere. In altre parole, l’«essenza» dell’esserci consiste sempre e solo nelle possibili maniere di essere dell’esserci (posso scegliere di essere me stesso o preoccuparmi di ciò che pensano gli altri; posso vivere esclusivamente nel presente o proiettarmi nel futuro; posso cercare un rapporto autentico con gli altri o chiudermi in me stesso, ecc.). L’analitica esistenziale ha, secondo Heidegger, l’obiettivo di chiarire le strutture fondamentali dell’esistenza: l’esserci si scopre, pertanto, sempre situato nel mondo (essere-nel-mondo) e in rap-

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porto con gli altri esserci (con-essere). Nella sua quotidianità media l’esserci si rapporta a se stesso in modo inautentico: esso vive prendendosi cura delle cose, concepite innanzitutto e per lo più come degli utilizzabili, e subendo l’influsso del Si impersonale (man), ovvero della massa che – attraverso le forme della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco – impedisce all’esserci di essere se stesso.

interpretazione Heidegger con-

cepisce l’interpretazione come un carattere costitutivo dell’esistenza e ritiene che essa si fondi nella comprensione. Heidegger definisce la comprensione come l’originaria apertura dell’esserci nei confronti di se stesso e del mondo. L’esserci, infatti, comprende se stesso e il mondo a partire dal poter-essere (o possibilità): in tal senso, la comprensione è progetto. Detto altrimenti, dunque, la comprensione è «il modo di essere dell’esserci in cui esso è le sue possibilità in quanto possibilità». Ora, la comprensione – comprendendo – si appropria di ciò che ha compreso: in ciò consiste l’interpretazione. In altri termini, l’interpretazione è l’«articolazione della comprensione»: essa non consiste nell’assunzione del compreso (come qualcosa di dato una volta per tutte), ma nell’elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione.

angoscia Il termine assume rilevanza filosofica con Kierkegaard per indicare il sentimento che l’uomo prova di fronte all’esistenza, che è essenzialmente possibilità indeterminata. Il termine angoscia è ripreso da Heidegger per indicare la situazione affettiva di fronte al nulla, che è propria dell’esistenza in quanto essere-per-la-morte. Essa si distingue dalla semplice paura, pensiero o preoccupazione della morte, in quanto porta a comprendere l’impossibilità possibile di ogni progetto e, quindi, la

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propria radicale finitudine. L’angoscia rende l’esserci libero di scegliere le possibilità esistenziali che gli sono più proprie, senza disperdersi nell’inautenticità dell’esistenza quotidiana.

essere-per-la-morte Secondo Heidegger, l’esistenza autentica è quella che si progetta a partire dalle sue possibilità più proprie e non si disperde nella banalità dell’esistenza quotidiana. Per Heidegger la possibilità più autentica dell’esistenza è l’essere-perla-morte (in tedesco, Sein-zumTode). Decidendo di essere-per-lamorte, l’esserci diviene consapevole di non essere mai un ente totalmente compiuto, ma sempre soltanto poter-essere. Essere-perla-morte non vuol dire «suicidarsi»: in questo caso, infatti, la morte, e cioè la più propria ed estrema possibilità dell’esserci, diventerebbe un fatto irrevocabile, coincidente con l’eliminazione stessa dell’esserci (e delle sue possibilità). Al contrario, essere-per-la-morte significa riscoprire i caratteri autentici dell’esistenza: quest’ultima, come la morte, è sempre-mia (non è possibile esistere o morire al posto di un altro) e non è mai data una volta per tutte (la morte è possibile in ogni attimo della vita dell’esserci, che a sua volta è sempre poter-essere). Assumendo con una decisione anticipatrice la possibilità della morte, l’esserci la mantiene come possibilità, e così comprende autenticamente se stesso come un essere finito, che rifiuta la dispersione del Si massificante e vive proiettandosi nell’avvenire a partire dalla fedeltà verso il proprio passato. In Essere e tempo Heidegger ha chiarito i modi di essere dell’esserci ed è arrivato alla conclusione che il senso dell’esserci è la temporalità. L’obiettivo che, tuttavia, si era assegnato consisteva nell’elaborazione del problema dell’essere in generale e del suo

rapporto con il tempo. In seguito, Heidegger dichiarò di non aver potuto completare Essere e tempo (le prime due sezioni, rispettivamente dedicate all’analitica esistenziale e alla temporalità dell’esserci, dovevano preparare alla terza, «Tempo ed essere», rimasta incompiuta) perché non disponeva del linguaggio adatto ad affrontare la questione dell’essere al di fuori delle categorie della metafisica tradizionale. Il pensiero di Heidegger successivo ad Essere e tempo si sviluppa, pertanto, attorno a quattro temi principali: a) la definizione delle tappe principali della metafisica occidentale – da Platone a Nietzsche – responsabile di avere smarrito la differenza ontologica di essere ed ente e di avere pensato l’essere alla stregua di un’idea o di un valore; b) la ricerca di un nuovo senso dell’essere, da intendere non più come ente o come semplice presenza, ma come evento (in tedesco, Ereignis), che mentre si manifesta anche si sottrae (come suggerisce l’etimologia della parola greca alètheia: «non-nascondimento, s-velatezza»); c) la critica dell’umanismo, del soggettivismo e della tecnica, intese come massima espressione dell’epoca della metafisica e del nichilismo; d) la ricerca di un oltrepassamento della metafisica che, da un lato, possa farne emergere l’impensato grazie al dialogo con la tradizione, e, dall’altro, riveli l’importanza del linguaggio, inteso come il luogo in cui l’essere e il mondo si danno storicamente all’uomo. In particolare, secondo Heidegger, la parola poetica (quella di Hölderlin, di Trakl o di George) si allontana dai cammini consueti della metafisica e si sforza di dare ascolto al non detto, a ciò che resta da dire nel futuro, inaugurando così nuovi inizi per il pensiero.

metafisica (dal greco metà, «do-

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po», ta physikà, «le cose fisiche» o i libri in cui si tratta di esse). Heidegger ha attribuito al termine due accezioni diverse. 1) Dapprima egli ha inteso la metafisica come ontologia, volta a chiarire il problema del senso dell’essere a partire da quell’ente particolare, che è l’esserci. 2) In seguito ha considerato la metafisica come il contrassegno di un’epoca, che da Platone arriva sino a Nietzsche e al momento attuale, caratterizzata dall’oblio dell’essere. In questa seconda accezione, la metafisica pensa l’essere alla stregua di un ente, cioè come qualcosa di presente e, quindi, di controllabile e dominabile da parte del soggetto. In tal modo, la metafisica smarrisce la verità dell’essere, che è disvelamento – ossia manifestarsi, ma insieme anche sempre nascondersi nel corso del tempo.

nichilismo Secondo Heidegger il

nichilismo costituisce il momento culminante dell’epoca della metafisica che – obliando il senso dell’essere – ha smarrito la differenza ontologica, ossia la distinzione tra essere ed ente, e ha ridotto il primo al secondo. Questo processo storico che ha condotto sino a noi è connesso alla mutazione dell’essenza della verità, avviata da Platone. A partire dal filosofo greco, infatti, la verità non è più concepita come a-lètheia (ossia, come «nonnascondimento», «s-velamento») bensì come corrispondenza e correttezza tra pensiero o linguaggio e realtà. Il principale effetto di questo cambiamento è che il luogo in cui si decide della verità è il pensiero dell’uomo e non l’essere: qui sono le radici del soggettivismo e dell’umanismo moderno. La concezione della volontà di potenza di Nietzsche rappresenta, secondo Heidegger, il culmine del nichilismo. Affermando la coincidenza di essere e volontà di potenza, Nietzsche porta a compimento la storia della metafisica: la volontà di potenza è, infatti, libera crea-

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zione del mondo da parte di una soggettività incondizionata. Ma se il senso dell’essere è istituito dal soggetto, dell’essere – nella sua verità – non ne è più niente. A differenza dell’ente semplicemente presente – a cui lo riduce la volontà di potenza – l’essere nella sua verità è svelamento. Ciò comporta che l’essere – nello svelarsi – sempre anche si nasconde e quindi si sottrae a una totale disponibilità.

tecnica Il primato del soggetto

sancito da Nietzsche si afferma al massimo grado nella tecnica. La tecnica tratta l’essere come oggetto della conoscenza e della prassi e permette all’uomo di configurarsi come signore della terra. Ma in tal modo dell’essere non è più nulla, proprio perché ne viene dimenticato il carattere di evento. Per Heidegger, la tecnica moderna, non solo quella antica, è un modo del disvelamento e pertanto appartiene all’ambito della «verità» (in greco, alètheia): anche nella tecnica moderna, infatti, l’essere si rivela in uno dei suoi possibili significati. L’essenza della tecnica moderna non consiste, come per gli antichi, nella «produzione» (in greco, pòiesis), e cioè nel far apparire l’ente, conducendolo nella svelatezza, ma nella «provocazione», e cioè nel trarre fuori dalla natura energia e risorse da sfruttare. «Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento» (La questione della tecnica). Secondo Heidegger, la tecnica moderna rappresenta un pericolo per l’umanità che ha smarrito la propria essenza. Ciò non significa sognare di tornare a un passato pre-

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tecnologico, ma imparare a praticare la tecnica in modo diverso. A questo proposito, Heidegger elabora la nozione di «abbandono» (in tedesco, Gelassenheit) per indicare un nuovo modo di usare gli strumenti tecnici, che lasci essere la natura e non cerchi di dominarla o di manipolarla in modo indiscriminato. Allievo di Heidegger a Marburgo, Hans Georg Gadamer ha sviluppato alcuni aspetti del suo pensiero, cercando di chiarire i modi in cui si articola il fenomeno interpretativo. Tradizionalmente con il termine «ermeneutica» si intende la tecnica di interpretazione utilizzata dalla teologia, dalla filologia o dalla giurisprudenza per comprendere il significato dei testi e, più in generale, il metodo impiegato dalla ricerca storiografica per ricostruire e comprendere il passato. Sulla scia di Heidegger, Gadamer si propone di mostrare come il comprendere non sia uno dei possibili atteggiamenti dell’uomo, limitato ad ambiti specifici della sua esperienza, ma «il modo d’essere dell’esistente stesso come tale». La comprensione costituisce un esistenziale fondamentale dell’esserci, grazie al quale si rapporta a se stesso, al mondo e agli altri; l’interpretazione è l’articolazione della comprensione, con la quale il soggetto si appropria di ciò che ha compreso. Da qui trae origine l’aspirazione universalistica dell’ermeneutica a porsi non come tecnica interpretativa, ma «come movimento fondamentale dell’esistenza, che la costituisce nella sua finitezza e nella sua storicità, e che abbraccia così tutto l’insieme della sua esperienza del mondo» (Verità e metodo). Nella comprensione e nell’interpretazione – che si attuano attraverso il circolo ermeneutico e la fusione degli orizzonti – ha luogo un’esperienza

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di verità irriducibile ai metodi propri delle scienze, che ricercano un rispecchiamento oggettivo e distaccato delle cose. In questo quadro, la filosofia, l’arte, la storia, il linguaggio rappresentano tutte «forme di esperienza in cui si annuncia una verità che non può essere verificata con i mezzi metodici della scienza» (Verità e metodo).

circolo ermeneutico Per Gadamer, nell’esperienza dell’arte come in quella della storia, il compito dell’ermeneutica consiste nella mediazione del passato con il presente. Ciò è possibile grazie al carattere essenzialmente storico e circolare del comprendere: esso, infatti, appare condizionato da una pre-comprensione (in tedesco, Vorverständnis) che è stata tramandata storicamente e nella quale il soggetto si trova comunque situato; a sua volta, la precomprensione viene poi messa in discussione e modificata dalla comprensione, senza che però sia mai possibile porsi al di fuori della catena di interpretazioni. Il circolo ermeneutico teorizzato da Gadamer mette in luce, dunque, il ca-

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rattere storico-finito della razionalità umana: gli uomini sono sempre inseriti in una tradizione, e cioè in un orizzonte di pregiudizi che forma la loro comprensione del mondo. Inoltre, i «pre-giudizi» non sono necessariamente falsi o infondati, ma soltanto delle credenze irriflesse o dei giudizi pronunciati prima di avere effettuato un esame completo: «molto prima di arrivare ad una autocomprensione attraverso la riflessione esplicita noi ci comprendiamo secondo schemi irriflessi nella famiglia, nella società e nello Stato» (Verità e metodo). Per comprendere un’opera d’arte o ricostruire degli eventi passati è, dunque, necessario aprirsi all’alterità e mettere alla prova la legittimità delle proprie pre-comprensioni (o pregiudizi), inserendosi nel vivo del processo storico che li ha trasmessi sino a noi.

fusione degli orizzonti Secondo Gadamer, l’incontro tra il presente e il passato non avviene fuori dal tempo, ma sempre a partire da una «storia degli effetti» (in tedesco, Wirkungsgeschichte), e cioè dalla catena delle interpreta-

zioni che condizionano – spesso in modo inconsapevole – la nostra pre-comprensione e selezionano l’oggetto storico da studiare: la tradizione, infatti, decide anticipatamente ciò che sarà rilevante per noi nel presente. La fusione degli orizzonti (in tedesco, Horizontverschmelzung) può avvenire proprio perché il testo da interpretare è, ad un tempo, estraneo e familiare all’interprete: estraneo, per l’irriducibile distanza storica che lo separa dal presente; familiare, perché – accostandosi al testo – l’interprete si inserisce nel vivo della tradizione (storia degli effetti) che mette in rapporto passato e presente. La fusione degli orizzonti mostra come il comprendere sia un processo interminabile, in cui l’interprete – a sua volta mobile nella sua storicità – può sempre mettere in luce nuovi significati di ciò che viene tramandato nei testi del passato. L’interpretazione avviene a partire dalla sintesi di due orizzonti storici: essa porta all’eliminazione di pregiudizi rivelatisi errati o fa emergere quelli che conducono ad una più approfondita comprensione del fenomeno storico.

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i testi t28 Heidegger / L’esistenza inautentica e il mondo del «Si» Heidegger

Essere e tempo

parte I, sez. I, cap. 4, § 27

Esistenza autentica ed esistenza inautentica sono per Heidegger le possibilità fondamentali dell’esistenza. I termini «autenticità» e «inautenticità» traducono le espressioni tedesche Eigentlichkeit e Uneigentlichkeit, le quali devono essere prese nel loro significato etimologico: esse rinviano infatti alla radice eigen, indicante ciò che è proprio. In questo senso «esistenza inautentica» è l’esistenza che non è propriamente mia, che non mi appartiene, mentre nell’autenticità risiede il proprio essere se stessi: nessuno infatti può vivere la mia esistenza al posto mio. All’esistenza inautentica e autentica Heidegger dedica i capitoli centrali di Essere e tempo.

Il prenderci cura di ciò che si è raggiunto con, per o contro gli Altri, è dominato dalla preoccupazione di distinguersi dagli Altri; essa può assumere la forma della negazione di ogni differenza o quella di uno sforzo di riportare il proprio Esserci, rimasto inferiore, al livello degli Altri, o, infine, postisi al di sopra degli Altri, di mantenerli in uno stato di sottomissione. L’essere-assieme, anche se nascostamente, è sempre preoccupato di questa commisurazione agli Altri1. Esistenzialmente considerato, esso ha il carattere della contrapposizione commisurante. Quanto più questo modo di essere passa inosservato all’Esserci quotidiano stesso, tanto più tenacemente ed originariamente opera in esso. Questa contrapposizione commisurante, fondata nel con-essere, presuppone che l’Esserci, in quanto Esserci-assieme quotidiano, si muova 1. Il modo di essere dell’esserci nella sua quotidianità media è caratterizzato dall’essere-con (in tedesco mit-sein) gli altri; in questo ambito, però, l’essere-con assume la forma di quella che Heidegger chiama «contrapposizione commisurante». Ciò significa che gli altri sono presi come termine di comparazione e, quindi, visti come uguali o superiori o inferiori a noi. Fatto saliente è che nella quotidianità media in cui l’esserci per lo più vive, questa «contrapposizione commisurante» agli altri non è avvertita, sfugge all’esserci. In

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nella soggezione agli Altri. Non è se stesso, gli Altri lo hanno svuotato del suo essere. L’arbitrio degli Altri decide delle possibilità quotidiane dell’Esserci. Ma ciò non significa che gli Altri siano dei determinati Altri. Al contrario essi sono interscambiabili2. Il decisivo è solo il dominio inavvertito che l’Esserci, in quanto con-essere, subisce fin dall’inizio ad opera degli Altri. Si appartiene agli Altri e si consolida così il loro potere. Quelli che sono detti in tal modo «gli Altri», quasi per nascondere la propria essenziale appartenenza ad essi, sono coloro che, nell’essere-assieme quotidiano, «ci sono qui» innanzitutto e per lo più. Il Chi non è questo o quello, non è se stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti. Il «Chi» è il neutro di Si. Abbiamo già chiarito come nel mondo-ambiente immediato sia presente alla cura colletti-

che senso questo aspetto fa dell’esistenza un’esistenza inautentica? Nel senso che in essa l’esistenza non è qualcosa che appartiene propriamente all’esserci nella sua insostituibilità, sicché l’esserci non è se stesso e quindi non è neppure autenticamente con gli altri, ma vive in costante subordinazione agli altri, che diventano il vero metro di misura. 2. Nell’esistenza inautentica gli altri non sono entità ben definite, sono tutti e nessuno in particolare, sono tali che ciascuno è come gli altri, non si distin-

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gue dagli altri. Si tratta, dunque, di un insieme indeterminato di entità del tutto interscambiabili e anonime: per questo aspetto gli altri, così indifferenziati, costituiscono quello che Heidegger chiama il «Si» (in tedesco man), il pronome riflessivo indeterminato usato in espressioni come «si dice», «si fa». Il «Si» è ciò che domina la vita dell’esserci nella sua esistenza inautentica: in esso viene a dissolversi il singolo, che in tal modo smarrisce il suo carattere di insostituibilità e irriducibilità ad altro.

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va un «mondo ambiente» pubblico. Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’Altro. Questo essere-assieme dissolve completamente il singolo Esserci nel modo di essere «degli Altri», sicché gli Altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza. In questo Stato di irrivelanza e di indistinzione il Si esercita la sua tipica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla «gran massa» come ci si tien lontani, troviamo «scandaloso» ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Esserci determinato, ma tutti (non però come somma), decreta il modo di essere della quotidianità3. Il Si ha le sue particolari maniere di essere. Quella tendenza del con-essere a cui abbiamo dato il nome di contrapposizione commisurante, si fonda nel fatto che l’essere-assieme come tale si prende cura della medietà. La medietà è un carattere esistenziale del Si. Nel Si, ne va, quanto al suo essere, essenzialmente di essa. Esso si mantiene perciò nella medietà di ciò che si conviene, di ciò che si accoglie e di ciò che si rifiuta, di ciò che è possibile o lecito tentare, la medietà sorveglia ogni eccezione4. Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è dissolta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto perde la sua forza. La cura della medietà rivela una nuova ed essenziale tendenza dell’Esserci: il livellamento di tutte le possibilità di essere.

3. Il dominio del «Si» e delle norme

che esso impone sulla vita e sul modo di essere dell’esserci nella sua quotidianità è qualificato da Heidegger come dittatura. Egli intende riferirsi chiaramente anche alle manifestazioni di conformismo e alle mode che impongono le loro leggi. 4. La nozione di «medietà» implica il riferimento a estremi opposti rispetto a cui si occupa una posizione intermedia. Heidegger mostra che l’esistenza quotidiana media è quella in cui gli estremi rispetto a essa si configurano come eccezioni e, quindi, si può presumere che

Contrapposizione commisurante, medietà, livellamento, in quanto modi di essere del Si, costituiscono ciò che noi chiamiamo «pubblicità»5. Essa regola innanzitutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci ed ha sempre ragione. E ciò, non sul fondamento di un rapporto particolare e primario dell’essere delle «cose», non perché essa disponga di un’esplicita ed appropriata trasparenza dell’Esserci, ma per effetto del non approfondimento «delle cose» e dell’insensibilità ad ogni discriminazione di livello e di purezza. La pubblicità oscura tutto e presenta ciò che risulta così dissimulato come notorio e accessibile a tutti. Il Si c’è dappertutto, ma è tale da essersela già sempre squagliata quando per l’Esserci viene il momento della decisione. Tuttavia, poiché il Si ha già sempre anticipato ogni giudizio e ogni decisione, sottrae ai singoli Esserci ogni responsabilità concreta. Il Si non ha nulla in contrario a che «si» faccia sempre appello ad esso. Può rispondere a cuor leggero di tutto perché non è «qualcuno» che possa esser chiamato a render conto. Il Si «c’era» sempre e tuttavia si può dire di esso che non sia mai stato «nessuno». Nella quotidianità dell’Esserci la maggior parte delle cose è fatta da qualcuno di cui si è costretti a dire che non era nessuno. Il Si sgrava quindi ogni singolo Esserci nella sua quotidianità. Non solo. In questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili6. Appunto perché il Si, mediante lo sgravamento, si

siano rari. Infatti, la dittatura esercitata dal «Si» controlla e tende a evitare i comportamenti eccezionali, che contravvengono alla norma, ossia al comportamento medio diffuso. Heidegger si riallaccia con queste considerazioni alle critiche, diffuse nella Germania del tempo, contro la moderna società industriale, accusata di spersonalizzare, livellare e massificare gli individui, ma senza far riferimento esplicito a precise cause storiche e sociali che avrebbero condotto a questa situazione. 5. Il luogo in cui domina il «Si» con le sue regole è lo spazio pubblico, che

conferisce a esso una forza particolare, capace di determinare le concezioni diffuse del mondo e della vita. Pubblicità qui non significa trasparenza, nella quale le cose si mostrano per quello che realmente sono, ma al contrario occultamento e dissimulazione. Anche questo aspetto richiama le critiche all’«opinione pubblica» di livellare le credenze ed eliminare la capacità critica individuale, già avanzate nell’Ottocento da vari pensatori (ad esempio da Alexis de Tocqueville). 6. Il «Si» ha un effetto tranquillizzante, in quanto sgrava dalle responsabili-

i testi

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rende accetto a ogni singolo Esserci, può mantenere e approfondire il suo dominio ostinato. Ognuno è degli Altri, nessuno è se stesso. Il Si, come risposta al problema del Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essereassieme.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono il concetto heideggeriano di «esistenza inautentica». 2. Definisci i concetti di «cura» ed «esserci». 3. Chi sono gli «Altri»? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alla domanda. 4. In che cosa consiste la dittatura del Si? Prendi spunto dagli esempi fatti da Heidegger e proponine di tuoi. 5. Commenta il passo in cui Heidegger afferma che «il Si c’è dappertutto, ma è tale da essersela già sempre squagliata quando per l’Esserci viene il momento della decisione». 6. In che modi il Si sgrava ogni singolo esserci nella sua quotidianità?

tà proprie, consentendo di legittimare le proprie decisioni e azioni riferendole a quanto è prescritto dal «Si», a ciò che «si» dice e «si» fa abitualmente. Grazie a questo effetto tranquillizzante il «Si» accresce sempre più il suo dominio sugli individui singoli.

7. Che cosa intende Heidegger con le nozioni di autenticità e di inautenticità?

t29 Heidegger / L’esistenza autentica e la morte Heidegger

Essere e tempo

parte I, sez. II, cap. 1, § 50

L’analisi della morte e dei modi diversi nei quali ci si rapporta a essa nell’esistenza autentica e in quella inautentica è strettamente legata, in Essere e tempo, alla connessione della morte con la categoria della possibilità. Ciò significa, in primo luogo, che la morte è presa in considerazione come possibilità, non come fatto, perché come fatto essa non riguarda l’esistenza come poter essere. Come possibilità, la morte non è una possibilità come le altre e fra tante altre; essa è, secondo Heidegger, la possibilità più propria, dal momento che nessuno può morire la morte di un altro: essa manifesta nel modo più deciso il carattere di irriducibilità e insostituibilità dell’esserci. In secondo luogo, Heidegger sottolinea che la morte è la possibilità più radicale, perché è la possibilità dell’impossibilità di tutte le possibilità e, quindi, dell’esistenza stessa. È su questo sfondo concettuale che Heidegger costruisce la nozione di essere-per-la-morte come condizione di possibilità dell’esistenza autentica, che sfugge al dominio del «Si» impersonale e pubblico e diventa scelta e decisione di essere se stessi.

La morte è una possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci sovrasta a se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’Esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l’Esserci sovrasta a se 1. Ciascuno, infatti, è solo di fronte alla

possibilità della propria morte.

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stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell’Esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri Esserci1. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può superare la possibilità della morte2. La morte è la possibilità

2. Mentre altre possibilità possono es-

sere superate, realizzate o evitate, sen-

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za che per ciò venga meno l’apertura dell’esserci alla possibilità in quanto ta-

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della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza sovrastante specifica. La sua possibilità esistenziale si fonda nel fatto che l’Esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell’«avanti-a-sé». Questo momento della struttura della Cura ha la sua concrezione più originaria nell’essere-per-lamorte. L’essere-per-la-fine si rivela fenomenicamente come l’essere per la possibilità dell’Esserci più caratteristica e specifica3. Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l’Esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l’Esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. Innanzitutto e per lo più l’Esserci non ha alcuna «conoscenza», esplicita o teorica, di essere consegnato alla morte e che questa fa parte del suo essere-nel-mondo. L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. L’angoscia davanti alla morte è angoscia «davanti» al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. Il «davanti-a-che» dell’angoscia è l’essere-nel-mondo stesso4. Il «per-che» dell’angoscia è il poter-esle, la possibilità della morte è insuperabile, non è affidata all’iniziativa del singolo per disporre a suo piacimento, ma è costitutiva dell’esistenza stessa. Per questo aspetto, essa si distingue radicalmente dalle altre possibilità. 3. In quanto poter essere, l’esserci è sempre «avanti a sé», aperto alla possibilità: proprio questo aspetto manifesta il modo di essere dell’esserci come

sere puro e semplice dell’Esserci. L’angoscia non dev’essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di «depressione», contingente, causale, alla mercé dell’individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, essa costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine. Si fa così chiaro il concetto esistenziale del morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si approfondisca la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessar di vivere e all’«esperienza vissuta» del decesso.

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che senso la morte rappresenta per l’esserci «la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile»? 2. Heidegger distingue tra il «per-che» e il «davanti-a-che» dell’angoscia. In un breve testo evidenzia questa distinzione. 3. Perché l’angoscia è la situazione emotiva fondamentale dell’esserci?

cura. Ma si è visto che la morte è la possibilità estrema e più radicale per l’esserci, sicché nel suo nucleo più originario la cura si caratterizza come essere-per-la-morte. 4. Heidegger ha già esaminato in precedenza l’angoscia, mostrando che non deve essere confusa con la paura, che è sempre di fronte a un oggetto determinato. L’angoscia, invece, è avvertita nei

confronti di qualcosa d’indeterminato e, precisamente, davanti alla morte come nullità possibile di ogni possibilità. Poiché si è visto che la morte è la possibilità più propria, l’angoscia di fronte a essa non è qualcosa di accidentale, uno stato d’animo passeggero, ma è costitutiva dell’essere-nel-mondo proprio dell’esserci nella sua autenticità.

t30 Heidegger / Il pensiero e la filosofia Heidegger

Lettera sull’«umanismo»

passim

La Lettera sull’«umanismo» fu pubblicata da Heidegger nel 1947 insieme a La dottrina platonica della verità. Essa è indirizzata a Jean Beaufret, il quale, prendendo spunto dalla conferenza di Jean-Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, pubblicata nel 1946, poneva la questione: «Come ridare un senso alla parola umanismo?». Sartre interpretava il proprio esistenzialismo come engagement, impegno per l’uomo, attribuendogli quindi una valenza etica e politica. Heidegger capovolge questa posizione e interpreta il compito del pensiero come impegno per l’essere. In tal modo, egli prende le distanze dall’esistenzialismo in quanto umanismo, che assegna un primato a

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quell’ente che è l’uomo, dimenticando invece l’essere. Nella prospettiva di Heidegger, l’uomo è piuttosto il pastore dell’essere, colui al quale è affidato il compito di salvaguardare e custodire nel pensiero la verità dell’essere. In seguito, egli dirà che la Lettera parlava ancora nel linguaggio della metafisica, lasciando sullo sfondo l’altro linguaggio, quello che avrebbe caratterizzato più propriamente l’ultima fase del suo pensiero. Tuttavia molti tratti di questa fase sono già delineati nella Lettera, in particolare la differenza tra pensiero e filosofia, che appartiene integralmente all’epoca della metafisica, e soprattutto l’accentuazione della centralità del linguaggio, come il luogo in cui di volta in volta, grazie al pensiero, accade storicamente l’essere. Compito dell’uomo, come pastore dell’essere, sarà allora quello di custodire il linguaggio come la casa in cui dimora l’essere.

Il linguaggio è ad un tempo la casa dell’essere e la dimora dell’essere umano. Solo perché il linguaggio è la dimora dell’essenza dell’uomo, le umanità storiche e gli uomini possono non essere di casa nel loro linguaggio, cosicché questo diviene per loro l’abitacolo delle loro macchinazioni1. Ma che relazione c’è tra il pensiero dell’essere e il comportamento teoretico e pratico? Il pensiero dell’essere supera ogni contemplazione, perché si prende cura della luce in cui solo può dimorare e muoversi un vedere inteso come theorìa2. Il pensiero è attento alla radura dell’essere in quanto colloca il suo dire dell’essere nel linguaggio come dimora dell’e-sistenza. Così il pensare è un fare. Ma è un fare che supera ogni prassi. Il pensare, infatti, è supe1. Il linguaggio è il luogo in cui l’esse-

re di volta in volta storicamente si manifesta e, al tempo stesso, si nasconde: in tal senso, esso è la casa dell’essere. Ma il linguaggio è anche la dimora dell’uomo, il luogo in cui le cose si danno all’uomo; tuttavia esso può anche ridursi soltanto a strumento e diventare quindi un mezzo per ingannare e dominare. 2. Il termine greco theorìa è qui interpretato come «contemplare», «vedere». All’inizio della Lettera Heidegger ha precisato che per «agire» occorre intendere non il produrre effetti valutati in base alla loro utilità per l’uomo, ma il portare a compimento. Ciò, a sua volta, significa «dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere» (nel senso etimologico di questo termine latino, composto dal prefisso pro, «davanti», e ducere, «condurre,

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riore all’agire e al produrre non per la grandezza delle sue prestazioni e neppure per gli effetti che causa, ma per quel poco che è proprio del suo portare a compimento, privo di successi. Nel suo dire, infatti, il pensiero si limita a portare al linguaggio la parola inespressa dell’essere. L’espressione qui usata «portare al linguaggio» è ora da assumere nel suo senso assolutamente letterale. L’essere, diradandosi, viene al linguaggio. Esso è sempre in cammino verso il linguaggio. A sua volta, il pensiero e-sistente, nel suo dire, porta al linguaggio questo adveniente. Così il linguaggio viene elevato a sua volta nella radura dell’essere3. Solo così il linguaggio è, in quel modo misterioso che pur

portare»). Ciò che è portato a compimento è appunto l’essere; in particolare, dice Heidegger, «il pensiero porta a compimento il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo». Ciò significa che nel pensiero l’essere è portato al linguaggio e in tal modo è rapportato all’uomo. In questo senso, Heidegger può sostenere che il pensiero non è pura contemplazione disinteressata, ma un fare superiore a qualsiasi tipo di prassi: infatti «il pensiero agisce in quanto pensa», ossia in quanto dischiude, entro il linguaggio, la «radura» in cui l’essere può manifestarsi. 3. Il linguaggio è dunque il luogo nel quale avviene l’incontro tra l’essere, che si dirada appunto nel linguaggio, e il pensiero che lo porta a compimento nel linguaggio. Heidegger usa qui l’immagine della radura come luogo che si apre in mezzo al fitto di un bosco e in cui qualcosa improvvisamente si mo-

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stra: è in questa radura che l’essere si dà all’uomo, nel linguaggio. Ma questo luogo non è un ambito fisso, totalmente disponibile, in cui l’essere si trovi presente come un ente semplicemente presente: il linguaggio, secondo Heidegger, è storico nella sua essenza e, poiché il linguaggio è la casa dell’essere, all’essere potrà rapportarsi soltanto un pensiero che sia a sua volta storico. Heidegger chiama questo pensiero «rammemorante». Grazie a questo pensiero, l’esistenza abita la casa dell’essere, ossia il linguaggio, che pertanto si manifesta come la dimora propria anche dell’uomo: l’uomo abita nel linguaggio. Ma non tutti gli uomini custodiscono questa dimora che è propria dell’essere e, insieme, anche dell’uomo, ossia il linguaggio, impedendo che esso sia usato in maniera puramente strumentale. A ciò provvedono invece i pensatori e i poeti, chiamati a dire, in

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sempre ci domina. In quanto il linguaggio, così portato nella pienezza della sua essenza, è storico, l’essere è salvaguardato nel pensiero rammemorante. Pensando, l’e-sistenza abita la casa dell’essere. In tutto ciò è come se mediante il dire pensante non fosse accaduto proprio nulla. Poco fa, tuttavia, ci si è presentato un esempio di questo fare inappariscente del pensiero. Pensando infatti espressamente la locuzione destinata al linguaggio «portare al linguaggio», pensando a essa e a nient’altro, se manteniamo ciò che è così pensato nell’attenzione del dire come ciò che in futuro sarà sempre da pensare, abbiamo portato al linguaggio qualcosa di essenziale dell’essere stesso4. Ciò che è stato in questo pensiero dell’essere è la semplicità. Proprio questo ce ne tiene lontani. Infatti, noi cerchiamo il pensiero universalmente noto col nome di «filosofia» nella forma dell’insolito che è accessibile solo agli iniziati. Nello stesso tempo ci rappresentiamo il penmodo diverso, la verità dell’essere. A questo punto del discorso di Heidegger diventa allora importante stabilire se esistano rapporti fra questo pensiero e la filosofia com’è comunemente concepita e praticata. 4. Heidegger ritiene di aver dato un esempio di che cosa si debba intendere per «pensare» proprio nel modo in cui poco prima è stato portato a compimento nel linguaggio ciò che è e sarà da pensare a proposito della relazione tra essere, uomo e linguaggio. Attraverso il pensare, che ha trovato espressione nel linguaggio, è venuto in tal modo diradandosi qualcosa di essenziale riguardante l’essere. 5. Heidegger ribadisce che con la parola «pensiero» si deve intendere qualcosa di ben diverso da ciò che solitamente si è inteso con essa: pensiero infatti non è una tecnica o un «procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre». Anche la concezione del pensiero come teoria pura è per Heidegger soltanto un tentativo di salvare l’autonomia del pensiero nei confronti del fare, ma in tal modo il pensiero trova la sua legittimazione solo in riferimento alla concezione puramente tecnica e strumentale del pensiero stesso. Ciò, tra l’altro, spiegherebbe perché la

siero nel modo del conoscere scientifico e dei corrispondenti progetti di ricerca. Misuriamo il fare in base al successo e all’impressione che producono le realizzazioni della prassi. Ma il fare del pensiero non è né teorico né pratico, e non è nemmeno l’unione di questi due tipi di comportamento5. [...] È tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi a chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia e più attenzione al pensiero, come letteratura e più cura della lettera delle parole. Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa. Ma il pensiero a venire non può neppure più, come pretendeva Hegel, abbandonare il nome di «amore per la sapienza» e divenire la sapienza stessa nella forma del sapere assoluto6. Il pensiero sta nascendo nella povertà della sua essenza provvisoria. Il pensiero raccoglie il lin-

«filosofia», come ambito tradizionalmente assegnato al pensiero, si trovi costretta a giustificare la propria esistenza di fronte alle «scienze». Non è casuale allora che il modo più sicuro per raggiungere questo risultato sia ravvisato nell’elevare al rango di scienza anche la filosofia, che teme di perdere valore se non è scienza. Ma, come sappiamo, questo modo di pensare secondo valori appartiene, per Heidegger, all’epoca della metafisica e non ha nulla a che fare con il pensiero, com’egli lo intende. Il pensiero, infatti, non è, per Heidegger, una pura rappresentazione teoretica di ciò che è, né un semplice strumento di azione: esso si colloca a monte della distinzione fra teoretico e pratico, costruita dalla metafisica. Il pensiero invece «rammemora l’essere e nient’altro», ossia è gettato dall’essere a custodire la verità dell’essere stesso, che ha la sua casa nel linguaggio. Ma tale casa non deve essere intesa come un luogo in cui l’essere sia racchiuso una volta per tutte nella sua totalità e compiutezza: non si deve, infatti, dimenticare che per Heidegger l’essere non è una cosa o un ente semplicemente presente. In questo senso, il pensiero ha il compito storico di lavorare a costruire la casa dell’essere: il lin-

guaggio, come luogo in cui l’essere di volta in volta storicamente accade, è pertanto la forma più alta del «fare». 6. Heidegger ha escluso che il pensiero possa essere identificato con la filosofia, qual è stata praticata nell’epoca della metafisica, ma ciò non significa che esso venga in tal modo a trasformarsi in sapienza, ossia in possesso compiuto e totale del sapere. Era stato Hegel a pretendere di attribuire al pensiero, come dispiegamento totale della ragione e della realtà, il carattere di sapere assoluto. A ciò Heidegger contrappone invece la povertà e provvisorietà del pensiero, che non giunge mai al possesso definitivo dell’essere. Nel linguaggio il pensiero traccia soltanto solchi, vie (in tedesco Wege). È significativo questo parallelo tra l’operare del pensiero e quello del contadino; a esso fa da contraltare la connessione fra la tecnica moderna meccanizzata e la filosofia e la scienza proprie dell’epoca della metafisica. In questo parallelo si è potuto vedere un indulgere, da parte di Heidegger, al vagheggiamento di situazioni pre-tecnologiche, contrassegnate invece dalla dedizione alla terra e alla vita semplice: un tema ampiamente diffuso nella cultura tedesca del primo Novecento.

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guaggio nel dire semplice. Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Il brano proposto si incentra su tre parole fondamentali: «linguaggio», «pensiero» e «filosofia». Evidenzia sul testo il senso che Heidegger attribuisce ai tre termini e riformula con parole tue le definizioni. 2. In che senso, secondo Heidegger, il pensare è superiore all’agire e al produrre? 3. Per chiarire il rapporto fra linguaggio-essereente Heidegger utilizza l’immagine della «radura». Qual è il senso di questa metafora? 4. Se, come dice Heidegger, «il fare del pensiero non è né teorico né pratico», qual è il suo compito più proprio? 5. Che differenza c’è tra il sapere assoluto, ricercato da Hegel, e il pensiero a venire, verso il quale Heidegger si è messo in cammino?

t31 Gadamer / Comprensione e storia degli effetti Gadamer

Verità e metodo

parte seconda, II, 1, c-d

Sono qui riportate le pagine dell’opera principale di Gadamer, Verità e metodo, nelle quali egli analizza il rapporto che, nella comprensione e nell’interpretazione storica, s’instaura tra l’interprete e il testo del passato che egli mira a comprendere. Aspetto saliente di questa analisi è la sottolineatura del carattere storico non solo del testo da comprendere, ma anche dell’interprete stesso. Ciò colloca il discorso di Gadamer agli antipodi di quello che egli chiama «obiettivismo storicistico», che pretende e si illude di porsi in un rapporto immediato, sgombro da presupposti e pregiudizi, con i testi del passato.

Mettere in evidenza un pregiudizio in quanto tale vuol dire, ovviamente, sospenderne la validità. Fino a che un certo pregiudizio ci domina, infatti, noi non lo riconosciamo come un giudizio1. Come viene, dunque, messo in evidenza in quanto tale? Porre di fronte a sé un proprio pregiudizio è cosa che non può riuscire finché questo pregiudizio funziona in maniera surrettizia e inosservata, ma solo quando, 1. Un giudizio è tale quando è esplici-

tamente formulato e articolato e, quindi, richiede consapevolezza da parte di chi lo formula. Nel momento in cui un pregiudizio si traduce in un giudizio, esso non domina più in maniera così incontrastata come quando non si è an-

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per così dire, viene stuzzicato. Ora, questo accade proprio in virtù dell’incontro con ciò ch’è oggetto di trasmissione storica. Giacché ciò che stimola la comprensione deve essersi già prima fatto valere nella sua alterità. Ciò da cui il comprendere muove, è che qualcosa ci parla, ci interpella2. Questa è la prima e suprema fra tutte le condizioni ermeneutiche. Sappiamo già che cosa, con essa, è richiesto: una

cora consapevoli di esso. Secondo Gadamer, proprio l’incontro con i grandi testi filosofici del passato consente questo risveglio dai pregiudizi che inconsapevolmente ci dominano. 2. Non è cosa di per sé ovvia e automatica che un testo del passato stimoli e

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smuova dai pregiudizi. Affinché ciò avvenga, occorre che tale testo ci dica qualcosa e ci chiami in causa; ma, a sua volta, ciò dipende dal fatto che chi lo vuole comprendere sia disponibile a porsi in ascolto di esso e delle pretese di verità che esso avanza in ciò che dice.

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fondamentale sospensione di tutti i propri pregiudizi. Ma ogni sospensione di giudizi, e quindi anche, e anzitutto, di pregiudizi, ha, vista logicamente, la struttura della domanda3. L’essenza della domanda è il porre e mantenere aperte delle possibilità. Se un pregiudizio è posto in questione – in base a ciò che un altro o un testo ci dice – ciò non significa che esso è semplicemente messo da parte e che un altro o qualcosa d’altro ne prende il posto e la funzione. Questa è proprio l’ingenuità dell’obiettivismo storicistico, il quale ritiene possibile che si giunga a prescindere in tal modo da se stessi. In realtà, il proprio pregiudizio gioca autenticamente proprio in quanto è esso stesso messo in gioco, in questione4. Solo in quanto si mette in gioco, esso può capire la pretesa di verità dell’altro e gli rende possibile di mettersi a sua volta in gioco. L’ingenuità di quello che chiamiamo storicismo consiste nel fatto che esso si rifiuta a una tale riflessione e che, con la sua fiducia assoluta nel proprio metodo, dimentica la propria stessa storicità. Qui dobbiamo fare appello, contro un pensiero storico malamente inteso, a un tipo di pensiero storico da intendere in modo più adeguato. Un pensiero autenticamente storico deve essere consapevole anche della propria storicità. Solo così esso non si ridurrà a inseguire il fantasma di un oggetto storico – quello che sarebbe oggetto di una ricerca che si sviluppa progressivamente come quella della scienza naturale – ma sarà un mo3. Pregiudizio è proprio ciò che non è

avvertito come tale e pertanto non è fatto oggetto di domanda, problematizzato. Da questo punto di vista il pregiudizio è chiuso a qualsiasi alternativa nei propri confronti. 4. L’idea che sia possibile liberarsi da ogni pregiudizio è, secondo Gadamer, puramente illusoria: non c’è alcun metodo, per perfezionato che sia, in grado di assicurare e garantire tale liberazione, sicché qualsiasi interprete non è mai del tutto esente da pregiudizi. Più che perseguire questa liberazione illusoria, si tratta invece di mantenersi aperti di fronte a testi che possono mettere in gioco i nostri pregiudizi. 5. Il termine tedesco Wirkungsge-

do di riconoscere ciò che è altro da sé, riconoscendo così, con l’altro, se stesso. Il vero oggetto della storia non è affatto un oggetto, ma l’unità di questi due termini, un rapporto in cui consiste sia la realtà della storia, sia, insieme, la realtà della comprensione storica. Un’ermeneutica adeguata dovrebbe mettere in luce la realtà della storia anche nello stesso comprendere. Chiamo ciò che forma l’oggetto di questa esigenza Wirkungsgeschichte, storia degli effetti o delle determinazioni. Il comprendere è, nella sua essenza, un processo che è inserito entro questa storia e ne deve tener conto5. [...] La coscienza storica deve prender consapevolezza del fatto che nella pretesa immediatezza con la quale essa si mette davanti all’opera o al dato storico, agisce anche sempre, sebbene inconsapevole e quindi non controllata, questa struttura della storia degli effetti. Quando noi, dalla distanza storica che caratterizza e determina nel suo insieme la nostra situazione ermeneutica, ci sforziamo di capire una determinata manifestazione storica, siamo già sempre sottoposti agli effetti della Wirkungsgeschichte. Questa decide anticipatamente di ciò che si presenta a noi come problematico e come oggetto di ricerca, e noi dimentichiamo la metà di ciò che è, anzi dimentichiamo l’intera verità del fenomeno storico se assumiamo tale fenomeno, nella sua immediatezza, come l’intera verità. Nella presunta ingenuità della nostra com-

schichte (composto da Wirkung, l’«agire», il «produrre effetti», e Geschichte, «storia») ha molteplici significati. In primo luogo, esso si riferisce alla fortuna che un testo incontra nel corso dei secoli e agli effetti prodotti da esso nel corso di una tradizione che arriva sino a colui che intende comprenderlo e interpretarlo. Nel suo senso più proprio esso richiama il fatto che il testo da interpretare ha già prodotto effetti, i quali condizionano, per lo più inconsapevolmente, il mondo stesso dell’interprete che si pone di fronte a esso e le domande che questi rivolge al testo. Ciò equivale a dire che l’interprete è già inserito in una precomprensione del testo, connessa agli effetti prodotti

dal testo stesso nel corso della storia che giunge sino all’interprete e alla quale l’interprete stesso appartiene. Di fatto la Wirkungsgeschichte è sempre operante, lo si riconosca o no. Questa catena di interpretazioni passate, operando sull’interprete, svolge una funzione di mediazione con il testo del passato, al di là della consapevolezza che l’interprete può averne. Ciò significa che un interprete non è mai in rapporto immediato e totalmente vergine di fronte al testo da interpretare. Come si vede, questo discorso è strettamente collegato all’analisi della funzione dei pregiudizi nell’interpretazione.

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prensione, nella quale noi seguiamo il criterio della comprensibilità, l’altro si mostra a tal punto solo in base a ciò ch’è nostro, che l’uno e l’altro elemento non sono più nettamente distinguibili. L’obiettivismo storicistico, tenendosi alla sua metodologia critica, chiude gli occhi davanti all’intreccio della storia degli effetti in cui la coscienza storica stessa si trova avviluppata. Esso elimina bensì, attraverso il suo metodo critico, ogni occasione di arbitrario, casuale o troppo disinvolto accostamento al passato in base all’attualità; ma foggiandosi nello stesso tempo una buona coscienza col negare tutti i presupposti, anche quelli niente affatto arbitrari e casuali, che in realtà guidano la sua comprensione, si lascia sfuggire la verità che, pur nel carattere finito della nostra comprensione, sarebbe possibile raggiungere. L’obiettivismo storicistico si può paragonare in ciò alla

statistica, che è un così potente mezzo di propaganda proprio perché lascia parlare i fatti e in tal modo dà l’illusione di un’obiettività che in realtà dipende dalla legittimità delle sue impostazioni iniziali.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Cosa dobbiamo fare per trasformare il pregiudizio in giudizio? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alla domanda. 2. Qual è l’essenza della domanda? 3. In un breve testo definisci la nozione gadameriana di «storia degli effetti» (Wirkungsgeschichte). 4. Gadamer paragona lo storicismo ingenuo alla statistica. Spiega perché.

esercizi/10 CHE COSA SO?

7. Evidenzia gli aspetti che collegano l’ermeneutica filosofica di Gadamer con la filosofia di Heidegger.

Guida allo studio del manuale

8. Evidenzia il ruolo della nozione di «festa» nell’esperienza dell’opera d’arte, secondo Gadamer.

1. Evidenzia le espressioni che illustrano la concezione di «esistenza» propria di Jaspers. 2. Evidenzia le espressioni che indicano la critica che Heidegger rivolge alla fenomenologia di Husserl. 3. Evidenzia gli elementi costitutivi dell’analitica esistenziale. 4. Evidenzia le espressioni che illustrano come l’«angoscia» sia la «situazione emotiva» fondamentale dell’esistenza autentica. 5. Evidenzia i passaggi fondamentali della storia della metafisica, o dell’oblio dell’essere, secondo Heidegger. 6. Evidenzia le espressioni che chiariscono la nozione di «abbandono» in relazione all’uso della tecnica. 322

Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti: libertà (Jaspers) • situazioni-limite (Jaspers) • analitica esistenziale (Heidegger) • mondo (Heidegger) • cura (Heidegger) • utilizzabilità (Heidegger) • progetto (Heidegger) • chiacchiera (Heidegger) • equivoco (Heidegger) • temporalità autentica (Heidegger) • differenza ontologica (Heidegger) • metafisica (Heidegger) • circolo ermeneutico (Gadamer) • fusione di orizzonti (Gadamer)

esercizi/10

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esercizi/10 CHE COSA HO CAPITO?

del senso dell’essere. Che rapporto c’è, a suo avviso, tra il linguaggio e l’uomo?

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)

26. Qual è il senso che Gadamer attribuisce all’ermeneutica filosofica?

10. Qual è il compito della filosofia secondo Jaspers? 11. Che cosa intende Jaspers con la parola «mondo»? E che rapporto c’è tra la nozione di «mondo» e quella di «scacco»? 12. Che cosa differenzia, secondo Jaspers, l’esistenza dal mero esserci? 13. Come si manifesta la trascendenza secondo Jaspers? 14. Perché Heidegger sostiene – in Essere e tempo – che per rispondere alla domanda «che cos’è l’essere» si deve passare attraverso l’analisi dell’esistenza? 15. Perché Heidegger in Essere e tempo sostiene che il metodo con cui affrontare la questione dell’essere deve essere quello fenomenologico? 16. Qual è la struttura fondamentale dell’esserci nella sua quotidianità media? 17. L’esserci, nella sua quotidianità media, si rapporta anzitutto al «mondo-ambiente». Che cosa vuol dire? 18. Quali sono, secondo Heidegger, i due modi d’essere (esistenziali) dell’esserci? 19. Definisci la relazione che Heidegger stabilisce fra quotidianità, esistenza inautentica e critica alla società di massa. 20. Perché l’angoscia caratterizza l’esistenza autentica? 21. Che rapporto c’è tra comprensione e interpretazione? 22. In che cosa consiste la deiezione? 23. Platone ha determinato un mutamento dell’essenza della verità nella storia della metafisica. Quale?

27. Cosa intende Gadamer con la nozione di differenziazione estetica? Trattazione sintetica di argomenti (max 15-20 righe) 28. Illustra le modalità in cui Jaspers vede realizzarsi la tensione fra esistenza e trascendenza. 29. Confronta il concetto di «esserci» di Jaspers e di Heidegger. 30. Riassumi gli elementi che rappresentano la struttura ontologica dell’«essere-nel-mondo». 31. Perché l’esistenza autentica è quella che assume con una «decisione anticipatrice» la possibilità della morte? 32. Perché, secondo Heidegger, il problema del tempo è la chiave di volta di una filosofia capace di rispondere alla domanda «che cos’è l’essere»? 33. Metti a confronto le caratteristiche della «temporalità» propria dell’esistenza autentica e di quella inautentica. 34. Qual è lo scopo che Heidegger persegue attraverso la distruzione della metafisica? 35. Illustra la tesi heideggeriana dell’uomo «pastore dell’essere». 36. Perché Heidegger interpreta l’opera di Nietzsche come il massimo compimento dell’epoca della metafisica anziché come il suo superamento? 37. Esponi la critica di Heidegger all’uso della tecnica che la società occidentale ha fatto. 38. In che senso, secondo Gadamer, l’esperienza dell’opera d’arte avviene come un evento?

24. In che cosa consiste l’oblio dell’essere secondo Heidegger?

39. Il rapporto dell’interprete con i testi della tradizione, secondo Gadamer, avviene come dialogo. In che modo?

25. Nella seconda fase del suo pensiero, Heidegger trova nel linguaggio e nella poesia le vie della ricerca

40. Metti a confronto la posizione di Heidegger e di Gadamer sul ruolo del linguaggio.

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la dinamica delle pulsioni

Alla base della sessualità c’è la libido, ossia un’energia che cerca soddisfacimento. Essa è suscettibile di crescere o diminuire ed è alla base delle trasformazioni delle pulsioni, che hanno la loro fonte in eccitazioni prodottesi in qualche organo corporeo. Nata come terapia delle malattie nervose, la psicoanalisi tende progressivamente a diventare lo studio del funzionamento della psiche in generale. Alla base dei fenomeni psichici Freud ravvisa un principio del piacere, che mira a scaricare tensioni appagando i desideri, ma in modo allucinatorio, non reale; di qui emerge un principio di realtà, che cerca il piacere in relazione a condizioni imposte dalla realtà (per esempio, differendolo).

11. freud e la psicoanalisi i contenuti freud e la scoperta dell’inconscio

Freud afferma che – al di sotto della sfera della ragione e della coscienza – esiste una vasta regione ancora inesplorata, l’inconscio, che condiziona lo stesso agire consapevole degli uomini. La rimozione respinge i ricordi e le immagini legate a pulsioni di per sé piacevoli, ma per altri aspetti spiacevoli e le mantiene a livello inconscio; talvolta però esse riemergono, manifestandosi sotto forma di nevrosi, che hanno origine sessuale in traumi avvenuti o anche solo immaginati nella prima infanzia.

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la teoria del sogno e della sessualità

L’analisi dei derivati dell’inconscio (sogni, lapsus, amnesie temporanee, motti di spirito) consente di accedere all’inconscio, forzando la barriera della rimozione mediante la ricostruzione del passato. In particolare l’interpretazione dei sogni consente di risalire dal contenuto manifesto dei sogni al loro contenuto latente, i cui elementi sono stati trasformati dal lavoro del sogno secondo determinate regole e meccanismi. Un risultato di queste indagini è la scoperta dell’esistenza di una sessualità infantile e del complesso di Edipo, fondato sull’amore per il genitore di sesso opposto e sull’odio per quello dello stesso sesso.

11. freud e la psicoanalisi

la civiltà e la repressione della libido

I conflitti psichici – che hanno la loro origine nella sessualità e nella famiglia – sono alla base della formazione dell’Io, ma anche della civiltà. Una civiltà non può sussistere se le energie sessuali non sono sottratte e canalizzate verso mete non sessuali attraverso il meccanismo della sublimazione, da cui dipendono le creazioni artistiche e intellettuali. Ciò comporta sacrifici, che possono dar luogo a situazioni di frustrazione, in cui si avverte che il soddisfacimento di proprie pulsioni è precluso. Ma se alla libido individuale non si sottraggono energie per metterle a servizio della società, essa avrebbe effetti distruttivi. Occorre pertanto una repressione delle pulsioni – anche se produce senso di colpa – per portare a un rafforzamento dei legami sociali. gli sviluppi della psicoanalisi

La psicoanalisi di Freud, intesa sia come teoria della psiche che come metodo terapeutico dei disturbi nevrotici, ha conosciuto una formidabile diffusione non solo in Austria, Germania e Ungheria, ma anche negli Stati Uniti. Attorno al

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maestro si formò dapprima un ristretto circolo di allievi, che discutevano a praticavano il trattamento psicoanalitico; nel 1910, a Norimberga, nacque l’Associazione psicoanalitica internazionale, con lo scopo di promuovere e di difendere l’ortodossia psicoanalitica. All’interno di essa non mancarono, tuttavia, i dissidenti, che dopo avere inizialmente aderito al

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freudismo, respinsero le teorie del maestro, soprattutto quelle relative alla libido e al carattere prevalentemente sessuale delle pulsioni. All’inconscio individuale teorizzato da Freud, Jung contrappone l’inconscio collettivo e i suoi archetipi, attribuendo alla terapia analitica il compito di ottenere l’armoniosa realizzazione del sé del paziente. Nell’ambito dello strutturalismo francese,

invece, Lacan sostiene che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, per cui chi parla nell’individuo non è propriamente l’io, ma l’inconscio stesso. A suo avviso, l’accesso al reale risulta sempre mediato dall’ordine simbolico, e cioè dai simboli linguistici e sociali, e dal desiderio di ciò che manca.

gli strumenti in poche… parole pulsione / inconscio / libido / complesso / topica della psiche / archetipo

esercizi

i testi a. nel manuale t32 Freud/Il sogno e l’inconscio t33 Freud/Aggressività umana e civiltà

b. on-line Freud/L’egemonia del principio di piacere Freud/L’Io, il Super-io e il senso di colpa Jung/L’inconscio collettivo

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. La nascita della psicoanalisi la formazione medica

Sigmund Freud (1856-1939) nacque a Freiberg, in Moravia – allora sotto l’impero asburgico – da una famiglia di ebrei commercianti, che poco dopo si trasferì a Vienna, la città in cui Freud sarebbe risieduto sino al 1939. Iscritto alla facoltà di Medicina, egli seguì anche le lezioni di Franz Brentano [cfr. 10.1], ma s’impegnò soprattutto in ricerche di fisiologia, in particolare sull’istologia delle cellule nervose, laureandosi nel 1881. Lavorò quindi nella clinica psichiatrica e nel 1885 ottenne una borsa di studio a Parigi, dove frequentò la scuola neuropatologica della Salpêtrière, diretta da JeanMartin Charcot (1825-1893).

l’incontro con breuer

Nel 1886 sposò Martha Bernays, dalla quale avrebbe avuto sei figli, abbandonò l’ospedale e rinunciò alla carriera universitaria per curare privatamente pazienti affetti da malattie nervose, provenienti dai ceti elevati della società austriaca. Nel frattempo strinse amicizia con Josef Breuer, anch’egli ebreo e medico, con il quale pubblicò gli Studi sull’isteria (1895), ma poco dopo la loro amicizia s’interruppe, anche per dissensi sull’individuazione delle cause di questa forma di nevrosi.

il caso di anna o.

Utilizzando la tecnica dell’ipnosi, impiegata da Charcot e dallo stesso Freud, Breuer era riuscito a far ricordare a una paziente (Anna O.) eventi traumatici connessi all’insorgere di sintomi di isteria. Avvertendo che nella paziente si stava sviluppando una forma di dipendenza e di amore nei suoi confronti (ossia il cosiddetto transfert), Breuer aveva interrotto la terapia. Freud si venne convincendo che l’origine dei sintomi isterici fosse di natura sessuale e, precisamente, che risiedesse in traumi sessuali subiti nella prima infanzia. In seguito egli abbandonerà questa concezione, riconoscendo che non è necessario che eventi traumatici siano realmente avvenuti, ma è sufficiente che essi siano pensati e immaginati per produrre i loro effetti negativi. Freud avverte che al centro di questi disturbi vi sono conflitti tra forze psichiche opposte: da una parte, pulsioni che premono per affiorare alla coscienza sotto forma di rappresentazioni e di emozioni; dall’altra, resistenze che sbarrano loro il cammino verso la coscienza.

l’origine della nevrosi

Per spiegare l’origine della nevrosi, Freud ritiene necessario introdurre la nozione di inconscio . Di solito, la sfera della psiche era identificata con quella della coscienza, capace di esercitare un dominio sugli istinti e di fungere da motore delle azioni. Secondo Freud, invece, per spiegare i fenomeni psichici occorre distinguere tra un livello conscio e uno inconscio e attribuire a quest’ultimo un’azione causale sul primo. Da ciò deriva che i moventi del comportamento umano – sia normale che patologico – hanno la loro collocazione nel profondo dell’inconscio.

la rimozione e l’inconscio

Per Freud la spiegazione scientifica coincide con la spiegazione causale propria della tradizione positivistica. Egli ritiene, tuttavia, che non si disponga ancora di conoscenze biologiche e neurologiche adeguate per spiegare in base a esse i fenomeni psichici, anche se tale speranza non l’abbandonerà mai del tutto. Egli ricorre alla nozione di inconscio – concepito

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come una forza attiva, dotata di una logica propria, diversa da quella della coscienza – per spiegare il meccanismo della rimozione: si tratta di un’operazione con la quale il soggetto cerca di respingere nell’inconscio le rappresentazioni (i ricordi, i pensieri, le immagini) che gli risultano spiacevoli. Tali rappresentazioni, infatti, sono legate a pulsioni, per soddisfare le quali bisogna contravvenire alle norme morali e sociali interiorizzate dal soggetto. Ora, queste pulsioni – pur essendo apparentemente dimenticate – cercano soddisfazioni sostitutive, continuando così a far sentire i loro effetti sulla vita cosciente. Secondo Freud, per trattare le nevrosi occorre forzare la barriera costituita dalla rimozione e accedere ai contenuti inconsci. Il metodo da seguire è quello dell’analisi dei derivati dell’inconscio. Essa non si effettua per via ipnotica, tanto meno con l’elettroterapia, né attraverso interrogazioni insistenti del paziente, ma attraverso la tecnica delle associazioni libere. La regola fondamentale di essa consiste nell’invitare il paziente a dire tutto ciò che gli viene in mente e che egli collega immediatamente a parole, immagini di sogni e rappresentazioni in genere, senza omettere nulla – neppure ciò che può sembrargli irrilevante, ridicolo o sgradevole. Lo scopo è principalmente quello di eliminare qualsiasi selezione volontaria di pensieri e, quindi, le resistenze messe in opera dal paziente.

la psicoanalisi come pratica terapeutica

Una via privilegiata per penetrare nell’inconscio è data, secondo Freud, dall’interpretazione dei sogni. L’autoanalisi, ossia l’analisi che Freud effettuò su se stesso, fu condotta in buona parte sul materiale che i suoi stessi sogni gli offrivano. In data 1900 compare L’interpretazione dei sogni, che può essere considerata il vero e proprio testo fondatore della psicoanalisi. Secondo Freud, il sogno non è l’inconscio tout court, ma è una delle sue manifestazioni. L’interpretazione del sogno, dunque, consente di accedere ai contenuti repressi e di comprendere il modo di lavorare dell’inconscio stesso [t32]. Durante il sonno, infatti, la censura esercitata dalla coscienza si affievolisce e i desideri rimossi arrivano ad affiorare con maggiore facilità. Il sogno è concepito da Freud come l’«appagamento di un desiderio»: nell’immaginazione onirica, infatti, i desideri inconsci trovano la loro realizzazione allucinatoria. In altre parole, essi si manifestano attraverso mascheramenti e deformazioni operati dalla censura della coscienza, la quale – pur essendo affievolita – non è tuttavia scomparsa del tutto.

il sogno è la principale manifestazione dell’inconscio

Il lavoro onirico deforma i contenuti rimossi e così li rende accettabili alla coscienza. Il sogno presenta un contenuto manifesto, quale appare al sognatore che lo racconta. Esso può risultare incoerente o anche assumere la forma di una storia dotata di una certa coerenza, ma il racconto dei propri sogni fatto dai sognatori è sempre un’elaborazione secondaria, ossia un rimaneggiamento che porta a renderli – in linea di massima – comprensibili. Il vero significato del sogno non è, dunque, situato a questo livello, ma risiede nel contenuto latente che è stato trasformato dal lavoro del sogno, dando luogo al contenuto manifesto. Il contenuto latente deve allora essere ricostruito percorrendo a ritroso il lavoro compiuto dal sogno: in ciò consiste l’interpretazione dei sogni, che risale dal sogno come risultato finito agli

il lavoro del sogno e la sua interpretazione

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elementi attraverso i quali è stato composto secondo regole e meccanismi specifici. Al termine dell’analisi, il sogno non apparirà più un semplice racconto fatto per immagini, ma un insieme organizzato di pensieri, attraverso il quale si esprimono desideri risalenti al passato, per lo più all’infanzia. altre manifestazioni dell’inconscio: i lapsus e gli atti mancati

Secondo Freud, la censura che impedisce l’affiorare alla coscienza di contenuti rimossi non opera soltanto nel sogno, ma anche in altri comportamenti della vita quotidiana, come nelle amnesie temporanee, per esempio di certe parole, o nei lapsus, in cui una parola è scambiata con un’altra, o in determinati gesti automatici o involontari o, ancora, nei motti di spirito. Per la maggior parte questi sono atti mancati, ossia azioni in cui il risultato esplicitamente perseguito – e che solitamente si è in grado di raggiungere – non viene raggiunto, ma è sostituito da un altro atto. Generalmente, tali comportamenti sono attribuiti al caso o alla disattenzione, ossia a una riduzione della soglia della coscienza. In realtà, secondo Freud, essi sono comprensibili soltanto ammettendo l’esistenza dell’inconscio. All’analisi di queste tematiche Freud destina alcuni scritti, come Psicopatologia della vita quotidiana (1901) e Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905). Da essi risulta che anche le attività coscienti dell’individuo normale possono essere perturbate dal riemergere di contenuti rimossi, che si manifestano in questi comportamenti.

la sessualità infantile

L’interpretazione dei sogni dei pazienti ha condotto Freud a scorgere in essi la presenza di desideri sessuali risalenti all’infanzia. Attraverso l’analisi dei propri sogni, ricostruendo il proprio passato rimosso e le resistenze nei confronti di esso, egli è altresì giunto a scoprire che già nell’infanzia sono presenti desideri sessuali che hanno per oggetto i propri genitori. All’indagine di questo tema, con particolare riferimento al bambino di sesso maschile, Freud dedica i Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Generalmente era concezione diffusa che la sessualità fosse connessa esclusivamente all’attività e al piacere, dipendenti dal funzionamento dell’apparato genitale, e, quindi, che essa fosse una prerogativa della vita adulta. Freud, invece, non restringe la sessualità al solo uso dell’apparato genitale, ma include in essa tutte le eccitazioni e le attività che procurano un piacere non riducibile al semplice soddisfacimento di bisogni elementari (ad esempio, la fame e simili).

la dinamica delle pulsioni

Alla base di questa concezione della sessualità vi sono i concetti di libido e di pulsione. La libido è un’energia di natura sessuale, che cerca soddisfacimento ed è suscettibile di aumenti e diminuzioni. Essa è alla base delle pulsioni (in tedesco, Trieb), ossia di processi psichici dinamici, che si determinano a partire dall’eccitazione di uno o più organi corporei. Tale eccitazione genera nel soggetto uno stato di tensione, che lo fa tendere verso una meta, consistente nell’eliminazione di tale stato di tensione. La meta, a sua volta, può essere raggiunta o nell’oggetto verso cui tende la pulsione stessa o in virtù di esso, ma questo oggetto non è fisso e identico per tutti, bensì varia in relazione alla specificità delle storie individuali e alle fonti da cui può dipendere. La libido e le pulsioni a essa collegate possono, infatti, spostarsi di volta in volta su zone privilegiate del corpo – dette zone

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erogene – a ciascuna delle quali corrispondono fantasie particolari, essenzialmente inconsce. La sessualità infantile evolve passando attraverso fasi collegate a zone erogene diverse. Freud ne distingue tre.

le fasi dello sviluppo psicosessuale del bambino

La fase orale è finalizzata al piacere autoerotico, ossia a un soddisfacimento conseguito soltanto mediante il proprio corpo, senza bisogno di oggetti esterni: esso si esprime nella suzione del dito, sostitutiva del succhiare il seno materno.

la fase orale...

La fase anale emerge con lo sviluppo della muscolatura anale ed è collegata agli inviti materni a eseguire movimenti di espulsione e ritenzione delle feci, che assumono quindi un carattere ambivalente, buono e cattivo al tempo stesso.

... la fase anale...

Nella fase fallica le pulsioni parziali vengono unificate sotto il primato dell’apparato genitale e si orientano verso un oggetto esterno, il più vicino, ossia la madre. A ciò si accompagna l’odio per il padre, che rappresenta il divieto dell’incesto. Una rappresentazione mitica di ciò è data dalle vicende di Edipo, il personaggio delle tragedie di Sofocle, che senza rendersene conto sposa la propria madre e uccide il proprio padre. Questo simboleggia l’evento inconscio – l’amore per il genitore di sesso opposto e la rivalità nei confronti di quello dello stesso sesso – che a un certo punto interviene a strutturare la sessualità infantile.

... e la fase fallica

Nella terza fase dello sviluppo sessuale del bambino, infatti, e più precisamente verso il terzo anno di età, si manifesta il cosiddetto complesso di Edipo: con questa espressione Freud cerca di descrivere l’inferiorità provata dal bambino nei confronti del padre e il timore di castrazione (modello di ogni privazione). L’angoscia che essi producono, in seguito, viene risolta abbandonando la rivalità con il padre, che appare come l’aggressore, e identificandosi con lui. In tal modo scompare il complesso di Edipo e comincia a prevalere l’interesse narcisistico per se stessi. Inoltre, il bambino – avendo interiorizzato l’autorità paterna – risulta particolarmente disponibile a essere educato alle norme e ai valori della condotta socialmente riconosciuta.

il complesso di edipo e il suo superamento

Quando non avviene un’evoluzione attraverso queste fasi, ma si ha una fissazione o una regressione a fasi antecedenti rispetto al primato della genitalità, si producono – in età adulta – perversioni e nevrosi, ossia manifestazioni patologiche di ciò che invece nel bambino costituisce lo sviluppo normale.

le patologie sessuali

2. La teoria della psiche La psicoanalisi, nata come terapia delle malattie nervose, aveva ampliato il suo terreno originario di interessi: essa poteva ora presentarsi come una disciplina capace di individuare le leggi che presiedono al funzionamento della psiche in generale. Per designare la dimensione più propriamente 11. freud e la psicoanalisi

la diffusione della psicoanalisi

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teorica di questa nuova disciplina, Freud coniò il termine metapsicologia. Intanto, già verso il 1906, si costituiva intorno a lui una vera e propria scuola; nel 1908, in un congresso tenuto a Salisburgo, veniva fondata la Società psicoanalitica, che aveva il proprio organo ufficiale in una rivista dal titolo «Jahrbuch für Psychoanalyse»; nel 1909 Freud intraprendeva un viaggio negli Stati Uniti, dove cominciavano a diffondersi le sue scoperte. i tre aspetti della metapsicologia

A partire dal 1911, Freud dedica un’attenzione crescente alle indagini di metapsicologia, di cui distingue tre aspetti: dinamico, topico ed economico. Dinamica è la considerazione dei fenomeni psichici che risultano dai conflitti e dalla composizione di forze pulsionali; topica (dal greco tòpos, «luogo») è la considerazione dell’apparato psichico come un insieme di sistemi dotati di funzioni diverse, collegate fra loro; economica, infine, è quella che si fonda sull’ipotesi che i processi psichici consistano nella circolazione e distribuzione dell’energia pulsionale, suscettibile di aumenti o diminuzioni.

la psiche e la ricerca del piacere

Alla base dei fenomeni psichici vi è un principio economico, che Freud chiama principio del piacere: esso ha la funzione di evitare il dispiacere e la sofferenza, legati all’aumento della quantità di eccitazione, e di procurare il piacere, connesso alla riduzione di essa. A tale scopo il principio del piacere provvede, scaricando la tensione e, quindi, ristabilendo uno stato di equilibrio, mediante l’appagamento del desiderio. Ma ciò avviene – secondo Freud – per via allucinatoria, ossia grazie a soddisfazioni sostitutive rispetto a quelle reali.

la restrizione del piacere viene imposta dalla realtà

Una funzione regolativa rispetto al principio del piacere è esercitata dal principio di realtà, che non cerca più il soddisfacimento attraverso scorciatoie e forme sostitutive, ma in relazione alle condizioni imposte dalla realtà, anche se questa si può presentare come spiacevole. Il principio del piacere tende a ottenere tutto immediatamente attraverso una scarica motoria, mentre il principio di realtà può differire tale scarica in vista di una meta possibile, più sicura e meno illusoria .

il dualismo pulsionale: amore e morte

Nel 1920 egli pubblica Al di là del principio del piacere dove – accanto alle pulsioni sessuali – riconosce l’esistenza di una pulsione antagonistica, la pulsione di morte. Quest’ultima equivale alla scarica totale delle pulsioni e rappresenta una tendenza distruttiva originaria, inerente alla vita stessa. Quando le pulsioni di morte sono rivolte verso l’interno, esse tendono all’autodistruzione, ma successivamente possono essere dirette anche verso l’esterno, assumendo la forma di pulsioni di aggressione e di distruzione. Nella realtà psichica le pulsioni si presentano sempre come ambivalenti, caratterizzate cioè dalla compresenza di questi due princìpi di vita e di morte: anche la sessualità presenterebbe, dunque, tale ambivalenza sotto forma di amore e di aggressività. In tal modo, Freud tornava a introdurre alla base della vita psichica un dualismo di princìpi, differenziati qualitativamente, non più su base quantitativa come nel caso del principio di piacere opposto a quello di realtà. Egli chiamava tali princìpi con i nomi greci di Èros e Thànatos.

la prima topica della psiche

Per quanto riguarda la teoria dei «luoghi» dell’apparato psichico (la topica), Freud elabora successivamente due schemi. In una prima fase, egli di-

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Freud L’egemonia del principio di piacere

alef

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stingue tre sistemi, ciascuno dei quali dotato di una propria funzione e separato dagli altri da censure che ostacolano e controllano il passaggio dall’uno all’altro. Essi sono: inconscio, preconscio (nel quale le pulsioni vengono organizzate ed espresse sotto forma di rappresentazioni e desideri: è questo, tra l’altro, l’ambito dei sogni) e conscio.

La prima topica della psiche Freud si è servito della metafora dell’iceberg per descrivere la struttura della psiche: essa può servire a dare una collocazione ‘spaziale’ alle varie istanze psichiche e a immaginare le relazioni che intercorrono tra di esse.

conscio (pensieri, percezioni)

preconscio (ricordi, conoscenze di pronto uso)

CONSCIO:

è la parte vigile della psiche, attiva durante la vita desta dell’individuo; è caratterizzata dal pensiero logico. PRECONSCIO:

è la parte della psiche in cui vengono provvisoriamente depositati ricordi e conoscenze. Essi, infatti, possono essere recuperati in qualunque momento dalla coscienza, in caso di bisogno.

INCONSCIO:

è la parte della psiche che non è presente alla coscienza. Essa contiene pulsioni, sentimenti e idee che, se fossero coscienti, produrrebbero angoscia e ansia. Tali contenuti non sono del tutto scomparsi, ma esercitano un influsso sui nostri comportamenti e pensieri coscienti.

inconscio (Paure, Pensieri inconfessabili, Desideri sessuali, Bisogni egoistici, Pulsioni, Sentimenti inaccettabili)

A partire dal 1920, Freud modifica questo schema in un altro, la cosiddetta «seconda topica», articolatamente esposta nell’opera L’io e l’Es (1923). In essa egli individua tre istanze dell’apparato psichico: l’Es, l’Io e il Super-io. Freud riprende il termine Es da Georg Groddeck – autore di un’opera intitolata Il libro dell’Es (1923) – per indicare il serbatoio dell’energia psichica, l’insieme delle dinamiche inconsce delle pulsioni, le quali sono in parte ereditarie e innate e, in parte, rimosse e acquisite. L’Es è retto soltanto dal principio del piacere, mentre l’Io è retto dal principio della realtà: è l’ambito della personalità che si viene costituendo attraverso modificazioni successive dell’Es, prodotte dall’impatto con la realtà esterna.

la seconda topica della psiche

Attraverso l’osservazione del mondo esterno e la memorizzazione, l’Io diventa in grado di distinguere il carattere illusorio delle rappresentazioni ge11. freud e la psicoanalisi

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La seconda topica della psiche A differenza della prima topica (conscio, preconscio, inconscio), nella seconda (presentata nell’Introduzione alla psicoanalisi, 1932) Freud individua tre diverse istanze della psiche (Io, Es, Super-io), ognuna regolata da princìpi propri e dotata di funzioni diverse. Come si vede, l’Io rientra in gran parte nel sistema P-C (=percettivo-cosciente), a contatto con la realtà esterna, l’Es è interamente inconscio, il Super-io in parte è conscio e in parte inconscio.

l’io alle prese con l’es e il super-io

nerate dal principio del piacere e vi sostituisce, come si è visto, il principio di realtà. L’Io, tuttavia, si trova a dover mediare fra le richieste dell’Es e quelle del Super-io. Quest’ultimo è una formazione – in parte inconscia – che svolge le funzioni di giudice e censore nei confronti dell’Io: la percezione inconscia delle sue critiche si esprime nell’Io come senso di colpa. Da questo punto di vista, il Super-io è l’erede del complesso di Edipo, si costituisce attraverso l’interiorizzazione della figura paterna e, quindi, dei comandi e dei divieti. Il Super-io effettua, pertanto, un controllo interiorizzato delle pulsioni e riveste la funzione di coscienza morale.

3. La psicoanalisi e l’origine della civiltà civiltà e sublimazione

Freud ha individuato nella sessualità e nella famiglia il centro dei conflitti, a partire dai quali l’Io si costituisce. Ma esse sono anche alla base della formazione della civiltà e della sua storia: la civiltà, infatti, non potrebbe sussistere senza una sottrazione costante di energie sessuali e una loro canalizzazione verso mete non sessuali, a vantaggio della comunità. In ciò consiste il processo che Freud chiama sublimazione, dal quale dipendono il lavoro in generale e, in particolare, le creazioni artistiche e le attività intellettuali. Questa deviazione dell’energia sessuale dalla sua meta specifica comporta al tempo stesso sacrifici pulsionali, i quali possono dar luogo a situazioni di frustrazione.

i tabù all’origine della civiltà

A queste conclusioni Freud era pervenuto almeno a partire dal 1908, ma egli si era anche convinto di una analogia di sviluppo tra l’individuo e la specie umana. Questo tema veniva da lui affrontato in Totem e tabù (191213), in cui tentava di collegare i risultati dell’antropologia evoluzionistica, soprattutto quelli ottenuti da James Frazer (1854-1941), con la psicoanalisi. Freud partiva dalla nozione antropologica di totem, ovvero l’oggetto sacro – per lo più un animale – che viene considerato emblema della tribù e fonda l’appartenenza alla tribù stessa. Entro il gruppo totemico sono in vigore due tabù, ossia due divieti: non uccidere l’animale totemico, né mangiarne la carne, e non contrarre matrimonio se non all’esterno del gruppo, ossia non con membri dello stesso totem (regola dell’esogamia).

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Freud interpretava queste caratteristiche delle tribù primitive con strumenti psicoanalitici e, precisamente, riteneva che l’animale totemico simbolizzasse la figura del padre e che i due tabù corrispondessero ai divieti risultanti dal complesso di Edipo (il divieto del parricidio e la proibizione dell’incesto). Ciò avrebbe confermato, secondo Freud, il carattere universale del complesso di Edipo, che sarebbe stato proprio non soltanto di una determinata epoca o cultura, ma dell’umanità nel suo complesso.

l’universalità del complesso edipico

Per spiegare l’universalità del complesso edipico Freud costruiva una sorta di storia congetturale, riprendendo da Darwin l’ipotesi che gli uomini primitivi erano vissuti in orde. In queste piccole comunità un solo maschio adulto – il padre – aveva avuto il possesso di tutte le donne e quindi aveva scacciato dal gruppo i figli maschi, rivali potenziali. I fratelli cacciati si erano quindi riuniti e avevano ucciso e divorato il padre: di qui sarebbe emersa la pratica del pasto totemico. Questa festa, da una parte, celebrava l’immedesimazione dei figli con il padre (interiorizzato come avviene con un cibo) e, dall’altra, stabiliva legami di solidarietà tra i parricidi, accomunati dalla colpa e dal rimorso. Il carattere ripetitivo di questo cerimoniale era diretto a controllare il senso di colpa. Da allora si era venuto costituendo un sistema di divieti – a cominciare dalla proibizione dell’incesto – per regolare i rapporti sociali. In tal modo, il complesso di Edipo appariva il fondamento della cultura.

l’uccisione del padre e la nascita della società

Dopo la Prima guerra mondiale, Freud condivise con molti intellettuali il senso di una crisi che colpiva la civiltà occidentale, ma rifiutò di darne un’analisi in termini di decadenza. La trattazione più generale fornita da Freud sulle radici psichiche della cultura e della società è contenuta in una delle sue ultime opere, Il disagio della civiltà (1930). Freud aveva da tempo riconosciuto che uno dei princìpi psichici fondamentali è la pulsione di morte, la quale – proiettata all’esterno – si configura come pulsione di aggressività. Lasciata completamente libera di esprimersi ed espandersi, essa avrebbe effetti distruttivi; per evitare tale pericolo – che comprometterebbe radicalmente la sopravvivenza stessa dell’uomo – occorre che alla libido individuale siano sottratte energie per metterle al servizio della società.

il controllo dell’aggressività

In altre parole, tali energie devono essere volte a istituire e rafforzare i legami tra gli uomini: su queste basi si regge la civiltà. Essa è l’insieme delle realizzazioni e degli ordinamenti che distinguono la vita umana da quella dei suoi antenati animali; scopo di essa è essenzialmente la salvaguardia degli uomini e della loro sopravvivenza, nelle loro relazioni con la natura e con gli altri uomini. A ciò provvedono le tecniche, le norme igieniche e di convivenza, gli ordinamenti sociali e politici. Alla base di questa transizione dalla natura alla cultura, vi è la sublimazione, che – come si è visto – è lo spostamento di energie libidiche dalle mete sessuali ad altri fini maggiormente apprezzati sul piano sociale (l’arte, la cultura, l’illusione religiosa o l’amore del prossimo).

la civiltà e i suoi costi

Ma ciò non comporta una scomparsa delle componenti aggressive nei rapporti fra gli uomini: la civiltà continua sempre a essere, secondo Freud, un 11. freud e la psicoanalisi

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il super-io e la repressione degli istinti

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«campo di battaglia di forze contrapposte», Èros e Thànatos. Il primato del principio di realtà non elimina il principio del piacere, che continua a essere operante nell’apparato psichico e che si scontra con la realtà. Quest’ultima, d’altra parte, non permette all’uomo di essere immune dal dolore e libero di perseguire il piacere. Il fatto che una pulsione non possa essere soddisfatta produce frustrazione, la quale trae origine dai divieti imposti da ordinamenti esterni all’individuo (le proibizioni dell’incesto, del cannibalismo, dell’aggressività, ecc.). Questi divieti, tuttavia, sono progressivamente interiorizzati e fatti propri dal Super-io, che svolge quindi una funzione essenziale per l’esistenza della civiltà [t33]. Ciò significa che la base della morale è fondamentalmente istintuale e consiste nell’utilizzazione dell’energia libidica per reprimere le pulsioni stesse. La loro repressione, necessaria per la sopravvivenza, produce un grande dispendio di energia. Per frenare le pulsioni aggressive, infatti, l’individuo le rivolge contro se stesso, dando luogo al senso di colpa . La civiltà è una tappa necessaria nell’evoluzione dell’umanità, ma comporta inevitabilmente il prezzo di una rinuncia alla realizzazione globale delle proprie pulsioni: Il sentimento di colpa può dunque trarre origine da due fonti: dal timore che suscita l’autorità, e dal successivo timore che suscita il Super-io. [...] In origine la rinuncia pulsionale è la conseguenza del timore che suscita l’autorità esterna; si rinuncia ai soddisfacimenti per non perdere l’amore di quella. Fatta questa rinuncia, si è per così dire a posto con l’autorità, e non dovrebbe rimanere nessun sentimento di colpa. Le cose vanno diversamente nel caso del timore suscitato dal Super-io. Qui non basta la rinuncia pulsionale, poiché il desiderio rimane e non si lascia occultare di fronte al Super-io. [...] La rinuncia pulsionale ora non ha più un effetto completamente liberatore, l’astinenza virtuosa non è più ricompensata dalla certezza dell’amore; una minacciosa infelicità esterna – perdita dell’amore e punizione da parte dell’autorità esterna – è stata barattata con una permanente infelicità interna, la tensione che nasce dal senso di colpa (Il disagio della civiltà, 7 passim).

la morte di freud

Nel 1938, Hitler invadeva l’Austria, la Società di psicoanalisi veniva sciolta e, nel 1939, Freud lasciava Vienna per rifugiarsi a Londra, dove sarebbe morto pochi mesi dopo.

4. Gli sviluppi della psicoanalisi dopo freud

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La diffusione delle teorie di Freud determinò la nascita di una vera e propria scuola psicoanalitica che si riconosceva nell’insegnamento del maestro. Come si è visto, nel 1908 Freud fondò a Salisburgo la Società di psicoanalisi e la rivista ufficiale della Società intitolata «Jahrbuch für Psychoanalyse». Nel 1910, a Norimberga, si tenne il primo congresso internazionale di psicoanalisi, durante il quale fu fondata l’Associazione psicoanalitica internazionale (esistente ancora oggi), di cui Carl Gustav Jung fu il primo presidente. A partire dal 1920 cominciò la regolare pubblicazione della rivista 11. freud e la psicoanalisi

Freud L’Io, il Super-io e il senso di colpa

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ufficiale dell’Associazione intitolata «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse». Durante questo processo di consolidamento istituzionale della psicoanalisi non mancarono le affermazioni di dissenso e le prese di distanza da Freud, sia sul piano teorico che clinico. I primi a rompere con Freud furono Alfred Adler e Carl Gustav Jung, a causa dell’interpretazione prevalentemente sessuale della libido inconscia sostenuta dal maestro, e Wilhelm Reich, il primo a unire le teorie psicoanalitiche con la riflessione sociologica e politica sul capitalismo. Inoltre, il trionfo del nazismo aveva provocato la fuga di numerosi allievi di Freud in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove diedero origine a nuove scuole che si segnalano per una maggiore o minore continuità con le dottrine del maestro. A questo proposito, occorre ricordare i contributi di Anna Freud (1895-1982), figlia del fondatore della psicoanalisi, che in Inghilterra portò a compimento i suoi studi sui meccanismi di difesa dell’io, e Melanie Klein (1882-1960), molto importante per le sue ricerche sulla psicoanalisi infantile e sul ruolo della madre. Anche Erich Fromm, emigrato negli Stati Uniti, fu una figura di rilievo nell’ambito del movimento psicoanalitico per il suo tentativo di coniugare le tesi freudiane con la riflessione antropologica del marxismo. Il primo transfuga dalla scuola di Freud, l’ebreo Alfred Adler (1870-1937), aveva attribuito la causa delle nevrosi non tanto alla repressione della libido, quanto a fattori socio-culturali, come le difficoltà di adattamento all’ambiente, ma ciò non lo aveva condotto ad abbracciare il marxismo. Capovolgendo in qualche modo il darwinismo sociale, Adler sosteneva che il più debole, affetto da un complesso di inferiorità, è in qualche modo il più adatto a sopravvivere, in quanto tale complesso può stimolarlo a compensare e superare la propria inferiorità.

adler e il complesso di inferiorità

Tra i discepoli di Freud uno dei più noti e influenti, anche sul piano filosofico, fu Carl Gustav Jung. Nato nel 1875 a Kesswil, in Svizzera, figlio di un pastore protestante, Jung si laurea in Medicina e nel 1900 entra a lavorare nell’ospedale psichiatrico di Zurigo. Venuto a conoscenza delle teorie di Freud, intrattiene con questi scambi epistolari ed entra a far parte del movimento psicoanalitico. Con la pubblicazione del suo volume Trasformazioni e simboli della libido (1912) vengono alla luce, tuttavia, i suoi dissensi teorici con Freud e nel 1913 il loro rapporto s’interrompe. Nel 1920, Jung intraprende viaggi in vari continenti per studiare le culture primitive e, nel 1921, pubblica il libro Tipi psicologici. Nominato nel 1930 presidente onorario della Società tedesca di psicoterapia, dopo l’avvento del nazismo – nel 1933 – non dà le dimissioni, ma collabora con Hermann Göring alla riorganizzazione della Società sino al 1940. Nel 1948 viene fondato il Carl Gustav Jung Institut per l’insegnamento della teoria e dei metodi di quella che è ormai denominata psicologia analitica, per distinguerla dalla psicoanalisi freudiana. Jung muore nel 1961.

vita e opere di jung

Jung condivide inizialmente con Freud l’ipotesi che le manifestazioni delle malattie mentali, per essere comprese, richiedono il riferimento alla storia individuale del paziente e ai processi di rimozione che l’accompagnano. Successivamente, tuttavia, egli comincia a dubitare che i contenuti rimossi

una nuova concezione della libido

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siano di natura esclusivamente sessuale e arriva a formulare l’idea che i fenomeni psichici siano manifestazioni di un’unica energia presente nella natura e non riducibile alla sola sessualità: la libido. Alla nozione di libido Jung attribuisce caratteristiche che richiamano lo slancio vitale di Bergson [cfr. 6.3]: essa è una pulsione dinamica di vita, che garantisce la conservazione degli individui e delle specie. Secondo Jung, Freud privilegiava eccessivamente la componente biologica di essa a scapito di quella spirituale e ne dava una rappresentazione intrisa di pessimismo: si trattava, invece, di una forza essenzialmente sana, protesa verso il futuro, dalla quale dipendono le realizzazioni più alte della cultura occidentale. La libido, infatti, è suscettibile di evoluzione, può essere spostata anche su oggetti immateriali ed è, dunque, spiritualizzabile; solo quando tale evoluzione è bloccata e avvengono regressioni, si originano le nevrosi. gli archetipi e l’inconscio collettivo

La libido si esprime attraverso la produzione di simboli, che modificano la natura stessa dell’uomo e lo conducono a individuarsi sempre più articolatamente come un Io. Ogni cosa può essere impiegata e funzionare da simbolo, ma alcuni simboli hanno una ricorrenza universale, che rimanda all’esistenza di quelli che Jung chiama archetipi , ossia letteralmente modelli. Essi non sono idee, ma possibilità di rappresentazioni, ossia disposizioni a riprodurre forme e immagini tipiche – del mondo e della vita – le quali corrispondono alle esperienze compiute dall’umanità nello sviluppo della coscienza. Gli archetipi si trasmettono ereditariamente e rappresentano una sorta di memoria dell’umanità, sedimentata in un inconscio collettivo presente in tutti i popoli, senza alcuna distinzione di luogo e di tempo . Gli archetipi lasciano le loro tracce nei miti, nelle favole e nei sogni, che – contrariamente a quanto pensava Freud – non sono appagamento di desideri puramente individuali legati alla sessualità infantile, ma espressioni dell’inconscio collettivo: L’inconscio collettivo è la poderosa massa ereditaria spirituale dello sviluppo umano, che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale. La coscienza invece è un fenomeno effimero, che serve agli adattamenti e orientamenti momentanei; perciò la sua funzione può essere paragonata a quella dell’orientamento nello spazio. L’inconscio contiene la sorgente delle forze motrici spirituali e le forme o categorie che le regolano, cioè gli archetipi. Tutte le più forti idee e rappresentazioni dell’umanità risalgono ad archetipi. Specialmente chiaro è ciò nelle idee religiose. Ma neppure i concetti centrali della scienza, della filosofia e della morale fanno eccezione. Nella loro forma presente esse sono varianti, sorte per l’applicazione e adattamento coscienti, delle rappresentazioni originarie, poiché la funzione della coscienza non è soltanto quella di accogliere e riconoscere il mondo esterno attraverso la porta dei sensi, ma anche quella di tradurre il mondo interiore all’esterno sotto forma creativa (La struttura della psiche).

i simboli mediano tra coscienza e inconscio

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Un’analisi comparata di questi materiali è in grado di portarli alla luce: Jung menziona tra gli archetipi più importanti quello del vecchio, della grande madre, della ruota, delle stelle e così via. Essi, tuttavia, non si pre11. freud e la psicoanalisi

Jung L’inconscio collettivo

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sentano mai all’analisi allo stato puro, ma attraverso le loro manifestazioni in simboli: ogni individuo li avverte come bisogni e li può esprimere in modo storicamente variabile, secondo le diverse situazioni etniche, nazionali o familiari. I simboli, infatti, svolgono una funzione di mediazione tra la coscienza e l’inconscio. Attraverso gli archetipi, l’inconscio collettivo può condizionare e dirigere la condotta dell’individuo nei suoi rapporti col mondo, inducendolo a ripetere esperienze collettive e, quindi, ostacolandolo nel suo ulteriore sviluppo, oppure guidandolo nei suoi progetti. I complessi di rappresentazioni che mediano questa interazione fra coscienza e inconscio e fra inconscio individuale e inconscio collettivo sono strutturati secondo coppie di opposti. Una di esse è la coppia Io-Ombra. L’Io è dato dall’insieme delle rappresentazioni coscienti e permanenti, in cui è riposta la propria identità, con tutti i princìpi e valori accolti e riconosciuti. L’Ombra, invece, rappresenta l’insieme delle possibilità di esistenza respinte dal soggetto come non proprie in quanto considerate negative.

la personalità tra l’io e l’ombra

L’obiettivo della terapia consiste, secondo Jung, nella realizzazione dinamica del Sé, come espressione individuale di ciò che è universalmente umano e, quindi, come superamento continuo del conflitto tra la coscienza e l’inconscio. La terapia non mira, dunque, a recuperare il rimosso, come voleva Freud, ma a recuperare gli archetipi, in modo che nella psiche possano coesistere i contrari senza produrre conflitti e scissioni: la razionalità e l’irrazionalità, il maschile e il femminile, il pensiero e la sensazione. L’obiettivo non è l’eliminazione di uno di questi contrari, perché ciò condurrebbe a un impoverimento del Sé, che diventerebbe unilaterale: si tratta, invece, di integrare armonicamente ciascun contrario con l’altro, assecondando le tendenze vitali del paziente all’autorealizzazione.

il sé come integrazione dei contrari

Un connubio esplicito tra psicoanalisi e marxismo fu, invece, tentato da Wilhelm Reich (1897-1957), che nel 1930 costituì a Berlino una Organizzazione per una politica sessuale proletaria, ma successivamente fu espulso sia dal Partito comunista, sia dal movimento psicoanalitico. Emigrato negli Stati Uniti, fu condannato per le sue pratiche terapeutiche e morì in carcere. Reich ritiene che il principio di realtà e il collegato complesso di Edipo non siano un dato costitutivo della natura umana, ma appartengano a un assetto determinato della società, la società capitalistica, e possono pertanto essere rimossi. In una società divisa in classi, la classe dominante decide qual è la struttura caratteriale più adeguata a garantire la sua sopravvivenza e, attraverso la famiglia, procede a trasmetterla anche ai membri delle classi inferiori: nascono di qui la repressione delle pulsioni e la morale puritana, con le conseguenti nevrosi. Per la terapia dei soggetti appartenenti alla classe operaia non è adatta né efficace la sublimazione, come avviene invece con i ceti altoborghesi; si tratta, allora, secondo Reich, di suscitare nel paziente, mediante l’analisi, il desiderio di liberazione e, quindi, di trasformarlo in un rivoluzionario.

reich e la liberazione dell’individuo

Nel 1929 a Francoforte veniva aperto l’Istituto psicoanalitico, collegato con l’università e con l’Istituto per la ricerca sociale. Come si vedrà, all’Istituto 11. freud e la psicoanalisi

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fromm tra psicoanalisi e marxismo

collaborarono economisti, sociologi, psicologi e filosofi come Horkheimer e Adorno [cfr. 12.4-5]. In esso operò anche Erich Fromm (1900-1980), attratto in giovinezza dal messianismo ebraico e dall’opera di Franz Rosenzweig [cfr. 14.1]. L’obiettivo di Fromm è di costruire un’antropologia, fondata sulla fusione di psicoanalisi e marxismo. La natura umana non è un’entità fissa, ma si viene costituendo attraverso i rapporti con il mondo e l’interazione tra gli individui. La psicoanalisi può fornire l’anello mancante che consente di mediare tra il piano della struttura economica e quello della sovrastruttura così come tra l’individuo e la società.

la critica della società patriarcale e borghese

In questo quadro, la funzione centrale è assolta dalla famiglia e dall’amore materno. Fromm riprende da Bachofen la distinzione tra matriarcato e patriarcato. La società patriarcale è fondata sul senso di colpa nei confronti del padre, sulla repressione e su una morale autoritaria e trova la sua espressione più compiuta nella società capitalistica. Della società matriarcale, invece, non è dimostrabile l’esistenza storica: essa, tuttavia, offre l’immagine di una realtà alternativa, nella quale sono assenti la proprietà privata e una sessualità repressiva, mentre domina la solidarietà umana, fondata sull’amore materno. Secondo Fromm, Freud era rimasto legato alla morale borghese e ai valori tradizionali e non aveva colto che l’amore è svincolato dalla sessualità: in quest’ultima, infatti, entra come componente un impulso distruttivo.

autoritarismo, libertà e amore

Sulla base di questi presupposti, Fromm collaborò alle ricerche dell’Istituto sull’autorità e sulla famiglia, mostrando che la personalità autoritaria, il cui nucleo è il carattere sadomasochista, è spiegabile non solo mediante il complesso di Edipo e la connessa paura della castrazione, ma anche attraverso fattori socio-economici. Emigrato negli Stati Uniti, e venuti progressivamente meno i suoi rapporti con l’Istituto per la ricerca sociale, Fromm spiegò l’autoritarismo, nell’opera Fuga dalla libertà (1941), in connessione alla paura della solitudine e del dover assumere responsabilità, la quale induce l’individuo a barattare la propria libertà con l’integrazione e la subordinazione nella società. I numerosi scritti composti negli Stati Uniti, a partire da Dalla parte dell’uomo (1947) sino ad Avere o essere (1976), sono mossi dall’obiettivo di saldare la psicoanalisi e il marxismo a una forma di umanesimo, liberato dal pessimismo freudiano e in polemica contro il consumismo e la competizione propri della società moderna: al centro di esso vi è l’idea che l’aggressività sia una caratteristica tipicamente umana, sviluppatasi storicamente attraverso la progressiva alienazione dell’individuo rispetto alla natura e agli altri uomini, e possa essere sconfitta grazie all’amore di sé e degli altri.

5. Lacan e «la rivoluzione copernicana freudiana» Nell’ambito dello strutturalismo francese [cfr. 15.5-7], sorto alla fine degli anni Cinquanta e caratterizzato dall’abbandono della centralità del soggetto, del coscienzialismo e di ogni forma di spiritualismo, il maggior contribu338

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to al ripensamento delle teorie psicoanalitiche fu quello di Jacques Lacan (1901-1981). Laureatosi in Psichiatria, frequentò i surrealisti, interessati alla scrittura automatica attraverso libere associazioni e alle modalità creative del linguaggio onirico, ed entrò a far parte della Société psychanalytique de Paris, fondata nel 1926. Nel 1953 operò una secessione e fondò la Société française de psychanalyse, che non fu riconosciuta dall’Associazione psicoanalitica internazionale; nel 1963 ebbe luogo un’altra scissione in seguito alla quale egli costituì l’École freudienne de Paris, che però si dissolse nel 1980. Le sue tesi, elaborate soprattutto nel corso dei seminari del mercoledì tenuti a partire dal 1953 nell’ospedale di Sainte Anne, sono raccolte negli Scritti (1966), di assai difficile lettura.

la formazione e la scissione dall’associazione psicoanalitica

Lacan intende tornare all’insegnamento originario di Freud, che a suo avviso è stato travisato negli sviluppi successivi della psicoanalisi. La rivoluzione freudiana è consistita nel detronizzare l’io, riconoscendo nell’inconscio la vera voce dell’individuo: chi parla nell’individuo non è propriamente l’io, ma l’inconscio. Come aveva mostrato Freud – soprattutto nell’Interpretazione dei sogni –, l’inconscio è «strutturato come un linguaggio», è «desiderio diveniente linguaggio» e l’analisi dell’inconscio è dunque fondamentalmente la decifrazione di tale linguaggio. Lacan riprende da Saussure la concezione secondo cui la lingua e i segni sono autonomi rispetto alle prestazioni linguistiche individuali [cfr. 15.5]; in questo senso, il linguaggio dell’inconscio è il discorso dell’Altro rispetto al soggetto conscio. L’analisi e la terapia psicoanalitica non devono mirare a potenziare l’io (ossia la dimensione conscia), ma consentire l’accesso alla verità dell’inconscio. La verità, infatti, risiedendo nell’inconscio, è anonima, non è un sapere posseduto dall’io; anzi, il sapere – in quanto dominio di un soggetto – si oppone, secondo Lacan, alla verità. Solo la psicoanalisi, operando una riduzione dell’io, può lasciare che la verità parli, anche se mai nella sua interezza. Su questo punto si fanno sentire suggestioni del pensiero dell’ultimo Heidegger, in particolare la nozione di essere che si disvela e insieme sempre si occulta nella sua verità [cfr. 10.3].

la verità dell’inconscio tra saussure e heidegger

Il soggetto (o io), secondo Lacan, non è il dato originario della vita psichica dell’individuo, ma il risultato di una costruzione. La prima tappa è costituita dallo stadio dello specchio, studiato da Lacan già prima della guerra. Tra i sei e i diciotto mesi, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine nello specchio ed elabora un primo abbozzo dell’io, ma all’interno dell’immaginario, ossia entro una relazione di confusione tra sé e l’altro. Tale identificazione è primaria, matrice di tutte le altre, per esempio con la madre. Tra la madre e il bambino viene a interporsi la figura paterna e con essa l’interdizione dell’incesto (l’Edipo), su cui si fondano l’ordine simbolico e la civiltà. Il padre, infatti, rappresenta «la figura della legge»: la sua parola produce la rimozione del desiderio della madre. Ciò significa, secondo Lacan, che l’ordine simbolico – ossia il linguaggio – si fonda sulla rimozione dell’immaginario, ossia su una scissione fra psichismo inconscio e conscio.

lo stadio dello specchio e il passaggio al simbolico

Con l’accesso all’ordine simbolico si accede – al tempo stesso – alla società e alla cultura, necessarie al sorgere della soggettività. Il simbolico è il luogo 11. freud e la psicoanalisi

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l’ordine simbolico e il reale

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dell’inconscio impersonale, dove sono depositati i simboli linguistici e sociali, privi di significazione, finché non s’incarnano in un individuo. Il soggetto conferisce significato a questi simboli, accentrandosi intorno a un’unità immaginaria (il Me), ossia facendo perno sull’immagine ideale di sé. Secondo Lacan, è impossibile la ricomposizione dell’io col Me: tra essi si colloca l’immaginario della pulsione di morte. Analogamente resta inattingibile il reale in sé, perché in mezzo c’è sempre il simbolico. Il divieto paterno, differendo la pienezza del legame con la madre, ha fatto sì che si desidera ciò che non si ha. In tal modo, il reale diventa lo scopo irraggiungibile che perpetua eternamente il desiderio.

in poche... parole In data 1900 Sigmund Freud pubblicò L’interpretazione dei sogni, l’opera che rappresenta l’atto di nascita della psicoanalisi: in essa si sosteneva la possibilità di accedere all’inconscio attraverso la tecnica delle libere associazioni di idee applicata alle scene del sogno manifesto. Nel Dizionario di sessuologia del 1922, Freud formulò la seguente definizione: «Psicoanalisi è il nome: 1) di un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere; 2) di un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3) di una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica». Per Freud, infatti, la psicoanalisi avrebbe dovuto essere una nuova scienza in grado di scoprire i moventi del comportamento umano (sia di quello normale che di quello patologico), di risalire all’origine dei disturbi nevrotici al fine di curarli, di formulare una teoria generale della psiche. Quest’ultima risulta articolata in un insieme di istanze con funzioni diverse: la prima topica parla di conscio, preconscio e incon340

scio; la seconda topica – degli anni Venti – parla di Es, Io e Superio. Freud si serve della nozione di inconscio per spiegare l’origine dei disturbi nervosi e, in generale, l’intera vita psichica dell’individuo. L’inconscio risulta costituito, secondo Freud, da due tipi di contenuti: 1) le rappresentazioni rimosse (ricordi, pensieri, immagini, vissuti) dalla sfera della coscienza, in quanto spiacevoli o traumatiche per il soggetto; 2) le pulsioni. La principale manifestazione dell’inconscio è costituita dai sogni, che consistono nell’appagamento allucinatorio dei desideri rimossi, ma esso si rivela anche nei lapsus, negli atti mancati, nei motti di spirito. Lo scopo del trattamento psicoanalitico consiste nel recuperare il rimosso e rafforzare l’Io, la cui funzione è quella di mediare tra le opposte richieste dell’Es (desideri) e del Super-io (divieti): «Dove era l’Es, deve subentrare l’Io». Dopo la Prima guerra mondiale – in particolare nel Disagio della civiltà (1930) – Freud si sforza di impiegare i princìpi della psicoanalisi per spiegare l’origine della civiltà: essa è resa possibile dal Super-io che reprime le pulsioni libidiche e di aggressività presenti

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nell’uomo e le sposta verso fini maggiormente apprezzati sul piano sociale (l’arte, la cultura, la religione, l’altruismo).

pulsione Termine usato in psicoanalisi per indicare una sorta di spinta o impulso, al tempo stesso corporeo e psichico, che ha la sua origine in uno stato di tensione interno all’organismo. Essa raggiunge la propria meta, quando perviene a eliminare questo stato di tensione in virtù dell’oggetto al quale tende. La pulsione è diversa dall’istinto, in quanto non è un dato originario, ma si costruisce nelle prime fasi della vita dell’individuo e si può orientare verso una molteplicità di fini. inconscio In generale indica la dimensione dell’anima umana caratterizzata da aspetti che sfuggono alla coscienza. Il termine – già usato da Schelling, Schopenhauer e da altri filosofi e psicologi dell’Ottocento – è ripreso da Freud per indicare una forza attiva, che esercita un’azione causale anche sul livello conscio. L’inconscio, a suo avviso, è dotato di proprie finalità e opera secondo determinate regole, che possono essere studiate. Attraverso meccanismi quali la rimozione, l’inibizione o lo spo-

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stamento, le pulsioni latenti nella psiche vengono mantenute sul piano inconscio, ma attraverso i sogni, i lapsus, i sintomi, i gesti automatici o i motti di spirito, i contenuti rimossi trovano modo di manifestarsi. All’inconscio individuale tematizzato da Freud, Jung affianca la nozione di inconscio collettivo. Esso appartiene a tutti i popoli – in ogni luogo e in ogni tempo – ed è costituito da un patrimonio di archetipi, ossia di possibilità di rappresentazioni e immagini del mondo e della vita, che formano una sorta di memoria collettiva dell’umanità. Quest’ultima, secondo Jung, ha il ruolo di mediare tra la sfera dell’inconscio individuale e quella della coscienza.

libido

Termine introdotto da Freud per indicare l’energia sessuale che è presente in ogni dinamica pulsionale e che, pertanto, costituisce la base dell’intera vita psichica: essa può dirigersi sia all’interno dell’individuo, sia su un oggetto esterno a esso.

complesso Termine usato nella

psicoanalisi per indicare un insieme organizzato di rappresentazioni, ricordi o pensieri – fondamentalmente inconsci e dotati di una carica affettiva – capace di esercitare la sua influenza anche sulla vita conscia. Tali sono, per esempio, il complesso di Edipo e il complesso di Elettra, caratterizzati rispettivamente dall’amore del bambino per la propria madre o della bambina per il proprio padre, e dalla rivalità nei confronti del genitore dello stesso sesso.

topica della psiche Nell’ultima fase delle sue ricerche Freud ha elaborato una topica, ossia una teoria dei luoghi dell’apparato psichico. In essa egli distingue tre istanze psichiche. 1) L’Io (in tedesco, Ich) è l’ambito della personalità retto dal principio della realtà. Tenendo conto dei limiti imposti dalla realtà al soddisfacimento

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delle pulsioni e dei desideri, il principio di realtà consente di rinviare il momento dell’appagamento allo scopo di renderlo più sicuro e più stabile. Esercitando un’azione di controllo sul principio di piacere, esso comporta un potenziamento delle funzioni consce. 2) L’Es (pronome personale neutro singolare della lingua tedesca, equivalente al latino id: «esso», «ciò») rappresenta il serbatoio delle energie e delle pulsioni inconsce dell’individuo, in parte ereditarie e in parte acquisite e poi rimosse. L’Es è retto dal principio del piacere, che ha la funzione di evitare dispiacere e sofferenza, procurando invece piacere attraverso l’eliminazione delle tensioni e il soddisfacimento delle pulsioni. 3) Il Super-io (in tedesco, Überich) è l’istanza psicologica che svolge una funzione di controllo, di giudizio e di censura nei confronti dell’Io. Si tratta di una formazione in parte inconscia che si costituisce attraverso l’interiorizzazione della figura paterna (dei suoi comandi e divieti) e che ha la funzione di censurare l’Io, producendo anche sensi di colpa. Il Super-io emerge col venir meno del complesso di Edipo, quando il bambino interiorizza il divieto dell’incesto, ed è rafforzato in seguito da altri divieti, provenienti dalla morale corrente, dalle istituzioni sociali e religiose. Attorno a Freud si costituì una vera e propria scuola che conobbe un progressivo processo di istituzionalizzazione: nacquero l’Associazione psicoanalitica internazionale (1910) e diverse riviste ufficiali col fine di diffondere le teorie psicoanalitiche. Non mancarono, tuttavia, le figure di dissidenti che contestarono gli insegnamenti del maestro, in particolare la sua teoria dell’inconscio e della libido, e che fonda-rono indirizzi teorico-clinici autonomi. Tra le figure più rilevanti, occorre ricordare quella di

Alfred Adler per i suoi studi sul complesso di inferiorità, di Wilhelm Reich e di Erich Fromm per il loro tentativo di coniugare psicoanalisi e marxismo, di Carl Gustav Jung, inizialmente individuato da Freud come il suo più brillante allievo ed erede. Jung diede vita alla corrente di psicologia analitica, basata sulla concezione dell’inconscio collettivo, popolato da archetipi, e sulla ricerca di una realizzazione dinamica del Sé, in cui coesistano i contrari (irrazionalità-razionalità; maschile-femminile; pensiero-sensazione) senza produrre scissioni e conflitti. Nell’ambito dello strutturalismo francese degli anni Cinquanta, Jacques Lacan tenta un ritorno a quello che secondo lui era il pensiero originario di Freud, basato sul decentramento del soggetto (parafrasando Cartesio, egli dirà «Penso, dunque non sono») e sulla struttura linguistica dell’inconscio. Per Lacan, la personalità è data dalla scissione tra il Me (il soggetto reale senza unità) e l’io (l’immagine idealizzata di sé) ed è caratterizzata dalla continua domanda di riconoscimento da parte dell’altro («chi sono?»).

archetipo Dal greco archè, «principio», e ty`pos, «impronta» o «sigillo». Termine usato a partire dalla tarda Antichità e poi nella tradizione medievale per indicare le idee platoniche in quanto princìpi delle cose, presenti nella mente divina. Nella filosofia moderna esso viene talvolta utilizzato per indicare, più genericamente, i modelli originari delle cose. Più di recente, il termine è stato ripreso da Jung nell’ambito della psicologia analitica per indicare l’insieme di possibilità di rappresentazione, che appartengono all’inconscio collettivo dell’umanità e che si manifestano in forma simbolica nei miti, nelle pratiche religiose, nelle creazioni artistiche e culturali prodotte dagli uomini durante la loro evoluzione.

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i testi t32 Freud / Il sogno e l’inconscio Freud

L’interpretazione dei sogni

cap. 7, F

Comparsa con la data 1900, ma in realtà finita di stampare nel novembre del 1899, L’interpretazione dei sogni ebbe ben otto edizioni, durante la vita di Freud, e fu tradotta in varie lingue. Già nel 1895, Freud aveva scoperto il carattere del sogno come appagamento allucinatorio, sotto forma di visione, di un desiderio. Sottoponendo ad analisi i propri sogni e quelli dei pazienti, mediante il metodo delle libere associazioni, egli giunse a scoprire l’ampio continente della vita inconscia dell’individuo, dominata da una propria logica, con regole diverse da quelle che reggono la vita conscia. Nell’Interpretazione dei sogni Freud non si limitò, dunque, a insegnare la tecnica che deve guidare alla comprensione dei sogni, ma tentò di descrivere la realtà che opera dietro il sogno e, in tal modo, costruì una vera e propria trattazione di psicologia generale. Nel 1931, nella Prefazione alla terza edizione in lingua inglese di quell’opera, Freud dirà: essa «contiene, anche secondo il mio giudizio di oggi, la più valida di tutte le scoperte che io abbia mai avuto la fortuna di fare. Intuizioni come questa càpitano, se càpitano, una volta sola nella vita». Qui sono riportate alcune pagine conclusive dell’opera, riguardanti l’inconscio, la coscienza e la realtà.

Il problema dell’inconscio nella psicologia è, secondo l’energico detto di Lipps1, non tanto un problema psicologico, quanto il problema della psicologia. Fin quando la psicologia risolveva questo problema con la dichiarazione verbale che lo «psichico» è precisamente ciò che è «cosciente», e che i «processi psichici inconsci» sono un evidente controsenso, era inammissibile un’utilizzazione psicologica delle osservazioni che un medico poteva ricavare da stati psichici anormali. L’incontro fra medico e filosofo è possibile soltanto se entrambi riconoscono che i processi psichici inconsci sono «l’espressione funzionale e ben giustificata di un fatto certo». Il medico non può che respingere con un’alzata di spalle l’assicurazione che «la coscienza è il carattere indispensabile dello psichico» ed eventualmente, qualora il suo ri1. Citazione tratta dal testo di una relazione che il filosofo e psicologo Theodor Lipps (1851-1914), fondatore dell’Istituto di psicologia di Monaco, aveva tenuto al terzo congresso internazionale di psicologia, tenutosi a Monaco, in-

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spetto per le espressioni dei filosofi sia abbastanza forte, ammettere che medico e filosofo non trattano dello stesso oggetto e non coltivano la stessa scienza. Infatti, anche una sola intelligente osservazione della vita psichica di un nevrotico, la sola analisi di un sogno, debbono imporgli la salda convinzione che i processi ideativi più complessi e corretti, ai quali non si negherà certo il nome di processi psichici, possono verificarsi senza stimolare la coscienza del soggetto2. Certo, il medico non ha notizia di questi processi inconsci finché non esercitano sulla coscienza un effetto che consente una comunicazione o un’osservazione. Ma quest’effetto cosciente può dimostrare un carattere psichico del tutto divergente dal processo inconscio, per cui alla percezione interna riesce assolutamente impossibile riconoscere nel-

titolato Il concetto dell’inconscio nella psicologia (1897). 2. L’esperienza medica del trattamento delle nevrosi mostra la presenza, nei pazienti affetti da queste patologie, di processi psichici inconsci. Per tale

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aspetto, essa è dunque incompatibile con le teorie filosofiche, che pretendono di identificare tout court l’ambito dello psichico con la sfera della coscienza.

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l’uno il sostituto dell’altro3. Il medico deve mantenere il proprio diritto di inoltrarsi, mediante un procedimento dimostrativo, dall’effetto cosciente nel processo psichico inconscio; viene così a sapere che l’effetto cosciente non è che un lontano risultato psichico del processo inconscio, che quest’ultimo non è diventato cosciente come tale e, inoltre, che è esistito e ha agito senza peraltro tradirsi in alcun modo di fronte alla coscienza. La rinuncia alla sopravvalutazione della qualità di coscienza diventa condizione prima indispensabile per qualsiasi visione esatta dello svolgimento dello psichico. Secondo l’espressione di Lipps, l’inconscio dev’essere accettato come base generale della vita psichica. L’inconscio è il cerchio maggiore, che racchiude in sé quello minore del conscio; tutto ciò che è conscio ha un gradino preliminare inconscio, mentre l’inconscio può restar fermo a questo gradino e pretendere tuttavia al pieno valore di prestazione psichica4. L’inconscio è lo psichico reale nel vero senso della parola, altrettanto sconosciuto, per sua intima natura, della realtà del mondo esterno, e a noi presentato dai dati della coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle indicazioni dei nostri organi di senso. 3. Freud sottolinea qui un punto deci-

sivo, secondo il quale gli effetti coscienti prodotti dall’inconscio non sono la pura e semplice riproduzione, sul piano della coscienza, dei processi e dei contenuti appartenenti alla sfera dell’inconscio. Tra questi due piani esiste anzi uno scarto, che l’analisi deve tentare di colmare, risalendo dagli effetti coscienti al processo inconscio sotteso a essi. Si noti che immediatamente dopo Freud precisa che questa operazione deve essere compiuta procedendo in maniera dimostrativa, non attraverso intuizioni che non si riesca di volta in volta a giustificare. 4. Tra conscio e inconscio esiste una relazione asimmetrica: mentre l’inconscio può anche non affiorare alla coscienza, pur rimanendo ancora operante nella vita psichica dell’individuo, il conscio poggia sempre sull’inconscio e ne è una manifestazione. 5. Ossia la vita del sogno, che in greco si dice òneiros. 6. Il riferimento è al libro di K.A.

Annullando l’antico contrasto fra vita conscia e vita onirica5 con l’inserimento dello psichico inconscio nella posizione che gli spetta, si elimina una serie di problemi del sogno che hanno intensamente preoccupato gli studiosi precedenti. Numerose attività, il cui verificarsi nel sogno poteva meravigliare, non vanno ora più attribuite al sogno, ma al pensiero inconscio attivo anche di giorno. Se il sogno, secondo Scherner6, sembra giocare con una raffigurazione simboleggiante del corpo, sappiamo che questa è opera di certe fantasie inconsce che accondiscendono probabilmente a impulsi sessuali, e che si esprimono non soltanto nel sogno, ma anche nelle fobie isteriche7 e in altri sintomi. Quando il sogno prosegue e termina certi lavori del giorno e porta alla luce addirittura idee pienamente valide, dobbiano detrarne soltanto il travestimento del sogno, opera del lavoro onirico e suggello dell’attività ausiliaria di forze oscure, che provengono dalle profondità della psiche (confronta il diavolo nel sogno della sonata di Tartini)8. La prestazione intellettuale spetta alle medesime forze psichiche che l’effettuano di giorno. Probabilmente siamo troppo inclini a sopravvalutare il carattere conscio anche della produzione in-

Scherner, La vita del sogno (1861), le cui teorie erano state esposte, in una forma giudicata da Freud più chiara, nel libro La fantasia del sogno (1875), del filosofo Johannes Volkelt. Si tratta, in entrambi i casi, di tentativi di spiegare il sogno come un’attività particolare della psiche, che può svolgersi liberamente solo nello stato di sonno. Il presupposto è che la fantasia operante in questa situazione ha un carattere produttivo e si esprime in un linguaggio visivo, partendo dal materiale offerto dagli stimoli organici corporei, inavvertiti durante la veglia, e usando simboli (anche sessuali) capaci di esprimerli. Secondo questi autori il lavoro onirico tendeva a rappresentare simbolicamente la natura dell’organo da cui parte lo stimolo e il tipo di stimolo. Partendo da questi presupposti si poteva costruire una sorta di «libro dei sogni», ossia un catalogo di immagini e simboli. Il merito di queste teorie, secondo Freud, era di richiamare l’attenzione sul processo di simbolizzazione che avvie-

ne durante il sogno, ma il loro limite consisteva nell’interpretare il lavoro onirico come un libero gioco, privo di utilità. In tal modo, esse non coglievano l’aspetto essenziale per Freud, secondo cui il sogno è appagamento di desiderio ed è frutto dell’attività dell’inconscio. 7. La fobia è uno dei sintomi dell’isteria, in particolare di quella che Freud chiamerà poi «isteria di angoscia», nella quale l’angoscia si trova fissata in modo più o meno stabile su un oggetto esterno. 8. Riferimento a un aneddoto riguardante il violinista Giuseppe Tartini (1692-1770) che avrebbe avuto un sogno nel quale si trovava a vendere la propria anima al diavolo, il quale avrebbe, in quell’occasione, imbracciato il violino e suonato una musica meravigliosa che Tartini, al suo risveglio, avrebbe cercato di riprodurre componendo Il trillo del diavolo.

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tellettuale e artistica. Dai resoconti di uomini estremamente produttivi, come Goethe e Helmholtz9, sappiamo piuttosto che l’essenziale e il nuovo delle loro creazioni è venuto loro in mente all’improvviso, giungendo alla loro percezione quasi già fatto. In altri casi – nei quali esiste una tensione di tutte le forze psichiche – la cooperazione dell’attività conscia non ha nulla di sorprendente. Ma è privilegio tanto abusato dell’attività cosciente quello di nasconderci, ogni volta che essa coopera con esse, tutte le altre attività. 9. Hermann Helmholtz (1821-1894), era un fisico, le cui opere Freud, già in gioventù, aveva studiato e ammirato, il quale aveva tentato di fondare sperimentalmente la fisiologia, utilizzando i

GUIDA ALLA LETTURA 1. Chi è Theodor Lipps? 2. Qual è la posizione di Freud in merito alla tesi – comunemente accettata – secondo cui «la coscienza è il carattere indispensabile dello psichico»? 3. Che rapporto c’è, secondo Freud, tra i processi inconsci e i loro effetti coscienti? 4. Quali sono i pregi della teoria del sogno formulata da Scherner? E quali sono, invece, i suoi limiti secondo Freud? 5. A quale scopo Freud cita i nomi di Goethe e di Helmholtz?

modelli della fisica. Freud introduce qui un tema, su cui tornerà ripetutamente in seguito e che eserciterà una certa influenza anche sulla cultura artistica e letteraria del Novecento, secondo cui

nei processi inventivi e creativi della ricerca scientifica e della produzione artistica sarebbe operante una forte componente inconscia.

t33 Freud / Aggressività umana e civiltà Freud

Il disagio della civiltà

8 passim

Il disagio della civiltà, pubblicato nel 1930, è uno degli scritti di Freud più noti, anche al di fuori della cerchia degli specialisti. Da una parte, esso rappresenta il tentativo di applicare i risultati conseguiti dalla teoria e dalla pratica psicoanalitica, attraverso il trattamento dei pazienti, allo studio dell’evoluzione e dei caratteri della civiltà e della società umana nel suo complesso. Dall’altra, per via delle sue conclusioni pessimistiche, derivate dall’insopprimibilità di un grado seppure minimo di repressione delle pulsioni individuali da parte della società e, quindi, dall’impossibilità che gli uomini possano raggiungere pienamente la felicità, esso rappresenta anche un documento importante delle angosce e dei timori che hanno attraversato la cultura europea negli anni Trenta del secolo scorso, di fronte alle minacce che si stavano addensando all’orizzonte per la convivenza pacifica tra gli uomini.

L’analogia tra il processo d’incivilimento e il cammino dello sviluppo individuale si presta a essere significativamente estesa. Infatti, si può sostenere che anche la comunità sviluppi un 1. In uno scritto precedente, L’avveni-

re di un’illusione, Freud aveva sottolineato che l’esigenza di una vita in comune impone agli individui pesi e sacrifici. Infatti, «ciascun individuo è naturalmente un nemico della civiltà», che deve pertanto essere difesa contro i moti ostili degli individui. A ciò essa

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Super-io, sotto il cui influsso si compie l’evoluzione civile1. Per chi conosca le civiltà umane, potrebbe essere un’impresa seducente seguire questa similitudine nei particolari. Quanto a

provvede mediante ordinamenti, istituzioni e norme. Freud giungeva, quindi, alla conclusione che «ogni civiltà poggia sulla coercizione al lavoro e sulla rinuncia pulsionale» e perciò suscita necessariamente opposizione in coloro ai quali si indirizzano queste pretese. Il Super-io, l’autorità interiorizzata, veni-

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va già descritto da Freud in quello scritto come ciò che consente di trasformare gli individui, da nemici della civiltà, in suoi veicoli. Più agisce il Super-io, tanto più la civiltà può fare a meno di ricorrere a mezzi di coercizione esterna.

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me, mi limiterò a porre in rilievo alcuni punti che colpiscono immediatamente l’attenzione. Il Super-io di un’epoca della civiltà ha un’origine simile al Super-io dell’individuo; è basato sull’impressione che hanno lasciato dietro di sé grandi personalità di capi: uomini dotati di una forza spirituale capace di trascinare gli altri, o uomini di una delle tendenze umane che abbia trovato lo svolgimento più forte e più puro e sovente perciò anche più unilaterale. In molti casi l’analogia va ancora oltre, in quanto queste persone abbastanza spesso, anche se non sempre, furono in vita sbeffeggiate, maltrattate o addirittura crudelmente uccise, così come il padre primordiale assurse a divinità solo molto tempo dopo la sua morte violenta2. L’esempio più impressionante di questa concatenazione inesorabile è la figura di Gesù Cristo, a meno che essa non appartenga alla mitologia che si è sviluppata in oscura memoria di quell’evento primordiale. Un altro punto di concordanza è che il Super-io della civiltà, al pari di quello individuale, affaccia severe esigenze ideali, il cui mancato adempimento viene punito con l’«angoscia morale». Qui si verifica addirittura questo caso notevole: otteniamo più dimestichezza con i processi psichici in atto e di essi diveniamo più facilmente consapevoli se li vediamo nella massa piuttosto che nel singolo individuo3. In quest’ultimo solo l’aggressività del Super-io, in caso di tensione, diviene percettibile clamorosamente sotto forma di rimproveri, mentre spesso le esigenze medesime restano inconsce nel sottofondo. Portandole a lucida consapevolezza scopriamo che coincidono con ciò che in quel momento prescrive il Super-io della civiltà. In questo 2. Il riferimento è all’ipotesi, avanzata

da Freud in Totem e tabù, dell’uccisione del padre, che nell’orda primitiva deteneva un potere assoluto sulle donne e sui figli. In seguito, il rimorso per questo delitto aveva condotto a espiarlo mediante l’istituzione di un culto in onore del padre ucciso e, quindi, alla sua divinizzazione. Freud accenna poco dopo alla congettura che anche l’uccisione di Cristo possa rimandare a un patrimonio mitologico, originato dall’evento dell’uccisione del padre.

punto i due processi evolutivi, l’incivilimento della moltitudine e lo sviluppo dell’individuo, sono sempre intimamente intrecciati. Alcune manifestazioni e proprietà del Super-io si possono pertanto scoprire più facilmente dal suo modo di procedere nella comunità civile che non presso il singolo. Il Super-io della civiltà è andato svolgendo i suoi ideali ed elevando le sue esigenze. Fra queste ultime, quelle che riguardano le relazioni degli uomini tra loro vengono comprese sotto il nome di etica. In ogni tempo si è assegnato all’etica il massimo valore, come se tutti se ne aspettassero importanti conseguenze. Ed è vero che l’etica, com’è facile riconoscere, tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come lo sforzo di raggiungere attraverso un imperativo del Super-io ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà. Sappiamo già che il problema è come rimuovere il maggior ostacolo alla civiltà, la tendenza costituzionale degli uomini all’aggressione reciproca; e proprio per questo giudichiamo particolarmente interessante il comandamento probabilmente più recente del Super-io civile: «ama il prossimo tuo come te stesso»4. Lo studio e la terapia delle nevrosi c’inducono a muovere due rimproveri al Super-io individuale: esso si preoccupa troppo poco, nella severità dei suoi imperativi e divieti, della felicità dell’Io, in quanto non tiene abbastanza conto delle resistenze contro l’ubbidienza: della forza pulsionale dell’Es in primo luogo e, inoltre, delle difficoltà del mondo circostante reale5. Quindi siamo molto spesso obbligati, per i nostri intenti terapeutici, a com-

3. Si tratta di un presupposto che ri-

corda una considerazione analoga presente nella Repubblica di Platone, secondo cui è forse più facile scorgere che cosa sia la giustizia in un ambito più vasto come la città, che non nel singolo individuo. 4. Questo comandamento evangelico rappresenta, secondo Freud, l’espressione più avanzata e più recente dell’etica elaborata dalla civiltà per controllare le pulsioni aggressive degli individui: esso prescrive, infatti, pro-

prio l’atteggiamento opposto all’aggressività. 5. Freud svolge qui alcune considerazioni a partire dalla sua pratica terapeutica, che lo poneva a contatto con le nevrosi, i cui sintomi esprimono in maniera simbolica un conflitto psichico che ha le sue radici nella storia infantile dell’individuo. Esse possono essere interpretate come manifestazione del fatto che il Super-io opera un controllo talmente forte sull’Io da non tenere in alcun conto le resistenze di questo ai

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battere il Super-io, e ci sforziamo di ridurre le sue pretese. Obiezioni del tutto analoghe possiamo sollevare contro le esigenze etiche del Super-io della civiltà. Anch’esso non si preoccupa abbastanza degli elementi di fatto nella costituzione psichica degli esseri umani; emana un ordine e non si domanda se sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che l’Io dell’uomo sia psicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti. Esigendo di più, si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi, o lo si rende infelice. Il comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso» è la più forte difesa contro l’aggressività umana e un esempio eccellente del modo di procedere non psicologico del Super-io civile. Il comandamento è irrealizzabile; un’inflazione così grandiosa dell’amore può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà. La civiltà trascura tutto ciò; ci ammonisce soltanto che quanto più difficile è il conformarsi al precetto, tanto più meritoria è l’obbedienza6. Eppure, chi nella presente civiltà s’attiene a tale precetto ci suoi comandi e, quindi, la felicità dell’Io stesso. Ciò che conduce l’Io a resistere ai comandi del Super-io sono, da una parte, le pressioni esercitate su di lui dal mondo esterno, con tutte le difficoltà che ciò comporta per adattare a esso le richieste del Super-io, e, dall’altra, le pulsioni psicologiche inconsce, in parte ereditarie e innate, in parte rimosse e acquisite, le quali costituiscono l’Es, ossia il serbatoio primario dell’energia psichica. Queste pulsioni non di rado recalcitrano contro le prescrizioni e i divieti del Super-io. Nel caso delle nevrosi prodotte da queste situazioni, la terapia può avere successo soltanto a patto di ridurre le pretese del Super-io, in modo da consentire alle pulsioni una maggiore possibilità di esprimersi. Si tratta, cioè, di ridurre il grado di frustrazione, consistente nel fatto che una pulsione non può essere soddisfatta. 6. Il merito cresce in misura proporzionale alla difficoltà di obbedire a una norma: quanto più è difficile adeguarsi a essa e applicarla, tanto più viene apprezzato chi lo fa.

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mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza! La cosiddetta etica naturale non ha qui da offrire nulla all’infuori della soddisfazione narcisistica di potersi ritenere migliore degli altri7. L’etica che si appoggia alla religione fa intervenire a questo punto le sue promesse di un aldilà migliore. A mio avviso fino a quando la virtù non sarà premiata sulla terra l’etica predicherà invano. Sembra anche a me indubitabile che un reale mutamento nei rapporti dell’uomo con la proprietà gioverà in questo senso più di qualsiasi comandamento etico; ma fra i socialisti questa intuizione viene oscurata e resa inservibile agli effetti pratici da nuovi misconoscimenti idealistici circa la natura umana8. Mi pare che l’orientamento mirante a rintracciare nei fenomeni dell’incivilimento la parte svolta dal Super-io tenga in serbo ulteriori scoperte. Mi affretto a concludere. C’è una domanda, però, che mi è difficile scartare. Se l’evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell’individuo e se usa i suoi stessi mezzi, non è

7. La nozione di narcisismo è elabora-

ta da Freud a partire dal 1910, in riferimento al mito di Narciso, che si era innamorato della propria immagine riflessa nelle acque. Si tratta di un fenomeno psichico, caratterizzato da un investimento (ossia da uno spostamento anche affettivo) di energia libidica sul soggetto stesso, sicché l’Io diventa oggetto primario di amore. Il narcisismo può fungere da compensazione per le rinunce che la civiltà costringe l’Io a fare. La soddisfazione rimane limitata al piano etico, nella misura in cui l’Io apprezza se stesso in quanto capace di obbedire alle norme sociali imposte dal Super-io. A ciò può aggiungersi l’ulteriore consolazione, fornita dalla religione, che meriti acquisiti in questo modo dall’Io troveranno ricompensa adeguata nell’aldilà. Ma questa promessa non basta, secondo Freud, a eliminare il residuo irriducibile di infelicità, che è al fondo dell’esistenza umana in quanto tale e che vede l’individuo costretto ad associarsi per sopravvivere.

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8. Freud ritiene che l’infelicità umana

non sia completamente eliminabile neppure a opera della modificazione, auspicata dal movimento socialista, dell’assetto della proprietà privata: anche questa trasformazione, pur essendo più utile di qualsiasi precetto etico, compreso quello dell’amore per il prossimo, in quanto intacca la realtà esterna, non basta a modificare la realtà psichica più profonda dell’individuo. Già in L’avvenire di un’illusione, Freud aveva dubitato che si potesse arrivare a una nuova regolamentazione dei rapporti umani, capace di condurre alla completa abolizione di ogni coercizione e repressione delle pulsioni e, quindi, alla felicità piena dell’individuo: «Sarebbe l’età dell’oro – aveva detto –, ma c’è da chiedersi se uno stato simile sia attuabile». Le pulsioni di morte e di aggressività, presenti in tutti gli uomini, apparivano a Freud dati riducibili quantitativamente, ma non del tutto eliminabili.

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forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, – e magari l’intero genere umano – sono divenuti «nevrotici» per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? Alla disserzione analitica di queste nevrosi potrebbero far seguito suggerimenti terapeutici in grado di rivendicare un grande interesse pratico. Non voglio dire che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla comunità civile non avrebbe senso o sarebbe condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe andar molto cauti, non dimenticare mai che in fin dei conti si tratta solo di analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche coi concetti, strapparli dalla sfera in cui sono sorti e si sono evoluti9. La diagnosi di nevrosi collettive s’imbatte poi in una difficoltà particolare. Nella nevrosi individuale l’impressione di contrasto suscitata dal malato sullo sfondo del suo ambiente considerato «normale» ci offre un immediato punto di riferimento. Un simile sfondo verrebbe a mancare in una massa tutta ugualmente ammalata e dovrebbe essere cercato altrove. Quanto poi all’applicazione terapeutica della comprensione raggiunta, a che cosa gioverebbe un’analisi, sia pure acutissima, delle nevrosi sociali, visto che nessuno possiede l’autorità di imporre alla massa una cura siffatta? Nonostante tutte queste difficoltà, aspettiamoci pure che un giorno qualcuno si arrischi a lavorare su questa patologia delle comunità civili. Sono del tutto alieno dal dare una valutazione della civiltà umana, per vari motivi. Ho cercato di tenermi lontano dal pregiudizio entusiastico secondo cui la nostra civiltà sarebbe la cosa più preziosa che possediamo o potremmo acquisire, e che necessariamente il suo cammino ci debba condurre ad altezze inimmaginabili di perfezione. Così perlomeno non provo indignazione quando sento il critico che, conside9. Questa conclusione sembra imporsi,

se si tiene conto del parallelismo tra l’evoluzione dell’apparato psichico individuale e quella della società, sicché come in determinati casi il ruolo troppo repressivo del Super-io e delle sue regole nei confronti dell’Io dà luogo alla formazione di nevrosi, così avviene an-

rate le mete cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il giuoco non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile. La mia imparzialità è facilitata dal fatto che so ben poco di tutte queste cose; questo solo so con sicurezza, che i giudizi di valore degli uomini sono guidati esclusivamente dai loro desideri di felicità, e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni. Capisco benissimo chi desse rilievo al carattere di inevitabilità della civiltà umana e dicesse, per esempio, che la tendenza a porre delle restrizioni alla vita sessuale o quella di mettere in pratica l’ideale umanitario a spese della selezione naturale sono direzioni evolutive che non si possono eludere né deviare, e alle quali è meglio inchinarsi come se fossero necessità naturali. Conosco anche l’obiezione che gli si potrebbe opporre: che spesso l’umanità, nel corso della sua storia, ha respinto simili tendenze che si ritengono irresistibili, e le ha sostituite con altre. Così mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper recare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquie-

che in determinate forme di civiltà, quando le norme sociali impongono agli individui carichi di obbedienza troppo pesanti da sopportare. Freud, tuttavia, mette in guardia da una applicazione meccanica di questa analogia tra individuo e società, soprattutto se la si vuole trasferire anche sul piano

della terapia, pretendendo magari di istituire una terapia complessiva della società, come se essa fosse un unico grande malato di nevrosi. A conclusione di questo suo scritto, Freud enuncia chiaramente il suo rifiuto di erigersi a profeta e consolatore dell’umanità.

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tudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due «potenze celesti»10, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?

10. L’altra «potenza celeste», avversaria di Èros, è Thànatos,

la pulsione di morte e di aggressività. Nel 1931, avvertendo le nuvole minacciose che con il nazismo si stavano addensando sull’Europa, Freud aggiunge la frase interrogativa finale.

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Che cosa rende possibile, secondo Freud, l’evoluzione civile della società umana? 2. In che termini Freud interpreta il precetto cristiano «ama il prossimo tuo come te stesso»? 3. Qual è l’azione che il Super-io esercita sull’Io e sull’Es, a livello individuale e a livello collettivo? 4. Quali sono le difficoltà in cui si potrebbe imbattere la diagnosi delle nevrosi di massa rispetto a quelle individuali? 5. Qual è, secondo Freud, il problema fondamentale del destino della specie umana?

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esercizi/11 CHE COSA SO?

luoghi dell’apparato psichico elaborata da Freud a partire dal 1920.

Guida allo studio del manuale

14. Qual è la funzione del principio del piacere? E del principio di realtà?

1. Evidenzia i momenti salienti della vita di Freud. 2. Evidenzia le differenti occorrenze della nozione di desiderio in Freud e in Lacan. 3. Evidenzia le differenti manifestazioni dell’inconscio. 4. Evidenzia il valore psicologico e antropologico della figura del padre, secondo Freud. 5. Evidenzia la concezione freudiana e quella junghiana di libido.

15. Perché, secondo Freud, il complesso di Edipo è proprio dell’umanità nel suo complesso? 16. Che differenza c’è tra rimozione e sublimazione, secondo Freud? 17. Quali sono, secondo Freud, le basi su cui si regge la civiltà? 18. Qual è l’origine del senso di colpa? Su quale istanza psichica esercita le sue pressioni?

6. Evidenzia la concezione junghiana del sogno.

19. Spiega il significato e la funzione della coppia Io-Ombra, secondo Jung.

7. Evidenzia come Reich ha cercato di coniugare le teorie psicoanalitiche con la critica della società.

20. In che cosa consiste la proposta di un nuovo umanesimo, elaborata da Fromm?

8. Evidenzia in che cosa consiste la «rivoluzione copernicana freudiana» attuata da Lacan.

21. Che cosa avviene, secondo Lacan, durante lo «stadio dello specchio»?

Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti: inconscio (Freud) • complesso di Edipo (Freud) • pulsione (Freud) • Èros e Thànatos (Freud) • Super-io (Freud) • inconscio collettivo (Jung) • complesso di inferiorità (Adler) • ordine simbolico (Lacan)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. A partire da quali circostanze Freud è arrivato a elaborare le nozioni di «inconscio» e di «rimozione»? 11. Che cosa sono, secondo Freud, gli atti mancati? 12. Quali sono, secondo Freud, le fasi della sessualità infantile? 13. Illustra la «seconda topica», ovvero la teoria dei

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Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 22. Illustra la teoria freudiana del sogno. 23. Illustra i tratti salienti della metapsicologia freudiana. 24. Che differenza c’è tra la prima e la seconda topica della psiche elaborate da Freud? 25. Qual è la differenza tra l’impostazione psicoanalitica di Freud e quella di Jung? 26. Qual è l’obiettivo del trattamento psicoanalitico, secondo Freud e secondo Jung? 27. Adler e Jung condividono alcuni motivi di dissenso rispetto alla teoria psiconalitica ritenuta ortodossa. Quali? 28. Che cosa accomuna la riflessione psicoanalitica di Reich a quella di Fromm? 29. Illustra in che modo Lacan interpreta la nozione freudiana di complesso di Edipo.

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specifico nella storia. Per Lukács si tratta di ricondurre ciascun fenomeno storico alla totalità del processo di cui fa parte, riconoscendo nell’uomo, come essere sociale, il soggetto del processo storico. Con il capitalismo i rapporti sociali e l’esistenza umana sono ridotti a cose: in ciò consiste la reificazione. Solo nel capitalismo, d’altra parte, è possibile la formazione della coscienza di classe, ossia del riconoscimento della propria situazione storica di classe entro la totalità del processo storico e quindi della direzione verso cui marcia. Questa presa di coscienza non è riflesso passivo della situazione, ma elemento attivo essenziale per la prassi rivoluzionaria.

12. interpretazioni e sviluppi del marxismo i contenuti il marxismo di gramsci

L’idealismo fu la filosofia dominante in Italia nel primo cinquantennio del Novecento. Ciononostante, il marxismo continuò a sopravvivere e trovò la sua maggiore espressione in Gramsci. Questi riteneva necessario rovesciare l’egemonia culturale di Croce, intellettuale organico al blocco storico dominato dalla borghesia. Per far ciò, era necessario andare alla ricerca di un nuovo e più autentico storicismo, che avesse come suo

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nocciolo il marxismo. Da un lato, secondo Gramsci, occorreva correggere l’economicismo marxista con lo storicismo crociano attento agli aspetti etico-politici della storia. D’altro lato, occorreva ribadire l’importanza della struttura economica nei processi storicosociali – evidenziata dal marxismo – e invece ignorata da Croce. il marxismo «occidentale»

Contro le interpretazioni deterministiche e materialistiche del marxismo, particolarmente diffuse in Unione Sovietica dopo l’avvento al potere di Stalin, Lukács e Korsch insistono sulla centralità della dialettica che ha il suo ambito

12. interpretazioni e sviluppi del marxismo

marxismo e utopia

Dal canto suo Bloch sottolinea la centralità della dimensione utopica del marxismo, secondo cui la realtà data non appaga mai il soggetto, proiettato verso un futuro che trascende il presente. Bloch costruisce un’ontologia che ravvisa come costitutivo dell’essere il non essere ancora: la stessa materia non è passività, ma potenzialità che tende alla realizzazione di forme sempre nuove. Tra gli affetti umani il primato spetta allora alla speranza come attesa del nuovo apportatore di salvezza. Anche per Benjamin il marxismo dovrebbe ispirarsi alla tradizione messianica e concepire la storia come un processo non lineare, scandito da istanti rivoluzionari, che mandano in frantumi l’ordine esistente. la teoria critica

La Scuola di Francoforte – che ha i suoi rappresentanti più significativi in Horkheimer e Adorno – costruisce un’utopia, incentrata soprattutto sulla negazione, ossia sulla denuncia e sul rifiuto di ciò che è falso nel presente. La ragione è in primo luogo tribunale critico della realtà, mentre con l’Illuminismo essa si è trasformata in uno strumento di dominio volto a produrre – anche mediante la scienza e la tecnica –

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un’organizzazione totale della società. Questo apparato di dominio tende a produrre uniformità e conformismo, grazie alla stessa industria culturale, che trasforma la cultura in merce di scambio. Di fronte a ciò l’ultimo barlume di speranza è nell’arte, che contiene sempre un elemento di protesta contro la disarmonia esistente e una promessa di felicità futura. marcuse e «l’immaginazione al potere»

Dal canto suo, Marcuse si riallaccia a tematiche della psicoanalisi freudiana e ritiene che ogni società industriale avanzata sia caratterizzata da una repressione

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addizionale fondata sul principio di prestazione: di qui una società unidimensionale, caratterizzata dal bisogno ossessivo di produrre e consumare, la quale ottunde ogni capacità di resistenza e opposizione al sistema e dà luogo quindi a un uomo unidimensionale. La liberazione potrà avvenire soltanto grazie all’immaginazione di una società utopica non repressiva, con èros liberato e meno energie istintuali investite nel lavoro, che finirà per trasformarsi in gioco. althusser e le contraddizioni del capitalismo

l’uomo dalla sua posizione di soggetto e motore della storia. In questa direzione Althusser ritiene che nel pensiero di Marx si sia consumata un’importante rottura epistemologica. Dopo la fase dell’umanesimo giovanile, infatti, egli sarebbe passato a elaborare una teoria scientifica della storia come processo senza soggetto e fini predeterminati, ma mossa dalla lotta delle classi. Per Althusser, nella struttura globale della società c’è una contraddizione principale che domina sul resto e – unita ad altre contraddizioni (secondarie) – funziona da motore del processo storico.

Lo strutturalismo ha detronizzato

gli strumenti in poche… parole egemonia / reificazione / coscienza di classe / speranza / ragione strumentale e ragione critica / repressione addizionale

i testi a. nel manuale t34 Gramsci/La storicità delle filosofie t35 Lukács/Azione e coscienza di classe t36 Horkheimer, Adorno/ Mitologia dell’Illuminismo t37 Marcuse/Repressione addizionale e immaginazione

b. on-line Bloch/I sogni e la speranza Benjamin/La storia e l’istante Horkheimer/La teoria critica Adorno/La triste scienza e l’industria culturale Althusser/La pratica teorica

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Il marxismo italiano mondolfo e il marxismo come filosofia della prassi

Nonostante le critiche di Croce e di Gentile, il marxismo aveva continuato ad attecchire in Italia e a dare frutti anche sul piano teorico, grazie soprattutto all’opera di Rodolfo Mondolfo (1877-1976). Ebreo, ebbe un’originaria formazione positivistica e, dal 1903, collaborò a «Critica sociale», la rivista diretta da Filippo Turati. Nel 1910 divenne professore all’università di Torino e, successivamente, in quella di Bologna, ma nel 1938, a causa delle leggi razziali, fu costretto a lasciare l’insegnamento e si rifugiò in Argentina, dove ottenne una cattedra prima nell’università di Cordoba e poi in quella di Tucumàn. Dopo la guerra, pur ritornando periodicamente in Italia, continuò a vivere in Argentina, dove morì. Mondolfo scorge nel marxismo il punto culminante delle concezioni della libertà e della democrazia, elaborate dal pensiero politico moderno: esso è la filosofia necessaria al movimento operaio, che ha il compito storico di realizzare il regno della libertà. A illustrarne le peculiarità egli dedica una serie di studi, da Il materialismo storico di F. Engels (1912) all’insieme di studi intitolati Sulle orme di Marx (1919, più volte riediti), sino alla raccolta curata da Bobbio, Umanismo di Marx (1968). Per Mondolfo, il marxismo non è una filosofia deterministica e materialistica della natura e della storia, ma è essenzialmente filosofia della prassi, ossia una forma di umanesimo, che ravvisa nell’agire libero degli uomini il motore della storia. Non si tratta, tuttavia, di una libertà assoluta, in quanto l’uomo trasforma con la sua azione la natura e la storia sempre a partire da condizioni date, e l’ambiente da lui trasformato reagisce a sua volta sull’uomo, che procede a ulteriori trasformazioni, secondo un ritmo che Mondolfo, riprendendo l’interpretazione di Gentile, chiama la prassi che si rovescia. Ciò significa che ogni momento del processo storico condiziona sempre il successivo e che, tra i vari momenti, esiste un legame di continuità. Una rivoluzione può, dunque, aver luogo soltanto se sono mature le condizioni storiche che la rendono possibile.

vita e opere di gramsci

La figura più importante del marxismo italiano è quella di Antonio Gramsci. Nato ad Ales, in Sardegna, nel 1891, grazie a una borsa di studio poté iscriversi – nel 1911 – alla facoltà di Lettere dell’università di Torino. Verso la fine del 1913 s’iscrisse al Partito socialista e abbandonò poi gli studi per dedicarsi attivamente alla politica. Contrario alla linea riformista, salutò con entusiasmo la rivoluzione russa. Nel 1919 fondò il settimanale «L’Ordine nuovo» e appoggiò la costituzione dei consigli di fabbrica a Torino. Nel settembre del 1920 ebbe luogo l’occupazione delle fabbriche e la lotta si estese in tutta Italia, mentre il governo Giolitti manteneva una posizione di neutralità. A Livorno, nel 1921, Gramsci partecipò al Congresso socialista, contribuendo alla scissione che diede vita al Partito comunista; nominato rappresentante di esso presso la Terza Internazionale risiedette per due anni a Mosca. Eletto deputato nel 1924, rientrò in Italia e fondò il quotidiano «l’Unità». Nel 1926 fu arrestato e, nel 1928, fu condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a vent’anni di carcere. Qui ebbe luogo un peggioramento della sua salute, che lo condusse alla morte nel 1937 – in

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una clinica a Roma – poco dopo essere stato amnistiato. Nel 1929, in carcere a Turi, aveva iniziato la stesura di appunti e analisi, che sarebbero stati pubblicati dopo la guerra – fra il 1948 e il 1951 – con il titolo Quaderni del carcere (sei volumi). Problema di Gramsci è quello di individuare le condizioni di possibilità per la transizione al comunismo nella specifica situazione italiana. Egli ne ravvisò la via in un’alleanza fra gli operai del Nord e i contadini del Sud e, al tempo stesso, nella conquista di un’egemonia sulla società civile, come preparazione alla conquista del potere. La supremazia di una classe all’interno della società si manifesta in due modi: attraverso la forza e attraverso la direzione intellettuale e morale. Il momento della forza appartiene alla società politica, mentre quello del consenso appartiene alla società civile.

l’egemonia tra forza e consenso

Gli intellettuali sono coloro che hanno il compito di ottenere il consenso, mentre la classe politica è costituita da coloro che si servono della forza per raggiungere ciò che non è ottenibile con il consenso. Quest’ultima ha, dunque, bisogno di intellettuali al suo servizio, anche se questi pretendono o si illudono di essere indipendenti. Negli Stati moderni spetta ai partiti l’organizzazione delle forze necessarie per conquistare lo Stato. A tale scopo, tuttavia, bisogna prima ottenere l’egemonia nella società civile: di qui l’importanza degli intellettuali organici alla classe, di cui il partito rappresenta la punta avanzata.

il compito degli intellettuali e dei politici

L’egemonia politico-culturale, all’interno di una società, è conseguente alla formazione di quello che Gramsci chiama blocco storico: in esso le forze materiali sono il contenuto, mentre le ideologie sono la forma. Grazie alle ideologie le forze materiali possono essere comprese nella loro specificità storica, mentre senza forze materiali le ideologie sarebbero soltanto vuote astrazioni. L’elemento popolare, infatti, «sente», ma non sempre comprende e sa; l’elemento intellettuale, invece, «sa», ma non sempre «sente». L’errore dell’intellettuale consiste nel «credere che si possa sapere» senza sentire ed essere appassionato, ossia nel credere di poter essere un intellettuale staccato dalle concezioni del mondo e dalle passioni del popolo-nazione. Si tratta, invece, di saper spiegare storicamente queste visioni del mondo – e le passioni a esse collegate – giungendo a elaborare una visione scientifica del mondo. Se ciò non avviene, gli intellettuali si trasformano in una casta o in un sacerdozio; quando invece si realizza un’unità organica, si costituisce una nuova forza sociale, un nuovo blocco storico.

la formazione del blocco storico

La politica è il momento di saldatura fra la filosofia – elaborata dagli intellettuali – e il senso comune. La filosofia in grado di portare alla costituzione del nuovo blocco storico – incentrato sulla classe operaia e sulla sua alleanza con i contadini – è il marxismo (detto da Gramsci anche filosofia della prassi). Secondo Gramsci, in Italia l’egemonia culturale era rappresentata dalla filosofia di Croce, intellettuale organico al blocco storico dominato dalla borghesia. Ai suoi occhi, lo storicismo crociano – parlando dello spirito e delle sue attività – rimane ancora imprigionato nelle maglie del linguaggio speculativo e teologico. A esso Gramsci intende contrapporre uno

la critica dello storicismo crociano

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storicismo più autentico, capace di combinare lo studio delle componenti etico-politiche (ossia sovrastrutturali) della storia – promosso da Croce – con l’analisi marxista della struttura economica. la transizione al comunismo

In sostanza, lo storicismo deve far tesoro degli insegnamenti del marxismo, senza incorrere nel suo economicismo: solo così esso potrà porsi come una concezione dialettica della storia umana nella sua globalità – evitando di soffermarsi su aspetti puramente parziali di essa. D’altra parte, se diviene uno storicismo coerente, il marxismo può addirittura giungere alla conclusione di essere esso stesso un momento storico puramente transitorio, legato a una fase della società, di cui esprime coscientemente le contraddizioni. Col passaggio al regno della libertà – ossia al comunismo – è prevedibile che anche il marxismo giunga al tramonto per lasciar spazio a nuove forme di pensiero, non più originate dalle contraddizioni della vecchia società [t34].

della volpe e la dialettica concretoastrattoconcreto

Un altro esponente di spicco del marxismo italiano fu Galvano Della Volpe (1895-1968). Allievo di Gentile, in disaccordo con l’interpretazione storicistica e umanistica di Gramsci, egli distingue nettamente tra il giovane Marx, ancora legato alla filosofia speculativa di Hegel, e il Marx maturo, autore del Capitale, scienziato dell’economia e della società affine a Galilei. Il nucleo del metodo scientifico marxiano è indicato da Della Volpe, e in particolare nell’opera Logica come scienza positiva (1950), nella dialettica, che parte dal concreto delle determinazioni empiriche e sensibili della realtà e, su questa base, procede a formulare ipotesi astratte, mediante categorie logiche, per poi tornare a verificarle in riferimento alla concretezza della situazione storica. In questo senso, il metodo marxiano è fondato, secondo Della Volpe, su quella che egli chiama astrazione storicamente determinata e mette capo alla formulazione di leggi scìentifiche.

2. Il «marxismo occidentale» marx tra oriente e occidente

Nell’Unione Sovietica, in seguito all’avvento al potere di Stalin, il marxismo diviene la filosofia ufficiale del regime, in grado di spiegare sia lo sviluppo della natura sia lo sviluppo della società: la capacità di iniziativa dell’uomo viene fortemente ridimensionata in favore di una concezione deterministica della storia, regolata da leggi oggettive, indipendenti dalla volontà degli individui. Al cosiddetto «marxismo orientale», incarnato dal Partito comunista sovietico, si contrappone nel dopoguerra una corrente di pensatori europei, soprannominata «marxismo occidentale», intenti a riflettere in modo critico sul materialismo storico, considerato non tanto come una teoria scientifica in grado di prevedere il futuro dell’umanità, ma come uno strumento euristico in grado di comprendere le contraddizioni della realtà sociale. I maggiori rappresentanti del «marxismo occidentale», espressione coniata nel 1955 dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty in Avventure della dialettica [cfr. 15.4], furono Lukács e Korsch.

vita e opere di lukács

György Lukács nacque nel 1885, a Budapest, da una ricca famiglia ebrea. Prima della guerra visse a Berlino e Heidelberg, dove entrò in contatto con

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Simmel e la cerchia di Max Weber, e si occupò prevalentemente di estetica e di letteratura, pubblicando in tedesco una raccolta di saggi intitolata L’anima e le forme (1911); tra il 1914 e il 1915 scrisse La teoria del romanzo, pubblicata nel 1920. Durante la guerra si iscrisse al Partito comunista ungherese e nel 1919 fu commissario del popolo per l’istruzione nella repubblica dei Consigli (in russo soviet). L’esperienza si concluse tragicamente e Lukács si rifugiò a Vienna e poi a Berlino, dove risiedette sino all’avvento del nazismo, svolgendo attività di critico. In questo periodo pubblicò la sua opera più importante, Storia e coscienza di classe (1923), che fu accusata di idealismo e revisionismo e venne condannata dall’Internazionale comunista nel 1924. Lukács accettò la condanna, ritirò il libro dalla circolazione e nel 1933 si rifugiò a Mosca, dove rimase sino alla fine della guerra. Pur essendo stato arrestato per qualche settimana durante la guerra, nella sostanza non si oppose al regime stalinista. Successivamente tornò in Ungheria, dove fu membro del Parlamento e professore all’università di Budapest. All’epoca polemizzò contro l’esistenzialismo di Sartre con Esistenzialismo o marxismo? (1948) e pubblicò vari scritti da lui composti in gran parte già durante il soggiorno in Urss, tra i quali Il giovane Hegel (1948) e La distruzione della ragione (1954), nonché opere di estetica e di storia letteraria. Nel 1956, scoppiata la rivolta in Ungheria, entrò a far parte del nuovo governo – presieduto da Imre Nagy – come ministro dell’Istruzione. Repressa la rivolta dall’esercito sovietico, Lukács fu deportato in Romania, ma rientrò nell’aprile del 1957 a Budapest, dove trascorse i suoi ultimi anni, scrivendo Estetica (1964) e Ontologia dell’essere sociale, opera incompiuta e pubblicata dopo la sua morte avvenuta nel 1971. Nel marxismo – abbracciato durante gli anni della Prima guerra mondiale – Lukács trova l’indicazione della strada attraverso cui gli uomini potranno riconquistare la pienezza della loro essenza. Si tratta, però, di ritrovare il vero Marx, contro i fraintendimenti positivistici, deterministici e materialistici, che tendevano ad applicare alla storia i metodi impiegati nelle scienze naturali. A ciò Lukács provvede con gli otto saggi, scritti fra il 1919 e il 1922, raccolti in Storia e coscienza di classe (1923). Il nucleo del marxismo autentico è da ravvisare per Lukács nella dialettica, intesa come metodo di interpretazione e trasformazione della storia. Lukács riprende da Engels la distinzione tra metodo e sistema nella filosofia di Hegel: mentre il sistema di Hegel è conservatore, la sua dialettica è rivoluzionaria e rappresenta la continuità di metodo tra Hegel e Marx. Ambito di applicazione di essa non è anche la natura, come avevano ritenuto lo stesso Engels e i marxisti di stampo positivistico e materialistico [  approfondimento, p. 59], bensì propriamente solo la storia.

alla ricerca del vero marx

A questo proposito, Lukács riprende la distinzione – propria dello storicismo tedesco – tra scienze della natura e scienze dello spirito. Per comprendere il significato di ciascun fenomeno storico occorre riportarlo, come già aveva riconosciuto Hegel, alla totalità del processo di cui fa parte: in tal modo è possibile cogliere la sua funzione nello sviluppo generale della storia. Il metodo dialettico si differenzia radicalmente dal metodo analitico impie-

il significato degli eventi storici

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gato nelle scienze naturali, le quali assumono i fatti come entità isolate e astrattamente contrapposte: al contrario, la contraddizione appartiene alla realtà e non è il segno che essa non sia stata adeguatamente compresa. A differenza di Hegel, tuttavia, Marx ritiene che il soggetto del processo storico sia non lo spirito, ma l’uomo come essere sociale, sicché ogni evento storico deve essere interpretato in relazione all’insieme dei rapporti sociali che lo caratterizzano. il lavoro dell’uomo è ridotto a merce

Il processo storico è, dunque, una successione di mutamenti nei rapporti sociali. Peculiare del capitalismo – come aveva colto Weber [cfr. 6.8] – è l’estensione della razionalizzazione, del calcolo e della previsione del profitto a tutti i settori della vita sociale. Ciò dà luogo a quella che Lukács chiama reificazione , ossia alla riduzione dei rapporti sociali e dell’esistenza umana a cose: il lavoro è ridotto a merce e gli individui sono spogliati della loro essenza e trasformati in oggetti di scambio. Espressione ideologica di essa è il pensiero reificato, quale si manifesta nella scienza stessa attraverso la distinzione fra soggetto e oggetto e la loro riduzione a entità statiche, contrapposte.

coscienza di classe e falsa coscienza

Solo nel capitalismo è possibile, secondo Lukács, il sorgere di una coscienza di classe , ossia la consapevolezza del fondamento economico della storia. Essa non è l’insieme degli atteggiamenti o delle reazioni psicologiche di un gruppo di individui di fronte ai loro interessi, ma è il riconoscimento della propria situazione storica di classe in relazione alla totalità del processo storico. La borghesia, però, condizionata dai propri interessi di classe, non è in grado di rendersi conto dei caratteri costitutivi del proprio sistema economico-sociale, sicché la sua dimensione ideologica fondamentale è la falsa coscienza, ossia una coscienza erronea o inadeguata della propria situazione di classe. La coscienza di classe del proletariato è, invece, caratterizzata da «un’intenzione verso la verità», ossia da una considerazione dialettica della propria situazione rispetto alla totalità del processo storico.

la missione storica del proletariato

Questa presa di coscienza si costituisce lentamente a causa dei condizionamenti della struttura sociale creata dalla borghesia; essa, tuttavia, è la coscienza della direzione reale e necessaria del processo storico e del compito che entro questo processo spetta al proletariato. Tale compito consiste nella realizzazione di una società senza classi. In altre parole, la coscienza di classe è il manifestarsi di ciò che è storicamente necessario e che per realizzarsi richiede la presa di coscienza della propria situazione da parte del proletariato. In questo senso, essa non è un semplice riflesso meccanico della struttura economica, ma è piuttosto elemento attivo e dinamico che orienta la prassi rivoluzionaria, ossia favorisce la trasformazione consapevole della situazione storico-sociale in conformità alle linee oggettive di sviluppo del processo storico.

la lotta contro l’ideologia borghese

In questa prospettiva, il materialismo storico rappresenta un momento essenziale nel processo di acquisizione della coscienza di classe da parte del proletariato e il metodo scientifico appropriato per la lotta contro l’ideologia borghese. In tal modo, Lukács rivendica la dimensione filosofica del marxismo e attribuisce alla teoria – capace di indicare la direzione del processo storico – una funzione essenziale all’interno della prassi [t35].

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Nel 1923, anno in cui compariva Storia e coscienza di classe, veniva pubblicato anche Marxismo e filosofia di Karl Korsch (1886-1961). Anche quest’opera era polemica contro il materialismo naturalistico che – ripristinando il dualismo tra soggetto e oggetto – costituiva una regressione non solo rispetto a Marx, ma anche rispetto a Hegel. Anche per Korsch si trattava di ritrovare, in opposizione alle tendenze riformiste, la dimensione rivoluzionaria del marxismo. Ciò era possibile soltanto attraverso un recupero dell’inscindibilità di teoria e prassi e, quindi, della centralità della dialettica.

korsch e il carattere rivoluzionario del marxismo

Le tesi di Lukács e di Korsch furono accusate di idealismo e soggettivismo per l’eccessivo peso assegnato alla coscienza di classe rispetto al cammino oggettivo della storia, e condannate dall’Internazionale comunista. Esse, inoltre, contrastavano con il materialismo dialettico, che sarebbe diventato la dottrina ufficiale dell’epoca di Stalin. Per esso, la dialettica è una teoria generale della realtà, non soltanto della storia. Sotto il regime di Stalin una concezione teorica così monolitica era richiesta per garantire l’unità del movimento comunista: alla cultura era demandato il compito di organizzare il consenso intorno alla linea del partito e ogni dissenso doveva essere eliminato.

la condanna dell’internazionale comunista

Korsch non fece autocritica, fu espulso nel 1926 dal Partito comunista tedesco e – proprio in quanto favorevole all’autogestione e ai consigli operai, oltre che alle concezioni spontaneistiche dell’azione rivoluzionaria – condusse un’opposizione allo stalinismo. Nel 1936 emigrò negli Stati Uniti, dove avrebbe sviluppato – in Karl Marx (1938) – un’interpretazione del marxismo come scienza critico-empirica, fondata sull’osservazione, sulla sperimentazione e sulla consapevolezza del carattere storico della scienza e del marxismo stesso.

la rottura di korsch col pc tedesco

Lukács, invece, accettò la condanna, fece autocritica e riconobbe la centralità del partito. Recatosi a Mosca nel 1930, grazie a una borsa di studio, poté conoscere i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx [cfr. 3.5] e rendersi conto di un grave errore da lui compiuto in Storia e coscienza di classe: esso consisteva nell’aver identificato oggettivazione e alienazione e nell’aver pensato che la disalienazione comportasse il superamento dell’oggettivazione. Marx, invece, chiariva che l’oggettivazione è costitutiva del rapporto dell’uomo con la natura ed è pertanto ineliminabile, mentre l’alienazione è specifica della società capitalistica. Per Lukács si trattava di ricominciare da capo, continuando a tener salda la categoria di totalità, ma senza accentuare eccessivamente il peso del momento soggettivo della prassi rivoluzionaria rispetto al condizionamento oggettivo della base economica.

l’autocritica di lukács

A questo riguardo, Lukács non rinuncia alla linea di continuità tra Hegel e Marx; anzi, egli scopriva nel giovane Hegel un’anticipazione del giovane Marx, proprio per l’attenzione portata alle contraddizioni della realtà economico-sociale. A causa dell’arretratezza di tale realtà, tuttavia, Hegel aveva sviluppato le sue riflessioni in maniera idealistica, per esempio teorizzando il primato dello Stato rispetto alla società civile. In ogni caso, come egli mostrava nell’opera Il giovane Hegel (1948), la filosofia hegeliana non poteva es-

l’ultima fase del pensiero di lukács

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sere ridotta a una filosofia mistica e romantica. Lungo questa linea regressiva – antidialettica e antirazionalistica – era invece proceduta la cultura borghese da Schelling a Nietzsche, da Dilthey a Heidegger, sino a culminare nel nazismo, come egli cercava di ricostruire nell’altra sua opera, La distruzione della ragione (1954).

3. Bloch e Benjamin: marxismo e utopia la questione del futuro

Altre interpretazioni del marxismo erano sviluppate in Germania nella prima metà del Novecento da Bloch e Benjamin. Essi sono interessati a evidenziarne soprattutto la forte carica utopica, ovvero il richiamo alla costruzione di un futuro nuovo, radicalmente diverso dal presente.

vita e opere di bloch

Ernst Bloch nacque nel 1885 a Ludwigshafen da famiglia ebrea, studiò in varie città tedesche, fu a Berlino e a Heidelberg, dove strinse amicizia con Lukács. Pacifista, durante la guerra si rifugiò in Svizzera e si avvicinò al marxismo. Nel 1918 pubblicò Spirito dell’utopia (poi rielaborato nel 1923), a cui fecero seguito Thomas Münzer come teologo della rivoluzione (1921) e la raccolta di aforismi e parabole Tracce (1930). Nel 1933 emigrò prima a Zurigo, poi a Vienna e a Parigi e, infine, negli Stati Uniti, dove rimase sino al 1949, quando tornò nella Germania orientale per insegnare all’università di Lipsia. Qui fu tra i fondatori della «Deutsche Zeitschrift für Philosophie» («Rivista tedesca di filosofia») e pubblicò una vasta opera su Hegel (Soggetto-oggetto, 1949), nonché il suo scritto più importante Il principio speranza (1954-59). Nel 1957, accusato di idealismo irrazionalistico, antimaterialistico e antidialettico, Bloch fu messo a riposo forzato e alcuni suoi allievi furono arrestati. Nel 1961 – trovandosi in Baviera, in coincidenza con la costruzione del muro di Berlino – Bloch decise di non rientrare in Germania orientale e assunse l’insegnamento all’università di Tubinga, dove morì nel 1977.

contro il pensiero oggettivo e contemplativo

L’assunto iniziale di Bloch è che la realtà data non appaga mai pienamente il soggetto e in questo senso non è «vera»: la verità a cui egli tende – immaginando e desiderando ciò che gli manca – è allora utopia, che trascende il presente in direzione del futuro. Bloch respinge, pertanto, ogni forma di pensiero contemplativo, inteso come rispecchiamento puramente passivo di ciò che è già stato, irrigidito in un eterno presente. Egli si pronuncia contro il mito dell’imparzialità di un presunto sapere oggettivo; in realtà, il pensiero corrisponde sempre a una presa di posizione e la contemplazione equivale all’accettazione della realtà esistente. Il pensiero utopico, invece, scopre tracce dell’avvenire nel passato e oltrepassa sempre il dato per puntare al futuro, che ha una posizione di primato.

i due tipi di dialettica

Al centro del pensiero utopico vi è la dialettica: quest’ultima si rivela essenziale non solo per inserirsi efficacemente nella realtà con tutte le sue contraddizioni, ma anche per realizzare la verità utopica. Bloch avverte, tuttavia, che esistono due tipi di dialettica: 1) la prima è statica e chiusa, e consiste – da Platone a Hegel – nella semplice rimemorazione di ciò che è già stato, pietrificato in essenza; 2) la seconda è dinamica e aperta al nuovo,

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mantiene costantemente la possibilità che il reale non sia ancora razionale e scava sottoterra come una talpa per arrivare alla luce. A fondamento di questa impostazione, Bloch costruisce una vera e propria antropologia: l’uomo è un essere caratterizzato da bisogni e la pulsione fondamentale è l’autoconservazione. Nell’uomo essa si affina e si eleva sopra l’immediatezza, arricchendosi e tramutandosi in affetti, soprattutto in quelli non immediatamente appagabili, che si rapportano al futuro. In questo senso, la speranza – come aspettazione del nuovo apportatore di salvezza – occupa una posizione di primato tra gli affetti.

la speranza come primo affetto dell’uomo

Bloch ritiene che questa tendenza costante nell’uomo a trascendere ciò che di volta in volta è dato abbia una base nella materia stessa. Egli respinge il concetto di materia proprio del positivismo e operante anche nel materialismo dialettico, per cui la materia sarebbe soltanto passività, caratterizzata da movimenti puramente meccanici, ai quali sarebbe estraneo qualsiasi scopo. La materia è invece potenzialità, pervasa da un impulso (in tedesco Trieb) immanente verso la propria realizzazione in forme sempre nuove, ossia verso una meta ancora latente (o non ancora raggiunta).

una diversa concezione della materia

Alla base dell’antropologia e della concezione della materia di Bloch vi è una ontologia del non-essere-ancora, in base alla quale il futuro è già reale come possibilità oggettiva. L’esistere originario nella sua fattualità è – al tempo stesso – impulso, bisogno e, quindi, inizio del movimento verso qualcosa: il non del non-essere-ancora genera il divenire e si trasforma in non ancora, allontanamento dal punto di partenza, giudicato inferiore e negativo rispetto alla meta a cui si tende. Il superamento della negatività avviene attraverso l’anticipazione del futuro (nella speranza) e attraverso la rivoluzione (come attuazione di essa). Il non ancora indica il contenuto utopico finale, ancora latente e non ancora definibile nei suoi precisi contenuti. Esso, infatti, è una totalità non ancora data né sperimentata, ma è appunto una meta ultima, un èschaton.

la meta ultima è il non ancora

Per questo aspetto, il marxismo di Bloch si connette alle dottrine religiose della salvezza e alle tradizioni del messianismo giudaico-cristiano, presentandosi come una forma di escatologia. Ciononostante, per Bloch, l’èschaton non è il ricongiungimento con una situazione originaria – antecedente al peccato – ma consiste nel radicalmente nuovo, imprevedibile e inimmaginabile. Anzi, senza ateismo – ossia senza l’eliminazione di Dio assunto come un’entità data – non è possibile trascendere utopicamente verso un futuro aperto. Il regno della libertà non è il regno di Dio, ma il regno dell’uomo nuovo su una terra nuova. In altre parole, esso è il regno della fine dello sfruttamento dell’uomo e della natura, in cui natura e uomo possano trovare il proprio compimento in un’alleanza pacifica tra essi .

un’escatologia terrena

Amico di Bloch, Walter Benjamin (1892-1940) era nato da ebrei benestanti a Berlino, dove aveva vissuto nel dopoguerra, collaborando a riviste e giornali e pubblicando, nel 1928, una raccolta di aforismi – Strada a senso unico – e poi il Dramma barocco tedesco. Nel 1933, all’avvento del regime nazista, si recò in esilio a Parigi, dove pubblicò sulla rivista dell’Istituto per la ricerca so-

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ciale (Institut für Sozialforschung [cfr. 12.4]) il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Nel 1939 fu internato in Francia in un campo di lavoro, ottenne un visto per gli Stati Uniti, ma non essendo riuscito a passare i Pirenei, si avvelenò, lasciando numerosi altri scritti inediti, tra i quali le Tesi di filosofia della storia. la fine dell’aura

Una delle sue tesi più celebri è che lo sviluppo delle forze produttive, rendendo possibile tecnicamente la riproducibilità delle opere d’arte, ha messo fine all’alone di unicità, originalità e irripetibilità dell’opera d’arte, ossia all’aura, che la circonda di sacralità agli occhi della borghesia, la quale proietta in essa i suoi ideali aristocratici. La riproducibilità tecnica segna il trionfo della copia e del «sempre uguale», per uomini rimasti privi di saggezza; ma in ciò, secondo Benjamin, si annida un potenziale rivoluzionario, perché apre alle masse, soprattutto nelle forme del cinema e della fotografia, l’accesso all’arte e alle sue capacità di contestazione dell’ordine esistente.

messianismo e marxismo rivoluzionario

Benjamin contesta le visioni ottimistiche del progresso, condivise anche dai marxisti socialdemocratici tedeschi (ad esempio Bernstein [cfr. 3.9]), secondo cui la storia è un cammino lineare di sviluppo crescente. Tali concezioni, infatti, si pongono dal punto di vista dei vincitori nella storia, anziché rimettere in questione le vittorie di volta in volta toccate alle classi dominanti. Si tratta, invece, di «spazzolare la storia contropelo», strappandola al conformismo delle classi dominanti, e di accostarsi al passato come profezia di un futuro. La sola possibilità di vittoria per il materialismo storico risiede, per Benjamin, nel recupero della tradizione messianica: essa permette di concepire il tempo come un processo non lineare, solcato da improvvisi istanti rivoluzionari che frantumano la continuità storica. Occorre liberarsi, infatti, dalla fede cieca in un progresso meccanico, perché nella storia non c’è un tèlos, o un fine garantito .

4. Horkheimer e la Scuola di Francoforte l’attività presso l’istituto per la ricerca sociale

Nel febbraio del 1923 viene ufficialmente aperto a Francoforte – grazie a una donazione privata – l’Istituto per la ricerca sociale (Institut für Sozialforschung), sotto la direzione dello storico marxista Karl Grünberg. Di esso fanno parte economisti, sociologi, psicologi e filosofi, tra i quali Max Horkheimer, che nel 1931 ne diventa a sua volta direttore. Nato nel 1895 nei pressi di Stoccarda da una ricca famiglia ebrea, dopo aver lavorato presso l’impresa paterna, si laurea con una tesi su Kant nel 1922 a Francoforte, dove nel 1929 diventa professore di Filosofia sociale. Nel 1932 iniziano le pubblicazioni della rivista dell’Istituto – la «Zeitschrift für Sozialforschung» – alla quale collaborano Adorno, Fromm, Marcuse e numerosi altri e sulla quale Horkheimer pubblica vari articoli, poi raccolti nel volume Teoria critica (1968).

il soggiorno statunitense e il ritorno in germania

Nel 1933 – con l’avvento del nazismo – Horkheimer è espulso dall’università, l’Istituto viene chiuso e trasferisce la propria sede in Svizzera e poi, dal 1934, a New York. La rivista continua le sue pubblicazioni a Parigi, sino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti. Lo stesso Horkheimer si trasferi-

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Benjamin La storia e l’istante

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sce a New York e dal 1941 in California, divenendo cittadino americano. Durante un soggiorno negli Stati Uniti egli pubblica in inglese l’Eclisse della ragione (1947) e in tedesco, in collaborazione con Adorno, la Dialettica dell’Illuminismo (1947). Nel 1950 escono, sempre negli Stati Uniti, i risultati di una ricerca collettiva dell’Istituto, sotto il titolo Studi sulla personalità autoritaria, ma nel frattempo Horkheimer, pur continuando a conservare la cittadinanza statunitense, torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia nell’università di Francoforte, e con lui torna anche l’Istituto, soprannominato dagli studenti entusiasti «Caffé Max». Nel 1951 è nominato rettore dell’università e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano, dove muore nel 1973. Obiettivo originario dell’Istituto è il ripristino del marxismo, ma tenendo conto dei mutamenti della situazione storico-sociale. Soprattutto dopo la grande crisi economica del 1929, il capitalismo sembra assumere un nuovo aspetto e trasformarsi – sia nelle democrazie occidentali, sia nelle dittature di destra, sia nell’Unione Sovietica – in capitalismo di Stato. Ciò comporta che non è più possibile parlare di una struttura economica autonoma rispetto alla politica: contrariamente alla teoria di Marx, lo Stato pare riassumere il primato rispetto alla società civile e impedire – con il suo intervento diretto nella sfera economica – l’impoverimento crescente del proletariato. In questa situazione si assiste a una progressiva perdita di impulso rivoluzionario nella classe operaia, con la conseguente sfiducia – comune agli autori che fanno capo alla Scuola di Francoforte – nel fatto che essa possa ancora essere il motore di una trasformazione radicale della società. Ostili alla socialdemocrazia, considerata traditrice degli obiettivi rivoluzionari, ma anche al comunismo sovietico, essi si tengono per lo più lontani dall’attività politica diretta.

le trasformazioni del capitalismo

Non scorgendo più all’orizzonte un agente sociale della rivoluzione e ritenendo ormai impossibile su questa base una previsione scientifica del crollo del capitalismo, questi autori ritornano, in qualche modo, a un’impostazione simile a quella della sinistra hegeliana dopo la morte di Hegel: essi riconoscono la discordanza tra la razionalità e la società esistente, che merita dunque di essere sottoposta a critica. In questo senso, essi intendono elaborare una teoria critica della società, nella quale occupa una posizione centrale la dialettica, intesa – in analogia con il primo Lukács [cfr. 12.2] – come metodo per la trasformazione della società. A differenza di Lukács, tuttavia, la teoria critica non è concepita come semplice espressione della coscienza di classe.

teoria critica e dialettica

L’intellettuale critico non è un ripetitore delle tendenze conformistiche del proletariato e la dialettica, di cui egli si avvale, è volta ad accertare le contraddizioni esistenti, ma senza la certezza di un superamento di esse in una sintesi finale. In questa prospettiva, torna ad aprirsi un nuovo spazio per l’utopia, la quale però consiste – più che nella delineazione di un programma da perseguire e nella definizione dei caratteri della società libera del futuro – nella denuncia e nel rifiuto di ciò che è falso nel presente. Nel pensiero dialettico assume, pertanto, rilevanza primaria il momento della negazione.

utopia e negazione del presente

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la separazione tra teoria e prassi

Secondo Horkheimer, non è possibile conoscere la totalità che è sempre incompiuta: nessun aspetto della realtà può essere compreso come definitivo. Questa è l’illusione del positivismo e della scienza stessa, che ritiene che l’oggetto della conoscenza siano i fatti, nel senso letterale di entità compiute e separate dai valori. Nel saggio Teoria tradizionale e teoria critica (1937) Horkheimer sostiene che gli scienziati sono inseriti nell’apparato sociale e contribuiscono alla continua riproduzione di esso. Il livello raggiunto dalla divisione sociale del lavoro porta, infatti, a una separazione fra teoria e prassi e ad attribuire al sapere una funzione sociale. Su questa base si costituiscono le forme tradizionali di teoria, le quali mirano soltanto a descrivere fatti e – per questa via – a giustificare lo stato di cose esistente, oppure – nei casi in cui sono orientate all’azione – sono finalizzate al dominio tecnologico della natura e degli uomini.

la critica della società esistente

Horkheimer, infatti, ritiene che sia impossibile una ricerca scientifica pienamente disinteressata: gli scienziati e i ricercatori fanno parte della società che studiano e non possono uscire da essa. Nella migliore delle ipotesi, essi possono soltanto individuare all’interno della società forze e tendenze negative, che rimandano a una realtà diversa. Qui s’innesta il compito della teoria critica, cosciente della scissione unilaterale fra teoria e prassi e orientata a superarla. Il suo strumento fondamentale è la ragione, che non deve essere confusa con il senso comune o con l’intelletto: questi ultimi, infatti, non sono capaci di andare oltre l’immediatezza dei dati e di cogliere le contraddizioni e i nessi dialettici presenti nella realtà. La ragione deve, invece, riassumere il compito di tribunale critico della realtà: per essa è «vero» non un insieme di dati di fatto, ma tutto ciò che produce un cambiamento nella direzione di una società razionale, e cioè la possibilità di un diverso ordine delle cose .

5. Horkheimer e Adorno: Illuminismo e ragione gli aspetti regressivi del progresso

Il soggiorno negli Stati Uniti pone Horkheimer, e gli intellettuali facenti capo all’Istituto, di fronte alla realtà globale e monolitica di una società industriale avanzata. Essa appare caratterizzata – fra l’altro – da uno straordinario sviluppo dell’industria culturale, che contribuisce – anche se in modo più sottile e meno brutale della costrizione fisica – a rendere gli individui uniformi e passivamente sottomessi al sistema sociale. Ma allora perché l’umanità – nonostante gli straordinari progressi tecnici – «anziché entrare in uno stato veramente umano, sprofonda in un nuovo genere di barbarie»?

l’illuminismo nega se stesso

Nel tentativo di trovare una risposta Horkheimer compone – insieme all’amico Adorno – la Dialettica dell’Illuminismo (1947). Si tratta di spiegare come mai l’Illuminismo, che ha come obiettivo la liberazione dell’umanità dalle paure e dalle superstizioni mediante la ragione, si sia capovolto dialetticamente nella sua negazione, ossia nell’autodistruzione dell’Illuminismo.

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Horkheimer La teoria critica

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La via perseguita dall’Illuminismo per liberare gli esseri umani dalle paure consiste nel renderli padroni della natura mediante la scienza: il sapere si identifica con il potere, come avviene esplicitamente in Bacone, e la ragione si configura come strumento di dominio. In tal modo, però, l’Illuminismo fa propri i contenuti dei miti che ha abbattuto, limitandosi a trasferire da Dio all’uomo il dominio sull’esistente: la differenza è che la natura non è più dominata assimilandosi a essa attraverso la magia e l’imitazione, ma mediante il lavoro. L’accrescimento del potere degli uomini ha però il costo di una loro estraniazione dalla natura e dalle cose su cui lo esercitano, ossia di un distacco del soggetto dall’oggetto. Questa è la premessa sulla quale si costituisce l’astrazione, che annulla le differenze individuali, rende equivalente ciò che è eterogeneo e prepara le cose a essere manipolate nell’industria.

il dominio dell’uomo sulla natura

Che effetti ha il dominio della ragione umana sulla natura? Secondo Horkheimer e Adorno, ciò che appare come trionfo della razionalità scientifica viene pagato con la sottomissione della ragione a ciò che è dato. In questo contesto, il pensiero viene ridotto a cosa o strumento (ovvero, «reificato») e destinato a compiti organizzativo-amministrativi all’interno di un apparato di dominio che tende a produrre uniformità e conformismo. A ciò contribuisce l’industria culturale, la quale trasforma la cultura in una merce oggetto di scambio come le altre merci e, al tempo stesso, esercita grande potere sul consumatore grazie alla mediazione del divertimento. Espressioni tipiche di essa sono la radio e il cinema, i quali portano lo spettatore a identificarsi con la realtà, ridotta a una serie di personaggi stereotipati, che rappresentano l’«apoteosi del tipo medio». In tal modo, essi tolgono spazio alla possibilità di pensare ciò che è inconsueto, portano all’atrofia dell’immaginazione e riducono ogni capacità di resistenza di fronte alla realtà esistente.

l’industria culturale e la reificazione del pensiero

Secondo Horkheimer e Adorno, l’Illuminismo non ha portato a compimento la liberazione dell’uomo per la rinuncia al pensiero come apertura al nuovo, rovesciandosi così in una nuova mitologia, depurata da dèi e demoni, ma anch’essa fondata sull’accettazione passiva dei fatti [t36]. A differenza della tradizione marxiana, Horkheimer e Adorno non intendono per Illuminismo l’ideologia della borghesia in ascesa; essi, anzi, includono lo stesso Marx – in quanto teorico del lavoro come autorealizzazione dell’uomo – nel solco dell’Illuminismo. In realtà, a loro avviso, la storia dell’Illuminismo coincide con l’intera storia della civiltà e del pensiero occidentale: al centro di esso vi è l’idea dell’uomo come padrone unico e assoluto del mondo.

l’illuminismo e l’occidente

Temi collegati a questi sono sviluppati da Horkheimer nell’opera da lui pubblicata sempre nel 1947, l’Eclisse della ragione. Il termine ragione, secondo Horkheimer, è impiegato in molti significati: 1) in senso oggettivo, essa – già a partire da Platone e Aristotele – ha il compito di individuare un ordine oggettivo e gerarchico dei fini; 2) in senso soggettivo – dominante in età moderna e formulato con chiarezza da Max Weber – la ragione ha il compi-

il primato della ragione strumentale

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to di determinare quali siano i mezzi adeguati al raggiungimento degli scopi. In quest’ultimo significato, la ragione ha rinunciato a definire gli scopi ultimi e in tal modo si è svuotata di precisi contenuti e si è formalizzata. La conseguenza è che essa è diventata ragione strumentale , adattabile a qualunque scopo e, quindi, subordinata all’assetto sociale esistente. In questa situazione, le forze economiche e sociali si configurano come cieche forze naturali, che l’uomo – se vuole sopravvivere – deve dominare adattandosi a esse, obbedendo a schemi generali di comportamento. Il risultato è una natura ridotta a pura materia da dominare; l’io stesso smarrisce ogni spontaneità nel suo agire, si trova svuotato e ridotto all’esercizio delle pure funzioni di dominio e di organizzazione. In conclusione, il dominio è l’idolo a cui tutto viene sacrificato. la ragione ragionevole e il compito della filosofia

Nata dal bisogno umano di dominare la natura, la ragione è diventata strumento di dominio. In ciò consiste la malattia della ragione. Da essa possono scaturire: 1) la rassegnazione, che consiste nell’accettare l’identità di ragione e dominio come se si trattasse di una legge eterna, con la conseguente repressione degli impulsi naturali; 2) la rivolta, che richiede un’autocritica da parte della ragione. Ciò significa che la ragione può diventare ragionevole, solo riflettendo sul «male del mondo» così come è prodotto e riprodotto dall’uomo, ossia riconoscendo l’esistenza di un antagonismo odierno tra soggetto e oggetto, io e natura, parola e cosa. In tal modo, la filosofia – acquistando questa consapevolezza – può contribuire a sovvertire il processo storico, ma senza regredire alle vecchie concezioni metafisiche della ragione oggettiva: per essa, infatti, ogni concetto deve essere visto come frammento di una verità più vasta, non ancora data, in cui esso trova il suo significato.

6. Adorno: il negativo e l’arte la vita e le opere

Altra grande figura di pensatore che opera all’interno dell’Istituto per la ricerca sociale è quella di Theodor Wiesengrund Adorno, nato nel 1903 a Francoforte da un ricco commerciante ebreo e da una madre italiana, di cui assunse il cognome. Iniziò da giovane a studiare pianoforte e composizione e nel 1924 si laureò a Francoforte con una tesi su Husserl, da cui sarebbe poi scaturito il volume Per la metacritica della gnoseologia. Studi su Husserl e le antinomie della fenomenologia, pubblicato nel 1956. Dopo essersi recato a Vienna, dove ebbe contatti con Alban Berg e con Schönberg, nel 1928 tornò a Francoforte, dove cominciò la sua collaborazione con l’Istituto. Il primo volume da lui pubblicato fu la tesi di abilitazione intitolata Kierkegaard, la costruzione dell’estetico (1933). Nei primi anni del regime nazista rimase in Germania, anche se si recò sovente a studiare al Merton College di Oxford. Successivamente emigrò negli Stati Uniti, dove, dal 1938 al 1941, diresse la sezione musicale della radio a Princeton. Durante la guerra scrisse la Dialettica dell’Illuminismo, in collaborazione con Horkheimer, nonché la Filosofia della musica moderna (1949), e fu in rapporto con Thomas Mann, al quale

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diede suggerimenti per la composizione delle parti di argomento musicale del romanzo Doctor Faustus. Tornato in Germania, fu dal 1950 vice direttore e dal 1958 direttore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte sino al 1969, anno della sua morte. A questo periodo risalgono Minima moralia (1951), Prismi. Critica della cultura e società (1955), Introduzione alla sociologia della musica (1962), Dialettica negativa (1966) e Teoria estetica, pubblicata postuma nel 1970. Uno dei maggiori centri di interesse della riflessione di Adorno è dato dalla dialettica hegeliana. A suo avviso, essa costituisce il solo metodo capace di cogliere il movimento del reale e di liberare dal falso presupposto «che ciò che perdura è più vero di ciò che passa». Hegel, tuttavia, partendo dall’assunto che fosse possibile cogliere con il pensiero il reale nella sua totalità, aveva legato strettamente la dialettica al sistema. Adorno, invece, capovolge il detto hegeliano secondo cui il vero è nel tutto, affermando che «il tutto è il non vero»: la società esistente, infatti, nella sua totalità è falsa, non corrisponde al criterio della piena razionalità.

l’irrazionalità della società esistente

Per questo egli respinge l’illusoria pretesa di costruire un sistema, attribuendo invece importanza a quanto è secondario, fuori della norma, negativo. Per cogliere questi aspetti della realtà, occorre procedere per saggi, per tentativi capaci di non annegare le differenze nella totalità: in questo senso, la forma letteraria più adeguata appare l’aforisma, più che il trattato. Di aforismi è costituito, infatti, il libro forse più significativo di Adorno, i Minima moralia, che hanno per sottotitolo «Riflessioni della vita danneggiata»: lacerata appare ad Adorno la vita del presente, ridotta alla sfera del privato e del semplice consumo, priva di autonomia e sostanza propria. In questa situazione, l’unica via percorribile per la filosofia consiste nella riflessione privata, che ha il compito di disturbare, più che di consolare.

l’attenzione per le differenze

In questo orizzonte, la funzione determinante entro il pensiero dialettico viene assunta dalla negazione: questo è il tema portante dello scritto teorico più complesso di Adorno, la Dialettica negativa. La dialettica hegeliana, secondo Adorno, è mistificata perché considera il finito e il negativo come un momento puramente provvisorio, destinato a dissolversi nella conciliazione finale e nella riacquistata identità di soggetto e oggetto, di razionale e reale. Essa commette lo stesso errore del pensiero tradizionale, che considera come proprio fine l’identità, ossia la riduzione dell’altro e del diverso all’uguale. Concependo la negazione come lo strumento per l’instaurazione del positivo, Hegel attribuisce alla negazione stessa un carattere affermativo. Per Adorno, ciò equivale a introdurre un’identità tra negazione e affermazione, ossia un principio formale antidialettico (l’identità) nel cuore della dialettica stessa. In tal senso, la dialettica hegeliana si configura come una logica del dominio, che legittima l’esistente, in quanto appare orientata alla neutralizzazione dei conflitti e alla conciliazione delle opposizioni presenti nella realtà.

la critica alla dialettica hegeliana

Al contrario, secondo Adorno, il compito autentico della dialettica è quello di affermare la non-identità e l’alterità, lasciando sussistere le contraddizio-

la dialettica come riconoscimento dell’alterità

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ni e resistendo all’allettante possibilità di una loro sintesi metafisica. La realtà non è come deve essere e, pertanto, il compito dei filosofi è di esprimere – in rappresentanza dei più – ciò che questi, a causa delle costrizioni sociali, non sono in grado di scorgere oppure si rifiutano di vedere. i fatti e il sistema della società

La riflessione critica di Adorno investe – oltre alla concezione hegeliana della dialettica – anche la nozione di totalità – del resto connessa a essa. Per Adorno, la totalità non è pensabile nei termini di una consapevolezza compiuta della realtà in qualche modo raggiungibile; al contrario, essa rappresenta soltanto uno strumento concettuale necessario per cogliere le contraddizioni della società attuale. A partire da questo punto è sorto un dibattito in Germania – negli anni Sessanta – sul metodo della sociologia (la cosiddetta Methodenstreit), nel quale sono intervenuti – tra gli altri – Adorno e Popper [cfr. 17.7]. Contro il culto dei fatti proprio del positivismo e della sociologia empirica, Adorno ribadisce che i fatti sono risultati di processi storici, sicché nessun fenomeno sociale può essere colto nel suo significato se non si fa riferimento al sistema della società nella sua totalità. Ciò non significa che questa totalità sia a sua volta descrivibile, una volta per tutte, nella globalità dei suoi aspetti; essa può, invece, essere conosciuta solo nella misura in cui si manifesta nei fatti particolari. In questo senso, i fatti non sono identici alla totalità, ma la totalità non esiste al di là dei fatti. La pretesa che esista un metodo del tutto obiettivo – esente dal riferimento ai valori – è per Adorno del tutto illusoria.

l’arte come protesta e come utopia

Nella situazione attuale, l’unico barlume di speranza è offerto dall’arte. L’arte e la cultura, secondo Adorno, non sono riducibili a un mero riflesso ideologico di classe e non costituiscono ambiti separati dalla società. La creazione artistica, infatti, non è puramente individuale, ma esprime tendenze sociali oggettive che l’autore stesso non avverte; inoltre, finché la realtà oggettiva è contraddittoria, la conciliazione delle contraddizioni sul piano estetico non è mai compiuta del tutto. L’opera d’arte, dunque, deve sempre contenere un elemento di protesta nei confronti della realtà esistente e una dimensione utopica, come «promessa di felicità» futura, secondo un detto di Stendhal, scrittore amato dagli autori della Scuola di Francoforte.

la musica e l’industria culturale

Tra le arti, quella meno caratterizzata da contenuti rappresentativi è la musica. Per questo motivo, essa appare ad Adorno come la più adatta a esprimere – nella sua indeterminatezza – ciò che è altro rispetto alla situazione presente. Molta musica è però ridotta a pura merce e oggetto di consumo; essa – come numerose forme di cultura popolare (incluso il jazz, avversato da Adorno) – contribuisce al rafforzamento degli atteggiamenti conformistici e assolve a una funzione puramente ideologica di evasione dalla realtà. Nell’industria culturale e nella riproducibilità delle opere d’arte, come nel cinema e nella fotografia, Adorno non scorge alcun potenziale rivoluzionario : L’industria culturale pretende ipocritamente di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano. Ma mentre si studia di respingere ogni idea di

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Adorno La triste scienza e l’industria culturale

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autonomia ed erige a giudici le sue vittime, la sua autarchia e sovranità effettiva – che essa cerca invano di nascondere – supera tutti gli eccessi dell’arte più «autonoma». L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. [...] L’industria culturale è modellata sulla regressione mimetica, sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi: essa si serve del metodo di anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore e di fare apparire come già esistente l’intesa che mira a creare. E ci riesce tanto meglio in quanto – in un sistema stabile – può effettivamente contare su quell’intesa: intesa che, perciò, non si tratta tanto di produrre, quanto di ripetere ritualmente. [...] Con questo procedimento la macchina culturale piomba sullo spettatore come il direttissimo ripreso frontalmente nell’attimo di massima tensione. Il tono di ogni film è quello della strega che somministra il cibo ai piccoli che intende ammaliare o divorare, con la raccapricciante litania: «Buona la minestrina, ti piace la minestrina? Ti farà tanto bene, tanto bene» (Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, parte 3, n. 129).

A differenza dell’industria culturale le avanguardie artistiche – in particolare la musica atonale dodecafonica di Schönberg – riescono a esprimere il rifiuto a esprimere il rifiuto di scendere a compromessi con le dissonanze e le contraddizioni irrisolte della realtà.

7. Marcuse e «il grande rifiuto» Tra i pensatori legati alla Scuola di Francoforte, chi più utilizzò le riflessioni di Freud sulla civiltà fu Herbert Marcuse (1898-1979). Nato a Berlino da ricca famiglia ebrea, si laureò nel 1921 a Friburgo, dove tornò nel 1929 per studiare con Husserl e Heidegger: il risultato di questo periodo è L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, pubblicato nel 1932. Nello stesso anno – per tensioni con Heidegger, che si stava sempre più avvicinando al movimento nazionalsocialista – Marcuse lasciò Friburgo e divenne membro dell’Istituto di Francoforte, ma poco dopo, con l’avvento del regime nazista, dovette abbandonare la Germania ed emigrare negli Stati Uniti. Qui per vari anni, sino al 1950, fu impegnato a lavorare per il Dipartimento di Stato americano; dal 1951 al 1954 fu anche incaricato di svolgere una ricerca sull’Unione Sovietica, conclusa con la pubblicazione di Marxismo sovietico (1958). Nel frattempo, Marcuse aveva già pubblicato in inglese un nuovo studio su Hegel, Ragione e rivoluzione (1941), e nel 1954 era diventato professore alla Brandeis University. Inizia allora la pubblicazione delle sue opere più note, Eros e civiltà. Un’indagine filosofica su Freud (1955) e L’uomo a una dimensione. Studi sull’ideologia della società industriale avanzata (1964), che diventeranno testi canonici durante gli anni della contestazione studentesca negli Stati Uniti e in Europa. Nominato professore all’università di San Diego, in California, nel 1965, contribuì alle lotte e alle discussioni nate nel 12. interpretazioni e sviluppi del marxismo

la vita e le opere

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movimento degli studenti con altri scritti, quali la Critica della pura tolleranza (1965), un’intervista dal titolo La fine dell’utopia (1967) e il Saggio sulla liberazione (1969). freud e l’origine della civiltà

Uno dei principali obiettivi dell’indagine filosofica di Marcuse è dato dallo studio dei caratteri repressivi della società industriale avanzata. A tal fine, in Eros e civiltà, egli si confronta criticamente con la teoria freudiana del costituirsi della civiltà [cfr. 11.3]. Per Freud, la civiltà inizia quando l’umanità rinuncia al soddisfacimento immediato delle proprie pulsioni e sostituisce il principio di realtà al principio del piacere. La civiltà comporta, dunque, necessariamente il differimento dei piaceri e la repressione degli istinti: la società impone una modificazione nella struttura degli istinti stessi, in quanto non ha i mezzi sufficienti per mantenere in vita i suoi membri se non imponendo a essi il lavoro e canalizzando le loro energie sessuali su di esso.

dal principio di realtà al principio di prestazione

Ma questa repressione è un fatto costitutivo e ineliminabile della civiltà umana oppure soltanto un fenomeno storico, che può dunque essere modificato? Secondo Marcuse, la scarsità di beni necessari a soddisfare i bisogni umani non è un fatto naturale, ma la conseguenza di una distribuzione iniqua dei beni destinati a soddisfare i bisogni umani. In altri termini, Freud ha scambiato per società tout court quello che è un assetto sociale determinato. In tal modo, alla repressione connessa all’instaurarsi del principio di realtà – necessario alla sopravvivenza dell’umanità – viene ad aggiungersi una repressione addizionale , fondata sul principio di prestazione [t37]. Tale repressione è connessa alle restrizioni imposte dal dominio sociale e alla stratificazione della società secondo le prestazioni, ossia il lavoro fornito dai vari individui all’apparato complessivo della società. I canali di produzione della repressione addizionale sono indicati da Marcuse nella struttura familiare patriarcale-monogamica, nella canalizzazione della sessualità in direzione della genitalità e soprattutto nella divisione gerarchica del lavoro e nell’amministrazione collettiva dell’esistenza privata.

dalla società totalitaria alla liberazione dell’èros

In questa situazione, la società tende a essere totalitaria, ossia a rendere impossibile ogni opposizione. Di fatto, l’apparato produttivo ha raggiunto un tale livello di sviluppo da creare bisogni falsi e artificiali allo scopo di impedire la liberazione degli individui dal dominio. Proprio confrontandola alle potenzialità non repressive che essa contiene, la società contemporanea può essere criticata e si può aprire lo spazio per la fantasia, la quale conserva tracce dell’impulso al piacere: grazie a essa, diventa possibile immaginare – sulla scorta di suggestioni desunte da Schiller e da Fourier – una società utopica non repressiva nella quale l’èros è liberato e meno energie istintuali sono investite nel lavoro, che finisce così per diventare attraente e trasformarsi in gioco.

il benessere e la tolleranza repressiva delle democrazie

Nell’opera successiva, L’uomo a una dimensione, Marcuse nutre minori speranze in una possibilità di liberazione, perché la società industriale avanzata appare totalitaria, unidimensionale. Nella stessa tecnologia, egli riconosce uno strumento per istituire nuove forme di controllo e di coesione sociale,

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più piacevoli e quindi più efficaci. Ciò significa che è proprio l’innalzamento del tenore di vita, dovuto ai progressi tecnici raggiunti nella società opulenta, a diventare veicolo di repressione: esso, infatti, genera il bisogno ossessivo di produrre e di consumare e ottunde le capacità di resistenza e di opposizione al sistema. In questa situazione, trova spazio quella che Marcuse chiama tolleranza repressiva: grazie all’estensione in massa di valori culturali che vengono appiattiti sull’ordine sociale esistente, si verifica anche una concessione di libertà apparenti, che non ledono gli interessi dominanti e, anzi, rafforzano la persistenza della repressione. Nelle democrazie moderne, infatti, la tolleranza – secondo Marcuse – coincide con il permissivismo, perché viene concessa sulla base dell’assunto che nessuno è in possesso della verità e che le scelte spettano alla collettività composta di individui capaci di decidere. In realtà, la società – come amministrazione totale dell’esistenza degli individui – produce esattamente l’effetto contrario, ossia un generale conformismo. Anche il pensiero corrispondente a questa situazione è unidimensionale, modellato sulla realtà esistente e incapace di opposizione critica. Questa è l’imputazione che Marcuse muove ad alcune delle tendenze più significative della filosofia del Novecento, dal pragmatismo al neopositivismo, alla filosofia analitica. In esse, secondo Marcuse, la verità di una teoria è riposta nella constatazione empirica dei fatti o nel successo conseguito praticamente con essa o nella sua conformità alle regole del linguaggio comune. Ciò significa che la ragione e il linguaggio non appaiono più capaci di trascendere i fatti e la realtà esistente. Il compito della filosofia consiste, invece, nell’opporre un grande rifiuto alla società esistente, tenendo in piedi la possibilità di alternative e mantenendosi fedeli al contenuto universale dei concetti: i concetti di bellezza o di libertà, infatti, racchiudono anche tutta la bellezza e tutta la libertà che non si sono ancora realizzate. Grazie a questa impostazione diventa allora possibile comprendere le cose alla luce delle loro potenzialità e anticipazioni.

il pensiero unidimensionale e il compito della filosofia

In questa direzione, Marcuse assegna una funzione fondamentale all’immaginazione, che è indipendente dai dati di fatto ed è capace di vedere un oggetto anche se non è presente: «l’immaginazione al potere» diventerà la parola d’ordine della rivolta degli studenti. Più che alla classe lavoratrice nel suo complesso, che appare sempre più integrata nel sistema, Marcuse guarda appunto agli studenti e a gruppi marginali (i neri, i guerriglieri nel Terzo mondo, gli emarginati, il sottoproletariato urbano) come a potenziali soggetti rivoluzionari; al tempo stesso, tuttavia, egli riconosce la necessità di allearsi con altre forze di opposizione organizzate all’interno della società. Nell’esperienza storica di questi nuovi movimenti di protesta e di rivolta – di cui almeno in un primo momento giustifica la violenza verso il sistema – Marcuse vede annunciarsi la liberazione da ogni forma di repressione.

«l’immaginazione al potere» e i nuovi soggetti rivoluzionari

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8. Althusser: il marxismo e l’epistemologia la vita e le opere

Louis Althusser è nato nel 1918 presso Algeri. Militante cattolico prima della guerra, fu imprigionato in un campo di concentramento in Germania durante la guerra. Si è addottorato in Filosofia all’École Normale Supérieure di Parigi, sotto la guida di Bachelard, nel 1948, anno in cui ha aderito al Partito comunista francese. Da allora ha insegnato all’École e composto i suoi scritti più significativi, dalla raccolta di saggi Per Marx (1965) e Leggere il «Capitale» (1965), in collaborazione con altri, sino a Lenin e la filosofia (1969), Elementi di autocritica (1974) e Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati (1974), sinché nel 1980 un attacco di follia lo ha portato a uccidere la moglie e a essere internato nell’ospedale psichiatrico di Sainte Anne. Althusser si toglie la vita nel 1990.

marx e il superamento dell’umanismo

Althusser ritiene che la storia del movimento operaio in Francia sia caratterizzata da una mancanza di teoria. Questa situazione ha condotto a privilegiare l’azione politica, oppure a interpretare il marxismo come una forma di umanismo (ad esempio Sartre), ravvisandone il nucleo nella dottrina dell’alienazione. Secondo Althusser queste interpretazioni umanistiche del marxismo fanno leva soprattutto sulle opere giovanili di Marx, ancora legate alla filosofia hegeliana. A suo avviso, invece, il pensiero di Marx ha conosciuto una vera e propria rottura epistemologica, rappresentata dalle Tesi su Feuerbach e dall’Ideologia tedesca. Althusser mutua questo concetto da Gaston Bachelard (1884-1962), per il quale gli ostacoli incontrati dalla scienza lungo il suo percorso possono comportare o la stagnazione del sapere scientifico stesso o il rivoluzionamento dei quadri concettuali precedenti, creandone altri nuovi o riorganizzando quelli vecchi su basi ampliate. Tornando a Marx, Althusser è convinto che le opere citate segnino un’importante svolta nel suo pensiero, e cioè il passaggio dall’ideologia alla scienza: per Althusser la maturità del pensiero marxiano ha il suo culmine nel Capitale. Rispetto a esso, l’umanismo del giovane Marx rappresenta un ostacolo epistemologico, in quanto – insistendo unilateralmente sul soggetto – non consente di conoscere la collocazione oggettiva degli uomini nei rapporti di produzione.

il marxismo come nuova scienza

La rottura nei confronti di questa posizione umanistica ha permesso la formazione di una disciplina scientifica nuova. Quest’ultima deriva dalla combinazione 1) del materialismo storico, ossia della teoria scientifica della storia intesa come processo senza soggetto e senza fini predeterminati, ma mossa dalla lotta delle classi e 2) del materialismo dialettico, inteso come epistemologia che riflette sulla storia del sapere e sui meccanismi della sua produzione. In tal modo, il marxismo si presenta come filosofia o pratica teorica, dotata di una propria specificità e autonomia rispetto alla pratica politica e capace di rendere conto della natura della storia, ma anche delle formazioni teoriche e, quindi, anche di se stessa come teoria . La rottura epistemologica – operata dal marxismo nei confronti di Hegel – consiste non soltanto in un rovesciamento, ma nella trasformazione radica-

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Althusser La pratica teorica

alef

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le della dialettica. La specificità del marxismo scientifico poggia, secondo Althusser, sul riconoscimento che in ogni processo complesso e nella struttura globale della società c’è una contraddizione principale, la quale domina sul resto. Ciò significa che «la totalità complessa possiede l’unità di una struttura articolata a dominante». La contraddizione principale, tuttavia, pur occupando una posizione dominante, non può sussistere senza contraddizioni secondarie, che sono la sua condizione di esistenza, così come essa lo è di queste ultime. In tal modo, viene superata ogni separazione rigida tra il piano della struttura e quello della sovrastruttura. Ogni modo di produzione implica sempre anche la riproduzione delle condizioni politiche e ideologiche che ne assicurano la continuità. La società è una totalità complessa, nella quale forze produttive, rapporti di produzione e sovrastruttura s’intrecciano attorno alla contraddizione principale, la quale determina l’unità del tutto.

una nuova analisi dei rapporti tra struttura e sovrastruttura

A tale proposito, Althusser riprende dalla psicoanalisi il concetto di sovradeterminazione (in francese, surdétermination), già usato da Lacan per indicare il fatto che una formazione dell’inconscio (ad esempio il sogno) non può essere spiegata facendo riferimento a una sola causa, ma occorre ricondurla a una pluralità di fattori. Anche la contraddizione marxiana è sovradeterminata e non si presenta mai in forma pura: la contraddizione principale tra capitale e lavoro salariato rientra sempre all’interno di una totalità strutturata di rapporti e di contraddizioni. Affinché la contraddizione principale diventi attiva ed efficace e possa produrre una rivoluzione – dando luogo a una nuova formazione economico-sociale – non è sufficiente la sua semplice esistenza, ma occorre una congiuntura, ossia l’accumularsi di circostanze concomitanti. Solo l’analisi scientifica delle contraddizioni che permeano la totalità sociale in un periodo dato può quindi determinare il posto e la funzione svolta dalle classi entro tale totalità e la portata oggettiva della loro azione.

contraddizione principale e congiuntura

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in poche... parole Nonostante le critiche di Croce e di Gentile, il marxismo conobbe degli importanti sviluppi teorici in Italia soprattutto nella prima metà del Novecento. Tra le figure più rilevanti del marxismo italiano occorre ricordare quella di Rodolfo Mondolfo: egli rifiuta il carattere deterministico del materialismo storico, in polemica con Engels, e concepisce il marxismo anzitutto come una filosofia della prassi, secondo la quale il libero agire dell’uomo si innesta sempre su condizioni storiche già date. In altri termini, per Mondolfo, l’uomo modifica l’ambiente storico in cui vive, ma ne viene anche modificato (rovesciamento della prassi). Antonio Gramsci sviluppa un serrato confronto con lo storicismo di Croce, che considera come una traduzione in chiave speculativa del materialismo storico di Marx. Sulle orme di Mondolfo, egli ritiene che la dialettica non possa essere applicata alla natura (come invece aveva fatto Engels), né possa essere il metodo delle scienze naturali, orientate alla spiegazione causale dei fenomeni. Per Gramsci, la dialettica deve essere utilizzata come strumento di comprensione della realtà storica dell’uomo: attraverso la presa di coscienza delle masse diviene così possibile rompere la necessità storica e attuare la transizione al comunismo, inteso come regno della libertà. Per spiegare in che modo le classi sociali emergenti possano conquistare il potere ed invertire la rotta della storia, Gramsci elabora le nozioni di egemonia e di blocco storico. Un’altra figura rilevante del marxismo italiano è quella di Galvano Della Volpe, che si rifiuta di interpretarlo in chiave umanistica e storicistica (sulle orme di Gramsci) e si sforza di metterne in luce gli aspetti scientifici, considerandolo anzi372

tutto come un metodo per la formulazione delle leggi che regolano la storia.

cace l’azione politica dei comunisti italiani.

egemonia Secondo Gramsci, la

Mentre nell’Unione Sovietica il marxismo assumeva caratteri sempre più dogmatici e diveniva la filosofia ufficiale del regime di Stalin, in Germania e in Francia si afferma una corrente di pensatori – soprannominata «marxismo occidentale» – che interpretano Marx alla luce di Hegel e rifiutano il materialismo dialettico (il cosiddetto Diamat), basato sul carattere necessitante della dialettica storica, sull’infallibilità delle previsioni che da essa consegue e sull’azione «consapevole» delle masse e del partito chiamati a realizzare le potenzialità di sviluppo insite negli eventi. Il maggiore rappresentante del marxismo occidentale fu Lukács: a suo avviso, il proletariato è chiamato a prendere coscienza della direzione reale del processo storico orientato verso il raggiungimento di una società senza classi. Dopo la condanna dell’Internazionale comunista, egli modificherà parzialmente la propria posizione, ridimensionando il ruolo della coscienza di classe (e cioè del momento soggettivo della prassi rivoluzionaria), riconoscendo il condizionamento oggettivo costituito dalla struttura economica e la centralità del partito nel portare il proletariato alla coscienza della propria missione storica.

conquista del potere da parte delle classi sociali in ascesa non può avvenire solo tramite la forza, ma anche grazie al consenso. La gestione della forza appartiene alla società politica, mentre la gestione del consenso spetta agli intellettuali e riguarda la società civile. Per questo motivo, la classe politica ha bisogno degli intellettuali, anche se questi si illudono di essere indipendenti: il Partito comunista otterrà davvero il controllo dello Stato solo quando gli intellettuali, che ne rappresentano la punta più avanzata, saranno riusciti a esercitare un’egemonia politico-culturale sull’intera società civile. Per Gramsci, la politica costituisce la cerniera tra la filosofia, elaborata dagli intellettuali, e il senso comune. L’affermazione di un’egemonia intellettuale e morale dipende dalla formazione di un blocco storico, in cui l’elemento popolare e l’elemento intellettuale si fondono, dando vita a una nuova forza sociale. In altre parole, il sapere dell’intellettuale non può essere staccato dalle concezioni del mondo e dalle passioni del popolonazione; allo stesso modo, l’elemento popolare ha bisogno degli intellettuali per comprendere la specificità storica delle proprie idee e dei propri bisogni. In Italia, secondo Gramsci, l’egemonia culturale era rappresentata dalla filosofia di Croce, espressione del blocco storico dominato dalla borghesia. Ad essa Gramsci intende contrapporre uno storicismo più autentico, capace di comprendere la storia umana nella sua globalità, ovvero nella sua base economica non meno che nelle sue componenti etico-politiche. Solo l’elaborazione di una nuova cultura, secondo Gramsci, potrà rendere effi-

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reificazione (Traduzione del tedesco Verdinglichung). Termine usato nel pensiero marxista per indicare il processo che riduce gli individui e i rapporti sociali a cose (in latino res, corrispondente al tedesco Ding). Nell’ambito della produzione capitalistica, infatti, il lavoro e i lavoratori sono ridotti a merce, ossia a forza-lavoro, la quale è comprata dal capitalista come

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una cosa in cambio di un salario, al fine di produrre plusvalore. In questo senso si usano anche le espressioni «feticismo della merce» e mercificazione. Non solo il lavoro e i lavoratori, ma anche il pensiero può subire gli effetti del processo di reificazione. In questo caso, il pensiero assume i dati e i fatti esistenti come necessari e immodificabili ed è inteso come il semplice riflesso di essi.

coscienza di classe Termine in-

trodotto da Lukács per indicare il momento soggettivo e attivo nel processo storico, che non può essere ridotto soltanto a uno sviluppo necessario e meccanico della struttura economica. Propriamente essa può sorgere solo nel capitalismo, dando luogo al riconoscimento della propria situazione storica di classe entro la totalità del processo storico. La borghesia però, condizionata dai propri interessi di classe, è incapace di giungere a questo riconoscimento: la sua dimensione ideologica è pertanto la falsa coscienza, sempre erronea o inadeguata rispetto alla realtà storica. Solo il proletariato può dunque acquisire un’autentica coscienza di classe, la quale non è il riflesso puramente passivo della situazione economica, ma elemento attivo essenziale per la prassi rivoluzionaria, consistente in una trasformazione della realtà secondo le linee oggettive del processo storico. Nella prima metà del Novecento, in Germania si diffondono altre interpretazioni del marxismo, tese ad evidenziarne soprattutto la forte carica utopica. Si tratta delle riflessioni di Bloch sulla speranza, e cioè sulla spinta insita nell’uomo a trascendere il presente in vista del futuro, e delle riflessioni di Benjamin sulla storia, intesa non come progresso lineare, ma come processo attraversato da istanti rivoluzionari. Sempre in Germania, nel 1923

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viene aperto a Francoforte l’Istituto per la ricerca sociale, di cui fanno parte economisti, sociologi, psicologi e filosofi, tra cui Horkheimer, Adorno e Marcuse. Il recupero che essi fanno del marxismo tiene conto dei mutamenti della situazione economico-sociale: a loro avviso, le democrazie occidentali, le dittature di destra e l’Unione Sovietica sono ugualmente caratterizzate dall’affermarsi di un capitalismo di Stato e dall’indebolimento della spinta rivoluzionaria della classe operaia. Di qui la necessità di elaborare una teoria critica, che sia in grado di rivelare le contraddizioni operanti nella società e di rifiutare ciò che è falso nel presente, in vista di un diverso ordine delle cose nel futuro. Horkheimer e Adorno compongono la Dialettica dell’Illuminismo (1947) per spiegare come il progetto illuministico di liberazione dell’uomo dalle paure e dalle superstizioni si sia dialetticamente rovesciato nella negazione di se stesso. In tal senso, la storia dell’Illuminismo coincide con la storia dell’intera civiltà occidentale, che ha finito col celebrare la ragione scientifica come strumento di dominio, col costringere il pensiero all’accettazione passiva dei fatti, col ridurre ogni capacità di resistenza di fronte all’esistente e di apertura al nuovo. In questo quadro, un ruolo importante viene svolto dall’industria culturale, che trasforma i prodotti culturali in merce di scambio, diffonde conformismo e omologazione, favorisce il divertimento e l’evasione dalla realtà. Facendo interagire la lezione freudiana con quella marxista, Marcuse mette in luce gli aspetti repressivi della società industriale avanzata, la sua tendenza a configurarsi come amministrazione totalitaria della vita delle persone, la sua spinta a generare bisogni artificiali e a annullare la capacità di resistenza

al sistema. In questo quadro, secondo Marcuse, spetta alla filosofia opporre un grande rifiuto alla società esistente, facendo appello all’immaginazione e coinvolgendo non tanto la classe lavoratrice (sempre più integrata nella società), ma gli studenti e gli emarginati. Nell’ambito dello strutturalismo francese, Althusser propone un’interpretazione antiumanistica di Marx, sostenendo che egli ha posto come soggetto della storia non gli individui, ma i rapporti di produzione. La società, inoltre, è una totalità complessa, in cui la contraddizione principale tra le forze produttive e i rapporti di produzione (inerente alla struttura) non solo determina, ma è anche determinata da contraddizioni secondarie di natura politica o ideologica (inerenti alla sovrastruttura).

speranza Nello Spirito dell’utopia (1918) e nel suo scritto più importante Il principio speranza (1954-59), Bloch elabora una concezione dell’uomo secondo la quale egli non è mai appagato dalla realtà che lo circonda, essendo invece spinto a desiderare e ad immaginare ciò che gli manca. Per Bloch, la pulsione fondamentale dell’uomo è l’autoconservazione, ma essa si affina dando origine ad una serie di affetti non immediatamente appagabili, tra cui spicca quello della speranza. Essa consiste nella tendenza a trascendere ciò che è dato nel presente e a proiettarsi nel futuro. Alla base dell’antropologia di Bloch vi è un’ontologia del non-essere-ancora, secondo la quale non solo l’uomo e la materia, ma l’essere in generale si configura come impulso, bisogno, movimento verso qualcosa di nuovo. Il non-essereancora si realizza attraverso l’anticipazione del futuro (la speranza) e la rivoluzione (l’attuazione di essa). Secondo Bloch, il marxismo è una forma di escatologia (dal gre-

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co èschaton, «meta ultima»), in quanto immagina un futuro utopico, non ancora dato né sperimentato: esso consiste nel regno della libertà, in cui non vi è più sfruttamento dell’uomo e della natura ed entrambi realizzano se stessi nella coesistenza pacifica.

ragione strumentale e ragione critica Nella filosofia contempo-

ranea al termine ragione si sostituisce spesso quello di razionalità, intesa generalmente nel significato – introdotto da Weber – di capacità di adeguare i mezzi al conseguimento dei fini. Gli appartenenti alla Scuola di Francoforte, in particolare Horkheimer, chiamano quest’ultimo tipo di ragione – che fanno risalire all’Illuminismo – ragione strumentale, ritenendola funzionale alla conservazione e alla riproduzione dell’apparato di dominio della società. Alla ragione strumentale essi contrappongono la ragione critica, che fa leva sul momento del-

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la negazione, proprio della dialettica hegeliana. In tal senso, la ragione è critica quando mette in luce la negatività e l’irrazionalità del presente e fa emergere la possibilità di una società migliore.

repressione addizionale Per Marcuse non è la civiltà in quanto tale ad essere repressiva, ma quel tipo particolare di essa che è la società industriale avanzata, fondata sul controllo autoritario e sulla divisione in classi. Marcuse condivide con Freud il presupposto secondo il quale l’instaurarsi della civiltà implica il controllo e la repressione degli istinti: la società e il progresso richiedono la sostituzione del principio di piacere col principio di realtà e la canalizzazione delle energie sessuali nel lavoro per consentire la sopravvivenza di tutti. Per Marcuse, tuttavia, a differenza di Freud, la scarsità di beni necessari a soddisfare i bisogni degli uomini non è un fatto natura-

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le, ma il risultato di un assetto sociale basato sulla loro iniqua distribuzione. Alla repressione richiesta dalla civiltà, basata sul principio di realtà, viene ad aggiungersi quindi una repressione addizionale, basata sul principio di prestazione, il quale prescrive all’individuo di convogliare tutte le sue energie nella produzione e nel consumo. Secondo Marcuse, inoltre, la repressione addizionale avviene attraverso la riproduzione del modello familiare patriarcale e monogamico, la canalizzazione della sessualità verso la genitalità, la divisione del lavoro e l’amministrazione collettiva dell’esistenza privata. La critica della società totalitaria, ma anche le innovazioni tecnologiche e lo sviluppo dell’automazione dovrebbero consentire di investire meno energie pulsionali nel lavoro meccanico e di immaginare una società utopica non repressiva, in cui l’èros e la fantasia saranno più liberi di esprimersi.

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i testi t34 Gramsci / La storicità delle filosofie Gramsci

Quaderni del carcere

10, II, § (17); 11, § (62)

Tra i vari problemi che Gramsci affronta, fra il 1933 e il 1935, nei Quaderni che stende in carcere, vi è quello del rapporto tra filosofia e storia. Ciò rientra all’interno del più vasto riconoscimento, da parte di Gramsci, dell’importanza del momento o dell’aspetto sovrastrutturale all’interno del processo storico. Egli assume, infatti, un concetto di filosofia come visione del mondo, espressione sempre di specifiche situazioni storiche e posta in rapporto dialettico con le concezioni comuni o popolari del mondo. Poiché queste si traducono sempre in norme di vita, che si attuano nella pratica, anche le filosofie, in quanto modificazioni o trasformazioni delle concezioni diffuse, risultano sempre strettamente intrecciate alla prassi. Poiché, inoltre, ogni filosofia è sempre manifestazione delle contraddizioni reali che attraversano la società nei vari momenti dello sviluppo storico, Gramsci ritiene che si debba trarre la conclusione inevitabile che la stessa filosofia della prassi, emersa storicamente come consapevolezza piena delle contraddizioni della società capitalistica, sia destinata a scomparire nel momento in cui si attuerà la transizione alla società comunista, ossia al regno della libertà. In tal modo, Gramsci si pone agli antipodi di ogni concezione dogmatica del marxismo come filosofia dotata di validità assoluta e universale al di fuori del tempo.

Filosofia e storia Cosa occorra intendere per filosofia, per filosofia in un’epoca storica, e quale sia l’importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce dà della religione, cioè di una concezione del mondo che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non s’intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. La storia della filosofia come si intende comune1. Gramsci riprende da Croce la tesi

secondo la quale tutti gli uomini sono filosofi, in quanto ognuno vive e agisce secondo una concezione del mondo. Questa identificazione di filosofia e visione del mondo (in tedesco Weltanschauung) era diffusa soprattutto nella Germania della seconda metà dell’Ottocento. Rispetto a questo significato ampio di filosofia, Gramsci distingue un significato tecnico più ristretto di filo-

mente, cioè come storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e delle iniziative ideologiche di una determinata classe di persone per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel suo complessol. Dal punto di vista che a noi interessa, lo studio della storia e della logica delle diverse filosofie dei filosofi non è sufficiente. Almeno come indirizzo metodico, occorre attirare l’attenzione sulle altre parti della storia della filosofia; cioè sulle concezioni del mondo delle grandi masse, su quelle dei più ristretti gruppi dirigenti (o

sofia, come esercizio «professionale» di alcuni individui, consistente nella trasformazione e modificazione delle visioni del mondo esistenti nelle varie epoche storiche. Poiché ogni visione del mondo si traduce sempre in pratica, anche tale attività trasformatrice ha effetti pratici. Gramsci ha qui presente le Tesi su Feuerbach di Marx [t7], secondo cui sinora i filosofi hanno soltanto interpretato il mondo, mentre ora si

tratta di mutarlo. In Gramsci, tuttavia, questa tesi assume maggiore estensione, nel senso che di fatto, a suo avviso, il lavoro di trasformazione teorica dei filosofi incide sempre, anche se non in forma immediata, sulla prassi degli uomini. Ciò comporta l’attribuzione di un peso rilevante al lavoro filosofico e intellettuale all’interno del processo storico.

i testi

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intellettuali) e infine sui legami tra questi vari complessi culturali e la filosofia dei filosofi. La filosofia di un’epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popolari: è una combinazione di tutti questi elementi che culmina in una determinata direzione, in cui il suo culminare diventa norma d’azione collettiva, cioè diventa «storia» concreta e completa (integrale). La filosofia di un’epoca storica non è dunque altro che la «storia» di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano «blocco». Possono però essere «distinti» gli elementi filosofici propriamente detti, e in tutti i loro diversi gradi: come filosofia dei filosofi, come concezioni dei gruppi dirigenti (cultura filosofica) e come religioni delle grandi masse, e vedere come in ognuno di questi gradi si abbia a che fare con forme diverse di «combinazione» ideologica2. [...]

Storicità della filosofia della prassi Che la filosofia della prassi concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transito2. La distinzione di una pluralità di li-

velli e significati del termine «filosofia» consente a Gramsci di concepire la filosofia di un’epoca storica come la risultante (chiamata anche «blocco») dell’interazione fra questi vari livelli, che non possono essere considerati isolatamente gli uni dagli altri. È così posto il presupposto per un’analisi della funzione degli intellettuali, e dei filosofi in particolare, come chiave essenziale per comprendere il nesso che s’instaura tra gruppi dirigenti e masse e tra le corrispondenti visioni del mondo. Poiché ogni visione del mondo si traduce necessariamente in prassi, anche la filosofia viene a configurarsi non soltanto come un momento ideologico derivato e dipendente dalla struttura economica e dalla prassi umana, ma come un elemento che interagisce positivamente all’interno del «blocco» e dell’intero processo storico. A ciò si collega la ri-

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ria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente da tutto il suo sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà3. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata. Ma ogni sistema filosofico a sé preso non è stato l’espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché tale espressione poteva essere data solo dall’insieme dei sistemi in lotta tra loro4. Ogni filosofo è e non può non essere convinto di esprimere l’unità dello spirito umano, cioè l’unità della storia e della natura; infatti, se una tale convinzione non fosse, gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare «ideologie», non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle «credenze popolari» che assumono la stessa energia delle «forze materiali». Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro, pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall’insie-

presa della tesi crociana e, in generale, idealistica dell’identità di filosofia e storia, anche se con nuovi contenuti: per questo aspetto anche la concezione di Gramsci si può definire come «storicismo». 3. Anche per ragioni di cautela, Gramsci usa nei quaderni scritti in carcere l’espressione «filosofia della prassi» per indicare il marxismo. Per Gramsci, esso è il vero «storicismo», secondo cui ogni filosofia è necessariamente legata alla sua epoca storica e, pertanto, non esiste una filosofia valida al di fuori del tempo. Uno storicismo radicalmente coerente dovrà applicare questa tesi, secondo Gramsci, alla stessa filosofia della prassi, che risulterà, dunque, anch’essa storicamente condizionata e transitoria. Per Gramsci, questa conclusione è inevitabile, se si accoglie la tesi del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, ossia dalla socie-

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tà capitalistica al comunismo. Questa tesi si trovava formulata nell’AntiDühring di Engels e nell’estratto da tale opera intitolato L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza. 4. Il regno della necessità, ossia tutte le epoche storiche antecedenti al comunismo, in particolare l’epoca capitalistica, sono contrassegnate dalla presenza di contraddizioni interne alla società, che si traducono in lotte tra classi. Le filosofie, in quanto espressione della realtà storica e sociale, sono quindi state finora l’espressione di tali contraddizioni e lo sono state per lo più in maniera inconsapevole, nella misura in cui ogni filosofia pretende di cogliere la totalità della realtà nella sua verità: per questo, esse si configurano come visioni globali del mondo e, quindi, come ideologie capaci di orientare su questa base la prassi.

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me dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in polemica tra loro, in contraddizione tra loro5. In un certo senso, pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intiero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione. L’«uomo in generale», comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente «unitari» vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di «uomo in generale» o di «natura umana» immanente in ogni uomo. Ma se anche la filosofia della prassi è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla «necessità» e non alla «libertà», che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata, anche la filosofia della 5. Prima di Hegel ogni sistema filosofi-

co, per la sua pretesa di globalità, si opponeva agli altri, ma in quanto tale rappresentava soltanto uno dei poli delle contraddizioni che attraversavano la realtà. Emerge qui la netta superiorità di Hegel, che fa coscientemente posto alle contraddizioni all’interno del suo sistema, grazie alla sua concezione della dialettica, per la quale è essenziale il momento della contraddizione e della negazione come motore dello sviluppo della realtà. In questo senso, come «coscienza piena delle contraddizioni», il marxismo rappresenta per Gramsci una continuazione e una riforma dell’hegelismo. 6. Nel «regno della libertà», ossia nella società comunistica, scompariranno le contraddizioni sociali e, quindi, le classi e i loro antagonismi. Con esse dovranno dunque scomparire anche le filosofie, che ne erano l’espressione. Secondo Gramsci, ciò vale anche per la filosofia della prassi, che pure è superiore a ogni altra filosofia, per la piena

prassi: nel regno della «libertà» il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e della necessità di lotta6. Attualmente il filosofo (della prassi) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia. Ciò non significa che l’utopia non possa avere un valore filosofico, poiché essa ha un valore politico, e ogni politica implicitamente è una filosofia sia pure sconnessa e in abbozzo. In questo senso la religione è la più gigantesca utopia7, cioè la più gigantesca «metafisica», apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma, invero, che l’uomo ha la stessa «natura», che esiste l’uomo in generale, in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, e che tale egli può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per que-

consapevolezza da essa raggiunta del carattere delle contraddizioni sociali. Anch’essa, infatti, appartiene ancora al «regno della necessità» ed è quindi destinata a scomparire nel «regno della libertà». Queste considerazioni consentono a Gramsci di liberare il marxismo da ogni pretesa dogmatica di possedere la verità assoluta valida per ogni tempo. Egli non avanza ipotesi su quali potranno essere i tratti che la filosofia potrà assumere in questa nuova realtà storica, non più solcata dalle contraddizioni sociali. Poco oltre, tuttavia, egli prospetta addirittura la possibilità che, nel passaggio al «regno della libertà», mentre la filosofia della prassi potrà diventare caduca, «molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche nel “regno della necessità”, potranno diventare “verità” dopo il passaggio». 7. Gramsci condivide, come si è visto, la concezione crociana, secondo la quale la religione è una concezione del mondo, che diventa norma di vita, at-

tuata nella pratica. Essa contiene un elemento utopico, anzi rappresenta sinora la massima utopia, in cui trovano conciliazione le contraddizioni della realtà storica. Tale conciliazione, tuttavia, non si traduce nella trasformazione effettiva della realtà storica, ma viene proiettata nell’aldilà. Alla base di essa vi è la costruzione del concetto di «uomo in generale», creato da Dio: si tratta di un concetto metafisico, in quanto assume l’esistenza di un’essenza umana fuori dal tempo, ma da esso scaturiscono le idee della fratellanza, dell’uguaglianza e della libertà di tutti gli uomini. La religione, tuttavia, ravvisa nell’aldilà, in un mondo ancora da venire, il luogo della realizzazione di queste idee: in tal senso, essa è un’utopia. Anche come tale, però, essa mette a disposizione degli uomini criteri mediante i quali valutare la discrepanza della realtà storica rispetto a una compiuta realizzazione di essi e può, dunque, fungere da motore di rivendicazioni e rivolte.

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sto mondo, ma di un altro (– utopico –). Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, siano state poste queste rivendicazioni. [...] Se la filosofia della prassi afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore «provvisorio» (storicità di ogni concezione del mondo e della vita), è molto difficile far comprendere «praticamente» che una tale interpretazione è valida anche per la stessa filosofia della prassi, senza scuotere quei convincimenti che sono necessari per l’azione. Questa è, d’altronde, una difficoltà che si ripresenta per ogni filosofia storicistica8: di essa abusano i polemisti a buon mercato (specialmente i cattolici) per contrapporre nello stesso individuo lo «scienziato» al «demagogo», il filosofo all’uomo d’azione, ecc. e per dedurre che lo storicismo conduce necessariamente allo scetticismo morale e alla depravazione. Da questa difficoltà nascono molti «drammi» di

8. Per una filosofia storicistica non esi-

stono verità assolute fuori dal tempo. A questa tesi si muovono solitamente le accuse di condurre a esiti relativistici e scettici. Gramsci riconosce che è un problema per lo storicismo giustificare la necessità di agire e di agire in base a determinate convinzioni, dal momento che tali convinzioni, essendo anch’esse storicamente determinate, non hanno valore assoluto e sono intrinsecamente caduche. Egli respinge, tuttavia, sia le

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coscienza nei piccoli uomini, e nei grandi gli atteggiamenti «olimpici» alla Volfango Goethe. Ecco perché la proposizione del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza. Perciò avviene anche che la stessa filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne; specialmente quando, come nel Saggio Popolare9, essa è confusa col materialismo volgare, con la metafisica della «materia» che non può non essere eterna e assoluta. GUIDA ALLA LETTURA 1. Confronta la definizione gentiliana di filosofia della prassi con quella che invece ne dà Gramsci. 2. Come cambierà la filosofia, non appena l’umanità sarà riuscita a realizzare il regno della libertà? 3. Perché ogni filosofia ha la tendenza a tramutarsi in ideologia? 4. In che modo la filosofia della prassi può evitare di trasformarsi in ideologia? Evidenzia sul testo la posizione di Gramsci.

soluzioni puramente individuali e intimistiche di questa difficoltà, sia l’assunzione di atteggiamenti «olimpici», ossia non turbati dai contrasti della vita, al di sopra della storia. 9. Gramsci si riferisce alla traduzione in francese dello scritto di Bucharin, La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista (1927), nel quale era enunciata un’interpretazione del marxismo in senso materialistico. Gramsci respinge tale

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interpretazione, che assume una nozione metafisica di materia come entità eterna, e quindi, di fatto, non ammette neppure la tesi engelsiana dell’esistenza di una dialettica della natura. A suo avviso, «il passaggio dalla necessità alla libertà avviene per la società degli uomini e non per la natura», anche se potrà avere conseguenze sul modo di concepire la natura, ossia sul piano sovrastrutturale, filosofico e scientifico, più che sulla realtà naturale stessa.

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t35 Lukács / Azione e coscienza di classe Lukács

Storia e coscienza di classe

cap. 3, § 1

Storia e coscienza di classe, pubblicata nel 1923, è un’opera composta di otto saggi, scritti negli anni precedenti. Il brano qui riportato è tratto dal terzo, scritto nel 1920 e intitolato «Coscienza di classe». In esso Lukács si pone il problema della funzione della coscienza di classe nella dialettica del processo storico. In particolare, egli si chiede come essa si formi in relazione alle diverse situazioni storiche e all’interno di ciascuna classe. Da questo punto di vista, l’epoca del dominio della borghesia appare a Lukács caratterizzata dalla dicotomia tra la falsa coscienza della borghesia stessa, che non è in grado, data la sua posizione e i suoi interessi, di cogliere la totalità del processo storico, e l’autentica coscienza di classe del proletariato, capace di cogliere tale totalità e, quindi, di partecipare attivamente, tramite la prassi, alla trasformazione della società.

La coscienza di classe è la reazione razionalmente adeguata che viene in questo modo attribuita di diritto ad una determinata situazione tipica nel processo di produzione1. Questa coscienza non è quindi né la somma né la media di ciò che pensano, sentono, ecc., i singoli individui che formano la classe. E tuttavia l’agire storicamente significativo della classe come totalità viene determinato, in ultima analisi, da questa coscienza, e non dal pensiero del singolo, ed è conoscibile soltanto a partire da essa. Questa determinazione fissa fin dall’inizio la distanza che separa la coscienza di classe dalle idee fattualmente empiriche, descrivibili ed esplicabili in senso psicologico, che gli uomini 1. La storia è storia delle lotte tra le

classi, le quali sono antagonistiche a causa della loro posizione all’interno del processo di produzione, e inoltre non sono riducibili alla semplice somma degli individui che le compongono. Di conseguenza, anche la coscienza che una classe ha della propria posizione oggettiva all’interno di una totalità concreta, ossia di una situazione sociale ed economica storicamente determinata, non è riducibile alla semplice somma o media statistica di ciò che i vari individui o la maggior parte di essi pensano. Ciò significa che la coscienza di classe è un fenomeno storico, non puramente psicologico. 2. Secondo Lukács, non bisogna limitarsi ad assumere che tra la coscienza di classe in generale e le idee esplicitamente sostenute dagli individui a proposito delle proprie condizioni di vita esiste un divario più o meno grande. Importante è, invece, condurre

hanno sulla loro situazione di vita. Ma non bisogna arrestarsi al puro e semplice accertamento di questa distanza o addirittura alla fissazione generale formale dei nessi che ne derivano. Si deve piuttosto indagare, in primo luogo, se questa distanza si differenzia nelle diverse classi, secondo il loro diverso rapporto con l’intero economico-sociale di cui esse sono membri, e fino a che punto questa diversità sia tanto grande da far emergere differenze qualitative2. Ed in secondo luogo, che cosa significhino praticamente per lo sviluppo della società questi diversi rapporti tra totalità economica oggettiva, coscienza di classe attribuita di diritto3 ed idee psicologico-reali degli uomini sulla

un’indagine sulla diversa ampiezza e sulle diverse modalità che questa distanza assume in relazione alle varie classi, sia per quanto riguarda le diverse epoche storiche, sia per quanto concerne le classi antagonistiche all’interno di una precisa epoca storica. In seguito, Lukács mostrerà che nelle epoche pre-capitalistiche era impossibile l’emergere di una vera e propria coscienza di classe, perché la struttura economica caratteristica di ciascuna di esse impediva il costituirsi di una consapevolezza della centralità dell’economia nello sviluppo storico della società. Solo nell’epoca del dominio della borghesia e del capitalismo questa coscienza può sorgere, ma anche in questo caso occorrerà indagare le modalità diverse che la coscienza di classe assume storicamente nella borghesia, nel proletariato e in quelle classi oscillanti e di incerta collocazione tra l’una e l’altro.

3. Ossia adeguata, cioè in grado di ri-

flettere oggettivamente la totalità della situazione in un determinato momento storico. Ciò ha per Lukács un significato pratico, perché la coscienza di classe è elemento essenziale, non puramente sovrastrutturale, del processo storico. Poco dopo, infatti, chiarisce che grazie a essa è possibile fondare la prassi sulla considerazione delle possibilità oggettive, ossia dell’insieme di alternative reali offerte dalla situazione. In questo caso, la prassi non è un agire puramente velleitario, ma un agire ancorato al riconoscimento della specificità della situazione storica nei suoi caratteri reali all’interno della totalità del processo storico: solo in questo modo la prassi si innesta positivamente ed efficacemente nel quadro di possibilità oggettive, non puramente immaginarie, offerte dalla situazione.

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loro situazione di vita, chiamando così quale sia la funzione storico-pratica della coscienza di classe. Solo un accertamento di questo genere rende possibile l’utilizzazione metodologica della categoria della possibilità oggettiva. Infatti, si deve anzitutto chiedere fino a che punto, all’interno di una determinata società, la totalità della sua economia sia in generale percepibile dal punto di vista di una determinata posizione nel processo di produzione. Infatti, per quanto certi individui singoli non restino necessariamente prigionieri delle angustie e dei pregiudizi della loro situazione di vita, tuttavia non possono andare al di là dei limiti ad essi prescritti dalla struttura economica della società del loro tempo e dalla loro posizione in essa4. Considerata da un punto di vista astrattamente formale, la coscienza di classe è dunque, al tempo stesso, un’inconsapevolezza classisticamente determinata rispetto alla propria situazione economica storico-sociale5. Questa è data quindi come un determinato rapporto strutturale, come una determinata forma relazionale che sembra dominare tutti gli oggetti della vita. Il «falso», l’«apparente», che è presente in questa situazione non è dunque nulla di arbitrario, ma appunto l’espressione della struttura economico-oggettiva sul piano del pensiero6. [...] Ora, è compito di un’accurata

4. In nota Lukács fa riferimento a co-

struttori di utopie come Platone e Tommaso Moro. Con le loro utopie, essi hanno elaborato modelli sociali e politici alternativi rispetto alla situazione del loro tempo, ma soltanto fino a un certo punto. Platone, infatti, era condizionato dalla struttura economica della società in cui viveva, fondata sul lavoro degli schiavi, e dalla posizione che egli stesso occupava all’interno di essa, sicché non era in grado di pervenire a una piena coscienza dei caratteri costitutivi di tale struttura. 5. Qui Lukács riprende il tema marxiano, secondo cui ciò che una società è non coincide necessariamente con ciò che i suoi componenti ritengono che essa sia. Proprio la presenza di classi e l’appartenenza a esse impedisce il raggiungimento di questa trasparenza to-

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analisi storica chiarire per mezzo della categoria della possibilità oggettiva, entro quali condizioni sia in generale possibile penetrare effettivamente nell’apparenza e spingersi sino al punto di cogliere la connessione reale con la totalità. Infatti, se la totalità della società attuale non è in generale percepibile dal punto di vista di una determinata situazione di classe, se sviluppando idealmente sino in fondo gli interessi di una classe nel senso che può essere loro attribuito di diritto non si incontra la totalità della società, questa classe potrà svolgere soltanto un ruolo subordinato, non potrà mai intervenire nel corso della storia né come elemento di conservazione, né come elemento di dinamismo7. In genere, tali classi sono predestinate alla passività, ad un incerto fluttuare tra le classi dominanti e le classi rivoluzionarie e le loro eventuali esplosioni hanno necessariamente in sé il carattere della vuota elementarità, dell’assenza del fine; e sono condannate ad una definitiva disfatta, anche nel caso di una casuale vittoria. Infatti, la destinazione di una classe al potere significa che è possibile, a partire dai suoi interessi di classe, dalla sua coscienza di classe, organizzare l’intero della società secondo questi interessi. L’elemento che alla fine decide ogni lotta di classe è il possesso in un dato momento da parte di una delle classi in lotta di questa

tale fra ciò che oggettivamente si è e si fa e ciò che si pensa di essere. Secondo Lukács, solo nel proletariato questa coscienza trasparente può essere raggiunta, nonostante i forti ostacoli frapposti dai condizionamenti della società capitalistica. 6. Che gli individui abbiano una coscienza erronea o illusoria dei caratteri della società alla quale appartengono e della loro posizione all’interno di essa, non è qualcosa da imputare al loro arbitrio puramente soggettivo. Si tratta, invece, di una manifestazione oggettiva, determinata dalla struttura economica della società in cui essi vivono: per questo aspetto, Lukács accoglie la priorità della struttura sulla produzione delle idee. 7. Una classe che non si renda conto della propria specifica situazione entro

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la totalità della società non è in grado di cogliere le possibilità oggettive offerte da essa e, quindi, di agire adeguatamente in vista della sua conservazione o trasformazione. In questo caso, si tratta di una classe puramente passiva, subordinata rispetto alla classe dominante o a quella rivoluzionaria, polarmente contrapposte. Ciò spiega perché tale classe sia sempre al rimorchio di una di esse. Essendo priva di coscienza di classe, anche quando si ribella, essa è inevitabilmente destinata alla sconfitta, perché le manca l’orientamento consapevole verso un fine storicamente adeguato alle possibilità oggettive. La coscienza di classe, quand’è effettivamente raggiunta, svolge, invece, secondo Lukács, una funzione attiva nella dinamica storica.

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capacità, di questa coscienza di classe. Ciò non vuol dire escludere che la violenza abbia un ruolo nella storia e neppure garantire l’automatico imporsi di quegli interessi di classe che sono destinati a diventare dominanti e che, in questo caso, rappresentano gli interessi dello sviluppo sociale. Al contrario. Solo per mezzo della violenza più brutale (come nel caso della accumulazione originaria del capitale) molto spesso si possono creare le condizioni per una generale affermazione degli interessi di una classe. Ma proprio quando è in questione la violenza, nelle situazioni in cui una classe conduce contro un’altra classe una nuda lotta per l’esistenza, il problema della coscienza di classe si rivela come il momento in ultima analisi decisivo8. [...] Ma non bisogna nemmeno porre sullo stesso piano, rispetto alla struttura interna della loro coscienza di classe, le classi atte all’esercizio del potere. Ciò che importa qui è fino a che punto esse siano in grado di diventare coscienti delle azioni che sono costrette a compiere e che di fatto compiono per il raggiungimento del potere e per la sua organizzazione. Ciò che importa è dunque il problema: fino a che punto la classe in questione compia «coscientemente» o «incoscientemente», con una coscienza «giusta» o «falsa», le azioni che le sono imposte dalla storia. Non si tratta di distinzioni puramente accademiche. Infatti, facendo del tutto astrazione dal problema della cultura, dove le dissonanze che di qui hanno origine hanno un’importanza determinante, per il destino di tutte le scelte pratiche di una classe è decisivo se essa è in grado di chiarire e di risol8. Lukács riconosce che la violenza è una componente delle trasformazioni rivoluzionarie, ma ribadisce che, se essa non è collegata e subordinata alla coscienza di classe, è destinata al fallimento. Poco dopo, egli fa l’esempio della guerra contadina in Germania, nel secolo XVI, e attribuisce la sconfitta dei contadini da parte dei principi più che alla violenza di questi ultimi all’assenza di coscienza dei propri interessi di classe da parte dei contadini: era questa assenza a conferire superiorità ai principi.

vere i problemi che le sono affidati dallo sviluppo storico9. Appare qui una volta del tutto chiaro che, nel caso della coscienza di classe, non si tratta del pensiero di alcuni individui, per quanto progressisti, e neppure di conoscenza scientifica. Oggi, ad esempio, è chiaro che la società dell’antichità classica, urtando contro i limiti della economia schiavistica, non poteva che andare a fondo economicamente. Ma è altrettanto chiaro che, nell’antichità, a questa comprensione delle cose non poterono accedere né la classe dominante, né le classi che ad essa si ribellarono in modo rivoluzionario o riformistico10. Con l’emergere pratico di questi problemi, fu così segnato il tramonto fatale e senza speranza di questa società. Una situazione che si rivela con una chiarezza anche maggiore nel caso della borghesia odierna: all’inizio, essa entrò in lotta contro la società assolutistico feudale, facendo leva sulla conoscenza dei nessi economici. Ma essa era del tutto incapace di portare a compimento quella scienza che le era originariamente propria, la sua più autentica scienza di classe: di fronte alla teoria della crisi, essa non poté che fallire anche sul piano teorico. Ed a nulla serve che nella scienza vi sia la soluzione teorica. Infatti accettare – anche teoricamente – questa soluzione equivale a non considerare più i fenomeni della società dal punto di vista di classe della borghesia. E nessuna classe è in grado di far questo – dal momento che dovrebbe in tal caso rinunciare volontariamente al proprio dominio. Quindi, il limite che rende «falsa» la coscienza di classe della borghesia è oggettivo: è la stessa situazione di classe11. È una conseguenza og-

9. Ogni classe svolge una funzione nel

corso del processo storico, in quanto occupa una posizione specifica all’interno di una società storicamente determinata. Il grado di possibilità di un innesto positivo della propria azione nel corso storico corrisponde al grado di consapevolezza dei problemi da affrontare nella specifica situazione storica e dei compiti pertinenti alla classe. 10. La società antica è per Lukács un classico esempio dell’impossibilità del formarsi di una coscienza di classe non solo nella classe dominante, ma anche

in quella antagonista a essa. Ciò dipende dal fatto che in tale società era impossibile pervenire alla conoscenza oggettiva della centralità e dei caratteri della struttura economica. Solo nella società borghese, nel quadro dell’organizzazione capitalistica dell’intera produzione è possibile raggiungere questa conoscenza. 11. Mentre nella lotta contro la società feudale, la borghesia aveva fatto leva sulla conoscenza della struttura economica della società, in seguito, essendo costretta oggettivamente a legittimare

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gettiva della struttura economica della società: nulla di arbitrario, di soggettivo o di psicologico. Infatti, la coscienza di classe della borghesia, per quanto possa rispecchiare chiaramente tutti i problemi dell’organizzazione di questo dominio, del rivolgimento e della trasformazione in senso capitalistico dell’intera produzione, non può non occultare quei momenti in cui emergono problemi la cui soluzione rinvia, già all’interno del campo di dominio della borghesia, oltre il capitalismo. La «legalità naturale» dell’economia da essa scoperta, una chiara coscienza rispetto al medioevo feudale ed anche al mercantilismo del periodo di transizione, si trasforma allora, secondo una dialettica immanente, in una «legge di natura, che poggia sulla mancanza di coscienza dei partecipanti»12. i propri interessi di classe, aveva feticizzato i rapporti economico-sociali esistenti come naturali e immodificabili, non storici e quindi transitori. In ciò consiste il fallimento anche sul piano teorico della borghesia, quale emerge nelle dottrine degli economisti classici,

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che illustrano il concetto di «coscienza di classe» elaborato da Lukács. 2. Qual è la funzione del concetto di «coscienza di classe»? Rispondi alla domanda riportando le opportune citazioni. 3. In questo testo Lukács utilizza la nozione weberiana di «possibilità oggettiva» [cfr. 6.7]. Ricostruiscine la definizione. 4. Qual è il rapporto che Lukács istituisce fra teoria e prassi? 5. Qual è, secondo Lukács, il ruolo della violenza nello sviluppo storico? 6. In che cosa consiste la «falsa» coscienza di classe della borghesia?

già criticate da Marx. Si può dunque parlare, secondo Lukács, di «falsa» coscienza di classe della borghesia, non tanto nel senso di una falsificazione soggettiva deliberata, quanto nel senso di un risultato oggettivo, necessario e inevitabile, dovuto alla sua situazione

di classe, che la costringe oggettivamente a occultare tutte le contraddizioni che possono essere risolte soltanto con l’abbattimento del suo dominio. 12. Citazione dai Lineamenti di una critica dell’economia politica di Engels.

t36 Horkheimer, Adorno / Mitologia dell’Illuminismo Horkheimer, Adorno Dialettica dell’Illuminismo

cap. 1

Tesi centrale della Dialettica dell’Illuminismo, scritta insieme da Horkheimer e Adorno durante la Seconda guerra mondiale, è che l’Illuminismo si è dialetticamente capovolto nella sua negazione. Elaborato originariamente come progetto di liberazione degli uomini e della ragione da ogni servitù nei confronti delle forze della natura, dei miti e delle superstizioni, l’Illuminismo sarebbe decaduto in una nuova forma di mitologia e in una nuova logica del dominio e dell’asservimento della natura e degli uomini, di cui la società attuale, totalmente amministrata, rappresenterebbe l’espressione compiuta.

Il pensiero sottomesso ai dati Per il positivismo, che è successo, come giudice, alla ragione illuminata, spaziare in mondi intelligibili non è più semplicemente proibito, ma è un cicaleccio senza senso. Esso non ha bisogno – per sua fortuna – di essere ateo, per382

ché il pensiero reificato non può nemmeno porre la questione. Il censore positivista lascia volentieri passare, come l’arte, il culto ufficiale, come un settore speciale ed extrateoretico di attività sociale; la negazione, che si affaccia con la pretesa di essere conoscenza, mai. La di-

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stanza del pensiero dal compito di imbandire ciò che è, l’uscita dal cerchio fatato della realtà, è – per lo spirito scientistico – follia e autodistruzione come per lo stregone primitivo l’uscita dal cerchio magico che ha tracciato per l’esorcismo; e in entrambi i casi si provvede affinché l’infrazione del tabù si risolva anche in realtà a danno del sacrilego. Il dominio della natura traccia il cerchio in cui la critica della ragion pura ha relegato il pensiero1. Kant ha unito la tesi del suo faticoso e incessante progresso all’infinito all’insistenza inflessibile sulla sua insufficienza ed eterna limitazione. La risposta che egli ha dato è il verdetto di un oracolo. Non c’è essere al mondo che la scienza non possa penetrare, ma ciò che può essere penetrato dalla scienza non è l’essere. Così, secondo Kant, il giudizio filosofico mira al nuovo, ma non conosce mai nulla di nuovo, poiché ripete sempre e soltanto ciò che la ragione ha già posto nell’oggetto. Ma a questo pensiero, protetto e garantito – nei vari scomparti della scienza – dai sogni di un visionario, viene – poi – presentato il conto: il dominio universale sulla natura si ritorce contro lo stesso oggetto pensante, di cui non resta altro che quello stesso, eternamente uguale «Io penso» che deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni. Soggetto e oggetto si annullano entrambi. Il Sé astratto, il diritto di registrare e si1. Il positivismo è qui identificato con

una forma di «pensiero reificato», ossia un pensiero ridotto a cosa, come sono cose e dati di fatti, assunti nella loro fissità, gli oggetti della sua conoscenza. A esso è, dunque, estranea una considerazione delle cose e dei fatti come risultati di processi storici. Per il positivismo, erede dell’Illuminismo, l’unico sapere legittimo è quello fornito dalle scienze, sicché ogni discorso che esca dall’ambito di esse, soprattutto quello che nega la legittimità e validità di ciò che esiste di fatto, viene considerato una regressione verso la superstizione e la fantasticheria. In questo orizzonte, anche la religione e i suoi culti appaiono come pratiche sociali, sulle quali la scienza non si pronuncia. Horkheimer e Adorno paragonano questa delimitazione di ambiti al cerchio magico tracciato dallo stregone: se es-

stemare, non ha davanti a sé che l’astratto materiale, che non possiede altra proprietà che quella di fungere da sostrato a questo possesso2. L’equazione di spirito e mondo finisce per risolversi, ma solo perché i due membri di essa si elidono reciprocamente. Nella riduzione del pensiero ad apparato matematico è implicita la consacrazione del mondo a misura di se medesimo. Ciò che appare un trionfo della razionalità soggettiva, la sottomissione di tutto ciò che è al formalismo logico, è pagato con la docile sottomissione della ragione a ciò che è dato senz’altro. Comprendere il dato come tale, non limitarsi a leggere, nei dati, le loro astratte relazioni spazio-temporali, per cui si possono prendere e maneggiare, ma intenderli invece come la superficie, come momenti mediati dal concetto, che si adempiono solo nell’esplicazione del loro significato sociale, storico e umano – ogni pretesa della conoscenza viene abbandonata. Poiché essa non consiste solo nella percezione, nella classificazione e nel calcolo, ma proprio nella negazione determinante di ciò che è via via immediato3. Mentre il formalismo matematico, che ha per mezzo il numero, la forma più astratta dell’immediato, fissa il pensiero alla pura immediatezza. Si dà ragione a ciò che è di fatto, la conoscenza si limita alla sua ripetizione, il pensiero si riduce a tautologia. Quanto più l’apparato

so viene superato, i tabù sono infranti, si commettono sacrilegi e si va incontro all’autodistruzione. A loro avviso, già Kant aveva provveduto a tracciare questi limiti nell’ambito del pensiero: varcarli equivale, per Kant, ad addentrarsi nei sogni della metafisica. In questo senso, anche la filosofia kantiana rientra a pieno titolo nella dialettica regressiva dell’Illuminismo, che ha la sua manifestazione estrema nel positivismo. 2. La filosofia kantiana condurrebbe a uno svuotamento sia del soggetto, sia dell’oggetto, ridotti alle entità e alle funzioni puramente astratte dell’«lo penso» e del materiale empirico indeterminato. l dati dell’esperienza, caratterizzati soltanto da astratte relazioni spazio-temporali, vengono allora a configurarsi come oggetti di possibile uso e manipolazione. Ciò si colloca agli

antipodi della concezione di matrice hegeliana, che Horkheimer e Adorno condividono, secondo cui le cose sono momenti e risultati di processi storici. 3. È centrale qui il momento dialettico della negazione: è in virtù di essa che i fatti cessano di apparire entità fisse, ossia «immediate», e non come il risultato di mediazioni, e la realtà viene colta nella sua storicità come suscettibile di trasformazioni. La negazione consente al pensiero di non asservirsi a ciò che esiste di fatto, come avviene invece nella mitologia, e di aprirsi alla speranza del futuro, nel quale è riposto il significato autentico delle cose. Limitandosi all’accertamento dei fatti, la scienza, che è il prodotto ultimo dell’Illuminismo, sancisce, invece, come eterna e unica a essere dotata di significato la realtà presente.

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teorico si asservisce a tutto ciò che è, e tanto più ciecamente si limita a riprodurlo, così l’illuminismo ricade nella mitologia da cui non ha mai saputo liberarsi. Poiché la mitologia aveva riprodotto come verità, nelle sue configurazioni, l’essenza dell’esistente (ciclo, destino, dominio del mondo), e abdicato alla speranza. Nella pregnanza dell’immagine mitica, come nella chiarezza della formula scientifica, è confermata l’eternità di ciò che è di fatto, e la bruta realtà è proclamata il significato che essa occlude. [...]

Il mondo reificato Nel mondo illuminato la mitologia è penetrata e trapassata nel profano. La realtà completamente epurata dai demoni e dai loro ultimi rampolli concettuali assume, nella sua naturalezza tirata a lucido, il carattere numinoso che la preistoria assegnava ai demoni. Sotto l’etichetta dei fatti bruti l’ingiustizia sociale da cui essi nascono è consacrata, oggi, non meno sicuramente, come qualcosa di immutabile in eterno, quanto era sacrosanto e intoccabile lo stregone sotto la protezione dei suoi dèi4. L’estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. Il singolo si riduce a un nodo o crocevia di reazioni e comportamenti convenzionali che si attendo-

4. L’unica differenza tra l’Illuminismo e

la mitologia tradizionale consiste nella laicizzazione, ossia nel fatto che, al posto di demoni e dèi, immutabili e intoccabili, sono subentrati i fatti bruti, altrettanto immutabili e intoccabili. Poiché la realtà esistente è il risultato dell’ingiustizia sociale, l’assolutizzazione della realtà coincide con la legittimazione di questa ingiustizia. Ciò significa che lo spirito si è reificato, ossia l’individuo è ridotto a una cosa tra le cose, a una semplice funzione entro un apparato di produzione, sicché sono reificati anche i rapporti di ciascuno con se stesso e con gli altri uomini. Questo è il costo pagato dagli uomini

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no praticamente da lui. L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime. L’apparato economico dota automaticamente, prima ancora della pianificazione totale, le merci dei valori che decidono del comportamento degli uomini. Attraverso le innumerevoli agenzie della produzione di massa e della sua cultura, i modi obbligati di condotta sono inculcati al singolo come i soli naturali, decorosi e ragionevoli. Egli si determina più solo come una cosa, come elemento statistico, come success or failure. Il suo criterio è l’autoconservazione, l’adeguazione riuscita o non all’oggettività della sua funzione e ai moduli che le sono fissati. Tutto il resto, l’idea o criminalità, apprende la forza del collettivo, che fa buona guardia dalla scuola al sindacato. Ma anche il collettivo minaccioso è solo una superficie fallace dietro cui si nascondono i poteri che ne manipolano la violenza. La sua brutalità, che tiene il singolo a posto, rappresenta altrettanto poco la vera qualità degli uomini come il valore quella degli oggetti di consumo. L’aspetto satanicamente deformato che le cose e gli uomini hanno assunto alla luce chiara della conoscenza spregiudicata, rinvia al dominio, al principio che operò già la specificazione del mana5 negli spiriti e nelle divinità e che invischiava lo sguardo nei miraggi degli stregoni. La fatalità, con cui la preistoria sanciva la morte incomprensibile, trapassa nella realtà comprensibile senza residui. Il panico meridiano, in cui gli uomini si rendevano improvvisamen-

per il loro dominio sulla natura, rispetto alla quale si sono estraniati, diventati altro, perdendo il contatto reale con essa. Il risultato è una società dominata dalla pianificazione totale di ogni aspetto della vita, dal primato delle merci e dal conformismo. 5. Mana è una forza impersonale superiore all’uomo, alla quale sono riconducibili comportamenti che non sono o non appaiono imputabili all’individuo. La credenza in questa forza è connessa a un atteggiamento fatalistico nei confronti di tali eventi o comportamenti. Il socialismo riformistico ha finito col far propria questa concezione fatalistica della storia, legittimando il modo di

12. interpretazioni e sviluppi del marxismo

produzione capitalistico come fase storica necessaria. In tal modo, esso ha concepito la transizione dal capitalismo al socialismo come un processo puramente meccanico, che perpetua anche all’interno del socialismo la dimensione della necessità e del dominio, anziché pervenire al regno della libertà. Anch’esso, dunque, finisce per rinunciare al programma di liberazione proprio dell’Illuminismo. Solo l’irrompere improvviso della visione della realtà sociale come totalità che tutto domina e soffoca può aprire, per Horkheimer e Adorno, la possibilità e la speranza di una rottura di tale totalità.

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te conto della natura come totalità, ha il suo corrispettivo in quello che, oggi, è pronto a scoppiare ad ogni istante: gli uomini attendono che il mondo senza uscita sia messo in fiamme da una totalità che essi stessi sono e su cui nulla possono. [...] Ma riconoscere il dominio, fin addentro al pensiero, come natura inconciliata, potrebbe smuovere quella necessità, di cui lo stesso socialismo ha ammesso troppo presto l’eternità in omaggio al common sense reazionario. Elevando la necessità a «base» per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito – alla maniera idealistica – a vetta suprema, esso ha conservato troppo rigidamente l’eredità della filosofia borghese. Così il rapporto della necessità al regno della libertà resterebbe puramente quantitativo, meccanico, e la natura, posta come affatto estranea, come nella prima mitologia, diventerebbe totalitaria e finirebbe per assorbire la libertà insieme col socialismo. Rinunciando al pensiero, che si vendica, nella sua forma reificata – come matematica, macchina, organizzazione – dell’uomo immemore di esso, l’illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione. Disciplinando tutto ciò che è singolo, esso ha lasciato al tutto incompreso la libertà di ritorcersi – da dominio sopra le cose – sull’essere e sulla coscienza degli uomini. Ma la prassi che rovescia6 dipende dall’intransigenza

6. In tedesco umwälzende Praxis,

espressione ricorrente nelle Tesi su Feuerbach di Marx [t7] e al centro anche dell’interpretazione del marxismo come filosofia della prassi, elaborata in Italia da Gentile, Mondolfo e Gramsci [cfr. 8.4, 12.1]. Per Horkheimer e Adorno è necessario che tale prassi sia col-

della teoria verso l’inconscienza con cui la società lascia indurirsi il pensiero. A rendere difficile la realizzazione non sono i suoi presupposti materiali, la tecnica scatenata come tale. Questa è la tesi dei sociologi, che cercano ora un nuovo antidoto, magari di stampo collettivistico, per venire a capo dell’antidoto. Responsabile è un complesso sociale di accecamento. Il mitico rispetto scientifico dei popoli per il dato che essi stessi producono continuamente finisce per diventare, a sua volta, un dato di fatto, la roccaforte di fronte a cui anche la fantasia rivoluzionaria si vergogna di sé come utopismo e degenera in passiva fiducia nella tendenza oggettiva della storia.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Secondo Horkheimer e Adorno, quali caratteri deve avere una effettiva conoscenza critica? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alla domanda. 2. Quali sono i modi in cui si attua il processo di reificazione del mondo e degli spiriti? 3. Perché, secondo Horkheimer e Adorno, «l’illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione»?

legata a una teoria critica, consapevolmente negatrice del presente, la quale, tuttavia, trova ostacoli ad affermarsi non tanto nella tecnologia, quanto nel dominio totale della società sugli individui, connesso alla mitizzazione e mistificazione dei fatti che si producono a livello del pensiero. Generando un at-

teggiamento di passività e di accettazione nei confronti della realtà e di un presunto corso oggettivo e necessario della storia, questa situazione frappone ostacoli al libero dispiegarsi della fantasia utopica e rivoluzionaria.

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t37 Marcuse / Repressione addizionale e immaginazione Marcuse

Eros e civiltà

parte I, cap. 2; parte II, cap. 7

L’opera di Marcuse Eros e civiltà ha la sua origine in una serie di conferenze da lui tenute nel 1950-51 alla Washington School of Psychiatry. AI centro di essa vi è una discussione delle teorie freudiane sulla formazione della civiltà, sui costi e sulle modificazioni da essa apportate all’apparato psichico degli uomini. Qui si riportano i brani in cui Marcuse corregge e integra Freud, impiegandone le categorie concettuali, da una parte, per spiegare i tratti specifici che la repressione assume nella situazione storica odierna e, dall’altra, per delineare il profilo di una possibile futura società libera dalla repressione degli istinti che è stata prodotta dal dominio degli uomini sulla natura e sugli altri uomini.

Storicità della repressione e del lavoro come prestazione

b) Principio di prestazione: la forma storica prevalente del principio della realtà2.

La discussione seguente è un’«estrapolazione» che ricava dalla teoria di Freud nozioni e asserzioni in essa implicite solo in una forma reificata, in una forma cioè nella quale i processi storici appaiono come processi naturali (biologici)1. Da un punto di vista terminologico, questa estrapolazione richiede un raddoppiamento dei concetti: i termini freudiani che non distinguono adeguatamente tra le vicissitudini biologiche degli istinti e le vicissitudini storico-sociali devono venire accompagnati da termini corrispondenti atti a designare la componente storico-sociale specifica. A questo punto introduciamo due di questi termini:

Dietro il principio della realtà sta il fatto fondamentale dell’Ananke o penuria, e ciò significa che la lotta per l’esistenza si svolge in un mondo troppo povero per poter soddisfare i bisogni umani senza continue limitazioni, rinunce e differimenti. In altri termini quel tanto di soddisfazione che è possibile raggiungere necessita lavoro, un adattamento più o meno doloroso, e attività per procurare i mezzi atti a soddisfare i bisogni. Per tutta la durata del lavoro, che praticamente occupa l’intera esistenza dell’individuo maturo, il piacere è «sospeso» e predomina la pena. E poiché gli istinti fondamentali lottano per il predominio del piacere e per l’abolizione del dolore e della pena, il principio del piacere è incompatibile con la realtà, e gli istinti devono sottomettersi a un regime repressivo. Ma questo argomento, che compare spesso sull’orizzonte della metapsicologia di Freud, è fallace in quanto si applica al fatto bruto della penuria e di un atteggiamento esistenziale spe-

a) Repressione addizionale: le restrizioni rese necessarie dal potere sociale, o dominio sociale. Esso si distingue dalla repressione fondamentale, o di base, cioè dalle «modificazioni» agli istinti strettamente necessarie per il perpetuarsi della razza umana nella civiltà.

1. Marcuse definisce la propria discus-

sione di Freud una estrapolazione, nel senso che trasferisce sul piano storico i concetti impiegati da Freud per descrivere quella che egli considerava una situazione naturale e ineliminabile, ossia il carattere necessariamente repressivo della società in quanto tale. L’operazione di Marcuse consiste nello sdoppiare i concetti freudiani in riferimento a questi due livelli, naturale e storico: in tal modo, agli originari concetti freu-

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diani di repressione e di principio di realtà, che caratterizzano il piano biologico, vengono ad aggiungersi i concetti di repressione addizionale e di principio di prestazione, che caratterizzano il piano storico. 2. Per i concetti freudiani di repressione e di principio di realtà [cfr. 11.1-3]. Il principio di prestazione è il modo in cui si configura storicamente il principio di realtà. Mentre quest’ultimo comporta, in generale, la rinuncia e il diffe-

12. interpretazioni e sviluppi del marxismo

rimento dei piaceri connessi alla soddisfazione delle pulsioni libidiche, le quali potrebbero avere conseguenze distruttive per gli uomini, il principio di prestazione determina una stratificazione all’interno della società secondo le prestazioni economiche fornite da ciascuno dei suoi membri. Esso è dunque specifico di una situazione, nella quale vige un regime di concorrenza economica e s’impone una divisione del lavoro.

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cifico imposto da questa organizzazione3. Durante tutto il corso della civiltà il bisogno prevalente fu sempre organizzato (anche se in forme molto diverse) in modo tale da non distribuire mai collettivamente la penuria a seconda delle necessità individuali, così come la conquista dei beni necessari alla soddisfazione dei bisogni non fu organizzata con l’obiettivo di soddisfare nel modo migliore le necessità degli individui, man mano che esse si sviluppano. Al contrario la distribuzione della penuria come anche lo sforzo di superarla con il lavoro sono stati imposti agli individui – dapprima con la violenza pura, più tardi con un’utilizzazione più razionale del potere. Ma per quanto utile possa essere stata questa razionalità per il progresso dell’insieme, essa rimase una razionalità del dominio, e la graduale vittoria sulla penuria fu indissolubilmente legata agli interessi degli individui dominanti, e forgiata nei modi scelti da questi ultimi. Il dominio è ben diverso dall’esercizio razionale dell’autorità. Quest’ultimo, che è inerente a ogni divisione del lavoro in ogni società, proviene dalla consapevolezza, ed è limitato all’amministrazione di funzioni e di ordinamenti necessari al progresso dell’insieme. Invece il dominio viene esercitato da un gruppo particolare o da un individuo particolare allo scopo di mantenersi e rafforzarsi in una posizione privilegiata. Un dominio di questo genere non esclude un progresso tecnico, materiale e intellettuale, ma soltanto come sottoprodotto inevitabile, mentre continua a conservare penurie, bisogni e restrizioni irrazionali4. 3. Secondo Marcuse, il ragionamento

che porta Freud a riconoscere la necessità di un dominio del principio di realtà su quello del piacere parte dall’assunzione erronea che la penuria, ossia la scarsità di beni necessari a soddisfare i bisogni umani, sia non solo un dato naturale costante, ma richieda sempre un lavoro faticoso per superarla e, quindi, la repressione degli istinti fondamentali. In realtà, secondo Marcuse, è l’organizzazione sociale che distribuisce la penuria in maniera diseguale e tende pertanto a soddisfare i bisogni in maniera diseguale, a beneficio soltanto

I vari modi di dominio (dell’uomo e della natura) portano a varie forme storiche del principio della realtà. Per esempio, una società nella quale tutti i membri lavorino normalmente per il loro sostentamento rende necessari altri modi di repressione di una società nella quale il lavoro rappresenta il settore esclusivo di un unico gruppo specifico. Analogamente, la repressione avrà una portata e un’intensità diverse a seconda che la produzione sociale sia orientata sul consumo individuale o sul profitto: se prevale la libera concorrenza o l’economia pianificata; se la proprietà è privata o collettiva. Queste differenze incidono sul contenuto stesso del principio della realtà, poiché ogni forma di principio della realtà deve essere incorporata in un sistema di istituzioni e relazioni, di leggi e valori della società, che trasmettano e impongano la richiesta «modificazione» degli istinti. Questo «corpo» del principio della realtà è diverso nei diversi stadi della civiltà. Inoltre, mentre ogni forma di principio della realtà esige comunque un grado e una misura notevole di indispensabile controllo repressivo degli istinti, le istituzioni storiche specifiche del principio della realtà e gli specifici interessi del dominio introducono controlli addizionali al di là e al di sopra di quelli indispensabili all’esistenza di una comunità civile. Questi controlli addizionali che provengono dalle specifiche istituzioni del dominio costituiscono ciò che noi chiamiamo repressione addizionale. Per esempio le modifiche e le deviazioni dell’energia istintuale rese necessarie dal perpe-

di alcuni e non di tutti. È questa la matrice storica del principio di prestazione col suo carattere impositivo e repressivo. 4. Marcuse considera l’autorità necessaria a ogni organizzazione razionale del lavoro, in vista dello svolgimento efficace delle funzioni che sono necessarie per soddisfare i bisogni di tutti i membri della società. Essa è distinta dal dominio, che è invece esercitato a vantaggio di pochi attraverso lo sfruttamento degli altri. Il dominio non è incompatibile con lo sviluppo tecnologico, economico e culturale, anzi questo

serve a rafforzare il dominio stesso, anziché a eliminare la penuria di tutti. Le varie epoche storiche si distinguono in base al diverso configurarsi del principio di realtà in relazione alle modalità che assume il dominio sulla natura e sugli altri uomini. Di volta in volta, infatti, questo principio s’incarna in leggi, norme e valori, che impongono comandi e divieti agli istinti, in modo da renderli funzionali ai caratteri specifici di tale dominio. È a questo livello che si determina quella che Marcuse chiama «repressione addizionale».

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tuarsi della famiglia patriarcale-monogamica, o da una divisione gerarchica del lavoro, o dal controllo pubblico dell’esistenza privata dell’individuo, sono esempi di una repressione addizionale propria alle istituzioni di un particolare principio della realtà. Esse si aggiungono alle restrizioni fondamentali (filogenetiche) degli istinti, che segnano lo sviluppo dell’uomo da animale umano a animal sapiens5. [...]

La produttività, il dominio e l’immaginazione Abbiamo suggerito l’ipotesi che la repressione istintuale corrente non sia tanto il risultato della necessità del lavoro quanto dell’organizzazione sociale specifica del lavoro, imposta dagli interessi del dominio – e che la repressione sia in ampia misura repressione addizionale. Conseguentemente, l’eliminazione della repressione addizionale tenderebbe di per sé a eliminare non il lavoro, ma la organizzazione dell’esistenza umana in uno strumento di lavoro. Se questo è vero, il sorgere di un principio della realtà non repressivo altererebbe ma non distruggerebbe l’organizzazione sociale del lavoro: la liberazione dell’Eros potrebbe creare nuovi e duraturi rapporti di lavoro6. La discussione di quest’ipotesi si trova a dover affrontare fin da principio uno dei valori più gelosamente custoditi della cultura moderna – quello di produttività. Questo concetto esprime forse più di ogni altro l’impostazione esistenziale della civiltà industriale; esso permea la defini5. La filogenesi riguarda la formazione e lo sviluppo degli istinti della specie umana, mentre l’ontogenesi riguarda quelli del singolo individuo, che ricapitola lo sviluppo della specie. La sfera essenziale nella quale si esercita la repressione addizionale è la sessualità: il primato viene assunto dalla genitalità, ossia il soddisfacimento della sessualità è ristretto a scopi puramente procreativi, funzionali alla perpetuazione della famiglia monogamica. Le energie libidiche, risparmiate attraverso la repressione addizionale, possono così essere investite nel lavoro, ossia in prestazioni utili alla società.

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zione filosofica del soggetto in termini di un Io sempre trascendente. L’uomo viene valutato secondo la sua capacità di creare, accrescere e migliorare oggetti socialmente utili. La produttività indica quindi il grado di dominio e di trasformazione della natura: la sostituzione progressiva di un ambiente naturale non controllato da parte di un ambiente tecnico controllato. Ma quanto più la divisione del lavoro era attrezzata in modo da essere più utile all’apparato produttivo istituito che agli individui – in altri termini, quanto più i bisogni sociali divergevano dai bisogni individuali – tanto più la produttività tendeva a contraddire il principio del piacere, e a diventare fine a se stessa. Il termine stesso ha finito coll’acquistare un sapore di repressione o il sapore della sua glorificazione filistea: esso significa diffamazione e risentimento nei confronti del riposo, dell’indulgenza, della recettività – il trionfo sugli «Strati inferiori» dell’anima e del corpo, l’addomesticamento degli istinti da parte della ragione sfruttatrice. Efficienza e repressione convergono: e l’aumento della produttività del lavoro è un ideale sacrosanto tanto per lo stakhanovismo capitalista che per quello staliniano. La nozione di produttività ha i suoi limiti storici: sono i limiti del principio di prestazione. Al di là del suo regno, la produttività acquista un altro contenuto e un altro rapporto col principio del piacere: contenuto e rapporto anticipati dall’immaginazione che preserva la libertà dal principio di prestazione, mantenendo ferma la richiesta di un nuovo principio della realtà7.

6. La liberazione dalla repressione addi-

zionale è correlativa alla liberazione dell’eros, ma ciò. non equivale, secondo Marcuse, all’eliminazione del lavoro in quanto tale: si tratta, invece, dell’eliminazione di una specifica organizzazione del lavoro, nella quale il lavoro, posto sotto l’egida della produttività, diventa il fine dell’esistenza per i più e il mezzo per dominarli per altri. La liberazione comporterà, invece, una liberazione dal carattere repressivo del lavoro, che potrà ridiventare mezzo per tutti per soddisfare i bisogni di tutti. Marcuse sottolinea il carattere ipotetico di queste considerazioni sulle possibilità future.

12. interpretazioni e sviluppi del marxismo

7. La produttività, come ideale della

società industriale avanzata in tutti i suoi aspetti, è legata storicamente al principio di prestazione, che impone ai membri di essa la subordinazione e l’adeguamento a questo ideale. La liberazione del principio di prestazione comporta, dunque, una trasformazione della produttività e dello stesso principio di realtà, che non sarà più antagonistico rispetto al principio del piacere. l caratteri che potrà assumere questa nuova situazione, libera dalla repressione addizionale, possono soltanto essere immaginati.

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Le richieste utopistiche dell’immaginazione si sono saturate di realtà storica. Se le realizzazioni del principio di prestazione vanno al di là delle sue istituzioni, esse militano anche contro la direzione della sua produttività – contro il soggiogamento dell’uomo da parte del lavoro. Liberata dal suo stato di asservimento, la produttività perde il suo carattere repressivo e impone il libero sviluppo dei bisogni individuali. Un simile cambiamento di direzione verso il progresso va al di là della riorganizzazione fondamentale del lavoro sociale che esso presuppone. Per quanto equa e razionale sia l’organizzazione della produzione materiale, essa non potrà mai rappresentare un regno di civiltà e di soddisfazione; ma potrà rendere disponibili tempo e energia per il libero gioco delle facoltà umane al di fuori del regno del lavoro alienato. Quanto più completa è l’alienazione del lavoro, tanto maggiore è il potenziale di li-

8. L’automazione, ossia l’attribuzione a macchine della maggior parte del lavoro, è un tema che attrae l’interesse degli autori che operano nell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte: l’opera più cospicua è quella di Friedrich Pollock, amico di Horkheimer, intitolata appunto Automazione. Conseguenze economiche e sociali (1956). Marcuse interpreta l’automazione come un potenziale strumento di liberazione dal carattere coercitivo del lavoro, ma ciò richiede, a suo avviso, una diversa or-

bertà: l’optimum sarebbe un’automatizzazione totale8. È la sfera al di fuori del lavoro che determina la libertà e la realizzazione, ed è la possibilità di determinare l’esistenza umana in base ai valori di questa sfera che costituisce la negazione del principio di prestazione.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono i concetti freudiani utilizzati da Marcuse in questo testo? 2. In che cosa consiste il principio di prestazione? 3. Che rapporto c’è, secondo Marcuse, tra il lavoro e la soddisfazione del principio di piacere? 4. Perché la distribuzione della penuria, così come la graduale vittoria su di essa, sono realizzate secondo una logica di dominio e non secondo il principio di realtà? 5. In che cosa consiste la repressione addizionale?

ganizzazione sociale del lavoro, non più funzionale al dominio di pochi, ma piuttosto espressione del «libero gioco delle facoltà umane». Richiamandosi alle Lettere sull’educazione estetica di Schiller [cfr. vol. II, 16.4] e all’utopia del lavoro attraente di Fourier [   approfondimento, p. 45], Marcuse individua, tra gli elementi caratterizzanti di un ordine sociale non più repressivo, «la trasformazione del lavoro faticoso in gioco e di produttività repressiva in libertà espansiva», trasformazione che

deve però essere preceduta dall’abolizione della penuria e del bisogno come fattori determinanti della civiltà. Il presupposto delle considerazioni qui svolte da Marcuse è che solo «un ordine di abbondanza», quando tutti i bisogni fondamentali possono essere soddisfatti con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in un tempo minimo, è compatibile con la libertà: solo allora sarà possibile l’instaurazione del regno della libertà, diverso da quello della necessità e del lavoro faticoso.

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esercizi/12 CHE COSA SO?

13. Qual è il compito che Gramsci attribuisce agli intellettuali nella società contemporanea?

Guida allo studio del manuale

14. Qual è l’ambito di applicazione della dialettica, secondo Lukács?

1. Evidenzia la tesi di Korsch contenuta in Marxismo e filosofia (1923). 2. Evidenzia in che cosa consiste l’autocritica di Lukács. 3. Evidenzia quali sono, secondo Bloch, i due tipi di dialettica. 4. Evidenzia la posizione di Benjamin nel campo dell’arte. 5. Evidenzia le espressioni che illustrano l’obiettivo teorico e culturale dell’Istituto per la ricerca sociale, fondato a Francoforte nel 1923. 6. Evidenzia qual è, secondo Horkheimer, il fine nascosto delle forme tradizionali di teoria e di sapere scientifico. 7. Evidenzia i concetti chiave della Dialettica dell’Illuminismo. 8. Evidenzia quali sono, secondo Horkheimer e Adorno, i caratteri dell’industria culturale. 9. Evidenzia in che modo, secondo Marcuse, la società capitalistica occidentale tende ad essere totalitaria. 10. Evidenzia in che modo Althusser si serve della nozione lacaniana di sovradeterminazione. Dizionario filosofico 11. Definisci i seguenti concetti: blocco storico (Gramsci) • reificazione (Lukács) • speranza (Bloch) • teoria critica (Horkheimer) • immaginazione (Marcuse) • pratica teorica (Althusser)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 12. Individua i caratteri che il marxismo assume in Gramsci.

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15. Che rapporto c’è, per Lukács, tra «coscienza di classe» e «prassi rivoluzionaria»? 16. Qual è, secondo Lukács, il carattere fondamentale del capitalismo? 17. Qual è l’assunto dell’«ontologia del non-essereancora» elaborata da Bloch? 18. Qual è la concezione della storia sostenuta da Benjamin? 19. Quale funzione Adorno attribuisce alla nozione di totalità? 20. Qual è il ruolo che Adorno assegna all’arte nella società attuale? 21. Ricostruisci la tesi attorno a cui Marcuse fonda l’analisi di Eros e civiltà. 22. Qual è, secondo Marcuse, il compito della filosofia nell’attuale società unidimensionale? 23. Che rapporto c’è, secondo Althusser, tra «contraddizione principale» e «contraddizioni secondarie» nella struttura sociale? Trattazione sintetica di argomenti (max 15-20 righe) 24. Metti a confronto le concezioni di storicismo di Croce e di Gramsci. 25. Metti a confronto la distinzione tra le scienze naturali e le scienze dello spirito, formulata nell’ambito dello storicismo tedesco, con la stessa distinzione avanzata da Lukács. 26. Che differenza c’è tra la concezione della dialettica propria dei franconfortesi e quella di Lukács? 27. In che modo la concezione di utopia, elaborata da Bloch, rappresenta una nuova interpretazione della dialettica hegeliana? 28. Illustra la concezione di «illuminismo» elaborata da Horkheimer e Adorno. 29. Perché nella società contemporanea la ragione, secondo Horkheimer, è diventata «ragione strumentale»?

esercizi/12

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esercizi/12 30. Qual è la critica che Adorno muove alla dialettica hegeliana? E di quale concezione della dialettica, invece, egli si fa promotore? 31. Quali sono, secondo Marcuse, le caratteristiche della società industriale avanzata e del tipo d’uomo (a una dimensione) da essa prodotto?

esercizi/12

32. Secondo Althusser, le Tesi su Feuerbach e l’Ideologia tedesca rappresentano una rottura epistemologica rispetto alla precedente produzione marxiana. Perché?

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potere di decidere lo stato di eccezione, con sospensione di leggi costituzionali. Tali decisioni non possono scaturire da una discussione democratica parlamentare. Secondo Schmitt, nell’età contemporanea si assiste alla crisi della politicità e dello Stato, ormai al servizio dell’economia. arendt: il primato dell’agire politico

13. temi e problemi di filosofia politica i contenuti la cultura di destra

Dopo la Prima guerra mondiale si apre in Germania una riflessione sui risultati della modernità, sugli effetti della scienza e della tecnica, sulle modalità di funzionamento dell’economia e della politica. Come molti altri intellettuali, Jünger aveva visto nella guerra una sorta di rito sacro capace di risvegliare l’unità spirituale del popolo tedesco e di sancire la fine dell’epoca borghese. Ad essa sarebbero seguite l’epoca del

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lavoratore, caratterizzata dal dominio totale della tecnica, e l’epoca del guerriero, in cui si sarebbero poste le basi per un nuovo mondo e per una nuova umanità. schmitt: stato e sovranità

Per Schmitt la sfera del politico poggia sulla distinzione tra amico e nemico e lo Stato è la sola entità politica che può determinare chi è il nemico (esterno o interno), promuovere la guerra e richiedere il sacrificio estremo. Quando l’ordine e l’esistenza stessa dello Stato sono minacciati, la sovranità è in chi possiede l’autorità e il

13. temi e problemi di filosofia politica

Dopo una riflessione sulle Origini del totalitarimo (1951), individuate nella strategia del terrore e nell’annullamento delle identità individuali, Arendt segue il processo al nazista Eichmann (svoltosi a Gerusalemme nel 1960), mettendo in luce la sua incapacità di distinguere il bene dal male e attribuendo una parte delle responsabilità del genocidio agli stessi ebrei. Successivamente, Arendt si interroga sul tema dell’equilibrio delle attività umane, esaminando le tre componenti della vita attiva (lavoro, fabbricazione, azione) e la loro reciproca articolazione nelle differenti epoche storiche dell’umanità. Nel mondo moderno, secondo Arendt, il lavoro ha preso il sopravvento sull’azione, ovvero sull’ambito specificamente umano della politica e della creazione del nuovo. Nella sua ultima opera pubblicata postuma, La vita della mente, Arendt descrive le tre forme della vita spirituale dell’uomo – pensare, volere, giudicare – e mette in luce il carattere eminentemente politico delle ultime due. habermas e l’agire comunicativo

Lo scopo della riflessione di Habermas è quello di trovare le condizioni di possibilità della prassi, e cioè dell’agire politico, nelle odierne democrazie: per questo motivo, egli pretende di pervenire a una fondazione razionale e universale dell’agire, partendo dall’analisi della sua dimensione linguistica. Rispetto all’agire strumentale – basato sul sapere empirico, con regole

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tecniche (ad esempio il lavoro) – Habermas distingue l’agire comunicativo, che è interazione tra individui mediata simbolicamente attraverso il linguaggio. In ogni atto del parlare è immanente il fine di raggiungere un’intesa reciproca – un consenso libero e universale – anche se il linguaggio può di fatto essere usato come strumento di dominio.

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il confronto tra habermas e apel

Secondo Apel ogni parlante avanza pretese di comprensibilità, verità, veridicità e giustezza: se non le avanzasse, si avrebbe un’autocontraddizione pragmatica (o performativa). Tali pretese sono le condizioni formali minime per garantire proceduralmente la

comunicazione ideale e per fondare un’etica valida per tutti gli esseri razionali. Partendo di qui Habermas elabora una teoria consensuale e procedurale della verità, diversa dal consenso estorto e avente la sua base nella pura cogenza razionale dell’argomentazione orientata verso discorsi universalmente validi.

gli strumenti in poche… parole politico / vita activa / agire strumentale e agire comunicativo / etica del discorso

i testi a. nel manuale t38 Schmitt/Il politico t39 Arendt/L’azione e la politica

b. on-line Habermas/L’etica e l’agire comunicativo

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

13. temi e problemi di filosofia politica

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1. La grande guerra e la cultura di destra prima e dopo la grande guerra

La Prima guerra mondiale – conclusasi con la sconfitta della Germania e dell’Austria – e la rivoluzione russa del 1917 rappresentarono due eventi traumatici, che indussero gli intellettuali europei a una rinnovata riflessione sul corso della storia e sui caratteri della società occidentale. La maggior parte di essi si era schierata a favore dell’intervento e aveva difeso le ragioni del coinvolgimento della propria nazione in guerra, mediante scritti e discorsi di propaganda.

il conflitto tra cultura e progresso

In Germania, la guerra fu sovente interpretata come una situazione eccezionale che, al di là della banalità dell’esistenza quotidiana, richiedeva una decisione assoluta da parte dell’individuo e lo conduceva a ritrovare i legami di sangue e di spirito con il proprio popolo e la propria tradizione. La guerra appariva allora come un conflitto tra due concezioni antitetiche del mondo, esprimibili nella contrapposizione fra la cultura (Kultur) e il mondo dello spirito, di cui la nazione germanica era depositaria, e la Zivilisation, ovvero la civiltà borghese. Questa trovava la sua espressione nelle democrazie occidentali (Francia e Inghilterra), fondate sui princìpi della rivoluzione francese e protese soltanto alla conquista del benessere materiale grazie ai progressi della tecnica.

il conflitto tra comunità e società

Riprendendo una coppia di concetti che erano stati introdotti dal sociologo Ferdinand Tönnies (1855-1936), nella sua opera Comunità e società (1887), tale contrasto veniva espresso sostenendo che il mondo della cultura era collegato alla comunità (Gemeinschaft), caratterizzata da legami organici tra i suoi membri, mentre quello della civiltà aveva il suo corrispettivo nella società (Gesellschaft), in cui gli individui sussistono separati tra loro e mossi da interessi puramente particolari. Con grande chiarezza il sociologo tedesco illustra le differenze tra comunità e società: «la comunità è la convivenza durevole e genuina, la società è soltanto una convivenza passeggera e apparente. È quindi coerente che la comunità debba essere intesa come un organismo vivente, e la società invece come un aggregato e prodotto meccanico» (Comunità e società, 1).

gli intellettuali tedeschi di fronte alla modernità

La fine della guerra, l’instaurazione del sistema parlamentare con la repubblica di Weimar, il peso crescente dei movimenti di sinistra e i gravi conflitti sociali dell’immediato dopoguerra apparvero agli intellettuali tedeschi antidemocratici e nazionalisti i risultati esiziali della modernità. La critica alla modernità, al mondo della tecnica, allo sviluppo della società borghese e alle istituzioni della democrazia rappresentativa costituì il polo di coesione per intellettuali e filosofi, esponenti di una cultura di destra variamente orientata e talora contrastante al suo interno, ma convergente su questo obiettivo polemico.

2. Jünger l’elogio della guerra

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L’esperienza della guerra, durante la quale compì imprese eccezionali, fu decisiva per Ernst Jünger. Nato nel 1895, in gioventù si era arruolato nella 13. temi e problemi di filosofia politica

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legione straniera, spintovi dal desiderio di azione e da uno spirito antiborghese. Egli indicò nella guerra, proprio a causa della sua prossimità con la morte, il momento di massima intensità della vita. La guerra è un rito sacro nel quale si produce voluttà ed ebbrezza, è la manifestazione dello spirito di una comunità, legata da un unico destino e tenuta a battesimo dal sangue, e rappresenta la fine dell’epoca borghese, che mira soltanto alla sicurezza e al benessere e pretende di eliminare la pericolosità. Ma la guerra segna la fine di quest’epoca anche in un altro senso, che Jünger precisa in opere quali La mobilitazione totale (1930) e Il lavoratore (1932). Il servizio militare obbligatorio dà origine a un nuovo tipo di guerra, che mobilita tutto il popolo e la nazione: ciò annuncia, secondo Jünger, una nuova epoca, in cui il lavoro pervade ogni aspetto della vita e della realtà. È l’epoca del lavoratore, caratterizzata dal dominio totale della tecnica. Se è usata soltanto come strumento per il conseguimento del benessere economico e della sicurezza borghese, la tecnica porta alla massificazione e all’involgarimento. Ma la tecnica può anche aprire nuove possibilità: la guerra stessa, infatti, ha dimostrato la superiorità di gruppi scelti ben armati e addestrati rispetto alle masse. In questo quadro, nasce un tipo di uomo completamente nuovo, superiore agli individui anonimi che compongono la massa e destinato a conquistare il potere politico.

la tecnica e l’uomo nuovo

La tecnica diventa così sinonimo di volontà di potenza e, allo stesso tempo, la base per distruggere il vecchio assetto borghese e cristiano e costruire nuove gerarchie di potere: al vertice di queste vi sarà la figura del guerriero. Attraverso la tecnica si pongono le basi per la costituzione di un dominio mondiale, fondato su un nuovo ordine e una nuova umanità. Secondo Jünger, l’epoca presente è uno stato di transizione verso questa nuova epoca, che sarà caratterizzata da uno stile monumentale, reso possibile da una straordinaria disponibilità di mezzi.

il guerriero e il dominio del mondo

Con questi temi era consonante la propaganda nazista, sia nella versione arcaizzante, che insisteva sui legami di sangue e di suolo come fondamento del popolo e della nazione, sia nella versione modernizzante, che scorgeva nella tecnica il mezzo essenziale per assicurare la vittoria e il dominio e, a tale scopo, procedeva all’organizzazione di corpi paramilitari. Quando, tuttavia, nel 1933, il Partito nazionalsocialista giunse al potere, Jünger si tenne in disparte, e solo nel dopoguerra riprenderà le tematiche precedenti, soprattutto in Oltre la linea (1950), dedicato a Heidegger.

i rapporti con il nazismo

L’età moderna appare a Jünger contrassegnata da una moltiplicazione di idoli e di fedi e rappresenta, dunque, un momento del processo di avvicinamento al nichilismo completo. In questa situazione è possibile cogliere con maggiore lucidità i sintomi di tale processo, che rischia di annullare gli individui e di condurre a una catastrofe universale: le decisioni, infatti, vengono prese da grandi centri di potere, lo Stato divora ogni cosa, gli individui diventano sempre meno padroni della propria interiorità e tutto tende a essere esteriorizzato e reso uniforme.

modernità e nichilismo

Il nichilismo, tuttavia, secondo Jünger, non può impadronirsi dei due aspet-

l’arte e la poesia

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ti essenziali della vita, l’amore e la morte, né dell’ambito in cui si condensa l’interiorità spirituale, ossia l’arte. Jünger ravvisa l’unica via di salvezza nella poesia, da lui accostata, in sintonia con Heidegger, al pensiero: «Nel linguaggio – egli dice – il sole sorge ancora» e, attraverso esso, ci si avvia verso un nuovo inizio, i cui tratti sono ancora incerti.

3. Schmitt la vita

Tra i sostenitori del regime nazista – instaurato nel 1933 – uno dei più importanti fu Carl Schmitt (1888-1985), teorico della politica e del diritto. Nato da famiglia cattolica in Renania, dopo aver compiuto studi di legge, insegnò dopo la guerra nelle università di Greifswald e Bonn e nel 1928 ottenne la cattedra di Diritto nella scuola di specializzazione in amministrazione commerciale di Berlino. Nel 1933 si iscrisse al Partito nazionalsocialista, fu nominato consigliere di Stato prussiano e ottenne la cattedra di Diritto pubblico a Berlino. Dopo il massacro delle SA, avvenuto nel giugno del 1934, egli si tenne un po’ in disparte dal regime, in quanto il gruppo che faceva capo a Rosenberg non approvava il primato da lui accordato allo Stato rispetto al popolo e al partito. Egli difese, tuttavia, le leggi che nel 1935 sopprimevano i diritti civili degli ebrei e accentuò il suo antisemitismo, così come in seguito giustificherà e glorificherà la guerra e le vittorie di Hitler. Nel 1945 fu arrestato dagli alleati, venne internato in un campo e nel 1947 fu indiziato per crimini di guerra nel processo di Norimberga, dove si difese sostenendo che i suoi scritti erano soltanto analisi teoriche. Rilasciato, si ritirò a vita privata a Plettenberg – sua città natale – dove trascorse i suoi ultimi anni.

un pensiero conservatore

In tutta la sua opera, Schmitt si mantiene fedele al principio dell’obbedienza dovuta all’autorità legalmente costituita: il concetto centrale del suo pensiero è sempre quello di Stato, inteso come entità politica sovrana, con la quale si identifica il popolo. Il problema essenziale consiste nel garantire la sicurezza dello Stato e il mantenimento dell’ordine costituzionale esistente: è per questo che il pensiero politico di Schmitt è conservatore e non rivoluzionario. Ma come ci si deve comportare quando l’ordine e l’esistenza dello Stato sono messi in pericolo? Entro quali limiti è lecito sospendere la legge costituzionale per far fronte a tale pericolo? Chi ha il potere di decidere questa sospensione?

chi decide lo stato di eccezione?

A questi interrogativi, Schmitt tenta di rispondere attraverso vari scritti, in particolare con La dittatura (1921) e Teologia politica (1922). Schmitt distingue fra misure temporanee e leggi permanenti e considera lecita una dittatura soltanto in quanto misura temporanea ed eccezionale, volta a ristabilire l’ordine e la sicurezza e, quindi, a difendere la costituzione vigente. Se, infatti, queste misure transitorie si trasformano in leggi, si dissolve lo Stato di diritto esistente. Ma chi decide che ci si trova in una condizione di eccezione, nella quale lo Stato è in pericolo? Le norme non possono decidere quando esiste tale emergenza, né sono in grado di affrontarla, prevedendo in anticipo le misure da prendere di fronte a situazioni eccezionali e mutevoli. Al massimo, la costituzione può indicare chi assume in questi casi l’au-

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torità legale, ossia chi può dichiarare lo stato di eccezione e istituire la dittatura per risolvere la crisi. Per Schmitt, la sovranità risiede in chi possiede l’autorità di decidere lo stato di eccezione. Il sistema politico non può fondarsi soltanto su una norma giuridica fondamentale o su procedure tecniche di governo; occorre, invece, un’autorità che decida e garantisca la legalità. Tali decisioni non possono scaturire dalla discussione pubblica nel consesso parlamentare: la debolezza e l’instabilità dei governi – espressi dal regime parlamentare nella repubblica di Weimar – appaiono a Schmitt una conferma della sua diagnosi. Senza un’autorità sovrana in grado di decidere che cos’è giusto in un caso particolare, esiste soltanto una lotta di gruppi, che combattono ognuno in nome della giustizia o dell’ordine.

l’autorità sovrana

Convinto dell’inefficacia di fattori morali nella politica, Schmitt inclina sempre più verso una forma di realismo politico, ispirato anche al pensiero di Hobbes. Al fondo c’è una concezione pessimistica della natura umana: la politica non sarebbe necessaria tra uomini buoni. Ogni teoria politica presuppone, secondo Schmitt, che l’uomo sia un essere pericoloso e che caratteristica fondamentale della vita politica sia l’inimicizia.

homo homini lupus

In uno scritto del 1927, intitolato Il concetto di politico, egli cerca di individuare la specificità del politico – in quanto distinto da ciò che invece attiene all’economia, alla morale, ecc. – e lo trova nella distinzione amico-nemico [t38]. In altre parole, dove c’è tale distinzione, c’è politica e dove c’è politica, c’è necessariamente tale distinzione. Il nemico non è colui con il quale si è in concorrenza sul piano economico o verso il quale si prova avversione o odio personale. Nemico è l’altro, lo straniero, con il quale possono insorgere conflitti, ma ciò non significa che la sfera del politico coincida per forza con la guerra. Questa può essere una conseguenza dell’inimicizia, ma non ne è né lo scopo né il contenuto, tanto è vero che in determinati casi può essere più «politico» evitarla.

la sfera del politico

Lo Stato è l’entità politica decisiva, perché solo a esso appartiene lo ius belli (il diritto di guerra): solo esso può determinare il nemico, promuovere la guerra e richiedere ai suoi membri il sacrificio estremo. In quanto tale, lo Stato è superiore a ogni altra entità politica o sociale, sicché classi o gruppi sociali antagonistici, partiti e associazioni possono esistere finché non mettono in pericolo l’ordine legale e politico stabilito. La funzione primaria dello Stato non si esprime nel fare la guerra o nel controllare la vita privata dei cittadini, ma nello stabilire l’ordine e la sicurezza: in casi estremi, esso può decidere qual è il nemico interno, ossia dichiarare tale il gruppo che minaccia l’esistenza dello Stato stesso. Quando il contrasto interno amiconemico si trasforma in un conflitto armato fra gruppi, allora lo Stato non è più l’entità politica decisiva e ne segue la guerra civile, nella quale ogni gruppo fa valere una propria distinzione amico-nemico.

il primato assoluto dello stato

Nel 1933 il Partito nazionalsocialista giunse al potere e la vecchia costituzione fu abrogata. Schmitt accettò il nuovo regime come legittimo e celebrò la figura di Hitler in quanto Führer, capo e guida della nazione, responsabile

la giustificazione dell’espansionismo nazista

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di tutte le decisioni. Suo campo d’indagine divennero allora soprattutto questioni di diritto e di politica internazionale. In opposizione alle pretese universalistiche delle democrazie occidentali e del bolscevismo, egli riprese da Hitler la nozione di spazio vitale, che consentiva di giustificare l’espansionismo militaristico della Germania. A questi temi di diritto internazionale dedicò l’opera Terra e mare (1942) e, nel dopoguerra, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus publicum europaeum (1950). dalla guerra fra stati alla guerra commerciale

Nell’età moderna il diritto pubblico europeo, secondo Schmitt, è ormai sulla via del tramonto, in quanto ha perso il suo centro di riferimento, costituito dalla terra in opposizione al mare. L’Inghilterra – conquistando le terre del Nuovo mondo – si è affermata come potenza marittima e imperiale, che si oppone alla potenza terrestre degli Stati continentali, fondati sull’identità collettiva della nazione e sulla difesa dell’integrità territoriale. Nell’affermazione di questo impero marittimo mondiale si annida il germe della rovina, perché conduce alla trasformazione del diritto fra gli Stati in diritto privato internazionale – ossia in diritto commerciale – e introduce una forma di moralismo universalistico, che fa appello al concetto discriminatorio di guerra giusta.

la crisi dello stato e la guerra partigiana

Questi cambiamenti segnalano, per Schmitt, la fine dell’epoca della statualità. Insieme al concetto di Stato si dissolvono le distinzioni fra diritto pubblico e diritto privato, fra diritto statale e interstatale, e crollano le barriere frapposte all’insorgenza della hobbesiana guerra di tutti contro tutti. La guerra moderna – sostiene Schmitt in Teoria del partigiano (1963) – è guerra partigiana, ossia ha la sua radice nelle ideologie e non trova più limiti nello Stato, anzi si radica all’interno dello Stato e della società. Il partigiano, infatti, non difende la terra da un’occupazione, ma conduce una lotta in nome di una propria verità ideologica: in tal modo, egli sostituisce al nemico pubblico un nuovo nemico privato e regredisce alla barbarie. Secondo Schmitt, questa crisi della politicità è in rapporto con il predominio dell’economia e della tecnica nel mondo contemporaneo. In questo contesto, lo Stato si trova ridotto ad assolvere una funzione puramente burocratica e organizzativa, al servizio del dominio economico sull’uomo.

4. Arendt tra europa e stati uniti

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Durante gli anni del nazismo, alcuni esponenti della cultura conservatrice – avversi sia ai valori della tradizione democratico-liberale che a quelli promossi dal marxismo – si rivolsero al passato per cercare nel pensiero e nell’esperienza politica dell’Antichità gli strumenti con cui affrontare le questioni del presente e sfuggire alle deviazioni del mondo moderno. In questa direzione operarono già in Europa, prima di emigrare, Eric Voeghelin (1901-1985) e Leo Strauss (1899-1973), e poi, negli Stati Uniti – anche se con intenzioni e prospettive affatto differenti – Hannah Arendt (19061975). 13. temi e problemi di filosofia politica

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Ebrea, Arendt nacque nei pressi di Hannover. Studentessa tra il 1924 e il 1929 nell’università di Marburgo, fu allieva di Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale. Arrestata nel 1933, fuggì a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York. Dopo la guerra poté riallacciare i suoi rapporti con Jaspers, mentre incontrò difficoltà con Heidegger anche per il persistente silenzio di quest’ultimo sulla propria adesione al nazismo.

la formazione e il rapporto con heidegger

Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di un giornale, il processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre, incapace di distinguere tra bene e male. Da ciò trasse la conclusione della «banalità del male», che non ha di per sé profondità, e attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo. Questa sua presa di posizione sollevò nei suoi confronti accuse di antisionismo.

il processo eichmann

Intanto, a partire dal 1956 aveva cominciato a insegnare all’università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago (tra il 1963 e il 1967) e infine alla New School for Social Research di New York, dal 1967 sino alla morte.

la carriera accademica

La prima opera significativa di Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è Le origini del totalitarismo (1951). Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una concezione filosofica, quanto l’esistenza di campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore non può essere edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità superflue. Per questo aspetto, secondo Arendt, esistono profonde analogie tra nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l’assenza di ogni salvaguardia delle libertà civili. L’esperienza della rivoluzione in Ungheria (1956) rafforza la sua convinzione che l’unica alternativa al totalitarismo nell’età moderna è data dal sistema dei Consigli: questi ultimi nascono spontanei – senza organizzazione – in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari.

il terrore totalitario

Lo studio di Marx e del problema del lavoro la conduce a interrogarsi sul tema dell’equilibrio delle attività umane: nasce di qui il volume La condizione umana (1958), noto anche col titolo Vita activa. Ispirandosi all’etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita attiva degli uomini: il lavoro, la fabbricazione (o produzione di oggetti) e l’azione (in greco, pràxis). Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo individuale, ma della specie umana; invece, la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre è possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in relazione almeno a un’altra persona, ossia – in generale – a una pluralità di individui. Ciò significa che lavoro e fabbricazione non realizzano qualità specificamente umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre.

le tre forme della vita attiva

Specificamente umano è, invece, l’agire insieme, che costituisce l’ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il rapporto tra gli individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica (la pòlis dei Greci) e la sfera privata (l’òikos): quest’ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del lavoro e della produzio-

agire politico ed emergenza del nuovo

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ne necessarie per sopravvivere; al contrario, la politica è il regno della libertà, dell’emergenza del nuovo. Tutte queste attività, infatti, sono radicate nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e conservare il mondo per i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l’agire come capacità di dar luogo a qualcosa di integralmente nuovo. le conseguenze del primato del lavoro

I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell’esperienza umana, variano storicamente. Nel mondo moderno il lavoro ha assunto una posizione di primato rispetto all’agire (prioritario presso i Greci) e al fabbricare (dominante nell’immagine cristiana di un Dio creatore). Questo mutamento ha indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato la nuova sfera del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all’òikos e alla pòlis. I risultati sono: da una parte, una nazione amministrata burocraticamente, come se si trattasse di un’unica famiglia, e un generale conformismo; dall’altra, una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata in intimità puramente individuale [t39].

subordinare l’azione alla teoria equivale a legittimare l’esistente

L’integrazione armonica delle varie attività, con l’attribuzione del primato all’agire – ossia alla politica – si è invece realizzata, secondo Arendt, nella pòlis. Già i filosofi greci avevano tuttavia minato questo modello, nel momento in cui – a partire da Platone – avevano spezzato la connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica, e subordinato la politica all’attività contemplativa (la theorìa). In questa situazione, la politica veniva concepita come un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore della teoria e sono accessibili soltanto a una saggezza superiore. Da questa impostazione sono nate – in età moderna – le filosofie, come quella hegeliana, che interpretano la storia come un processo necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevare dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici.

la prassi politica

In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una nuova scienza politica, che torni a porre al centro l’azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile né dall’uomo né da Dio. Infatti, quando un’azione si perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male e la distruzione degli uomini, proprio come per fare una frittata occorre rompere le uova.

le tre attività della mente: pensare...

L’ultima opera rimasta incompiuta, La vita della mente, pubblicata postuma nel 1978, è presentata da Arendt come «un trattato del buon governo mentale». Essa descrive le attività dello spirito – il pensare, il volere e il giudicare – cercando di mostrare la necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce significati, non la verità, che è piuttosto prodotta dal consenso.

... volere e giudicare

Il pensare consente di affrontare i fenomeni direttamente, senza alcun sistema preconcetto, e quindi prepara il terreno al giudizio, che rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera politica, in quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli in-

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dividui. In questo senso, la Arendt critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore del pensiero: ciò equivale, infatti, a rifiutare la politica. Condizione dell’armonia fra le tre attività è la libertà interna di ciascuna.

5. Habermas e Apel: la prassi e la comunicazione Assistente di Adorno presso l’Institut für Sozialforschung di Francoforte, Jürgen Habermas, nato nel 1929, è stato professore nell’università di Heidelberg dal 1961 al 1964 e poi in quella di Francoforte, sino al 1971; dal 1971 al 1982 ha diretto il Max Planck Institut e dal 1983 è tornato a insegnare nell’università di Francoforte. Nella prima fase del suo pensiero le principali fonti di ispirazione sono stati Hegel e Marx, nell’interpretazione fornita dalla Scuola di Francoforte.

la vita

In vari saggi raccolti in Teoria e prassi (1963), nonché in Storia e critica dell’opinione pubblica (1962) e Sulla logica delle scienze sociali (1968), Habermas si pone il problema di che cosa significhi prassi, ossia l’agire politico, nelle democrazie attuali, nelle quali il principio della pubblicità politica (in tedesco, Öffentlichkeit) si è trasformato in un’organizzazione del consenso attraverso la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa. Tale principio è sorto nell’età moderna e concepisce il pubblico come depositario dell’opinione pubblica, cui è attribuita una funzione critica, anche nei confronti del potere: strumento e veicolo di essa è la pubblica argomentazione razionale. Nella società attuale, però, il pubblico è diventato un semplice consumatore di cultura, le opinioni sono manipolate attraverso i mass-media e si assiste, di conseguenza, a un declino della sfera pubblica.

il declino della sfera pubblica

A questo punto, Habermas si chiede che tipo di prassi si debba mettere in campo per modificare l’assetto esistente e, così, emanciparsi da esso. Per rispondere a questa domanda, egli distingue tra agire strumentale e agire comunicativo. L’ agire strumentale è basato su un sapere empirico, è organizzato secondo regole tecniche e ha il suo ambito specifico di realizzazione nel lavoro: esso è razionale quando realizza scopi definiti, in condizioni date, mediante mezzi adeguati a tali fini. L’ agire comunicativo consiste, invece, in una interazione fra individui mediata dal linguaggio e organizzata in base a norme che definiscono aspettative reciproche di comportamento; tali norme devono essere comprese e riconosciute da almeno due individui e hanno carattere vincolante, sicché se non vengono riconosciute, intervengono sanzioni. La violazione delle regole dà luogo, nel caso dell’agire strumentale, a un comportamento incompetente e, nel caso di quello comunicativo, a un comportamento deviante.

agire strumentale e agire comunicativo

In questa prospettiva, assume una funzione centrale il concetto di interesse, in quanto anello di congiunzione fra teoria e prassi, come mostra soprattutto il volume Conoscenza e interesse (1968). Habermas distingue tra: interesse tecnico, costitutivo delle scienze empirico-naturali e volto a esercitare un controllo sulla natura; interesse pratico, proprio delle scienze storico-ermeneutiche e diretto alla comprensione della tradizione storico-culturale in vi-

emancipazione e interesse

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sta di un’intesa comunicativa; interesse emancipatorio – proprio delle scienze criticamente orientate (ad esempio la psicoanalisi e la critica dell’ideologia) – il quale mira a destare un’autoriflessione critica per sottrarre il soggetto a forme di dipendenza. la saldatura fra teoria e prassi

Il positivismo, aspirando a un sapere oggettivo totalmente disinteressato, ha rinnegato la connessione fra conoscenza e interesse; Hegel, invece, soprattutto nella Fenomenologia dello spirito, ha messo in luce il carattere emancipatorio della riflessione con cui il soggetto cerca di divenire trasparente a se stesso. Ciò significa che la conoscenza di se stesso e della propria specifica situazione storica viene a coincidere con l’interesse per la propria liberazione dalle costrizioni prodotte da tale situazione. Alla riflessione possono allora corrispondere le azioni emancipatrici: ecco la saldatura fra teoria e prassi enunciata da Marx. Quest’ultimo, tuttavia, ha posto al centro «l’autocostituzione del genere umano attraverso il lavoro» e, quindi, ha privilegiato l’agire strumentale. In realtà, occorre conciliare il processo dell’autoproduzione degli uomini attraverso il lavoro e quello dell’autoriflessione che mira a liberarli da ogni forma di comunicazione ideologica e distorta.

la ricerca di un’intesa libera e universale

L’unico esempio di interesse orientato, al tempo stesso, alla conoscenza di se stessi e alla propria liberazione è dato, per Habermas, dalla psicoanalisi. Essa fa emergere la dimensione inconscia e le connessioni simboliche, attraverso le quali un soggetto inganna e illude se stesso. Ciò significa che la struttura della comunicazione distorta non è un dato ultimo, ma presuppone una logica di comunicazione non distorta, ossia che in ogni atto del parlare è immanente il fine di raggiungere un’intesa reciproca, un consenso libero e universale. In altre parole, l’intendersi è un concetto normativo a priori, conosciuto istintivamente da ciascuno: esso rimanda a una forma di comunicazione nella quale i partecipanti cercano argomentazioni per giungere a un consenso ottenuto liberamente e capace di valere come razionale – non arbitrario o casuale.

apel: le pretese di validità della comunicazione

Le indagini di Habermas arrivano in tal modo a porre al centro la dimensione linguistica dell’agire e si avvicinano a quelle condotte contemporaneamente da Karl Otto Apel. Nato nel 1922 e professore dal 1972 nell’università di Francoforte, egli è autore di saggi raccolti in Trasformazioni della filosofia (1973) e in Discorso e responsabilità (1988). Anche per Apel si tratta di pervenire a una fondazione universale e razionale dell’agire partendo dall’analisi del linguaggio. Secondo Apel, chi parla avanza sempre di fatto pretese di comprensibilità (sulla base della correttezza grammaticale), di verità (in base a un corretto rapporto semantico tra ciò che si dice e la realtà), di veridicità (come espressione linguistica non distorta di quello che è lo stato interno del parlante) e di giustezza (ossia di adeguamento alle norme della comunità dei parlanti). Se tali pretese non fossero avanzate – anche solo implicitamente – in qualunque atto linguistico, il parlante cadrebbe in quella che Apel chiama un’autocontraddizione pragmatica o performativa. Tale è, per esempio, il caso di uno che affermi: «Dico che io non esisto»: questo enunciato produce una contraddizione pragmatica, in quan-

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to il contenuto proposizionale di esso («io non esisto») contraddice l’atto stesso del dire. Infatti, come sarebbe possibile che qualcuno parli, se non esiste? L’insieme delle pretese avanzate in ogni atto linguistico forniscono, dunque, le condizioni formali minime per garantire, dal punto di vista procedurale, la comunicazione ideale. Tale comunicazione non è realizzata di fatto, ma funziona da principio regolativo delle comunicazioni che avvengono realmente: il rispetto di esso garantisce l’imparzialità della discussione e il raggiungimento di un’intesa e un consenso universali. Infatti, sono validi i princìpi e le norme dell’agire che vengono riconosciuti da chi argomenta in modo imparziale, ossia libero da interessi particolari. L’etica fondata su questi princìpi è dunque valida per tutti gli esseri razionali, ma ha un carattere puramente formale, in quanto non descrive quali siano i contenuti della felicità, ma individua soltanto le condizioni formali a priori per realizzare di comune intesa – in modo pacifico – i contenuti di una vita felice.

comunicazione ideale ed etica formale

Habermas riprende queste analisi di Apel: anche per lui si tratta di ricostruire il sistema di condizioni e regole che rendono possibile la partecipazione adeguata a quello che egli chiama discorso, da non confondersi con il semplice scambio ingenuo di informazioni o di esperienze. A ciò Habermas provvede in vari scritti, tra cui la Teoria dell’agire comunicativo (1981) e Coscienza morale e agire comunicativo (1983, noto in italiano come Etica del discorso) e Fatti e norme (1992). A differenza di Apel, tuttavia, egli non parla di fondazione ultima delle regole morali, ma soltanto di pragmatica universale, avente per oggetto le strutture generali di possibili situazioni di discorso. Ogni discorso suppone una situazione linguistica ideale, nella quale ogni consenso conseguibile attraverso l’argomentazione razionale, da parte degli interlocutori, assume il valore di consenso vero. È questo il nocciolo della cosiddetta teoria consensuale della verità. Condizione essenziale per questa situazione linguistica ideale è «l’esclusione sistematica di ogni deformazione della comunicazione»: solo in questo modo, infatti, può dominare la pura cogenza dell’argomentazione migliore ed essere motivata razionalmente la decisione su problemi pratici.

il confronto tra habermas e apel

Esiste, dunque, un’ etica del discorso , che consente di superare ogni forma di irrazionalismo, relativismo o scetticismo: le questioni pratiche sono suscettibili di decisione razionale. La regola argomentativa dei discorsi è data dal principio di universalizzazione, che rende possibile un accordo nelle argomentazioni morali. Un’obiezione scettica a questo principio è che esso si limiterebbe a generalizzare le intuizioni morali proprie di una certa cultura, ossia della cultura occidentale. Richiamandosi ad Apel, Habermas sostiene che anche questa obiezione scettica deve accettare di fatto alcuni presupposti inevitabili in ogni gioco argomentativo: infatti, se essa intende valere come una confutazione, avanza anch’essa una pretesa di verità e, quindi, presuppone di fatto un principio di universalizzazione.

l’obiezione scettica al principio di universalizzazione

In tal modo, anche Habermas, come Apel, fa proprio il progetto – di sapore kantiano – di una fondazione della possibilità di qualsiasi discorso comuni13. temi e problemi di filosofia politica

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habermas e la fondazione dell’etica del discorso

cativo, attraverso l’individuazione delle condizioni minime (ossia universali e necessarie) per un’intesa possibile. A differenza di Apel, tuttavia, Habermas non ritiene che si tratti di una fondazione ultima, ma soltanto della dimostrazione che non sono possibili alternative rispetto a queste regole della prassi argomentativa . Il principio dell’etica del discorso può dunque essere formulato in questo modo: «Possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico». Tale principio è puramente formale, riguarda la procedura della discussione, non contenuti specifici di essa, ma può orientare l’azione politica, differenziando il consenso estorto con mezzi violenti da quello liberamente e razionalmente raggiunto e gli interessi particolari da quelli universalizzabili.

la modernità incompiuta

In questo senso, Habermas, soprattutto nell’opera Il discorso filosofico della modernità (1985), attribuisce alla filosofia la funzione di «custode della razionalità» e di difesa critica della modernità, contro le tendenze conservatrici dell’ermeneutica, il relativismo proprio dei teorici del post-moderno e le riduzioni della filosofia a una conservazione edificante che non mira alla soluzione di problemi. Contrariamente a Horkheimer e Adorno [cfr. 12.45], Habermas ritiene che la modernità, come progetto di emancipazione che ha la sua matrice nell’Illuminismo e nel marxismo, anche se storicamente ha dato e dà luogo a fenomeni di patologia sociale, non è un progetto fallito: è un «progetto incompiuto». Nella modernità, infatti, le basi universalistiche del diritto e della morale hanno trovato un’incarnazione, anche se incompleta e distorta, nelle istituzioni dello Stato costituzionale e nell’educazione democratica della volontà.

la filosofia e la difesa della razionalità

Habermas rifiuta, quindi, le critiche alla razionalità, mosse da vari fronti, da Heidegger come da Adorno, da Foucault o da Derrida. Il modello dell’agire comunicativo poggia, invece, su un concetto di razionalità come «disposizione di soggetti capaci di parlare e di agire ad acquisire e impiegare un sapere fallibile» e, quindi, orientati verso pretese di validità fondate sul riconoscimento intersoggettivo. I soggetti che partecipano a questa interazione, mediata linguisticamente, coordinano i loro piani di azione, intendendosi reciprocamente. Attraverso l’intreccio intersoggettivo di azioni strumentali e azioni comunicative diventa allora possibile la riproduzione, materiale e simbolica, delle concrete forme di vita. In una delle sue ultime opere, Il pensiero postmetafisico (1988), Habermas addita alla filosofia una terza via tra la metafisica e il relativismo: quella di una filosofia che non si considera detentrice ultima del sapere, ma non rinuncia alla ragione, assumendosi una funzione vicaria di mediazione fra i diversi ambiti della conoscenza.

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Habermas L’etica e l’agire comunicativo

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in poche... parole La Prima guerra mondiale, conclusasi con la sconfitta di Austria e Germania, e la rivoluzione russa del 1917 indussero gli intellettuali europei ad una riflessione sull’opportunità del conflitto bellico e, più in generale, sui caratteri della società occidentale. Le difficoltà economiche del dopoguerra, il peso crescente dei movimenti di sinistra, lo sviluppo della borghesia e delle istituzioni democratiche, il progresso tecnico e scientifico rappresentano degli spunti polemici costanti per gli intellettuali di destra. In questo contesto, spiccano le riflessioni di Jünger sul valore spirituale della guerra, sulla tecnica come base per una nuova umanità, segnata dall’affermazione della volontà di potenza, e sul nichilismo del mondo moderno. Tra gli intellettuali sostenitori del nuovo regime nazista, occorre ricordare Schmitt e le sue riflessioni sulla categoria del politico, sulla sovranità assoluta dello Stato e sulla sua crisi, essendosi trasformato in una semplice funzione burocratica e amministrativa al servizio dei poteri economici. Nell’ambito della cultura progressista, occorre invece ricordare l’opera di Hannah Arendt, emigrata negli Stati Uniti dopo il 1933, attenta a smascherare i meccanismi del totalitarismo (sia nazista sia staliniano), a recuperare la centralità dell’azione politica nel mondo moderno, caratterizzato dal sopravvento dell’homo laborans e dell’homo faber, a rifiutare ogni filosofia (come quella heideggeriana) in cui il pensiero paralizzi la capacità di volere e di giudicare. Inizialmente legato all’attività dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, Habermas si interroga su come sia possibile saldare teoria e prassi nelle odierne democrazie, riscoprire la funzione della

sfera pubblica e preparare così l’emancipazione da ogni forma di dipendenza. A tal fine, egli elabora – confrontandosi con Apel – un’etica del discorso, volta a trovare le condizioni di possibilità dell’agire comunicativo e della libera argomentazione razionale sulle questioni pratiche.

politico In uno scritto del 1927, Il concetto di politico, Schmitt de-

finisce l’ambito della politica in base alla contrapposizione amiconemico. In accordo con il pensiero di Hobbes e la sua concezione pessimistica della natura umana, Schmitt ritiene che la politica non sarebbe necessaria tra uomini buoni, traendo origine dall’inimicizia o dal pericolo che ogni uomo rappresenta per gli altri (si ricordi il celebre motto plautino, ripreso da Hobbes: homo homini lupus). Per Schmitt, il nemico non è colui con il quale siamo in concorrenza sul piano economico, né l’oggetto di un odio personale; il nemico è l’altro, ovvero lo straniero con il quale entriamo in conflitto e talvolta in guerra. La guerra, infatti, può essere solo una delle conseguenze dell’inimicizia. Soltanto allo Stato, considerato da Schmitt come l’entità politica suprema e come luogo della sovranità, spetta il ruolo di determinare chi è il nemico, promuovere la guerra e chiedere il sacrificio dei suoi membri. La funzione dello Stato è quella di mantenere l’ordine e la sicurezza: a questo scopo, esso deve stabilire chi è il nemico, eventualmente anche interno, contro il quale combattere, e decidere, se necessario, lo stato di eccezione. Per Schmitt, infatti, la dittatura, in quanto misura temporanea ed eccezionale, è lecita qualora sia necessario garantire l’integrità ed l’esistenza dello Stato.

vita activa Nella sua opera del

1959, La condizione umana, Arendt, ispirandosi all’etica aristotelica, individua le tre forme della vita attiva dell’uomo: il lavoro, l’opera (o fabbricazione), l’azione. 1) L’attività lavorativa comprende tutti i comportamenti finalizzati alla conservazione biologica e al soddisfacimento dei bisogni primari dell’uomo: essa mira «allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività lavorativa». 2) L’operare ha a che vedere con l’elemento non-naturale dell’esistenza umana, con la produzione di oggetti artificiali, con la trasformazione del mondo attraverso la scienza e la tecnica: «l’operare e il suo prodotto, l’“artificio” umano, conferiscono un elemento di continuità alla limitatezza della vita mortale e alla labilità del tempo umano». 3) A differenza del lavorare e dell’operare, l’agire è un’attività specificamente umana che esige la relazione con una pluralità di individui; mentre è possibile lavorare o operare in solitudine, infatti, per agire occorre essere insieme a qualcuno. Secondo Arendt, «l’azione è l’attività politica per eccellenza» ed è in rapporto più stretto delle altre con la condizione umana della natalità, e cioè la capacità di dare luogo a qualcosa di integralmente nuovo e imprevedibile. Secondo Arendt, nel mondo moderno il lavoro ha preso il sopravvento sulle altre due attività umane dell’operare e dell’agire (prioritario invece presso i Greci). Ciò ha condotto a un indebolimento della partecipazione politica attiva, alla commistione di pubblico e privato, al sorgere di Stati burocraticamente amministrati, in cui regnano il conformismo e l’incapacità di prendere posizione di fronte agli eventi storici.

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agire strumentale e agire comunicativo Per affrontare il pro-

blema di che cosa significhi l’agire politico nelle moderne democrazie occidentali, basate sulla manipolazione mediatica dell’opinione pubblica, Habermas distingue tra agire strumentale e agire comunicativo. Il primo ha il suo ambito di applicazione nel lavoro ed è finalizzato al successo individuale: si tratta, infatti, di trovare i mezzi più appropriati per realizzare fini determinati. Il secondo, invece, riguarda l’interazione fra individui mediata dal linguaggio ed è finalizzato al raggiungimento di una reciproca intesa. Nell’agire comunicativo, il linguaggio non risulta più strumentalizzato al raggiungimento dell’autoaffermazione o dell’influenza sugli altri, ma è orientato dal riconoscimento reciproco di norme (o aspettative di comportamento) vincolanti per tutti coloro che partecipano al dialogo.

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etica del discorso Habermas e Apel, seppure secondo prospettive diverse, sono i principali teorici dell’etica del discorso. In questo contesto, per «discorso» non si intende il semplice scambio di informazioni o di esperienze, ma la dimensione linguistica della prassi (l’agire dell’uomo). Il punto di partenza comune ad entrambi è che in ogni atto linguistico sia immanente il fine di raggiungere un’intesa reciproca e che i parlanti cerchino di ottenere il libero consenso di tutti tramite opportune argomentazioni razionali. In particolare, secondo Apel, ogni parlante avanza con i propri atti comunicativi «pretese universali di validità», e cioè presuppone la sostanziale uguaglianza di coloro che partecipano al dialogo, l’assenza di costrizioni esterne o interne alla comunicazione, l’autonomia delle prese di posizione da qualsiasi condizionamento (autorità, violen-

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za, interesse privato), l’assenso alle ragioni migliori. Si viene così profilando una comunicazione ideale, che deve fungere da principio regolativo delle comunicazioni reali: garantendo le condizioni minime da essa previste, infatti, si garantiscono l’imparzialità della discussione e il raggiungimento di un consenso universale. Anche Habermas cerca di trovare le condizioni universali e necessarie di una possibile intesa, ma a differenza di Apel ritiene che non sia possibile una fondazione ultima dell’etica del discorso. A suo avviso, infatti, sul piano della prassi argomentativa, non vi sono alternative al principio di universalizzazione, in base al quale «possono pretendere validità soltanto quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico».

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i testi t38 Schmitt / Il politico Schmitt

Il concetto del «politico»

§§ 1-2

Il concetto del «politico» comparve dapprima come articolo nel 1927 sull’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» («Archivio di scienza sociale e politica sociale») e fu ristampato poi in un volume autonomo, più volte a partire dal 1928. Il problema di Schmitt è quello di trovare un criterio di ciò che si può dire propriamente politico, ossia trovare le condizioni generali, necessarie e sufficienti, che determinano la specificità e l’autonomia del politico, in quanto distinto da tutto ciò che attiene all’economia, alla morale e così via. L’autonomia di questo criterio ha per Schmitt «un significato pratico-didattico», nel senso che consente una considerazione diretta del fenomeno, senza confusione con altri piani. Esso è identificato da Schmitt con la distinzione amico-nemico, in quanto dove c’è tale distinzione, c’è politica e dove c’è politica, c’è necessariamente tale distinzione. In tal modo, egli riconosce nella conflittualità l’elemento caratterizzante e determinante della sfera della politica, senza che ciò comporti necessariamente e sempre l’instaurazione di fatto della guerra, che è soltanto il mezzo politico estremo.

Il concetto di Stato presuppone quello di «politico». Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso1. Ma in tal modo viene data solo una prima descrizione, e non una definizione concettuale dello Stato: di essa non v’è neppure bisogno qui, dove ci occupiamo dell’essenza del «politico». Possiamo lasciare in sospeso quale sia l’essenza dello Stato: una macchina o un organismo, una persona o un’istituzione, una società o una comunità, un’azienda o un alveare o forse una «serie fondamentale di procedure»2. Tutte queste definizioni e modelli anticipano troppo l’interpretazione, l’attribuzione di significato, l’illustrazione e la costruzione del concetto e non possono perciò costituire il punto di partenza più adatto per una trattazio1. Questa nozione di Stato è, secondo

Schmitt, una creazione propria dell’età moderna prevalsa quando, dopo le guerre di religione dei secoli XVI e XVII, lo Stato giuridico classico riuscì a eliminare l’inimicizia interna e a creare la pace interna. In questa situazione, esso, in quanto titolare del monopolio della decisione politica, divenne il modello dell’unità politica. L’identificazione dei concetti di «statale» e «politi-

ne semplice ed elementare. In base al suo significato etimologico e alla sua vicenda storica, lo Stato è una situazione, definita in modo particolare, di un popolo, è anzi la situazione che fa da criterio nel caso decisivo, e costituisce perciò lo status esclusivo, di fronte ai molti possibili status individuali e collettivi. A questo punto non è possibile dir di più. Tutti i caratteri di questa definizione – status e popolo – acquistano il loro significato solo grazie all’ulteriore carattere del «politico» e divengono incomprensibili se viene fraintesa l’essenza di quest’ultimo3. È raro trovare una chiara definizione del «politico». Per lo più il termine viene impiegato solo in senso negativo come contrapposizione ad altri concetti, in antitesi come politica ed economia, politica e morale, politica e diritto. [...] Si può raggiungere una definizione concettuale

co» è, dunque, corretta per tale epoca, ma non per le epoche precedenti, né per l’oggi, considerato da Schmitt l’epoca in cui la statualità sta giungendo alla fine. Essendo una formazione storica, corrispondente a una singola epoca, questa nozione di Stato presuppone, dunque, quella di «politico», che vale invece per qualsiasi formazione storica. 2. Una descrizione della democrazia in

termini puramente procedurali, come caratterizzata da un insieme di regole e tecniche mediante le quali si perviene alle decisioni politiche, era fornita, per esempio, da Hans Kelsen (1881-1973). 3. Si tratta cioè di determinare quali sono i caratteri essenziali da cui dipende la situazione di un popolo così organizzato, ossia come Stato e non come semplice molteplicità o somma casuale di individui.

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del «politico» solo mediante la scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche. Il «politico» ha infatti i suoi propri criteri che agiscono, in modo peculiare, nei confronti dei diversi settori concreti, relativamente indipendenti, del pensiero e dell’azione umana, in particolare del settore morale, estetico, economico. Il «politico» deve perciò consistere in qualche distinzione di fondo alla quale può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso specifico4. Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio. Il problema è allora se esiste come semplice criterio del «politico», e dove risiede, una distinzione specifica, anche se non dello stesso tipo delle precedenti distinzioni, anzi indipendente da esse, autonoma e valida di per sé. La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via. In ogni caso, essa è autonoma non nel senso che costituisce un nuovo settore concreto particolare, ma nel senso che non è fondata né su una né su alcune delle altre antitesi, né è riconducibile ad esse. Se la contrapposizione di buono e cattivo non è identica senz’altro e semplicemente a quella di bello e brutto o di utile e dannoso, e 4. L’obiettivo di Schmitt è quello di individuare criteri che consentano di distinguere la sfera di ciò che è politico da ogni altra (etica, estetica, economica). Queste ultime si differenziano tra loro in base a coppie di concetti contrapposti, specifiche di ciascuna di esse: così come nell’ambito morale la coppia è costituita dai termini distinti e contrapposti «buono-cattivo», analogamente avviene nelle altre. Ciascuna di queste distinzioni è autonoma, nel senso che la distinzione «buono-cattivo», per esempio, non è riducibile a

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non può essere direttamente ridotta ad esse, ancor meno la contrapposizione di amico e nemico può essere confusa o scambiata con una delle precedenti. Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione5; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo «disimpegnato» e perciò «imparziale». La possibilità di una conoscenza e comprensione corretta e perciò anche la competenza ad intervenire e decidere è qui data solo dalla partecipazione e dalla presenza esistenziale. Solo chi vi prende parte direttamente può por termine al caso conflittuale estremo; in particolare solo costui può decidere se l’alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò sia necessario difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare, modo di vita. Nella realtà psicologica, il ne-

quelle «bello-brutto» o «utile-dannoso», né deducibile da queste. Ciò suggerisce a Schmitt la via per trovare anche il criterio del politico in una coppia di concetti contrapposti, non riducibili alle coppie pertinenti alle altre sfere né deducibili da esse: solo in questo modo, esso potrà essere un criterio autonomo e specifico della sfera della politica. 5. Si può anche dire che il politico è criterio distintivo della massima coesione tra individui costituenti un raggruppamento (popolo, nazione, Stato e

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così via). E il massimo di coesione è assicurato dalla distinzione-contrapposizione di tale raggruppamento rispetto al nemico (potenziale o reale). Da ciò consegue che il massimo di intensità nella coesione è raggiunto nella guerra di fatto ingaggiata col nemico, ossia quando si corre il massimo pericolo per l’esistenza dell’associazione stessa, anche se Schmitt si premura di precisare che non per questo il politico deve coincidere sempre e necessariamente con la guerra, che ne è solo il mezzo estremo.

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mico viene facilmente trattato come cattivo e brutto, poiché ogni distinzione di fondo, e soprattutto quella politica, che è la più acuta e intensiva, fa ricorso a proprio sostegno a tutte le altre distinzioni utilizzabili. Ciò però non cambia niente quanto all’autonomia di quelle contrapposizioni6. Vale perciò anche il rovescio: ciò che è moralmente cattivo, esteticamente brutto ed economicamente dannoso, non ha bisogno di essere per ciò stesso anche nemico: ciò che è buono, bello ed utile non diventa necessariamente amico, nel senso specifico, cioè politico, del termine. La concretezza ed autonomia peculiare del «politico» appare 6. Sul piano strettamente concettuale la distinzione amico-nemico non può essere confusa con le distinzioni morali ed economiche. Schmitt ritiene, tuttavia, che nella realtà psicologica degli

già in questa possibilità di separare una contrapposizione così specifica come quella di amico-nemico da tutte le altre e di comprenderla come qualcosa di autonomo. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è il significato etimologico di «Stato» messo in luce da Schmitt? 2. Qual è il criterio del «politico»? Evidenzia sul testo le caratteristiche del politico. 3. Che relazione c’è tra la distinzione «amiconemico» e quelle «buono-cattivo» o «bello-brutto»?

individui le distinzioni pertinenti ai vari piani possono mescolarsi. In questo caso, le distinzioni morali ed economiche possono contribuire a rafforzare emotivamente l’intensità della distin-

zione propriamente politica, in quanto portano a identificare il nemico con il moralmente cattivo o il provocatore del massimo danno economico.

t39 Arendt/ L’azione e la politica Arendt

Vita activa

cap. 1, § 1; cap. 5, § 24

Del libro di Hannah Arendt, La condizione umana, noto in Italia con il titolo Vita activa, si riportano alcuni passi riguardanti la distinzione delle tre attività umane fondamentali e i caratteri specifici di ciascuna e, in particolare, quelli sul primato rivestito dall’agire, inteso dalla Arendt come l’attività propriamente umana.

Con il termine vita activa, propongo di designare tre fondamentali attività umane: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire; a ciascuna di esse corrisponde infatti una delle condizioni base cui è sottoposta la vita dell’uomo sulla terra. L’attività lavorativa corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano, il cui accrescimento spontaneo, metabolismo e decadimento finale sono legati alle necessità prodotte e alimentate nel processo vitale dalla stessa attività 1. Il termine operare significa, in que-

sto contesto, produrre e fabbricare oggetti, che costituiscono nel loro insieme un nuovo mondo che viene ad aggiungersi al mondo naturale. Mentre

lavorativa. La condizione umana di quest’ultima è la vita stessa. L’operare è la prassi che corrisponde al momento non-naturale dell’esistenza umana, che non è assorbito nel ciclo vitale sempre ricorrente della specie e che, se si dissolve, non è compensato da esso. Il frutto dell’operare è un mondo «artificiale» di cose, nettamente distinto dall’ambiente naturale1. I confini di questo mondo comprendono ogni vita individuale,

il lavoro e il produrre implicano sempre necessariamente un rapporto con cose materiali, l’agire (che per la Arendt corrisponde al greco pràxis) è l’unica attività umana che riguarda direttamente

il rapporto tra uomini. Esso, infatti, è possibile soltanto in relazione a una pluralità di uomini: in questo senso, l’agire è l’attività propria della pòlis in quanto comunità di uomini.

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mentre il significato stesso dell’operare sta nel trascendere quei limiti. La condizione umana dell’operare è la sfera mondana. L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che più uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, tuttavia questa pluralità è specificamente la condizione – non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam – di ogni vita politica. Così il linguaggio dei romani, forse il popolo più dedito all’attività politica che sia mai apparso, impiegava le parole «vivere» ed «essere tra gli uomini» (inter homines esse), e rispettivamente «morire» e «cessare di essere tra gli uomini» (inter homines esse desinere) come sinonimi. [...] Tutte e tre le attività e le loro corrispondenti condizioni sono intimamente connesse con le condizioni più generali dell’esistenza umana: nascita e morte, natalità e mortalità. L’attività lavorativa assicura non solo la sopravvivenza individuale, ma anche la vita della specie. L’operare e il suo prodotto, l’«artificio» umano, conferiscono un elemento di continuità alla limitatezza della vita mortale e alla labilità del tempo umano. L’azione, in quanto crea e conserva gli organismi politici, permette il ricordo, cioè la storia. Lavoro, opera e azione sono radicate anche nella natalità, poiché hanno il compito di preparare e di conservare il mondo per i nuovi venuti, che nascono al mondo come stranieri, prevedendone e considerandone il costante afflusso. Tuttavia, delle tre, è l’azione che è in più stretto rapporto con la condizione umana della natalità; il cominciamento inerente alla nascita può farsi riconoscere nel mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di 2. Gli uomini non soltanto comunica-

no, ma si comprendono tra loro attraverso le loro azioni e il linguaggio. Questa comprensione implica che gli uomini siano, al tempo stesso, uguali tra loro e irripetibili ciascuno nella sua singolarità. Il ragionamento della Arendt è costruito per assurdo: esso assume come premesse il contrario delle

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dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire. Alla luce di questo concetto di iniziativa, un elemento di azione, e perciò di natalità, è implicito in tutte le attività umane. Inoltre, poiché l’azione è l’attività politica per eccellenza, la natalità, e non la mortalità, può essere la categoria centrale del pensiero politico in quanto si distingue da quello metafisico. [...] La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso che dell’azione, ha il duplice carattere della eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né capirsi fra loro e capire quelli che vennero prima di loro né progettare per il futuro e prevedere la necessità di quelli che verranno dopo. Se gli uomini non fossero diversi, ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o sarà mai, non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per farsi capire. Basterebbero segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici2. [...] Discorso e azione rivelano questa distinzione nella unicità. Attraverso di essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente distinti; essi sono i modi in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. Questa apparenza si distingue dalla mera esistenza corporea perché riposa sull’iniziativa, un’iniziativa cui nessun essere umano può sottrarsi senza perdere la sua umanità. Non è così per nessun’altra attività della vita activa. Gli uomini possono benissimo vivere senza lavorare, possono costringere gli altri a lavorare per sé, possono benissimo decidere di fruire e godere semplicemente del mondo delle cose senza aggiungervi da parte loro un solo oggetto d’uso; la vita di uno sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere ingiuste, ma essi certamente sono esseri umani. Ma una vita senza discorso e senza azione è cer-

tesi che intende provare come vere, ossia che gli uomini non siano uguali e, poi, che non siano diversi. Da esse, si deduce come conseguenza che, nel primo caso, ogni comunicazione e comprensione interumana sarebbe impossibile e, nel secondo, che essa sarebbe del tutto superflua. Il linguaggio è, per la Arendt, non un semplice mezzo di co-

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municazione, ma il veicolo essenziale, accanto all’azione, a cui è costitutivamente legato, per mostrare agli altri la propria identità personale, nella sua unicità e irriducibilità: è attraverso l’agire e il linguaggio che gli individui fanno la loro comparsa nel mondo umano come entità nuove e irripetibili, capaci di dar vita al nuovo.

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tamente il solo modo di vita che seriamente ha rinunciato a ogni apparenza e a ogni vanità nel senso biblico del termine, è letteralmente morta al mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini. Con la parola e l’azione ci inseriamo nel mondo umano, e questa inserzione è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. Questa inserzione non ci viene imposta dalla necessità, come il labor, e non ci è suggerita dall’utilità, come l’opera. Può essere stimolata dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non è mai condizionata. Essa scaturisce da ciò cui ha dato inizio la nostra nascita, e che ci provoca a intraprendere qualcosa di nuovo di nostra iniziativa. Agire, nel senso più generale, significa prendere

un’iniziativa, incominciare (come indica la parola greca a[rcein, «incominciare», «condurre», ed eventualmente «reggere»), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori per virtù di nascita, gli uomini prendono l’iniziativa, sono indotti all’azione. GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono gli ambiti di applicazione del lavoro, dell’opera e dell’azione? 2. Perché l’azione è in più stretto rapporto con la condizione umana della natalità? 3. Quali sono i caratteri essenziali della pluralità umana? 4. Che cosa sarebbe una vita senza discorso e senza azione?

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esercizi/13 CHE COSA SO?

9. A quale entità suprema spetta, secondo Schmitt, la definizione del nemico?

GUIDA ALLO STUDIO DEL MANUALE

10. Perché Schmitt definisce partigiana la guerra propria del mondo moderno?

1. Evidenzia le definizioni dei concetti di comunità e di società, secondo Tönnies. 2. Evidenzia la concezione della guerra condivisa dagli intellettuali tedeschi di destra. 3. Evidenzia la posizione di Schmitt nei confronti dei regimi parlamentari (ad esempio, quello della repubblica di Weimar). 4. Evidenzia in che modo si sono evolute nel mondo moderno le tre forme della vita attiva individuate da Arendt. 5. Evidenzia la posizione di Habermas sulla psicoanalisi in relazione alla tematica della riflessione discussa in Conoscenza e interesse. 6. Evidenzia la posizione di Habermas nei confronti della critica alla razionalità mossa da più fronti (Heidegger, Adorno, Foucault, Derrida). Dizionario filosofico 7. Definisci i seguenti concetti: Stato di eccezione (Schmitt) • totalitarismo (Arendt) • natalità (Arendt) • interesse (Habermas) • principio di universalizzazione (Habermas) • comunicazione ideale (Apel)

11. Quali sono, secondo Arendt, le tre principali attività dell’uomo? 12. Che rapporto c’è, secondo Arendt, tra azione e natalità? 13. Qual è, secondo Arendt, l’errore filosofico compiuto da Heidegger? 14. Illustra la distinzione operata da Habermas fra agire strumentale e agire comunicativo. 15. In che cosa consiste l’autocontraddizione performativa messa in luce da Apel? 16. Quale deve essere la funzione della filosofia, secondo Habermas? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 17. Perché, secondo Jünger, l’età moderna è contrassegnata dal nichilismo? Qual è la via di salvezza da esso? 18. Illustra la concezione del «politico» elaborata da Schmitt. 19. Come è cambiato, secondo Schmitt, il diritto pubblico europeo nell’età moderna? 20. In che senso la politica costituisce, secondo Arendt, l’ambito di attività più propriamente umano?

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 8. Quali saranno le caratteristiche dell’epoca del guerriero, secondo Jünger?

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21. Qual è la critica di Arendt a Platone? Che relazione sussiste tra la concezione della politica propria di Platone e le filosofie della storia di stampo hegeliano? 22. Per Habermas è sempre possibile raggiungere un accordo tra individui attraverso il discorso e l’argomentazione razionale?

esercizi/13

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esercizi/13 23. Perché, secondo Habermas e Apel, la nostra società richiede una nuova etica del discorso? 24. Qual è la critica di Apel al principio di universalizzazione sostenuto da Habermas?

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25. Confronta la posizione di Habermas e quella degli esponenti della Scuola di Francoforte sulle tematiche dell’Illuminismo e della modernità.

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protestante, trova il suo riferimento fondamentale nella teologia dialettica di Karl Barth. Recuperando esplicitamente Kierkegaard – oltre che san Paolo – Barth difende la totale alterità di Dio rispetto all’uomo, separati da un’irriducibile differenza qualitativa. L’esistenza dell’uomo è quindi connotata dal continuo «scacco» che egli subisce nel tentativo di superare la distanza che lo separa dall’assoluta trascendenza di Dio. Ma proprio nel riconoscimento di questi limiti da parte dell’uomo risiede la possibilità di un’apertura alla grazia, della fede intesa come «salto» nella trascendenza di Dio, che tuttavia si dà all’uomo gratuitamente e per sua esclusiva iniziativa.

14. la filosofia di ispirazione cristiana e le nuove teologie i contenuti crisi ed esigenze di rinnovamento

La crisi culturale che investe l’Europa soprattutto dopo la Prima guerra mondiale coinvolge anche la riflessione religiosa e teologica. Esigenze di rinnovamento in questo ambito erano state manifestate già nell’Ottocento, in ambito protestante, dalla teologia liberale e, in campo cattolico, dalla Scuola di Tubinga, che avevano tentato di trovare un compromesso fra la tradizione cristiana e la cultura

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filosofica contemporanea. Ma la nuova teologia novecentesca è caratterizzata dal rifiuto di questi tentativi di conciliazione e, al contrario, dalla constatazione della frattura tra cultura mondana e cristianesimo. L’esito è la radicale trasformazione del concetto di cristianesimo, con lo sviluppo di forti tendenze all’umanesimo immanentistico (quando non all’ateismo) e alla demitizzazione del dogma. barth e la teologia dialettica

Il nuovo orientamento teologico, che si sviluppa soprattutto in area

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bultmann e il significato esistenziale della fede

Anche Rudolf Bultmann parte dal presupposto barthiano dell’assoluta trascendenza di Dio rispetto all’uomo e al mondo. Tuttavia egli ritiene – riferendosi a Heidegger – che l’uomo possa comprendere la parola di Dio in virtù di una «precomprensione» dell’esistenza che costituisce il fondamento della sua apertura a Dio. Ciò è tuttavia possibile soltanto se si procede a una demitizzazione che depuri il messaggio cristiano dai rivestimenti culturali della Scrittura e dalle categorie umane e mondane di cui essa si serve. tillich e la teologia della correlazione

Se Barth e Bultmann insistono, in forma e misura diverse, sul rapporto di alterità tra Dio e mondo umano, Paul Tillich insiste sulla mutua relazione che intercorre tra Dio e uomo in virtù del principio della correlazione. Uomo e Dio si rapportano l’uno all’altro come domanda e risposta, sebbene rimangano assolutamente indipendenti: la Rivelazione è la risposta (divina) alla domanda (umana) posta dalla ragione. Nel suo ruolo di domanda Dio perde i tradizionali connotati ontologici

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conferitigli dalla tradizione teologica: non è l’essere, ma il fondamento dell’essere (secondo una tradizione mistica tedesca cara a Schelling e a Heidegger). Cristo, a sua volta, è l’unità del divino e dell’umano, il punto in cui l’eternità di Dio si concreta nel tempo e diventa accessibile a ognuno. il cristianesimo non religioso di bonhoeffer

Verso un più accentuato riconoscimento dell’autonomia dell’umano muove invece Dietrich Bonhoeffer, la cui teologia è incentrata sull’impegno dell’uomo nel mondo e nella storia. Egli opera una distinzione tra religione e fede. La prima, ormai da respingere, ha una funzione consolatoria che oppone alla debolezza dell’uomo

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l’onnipotenza protettiva di Dio; la seconda rivaluta invece le potenzialità dell’uomo, chiamato ad affermare la vita in virtù della presenza di Dio attraverso l’incarnazione del Cristo. ulteriori sviluppi della ricerca teologica

Anche il mondo cattolico è stato sensibile al richiamo della secolarizzazione. La forma più avanzata è rappresentata dalla teologia della liberazione, sviluppatasi in area latinoamericana, in cui il messaggio evangelico viene identificato con un programma di liberazione degli oppressi. In campo cattolico tuttavia l’attenzione alle forme di autonomia dell’uomo è stata solitamente più contenuta, anche

se è innegabile una svolta antropologica, soprattutto in conseguenza del Concilio Vaticano II, come dimostra ad esempio la teologia di Karl Rahner. A suo avviso, la posizione degli atei è ingiustificata, visto che l’Assoluto «è-già-sempre-presente», seppure in maniera irriflessa, nella ragione dell’uomo. In tempi recenti, la ricerca teologica – sia in area cattolica che protestante – ha cercato il confronto con il mondo, i suoi valori e le sue ideologie. A questo proposito, occorre ricordare la teologia della speranza di Jürgen Moltmann, per il quale la tensione al futuro e al rinnovamento costituisce l’essenza del messaggio cristiano: di qui l’importanza attribuita alla promessa della risurrezione come nuova creazione e compimento della Rivelazione.

gli strumenti in poche… parole teologia dialettica / demitizzazione / principio della correlazione / religione e fede / teologia della speranza

approfondimento

i testi a. nel manuale t40 Barth/Il «totalmente Altro» t41 Bonhoeffer/Cristianesimo senza religione

b. on-line Bultmann/Mito e demitizzazione Tillich/Fede e affermazione dell’essere Hamilton/La morte di Dio Rahner/La svolta antropologica

Una fede senza Dio?

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Crisi ed esigenze di rinnovamento alla ricerca di un dio immanente

La grande crisi culturale consumatasi nel passaggio fra Ottocento e Novecento e destinata a raggiungere il suo apice nel secolo scorso, dopo la Prima guerra mondiale, ebbe conseguenze dirompenti anche per le discipline teologiche, i loro metodi e i loro concetti. La filosofia e la scienza ottocentesche, dalla sintesi idealistica e dalla sua eredità marxista sino alle diverse espressioni di positivismo e di evoluzionismo e alle nascenti scienze storicosociali, rivelarono ben presto la loro incompatibilità con la precedente tradizione religiosa. Entrò soprattutto in crisi la concezione tradizionale di Dio come essere trascendente: della divinità veniva ora messo in luce piuttosto il carattere d’immanenza nella storia e nell’uomo; e l’immanentismo, a sua volta, si tradusse spesso in umanismo o in aperto ateismo, mentre l’indagine storica demitizzò il dogma e la Rivelazione relativizzandone le pretese di assolutezza.

compromesso tra cristianesimo e cultura del tempo

La reazione all’attacco sferrato congiuntamente dalla filosofia e dalla scienza è comunque diversa nelle differenti tradizioni teologiche. È vero infatti che già nell’Ottocento – epoca in cui il cattolicesimo si chiude nella difesa della tradizione – la teologia protestante, soprattutto in Germania, tenta sin dall’inizio un accomodamento. Si tratta della teologia liberale che, ispirandosi in modo diverso ora a Hegel ora a Schleiermacher, ricerca e realizza un compromesso tra lo spirito dell’epoca e la religione cristiana, intendendo quest’ultima come la manifestazione più alta della coscienza umana. Nei suoi principali rappresentanti, tra i quali vanno ricordati almeno Albrecht Ritschl (1822-1889) e Adolf von Harnack (1851-1930), domina lo sforzo di conciliare il cristianesimo con la cultura del tempo, stemperando però il carattere peculiare del messaggio cristiano e facendone la semplice espressione religiosa della razionalità umana. Questo svuotamento del dogma e della dottrina cristiana viene compensato col richiamo ai contenuti morali, in sostanziale unità d’intenti col liberalismo politico e con le sue aperture al sapere scientifico contemporaneo.

l’impossibile conciliazione cristianoliberale

Il rinnovamento che la teologia protestante si prefigge dopo la Prima guerra mondiale – a partire dall’opera di Barth – si configura invece essenzialmente come un rifiuto di questo compromesso, in linea col nuovo clima esistenzialistico e con il suo tendenziale abbandono di ogni sintesi tra religione e cultura, tra teologia e filosofia: da questo rinnovamento radicale muoverà tutta la teologia protestante del Novecento, malgrado le espressioni diverse, e spesso divergenti, che essa assumerà. La teologia liberale resta, comunque, ciò cui non si deve tornare: il suo modello poggia sull’equivoco di una conciliazione tra mondo e cristianesimo che non può che condurre alla fine di quest’ultimo. L’ombra di Hegel, presente tanto in tale forma di teologia quanto nelle risoluzioni umanistiche e atee dell’idealismo, viene rimossa a favore di un rinnovato interesse per Schelling e per Kierkegaard, nonché per lo stesso Nietzsche, nel cui rifiuto della religione si tende, a torto o a ragione, a scorgere soprattutto il rigetto della troppo facile conciliazione cristiano-liberale.

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In area cattolica importante eccezione in un panorama prevalentemente statico e arroccato ancora su posizioni controriformistiche è, nella prima metà dell’Ottocento, la cosiddetta Scuola di Tubinga, che sotto l’influsso di Johann Adam Moehler (1796-1838) cerca a sua volta un dialogo con la filosofia idealistica e romantica, evitandone però gli esiti immanentistici e traducendone la visione dinamica della storia nella concezione di una Chiesa in divenire, aperta alle novità del tempo e in continuo progresso. La Rivelazione non è pertanto l’intemporale espressione di una verità immutabile, ma un nucleo suscettibile d’integrazione e di sviluppo, secondo un concetto dinamico di tradizione che verrà adottato e sistematizzato anche dal teologo inglese John Henry Newman (1801-1890).

l’apertura dei cattolici alla modernità

Fra la seconda metà del secolo e gli inizi del Novecento questi sforzi di revisione culminarono poi nella fuga in avanti rappresentata dal modernismo, i cui maggiori rappresentanti furono i francesi Alfred Loisy (1857-1940) e Lucien Laberthonnière (1860-1932), l’irlandese George Tyrrell (18611909) e gli italiani Romolo Murri (1870-1944) ed Ernesto Buonaiuti (18811946). Questo movimento ritiene ormai inadeguate le categorie filosofiche e metafisiche sulla cui base la Rivelazione veniva tradizionalmente interpretata, finendo così per mettere in dubbio la dimensione della trascendenza e per confluire, a sua volta, in una forma di umanismo immanentistico, bollato come eretico da Pio X nell’enciclica Pascendi del 1907. Quasi trent’anni prima, del resto, un’altra enciclica (la Aeterni Patris di Leone XIII) aveva inaugurato quella ripresa del tomismo che, tra varie vicende e con momenti di grande vitalità soprattutto nelle Scuole di Lovanio e di Milano, restò dominante nella teologia cattolica almeno sino al Concilio Vaticano II.

la condanna del modernismo

Va infine ricordato come, nell’area culturale germanica, a partire dall’illuminismo di Moses Mendelssohn sino a importanti esponenti del neokantismo (quale Hermann Cohen), il pensiero religioso ebraico – nei suoi confronti è comunque arduo parlare di «teologia» in senso stretto – avesse a sua volta perseguito un originale tentativo di sintesi con la filosofia moderna. Ma anche questo sforzo conciliativo, poi così duramente smentito dalle successive vicende storiche, viene messo in crisi all’inizio del nuovo secolo, soprattutto a causa del contatto con le problematiche tipiche dell’esistenzialismo. Va in questa direzione l’opera di pensatori come Martin Buber (1878-1965) e Abraham J. Heschel (1907-1972), complessivamente orientati a non respingere in blocco la modernità, quanto piuttosto a correggerla col costante richiamo alla dimensione trascendente dell’esistenza umana. Ma il dramma della crisi e del passaggio epocale è soprattutto avvertibile nell’esperienza di Franz Rosenzweig (1886-1929). Allievo di Rickert e Meinecke, dedito a studi ebraici e scritturali che lo portano a una nuova traduzione tedesca della Bibbia (in collaborazione con Buber), egli comincia con il rifiutare radicalmente l’idealismo assoluto hegeliano come «filosofia della conciliazione», denunciandone anche la tendenza politica totalitaria. Egli elabora quindi nel suo capolavoro, La stella della redenzione (1921), una forma di esistenzialismo religioso che, mentre respinge ogni conciliazione metafisica tra il divino e l’umano, insiste sui temi della morte e del nulla: al-

in area ebraica

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la totalità idealistica occorre contrapporre una nuova concezione che riconosca la finitezza dell’io e sappia cogliere la trama di relazioni tra gli elementi che compongono l’universo (uomo, mondo, Dio).

2. Barth la distanza invalicabile tra dio e l’uomo

Il nuovo orientamento teologico che in campo protestante, soprattutto in Germania, reagisce alla crisi della teologia liberale, risale essenzialmente all’opera di Karl Barth (1886-1968). Nato in Svizzera e professore di Teologia in varie università tedesche, prima di ritornare in patria all’avvento del nazismo egli pubblicò, nel 1919, la Lettera ai Romani, nella quale il riferimento esplicito al pensiero di Kierkegaard guida lo sforzo di ripensare dalle fondamenta il rapporto che deve intercorrere tra Dio e l’uomo. L’abbandono di ogni illusoria conciliazione tra la teologia e la filosofia a opera della ragione umana conduce Barth a rovesciare quel rapporto: la divinità è inaccessibile all’uomo, né quest’ultimo può dirne nulla secondo i suoi schemi. Si deve, quindi, riconoscere la totale e radicale alterità di Dio rispetto all’uomo. Tra l’uno e l’altro esiste un’infinita differenza qualitativa, una distanza invalicabile che non può essere colmata neppure dalla «religione» che, quando tenta di farlo, finisce per ridurre Dio a un semplice idolo o, nel migliore dei casi, alla sua più alta creazione. Specifico del cristianesimo sarà quindi il porsi non tanto come una «religione», quanto come l’annuncio di un regno che «non appartiene a questo mondo» e al cui possesso l’uomo non può assolutamente pervenire con le sue sole forze.

il «no» di dio all’uomo e dell’uomo a se stesso

D’altra parte, l’alterità irriducibile di Dio, il suo «no» nei confronti dell’uomo e del mondo, è paradossalmente il fondamento della loro relazione, che per Barth è l’unico tema non solo della Scrittura, ma della filosofia stessa. Nello sforzo inesausto di comprendere il suo rapporto con Dio, cioè di esistere, l’uomo sperimenta lo scacco continuo dei suoi tentativi di superare la «linea mortale» che lo separa dalla trascendenza assoluta, e va incontro alla perenne ricaduta nella sua colpa e nella sua nullità. Nell’angoscia del fallimento l’uomo è costretto a riconoscere l’impossibilità di valicare i suoi limiti: in questo modo il «no» che Dio pronuncia nei confronti dell’uomo è confermato dal «no» che l’uomo esprime nei confronti di se stesso.

come il «no» diventa «sì»

Ma proprio in questo riconoscimento del limite risiede la possibilità dell’apertura alla grazia rinnovatrice, cioè al «sì» con cui Dio accetta e salva l’uomo e il mondo. La negazione suprema si converte così in affermazione: questo e non altro attestano l’irruzione di Cristo nel mondo e la sua resurrezione. Il rinnovamento dell’uomo si dà allora soltanto nella fede, intesa come apertura, tensione e «salto» – quindi del tutto priva di ogni supporto razionale – in un Dio che, nella più insondabile gratuità, pronuncia il suo «sì» e colma il vuoto dell’esistenza solo là dove questa ha esperito sino in fondo la sua crisi. Tuttavia, anche l’abbandonarsi dell’uomo a Dio non può in alcun modo ascriversi, in ultima istanza, all’uomo stesso, ma si radica nel mistero dell’iniziativa divina [t40].

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Questa dialettica tra uomo e Dio, tra mondo e trascendenza, tra il «no» e il «sì» di Dio, sta alla base della denominazione di teologia dialettica che è stata data all’elaborazione di Barth. Ma è importante notare che si tratta di una dialettica che non è fondata sulla sintesi (come quella hegeliana), bensì sul paradosso e sul «salto» (come quella kierkegaardiana). Essa è innestata sul concetto della fede intesa come un voler credere in una trascendenza che è di per sé radicalmente preclusa all’uomo.

kierkegaard contro hegel

Va infine ricordato che successivamente, soprattutto nella Dogmatica (opera pubblicata in vari volumi sistematici a partire dal 1932), Barth – che aveva raccolto amici e seguaci intorno alla rivista intitolata significativamente «Fra i tempi» – tenderà a moderare l’estrema radicalità delle sue tesi iniziali, sottolineando più il momento della relazione tra uomo e Dio che quello della loro frattura. Questo movimento di pensiero lo conduce a concentrare la riflessione teologica sulla figura di Cristo, che è il punto in cui Dio e l’uomo s’incontrano e rappresenta quindi la realizzazione concreta (anche se umanamente inconcepibile) dell’alleanza istituita da Dio. Solo Cristo consente di comprendere l’uomo, e un’antropologia è possibile unicamente solo sulla base della cristologia. Solamente sulla scorta dell’evento cristico, che è nella storia e nel tempo, storia e tempo possono essere pensati non già come condannati al nulla, bensì come riscattati e redenti nella grazia. È dunque sulla cristologia che per l’ultimo Barth si fonda anche l’escatologia, rigorosamente intesa come dottrina della salvezza della storia e del mondo secondo una via tracciata da un Dio che, per sua libera e gratuita iniziativa, ha colmato l’abisso della «totale alterità».

l’ultima fase: cristologia e salvezza

3. Bultmann Vicino dapprima alle posizioni di Barth, il tedesco Rudolf Bultmann (18841976), autore di Credere e comprendere (in quattro volumi, 1933-65), si allontana ben presto dalla teologia dialettica nell’intento di ripensare quanto di positivo aveva comunque espresso quella liberale. Egli muove dal fondamentale postulato barthiano, quello dell’assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo e all’uomo, ma la domanda che regge tutta la sua riflessione teologica verte su come, in tale condizione, l’uomo possa recepire e far propria la parola di Dio donatagli nella Rivelazione.

la centralità della rivelazione

La risposta di Bultmann si regge sugli strumenti concettuali tratti dall’esistenzialismo, e soprattutto dall’analitica esistenziale di Heidegger: l’uomo può comprendere la parola di Dio poiché vi è in lui una precomprensione dell’esistenza che costituisce la base della sua apertura al Dio che lo interpella. Affinché ciò sia possibile, è necessario per Bultmann che la parola di Dio sia liberata dalle concrezioni mitologiche risalenti all’epoca in cui essa è stata fissata per iscritto, in modo da poter essere presentata nella sua genuinità all’uomo di oggi, per il quale l’elemento mitologico è divenuto estraneo e incomprensibile.

l’apertura dell’esserci a dio

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il significato della scrittura per la nostra esistenza

È questo il metodo della demitizzazione, che intende liberare il messaggio cristiano dalle forme di cui è esteriormente rivestito nelle Sacre Scritture, non per smentire queste ultime, ma per fare emergere il significato universale che sottende le rappresentazioni contingenti e relative alla determinata civiltà che le ha espresse. Si tratta di recuperare la dimensione autentica ed essenziale della Scrittura, accessibile a ogni uomo nella chiarificazione della sua esistenza, in modo da poter accedere a una fede criticamente depurata e indipendente dalla sua particolare collocazione spazio-temporale. Bisogna perciò, in primo luogo, operare una distinzione tra il vero contenuto della fede e i simboli attraverso cui essa è stata tramandata, sia nelle prime comunità cristiane (con i relativi influssi di marca ellenistica), sia nelle epoche successive, come durante il Medioevo; bisogna cioè riconoscere come mitica – e quindi spuria – ogni rappresentazione che costringa il divino in categorie umane e mondane, abbassando a fatto puramente umano la redenzione di Cristo. Lo stesso vale per la tradizionale concezione del miracolo come azione del sovrannaturale nella storia, per le visioni apocalittiche della fine del mondo o del giudizio finale (comuni, del resto, a molte religioni non cristiane), o anche per molte verità dogmatiche espresse in forme che ne velano il genuino contenuto di fede. Per cogliere quest’ultimo è necessario che l’uomo, rivolgendosi ai testi sacri, sia animato da un’attiva precomprensione del problema di Dio, la cui mancanza rende muto il rapporto e impossibile la relazione tra la domanda dell’uomo e le risposte dei testi .

esistenza autentica e incontro con dio

Ciò riporta in piena luce il legame fra teologia e l’esistenzialismo di Heidegger, soprattutto là dove egli esamina le nozioni di esistenza inautentica e autentica: la prima è per Bultmann la via del peccato, poiché in essa l’uomo si appiattisce sull’oggettività e sulla manipolazione dell’essere, e non è aperto a una realtà suprema che lo interpella; mentre nella seconda si dà l’apertura all’inoggettivabile, all’appello dell’Altro, all’evento dell’incontro con Dio. Ma affinché l’uomo possa passare dall’esistenza inautentica a quella autentica – ed è questo ciò che la teologia aggiunge alla semplice analitica esistenziale – la filosofia non basta e le forze umane non sono sufficienti, poiché si tratta di una «conversione» che può essere operata soltanto dall’amore di Dio attraverso Cristo.

l’esperienza esistenziale della fede

La piena realizzazione dell’esistenza autentica è dunque l’incontro con Cristo, che non avviene sulla base di una conoscenza meramente storica, che è sempre di tipo oggettivante, bensì soltanto nell’esperienza esistenziale della fede. Il Gesù storico è infinitamente meno importante del Cristo della fede, che non ha alcun bisogno di essere «ricostruito» nella sua realtà mondana e temporale, poiché si rivela nell’interiorità di ciascuno a cui voglia manifestarsi. Sulla base di tutto questo si comprende la netta preferenza di Bultmann per il quarto Vangelo, quello più libero da elementi «mitologici» e più aperto a una comprensione universalmente filosofica della figura di Cristo: la dottrina del Logos «che brilla nelle tenebre» può fruttuosamente incontrarsi con l’idea della precomprensione del divino, con l’istanza esistenziale della decisione di accoglierlo o negarlo, e quindi di accettare o di rifiutare il senso della nostra esistenza.

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Bultmann Mito e demitizzazione

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4. Tillich La teologia di Paul Tillich (1886-1965) si colloca in una prospettiva per molti versi antitetica nei confronti della visione barthiana. Convinto egli pure – anche attraverso l’esperienza della Prima guerra mondiale vissuta in prima persona come cappellano dell’esercito tedesco – del tramonto del compromesso tra cristianesimo e filosofia ottocentesca, militò dapprima nella corrente del «socialismo religioso», insegnando in varie università della Germania; quindi, all’avvento del nazismo, fu rimosso dalla cattedra e riparò negli Stati Uniti, dove operò sino alla morte nelle università di Columbia, Harvard e Chicago. Come ricorda egli stesso nello scritto autobiografico recante il significativo titolo Sulla linea di confine, la doppia esperienza di vita in mondi e culture così diversi fece di lui un teologo, imperniata appunto sul vedere tra l’uomo e Dio un confine che, proprio in quanto tale, mentre li separa, li unisce e fonda la loro relazione.

una teologia del confine

Nella sua opera principale elaborata per più di quarant’anni, la Teologia sistematica, così come negli scritti minori che l’accompagnano, Tillich elabora una prospettiva teologica fondata su quello ch’egli chiama il principio della correlazione : non il «salto» barthiano, che relega Dio in una lontananza inaccessibile, bensì una mutua relazione in cui Dio stesso è scorto come la profondità dell’essere. Non si tratta, pertanto, di insistere sul tema della radicale incompatibilità tra teologia e filosofia, quanto di saper scorgere tra di esse un nuovo e più autentico nesso che risponda ai problemi dell’uomo moderno. Il messaggio cristiano, pur preservando la sua verità intemporale, deve essere mediato con le differenti forme di pensiero e di espressione che sono specifiche delle diverse epoche, in modo da instaurare un dialogo anche e soprattutto con i non credenti. In ultima analisi – afferma Tillich di fronte al clima esistenzialistico a cui si mostra estremamente attento – il nome «Dio» deve indicare il luogo di una possibile risposta alle domande dell’uomo, alla sua angoscia e alla sua crisi, e suggerirgli il «coraggio di esistere»:

il dialogo tra dio e gli uomini

Il coraggio di esistere è un’espressione di fede, e il significato di «fede» deve essere inteso attraverso il coraggio di esistere. Noi abbiamo definito il coraggio autoaffermazione dell’essere nonostante il non-essere. Il potere di questa autoaffermazione è il potere dell’essere, che agisce in ogni atto del coraggio. La fede è l’esperienza di questo potere (Il coraggio di esistere, cap. VI).

Questo è quanto mostra appunto il principio della correlazione, che permette di pensare il rapporto fra la domanda dell’uomo e la risposta di Dio. Secondo Tillich, l’uomo è essenzialmente una domanda, ossia tensione a una possibile risposta che Dio liberamente gli dona, nelle forme che via via, nelle diverse condizioni storiche e culturali, l’aspettativa umana è in grado di recepire. Ciò non significa certamente che tale correlazione sia per Dio necessaria – ciò vorrebbe dire dissolverne la libertà e farlo dipendere dall’uomo – né che la sua risposta sia in qualche modo forzata dalla domanda 14. la filosofia di ispirazione cristiana e le nuove teologie

l’uomo come domanda e la rivelazione come risposta

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umana. Domanda e risposta restano assolutamente indipendenti, né l’una può essere inferita dall’altra, pur essendole correlativa. È dunque necessario esplorare la correlazione sia dal punto di vista della domanda, sia, per quanto è possibile, da quello della risposta; e in ciò consiste l’intero movimento della teologia che, recuperando un fecondo rapporto con la filosofia, riconosce al contempo il suo fondamento nella Rivelazione come luogo della risposta divina. la polarità tra domanda e risposta

Il nesso di «domanda» e «risposta» si svolgerà allora comprendendo che la Rivelazione è la risposta alle questioni poste dalla ragione, e scorgendo in Dio la risposta al problema dell’essere, in Cristo la risposta al problema dell’uomo, nello Spirito la risposta al problema della vita, nel regno la risposta al problema della storia. La polarità fondamentale viene ovunque riproposta e mantenuta nella sua tensione, sulla scorta della visione problematica dell’uomo che Tillich eredita dall’esistenzialismo e che è comunque tipica della nuova epoca .

dio si rivela nell’esistenza dell’uomo

In particolare, va notato che nel trattare della polarità tra essere e Dio Tillich si richiama alla tradizione della mistica tedesca e al pensiero dell’ultimo Schelling. La concezione dell’essere come precarietà e angoscia (quale emerge dall’analisi dell’esistenza umana), e quindi come costitutiva finitezza, non consente più di conferire a Dio il tradizionale attributo dell’essere. Se, tuttavia, è necessario vedere in lui la risposta al problema ontologico, alla domanda fondamentale dell’uomo, Dio non potrà dirsi totalmente «altro» dall’essere, quanto piuttosto il suo fondamento, cioè colui che «pone» l’essere stesso e ne è Signore. Solo in quanto tale Dio può fornire una risposta al problema dell’essere, risposta che però deve inscriversi, per poter essere colta dall’uomo, nelle condizioni della sua esistenza.

cristo è la risposta alla domanda sull’essere

Questo è il fondamento della cristologia di Tillich, che vede in Cristo la realizzata unità del divino e dell’umano in una vita storica concreta e data nel tempo, quindi la risposta suprema, ma accessibile a ogni uomo, perché data nella dimensione dell’umano, in una persona. Se Cristo è la risposta alla domanda dell’esistenza, il cristianesimo si distingue da ogni limitata forma di religione ed è anzi ben più di una «religione»: l’incarnazione è la chiave di volta del senso della storia, il cui culmine, il regno di Dio, non è da vedersi come «altro» dal tempo ma come la sua realizzazione più profonda. La teologia di Tillich confluisce pertanto in una visione escatologica che non annulla la storia, ma che vede nella «vita eterna» l’immanente riscatto del male e della negatività storica.

5. Bonhoeffer la resistenza al nazismo

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Nel momento in cui gran parte della Chiesa protestante tedesca si adattava a convivere con l’ideologia nazista, la vita e la personalità di Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) testimoniarono, invece, l’assoluta incompatibilità fra il dettato evangelico e il torbido paganesimo del regime hitleriano. Egli infat14. la filosofia di ispirazione cristiana e le nuove teologie

Tillich Fede e affermazione dell’essere

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ti fu tra i promotori della cosiddetta Chiesa confessante che rappresentò in Germania la resistenza cristiana al nazismo, e, coinvolto nel fallito attentato a Hitler compiuto dal gruppo di Von Stauffenberg e Canaris, venne impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg. La meditazione teologica di Bonhoeffer appare intimamente coerente con la sua vita in quanto, mentre s’innesta in modo conseguente sul filone barthiano e sulla nozione dell’assoluta alterità di Dio, svolge un tema lasciato da Barth in posizione secondaria: quello dell’impegno concreto dell’uomo nella storia. In una situazione in cui tutto, nel mondo moderno, porta l’uomo a non riconoscersi più nel messaggio cristiano, la riflessione di Bonhoeffer muove dalla domanda su come sia possibile professare il Vangelo. Di qui il suo sforzo, da un lato, di accettare sino in fondo l’autonomia dell’umano, la sua «maggiore età», cioè il retaggio della cultura moderna dall’Illuminismo in poi e, dall’altro, di prospettare la possibilità di un cristianesimo «non religioso», che richieda di vivere il Vangelo in un mondo totalmente secolarizzato e lontano da Dio. «Vivere in nome di Dio e di fronte a Dio senza Dio» è la formula in cui si condensa questo tentativo di accogliere senza mezzi termini le istanze dell’umanesimo ateo e di scorgere la presenza di Dio non nella debolezza, ma nella pienezza e nella forza dell’umano.

come si può professare il vangelo oggi?

Nelle sue opere – fra le quali le più note sono certamente l’Etica, il capolavoro incompiuto, e la densa raccolta di lettere degli ultimi anni, pubblicata postuma nel 1951 col titolo di Resistenza e resa – tutto ruota intorno alla domanda di fondo: chi è Cristo oggi per noi, abitatori di un mondo che ha imparato a fare a meno dell’ipotesi Dio poiché è finalmente diventato «adulto»? Oppure, detto altrimenti, come e perché volgerci ancora a Dio, quando la nostra attuale condizione è di poterne fare benissimo a meno? Non v’è infatti alcun dubbio, per Bonhoeffer, che non vi sia più alcun bisogno di un Dio «tappabuchi» cui l’uomo ricorra per darsi sicurezza nelle sue crisi e nelle sue debolezze [t41]. Ora, questa operazione rassicurante era propria della religione, che, su questo piano, non ha più nulla da dire. È dunque necessario abbandonare la religione come via d’accesso a Dio; ma ciò non significa abbandonare la fede, che può essere davvero ritrovata solo sganciandola dal suo supporto religioso.

avere fede in un mondo senza dio

Bonhoeffer procede pertanto a una radicale distinzione tra religione e fede . Se la religione aveva fatto leva sulla debolezza dell’uomo per convincerlo della necessità dell’«ipotesi Dio», la fede ricorderà invece che Gesù Cristo ci ha chiamati alla vita e non ha inteso fondare una religione. Si tratta, insomma, di scoprire il nuovo (o il vero) volto di Dio in un quadro di riferimento dove la rinuncia cosciente al deus ex machina, che è un residuo pagano, conduce a vedere nella vicenda cristica la presenza concreta e storica di un Dio che si è abbandonato al potere degli uomini, salvandoli con la sua morte e con la sua sofferenza. È dunque per seguire l’esempio di Cristo che gli uomini hanno non solo il diritto ma il dovere di assumere sino in fondo la loro umanità, di realizzare in pieno quella vita che Cristo ha riscattato per loro con la morte: è per questo che un’etica cristiana non deve respingere la vita, ma affermarla ed esserle fedele.

essere fedeli alla vita

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l’esempio di cristo: l’amore per il mondo

È questo il tema che percorre l’Etica di Bonhoeffer il quale, nel rifiutare ogni forma di morale astratta e di legalismo etico, muove – anche sulla scorta di un’operazione d’innesto del pensiero di Nietzsche sul tronco del Vangelo – a richiamare l’uomo all’amore per la vita e alla responsabilità che esso comporta. Nel suo amore per il mondo, Cristo lo riconduce al Padre, ma proprio così ne fonda la libertà e la responsabilità, chiamando l’uomo a un impegno che in ogni scelta concreta riaffermi e rinforzi l’amore per tutta la realtà. L’uomo, dunque, non può e non deve rifiutare le realtà «penultime» (o umane e naturali) in nome di quelle «ultime» (o sovrannaturali) ma, pur con l’occhio rivolto alle seconde, deve agire completamente all’interno delle prime. L’atteggiamento contrario non è che autoinganno o menzogna, poiché è falso promettere il regno di Dio laddove non siano stati soddisfatti i bisogni primari dell’uomo, sia fisici sia morali sia sociali, e non ci si sia impegnati fino in fondo per correggere le storture del mondo.

l’etica cristiana tra l’uomo e dio

Compito dell’etica cristiana sarà allora non di distogliere l’uomo da questo impegno, ma di ricordargli che soltanto esercitandolo egli potrà aprirsi la strada verso la comprensione e la conquista delle realtà «ultime»; ma, al tempo stesso, di rammentargli che il rischio dell’agire nella storia sta nella permanente tentazione di farsi fine a se stesso, escludendo le realtà ultime e affermando semplicemente l’ideologia dell’umanesimo ateo. Insomma, per trovare Dio non è necessario espungere l’uomo, ma per trovar l’uomo non bisogna espungere Dio: lo sforzo dell’etica di Bonhoeffer sta tutto nel tentativo di affermare insieme Dio e l’uomo, e proprio per questo essa può dirsi un’etica cristologica (il che ne rende illegittime le ricorrenti letture in chiave unilateralmente mondana e immanentistica).

APPROFONDIMENTO

Una fede senza Dio?

L’influsso esercitato dall’opera di Bonhoeffer nel secondo dopoguerra fu estremamente vasto. Tra le correnti che in parte proseguono e in parte estremizzano la visione bonhoefferiana, sviluppatesi particolarmente nell’area culturale anglo-americana, è opportuno ricordare soprattutto la «teologia della secolarizzazione», la «teologia radicale» e la «teologia della morte di Dio», le quali tutte, pur a diversi livelli, muovono dall’assunzione della totale autonomia dell’uomo. La teologia della secolarizzazione si propone di considerare la secolarizzazione non solo come fatto 424

inevitabile che può condurre alla negazione del cristianesimo (cioè tradursi in secolarismo), ma anche, paradossalmente, come il contenuto più specifico di esso: ne conseguono le istanze di una completa desacralizzazione della fede, di una sua separazione da tutte le tradizionali visioni metafisiche, di un’accelerazione del progetto demitizzante di Bultmann. Il principale esponente di questa corrente teologica è Harvey Cox (nato nel 1929), membro della Chiesa battista degli Stati Uniti e professore di Teologia nell’università di Harvard, tra le cui opere vanno ricordate La città secolare (1965) e La festa dei folli (1969).

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Cox muove appunto dal valorizzare gli aspetti positivi della secolarizzazione sino a farne l’autentico inveramento del messaggio biblico e cristiano. Ciò significa interpretare le Scritture distinguendo accuratamente i termini, così spesso confusi, di saeculum e di mundus: il primo, propriamente biblico e coerente con la visione ebraica della storia, esprime la concretezza e la tensione interna al divenire; il secondo, invece, tipico della metafisica greca, contempla una divisione «spaziale» fra ciò che è eterno e immutabile e ciò che è inferiore e diveniente. Il dualismo greco, sovrappostosi poco per volta alla visione biblica,

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ne ha mutato il significato sino all’eccesso della svalutazione dell’umano, laddove è invece chiaro che nella Genesi Dio affida il mondo all’uomo creato «a sua immagine e somiglianza». Compito dei cristiani di oggi sarà dunque assumere quell’impegno, rinunciando insieme alla «religione» e all’ateismo e svolgendo la loro azione, come singoli e come Chiesa, là dov’essa si renda più necessaria, e soprattutto nella vita politica (in proposito non va dimenticata l’attività di Cox contro le discriminazioni razziali negli Stati Uniti). Affini e anzi per più versi identiche nelle premesse, teologia radicale e teologia della morte di Dio si differenziano soltanto nelle conclusioni. Entrambe proseguono infatti sulla via della demitizzazione e del rifiuto di ogni concezione sacrale e metafisica della religione e – sempre sulla scorta della posizione di Bonhoeffer – propongono un cristianesimo compatibile con l’affermazione dell’autonomia dell’uomo tipica del mondo moderno. Ma mentre la teologia radicale si limita, in modi diversi, a constatare l’impossibilità di un discorso sensato su Dio nelle forme della vita e del linguaggio dell’uomo contemporaneo, senza tuttavia negare l’esistenza divina, la teologia della morte di Dio giunge alla conclusione estrema della necessità di assumere letteralmente tale «morte» come l’evento caratteristico della nostra epoca, evento che non si tratta più di discutere ma solo di interpretare e comprendere. L’affinità tra i due indirizzi rende spesso difficile la collocazione dei singoli teologi all’interno dell’uno piuttosto che dell’altro. È vero, ad esempio, che il titolo stesso dell’opera principale di Gabriel Vahanian (nato nel 1927), La morte di Dio (1961), parrebbe autorizzare il suo inserimento nella corrente

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più radicale: tuttavia esso allude soltanto al fatto, storico e sociologico, del venir meno del senso di Dio nella nostra civiltà e dell’eclissarsi in essa della visione cristiana del mondo. Ma il fatto di trovarci indubbiamente in un’era «postcristiana» è diagnosticato da Vahanian senza alcuna concessione nei confronti del cosiddetto «ateismo cristiano», in cui egli è ben lontano dal riconoscersi e che anzi attacca nelle opere successive definendolo una nuova idolatria: ne verrebbe vanificata la testimonianza di Gesù che è l’unico cui ci si può attenere una volta rimosse le scorie della «religione» tradizionale. Analogamente John Robinson (1919-1993), in Dio non è così (1963), mentre pone in crisi l’idea corrente di Dio, prospetta la necessità di una teologia che non si limiti a eliminare la trascendenza, ma sappia riproporla su basi nuove e accessibili all’uomo contemporaneo. Ancora una volta, sulla scia di Bonhoeffer, è Cristo nella sua divino-umanità a permetterci di non porre in antitesi il sacro e il profano, non confinando il sovrannaturale in un’astratta lontananza, ma scoprendolo quotidianamente negli altri uomini. Allo stesso modo, non può essere immediatamente identificata con la «teologia della morte di Dio» la posizione di Paul Van Buren (1925-1998), ampiamente influenzato dalla filosofia analitica del linguaggio, come mostra soprattutto Il significato secolare del Vangelo (1963). L’esame del Vangelo sulla base del rigoroso significato concettuale dei suoi enunciati conduce Van Buren a prospettare l’impossibilità di usare la parola stessa «Dio» e, quindi, a proclamare la «morte semantica»: non avendo alcun uso oggettivo possibile, tale parola è priva di senso e non è suscettibile di alcuna garanzia empirica di verità. Di qui, la necessità di abban-

donare ogni forma di teologia tradizionale, con tutte le connesse pretese metafisiche, e di rivolgersi a un concetto di fede che, per quanto a sua volta privo di un significato oggettivo, è pur sempre traducibile in prassi e, come tale, dotato di senso. «Fede» vuol dire infatti credere intimamente e pragmaticamente che la prospettiva aperta sul mondo da Gesù Cristo ha un senso, e quindi accettarla liberamente, assumendola a centro della propria vita. Ne risulterebbe che la scelta esistenziale resta l’unica via d’accesso a ciò che, oggettivamente inteso, non ha alcun significato. Esponenti in senso stretto della «teologia della morte di Dio» sono invece William Hamilton (nato nel 1924) e Thomas Altizer (nato nel 1927), che pure hanno composto insieme il «manifesto» su La teologia radicale e la morte di Dio, edito nel 1966. In Hamilton, di cui va ricordato La nuova essenza del cristianesimo (1961), la negazione di Dio è motivata da un’appassionata riflessione sulla sofferenza dell’uomo. Gli orrori e le tragedie del mondo contemporaneo, e soprattutto la mostruosità del nazismo, non consentono più di mentire e devono condurre all’abbandono delle tentennanti risposte della religione tradizionale e della teologia classica, poiché si tratta di risposte non solo impossibili ma propriamente false, mentre l’unica vera risposta sta nel constatare l’assenza di Dio. Tuttavia, se nella sua prima opera Hamilton pare ancora orientato a postulare la necessaria attesa di un Dio che verrà in un indistinto futuro, e quindi a mantenere aperta la porta di una debole speranza innestata sulla testimonianza di Cristo, la sua riflessione successiva si è sempre più orientata nel senso di un umanesimo ateo. La perdita di Dio nel mondo contemporaneo è un evento universale che si tratta di accettare svolgendone tutte le

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implicazioni «positive»: ciò ch’è perduto non è solo il Dio-idolo del teismo tradizionale, ma la stessa trascendenza. Di «morte di Dio» si deve parlare, per la nostra epoca, in senso reale, cioè nel senso di uno scomparire effettivo, di un silenzio irrecuperabile cui nessuna «dialettica» di «assenza e presenza» può porre rimedio. Allora l’ormai impossibile fede in Dio deve tramutarsi in impegno di amore e di collaborazione fra gli uomini, anziché attendere un impossibile «ritorno» di Dio . Estremamente tormentata è la vi-

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sione teologica di Altizer – non a caso definita come una sorta di «misticismo ateo» – ove si mescolano indissolubilmente reminiscenze nietzscheane ed hegeliane. In Il Vangelo dell’ateismo cristiano (1966), egli identifica l’irreversibile morte di Dio con lo stesso autoannientamento di Dio in Gesù Cristo, il quale, proprio per questo, non è da intendersi come figura mitica, ma storica e reale. Perciò la morte di Dio non è la fine del cristianesimo, ma la sua essenza più propria, la sua fondazione e realizzazione. Gesù è la morte di

Dio in atto in quanto abbassamento (kènosi) del Dio della trascendenza, cosicché l’incarnazione di Dio e la sua morte per amore del mondo vengono a identificarsi: si potrà parlare di Dio solo come di un processo di autonegazione in Cristo e di continua incarnazione nel mondo. Ciò significa che il Dio «morto» della trascendenza sarà un giorno «tutto in tutti», e implica il definitivo rifiuto di ogni distinzione fra sacro e profano nell’accettazione integrale dell’essere e nell’amore incondizionato per la vita e per l’esistente.

6. Ulteriori sviluppi della ricerca teologica teilhard de chardin e la parusìa universale

In area cattolica, a parte il tentativo messo in atto dal modernismo (e condannato dalla Chiesa), è prevalso un ripiegamento nel solco nella tradizione tomista. Tuttavia, non mancarono personalità di rilievo la cui opera isolata dovette attendere il Concilio Vaticano II per essere riconosciuta, come il gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) col suo originale sforzo – espresso soprattutto nell’Ambiente divino (1926-27) e nel Fenomeno umano (1938-40) – di conciliare la fede e la teoria dell’evoluzione (per quasi un secolo rifiutata dalla Chiesa) nel quadro di una visione cristocentrica del cosmo. Se è vero, per Teilhard, che la scienza deve occuparsi soltanto del «fenomeno», è d’altra parte vero che quest’ultimo può essere inserito in un’evoluzione cosmica tendente a una totalità finale che supererà la parcellizzazione degli individui, senza annullarne, anzi pienamente realizzandone, la dimensione personale: questa vetta dell’evoluzione cui tutto l’essere è sin dal principio orientato sarà la parusìa universale, il raccogliersi del tutto nel Cristo cosmico.

rahner e la precomprensione umana di dio

È in ogni caso nel secondo dopoguerra che la teologia cattolica conosce un fermento rinnovatore e, pur fra aspri dibattiti nel periodo preconciliare, tende a un progressivo riconoscimento – sempre temperato da un costante teocentrismo – dei valori umani, di cui è documento la Teologia del lavoro di Marie-Dominique Chenu (1955). Il vero dialogo della teologia cattolica col mondo moderno ha inizio, comunque, soltanto col Concilio Vaticano II e coi documenti relativi, a partire dalla Gaudium et spes. Teologo di spicco fra i padri conciliari «progressisti» fu il tedesco Karl Rahner (1904-1984), allievo di Heidegger a Friburgo e autore di numerosi volumi raccolti negli Scritti di teologia, nonché del Corso fondamentale sulla fede edito nel 1976. Fautore di

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una vera e propria svolta antropologica della teologia, Rahner ne richiama la costitutiva affinità con la filosofia che le offre le basi tecniche e scientifiche. La filosofia, intesa come discorso speculativo sull’uomo, o «antropologia fondamentale», potrà mostrare la naturale predisposizione dell’uomo ad accogliere la Rivelazione divina indagando quelle strutture a priori che dispongono la ragione umana a recepire la parola di Dio: L’uomo è l’ente che nella storia deve tendere l’orecchio a un’eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana. [...] L’uomo è l’ente dotato di una spiritualità ricettiva aperta sempre alla storia e nella sua libertà in quanto tale si trova di fronte al Dio libero di una possibile rivelazione, la quale, nel caso che si verifichi, si effettua sempre mediante «la parola» nella sua storia, di cui costituisce la più alta realizzazione. L’uomo è colui che ascolta nella storia la parola del Dio libero. Solo così egli è quello che deve essere (Rahner, Uditori della parola, cap. XIII).

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La Rivelazione è certo indeducibile e l’automanifestarsi di Dio è assolutamente libero e non necessitato dalla disposizione dell’uomo ad accoglierlo; ma la riflessione «trascendentale» di Rahner pone l’accento su quella costitutiva apertura nei confronti di Dio che, secondo la sua analisi, si configura come un irriflesso «esser-già-sempre-presente» dell’Assoluto nella ragione. Ne risulta che non vi sono atei, se non coloro che intenzionalmente rinnegano la loro natura di «uditori della Parola» . Negli anni Sessanta e Settanta si diffonde l’esigenza di un dialogo costruttivo col marxismo, che si tratta di non respingere più in blocco, ma di valutare nella legittimità delle istanze sociali, pur nel necessario dissenso per le sue conclusioni atee. È naturale che su questo terreno la riflessione teologica, rivolta ai temi del futuro e della storia, s’incontrasse soprattutto con le forme del marxismo eterodosso, come quella assunta – nell’ambiente culturale tedesco – dalla filosofia di Ernst Bloch: è il caso della teologia della speranza di Jürgen Moltmann (nato nel 1926), che punta su una rilettura del messaggio cristiano tutta incentrata sul tema escatologico. Per Moltmann, il Dio ebraico e cristiano è essenzialmente il Dio della promessa, al punto ch’egli può affermare nella Teologia della speranza del 1964 che l’unico tema centrale del pensiero cristiano è la tensione al futuro. Per comprenderlo appieno è necessario superare la contaminazione «greca» fra il Dio biblico e l’Essere statico della filosofia, e concentrarsi su quelle immagini dell’«esodo» e del «Regno» che invitano l’uomo a una visione dinamica della storia come «cammino» e «missione». Allora la posizione marginale che il cristianesimo è venuto assumendo nella società contemporanea finisce per configurarsi, ben più che come una sconfitta, come una preziosa occasione di riscoperta della sua funzione più propria, che non è di santificare il presente con la sua ingiustizia e la sua alienazione, bensì di operare per la «trasformazione storica della vita». La fede nella promessa di Dio è fondata nella resurrezione come evento concreto, primo segno della nuova creazione e della Rivelazione compiuta.

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a Hamilton La morte di Dio b Rahner La svolta antropologica

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moltmann e la teologia della speranza

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moltmann e la teologia della croce

Il problema del male e della sofferenza, nel quadro di uno sforzo di risposta cristiana alle domande filosofiche che incrinano ogni prospettiva di salvezza per l’uomo contemporaneo, è stato poi ancora riaffrontato da Moltmann che, dopo la fase più ottimistica della «teologia della speranza», s’è volto alla teologia della croce esposta in Il Dio crocifisso (1972). Qui egli sostiene che la vera spinta all’ateismo è da vedersi nel fallimento di ogni tentativo di teodicea: l’apparente mancata risposta di Dio al problema del male è alla base del rifiuto del divino da parte dell’uomo. È pertanto necessario abbandonare la vecchia nozione di un Dio celeste e lontano, trascendente e immutabile, e prendere sul serio il senso della croce, ammettendo così che Dio stesso può soffrire e ha sofferto in Cristo. Allora non solo non c’è contraddizione fra Dio e la sofferenza, ma questa è il suo stesso essere, in quanto amore e apertura verso l’uomo e pertanto libera e volontaria compartecipazione e con-sofferenza.

la liberazione dell’uomo dal male

Solo così si apre la via per la liberazione dell’umanità, sempre insidiata dai cerchi diabolici che ne riproducono il patimento e la schiavitù: i cerchi della povertà, del potere dell’estraniazione razzista e culturale, della distruzione industriale della natura. Se la dottrina dei cerchi diabolici mostra il nesso con la «teologia della speranza» – Moltmann stesso, del resto, ha sempre affermato che non si trattava di un mutamento di rotta ma di un percorso convergente –, la riflessione sul cerchio della distruzione della natura ha avuto seguito nelle sue opere successive, orientate alla fondazione di una teologia ecologica che trova oggi numerosi seguaci.

la teologia della liberazione e il confronto col marxismo

Negli ultimi decenni le tematiche più propriamente «politiche» del confronto tra teologia cristiana e problematica sociale del nostro tempo hanno trovato forme originali di affermazione in contesti socio-culturali particolarmente colpiti dall’oppressione, dal sottosviluppo economico o dalla segregazione razziale. È il caso della teologia della liberazione latino-americana (Hugo Assmann, Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff) che, in un continente a schiacciante maggioranza cattolica e insieme segnato da fenomeni di estrema sperequazione economica e sociale, denuncia il carattere radicalmente anticristiano del «peccato sociale» che vi si consuma, giungendo a identificare Vangelo e liberazione degli oppressi e insistendo sul carattere schiettamente politico della scelta di fede. L’opzione a favore dei poveri che distingue questa corrente, se prospetta una liberazione dell’uomo più totale di quella teorizzata dal marxismo, perché non solo economica, col marxismo stesso ammette, al contempo, una convergenza pragmatica nelle situazioni concrete dell’oppressione nel Terzo e Quarto mondo: tipico della teologia della liberazione è il distacco critico nei confronti della teologia dei paesi ricchi, considerata incapace di cogliere il nesso necessario fra verità cristiana e prassi.

la teologia nera tra stati uniti e sudafrica

Un’analoga accusa, questa volta scagliata non contro la teologia «ricca» ma contro quella «bianca», è tematizzata dalla teologia nera, sorta negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni Settanta (James Hal Cone, William Jones) e attivamente penetrata anche in Sudafrica. Questa posizione identifica la condizione dei neri col modello universale di ogni oppressione, e

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quindi rifiuta ogni richiamo evangelico alla pazienza e alla riconciliazione, in nome di un Dio che, per essere giusto, non può «essere bianco». Anzi, il Dio della metafisica e della teodicea, lontano e indifferente alla sofferenza degli oppressi, è forse anch’egli – ammesso che esista, cosa che la «teologia nera» tende a negare – un «razzista bianco», da cui va ben distinto Gesù Cristo. Si tratta di posizioni che spesso, per quanto le Chiese ne abbiano denunciato i «pericoli» dal loro punto di vista, hanno trovato viva attenzione nei teologi europei più aperti e sensibili.

in poche... parole Nel passaggio fra Ottocento e Novecento si assiste ad un forte rinnovamento dei metodi e dei concetti delle discipline teologiche. Ciò è dovuto in gran parte ai rivolgimenti culturali verificatisi in ambito filosofico e scientifico, e cioè al passaggio dall’idealismo hegeliano al marxismo, alla diffusione del positivismo e dell’evoluzionismo, all’affermazione delle scienze storicosociali. Nell’Ottocento, in area cattolica si assiste alla difesa della tradizione, mentre in area protestante si afferma la teologia liberale, intenta a conciliare lo spirito dell’epoca con i princìpi della religione cristiana. Tutta la riflessione teologica successiva alla Prima guerra mondiale si sviluppa, invece, prendendo atto dell’impossibile compromesso tra mondo e cristianesimo, tra teologia e filosofia. Alla teologia liberale reagiscono in modo diverso alcuni teologi protestanti, tra cui occorre ricordare Karl Barth, Rudolf Bultmann, Paul Tillich, Dietrich Bonhoeffer, Jürgen Moltmann. Barth prende le mosse dall’assoluta alterità di Dio rispetto all’uomo, ma nell’ultima fase della sua riflessione si concentra sulla figura di Cristo, in cui vede realizzarsi concretamente l’unità di umano e divino. Bultmann promuove un approc-

cio demitizzante alle Sacre Scritture e, sulla scia di Heidegger, sostiene che l’esistenza autentica è quella in cui l’uomo si apre all’incontro con Dio, mettendosi alla ricerca del significato universale della predicazione di Gesù. Tillich, in antitesi con Barth, elabora una teologia della correlazione, secondo la quale la Rivelazione costituisce la risposta alle domande poste dalla ragione. Bonhoeffer si impegna a portare il messaggio cristiano in un mondo completamente secolarizzato, affermando che per trovare Dio non occorre fare a meno dell’uomo, e per trovare l’uomo non occorre fare a meno di Dio. In ambito cattolico, occorre ricordare il contributo di Karl Rahner, fautore della svolta antropologica della teologia, e cioè del riconoscimento della naturale predisposizione della ragione umana a recepire la parola divina. In un clima di avvicinamento tra la teologia protestante e quella cattolica, volte a dialogare con il mondo e i suoi valori, si colloca la teologia della speranza elaborata da Jürgen Moltmann, per il quale il Dio ebraico e cristiano è essenzialmente il Dio della promessa.

teologia dialettica In area protestante, Karl Barth sostiene che

l’infinita «differenza qualitativa» tra Dio e l’uomo non può essere colmata dalla religione, in quanto la divinità è il totalmente altro. Il «no» di Dio nei confronti dell’uomo è, tuttavia, il fondamento della loro relazione: esistere significa per l’uomo cercare di comprendere il proprio rapporto con Dio, fino a riconoscere l’impossibilità di varcare la «linea mortale» che lo separa dalla trascendenza assoluta. Per Barth, è proprio nel riconoscimento del proprio limite che si radica la fede, e cioè l’apertura a Dio: il «no» iniziale si trasforma nel «sì» con cui Dio – attraverso la persona di Cristo – salva l’uomo e il mondo. L’abbandonarsi alla fede non è ascrivibile alla scelta razionale dell’uomo, ma è un voler credere in una trascendenza che di per sé gli è assolutamente preclusa. Il «sì» dell’uomo a Dio non implica, infatti, necessariamente il «sì» di Dio all’uomo, ma è un dono che dipende esclusivamente dalla sua iniziativa e che può sopraggiungere solo quando l’uomo ha sperimentato il fondo di se stesso. In altre parole, la dialettica tra no e sì non si conclude hegelianamente con la sintesi tra uomo e dio, ma – sulla scia di Kierkegaard – con il «salto» attraverso cui l’uomo si abbandona a Dio, senza avere alcuna certezza sulla sua risposta.

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demitizzazione

Rudolf Bultmann usa questo termine per indicare la tendenza a liberare il messaggio cristiano dalle forme culturali di cui è rivestito nella Bibbia. Utilizzando gli strumenti concettuali forniti dall’analitica esistenziale di Heidegger, Bultmann sostiene che per recuperare l’apertura verso Dio, iscritta nella precomprensione della propria esistenza, l’uomo deve liberare la parola di Dio dalle stratificazioni mitologiche dovute all’epoca in cui è stata messa per iscritto. La demitizzazione è l’unica via possibile per ritrovare il significato universale della Bibbia, al di là delle rappresentazioni relative alle civiltà che l’hanno espressa. Per riscoprire l’autentico valore esistenziale del messaggio cristiano, dunque, occorre distinguere tra il vero contenuto della fede e i simboli attraverso cui è stato tramandato (sottraendolo ai condizionamenti spazio-temporali della cultura, ad esempio di quella ellenistica o medievale) e rifiutare come mitica ogni rappresentazione che costringa il divino dentro a categorie umane (ad esempio, le numerose verità dogmatiche o le visioni apocalittiche del giudizio finale).

principio della correlazione

Si tratta del principio sul quale si basa la prospettiva teologica di Paul Tillich, per molti versi antitetica alla teologia dialettica formulata da Barth. Se per quest’ultimo, infatti, Dio è il totalmente altro e l’uomo può rapportarsi a lui sol-

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tanto compiendo un «salto», per Tillich, invece, il confine che separa l’uomo da Dio rappresenta anche il luogo della loro mutua relazione. Attraverso il principio di correlazione il teologo tedesco cerca di pensare il rapporto tra la domanda dell’uomo e la risposta di Dio. A suo avviso, sulla scia delle tesi esistenzialistiche, l’uomo è essenzialmente una domanda di senso rivolta a Dio; quest’ultimo dà liberamente delle risposte, adeguandole alle situazioni storicoculturali in cui l’uomo di volta in volta vive. Domanda e risposta, pur essendo correlative, sono tuttavia indipendenti: la risposta divina non può essere in alcun modo forzata dalla domanda dell’uomo e va, comunque, trovata nella Rivelazione, dialogando con le forme di pensiero e di espressione proprie delle diverse epoche storiche. In particolare, Dio rappresenta la risposta al problema dell’essere, in quanto ne è il fondamento; Cristo, invece, rappresenta la risposta all’angoscia e alla crisi dell’uomo.

religione e fede Per Dietrich

Bonhoeffer, a partire dall’Illuminismo l’uomo è diventato «adulto» e ha imparato a fare a meno dell’ipotesi di Dio, vivendo in un mondo completamente secolarizzato. Di qui, l’urgenza della domanda: come e perché rivolgerci ancora a Dio? Per rispondere a questa questione, Bonhoeffer distingue tra la religione e la fede: la prima aveva fatto leva sulla debolezza dell’uomo e sul suo bisogno di rassicura-

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zione per convincerlo della necessità dell’ipotesi di Dio; la fede, invece, ci ricorda la vicenda umana di Cristo che non aveva inteso fondare una religione, né legarsi a qualsiasi forma di potere, ma soltanto salvare l’uomo insegnandogli l’amore per la vita. Secondo Bonhoeffer, l’esempio di Cristo chiama tutti gli uomini ad assumere fino in fondo la loro umanità, realizzando appieno quella vita che egli ha riscattato per loro con la morte. Di qui il rifiuto di ogni morale astratta e di ogni forma di legalismo esteriore, il riconoscimento dell’importanza dei bisogni primari dell’uomo (fisici, morali, sociali), il richiamo per l’uomo ad agire nella storia non rifiutando le realtà «penultime» (umane e naturali) in nome di quelle «ultime» (sovrannaturali).

teologia della speranza In un dialogo costruttivo con il marxismo eterodosso di Bloch, Jürgen Moltmann effettua una lettura del messaggio cristiano tutta incentrata sul tema escatologico. A suo avviso, l’essenza del pensiero cristiano consiste nella tensione verso il futuro e nella speranza in un mondo migliore: di qui l’invito a una visione dinamica della storia come «cammino» e «missione», il rifiuto dell’ingiustizia e dell’alienazione del presente, l’impegno ad agire per la «trasformazione storica della vita». In questo quadro, Moltmann interpreta la promessa della resurrezione, intesa come evento concreto di rinascita e compimento della Rivelazione divina.

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i testi t40 Barth / Il «totalmente Altro» Barth

L’Epistola ai Romani

Commento a Rom. 1, 16-17

Sin dalle prime pagine dell’Epistola ai Romani, Barth enuncia i temi capitali della sua opera. Dio è alterità assoluta e incolmabile differenza nei confronti di tutto ciò che è umano, e non può pertanto essere conosciuto né come potenza naturale né come forza che sta al di sopra della natura: ogni pretesa di questo tipo è un equivoco «religioso», se non una superstizione, e si adatta a compromessi mondani. Bisogna rinunciare alla «religione», la cui funzione consolatoria ha solo aiutato l’uomo a mettere fra parentesi la sua drammatica situazione, segnata dal «no» che Dio rivolge a lui e al mondo. Ciò significa che l’unica possibilità è riscoprire la fede, mantenendosi aperti alla speranza «dialettica» che proprio l’estremo della negazione si converta nel «sì» divino.

Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale né una forza dell’anima, né alcuna delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l’origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda1. Pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e non «soprannaturalmente» sopra, ma al di là di tutte le forze condizionatecondizionanti, né deve essere scambiata con esse né messa in linea con esse, né senza estrema cautela può essere confrontata con esse. La potenza di Dio, che stabilisce Gesù come Cristo (1, 4)2 è nel senso più stretto pre-supposizione, libera di ogni contenuto tangibile. Essa 1. Ecco il «manifesto» della teologia

dialettica barthiana, che insiste sulla assoluta estraneità e alterità di Dio nei confronti del mondo, e quindi rinuncia polemicamente e programmaticamente a definire ciò che Dio è, sottolineando piuttosto, per via negativa, ciò che non è. È questo, per Barth, l’unico modo per evitare di precipitare lungo la deriva feuerbachiana, cui certo non sfugge la teologia liberale, della definitiva risoluzione della teologia in antro-

avviene nello Spirito e vuole essere conosciuta nello Spirito. Essa è autosufficiente, incondizionata e in sé vera. Essa è l’assolutamente nuovo che nella riflessione dell’uomo intorno a Dio diventa un fatto decisivo, cardinale. Tra Paolo e i suoi uditori e lettori, si tratta appunto della proclamazione e dell’accettazione di questo messaggio. A questo messaggio si riferisce tutta la dottrina, la morale, il culto della comunità di Cristo; tutto ciò non è altro che il cratere, non vuole essere altro che lo spazio vuoto, in cui il messaggio presenta se stesso. La comunità di Cristo non conosce parole, opere, cose sacre in sé, conosce soltanto parole, opere, cose che come negazioni rinviano al Santo3. Se tutto quello che è cristiano non venisse riferito all’Evangelo, non sarebbe altro che un prodotto secondario umano, un pericoloso residuo religioso, un deplorevole equivoco, fintanto almeno che volesse essere invece di spazio vuoto,

pologia: solo l’«alterità» è vera garanzia di «trascendenza». 2. I rimandi si riferiscono ovviamente ai versetti della Lettera paolina, di cui l’intero scritto barthiano si presenta come commento e interpretazione, pur svolgendosi poi secondo una linea di pensiero del tutto originale e autonoma. 3. Come «negazione», appunto, e come rinvio solo indiretto a ciò ch’è radicalmente «Altro», poiché nell’infinita

differenza qualitativa nulla nel mondo può essere sacro e il «sacro» stesso, se inteso soltanto come qualificazione del mondano, non è che un perdurante residuo di paganesimo. Lo stesso vale per la «religione» che, nella visione barthiana, non solo non ha nulla di specificamente cristiano, ma è, in tutto ciò che la caratterizza e definisce, direttamente opposta alla fede o, quantomeno, un velo del tutto esteriore e un’inessenziale concrezione storica.

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contenuto, invece di concavo, convesso, invece di negativo, positivo, invece di espressione di indigenza e di speranza, espressione di un essere e avere. Se mirasse a questo, se ponesse al posto di Cristo il cristianesimo, se pervenisse a un trattato di pace o anche solo a un modus vivendi con la realtà del mondo in sé rivolgentesi al di qua della linea della risurrezione, non avrebbe più niente da fare con la potenza di Dio4. Il cosiddetto Evangelo, in questo caso non sarebbe fuori concorso, ma sarebbe gravemente impegnato nella ressa delle religioni del mondo e delle visioni del mondo. Poiché nel soddisfare bisogni religiosi, nel produrre efficaci illusioni sulla nostra conoscenza di Dio e particolarmente sulla nostra vita con lui, il mondo se n’intende certo meglio di un cristianesimo che si fraintende. [...] L’uomo si trova in questo mondo in prigione. Una riflessione alquanto profonda non può concedersi nessuna incertezza sulla limitazione delle nostre possibilità che sono qui e ora a nostra disposizione. Ma noi siamo più lontani da Dio, la nostra decezione da lui è più grande (1, 18; 5, 12) e le sue conseguenze sono sempre ancora più vaste (1, 24; 5, 12) di quanto ci permettiamo di pensare. L’uomo è signore di se stesso. La sua unità con Dio è lacerata in un modo tale che non siamo nemmeno in grado di rappresentarci la sua restaurazione. La sua creaturalità è la sua catena. Il suo peccato è la sua colpa. La sua morte è il suo destino. Il mondo è un informe ondeggiante caos di forze naturali, psichiche ed altre. La sua vita è 4. È la teologia liberale – costante ter-

mine di riferimento polemico – che si è macchiata di questo ibrido compromesso: è da notarsi l’opposizione fra Cristo e il cristianesimo, ove con quest’ultima parola s’intende scopertamente l’irrigidimento «religioso» della dottrina, il suo essere divenuta appunto modus vivendi della «cristianità» come insieme storicamente situato e geograficamente definito di gruppi umani e politici, che hanno in fondo adattato l’insegnamento evangelico ai propri usi e costumi e alla propria mentalità, col risultato, assolutamente deformante, di mondanizzarlo e depotenziarlo. La rimozione di questo equivoco è, per

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un’apparenza. Questa è la nostra situazione5. «Vi è un Dio?». Domanda veramente legittima! Concepire questo mondo nella sua unità con Dio, è colpevole arroganza religiosa, se non è la conoscenza ultima di ciò che è vero al di là della nascita e della morte, conoscenza che viene da Dio. La presunzione religiosa deve sparire, se deve subentrare ad essa la conoscenza che viene da Dio. Quando circolano monete false, anche le buone sono sospette. L’Evangelo offre la possibilità di questa conoscenza ultima. Ma perché divenga realtà, essa deve mettere fuori corso tutte le concezioni penultime. L’Evangelo parla di Dio come è, esso intende Lui stesso, Lui solo. Esso parla del Creatore. Esso tende a rinnovarci in tutto e per tutto. Esso ci annunzia la trasformazione della nostra creaturalità in libertà, la remissione dei nostri peccati, la vittoria della vita sulla morte, il rinvenimento di tutto ciò che è perduto. Esso è il grido di allarme, il segnale d’incendio di un mondo nuovo che viene. Che significa tutto questo? Qui ed ora, vincolati come siamo ad ogni sorta di oggetti, non possiamo saperlo. Noi possiamo soltanto percepire il segnale, e il senso di Dio creato in noi per mezzo dell’Evangelo lo percepisce. Il mondo non cessa di essere mondo, e l’uomo rimane uomo mentre lo percepisce. Egli continua a portare l’intero peso del peccato e l’intera maledizione della morte. Nessun auto-inganno sulla situazione di fatto del nostro essere qui ed essere così. La risurrezione, che è la nostra via d’uscita, è anche il nostro limite. Ma il limite è la via d’uscita6. Il

Barth, la condizione essenziale per un ritrovamento della fede autentica. 5. Situazione tragica e scissa in cui l’uomo, proprio quando si pone quale signore di se stesso, sperimenta in ogni aspetto della vita il suo distacco da Dio: il voler essere un dio per se stesso si traduce in impotenza, il porsi come infinito nel sempre più irredimibile schiacciamento sul finito. Anche l’atteggiamento «religioso» non è che un proiettare un’immagine di sé che riproduce un destino d’impotenza, una via di fuga da una situazione invalicabile, e tali sono anche i vari tentativi «filosofici» di concepire in qualche modo una «relazione» tra il finito e l’infinito. In

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realtà questa relazione non è data o, almeno, è venuta meno col peccato, e non c’è via d’uscita a partire dal finito. 6. Qui sta dunque il «rovesciamento dialettico», la «via d’uscita», la «porta» che può essere aperta solo da Dio, poiché solo l’infinito può liberamente convertire il rifiuto in accoglimento e restaurare la relazione col finito, tramutando il «No» in «Sì» e superando la «linea della morte». Ma ciò può avvenire appunto solo sul «limite» estremo ove, nell’esperienza dello scacco di tutti gli sforzi morali o intellettuali di fronte all’ormai assoluta certezza dell’abbandono e della morte dell’uomo, Dio si fa presente col miracolo della ri-

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«No» che si pone a noi è il «No» di Dio. Quello che ci manca è anche quello che ci aiuta. Quello che ci limita è la terra nuova. Quello che annulla tutte le verità del mondo è anche la loro fondazione. Appunto perché il «No» di Dio è totale, esso è anche il suo «Sì». In tal modo noi abbiamo nella potenza di Dio la prospettiva, la porta, la speranza. [...] L’Evangelo è soltanto credibile, esso può soltanto essere creduto. La sua serietà consiste in questo, che si offre come un’alternativa: a colui che non è capace di sopportare la contraddizione e di attendere nella contraddizione, è motivo di scandalo; a colui che sa di non poter evitare la contraddizione, è oggetto di fede. La fede è questo: il rispetto dell’incognito divino, l’amore di Dio nella coscienza della differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, Dio e il mondo, l’affermazione della risurrezione come rovesciamento del mondo, l’affermazione del «No» divino in Cristo, il fermarsi, turbati, davanti a Dio. Chi conosce la limitazione del mondo per opera di una volontà che lo contraddice, colui a cui è difficile reagire al pungiglione, perché conosce troppo bene questa contraddizione per potersi sottrarre ad essa, colui che sa di essere costretto ad accomodarsi con esse, a vivere con essa (Overbeck)7, colui, insomma, che si arrende a questa contraddizione e si sottomette a essa per fondare su di essa la sua vita, questi è colui che crede. Chi confida in Dio, in Dio stesso, in Dio solo, cioè che riconosce la fedeltà di Dio in questo, che noi siamo posti in contraddizione con l’esserci e l’essere così di questo mondo, chi ricambia questa fedeltà con altra fedeltà, chi dice con Dio: «Eppure!» e «Nonostante tutto!», costui crede. E il credente trova nell’Evangelo la potenza di Dio per la

surrezione di Cristo che è salvezza del finito proprio perché è la suprema contraddizione. Pertanto condanna e salvezza del mondo sono paradossalmente compresenti e coessenziali, ma il loro mutuo implicarsi non può essere compreso dall’uomo né dal teologo, cui spetta solo di nominare Dio, kierkegaardianamente, con «timore e tremore».

salvezza, l’alba foriera della beatitudine eterna, e il coraggio di mettersi in vedetta. Ma questa scoperta è, in tutto e in ogni attimo, pura scelta tra lo scandalo e la fede. E quando si viene alla fede, il calore del sentimento, la forza della convinzione, l’elevatezza dei princìpi e della morale, sono sempre soltanto segni concomitanti dell’avvenimento vero e proprio, appartenenti all’al di qua, e perciò privi di importanza. Contrassegni del processo della fede diventano anche essi, non come grandezze positive, ma come negazioni di altre grandezze positive, come tappe di un lavoro di sgombero, mediante il quale nell’«al di qua» deve essere creato spazio libero per l’«al di là». Appunto per questo la fede non è mai identica con la «pietà» religiosa, foss’anche la più pura e la più delicata. E se anche la pietà è in qualche misura un indizio della presenza della fede, lo è in quanto è la negazione di altre positività mondane e anzitutto di se stessa. La fede vive di se stessa perché vive di Dio.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è il messaggio rivolto da Paolo ai suoi uditori e lettori? 2. Perché, secondo Barth, l’uomo in questo mondo si trova in prigione? 3. Quando e in che modo può scomparire la presunzione religiosa? 4. In che modo Barth definisce colui che crede?

7. Franz Overbeck (1837-1905), teolo-

go svizzero vicino a Nietzsche la cui influenza non può essere sottovalutata nella formazione del pensiero di Barth, soprattutto per la sua concezione dell’incompatibilità tra la fede cristiana delle origini e la sistemazione «scientifica» della teologia tentata dal protestantesimo ottocentesco e dalla teologia liberale, e quindi per la sua di-

chiarata avversione nei confronti di ogni elaborazione concettuale dei contenuti della fede, che conduce inesorabilmente quest’ultima a mondanizzarsi e a morire: un evento che, per Overbeck, si va compiendo proprio nella sua epoca alla quale resterebbe soltanto il compito di preparare al cristianesimo «la morte migliore».

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t41 Bonhoeffer / Cristianesimo senza religione Bonhoeffer

Resistenza e resa

Lettere 30.4 e 16.7 del 1944

Che cos’è ormai la religione cristiana in un mondo diventato «adulto», che non ha più bisogno di trovare nella fede la difesa contro le proprie debolezze e il baluardo della propria sicurezza? Non è forse l’antico concetto di «religione», con tutte le pratiche che vi si collegano, null’altro che un sintomo di debolezza, sì che il riproporlo nel nostro tempo è soltanto menzogna? Sono queste le domande su cui s’affanna la meditazione di Bonhoeffer nell’ultimo periodo, quello delle «lettere dal carcere», che vedono il teologo tedesco sempre più decisamente orientato al rifiuto del Dio della «religione» e della metafisica in nome del Dio della «vita».

Il problema che non mi lascia mai tranquillo è quello di sapere che cosa sia veramente per noi oggi il Cristianesimo o anche chi sia Cristo. È passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini per mezzo delle parole (fossero parole teologiche o pie), così come è passato il tempo dell’interiorità e della coscienza, cioè della religione in generale1. Andiamo incontro a un’epoca completamente non religiosa; gli uomini, così come sono, non possono più essere religiosi2. Anche coloro che si definiscono sinceramente «religiosi» non lo praticano assolutamente; per «religioso» essi intendono probabilmente qualcosa di completamente diverso. L’intera nostra predicazione e teologia cristiana del XX secolo è costruita sull’«apriori religioso» dell’uomo3. Il «Cristianesimo» è 1. Il tempo cioè in cui, nel mondo or-

mai privo di Dio (di un Dio che non è stato espulso tanto sul piano etico quanto su quello scientifico), l’ultima risorsa della «religione» è rimasta l’integrità, la sfera del «privato» che spesso può ospitare la cosiddetta «religione», perché è il ricettacolo di proiezioni, desideri, pulsioni e compensazioni di un’umanità imbelle e debole: dunque, di quella parte dell’umanità che appunto non è ancora maturata né forse saprà mai maturare e divenir «maggiorenne», restando – con le parole di Nietzsche – una turba di schiavi. Nietzsche è del resto ben presente in questi passi di Bonhoeffer, nel suo legare immediatamente la «religione» all’umana debolezza; né, d’altra parte, (pur con le debite cautele) è illegittimo leggerne la presenza nel legame istituito da Bonhoeffer tra la «fede» e la «vita». 2. Non è questa – per Bonhoeffer – una

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sempre stato una forma (forse la vera forma) della «religione». Ma quando un giorno sarà evidente che questo «apriori» non esiste affatto ma che è stato una forma espressiva dell’uomo, storicamente determinata e transitoria, quando cioè gli uomini diventeranno realmente non religiosi in maniera radicale – e io penso che più o meno è già il caso nostro (qual è, per esempio, la ragione per cui questa guerra, a differenza di tutte le altre, non suscita una reazione «religiosa»?) – che cosa significherà allora questo per il «Cristianesimo»? Viene sottratto il terreno su cui poggiava finora tutto il nostro «Cristianesimo», e la «religiosità» funziona ancora soltanto con alcuni «ultimi paladini» e con qualche individuo intellettualmente disonesto4. Che siano questi i pochi eletti?

tesi da dimostrare, bensì semplicemente un fatto da constatare. La «religione» è morta e non può più avere alcun posto nel mondo adulto, che ha scoperto l’autonomia dell’uomo e in cui questo «ha imparato a cavarsela da solo». Come dev’essere ora interpretato tutto ciò, come ribellione e secessione da Dio e da Cristo – come ha voluto tanta storiografia sia cattolica sia protestante – e perciò come involuzione anticristiana, o forse piuttosto come una più alta e da tempo preparata maturazione, come qualcosa cui non ci si deve né ci si può opporre, e la cui accettazione è condizione imprenscindibile di un rinnovamento della «fede»? Bonhoeffer sceglie ovviamente la seconda soluzione: il torto dell’apologetica cristiana è stato proprio quello di opporre la fede al mondo diventato adulto. 3. S’intende con questa epressione –

14. la filosofia di ispirazione cristiana e le nuove teologie

di remota ascendenza kantiana, più con riferimento al Kant delle Lezioni di filosofia della religione che a quello delle Critiche, e ampiamente diffusa nella teologia tradizionale tedesca a cavallo fra i due secoli – il concetto di un senso religioso costitutivo della natura stessa dell’uomo: l’essenza di quest’ultimo sarebbe quella di un essere che, anche quando non lo sa o non lo vuole, si volge comunque a Dio. È una concezione per Bonhoeffer fasulla e fallimentare, così come lo sono tutte le forme di apologetica che vi si appoggiano per ricondurre l’uomo alla «religione». 4. Non si tratta dunque di una pura e semplice «retroguardia», pur avendone spesso le caratteristiche, ma di una vera e propria «falsa coscienza» che affonda le sue radici nella «disonestà intellettuale» di chi nasconde la testa nella sabbia per non vedere, e persiste nel coltivare le proprie private illusioni

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Dovremmo gettarci proprio su questo dubbio gruppo di persone per poter vendere la nostra merce, pieni di zelo, seccati o indignati? Dovremmo forse aggredire un paio d’infelici nei loro momenti di indebolezza e per così dire violentarli religiosamente? Se noi non volessimo nulla di tutto ciò, se infine dovessimo giudicare la forma occidentale del Cristianesimo nient’altro che il preambolo a una totale nonreligiosità, quale situazione risulterebbe per noi, la chiesa? Come può Cristo diventare il Signore anche dei non religiosi? Esistono dei cristiani non religiosi? Se la religione è soltanto un abito del Cristianesimo – e anche quest’abito ha assunto aspetti molto diversi in tempi diversi – che significa allora un Cristianesimo senza religione? [...] Spesso mi chiedo perché un «istinto cristiano» mi spinga frequentemente piuttosto verso i non religiosi che verso i religiosi, e ciò non certo nella prospettiva di un’azione missionaria5, ma in uno stato direi quasi «fraterno». Mentre di fronte alle persone religiose ho un certo ritegno a nominare Dio – perché mi sembra che il suo nome risuoni falso in questo contesto e ho l’impressione di essere io stesso un po’ disonesto [...] – di fronte ai non religiosi posso di tanto in tanto nominare Dio con tutta tranquillità, come fosse ovvio. Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana è giunta al limite (talvolta per pigrizia di pensiero) oppure quando le forze umane vengono meno: si tratta sempre in verità del deus ex machina tirato fuori da costoro, o per dare soluzioni apparenti a problemi insolubili, o come forza a sostegno della deficienza umana; dunque sempre per sfruttare la debolezza umana o i limiti umani; ma questo sistema funziona solo per compensare il vizio e la debolezza. Di più, non si tratta di semplice debolezza, ma di un’autentica malattia, di una confusione perniciosa tra realtà «ultime» e «penultime». 5. Non ce ne sarebbe infatti alcun bisogno, poiché essenzialmente i «non religiosi» sono ben più «cristiani» degli altri. Invero, per Bonhoeffer, essere cristiano significa semplicemente essere uomo, ma uomo cui non è permesso,

finché gli uomini riescono con le loro energie a spingere più avanti i limiti e Dio diventa superfluo come deus ex machina6. In generale ho forti dubbi quando sento parlare dei limiti umani (sono ancora un vero limite la morte stessa, se gli uomini ormai quasi non la temono più, e il peccato, se gli uomini ormai non lo capiscono più?): ho sempre l’impressione che si voglia in tal modo timidamente fare spazio a Dio; io vorrei parlare di Dio non ai confini ma nel centro, non nella debolezza ma nella forza, non nella morte e nella colpa ma nella vita e nella bontà dell’uomo. Giunto ai limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolubile. La fede nella risurrezione non è la «soluzione» del problema della morte. L’«aldilà» di Dio non è l’aldilà delle nostre possibilità di conoscenza. La trascendenza della gnoseologia non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio. Egli è al di là in mezzo alla nostra vita. La chiesa non risiede là dove la capacità dell’uomo non ce la fa più, ai confini, ma in mezzo al villaggio.

GUIDA ALLA LETTURA 1. A chi si rivolge ancora il cristianesimo nell’epoca della fine della religiosità? 2. Quali dubbi nutre Bonhoeffer nei confronti delle persone religiose e del loro rapporto con Dio? 3. In che modo Bonhoeffer vorrebbe rinnovare il discorso su Dio e sulla fede?

neppure per un momento, di «camuffare in qualche modo l’essere-senza Dio del mondo». Com’è scritto anche in un altro passo famoso di Resistenza e resa, «essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare di se stesso qualcosa (un peccatore, un penitente, un santo) in base a una determinata pratica religiosa, ma significa essere uomo: Cristo non crea in noi un tipo d’uomo, ma l’uomo».

6. Ovvero, ciò che è chiamato «Dio» è

una mera proiezione dell’uomo – come aveva ben visto Feuerbach, di cui Bonhoeffer, pur più vicino a Nietzsche, conserva molte istanze – e pertanto è qualcosa di assolutamente fasullo, inventato e inessenziale: quando l’uomo infine possiede se stesso, giunge alla scoperta della inutilità di quella proiezione. Ed è ciò ch’è avvenuto nella nostra epoca.

i testi

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esercizi/14 CHE COSA SO?

11. In che cosa consiste il modernismo e perché fu bollato come eretico nel 1907?

Guida allo studio del manuale

12. In che cosa consiste la dialettica del «sì» e del «no», elaborata da Barth?

1. Evidenzia le caratteristiche della teologia liberale. 2. Evidenzia i principali esponenti del pensiero religioso ebraico. 3. Evidenzia quali sono i filosofi che hanno maggiormente influito sulle riflessioni teologiche del Novecento. 4. Evidenzia le diverse occorrenze del termine «escatologia». 5. Evidenzia i principali esponenti della teologia cattolica e, con un altro colore, quelli della teologia protestante. 6. Evidenzia le affinità e, con un altro colore, le differenze fra la teologia radicale e la teologia della morte di Dio. 7. Evidenzia le ricadute etiche delle teologie di Hamilton e di Bonhoeffer. 8. Evidenzia le diverse posizioni assunte dai teologi affrontati nel capitolo nei confronti dell’ateismo. Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti termini: Differenza qualitativa (Barth) • mito (Bultmann) • principio della correlazione (Tillich) • etica cristologica (Bonhoeffer) • precomprensione (Rahner)

13. Che differenza c’è, secondo Bultmann, tra il Gesù storico e il Cristo della fede? 14. Illustra la differenza tra la nozione di «salto» (Barth) e quella di «confine» (Tillich). 15. Illustra la distinzione tra religione e fede, secondo Bonhoeffer. 16. Che differenza c’è tra saeculum e mundus, nella teologia della secolarizzazione elaborata da Cox? 17. Perché la teologia della speranza si sviluppa soprattutto dopo il Concilio Vaticano II? 18. Perché, secondo Altizer, la morte di Dio non indica la fine del cristianesimo? 19. Che rapporto c’è, secondo Rahner, tra filosofia e teologia?

Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 20. Qual è il ruolo della figura di Cristo nella storia dell’uomo, secondo Barth? 21. In che cosa consiste la demitizzazione delle Scritture e del messaggio cristiano, teorizzata da Bultmann? 22. Perché, secondo Bultmann, solo nell’incontro con Dio si realizza l’esistenza autentica?

CHE COSA HO CAPITO?

23. Perché, secondo Tillich, Dio è la risposta alle domande in cui l’esistenza si realizza?

Domande a risposta sintetica (max 8-10 righe)

24. Che rapporto c’è tra essere e Dio, secondo Tillich?

10. Qual è la posizione della Scuola di Tubinga rispetto al tema della Rivelazione?

25. Che ruolo svolge la figura di Cristo nella teologia di Tillich e in quella di Bonhoeffer?

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esercizi/14 26. Quali sono le affinità e le differenze fra la teologia radicale e la teologia della morte di Dio?

28. In che rapporto stanno la teologia della speranza e la teologia della croce, formulate da Moltmann?

27. In che cosa consiste l’apertura a Dio, secondo Bultmann e Rahner?

29. Che cosa hanno in comune la teologia della liberazione e la teologia nera?

esercizi/14

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essa si afferma come libertà di scelta. Ma la libertà di scelta genera angoscia di fronte al possibile, in quanto non è: in tal modo, la coscienza avverte che il non essere – il nulla – è propriamente in essa, non fuori. sartre: il rapporto con l’altro e con il mondo

15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia i contenuti spritualismo ed esistenzialismo

A partire dagli anni Trenta lo spiritualismo francese si intreccia all’esistenzialismo, come nella filosofia concreta di Marcel, incentrata sulla concezione dell’essere come mistero e sulla definizione dell’esistenza umana in termini di opposizione tra essere e avere. L’uomo deve impedire che l’avere, caratterizzato dall’esteriorità e dall’oggettivazione, abbia la prevalenza sull’essere, inteso come apertura alla trascendenza.

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sartre: la coscienza come libertà

Sartre presenta l’esistenzialismo come la filosofia dell’uomo libero, impegnato verso sé e gli altri per rendere più umano il mondo: in questo senso è umanismo. A suo avviso, l’essere della coscienza (il per-sé), che si manifesta anche attraverso l’immaginazione e le emozioni, è caratterizzato dall’intenzionalità con la quale si correla al mondo – ossia alle cose nella loro presenza bruta (l’in-sé), ma mirando sempre a trascenderle, ad andare oltre esse. La coscienza perciò è sempre fuori di sé, è esistenza, ossia incompiutezza sempre alla ricerca di un proprio completamento: in questo senso

15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia

Anche l’altro è «l’io che non è me» e di fronte al suo sguardo mi sento inerme e nudo, sicché non sono più padrone della situazione: il rapporto con l’altro è conflittuale e si struttura secondo le due polarità dell’odio e dell’amore, che però, mirando entrambi ad annullare o possedere l’altro, si rivelano impossibili. Nei progetti si cerca sempre di trascendere la situazione, ma senza mai potersi sottrarre a essa. In particolare, l’uomo progetta di essere Dio – cioè una totalità conciliata di in-sé e per-sé –, ma Dio è altro dall’uomo, che è perciò un Dio mancato, una passione inutile. sartre e il confronto con il marxismo

Successivamente Sartre si avvicina al marxismo, considerato la filosofia del nostro tempo, ma sclerotizzato in un insieme dogmatico di dottrine deterministiche e bisognoso pertanto di essere integrato con l’antropologia esistenzialista. Al centro della dialettica storica – che è prassi totalizzante sempre in corso e non coincide mai con una totalità già data – egli pone il gruppo in fusione, che mira a modificare la situazione storica. Anche il gruppo, tuttavia, organizzandosi, finisce per alienarsi nella serialità, come gli uomini in generale nella loro vita quotidiana. In base a essa, gli scopi dell’agire sono imposti dall’esterno e gli individui risultano intercambiabili. merleau-ponty tra fenomenologia e marxismo

Amico di Sartre fino al 1953, Merleau-Ponty sottolinea che anteriore alla distinzione soggettooggetto – e quindi anche a ciò che

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Sartre chiama per-sé e in-sé – è il mondo della vita. Compito della fenomenologia è allora quello di riportare alla luce e di descrivere il rapporto originario col mondo che si costituisce attraverso il corpo e l’esperienza originariamente intersoggettiva della percezione. Per quanto riguarda il confronto con il marxismo, Merleau-Ponty ritiene che non sia possibile conoscere il significato ultimo della storia e che non siano le rivoluzioni a cambiare la società. Inoltre, la dialettica a sintesi chiusa – prospettata da Hegel e da Marx – deve lasciare il posto all’iperdialettica, e cioè ad una visione della storia aperta alla ricchezza dell’esperienza umana. la linguistica e lo strutturalismo

Reagendo contro le filosofie che pongono al centro l’esistenza e il soggetto umano, si afferma, poco dopo la metà del secolo, la tesi secondo cui i fenomeni sociali e

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culturali non sono produzioni individuali, ma dipendono da strutture e processi anonimi sottostanti a essi. Questa corrente – detta strutturalismo – trova il suo modello primario nella linguistica. Per Saussure, la lingua è un sistema di segni, che va studiato in modo sincronico, e cioè a prescindere dalla sua evoluzione nel tempo, in modo da individuare – al di là della diversità storica e geografica delle lingue – le unità linguistiche minime e gli schemi delle loro combinazioni possibili. lévi-strauss e l’antropologia strutturale

Lévi-Strauss ritiene che anche fenomeni sociali – come i sistemi di parentela o i miti –, al di là delle loro manifestazioni empiriche e storiche, siano retti da strutture profonde, universali e atemporali. Tali strutture non sono descrivibili empiricamente, ma possono essere individuate attraverso la costruzione di modelli, ossia di

sistemi di relazioni logiche tra elementi, che mettono in luce l’ossatura logica della realtà. In questo senso i fatti sociali e culturali non sono altro che sistemi di idee oggettivate, elaborate dallo spirito umano inconscio. foucault e l’archeologia del sapere

Lo strutturalismo ha detronizzato l’uomo dalla sua posizione di soggetto e motore della storia. Dal canto suo Foucault sostiene la morte dell’uomo, in quanto l’uomo stesso – come oggetto di sapere specifico – è invenzione recente. Ogni epoca è caratterizzata da un’epistème, ossia da un sistema anonimo e inconscio di regole che determinano di che cosa sia possibile parlare. I discorsi, inoltre, si inseriscono in trame di rapporti di potere che permeano ogni società e producono anch’essi potere, non solo quello politico, ma anche quello capillare e diffuso nei piani più diversi della società.

gli strumenti in poche… parole nulla / libertà / percezione / diacronia/sincronia / struttura / morte dell’uomo

approfondimenti Vicende della fenomenologia e dell’ermeneutica: Lévinas e Ricoeur

i testi a. nel manuale t42 Sartre/Il nulla e la libertà t43 Merleau-Ponty/Corpo, percezione e intersoggettività t44 Foucault/Il potere

b. on-line Sartre/Il gruppo in fusione Lévi-Strauss/Le nozioni di struttura e di modello

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

La stagione post-strutturalista: Deleuze, Derrida, Lyotard

confronti La questione dell’esistenza in Kierkegaard, Heidegger e Sartre 15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia

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1. La «filosofia concreta» di Marcel il mistero dell’essere

A partire dagli anni Trenta lo spiritualismo francese – pur facendo sempre della coscienza la fonte primaria di ogni verità – si complica di venature esistenzialistiche o comunque assume formulazioni diverse rispetto alle sue manifestazioni originarie. Appartiene a questi sviluppi la «filosofia concreta» di Gabriel Marcel (1889-1973), autore di opere come Essere e avere (1935) e Il mistero dell’essere (1951). Il tema fondamentale della speculazione di Marcel è l’essere. Tuttavia, l’essere per lui non rappresenta tanto un problema, quanto un mistero. Il problema è qualche cosa di perfettamente oggettivabile: componendo i dati di cui sono in possesso, infatti, posso giungere alla soluzione. Il mistero, invece, è qualche cosa «in cui mi trovo coinvolto» e che pertanto impedisce di mantenere una chiara distinzione – come avviene invece nel problema – tra il soggetto e l’oggetto. È questo il caso dell’essere, dove l’oggetto dell’indagine non è qualcosa di distinto dal soggetto che si pone la domanda: tale mistero non può dunque essere risolto negli stessi termini in cui si risolve un problema, ma deve essere colto soltanto con un’apertura alla dimensione della trascendenza.

avere ed essere

Alla distinzione tra problema e mistero fa riscontro quella tra avere ed essere. L’avere esprime una condizione di esteriorità e di oggettivazione, mentre l’essere rinvia all’esistenza concretamente vissuta dall’uomo. Ma essere e avere non sono separati, bensì connessi da un rapporto dialettico che trova la sua espressione nel corpo: nello stesso tempo io «ho» il mio corpo come una realtà esterna e oggettiva e «sono» il mio corpo, poiché la mia esistenza concreta è inseparabile da esso. Ancora una volta, quindi, occorre superare la contrapposizione – di ascendenza cartesiana – tra un soggetto spirituale, che ha la funzione di conoscere, e un corpo oggettivo, a cui sono demandate le funzioni biologiche.

la degradazione dell’essere a oggetto

La sfida a cui l’uomo deve rispondere consiste quindi nell’impedire che l’avere abbia la prevalenza sull’essere. Questo pericolo può avverarsi quando noi consideriamo i contenuti della nostra esistenza concreta – le idee, i sentimenti e le abitudini – alla stregua di cose oggettive, senza vivificarle continuamente con la nostra creatività; oppure quando consideriamo il mondo oggettivo del possesso, della scienza e della tecnica come una realtà a sé stante che finisce con il condizionare le nostre scelte. Ma avviene anche quando cessiamo di considerare gli altri come «persone» coinvolte in un rapporto di «Io-Tu» per degradarli al livello di «cose», di un «esso» che ha con noi soltanto un rapporto impersonale. In tutti questi casi, l’essere può mantenere i propri diritti sull’avere soltanto a condizione che rimanga vivo il senso del mistero dell’essere stesso, cioè il senso di una trascendenza che ci coinvolge.

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2. Sartre: esistenza e libertà Jean-Paul Sartre nasce a Parigi nel 1905, studia Filosofia e Psicologia dal 1924 al 1927 all’École Normale Supérieure. Qui trova compagni con i quali stringe legami di amicizia, quali Paul Nizan, Maurice Merleau-Ponty e Raymond Aron, che suscita il suo interesse per Husserl e Heidegger. Nel 1929 conosce Simone de Beauvoir, che resterà la sua compagna sino alla fine della vita. Dopo aver insegnato Filosofia al liceo di Le Havre, Sartre usufruisce nel 1933-34 di una borsa di studio presso l’Istituto francese di Berlino e intraprende lo studio della fenomenologia di Husserl. Sotto l’influenza di essa, ma anche di Heidegger, nascono i suoi primi scritti: L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria delle emozioni (1939) e L’immaginario (1940), nonché il romanzo La nausea (1938) e la raccolta di racconti Il muro (1939).

la formazione e i primi scritti

Richiamato alle armi, nel giugno del 1940 è fatto prigioniero dai tedeschi, ma è poi liberato e torna a Parigi, dove nel 1943 pubblica la sua opera filosofica più impegnativa, L’essere e il nulla, e il suo primo lavoro teatrale, Le mosche. Terminata la guerra, Sartre dà inizio alla serie di romanzi intitolata I cammini della libertà e – in collaborazione con Merleau-Ponty, Aron, Camus e altri – fa uscire la rivista «Les temps modernes», tuttora in corso. In risposta agli attacchi alla sua opera, mossi da parte di marxisti e di cattolici, pubblica nel 1946 il breve scritto L’esistenzialismo è un umanismo.

il periodo della guerra

Dopo aver dato vita al Rassemblement démocratique révolutionnaire come terza forza tra i due blocchi, occidentale e sovietico, Sartre si avvicina politicamente ai comunisti francesi: il momento saliente di tale avvicinamento è dato dagli articoli intitolati I comunisti e la pace, pubblicati su «Les temps modernes» nel 1952-54. Essi segnano la rottura definitiva dei suoi rapporti con Camus e con Merleau-Ponty, che nelle Avventure della dialettica (1955) qualifica la posizione di Sartre come «ultrabolscevismo». Ma nel 1956 il rapporto Chrusˇcˇëv al XX congresso del Pcus e la repressione della rivolta in Ungheria sono l’occasione per la pubblicazione dell’articolo Il fantasma di Stalin, che segna il distacco di Sartre dai comunisti francesi. Egli intraprende allora la riflessione sul marxismo, che dà luogo al saggio Questioni di metodo, comparso su una rivista polacca nel 1957 e poi incluso – come parte iniziale – nella Critica della ragion dialettica (1960).

avvicinamento e allontanamento dal marxismo

In seguito, egli pubblica lo scritto autobiografico Le parole (1963), che gli vale il conferimento nel 1964 del premio Nobel, da lui rifiutato, e una imponente biografia di Flaubert, intitolata L’idiota di famiglia (1971-72). Sempre in prima linea nel prendere posizione sui problemi politici del suo tempo, Sartre si schiera contro la politica francese in Algeria, entra a far parte del Tribunale Russell sui crimini americani in Vietnam e nel 1968 appoggia il movimento studentesco, condannando l’atteggiamento del Partito comunista francese in tale occasione e dirigendo il giornale «La cause du peuple». Muore a Parigi nel 1980. Le prime indagini di Sartre sono orientate dall’obiettivo di costruire una psicologia fenomenologica, in opposizione alla psicologia e alla filosofia 15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia

il rifiuto del nobel e gli ultimi anni

a partire da husserl

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francesi contemporanee, dominate da una concezione naturalistica dei fatti psichici e dal primato assegnato al problema della conoscenza. Sartre ritiene che la fenomenologia di Husserl permetta di cogliere il significato dei fenomeni psichici, grazie soprattutto al concetto di intenzionalità [cfr. 9.3], che consente di evitare la riduzione sia del soggetto all’oggetto, sia dell’oggetto al soggetto. A differenza di Husserl, tuttavia, Sartre è convinto che il rapporto tra la coscienza e il mondo non sia innanzi tutto di tipo conoscitivo. Per questo concentra le sue indagini sui temi dell’immaginazione e delle emozioni, ossia su sfere non controllate direttamente dalla ragione, alle quali guardavano con interesse anche i surrealisti. la coscienza e il mondo

L’ego stesso è soltanto una modalità della coscienza e, precisamente, la modalità riflessa, che è secondaria rispetto a quella irriflessa. Dal canto loro, le emozioni sono non manifestazioni imperfette o disturbate della coscienza, ma modalità essenziali nelle quali la coscienza si rapporta al mondo e gli conferisce significato. Diversamente da Husserl, che privilegiava il soggetto trascendentale, Sartre – sotto l’influenza di Heidegger [cfr. 10.2] – insiste sull’essere-nel-mondo proprio dell’uomo: le emozioni coinvolgono e modificano la totalità dei rapporti umani col mondo.

immagine e immaginazione

Attento ai risultati della psicologia della forma (Gestalt), Sartre sottolinea che ogni fatto psichico è forma e possiede una struttura, non è la semplice composizione di elementi antecedentemente isolati. L’errore della psicologia associazionistica è di frantumare la continuità della corrente psichica. Secondo Sartre, invece, l’immagine non è un elemento che entra a far parte della corrente della coscienza: «l’immagine è un atto e non una cosa», è coscienza di qualcosa, ma il suo contenuto non deriva dal mondo esterno. L’immaginazione, infatti, non è la copia o la rappresentazione di una cosa che non è più presente materialmente, ma è un’attività libera, orientata a fini diversi da quelli della percezione. Essa non ha, dunque, una funzione conoscitiva e non può essere valutata secondo i parametri del vero e del falso; la sua funzione è invece derealizzante, ossia consiste nel tenere il reale a distanza, nell’essere liberi di fronte a esso e nel negarlo, in modo da dar luogo alla costituzione di un oggetto di coscienza autonomamente caratterizzato.

l’immaginazione e la libertà della coscienza

Condizione essenziale per l’esercizio dell’immaginazione e quindi per la formazione di immagini è, infatti, il trascendere della coscienza – il suo andare oltre le cose e le realtà particolari – ossia un atto di libertà nei confronti del mondo. Fin dall’inizio della sua riflessione, Sartre mette dunque al centro il problema della libertà e ravvisa nell’immaginazione – ossia nella negazione dell’esistente per qualcosa di «altro» rispetto a esso – l’elemento indispensabile per l’esercizio della libertà stessa.

il «per-sé» e l’«in-sé»

Il tema della libertà è il perno di L’essere e il nulla, che ha per sottotitolo Saggio di ontologia fenomenologica. L’essere della coscienza, che Sartre chiama il per-sé, è caratterizzato dall’intenzionalità: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa che non è coscienza. Il suo correlato è l’in-sé, ossia l’essere delle cose e dei fenomeni nel loro aspetto massiccio e opaco, estraneo a ogni

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rapporto e caratterizzato dalla sua semplice presenza bruta. Contrariamente a quanto sostengono le filosofie idealistiche, l’essere dei fenomeni è irriducibile alla coscienza, ma anche la coscienza – in quanto capacità di trascendere le cose e le situazioni – è irriducibile all’in-sé. In tal senso, dunque, la coscienza non s’identifica mai con l’in-sé, ma è esistenza (dal latino ex-sistere, letteralmente «essere fuori di sé»), azione e movimento perennemente proteso in avanti, senza poter mai coincidere con la propria essenza. Per Sartre, la coscienza è sempre incompiutezza e mancanza alla ricerca del proprio completamento: il nulla è la condizione necessaria del per-sé, che fa sempre l’esperienza del nulla in ogni atto dell’esistere e dell’agire. Il nulla è, dunque, intrinsecamente legato all’essere, ma non è generato dall’essere (in-sé), bensì da quell’essere (per-sé) nel quale si fa questione del nulla del suo essere. Come abbiamo visto, la caratteristica principale della coscienza è di negare l’in-sé, ovvero di affermare la sua assoluta non coincidenza con esso. In tal modo, la condizione fondamentale della coscienza è la libertà .

il «per-sé»: nulla e libertà

Essere libero significa decidere direttamente dei propri atti ed esserne totalmente responsabile: l’atto originario in cui la libertà si incarna è la scelta. Essa non è propria soltanto degli atti riflessivi, ma di tutti gli atti, in quanto non è determinata solo dalla ragione, ma anche da pulsioni e intenzioni che si collocano al di qua della riflessione. La libertà della scelta genera però l’angoscia di fronte al possibile, che è indeterminato, in quanto non è. In tal modo la coscienza avverte che il non essere non è fuori, ma è propriamente in essa. L’esistente si scopre così condannato a esistere sempre al di là della propria essenza, ossia «condannato alla libertà» come continuo trascendimento di ciò che esso di volta in volta è.

«non siamo liberi di cessare di essere liberi»

Nasce di qui la tendenza a fuggire da se stessi, evadendo dalla propria libertà e responsabilità e reificandosi, ossia riducendosi a una cosa tra le altre: è questa la malafede, con la quale si costruisce un’immagine fittizia di sé e della propria situazione, e si recita una parte. Essa consiste nel mentire a se stessi, ma non si tratta di una menzogna deliberata: il me che viene ingannato, infatti, fa parte dello stesso io che inganna. Si origina così una scissione che produce infelicità.

la malafede

La coscienza incontra l’essere non soltanto nella realtà massiccia e opaca delle cose, ma anche nell’altro – nell’altra coscienza – e tramite essa le si affaccia la speranza di poter uscire dal proprio stato di mancanza. Ma anche l’essenza dell’altro è negazione: esso è «l’io che non è me». Anche il rapporto con l’altro è, dunque, segnato da una radicale negatività. L’esperienza originaria attraverso la quale si istituisce questo rapporto è data dallo sguardo, nel quale l’altro mi appare dapprima come una cosa, poi come una cosa che ha rapporto con altre cose e, infine, come l’altro che mi guarda. Col suo sguardo, l’altro conosce me meglio di quanto io possa conoscere me stesso, che non posso mai oggettivarmi, distanziarmi come un oggetto da me stesso. In questo modo, giungo alla conclusione che «io sono quel

lo sguardo e il rapporto con gli altri

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me che un altro conosce» e mi sento trasformato in un oggetto inerme e nudo di fronte all’altro: Non solamente Pietro, Renato, Luciano sono assenti o presenti in rapporto a me sullo sfondo di una presenza originale; non sono i soli che contribuiscono a collocarmi: io mi colloco anche come Europeo in rapporto ad Asiatici o a negri, come vecchio in rapporto a dei giovani, come magistrato in rapporto a dei delinquenti, come borghese in rapporto a degli operai, ecc. Insomma, in rapporto a ciascun uomo vivente, ogni realtà umana è presente o assente sullo sfondo di una presenza originale. E questa presenza originale può avere senso solo come essere-guardato o come essere-che-guarda, cioè a seconda che altri è per me oggetto o che io sono oggetto-per-altri. L’essere-per-altri è un fatto costante della mia realtà umana, lo colgo con la sua necessità di fatto nel minimo pensiero che formulo su me stesso. Dovunque io vada, qualsiasi cosa faccia, non faccio che stabilire le distanze con altri-oggetto, aprire delle vie verso altri. Allontanarmi, avvicinarmi, scoprire il tale oggetto-altri particolare, non è che effettuare delle variazioni empiriche sul tema fondamentale del mio essere-per-altri. Altri mi è presente ovunque come ciò per cui io divento oggetto (L’essere e il nulla, III parte, I, 4). la vergogna d’essere

Nel rapporto con l’altro la coscienza scopre di essere nel mondo come corpo e – come tale – di essere anch’essa una cosa in-sé e di esistere anche per gli altri come un in-sé. Con lo sguardo, l’altro aliena le mie possibilità, sicché non sono più padrone della situazione. Emergono così le emozioni del timore, del pudore, dell’orgoglio, della vergogna: La vergogna non è che il sentimento originale d’avere il mio essere al di fuori, implicato in un altro essere e come tale senza alcuna difesa, illuminato dalla luce assoluta che emana da un puro soggetto; è la coscienza di essere irrimediabilmente ciò che ero sempre: «in sospeso», cioè al modo del «non-ancora» o del «non-più». La vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma, in generale, di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono «caduto» nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono. Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità, non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettità senza difesa. Vestirsi, significa dissimulare la propria oggettità, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè d’essere puro soggetto. Per questo il simbolo biblico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva «capiscono di essere nudi» (ibid.).

il conflitto tra l’io e l’altro

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I rapporti tra l’io e l’altro, ossia i rapporti tra le coscienze, sono, nella loro essenza, conflittuali. Le polarità del rapporto con l’altro assumono la forma dell’odio e dell’amore, entrambi fondati sul rapporto sessuale, che svolge 15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia

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una funzione essenziale nei rapporti intersoggettivi. Ma sia l’odio, come tentativo di annullare l’altro nella sua alterità – riducendolo a corpo e strumento e privandolo di ogni reciprocità –, sia l’amore, come tentativo di possedere l’altro senza oggettivarlo e ridurlo a cosa o strumento, si rivelano impossibili. Falliti i progetti di raggiungere l’unione con l’altro – attraverso il suo annullamento o la conciliazione con esso –, il rapporto con l’altro può assumere le forme della cooperazione nell’essere-insieme del gruppo o della classe sociale. Anche in questi casi, tuttavia, l’altro rimane inafferabile e il rapporto tra le coscienze continua a configurarsi come conflitto. L’oggetto del desiderio dell’essere umano si colloca sempre al di là del suo essere, è un non essere. Malgrado ciò, nel momento in cui lo desidera l’uomo lo fa essere: l’essere in direzione del quale un essere va oltre il suo essere è il valore. I valori, dunque, non esistono oggettivamente in sé, ma nascono con l’uomo (o per-sé), non in quanto egli li pone come qualcosa che viene a esistere in sé (come un fatto o una cosa). I valori, piuttosto, si correlano alla coscienza come qualcosa che si colloca sempre al di là di essa. Ciò significa che l’uomo è caratterizzato da una mancanza costitutiva, per la quale non raggiunge mai la piena identità con se stesso, la conciliazione del per-sé con l’in-sé, ma vive sempre nel possibile: è per questo che all’uomo è dato di scegliere e agire in base a valori, cercando di realizzarli nel tempo, progettandosi e trascendendo incessantemente verso un’altra situazione.

valori, progetti, situazione

La comprensione delle scelte e dei progetti che costituiscono l’essere dell’uomo è il compito di quella che Sartre chiama psicoanalisi esistenziale. Sartre condivide la tesi di Freud secondo cui ogni gesto e ogni parola hanno senso se sono riferiti alla totalità dell’uomo, ma ritiene che Freud rimanga legato a una impostazione materialistica e deterministica, che imprigiona l’uomo nella sua natura e nel suo passato, sottraendogli la capacità di scelta. A suo avviso, invece, la coscienza può elaborare ogni sorta di desideri – non determinati a priori – i quali si specificano in progetti particolari.

la critica a freud

L’insieme dei dati con i quali i progetti dell’uomo si incontrano e si scontrano costituisce la situazione: i progetti cercano incessantemente di trascenderla, ma senza potersi mai sottrarre a una situazione. In questo senso, la libertà umana è non essere e alienazione, che di volta in volta viene superata, ma mai definitivamente. La totalità a cui l’uomo aspira è la conciliazione di in-sé e per-sé: perciò, l’uomo è «l’essere che progetta di essere Dio», ma Dio è «altro» dall’uomo e, pertanto, è inattingibile. Secondo Sartre, dunque, l’uomo è un Dio mancato e «una passione inutile»: tutte le sue azioni e le sue scelte risultano assurde e negativamente equivalenti [t42].

la libertà e l’assurdità delle scelte dell’uomo

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CONFRONTI

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La questione dell’esistenza in Kierkegaard, Heidegger e Sartre

L’esistenzialismo è una corrente di pensiero che nasce in Germania – con il nome di Existenzphilosophie (filosofia dell’esistenza) – e che si diffonde in Francia e nel resto dell’Europa, divenendo – oltre che una specifica tendenza filosofica del Novecento – una vera e propria atmosfera culturale. Il periodo di riferimento è quello compreso tra le due guerre mondiali fino agli anni Cinquanta. Il suo momento di massima fioritura si può collocare in Francia proprio negli anni Cinquanta; l’affermazione dell’esistenzialismo filosofico francese coincide con la diffusione di una vera e propria moda intellettuale che investe i più disparati ambiti della cultura, soprattutto letteraria (Beauvoir, Camus). I nomi più importanti, legati alle problematiche esistenzialiste sono quelli di Jaspers e di Heidegger in Germania; di Sartre e di Merleau-Ponty in Francia; di Abbagnano e di Paci in Italia. La corrente di pensiero esistenzialista è fortemente debitrice della Kierkegaard-Renaissance, verificatasi intorno agli anni Venti ad opera del teologo Karl Barth e del filosofo Karl Jaspers. Il pensatore danese è il capostipite di tutte le filosofie a coloritura esistenzialista incentrate sulle nozioni di singolo, di possibilità, di scelta e di angoscia. In contrapposizione con l’idealismo hegeliano, Kierkegaard sostiene – d’accordo con Kant – che l’esistenza è una «posizione assoluta»: l’esistenza (da ex-sistere, «stare fuori») non è posta dal pensiero, ma è data al di fuori di esso. In tal senso, il pensiero può riflettere sull’esistenza, ma non determinarla in base alle sue articolazioni logiche e concettuali. Per Kierkegaard, l’esistenza non riguarda il genere umano nel suo insieme, ma il singolo individuo nella sua concretezza. Sempre in contrapposizione con He446

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gel, egli ritiene che l’uomo non possa porsi dal punto di vista dell’Assoluto o dell’Infinito, perché non può uscire dalla propria soggettività. Quest’ultima è contrassegnata da una «infinita negatività», giacché non si lascia ingabbiare in nessuna determinazione specifica. L’apertura al possibile costituisce, infatti, secondo il filosofo danese, il carattere fondamentale dell’esistenza umana. L’uomo sa di poter scegliere, ma è proprio l’indeterminatezza di questa scelta a provocare angoscia: quando tutto è possibile, è come se nulla fosse possibile. L’angoscia è l’esperienza del nulla che l’uomo compie in ogni atto della sua vita, sia perché ignora ciò che può succedere sia perché scegliendo esclude (e cioè rende nulle) le altre alternative possibili. Sulla scia di Kierkegaard, Heidegger in Essere e tempo (1927) sostiene che l’esistenza dell’uomo (chiamata Dasein, «esserci») consiste nel poter o nel non poter essere se stesso. L’esserci non possiede il suo essere come una proprietà presente, già data, né può esperire se stesso come un ente totalmente compiuto, ma sempre solo come poter essere. Costitutivo dell’esserci è di essere nel mondo e ciò ha luogo in due modi: a) nel sentirsi emotivamente situati in esso; b) attraverso il comprendere, in cui si radica il progetto dell’esserci nel suo poter essere. Quando l’esserci si comprende in base a ciò che si dice o si fa, egli vive un’esistenza inautentica sotto il dominio del Si impersonale; quando invece si sottrae a tale dominio, aprendosi alle proprie possibilità nella decisione, si ha l’esistenza autentica, ridestata dall’angoscia davanti al nulla e dall’essere-per-la-morte. Quest’ultima è la possibilità più propria dell’esserci, la possibilità di tutte le possibilità, di fronte alla

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quale egli è insostituibile (nessuno può morire la morte di un altro). Nell’essere-per-la-morte, che non coincide con il togliersi la vita, l’esserci si sottrae alla dispersione nella banalità quotidiana e si dispone alla scelta delle proprie possibilità autentiche, scoprendo di essere tempo e storia. Nel suo capolavoro del 1945, L’essere e il nulla, Sartre riprende le tematiche affrontate da Kierkegaard e da Heidegger, ponendo al centro della sua riflessione il problema della libertà. Il filosofo francese distingue tra l’essere della coscienza (il «per-sé») e l’essere delle cose (l’«in-sé»): il primo è caratterizzato dall’incompiutezza e dalla ricerca del proprio completamento; il secondo, invece, corrisponde alla presenza bruta delle cose che si oppongono al modo di essere dell’uomo. Secondo Sartre, la caratteristica principale del per-sé è data dall’impossibilità di coincidere con l’in-sé: il per-sé fa esperienza del nulla in ogni momento della sua «e-sistenza» (letteralmente, «essere fuori di sé»), in quanto può affermare la propria libertà solo negando l’in-sé, e cioè ribadendo la propria assoluta estraneità rispetto ad esso. Essere liberi significa decidere dei propri atti (non solo quelli riflessivi, ma anche le pulsioni e le intenzioni che si collocano al di qua della ragione) e assumersene interamente la responsabilità. Secondo Sartre, «l’uomo non è libero di cessare di essere libero», in quanto la sua esistenza consiste nell’effettuare continuamente delle scelte. La libertà di scelta è tuttavia fonte di angoscia, perché è rapporto con il possibile, ossia con ciò che non è. L’uomo fa esperienza del nulla non fuori di sé, ma dentro la propria coscienza: di qui nasce la tendenza a fuggire da se stessi e dalla propria libertà, degradando-

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si a cosa tra le cose e costruendosi un’immagine fittizia di sé e della propria vita. La malafede è il rifiuto della responsabilità di scegliere, che produce una scissione all’interno di me stesso e, quindi, l’infelicità. Vivendo sempre nel possibile, l’uomo non raggiunge mai la conciliazione del per-sé e

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dell’in-sé: egli agisce in base a valori che cerca di realizzare nel tempo e che rappresentano ciò che gli manca. I progetti con cui cerca di trascendere la situazione nella quale si trova si scontrano, però, con la necessità di ricadere all’interno di un’altra situazione. Per Sartre, l’uomo è un «Dio

mancato» o «una passione inutile», in quanto non potrà mai superare definitivamente la sua condizione di non essere (desideri, valori, progetti) o di alienazione (è sempre in situazione): tutte le sue scelte risultano, pertanto, ugualmente assurde e negativamente equivalenti.

3. Sartre: la filosofia dell’impegno L’essere e il nulla fu attaccato da cattolici e da marxisti: i primi vi ravvisarono una filosofia atea e materialistica, mentre i secondi lo imputarono di idealismo e di pessimismo. Nel saggio L’esistenzialismo è un umanismo (1946), Sartre si difese da queste accuse, rifiutando le interpretazioni del suo esistenzialismo in termini pessimistici e individualistici. L’esistenzialismo è una filosofia dell’uomo libero, legato da rapporti costitutivi con gli altri uomini e dalla responsabilità nei loro confronti. Il filosofo ha, dunque, la sua fondamentale componente morale nell’impegno (in francese, engagement) verso sé e verso gli altri, allo scopo di rendere più umano il mondo: in questo senso, l’esistenzialismo è umanismo (o umanesimo, su questo punto cfr. la posizione di Heidegger [cfr. 10.3]).

l’esistenzialismo è un umanismo

È questo il presupposto che guida la costante denuncia da parte di Sartre delle forme di oppressione: in ciò egli ripone il compito dell’intellettuale come portatore di valori universali e difensore della libertà. In questa fase, per Sartre, il marxismo rappresenta sì una teoria dell’azione rivoluzionaria, ma coniugata con una filosofia errata – materialistica e deterministica – la quale conduce al settarismo e all’eliminazione della soggettività. Fedele a una costante anarchica del suo pensiero, Sartre si sente estraneo all’apparato organizzativo del partito comunista francese, subordinato all’egemonia sovietica. Ma a partire dall’opera teatrale Il diavolo e il buon Dio (1951), egli mette in luce la vanità dell’opposizione e della rivolta puramente individuale e la necessità di operare in collegamento con la classe oppressa, organizzata in partito.

la lotta contro l’oppressione dell’uomo

I fatti di Ungheria e il disgelo dopo il 1956 portano al centro del dibattito marxista in Francia – grazie anche a Lukács [cfr. 12.2] – i temi dell’alienazione e della reificazione. In tali anni, Sartre giunge alla conclusione – espressa nelle Questioni di metodo (1957) – che il marxismo è «la filosofia del nostro tempo», in quanto fornisce gli strumenti concettuali che consentono di comprenderlo e di trasformarlo. Il marxismo, tuttavia, si è sclerotizzato sul piano teorico, perché i partiti comunisti – temendo che le discussioni e i dissensi possano minare l’unità della lotta politica – lo hanno trasformato in un insieme dogmatico di dottrine. Questo marxismo dogmatico, inter-

il confronto con il marxismo

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pretando in chiave deterministica il rapporto struttura-sovrastruttura, si è privato di un’autentica capacità esplicativa dei fenomeni storici e culturali. Si tratta allora di ricostruire il rapporto dialettico tra l’uomo e la sua situazione storica nella complessità delle sue componenti. In questa prospettiva, Sartre ritiene necessario integrare il marxismo con l’antropologia esistenzialista, in grado di elaborare una teoria del soggetto della storia contro tutte le forme di meccanicismo e antiumanismo. la dialettica come prassi

Il problema centrale della Critica della ragion dialettica è la comprensione della storia. Hegel e Marx hanno messo in luce che il motore di essa sono i conflitti e che la dialettica è il principio del movimento storico. Il marxismo dogmatico, però, ha concepito la dialettica come una legge della natura stessa; occorre, dunque, liberare il marxismo da questa metafisica naturalistica, ritornando a porre al centro l’uomo come soggetto agente. Secondo Sartre, la dialettica – più che rappresentare la connessione oggettiva tra gli uomini, le cose e le istituzioni (economiche, sociali e politiche) – è anzitutto prassi, ossia attività totalizzante che si articola in progetti. Tale totalizzazione è sempre in corso, ossia non coincide mai con una totalità già data: questa rappresenta piuttosto quello che Sartre chiama il pratico-inerte, il residuo della prassi, ossia la realtà oggettiva che si configura come una passività. Una volta che la prassi si è alienata in oggettività, l’uomo si trova a subire l’azione delle cose che egli stesso ha prodotto.

l’alienazione dell’uomo

Su questo punto, Sartre sembra condividere – almeno in parte – la tesi hegeliana dell’identificazione dell’alienazione con l’oggettivazione. La realtà materiale, infatti, è alterità assoluta rispetto al soggetto: essa è una minaccia incombente su ogni azione umana, la quale è costretta a esteriorizzarsi e oggettivarsi e, pertanto, non può presumere di operare con assoluta libertà. In tal modo, ogni azione dà luogo a risultati imprevisti e a controfinalità negative. Il fondamento dell’azione umana è il bisogno, che costringe il soggetto a istituire un rapporto con il mondo oggettivo: questo rapporto assume la forma del lavoro come mezzo per soddisfare tale bisogno, ma, comportando un rapporto materiale diretto con le cose, impone all’uomo di farsi egli stesso oggetto.

il lavoro e la competizione tra gli uomini

D’altra parte, il lavoro rappresenta anche il modello di una prassi orientata verso un fine, ossia di un progetto volto al superamento dialettico della situazione data. In questo orizzonte, la prassi individuale s’intreccia con la prassi degli altri: ciascuno riconosce l’altro come soggetto della prassi e, al tempo stesso, come mezzo per il raggiungimento di un fine, rispetto al quale anch’egli è un mezzo. La penuria (in francese, rareté) – cioè la scarsità oggettiva di beni materiali per il soddisfacimento dei bisogni umani – rende però questo rapporto intersoggettivo una lotta dell’uomo con l’uomo e fa soggiacere al dominio del pratico-inerte.

dalla serie...

In questa situazione, gli individui formano un semplice aggregato, una «pluralità di solitudini» senza alcun rapporto di reciprocità e potenzialmente ostili tra loro. Il modo di essere di questa molteplicità – che caratterizza la vita degli uomini nella società contemporanea (dall’attesa dell’autobus

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alle mansioni svolte in ufficio) – è quello della serie. In base a essa, ogni individuo ha scopi ed esercita funzioni che gli sono imposte dall’esterno ed è dunque intercambiabile con ogni altro. Il gruppo è definito da Sartre come la prassi intenzionale di soggetti umani collegati tra loro allo scopo di rovesciare questa situazione storica. Esso è movimento che nasce da un pericolo comune, al quale intende reagire mediante una prassi comune. Nel momento iniziale si realizza una integrazione reale degli individui, che si scoprono liberi membri di un insieme organico, nel quale nessuno comanda e nessuno obbedisce, ma tutti sono pervasi da una comune volontà di lotta contro nemici comuni. È il gruppo in fusione, quale si costituisce nelle fasi iniziali dei movimenti rivoluzionari .

... al gruppo

Quando però viene meno la pressione del pericolo esterno, l’evidenza di scopi comuni e la necessità di una prassi comune tendono a dileguarsi. Per impedire che l’individuo ricada in forme di prassi puramente individuale, il gruppo – che prima era il mezzo per il raggiungimento di fini comuni – propone se stesso come fine. L’organizzazione e l’istituzionalizzazione hanno lo scopo di salvaguardare l’esistenza del gruppo, facendolo così ricadere nella serialità. La violenza contro l’esteriorità viene allora trasferita all’interno del gruppo, in modo da salvaguardare la fratellanza, ma a condizione di un regime di crescente terrore. Il gruppo organizzato, infatti, scorge negli individui liberi un ostacolo e un pericolo per la sua unità e pertanto si trasforma in una istituzione, rispetto alla quale l’individuo deve essere subordinato:

il gruppo e la soppressione dell’individualità

Attraverso la vita del gruppo in fusione (che in realtà è solo la sua lotta contro la morte per passivizzazione): se il gruppo deve realmente costituirsi con una praxis efficace, liquiderà in sé le alterità ed eliminerà i ritardatari o gli oppositori; questo significa che la libertà comune si farà in ognuno contro di essi, fino al momento in cui gli ordini che circolano non siano davvero l’ordine che ognuno si dà in se stesso e in tutti, ossia finché l’omogeneità della collera, del coraggio e della decisione di lottare fino in fondo, manifestandosi dappertutto, non rassicuri ogni manifestante (Critica della ragion dialettica, libro II, A).

In questa situazione, l’individuo non si sente più in un rapporto di trasparenza e di reciprocità con il gruppo organizzato, ma asservito a interessi superiori. È questo lo scacco nel quale si concludono i movimenti rivoluzionari e che appare a Sartre esemplificato nell’esperienza sovietica.

4. Merleau-Ponty: fenomenologia e marxismo Anche Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), come l’amico Sartre, nutrì inizialmente interessi per la psicologia e guardò con interesse alla fenomenologia. Nato a Rochefort-sur-Mer, studiò all’École Normale Supérieure e successivamente, grazie ai suoi lavori, La struttura del comportamento (1942) e La

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Sartre Il gruppo in fusione

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la vita e le opere

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fenomenologia della percezione (1945), divenne professore all’università di Lione. Diversamente da Sartre, con il quale collaborò alla direzione della rivista «Les temps modernes» dal 1945 al 1953, l’attività di Merleau-Ponty si svolse principalmente all’interno del mondo accademico: nel 1950 fu nominato professore alla Sorbona e nel 1952 al Collège de France. Dapprima si avvicinò al marxismo, pubblicando Umanismo e terrore (1947) e la raccolta di saggi Senso e non senso (1948). Nel 1953 ruppe i suoi rapporti con Sartre, allontanandosi al tempo stesso dal marxismo, come emerge da Le avventure della dialettica (1955). Tra le altre opere occorre ricordare la raccolta di saggi Segni (1960), un’indagine sull’arte intitolata L’occhio e lo spirito (1960) e il volume postumo Il visibile e l’invisibile (1964). il corpo e la percezione

Il punto di partenza di Merleau-Ponty è l’abbandono del dualismo cartesiano tra anima e corpo, tra coscienza e mondo. Studiando a Lovanio gli scritti inediti di Husserl, egli scopre la rilevanza dei concetti di intenzionalità e di mondo-della-vita, i quali consentono di sfuggire alla falsa alternativa tra idealismo e realismo, che insistono unilateralmente sulla priorità del soggetto o dell’oggetto, dell’io o del mondo. A suo avviso, la riduzione fenomenologica non mette capo a una coscienza pura – come aveva preteso lo stesso Husserl – bensì a un mondo della vita, antecedente a ogni riflessione, nel quale soggetto e oggetto si presentano indistinti. Qui il rapporto originario con il mondo si costituisce attraverso il corpo. Il mondo è ciò che percepiamo e la fenomenologia si configura essenzialmente come descrizione delle modalità di percezione .

la critica a sartre: l’io con gli altri

Il corpo, infatti, è anteriore e irriducibile alla contrapposizione – costruita a posteriori dalla riflessione e dalle scienze fisiologiche – tra soggetto e oggetto, tra coscienza e mondo. Esso è l’unità indistinta e naturale di questi poli: una mano che tocca è al tempo stesso toccata e viceversa, ossia il soggetto del sentire è al tempo stesso oggetto sentito e viceversa. Merleau-Ponty non può, quindi, condividere la contrapposizione sartriana di in-sé e per-sé, che ha come conseguenza la concezione dell’intersoggettività come conflitto tra coscienze. A questo riguardo, Merleau-Ponty afferma che «io sono un campo intersoggettivo». La percezione, infatti, in quanto inscindibilmente connessa alla corporeità e non riducibile a coscienza pura, attesta che «il corpo altrui e il mio sono un tutto unico», sicché il conflitto tra le coscienze non è la dimensione originaria del rapporto intersoggettivo. Secondo Merleau-Ponty, tra me e gli altri vi è una comunicazione originaria, che ha le sue radici nel mondo-della-vita antecedente a ogni riflessione [t43].

la critica a sartre: nulla e libertà assoluta

Questa impostazione consente a Merleau-Ponty di respingere le concezioni sartriane del nulla e della libertà. È vero che il nulla appare nel mondo grazie alla soggettività e alla possibilità di trascendere il mondo e di annullare i propri progetti in ogni istante, ma questa possibilità è sempre al tempo stesso quella di cominciare qualcos’altro, sicché «noi non rimaniamo mai in sospeso nel nulla», ma «siamo sempre nella pienezza, nell’essere». Allo stesso modo, egli respinge la nozione di libertà assoluta, sganciata da ogni condizionamento, la quale porta alla conclusione dell’equivalenza delle scelte.

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La libertà assoluta è incompatibile con la nozione di situazione, ossia con l’essere-al-mondo – attraverso la corporeità e la percezione – che è proprio dell’uomo. «Io non sono mai una cosa – asserisce Merleau-Ponty – e non sono mai coscienza nuda», sicché la libertà è sempre condizionata e inserita in un orizzonte di possibilità. L’alternativa tra libertà assoluta e determinismo è, dunque, puramente fittizia. A suo avviso, libertà significa nascere e precisamente nascere dal mondo in quanto campo già strutturato di possibilità, ma al tempo stesso nascere al mondo, in quanto il mondo non è mai una totalità chiusa e definitiva, ma è un orizzonte aperto al quale possono essere conferiti significati. In questo modo acquistano senso ed efficacia le scelte, l’impegno e la responsabilità umana all’interno della storia, come insieme contingente dei progetti umani.

la libertà in situazione

Il problema della storia porta Merleau-Ponty a una riflessione sul marxismo. In Umanismo e terrore (1947) egli ravvisa nei processi staliniani un’espressione dell’ambiguità costitutiva dei progetti umani e del divario che ancora caratterizza il piano dei mezzi da quello dei fini. All’interno di una storia contingente, nella quale si scontrano prospettive soggettive, e in una situazione ancora rivoluzionaria, la violenza e il terrore sono inevitabili e, tuttavia, orientati a realizzare il comunismo, inteso come piena trasparenza dei rapporti umani e ripristino del rapporto adeguato tra mezzi e fini. In questa situazione, secondo Merleau-Ponty, non si può essere né comunisti, né anticomunisti, ma occorre assumere una posizione di attesa nei chiarimenti che la storia potrà apportare. Ma all’inizio degli anni Cinquanta – nel clima della guerra fredda – egli abbandona il mito, che considera proprio del marxismo, di un significato totale della storia, affidato al potere del proletariato.

il confronto col marxismo

Al cuore di questa concezione vi è la nozione di dialettica, che egli critica in Le avventure della dialettica (1955). Invano il marxismo del Novecento, a partire da Lukács, ha tentato di superare Weber, per il quale è impossibile una conoscenza globale del significato ultimo della storia. Contro l’ultrabolscevismo – manifestato in quegli anni da Sartre – Merleau-Ponty sostiene che l’instaurazione in Urss di un partito unico, depositario e interprete del processo oggettivo della storia, è la confutazione dell’idea di dialettica e di rivoluzione. Secondo Merleau-Ponty, infatti, non c’è dialettica senza opposizione e senza libertà, ma queste non durano a lungo in una rivoluzione, che inevitabilmente degenera nella dittatura: «le rivoluzioni sono vere come movimenti e false come istituzioni». Egli descrive allora il proprio itinerario come un passaggio dall’attendismo marxista all’a-comunismo: più che pretendere di rifare la storia da capo a fondo, si tratta di cambiarla all’interno di una società e di un quadro di istituzioni che preservino la libertà.

weber contro marx: il passaggio all’a-comunismo

In questa prospettiva, nell’opera postuma Il visibile e l’invisibile, egli elabora il concetto di iper-dialettica. Si tratta di una dialettica non caratterizzata – come quella di Hegel e Marx – dalla sintesi finale definitiva e da una concezione unidirezionale dello sviluppo della realtà e della storia, ma aperta alla molteplicità di rapporti e alla polivalenza di significati che contrassegnano l’esperienza umana nel mondo.

la riforma della dialettica

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APPROFONDIMENTO

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Vicende della fenomenologia e dell’ermeneutica: Lévinas e Ricoeur

Emmanuel Lévinas (1905-1995), ebreo nato in Lituania, trasferitosi in Francia, fu tra i primi a diffondere la filosofia di Husserl e di Heidegger, insegnando anche alla Sorbona. Nelle sue opere più rilevanti – in particolare in Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974) – Lévinas riprende il progetto dell’ultimo Heidegger di un oltrepassamento della metafisica, nella quale tuttavia lo stesso Heidegger sarebbe rimasto ancora impigliato. La metafisica o ontologia, secondo Lévinas, ossia il pensiero occidentale, assume la totalità come categoria suprema e tende dunque a ridurre tutto a un unico principio, nell’unica identità dell’essere. La totalità, infatti, è il risultato di un movimento soggettivo che – per ridurre la differenza all’unità – esercita violenza e la ragione non è altro che «la manifestazione di una libertà che neutralizza l’altro e lo ingloba», cioè lo riduce al medesimo. Anche la filosofia di Heidegger, in quanto subordina il rapporto con altri alla relazione con l’essere, è una filosofia del potere e della violenza. Per sfuggire alla violenza della totalità occorre mostrare che primaria è non tanto la comprensione dell’essere – come vuole Heidegger – quanto il riconoscimento della presenza indistruttibile dell’altro. Al di là della totalità – prodotta dall’arroganza e dalla violenza dell’essere finito – c’è la separa-

zione radicale, temporalmente infinita, tra l’io e l’altro. Si tratta, soprattutto, dell’alterità di un Dio creatore – eterogeneo rispetto all’io ed eccedente rispetto a esso – ma l’alterità si manifesta in generale nel volto altrui. All’ontologia, che è pensiero fondato sulla violenza, Lévinas contrappone l’etica come ambito di problemi, nel quale l’alterità è pienamente riconosciuta. Al primato della libertà, che per garantire l’autosufficienza dell’io riduce l’altro al medesimo, Lévinas oppone il primato della giustizia, la quale impone obblighi nei confronti dell’altro che sussiste in quanto tale. Anche Paul Ricoeur (1913-2005), professore a Strasburgo e poi alla Sorbona, a Nanterre e a Chicago, autore tra l’altro di Filosofia della volontà (1950-60), Sull’interpretazione: saggio su Freud (1965), Il conflitto delle interpretazioni (1969), Tempo e racconto (198385) e Se stesso come un altro (1990), è partito dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia, ma li ha sviluppati in direzione di una filosofia ermeneutica. Attraverso un’analisi fenomeno-logica della volontà, che appare caratterizzata dalla fallibilità e dalla colpa, egli fornisce una descrizione dell’individuo come una sintesi aperta di volontario e involontario, di consapevole e inconsapevole, che ha nel dominio dei simboli la sua manifestazione. Egli intende per simbolo «ogni struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa per

sovrappiù un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso soltanto attraverso il primo». Secondo Ricoeur l’io non coglie se stesso attraverso un’intuizione diretta, ma prende coscienza di sé attraverso la riflessione e l’interpretazione dei segni e dei simboli nei quali l’attività spirituale umana si è oggettivata. In Tempo e racconto, egli insiste sull’aspetto creativo del linguaggio, quale appare nella metafora poetica che – aprendo nuovi orizzonti di significato – produce nuovi aspetti del reale. L’ermeneutica è l’insieme delle regole dell’interpretazione applicate al mondo dei simboli allo scopo di decifrare il senso nascosto in quello apparente. Le interpretazioni, tuttavia, sono molteplici e non costituiscono un insieme unitario, ma sono in conflitto tra loro. L’ermeneutica può assumere una funzione demistificatoria, mostrando ciò che si cela dietro la superficie – come avviene in modi diversi in Marx, Nietzsche e Freud – ma anche una funzione restauratrice, facendo leva sulla portata rivelativa dei simboli nei confronti dell’esistenza e del sacro. Tra le due funzioni non esiste un’alternativa, secondo Ricoeur, bensì complementarità dialettica. Allo stesso modo, la pratica interpretativa non è antagonistica all’uso dei metodi delle scienze umane, come avviene invece, per certi versi, nell’ermeneutica di Gadamer.

5. La linguistica e la nascita dello strutturalismo una nuova stagione culturale

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A partire dalla fine degli anni Cinquanta si sviluppa in Francia una reazione contro le filosofie (ad esempio lo spiritualismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo) che fanno dell’uomo – nella sua realtà individuale ed esistenziale 15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia

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– il soggetto del processo storico e delle produzioni culturali. L’accento viene ora spostato sulle strutture e sui processi anonimi che sottostanno ai fenomeni sociali e culturali e che consentono di darne una spiegazione adeguata, senza perdersi nella variabilità delle situazioni empiriche e storiche. Il principale modello metodico di questo orientamento generale – che viene etichettato come strutturalismo – è fornito dalla linguistica. Decisiva è soprattutto l’influenza del ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913), autore di un Corso di linguistica generale, pubblicato postumo nel 1916. Egli distingue all’interno del linguaggio due livelli: 1) la lingua (langue), come sistema di vocabolario e insieme delle regole fonetiche e sintattiche, che costituiscono il patrimonio di ciascun parlante all’interno di una comunità; 2) la parola (parole), che costituisce l’esecuzione individuale, la messa in atto di queste regole e che può – nel corso della storia – introdurre modificazioni nella lingua.

saussure e lo studio del linguaggio

Compito della linguistica, secondo Saussure, è di studiare innanzitutto la lingua come sistema, in primo luogo come sistema grammaticale, consistente nelle relazioni tra i termini di una lingua. A tale scopo, essa deve prescindere dalla diacronia – ossia dall’evolversi di tale sistema o di qualche sua parte – per porre invece l’attenzione sulla sincronia – ossia sulla compresenza simultanea dei molteplici elementi che costituiscono la lingua in uno stato dato. Dal punto di vista sincronico, appunto, la lingua si presenta come un sistema di segni.

che cos’è una lingua?

Il segno linguistico mette in relazione non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica: quest’ultima è detta da Saussure significante (signifiant), mentre il concetto è detto significato (signifié). In tal modo, il segno è l’unione di significante e significato, ma tale unione non è né un rapporto necessario – prodotto meccanicamente dalla realtà del mondo fisico o dai nostri modi di percepirlo – né il frutto di una libera scelta puramente individuale. Si tratta, secondo Saussure, di un legame arbitrario, come è provato dal fatto che in lingue diverse sono usati suoni diversi in relazione allo stesso significato: in questo senso, egli parla di arbitrarietà del segno. Da essa dipende la mutabilità di una lingua nel corso del tempo, entro determinati limiti costituiti dalla struttura dell’apparato fonatorio e acustico umano.

le componenti del segno

Saussure scorge così nella linguistica – come studio dell’insieme di tutti i possibili segni (ossia delle unità linguistiche minime e delle loro combinazioni possibili) – una componente essenziale di una più ampia futura disciplina, la semiologia, che avrebbe studiato la vita dei segni entro la vita sociale.

la risoluzione della linguistica nella semiologia

Queste indagini furono proseguite nel Circolo linguistico di Praga, fondato nel 1926, che enunciò il suo programma nelle Tesi (1929): l’assunto fondamentale è che non si può capire alcun fatto linguistico se non si tiene conto del sistema a cui appartiene. Rappresentanti significativi di esso sono: Roman Jakobson (1896-1982), che insistette sulla molteplicità di funzioni che il linguaggio può assolvere e sulle connessioni tra sincronia e diacronia.

le ricerche del circolo linguistico di praga

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A suo avviso, da una parte i mutamenti presentano caratteri strutturali; dall’altra i sistemi hanno carattere dinamico. Nikolaj Trubeckoj (1890-1938), dal canto suo, rivolse la sua attenzione alla fonologia – intesa come studio dei suoni nella loro funzione all’interno delle strutture significative di una lingua – e alla fonetica, come studio puramente fisico dei suoni. Le unità minime individuate dalla fonologia sono i fonemi, che sono di numero limitato e sono alla base di ogni lingua.

6. Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale la vita e le opere

L’antropologo Claude Lévi-Strauss è stato colui che – con la sua utilizzazione del modello della linguistica nelle indagini sulle strutture della parentela e sui miti e con le sue teorie generali sul concetto di struttura – ha più contribuito alla formulazione e alla diffusione dello strutturalismo. Nato nel 1908 a Bruxelles da genitori francesi, è vissuto a Parigi, dove si è laureato in Filosofia nel 1931. Nel 1935 si trasferisce in Brasile, dove rimane sino al 1939, compiendo spedizioni in Amazzonia e nel Mato Grosso. Nel 1939 torna in Francia, ma si rifugia poi negli Stati Uniti, dove insegna a New York, entra in contatto con l’antropologia americana e stringe amicizia con Jakobson. Rientrato in Francia nel 1948, nel 1950 insegna all’École Pratique des Hautes Études e dal 1954 Antropologia sociale al Collège de France; nel 1973 è stato eletto all’Accademia di Francia. È morto a Parigi, oramai ultracentenario, nell’ottobre del 2009. Le sue opere principali sono: Le strutture elementari della parentela (1949), Tristi tropici (1955), Antropologia strutturale (1958), Il totemismo oggi (1962), Il pensiero selvaggio (1962, dedicato a Merleau-Ponty), Mitologiche (Il crudo e il cotto, 1964; Dal miele alle ceneri, 1966-67; L’origine delle buone maniere a tavola, 1968; L’uomo nudo, 1971), Antropologia strutturale due (1973) e Lo sguardo da lontano (1983).

l’analisi strutturale dei sistemi matrimoniali

L’obiettivo dell’opera principale di Lévi-Strauss – Le strutture elementari della parentela – è di individuare la logica sottostante a tutti i sistemi di parentela, al di là della loro varietà, ossia la struttura invariante rispetto a cui essi sono tutti delle trasformazioni. Alla base di tutti i sistemi matrimoniali è, secondo Lévi-Strauss, la proibizione dell’incesto, la quale impedisce l’endogamia: il rapporto con una donna – vietato all’interno del gruppo parentale – viene consentito ad altri. Grazie alla proibizione dell’incesto è reso allora possibile lo scambio di un bene pregiato – le donne – tra gruppi sociali e quindi lo stabilimento di forme di reciprocità e di solidarietà che garantiscono la sopravvivenza del gruppo. Secondo Lévi-Strauss, vi sono due categorie essenziali di sistemi matrimoniali: 1) a scambio limitato, tra cugini, di tipo prescrittivo; 2) a scambio generalizzato, di tipo preferenziale. L’antropologia – alla pari della geologia, della psicoanalisi, del marxismo e soprattutto della linguistica – diventa in tal modo la scienza capace di cogliere le strutture profonde (universali, atemporali e necessarie) al di là della superficie degli

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eventi e al di là dell’apparente arbitrarietà degli elementi che costituiscono ogni società. A queste strutture si accede non attraverso la descrizione puramente empirica delle varie situazioni di fatto, ma mediante la costruzione di modelli. Essi sono sistemi di relazioni logiche tra elementi, sulle quali è possibile compiere esperimenti (ossia trasformazioni), in modo da individuare ciò che sfugge all’osservazione immediata. I modelli non hanno mai perfetta rispondenza nella realtà, ma non sono neppure semplici costrutti puramente soggettivi o dotati soltanto di valore metodologico: essi hanno valore oggettivo, perché mettono in luce le strutture che formano l’ossatura logica della realtà. La struttura , infatti, non è pura e semplice forma, ma «è il contenuto stesso colto in una organizzazione logica concepita come proprietà del reale». Una disposizione di parti costituisce una struttura, quando è un sistema retto da una coesione interna, che si manifesta nel momento in cui se ne studiano le trasformazioni, secondo regole logiche: grazie a questo studio è infatti possibile rintracciare proprietà simili in sistemi apparentemente diversi. Secondo Lévi-Strauss, il fenomeno empirico è soltanto una combinazione logicamente possibile di elementi: per poterlo spiegare occorre ricostruire preliminarmente il sistema globale di cui esso è soltanto una variante .

la definizione di struttura

Dalla scuola durkheimiana, Lévi-Strauss riprende l’idea della natura psichica dei fatti sociali. Questi ultimi sono sistemi di idee oggettivate, ossia di categorie che nel loro insieme costituiscono lo spirito umano nella sua universalità. Questi sistemi tuttavia non sono elaborazioni consce, bensì inconsce. Il fondamento ultimo è dato dallo spirito umano inconscio, che si rivela attraverso i modelli strutturali della realtà. Obiettivo dell’antropologia diventa allora la contemplazione dell’architettura logica dello spirito umano, al di là delle sue molteplici manifestazioni empiriche. L’attività inconscia collettiva tende a privilegiare una logica binaria, ossia una logica che costruisce categorie mediante contrasti o opposizioni binarie, per esempio quella tra crudo e cotto, che può esprimere la differenza tra il piano della natura e quello della cultura.

le categorie inconsce dello spirito umano

Per quanto riguarda la lingua, la fonologia ha messo in luce che alla base del sistema dei suoni significativi c’è un piccolo numero di sistemi di contrasto. Questo stesso tipo di logica presiede anche alla costruzione dei miti. I miti, secondo Lévi-Strauss, non sono espressioni di sentimenti o spiegazioni pseudoscientifiche di fenomeni naturali o riflessi di istituzioni sociali, ma non sono neppure privi di regole logiche. Come è possibile spiegare il fatto che i contenuti dei miti sono contingenti e appaiono arbitrari, eppure presentano forti somiglianze nelle diverse regioni del mondo? La risposta, secondo Lévi-Strauss, sta nel fatto che il mito è espressione dell’attività inconscia dello spirito umano e si struttura come un linguaggio. Come la funzione significativa di una lingua non è direttamente collegata ai suoni, ma al modo in cui i suoni sono combinati tra loro, così anche i miti sono formati di unità costitutive minime, le cui combinazioni avvengono secondo precise regole e danno luogo a unità significanti. In questo senso, il compito di uno

la struttura logica dei miti

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Lévi-Strauss Le nozioni di struttura e di modello

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studio scientifico dei miti consiste nel mostrare non come gli uomini pensano e costruiscono miti, ma «come i miti si pensano negli uomini, e a loro insaputa». il mito tra natura e cultura

Il pensiero mitico resta legato a immagini, ma – lavorando con analogie e paragoni – può dare origine a generalizzazioni e costruire nuove serie combinatorie degli elementi di base, che restano costanti. Di tali strutture il pensiero mitico si serve per produrre racconti. In particolare, il sistema mitico e le rappresentazioni che esso suscita stabiliscono correlazioni tra condizioni naturali e condizioni sociali ed elaborano un codice che permette di passare da un sistema all’altro di opposizioni binarie pertinenti a questi piani. Il materiale è fornito dalle classificazioni (per esempio di animali e vegetali), che hanno tanta parte nel pensiero primitivo: esse non sono solo legate all’esigenza pratica di permettere un miglior soddisfacimento dei bisogni, ma nascono dall’esigenza di introdurre un principio di ordine nell’universo.

le caratteristiche del «pensiero selvaggio»

In questo senso, Lévi-Strauss rivendica – in Il pensiero selvaggio – l’esistenza di un autentico pensiero anche nei primitivi, il quale è alla base di ogni pensiero e non è soltanto una mentalità pre-logica. L’unica differenza rispetto al pensiero logico è data dal fatto che il pensiero «selvaggio» – quale si esprime anche nei miti – è più legato all’intuizione sensibile e, quindi, più attento a salvaguardare la ricchezza e la varietà delle cose e a memorizzarla.

le società fredde e le società calde

L’ultimo capitolo del Pensiero selvaggio è una polemica contro la Critica della ragion dialettica di Sartre. Definendo l’uomo in base alla dialettica e alla storia, Sartre ha di fatto privilegiato – secondo Lévi-Strauss – la civiltà occidentale, isolandola dagli altri tipi di società e dai popoli «senza storia». Le società primitive hanno subìto trasformazioni, ma in seguito resistono a tali modificazioni: in questo senso, esse sono società fredde, ossia con un basso grado di temperatura storica, e la loro storia è fondamentalmente stazionaria. Esse si distinguono dunque dalle società calde, come quella occidentale, in continuo divenire e caratterizzate da una storia cumulativa, le quali devono sopportare i conflitti come costo della loro instabilità.

il rifiuto dell’etnocentrismo e dello storicismo

In prospettiva, Lévi-Strauss auspica una integrazione tra questi due tipi di società e le corrispondenti forme di cultura e di pensiero. Egli rifiuta, dunque, ogni forma di etnocentrismo, in quanto ogni cultura realizza soltanto alcune delle potenzialità umane. Ciò significa abbandonare ogni forma di umanesimo e di storicismo, ossia respingere l’equivalenza – dominante nel mondo occidentale – tra le nozioni di storia e di umanità: la storia è soltanto una delle scelte possibili che gli uomini possono compiere.

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7. Foucault: il sapere e il potere Michel Foucault (1926-1984), dopo aver studiato Filosofia e Psicologia all’École Normale Supérieure di Parigi, lavorò presso istituti culturali francesi a Uppsala, Varsavia e Amburgo e nel 1970 fu nominato professore di Storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. Gli interessi di Foucault sono inizialmente di natura epistemologica: il suo problema è di individuare le condizioni storiche in base alle quali la follia e la malattia si sono costituite come oggetti di scienza, dando origine alla psicopatologia e alla medicina clinica, strettamente legate alla costruzione di luoghi chiusi (il manicomio e la clinica) nei quali s’instaura un rapporto di dominio tra medico e paziente. Questi sono i temi affrontati nelle sue prime opere di successo, Storia della follia nell’età classica (1961) e Nascita della clinica (1963).

le prime ricerche sulla storia della follia

Da queste indagini emerge in Foucault la consapevolezza che la storia non è in prima istanza il risultato delle azioni coscienti degli uomini. Secondo questa prospettiva, il vero campo dell’indagine storica è costituito non da ciò che gli uomini hanno detto o fatto, ma dalle strutture epistemologiche che di volta in volta determinano qual è il soggetto e l’oggetto della storia. Le varie epoche, infatti, sono caratterizzate da un’epistème (letteralmente, «scienza»), intesa come sistema implicito (inconscio e anonimo) di regole e di eventuali riflessioni su tali regole, in base al quale si costituiscono e operano i saperi caratteristici di tale epoca. Foucault sostiene inoltre che il passaggio da un’epistème a un’altra non è un processo continuo guidato da una logica interna di sviluppo e perfezionamento progressivo, ma avviene per salti e non può quindi propriamente essere spiegato. Portare alla luce l’epistème, propria di ciascuna epoca, è compito invece di quella che egli chiama archeologia.

l’archeologia è ricerca dell’epistème di un’epoca

In Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966) Foucault conduce una vasta indagine storica, allo scopo di mostrare che anche l’uomo – come oggetto di sapere scientifico – è un’invenzione recente, risalente agli inizi del XIX secolo e collegata al trasformarsi dell’analisi della ricchezza in economia, della storia naturale in biologia e della grammatica generale in filologia. Al centro di questi nuovi campi del sapere è posto come oggetto unitario l’uomo, caratterizzato secondo i nuovi concetti cardine di questi campi: lavoro, vita e linguaggio.

l’invenzione dell’uomo nel xix secolo

A partire da Kant, secondo Foucault, l’antropologia è la disposizione fondamentale che ha governato il pensiero filosofico: essa ha indicato nell’uomo la matrice dei valori positivi e ha fatto intravedere nella sua emancipazione la possibilità del ritorno di un regno propriamente umano. Ma, in tal modo, la filosofia si è assopita in un nuovo sonno, diverso da quello dogmatico di cui aveva parlato Kant e consistente nel considerare l’uomo come fondamento della conoscenza e della verità. L’archeologia mostra, al contrario, che anche l’uomo è un oggetto generato nel quadro di una precisa epistème, che tuttavia oggi si sta frantumando. Già Nietzsche – nel proclamare la morte di Dio – ha di fatto annunciato la morte dell’uomo , dal momento che

dall’antropologia di kant alla morte dell’uomo

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uomo e Dio si appartengono a vicenda, e in tal modo ha fissato il punto a partire dal quale la filosofia contemporanea può ricominciare a pensare. l’uomo è oggetto di leggi inconsce

Ciò comporta, per Foucault, la fine di ogni umanesimo tradizionale, delle filosofie dell’impegno e dello storicismo. Oggi, a suo avviso, psicoanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l’uomo come soggetto, portando alla luce le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione dei discorsi mitici: chi parla non è propriamente l’uomo, ma è la parola stessa.

le forme e i limiti del discorso

Queste tematiche, che hanno indotto ad avvicinare Foucault – nonostante le sue smentite – allo strutturalismo, sono state proseguite e approfondite in L’archeologia del sapere (1969). Oggetto di tale archeologia non sono le tradizioni, gli autori, le opere o le discipline, che rinviano tutte a un soggetto cosciente come centro portante produttore di esse. Essa ha invece il compito di disseppellire e descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono «i limiti e le forme di dicibilità», ossia determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può costituire come ambito del discorso e quali sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di fatto.

l’ordine del discorso e il potere

I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma «pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano»: essi sono dunque autosufficienti, si autoregolano e non sono riconducibili a una causa o a un fondamento unico esterno a essi, né a un soggetto trascendentale o empirico, né a condizioni economiche e storico-sociali, né allo spirito dei tempi. I discorsi, però, si inseriscono in una trama di rapporti di potere che permea ogni società: essi sono pratiche che dipendono dal potere, ma che producono anche potere. Il tema del potere diventa centrale nell’ultimo Foucault, a partire dalla lezione inaugurale al Collège de France – L’ordine del discorso – e poi nello studio sull’origine del sistema carcerario, intitolato Sorvegliare e punire (1975).

il potere di decidere cosa è vero o falso

Anche per questo aspetto il modello è fornito dal pensiero di Nietzsche, che viene ora definito «il filosofo del potere». Nietzsche, infatti, ha mostrato che ogni discorso implica una volontà di verità e che una delle procedure di selezione e di interdizione con cui il potere opera sui discorsi è fornita dall’opposizione tra vero e falso. «Ogni società – secondo Foucault – ha il suo proprio ordine della verità, la sua “politica generale” della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri». Ciò significa che sapere e potere sono inscindibili, in quanto l’esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sé effetti di potere.

il carattere anonimo e pervasivo del potere

Per potere, secondo Foucault, bisogna però intendere non quello che emana da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta, invece, del potere impersonale, onnipresente, che non risiede in un centro ben definito (per esempio nello Stato e nei suoi apparati), ma opera attraverso meccanismi anonimi in tutti gli angoli della società. In questo senso, il potere è un insieme di rapporti di forza, diffusi localmente, non riconducibili a un’unica sede. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente intrecciati la resistenza può essere condotta non da un’unica forza

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organizzata in partito, ma solo in lotte parziali, in una pluralità di luoghi da parte di forze mobili e continuamente mutevoli [t44]. I dispositivi di potere – operando selezioni e interdizioni – impediscono la libera proliferazione dei discorsi e danno luogo a una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del carcere, dell’ospedale, dell’esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono messe in atto strategie di controllo, esami, sanzioni.

il potere e le istituzioni totali

Il potere, però, non ha soltanto questa funzione negativa, ma ha anche quella positiva di produrre nuovi ambiti di verità e nuovi saperi. Questa tesi emerge chiaramente nelle ultime opere di Foucault – a partire da La volontà di sapere (1976) – volte a ricostruire una storia della sessualità. La sessualità, secondo Foucault, è un’invenzione recente: essa ha a che fare, da una parte, con il problema di tenere assoggettati i corpi, ma, dall’altra, dà anche luogo a un discorso sul sesso, in cui l’interdizione s’intreccia con l’attenzione nei suoi confronti e, quindi, con la costituzione di nuove forme di sapere.

la ricerca di nuove forme di sapere

Partendo da queste considerazioni, Foucault perviene – nei suoi due ultimi libri, pubblicati postumi nel 1984, L’uso dei piaceri e La cura di sé – a ritrovare una posizione alternativa alla modernità nell’Antichità classica: qui, infatti, egli scorge all’opera – in opposizione alle morali prescrittive, dominanti a partire dal cristianesimo – la costruzione di una «estetica dell’esistenza individuale», fondata su quelle che egli chiama le «tecnologie del sé», miranti all’autocostituzione di un soggetto padrone di sé. In questo modo, egli sembra recuperare proprio quella dimensione umanistica, da lui sempre combattuta.

la sessualità degli antichi e dei moderni

APPROFONDIMENTO

La stagione post-strutturalista: Deleuze, Derrida, Lyotard

Negli ultimi sviluppi della filosofia francese è centrale la ripresa del pensiero di Heidegger e soprattutto di Nietzsche. In Nietzsche e la filosofia (1962) e in Differenza e ripetizione (1968), Gilles Deleuze (1925-1996) indica in Nietzsche il pensatore che – contro il primato dell’unità e dell’identità, proprio della tradizione metafisica occidentale a partire da Platone – ha riconosciuto la positività del molteplice, del diverso e del divenire. Egli interpreta la volontà di potenza di Nietzsche non come volontà di sopraffazione e di dominio, ma

come critica a ogni forma di potere e invito alla liberazione del desiderio. Nell’opera scritta in collaborazione con Félix Guattari, L’Anti-Edipo (1972), egli conduce una dura polemica nei confronti della psicoanalisi freudiana, accusata di contribuire alla repressione dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio, invece, rappresenta la positività, è costruttivo e gli individui sono propriamente «macchine desideranti» o flussi di desideri, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Alla produzione desiderante, che si mani-

festa e prolifera in maniera polimorfa, in ogni società si oppongono istanze antiproduttive che, facendo leva sulle paure, ingabbiano i desideri. In questa situazione, la schizofrenia appare come una rivendicazione di libertà assoluta, volta al soddisfacimento di tutte le potenzialità umane. Un tentativo di andare oltre la tradizione della metafisica occidentale è messo in atto anche da Jacques Derrida. Nato a El Biar, presso Algeri, nel 1930, Derrida ha studiato all’École Normale Supérieure di Parigi e successiva-

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mente ha insegnato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e all’università di California. Nel 1983 ha fondato a Parigi il Collège International de Philosophie. Dopo una serie di studi su Husserl ha pubblicato, nel 1967, Della grammatologia, La scrittura e la differenza e La voce e il fenomeno e, nel 1972, La disseminazione e Margini della filosofia. Successivamente sono comparsi, tra l’altro, La cartolina postale (1980) e Psyche. Invenzioni dell’altro (1987). È morto a Parigi nell’ottobre del 2004. Secondo Derrida il carattere fondamentale della filosofia occidentale è il logocentrismo o fonocentrismo, fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall’ultimo Heidegger [cfr. 10.3]. A questa tesi, però, Derrida arriva partendo dall’analisi del rapporto tra la parola (o lògos), inteso come voce, e la scrittura, anche alla luce del mito raccontato nel Fedro platonico. A suo avviso, nella tradizione occidentale – sino a Heidegger incluso – la voce gode di un primato in virtù del fatto che essa è percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata è sempre immanente il lògos. La scrittura, invece, è caratterizzata dall’assenza totale del soggetto, che l’ha prodotta: il testo scritto gode di vita propria. Compito della grammatologia (dal greco gramma, nel senso originario di «lettera scritta dell’alfabeto») è di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non del lògos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di là del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilità e leggibilità illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la «differanza» (in francese, différance) un termine da lui coniato che in-

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clude i due significati del verbo «differire». 1. In un primo senso, il segno è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, tra il testo e l’essere a cui esso rinvia c’è sempre una differenza, uno scarto che non può essere mai definitivamente colmato, ma lascia sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni. 2. In un secondo senso, differire significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo: ciò significa uscire dal primato della presenza, che caratterizza il logocentrismo. La différance equivale a un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che ascoltano, è un evento nel senso heideggeriano [cfr. 10.3]. Essa è agli antipodi della identità e della presenza: per questo, nei testi la verità non è originaria né unitaria né mai totalmente data, ma si trova come disseminata. Ma dal momento che inevitabilmente siamo entro il linguaggio costruito dalla ragione, è possibile andare oltre il logocentrismo e la metafisica della presenza? Secondo Derrida, questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del lògos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria (soprattutto nordamericana). Derrida non definisce né analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione, ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In generale, si può dire che la decostruzione sia la messa in opera della différance nella lettura dei testi, ossia l’atto di smontare e di rovesciare le gerarchie di signifi-

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cato operanti in esso, trattando le opere di filosofia come opere di letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. A queste impostazioni si collega la tesi, diffusa nel volume La condizione postmoderna (1979) per opera di Jean-François Lyotard (1924-1998), secondo cui la modernità è giunta al suo compimento e ci troviamo ormai nel post-moderno. Il progetto della modernità di conferire un senso unitario e globale alla realtà, individuandone i fondamenti e facendo leva su una scienza unitaria, si è costruito, secondo Lyotard, sull’asse di tre grandi metaracconti. I nuclei di essi sono l’ideale di emancipazione proprio dell’Illuminismo, l’idea di uno sviluppo teleologico dello spirito presente nell’idealismo e l’ermeneutica storicistica. Questi grandi quadri di riferimento si sono ormai consumati, né sono stati sostituiti da costruzioni altrettanto forti e unitarie: come aveva detto Weber, si è ormai nell’epoca del disincanto. La frantumazione di essi ha fatto emergere la pluralità e le differenze e ha moltiplicato le forme del sapere. Contrariamente alle critiche tradizionali nei confronti della scienza, Lyotard non nutre nostalgia per l’unità e la totalità perduta, ma riconosce la positività di ciò che è molteplice, frammentato, polimorfo e instabile. Egli ritiene, anzi, che non si tratti soltanto di prendere atto di questo processo in corso, ma di contribuire alla sua affermazione, attraverso pratiche di regionalizzazione dei campi del sapere, mostrandone l’irriducibilità a presunte unificazioni, di decanonizzazione, cioè di rottura dei «canoni» tradizionali, e di ibridazione, ossia di contaminazione dei generi.

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in poche... parole In Francia, tra gli anni Trenta e Cinquanta, si diffondono la fenomenologia e l’esistenzialismo, anche in reazione alle dominanti filosofie spiritualistiche o neokantiane. La «filosofia concreta» di Gabriel Marcel tenta di superare il dualismo cartesiano tra spirito e corpo e di recuperare il senso del mistero dell’essere. In costante rapporto con Husserl e con Heidegger (soprattutto quello di Essere e tempo), JeanPaul Sartre sostiene che l’esistenzialismo è un umanismo, e cioè una filosofia basata sull’impegno verso di sé e verso gli altri, il cui scopo è di rendere più umano il mondo. In questo quadro, assumono rilevanza le sue riflessioni sul rapporto tra per-sé (= la coscienza) e in-sé (= le cose), sul carattere conflittuale del rapporto tra l’io e l’altro (che Sartre definisce «l’io che non è me»), sulla libertà con cui l’uomo cerca sempre di trascendere la situazione in cui vive, scontrandosi però con la mancanza costitutiva del desiderio e con l’impossibilità di conciliare il per-sé con l’in-sé. Anche Maurice Merleau-Ponty parte da Husserl, di cui studia gli scritti inediti a Lovanio, per riscoprire il rapporto originario del corpo con il mondo-della-vita: le cose e gli altri si danno nella percezione, in cui coscienza e mondo formano un’unità indivisa, antecedente alla riflessione e alla formulazione delle teorie scientifiche. Secondo Merleau-Ponty, nel mondo della percezione l’intersoggettività si manifesta non come un conflitto tra coscienze, ma come una comunicazione originaria, in cui «il corpo altrui e il mio sono un tutto unico». A suo avviso, la libertà non può mai essere assoluta e, quindi, configurarsi – come sosteneva Sartre – nei termini di una nientificazione del mondo esistente o dei progetti intrapre-

si, giacché le scelte dell’uomo si situano sempre in un orizzonte di possibilità contingenti.

nulla Per Heidegger, il nulla non

è una particolare entità negativa, ma rappresenta la nullità degli enti, in particolare di quell’ente che è l’esserci. Quest’ultimo, infatti, non essendo altro che un campo di possibilità, avverte la propria indeterminatezza e vive nell’angoscia. Anche per Sartre il nulla appartiene all’essere dell’uomo in quanto per-sé. La coscienza (o per-sé), infatti, non è altro che negazione dell’essere in-sé (ossia di tutto ciò che non è per-sé: il mondo, le cose, gli altri, le situazioni date, ecc.): essa è, dunque, sempre aperta al possibile. In tal senso, la coscienza è libertà aperta all’indeterminato e al nulla.

libertà Per Sartre, la condizione fondamentale della coscienza è la libertà. Infatti è costitutivo della coscienza – che si esprime anche nella immaginazione e nelle emozioni – il trascendere continuamente verso altro, alla ricerca del proprio completamento, ma senza mai appagarsi nell’in-sé, ossia nelle cose nella loro opacità e nella loro presenza bruta. Essere libero significa decidere dei propri atti ed esserne totalmente responsabile: l’atto originario in cui la libertà si incarna è la scelta. La libertà di scelta, però, genera angoscia di fronte al possibile, che è indeterminato. Di qui nasce la tendenza a evadere dalla propria libertà e a reificarsi, ossia a ridursi a cosa tra le cose: è la malafede con cui si costruisce un’immagine fittizia di sé e si recita una parte. L’esistenza mira sempre a trascendere la situazione data, ma non può mai sottrarsi a una situazione: da questo punto di vista, la libertà è alienazione. L’uomo aspira a una totalità in cui si trovino conciliati l’in-sé e il per-sé, ossia progetta di

essere Dio. Ma Dio – come altro dall’uomo – è inattingibile e quindi l’uomo è un Dio mancato, «una passione inutile», che rende tutte le sue scelte assurde ed equivalenti.

percezione Per Husserl, la per-

cezione è il modo in cui una qualsiasi realtà (cosa o persona) ci è presente in originale, ossia «in carne ed ossa». Ad esempio, di un tavolo posso vedere ora un lato ora un altro a seconda della posizione nella quale mi trovo, eppure è sempre lo stesso tavolo che percepisco. Ciò significa che – nella percezione – ogni realtà è conosciuta come orizzonte (Horizon) unitario di profili (Abschattungen) parziali. In altre parole, non vedo mai un tavolo nella totalità delle sue prospettive, eppure lo percepisco come il polo unitario di infinite esplorazioni possibili, che lo determinano in modo sempre più completo. Dal canto suo, Merleau-Ponty ha indicato nella percezione non tanto il presupposto della costituzione dell’oggetto di conoscenza, quanto l’evento che attesta l’originaria inerenza del corpo alle cose, agli altri e al mondo. In tal senso, per Merleau-Ponty, la percezione è l’esperienza primordiale dell’uomo, lo sfondo ultimo – pre-categoriale e pre-oggettivo – da cui si staccano i suoi atti e il suo sapere. A partire dalla fine degli anni Cinquanta si afferma in Francia una reazione contro le filosofie (ad esempio, l’esistenzialismo e il marxismo) centrate sull’uomo in quanto protagonista dell’esistenza e della storia, al fine di mostrare come – al di sotto dei fenomeni sociali e culturali – siano all’opera strutture e processi impersonali che orientano inconsciamente il pensiero e il comportamento degli individui. Questa nuova corrente di pensiero, de-

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nominata strutturalismo, trova nella linguistica di Saussure il suo modello teorico e metodologico. Il presupposto di Saussure è, infatti, che la lingua sia un sistema di segni che si combinano tra loro secondo regole universali e determinate. Lévi-Strauss utilizza il modello fornito dalla linguistica per fondare l’antropologia strutturale, il cui scopo è di individuare la logica sottostante a tutti i sistemi di parentela e le regole che presiedono alla costruzione dei miti, al di là delle variazioni storiche ed empiriche. Dalle sue ricerche emerge che tutti i sistemi matrimoniali sono basati sulla proibizione dell’incesto e sul divieto dell’endogamia e che il mito è l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano: grazie ad esso, le società «primitive» cercano di stabilire dei sistemi di correlazione tra le condizioni naturali e quelle sociali, classificando i vari aspetti della realtà e introducendo un principio di ordine nell’universo. All’ambito dello strutturalismo possono essere riferite, nonostante le sue smentite, anche le ricerche di Michel Foucault, interessato a scoprire le strutture epistemologiche (inconsce e anonime) che caratterizzano le differenti epoche storiche. Foucault sostiene che l’uomo è un’invenzione recente e che occorre effettuare un’indagine archeologica sui rapporti tra sapere (= l’ordine del discorso) e potere (= i rapporti di forza) operanti all’interno di una determinata società. In questo quadro si inseriscono gli studi di Foucault sull’origine della psicopatologia e della medicina clinica, sull’istituzione di luoghi deputati al controllo totale (manicomi, carcere, esercito, ecc.), sulla storia della sessualità, intesa come strategia di assoggettamento dei corpi.

diacronia/sincronia Il termine diacronia è stato introdotto dal lin462

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guista Ferdinand de Saussure per indicare gli stati temporalmente successivi di una lingua e di singoli elementi di essa: essi costituiscono l’oggetto di un’analisi detta, appunto, diacronica. L’analisi sincronica considera, invece, lo stato di una lingua come sistema di elementi a prescindere dalla sua evoluzione e dalle sue modificazioni storiche. Gli strutturalisti hanno poi esteso tale distinzione a tutto l’ambito della cultura, non alla sola lingua. struttura Per Saussure la lingua, a prescindere dalla sua evoluzione e dalle sue modificazioni storiche, costituisce un sistema di segni collegati secondo regole che delimitano le combinazioni possibili. Riallacciandosi a questa concezione Lévi-Strauss sostiene che in tutte le forme di parentela c’è una struttura invariante rispetto a cui i vari sistemi di parentela non sono che trasformazioni, e di qui procede ad assumere come oggetto proprio dell’antropologia l’individuazione delle strutture che sottostanno ai fenomeni sociali e culturali. Una disposizione di parti è una struttura, quando è un sistema retto da una coesione interna determinata da regole logiche. Un fenomeno empirico, ossia singole società o produzioni culturali, è soltanto una delle combinazioni logicamente possibili di elementi. Per essere spiegato esso richiede, quindi, che si ricostruisca preliminarmente il sistema globale di cui esso è solo una variante, ossia la struttura. Le strutture non sono oggetto di descrizione empirica: a esse si può accedere soltanto attraverso la costruzione di modelli, ossia di sistemi di relazioni logiche tra elementi, che formano l’ossatura logica della realtà. In questo senso è compito dell’antropologia cogliere le strutture universali, atemporali e necessarie della realtà, al di là della superficie variabile degli eventi, che è sempre ingannevole. I fatti sociali hanno una natura psichica,

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sono sistemi di idee oggettivate, che nel loro insieme costituiscono lo spirito umano nella sua universalità, ma tali sistemi sono elaborazioni inconsce: l’antropologia studia appunto l’architettura logica dello spirito umano inconscio, al di là delle molteplici manifestazioni empiriche. morte dell’uomo Secondo Foucault, l’uomo come oggetto di sapere scientifico è un’invenzione del XIX secolo: esso, dunque, è stato generato nel quadro di una precisa epistème (= sistema implicito e inconscio di regole vigenti in una determinata epoca) e studiato nell’ambito dell’economia (per il lavoro), della biologia (per la vita) e della filologia (per il linguaggio). La concezione dell’uomo come fondamento della conoscenza e della verità è nata con Kant e ha governato il pensiero filosofico fino a Nietzsche: quest’ultimo, nel proclamare la morte di Dio, ha di fatto annunciato anche la morte dell’uomo, e cioè del modello antropologico occidentale, in base al quale esso sarebbe il protagonista dei propri pensieri e delle proprie azioni. In linea con le scoperte della linguistica, della psicoanalisi e dell’etnologia, Foucault intende mettere in luce i meccanismi inconsci che guidano i desideri dell’uomo, il suo linguaggio e i suoi comportamenti. In questo quadro, l’archeologia del sapere messa in atto da Foucault cerca di scoprire e di descrivere «i limiti e le forme di dicibilità» operanti in una determinata epoca: ogni società, infatti, stabilisce di che cosa è lecito parlare e quali sono le pratiche discorsive ammesse. Per Foucault, sapere e potere sono inscindibili: da una parte, ogni forma di sapere presuppone determinati rapporti di forza e precise strategie di assoggettamento, anonimi e diffusi in ogni angolo della società; dall’altra, ogni forma di potere genera determinate forme di sapere, selezionando il vero e il falso.

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i testi t42 Sartre / Il nulla e la libertà Sartre

L’essere e il nulla

parte prima, I, 5; parte quarta, I, 2

Pubblicato nel 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, da un Sartre reduce dalla prigionia tedesca, L’essere e il nulla diventerà il testo canonico dell’esistenzialismo francese del dopoguerra. In esso viene teorizzata la connessione tra esistenza e coscienza da un lato, e di libertà e nulla dall’altro. Sarà proprio questo secondo binomio a fornire il fondamento concettuale a un atteggiamento che andrà ben oltre la riflessione in ambito filosofico e investirà anche il costume di un’epoca.

Bisogna che il nulla sia dato nell’intimo dell’essere, perché si possa percepire quel tipo particolare di realtà che abbiamo chiamato negatività. Ma l’essere-in-sé non può produrre questo nulla intra-mondano: la nozione d’essere come piena positività non contiene il nulla come una delle sue strutture. E d’altra parte non si può dire che lo escluda: è senza rapporti con esso1. Di qui il problema che ci si pone ora con istanza particolare: se il nulla non può essere concepito né al di fuori dell’essere, né a partire dall’essere, e se, d’altra parte, essendo non-essere, non può trarre da sé la forza necessaria per «annullarsi», donde viene il nulla? Bisogna anzitutto riconoscere che non possiamo concedere al nulla la proprietà di «annullarsi». Perché, quantunque il vero «annullarsi» sia stato formulato per togliere al nulla la benché minima sembianza d’essere, bisogna am1. L’in-sé è l’essere nella sua presenza massiccia e opaca; in quanto tale, l’essere-in-sé è incompatibile con il nulla, poiché non può contenerlo entro di sé, né produrlo a partire da sé come qualcosa di distinto da sé, né essere in una qualche relazione con esso. In tutti questi casi, infatti, il nulla dovrebbe essere indipendentemente dall’essere, il che è assurdo. Si pone allora il problema di spiegare da che cosa scaturisca il nulla.

mettere che solo l’essere può annullarsi, perché, comunque, per annullarsi, bisogna essere. Ora, il nulla non è. Se possiamo parlarne, è perché possiede un’apparenza d’essere, un essere prestato, l’abbiamo già visto sopra. Il nulla non è, il nulla è stato; il nulla non si annulla, è annullato. Rimane dunque che deve esistere un essere – che non sarà l’in-sé – e che ha la proprietà di annullare il nulla, di sostenerlo col suo essere, di puntellarlo continuamente con la sua esistenza, un essere per cui il nulla sopravviene alle cose2. Ma come deve essere questo essere, in rapporto al nulla, perché il nulla venga alle cose per mezzo d’esso? Bisogna osservare subito che l’essere considerato non può essere passivo in rapporto al nulla, non può riceverlo; il nulla non potrebbe capitare a questo essere, se non per mezzo di un altro essere – il che ci rimanderebbe all’infinito. Ma, d’altra parte,

2. Il nulla non deve essere concepito come una cosa, perché in tal caso avrebbe consistenza, cioè essere. Il nulla è piuttosto il risultato di una operazione di annullamento, che conferisce al nulla stesso un’apparenza di essere. In quanto risultato di questa operazione, il nulla stesso è annullato, nel senso che è stato, non è al presente. Ciò significa, secondo Sartre, che il nulla riceve questa apparenza di essere

«in prestito» da un essere al quale compete questa prerogativa di poter annullare. Questo essere non può essere l’in-sé, che, come si è visto, è del tutto incompatibile con il nulla. Ma escluso l’in-sé, resta soltanto il per-sé, ossia la coscienza, che è propria dell’uomo: è attraverso la coscienza che il nulla viene al mondo.

i testi

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l’essere per cui il nulla viene al mondo, non può produrre il nulla, restando indifferente a questa produzione, come la causa stoica produce i suoi effetti senza alterarsi: è inconcepibile che un essere, che è piena positività, mantenga e crei al di fuori di sé un nulla d’essere trascendente, perché non c’è niente nell’essere per cui l’essere possa superarsi nel non-essere. L’essere per cui il nulla succede nel mondo, deve annullare il nulla nel suo essere, e correrebbe ancora il rischio di porre il nulla come un trascendente proprio nell’intimo dell’immanenza, se non annullasse il nulla nel suo essere, nei riguardi del suo essere. L’essere per cui il nulla si produce nel mondo è un essere nel quale, nel suo essere, si fa questione del nulla del suo essere: l’essere per cui il nulla viene al mondo deve essere il suo nulla3. [...] L’essere non può generare che l’essere e, se l’uomo è coinvolto in questo processo di generazione, non nascerà da esso che l’essere. Se egli deve essere in grado di formulare un’inchiesta su questo processo, cioè metterlo in questione, bisogna che lo possa tenere sotto lo sguardo come un insieme, cioè mettere se stesso, al di fuori dell’essere e nel medesimo tempo infirmare la struttura d’essere nell’essere. Tuttavia non è dato alla «realtà umana» d’annullare, anche provvisoriamente, la massa d’essere che le è posta di fronte. Può modificare invece i suoi rapporti con questo essere. Per essa, mettere fuori campo un particolare esistente, è porsi essa stessa fuori campo in rapporto a 3. Solo un essere, al quale si pone la questione della possibilità che il suo essere venga annullato, ossia un essere, che non solo corre continuamente il rischio di annullarsi, ma di fatto nella sua finitezza e incompiutezza trascende sempre il suo stesso essere, può dare origine al nulla. Si tratta cioè di un essere, la cui essenza non coincide mai con l’esistenza, ma è sempre oltre l’esistenza: per questo, l’esistenza è incessantemente condotta a oltrepassare e, quindi, a negare e annullare la situazione in cui di volta in volta si trova. Ciò comporta, secondo Sartre, che il nulla non è il prodotto necessario di una causa, che, come quella teorizzata dagli stoici, sostenitori di un determinismo universale, resti indifferente rispetto ai

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questo esistente. In questo caso essa gli sfugge, si è messa fuori portata, si è ritirata al di là di un nulla4. A questa possibilità della realtà umana di produrre un nulla che la isoli, Cartesio, dopo gli Stoici, ha dato un nome: libertà. Ma la libertà non è che una parola. Se vogliamo penetrare più a fondo la questione, non dobbiamo accontentarci di questa risposta, e dobbiamo domandarci subito: Che cosa è la libertà umana se per mezzo suo il nulla viene al mondo? [...] Le osservazioni che abbiamo fatto fin qui mostrano chiaramente che la libertà non è una facoltà dell’anima umana che possa essere vista e descritta isolatamente. Cercavamo di definire l’essere dell’uomo in quanto condiziona l’apparizione del nulla e questo essere ci è apparso come libertà. Così la libertà, come condizione richiesta all’annullamento del nulla, non è una proprietà che apparterrebbe, fra le altre, all’essenza dell’essere umano. Abbiamo già notato, d’altronde, che il rapporto dell’esistenza con l’essenza dell’uomo non è paragonabile a ciò che si verifica nelle cose del mondo. La libertà umana precede l’essenza dell’uomo e la rende possibile, l’essenza dell’essere umano è in sospeso nella sua libertà. È dunque impossibile distinguere ciò che chiamiamo libertà dall’essere della «realtà umana». L’uomo non è affatto prima, per essere libero dopo, non c’è differenza fra l’essere dell’uomo e il suo esserelibero5. [...] Io mi scelgo continuamente e non posso mai es-

suoi risultati. Il nulla, invece, è qualcosa che al tempo stesso deve essere continuamente vinto; altrimenti ne andrebbe dell’esistenza stessa. 4. L’in-sé, in quanto essere nella sua massiccia presenza, è qualcosa che non può essere annullato, tanto meno da parte dell’uomo. Ciò su cui l’uomo può agire sono soltanto i propri rapporti con l’essere, nel senso che può sottrarsi a essi, isolandosi attraverso un’operazione di annullamento di ciò che si trova contrapposto e, quindi, portandosi fuori dalla sfera di questo nulla. In ciò consiste, per Sartre, la libertà: egli riprende dagli stoici e da Cartesio la concezione della libertà come autodeterminazione e la interpreta nel senso

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della possibilità di compiere operazioni di annullamento dei rapporti con l’essere-in-sé, le quali lo conducono incessantemente a trascendere la situazione di volta in volta data. 5. Sartre esclude che la libertà possa essere concepita come una facoltà o una proprietà dell’essere umano. Ciò, infatti, presupporrebbe che un’essenza dell’uomo anteceda la sua esistenza e che da tale essenza dipenda questa facoltà o proprietà. Il modo di essere dell’uomo è, invece, caratterizzato dal fatto che l’esistenza precede l’essenza: ciò significa che l’essenza, ciò che l’uomo propriamente è, non è un dato di cui l’uomo sarebbe in possesso sin dall’inizio. L’essenza, quindi, non appartie-

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sere a titolo di essendo-stato-scelto, altrimenti ricadrei nella pura e semplice esistenza dell’insé. La necessità di scegliermi continuamente non fa che un tutto unico con l’inseguimentoinseguito che io sono6. Ma, precisamente perché si tratta di una scelta, questa scelta nella misura in cui agisce, indica in generale altre scelte come possibili. La possibilità di queste altre scelte non è né spiegata né posta, ma è vissuta nel sentimento di ingiustificabilità e si esprime con l’assurdità della mia scelta e, di conseguenza, del mio essere. Così la mia libertà rode la mia libertà. Essendo libero, infatti, io progetto il mio possibile totale, ma con ciò pongo che sono libero e che posso sempre annullare il progetto iniziale e renderlo passato. Così, nel momento in cui il per-sé pensa di cogliersi e di farsi annunciare ciò che è da un nulla pro-gettato, si

ne all’uomo come una cosa o una proprietà, ma è ciò verso cui egli è sempre orientato. È per questo che l’esistenza umana è libertà: se nell’uomo l’essenza precedesse l’esistenza, ossia se l’essenza di che cosa vuol dire essere propriamente uomo fosse già da sempre fissata in anticipo, l’uomo non sarebbe libero. La libertà, allora, non è qualcosa che viene ad aggiungersi al modo di essere dell’uomo, ma è questo stesso modo di essere. Non essendo un dato o una proprietà predeterminata, la libertà può essere soltanto scegliendosi: essa non è un potere indeterminato antece-

sfugge perché pone con ciò stesso che egli può essere altro da ciò che è. Gli basterà di spiegare la sua ingiustificabilità per far sorgere l’istante, cioè l’apparizione di un nuovo progetto sulla scomparsa di quello vecchio. GUIDA ALLA LETTURA 1. Come risponde Sartre alla domanda «donde viene il nulla»? Evidenzia sul testo la risposta a questa domanda. 2. Qual è, secondo Sartre, l’essere che si pone la questione del nulla? 3. Perché, secondo Sartre, la libertà non è una facoltà o una proprietà dell’essere umano? 4. Perché, verso la fine del brano, Sartre dichiara che «la mia libertà rode la mia libertà»? 5. Che cos’è l’istante?

dente alla scelta, ma coincide con la scelta che è sempre in procinto di farsi. Questa scelta, secondo Sartre, è sempre incondizionata, detta a se stessa i suoi motivi, non li desume da altro. 6. La scelta, in quanto carattere costitutivo della libertà umana, non si esaurisce mai in ciò che si è scelto, perché in questo caso l’essere umano, il persé, si trasformerebbe nella presenza opaca e massiccia dell’in-sé, ossia diventerebbe una cosa presente accanto alle altre, non più trascendente rispetto al mondo e alle situazioni date. In questo senso, l’uomo non può decidere di

scegliere o di non scegliere; anche il non scegliere è una scelta e quindi l’uomo è sempre necessariamente implicato in una scelta, ossia sempre oltre la situazione di fatto. D’altra parte, la scelta si configura sempre come scelta di una possibilità tra altre e ciò, secondo Sartre, rende assurda qualsiasi scelta. Il progetto che orienta la scelta è di realizzare se stessi, ma ciò comporta l’affermazione della propria libertà e, quindi, la possibilità di annullare il vecchio progetto per farne uno nuovo, senza mai arrestarsi.

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t43 Merleau-Ponty / Corpo, percezione e intersoggettività Merleau-Ponty

Fenomenologia della percezione

parte seconda, IV

Dell’opera più rilevante di Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, si riporta un passo nel quale si mostra il carattere necessariamente intersoggettivo della percezione, che rimanda a un mondo comune e unico, a cui tutti partecipiamo. D’altra parte, la percezione è intrinsecamente saldata alla corporeità, ma non nel senso di richiedere come supporto e sostrato un corpo inteso come semplice aggregato chimico di elementi. Secondo Merleau-Ponty, infatti, il corpo è «potenza di certi comportamenti» e, quindi, è costitutivamente intrecciato al mondo attraverso la percezione, la quale, a sua volta, non è possibile senza una presa di posizione nello spazio attraverso il corpo, sicché «la teoria del corpo è già una teoria della percezione»: corpo proprio e mondo percepito si saldano nell’unità dell’atto percettivo.

Io ho il mondo come individuo incompiuto attraverso il mio corpo come potenza1 di questo mondo, e ho la posizione degli oggetti tramite quella del mio corpo, o viceversa la posizione del mio corpo tramite quella degli oggetti, non in una implicazione logica, non nello stesso modo in cui si determina una incognita in base alle sue relazioni oggettive con grandezze date, ma in una implicazione reale, e perché il mio corpo è movimento verso il mondo, perché il mondo è punto d’appoggio del mio corpo. L’ideale del pensiero oggettivo – il sistema dell’esperienza come fascio di correlazioni fisico-matematiche – è fondato sulla mia percezione del mondo come individuo che concorda con se stesso, e quando la scienza cerca di integrare il mio corpo alle relazioni del mondo oggettivo, lo fa perché a modo suo tenta di tradurre la sutura del mio corpo fenomenico sul mondo primordiale2. Nello stesso tempo in cui il corpo si ritira dal mondo oggettivo e viene a formare un terzo genere d’essere fra il puro soggetto e l’oggetto, il soggetto perde la sua 1. Nel senso aristotelico di potenziali-

tà: l’individuo, attraverso il suo corpo, è potenzialmente il mondo, non è qualcosa al di fuori del mondo. Nell’atto percettivo esperienza del proprio corpo ed esperienza del mondo coincidono, sicché individuo e mondo non sono due entità che esistono separatamente l’una rispetto all’altra e solo successivamente entrano in relazione tra loro. 2. Merleau-Ponty si riallaccia alla concezione di Husserl, elaborata soprattutto nella Crisi delle scienze europee, secondo cui tra il mondo della vita e le

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purezza e la sua trasparenza. Degli oggetti sono di fronte a me, formano sulla mia retina una certa proiezione di se stessi e io li percepisco. Non ci sarà più motivo di isolare, nella mia rappresentazione fisiologica del fenomeno, le immagini retiniche e il loro corrispondente cerebrale dal campo totale, attuale e virtuale in cui questi oggetti appaiono. L’evento fisiologico non è se non il disegno astratto dell’evento percettivo. Allo stesso modo, non potremo realizzare sotto il nome di immagini psichiche delle vedute prospettiche discontinue che corrisponderebbero alle immagini retiniche successive, né infine introdurre una «ispezione dello spirito» che restituisca l’oggetto al di là delle prospettive deformanti. Dobbiamo concepire le prospettive e il punto di vista come il nostro inserimento nel mondo-individuo, e la percezione non più come una costituzione dell’oggetto vero, ma come la nostra inerenza alle cose3. Con i campi sensoriali e con il mondo come campo di tutti i campi la coscienza scopre in se stessa l’opacità di un passato origina-

categorie del pensiero scientifico esiste continuità , in quanto le scienze possono edificarsi solo sulla base delle strutture pre-categoriali del mondo della vita. 3. La percezione non è un’operazione compiuta dall’esterno da parte di un soggetto nei confronti di un oggetto distinto da esso, ma è la dimensione originaria del rapporto costitutivo, mediato dal corpo, tra individuo e mondo. Nel momento in cui io mi rendo conto che questa esperienza originaria della percezione del mondo è correlata alla

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coscienza, allora non è più un problema, secondo Merleau-Ponty, che la percezione dell’altro rimandi a quest’altro in quanto dotato anch’esso di coscienza. In tal caso, la coscienza può, infatti, formulare questo ragionamento ipotetico: se la mia coscienza ha un corpo, allora anche gli altri corpi simili al mio, da me percepiti, hanno coscienza. Il presupposto è che esiste una connessione inscindibile tra corpo e coscienza, la quale richiede che essi vengano considerati non isolatamente, ma nel loro interagire.

Husserl Il mondo-della-vita e le scienze

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rio. Se esperisco questo inerire della mia coscienza al suo corpo e al suo mondo, la percezione dell’altro e la pluralità delle coscienze non presentano più difficoltà. Se, per me che rifletto sulla percezione, il soggetto percipiente appare fornito di un montaggio primordiale nei confronti del mondo, se appare trascinante dietro di sé questa cosa corporea senza la quale per lui non ci sarebbero altre cose, perché mai gli altri corpi che percepisco non dovrebbero, a loro volta, essere abitati da coscienze? Se la mia coscienza ha un corpo, perché gli altri corpi non «avrebbero» delle coscienze? Evidentemente, ciò presuppone che il concetto di corpo e quello di coscienza vengano profondamente trasformati. Per quanto concerne il corpo, e anche il corpo altrui, dobbiamo imparare a distinguerlo dal corpo oggettivo quale lo descrivono i libri di fisiologia. Quest’ultimo non può essere abitato da una coscienza. Dobbiamo cogliere sui corpi visibili i comportamenti che vi si delineano, che vi fanno la loro apparizione, ma che non vi sono realmente contenuti. Non si riuscirà mai a spiegare come il significato e l’intenzionalità possano abitare degli edifici di molecole o degli ammassi di cellule, e in ciò il cartesianismo ha ragione4. Ma non si tratta certo di accingerci a un’impresa così assurda. Si tratta solo di riconoscere che, come edificio chimico o insieme di tessuti, il corpo è formato per impoverimento a partire da un fenomeno primordiale del corpoper-noi, del corpo dell’esperienza umana o del corpo percepito, che il pensiero oggettivo investe, ma di cui non ha da postulare l’analisi compiuta. Per quanto concerne la coscienza, 4. La pura e semplice descrizione del

corpo in termini fisici, come aggregato di particelle, non può rendere conto del legame originario del corpo con la coscienza e, quindi, del fatto che il corpo, nei suoi comportamenti, è portatore di significati e di intenzioni. In questo senso Cartesio, secondo Merleau-Ponty, aveva ragione nel non ridurre il piano della coscienza a quello fisico. Ciò non significa, però, che Merleau-Ponty accolga il dualismo cartesiano mentecorpo: a suo avviso, si tratta invece di un intreccio inscindibile. Rispetto a

dobbiamo concepirla non più come una coscienza costituente e come un puro essere-persé5, ma come una coscienza percettiva, come il soggetto di un comportamento, come essere al mondo o esistenza, giacché solamente così l’altro potrà apparirmi al culmine del suo corpo fenomenico e ricevere una specie di «località». A queste condizioni, le antinomie del pensiero oggettivo scompaiono. Grazie alla riflessione fenomenologica io trovo la visione, non come «pensiero di vedere», secondo l’espressione di Cartesio, ma come sguardo in presa su un mondo visibile: ecco perché per me può esserci uno sguardo altrui, perché quello strumento espressivo che chiamiamo un volto può essere portatore di un’esistenza nello stesso modo in cui la mia esistenza è portata dall’apparato conoscitivo che è il mio corpo. [...] Qualcuno si serve dei miei oggetti familiari. Ma chi? Io dico che è un altro, un secondo me stesso e in primo luogo lo so perché questo corpo vivente ha la medesima struttura del mio. Esperisco il mio corpo come potenza di certi comportamenti e di un certo mondo, non sono dato a me stesso se non come una certa presa sul mondo; orbene, è appunto il mio corpo a percepire il corpo dell’altro: esso vi trova come un prolungamento miracoloso delle sue proprie intenzioni, una maniera familiare di trattare il mondo. Ormai, come le parti del mio corpo formano insieme un sistema, così il corpo altrui e il mio sono un tutto unico, il rovescio e il diritto di un solo fenomeno; l’esistenza anonima, di cui il mio corpo è in ogni momento la traccia, abita contemporaneamente questi due corpi. Ciò costituisce sol-

ciò l’analisi del corpo come entità fisica a sé stante, compiuta dalle scienze fisiologiche, è un’astrazione, ma anche questa operazione di isolamento è possibile solo sulla base dell’esperienza originaria di questa connessione tra corpo e coscienza. 5. Emerge qui chiaramente il distacco di Merleau-Ponty da Sartre, che aveva opposto il per-sé, la coscienza, all’in-sé, il mondo inteso come semplice presenza opaca e massiccia, ostile e impenetrabile alla coscienza. Secondo Merleau-Ponty, invece, la coscienza, in

quanto coscienza percettiva, è costitutivamente essere nel mondo ed essere al mondo, che pertanto non si contrappone a essa come qualcosa di totalmente altro. Come rifiuta il punto di vista che isola il corpo dalla coscienza, così egli rifiuta di isolare la coscienza dal mondo. Ciò gli consente, tra l’altro, di evitare ogni pericolo di solipsismo e di ogni teorizzazione dell’impossibilità di comprendere gli altri. Corpo e percezione sono costitutivamente intersoggettivi, aperti agli altri, come sono aperti al mondo.

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tanto un altro vivente e non ancora un altro uomo. Ma questa vita estranea, come la mia con la quale comunica, è una vita aperta. Essa non si esaurisce in un certo numero di funzioni biologiche o sensoriali, ma si annette degli oggetti naturali sottraendoli al loro senso immediato, si costruisce degli utensili, degli strumenti, si proietta nell’ambiente in oggetti culturali. Nascendo, il fanciullo li trova attorno a sé come aeroliti provenienti da un altro pianeta. Ne prende possesso, impara a servirsene come se ne servono gli altri: infatti, lo schema corporeo assicura la corrispondenza immediata fra ciò che vede fare e ciò che fa, e in questo modo l’utensile viene precisandosi come un manipulandum determinato e l’altro come un

centro d’azione umana. In particolare, c’è un oggetto culturale che esplicherà una funzione essenziale nella percezione dell’altro: il linguaggio. GUIDA ALLA LETTURA 1. Che differenza c’è tra pensiero oggettivo e percezione del mondo? 2. Come vanno trasformate le nozioni di corpo e di coscienza, se vogliamo descrivere adeguatamente la nostra esperienza del mondo e di noi stessi? 3. In quali occasioni Merleau-Ponty cita Cartesio nel testo? 4. Che rapporto c’è tra il (mio) corpo proprio e il corpo dell’altro?

t44 Foucault / Il potere Foucault

La volontà di sapere

La volontà di sapere (1976) inaugura una nuova fase delle indagini di Foucault, incentrata sul tema della sessualità. Dalla fase precedente, essa eredita il taglio, perché non si presenta come storia dei comportamenti sessuali, bensì come tentativo di risposta a un quesito epistemologico: «In che modo questi comportamenti sono diventati oggetto di sapere?». Si tratta, dunque, di cogliere in primo luogo la genesi di un sapere, ma, al tempo stesso, gli effetti di coercizione prodotti da questo stesso sapere. In questo senso, ancora una volta, come nelle precedenti indagini, il tema del sapere risulta strettamente intrecciato a quello del potere. Non a caso, proprio in La volontà di sapere, Foucault fornisce in alcune pagine, qui riportate, una delle analisi più chiare del concetto di potere, quale egli lo intende.

Analizzare la formazione di un certo tipo di sapere sul sesso non in termini di repressione o di legge, ma di potere. Questa parola «potere» rischia, però, di dar luogo ad un certo numero di malintesi. Malintesi relativi alla sua identità, alla sua forma, alla sua unità. Con potere non voglio dire «il Potere», come insieme d’istituzioni e di apparati che garantiscono la sottomissione dei cittadini in uno Stato determinato. Con potere, non intendo nemmeno un 468

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tipo di assoggettamento, che in opposizione alla violenza avrebbe la forma della regola. Né intendo, infine, un sistema generale di dominio esercitato da un elemento o da un gruppo su un altro, ed i cui effetti, con derivazioni successive, percorrerebbero l’intero corpo sociale. L’analisi in termini di potere non deve postulare, come dati iniziali, la sovranità dello Stato, la forma della legge o l’unità globale di una dominazione, che ne sono solo le forme

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ultime1. Con il termine potere mi sembra che si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema, o, al contrario, le differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie infine in cui realizzano i loro effetti, ed il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali. La condizione di possibilità del potere, o comunque il punto di vista che permette di rendere intelligibile il suo esercizio, fin nei suoi effetti più «periferici», e che permette anche di utilizzare i suoi meccanismi come griglia d’intelligibilità del campo sociale, non bisogna cercarla nell’esistenza originaria di un punto centrale, in un centro unico di sovranità dal quale si irradierebbero delle forme derivate e discendenti2; è la base mobile dei rapporti di forza che inducono senza posa, per la loro disparità, situazioni di potere, ma sempre locali ed instabili. Onnipresenza del potere: non perché avrebbe il privilegio di raggruppare tutto sotto la sua invincibile unità, ma perché si produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione fra un punto ed un altro. E «il» potere, in quel che ha di permanente, di ripetitivo, d’inerte, di autoriproduttore, non è che l’effetto d’insieme che si delinea a partire da tutte queste mobilità, la concatenazione che si appoggia su ciascuna di esse e cerca a sua volta di fissarle. 1. Foucault non accoglie le interpretazioni più diffuse del potere, che tendono a collocarlo in luoghi riconosciuti, nello Stato o nella legge o nel dominio di determinate classi, indipendentemente dall’esercizio violento o non violento del potere stesso. Per Foucault, il potere non occupa un unico luogo privilegiato, né dipende da un unico soggetto, identificabile una volta per tutte, ma è anonimamente diffuso ovunque, in quanto coincide con la molteplicità dei rapporti di forza, che variamente

Bisogna probabilmente essere nominalisti: il potere non è un’istituzione, e non è una struttura, non è una certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data. [...] In questa linea, si potrebbero avanzare un certo numero di proposizioni: – che il potere non è qualcosa che si acquista, si strappa o si condivide, qualcosa che si conserva o che si lascia sfuggire; il potere si esercita a partire da innumerevoli punti, e nel gioco di relazioni disuguali e mobili; – che le relazioni di potere non sono in posizione di esteriorità nei confronti di altri tipi di rapporti (processi economici, rapporti di conoscenza, relazioni sessuali), ma che sono loro immanenti; sono gli effetti immediati delle divisioni, delle ineguaglianze e dei disequilibri che vi si producono, e sono reciprocamente le condizioni interne di queste differenziazioni; le relazioni di potere non sono in posizione di sovrastruttura, come un semplice ruolo di proibizione o di riproduzione; hanno, là dove sono presenti, un ruolo direttamente produttivo; – che il potere viene dal basso; cioè che non c’è, all’origine delle relazioni di potere, e come matrice generale, un’opposizione binaria e globale fra i dominanti ed i dominati, dualità che si ripercuoterebbe dall’alto in basso, e su gruppi sempre più ristretti fin nelle profondità del corpo sociale. Bisogna immaginare piuttosto che i rapporti di forza molteplici che si for-

s’intrecciano e si contrappongono. Gli apparati statali, le formulazioni di leggi, le egemonie sociali sono soltanto effetti e manifestazioni, sul piano istituzionale, di questi rapporti e strategie diffuse di potere. 2. Ciò significa che il potere, da una parte, è decentrato e si distribuisce in una pluralità di centri mobili, manifestandosi in una molteplicità di situazioni sempre instabili, e, dall’altra, è onnipresente in tutti gli aspetti della vita sociale. Foucault respinge ogni identifi-

cazione unilaterale del potere non solo con le istituzioni, ma anche con una qualsiasi struttura, se per struttura s’intende qualcosa di permanente, stabile e omogeneamente caratterizzato: il potere non ha la solidità di una cosa o di una proprietà essenziale di una cosa. Affermando che «potere» è soltanto un nome per designare una situazione, Foucault ne sottolinea il carattere di mutevolezza e instabilità.

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mano ed operano negli apparati di produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni, servono da supporto ad ampi effetti di divisione che percorrono l’insieme del corpo sociale. Questi effetti costituiscono una linea di forza generale che attraversa gli scontri locali e li collega; certo, a loro volta, questi procedono su quelli a delle ridistribuzioni, a degli allineamenti, a delle omogeneizzazioni, a delle disposizioni in serie e a delle convergenze. Le grandi dominazioni sono gli effetti egemonici sostenuti continuamente dall’intensità di tutti questi scontri; – che le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive. Se, infatti, sono intelligibili, non è perché sarebbero l’effetto, in termini di causalità, di un’altra istanza che le «spiegherebbe», ma è perché sono attraversate, da parte a parte, da un calcolo: non c’è potere che si eserciti senza una serie di intenti e di obiettivi. Ma questo non vuol dire ch’esso risulti dalla scelta o dalla decisione di un soggetto individuale; non mettiamoci a cercare lo stato maggiore che presiede alla sua razionalità; né la casta che governa, né i gruppi che controllano gli apparati dello Stato, né quelli che prendono le decisioni economiche più importanti gestiscono l’insieme della trama di potere che funziona in una società (e la fa funzionare); la razionalità del potere è quella di tattiche, spesso molto esplicite al livello limitato in cui s’iscrivono – cinismo locale del potere –, che, connettendosi le une alle altre, implicandosi e propagandosi, trovano altrove la loro base e la loro condizione, delineano alla fine dei dispositivi d’insieme: qui la logica è ancora perfettamente chiara, gli intenti decifrabili, eppure può darsi che non ci sia nessu3. Foucault fa propria la tesi, presente

per esempio anche in Sartre, secondo cui l’incontro e la somma delle scelte e delle decisioni individuali produce effetti che vanno oltre gli obiettivi perseguiti individualmente. Da esse si originano, dunque, relazioni di potere, che hanno sì la loro origine in queste intenzioni e scelte individuali, le quali si rendono intelligibili e spiegabili, ma al

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no che li abbia concepiti e ben pochi che li abbiano formulati: carattere implicito delle grandi strategie anonime, quasi mute, che coordinano tattiche loquaci, i cui «inventori» o responsabili sono spesso senza ipocrisia3; – che là dove c’è potere c’è resistenza e che tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. Bisogna dire che si è necessariamente «dentro» il potere, che non gli si «sfugge», che non c’è, rispetto ad esso, un’esteriorità assoluta, perché si sarebbe immancabilmente soggetti alla legge? O che, se la storia è l’astuzia della ragione, il potere sarebbe a sua volta l’astuzia della storia – ciò che vince sempre? Vorrebbe dire misconoscere il carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere. Essi non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere. Non c’è dunque rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto – anima della rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per definizione, non possono esistere che nel campo strategico delle relazioni di potere4. Ma questo non vuol dire che ne siano solo la conseguenza, il segno in negativo, che costituisce, rispetto alla dominazione essenziale, un rovescio in fin dei conti sempre passivo, destinato indefinitamente alla sconfitta. Le resistenze non dipendono da un

tempo stesso vanno oltre queste intenzioni, non sono puramente soggettive. Ciò significa che l’insieme delle relazioni di potere operanti entro una società a tutti i suoi livelli (economico, politico, familiare, culturale e così via) non è nelle mani di qualche detentore privilegiato, individuo o gruppo, ma è diffuso anonimamente ovunque. 4. Il potere non ha un centro unico e,

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come molteplici e diffusi sono i luoghi del potere, così molteplici e diffusi sono i luoghi di resistenza al potere. Le nozioni di resistenza e di potere sono, secondo Foucault, correlative, nel senso che il potere si esercita sempre contro qualcuno o qualcosa, che rappresenta, nella relazione di potere, il polo che resiste a esso e che va pertanto soggiogato.

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qualche principio eterogeneo; ma non sono nemmeno illusione o promessa necessariamente delusa. Sono l’altro termine nelle relazioni di potere, vi s’iscrivono come ciò che sta irriducibilmente di fronte a loro. Sono dunque, anch’esse, distribuite in modo irregolare; i punti, i nodi, i focolai di resistenza sono disseminati con maggiore o minore densità nel tempo e nello spazio, facendo insorgere talvolta gruppi o individui in modo definitivo, accendendo improvvisamente certi punti del corpo, certi momenti della vita, certi tipi di comportamento. Grandi rotture radicali, divisioni binarie e massicce? Talvolta. Ma molto più spesso si ha a che fare con punti di resistenza mobili e transitori, che introducono in una società separazioni che si spostano, rompendo unità e suscitando raggruppamenti, marcando gl’individui stessi, smembrandoli e rimodellandoli, tracciando in loro, nel loro corpo e nella loro anima, regioni irriducibili. Come la trama delle relazioni di potere finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni senza localizzarsi

esattamente in essi, così la dispersione dei punti di resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. Ed è probabilmente la codificazione strategica di questi punti di resistenza che rende possibile una rivoluzione, un po’ come lo Stato riposa sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia con due colori differenti le definizioni di potere che Foucault esclude e quella che, invece, gli sembra più appropriata. 2. Che cosa intende Foucault quando parla di «onnipotenza del potere»? 3. Qual è il significato della seguente affermazione di Foucault: «le relazioni di potere sono contemporaneamente intenzionali e non soggettive»? 4. In che modo, all’interno delle relazioni di potere, si producono delle resistenze? 5. Qual è la metafora della quale Foucault si serve per definire la trama delle relazioni di potere?

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esercizi/15 CHE COSA SO?

11. Qual è, secondo Sartre, la funzione dell’immaginazione?

GUIDA ALLO STUDIO DEL MANUALE

12. Perché, secondo Sartre, il nulla appartiene all’essere per-sé?

1. Evidenzia le definizioni di in-sé e di per-sé date da Sartre in L’essere e il nulla. 2. Evidenzia i punti di contatto tra Sartre e Hegel in relazione alla dialettica della storia. 3. Evidenzia in che modo Merleau-Ponty cerca di superare il dualismo cartesiano. 4. Evidenzia il legame che, secondo Saussure, intercorre tra significante e significato. 5. Evidenzia i contributi alla linguistica dei maggiori esponenti del Circolo linguistico di Praga. 6. Evidenzia la logica che, secondo Lévi-Strauss, si trova alla base del pensiero mitico. 7. Evidenzia in che modo le teorie di Nietzsche hanno influito sull’archeologia del sapere di Foucault. 8. Evidenzia le espressioni che definiscono il concetto di «postmoderno». Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti: Mistero (Marcel) • nulla (Sartre) • malafede (Sartre) • psicoanalisi esistenziale (Sartre) • percezione (Merleau-Ponty) • sincronia/diacronia (Saussure) • pensiero selvaggio (Lévi-Strauss) • epistème (Foucault)

13. Perché, secondo Sartre, i rapporti fra l’io e l’altro sono necessariamente conflittuali? 14. Perché, secondo Sartre, l’uomo «è un Dio mancato»? 15. Illustra la concezione del rapporto fra l’io e l’altro elaborata da Merleau-Ponty. 16. Che differenza c’è, secondo Saussure, tra lingua e parola? 17. In che rapporto devono stare, secondo Saussure, la linguistica e la semiologia? 18. Qual è l’obiettivo dell’antropologia strutturale messa a punto da Lévi-Strauss? 19. Quali sono i due principali sistemi matrimoniali individuati da Lévi-Strauss? 20. Che cosa intende dire Foucault con l’espressione «l’uomo è morto»? 21. Quali sono, secondo Foucault, gli ambiti in cui appare strutturata la società disciplinare? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe)

CHE COSA HO CAPITO?

22. Metti a confronto le contrapposte nozioni di essere e avere, formulate da Marcel, e quelle teorizzate da Fromm.

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)

23. Definisci la relazione che intercorre, in Sartre, tra le nozioni di immaginazione, libertà e nulla.

10. Quali sono, secondo Marcel, i caratteri della nostra esistenza concreta?

24. Perché Sartre sostiene che l’uomo è «condannato a essere libero»?

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esercizi/15 25. Ricostruisci la relazione fra libertà, valore e progetto che Sartre teorizza.

30. Perché la concezione della lingua di Saussure è alla base dello strutturalismo?

26. In che cosa consiste, secondo Sartre, il passaggio dal gruppo in fusione alla serie?

31. A che cosa servono i miti, secondo LéviStrauss?

27. Confronta la nozione sartriana di dialettica come prassi con quella merleau-pontiana di iperdialettica.

32. Illustra la differenza tra società calde e società fredde, formulata da Lévi-Strauss.

28. In che modo Merleau-Ponty critica le nozioni sartriane di nulla e di libertà assoliuta? 29. Illustra le affinità e le differenze tra la fenomenologia husserliana e quella di Merleau-Ponty.

esercizi/15

33. Qual è la relazione che Foucault ritrova fra potere e discorso? 34. In quali opere e come Foucault cerca di recuperare un discorso sul soggetto, che altrove ha sempre combattuto?

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adeguatamente la matematica, in particolare solo la logica delle relazioni può rendere conto delle operazioni del contare, mentre i numeri naturali e, quindi, tutte le nozioni fondamentali dell’aritmetica sono definibili in termini di classe. Egli scopre però che il concetto di classe può dar luogo ad antinomie, per risolvere le quali elabora la teoria dei tipi. russell: il problema della conoscenza

16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein i contenuti frege: senso e significato

A partire dall’Ottocento si pone il problema del rigore grazie al quale salvaguardare la validità universale del sapere matematico. Il problema di partenza di Frege è definire i concetti aritmetici in termini logici: a tale scopo non è utilizzabile il linguaggio comune, in quanto poco preciso, ma occorre una ideografia – ossia un linguaggio composto di simboli scritti che seguono determinate

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regole di formazione e trasformazione. Egli richiama l’attenzione sul fatto che due proposizioni possono avere lo stesso significato, ossia riferirsi allo stesso oggetto, ma avere sensi diversi, parlarne in modo diverso. Il significato di una proposizione consiste nel suo valore di verità, ossia nella circostanza che essa sia vera o falsa. russell: la fondazione logica della matematica

Anche per Russell soltanto la logica formale può fondare

16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein

Accanto alla conoscenza diretta dei dati della percezione sensibile egli pone una conoscenza per descrizione: tale è, per esempio, quella degli oggetti fisici, conosciuti per inferenza a partire dai dati percettivi. Su questa base egli riafferma la validità della conoscenza scientifica, che non deve ipotizzare oggetti fisici come qualcosa di distinto dai nostri dati sensibili. l’atomismo logico di russell e di wittgenstein

In seguito a discussioni con Wittgenstein, Russell elabora la filosofia dell’atomismo logico. In base a essa, la totalità del mondo è costituita di fatti atomici, che hanno come ingredienti i dati sensibili e gli universali; a essi corrispondono proposizioni atomiche, dalla cui combinazione mediante i connettivi o costanti logiche si formano le proposizioni molecolari. Anche per Wittgenstein il mondo è la totalità dei fatti, che sono il sussistere di uno stato di cose, ossia di combinazioni possibili tra gli oggetti che costituiscono il mondo. Come non si può pensare un oggetto semplice se non in connessione possibile con altri oggetti, così i nomi hanno senso solo entro una proposizione. Le proposizioni raffigurano stati di cose, cioè ne esibiscono l’identità di forma, come un modellino o un plastico rispetto a ciò che rappresenta. Per accertare la verità o falsità di una proposizione occorre dunque confrontarla coi fatti: tale procedura è la verificazione.

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wittgenstein e i limiti del linguaggio

dal linguaggio formale al linguaggio come uso

il nuovo compito della filosofia

Ma accanto a proposizioni che raffigurano fatti e possono essere vere o false, ci sono proposizioni sempre false, le contraddizioni, e proposizioni sempre vere, le tautologie. Tutte le proposizioni della logica e della matematica, secondo Wittgenstein, sono tautologie. Invece gli enunciati della filosofia (metafisica, etica, estetica) hanno solo l’apparenza di proposizioni, non sono né fattuali, né tautologie: essi nascono dai tentativi di oltrepassare i limiti del linguaggio, cioè del mondo. Ma ciò che è oltre il linguaggio è appunto ciò che non può essere detto.

Per Wittgenstein la pretesa di fondare la matematica sulla logica genera l’illusione che esista un linguaggio ideale perfetto. In realtà esiste una pluralità di giochi linguistici, che nascono e scompaiono e sono fondati su regole convenzionali che prescrivono o vietano certe mosse. I vari modi di parlare fanno parte della storia naturale degli uomini e appartengono alle forme di vita in cui essa si articola. Il significato di una parola o espressione consiste allora nell’uso che si fa di essa nella vita.

Caduto il mito di un linguaggio unico perfetto, la filosofia non può arrogarsi il compito di correggere le ambiguità del linguaggio comune, ma può invece esercitare una sorta di terapia linguistica delle malattie, che proprio la tradizione filosofica ha introdotto nel linguaggio. I problemi filosofici nascono, infatti, da sgrammaticature compiute a discapito degli usi linguistici consueti.

gli strumenti in poche… parole nome proprio / descrizione / atomismo logico / giochi linguistici / significato

approfondimenti

i testi a. nel manuale t45 Russell/L’atomismo logico t46 Wittgenstein/L’etica, il mistico e la filosofia t47 Wittgenstein/Significato e giochi linguistici

Logica e matematica nell’Ottocento

esercizi

Filosofie della matematica

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

b. on-line Frege/Senso e significato Russell/La fondazione logica della matematica Wittgenstein/Il Tractatus Wittgenstein/Necessità logica e contingenza empirica Wittgenstein/Filosofia e terapia linguistica

Wittgenstein e la riflessione sulla matematica

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1. Frege: aritmetica e logica la fondazione logica della matematica

Il problema del rigore della matematica fu al centro delle indagini di Gottlob Frege (1848-1925), matematico e logico tedesco, professore nell’univer approfondimento, p. 478], sità di Jena. Diversamente da altri matematici [ egli ritenne che tale problema non potesse essere risolto con gli apparati tecnici della matematica stessa, neppure con quelli dell’aritmetica. A suo avviso, la validità della nostra conoscenza delle verità aritmetiche poteva essere fondata soltanto definendo i concetti aritmetici in termini logici. Questa posizione, che assegna alla logica il ruolo di fondamento della matematica, è detta logicismo.

la creazione di un linguaggio formale

Secondo Frege, fondare l’aritmetica equivale a mostrare che tra le sue verità esiste una connessione oggettiva e necessaria. Per tale scopo non può essere utilizzato il linguaggio comune, che non possiede requisiti sufficienti di precisione e di correttezza ed è inadeguato a esprimere relazioni e passaggi più complicati. Per evitare le ambiguità, che pervadono il linguaggio comune, occorre elaborare un linguaggio formalizzato, una ideografia (in tedesco, Begriffschrift): esso è costruito da Frege in un’opera che ha appunto questo titolo, pubblicata nel 1879. Tale linguaggio è composto di simboli scritti – non parlati – per evitare ogni contaminazione con la sfera delle rappresentazioni. Tali simboli sono utilizzati allo stesso modo delle lettere dell’alfabeto nell’aritmetica. Si tratta, dunque, di un linguaggio artificiale formalizzato, nel quale si rende visibile, secondo Frege, la struttura del pensiero. Così, per esempio, la deduzione di conseguenze si mostra visivamente nel fatto che esse vengono dopo nella pagina scritta.

da cosa è costituita l’ideografia?

Il nucleo di questo linguaggio è costituito dalla proposizione, la cui natura consiste nella possibilità di essere affermata o negata come un tutto, a prescindere dal modo in cui è formata linguisticamente. Per esempio, gli enunciati «A Platea i greci sconfissero i persiani» e «A Platea i persiani furono sconfitti dai greci» sono diversi sul piano linguistico, ma hanno lo stesso contenuto concettuale e soltanto questo è rilevante per l’ideografia: in questo senso, la proposizione costituisce una dimensione oggettiva del pensiero. Ciò che non può essere espresso nel linguaggio dell’ideografia sono le regole di formazione e di trasformazione delle espressioni, perché queste sono il fondamento dell’ideografia stessa.

il concetto di numero e i fondamenti dell’aritmetica

Questo primo tentativo di Frege di costruire un linguaggio integralmente formale non ebbe successo tra i suoi contemporanei. Egli non abbandonò, tuttavia, l’idea che tutte le proposizioni aritmetiche fossero derivabili in modo puramente logico da alcune definizioni. Mentre per la geometria sono necessari assiomi che si riferiscono a un dominio particolare, ossia allo spazio, i princìpi dell’aritmetica, secondo Frege, si estendono a tutto il pensabile: infatti, egli dice, «può essere contato tutto ciò che può diventare oggetto del pensiero». Alla definizione del concetto di numero, Frege dedica la sua opera successiva – Fondazioni dell’aritmetica (1884) – nella quale prende posizione contro le teorie empiristiche, psicologistiche e formalistiche del numero.

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L’empirismo, nella formulazione di Mill, per esempio, concependo i numeri come generalizzazioni a partire dalla nostra esperienza di raggruppamenti di oggetti discreti, non è in grado di fondare la certezza e la generalità della nozione di numero e delle operazioni basate su di essa. Lo psicologismo, identificando i numeri con i processi mentali che ci portano a usarli, priva il numero della sua oggettività. Il formalismo, invece, concependo i numeri come semplici segni e l’aritmetica come un gioco basato sui segni, non rende conto della possibilità di applicare i numeri alle situazioni empiriche. Errore generale è di presupporre che ciò che è oggettivo debba esistere nello spazio e nel tempo, mentre i numeri hanno la prerogativa di essere oggettivi – senza essere sensibili, né legati allo spazio o al tempo.

la critica dell’empirismo, dello psicologismo e del formalismo

Le nozioni di numero, concetto e oggetto ponevano una serie di problemi, affrontati da Frege in una serie di brevi saggi intitolati Funzione e concetto (1891), Concetto e oggetto (1892) e Senso e significato (1892). In particolare, si trattava di affrontare il problema del significato dei nomi e delle proposizioni, la cui soluzione è essenziale anche per cogliere il contenuto conoscitivo della logica e della matematica. Per analizzare la natura della proposizione, Frege – anziché usare i termini tradizionali di soggetto e predicato – introduce le nozioni di argomento e di funzione.

il problema del significato

Prendiamo come esempio la proposizione «Cesare conquistò la Gallia», la quale è costituita di due parti «Cesare» e «conquistò la Gallia», dette rispettivamente «argomento» e «funzione». La funzione è la parte insatura della proposizione, in quanto la proposizione acquista senso compiuto soltanto mediante un nome proprio (ossia un argomento) che rende satura la funzione. La funzione è la parte che rimane fissa in una proposizione, mentre l’argomento è la parte sostituibile, ossia è una variabile. La funzione «...conquistò la Gallia» può infatti essere saturata con l’argomento «Cesare» e, in tal caso, si avrà una proposizione vera, o con altri argomenti, come, per esempio, «Cristoforo Colombo» e, in tal caso, si avrà una proposizione falsa.

argomento e funzione

Alle funzioni corrispondono, secondo Frege, concetti e proprietà, mentre agli argomenti, ossia ai nomi propri, corrispondono oggetti e individui. Porsi la domanda: «A quali entità si riferisce una funzione?» è privo di senso, perché una funzione – per esempio «...conquistò la Gallia» – non nomina un oggetto, che è un’entità completa in sé. Ciò non vuol dire che la funzione non abbia un senso nel contesto complessivo della proposizione. Si tratta, allora, di chiarire che cosa si debba intendere per «senso».

gli argomenti stanno agli individui come le funzioni alle proprietà

Due espressioni possono riferirsi a uno stesso oggetto, ma in modo diverso. Per esempio, le espressioni «la stella del mattino» e «la stella della sera» si riferiscono a uno stesso oggetto, poiché in seguito a una scoperta astronomica è risultato che si tratta della stessa stella. Frege afferma che – in quanto si riferiscono allo stesso oggetto – le due espressioni hanno lo stesso significato (in tedesco, Bedeutung), ma esse si riferiscono allo stesso oggetto in modo diverso: questo modo di riferirsi è il loro senso (in tedesco, Sinn). Da ciò consegue che due espressioni possono avere lo stesso significato, ma sensi diversi. Il significato di un nome proprio è, dunque, l’oggetto di cui

la distinzione tra senso e significato

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esso è il nome, mentre il senso è il modo in cui è pensato tale oggetto, che resta sempre unico. Ciò non vuol dire che il senso coincida con la rappresentazione mentale di un oggetto, la quale è puramente soggettiva, variabile da individuo a individuo e sostanzialmente privata, incomunicabile; il senso ha infatti carattere oggettivo e intersoggettivo, può essere comunicato e compreso anche da altri. il senso è il contenuto del pensiero

Ogni enunciato, secondo Frege, contiene un pensiero (in tedesco, Gedanke), che non è un atto puramente soggettivo, ma ha un contenuto oggettivo, che si cerca di preservare quando si traduce da una lingua all’altra: questo pensiero è il senso, non il significato dell’enunciato. Prendiamo, per esempio, gli enunciati «La stella del mattino è un corpo illuminato dal sole» e «La stella della sera è un corpo illuminato dal sole»: essi hanno lo stesso significato, perché hanno lo stesso riferimento oggettivo, ma hanno sensi diversi, ossia contengono pensieri diversi. Ciò vuol dire che dall’identità del significato non segue necessariamente l’identità del pensiero espresso: due espressioni possono essere identiche per ciò che concerne il significato, ma parlarne in modo diverso, esprimendo pensieri diversi.

il significato è il valore di verità di una proposizione

Il significato di una proposizione non è il pensiero che essa contiene, ma il suo valore di verità – ossia la circostanza che essa sia vera o falsa. Ciò avviene quando, come si è visto, la funzione viene saturata mediante l’argomento: tale saturazione rende la proposizione vera o falsa e, quindi, conferisce significato alla proposizione stessa. La ricerca della verità, che sola può condurre all’acquisizione di conoscenze nuove, può allora essere interpretata come un avanzamento dal senso al significato, ossia dal rilevamento dei pensieri contenuti in una proposizione all’accertamento della sua verità o falsità .

APPROFONDIMENTO

Logica e matematica nell’Ottocento

L’interesse per la logica formale rinasce nell’Inghilterra dell’Ottocento e porta ad affrontare anche problemi rimasti estranei a quella di Aristotele, considerata la logica per eccellenza. Per il matematico irlandese George Boole (1815-1864) – autore di L’analisi matematica della logica (1847) e Indagine sulle leggi del pensiero (1854) – la logica è la scienza delle leggi del pensiero. A suo avviso, esse possono essere adeguatamente studiate soltanto mediante uno strumento formale, ossia un apparato di simboli qual è quello dell’algebra. Solo così, infatti, è 478

possibile individuare le leggi che presiedono a ogni forma di ragionamento in generale. Questa analisi non appartiene alla psicologia, perché non studia la formazione delle idee e le associazioni tra esse, ma avviene sul piano del linguaggio, in quanto ha per oggetto segni (ossia parole), i quali sono combinabili con altri segni, secondo leggi determinate, valide per tutte le lingue e formulabili matematicamente. Secondo Boole, la logica è resa possibile dal fatto che il nostro pensiero dispone di nozioni generali, ossia è capace di concepire una classe,

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designando per mezzo di un nome comune gli individui che ne sono membri, e di separare da una collezione qualsiasi di oggetti quelli appartenenti alla classe data. Per classe si deve perciò intendere una collezione di oggetti individuali collegati da un nome comune (per esempio, uomo o numero primo o triangolo). La formazione di una classe è un’operazione di combinazione, che comporta il riconoscimento, il confronto e la scelta delle proprietà che accomunano una collezione di individui. Su questa base, Boole sviluppa un’algebra delle Frege Senso e significato

alef

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classi e delle operazioni di inferenza, ossia dei processi di selezione e congiungimento di classi. Un pioniere degli studi di logica era stato Bernhard Bolzano (17811848), sacerdote nato, vissuto e morto a Praga – allora sotto il dominio austriaco – nominato nel 1805 alla cattedra di Filosofia della religione e destituito nel 1819 per motivi non noti. Nella sua opera principale – la vastissima Dottrina della scienza (1837) – egli collega la dottrina della scienza alla logica, che guida alla suddivisione del dominio della verità nelle singole scienze e fornisce le regole per acquisire le conoscenze e per articolarle in trattati. Le espressioni linguistiche diverse – attraverso le quali è comunicato un pensiero – sono distinguibili, secondo Bolzano, sulla base del contenuto concettuale che esse esprimono. Tale contenuto è costituito di unità minime – idee in sé – e di due concetti connessi da una copula: ciò dà luogo a quella che Bolzano chiama proposizione in sé. Le proposizioni sono assunzioni che qualcosa è o non è o che qualcosa ha o non ha una certa proprietà e hanno natura ideale – non linguistica – perché gli eventi linguistici sono eventi empirici e spazio-temporali, prodotti dagli organi vocali di qualche uomo. In tal modo, la

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logica che le assume a oggetto acquista un carattere rigorosamente formale. Queste considerazioni di Bolzano passarono inosservate presso i suoi contemporanei, ma furono poi riprese e approfondite – tra gli altri – da Frege e da Husserl [cfr. 9.2]. Nella matematica dell’Ottocento si pose il problema di salvaguardare l’oggettività e la validità universale del sapere matematico, da una parte svincolandolo da legami troppo stretti con l’intuizione spaziale o con le rappresentazioni empiriche – di per sé variabili – e, dall’altra, cercando di individuare i fondamenti di tale validità. Alla definizione rigorosa di numero reale diede un contributo rilevante Richard Dedekind (1831-1916), il quale indicò nell’atto aritmetico del contare – nel senso di far corrispondere oggetti a oggetti – l’atto fondamentale del pensiero. Se i risultati dei calcoli restano costanti, indipendentemente dai tipi di oggetti ai quali sono applicati, ciò dipende dal fatto che i numeri sono oggetti del pensiero. Effetti determinanti sugli sviluppi futuri della logica e della matematica ebbe la teoria degli insiemi, elaborata da Georg Cantor (1845-1918). Cantor intende per insieme «ogni riunione, M, in un

tutto, di determinati e ben distinti oggetti m della nostra intuizione e del nostro pensiero», i quali sono detti elementi dell’insieme e non sono necessariamente numeri o punti geometrici. Su questa base, egli affronta il problema del confronto tra insiemi (anche tra insiemi infiniti), introducendo il concetto di corrispondenza biunivoca. In base a essa, a ogni elemento di un insieme corrisponde un elemento dell’altro insieme e viceversa. Questa nozione permette di superare la difficoltà tradizionale, secondo cui nell’infinito non sarebbe possibile distinguere ordini di grandezza. Due insiemi, infatti, si dicono di eguale potenza se è possibile porre tra i loro elementi una corrispondenza biunivoca, mentre un insieme A si dice di potenza inferiore a quella di un insieme B se tale corrispondenza è possibile tra A e un sottoinsieme di B. È chiaro che insiemi finiti sono equipotenti quando il numero dei loro elementi è lo stesso; tuttavia, anche l’insieme dei numeri naturali e, per esempio, l’insieme dei quadrati (entrambi insiemi infiniti) sono equipotenti, sebbene il secondo sia parte del primo. Tra gli elementi dei due insiemi è, infatti, possibile stabilire una corrispondenza biunivoca.

2. Russell: logica e matematica Bertrand Russell (1872-1970) nacque a Ravenscroft, in Inghilterra, da nobile famiglia, rimase presto orfano e fu educato dal nonno, lord John Russell. Nel periodo 1890-94 compì i suoi studi a Cambridge, dove cominciava a spirare un’aria di anticonformismo, avversa alla rigida morale vittoriana e ai tradizionali sistemi educativi. Su Russell un’influenza decisiva fu esercitata da Moore [  approfondimento, p. 215]. A Cambridge, Russell si occupò soprattutto di matematica e di filosofia e nel 1895 divenne membro del Trinity College. Gli interessi per la matematica e la logica lo condussero a studiare Leibniz, in cui trovava espressa la tesi generale che i princìpi della matematica sono deducibili da princìpi logici: il risultato fu il volume Esposizione critica della filosofia di Leibniz (1900). 16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein

la formazione a cambridge

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l’incontro con peano e la collaborazione con whitehead

A detta dello stesso Russell, il 1900 fu un anno decisivo della sua vita, perché partecipando al Congresso internazionale di filosofia – svoltosi a Parigi – incontrò Giuseppe Peano e fu colpito dalla precisione da questi mostrata nelle discussioni, grazie all’impiego di un rigoroso simbolismo logico. Il risultato più significativo di questa prima fase della riflessione di Russell è costituito da I princìpi della matematica (1903), a cui avrebbero fatto seguito i Princìpia mathematica (1910-13), composti insieme ad Alfred N. Whitehead. Nel 1912, Russell pubblicò una fortunata esposizione divulgativa del suo pensiero, I problemi della filosofia, e nel 1914 fu invitato a tenere una serie di lezioni a Harvard, a Boston e a Oxford, dalle quali nacque il volume La nostra conoscenza del mondo esterno (1914).

durante e dopo la prima guerra mondiale

Durante la guerra – per la sua attività pubblica a favore del movimento pacifista – Russell fu allontanato dall’insegnamento a Cambridge e condannato a sei mesi di carcere, durante i quali compose l’Introduzione alla filosofia matematica. Da allora la sua attività filosofica fu sempre intrecciata a battaglie politiche e sociali. Nel 1920 compì un viaggio nell’Unione Sovietica, di cui condannò il totalitarismo nel volume Teoria e pratica del bolscevismo (1920); nel 1920-21 insegnò a Pechino e nel 1927 aprì con la seconda moglie una scuola sperimentale, dov’era applicata una pedagogia non autoritaria. Tutto ciò, unitamente a una serie di scritti popolari – come L’educazione dei nostri figli (1926), Matrimonio e morale (1929), La conquista della felicità (1930), Religione e scienza (1935), nei quali assumeva posizioni spregiudicate su questioni religiose ed etiche –, suscitò le critiche dei benpensanti.

dall’inghilterra agli stati uniti

Nel frattempo, egli proseguiva i suoi studi filosofici, influenzato anche dalle teorie di Wittgenstein, suo allievo a Cambridge prima della guerra. In vari saggi – tra i quali anche la prefazione da lui scritta alla traduzione inglese del Tractatus logico-philosophicus (1922) – espose le linee di una filosofia che egli definì «atomismo logico» e nel 1927 pubblicò il saggio Analisi della materia. Soprattutto a partire dal 1938, Russell tornò a intensificare le sue ricerche filosofiche, tenendo lezioni a Oxford, Chicago e Los Angeles. Nel 1940 gli fu offerto un incarico di insegnamento a New York, ma accusato di immoralità per le sue idee anticonformiste ne fu poi allontanato. Egli tenne allora le «William James Lectures» a Harvard, da cui nacque il volume Indagine su significato e verità (1940). Fra il 1941 e il 1943 tenne lezioni presso la Barnes Foundation, negli Stati Uniti, su temi che entreranno a costituire la Storia della filosofia occidentale (1945), destinata ad avere uno straordinario successo e numerose ristampe.

il rientro in inghilterra e il nobel

Nel 1944, Russell rientrò in Inghilterra e ricevette un incarico di insegnamento a Cambridge, che egli tenne sino al 1950: frutto di tale insegnamento fu la sua ultima ampia opera filosofica, La conoscenza umana (1948). Nel 1950, egli ricevette il premio Nobel per la Letteratura e successivamente prese posizione contro il maccartismo, propugnò il pacifismo e propose il disarmo unilaterale senza condizioni.

le battaglie civili degli ultimi anni

Nel 1961 capeggiò un sit-in di protesta di fronte al Ministero britannico della Difesa e fu condannato a due mesi di prigione, ridotti a una settimana a

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causa delle sue condizioni di salute. Gli ultimi anni della sua vita lo videro intervenire durante la crisi di Cuba, con lettere a Kennedy e Chrusˇcˇëv, e durante la guerra del Vietnam, con l’istituzione di un tribunale per i crimini di guerra, denominato Tribunale Russell. Nel 1967 – poco prima di morire – iniziò la pubblicazione delle sue memorie, intitolate Autobiografia. Secondo Russell, il nostro linguaggio non contiene soltanto proposizioni del tipo soggetto-predicato, bensì anche proposizioni che fanno riferimento a relazioni di maggiore e minore, di prima e dopo e così via. Un termine che può assumere o no qualcuna di queste relazioni deve rimanere immutato, ma allora ne consegue che nessuna relazione modifica i termini tra i quali intercorre. Se, per esempio, si considera la proposizione: «A è maggiore di B», si vede che tale relazione non è l’attribuzione di una qualità o proprietà a un soggetto e, quindi, non è riducibile alla forma soggetto-predicato (ad esempio «A è rosso»). Ciò significa che tale relazione è esterna sia ad A, sia a B, ossia collega tra loro entità che sussistono indipendentemente da tale relazione. Solo una logica delle relazioni può rendere conto della stessa operazione del contare – consistente nel porre in relazione termine a termine – e permettere così l’analisi di intere regioni della matematica. Le nozioni di ordine e di successione (ad esempio tra numeri o tra punti) non sono, infatti, descrivibili nei termini della logica di soggetto-predicato.

la logica delle relazioni alla base dell’aritmetica

Russell distingue tra relazioni simmetriche e asimmetriche. Assumiamo R come simbolo per indicare la relazione e a e b per indicare i termini tra i quali essa intercorre. Una relazione è simmetrica, quando, se vale aRb, allora vale anche bRa e viceversa: tale è, per esempio, la relazione «fratello di»; infatti, se Carlo è fratello di Giovanni, allora Giovanni è fratello di Carlo. Una relazione è invece asimmetrica quando ciò non vale: per esempio, se Carlo è padre di Giovanni, allora Giovanni non è padre di Carlo. Inoltre, alcune relazioni godono della proprietà transitiva, per cui se aRb e bRc, allora aRc, mentre altre non ne godono. Per esempio, godono della relazione transitiva le relazioni di maggiore e minore; infatti, se A è maggiore di B e B è maggiore di C, allora A è maggiore di C. Non è invece possibile concludere, per esempio, che, se A è padre di B e B è padre di C, allora A è padre di C: questo tipo di relazione non gode della proprietà transitiva.

i vari tipi di relazione

Russell introduce la distinzione tra proposizione e funzione proposizionale. Una proposizione è scomponibile, ossia analizzabile in elementi semplici (o termini); pertanto in ogni proposizione si trovano almeno due termini e una relazione. Per esempio la proposizione «Socrate è un uomo» contiene una cosa (Socrate), una relazione e un termine indicante una classe (uomo). Funzione proposizionale invece è un’espressione avente, per esempio, la forma «x è un uomo», dove x è una variabile che può essere sostituita da un termine definito (o costante), per esempio dal termine «Socrate», dando luogo alla proposizione «Socrate è un uomo». Russell non restringe il rango delle entità che possono essere sostituite alla variabile in una funzione proposizionale; l’unica condizione è che la costante sia «qualcosa di as-

proposizione e funzione proposizionale

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solutamente definito, riguardo al quale non c’è alcuna ambiguità». Una funzione proposizionale di per sé non è né vera né falsa; vera o falsa è la proposizione che si ottiene sostituendo la variabile con una costante. Risulta altresì che una funzione proposizionale può essere considerata come una classe di proposizioni: nell’esempio considerato, «x è un uomo» è la classe di tutte le proposizioni che hanno come predicato «è un uomo». implicazione materiale e formale

Per Russell, tra proposizioni sussiste una relazione di implicazione materiale: essa si esprime nella forma «se p, allora q»; in questo caso si può anche dire che q è deducibile da p, se non si dà il caso che p è vera e q è falsa. Tra funzioni proposizionali, invece, sussiste una relazione di implicazione formale, in quanto non riguarda singole proposizioni con i loro specifici contenuti materiali: così, per esempio, «x è un uomo» implica formalmente «x è mortale per tutti i valori di x», il che vuol dire che «se x è un uomo, allora x è mortale». Russell afferma che tutte le proposizioni della matematica sono implicazioni formali e pertanto la matematica è riconducibile alla logica.

la matematica deriva dalla logica

La conoscenza dell’opera di Giuseppe Peano (1858-1932) – professore nell’università di Torino e autore di Formulario di matematica (1895-1908) – fu importante per la concezione di Russell dei rapporti tra matematica e logica. Peano aveva mostrato che è possibile costruire l’intera teoria dei numeri naturali partendo da tre concetti fondamentali (zero, numero e successore immediato) e da cinque assiomi. Secondo Russell, questi tre concetti di Peano sono riducibili alle nozioni logiche di classe e di relazione. Ciò significa che la conoscenza matematica può essere pienamente giustificata mostrandone la derivabilità da queste nozioni puramente logiche.

la giustificazione logica della matematica

Russell avrebbe assolto al compito di derivare la matematica dalla logica attraverso la costruzione – mediante i simboli della logica – di un edificio puramente formale nei Princìpia mathematica, scritti insieme a Whitehead: qui i teoremi della matematica pura sono dedotti a partire dalle definizioni di zero, numero e successore, impiegando regole di derivazione delle proposizioni. Questa derivazione è effettuata con l’ausilio di quattro operatori o costanti logiche: «non» (negazione), «e» (congiunzione), «o» (disgiunzione) e «se..., allora...» (implicazione). Russell sostiene che la matematica pura è la classe di tutte le proposizioni che hanno la forma dell’implicazione e che è compito della logica analizzare questa relazione: Con l’aiuto di dieci princìpi di deduzione e di dieci altre premesse di natura logica generale (per es. «l’implicazione è una relazione»), è possibile dedurre rigorosamente e formalmente tutta la matematica; e definire tutte le entità che compaiono nella matematica mediante le entità che compaiono nelle venti premesse suddette. In questa enumerazione, la parola matematica include non soltanto l’aritmetica e l’analisi, ma anche la geometria, euclidea e non-euclidea, la dinamica razionale, e un numero indefinito di altri studi ancora non nati o appena abbozzati. Il fatto che tutta la matematica risulti logica simbolica è una delle più grandi scoperte del nostro tempo; e quando si è stabilito questo fatto, il resto dei princìpi della matematica consiste nell’analisi della logica

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simbolica stessa. [...] In base a quanto precede, la connessione della matematica con la logica risulta straordinariamente intima. Il fatto che tutte le costanti matematiche siano costanti logiche e che tutte le premesse della matematica riguardino tali costanti, fornisce, io credo, l’enunciazione esatta di quello che i filosofi hanno inteso dire asserendo che la matematica è a priori; il fatto è che, una volta accettato l’apparato della logica, ne segue necessariamente tutta la matematica (I princìpi della matematica, parte I, cap. I, §§ 4 e 10).

Ma per mostrare che la matematica si fonda sulla logica, occorre anche mostrare che i numeri naturali – e, quindi, tutte le nozioni fondamentali dell’aritmetica – sono definibili in termini di classe. I numeri non coincidono con le classi di oggetti che sono contati, ma sono ciò che tutte queste collezioni di oggetti hanno in comune. Russell definisce, pertanto, il numero cardinale come «la classe di tutte le classi simili a essa», ossia di tutte le classi i cui membri possono essere correlati uno a uno. Per esempio, una classe ha tre membri, se appartiene alla classe alla quale appartengono tutte le classi simili a essa, dove «simile» significa appunto che i membri di tali classi possono essere correlati uno a uno, sicché tali classi hanno una proprietà in comune, ossia uno stesso numero. In tal modo, ogni discorso aritmetico su numeri può essere formulato nei termini di un discorso puramente logico concernente le classi e le loro relazioni .

i concetti di classe e di relazione alla base dei numeri

Ben presto, però, Russell si rese conto che il concetto di classe (o di insieme) può dar luogo ad antinomie (o paradossi). In particolare, egli individuò – già al termine della stesura dei Princìpi della matematica – una contraddizione relativa alla nozione di «classe di classi», la quale – come si è visto – è essenziale per definire i numeri naturali. Egli distinse tra classi che non sono membri di se stesse, ovvero non contengono se stesse come elemento, e classi che sono membri di se stesse, ovvero contengono se stesse come elemento: per esempio, la classe degli uomini non è un uomo e, quindi, non è un membro di se stessa, mentre la classe di tutti i concetti è a sua volta un concetto e, quindi, contiene se stessa come elemento. A questo punto si pone la domanda: la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse è membro di se stessa? Se si risponde positivamente, essa è una classe che è membro di se stessa, ma allora contiene se stessa come elemento e, quindi, non è più la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento. Se si risponde negativamente, essa è una classe che non è membro di se stessa, ma allora appartiene alla classe delle classi che non contengono se stesse come membro e, quindi, contiene se stessa come elemento.

l’antinomia delle classi

Quale che sia la risposta data, ne consegue sempre l’opposto rispetto a essa: ciò significa che la nozione di classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento genera contraddizioni. Questa antinomia metteva in crisi il programma logicistico: qual è l’utilità nel definire i numeri in termini di classi, se la nozione di classe genera contraddizioni? Per risolvere questo problema, Russell elaborò la cosiddetta teoria dei tipi. A suo avviso, i paradossi nascono da un circolo vizioso, consistente nel «supporre che una collezione di oggetti possa contenere membri definibili soltanto mediante

come si può risolvere l’antinomia delle classi?

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Russell La fondazione logica della matematica

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la collezione presa come un tutto». Per evitare questo circolo vizioso – consistente nell’autoriferimento di una totalità o di una classe a se stessa – occorre evitare che tale totalità sia predicata di se stessa e fare in modo che qualunque asserto su di essa cada fuori della totalità stessa. la teoria dei tipi

A ciò si può provvedere, secondo Russell, distinguendo tra vari livelli o tipi di oggetti e predicati: di tipo 1 sono gli individui (per esempio, Socrate), di tipo 2 le proprietà o le classi di individui (per esempio, umanità), di tipo 3 le classi di proprietà e così via. Il paradosso delle classi nasce dal presumere che tutte le classi siano di un solo tipo, mentre è essenziale che le proprietà di tipo superiore siano applicate (ossia predicate) soltanto a oggetti di tipo inferiore. Ciò significa che, data per esempio la funzione proposizionale «se x è un uomo, x è mortale», la teoria dei tipi fornisce regole per i valori che x può ammettere. Per esempio, da tale funzione è legittimo inferire la proposizione «Se Socrate è un uomo, Socrate è mortale», ma non «Se la legge di contraddizione è un uomo, allora la legge di contraddizione è mortale»: quest’ultimo è soltanto un gruppo di parole privo di senso. Ciò comporta che «Socrate» e «la legge di contraddizione» appartengono a tipi diversi.

3. Russell: linguaggio e conoscenza il problema del riferimento

La scoperta dei paradossi relativi alle classi condusse Russell a considerare un problema particolarmente delicato, costituito dai cosiddetti oggetti non esistenti. Ad esempio, l’enunciato «l’attuale re di Francia è calvo» è vero o falso? Ora, noi sappiamo che oggi non esiste alcun re di Francia. Come possiamo dunque verificare se questo enunciato è vero o falso, dal momento che esso è privo di significato? Detto altrimenti, a che cosa si riferisce questo enunciato, se il suo soggetto grammaticale – «l’attuale re di Francia» – non denota nulla? E poiché non denota nulla, come posso stabilire se «l’attuale re di Francia» è calvo o non lo è?

le espressioni non denotanti e il loro valore di verità

A questi problemi Russell dedicò un importante articolo, intitolato Sul denotare, pubblicato nel 1905 su «Mind», una delle più importanti riviste britanniche di filosofia: in esso, egli costruì quella che è nota come teoria delle descrizioni . Esempi di descrizioni (o espressioni non denotanti) sono: «un uomo», «ogni uomo», «l’attuale re di Inghilterra», «l’attuale re di Francia», ecc. Ma a quale entità si riferisce, ad esempio, l’espressione «un uomo»? Carlo, Giovanna o Vincenzo sono nomi a cui corrispondono (o non corrispondono) delle entità, ma l’espressione «un uomo» – oppure «ogni uomo» o «un quadrato rotondo» – è priva di denotazione. Io posso avere un’esperienza diretta di Carlo, Giovanna o Vincenzo, ma non di «un uomo»: io incontro sempre questo uomo qui (Carlo) o questa donna qui (Giovanna), ma mai «un uomo». Come si fa, dunque, a stabilire il valore di verità di enunciati che contengono espressioni non denotanti, come quelle appena viste?

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Per risolvere questo problema Russell riformula questi enunciati in modo che non contengano più descrizioni. Solo così, infatti, non è più necessario supporre che i soggetti grammaticali di questi enunciati debbano per forza riferirsi a delle entità. Diventa, cioè, possibile introdurre un principio di economia – una sorta di rasoio di Ockham [cfr. vol. I, 16.7] – nell’universo sovrappopolato di oggetti e non è più necessario assumere l’esistenza oggettiva di classi, punti, istanti, particelle. Così, per esempio, una descrizione del tipo «ogni x è y» può essere riformulata in «per tutti i valori di x, “x è y” è vero»: in questo modo, viene eliminato «ogni» e non è più necessario assumere che esista una misteriosa entità, il cui nome sarebbe «ogni». La forma logica di questi enunciati viene, perciò, chiarita mediante una parafrasi in cui la descrizione viene eliminata.

la parafrasi logica delle descrizioni

Anche le cosiddette descrizioni definite, ossia le espressioni non denotanti precedute dall’articolo determinativo, possono essere sottoposte, secondo Russell, allo stesso tipo di analisi. Ritorniamo al nostro esempio «l’attuale re di Francia è calvo». Questo enunciato nasconde la sua vera forma logica sotto una forma grammaticale fuorviante di soggetto-predicato e può essere parafrasato come la congiunzione di tre proposizioni: a) esiste almeno un individuo che è l’attuale re di Francia; b) esiste al massimo un individuo che è l’attuale re di Francia; c) questo individuo è calvo. L’autentica forma logica dell’enunciato è, dunque, la seguente: «Esiste un qualcuno tale che è attuale re di Francia e chiunque sia attuale re di Francia allora costui è uguale a questo qualcuno e questo qualcuno è calvo». La prima formulazione – contenendo una descrizione definita – non ci permette di stabilire se l’enunciato è vero o è falso, perché non esiste alcun attuale re di Francia (la Francia, come sappiamo, è una repubblica). La seconda formulazione, invece, ci permette di stabilire che l’enunciato è falso: è falso, infatti, che esista l’attuale re di Francia e questa falsità rende falso l’intero enunciato.

e le descrizioni definite?

La teoria delle descrizioni consente a Russell di affrontare il problema della conoscenza. A suo avviso, esistono due tipi di conoscenza. La conoscenza diretta (in inglese, knowledge by acquaintance) ha per oggetto qualsiasi cosa di cui si sia direttamente consapevoli, senza l’intermediazione di ragionamenti o di conoscenze acquisite per altra via. Tali oggetti sono i dati della percezione sensibile, ma anche gli universali (ad esempio la bianchezza, la somiglianza e così via).

la conoscenza diretta

La conoscenza per descrizione (in inglese, knowledge by description) si costituisce a partire dai dati della percezione e dagli universali. Essa consente di superare i limiti dell’esperienza strettamente personale e di conoscere le proprietà di una cosa, anche se non si ha esperienza diretta di essa. Tale è, secondo Russell, la conoscenza delle menti altrui e degli stessi oggetti fisici,  approfondimento, p. 215] – non ci sono i quali – come sosteneva Moore [ noti per esperienza diretta, ma soltanto attraverso un processo di inferenza a partire dai dati della nostra percezione. In tal modo, perveniamo alla descrizione di un oggetto fisico come di quell’oggetto che causa determinati nostri dati percettivi. In questo senso, ad esempio, l’oggetto fisico «tavolo» è una costruzione logica elaborata a partire dall’esperienza sensibile.

la conoscenza per descrizione

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senso comune e conoscenza scientifica

Attraverso questa distinzione, Russell intende difendere non soltanto il senso comune – come faceva Moore – ma anche e soprattutto la validità della conoscenza scientifica. La conoscenza della verità ha due livelli: 1) la conoscenza immediata di proposizioni riguardanti dati di senso e relazioni logiche, la quale è dotata di certezza; 2) la conoscenza derivata da queste, la quale è suscettibile di errore. In particolare, si pone il problema della relazione tra i dati sensibili e le nozioni di spazio, tempo, materia, quali sono non solo usate, ma costruite dalla fisica matematica.

la teoria dei sensibilia

A tale scopo Russell introduce – in La nostra conoscenza del mondo esterno (1914) – la nozione di sensibilia, ossia di oggetti aventi lo stesso status ontologico e fisico dei dati sensibili, ma che di fatto non sono percepiti da nessuno. I dati sensibili non sono, secondo Russell, stati mentali o costituenti di stati mentali e, quindi, nulla impedisce di supporre che esistano sensibilia come costituenti ultimi del mondo fisico. Sia le cose del senso comune, sia gli oggetti delle scienze fisiche risultano allora essere costruzioni a partire dai sensibilia. In particolare, una cosa del senso comune è soltanto la classe delle sue apparenze attuali o possibili. Ciò significa che ciò che è reale di una cosa sono tutti i suoi aspetti. Gli oggetti fisici possono, allora, essere definiti come serie di dati sensibili, legati insieme da sensibilia, e la scienza fisica non ha bisogno di ipotizzare oggetti fisici, come qualcosa di distinto dai nostri dati sensibili. Anche per questo aspetto, Russell faceva valere il principio di economia del rasoio di Ockham: quanto più è ridotto al minimo il numero delle entità necessarie, tanto minori sono i rischi di errore che possono essere corsi nell’enunciazione delle proprie teorie.

l’atomismo logico

Le discussioni con Wittgenstein condussero Russell, nel primo dopoguerra, a rielaborare le sue concezioni precedenti, dando vita a quella che egli stesso definì la filosofia dell’ atomismo logico . Egli parte dall’assunzione che la totalità del mondo è costituita di fatti atomici, i cui ingredienti sono i dati sensibili e gli universali: fatti atomici sono, per esempio, che Socrate è morto o che A viene prima di B, dove A e B sono dati sensibili. Ai fatti atomici corrispondono, sul piano linguistico, le proposizioni atomiche: tali sono, per esempio, «questo è rosso», ossia l’attribuzione di una proprietà universale semplice (rosso) a un particolare semplice (questo) o «Garibaldi fu il marito di Anita», ossia l’asserzione che determinati oggetti stanno fra loro in una determinata relazione.

fatti e proposizioni

I fatti possono essere particolari o universali e trovano allora espressione in proposizioni del tipo «questo è rosso» o «tutti gli uomini sono mortali». I fatti di per sé non sono né veri né falsi, mentre sono vere o false le proposizioni che ne parlano, a seconda che corrispondano o no ai fatti stessi. In tal modo, Russell fa propria la teoria della verità come corrispondenza delle proposizioni ai fatti. Mediante l’impiego dei connettivi (o costanti logiche) si costruiscono a partire dalle proposizioni atomiche le proposizioni molecolari. La verità delle proposizioni molecolari dipende dalla verità delle loro componenti atomiche, sicché per esempio «p e q» è vera, se sono vere le proposizioni atomiche p e q. Al centro della filosofia dell’atomismo logico vi

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è, dunque, lo studio delle connessioni tra il linguaggio e il mondo, allo scopo di pervenire a una conoscenza del mondo [t45]. Russell ritenne che la domanda centrale dell’epistemologia fosse: perché si deve credere a questo piuttosto che a quello? La risposta a tale domanda può essere data, a suo avviso, soltanto facendo riferimento alle conoscenze di base fornite dall’esperienza immediata. In questo senso, Russell si sarebbe opposto – negli anni successivi – ai tentativi di ridurre le questioni epistemologiche a questioni puramente linguistiche e a considerare la verità delle teorie scientifiche in termini di pura coerenza interna fra proposizioni. Allo stesso modo, respinse come futile gioco l’analisi del linguaggio comune sulla quale insistevano Wittgenstein (nella seconda fase del suo pensiero [cfr. 16.5]) e molti filosofi di Oxford [cfr. 18.1].

APPROFONDIMENTO

verità ed esperienza

Filosofie della matematica

I Princìpia mathematica è rimasto il testo classico della logica del Novecento. Ciononostante, il logicismo – ossia la fondazione in termini logici dell’intera matematica – è stata soltanto una delle alternative (del resto abbandonata) nel modo di concepire la natura della matematica stessa. Il matematico tedesco David Hilbert (1862-1943) sviluppò una concezione denominata formalismo. La scoperta delle geometrie non euclidee mostrava che è possibile cogliere i concetti geometrici fondamentali senza fare necessariamente riferimento all’intuizione spaziale. Nell’opera I fondamenti della geometria (1899), Hilbert costruì la geometria come un sistema di proposizioni, espresse in simboli – ossia in segni e formule tracciate sulla carta – i quali non significano qualcosa di particolare e sono deducibili in maniera puramente logica da un insieme iniziale di assiomi. Tali assiomi riguardano relazioni tra entità, che sono chiamate punti, rette, piani solo in virtù di queste relazioni, non perché corrispondono a dati della nostra intuizione dello spazio. Gli as-

siomi, quindi, non sono verità evidenti, come aveva pensato una lunga tradizione; essi, invece, sono analoghi alle regole di un gioco (per esempio, gli scacchi). In particolare, si tratta delle regole di formazione e di trasformazione dei simboli, ossia dei modi in cui i simboli del sistema operano e dei modi in cui i teoremi sono deducibili dagli assiomi stessi. Gli assiomi, a partire da cui si costruisce il sistema, devono possedere alcuni requisiti essenziali. 1) L’indipendenza: nessuno degli assiomi deve essere dimostrabile a partire dagli altri, ma tutti sono ugualmente necessari. 2) La completezza: si devono possedere tutti gli assiomi necessari a dimostrare tutti i teoremi. 3) La non contraddittorietà: il sistema degli assiomi non deve contenere contraddizioni, in modo da assicurare la coerenza interna della geometria. La geometria, tuttavia, è riconducibile all’aritmetica; pertanto, se l’aritmetica non è contraddittoria non lo sarà neppure la geometria. Il programma di Hilbert consiste nel dimostrare la non contraddittorietà dell’aritmetica. Ma per

raggiungere questo obiettivo, occorre prima trasformare l’aritmetica in un sistema assiomatico formalizzato. Questo sistema formalizzato è assunto a oggetto da quella che Hilbert chiama metamatematica, la quale discute, ma non usa, i simboli matematici: dopo aver provveduto alla formalizzazione, si tratta di esaminare se la deduzione di conseguenze da un determinato sistema di assiomi genera contraddizioni. Se ciò non avviene, il sistema è coerente e, pertanto, sarà tale anche qualsiasi sistema interpreti i simboli di esso, mediante definizioni appropriate, in correlazione a una particolare classe di entità, per esempio i numeri naturali. Ciò significa che la coerenza dei vari rami della matematica può essere provata mediante la coerenza di un sistema completamente formalizzato. Il programma di Hilbert ricevette un duro colpo dalla scoperta, nel 1931, di un teorema a opera del matematico austriaco Kurt Gödel (1906-1978), che lavorò a Princeton negli Stati Uniti. Tale teorema dimostra che – per ogni sistema formale non con-

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tradditorio contenente la teoria dei numeri – esistono proposizioni che non possono essere né dimostrate né confutate. Si tratta, cioè, di proposizioni indecidibili all’interno di questo sistema formale: tale è anche la proposizione che – in termini numerici – esprime la non contraddittorietà del sistema stesso. Il teorema di Gödel, detto anche teorema di incompletezza – reso noto nel 1930-31 – pone dunque limiti alla possibilità di una completa formalizzazione delle teorie matematiche. Esso è stato sovente interpretato come il fallimento del programma formalistico di Hilbert, ma anche come la prova che, per dimostrare la non contraddittorietà del sistema aritmetico, occorre disporre di mezzi

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non appartenenti a tale sistema. Alternativa al logicismo e al formalismo è una concezione della matematica denominata intuizionismo, elaborata dal matematico olandese Luitzen Jan Egbertus Brouwer (1881-1966). Al formalismo, Brouwer obietta che una teoria scorretta può anche non condurre a una contraddizione, ma non perciò è meno scorretta, proprio come un delinquente – qualora non venga condannato – non per questo non è un delinquente. Al logicismo, invece, obietta che non è la logica a essere fondamento della matematica, ma la matematica a essere fondamento della logica, la quale ricorre a un presupposto tipico delle procedure matematiche, quello

della ripetibilità dei simboli. Brouwer ritiene che alla base della matematica ci siano soltanto processi intuitivi, fondati sull’intuizione primitiva del tempo: essa ha un carattere costruttivo, che si manifesta nelle operazioni del numerare e dell’addizionare. La prova di esistenza degli enti matematici è data dalla loro costruibilità, ossia dal fatto che sappiamo come costruirli. Ma la mente umana è finita e, quindi, non può costruire un’infinità in atto di numeri. Di qui, il rifiuto da parte di Brouwer dell’infinito attuale, la cui ammissione, tra l’altro, genera paradossi. Analogamente, egli respinge il principio del terzo escluso, secondo cui una proposizione è necessariamente o vera o falsa, il quale è inapplicabile a insiemi infiniti.

4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo la formazione

I problemi della matematica e della logica furono essenziali nello sviluppo del pensiero di Ludwig Wittgenstein. Nato a Vienna nel 1889 da una ricca famiglia di industriali, studiò ingegneria a Berlino e, dal 1908, all’università di Manchester, dove condusse ricerche di aeronautica. Qui si risvegliò il suo interesse per la filosofia della matematica, sicché nel 1911 si recò a Jena da Frege, che gli suggerì di andare a Cambridge dove insegnava Russell. Nel 1912, Wittgenstein fu ammesso al Trinity College di Cambridge ed entrò in contatto con Russell e con Moore.

la stesura e la pubblicazione del tractatus

Poco prima della guerra trascorse alcuni mesi in Norvegia, in solitudine, per intraprendere la stesura di quello che sarebbe poi diventato noto come Tractatus logico-philosophicus. Allo scoppio del conflitto si arruolò volontario nell’esercito austriaco e passò alcuni anni sul fronte orientale, ma nel 1918 fu catturato sul fronte italiano e imprigionato a Cassino. Nell’agosto del 1919 fu liberato e nel dicembre dello stesso anno si incontrò con Russell, per discutere il manoscritto della sua opera, poi pubblicata in tedesco – nel 1921 – in «Annalen der Naturphilosophie» («Annali di filosofia della natura») col titolo Logisch-philosophische Abhandlung e – nel 1922 – in traduzione inglese col titolo già menzionato di Tractatus e con prefazione di Russell.

tra austria e inghilterra

Dal 1920 al 1926 Wittgenstein – dopo aver lasciato la sua parte di patrimonio ai familiari – si dedicò all’insegnamento elementare in alcuni villaggi austriaci. Nel 1926, dopo un breve periodo in cui svolse attività di giardiniere in un convento, progettò per una delle sorelle la costruzione di una casa

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a Vienna. In questi anni entrò anche in contatto con alcuni membri del Circolo di Vienna e assistette a una conferenza di Brouwer, che gli ridestò l’interesse per i problemi della filosofia della matematica. Nel 1929 tornò dunque a Cambridge, dove conseguì il dottorato in Filosofia, e nel 1930 divenne membro del Trinity College. Appunti di lezioni, conversazioni e riflessioni, risalenti agli anni Trenta e stesi da Wittgenstein stesso o raccolti dai suoi uditori, rimasero manoscritti – pur circolando in cerchie ristrette – e soltanto dopo la sua morte cominciarono a essere pubblicati: tra essi le Osservazioni filosofiche, i Quaderni blu e marrone, risalenti agli anni 1933-35, e le Osservazioni sui fondamenti della matematica, scritte nel 1937, quando Wittgenstein trascorse un anno in Norvegia. Nel 1939 successe a Moore come professore di Filosofia e Logica a Cambridge.

la produzione degli anni trenta

Durante la guerra lavorò come portaferiti in un ospedale di Londra; nel 1947 rinunciò alla cattedra e si ritirò in Irlanda, dove scrisse la seconda parte delle Ricerche filosofiche, iniziate nel 1941 e poi pubblicate postume nel 1953, in tedesco con traduzione inglese a fronte, curata da Elisabeth Anscombe. Dopo un soggiorno negli Stati Uniti, Wittgenstein – ammalato di cancro – morì a Cambridge nel 1951.

gli ultimi anni

Il Tractatus inizia con l’affermazione che il mondo è la totalità di tutto ciò che accade, ossia dei fatti. I suoi costituenti sono elementi specifici e indefinibili – detti oggetti – le cui combinazioni possibili sono quelle che Wittgenstein chiama stati di cose (in tedesco, Sachverhalte); un fatto, a sua volta, non è altro che il sussistere di uno stato di cose. Le connessioni tra questi elementi semplici sono determinate dalla forma logica degli oggetti, i quali permangono costanti e fissi, ma si presentano solo nella loro connessione entro stati di cose.

il mondo, gli oggetti e i fatti

Ma come si realizza nel linguaggio la connessione tra pensiero e realtà? Come non è possibile pensare un oggetto semplice se non in connessioni possibili con altri oggetti, così i nomi hanno senso solo entro una proposizione. Le proposizioni non avrebbero senso, se non avessero una forma generale identica a quella degli stati di cose, dove «forma» indica una possibilità di combinazione tra gli oggetti. Ogni proposizione ha, pertanto, un senso chiaro e definito che consiste nella sua relazione col mondo. Wittgenstein esprime questo punto dicendo che le proposizioni raffigurano stati di cose, ossia combinazioni tra gli oggetti che costituiscono il mondo.

la relazione tra proposizioni e stati di cose

Questa raffigurazione non deve essere scambiata per una relazione di somiglianza o riproduzione totale dei particolari: ciò che essa esibisce è l’identità di forma tra ciò che raffigura e ciò che è raffigurato, come avviene nei modelli o nei plastici, dove la cosa importante – più che la fedeltà ai particolari minimi – è il rispetto delle relazioni tra le parti dell’originale. Una proposizione, tuttavia, non comunica la sua forma attraverso nomi o proposizioni, perché in tal caso si andrebbe all’infinito: la proposizione esibisce tale forma, ossia fa vedere – attraverso la combinazione e disposizione dei suoi elementi – che le cose stanno così .

la forma delle proposizioni rispecchia la forma della realtà

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Wittgenstein Il Tractatus

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LINGUAGGIO E MONDO linguaggio Le proposizioni complesse sono funzioni di verità delle proposizioni elementari

Dalla loro combinazione mediante operazioni logiche derivano le proposizioni complesse

Proposizioni elementari

1. Una proposizione elementare è vera se corrisponde ai fatti 2. Una proposizione elementare è falsa se non corrisponde ai fatti

raffigurano

Gli stati di cose sono possibili combinazioni di oggetti

Il fatto è il sussistere di uno stato di cose

Il mondo è la totalità di ciò che accade (fatti)

mondo

senso e valore di verità delle proposizioni

Proposizione elementare (o atomica) è l’unità minima fornita di senso, mentre i suoi costituenti isolati non lo sono: a essa corrisponde uno stato di cose elementare. Il senso di una proposizione è indipendente dal suo valore di verità o falsità. In altre parole, una proposizione ha senso anche se è falsa. Tale senso è un fatto logico: è possibile che lo stato di cose descritto sia reale e ciò non dipende da circostanze esterne. Comprendere una proposizione significa sapere come stanno le cose, quando essa è vera o falsa. Ora, come sappiamo, una proposizione raffigura stati di cose, mentre un fatto è il sussistere di uno stato di cose, ossia una possibilità realizzata. In questo senso, si può dire che i fatti sono ciò che rende una proposizione vera o falsa: vera se corrisponde a essi, falsa se non corrisponde. Per accertare la verità o falsità di una proposizione occorre, dunque, confrontarla con i fatti: tale procedura è detta verificazione.

il valore di verità delle proposizioni complesse

Le proposizioni complesse (o molecolari) sono funzioni di verità delle proposizioni elementari, cioè sono costruite a partire da queste ultime grazie all’impiego di costanti logiche. Il valore di verità delle proposizioni complesse dipende dal valore di verità delle proposizioni componenti. Così, per esempio, al posto della congiunzione tra due proposizioni elementari «p e q» si può scrivere la tavola dei suoi valori di verità, costruita in base ai valori di verità delle proposizioni componenti. Da essa risulta che la congiunzione – ossia la proposizione complessa – è vera soltanto se sono vere entrambe le proposizioni elementari. E la stessa cosa si può fare per l’implicazione «se p, allora q» o per la disgiunzione «p o q», che è falsa solo se entrambe le proposizioni elementari sono false, come risulta dai seguenti esempi, dove V indica vero e F falso:

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Il valore di verità delle proposizioni complesse p V V F F

q V F V F

«p e q» V F F F

«p o q» V V V F

Le costanti logiche non raffigurano stati di fatto, sono prive di contenuto le connessioni tra proposizioni oggettivo. Così la costante «non» non si riferisce a un oggetto, ma è soltanto uno strumento che fa parte dell’apparato di simboli con cui raffiguriamo il mondo e indica soltanto che è stata eseguita l’operazione logica del negare. Le connessioni tra proposizioni, ottenute con le costanti logiche, sono trasformazioni simboliche e quindi non rinviano necessariamente a connessioni oggettive tra fatti. Le proposizioni complesse descrivono stati di cose possibili e hanno un carattere fattuale, se – sottoposte ad analisi – risultano scomponibili in proposizioni elementari che raffigurino o no fatti. La verità o falsità delle proposizioni elementari può essere decisa attraverso un confronto di esse con i fatti. Accanto a queste proposizioni esistono però altre classi di proposizioni, che sono sempre vere, e altre, che sono sempre false, indipendentemente dal valore di verità delle proposizioni elementari che le costituiscono. Le prime sono chiamate da Wittgenstein tautologie e le seconde contraddizioni. Una tautologia è vera per qualsiasi combinazione dei valori di verità dei suoi costituenti. Prendiamo, per esempio, la proposizione «piove»: essa esprime soltanto la possibilità di un fatto e diventa vera, se piove, o falsa, se non piove. Partendo da essa costruiamo, mediante le costanti logiche «non» e «o», la disgiunzione «piove o non piove». «P o non p», secondo Wittgenstein, è una tautologia, che esaurisce tutte le possibilità ed è sempre vera, indipendentemente dalle specifiche situazioni di fatto. Procediamo, infatti, a costruire la tavola dei suoi valori di verità. In primo luogo, dovremo escludere – in base al principio del terzo escluso – i casi in cui p e non p sono entrambe vere o entrambe false. Essendo l’una la negazione dell’altra, infatti, o l’una o l’altra deve essere vera. Restano i due casi in cui o è vera p e falsa non p o è falsa p e vera non p, ma in entrambi questi casi la disgiunzione risulta vera.

le tautologie sono sempre vere

Una contraddizione è falsa per qualsiasi combinazione dei valori di verità delle sue componenti. Costruiamo a partire dalla proposizione elementare «piove», mediante le costanti logiche «non» ed «e», la congiunzione «piove e non piove» (ossia, «p e non p»). Anche qui, per la stessa ragione, vengono esclusi i casi in cui p e non p sono entrambe vere o entrambe false. Restano gli altri due casi, ossia che una delle due sia vera e l’altra falsa, ma dalla tavola dei valori di verità della congiunzione si vede che in entrambi i casi la congiunzione risulta falsa.

le contraddizioni sono sempre false

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I VALORI DI VERITÀ DI TAUTOLOGIE E CONTRADDIZIONI tautologie

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contraddizioni

tautologie e contraddizioni sono prive di senso

Per determinare la verità e la falsità – rispettivamente – della tautologia e della contraddizione, non occorre, dunque, confrontarle con il mondo: esse sono «senza senso» (in tedesco, unsinnig), in quanto non raffigurano il mondo, ma mostrano soltanto le proprietà del linguaggio. Ciò, tuttavia, non significa che esse siano inutili: esse, infatti, fanno parte del simbolismo ed esibiscono la struttura generale della possibilità e dell’impossibilità logica.

le proposizioni logicomatematiche

Tutte le proposizioni della logica, secondo Wittgenstein, sono tautologie. E tali sono anche le proposizioni della matematica, la cui forma logica è data dalla sostituibilità. Anche le proposizioni matematiche – ossia le equazioni – sono dunque senza senso, perché anch’esse non raffigurano il mondo, ma non sono insensate, in quanto la sostituibilità di certe espressioni con altre dice qualcosa sulla struttura logica del mondo. In conclusione, per Wittgenstein, le proposizioni autentiche o 1) hanno un carattere fattuale e descrivono fatti oppure 2) sono tautologie e mostrano l’impalcatura logica del mondo.

le proposizioni fisicoscientifiche e il mondo dei fatti

In particolare, le teorie scientifiche sono considerate da Wittgenstein – che su questo punto riprende una concezione elaborata dal fisico Heinrich Hertz [cfr. 17.1] – come reti proiettate sui fatti, le quali descrivono il mondo come una carta geografica raffigura un territorio, ossia attraverso coordinate scelte secondo la rappresentazione che si vuole ottenere. Il mondo dei fatti, di cui si occupano le teorie fisiche, è caratterizzato secondo Wittgenstein da un’assoluta contingenza, sicché non si può mai essere certi che domani sorgerà il sole. È illusorio ritenere che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fenomeni naturali. La necessità e l’impossibilità – che si esprimono nelle tautologie e nelle contraddizioni – esistono solo nello spazio della logica, non nel mondo dei fatti. Fuori dalla logica, secondo Wittgenstein, tutto è caso, sicché la fede nel nesso causale tra fatti «è solo superstizione» . All’ambito di ciò che può essere propriamente detto – ossia all’ambito delle proposizioni fattuali (scienze empiriche) o a quello delle tautologie (logica

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Wittgenstein Necessità logica e contingenza empirica

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e matematica) – non appartengono tutte le combinazioni di segni che hanno soltanto apparenza di proposizioni. Tali sono gli enunciati della filosofia – ossia della metafisica, dell’etica e dell’estetica – che nascono dal tentativo di oltrepassare i limiti del linguaggio, ossia del mondo. Le proposizioni del linguaggio, come si è visto, esibiscono la forma generale dei fatti, ma nessuna proposizione può raffigurare ciò che essa ha in comune col mondo, ossia ciò che fa di essa una descrizione accurata del mondo. Per poterlo fare occorrerebbe poter comparare dall’esterno il mondo e la raffigurazione di esso che si ha nel linguaggio. Ma ciò è impossibile, perché equivarrebbe a uscire dal mondo e dal linguaggio, immaginando di poter dire ciò che è oltre il mondo e il linguaggio, ossia ciò che appunto non può essere detto.

«i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo»

Il sentire il mondo come un tutto che ha limiti è ciò che Wittgenstein chiama il mistico: esso abbraccia il problema del senso della vita e tutto l’ambito dei valori, che non sono esprimibili in proposizioni che raffigurino fatti o possibilità di fatti. In questo senso, la filosofia abbandona la pretesa di costruire teorie generali della realtà e così di poter dire o non dire qualcosa sul mondo e assume la veste di un’attività di chiarificazione di ciò che si può dire o non dire. Nello svolgere tale attività, anch’essa genera proposizioni prive di senso, che tuttavia servono, come una scala che serve a salire, ma poi viene abbandonata non appena si sia giunti a delimitare l’ambito del dicibile da quello dell’ineffabile [t46].

la filosofia e i limiti del dicibile

APPROFONDIMENTO

Wittgenstein e la riflessione sulla matematica

Dopo la composizione del Tractatus, Wittgenstein – convinto di aver risolto nell’essenziale tutti i problemi – abbandonò la filosofia. Nel maggio del 1928 udì a Vienna una conferenza di Brouwer sui fondamenti dell’aritmetica [  approfondimento, p. 488], nella quale si mostrava che la matematica non è un corpo di leggi eterne, ma un complesso di operazioni, fondate sull’intuizione originaria della serie numerica. In Wittgenstein tornò a risvegliarsi l’interesse per la filosofia della matematica. Egli si venne convincendo che l’intrusione della logica nella matematica – perseguita da Frege e da Russell – aveva effetti deleteri, perché creava l’illusione di un linguaggio ideale perfetto. La sua esperienza di maestro gli confermava che il modo in cui si fa matematica nelle scuole ele-

mentari è rigoroso ed esatto e non ha affatto bisogno di essere corretto con gli strumenti della logica. Il calcolo si giustifica da sé, allo stesso modo in cui un gioco si giustifica in base alle proprie regole. Ma che significa seguire una regola? Le tracce della riflessione di Wittgenstein su questi problemi sono documentate già a partire dal 1933, negli appunti raccolti nei Quaderni blu e marrone e poi nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, tra il 1937 e il 1944. La matematica è un insieme molteplice di tecniche, che esibiscono la struttura che è propria di un gioco. Un calcolo, infatti, è un complesso di operazioni compiute in conformità a certe regole, le quali – come le regole di un gioco – prescrivono o vieta-

no determinate mosse. A differenza di altri giochi, tuttavia, come per esempio gli scacchi, la matematica può entrare a far parte anche di altri giochi: essa serve anche a contare, a misurare, a fare inferenze e così via. Se cambiassero o scomparissero le regole degli scacchi, la nostra vita quotidiana non ne sarebbe gravemente modificata; ma se cambiassero le regole della matematica, sarebbe ancora possibile la maggior parte dei giochi della vita quotidiana e, in generale, comunicare? Si tratta, allora, di indagare che cosa significhi in matematica seguire una regola per compiere inferenze e dimostrazioni, chiedendosi anche che cosa accadrebbe se non si seguisse tale regola, per esempio se non si compissero le inferenze nel modo che di fatto è usato. La dimostrazione matema-

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tica è una successione finita di passi, che possono essere seguiti e – nella loro configurazione grafica – abbracciati con lo sguardo. Ma essa è anche riproducibile e, per questo aspetto, può essere considerata un modello che fornisce la regola di un procedimento. In quanto modello, la regola non ha bisogno di essere giustificata, proprio come avviene nelle regole della grammatica: la regola (per esempio il fatto che l’articolo precede il sostantivo) è applicata

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concretamente e nel suo uso consiste la sua giustificazione. In questo senso, regole e modelli sono convenzioni e non devono essere concepite come leggi logiche – inscritte in un mondo eterno e immutabile – come pretendevano Frege e Russell e com’egli stesso aveva pensato nel Tractatus. Se si pone la domanda: «Perché a certe proposizioni o a certi numeri ne seguono determinati altri?», si è indotti a rispondere

che ciò dipende dal fatto che tra numeri o proposizioni esistono relazioni in sé, dotate di intrinseca necessità. Ma questa domanda, secondo Wittgenstein, è mal posta; la domanda ben posta è invece quest’altra: «Perché a determinate proposizioni o numeri ne facciamo sempre seguire certi altri?». In quest’ultimo caso, allora, la risposta diventa: «Perché ci hanno insegnato a inferire o contare così e così facciamo nella vita quotidiana».

5. Wittgenstein: linguaggio ed esperienza giochi linguistici e forme di vita

Le riflessioni di Wittgenstein sulla matematica si accompagnano all’abbandono della ricerca di una forma generale della proposizione, ossia di un linguaggio ideale con un’unica struttura portante. Egli acquista sempre più consapevolezza dell’esistenza di una pluralità di giochi linguistici , i quali non sono dati una volta per tutte, ma sorgono e scompaiono. Nessuno di essi riveste una posizione di primato, neppure un gioco linguistico fatto di proposizioni che descrivono direttamente i dati dell’esperienza sensibile, come pretendevano i neopositivisti [cfr. 17.2]: Come faremo allora a spiegare a qualcuno che cos’è un giuoco? Io credo che gli descriveremo alcuni giuochi, e poi potremmo aggiungere: «questa, e simili cose, si chiamano “giuochi”». E noi stessi, ne sappiamo di più? Forse soltanto all’altro non siamo in grado di dire esattamente che cos’è un giuoco? – Ma questa non è ignoranza. Non conosciamo i confini perché non sono tracciati (Ricerche filosofiche, n. 69).

Riprendendo una tesi formulata dal linguista Mauthner – ma presente già in Ernst Mach [cfr. 17.1], Wittgenstein sostiene che il parlare è un’attività naturale, come respirare o bere o camminare. In questo senso, i vari modi in cui si estrinseca il parlare – dal raccontare al comandare, all’interrogare, al chiacchierare e così via – fanno parte della storia naturale degli uomini e appartengono alle forme di vita (in tedesco, Lebensformen), in cui essa si articola. l’antiessenzialismo

I molteplici giochi linguistici sono detti tutti giochi non perché posseggano un’unica essenza comune, ma perché tra essi sussiste una somiglianza di famiglia, analoga a quella che sussiste tra i vari membri di una famiglia – simili tra loro per certi aspetti e non per altri:

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Che cosa vuol dire: sapete che cos’è un giuoco? Che cosa vuol dire saperlo e non essere in grado di dirlo? Questo sapere è in qualche modo equivalente a una definizione non formulata? Di modo che, se venisse formulata, potrei riconoscere in essa l’espressione del mio sapere? Il mio sapere, il mio concetto di giuoco, non è completamente espresso nelle spiegazioni che io potrei dare? Cioè, nel fatto che descrivo esempi di giuochi di tipi differenti; faccio vedere come sia possibile costruire per analogia ogni sorta di altri giuochi possibili; dico che la tal cosa difficilmente si potrebbe chiamare giuoco, e molte altre cose del genere (Ricerche filosofiche, n. 75).

Wittgenstein si oppone a ogni forma di essenzialismo (o platonismo), che postuli l’esistenza di entità universali corrispondenti a termini generali (linguaggio, sapere, concetto, ecc.). I legami che intercorrono tra i vari giochi linguistici non rinviano, dunque, a un’essenza unica del linguaggio: all’indagine delle loro caratteristiche sono dedicate soprattutto le Ricerche filosofiche. Le parole, secondo Wittgenstein, non possono essere considerate come entità isolate che rimandano direttamente agli oggetti da esse designate. L’esistenza di un linguaggio, nel quale a ogni parola corrisponde uno e un solo oggetto – ossia l’esistenza di un significato unico per ciascuna parola – è, secondo Wittgenstein, un mito. Viene così a crollare l’idea del Tractatus, secondo cui sarebbe possibile analizzare completamente le proposizioni del linguaggio, scomponendole in proposizioni atomiche elementari in relazione immediata di corrispondenza con stati di cose.

il rifiuto della corrispondenza parola-oggetto

Apparentemente, sembrerebbe che il modo in cui s’insegna a parlare ai bambini, mostrando loro oggetti e pronunciando il nome di essi, si fondi su una corrispondenza immediata tra nomi e oggetti. In realtà, secondo Wittgenstein, anche questo gioco linguistico può funzionare solo in un contesto in cui siano accettate determinate consuetudini circa il modo di indicare e così via. In altri termini, per comprendere una parola, occorre afferrare come è usata in un certo luogo, entro certi contesti e in determinate istituzioni, incorporate entro una più generale forma di vita, propria di una comunità.

comprendere l’uso delle parole nei differenti contesti

La pluralità dei giochi linguistici è, dunque, strettamente correlata agli scopi a cui serve ciascuno di essi. Wittgenstein può così formulare la tesi che il significato di una parola o di un’espressione è nell’uso che si fa di essa. Gli uomini apprendono il linguaggio non attraverso spiegazioni, ma addestrandosi al suo uso nella vita. Poiché, come ha mostrato nel caso della matematica, non esistono regole eterne e definitive, sono gli usi praticati da una comunità entro una certa forma di vita a determinare in che consista il seguire le regole proprie dei singoli giochi linguistici. In questo senso, ogni regola è pubblica. Ogni linguaggio usa nomi ed espressioni sempre in accordo a regole implicite o esplicite, riconosciute di fatto da una comunità, sicché non è concepibile l’idea di un linguaggio privato.

«il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio»

Capire un’espressione linguistica è una questione di uso e di abitudine, non è un processo mentale privato. Anche per capire le espressioni che de16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein

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non esiste un linguaggio privato

scriverebbero un presunto evento privato – per esempio «provo dolore» – occorre prendere in considerazione il gioco linguistico entro il quale sono pronunciate sempre in un unico modo e con l’unico scopo di trasmettere pensieri o descrivere stati interni: così l’espressione «provo dolore» non è la descrizione di uno stato che soltanto io posso conoscere, ma può equivalere a un grido o essere un modo per richiamare l’attenzione degli altri su di sé. Di fatto, sostiene Wittgenstein, la parola «dolore» è stata appresa col linguaggio e quindi appartiene a un gioco linguistico, che non ha carattere privato [t47].

il nuovo compito della filosofia

Come si è visto, il sogno – in cui credevano Frege e Russell – di determinare la struttura logico-formale del linguaggio è venuto meno, e con esso anche l’ideale di una filosofia come scienza normativa che purifichi le inesattezze e le imprecisioni del linguaggio naturale attraverso la costruzione di linguaggi ideali. Quale sarà, allora, il compito della filosofia? Secondo Wittgenstein, esso consiste nella descrizione degli usi effettivi del linguaggio nella vita ordinaria, non nella modificazione di essi. Ogni proposizione del nostro linguaggio è in ordine così com’è: Da un lato è chiaro che ogni proposizione del nostro linguaggio «è in ordine così com’è». Vale a dire: non ci sforziamo di raggiungere un ideale: come se le vaghe proposizioni che usiamo comunemente non avessero ancora un senso del tutto ineccepibile e noi dovessimo ancora costruire un linguaggio perfetto. – D’altra parte sembra chiaro questo: che, dove c’è senso, là dev’esserci ordine perfetto. – L’ordine perfetto deve dunque essere presente anche nella proposizione più vaga. La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltando descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è (Ricerche filosofiche, nn. 98, 124).

Su quest’ultimo punto Wittgenstein si mantiene fedele a un assunto formulato già nel Tractatus, che conteneva anche la tesi che i problemi filosofici nascono da confusioni linguistiche. I giochi linguistici, tuttavia, non sono soltanto oggetto di analisi, ma possono anche essere strumenti di analisi. È possibile, infatti, immaginare situazioni linguistiche artificiali e per questa via mettere in luce aspetti inavvertiti del linguaggio o criticare determinate teorie sul linguaggio: I nostri chiari e semplici giochi linguistici non sono studi preparatori per una futura regolamentazione del linguaggio, – non sono, per così dire, prime approssimazioni nelle quali non si tiene conto dell’attrito e della resistenza dell’aria. I giuochi linguistici sono piuttosto termini di paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissimiglianze, sullo stato del nostro linguaggio (Ricerche filosofiche, n. 130).

In questo senso, Wittgenstein – forse influenzato anche da Moore – ritiene che la filosofia debba essere intesa come una sorta di terapia linguistica, da 496

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esercitare nei confronti del linguaggio della stessa tradizione filosofica – e non del linguaggio ordinario, che non soffre di malattie. È nella metafisica che il linguaggio è malato e gira a vuoto: i problemi filosofici sono illusioni che nascono da sgrammaticature compiute nei confronti degli usi linguistici comuni. Essi sono paragonati da Wittgenstein a crampi linguistici o a bernoccoli che ci si procura battendo contro i limiti del linguaggio. In questa situazione, la filosofia può cercare di insegnare alla mosca a uscire dalla bottiglia, ossia dalla trappola in cui il linguaggio è caduto nei suoi usi metafisici, e ciò può avvenire attraverso una terapia che riporti le parole «sgrammaticate» della metafisica agli usi «terra terra» della vita ordinaria. Ridotti alla loro forma grammaticale, i problemi filosofici tradizionali si rivelano per quello che sono, serie di parole prive di senso, «edifici di cartapesta», che è utile distruggere, perché in tal modo scompaiono .

le questioni metafisiche vanno dissolte

in poche... parole Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento si assiste ad una ripresa dell’interesse per la logica formale e per la filosofia della matematica. La principale preoccupazione di filosofi e matematici come Frege e Russell era quella di salvaguardare l’oggettività e la validità universale del sapere matematico: la strada seguita da entrambi fu quella di definire i concetti aritmetici in termini logici e di fondare la conoscenza matematica su nozioni puramente logiche. A questo scopo, Frege inventò una ideografia, e cioè un linguaggio artificiale formalizzato, costituito da simboli scritti privi di ambiguità: il nucleo dell’ideografia è costituito dalla proposizione, e cioè dal contenuto concettuale degli enunciati, che non dipende dalle circostanze empiriche dell’enunciazione. In disaccordo con gli empiristi, gli psicologisti e i formalisti, inoltre, Frege ritiene che

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Wittgenstein Filosofia e terapia linguistica

i numeri abbiano un contenuto e una validità oggettivi, senza essere sensibili, né dipendenti dallo spazio e dal tempo. A partire dalle ricerche sulla matematica e sulla logica, Frege analizza la natura delle proposizioni attraverso le nozioni di argomento e di funzione e distingue il significato (in tedesco, Bedeutung) di un’espressione linguistica dal suo senso (in tedesco, Sinn). Dal canto suo, Russell sostiene che l’operazione del contare su cui si basa la matematica è descrivibile grazie alle nozioni di ordine e di successione. Secondo Russell, per spiegare queste ultime non bisogna fare riferimento alla logica tradizionale del soggettopredicato, ma alla logica delle relazioni (simmetriche, asimmetriche, transitive). Inoltre, nei Princìpia mathematica scritti insieme a Whitehead, Russell afferma che i tre concetti fondamentali della teoria dei numeri naturali

(zero, numero e successore immediato) individuati da Peano sono riconducibili alle nozioni logiche di classe e di relazione. Ben presto, Russell si rese conto che la nozione di classe (o di insieme) può dare luogo ad alcuni paradossi, mandando in crisi il programma logicistico della fondazione della matematica: a che serve definire i numeri in termini di classi, se la nozione di classe genera contraddizioni? Russell cerca di risolvere l’antinomia delle classi attraverso la teoria dei tipi. L’altro problema affrontato da Russell è quello della conoscenza del mondo esterno e del rapporto tra il linguaggio e il mondo. A questo proposito, egli distingue due tipi di conoscenza («diretta» e «per descrizione») e sostiene che le cose del senso comune, come gli oggetti delle scienze fisiche, sono costruzioni logiche a partire dai sensibilia (= costituenti ultimi del mondo fisi-

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co). In questo quadro, Russell elabora la teoria dell’atomismo logico: in base ad essa, il mondo è costituito da fatti atomici (dati sensibili e universali) a cui corrispondono delle proposizioni atomiche; il valore di verità delle proposizioni dipende dalla loro corrispondenza (o meno )con i fatti testimoniati dall’esperienza immediata.

nome proprio Frege chiama no-

me proprio qualsiasi espressione che abbia la funzione di denotare un’entità individuale (ad esempio Carlo, il padre di Vincenzo, ecc.). Russell invece introduce una distinzione tra 1) le espressioni che denotano un individuo in base a certe proprietà (descrizioni definite) e 2) le espressioni che denotano un individuo in modo diretto – a prescindere dalle sue proprietà (nomi logicamente propri). A differenza di Frege, dunque, Russell ritiene che espressioni del tipo «Cesare», «Walter Scott», non siano nomi propri, ma abbreviazioni di descrizioni definite. A suo avviso, infatti, si tratta di espedienti retorici, che di fatto hanno la funzione di abbreviare descrizioni come «il figlio di Cesare», «l’autore di Ivanhoe». Ma quali sono, allora, i nomi logicamente propri? Secondo Russell, essi corrispondono nel linguaggio naturale alle espressioni dimostrative come «questo» o «quello», le sole capaci di denotare in modo immediato un’entità individuale.

descrizione Termine usato da Russell per indicare espressioni come «un uomo», «tutti gli uomini», «l’autore di Bartleby lo scrivano» o «l’attuale re di Francia», che hanno senso, ma non denotano, ossia non si riferiscono necessariamente a entità individuali uniche o necessariamente esistenti. In particolare, le espressioni non denotanti precedute dall’articolo determinativo sono dette da Russell descrizioni definite. La forma 498

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grammaticale (soggetto-predicato) di tali espressioni è, secondo Russell, ambigua e impedisce di stabilire il loro valore di verità. Per questa ragione, a suo avviso, occorre mettere in luce la vera forma logica delle descrizioni. Ad esempio, l’enunciato «l’autore di Bartleby lo scrivano è americano» è analizzabile e riformulabile nelle asserzioni: «Esiste uno e un solo individuo A che è l’autore di Bartleby lo scrivano» e «A è americano». Il valore di verità dell’enunciato risulta allora determinato dal valore di verità delle due asserzioni: poiché la prima è vera, ne consegue che anche la seconda è vera. Russell usa anche l’espressione «conoscenza per descrizione», per distinguerla dalla conoscenza che si ha per esperienza diretta.

atomismo logico Russell intro-

duce la nozione di atomismo logico, per indicare la teoria secondo cui esistono atomi logici, ossia proposizioni elementari o atomiche, alle quali si arriva attraverso l’analisi di proposizioni complesse o molecolari. La formazione di Wittgenstein, avvenuta a Cambridge a stretto contatto con Russell e Moore, orientò la sua ricerca verso i problemi della logica, della matematica e del linguaggio. Nella sua unica opera edita, il Tractatus, egli illustra i rapporti tra il linguaggio e il mondo, e cioè tra le proposizioni e gli stati di cose, descrivendolo in termini di raffigurazione: ogni proposizione raffigura le combinazioni tra gli oggetti che costituiscono la totalità di ciò che accade (= il mondo). Tale raffigurazione non va intesa come una rassomiglianza, ma come un’identità di forma tra raffigurante e raffigurato, esibita dalla proposizione stessa. Wittgenstein distingue tra il senso e il valore di verità delle proposizioni: comprendere il senso di una proposizione equivale a

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sapere come stanno le cose, indipendentemente dalla sua verità o falsità; il valore di verità di una proposizione si può invece accertare solo confrontando una proposizione con i fatti. In altri termini, mentre il senso è un fatto logico, in quanto indica uno stato di cose possibile (= una possibile combinazione di oggetti), il valore di verità ha a che vedere con i fatti, e cioè con delle possibilità realizzate (= il sussistere effettivo di uno stato di cose). Sempre nel Tractatus, Wittgenstein distingue tra proposizioni elementari (o atomiche) e proposizioni complesse (o molecolari), affermando che queste ultime derivano dalla combinazione di più proposizioni semplici connesse tra loro attraverso delle costanti logiche. Accanto a queste proposizioni, che possono essere vere o false, egli individua le tautologie (= le proposizioni della logica e della matematica), che risultano sempre vere, e le contraddizioni, che invece risultano sempre false: per questi motivi, tautologie e contraddizioni non raffigurano il mondo, ma si limitano ad esibire le proprietà logiche del linguaggio. Nella seconda fase del suo pensiero, coincidente con la stesura delle Ricerche filosofiche e di numerose altre opere, Wittgenstein abbandona la ricerca di un linguaggio ideale a cui ricondurre quello ordinario e sostiene l’esistenza di una pluralità irriducibile di giochi linguistici che appartengono a forme di vita (in tedesco, Lebensformen) determinate: il parlare è un’attività naturale che dipende dalle consuetudini della comunità dei parlanti e dai contesti d’uso. In questo quadro si iscrive la critica di Wittgenstein all’idea di un linguaggio privato e alla filosofia come scienza normativa, che elimini le ambiguità dei linguaggi naturali attraverso la costruzione di un linguaggio ideale. A suo avviso, la filosofia

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ha il compito di descrivere e chiarire i giochi linguistici che si dispiegano nella vita ordinaria; essa, inoltre, deve mettere in atto una sorta di terapia linguistica nei confronti dei problemi metafisici tradizionali, in gran parte derivanti da sgrammaticature o errori categoriali, e così contribuire a dissolverli mostrandone l’insensatezza.

giochi linguistici Nozione introdotta da Wittgenstein, partendo dal riconoscimento che la matematica è un insieme di tecniche, che esibiscono la struttura propria di un gioco, ossia la conformità a regole. In quanto modello procedurale, la regola non ha bisogno di essere giustificata: la sua giustificazione consiste nel suo uso. Ciò significa che regole e modelli sono convenzioni, non leggi logiche inscritte in un mondo eterno e immutabile. I giochi linguistici fondati su regole sono molteplici, nascono e scompaiono: non c’è un linguaggio ideale con un’unica struttura di base e nessuno dei giochi ha un primato sugli altri. Il

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fatto che siano detti tutti giochi non dipende da una presunta essenza comune, ma soltanto perché tra essi sussiste una somiglianza di famiglia. Inoltre, ogni regola è costitutivamente pubblica e quindi ogni gioco linguistico è anch’esso pubblico, usa sempre nomi ed espressioni conformemente a regole implicite o esplicite, riconosciute di fatto da una comunità. Per questo motivo, non è concepibile l’idea di un linguaggio esclusivamente privato. Frege ha distinto senso e significato. Secondo Frege due espressioni, ad esempio «stella del mattino» e «stella della sera», hanno lo stesso significato in quanto si riferiscono allo stesso oggetto, dal momento che si è scoperto che la stella del mattino (Espero) e la stella della sera (Vespero) sono la stessa entità. Esse però non hanno lo stesso senso, in quanto si riferiscono allo stesso oggetto in modo diverso, ossia contengono pensieri diversi. Il pensiero non è la rappresentazione mentale di un oggetto, che è pura-

significato

mente soggettiva e privata e può variare da individuo a individuo; il senso invece ha carattere oggettivo e intersoggettivo e può quindi essere compreso anche da altri. Secondo Frege, il significato di una proposizione non è il pensiero che essa contiene, ossia il modo in cui parla di un oggetto, ma il suo valore di verità, ossia la circostanza che essa sia vera o falsa. Per Wittgenstein, i nomi hanno senso solo entro una proposizione e le proposizioni raffigurano stati di cose, ossia combinazioni possibili tra gli oggetti che costituiscono il mondo. Comprendere il significato di una proposizione equivale allora a sapere come stanno le cose, quando essa è vera o è falsa. Per accertare la verità o falsità di una proposizione occorre dunque confrontarla coi fatti: tale procedura è la verificazione. In una fase successiva, Wittgenstein combatte il mito dell’esistenza di un significato unico per ciascuna parola. A suo avviso, il significato di una parola o espressione consiste nell’uso che si fa di essa nella vita.

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i testi t45 Russell / L’atomismo logico Russell

La filosofia dell’atomismo logico

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Nel 1918, Russell pubblicò con il titolo La filosofia dell’atomismo logico, in tre puntate sulla rivista «The Monist», il testo di 8 conferenze da lui tenute nei primi mesi dell’anno a Londra. Esso è poi stato raccolto, insieme ad altri saggi di Russell, composti fra il 1911 e il 1950, in un volume dal titolo Logica e conoscenza. Nella premessa alla pubblicazione sulla rivista, Russell presentava le conferenze come per gran parte una esposizione di idee apprese dal suo amico ed ex allievo Ludwig Wittgenstein, con cui aveva perso i contatti dopo lo scoppio della guerra e del quale ignorava se fosse ancora vivo o morto. Russell avrebbe poi cercato e trovato conferma di determinati aspetti del suo atomismo logico nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein . Il punto di partenza di Russell è una rivendicazione dell’importanza dell’analisi come strumento d’indagine filosofica, contro la svalutazione di essa operata dagli idealisti, fautori di una logica «monistica», secondo cui la molteplicità apparente del mondo sarebbe costituita soltanto da fasi e suddivisioni irreali di «una singola Realtà indivisibile». A ciò Russell oppone il suo atomismo logico, che risulta invece coerente con «la convinzione comune che vi siano molte cose distinte», ossia, in termine tecnico, atomi. La specificità sta nel fatto che gli atomi di cui parla Russell sono logici e non fisici.

L’analisi logica La ragione per la quale chiamo atomismo logico la mia dottrina è che gli atomi ai quali intendo arrivare, come ultimo residuo dell’analisi, sono atomi logici e non atomi fisici1. Alcuni di essi saranno quelli che chiamo «particolari»: macchioline di colore, brevi suoni, cose momentanee; alcuni di essi saranno predicati o relazioni, e così via. L’essenziale è che l’atomo al quale voglio arrivare è l’atomo dell’analisi logica, non l’atomo dell’analisi fisica. Avviene nella filosofia un fatto abbastanza curioso. I dati inconfutabili2 dai quali si deve partire sono sempre piuttosto vaghi e ambigui. Potete dire, ad esempio: «Adesso ci sono parecchie persone in questa stanza». Ovviamente, in certo senso, ciò è inconfutabile. Ma quando 1. L’analisi praticata da Russell mira a individuare, attraverso procedimenti di scomposizione di entità complesse, entità semplici non ulteriormente divisibili (ossia atomi). Questi atomi, tuttavia, sono logici, non fisici e quindi saranno logiche anche le entità complesse da

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tentate di definire che cos’è questa stanza, e che cosa significa che una persona sta in una stanza, e come si distingue una persona da un’altra, e così via, scoprite che quel che avete detto è spaventosamente vago e che in realtà non sapete che cosa volevate dire. Ecco il fatto singolare: tutto ciò di cui siete realmente sicuri è in effetti qualcosa di cui non conoscete neppure il significato; e nel momento in cui fate un’affermazione precisa, non siete certi, in effetti, se sia vera o no. Il processo filosofico, secondo me, consiste soprattutto nel passare da queste cose ovvie, ma vaghe e ambigue, delle quali ci sentiamo tanto sicuri, a qualcosa di preciso, chiaro, definito, che, per mezzo della riflessione e dell’analisi, scopriamo essere implicito nel dato vago dal quale siamo partiti. [...]

analizzare: l’ambito di operazione dell’analisi è dato dunque dal linguaggio, in particolare dalle proposizioni. 2. Il fatto che una cosa non possa essere confutata da nessuno non significa, secondo Russell, che tale cosa sia vera, ma soltanto che «noi tutti la giu-

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dichiamo vera». Essenziale è distinguere tra dati inconfutabili di partenza, i quali sono sempre vaghi e ambigui, e dati inconfutabili di arrivo al termine dell’analisi, che mira appunto a eliminare tali vaghezze e ambiguità, individuando gli atomi logici.

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I fatti La prima banalità sulla quale desidero richiamare la vostra attenzione3 (e spero converrete con me che quelle che chiamo banalità sono cose talmente ovvie da render quasi ridicolo il citarle) è questa: il mondo contiene dei fatti, i quali sono quel che sono, qualunque cosa scegliamo di pensare attorno a essi; e nel mondo vi sono anche dei convincimenti, i quali si riferiscono ai fatti e in relazione ai fatti sono veri o falsi. Tenterò prima di tutto di spiegare in via preliminare che cosa intendo per «un fatto». Quando parlo di un fatto, non mi propongo di azzardare una definizione esatta ma soltanto una spiegazione che serva a farvi capire di che cosa sto parlando, intendo quel genere di cose che rende un enunciato vero o falso. Se dico: «Sta piovendo», ciò che dico è vero in una determinata condizione atmosferica ed è falso in un’altra condizione atmosferica. La condizione atmosferica che rende vera (o falsa) la mia affermazione, è quel che chiamo «un fatto». Se dico: «Socrate è morto», la mia affermazione è vera grazie a un determinato evento fisiologico verificatosi ad Atene molto tempo fa. Se dico: «La gravità varia in ragione inversa al quadrato della distanza», la mia affermazione è resa vera da un fatto astronomico. Se dico: «Due più due fanno quattro», è un fatto aritmetico che rende vera la mia affermazione. D’altro canto, se dico: «Socrate è vivo», o «La gravità è direttamente proporzionale alla distanza», o «Due più due fanno cinque», gli identici fatti che rendevano vere le mie precedenti affermazioni 3. Non si dimentichi che questo saggio

è il testo di una conferenza, nella quale Russell si rivolge direttamente agli ascoltatori. Qui egli intende chiarire il significato dell’asserzione, a prima vista banale (e ricorrente anche nel Tractatus di Wittgenstein ), secondo cui il mondo contiene fatti. Un fatto di per sé non è né vero né falso, ma è ciò che rende un enunciato vero o falso. Quindi, per «fatto» non si deve intendere necessariamente una cosa particolare esistente, la quale di per sé non rende veri o falsi gli enunciati in cui ricorre il suo nome. Veri-

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Wittgenstein Il Tractatus

dimostrano che queste nuove affermazioni sono false. Desidero farvi comprendere che quando parlo di un fatto non mi riferisco a una particolare cosa esistente, come Socrate o la pioggia o il sole. Socrate, di per se stesso, non rende vera o falsa alcuna affermazione. Potreste essere inclini a supporre che Socrate, di per se stesso, potrebbe conferire verità all’affermazione «Socrate è esistito», e invece questo è uno sbaglio. È uno sbaglio dovuto a una confusione che tenterò di precisare in un’altra conferenza, quando mi occuperò della nozione di esistenza. Socrate, di per se stesso, così come qualsiasi altra cosa particolare presa soltanto per se stessa, non rende vero o falso nessun enunciato. «Socrate è morto» e «Socrate è vivo» sono due affermazioni riferentisi entrambe a Socrate. Una è vera e l’altra è falsa. Quel che chiamo un fatto è il tipo di cosa che viene espresso da una frase intera, non da un nome singolo come «Socrate». Quando una singola parola viene assunta per esprimere un fatto, come «fuoco» o «lupo», ciò è dovuto sempre a un contesto inespresso; l’espressione completa di un fatto richiede sempre una frase. Esprimiamo un fatto, ad esempio, quando diciamo che una certa cosa ha una certa proprietà o che sta in una certa relazione con un’altra cosa; ma la cosa che ha quella proprietà o quella relazione non è quel che chiamo «un fatto»4. [...]

Il significato Forse dovrei dire una parola o due su quel che intendo per simbolismo, perché forse c’è chi

tà o falsità è qualcosa che riguarda frasi intere, non nomi singoli. È chiaro che per «enunciato» qui Russell intende una frase al modo indicativo, ossia una frase che asserisce o nega qualcosa, non, per esempio, una frase che interroga oppure ordina o auspica qualcosa. 4. Da ciò consegue, tra l’altro, che il mondo esterno, che per Russell esiste oggettivamente ed è ciò che si aspira a conoscere, non è compiutamente descritto facendo riferimento a un certo numero di cose particolari, ma occorre aggiungervi i fatti, ossia «quel tipo di

cose che esprimiamo con le frasi». Anche i fatti, così intesi, fanno parte del mondo reale e, quindi, le proposizioni che li esprimono non sono eventi puramente mentali, psicologici. I fatti, poi, sono ulteriormente divisibili in particolari, espressi, per esempio, nella proposizione «questo è bianco», e generali, come nella proposizione «tutti gli uomini sono mortali». Anche qui Russell mette in guardia dall’errore di supporre che il mondo sia completamente descrivibile solo per mezzo di fatti particolari.

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pensa che, parlando del simbolismo, ci si riferisca soltanto ai simboli matematici. Adopero il termine nel senso di includervi qualsiasi linguaggio d’ogni genere e tipo, per cui ogni parola e ogni frase sono simboli, e così via5. Quando parlo di un simbolo, intendo semplicemente qualcosa che «significa» qualcos’altro: che cosa intendo con «significato», non sono in grado di spiegarvelo adesso. Citerò via via un’infinità di diversi significati possibili della parola «significato», ma neanche così reputerò di aver esaurito l’argomento. Credo che la nozione di significato sia sempre più o meno psicologica, e che non sia possibile elaborare una teoria puramente logica del significato, e quindi neppure del simbolismo6. Credo che per avvicinarsi all’essenziale, allorché si cerca di spiegare che cosa s’intenda per simbolo, sia necessario tener conto della conoscenza, delle relazioni conoscitive, e forse anche delle associazioni d’idee. Ho messo in chiaro, comunque, che la teoria del simbolismo e l’uso del simbolismo non possono esser spiegati con la logica pura, senza tener conto delle varie relazioni conoscitive che si possono avere con le cose. Circa quel che si intende per «significato», posso fornire qualche esempio. La parola «Socrate», direte, significa un certo uomo; la parola «mortale» significa una certa qualità; e la frase «Socrate è mortale» significa un certo fatto. Ma questi tre tipi di significato sono completamente distinti l’uno dall’altro, e vi andrete a cacciare nelle contraddizioni più disperate pensando che la parola «significa» abbia lo stesso significato nei tre casi. È importantissimo non mettersi in testa che con «significato» s’intenda una cosa sola, e che quindi esista un solo tipo di relazione tra il simbolo e quel che 5. Ogni enunciato è un simbolo com-

plesso, nel senso che contiene parti (parole), che sono anch’esse simboli. Naturalmente, esistono diversi tipi di simboli e diversi tipi di relazione tra simboli. Dalla confusione tra esse possono nascere quegli errori, che egli tentava di evitare mediante la teoria dei tipi.

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è simboleggiato. Un nome è il simbolo adatto da adoperare per una persona; una frase (o un enunciato) è il simbolo adatto per un fatto.

Fatti ed enunciati Un convincimento o un’affermazione posseggono un dualismo di verità e di falsità, che il fatto non possiede. Un convincimento o un’affermazione implicano sempre un enunciato. Si dice che un tale crede che le cose stiano così e così. Un tale crede che Socrate sia morto. Quel che egli crede è un enunciato, e formalmente conviene assumere l’enunciato stesso come la cosa essenziale contenente il dualismo tra verità e falsità. È molto importante comprendere questo, ad esempio: che gli enunciati non sono nomi attribuiti ai fatti. Non appena ve la fanno notare, la cosa appare ovvia, ma all’atto pratico non me n’ero mai reso conto finché non me la fece osservare un mio ex allievo, Wittgenstein. È del tutto evidente, non appena fate mente locale, che un enunciato non è il nome di un fatto; basta tener presente la circostanza che a ciascun fatto corrispondono due enunciati7. Supponiamo che sia un fatto che Socrate è morto. Avete due enunciati: «Socrate è morto» e «Socrate non è morto». E dato che questi due enunciati corrispondono allo stesso fatto, vi è un unico fatto al mondo che li rende uno vero e uno falso. Ciò non è accidentale, e dimostra come la relazione tra enunciato e fatto sia totalmente diversa dalla relazione tra nome e cosa nominata. Per ciascun fatto vi sono due enunciati, uno vero e uno falso, e non vi è niente nella natura del simbolo che ci mostri quale sia quello vero e quale sia quello falso. Se vi fosse, potreste accertare la verità sul mondo esaminando gli enunciati, e senza neppure guardarvi attorno.

6. Russell si allontana qui dalla teoria

del significato in termini puramente logici e antipsicologistici, elaborata per esempio da Frege , ma anche dalle sue precedenti convinzioni, per affermare l’impossibilità di scindere completamente la logica dall’epistemologia. 7. La relazione tra il nome e la cosa nominata risulta essere una relazione uno

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a uno, mentre quella tra enunciato e fatto non è tale. Al fatto che Socrate è morto, che è uno, corrispondono infatti due enunciati, di cui uno è vero e l’altro è falso. Ciò significa che gli enunciati, in quanto simboli, da soli non ci mostrano quale sia l’enunciato vero e quale il falso: per riconoscere ciò, occorre confrontare gli enunciati con il fatto.

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Come vedete, vi sono due differenti relazioni che un enunciato può avere con un fatto: una è la relazione che possiamo chiamare «esser vero in rapporto al fatto», l’altra relazione possiamo chiamarla «esser falso in rapporto al fatto». Entrambe sono, allo stesso modo, relazioni essenzialmente logiche che possono sussistere tra enunciato e fatto; mentre, nel caso di un nome, vi è un’unica relazione che esso può avere con ciò che denomina. Un nome può denominare soltanto un particolare, oppure, se non lo denomina, non è affatto un nome, è un rumore. Non può essere un nome se non possiede proprio quell’unica relazione particolare che consiste nel denominare una certa cosa, mentre un enunciato non cessa di essere un nome ma soltanto un rumore privo di senso, così una frase che ha l’aspetto di un enunciato può essere vera o falsa, o può essere priva di senso, ma il fatto di essere vera e il fat8. Si può dire che un enunciato è senza

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senso, è un puro e semplice rumore, quando non consente un confronto con i fatti, il quale lo renda vero o falso.

to di essere falsa si contrappongono, insieme, al fatto di essere insensata8.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono l’«atomismo logico», poi formula la definizione con parole tue. 2. Perché, secondo Russell, un fatto non si riferisce mai soltanto a una particolare cosa esistente? 3. Perché, secondo Russell, un fatto può essere espresso solo da una proposizione? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alla domanda. 4. Che cosa intende Russell per simbolo? Evidenzia sul testo la risposta a questa domanda. 5. Che cos’è, per Russell, un nome? E un enunciato? 6. Per quale ragione, secondo Russell, «un enunciato non è il nome di un fatto»? 7. Quando un enunciato è privo di senso?

Una conseguenza di quest’analisi può essere che espressioni linguistiche contenenti comandi, domande, valutazioni, ecc. non sono enunciati veri e

propri e, quindi, non hanno senso. A una conclusione del genere perveniva anche Wittgenstein nel Tractatus .

t46 Wittgenstein / L’etica, il mistico e la filosofia Wittgenstein

Tractatus logicophilosophicus

6.41-6.421, 6.4311-7

Nella parte conclusiva del Tractatus logico-philosophicus, dopo aver delineato il complesso rapporto tra linguaggio e mondo, Wittgenstein introduce una serie di proposizioni, nelle quali mostra come le proposizioni della filosofia e, in particolare, quelle dell’etica e dell’estetica non siano vere e proprie proposizioni, in quanto pretendono di parlare di ciò di cui non si può propriamente parlare, ma occorre tacere; si tratta di ciò che va oltre il linguaggio stesso e il mondo che esso raffigura.

6.41. Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene 1. Nessun valore può trovare espressione in una qualsiasi proposizione significante, né in quanto raffigurazione della possibilità di una combinazione di oggetti, né in quanto descrizione di uno stato di fatto. Per valore, Wittgenstein intende qualcosa che non è accidentale, ma è necessario e immutabile; se è così, esso non può far parte del

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a Frege Senso e significato b Wittgenstein Il Tractatus

come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore1.

mondo, ossia di ciò che avviene in maniera contingente. Dal mondo, ossia da ciò che avviene come avviene, non si può estrarre il senso del mondo stesso nella sua totalità, né il senso della vita: in 5.621, infatti, Wittgenstein dice che «il mondo e la vita sono tutt’uno». La conseguenza è che non ci possono essere proposizioni (né proposizioni em-

piriche, né tautologie o proposizioni della logica) che riguardino valori: l’etica, pertanto, non può trovare espressione nel linguaggio, non solo in quanto non si può parlare di etica, ma in quanto i valori non si mostrano neppure nel linguaggio.

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Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo. 6.42. Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla ch’è più alto. 6.421. È chiaro che l’etica non può formularsi. [...] 6.4311. La morte non è evento della vita. La morte non si vive2. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti. 6.4312. L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguito. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e tempo è fuori dello spazio e tempo. (Non sono già problemi di scienza naturale quelli che qui son da risolvere.) 6.432. Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò ch’è più alto. Dio non rivela sé nel mondo3. 2. La morte non è un fatto che possa essere vissuto, ma è un limite della vita e, quindi, è anch’esso un limite del mondo, di cui non possiamo avere esperienza. Né l’ipotesi dell’immortalità dell’anima serve a risolvere l’enigma della vita, ossia lo scopo di essa nello spazio e nel tempo. Poco dopo, però, Wittgenstein afferma che l’enigma non c’è (6.5), in quanto ciò che non si può esprimere nel linguaggio come risposta, non può neppure essere espresso come domanda: in altri termini, non è un problema vero e proprio. Di fronte a ciò si può solo sentire che il mondo ha

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6.4321. I fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla risoluzione. 6.44. Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è. 6.45. Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto – limitato –. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico. 6.5. D’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può pure aver risposta. 6.51. Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può domandare. Ché dubbio può sussistere solo ove sussiste una domanda; domanda, solo ove sussiste una risposta; risposta, solo ove qualcosa può esser detto. 6.52. Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna: e appunto questa è la risposta. 6.521. La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso. (Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?) 6.522. V’è davvero dell’ineffabile4. Esso mostra sé, è il mistico. 6.53. Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò

limiti: in ciò Wittgenstein fa consistere quello che chiama «il mistico». Il termine mistico è connesso originariamente alla nozione di ciò che non può essere detto: l’avvertire che c’è qualcosa oltre il mondo è qualcosa che non può essere detto, dal momento che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo. Anche il mistico, che è appunto ineffabile, si mostra soltanto: in esso pare rientrare anche lo stupore di fronte al fatto che il mondo è, ma anche questo è un non senso, perché non posso immaginare che esso non esista, se non ancora riferendomi al mondo e,

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quindi, presupponendo che esista. Ciò di cui mi posso propriamente stupire è quindi non che il mondo esista, ma che esso sia come è. Nella sfera dell’ineffabile, Wittgenstein colloca tutto ciò che tradizionalmente è assegnato all’ambito dei valori (etica, estetica, religione). 3. Con il termine Dio, secondo Wittgenstein, si può designare il significato della vita: credere in Dio è credere che ci sia tale significato, ma che al tempo stesso esso non si riveli nel mondo. 4. In qualche modo, in queste ultime proposizioni, Wittgenstein nomina l’ineffabile, ossia ciò che non può esse-

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che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare –, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto. 6.54. Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.)5 Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. 7. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

re espresso nel linguaggio. È difficile dire come ciò possa essere interpretato: rientra forse nei compiti della filosofia? A conclusione del libro, Wittgenstein fornisce qualche indicazione sulla sua concezione del metodo da usare in filosofia, ma anche nella prefazione dice: «Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: questo può

GUIDA ALLA LETTURA 1. «Il senso del mondo dev’essere fuori di esso» (6.41). Commenta questa proposizione in un testo di 5 righe al massimo. 2. Perché, secondo Wittgenstein, lo scetticismo è del tutto insensato? 3. Perché, secondo Wittgenstein, i nostri problemi vitali – dopo che tutte le domande scientifiche hanno ricevuto risposta – non sono nemmeno stati toccati? 4. Ha senso, secondo Wittgenstein, porsi degli interrogativi non formulabili in termini scientifici? 5. Qual è la posizione di Wittgenstein rispetto alle stesse proposizioni del Tractatus? 6. Commenta la proposizione 7 che chiude il Tractatus.

dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Quest’ultima è la frase con cui si chiude appunto il libro. 5. Secondo Wittgenstein le stesse proposizioni del suo libro non hanno senso, ma sono utili perché hanno il compito terapeutico di far uscire dai fraintendimenti del linguaggio operati dalla metafisica, individuando ciò che si può propriamente dire e, quindi, di fatto rintracciando dall’interno i limiti del linguaggio e del mondo, oltre i qua-

li è l’indicibile, rispetto a cui l’unico atteggiamento legittimo è il silenzio. L’immagine della scala era probabilmente attinta dal libro di F. Mauthner, Contributi a una critica del linguaggio (1901), ma risale già allo scettico Sesto Empirico, il quale paragonava a una scala le argomentazioni dello scettico contro la dimostrazione, le quali servono a condurre alla sospensione dell’assenso, da cui deriva la tranquillità dell’anima, ma devono poi essere abbandonate [cfr. vol. I, 7.7].

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t47 Wittgenstein / Significato e giochi linguistici Wittgenstein

Ricerche filosofiche

parte I, nn. 11, 23, 43, 65-67, 199

Iniziato nel 1941 e pubblicato postumo in tedesco nel 1953 a cura di E. Anscombe e R. Rhees, con traduzione inglese a fronte della stessa Anscombe, il volume intitolato Ricerche filosofiche contiene una scelta di pensieri dell’ultima fase della riflessione di Wittgenstein sul linguaggio e sulla filosofia stessa e i suoi compiti. La prima parte fu completata entro il 1945, mentre la seconda, stesa tra il 1947 e il 1949, non ha ricevuto dall’autore la disposizione definitiva. Qui sono riportati alcuni pensieri dalla prima parte, riguardanti le nozioni di gioco linguistico e di somiglianza di famiglia tra i giochi linguistici, in connessione ai concetti di regola, seguire una regola e significato.

11. Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti1. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia! 23. Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica.) Qui la parola «giuoco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un lin1. Con questo esempio è già adombrata l’idea, esplicitata in seguito, che il linguaggio è uno strumento suscettibile di usi diversi. Il problema è perché una stessa parola possa essere impiegata in giochi linguistici differenti. Ciò sembrerebbe indicare che a ogni nome comune corrisponda un’essenza unica. In realtà, questa tesi, secondo Wittgenstein, è errata; per chiarire il punto, egli introdurrà il concetto di «somiglianza di famiglia».

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guaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita2. Considera la molteplicità dei giuochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: Comandare, e agire secondo il comando – Descrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioni – Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) – Riferire un avvenimento – Far congetture intorno all’avvenimento – Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova – Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi – Inventare una storia; e leggerla – Recitare in teatro – Cantare in girotondo – Sciogliere indovinelli – Fare una battuta; raccontarla – Risolvere un problema di aritmetica applicata – Tradurre da una lingua in un’altra – Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare. È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi

2. Dire gioco vuol dire un certo tipo di

attività: anche il parlare fa parte di un’attività naturale, come mangiare, camminare e così via. Wittgenstein fornisce un ampio elenco di possibili giochi linguistici, ma non si tratta ovviamente di un elenco fisso, perché, come ha detto prima, alcuni giochi scompaiono e altri sorgono. Il rilevamento dell’esistenza di una molteplicità di giochi linguistici si oppone alla pretesa dei lo-

16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein

gici (tra i quali Wittgenstein include se stesso come autore del Tractatus) di ricondurre il linguaggio a una forma unica generale, che privilegia il tipo di proposizioni assertorie, suscettibili di essere vere o false, e che dovrebbe assumere funzione normativa rispetto al linguaggio ordinario nella molteplicità dei suoi usi.

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d’impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici. (E anche l’autore del Tractatus logico-philosophicus.) 43. Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola «significato» si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio. E talvolta il significato di un nome si definisce indicando il suo portatore. 65. Qui ci imbattiamo in una grossa questione, che sta dietro a tutte queste considerazioni. – Infatti mi si potrebbe obiettare: «Te la fai facile! Parli di ogni sorta di giuochi linguistici, ma non hai ancora detto che cosa sia l’essenziale del giuoco linguistico, e quindi del linguaggio; che cosa sia comune a tutti questi processi, e ne faccia un linguaggio o parte di un linguaggio. Così ti esoneri proprio da quella parte della ricerca, che a suo tempo ti ha dato i maggiori grattacapi: cioè quella riguardante la forma generale della proposizione e del linguaggio». E questo è vero. – Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti «linguaggi». Voglio tentare di chiarire questo punto. 66. Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo «giuochi». Intendo giuochi da scacchiera, giuochi di carte, giuochi di palla, gare sportive, e via discorrendo. Che cosa è comune a tutti questi giuochi? – Non dire: «Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero “giuochi”»3 – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti, ma vedrai somiglianze,

3. Impostando la domanda in questo

modo si arriva, infatti, a rispondere che tutti devono avere un’essenza comune, ovvero, come si dice nel n. 65, che deve esistere la forma generale della proposizione (questo era il modo in cui la questione era impostata nello stesso Tractatus). Ma ciò equivale a introdurre entità superflue, come le essenze plato-

parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non pensare, ma osserva! – Osserva, ad esempio, i giuochi da scacchiera, con le loro molteplici affinità. Ora passa ai giuochi di carte: qui trovi molte corrispondenze con quelli della prima classe, ma molti tratti comuni sono scomparsi, altri ne sono subentrati. Se ora passiamo ai giuochi di palla, qualcosa di comune si è conservato, ma molto è andato perduto. Sono tutti «divertenti»? [...] Oppure c’è dappertutto un perdere e un vincere, o una competizione fra i giocatori? Pensa allora ai solitari. Nei giuochi con la palla c’è vincere e perdere; ma quando un bambino getta la palla contro un muro e la riacchiappa, questa caratteristica è sparita. Considera quale parte abbiano abilità e fortuna. E quanto sia differente l’abilità negli scacchi da quella del tennis. Pensa ora ai girotondi: qui c’è l’elemento del divertimento, ma quanti degli altri tratti caratteristici sono scomparsi! E così possiamo passare in rassegna molti altri gruppi di giuochi. Veder somiglianze emergere e sparire. E il risultato di questo esame suona: Vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo. 67. Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione «somiglianza di famiglia»; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i «giuochi» formano una famiglia. 199. Ciò che chiamiamo «seguire una regola» è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita?4 – E questa, naturalmente, è un’annotazione

niche. Il fatto che designamo oggetti con uno stesso nome dipende solo dal fatto che rileviamo tra questi oggetti elementi di somiglianza, e quindi anche di dissimiglianza, come risulta dagli esempi fatti dallo stesso Wittgenstein. 4. Con queste considerazioni, Wittgenstein intende mostrare che ogni gioco linguistico comporta il seguire una re-

gola e, pertanto, non può essere un evento privato o eseguibile una sola volta. Il seguire una regola è connesso alla ripetibilità di una determinata operazione ed è necessariamente intersoggettivo, ossia è legato all’uso all’interno di una comunità che gioca quel determinato gioco linguistico.

i testi

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sulla grammatica dell’espressione «seguire la regola». Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. – Fare una comunicazione, dare o comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possano esser state fatte una volta sola. – Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni).

GUIDA ALLA LETTURA 1. Metti un titolo accanto a ognuno dei pensieri riportati. 2. Cosa vuole comunicare Wittgenstein col paragone fra le parole e gli utensili come «martello, tenaglie, sega...» – oltre al messaggio che le parole sono strumenti? 3. Cosa intende Wittgenstein quando afferma che «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio»? 4. Nel pensiero 66 Wittgenstein – nel cercare le ragioni per cui a tante attività diverse diamo il nome di «gioco» – dice «non pensare, ma osserva». Perché? 5. Chiarisci il significato delle seguenti espressioni wittgensteiniane: a. «parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita» (23); b. «i “giuochi” formano una famiglia» (67); c. «non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta» (199).

esercizi/16 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia la definizione che Boole dà di logica e le conseguenze che ne derivano. 2. Evidenzia che cosa intende Bolzano per proposizione in sé. 3. Evidenzia le diverse occorrenze della nozione di valore di verità in Frege e Wittgenstein.

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4. Evidenzia la distinzione tra proposizione e funzione proposizionale, elaborata da Russell. 5. Evidenzia che cosa Russell intende per descrizione definita. 6. Evidenzia le diverse occorrenze dei termini «logicismo» e «psicologismo». 7. Evidenzia le espressioni che mettono in luce la nuova concezione del linguaggio elaborata da Wittgenstein.

esercizi/16

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esercizi/16 8. Evidenzia le diverse nozioni di significato formulate da Wittgenstein, prima nel Tractatus e poi nelle Ricerche filosofiche.

17. Perché, secondo Wittgenstein, le tautologie sono proposizioni «senza senso», ma non «insensate»?

Dizionario filosofico

18. Qual è, secondo Wittgenstein, la funzione delle teorie scientifiche?

9. Definisci i seguenti concetti: ideografia (Frege) • senso (Frege) • significato (Frege) • costanti logiche (Russell) • classe (Russell) • antinomia (Russell) • sensibilia (Russell) • proposizione atomica (Russell) • proposizione molecolare (Russell) • fatto (Wittgenstein) • proposizione (Wittgenstein) • funzione di verità (Wittgenstein) • mistico (Wittgenstein) • forme di vita (Wittgenstein)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. In che modo, secondo Frege, è possibile fondare l’aritmetica? 11. Quali sono le critiche che Frege indirizza all’empirismo e al formalismo a proposito della definizione del concetto di numero? 12. A che cosa corrisponde, secondo Frege, il pensiero espresso da un enunciato? 13. Russell mostra che è possibile derivare i concetti matematici a partire da nozioni puramente logiche. Quali? 14. Perché Russell ritiene che la definizione di nome proprio, fornita da Frege, non sia corretta? 15. Qual è l’obiettivo della teoria delle descrizioni elaborata da Russell nel saggio Sulla denotazione? 16. Perché, secondo Wittgenstein, il senso di una proposizione è indipendente dal suo valore di verità?

esercizi/16

19. Perché, secondo Wittgenstein, è inconcepibile l’idea di un linguaggio privato? 20. Qual è il compito che, nelle Ricerche filosofiche, Wittgenstein attribuisce alla filosofia? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 21. Illustra le ragioni per cui Frege utilizza i termini «argomento» e «funzione» invece che «soggetto» e «predicato». 22. Perché, secondo Frege, due enunciati possono avere lo stesso significato, ma sensi diversi? 23. Quali sono le relazioni logiche tra termini individuate da Russell? 24. Illustra l’antinomia derivante dalla nozione di classe di classi e spiega in che modo Russell cerca di superarla. 25. Qual è il problema suscitato dalla presenza di descrizioni negli enunciati? In che modo Russell cerca di risolverlo? 26. Qual è la concezione della verità su cui si basa la filosofia dell’atomismo logico? 27. Che rapporto c’è fra mondo e linguaggio secondo il Tractatus di Wittgenstein? 28. La tesi della pluralità dei giochi linguistici mette in crisi un assunto sul quale ancora si basava il Tractatus. Quale? 29. Quali sono i ruoli che Wittgenstein attribuisce alla filosofia, rispettivamente nel Tractatus e nelle Ricerche filosofiche?

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base delle scienze. Tutti gli enunciati empirici sono esprimibili in un unico vocabolario e in un’unica sintassi, consistente di regole per trasformare gli enunciati in altri enunciati: la fisica fornisce il linguaggio base. Su questa base è possibile costruire una sintassi logica del linguaggio, cioè una teoria che stabilisce le regole puramente formali, in base alle quali sono costruite le strutture linguistiche. Tale linguaggio artificiale ha un carattere convenzionale: ognuno può costruire la sua logica purché ne espliciti le regole sintattiche. In ciò consiste il principio di tolleranza, formulato da Carnap. popper e il criterio di falsificabilità

17. gli sviluppi della riflessione epistemologica i contenuti il circolo di vienna

Tra Ottocento e Novecento avvengono radicali mutamenti scientifici; per questo motivo, al di là delle singole scoperte, scienziati e filosofi si pongono numerosi interrogativi sulla natura e sulla validità delle teorie scientifiche. In questo contesto, nel 1923 Moritz Schlick, Hans Hahn, Philip Frank, Otto Neurath diedero vita al Circolo di Vienna con l’obiettivo di elaborare una concezione scientifica del mondo. Per i suoi esponenti, che trovano nella tradizione empiristica, nell’epistemologia di Mach e nel Tractatus di Wittgenstein le loro

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coordinate di riferimento, la scienza è linguaggio e precisamente l’unico linguaggio dotato di significato. In particolare, secondo Schlick, il significato di una proposizione corrisponde al metodo della sua verificazione o alla sua verificabilità, consistente nel rinvio a esperienze possibili. Il linguaggio della metafisica invece, sottraendosi a ogni verificabilità, è privo di significato, in quanto pretende di parlare di entità al di là di ogni esperienza possibile. carnap e la costruzione di linguaggi formali

Nuovo impulso alla vita del Circolo di Vienna fu dato da Rudolf Carnap, per il quale i protocolli (ossia le registrazioni di esperienze elementari immediate) stanno alla

17. gli sviluppi della riflessione epistemologica

Popper abbandona il criterio di verificabilità. A suo avviso, le teorie scientifiche sono costituite da asserzioni generali (ipotesi o leggi), alle quali però non si arriva per induzione. Infatti non è possibile da asserzioni singolari pervenire induttivamente ad asserzioni generali: ciò significa che le teorie non potranno mai essere verificate empiricamente. La verificazione, dunque, non può costituire un criterio di demarcazione tra scienza e metafisica. Bisogna invece cercare un altro criterio: il metodo dei controlli. Si può allora dire scientifico solo un sistema che possa essere controllato intersoggettivamente dall’esperienza, cioè che sia falsificabile: infatti, basta un solo enunciato singolare per confutare un enunciato universale e quindi una teoria scientifica. Basta allora la falsificabilità per distinguere le teorie scientifiche dalla metafisica: essa è il criterio di demarcazione (non di senso). il razionalismo critico di popper

La scienza parte da problemi e per risolverli avanza congetture (ipotesi o teorie) da sottoporre alla discussione e al controllo, ossia a una confutazione possibile: ciò dà luogo al progresso scientifico, che consiste nel sostituire a teorie

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confutate altre migliori, ossia quelle che hanno superato i controlli più severi. Popper applica il modello evoluzionistico alla dinamica del progresso scientifico: la competizione fra teorie dà luogo alla selezione e alla sopravvivenza della migliore. kuhn e la struttura delle rivoluzioni scientifiche

Riallacciandosi alle riflessioni di Popper, Kuhn esamina come le teorie scientifiche siano sorte o siano state abbandonate nel corso della storia. La scienza non procede per accumulazioni – in un processo di crescita continua – ma per rivoluzioni. Esse sono eccezioni rispetto alla scienza normale, consistente in una prassi di ricerca che una comunità scientifica riconosce come fondamento per la propria attività ulteriore. Il consenso sulla validità di questi risultati conferisce a essi la funzione di paradigmi, ossia di modelli ai quali conformarsi. Quando sorgono novità inaspettate

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rispetto a un paradigma, si pongono le basi per la costruzione di nuove teorie che si presentino come alternativa valida al paradigma stesso: in tal caso avviene una crisi e una rivoluzione, cioè la sostituzione di un paradigma con uno nuovo. Ciò comporta una trasformazione dell’intera struttura concettuale con la quale gli scienziati guardano il mondo. lakatos e i programmi di ricerca

Tra i paradigmi c’è incommensurabilità, nel senso che la nuova teoria non assorbe la vecchia, ma dalla lotta tra esse scaturisce la vittoria finale di una sola. A ciò Lakatos obietta che anche teorie assurde possono ottenere consenso e sottolinea, invece, la tenacia dei programmi di ricerca che stanno alla base delle scienze e provvedono a costruire cinture di protezione anche di fronte a fatti nuovi apparentemente contrastanti. Solo l’insorgenza di

un nuovo programma più fruttuoso distrugge un programma precedente, ma ciò è evento raro. feyerabend contro il metodo

Feyerabend perviene invece a una forma di anarchismo metodologico: anche nella scienza non c’è un metodo privilegiato né regola che prima o poi non venga violata, ma proprio questo è condizione di sviluppo della scienza stessa. Alla presunta autorità di una tradizione particolare viene così contrapposta la tolleranza, che deve favorire la libera competizione fra le teorie. Per questo motivo, la sua epistemologia è relativistica, in quanto rifiuta di attribuire un’autorità esplicativa assoluta a una sola teoria o tradizione. A suo avviso è impossibile distinguere tra scienza e mito, in quanto entrambi sono invenzioni fabbricate dagli uomini per controllare l’ambiente.

gli strumenti in poche… parole teoria scientifica / convenzionalismo / verificabilità / protocollo / falsificabilità / essenzialismo / paradigmi

approfondimento Le scoperte scientifiche tra Ottocento e Novecento

i testi a. nel manuale t48 Carnap/Logica e metafisica t49 Popper/La falsificabilità e il cammino della scienza t50 Kuhn/Le rivoluzioni scientifiche

b. on-line Carnap/Sintassi logica e principio di tolleranza

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

confronti La nozione di verità secondo Russell, Wittgenstein e i neopositivisti 17. gli sviluppi della riflessione epistemologica

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1. Mutamenti scientifici e problemi filosofici la filosofia come ricerca del senso della vita

Con rapidità straordinaria avvengono, tra Ottocento e Novecento, radicali mutamenti scientifici [  approfondimento, p. 515]; risultati e strumenti di indagine acquistano crescente complessità e il lavoro scientifico tende sempre più a suddividersi in campi specialistici di indagine, che non possono più essere padroneggiati con sicurezza da un singolo individuo. Di fronte a questa situazione, la filosofia – dopo la diffusione del positivismo che indicava nelle scienze l’unica forma valida di conoscenza – torna non di rado a rivendicare una posizione di primato. Essa è presentata talvolta come l’unica forma di sapere in grado di accedere al mondo dei valori e di indirizzare verso la scoperta del senso globale della vita, della storia e dell’universo, il quale sfugge allo sguardo puramente disinteressato delle scienze particolari. Altre impostazioni, invece, puntano l’attenzione non sui caratteri interni del sapere scientifico, ma sugli effetti negativi prodotti da esso sulla società e sulla vita degli uomini, attraverso l’elaborazione di pratiche e la costruzione di congegni, che manipolano l’esistenza e minacciano la sopravvivenza del genere umano.

la filosofia come epistemologia

Altri, soprattutto gli scienziati stessi e i filosofi con una formazione scientifica, riconoscono invece nella scienza – proprio per la sua dimensione critica e intersoggettiva – la forma meno arbitraria di conoscenza e maggiormente in grado di contribuire al miglioramento della stessa condizione umana. In tali casi, il compito della filosofia è quello di tentare un raccordo tra le conoscenze scientifiche e le concezioni complessive del mondo o di sottoporre ad analisi la struttura, i metodi e gli apparati concettuali delle teorie scientifiche (ad esempio i concetti di legge, di causalità, di probabilità e così via). In quest’ultimo senso, la filosofia si presenta come epistemologia (letteralmente, «dottrina della scienza»).

la natura delle teorie scientifiche

Al di là della riflessione su punti o risultati specifici delle loro indagini, gli scienziati stessi si posero una serie di interrogativi sulla natura delle teorie scientifiche: da che cosa dipende la validità di esse? Dalla loro corrispondenza con i fatti o dalla loro coerenza interna o in quanto consentono di formulare previsioni con successo? Qual è il rapporto tra le vecchie teorie, come quella newtoniana, e le nuove, come quella della relatività? Sono incompatibili o le nuove teorie riassorbono al loro interno i risultati delle vecchie? Che significa parlare di leggi di natura? Esiste o no continuità tra il mondo dell’esperienza comune, da un lato, e i costrutti delle scienze fisiche e le immagini dell’universo che ne risultano, dall’altro? Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, alcuni scienziati cominciarono a porsi tali interrogativi.

hertz e i modelli fisici della realtà

Nella prefazione ai Princìpi della meccanica, pubblicati postumi nel 1894, il fisico tedesco Heinrich Hertz sostenne che la scienza fisica consiste di immagini che ci formiamo delle cose: esse devono accordarsi con i fatti, ma non nel senso di esserne la copia. Tra le immagini e le cose la fisica frappone, infatti, un modello teorico – ossia un formalismo astratto, simbolico – parago-

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nato a una sorta di rete, che ha il compito di elaborare logicamente i dati osservativi e di giustificare la validità e la completezza della fisica stessa. Ciò comporta la possibilità di costruire più modelli della realtà: tra essi si sceglie anche in base a criteri di maggiore semplicità, ma la condizione essenziale è che siano in grado di formulare previsioni. Fisico di formazione e interessato alla storia della scienza fu Ernst Mach (1838-1916). Nato in Moravia, sotto l’impero asburgico, insegnò nelle università di Graz e di Praga e, dal 1895, nell’università di Vienna. Fu autore di varie opere, tra cui La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883), L’analisi delle sensazioni (1900) e Conoscenza ed errore (1905). Mach considera la scienza alla luce della funzione che essa assolve nell’evoluzione biologica umana: essa, infatti, non ha in prima istanza l’obiettivo puramente disinteressato di conoscere l’essenza delle cose, ma è finalizzata anch’essa a produrre il migliore adattamento dell’uomo all’ambiente. L’uomo fa parte della natura, la quale nelle sue operazioni segue un criterio economico di risparmio: attraverso l’indagine scientifica, dunque, anche l’uomo mira ad acquisire, col minimo sforzo e in tempo minimo, la massima quantità possibile di cognizioni. Già il pensiero primitivo e comune cerca di conquistare quanto più è possibile il controllo sull’ambiente naturale per soddisfare i bisogni pratici; rispetto a esso, il pensiero scientifico rappresenta uno stadio evolutivo più avanzato, che mette in opera strumenti più complessi e potenti per raggiungere questo stesso fine.

mach e la concezione evoluzionistica della scienza

Stabilendo correlazioni matematiche tra i dati dell’esperienza, le leggi scientifiche restringono l’ambito delle nostre aspettative rispetto al futuro e diventano, in tal modo, strumenti di previsione: esse permettono di ricondurre ciò che non è familiare a modi familiari di connessione tra le esperienze e di ridurre il rischio di trovarsi in situazioni del tutto inconsuete. Per questo aspetto, la scienza rappresenta, dunque, un decisivo passo avanti rispetto alla magia e al pensiero primitivo e può, quindi, porsi scopi autonomi rispetto al semplice superamento di bisogni immediati, costruendo edifici di sempre maggiore complessità concettuale.

la riduzione dell’ignoto al noto

Ma quali sono i dati a partire dai quali si costruisce il sapere scientifico? Secondo Mach, essi sono le sensazioni, di colori, suoni, calore e così via: a partire da esse si costituiscono le nozioni di corpo e di io, come insiemi relativamente persistenti di dati sensibili. Esse non designano, dunque, entità sostanziali, ma solo modi diversi in cui l’esperienza – che è unica – viene considerata. Per questa ragione, Mach ritiene inaccettabile la tesi della meccanica classica, secondo cui esisterebbero particelle dotate di realtà propria. Egli respinge, inoltre, le nozioni di tempo e spazio assoluto, perché di fatto per le misurazioni si assume sempre un punto di riferimento, costituito dalla terra e dal sistema delle stelle fisse.

il primato dell’esperienza

In generale, Mach non accetta le teorie che comportano il riferimento a entità non osservabili, ossia non riconducibili ai dati elementari dell’esperienza. In questo senso, la scienza non può avere il compito di spiegare i fenomeni facendo uso del concetto di causa, ma soltanto quello di descrivere i

il compito della scienza

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fenomeni, individuando le correlazioni funzionali tra essi: il concetto di causalità è così sostituito da quello di funzione. poincaré e il carattere convenzionale delle scienze

Per il matematico e fisico francese Henri Poincaré (1854-1912) – autore dei volumi La scienza e l’ipotesi (1902), Il valore della scienza (1905) e Scienza e metodo (1908) – la possibilità di costruire geometrie non euclidee toglie senso alla domanda su quale di esse sia vera, ossia corrisponda alla vera realtà dello spazio. Le varie geometrie dipendono dalla scelta di assiomi, che non sono dotati di evidenza assoluta, ma hanno carattere convenzionale: per questo, la posizione di Poincaré è stata denominata convenzionalismo . Con ciò, egli non intende affermare che gli assiomi siano arbitrari, ma che sono libere produzioni dello spirito umano. Il criterio in base a cui si sceglie una geometria piuttosto che un’altra è dato dalla sua comodità: in questo senso, la geometria euclidea risulta la più comoda, in quanto si accorda meglio con il modo in cui si presentano i fenomeni e con i consueti strumenti di misura. Le matematiche costituiscono altresì uno strumento per lo studio della natura, in quanto permettono di stabilire le relazioni costanti di identità, ricavabili dal confronto tra le singole esperienze. La scienza, infatti, è un sistema di relazioni e su questo piano va ricercata la sua oggettività: essa è oggettiva perché fa conoscere i rapporti costanti tra le cose – non la realtà delle singole cose, ossia le qualità (puramente soggettive) delle sensazioni. Ogni legge scientifica è ricavata attraverso un calcolo delle probabilità in merito al verificarsi di una certa relazione tra i fatti. Essa è, dunque, un’ipotesi, ha carattere convenzionale, ma non è arbitraria, in quanto è guidata dall’esperienza e deve essere sottoposta a verifiche empiriche.

duhem e le fasi di elaborazione di una teoria fisica

Il fisico francese Pierre Duhem (1861-1916), nella sua opera La teoria fisica (1906), distinse alcune fasi attraverso le quali passa la costruzione di una teoria fisica. Il primo passo consiste nella definizione e nella misura delle grandezze fisiche: si tratta, cioè, di selezionare nei processi fisici le proprietà fisiche semplici, tali che le altre possono essere considerate combinazioni di esse; quindi, si fanno corrispondere a esse simboli matematici, scelti per convenzione.

individuazione e misurazione delle grandezze fisiche

Tali sono, per esempio, le idee di massa, di temperatura e così via, le quali non sono nozioni semplici ricavate immediatamente dall’esperienza, ma sono simboli che assumono il loro significato solo all’interno della teoria.

formulazione matematica dell’ipotesi

Il passo successivo consiste nella scelta delle ipotesi e richiede immaginazione: si tratta, cioè, di legare i simboli matematici in una teoria generale a partire da un piccolo numero di proposizioni (le ipotesi) – assunte per convenzione – con il vincolo che non diano luogo a contraddizioni. Si procede, quindi, allo sviluppo matematico della teoria: i princìpi o le ipotesi vengono combinati insieme secondo le regole dell’analisi matematica, a prescindere dalla loro corrispondenza con la realtà fisica.

le ipotesi sono messe a confronto con le leggi sperimentali

Infine, l’ultimo passo consiste nel mettere la teoria così sviluppata a confronto con l’esperienza: se risulta coerente con essa, viene accolta; altrimenti viene respinta. Occorre però osservare che il confronto con l’esperienza non avviene con i singoli fatti dell’esperienza stessa, ma con un insieme di

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leggi sperimentali. Una legge fisica, infatti, si configura come una relazione astratta fra simboli, non descrive direttamente proprietà osservabili, né poggia su ipotesi empiriche, che possano essere definitivamente stabilite o respinte in base a singole osservazioni. Una teoria fisica è un sistema di proposizioni matematiche, il cui scopo è di rappresentare nel modo più semplice e più esatto possibile un insieme di leggi sperimentali. È rispetto a queste che si misura la coerenza di una legge o di una teoria fisica: se le leggi sperimentali – una volta note – sono deducibili dalla teoria, allora essa può essere accolta come vera. In questo senso, la teoria fisica non è una spiegazione della realtà fisica: ciò che è decisivo in essa è la sua coerenza interna e la sua non contraddittorietà rispetto a un insieme di leggi sperimentali.

APPROFONDIMENTO

la verità come coerenza

Le scoperte scientifiche tra Ottocento e Novecento

All’inizio dell’Ottocento alcuni matematici, il tedesco Karl Friedrich Gauss (1777-1855), il russo Nicolaj Ivanoviˇc Lobaˇcevskij (17931856) e l’ungherese Janos Bolyai (1802-1860), pervennero – indipendentemente l’uno dall’altro – a riconoscere la possibilità di costruire geometrie non euclidee. Sino allora si riteneva che la geometria fosse una sola e precisamente quella di Euclide, la quale assume come quinto tra i suoi postulati il cosiddetto postulato delle parallele. In base a esso, per un punto fuori di una retta – giacente sullo stesso piano – passa una e una sola retta parallela alla retta data. Una conseguenza del quinto postulato è il teorema, secondo cui la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti. Lobaˇcevskij e Bolyai costruirono, invece, una geometria senza partire da tale postulato e assumendo, invece, che per un punto fuori di una retta passino molteplici parallele alla retta data; la conseguenza è che la somma degli angoli interni del triangolo sarà minore di due angoli retti. In seguito, il matematico tedesco Bernhard Riemann (18261866) costruì un’altra geometria – anch’essa non euclidea – basata sul postulato che per un punto

fuori di una retta non passa alcuna parallela, sicché la somma degli angoli interni è maggiore di due retti. Sino allora si era pensato che il carattere peculiare di un postulato fosse la sua evidenza. Ma se è possibile costruire geometrie diverse – fondate su postulati diversi, ma tutte non contraddittorie – qual è la natura dei postulati in generale, quali sono i criteri per stabilire che una geometria è valida e per scegliere una geometria anziché un’altra? Contemporaneamente, anche la meccanica newtoniana cominciava a mostrare incrinature e sembrava venir meno la possibilità di spiegare tutti i fenomeni fisici in base alle sue leggi fondamentali, come risultati di forze agenti tra particelle. Nell’ambito della termodinamica, dopo essere pervenuti a stabilire che il lavoro meccanico, generando energia, si può trasformare in calore, si giunse a dimostrare che non è possibile il processo inverso della trasformazione completa del calore in energia meccanica, ossia in lavoro. In contrasto con l’assunto della meccanica classica, ciò introduceva l’idea che in natura esistono processi irreversibili e che l’energia tende a degradare (principio

di entropìa). Di qui, a volte, è stata inferita la conclusione filosofica che l’universo avrebbe una tendenza irreversibile a perire, degradando tutta l’energia in calore. Con il modello corpuscolare della fisica newtoniana risultava incompatibile anche l’unificazione in un’unica teoria della luce, dell’elettricità e del magnetismo, elaborata da James Clerk Maxwell (1831-1879). Egli costruiva, infatti, la teoria del campo elettromagnetico, che formula le leggi della propagazione continua delle onde nello spazio e nel tempo: emergeva, così, un modello ondulatorio di spiegazione di questi fenomeni. Per renderlo compatibile con il modello newtoniano si assumeva l’esistenza dell’etere, inteso come una sorta di substrato dei fenomeni ondulatori. Nel 1887, tuttavia, fallì un esperimento condotto da Michelson e Morley per dimostrarne l’esistenza. Una conseguenza di ciò fu il riconoscimento che la velocità della luce è costante, indipendentemente dal fatto che la sua sorgente di emissione sia in quiete o in moto e, quindi, dalla sua velocità. Anche questo punto è in contrasto con una legge della meccanica classica, secondo cui le velocità di cor-

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pi che si muovono nella stessa direzione si sommano. Su questo sfondo di questioni si staglia la rivoluzione operata dalla teoria della relatività speciale o ristretta, formulata da Albert Einstein (1879-1955) nel 1905, la quale conduce a una unificazione e insieme a una sostituzione delle teorie di Newton e di Maxwell. Einstein mette in discussione il concetto abituale di simultaneità: che significa che due eventi sono simultanei? Il modello newtoniano si fonda sulla nozione di tempo assoluto, ossia di un tempo che scorre uniformemente in qualunque punto dello spazio tridimensionale e, quindi, non cambia rispetto ai sistemi a partire dai quali lo si misura. Secondo Einstein, ciò non vale per eventi che hanno luogo in sistemi differenti, ossia in sistemi in moto relativo uno rispetto all’altro: in esposizioni divulgative di questa teoria, egli ricorre sovente a metafore, facendo l’esempio di un osservatore a terra e di una sorgente luminosa in un treno in movimento. In tal caso, due eventi simultanei per gli osservatori posti in un sistema (poniamo, sul treno) non sono tali per gli osservatori posti in un secondo sistema (ossia, a terra) in moto uniforme rispetto al primo. Ciò è conseguenza del principio dell’invarianza della velocità della luce rispetto a due sistemi inerziali qualsiasi, in moto relativo. Questa teoria condusse all’abbandono definitivo della nozione di etere: nel continuum spazio-temporale non occorre più ipotizzare un sostrato delle onde elettromagnetiche e della luce, né è più possibile parlare di tempo e spazio assoluto. Nella migliore delle ipotesi sembrava che la fisica newtoniana potesse essere interpretata come un’approssimazione, valida per corpi che si muovono con velocità piccole rispetto a quella della luce, ossia per l’universo macroscopico, ma non per gli elettroni, che si muo516

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vono di velocità di poco inferiore a quella della luce. In seguito, Einstein estese la teoria della relatività anche a moti relativamente accelerati, sostituendo al concetto newtoniano di gravità quello di campo gravitazionale, inteso come un continuum spazio-temporale, dove i corpi si configurano come «densità di campo», sezioni dello spazio-tempo, masse di materia-energia. Nella teoria generale della relatività, anche il moto cessava di essere considerato come moto assoluto e la geometria non euclidea di Riemann appariva un modello geometrico più adeguato per descrivere l’universo. Il fisico statunitense Percy William Bridgman (1882-1961) – già nel volume La logica della fisica moderna (1927) – sviluppò le implicazioni presenti, a suo avviso, nella teoria einsteiniana della relatività, in una concezione detta operazionismo. Secondo questa concezione, il significato dei concetti impiegati nella fisica è dato dall’insieme di operazioni che corrispondono a essi: in questo senso, per esempio, simultaneità, lunghezza, temperatura e così via sono definibili soltanto in base alle rispettive operazioni di misurazione. Se di un problema non è possibile indicare le operazioni attraverso le quali esso è risolvibile, allora non si tratta di un problema reale. Altro radicale mutamento fu determinato dalla teoria dei quanti. All’inizio del Novecento, il fisico tedesco Max Planck (1858-1947) scoprì che le particelle elementari emettono energia non in modo continuo, ma in modo discontinuo: tali quantità di energia, dette «quanta», non possono mai scendere sotto una determinata costante, detta costante di Planck. In particolare, Planck dimostrò che la grandezza del quanto di energia è inversamente proporzionale alla lunghezza di

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onda che essa emette o assorbe. Una conseguenza di questa teoria è che la quantità di energia necessaria per compiere le osservazioni del comportamento delle particelle subatomiche non può scendere sotto un ordine di grandezza che non alteri il fenomeno osservato. Da ciò scaturì il cosiddetto principio di indeterminazione, formulato nel 1927 da un altro fisico tedesco, Werner Heisenberg (1901-1976). Come ha scritto lo stesso Heisenberg, «si è constatato che non è possibile indicare simultaneamente, con un grado qualunque di esattezza, la posizione e la velocità di una particella elementare. Si può misurare con grande esattezza la posizione, ma allora, per l’intervento dello strumento di misurazione, dilegua, fino a un certo grado, la conoscenza della velocità», e viceversa. In altre parole, lo scambio di energia che avviene nell’osservazione – per esempio, illuminando l’oggetto – altera lo stato dell’oggetto e rende, quindi, impossibile inferire e prevedere lo stato preciso di tale oggetto dopo la misurazione (in particolare, la sua traiettoria). La conseguenza, secondo Heisenberg, è l’impossibilità di applicare i modelli della fisica macroscopica alle particelle atomiche e subatomiche, in modo da ottenere determinazioni complete dei loro comportamenti. Ciò comporta che bisogna abbandonare il determinismo puro, secondo cui – data una descrizione completa di un sistema fisico in un momento dato e di forze esterne operanti su esso – è sempre possibile predire stati futuri del sistema. Nella teoria dei quanti, uno stesso fenomeno a livello subatomico può essere descritto in termini sia corpuscolari (come comportamento di particelle) sia ondulatori (come emissione discontinua di quanti di energia). Il fisico danese Niels Bohr (18851962) interpretò questo fatto nel

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senso che la meccanica quantistica è comprensibile facendo uso di due modelli, propri della fisica classica, i quali sono incompatibili, ma al tempo stesso complementari: è il cosiddetto principio di complementarità. Per descrivere i sistemi atomici, noi ci serviamo di immagini intuitive, come quelle di un sistema planetario in piccolo o di un nucleo circondato

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da onde: tali immagini si escludono reciprocamente, ma ciascuna risulta adatta in relazione a certi esperimenti. I diversi esperimenti che dimostrano la natura sia ondulatoria, sia corpuscolare della materia atomica conducono a formulare tutte le leggi come leggi statistiche, ossia come equazioni d’onda che calcolano la probabilità di trovare la particella

in una qualsiasi regione data dello spazio. Nella meccanica quantistica viene, dunque, ad assumere rilevanza centrale il calcolo delle probabilità: considerato in precedenza soltanto un ripiego rispetto alla certezza assoluta, esso diventa invece lo strumento fondamentale per conoscere e formulare le leggi generali della natura.

2. Il Circolo di Vienna L’elaborazione di una concezione scientifica del mondo fu l’obiettivo del cosiddetto Circolo di Vienna (in tedesco, Wiener Kreis), il cui primo nucleo si costituì a partire dal 1923, dopo l’arrivo di Moritz Schlick come professore all’università di Vienna, ed ebbe tra i suoi membri – oltre a Schlick – Herbert Feigl, Friedrich Waismann e vari scienziati, come il matematico Hans Hahn, il fisico Philip Frank, il sociologo Otto Neurath. Nuovo impulso alla vita del Circolo fu dato dall’arrivo a Vienna di Rudolf Carnap e dall’iniziativa di studiare e discutere insieme il Tractatus di Wittgenstein, che partecipò saltuariamente a qualche seduta del Circolo. Nel 1928, esso assunse il nome di Associazione Ernst Mach,

la fondazione del circolo e i suoi membri

mentre nello stesso anno veniva fondata a Berlino una parallela Società per la filosofia scientifica, di cui erano membri – tra gli altri – Hans Reichenbach, Richard von Mises, Carl Gustav Hempel e Hilbert. Tra i due gruppi s’intrecciarono relazioni che culminarono nell’organizzazione di una serie di congressi, nella fondazione della rivista «Erkenntnis» («Conoscenza»), pubblicata dal 1930 al 1938 sotto la direzione congiunta di Carnap e Reichenbach, e di una collana di volumi, in cui uscirono – tra le altre – opere di Carnap e di Popper.

tra vienna e berlino

Le riunioni del Circolo a Vienna continuarono sino al 1936 e a esse presero parte anche visitatori stranieri come Ayer, da Oxford, e Quine, dagli Stati Uniti. Fra il 1932 e il 1938 – anno dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler – quasi tutti i suoi membri emigrarono all’estero, in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti. Qui entrarono in rapporto con filosofi americani – tra i quali Dewey e Charles W. Morris – e insieme diedero vita al progetto di una «Enciclopedia della scienza unificata».

il periodo statunitense

La posizione filosofica di quanti parteciparono alle iniziative del Circolo è influenzata dalla tradizione empiristica, da Mach e dal Tractatus di Wittgenstein ed è stata variamente denominata: «neopositivismo» o «positivismo logico» o anche «empirismo critico» o «empirismo logico». I caratteri generali di essa emergono nel manifesto del Circolo, che fu pubblicato nel 1929 con il titolo La concezione scientifica del mondo, dedicato a Schlick e sottoscrit-

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to da Hahn, Carnap e Neurath, ma redatto essenzialmente da Neurath. L’obiettivo è di reagire contro la svalutazione del sapere scientifico, mostrando che la nuova immagine del mondo – costruita dalla scienza – è in grado di fornire una migliore spiegazione dei dati forniti dall’esperienza. il linguaggio scientifico: tautologie ed enunciati empirici

A ciò è possibile provvedere coordinando i risultati raggiunti dalle varie scienze in modo da elaborare la scienza unificata, attraverso la ricerca di un linguaggio comune, esente dalle confusioni logiche che permeano invece il linguaggio quotidiano. Il presupposto è che la scienza è un linguaggio ed è l’unico linguaggio dotato propriamente di significato dal punto di vista della conoscenza. In sintonia con il primo Wittgenstein [cfr. 16.4], le proposizioni scientifiche sono distinte in tautologie, proprie della matematica e della logica, e in enunciati empirici: questi ultimi sono significanti, soltanto se sono riducibili ad asserzioni elementari riguardanti i dati immediati della sensazione (in tedesco, Erlebnisse).

la verificabilità della scienza e la critica alla metafisica

Le teorie scientifiche si fondano, dunque, su una base empirica e vengono costruite mediante l’elaborazione di questo materiale grazie agli strumenti forniti dalla logica matematica, che per i neopositivisti è sostanzialmente quella dei Princìpia mathematica di Russell e Whitehead. Secondo una formula introdotta da Waismann, il significato di una proposizione consiste nel metodo della sua verificazione. Sul senso da attribuire a questa nozione di verificazione si aprirà un dibattito – soprattutto sulla rivista «Erkenntnis» – che vedrà differenziarsi varie posizioni, mentre rimarrà sostanzialmente uniforme l’accettazione di una delle conseguenze di questa impostazione generale, ossia la dimostrazione dell’insignificanza della metafisica tradizionale. L’analisi logica, infatti, mette in luce la non verificabilità delle proposizioni della metafisica, le quali pretendono di parlare di entità che vanno al di là di ogni esperienza possibile. Tali proposizioni sono, dunque, prive di significato: La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili. Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce, in parte, a smascherarle quali pseudo-problemi; in parte, a convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale. Proprio tale chiarimento di questioni e asserti costituisce il compito dell’attività filosofica, che, comunque, non tende a stabilire specifici asserti «filosofici». Il metodo di questa chiarificazione è quello dell’analisi logica [...]. Siffatto metodo dell’analisi logica è ciò che distingue essenzialmente il nuovo empirismo e positivismo da quello anteriore, che era orientato in senso più biologico-psicologico. Se qualcuno afferma «esiste un dio», «il fondamento assoluto del mondo è l’inconscio», «nell’essere vivente vi è un’entelechia come principio motore», noi non gli rispondiamo «quanto dici è falso», bensì a nostra volta gli poniamo un quesito: «che cosa intendi dire con i tuoi asserti?». Risulta chiaro, allora, che esiste un confine preciso fra due tipi di asserzioni. All’uno appartengono gli asserti formulati nella scienza empirica: il loro senso si può stabilire mediante l’analisi logica; più esattamente, col ridurli ad asserzioni elementari sui dati sensibili. Gli altri asserti, cui appartengono quelli citati sopra, si rivelano affatto privi di significato, assumendoli come li intende il metafisico. Spesso è possibile rein-

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terpretarli quali asserti empirici; allora, però, essi perdono il proprio contenuto emotivo, che in genere è basilare per lo stesso metafisico. Il metafisico e il teologo credono, a torto, di asserire qualcosa, di rappresentare stati di fatto, mediante le loro proposizioni. Viceversa, l’analisi mostra che simili proposizioni non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi. Espressioni del genere possono, certo, avere un ruolo pregnante nella vita; ma, al riguardo, lo strumento espressivo adeguato è l’arte, per esempio la lirica o la musica (H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna).

3. Schlick La figura intorno a cui si costituì il Circolo fu Moritz Schlick (1882-1936), nato a Berlino, il quale studiò fisica con Max Planck. Nominato nel 1922 professore nell’università di Vienna sulla cattedra già tenuta da Mach, fu poi assassinato da un ex studente malato di mente, che avrebbe dichiarato di aver agito come filonazista contro il rappresentante di una filosofia degenerata. Nella sua Dottrina generale della conoscenza, pubblicata nel 1918 e in seconda edizione nel 1925, Schlick sostiene – in linea con Mach – che la conoscenza è una necessità biologica, il cui soddisfacimento comporta piacere. Secondo Schlick, il compito di una teoria della conoscenza consiste non nel chiedersi in che consista la conoscenza certa, ma nell’analizzare le teorie per eliminare le proposizioni false. Ai dati e alle rappresentazioni puramente soggettive, la scienza sostituisce concetti, i quali sono segni di classi di oggetti caratterizzati da poche proprietà rigorosamente definibili. Il concetto, dunque, conferisce rigore al sapere scientifico, ma al tempo stesso rappresenta un impoverimento rispetto alla realtà: da ciò deriva il carattere ipotetico e mai definitivo di tale sapere.

la scienza si serve di astrazioni concettuali

Nell’articolo La svolta della filosofia – pubblicato in «Erkenntnis» nel 1930 – Schlick chiarisce quali sono le relazioni tra filosofia e scienza. La filosofia è l’attività con la quale si chiarisce il senso degli enunciati: essa non è in grado di decidere se qualcosa sia o no reale, ma può soltanto stabilire qual è il significato dell’affermazione che tale cosa è o no reale. Che essa sia o no reale può essere deciso soltanto dall’esperienza, che è il metodo consueto a cui si fa appello sia nella vita quotidiana sia nella scienza. Le circostanze empiriche sono rilevanti per sapere se una proposizione è vera, e ciò interessa allo scienziato, mentre non sono rilevanti per il senso di tale proposizione, che invece interessa al filosofo. È la scienza, dunque, ad avere il compito di verificare le proposizioni, ossia di accertare la loro verità o falsità in base a dati di fatto: «la gioia di conoscere – afferma Schlick – è la gioia della verificazione, l’entusiasmo di aver colto nel segno».

il compito della filosofia e della scienza

In alcuni saggi successivi, Schlick chiarisce che un enunciato è dotato di significato in base alla sua verificabilità . In altre parole, quando non sappiamo come procedere alla verificazione di una proposizione, ciò è segno del

il significato di un enunciato e la sua verificabilità

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fatto che non sappiamo che cosa essa significhi. Il criterio di verificabilità non deve essere confuso, dunque, con la verificazione di fatto, né con una singola verificazione. In base a questo criterio, un enunciato ha significato se un’esperienza – diretta o possibile – ne accerta la verità (o la falsità). Così, per esempio, la proposizione «esistono montagne sull’altra faccia della luna» è dotata di significato, anche se di fatto all’epoca di Schlick non è verificata. Questa proposizione, infatti, è verificabile: se visitassi la faccia nascosta della luna, potrei stabilire una volta per tutte se lì vi sono (o non vi sono) delle montagne. In altre parole, un’esperienza è in grado di rendere vero (veri-ficare appunto) questo enunciato. Al contrario, nessuna esperienza – né attuale, né futura – potrà mai verificare l’enunciato «Ogni uomo ha un’anima»: come faccio ad avere esperienza di ogni uomo? Come faccio ad avere esperienza dell’anima? In tal senso, questo enunciato – di tipo metafisico – è privo di significato.

4. Neurath la vita

Una posizione ben diversa sul problema della verificazione fu assunta da un altro importante esponente del Circolo, Otto Neurath (1908-1945). Nato a Vienna, si era addottorato in Matematica a Berlino ed era stato consulente economico del governo comunista in Baviera, nel 1919; arrestato, era sfuggito alla condanna grazie anche all’intervento di Max Weber. Tornato a Vienna, fece parte del Circolo, nel 1940 emigrò in Olanda e poi a Oxford, dove morì.

il mito delle sensazioni e degli enunciati elementari

Nel 1931 egli pubblicò in «Erkenntnis» un articolo intitolato Fisicalismo, nel quale sostenne che è impossibile confrontare il linguaggio con la realtà – come invece pretendeva il criterio di verificabilità sostenuto da Schlick. Ciò equivarrebbe, infatti, a collocarsi fuori dal linguaggio. La verità di una proposizione non dipende dal confronto di essa con un fatto, perché fatti e proposizioni sono entità non omogenee. Non esistono enunciati elementari che si riferiscano – attraverso i dati della sensazione – a una realtà esterna al linguaggio. Per Neurath è un mito che a fondamento del sapere scientifico vi siano fatti (o esperienze elementari) o proposizioni che li esprimono. In realtà, anche le proposizioni che registrano presunte esperienze vissute elementari (Erlebnisse) non godono di una posizione privilegiata rispetto ad altri tipi di proposizioni, ma devono essere verificate e ciò può avvenire soltanto attraverso il confronto con altre proposizioni.

dalla verità come corrispondenza alla verità come coerenza

La verità di una proposizione consisterà, allora, nella sua concordanza logica con altre proposizioni e – al limite – con l’insieme degli enunciati della scienza. In tal modo, alla nozione di verità come corrispondenza con i fatti, Neurath – analogamente a quanto aveva fatto Duhem [cfr. 17.1] – sostituisce la nozione di verità come coerenza di un’asserzione con la totalità delle altre asserzioni. Ciò comporta che la conoscenza non parte mai da zero. Per illustrare questo punto, Neurath usa una metafora nautica: «siamo come marinai che devono ristrutturare la loro nave in mare aperto e che non so-

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no in grado perciò di ricominciare da capo». Le proposizioni osservative non sono il punto di partenza dell’indagine, ma l’esito a cui essa perviene e servono a rispondere alla domanda se le previsioni formulate dalla teoria si sono avverate o no: è la contraddizione con proposizioni osservative che conduce ad abbandonare la teoria stessa. In determinate condizioni, tuttavia, anche i risultati dell’osservazione empirica devono essere trascurati, se contraddicono determinate teorie generali. La scienza è un linguaggio, fatto di suoni e segni scritti: della sua struttura si può parlare senza contraddizioni usando i mezzi del linguaggio stesso. La più progredita tra le scienze è la fisica, sicché il linguaggio della fisica è quello più adeguato per analizzare il linguaggio. Come si è visto, per Neurath, non ha alcun senso porsi la questione della corrispondenza tra gli enunciati e i fatti extralinguistici. In tal senso, del linguaggio può essere analizzata solo la sintassi, ossia le connessioni interne tra gli enunciati. In ciò consiste il fisicalismo di Neurath; estendendo il modello del linguaggio della fisica a tutte le scienze è possibile perseguire l’ideale della scienza unificata.

il fisicalismo e l’ideale di una scienza unificata

Anche la sociologia – come ogni altra scienza – non può studiare un solo tipo di oggetti, isolati dagli altri: i comportamenti umani non possono essere isolati dall’insieme degli altri fenomeni naturali e, pertanto, devono essere descritti in termini fisici, ossia mediante coordinate spazio-temporali. Allo stesso modo, anche il linguaggio scientifico non può essere isolato dal linguaggio quotidiano e dalla comunità scientifica che lo produce. Le stesse teorie scientifiche risultano strettamente legate ai contesti sociali nei quali sorgono ed è perciò illusorio pretendere da esse la purificazione totale da ogni ambiguità e una assoluta obiettività.

la dimensione sociale delle teorie scientifiche

5. Carnap La figura forse più rappresentativa e influente del movimento neopositivistico fu Rudolf Carnap (1891-1970). Nato a Ronsdorf in Germania nel 1891, seguì le lezioni di Frege a Jena e si addottorò in Fisica a Friburgo nel 1921. Nel 1926 divenne professore a Vienna ed entrò a far parte del Wiener Kreis, dirigendo la rivista «Erkenntnis» insieme a Reichenbach. Successivamente insegnò nell’università di Praga e dal 1936 in quella di Chicago, da cui si trasferì nel 1952 a Princeton e nel 1954 nell’università di Los Angeles, città dove morì.

la vita

Nella sua prima opera sistematica, La costruzione logica del mondo (1928), Carnap intende mostrare come il mondo si strutturi logicamente in un sistema di conoscenze, eretto a partire da una base empirica. L’unità minima dell’edificio concettuale delle scienze è data dall’esperienza vissuta elementare (in tedesco, Elementarerlebnis). Ma mettere alla base della scienza le esperienze elementari immediate – che sono soggettive e private – non rischia di condurre al soggettivismo o al solipsismo? Carnap risponde che si tratta soltanto di un solipsismo metodologico, il quale sarà abbandonato una vol-

la scienza si basa sulle esperienze vissute

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ta che il mondo sia costituito nella sua struttura logica. In questo caso, infatti, gli enunciati saranno tradotti in termini fisici relativi a stati o condizioni di un corpo fisico e potranno, quindi, essere controllati intersoggettivamente. dalle esperienze vissute agli enunciati protocollari

In alcuni articoli pubblicati su «Erkenntnis» nel 1932-33, Carnap – influenzato anche da discussioni con Neurath – sostituisce alle esperienze vissute elementari i cosiddetti protocolli , ossia le registrazioni immediate di esperienze (per esempio: «In questo luogo e ora ci sono questi corpi»). Richiamandosi al fisicalismo di Neurath, Carnap ritiene che tutti gli enunciati empirici possono essere espressi in un unico linguaggio, ossia in un unico vocabolario e in un’unica sintassi, intesa come insieme di regole per trasformare gli enunciati in altri enunciati. Quest’unico linguaggio base è fornito dalla fisica, sicché, per esempio, l’enunciato protocollare: «Il mio corpo vede rosso» può essere tradotto nell’enunciato: «Il corpo C ora sta vedendo rosso».

i protocolli e le generalizzazioni delle leggi scientifiche

Gli enunciati protocollari non richiedono di essere giustificati e servono da fondamento agli altri enunciati della scienza. Ciononostante, le leggi di natura formulate dagli scienziati hanno sempre la forma di proposizioni generali che mantengono il carattere di ipotesi. Da un insieme finito di proposizioni singolari – quali sono gli enunciati protocollari – non può mai essere ricavata con assoluta necessità una proposizione universale: per esempio, il fatto di aver osservato più volte che i cigni sono bianchi non autorizza a concludere con assoluta necessità che tutti i cigni sono bianchi.

gli enunciati metafisici non asseriscono nulla

In base a questi presupposti, Carnap può condurre – in un celebre articolo intitolato Superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio (1931) – una critica alla metafisica, mostrando che gli enunciati di essa sono privi di senso [t48]. Le proposizioni metafisiche, infatti, fanno uso di termini che non hanno significato, ossia non hanno alcun riferimento empirico (ad esempio il termine «nulla» usato da Heidegger), oppure combinano tra loro termini in modo sintatticamente scorretto. Il linguaggio della metafisica appare, allora, soltanto come un’espressione di sentimenti e i metafisici vengono paragonati da Carnap a «musicisti senza talento»: Il metafisico crede di muoversi in un àmbito riguardante il vero e il falso. In realtà, viceversa, egli non asserisce nulla, ma si limita a esprimere dei sentimenti, come un artista. E che il metafisico sia vittima di questa illusione, non lo possiamo desumere dalla semplice circostanza che egli sceglie come mezzo di espressione il linguaggio e come forma di espressione le proposizioni enunciative; infatti, il poeta lirico fa lo stesso, senza tuttavia soggiacere al medesimo inganno. Ma il metafisico adduce argomenti a sostegno delle sue proposizioni, richiede l’assenso circa il loro contenuto, polemizza contro il metafisico di altro indirizzo, cercando di confutare le sue proposizioni nella propria dottrina. Il lirico, al contrario, non si cura di confutare con la sua poesia le proposizioni tratte dalla poesia di un altro lirico; egli sa, in effetti, di operare nell’àmbito dell’arte e non in quello della teoria (Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, § 7).

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L’influenza di Neurath – per il quale le proposizioni della scienza potevano essere confrontate solo con altre proposizioni – fu determinante anche nello spostare l’attenzione di Carnap sulla dimensione sintattica del linguaggio, ossia sulle relazioni dei segni tra loro. Il risultato di queste indagini è il volume Sintassi logica del linguaggio (1934). I filosofi, secondo Carnap, usano il modo materiale di parlare, ossia trattano i termini con cui si esprimono come delle cose esistenti: proprio per questo, essi cadono in pseudo-problemi, come quello sulla natura dei numeri. Secondo Carnap, vi è anche un modo formale di parlare, che invece tratta i termini come dei semplici segni o simboli formali.

la svolta sintattica e i due modi di parlare

A tale riguardo, occorre distinguere tra gli enunciati propri di un dato linguaggio e gli enunciati che parlano di questi stessi enunciati: i primi costituiscono il linguaggio-oggetto, mentre i secondi costituiscono il metalinguaggio, ossia un linguaggio che ha per oggetto un altro linguaggio. Carnap intende costruire un metalinguaggio da lui chiamato sintassi logica del linguaggio, attraverso il quale intende esporre

che cos’è la sintassi logica del linguaggio?

La teoria formale delle forme linguistiche di quel linguaggio, lo stabilimento sistematico delle regole formali che lo governano e lo sviluppo delle conseguenze derivabili da queste regole. Una teoria, una regola, una definizione, e simili, sono denominate formali quando in esse non viene fatto alcun riferimento sia al significato dei simboli (ad esempio, delle parole) che al senso delle espressioni (ad es., delle proposizioni), ma semplicemente e soltanto ai tipi e all’ordine dei simboli di cui sono formate le espressioni. [...] le caratteristiche logiche delle proposizioni (per esempio, che una proposizione sia analitica, sintetica, o contraddittoria; che sia esistenziale o no; e così via), e le relazioni logiche fra esse (per esempio, che due proposizioni si contraddicano fra loro, o che siano compatibili; oppure, che una sia deducibile dall’altra, e così via), dipendono unicamente dalla loro struttura sintattica. Così, la logica risulterà parte della sintassi, purché questa sia intesa in modo sufficientemente ampio e formulata con esattezza (Sintassi logica del linguaggio, Introduzione, § 1; parte I, § 17).

Le regole della sintassi logica sono puramente formali, in quanto non fanno riferimento al significato dei segni linguistici e delle loro combinazioni, e sono di due tipi: 1) le regole di formazione determinano se un enunciato è ben formato, ossia è grammaticalmente corretto; 2) le regole di trasformazione descrivono il modo in cui un enunciato può essere derivato da un altro. La sintassi logica consiste, dunque, nella costruzione di un linguaggio artificiale, puramente formale e ha pertanto un carattere convenzionale. Essa non ha lo scopo di formulare proibizioni: ognuno può costruire la sua logica, purché ne espliciti le regole sintattiche di formazione e combinazione dei segni. In ciò consiste quello che Carnap ha chiamato principio di tolleranza .

le regole di costruzione della sintassi logica

L’arrivo negli Stati Uniti coincide per Carnap con un allontanamento dalle tesi più radicali sostenute dal Circolo di Vienna e con un rinato interesse

alef

Carnap Sintassi logica e principio di tolleranza

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l’interesse per la semantica e la logica modale

per le indagini di semantica, a cui sono dedicate soprattutto l’Introduzione alla semantica (1942) e Significato e necessità (1947). Egli distingue, infatti, tra verità logica e verità di fatto: la prima è basata soltanto sul significato delle parole, in particolare su quello delle cosiddette costanti logiche («e», «o», «non», ecc.), mentre la seconda richiede un accertamento dei fatti. In questo senso, la nozione di verità logica è strettamente connessa, secondo Carnap, alla nozione di necessità: quest’ultima indica la verità in qualsiasi mondo possibile. Così, per esempio, in qualunque mondo possibile – ossia indipendentemente da fatti contingenti – è sempre vera la proposizione: «È necessario che Dante sia fiorentino o non fiorentino». Poiché verità logica e necessità sono strettamente collegate, la cosiddetta logica modale, che studia gli enunciati nei quali entrano gli operatori «è necessario», «è possibile», «necessariamente», ecc., è considerata da Carnap un ramo della semantica. In questo senso, egli ritiene che gli enunciati modali siano da interpretare come asserzioni di proprietà semantiche riguardanti enunciati: per esempio, l’enunciato modale «A è necessariamente B» asserisce che «L’enunciato “A è B” è necessario».

la liberalizzazione del criterio di verificabilità

Contemporaneamente Carnap procede – già in Controllabilità e significato (1936-37) – a liberalizzare il criterio empirico di significanza formulato da Schlick. Egli interpreta il principio di verificazione come una semplice raccomandazione per chi intende costruire un linguaggio scientifico, senza rischiare di introdurre proposizioni metafisiche, come potrebbe essere la stessa proposizione «ogni conoscenza è empirica». Anziché insistere sulla verificabilità diretta di una teoria mediante dati empirici, Carnap distingue ora tra controllabilità – la quale è data dal fatto di avere a disposizione un metodo di verifica sperimentale – e confermabilità – quando un tale metodo non può essere indicato. In particolare, un enunciato può essere confermabile senza essere controllabile: ciò avviene quando sappiamo che una certa serie di controlli condurrebbero alla sua conferma, senza sapere come procedere a tali controlli. Egli distingue quindi vari livelli, che vanno dalla controllabilità completa alla controllabilità non completa (ad esempio delle leggi di natura, che sono enunciati generali), sino alla semplice confermabilità, che è tuttavia sufficiente a escludere gli enunciati propri della metafisica.

CONFRONTI

La nozione di verità secondo Russell, Wittgenstein e i neopositivisti

In numerosi suoi scritti, Russell cerca di rispondere a quella che per lui è la domanda centrale dell’epistemologia: come si può stabilire il valore di verità di un enunciato? In precedenza, egli aveva distinto due tipi di conoscenza («conoscenza diretta» e «conoscenza per descrizione») e 524

aveva stabilito due livelli di conoscenza della verità: a) la conoscenza immediata (formulata attraverso proposizioni che riguardano dati di senso e relazioni logiche), dotata di certezza; b) la conoscenza derivata da queste proposizioni, suscettibile di errore. Nel primo dopoguerra, stimo-

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lato anche dalle discussioni con Wittgenstein, Russell torna su questi problemi ed elabora la dottrina dell’atomismo logico. A suo avviso, la totalità del mondo è costituita di fatti atomici, e cioè da insiemi di dati sensibili caratterizzati da determinate proprietà e relazioni (gli universali). Ad essi

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corrispondono, sul piano linguistico, le proposizioni atomiche, che possono essere particolari o universali, a seconda che si riferiscano a fatti del primo tipo («questo è rosso») o del secondo («tutti gli uomini sono mortali»). I fatti, secondo Russell, non sono né veri né falsi, mentre le proposizioni che ne parlano possono essere vere o false, a seconda che corrispondano o meno ad essi. Attraverso dei connettivi logici è possibile costruire delle proposizioni molecolari (o complesse), mettendo insieme più proposizioni atomiche (o elementari): in questo caso, il valore di verità delle proposizioni molecolari dipenderà dal valore di verità delle proposizioni atomiche. Ad esempio, «se p, allora q» sarà vera, se e solo se risultano vere le proposizioni elementari p e q (l’asserzione «se piove, allora non c’è il sole» risulterà vera, solo se saranno vere sia la prima che la seconda componente di essa). Anche Wittgenstein, nella sua unica opera pubblicata in vita, il Tractatus logico-philosophicus, affronta la questione della verità nei termini della corrispondenza tra le proposizioni e i fatti. A suo avviso, ogni proposizione elementare raffigura uno stato di cose elementare (= una combinazione di oggetti) esibendo l’identità di forma tra ciò che raffigura (= insieme di relazioni tra parole) e ciò che è raffigurato (= insieme di relazioni tra cose). Il senso di una proposizione è un fatto logico e non dipende dal suo valore di verità: per comprenderlo è sufficiente comprendere come starebbero le cose se fosse vera o falsa. I fatti, al contrario, sono il sussistere di uno stato di cose, e cioè una combinazione di oggetti che si è effettivamente data nella realtà. Per stabilire se una proposizione corrisponda o meno allo stato di cose che raffigura, è necessario procedere alla verificazione, e cioè al confronto con i

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fatti. Secondo Wittgenstein, le proposizioni complesse sono funzioni di verità delle proposizioni elementari, derivate dalla combinazione di queste ultime attraverso delle costanti logiche (ad esempio, «o», «e», «non», «se, allora», ecc.). Esse non raffigurano stati di cose, ma sono simboli con i quali connettiamo le proposizioni semplici, dando così origine a proposizioni complesse: per questo motivo, non è detto che esse rinviino a connessioni oggettive tra fatti. Per stabilire il valore di verità delle proposizioni complesse, occorre prima scomporle nelle proposizioni semplici da cui sono costituite e poi verificare se ognuna di esse corrisponde o meno al fatto che raffigura. In questo quadro, secondo Wittgenstein, le teorie o le leggi scientifiche sono come reti proiettate sulla natura: esse cercano di raffigurarla nel modo più fedele possibile, come le carte geografiche cercano di rappresentare un territorio, ma possono essere sempre falsificate dai fatti. In altri termini, il mondo è caratterizzato da un’assoluta contingenza e i nessi causali individuati dalle leggi naturali non sono necessari, ma sono validi solo fintantoché vengono confermati dai fatti. In sintonia con l’atomismo logico di Russell e con le tesi avanzate da Wittgenstein nel Tractatus, alcuni filosofi, fisici, matematici aderenti al Circolo di Vienna hanno elaborato una concezione scientifica del mondo e dimostrato l’insignificanza della metafisica tradizionale. A loro avviso, il linguaggio scientifico è esente dalle confusioni logiche del linguaggio filosofico e dalle ambiguità del linguaggio ordinario: esso è costituito da tautologie sempre vere (enunciati della matematica e della logica) e da teorie che elaborano l’esperienza, in base agli strumenti forniti dalla matematica e dalla logica. Secondo i neopositivisti, ciò che distingue le teorie

scientifiche dai discorsi metafisici è la loro base empirica, in quanto sono sempre riducibili ad un insieme di asserzioni singolari riguardanti i dati immediati della sensazione (Erlebnisse). In questo quadro, secondo una formula introdotta da Waismann e ribadita da Schlick, il significato di una proposizione consiste nel metodo della sua verificabilità: un enunciato è dotato di significato solo se un’esperienza – diretta o possibile – è in grado di accertarne la verità (o la falsità). Non si tratta, pertanto, della verificazione di fatto, né della singola verificazione: quando non si sa come procedere alla verificazione di una determinata proposizione, occorre concludere che essa è priva di significato (ad esempio: «ogni uomo ha un’anima»). Secondo altri esponenti del Circolo di Vienna, non può essere il criterio della verificabilità a stabilire la demarcazione tra enunciati scientifici e non scientifici: in accordo con posizioni di carattere convenzionalistico (soprattutto Duhem), Otto Neurath sostiene, infatti, che non è possibile confrontare le proposizioni con i fatti, come invece danno per scontato i fautori della verificabilità, in quanto si tratta di entità completamente diverse. In particolare, egli contesta che degli enunciati elementari possano riferirsi direttamente ai dati della sensazione, e cioè ad una realtà esterna al linguaggio. Secondo Neurath, il sapere scientifico non si basa su proposizioni elementari che aggancerebbero delle presunte esperienze immediate, poiché anch’esse vengono registrate all’interno del linguaggio. Non vi sono, dunque, proposizioni che godano di uno statuto epistemologico privilegiato, in quanto anche gli enunciati osservativi (o «protocolli», come li chiama Carnap) devono essere verificati e, quindi, messi a confronto con altre proposizioni. Alla nozione di verità

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come corrispondenza con i fatti, Neurath sostituisce la nozione di verità come coerenza di un’asserzione con le altre e, al limite, con la totalità delle asserzioni del sistema scientifico. Ciò che conta è la concordanza logica di una proposizione con le altre, la connessione sintattica tra gli enunciati, per cui una teoria viene abbandonata solo quando le proposizioni osservative entrano in contraddizione con essa e non è più possibile trascurarle. In accordo con

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Duhem, Neurath non intende mostrare l’inutilità dell’apporto empirico alle teorie scientifiche, ma solo mettere in luce come il confronto tra queste ultime e la realtà non sia mai diretto. Il punto di partenza della ricerca scientifica è dato non tanto dall’esperienza, ma dalla formulazione di una teoria (o di un complesso di ipotesi), che viene sviluppata deduttivamente e articolata matematicamente, mettendola in relazione con gli altri enunciati scientifici

di cui disponiamo: una teoria verrà conservata se risulta coerente con quelle più generali, altrimenti viene abbandonata. La scienza è un edificio concettuale sempre controllabile e mai definitivo: gli enunciati osservativi non sono la base della teoria, ma servono a corroborarla, ossia ad attestare se le previsioni da essa formulate si sono avverate oppure no, rivelando eventuali contraddizioni con altre proposizioni scientifiche sin qui reputate valide.

6. Popper: la logica della scoperta scientifica la formazione

Una teoria della conoscenza scientifica, alternativa a quella dei neopositivisti, è stata avanzata già negli anni Trenta da Karl Raimund Popper. Nato nel 1902 a Vienna da genitori ebrei assimilati, studia Matematica e Fisica e si laurea in Filosofia nel 1928. Per un breve periodo nel 1919 aderisce al comunismo, ma se ne allontana dopo uno scontro tra operai e polizia e abbandona il marxismo in quanto teoria dogmatica.

apprezzamenti e critiche per la sua prima opera

Entrato in rapporto con alcuni esponenti del Circolo di Vienna, è incoraggiato da uno di questi – Herbert Feigl – a scrivere un libro nel quale esporre le sue idee. La stesura del volume dal titolo I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza risulta troppo ampia per la pubblicazione (parti di esso compariranno solo nel 1979), e pertanto Popper provvede a ridurlo e a pubblicarlo nel 1934 col titolo Logica della scoperta scientifica. Il libro ottiene recensioni favorevoli da parte di Carnap e Hempel e, invece, critiche da Reichenbach e Neurath.

tra la nuova zelanda e l’inghilterra

Nel 1937, poco prima dell’annessione dell’Austria da parte di Hitler, emigra in Nuova Zelanda, dove gli è offerta una cattedra, e stringe amicizia con il neurofisiologo John Eccles. Durante la guerra pubblica i saggi Che cos’è la dialettica? (1940), Miseria dello storicismo (1944-45) e La società aperta e i suoi nemici (1945), che suscita un vasto dibattito. Nel 1946 si trasferisce in Inghilterra per insegnare alla London School of Economics, dove nel 1949 diventa professore di Logica e Metodologia scientifica.

l’attività di conferenziere e di saggista

Nell’ottobre del 1946, in occasione di una sua conferenza a Cambridge, ha un contrasto con Wittgenstein; nel 1950 si reca negli Stati Uniti a tenere le «William James Lectures» a Harvard e, in questa occasione, s’incontra con Einstein a Princeton; nel 1961 partecipa a un dibattito in Germania sul metodo della sociologia con Adorno e altri esponenti della Scuola di Francoforte. In questo periodo compaiono la traduzione inglese della Logica, con varie appendici (1959), raccolte di saggi sotto i titoli Congetture e confutazioni

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(1962) e Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), nonché un ampio Poscritto alla logica della scoperta scientifica (1982-83) e – in collaborazione con John Eccles – L’io e il suo cervello (1977). Popper ha continuato a vivere in Inghilterra, vicino a Londra, sino alla morte avvenuta nel 1994. Popper ha descritto la genesi della sua teoria della conoscenza come il risultato di un confronto – da lui operato in età giovanile – tra la teoria della relatività di Einstein, da una parte, e la psicoanalisi e il marxismo dall’altra. Mentre queste ultime si presentano come teorie inconfutabili, ossia capaci di spiegare qualunque fenomeno di loro pertinenza, la teoria di Einstein fornisce l’indicazione di esperimenti possibili che potrebbero confermarla o confutarla. Partendo da questa constatazione, Popper sviluppa nella Logica della scoperta scientifica una teoria delle teorie scientifiche.

a partire da einstein, marx e freud

Le teorie scientifiche sono costituite da asserzioni universali (ipotesi o leggi). Abitualmente – per esempio, da parte di molti esponenti del Circolo di Vienna – si ritiene che esse siano derivabili per induzione da asserzioni singolari (ossia dai resoconti di osservazioni o esperimenti). Ma, come già si era chiesto Hume, è logicamente legittima l’inferenza di asserzioni universali da asserzioni particolari, per quanto numerose queste siano? Secondo Popper la risposta è no: dal fatto che molti cigni sono bianchi non si può concludere che «tutti i cigni sono bianchi». Popper esclude che l’osservazione sia fonte di conoscenza e respinge, dunque, la logica induttiva.

il problema dell’induzione

Ma, così facendo, non si elimina ogni distinzione tra la scienza – che è la conoscenza autentica – e la metafisica? Per Popper, il principio di verificazione, sostenuto dai neopositivisti, non fornisce un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza: da un lato, esso permette di concludere che il linguaggio della metafisica è privo di senso, ma dall’altro finisce per privare le scienze naturali della loro validità. In base al principio di verificabilità, infatti, solo asserzioni empiriche elementari – ossia resoconti di osservazioni di eventi singolari – permettono di decidere in modo conclusivo della verità o falsità di asserzioni generali (ossia delle leggi scientifiche). Ma, come si è visto, l’inferenza da asserzioni singolari a teorie generali non è logicamente ammissibile. Per questo motivo, le teorie non potranno mai essere verificate empiricamente una volta per tutte.

il problema della demarcazione

Dal punto di vista della storia delle scoperte scientifiche, alcune idee metafisiche sono state di ostacolo, ma altre (per esempio, l’atomismo) sono state fruttuose. Popper propone, quindi, un altro criterio di demarcazione tra scienza e metafisica: si tratta del metodo dei controlli, per cui è scientifico solo un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Tale criterio non esige che un sistema sia scelto una volta per tutte, ma richiede soltanto che esso possa essere confutato dall’esperienza, ovvero sia falsificabile. Popper precisa che la falsificabilità non è un criterio di significato, ossia non distingue tra ciò che ha senso e ciò che non ha senso – come avviene col principio di verificabilità dei neopositivisti –, ma traccia una linea di demarcazione all’interno del linguaggio significante.

il criterio di falsificabilità

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osservazioni ed esperimenti devono essere controllabili

Le asserzioni universali (le teorie) non possono essere derivate da asserzioni singolari, ma possono essere controllate da queste. Ciò significa che le asserzioni base – ossia le asserzioni di un fatto singolare (per esempio, che un determinato cigno è nero) – possono servire come premesse di una falsificazione. Ma anche queste asserzioni base devono essere controllate intersoggettivamente; esse, infatti, non hanno quello stato privilegiato di certezza attribuito loro dai neopositivisti. Le osservazioni, gli esperimenti e i resoconti di essi non sono neutrali, ma sono sempre condotti e interpretati alla luce delle teorie.

marxismo e psicoanalisi non sono delle scienze

Per questo, secondo Popper, è sempre facile trovare verificazioni di una teoria: così avviene con il marxismo e con la psicoanalisi, che interpretano ogni fenomeno come verifica positiva della loro teoria. Nella scienza, invece, non possono esserci asserzioni definitive, non più controllabili intersoggettivamente, ossia non confutabili. Ciò non vuol dire che – prima di essere accettata – ogni asserzione scientifica debba essere di fatto controllata, ma solo che deve poter essere controllata.

asserzioni singolari e universali

Per chiarire la nozione di falsificabilità, Popper precisa che le asserzioni base – necessarie per falsificare una teoria – hanno la forma di asserzioni singolari esistenziali. La negazione di un’asserzione universale (per esempio: «Non tutti i corvi sono neri») equivale a un’asserzione strettamente esistenziale (per esempio: «Esiste almeno un corvo che non è nero»). Ora, le leggi di natura hanno la forma di asserzioni universali, del tipo: «Tutti i corvi sono neri», e, quindi, sono esprimibili come negazioni di asserzioni esistenziali (ossia, «Non esiste alcun corvo che non sia nero»).

quando una teoria scientifica è falsificata?

Le leggi di natura sono pertanto paragonabili a dei divieti: esse, anziché asserire che qualcosa esiste o accade, lo negano. In tal modo, le asserzioni strettamente universali non sono verificabili, perché la loro verificazione richiederebbe una esplorazione esaustiva del mondo in ogni tempo per stabilire che qualcosa non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. Se invece è vera una sola asserzione singolare che infrange ciò che la legge proibisce o esclude, allora la legge risulta confutata. Ciò significa che una teoria è falsificabile se la classe di tutte le asserzioni base, con le quali essa è in contraddizione o che essa esclude o vieta, non è vuota: queste asserzioni base vietate dalla teoria sono dette falsificatori potenziali di essa [t49].

una teoria è scientifica quando è confutabile

Quanto più una teoria vieta, tanto maggiore è il contenuto di informazioni che essa fornisce e ciò è connesso appunto all’ampiezza della classe dei suoi falsificatori potenziali. Per scegliere tra teorie occorre, dunque, tener conto del loro grado di falsificabilità, il quale consiste appunto nel numero maggiore o minore di falsificatori potenziali. Le leggi scoperte dalla scienza sono sempre ipotesi, ma la cosa essenziale non è tanto discutere quanto sia probabile un’ipotesi, bensì valutare a quali controlli e prove ha resistito, mostrando la sua capacità di corroborazione. A determinare il grado di corroborazione interviene, più che il numero dei casi a favore, la severità dei controlli, che dipende dalla semplicità dell’ipotesi: l’ipotesi più semplice, ossia falsificabile in grado più alto, è anche quella corroborabile a un grado

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IL CRITERIO DI FALSIFICABILITÀ una teoria scientifica è costituita da

Classe delle asserzioni universali

Classe dei falsificatori potenziali

«tutti i cigni sono bianchi» Le asserzioni universali sono equivalenti a negazioni di asserzioni singolari esistenziali

I falsificatori potenziali sono le asserzioni singolari esistenziali che possono confutare una teoria

«non esiste alcun cigno che non sia bianco» Una teoria scientifica vieta che accadano alcuni eventi

Basta una sola asserzione singolare esistenziale per mostrare che ciò che la teoria scientifica vieta è falso

«la teoria proibisce che esistano cigni di colore diverso dal bianco»

«esiste un cigno nero»

più alto. La conclusione di Popper è che solo la confutabilità distingue le teorie scientifiche dalla metafisica. Contrariamente ai neopositivisti, Popper ritiene che la base empirica delle scienze non sia qualcosa di assoluto, sicché non è possibile sostenere che la scienza poggia «su un solido strato di roccia». Egli paragona le teorie scientifiche a edifici costruiti su palafitte, che si elevano sopra una palude; quando ci si arresta a una teoria, non è perché si sia trovato un terreno solido, ma perché si ritiene che i sostegni disponibili siano abbastanza stabili, almeno per il momento, per reggere la struttura. Da Novalis, egli riprende un’altra metafora che paragona le teorie a reti gettate per catturare quello che chiamiamo il mondo; per catturare il più possibile si cerca, dunque, di rendere la trama delle reti sempre più sottile. Questo avviene attraverso la critica e la sostituzione delle teorie con altre migliori; «ciò che in ultima analisi – dice Popper – decide del destino di una teoria è il risultato di un controllo».

le teorie scientifiche sono migliorabili

Grazie a questa dinamica la scienza risulta caratterizzata da un progresso, che Popper interpreta sulla falsariga del modello evoluzionistico darwiniano: come la lotta per la vita conduce alla selezione e alla sopravvivenza dei più adatti, così la competizione tra le teorie scientifiche dà luogo a una selezione della teoria che si dimostra la più adatta a sopravvivere, in quanto sino ad allora è l’unica ad aver superato i controlli più severi e a poter essere controllata nel modo più rigoroso. Tipica della conoscenza scientifica

il progresso della conoscenza scientifica

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è, pertanto, la sua capacità di crescere e di progredire, non nel senso di accumulare risultati, ma nel senso di sostituire teorie con teorie sempre migliori. fallibilismo e critica delle conoscenze acquisite

In vari saggi, successivi alla Logica, Popper illustra la dinamica di questo processo di crescita. La conoscenza, a suo avviso, non parte mai da zero, ha sempre una tradizione alle spalle, sicché si può dire che «il progresso della conoscenza consiste principalmente nella modificazione delle nostre conoscenze precedenti». Le sue fonti possono essere di ogni genere (credenze, miti, osservazioni, teorie), ma nessuna di queste fonti ha un’autorità privilegiata. In opposizione alle epistemologie ottimistiche, secondo le quali la verità è qualcosa di dato che si tratta soltanto di mettere in luce una volta per tutte, e a quelle pessimistiche, per le quali la conoscenza è impossibile, Popper sostiene il carattere fallibile della conoscenza umana e la sua possibilità di progredire attraverso la critica: per questo aspetto la sua concezione è denominata fallibilismo. Egli interpreta l’aggettivo critico come sinonimo di razionale: dai primi pensatori greci – i cosiddetti presocratici – la civiltà occidentale avrebbe ereditato, a suo avviso, la tradizione razionalistica, la quale consiste nella discussione critica delle teorie via via avanzate per risolvere i problemi, nell’intento della ricerca della verità.

congetture e confutazioni

Il punto di partenza nel cammino della conoscenza è sempre dato dai problemi, per risolvere i quali si avanzano congetture (ossia ipotesi o teorie). Queste ultime vengono sottoposte alla discussione e al controllo, ossia a confutazioni, dalle quali scaturiscono nuovi problemi, che inducono a escogitare nuove e migliori teorie e così via. La verità non è la proprietà definitiva di specifiche teorie, che restano sempre ipotesi o congetture, ma è una sorta di ideale regolativo, che guida il processo di crescita della conoscenza. Questo può essere inteso come approssimazione alla verità, nel senso che la massima approssimazione è data dalla teoria meglio controllata sino a quel momento. La verità non può, pertanto, essere confusa con la semplice coerenza interna o non contraddittorietà tra gli enunciati di una teoria o con l’utilità di una teoria come strumento di azione e di previsione.

la teoria dei tre mondi

Nell’ultima fase della sua riflessione, soprattutto nel volume Conoscenza oggettiva, Popper elabora la concezione dei tre mondi. Una teoria scientifica, per poter essere criticata, deve essere formulata oggettivamente, ossia in termini linguistici: in quanto tale, essa fa parte di quello che Popper chiama il mondo 3. Esso è il mondo dei contenuti oggettivi del pensiero, ormai indipendenti dalla mente umana che li ha prodotti, ossia dagli stati di coscienza del soggetto, che costituiscono a loro volta il mondo 2. Per la loro esistenza autonoma gli oggetti del mondo 3 sono comparabili alle idee platoniche, ma a differenza di queste essi sono i risultati dell’evoluzione del linguaggio umano e, quindi, hanno un’origine storica e carattere mutevole. Rispetto a questi mondi si distingue il mondo 1, costituito dagli oggetti fisici. Popper attribuisce ai tre mondi un’esistenza oggettiva: essi sono irriducibili l’uno all’altro, ma possono interagire tra loro. In particolare, è il mondo 3 che – sviluppandosi – retroagisce sugli altri due,

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determinando effetti imprevedibili. Esso include, oltre alle teorie, anche i prodotti dell’immaginazione, quelli dell’arte e i valori, i quali non sono derivabili dai fatti e non possono esistere senza i problemi, sia inconsci sia creati dalla mente umana. L’io stesso come persona è una novità che emerge dall’interazione con gli oggetti del mondo 3, ossia con i problemi e con i valori: esso è, dunque, un prodotto culturale e storico. In questo contesto si pone la questione del rapporto tra mente e corpo. Popper respinge il monismo materialistico, che riduce gli stati della mente a stati corporei o, meglio, cerebrali; per questo aspetto, egli è un dualista, ma non nel senso che mente e corpo siano due sostanze, bensì nel senso che tra stati o eventi mentali e stati o eventi corporei esiste un’interazione. In questa interazione tra l’io, come abitante del mondo 3, e il cervello, come abitante del mondo 1, è l’io ad avere la funzione attiva di programmatore del cervello.

il problema mente-corpo

7. Popper: la società aperta I risultati raggiunti dall’indagine sui caratteri delle teorie scientifiche sono utilizzati da Popper – già prima e soprattutto durante la Seconda guerra mondiale – per esaminare la scientificità delle teorie sulla storia e sulla società. In particolare, egli assume a obiettivo polemico lo storicismo. Secondo Popper, esso non è altro che la secolarizzazione di una superstizione religiosa, secondo cui tutto ciò che accade è risultato dei propositi di determinati individui o gruppi. Propria dello storicismo è, infatti, la credenza che la storia sia una totalità retta da leggi necessarie.

la critica dello storicismo

Due sono i tipi fondamentali di storicismo, a seconda che il cammino della storia sia considerato come un regresso o un progresso necessario: al primo tipo appartiene, per esempio, la filosofia di Platone, al secondo quelle di Hegel e di Marx. Tratto comune a tutti è, però, la convinzione che le leggi dello sviluppo storico possano essere scoperte e che consentano di formulare predizioni certe ad ampio raggio, le quali devono servire da guida all’azione politica.

i due tipi di storicismo: platone e hegel

Secondo Popper, esiste una connessione tra storicismo, essenzialismo e totalitarismo: se si ritiene – come fa l’essenzialismo – che la verità possa essere integralmente posseduta, in particolare quella riguardante lo sviluppo della storia e della società, allora la conseguenza necessaria è l’autoritarismo, se non il fanatismo, fondato sulla convinzione che solo chi è malvagio si rifiuta di riconoscere la verità e di sottomettersi a essa. A conclusioni analoghe perviene il pessimismo epistemologico: la sfiducia nell’uomo porta all’esigenza di stabilire un’autorità e una tradizione che lo salvino dalla sua follia e dalla sua malvagità.

l’autoritarismo alla base dello storicismo

A queste impostazioni corrispondono tipi di società chiusa, di tipo tribale, caratterizzata dal predominio della totalità del corpo sociale sugli individui e da un insieme compatto di credenze indiscutibili, fondate su autorità altrettanto indiscutibili. A essa, Popper contrappone – riprendendo una di-

società chiusa e società aperta

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stinzione di Bergson [cfr. 6.3] – il modello della società aperta, caratterizzata invece dall’atteggiamento razionale della libera discussione critica. Presupposto di essa è il riconoscimento che dovremo sempre vivere in una società imperfetta e che nessuna società può esistere senza conflitti di valore. In questa situazione, lo Stato appare come un male necessario, ma proprio per questo – come ha sottolineato la tradizione del pensiero liberale – a esso non debbono essere attribuiti poteri oltre il necessario. come sostituire i cattivi governanti

Il vero problema politico non consiste nel chiedersi chi deve comandare, ma come sia possibile organizzare le istituzioni politiche in modo che i governanti cattivi o incompetenti non possano fare troppi danni. Come le teorie scientifiche sono sottoposte a controlli ripetuti, così anche il potere deve essere controllato. In questa prospettiva, la democrazia liberale risulta la forma migliore, non perché la maggioranza abbia sempre ragione (anzi, potrebbe scegliere la tirannide), ma perché si tratta del male minore, che consente di sostituire i governi senza fare ricorso alla violenza, proprio come le teorie sono sostituibili grazie alla libera discussione e alla critica.

il metodo e lo scopo delle scienze sociali

In questo tipo di società, l’agire politico si configura come una ingegneria sociale, che non pretende di riorganizzare globalmente e in maniera definitiva la società, ma affronta via via problemi specifici, cercandone le soluzioni più adeguate. Le scienze sociali possono, allora, assumersi il compito di individuare le conseguenze indesiderate delle nostre azioni. Il loro metodo deve consistere, secondo Popper, nell’analisi situazionale, la quale comprende e spiega le azioni umane particolari come soluzioni relative a specifiche situazioni problematiche, sulla base di determinate scelte di valore.

8. Ulteriori sviluppi della filosofia della scienza dopo popper

L’impostazione data da Popper al problema della conoscenza scientifica ha diretto l’attenzione sul suo processo di crescita attraverso la dinamica della formulazione e della critica delle teorie. Da ciò è emersa la consapevolezza che per comprendere la natura della conoscenza scientifica non è sufficiente esaminare la struttura logica interna delle teorie, ma occorre indagare anche il modo in cui esse si sono affermate o sono state abbandonate nel corso della storia: di qui la necessità di intrecciare la considerazione epistemologica con la storia della scienza.

kuhn: scienza normale e scienza rivoluzionaria

Thomas Kuhn (1922-1996), professore di Storia della scienza all’università di Princeton, è l’autore di una fortunata opera intitolata La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962): in essa egli dichiara che il cammino della scienza procede non per accumulazioni, secondo una crescita continua, ma attraverso rivoluzioni. Le rivoluzioni, tuttavia, rappresentano soltanto momenti di eccezione rispetto a quella che egli chiama scienza normale, ossia una pratica di ricerca «stabilmente fondata – come egli dice – su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore».

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La scienza normale è caratterizzata da un consenso sulla validità di questi risultati, i quali vengono ad assumere la veste di paradigmi , ossia di modelli che determinano quali sono i problemi e i metodi legittimi e danno, quindi, origine a tradizioni di ricerca scientifica: tali sono, per esempio, l’astronomia tolemaica o quella copernicana o la meccanica newtoniana. I paradigmi non sono regole rigide, ma devono avere due caratteristiche: 1) devono essere abbastanza nuovi da attrarre un gruppo stabile e sufficientemente ampio di seguaci, distogliendoli da forme di attività scientifica che contrastino con essi; 2) devono essere abbastanza aperti da consentire di risolvere altri problemi.

la nozione di paradigma

La scienza normale, che si costituisce su questa base – più che mirare a produrre novità –, cerca di risolvere rompicapo (in inglese, puzzles) entro le procedure riconosciute. Essa è opera collettiva e cumulativa e ha soprattutto due obiettivi: a) estendere la conoscenza dei fatti indicati dal paradigma come particolarmente rivelatori, confrontando i fatti con la teoria; b) procedere ad articolare ulteriormente il paradigma mediante esperimenti. Contrariamente a quanto sostiene Popper, secondo Kuhn gli scienziati normalmente non si dedicano a controlli severi delle teorie.

la scienza normale opera all’interno di paradigmi dati

Ciò può cominciare quando sorgono novità insospettate, che si presentano come anomalie rispetto al paradigma: tale, per esempio, è stata la scoperta dell’ossigeno. Kuhn considera un luogo comune, privo di consistenza storica, l’idea che una teoria sia abbandonata in seguito al confronto diretto con fatti o osservazioni che non la verificano. Quando i puzzles irrisolti si accumulano, emerge l’idea che essi non possano più essere risolti partendo dalle premesse condivise all’interno di un paradigma.

che cosa provoca la comparsa di anomalie?

I mutamenti di più vasta portata, tuttavia, emergono soltanto con l’invenzione di nuove teorie, in quanto una teoria che ha raggiunto lo stato di paradigma non viene più riconosciuta valida soltanto se esiste un’alternativa disponibile. Così è avvenuto, per esempio, per il sistema tolemaico con la nascita di quello copernicano. Solo in questi momenti avviene una crisi e una rivoluzione, ossia la sostituzione di un paradigma con uno nuovo. In tal modo, Kuhn respinge ogni concezione della storia come processo continuo di assorbimento e ampliamento dei risultati precedenti; egli considera, pertanto, la teoria della relatività di Einstein e il sistema di Newton incompatibili, in quanto paradigmi che «dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’universo e sul comportamento di tali oggetti».

la sostituzione di un paradigma con un altro

Ciò significa che i paradigmi sono incommensurabili tra loro, in quanto il nuovo paradigma non fornisce risposte nuove a vecchi problemi, ma pone nuovi problemi. Il mutamento di paradigmi non riguarda soltanto singoli settori, ma comporta una trasformazione dell’intera struttura concettuale, con la quale gli scienziati guardano il mondo. Questa transizione non è istantanea; in analogia con le rivoluzioni politiche, Kuhn mette in rilievo che tra i paradigmi s’ingaggia una lotta e che la scelta di uno di essi non può mai essere risolta soltanto facendo ricorso alle argomentazioni logiche e all’esperimento. Essa comporta, infatti, una decisione su quali problemi

l’incommensurabilità dei paradigmi

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sia più importante risolvere e ciò implica un riferimento a valori. In tal modo, la vittoria di un paradigma dipenderà dalla forza persuasiva con cui i suoi promotori cercano di ottenere il consenso della comunità scientifica [t50]. lakatos critico di kuhn

Più vicino a Popper è stato l’ungherese Imre Lakatos (1922-1974), rifugiatosi nel 1956 a Londra, dove ha insegnato alla London School of Economics. I suoi saggi più significativi sono stati raccolti in due volumi pubblicati postumi con il titolo La metodologia dei programmi di ricerca scientifica (1978). In una prima fase, Lakatos estende il falsificazionismo di Popper anche alla matematica, ma successivamente mette in dubbio che esso sia adeguato a spiegare i mutamenti scientifici. Lo stesso vale per il modello costruito da Kuhn, che fa dipendere il valore delle teorie scientifiche dal consenso accordato a esse dalla comunità scientifica. A ciò Lakatos obietta che anche le credenze assurde possono ricevere consenso; in tal modo egli si oppone al relativismo e all’irrazionalismo impliciti nella concezione di Kuhn. Egli intende infatti stabilire – in linea con Popper – una linea di demarcazione tra scienza e non scienza, ma senza far uso della nozione popperiana di falsificabilità.

la tenacia dei programmi di ricerca

A tale scopo egli introduce la nozione di programma di ricerca, con la quale intende un insieme di teorie, dotate di un nucleo forte e capaci di produrre previsioni inaspettate. Se è così, è irrazionale abbandonare un programma di ricerca solo perché ci sono fatti che sembrano incompatibili con i princìpi e il nocciolo dottrinale di esso; questo, anzi, deve essere protetto contro le falsificazioni, finché continua a dare buoni frutti. Popper sottovaluta, secondo Lakatos, la tenacia dei programmi di ricerca. In presenza di fatti nuovi apparentemente contrastanti, gli scienziati predispongono una cintura di protezione intorno al nucleo forte del programma, elaborando una euristica negativa e una positiva. La prima consiste nell’escogitare ipotesi ausiliarie (dette ad hoc) capaci di neutralizzare questi fatti nuovi; la seconda porta alla costruzione di modelli che servono a modificare – in modo ancor più fruttuoso – queste ipotesi protettive, sì da ottenere nuove previsioni. Ciò che distrugge un programma di ricerca non è dunque l’osservazione di un’anomalia, ma l’insorgenza di un nuovo programma più fruttuoso: si tratta, però, secondo Lakatos, di un evento raro, che richiede molto tempo.

feyerabend contro il metodo

Amico di Kuhn e di Lakatos, Paul Feyerabend, nato a Vienna nel 1924, ha studiato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove ha insegnato all’università di Berkeley. È morto in Svizzera nel 1994. Dopo una fase vicina alle concezioni di Popper e poi di Kuhn, Feyerabend le ha successivamente sviluppate in direzione relativistica, soprattutto nei volumi Contro il metodo (1975), La scienza in una società libera (1978) e Addio alla ragione (1982). Contrariamente a Kuhn, egli ritiene che la scienza non progredisce affidandosi di volta in volta a un solo paradigma, ma fiorisce dove c’è una varietà di ipotesi e una grande proliferazione di teorie. Questa non è una tappa provvisoria in vista della realizzazione futura dell’Unica Teoria Vera; infatti, anche nella scienza non c’è regola che non sia prima o poi violata, e proprio questo è condizione necessaria per lo sviluppo della scienza.

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In questo senso, non si può affermare – come pretendono le filosofie della scienza – che esista un metodo privilegiato: la parola d’ordine è, invece, «qualunque cosa va bene». In ciò consiste l’anarchismo metodologico. È necessario allora, secondo Feyerabend, condurre una lotta per la tolleranza anche nell’ambito della scienza, che favorisca la libera competizione tra le teorie, analoga alla tolleranza e alla competizione all’interno di una libera società democratica. Un relativista democratico non può, pertanto, accettare che una tradizione particolare assuma e pretenda di avere autorità sul resto; ciò vale anche a proposito della scienza, che nella società attuale ha acquistato, secondo Feyerabend, un eccessivo potere.

tolleranza e relativismo

Riprendendo la tesi, sia di Popper che di Kuhn, dell’impossibilità di scindere nettamente tra il piano della teoria e quello dell’esperienza, egli arriva a ritenere impossibile la distinzione tra scienza e mito: la scienza è soltanto uno dei miti inventati dagli uomini per controllare il loro ambiente. Per indebolire le pretese di autorità della scienza nella società contemporanea, egli non esita a rivalutare le medicine alternative e l’astrologia in opposizione alla scienza ufficiale, ritenendo in tal modo di contribuire a salvaguardare la libertà da ogni tradizione.

scienza e mito

in poche... parole Tra Ottocento e Novecento si assiste a una formidabile intensificazione delle scoperte scientifiche: in ambito matematico, si afferma la possibilità di costruire delle geometrie non euclidee; in ambito fisico, la meccanica newtoniana e la teoria del campo elettromagnetico formulata da Maxwell vengono unificate e sostituite dalla teoria einsteiniana della relatività; sempre in ambito fisico, Planck elabora la teoria dei quanti e Heisenberg ne fa scaturire il principio di indeterminazione, inducendo la meccanica classica ad abbandonare il determinismo puro in favore del calcolo probabilistico. In questo quadro assai articolato, numerosi scienziati e filosofi si pongono una serie di interrogativi sulla natura delle teorie scientifiche, sui metodi impiegati per attestarne la validità, sui criteri che spie-

gano il passaggio da una teoria all’altra. Ad esempio, Ernst Mach considera la scienza in termini evoluzionistici come una risposta all’esigenza di adattamento all’ambiente propria dell’uomo e di soddisfare i propri bisogni pratici; Poincaré e Duhem mettono in luce il carattere convenzionale delle teorie scientifiche che hanno lo scopo di descrivere matematicamente non l’essenza delle cose, ma i rapporti di correlazione tra i fatti. L’elaborazione di una concezione scientifica del mondo fu l’obiettivo del Circolo di Vienna sorto nel 1923, a cui presero parte alcuni tra i più importanti filosofi, fisici, matematici, sociologi del tempo. Il presupposto comune a tutti i membri del Circolo, soprannominati anche «neopositivisti» o «empiristi logici», era che il sapere scientifico fornisse la migliore spiegazio-

ne possibile dei dati offerti dall’esperienza. A loro avviso, le proposizioni scientifiche – a differenza di quelle metafisiche – erano sempre riducibili ad asserzioni elementari (o protocolli) riguardanti i dati immediati della sensazione (Erlebnisse): per questo motivo, il loro significato consiste nel metodo della loro verificazione (o verificabilità). In altre parole, è sempre possibile accertare la verità o falsità degli enunciati scientifici in base a dati di fatto; gli enunciati della metafisica, invece, non sono verificabili perché parlano di entità che cadono al di fuori di ogni esperienza possibile e, come sostiene Carnap, riguardano solo l’espressione del sentimento dell’uomo verso la vita.

teoria scientifica Questa espressione è usata per indicare

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un’ipotesi o un insieme di più ipotesi scientifiche, dalle quali si deducono conseguenze – verificate, confermate o falsificate attraverso il confronto con l’esperienza o con le leggi sperimentali. Per questo motivo, si dice anche che le teorie scientifiche hanno carattere ipotetico-deduttivo.

convenzionalismo Dottrina secondo la quale gli assiomi o ipotesi (o punti di partenza) di un sistema deduttivo di proposizioni (aritmetiche, geometriche, logiche) sono scelti in base a un accordo o convenzione e non in base alla loro corrispondenza con i fatti dell’esperienza. Tale scelta non è arbitraria, ma guidata da criteri di coerenza, di comodità, di semplicità. Nell’ambito dell’empirismo logico, gli assiomi sono intesi come stipulazioni riguardanti le regole che presiedono alla formazione e trasformazione dei simboli di un sistema formale. verificabilità Nozione introdotta

nel Circolo di Vienna per caratterizzare ciò che conferisce significato a una proposizione: una proposizione ha senso quando si può fare riferimento a un’esperienza possibile in grado di confermarla o no. Da questo punto di vista le proposizioni della metafisica risultano prive di senso, in quanto pretendono di parlare di ciò che va al di là di ogni esperienza possibile e quindi non possono essere verificate. Solo le circostanze empiriche, alle quali si riferiscono le proposizioni, consentono di accertare se una proposizione è vera o falsa: questo è il tratto proprio delle proposizioni che costituiscono le scienze, a parte la matematica che è costituita di tautologie, ossia di proposizioni sempre vere, come è sottolineato anche da Wittgenstein. Carnap liberalizza il criterio del significato: a suo avviso, il principio di verificazione deve valere come una semplice raccomandazione di non introdurre proposi536

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zioni metafisiche (ossia inverificabili) all’interno del linguaggio scientifico. Ma anziché insistere sulla verificabilità diretta di una teoria mediante dati empirici, Carnap distingue tra 1) controllabilità, data dall’avere a disposizione un metodo di verifica sperimentale, e 2) confermabilità, quando tale metodo non può essere indicato, ossia sappiamo che dei controlli confermerebbero una teoria, ma non sappiamo come procedere a questi controlli. Già questo però basta, secondo Carnap, a escludere gli enunciati della metafisica.

protocollo Termine usato nel Circolo di Vienna (in tedesco, Protokoll) per indicare il resoconto di un’esperienza diretta o di un dato immediato (sensazione, percezione). Enunciati o proposizioni protocollari (in tedesco, Protokollsätze) sono quelli che contengono solo protocolli, ossia si riferiscono direttamente a dati dell’esperienza. Essi non sono bisognosi di verificazione ma sono la base per la verificazione empirica delle altre asserzioni di una teoria. Una teoria della conoscenza scientifica alternativa a quella dei neopositivisti è quella formulata da Popper che – entrato in contatto con alcuni esponenti del Circolo di Vienna – se ne distacca nella Logica della scoperta scientifica (1934) e in Congetture e confutazioni (1962). Secondo Popper, il criterio di demarcazione tra scienza e metafisica non è dato dal principio di verificabilità, come sostenevano i neopositivisti, ma dal principio di falsificabilità. In altri termini, una teoria è scientifica non perché sia verificata (o verificabile) in base ad osservazioni ed esperimenti, ma perché è confutabile, ossia perché l’insieme dei suoi falsificatori potenziali (= asserzioni singolari che potrebbero metterla in crisi) non è vuoto. Una teoria o legge scientifica (= ipotesi di ca-

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rattere universale) non potrà, infatti, mai essere verificata in modo definitivo da asserzioni base che riguardano fatti singolari; essa potrà tutt’al più essere corroborata, e cioè resistere a controlli sempre più severi. Popper, inoltre, mette in luce la natura provvisoria delle verità scientifiche (paragonate a «edifici costruiti su palafitte») e il carattere fallibile della conoscenza umana. Essa procede per congetture e confutazioni, e cioè formulando ipotesi su come risolvere determinati problemi, ipotesi che vengono costantemente sottoposte a discussione critica e a rigorosi controlli. Imparando dai propri errori, l’uomo potrà così formulare nuove e migliori teorie, approssimandosi sempre di più alla verità, mai intesa come un’acquisizione definitiva, ma solo come un ideale regolativo. I filosofi della scienza venuti dopo Popper hanno cercato di mostrare come la conoscenza scientifica non potesse essere spiegata solo esaminandone gli aspetti logici e metodologici, ma anche mettendo in luce i contesti storici e sociali in cui viene prodotta: di qui la necessità di intrecciare l’epistemologia con la storia della scienza. A questo proposito, Kuhn descrive il cammino della scienza non in termini progressivi e lineari, ma come un percorso interrotto da rivoluzioni e cambiamenti di paradigma tra di loro incommensurabili. A suo avviso, non è il confronto con i fatti a determinare il passaggio da una teoria all’altra, ma il cambiamento delle strutture concettuali di fondo (= valori, credenze, bisogni) con le quali le comunità scientifiche stabiliscono quali sono i problemi da affrontare e i metodi legittimi con cui affrontarli. Sulla scia di Popper, Lakatos cerca di contrastare il relativismo di Kuhn, mostrando come la validità di una teoria non si fondi sul consenso accordato ad

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essa dalla comunità scientifica, ma dipenda dalla difesa razionale di un determinato programma di ricerca. In presenza di fatti nuovi, il programma di ricerca andrà incontro ad aggiustamenti ad hoc capaci di neutralizzarli, oppure porterà alla costruzione di nuovi modelli teorici, che comporteranno la nascita di un programma di ricerca più articolato e fruttuoso, in grado cioè di ottenere nuove previsioni. Amico di Kuhn e di Lakatos, ma distante da entrambi, è invece Feyerabend, fautore dell’anarchismo metodologico: a suo avviso, la scienza non progredisce affidandosi a un unico paradigma vincente alla volta, ma grazie alla proliferazione e alla varietà delle ipotesi in concorrenza tra loro. La demarcazione tra scienza e non scienza non è garantita dall’adozione di un metodo di tipo logico-deduttivo, come pretendeva Popper, visto che nella scienza non c’è regola che non sia stata violata. Ciò che conta, secondo il filosofo austriaco, è consentire la libera competizione fra teorie, così da illuminare aspetti diversi della realtà e da evitare che un punto di vista unico sul mondo prenda il sopravvento sugli altri.

falsificabilità Secondo Popper

la verificabilità non può costituire il criterio di demarcazione tra scienza e metafisica, perché non è logicamente ammissibile l’inferenza per via induttiva di teorie generali da asserzioni singolari. Ciò comporta che le teorie non po-

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tranno mai essere verificate empiricamente. Bisogna allora cercare un altro criterio: esso consiste nel metodo dei controlli, per cui è scientifico solo un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Le asserzioni universali infatti non sono derivabili dalle singolari, ma possono essere controllate da queste, in quanto basta un solo controesempio per confutare un’asserzione universale. Per confutare l’enunciato «tutti i corvi sono neri» basta l’esibizione del caso di un corvo bianco. La falsificabilità, però, non è un criterio di significato, cioè non distingue tra ciò che ha senso e ciò che non lo ha, ma è criterio di demarcazione – entro il linguaggio significante – tra proposizioni scientifiche e non scientifiche. Una legge di natura, consistente in asserzioni universali, è come un divieto: nega che qualcosa sussista, per cui basta una sola asserzione singolare a infrangerlo, cioè a confutarlo. Le asserzioni base vietate da una teoria sono dette falsificatori potenziali di essa. Quanto più una teoria vieta, tanto maggiore è il contenuto di informazioni che essa fornisce e ciò è connesso all’ampiezza della classe dei suoi falsificatori potenziali.

essenzialismo Con questo termine Popper definisce una precisa concezione della conoscenza umana, che ripone lo scopo della scienza nella scoperta di spiegazioni ultime. Tali spiegazioni devono essere appunto in grado di rispondere alla domanda «Che cos’è x?», ovvero di indicare l’essenza

di x. Questa concezione, secondo Popper, è dogmatica, incoraggia l’oscurantismo e l’autoritarismo, impedisce l’esercizio della critica razionale.

paradigmi Termine introdotto da Thomas Kuhn e ampiamente diffuso nelle discussioni di filosofia e storia della scienza. I paradigmi sono costituiti da insiemi di regole, procedure e risultati e determinano quali sono i problemi e i metodi legittimi della ricerca. In tal senso, essi sono i modelli che guidano l’attività di una comunità scientifica. Il consenso intorno ai paradigmi dà origine a tradizioni di ricerca scientifica. La scienza che continua a procedere secondo un paradigma condiviso è detta da Kuhn scienza normale, un’impresa collettiva e cumulativa, che procede a estendere la conoscenza dei fatti indicati come rilevanti dal paradigma. Quando sorgono anomalie o novità inaspettate rispetto al paradigma, si pongono le basi per la costruzione di nuove teorie che si presentano come alternativa valida al paradigma: si hanno allora crisi e rivoluzioni, cioè la sostituzione di un paradigma con uno nuovo. I paradigmi e le teorie fondate su essi sono tra loro incommensurabili, nel senso che uno nuovo non può inglobarne uno vecchio, ma soltanto lottare con esso ed eventualmente eliminarlo. La vittoria di un paradigma dipende dalla sua forza persuasiva e dal fatto di ottenere il consenso della comunità scientifica, perché si tratta di decidere quali problemi sia più importante risolvere.

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i testi t48 Carnap / Logica e metafisica Carnap

Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio

§§ 1, 3-4

Buona parte dell’attività filosofica del Novecento si svolge, ancor prima che sui libri, sulle riviste filosofiche, dove sovente appaiono saggi, che diventano classici più di molti libri. Tale è l’articolo di Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, comparso nel 1932 sulla rivista per così dire ufficiale del Circolo di Vienna e dell’empirismo o positivismo logico, «Erkenntnis», diretta dallo stesso Carnap insieme a Reichenbach. Un’occasione fu anche data dalla pubblicazione nel 1929 di Che cos’è la metafisica? di Heidegger, che appare a Carnap un esempio tipico di uso metafisico di una nozione quale «nulla», considerata come un nome, mentre il suo uso logicamente legittimo è solo nella formulazione di proposizioni esistenziali negative. L’antimetafisica non è una novità nella storia della filosofia, ma Carnap mostra come sia possibile condurre ora un nuovo tipo di critica nei confronti della metafisica, mediante l’analisi logica del suo linguaggio: grazie a questo nuovo metodo è possibile mostrare, secondo Carnap, che le proposizioni della metafisica non possono essere dette né vere né false, ma più propriamente prive di senso.

L’analisi logica e la metafisica Dagli scettici greci fino agli empiristi del secolo diciannovesimo, molti sono stati gli avversari della metafisica. Il genere di perplessità volta per volta fatto valere è stato molto vario. Alcuni dichiaravano che l’insegnamento della metafisica era falso, in quanto in contraddizione con la conoscenza empirica. Altri lo consideravano solamente come incerto, in quanto poneva questioni trascendenti i limiti della conoscenza umana. Molti antimetafisici spiegavano che era sterile occuparsi di problemi metafisici; sia che si potessero risolvere, sia che fossero insolubili, in ogni caso sarebbe stato inutile preoccuparsi di essi; meglio dedicarsi invece al còmpito pratico che ogni giorno impone all’uomo attivo! Con lo sviluppo della logica moderna è diventato possibile dare una nuova e più acuta risposta alla questione circa la validità e la legittimità della metafisica. Le indagini della «logica ap1. Qui è la novità dell’analisi logica del

linguaggio della metafisica: essa permette di mostrare non tanto che la metafisica è falsa o incerta o sterile, in quanto affronta questioni che vanno al di là della portata delle capacità umane o in quanto i suoi risultati contrastano

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plicata», o «gnoseologia», le quali si pongono il còmpito di chiarire mediante analisi logica il valore conoscitivo delle proposizioni scientifiche, e quindi il significato dei termini comparenti nelle proposizioni stesse (i «concetti»), conducono a un risultato positivo e a uno negativo. Il risultato positivo viene ottenuto lavorando nel campo della scienza empirica; i concetti dei diversi rami della scienza sono elucidati uno per uno; il loro nesso logico-formale e gnoseologico è messo in evidenza. Nel campo della metafisica (con inclusione di ogni filosofia dei valori e teoria normativa), l’analisi logica conduce al risultato negativo, per cui le presunte proposizioni di questo àmbito si dimostrano del tutto prive di senso1. Si consegue così un radicale superamento della metafisica, quale non era ancora possibile partendo dai precedenti punti di vista antimetafisici. [...] In senso stretto, è priva di senso una successione

con i dati dell’esperienza, ma che il linguaggio proprio di essa è privo di senso, ossia che le sue proposizioni non sono vere e proprie proposizioni. È chiaro che Carnap assegna lo stato di proposizioni solo a quelle suscettibili di essere vere o false: non essendo tali, le propo-

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sizioni della metafisica, a differenza di quelle della scienza, non hanno alcun valore conoscitivo. Tra esse Carnap include anche tutte quelle che riguardano valori e norme, di pertinenza dell’etica o dell’estetica, le quali sono anch’esse prive di valore conoscitivo.

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di parole che, all’interno di un determinato e già noto linguaggio, non formi alcuna proposizione2. Può succedere che una tale successione di parole sembri di primo acchito una proposizione; in questo caso la chiamiamo una pseudoproposizione. Ora, la nostra tesi è che le presunte proposizioni della metafisica si rivelano, all’analisi logica, come pseudoproposizioni. Un linguaggio consiste di un vocabolario e di una sintassi, cioè di un insieme di parole aventi un significato e di regole per la formazione di proposizioni; queste regole indicano come si possano formare delle proposizioni: o vi compare una parola che erroneamente si crede abbia un significato, o tutte le parole ivi presenti hanno, sì, un significato, ma sono combinate in un modo così contrario alla sintassi, che non ne risulta senso alcuno. Sulla base di esempi, vedremo come nella metafisica compaiono pseudoproposizioni delle due specie. Dopo ciò, dovremo quindi considerare quali ragioni sussistano a favore della nostra affermazione, secondo cui tutta la metafisica consiste di tali pseudoproposizioni. [...]

Il vocabolario della metafisica Prendiamo come esempio il termine metafisico «principio» (nel senso di principio ontologico, non di principio gnoseologico o assioma)3. Varie risposte metafisiche sono state date al quesito circa il (supremo) «principio del mondo» (o «delle cose», «dell’essere», «dell’ente»): per 2. Proposizioni in senso proprio, come

aveva già mostrato il Tractatus di Wittgenstein, sono per Carnap o le proposizioni empiriche, le quali asseriscono qualcosa che può essere accertato vero o falso mediante un confronto con l’esperienza, o le tautologie, che sono sempre necessariamente vere, e le contraddizioni, sempre necessariamente false. Poiché solo di queste si può dire che sono vere o false, solo queste hanno significato. Come aveva detto Wittgenstein, il significato di una proposizione consiste nelle sue condizioni di verità, sicché una proposizione empirica ha la proprietà di essere verificabile, mentre tautologie e contraddizioni, in virtù della loro forma, risultano immediatamente vere o false. Carnap

esempio, l’acqua, il numero, la forma, il movimento, la vita, lo spirito, l’idea, l’inconscio, l’atto, il bene, e via discorrendo. Per trovare il significato che la parola «principio» ha in tale quesito metafisico, noi dobbiamo chiedere ai metafisici in quali condizioni una proposizione della forma «x è il principio di y» sarebbe vera, e in quali condizioni falsa; in altri termini, chiediamo quale sia il criterio di applicazione o la definizione della parola «principio». Il metafisico risponde pressapoco così: «x è il principio di y» vuol dire «y ha origine da x», «l’essere di y si fonda sull’essere di x», «y sussiste per mezzo di x» o simili. Queste frasi sono però equivoche e indeterminate. Spesso, hanno un chiaro significato; noi diciamo, per esempio, di una cosa o di un evento y che esso «ha origine» da x, se osserviamo che, a cose o a eventi della specie x, seguono sempre, o di frequente, cose o eventi della specie y (rapporto causale nel senso di una successione conforme a legge). Ma il metafisico ci dice di non voler intendere un rapporto empiricamente constatabile; ché, altrimenti, le sue tesi metafisiche diventerebbero semplici proposizioni empiriche della stessa specie di quelle della fisica. La parola «aver origine» non deve, pertanto, avere qui il significato di una relazione di successione temporale e causale, come ha comunemente. Ma non vien stabilito alcun criterio per nessun altro significato. Di conseguenza, il presunto significato «metafisico», che la parola dovrebbe avere qui, a diffe-

procede quindi a illustrare da che cosa dipende il fatto che le pseudo-proposizioni della metafisica sono prive di significato. Egli indica due fonti di ciò: nel vocabolario, ossia nell’attribuzione erronea di un significato a qualche parola, o nella sintassi, ossia nel modo erroneo di collegare parole tra loro. 3. Principio in senso logico o gnoseologico è una proposizione primitiva, non deducibile da altre proposizioni e dalla quale altre sono deducibili. Carnap prende in considerazione la parola «principio» non in questo senso, ma nel senso ontologico, ossia come principio delle cose che sono, ciò da cui le altre cose o il mondo traggono il loro essere. Egli accenna a una serie di tentativi elaborati nel corso della storia

della filosofia per identificare in che cosa consista questo principio. Il problema che Carnap pone è se abbia senso porsi la domanda sull’esistenza di un tale principio, ossia se la parola principio usata in tal modo abbia ancora significato. Come si è visto, per Carnap, una proposizione ha significato se è possibile determinare le sue condizioni di verità, ossia se descrive qualcosa di empiricamente constatabile. Ma è proprio questa condizione a essere assente da una proposizione del tipo «x è principio di y», se si assume il termine principio in senso metafisico, non nel suo significato originario e legittimo di inizio temporale.

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renza del comune significato empirico, non esiste affatto. Se consideriamo il significato originario della parola principium (e della corrispondente parola greca archè), notiamo il medesimo processo di trasformazione. L’originario significato di «inizio» viene espressamente sottratto alla parola; essa non è più destinata a significare ciò che è primo in ordine di tempo, ma ciò che è primo in un altro senso, specificamente metafisico. I criteri per questo «punto di vista metafisico» non vengono, tuttavia, addotti. In entrambi i casi, la parola è stata privata dal suo significato originario, senza riceverne in cambio uno nuovo; rimane il residuo di una parola come un guscio vuoto. [...]

La sintassi del linguaggio metafisico Fin qui abbiamo considerato quelle proposizioni, in cui compare una parola priva di significato. C’è ora anche un’altra specie di pseudoproposizioni. Esse consistono di parole con significato, ma sono composte da queste parole in un modo tale, che non ne risulta senso alcuno. La sintassi di una lingua dichiara quali combinazioni di parole sono lecite e quali no. La sintassi grammaticale delle lingue naturali non è, tuttavia, sempre in grado di assolvere il còmpito di escludere le combinazioni di parole senza senso. Prendiamo, come esempio, le due seguenti successioni di parole: 1. «Cesare è e»; 2. «Cesare è un numero primo». La successione di parole 1 è formata contro le regole della sintassi; la sintassi esige che nella terza posizione vi sia, non già una congiunzione, bensì un predicato, ossia un sostantivo (con articolo) o un aggettivo. Formata secon4. I due esempi, fatti da Carnap, mo-

strano due modi in cui una successione di parole va contro le regole della sintassi, ossia delle combinazioni tra parole, lecite in una lingua e tali da dar luogo a proposizioni fornite di senso. Nella 1 ciò risulta immediatamente evidente, in quanto «e» è una congiunzione e, quindi, comporta che qualcosa segua a essa, mentre la 2 sembra rispettare le regole grammaticali, trattandosi di una successione regolare di soggetto, co-

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do sintassi è, per esempio, la successione di parole «Cesare è un condottiero»; la quale è una successione di parole sensata, cioè realmente una proposizione. Ma anche la successione di parole 2 è parimenti formata secondo la sintassi, poiché ha la stessa forma grammaticale della proposizione or ora citata. Tuttavia, la 2 è una successione di parole priva di senso4. «Numero primo» è una proprietà di numeri; è un attributo che non può esser né affermato, né negato relativamente a delle persone. Poiché la 2 sembra una proposizione, ma non lo è, e quindi non vuole dire nulla, non esprimendo né un giudizio vero, né uno falso, possiamo chiamare anche questa successione di parole una «pseudoproposizione». Per il fatto che la sintassi grammaticale viene rispettata, si può ricevere di primo acchito l’impressione erronea di aver a che fare con una proposizione, sia pure falsa. Ma «a è un numero primo» è una proposizione falsa se, e solo se, a è divisibile per un numero naturale che non sia né a né 1; ed è ovvio che qui, in luogo di «a», non si può porre «Cesare». Questo esempio è stato scelto in modo che la sua mancanza di senso fosse facilmente rilevabile; ma di molte cosiddette proposizioni metafisiche non è così facile accorgersi che sono pseudoproposizioni. Il fatto che nella lingua usuale sia possibile formare una successione di parole senza senso, indica che la sintassi grammaticale, considerata da un punto di vista logico, è insufficiente. Se la sintassi grammaticale corrispondesse perfettamente alla sintassi logica, non potrebbe dar adito a pseudoproposizione alcuna5. [...] Forse, la maggior parte degli errori logici commessi nelle pseudoproposizioni derivano dai

pula e predicato. In quest’ultimo caso l’assenza di significato deriva dal fatto di assegnare un predicato (numero primo) a un soggetto (Cesare), con il quale non ha alcun rapporto sensato, in quanto riguarda tipi diversi di oggetti. 5. È chiaro che Carnap, contrariamente a quanto avrebbe pensato l’ultimo Wittgenstein, non considera il linguaggio comune in ordine così com’è, ossia non bisognoso di correzioni, sicché diventa necessario, ai suoi occhi, costrui-

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re una sintassi logica, esente dalle imprecisioni e ambiguità proprie di tale linguaggio. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile evitare che si formino pseudo-proposizioni, ossia proposizioni che sembrano tali, ma senza esserlo: è questo il terreno di coltura della metafisica. Tra i risultati ottenibili con l’elaborazione di questa sintassi, Carnap colloca la possibilità di cogliere immediatamente, come nell’esempio 1, senza doversi riferire al significato delle

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difetti logici che ineriscono all’uso della parola «essere» nella nostra lingua (e delle corrispondenti parole nelle altre lingue, per lo meno nella maggior parte di quelle europee). Il primo errore sta nell’ambiguità della parola «essere», la quale, da un lato, viene adoperata come copula davanti a un predicato («io sono»). Questo errore è poi aggravato dal fatto che spesso i metafisici non hanno coscienza di tale ambiguità. Il secondo errore sta nella forma del verbo «essere» inteso nel suo secondo significato, quello dell’esistenza. La forma verbale suggerisce illusoriamente l’idea di un predicato, laddove non ne sussiste alcuno. Che l’esistenza non sia un attributo, lo si sapeva già da un pezzo (cfr. la confutazione kantiana della dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio)6. Ma solo la logica moderna è, a questo proposito, completamente conseguente: essa introduce il segno esistenziale in una forma sintattica tale da non poter esser riferito come predicato a un segno individuale, bensì solamente a un predicato. La maggior parte dei metafisici, fin dall’antichità, si è lasciata trarre in inganno dalla forma verbale, cioè predicativa, della parola «essere», così da formulare pseudoproposizioni come «io sono» o «Dio è». Un esempio di questo errore lo troviamo nel cogito, ergo sum di Cartesio. Dalle perplessità di carattere contenutistico che sono state fatte valere contro la premessa – se, cioè, la proposizione «io penso» sia un’adeguata espressione dello stato di cose descritto, o se non contenga piuttosto un’ipostatizzazione – vogliamo del tutto prescindere, e considerare le due proposizioni da un punto di vista esclusivamente logico-formale. Qui, noi notiamo due fondamentali errori logici. Il primo sta nella conclusione «io sono». In questo caso, il verbo «essere» è senza singole parole, che si tratta di una pseudo-proposizione. A questo progetto Carnap avrebbe tentato di rispondere con la Sintassi logica del linguaggio. 6. L’errore di considerare l’esistenza un predicato è generato dall’ambiguità del verbo «essere», che è usato sia come copula, sia come designante l’esistenza. Poiché nel primo caso esso porta all’attribuzione di un predicato a un

dubbio inteso nel senso dell’esistenza; poiché una copula non può essere adoperata senza predicato, e l’«io penso» di Cartesio è sempre stato interpretato in questo senso. Ma allora, questa proposizione contraddice la summenzionata regola logica, secondo cui l’esistenza può essere asserita solo in connessione con un predicato, e non in connessione con un nome (soggetto, nome proprio). Una proposizione esistenziale non ha la forma «a esiste» (come nel caso di «io sono», cioè «io esisto»), bensì la forma «esiste qualcosa di questa o quella sorta»7. Il secondo errore sta nel passaggio da «io penso» a «io esisto». Se dalla proposizione «P(a)» («ad a inerisce la proprietà P») si vuol dedurre una proposizione esistenziale, allora quest’ultima può asserire l’esistenza solo in rapporto al predicato P, e non in rapporto al soggetto a della premessa. Da «io sono un europeo» non consegue «io esisto», bensì «esiste un europeo». Da «io penso» non consegue «io sono», bensì «esiste qualcosa che pensa». GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono le critiche degli avversari della metafisica? 2. Perché le proposizioni della metafisica sono prive di senso? 3. Da che cosa è composto un linguaggio? 4. Quali sono i due modi in cui è possibile ottenere una pseudoproposizione? 5. Spiega l’affermazione di Carnap in base alla quale «la sintassi grammaticale, considerata da un punto di vista logico, è insufficiente». 6. Quali sono i difetti logici che ineriscono all’uso della parola «essere»? 7. Quali sono, secondo Carnap, gli errori logici della celebre proposizione cartesiana «cogito, ergo sum»?

soggetto, si inferisce, erroneamente secondo Carnap, che anche nel secondo caso esso attribuisca un predicato a un soggetto e che tale predicato sia l’esistenza. Ma l’esistenza non è una proprietà come caldo o rosso: essa non è qualcosa che può essere predicato come proprietà di un’altra cosa. Proprio questo pretende invece di fare la prova ontologica, ossia di attribuire a

Dio il predicato dell’esistenza. L’uso logicamente corretto della nozione di esistenza consiste, invece, secondo Carnap, nel connetterla non a un nome, ma soltanto a un predicato. 7. Questa è la formula che nella logica formale moderna è denominata «quantificatore esistenziale».

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t49 Popper / La falsificabilità e il cammino della scienza Popper

Logica della scoperta scientifica

parte I, cap. I, § 6; parte II, cap. X, § 85

La Logica della scoperta scientifica, uscita nel 1934 nella stessa collana in cui è comparsa la Sintassi logica di Carnap [cfr. 17.5], è la prima e insieme la più importante opera di Popper. Nella prefazione alla traduzione italiana, comparsa nel 1970, Popper presenta questo libro come un tentativo di rispondere ad alcune domande essenziali: posso conoscere? posso conoscere con certezza? che cosa posso conoscere? A esse egli risponde non descrivendo gli stati mentali propri del conoscere o del credere, ma investigando le proprietà delle teorie scientifiche, prodotte dall’attività intellettuale, come sistemi di asserzioni da sottoporre al controllo. Il problema che allora nasce è quello d’individuare le relazioni logiche tra asserzioni singolari e teorie costituite da asserzioni universali. Tali relazioni vengono da Popper caratterizzate in termini di confutabilità o falsificabilità degli enunciati universali mediante asserzioni singolari e ciò gli consente di dissolvere il tradizionale problema dell’induzione. Qui si riporta il paragrafo in cui Popper discute questi problemi e il paragrafo conclusivo in cui egli delinea la sua concezione del progredire della scienza.

La falsificabilità come criterio di demarcazione Il criterio di demarcazione inerente alla logica induttiva1 – cioè il dogma positivistico del significato – è equivalente alla richiesta che tutte le asserzioni della scienza empirica (ovvero tutte le asserzioni «significanti») debbano essere passabili di una decisione conclusiva riguardo la loro verità e falsità; diremo che devono essere «decidibili in modo conclusivo». Ciò significa che la loro forma dev’essere tale che sia il verificarle sia il falsificarle debbano essere logicamente possibili. Così Schlick dice: «...un’asserzione autentica deve essere passibile di verificazione conclusiva»; e Waismann afferma ancor più chiaramente: «Se non è in alcun modo possibile determinare se un’asserzione è vera, allora l’asserzione non ha alcun significato. Infatti il signifi1. Per logica induttiva Popper intende l’analisi dei metodi induttivi, che molti considerano alla base delle scienze empiriche. Tali metodi consisterebbero in inferenze che procedono da asserzioni singolari o particolari, quali sono i resoconti di osservazioni o di esperimenti, ad asserzioni universali, quali sono le ipotesi o teorie. Secondo i sostenitori di tale logica – tra i quali rientrano molti appartenenti all’empirismo logico – il metodo induttivo consentirebbe di distinguere tra proposizioni significanti, ossia empiricamente verificabili, e proposizioni prive di senso e, quindi, di stabilire una netta barriera di separa-

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cato di un’asserzione è il metodo della sua verificazione»2. Ora, secondo me, non esiste nulla di simile all’induzione. È pertanto logicamente inammissibile l’inferenza da asserzioni singolari «verificate dall’esperienza» (qualunque cosa ciò possa significare) a teorie. Dunque le teorie non sono mai verificabili empiricamente3. Se vogliamo evitare l’errore positivistico, consistente nell’eliminare per mezzo del nostro criterio di demarcazione i sistemi di teorie delle scienze della natura, dobbiamo scegliere un criterio che ci consenta di ammettere, nel dominio della scienza empirica, anche asserzioni che non possono essere verificate. Ma io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste consi-

zione, una demarcazione, tra le scienze e le speculazioni metafisiche [cfr. 17.3]. Secondo Popper, invece, questo criterio di demarcazione non è adeguato ed è da respingere, come è da respingere la logica induttiva connessa a esso e l’immagine della scienza che essa presuppone. 2. Citazioni da due articoli di Schlick e di Waismann, appartenenti entrambi al Circolo di Vienna, comparsi rispettivamente nel 1931 e nel 1930. 3. Da un punto di vista logico, come già aveva mostrato Hume, non è giustificato, secondo Popper, inferire asserzioni universali da asserzioni singolari,

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per quanto numerose siano queste ultime, perché qualsiasi conclusione ricavata per questa via lascia sempre aperta la strada alla possibilità che essa risulti falsa: «per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato – dice Popper –, ciò non giustifica la nostra conclusione che tutti i cigni sono bianchi». Ciò significa che non è mai possibile una verifica empirica completa di un’asserzione universale e questo vale anche per le teorie o ipotesi scientifiche, che sono costituite da asserzioni universali.

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derazioni suggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema4. In altre parole: da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di esser scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza. (Così l’asserzione «Domani qui pioverà o non pioverà» non sarà considerata un’asserzione empirica, semplicemente perché non può essere confutata, mentre l’asserzione «Qui domani pioverà» sarà considerata empirica). [...] La mia proposta si basa su un’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venir contraddette da asserzioni singolari. Di conseguenza è possibile, per mezzo di inferenze puramente deduttive (con l’aiuto del modus tollens5 della logica classica), concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali. Un tale ragionamento, che conclude alla falsità di asserzioni universali, è il solo tipo di inferenza strettamente deduttiva che proceda, per così dire, nella «direzione induttiva»; cioè da asserzioni singolari ad asserzioni universali. [...] Secondo la mia proposta, ciò che caratterizza il metodo empirico è la maniera in cui esso espone alla falsificazione, in ogni modo concepibile, il sistema che si deve controllare. Il suo scopo non è quello di salvare la vita a sistemi insosteni4. Popper richiamerà l’attenzione sul

fatto che ciò che egli qui propone è la falsificabilità come criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e proposizioni non scientifiche, non come criterio di significato. La falsificabilità, infatti, separa due tipi o classi di asserzioni significanti, ossia quelle che sono falsificabili e quelle che non lo sono. Egli protesta, quindi, contro quello che egli considera un mito, ossia l’idea che egli avrebbe sostituito la falsificabilità alla verificabilità come criterio del significato. Con ciò egli intende ribadire la propria distanza, sin

bili, ma, al contrario, quello di scegliere il sistema che al paragone si rivela più adatto, dopo averli esposti tutti alla più feroce lotta per la sopravvivenza.

Il cammino della scienza La scienza non è un sistema di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (epistème): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità. E tuttavia la scienza ha qualcosa di più che un semplice valore di sopravvivenza biologica. Non è solo uno strumento utile. Sebbene non possa mai raggiungere né la verità né la probabilità, lo sforzo per ottenere la conoscenza, e la ricerca della verità, sono ancora i motivi più forti della scoperta scientifica. Non sappiamo, possiamo solo tirare a indovinare. E i nostri tentativi di indovinare sono guidati dalla fede non-scientifica, metafisica (se pur biologicamente spiegabile) nelle leggi, nelle regolarità che possiamo svelare, scoprire. Come Bacone, potremmo descrivere la nostra scien-za contemporanea – «il metodo di ragionamento che oggi gli uomini applicano ordinariamente alla natura» – come consistente di «anticipazioni, affrettate e premature» e di «pregiudizi»6. Ma queste congetture meravigliosamente immaginative e ardite, o anticipazioni, sono controllate accuratamente e rigorosamente da controlli sistematici. Una volta avanzata, nessuna delle nostre «anticipazioni» viene sostenuta

dall’origine, dalle tesi del Circolo di Vienna. 5. Il modus tollens è una forma di argomentazione, corrispondente al secondo anapodittico degli stoici [  approfondimento, vol. I, p. 256], che ha la forma: «se p, allora q; ma non-q; dunque non-p». Il modus tollens permette, secondo Popper, di costruire inferenze deduttive, che però procedono, come l’induzione, dal particolare all’universale. Nel caso considerato da Popper, ciò significa che, se è vera nonq (per esempio «questo cigno non è bianco», asserzione singolare), allora è

falsa p («tutti i cigni sono bianchi», asserzione universale). 6. Citazione dal Novum Organum I, 26. Popper sa che il termine «anticipazione» è usato negativamente da Bacone nel significato di «pregiudizio», ma egli lo assume positivamente come sinonimo di ipotesi o congettura. Secondo Popper, Bacone era vittima del mito dell’induzione e, quindi, di una concezione del metodo scientifico, secondo cui la via corretta consisterebbe nel procedere dall’osservazione di casi particolari e dalla raccolta di osservazioni alla formulazione di teorie generali.

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dogmaticamente. Il nostro metodo di ricerca non è quello che consiste nel difenderle, per provare quanta ragione avessimo. Al contrario, tentiamo di rovesciarle. Usando tutte le armi della nostra armeria logica, matematica e tecnica, tentiamo di provare che le nostre anticipazioni erano false, allo scopo di avanzare, in loro luogo, nuove anticipazioni ingiustificate e ingiustificabili, nuovi «pregiudizi affrettati e prematuri», per usare l’espressione denigratoria con cui li chiama Bacone. [...] Il progresso della scienza non è dovuto al fatto che, coll’andar del tempo, si accumulano esperienze percettive in numero sempre maggiore. E non è dovuto al fatto che facciamo un uso sempre migliore dei nostri sensi. Per quanto industriosamente le raccogliamo e le scegliamo, da esperienze sensibili non interpretate non potremo mai distillare la scienza. I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate: sono il solo organo, i soli strumenti di cui disponiamo. E per guadagnare il nostro premio dobbiamo azzardarci ad usarli. Quelli tra noi che non espongono volentieri le loro idee al rischio della confutazione non prendono parte al gioco della scienza. Anche il controllo sperimentale delle nostre idee, sobrio e accurato, è a sua volta ispirato da idee; l’esperimento è azione pianificata, ciascun passo della quale è guidato dalla teoria. Non per caso andiamo a inciampare nelle nostre esperienze; e neppure le lasciamo scorrere su di noi, come una corrente. Invece, dobbiamo essere attivi: dobbiamo «fare» le nostre esperienze. Siamo sempre noi a formulare le questioni da porre alla natura: siamo noi a tentare sempre di nuovo di porre queste questioni, in modo da ottenere un «sì» o un «no» ben chiari (perché la natura non ci dà una risposta, se non facciamo pressione per ottenerla). E alla fine, siamo ancora noi a dare la risposta: siamo noi che, dopo esami severi, decidiamo la risposta alla domanda che abbiamo posto alla natura, dopo lunghi 7. Il dogmatismo consiste nella convinzione di possedere una conoscenza certa e assoluta: esso genera l’opposizione verso tutto ciò che viene sospet-

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e seri tentativi di ottenere dalla natura un «no» non equivoco. [...] Con l’idolo della certezza (compreso quello dei gradi di certezza imperfetta, o probabilità) crolla una delle linee di difesa dell’oscurantismo, che sbarrano la strada al progresso scientifico7. Perché la venerazione che tributiamo a quest’idolo è d’impedimento non solo all’arditezza delle nostre questioni ma anche al rigore dei nostri controlli. La concezione sbagliata della scienza si tradisce proprio per il suo smodato desiderio di essere quella giusta. Perché non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità. Il nostro deve dunque essere un atteggiamento di rassegnazione? Dobbiamo dire che la scienza può adempiere solo al suo compito biologico; che, nel migliore dei casi, può solo provare il proprio valore nelle applicazioni pratiche che possono corroborarla? Non credo. La scienza non persegue mai lo scopo illusorio di rendere le sue risposte definitive, e neppure probabili. Piuttosto il suo progresso tende sempre verso lo scopo infinito, e tuttavia raggiungibile, di scoprire problemi sempre nuovi, più generali e più profondi, e di sottoporre le sue risposte, sempre date in via di tentativo, a controlli sempre rinnovati e sempre più rigorosi. GUIDA ALLA LETTURA 1. Ricostruisci la critica di Popper al principio di verificazione di Schlick e Waismann. 2. Quand’è, secondo Popper, che un sistema di enunciati può essere detto empirico (o scientifico)? 3. In che cosa consiste l’asimmetria tra verificabilità e falsificabilità? 4. Commenta l’affermazione popperiana secondo cui «la nostra scienza non è conoscenza (epistème)». 5. Qual è il ruolo dei pregiudizi, delle anticipazioni ingiustificate, delle speculazioni infondate nella ricerca scientifica? 6. Qual è, secondo Popper, lo scopo infinito del progresso scientifico?

tato di minare questa certezza e produce, quindi, il blocco di ogni ricerca, ossia la paralisi della scienza. Per questo aspetto Popper si richiama alla tradi-

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zione illuministica della lotta contro il dogmatismo e l’autorità.

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t50 Kuhn / Le rivoluzioni scientifiche Kuhn

La struttura delle rivoluzioni scientifiche

cap. 9

La struttura delle rivoluzioni scientifiche è stato pubblicato nel 1962 nella serie «International Encyclopedia of Unified Science», che aveva cominciato a uscire nel 1938 a Chicago, dopo l’arrivo negli Stati Uniti di Carnap e di altri empiristi logici. Essa ha avuto grande successo e ha suscitato molte discussioni, favorendo l’intreccio tra indagini di storia della scienza e indagini di filosofia della scienza. Qui è riportato un passo, nel quale Kuhn istituisce un’analogia tra rivoluzione politica e rivoluzione scientifica e definisce il rapporto tra nuovo e vecchio nei momenti di rivoluzione come cesura radicale tra due paradigmi, ossia tra due modi radicalmente diversi di guardare il mondo e di concepire la stessa scienza.

Consideriamo qui rivoluzioni scientifiche quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello1. C’è, però, qualcos’altro da dire; di questo, una parte essenziale può essere introdotta formulando una ulteriore domanda. Perché un mutamento di paradigma dovrebbe essere chiamato rivoluzione? Considerando le vaste ed essenziali differenze esistenti tra lo sviluppo scientifico e quello sociale, quale analogia può giustificare l’uso della medesima metafora2 secondo cui avvengono rivoluzioni sia nell’uno che nell’altro campo? Un aspetto dell’analogia dovrebbe già essere evidente. Le rivoluzioni politiche sono introdotte da una sensazione sempre più forte, spesso avvertita solo da un settore della società, che le istituzioni esistenti hanno cessato di costituire una risposta adeguata ai problemi posti da una situazione che esse stesse hanno in parte contribuito a creare. In una maniera più o meno identica, le rivoluzioni scientifiche sono 1. Per paradigma Kuhn intende in generale quelle conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, «forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca». Essi danno origine a determinate tradizioni di ricerca scientifica, dotate di una loro coerenza e descritte dagli storici della scienza mediante etichette come «astronomia tolemaica» o «meccanica newtoniana» e così via. Gli scienziati, che conducono le loro ricerche secondo i paradigmi condivisi dalla comunità scientifica a cui appartengono,

introdotte da una sensazione crescente, anche questa volta avvertita solo da un settore ristretto della comunità scientifica, che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente nella esplorazione di un aspetto della natura verso il quale quello stesso paradigma aveva precedentemente spianato la strada. Sia nello sviluppo sociale che in quello scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare a una crisi3 è un requisito preliminare di ogni rivoluzione. [...] L’analogia, però, ha un secondo e più profondo aspetto da cui dipende il significato del primo. Le rivoluzioni politiche mirano a mutare le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni. Il loro successo richiede perciò l’abbandono parziale di un insieme di istituzioni a favore di altre, e nel frattempo la società cessa completamente di essere governata da istituzioni. All’inizio è soltanto una crisi che indebolisce il ruolo delle istituzioni politiche, allo stesso modo che – come abbiamo visto – indebolisce il ruolo dei paradig-

s’impegnano a osservare le regole e i metodi che caratterizzano il paradigma. 2. Il termine «rivoluzione», originariamente usato nel linguaggio astronomico a proposito del movimento dei corpi celesti, è stato trasferito metaforicamente all’ambito politico per indicare il movimento che porta a un capovolgimento, ossia al passaggio da un determinato assetto a un altro completamente diverso. Di qui il termine è ulteriormente trasferito, per via metaforica, nell’ambito della storia della scienza per indicare rotture altrettanto radicali tra il nuovo e il vecchio.

3. Nel suo significato originario «crisi» indica il momento cruciale nel decorso di una malattia, da cui può scaturire la guarigione o la morte. In generale, è usato per indicare momenti nei quali un determinato assetto (per esempio, delle finanze pubbliche o della società o del sistema dei valori morali) presenta segni d’incrinatura e appare instabile o addirittura non più sostenibile, al punto da richiedere un mutamento radicale, se non si vuole che intervenga il peggio.

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mi. In numero sempre maggiore gli individui si allontanano sempre più dalla vita politica ufficiale e si comportano in modo sempre più indipendente. Quindi, con l’approfondirsi della crisi, parecchi di questi individui si riuniscono intorno a qualche proposta concreta per la ricostruzione della società in una struttura istituzionale. A questo punto la società è divisa in campi o partiti avversi, l’uno impegnato nel tentativo di difendere la vecchia struttura istituzionale, gli altri impegnati nel tentativo di istituirne una nuova. E una volta che tale polarizzazione si è verificata, la lotta puramente politica non serve più. Siccome differiscono circa la matrice istituzionale all’interno della quale va raggiunto e valutato il cambiamento politico, e siccome non riconoscono nessuna struttura che stia al di sopra delle istituzioni, alla quale possano riferirsi per giudicare della differenza rivoluzionaria, i partiti impegnati in un conflitto rivoluzionario devono alla fine far ricorso alle tecniche della persuasione di massa, che spesso includono la forza. Sebbene le rivoluzioni abbiano avuto un ruolo vitale nello sviluppo delle istituzioni politiche, questo ruolo dipende dal fatto che esse sono eventi in parte extrapolitici e extraistituzionali. Il resto del presente saggio vuole dimostrare che lo studio storico del mutamento di paradigmi mette in evidenza che caratteristiche simili sono presenti nello sviluppo delle scienze. Analogamente alla scelta fra istituzioni politiche contrastanti, la scelta tra paradigmi contrastanti dimostra di essere una scelta tra forme incompatibili di vita sociale. Poiché ha questo carattere, la scelta non è, e non può essere determinata esclusivamente dai procedimenti di valutazione propri della scienza normale, poiché questi dipendono in parte da un particolare paradigma, e questo paradigma è ciò che viene messo in discussione. Quando i paradigmi entrano, come necessariamente devono entrare in un dibattito sulla scelta di paradigmi, il loro ruolo è necessariamente circolare. Cia4. Ciò significa che il paradigma da solo, con i suoi metodi, le sue regole di ricerca e le convinzioni che esse generano, non basta ad assicurare la vittoria

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scun gruppo usa il proprio paradigma per argomentare in difesa di quel paradigma4. La circolarità che ne risulta, naturalmente, non rende sbagliate o inefficaci le argomentazioni. Colui che premette un paradigma quando discute per difenderlo, può nondimeno fornire un chiaro esempio di quella che sarà la prassi scientifica per coloro che adotteranno il nuovo modo di vedere la natura. Un tale esempio può essere immensamente persuasivo, e spesso convincente. Tuttavia, quale che sia la sua forza, lo status dell’argomentazione circolare è soltanto quello della persuasione. Esso non può essere reso logicamente o probabilisticamente convincente per coloro che rifiutano di inserirsi nel circolo. Le premesse e i valori comuni ad entrambi i partiti impegnati nel dibattito sui paradigmi non sono sufficientemente estesi per avere questo effetto. Tanto nelle rivoluzioni politiche come nella scelta dei paradigmi, non v’è nessun criterio superiore al consenso della popolazione interessata. [...] Paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’universo e sul comportamento di tali oggetti. Differiscono per esempio riguardo a questioni come l’esistenza di particelle subatomiche, la materialità della luce e la conservazione del calore e dell’energia. Queste sono differenze sostanziali esistenti tra paradigmi successivi, che non richiedono ulteriori spiegazioni. Ma i paradigmi differiscono anche in qualcos’altro oltre che negli oggetti, giacché essi sono rivolti, non solo alla natura, ma anche alla scienza precedente che li ha prodotti. Essi determinano i metodi, la gamma dei problemi, e i modelli di soluzione accettati da una comunità scientifica matura di un determinato periodo. Ne consegue che l’accoglimento di un nuovo paradigma spesso richiede una nuova definizione di tutta la scienza corrispondente. Alcuni vecchi problemi possono venire trasferiti ad un’altra scienza o addirittura dichiarati «non scientifici». Altri, che precedentemente erano conside-

nei confronti di un paradigma antagonista; affinché ciò avvenga, occorre il contributo di elementi esterni al paradigma stesso e capaci di rafforzarlo,

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fornendogli un’efficacia persuasiva che consenta di coagulare intorno a esso e ai valori di cui si fa portatore un consenso maggiore.

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rati banali o non erano nemmeno considerati problemi, possono, con un nuovo paradigma, diventare veri e propri archetipi di conquiste scientifiche rilevanti. E col mutare dei problemi, spesso muta anche il criterio che distingue una soluzione realmente scientifica da una mera speculazione metafisica, da un gioco di parole, o da un indovinello matematico. La tradizione della scienza normale5 che emerge dopo una rivoluzione scientifica è non soltanto incompatibile, ma spesso di fatto incommensurabile con ciò che l’ha preceduta.

5. Per «scienza normale» Kuhn intende «una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un cer-

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo la definizione di «paradigma» e riformulala con parole tue. 2. Quali sono gli aspetti di una rivoluzione politica o sociale che sono comuni a una rivoluzione scientifica? Evidenzia sul testo la risposta a questa domanda. 3. Su quali basi, secondo Kuhn, si aderisce a un determinato paradigma? 4. Qual è il ruolo della scienza normale all’interno di un determinato paradigma? 5. Spiega con parole tue la nozione di incommensurabilità tra paradigmi.

to periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore». Si tratta cioè di una prassi di ricerca incentrata intorno a un paradigma. In genere i punti fissi,

intorno ai quali ruota il lavoro della scienza normale, sono elencati nei manuali scientifici, che espongono il corpo delle teorie riconosciute come valide.

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esercizi/17 CHE COSA SO?

CHE COSA HO CAPITO?

Guida allo studio del manuale

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)

1. Evidenzia l’obiettivo culturale e teorico che il Circolo di Vienna si propone, il metodo che lo rende possibile, le conseguenze di esso sulla metafisica. 2. Evidenzia in che modo la teoria della relatività ristretta formulata da Einstein nel 1905 mette in discussione gli assunti fondamentali della fisica newtoniana. 3. Evidenzia perché, per i pensatori neopositivisti, le proposizioni metafisiche sono prive di senso. 4. Evidenzia qual è il compito della filosofia per Schlick. 5. Evidenzia le differenti nozioni di verità presentate nel capitolo. 6. Evidenzia in che cosa consiste il fisicalismo di Neurath. 7. Evidenzia qual è, secondo Carnap, la base su cui si erge l’intero edificio della scienza. 8. Evidenzia la soluzione prospettata da Popper al problema del rapporto tra mente e corpo. 9. Evidenzia il nesso che, secondo Popper, intercorre tra storicismo, essenzialismo e autoritarismo. 10. Evidenzia alcuni esempi di rivoluzione paradigmatica offerti da Kuhn. Dizionario filosofico 11. Definisci i seguenti concetti: epistemologia • principio di indeterminazione (Heisenberg) • ipotesi (Duhem) • Erlebnisse • criterio di verificabilità (Schlick) • sintassi logica del linguaggio (Carnap) • falsificatori potenziali (Popper) • mondo 3 (Popper) • puzzles (Kuhn) • euristica negativa e positiva (Lakatos) • anarchismo metodologico (Feyerabend)

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12. Quali sono i problemi epistemologici che la fisica di Hertz pone? 13. Qual è, secondo Mach, la funzione della scienza nell’ambito dell’evoluzione biologica umana? 14. Cosa intende Mach quando afferma che i concetti e le leggi scientifiche hanno una «funzione economica»? 15. Illustra la tesi fondamentale di Poincaré, denominata «convenzionalismo». 16. Spiega in cosa consiste il metodo della ricerca scientifica elaborato da Duhem. 17. Qual è, secondo Schlick, la differenza tra «verificazione» e «verificabilità»? 18. Spiega come Neurath concepisce la verità di una proposizione. 19. In che modo, secondo Carnap, è possibile superare il «solipsismo metodologico»? 20. Che rapporto c’è, secondo Carnap, fra «protocolli» e «leggi di natura»? 21. In che modo Carnap liberalizza il criterio empirico di significanza stabilito dal Circolo di Vienna? 22. Qual è, secondo Popper, il criterio di demarcazione tra scienza e metafisica? 23. Sintetizza la critica che Popper muove alla logica induttiva come fondamento della conoscenza scientifica. 24. A che cosa fanno riferimento le nozioni di anomalia e di puzzle, utilizzate da Kuhn nella sua riflessione sulla storia della scienza? 25. Che cosa provoca, secondo Lakatos, l’abbandono di un programma di ricerca?

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esercizi/17 Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 26. Perché, secondo Poincaré, i procedimenti matematici non possono essere ridotti a deduzioni formali? 27. Sintetizza il programma teorico del Circolo di Vienna, mettendo in evidenza l’analisi del linguaggio che viene compiuta. 28. Qual è, secondo Schlick, la funzione della filosofia? 29. Perché Neurath afferma che la verità di una proposizione non dipende dal confronto coi fatti? 30. Ricostruisci l’argomentazione con cui Carnap sostiene che le proposizioni della metafisica sono prive di senso. 31. Illustra le ragioni con cui Carnap sostiene che verità logica e necessità sono strettamente collegate. 32. Perché, secondo Popper, possiamo distinguere

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una «conoscenza scientifica» da una «conoscenza metafisica», anche se le conoscenze scientifiche sono solo «ipotesi»? 33. Ricostruisci l’argomentazione con cui Popper sostiene che una conoscenza può dirsi scientifica solo se può essere falsificata. 34. Illustra i caratteri e la concezione della verità propri del fallibilismo popperiano. 35. In che senso, secondo Popper, è possibile parlare di progresso della conoscenza scientifica? 36. Che differenza c’è, secondo Popper, tra società chiuse e società aperte? 37. Esponi i principali punti di dissenso tra l’epistemologia di Kuhn e quella di Popper. 38. Metti a confronto le posizioni di Feyerabend, quelle di Kuhn e di Popper in merito alla competizione fra teorie scientifiche.

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anche per compiere azioni. A suo avviso, tra i vari tipi di enunciati, vi sono quelli performativi, in quanto con essi si esegue un’azione. Tali atti sono accompagnati da un’intenzione, devono sempre essere usati con una certa forza e per avere successo debbono obbedire a condizioni non di verità, ma di felicità. Ad Austin si deve, inoltre, la classificazione di tre tipi di atti linguistici, spesso compresenti in uno stesso enunciato: l’atto locutorio (dire qualcosa), l’atto illocutorio (l’intenzione con cui si parla), l’atto perlocutorio (l’effetto ottenuto parlando). quine contro i due dogmi dell’empirismo

18. la filosofia analitica i contenuti l’analisi del linguaggio

In Inghilterra prende piede a partire dalla metà del secolo la filosofia analitica, così chiamata per la centralità accordata all’analisi del linguaggio, in particolare del linguaggio comune, come via per affrontare i problemi filosofici. ryle e la mente come comportamento

Ryle ritiene che gli errori filosofici siano errori categoriali, derivanti da confusioni fra termini linguistici appartenenti a categorie diverse. Per smascherarli la filosofia deve

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saggiare le capacità logiche dei concetti nei loro rapporti di compatibilità o incompatibilità con altri concetti. In tal modo egli ritiene di poter smascherare l’errore categoriale, che sta alla base del dualismo cartesiano: in base a esso la mente è come uno spettro che risiede nel corpo. In realtà il linguaggio quotidiano mostra che le espressioni riguardanti capacità, attività o eventi mentali non descrivono entità, in particolare entità diverse dal corpo, ma tipi di comportamenti. austin: che cosa facciamo parlando?

Austin mette in luce come il linguaggio sia usato non soltanto per descrivere cose o eventi, ma

18. la filosofia analitica

Negli Stati Uniti Quine critica due capisaldi dell’empirismo logico del Circolo di Vienna. In primo luogo, la distinzione tra proposizioni analitiche – ossia le tautologie, che sono necessariamente vere – e proposizioni sintetiche – ossia proposizioni empiriche che possono essere vere o false. Egli mostra che tale distinzione è impossibile, perché dà luogo a un circolo vizioso. In secondo luogo, la tesi secondo cui ogni enunciato significativo è una costruzione logica a partire da elementi che si riferiscono a esperienze immediate, esprimibili in proposizioni. In realtà, secondo Quine, il confronto con l’esperienza riguarda il linguaggio nel suo complesso, non la singola proposizione. È il cosiddetto olismo, per cui le nostre conoscenze non sono pure somme di proposizioni singole, ma sistemi più o meno organizzati. la simulazione della mente umana

L’invenzione dei calcolatori ha riproposto il problema delle relazioni tra mente e corpo e della cosiddetta intelligenza artificiale. Se fosse possibile costruire un calcolatore, il cui comportamento fosse indistinguibile da quello di un essere umano intelligente, si potrebbe dire che il calcolatore ha una mente? Il problema della simulazione del linguaggio richiede

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che il computer abbia una competenza non solo sintattica – ovvero capace di combinare segni linguistici – ma anche semantica, in modo da poter rispondere a domande, eseguire ordini e così via. searle: la critica dell’intelligenza artificiale

Un’obiezione mossa da Searle alla possibilità di riprodurre il comportamento linguistico umano, e quindi alla tesi dell’identità tra cervello e calcolatore, è che la competenza sintattica di una macchina non basta ad assicurarle la competenza semantica, che è propria della mente umana. Ad attribuire un significato ai segni è infatti il programmatore del computer, non la macchina. In questa prospettiva il calcolatore non appare un modello privilegiato per studiare il funzionamento della mente.

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hare e l’analisi del linguaggio etico

Un settore particolare della filosofia analitica è costituito dall’analisi del linguaggio morale. A tale riguardo, Hare assegna alla cosiddetta meta-etica il compito di studiare le forme del linguaggio morale. A suo avviso, le proposizioni morali implicano un principio di universalizzabilità. In base a esso, una proposizione prescrittiva vale per tutti coloro che si trovano nella situazione prevista dall’imperativo. rawls e la teoria della giustizia

Nell’ambito della riflessione politica, Rawls immagina una situazione originaria in cui nessuno conosce la propria posizione nella società. Ciò comporta che non si sappia come sono distribuite le doti naturali e nemmeno quali siano gli interessi particolari di

ciascuno. In questa condizione di ignoranza, nessuno gode di vantaggi iniziali: ciò permette di individuare in modo razionale e disinteressato i princìpi di giustizia. Essi sono: 1) l’eguaglianza dei diritti e dei doveri fondamentali; 2) il riconoscimento che le disuguaglianze devono produrre effetti compensativi per i più svantaggiati. i problemi discussi dalla bioetica

Particolarmente fiorenti sono oggi le indagini di bioetica, disciplina che cerca di risolvere i dilemmi di natura etica dovuti ai formidabili progressi del sapere medicoscientifico. In particolare, la bioetica cerca di offrire dei criteri razionali di scelta di fronte alle possibilità dell’aborto, dei trapianti di organi, della fecondazione assistita, della clonazione e dell’eutanasia.

gli strumenti in poche… parole atti linguistici / dogmi dell’empirismo / olismo / intelligenza artificiale

esercizi

i testi a. nel manuale t51 Ryle/Lo spettro nella macchina t52 Searle/La camera cinese t53 Engelhardt/Tensione tra princìpi in bioetica

b. on-line Austin/Asserzioni e atti linguistici Quine/I due miti dell’empirismo

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Filosofia analitica e analisi del linguaggio la filosofia britannica e l’interesse per il linguaggio

Le tesi neopositivistiche ebbero una prima diffusione in Inghilterra grazie soprattutto al volume Linguaggio, verità e logica (1936) di Alfred Jules Ayer (1910-1989), professore all’università di Londra e poi, dal 1959 al 1978, in quella di Oxford. Accogliendo la tesi che il criterio del significato delle proposizioni consista nella loro verificabilità, Ayer condanna come privi di significato i discorsi metafisici ed etici e attribuisce alla filosofia il compito dell’analisi del linguaggio, come via per indagare i caratteri dell’esperienza in generale. In tal modo, egli si riallaccia alla tradizione dell’empirismo britannico, ma dandone una formulazione in termini linguistici. Poco prima, nel 1933, è fondata la rivista «Analysis», che tende a privilegiare la dimensione analitica del lavoro filosofico in relazione a temi sempre molto circoscritti – sull’esempio delle indagini di Moore e del primo Russell. Da ciò trae origine la corrente o impostazione filosofica denominata filosofia analitica. Tratto saliente di essa è il fatto che oggetto dell’analisi non sono il pensiero o i dati della percezione e della coscienza, ma il linguaggio.

ryle e gli errori categoriali

Uno degli esponenti più significativi di questo orientamento è stato Gilbert Ryle (1900-1976), professore di Filosofia metafisica a Oxford, dal 1945 al 1968, e – a partire dal 1947 – direttore della più importante rivista filosofica inglese, «Mind», prima diretta da Moore. In uno dei suoi primi articoli, Espressioni sistematicamente fuorvianti (1931), Ryle sostiene che una delle ragioni più consuete delle assurdità a cui può dar luogo il linguaggio filosofico dipende dalla mancata distinzione dei significati delle espressioni in enunciati grammaticalmente equivalenti. Tali errori sono chiamati da Ryle errori categoriali, perché consistono nella confusione fra termini appartenenti a categorie diverse. Così, per esempio, dal fatto che l’enunciato «la puntualità è una virtù» è grammaticalmente parallelo a «Platone è un filosofo», si arriva erroneamente a concludere che tanto «puntualità» quanto «Platone» siano nomi appartenenti alla stessa categoria, ossia designino entrambi entità.

il compito della filosofia e le relazioni logiche tra concetti

Per smascherare gli errori categoriali, la filosofia deve ricorrere ad argomentazioni: a illustrare in che cosa queste consistano Ryle dedica la sua prolusione del 1945, intitolata Argomentazioni filosofiche. Secondo Ryle le argomentazioni filosofiche non sono né induzioni, né dimostrazioni, come quelle matematiche; la forma più frequente che esse assumono è invece quella della riduzione all’assurdo, la quale è paragonata da Ryle alle prove distruttive condotte dagli ingegneri per saggiare la forza e la resistenza dei materiali. Compito della filosofia è saggiare le capacità logiche dei concetti, delineando una sorta di mappa delle relazioni logiche che intercorrono fra essi. Ogni concetto, infatti, è connesso ad altri in relazioni logiche, che possono essere accertate: ciascuno ne implica altri o è implicato da altri, è compatibile o incompatibile con altri e così via. Tali relazioni sfuggono al pensiero ordinario, ma – se non sono colte – possono generare paradossi e assurdità: nel diagnosticare e curare questi paradossi consiste il lavoro filosofico.

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Questa tecnica è applicata da Ryle nella sua opera principale, Il concetto di mente (1949): in essa, egli cerca di mettere in luce l’errore categoriale secondo cui la mente (o anima) sarebbe come uno spettro che risiede nel corpo, equiparato a sua volta a una macchina. Corollario di questa concezione è che le espressioni linguistiche riguardanti facoltà, attività o eventi mentali si riferiscono a un’entità distinguibile dal corpo, non spaziale, obbediente a leggi proprie (spirituali e non meccaniche) e conoscibile soltanto attraverso l’introspezione. Per demolire questo mito, Ryle mette in luce le capacità logiche di queste espressioni, determinando così i limiti entro i quali possono essere applicate correttamente.

l’analisi delle espressioni riguardanti la mente

Da questa analisi emerge che nel linguaggio quotidiano queste espressioni sono usate per descrivere non entità, ma comportamenti. Per esempio, il termine «intelligenza» e le espressioni imparentate con essa non rinviano a un’anima che sarebbe dotata di tale proprietà, ma a un tipo di comportamento. L’intelligenza non consiste nel teorizzare o scoprire la verità – ossia in quello che Ryle chiama conoscere che (in inglese, knowing that) – ma equivale a conoscere come (in inglese, knowing how) portare a termine un’azione. Per scorgere se un’azione è intelligente, occorre però guardare non soltanto il singolo atto, che potrebbe anche essere puramente casuale; si tratta, invece, di individuare se l’agente possiede una disposizione ad agire in tal modo, ossia se fa mosse simili in situazioni simili e se sa dire perché le fa, come un buon giocatore di scacchi.

partire dal linguaggio ordinario

L’intelligenza, nel senso di «sapere come», consiste dunque in una disposizione, e la disposizione non è un’entità, tanto meno un’entità interiore puramente privata: dire che si possiede una disposizione significa, invece, dire che il comportamento segue regolarmente un modello e che ciò può essere pubblicamente accertato. Estendendo questa analisi a una vasta mappa di concetti mentali, Ryle mostra che è possibile interpretare tutti i riferimenti linguistici a capacità o attività mentali come descrizioni di comportamenti, senza dover ammettere l’esistenza di una presunta entità spirituale [t51].

la mente non è un’entità, ma un comportamento

2. Austin John Langshaw Austin (1911-1960), anch’egli professore a Oxford dal 1952, ha pubblicato in vita solo pochi articoli, raccolti in un volume postumo sotto il titolo Saggi filosofici (1961). Le sue lezioni tenute a Harvard nel 1955 sono state edite con il titolo Come fare cose con le parole (1962). Anche Austin si propone l’analisi del linguaggio ordinario, ma non in primo luogo per dissolvere errori o problemi filosofici fittizi, alla maniera di Wittgenstein o di Ryle, bensì per descrivere i modi in cui – nell’atto concreto del parlare – parole e frasi sono prodotte. Austin non pretende che il linguaggio ordinario sia la corte di appello finale, ma ritiene verosimile che le distinzioni incorporatesi in esso col tempo, in relazione alle faccende della vita, siano più attendibili di quelle che può fare un filosofo «in poltrona». 18. la filosofia analitica

da questioni filosofiche a questioni scientifiche

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A suo avviso, una questione è filosofica, finché è in stato confuso; una volta chiarita, essa non fa più parte della filosofia, ma viene trasformata in una questione scientifica. i differenti usi del linguaggio

L’errore di cui è vittima l’analisi del linguaggio, com’è abitualmente praticata, è la fallacia descrittiva, ossia la convinzione che il linguaggio sia usato solo o prevalentemente per descrivere. In realtà, esistono molti altri usi del linguaggio e espressioni che paiono descrittive non sono soltanto tali. Prendiamo, ad esempio, il verbo «sapere»: quando dico «io so che S è P», io sto non tanto descrivendo un mio speciale stato mentale, quanto esibendo ad altri la mia autorità su ciò che dico. Allo stesso modo, quando dico «prometto», non compio una descrizione, ma assicuro altri che farò una certa cosa. Il compito dell’analisi del linguaggio deve allora consistere, secondo Austin, nello studiare che cosa «facciamo parlando» .

constatativo e performativo

Su questa base, egli elabora la cosiddetta teoria degli atti linguistici . In una prima fase, egli distingue tra enunciati constatativi (o descrittivi), i quali godono della proprietà di essere veri o falsi, ed enunciati performativi, i quali eseguono una vera e propria azione. Per esempio, l’enunciato «il re dà il nome Rex a questa nave» è suscettibile di essere vero o falso, mentre l’enunciato «io dò il nome Rex a questa nave» è l’esecuzione (in inglese, performance) di un’azione, che di per sé non è né vera né falsa, ma è felice o infelice e, precisamente, è infelice, se non ho alcun titolo per dare il nome a una nave oppure lo faccio, ma non nella circostanza opportuna.

la classificazione degli atti linguistici

Successivamente, Austin attenua questa dicotomia, distinguendo tipi di atti linguistici che possono essere compiuti anche pronunciando uno stesso enunciato. 1) Un atto locutorio equivale a dire qualcosa, ossia a produrre una frase che ha un certo senso e un certo riferimento ed è usata per trasmettere un significato, come quando si dice che Tizio sta arrivando. 2) Un atto illocutorio, invece, consiste in ciò che si fa dicendo qualcosa e, quindi, nell’intenzione che accompagna ciò che si dice, come quando si dice a qualcuno che Tizio sta arrivando, con l’intenzione di avvertirlo. Questi atti sono sempre usati con una certa forza e – per avere successo – debbono obbedire a condizioni non di verità, ma di felicità: per esempio, occorre che chi li pronuncia segua la procedura richiesta, sia sincero e così via; se queste condizioni non sono rispettate, l’atto fa cilecca o è un abuso. 3) Un atto perlocutorio è quello che si compie mediante il dire qualcosa, ossia quello che produce un determinato effetto nell’ascoltatore, sia tale effetto perseguito intenzionalmente o no.

3. Quine la vita e le opere

L’emigrazione negli Stati Uniti di molti appartenenti al Circolo di Vienna ha determinato un incontro fra le tesi neopositivistiche e la tradizione del pragmatismo, risvegliando anche negli Stati Uniti l’interesse per il linguaggio, inteso sia come oggetto d’indagine sia come strumento per condurre

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Austin Asserzioni e atti linguistici

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analisi. Willard van Orman Quine è nato nel 1908 ad Akron, nell’Ohio; ha studiato logica e filosofia a Harvard. Nel 1933-34 è entrato in contatto, in Europa, con molti positivisti logici, in particolare con Carnap, e ha poi insegnato nell’università di Harvard. Egli è autore di numerose opere, tra le quali si possono ricordare Metodi della logica (1950), la raccolta di saggi Da un punto di vista logico (1953), Parola e oggetto (1960), I modi del paradosso e altri saggi (1966), Relatività ontologica e altri saggi (1969), Filosofia della logica (1970), Le radici del riferimento (1974). Quine è morto nel 2000. L’articolo di Quine che più ha avuto risonanza è I due dogmi dell’empirismo (1951), dove sono sottoposti a critica radicale due capisaldi dell’empirismo logico. I neopositivisti e il primo Wittgenstein ritenevano, come si è visto, che le uniche proposizioni significanti fossero le proposizioni empiriche (vere o false) e le tautologie (necessariamente vere), nelle quali il predicato non aggiunge nulla al concetto del soggetto. Nella terminologia kantiana, le prime proposizioni sono dette sintetiche e le seconde analitiche. Quine mostra che è impossibile e che non ha senso tentare di distinguere tra analitico e sintetico.

il primo dogma dell’empirismo

Si prenda, ad esempio, la proposizione «nessuno scapolo è sposato». Questa proposizione è detta analitica; sostituendo il termine «scapolo» con il sinonimo «non sposato», si ottiene appunto una tautologia, ossia una verità logica. Ma com’è possibile dire che i due termini sono sinonimi, ossia hanno lo stesso significato? Occorrerebbe dare una definizione di sinonimia che sia del tutto indipendente dalla nozione di analiticità, perché altrimenti avremmo un circolo vizioso. Si può dire, per esempio, che due espressioni sono sinonime, quando possono essere sostituite l’una all’altra senza che cambi il contenuto della proposizione, salva veritate. Ma ciò funziona soltanto se si introduce la nozione modale di necessità, nel senso che necessariamente scapolo è non sposato. Ma Carnap ha mostrato che l’analiticità corrisponde alla necessità [cfr. 17.5] e, quindi, si cade nel circolo vizioso di definire l’analiticità mediante la sinonimia e la sinonimia mediante la necessità, ossia mediante l’analiticità stessa. Ciò significa, secondo Quine, che non è possibile individuare una classe di proposizioni come analitiche e, pertanto, viene a cadere la distinzione delle proposizioni in analitiche e sintetiche, che è uno dei dogmi dell’empirismo.

il circolo vizioso dell’analiticità

Il secondo dogma dell’empirismo è il cosiddetto riduzionismo, ossia la tesi che ogni enunciato significativo è una costruzione logica a partire da elementi che si riferiscono a esperienze immediate. Per l’empirismo classico questi elementi sono termini singoli, chiamati idee, mentre per Frege, Wittgenstein e molti neopositivisti l’unità minima di significato è la singola proposizione, la cui verità o falsità viene accertata attraverso il confronto diretto con l’esperienza.

il secondo dogma dell’empirismo

Secondo Quine, invece, il confronto con l’esperienza non può assumere come unità minima di significato la singola proposizione, ma riguarda il linguaggio nel suo complesso: in ciò consiste l’ olismo , secondo cui le nostre conoscenze e le nostre credenze non sono semplici somme di proposizioni,

l’olismo epistemologico

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ma sistemi più o meno organizzati. Riprendendo considerazioni presenti in Duhem, Quine afferma che ciò che uno scienziato controlla attraverso l’esperienza non è una singola proposizione, ma un intero sistema scientifico, che tocca l’esperienza soltanto ai suoi margini. Quando si verifica un disaccordo tra un sistema di conoscenze o di credenze e l’esperienza, ciò provoca un riassestamento che coinvolge non una singola proposizione, ma l’intero sistema: La totalità delle nostre cosiddette conoscenze o credenze, dall’evento più casuale della geografia e della storia alle più profonde leggi della fisica atomica o anche della matematica pura e della logica, è un edificio prodotto dall’uomo, che si fonda sull’esperienza solo ai margini. O, per cambiare l’immagine, l’insieme della scienza è come un campo di forza le cui condizioni limitatrici sono l’esperienza. Un conflitto con l’esperienza alla periferia dà luogo a un riassestamento all’interno del campo. Dei valori di verità vanno distribuiti in altro modo su alcune delle nostre proposizioni. La rivalutazione di alcune proposizioni causa la rivalutazione di altre, per via delle loro interconnessioni logiche: le leggi logiche non essendo altro che certe ulteriori proposizioni del sistema, certi ulteriori elementi del campo. Avendo rivalutato una proposizione, dobbiamo rivalutarne altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o possono essere esse stesse enunciazioni di connessioni logiche. Ma il campo totale risulta indeterminato quanto alle sue condizioni limitatrici, ossia all’esperienza, così che vi è molta larghezza di scelta per le proposizioni da rivalutare a causa di una singola esperienza contraria. Nessuna esperienza particolare è vincolata a una particolare proposizione all’interno del campo, se non indirettamente attraverso considerazioni di equilibrio che interessano il campo preso come totalità (Due dogmi dell’empirismo, § VI). tautologie e resoconti osservativi sono modificabili

La conseguenza è che non c’è alcuna proposizione che non possa risultare modificata e corretta dall’esperienza. Certamente, quelle che sono al centro del sistema, ossia quelle che hanno molti rapporti inferenziali con altre proposizioni, sono più difficili da modificare e, quindi, danno l’illusione di essere immutabili e certe: tali sono le proposizioni della logica e della matematica. E relativamente sicure sono le asserzioni vicine ai margini del sistema, le quali esprimono convinzioni e sono causate direttamente da stimoli esterni, ma anch’esse non sono immodificabili. In tal modo, cade anche il dogma della certezza assoluta attribuita ai resoconti di esperienze sensibili immediate .

la demolizione del mito del significato

In Parola e oggetto (1960), Quine afferma che il linguaggio è una forma di comportamento umano; partendo da questo assunto, arriva a demolire il mito del significato. È convinzione diffusa che il linguaggio serva a trasmettere idee e che l’apprendimento del linguaggio consista nell’imparare ad associare le parole alle stesse idee alle quali le associano gli altri parlanti. Ma, chiede Quine, come si fa a sapere che queste idee sono le stesse? Per rispondere a questa domanda, egli immagina una situazione di traduzione radicale, ossia la situazione di un etnolinguista di fronte alla lingua di una tribù sino ad allora sconosciuta. Egli deve guardare al comportamento degli

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Quine I due miti dell’empirismo

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indigeni, cercando di interpretare i suoni che essi emettono e di tradurli nella propria lingua. Immaginiamo che egli senta ripetere «gavagai» ogni volta che compare un coniglio; da ciò si sente autorizzato a tradurre il primo termine con «coniglio» o «ecco un coniglio!», ossia fa corrispondere un’espressione a un’altra espressione correlata agli stessi stimoli non verbali. In tali enunciati, il significato-stimolo tende a coincidere tra i diversi parlanti; due enunciati sono enunciati-stimolo se per i parlanti hanno lo stesso significato-stimolo. Quine osserva, però, che la traduzione è sempre indeterminata, ossia non esiste alcuna garanzia che due enunciati aventi lo stesso significato-stimolo siano sinonimi, ossia siano veri a proposito della stessa cosa. È possibile, infatti, che il parlante usi «gavagai» per indicare solo qualche parte del coniglio o stadi temporali in cui il coniglio appare o la «coniglità» o, addirittura, una mosca che l’indigeno sa che accompagna abitualmente il coniglio. Non esiste alcun criterio per filtrare questi eventuali elementi informativi aggiuntivi. Naturalmente, il linguista può chiedere se questo è lo stesso coniglio di quello, ma deve già aver stabilito una traduzione, su base ipotetica, per i termini «lo stesso» o «quello»; anche in questo caso, infatti, a «stesso» potrebbe corrispondere nel linguaggio dell’indigeno lo «stesso» in senso temporale, anziché «la stessa cosa».

la traduzione è indeterminata

La conclusione di Quine è che è possibile definire come sinonime due espressioni solo in relazione a un determinato schema concettuale, legato a un certo linguaggio, in quanto le differenze tra i linguaggi incorporano in sé differenze nel modo in cui i parlanti guardano al mondo e non esiste un unico modo corretto di guardare a esso. La stessa nozione di significato non è altro che un ingrediente dei nostri schemi concettuali, né vi è un significato unico, ma al massimo un insieme variabile di significati-stimolo. L’indeterminatezza della traduzione è, dunque, connessa a quella che Quine chiama relatività ontologica, nel senso che il tipo di realtà che ognuno ritiene che ci sia dipende dall’insieme di significati-stimolo che guidano il comportamento di ciascun individuo e del gruppo al quale egli appartiene.

linguaggio e ontologia

Partendo dai significati-stimolo, l’interprete procede a formulare una serie di ipotesi, grazie alle quali costruisce un manuale di traduzione, costituito di un vocabolario e di una grammatica. Quine ribadisce, tuttavia, che sono possibili traduzioni diverse in base a manuali diversi e che la scelta tra essi è puramente convenzionale; ciò non significa che esista un disaccordo fra i diversi traduttori, ma soltanto che è diverso l’uso delle parole nei vari casi e che lo stesso uso delle parole è legato all’uso dell’intero linguaggio. L’unica regola da far valere all’interno di ciascun manuale è il principio di carità, che induce a scegliere fra le traduzioni quella che fa sì che il maggior numero possibile delle asserzioni degli indigeni che parlano tale lingua risultino vere.

la scelta delle traduzioni migliori

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4. Filosofi post-analitici davidson: significato e interpretazione

La correttezza grammaticale è un aspetto degli enunciati; l’altro è dato dal contenuto che essi esprimono. Lo studio delle strutture grammaticali del linguaggio (linguistica) o delle relazioni formali tra segni (sintassi) non rende conto della sua dimensione semantica, ossia della sua capacità di riferirsi a oggetti o stati di cose (attuali o possibili) e del fatto di essere compreso da qualcuno. La teoria del significato è al centro degli interessi del filosofo statunitense Donald Davidson (1917-2003), i cui saggi sono stati raccolti in due volumi, intitolati Saggi su azioni e eventi (1980) e Indagini su verità e interpretazione (1984). Per Davidson, il problema del significato deve essere affrontato in termini di teoria dell’interpretazione. Ogni interpretazione si fonda su un insieme di conoscenze, che l’interprete deve acquisire per capire una lingua che gli è estranea. Questo insieme consisterà non in un elenco di tutte le frasi possibili in tale lingua, ma in una teoria che permetta di derivare – di volta in volta – l’interpretazione di ciascun enunciato. Ciò non è possibile se non si conoscono le condizioni di verità dell’enunciato stesso. Si tratta, allora, di estendere all’interpretazione il principio di carità di Quine [cfr. 18.3], ossia di cercare l’interpretazione che renda vera – dal nostro punto di vista – la maggior parte degli enunciati che i parlanti di tale lingua mostrano di considerare veri.

l’esito relativistico

Secondo Davidson, condividere un linguaggio equivale a condividere un quadro o una concezione del mondo, sicché la verità di un enunciato è sempre relativa alle circostanze in cui esso è pronunciato. La pratica della conversazione mostra che in essa operano due piani, un insieme di regole già riconosciute e regole nuove che vengono stabilite di volta in volta nel corso di essa. Ciò conferma Davidson nella sua posizione relativistica: non esiste il linguaggio come corpo stabile e definitivo di regole che si apprendono, padroneggiano e applicano in modo definito in ogni circostanza.

rorty: il primato della filosofia come epistemologia

Il relativismo è condotto alle sue conclusioni estreme dallo statunitense Richard Rorty (1931-2007), professore di Filosofia nell’università della Virginia, autore di un volume di successo intitolato La filosofia e lo specchio della natura (1979), di una raccolta di saggi intitolata Conseguenze del pragmatismo (1982) e di Contingenza, ironia e solidarietà (1989). In questi scritti Rorty cerca di mostrare – anche attraverso ampi panorami storici – che la filosofia analitica è l’ultima manifestazione della tradizione metafisica che ha preteso di trovare il fondamento della realtà e di costruire l’unica teoria vera del mondo. Da Cartesio in poi, il presupposto è stato che la mente sia lo «specchio della natura», ossia possa accedere a rappresentazioni che rispecchiano fedelmente il mondo; successivamente, questo potere è stato attribuito al linguaggio. La filosofia è venuta così a identificarsi con l’epistemologia, ossia con la dottrina della conoscenza, che privilegia la figura dello spettatore che guarda con occhio disinteressato al mondo e si fonda su una teoria della verità come corrispondenza ai fatti.

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Questo progetto, secondo Rorty, è fallito e già molte voci si sono levate contro questa pretesa di costruire una filosofia scientifica, dall’ultimo Wittgenstein a Heidegger, dall’ermeneutica a Derrida; ma è soprattutto al pragmatismo – a Dewey in particolare [cfr. 7.3-4] – che Rorty intende riallacciarsi. Il compito che attende la filosofia in questa epoca post-filosofica non è, dunque, di rintracciare il fondamento del sapere o di costruire argomentazioni con pretese di scientificità; essa deve piuttosto contribuire a tener viva una conversazione, alla quale si tratta di partecipare, intrattenendosi con le voci della tradizione filosofica e culturale. Si sfumano, pertanto, i confini tra la filosofia e le altre produzioni culturali umane: anche la filosofia è una voce, un genere letterario fra tanti, una narrazione che contribuisce all’arricchimento culturale complessivo. In tal modo, la filosofia può ridiventare un discorso edificante che mira alla formazione di ciascuno. Abbandonata la pretesa di cercare o addirittura di cogliere la verità ultima delle cose, si apre lo spazio al fiorire dell’ironia, dettata dal senso della contingenza delle cose e dalla consapevolezza che non esistono princìpi immutabili che governino la storia e la società. L’ironia, che è dimensione privata, deve però congiungersi con la solidarietà, un sentimento pubblico, che porta a considerare ciascuno degli altri come noi stessi.

antifondazionalismo, edificazione morale e solidarietà

Anche Hilary Putnam, nato nel 1926, professore di Logica matematica nell’università di Harvard, torna a guardare con simpatia alla tradizione pragmatistica. Dopo aver condiviso una forma di realismo metafisico, secondo cui il mondo consiste di una totalità fissa di oggetti indipendenti dalla nostra mente ed esiste una e una sola descrizione vera e completa del mondo, Putnam è approdato a una forma più attenuata di realismo interno, secondo cui solo all’interno di una determinata teoria – o schema concettuale – ha senso chiedersi di quali oggetti consista il mondo. Ciò non significa che si debba precipitare in una forma di relativismo totale; non siamo costretti, secondo Putnam, a scegliere tra canoni immutabili di verità e il relativismo culturale: se i canoni e i valori mutano è per buone ragioni.

putnam: dal realismo metafisico al realismo interno

Anche il relativismo culturale, infatti, è una forma di scientismo, fondato sull’assunto che la teoria vera sia una sola; l’unica differenza è che esso ripone il proprio modello non nella fisica, ma nell’antropologia culturale. Ora, la tesi che i valori sono relativi a una cultura è condivisibile, secondo Putnam, ma non è equivalente alla tesi che una qualsiasi cultura è buona quanto la nostra. Putnam ritiene indiscutibile la superiorità del liberalismo e della democrazia americana, rispetto al fascismo. Non esiste un insieme di valori e princìpi morali – al di là della storia – il quale determini una volta per tutte in che cosa consiste il concetto di «fioritura umana», ossia l’idea che noi abbiamo di bene. Ma è un fatto, secondo Putnam, che di essa fa parte anche il concetto di razionalità, e la razionalità che opera all’interno della scienza non è né superiore né inferiore alle forme di razionalità che operano fuori di essa.

ridimensionamento del relativismo

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5. Il problema mente-corpo e l’intelligenza artificiale azioni ed eventi mentali

Secondo Davidson, parlare una lingua è una forma di agire intenzionale in vista di determinati scopi. Per capire che cosa significhi agire in vista di uno scopo, secondo una ragione o agire liberamente, egli ritiene che sia essenziale ricorrere alla nozione di causa. Nel saggio Eventi mentali (1970), egli precisa che gli eventi non sono stati o processi, ma sono ciò tra cui intercorrono relazioni causali, nel senso che se certi eventi hanno la stessa causa e gli stessi effetti, allora si deve concludere che si tratta dello stesso evento. Davidson usa il termine «mentale» per indicare non sensazioni o stati psichici, ma eventi i quali comportano ciò che egli chiama atteggiamento proposizionale. Ciò significa che tali eventi sono esprimibili in proposizioni del tipo «credere che» o «sperare che». Di qui scaturisce la conseguenza che il modo in cui un uomo agisce dipende dalla struttura generale delle sue credenze e dei suoi desideri e questa sembra essere una ragione sufficiente, secondo Davidson, per escludere che l’agire umano sia totalmente determinato da cause puramente esterne.

il monismo anomalo di davidson

Ma come si concilia questo con il fatto che le azioni umane fanno parte dell’ordine della natura, causano eventi e possono anche essere causate da eventi esterni a esse? Gli eventi mentali possono avere questo potere causale solo in quanto sono anche eventi fisici, correlati ad altri eventi da leggi fisiche. Questa posizione di Davidson è definita monismo anomalo: a differenza del monismo in generale, per esso gli eventi mentali non sono identici tout court a eventi localizzati nel sistema cerebrale ed esclude l’esistenza di leggi psicofisiche che connettano mentale e fisico. D’altra parte, essa esclude che mente e corpo siano entità nettamente distinte e sostiene, invece, che il mentale sopravviene al fisico, senza essere riducibile a esso.

macchine che simulano la mente umana

Sullo sfondo di queste discussioni sui rapporti tra mente e corpo vi sono anche problemi nati dallo sviluppo delle ricerche sulla cosiddetta intelligenza artificiale . Già in passato si erano costruite macchine (robot) capaci di muoversi, orientarsi nello spazio, compiere operazioni manuali e così via. Verso la metà degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, ci si pose anche l’obiettivo di simulare – mediante una macchina – l’attività mentale umana, in modo da agevolare anche lo studio di tale attività. Questa macchina (detta computer, in quanto la competenza che si tentò dapprima di attribuire a essa fu di calcolare) ha una componente fissa, ossia un supporto fisico detto hardware, e una che viene immessa in tale struttura, costituita dai dati e dalle istruzioni per elaborare questi dati, detta software (o programma).

il test di turing

Si tratta allora di programmare un sistema artificiale che deve dimostrare di sapersi comportare come se avesse una mente. Ciò avviene se esso supera il cosiddetto test di Turing, dal nome del matematico inglese Alan Turing (1912-1954): un calcolatore supera questo test se – stabilita un’appropriata serie di domande per saggiare in generale le capacità mentali – una persona esperta non è in grado di distinguere tra le risposte del calcolatore e quelle di un essere umano intelligente. I sostenitori dell’intelligenza artifi-

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ciale ritengono che il computer – se supera questo test – deve essere considerato non soltanto come capace di pensare, ma come dotato di una mente vera e propria. In una prima fase delle ricerche di scienza cognitiva fondate sull’analisi del funzionamento dei calcolatori si è cercato di simulare le attività superiori dell’intelligenza umana, ossia procedure deduttive come la dimostrazione di teoremi o l’effettuare calcoli o giocare a scacchi. Ma ciò ha lasciato aperto il problema se la simulazione sia estendibile a tutte le attività mentali, anche nelle operazioni intenzionali (ad esempio credere, provare desideri o paure, ecc.). Un settore particolarmente delicato è dato dalla simulazione del linguaggio umano. Il problema è di dotare i sistemi automatici di una competenza non soltanto sintattica, ma anche semantica, in modo da poter rispondere a domande, tradurre, eseguire ordini. È emersa di qui l’idea che i significati siano procedure per costruire modelli mentali di discorso o per mettere il linguaggio in rapporto con il mondo.

la sfida della scienza cognitiva

Obiezioni radicali alla possibilità di riprodurre con il calcolatore il comportamento linguistico umano e, quindi, alla tesi dell’identità tra cervello e calcolatore sono state avanzate da John Searle (nato nel 1932). Egli paragona il calcolatore a un individuo, che ignora la lingua cinese, chiuso in una stanza con scatole di ideogrammi (ossia di simboli di cui ignora il significato) e un libro scritto nella lingua che egli conosce, con istruzioni per combinare tali ideogrammi. Alle domande di combinare tali ideogrammi, che gli vengono poste da qualcuno fuori dalla stanza, costui – grazie al libro di istruzioni – è in grado di rispondere bene; la stessa cosa avviene con un calcolatore, che pertanto supera il test di Turing. Ma ciò, secondo Searle, dimostra soltanto che la macchina – proprio come quell’individuo – dispone soltanto di una competenza sintattica nel combinare i segni, non di una competenza semantica, che consenta di capire il significato dei segni stessi: per quell’individuo, come per la macchina, il cinese continua a restare una lingua sconosciuta.

searle: l’esempio della camera cinese

Il possesso di competenza sintattica non basta ad assicurare la competenza semantica, che è propria della mente umana. Ad attribuire un significato ai segni è il programmatore, non la macchina, sicché fornire un programma che renda capaci di combinare i segni non basta per generare la mente: in questo senso, appare falsa la tesi «dura» dell’intelligenza artificiale [t52]. Inoltre, secondo Searle, è inutile anche la tesi del cognitivismo, in quanto le funzioni sintattiche e computazionali, assegnabili al calcolatore e attivabili mediante comandi, possono essere attribuite anche ad altri sistemi fisici sicché il calcolatore non costituisce un modello privilegiato per studiare il funzionamento della mente.

competenza sintattica e semantica

6. Analisi del linguaggio ed etica applicata Nel dopoguerra, dopo l’esperienza del nazismo, emerge l’esigenza di rintracciare anche all’interno del discorso morale la possibilità di formulare 18. la filosofia analitica

hare e il significato delle azioni morali

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argomentazioni razionali, in modo da evitare la tesi dell’equivalenza di qualsiasi discorso morale come pura espressione di sentimenti soggettivi. È soprattutto Richard Mervyn Hare (1919-2002) – nominato professore a Oxford nel 1966, autore di Il linguaggio della morale (1952), Libertà e ragione (1963) e Il pensiero morale (1981) – che si è posto il problema della razionalità del discorso morale. Secondo Hare è necessario porsi il problema del significato delle nozioni morali, se non ci si vuole affidare soltanto all’intuizione puramente soggettiva. Solo elaborando una teoria del significato dell’etica è possibile evitare il relativismo e l’ammissione di una equivalenza fra tutti i discorsi etici. i problemi aperti dalla meta-etica

Ciò può avvenire non affrontando direttamente questioni normative (che cosa è bene? che cosa è male?), ma indagando le forme specifiche del discorso morale: la meta-etica è la disciplina a cui spetta questo compito. All’obiezione che la meta-etica – limitandosi a descrivere le proprietà del linguaggio morale – lascia in realtà le cose come stanno, Hare risponde mostrando che le proposizioni morali implicano un principio di universalizzabilità. In altre parole, chi enuncia una proposizione prescrittiva (ad esempio, «non uccidere») – se non vuole contraddirsi – la farà valere per tutti coloro che si trovano nella situazione prevista dall’imperativo. In questo senso, la scelta dell’azione non è abbandonata soltanto all’intuizione o alle emozioni individuali, ma può essere fondata su argomentazioni che si richiamano esplicitamente a questo principio.

rawls: libertà e giustizia

Il problema principale di John Rawls (1921-2002), professore all’università di Harvard e autore del volume Una teoria della giustizia (1971), è quello di armonizzare la libertà – ossia i diritti individuali – e la giustizia – ossia un’equa distribuzione dei beni. Rawls considera la giustizia come «il primo requisito delle istituzioni sociali» e garante della stessa libertà individuale. Per chiarire la sua concezione della giustizia, Rawls immagina – come alcuni teorici classici del contratto sociale – una ipotetica situazione originaria, nella quale ciascuno ignora quale sia la sua posizione nella società, come siano distribuite le doti naturali fra i vari individui e, quindi, quali siano i suoi interessi particolari. Proprio questa condizione di ignoranza fa sì che tutti si trovino in una condizione di uguaglianza, ovvero che nessuno goda di un vantaggio iniziale. In questa situazione, secondo Rawls, è possibile pervenire a una scelta razionale e disinteressata dei princìpi di giustizia. Essi sono: l’eguaglianza dei diritti e dei doveri fondamentali e il riconoscimento che le disuguaglianze (di ricchezza, di potere, ecc.) sono giuste soltanto se producono benefici compensativi soprattutto per coloro che sono meno avvantaggiati. Il fatto che esistano individui più o meno favoriti dalle loro doti naturali non è di per sé giusto o ingiusto; il problema è come le istituzioni sono in grado di affrontare queste differenze, riparando agli svantaggi degli individui o gruppi meno favoriti.

il dibattito interno alla bioetica

Un altro ampio settore di indagini affermatosi soprattutto a partire dagli anni Settanta è quello della bioetica. Essa comprende studi e riflessioni volti ad affrontare spinose questioni etiche derivanti dal conseguimento di nuovi traguardi scientifici e dalla disponibilità di nuove tecniche mediche e

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biologiche. Tali sono, ad esempio, le questioni suscitate dalla pratica dell’aborto, dall’uso dei trapianti e della fecondazione artificiale, dall’eutanasia, dalla clonazione di organi e dagli esperimenti su embrioni finalizzati alla scoperta di nuove e più efficaci terapie. La bioetica affronta questi problemi non inventando una nuova etica, ma utilizzando concetti e argomentazioni già presenti nella tradizione del pensiero etico [t53]. In questo ambito si sono delineate due posizioni, fra le quali la discussione è in pieno svolgimento. 1) La prima fa appello al principio della sacralità della vita, la quale implica il dovere di rispettare le finalità a cui sono destinati il corpo e gli organi corporei all’interno del disegno complessivo determinato dalla natura o da Dio. 2) La seconda fa appello al principio della qualità della vita, il quale impone di accrescere la qualità della vita degli individui – ossia il loro benessere – e di rispettare le loro scelte autonome.

in poche... parole La filosofia analitica è una corrente di pensiero che si afferma a partire dagli anni Trenta in Inghilterra e negli Stati Uniti. Sull’esempio delle indagini di Moore e del primo Russell, fortemente influenzati dall’empirismo inglese e dalle tesi neopositivistiche, i filosofi analitici privilegiano l’analisi del linguaggio come metodo per indagare i caratteri dell’esperienza in generale, escludendo i problemi metafisici ritenuti privi di significato. In questo quadro, si colloca l’opera di Ryle: a suo avviso, il compito della filosofia deve essere quello di smascherare gli errori categoriali derivanti dalla confusione fra termini contenuti in enunciati grammaticalmente equivalenti, ma in realtà appartenenti a categorie diverse. Ad esempio, la nozione di mente (o di anima) non indica un’entità spirituale privata e distinguibile dal corpo, ma è la descrizione di un comportamento o di una disposizione ad agire in modo simile in situazioni simili. Austin parte dall’analisi del linguaggio ordinario, non con lo scopo di dissolvere i problemi filosofici fittizi (sulla scia

di Wittgenstein o di Ryle), bensì con l’obiettivo di descrivere i modi in cui avviene l’atto concreto del parlare. In un primo momento egli distingue tra enunciati constatativi (= descrittivi, ad es.: «mio figlio si chiama Federico») e performativi (= quelli che eseguono una vera e propria azione, ad es.: «ho dato a mio figlio il nome Federico») e successivamente classifica i tre tipi di atti linguistici che possono coesistere all’interno di uno stesso enunciato. Negli Stati Uniti, le tesi neopositivistiche si incontrano con la tradizione del pragmatismo, dando così origine all’opera di Quine, di Davidson, di Rorty e di Putnam. Il principale contributo di Quine riguarda la critica dell’empirismo tradizionale e dei suoi due dogmi: la distinzione tra analitico e sintetico e la riduzione del linguaggio ad enunciati elementari. Quine ha anche cercato di mostrare come linguaggi differenti siano basati su schemi concettuali differenti, e cioè su diverse maniere di guardare il mondo: ciò porta alla tesi della relatività ontologica, in quanto ognuno associa in modo

diverso un’espressione linguistica al significato-stimolo che l’ha suscitata, rendendo di fatto impossibile tradurre perfettamente una lingua in un’altra. Secondo Davidson, il problema del significato deve essere affrontato nei termini di una teoria dell’interpretazione: condividere un linguaggio significa condividere una concezione del mondo e comprendere un enunciato è possibile solo quando si conoscono le condizioni che lo rendono vero all’interno di una determinata lingua. Dal canto suo, Rorty è molto critico nei confronti della filosofia analitica che considera come l’ultima propaggine della tradizione metafisica, basata sulla nozione di verità come corrispondenza tra mente e mondo. Di qui la necessità di liberare la filosofia dall’epistemologia e di praticarla come un discorso edificante che mira alla formazione di sé, caratterizzato dall’ironia e dalla solidarietà verso gli altri. Putnam, invece, pur ritenendo che sia possibile definire le cose solo all’interno di una determinata teoria (o visione del mondo), è contrario al relativismo: a

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suo avviso, infatti, la cultura liberale e democratica è senza dubbio superiore rispetto alla tirannide fascista.

atti linguistici Partendo dal ri-

conoscimento che il linguaggio serve non soltanto per descrivere cose, eventi o stati di cose, ma anche per compiere azioni, fare qualcosa, Austin ha sviluppato una teoria degli atti linguistici. Per esempio quando pronuncio l'espressione «prometto» non descrivo qualcosa, ma assicuro altri che farò una certa cosa. Gli atti linguistici consistono di enunciati detti performativi, in quanto mediante essi si esegue un'azione, ma tale esecuzione di per sé non è né vera né falsa. Essi sono sempre usati con una certa forza: per avere successo debbono obbedire a condizioni di felicità, non di verità, per esempio occorre avere titoli per pronunciare tali enunciati, seguire la procedura richiesta, essere sincero e così via. Un atto illocutorio consiste nell'intenzione che accompagna ciò che si dice, mentre un atto perlocutorio è quello che produce un certo effetto nell'ascoltatore, a prescindere dal fatto che tale effetto sia o no perseguito intenzionalmente. L’indagine sugli atti linguistici è fatta rientrare in quella che si chiama «pragmatica», distinta dalla semantica, che studia il significato dei segni e delle espressioni linguistiche, ossia il loro rapporto con ciò che designano e a cui si riferiscono, e dalla sintattica, che studia le combinazioni dei segni a prescindere dal loro significato. La pragmatica invece studia gli usi e gli effetti dei segni in rapporto al comportamento in cui hanno luogo.

dogmi dell’empirismo Nel suo articolo del 1951, intitolato I due dogmi dell’empirismo, Quine demolisce i due capisaldi dell’empirismo logico. Il primo riguarda la possibilità di distinguere tra analitico e sintetico, e cioè tra le tauto-

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logie (gli enunciati della logica, necessariamente veri) e le proposizioni empiriche (vere o false), fondate sui dati dell’esperienza immediata. Secondo Quine, non è possibile individuare una classe di proposizioni come analitiche: una proposizione sarebbe analitica se fosse possibile sostituire i suoi termini con dei sinonimi, senza cambiarne il significato. Ma, per definire due termini come sinonimi (ad esempio: «scapolo» e «non sposato») bisognerebbe servirsi della nozione di necessità («necessariamente scapolo è non sposato»), che come ha rivelato Carnap corrisponde a quella di analiticità. In altri termini, la nozione di sinonimia, che dovrebbe spiegare quella di analiticità, dipende dalla nozione stessa di analiticità, determinando un circolo vizioso. Il secondo dogma dell’empirismo è il cosiddetto riduzionismo, ossia la tesi che ogni enunciato significativo è una costruzione logica a partire da elementi che si riferiscono a esperienze immediate. Per molti neopositivisti l’unità minima di significato è la singola proposizione, la cui verità o falsità viene accertata attraverso il confronto diretto con l’esperienza. Secondo Quine, invece, il confronto con l’esperienza non può assumere come unità minima di significato la singola proposizione, ma riguarda il linguaggio nel suo complesso. Le nostre conoscenze e le nostre credenze non sono semplici somme di proposizioni, ma sistemi più o meno organizzati. Ciò significa che qualsiasi enunciato (anche quelli della logica e della matematica) potrebbero essere modificati e corretti dall’esperienza, così come i resoconti di esperienze sensibili immediate, che i neopositivisti chiamavano «protocolli» e consideravano assolutamente certi.

olismo Concezione – elaborata

da Duhem e poi da Quine – secondo cui le teorie scientifiche non sono date dalla somma di enunciati

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indipendenti tra loro e direttamente correlati a segmenti dell’esperienza, ma costituiscono insiemi unitari. Per questa ragione, la modifica di qualche punto dell’insieme – prodotta da un conflitto con l’esperienza – comporta un riassestamento di tutto il resto del sistema. Quine afferma che ciò che uno scienziato controlla attraverso l’esperienza non è una singola proposizione, ma un intero sistema scientifico, che tocca l’esperienza soltanto ai suoi margini. Quando si verifica un disaccordo tra un sistema di conoscenze o di credenze e l’esperienza, ciò provoca un riassestamento, che coinvolge non una singola proposizione, ma l’intero sistema. Dalle discussioni sul rapporto tra mente e corpo traggono origine, verso la metà degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti le ricerche sull’intelligenza artificiale, basate sul presupposto che sia possibile simulare attraverso i calcolatori (o computer) le diverse attività della mente umana – specialmente quella linguistica – in modo da scoprirne il funzionamento. A questo progetto, portato avanti con grande entusiasmo dalla scienza cognitiva, si è opposto Searle, per il quale il possesso della competenza sintattica – e cioè la capacità di combinare tra loro dei segni – non basta ad assicurare la competenza semantica, che è propria della mente umana. Dopo la Seconda guerra mondiale e l’esperienza del nazismo, la filosofia analitica si concentra sull’analisi del discorso morale, andando alla ricerca di argomentazioni razionali capaci di fondare la condotta dell’uomo (la meta-etica di Hare), interrogandosi sui modi in cui armonizzare libertà e giustizia nella nostra società (il neocontrattualismo di Rawls), discutendo sulle spinose questioni etiche derivanti dai progressi tecnico-scientifici compiuti in cam-

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po medico e biologico (la bioetica).

intelligenza artificiale Espressione con cui si designa l'intelligenza che può essere costruita o, meglio, simulata mediante la costruzione di macchine appropriate, dette computer. Il problema è se e come sia possibile simulare effettivamente mediante una macchina l'attività mentale umana. Si tratta di costruire un computer-sistema artificiale che deve dimostrare di sapersi comportare come se avesse una mente. Un calcolatore supera il cosiddetto test di Turing se, stabilita una sequenza di domande per

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saggiare in generale le capacità mentali, una persona esperta non è in grado di distinguere tra le risposte di un calcolatore e quelle di un essere umano intelligente. Per taluni il computer, se supera tale test, deve essere ritenuto non solo capace di pensare, ma dotato di una mente vera e propria. Mentre è possibile ottenere una simulazione di operazioni di calcolo o di mosse nel gioco degli scacchi, non è chiaro se tale simulazione sia estendibile a tutte le operazioni mentali, anche a quelle intenzionali, come credere, provare desideri o paure e così via. In particolare, per simulare il linguaggio umano un sistema

automatico dovrebbe avere una competenza non soltanto sintattica, ma anche semantica, in modo da poter rispondere a domande, eseguire ordini, ecc. Searle ha escluso proprio questa possibilità, mostrando che la competenza sintattica di una macchina non basta ad assicurarle la competenza semantica, che è propria della mente umana: infatti ad attribuire un significato ai segni è il programmatore del computer, non la macchina. Da ciò egli ha tratto la conclusione che il calcolatore non è un modello privilegiato per studiare il funzionamento della mente umana. Ma il problema non è chiuso.

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i testi t51 Ryle / Lo spettro nella macchina Ryle

Il concetto di mente

cap. I, §§ 1-3

Il concetto di mente, pubblicato nel 1949 e tradotto qualche anno dopo in italiano con il titolo Lo spirito come comportamento, si propone non di fornire nuove informazioni e nuove conoscenze sulla mente, ma di porre ordine in questo ambito di problemi e, per questa via, di formulare una teoria della mente. Il problema consiste cioè nel chiedersi che cosa è implicato nelle espressioni e nei modi con cui si parla ordinariamente di operazioni, capacità e disposizioni mentali. Per arrivare a cogliere questo punto è necessario liberarsi da un mito, ossia da una concezione filosofica, esemplificata nel dualismo cartesiano di corpo e anima, la quale presenta queste operazioni e queste disposizioni in un linguaggio inadeguato, come se ci si riferisse ad una entità detta «mente», distinta radicalmente dal corpo. La liberazione da questo mito è possibile se si presta attenzione alle regole d’impiego di questi termini, le quali sfuggono abitualmente a coloro che li usano: portare alla luce queste regole è il compito che Ryle si propone in questo libro.

C’è una dottrina sulla natura delle menti e il luogo da esse occupato che è così diffusa, fra studiosi e profani, che potremmo chiamarla la «dottrina ufficiale». La maggior parte dei filosofi, degli psicologi e degli insegnanti di religione, con qualche piccola riserva, sottoscrivono i suoi articoli principali: ammettono che la teoria presenta qualche difficoltà, ma tendono a ritenere che si tratti di problemi superabili senza modificare troppo l’architettura della dottrina. Qui si sosterrà che i principi centrali di questa dottrina non sono affatto solidi: anzi, essi contrastano con tutte le cose che sappiamo sulle nostre menti, con le cose che sappiamo su di esse quando non siamo intenti a costruire teorie filosofiche. Secondo la dottrina ufficiale, che risale soprattutto a Descartes, fatta eccezione forse per gli idioti e i bambini in fasce, ogni essere umano possiede sia un corpo sia una mente. Alcuni preferirebbero dire che ogni essere umano è sia un corpo sia una mente. Di solito, il corpo e la mente sono uniti, ma può darsi che dopo la morte del corpo, la mente continui a esistere e operare. I corpi umani si collocano nello spazio e sono soggetti alle leggi meccaniche che governano tutti gli altri corpi che si muovono nello spazio. 566

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Chi osserva i corpi dall’esterno è nelle condizioni di esaminare gli stati in cui si trovano e i processi che subiscono. Quindi, la vita corporea di un uomo è una cosa pubblica, come sono pubbliche le vite degli animali e dei rettili, e perfino il divenire degli alberi, dei cristalli e dei pianeti. Le menti, invece, non si collocano nello spazio, e il loro operare non obbedisce a leggi meccaniche. Il funzionamento di una mente non è cosa di cui altri osservatori esterni possano essere testimoni: si tratta di un evento privato. Solo io posso avere una conoscenza diretta degli stati e dei processi della mia mente. Le persone, dunque, vivono due storie parallele: una è la storia delle cose che accadono nel loro corpo (e delle cose che accadono a tale corpo), l’altra è la storia delle cose che avvengono nella loro mente (e delle cose che avvengono a tale mente). La prima è una storia pubblica, la seconda è privata. Gli eventi della prima storia si collocano nel mondo fisico, quelli della seconda si verificano nel mondo mentale. [...] Però, non c’è nessun tipo di accesso diretto agli eventi della vita interiore altrui. Possiamo solo osservare il comportamento corporeo degli altri, e (con un ragionamento alquanto discutibile) dedurre gli stati mentali di cui, a quanto ci

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sembra, tale comportamento sarebbe un segno, assumendo che la nostra condotta e quella altrui funzionino allo stesso modo. L’accesso diretto al proprio funzionamento è privilegio della mente: al di fuori di tale accesso privilegiato, il funzionamento della mente rimane inevitabilmente nascosto a tutte le altre menti. Infatti, gli argomenti che pretendono di dedurre da movimenti corporei simili ai nostri un funzionamento mentale simile al nostro non troverebbero alcuna conferma nell’osservazione. Difficilmente chi sostiene la teoria ufficiale potrà negare questa conseguenza delle sue premesse: non ci sono buone ragioni per credere che esistano menti oltre la propria. E non si tratta certo di una conseguenza innaturale. Anche se preferisce credere che negli altri corpi umani siano contenute menti non dissimili dalla sua, il sostenitore della dottrina ufficiale non può certo pretendere di essere in grado di scoprire le caratteristiche individuali di tali menti, o le particolari cose che esse subiscono e fanno. Di conseguenza, se questo è il quadro, il destino ineluttabile dell’anima è la solitudine assoluta. Solo i nostri corpi possono incontrarsi1. Da questo schema generale deriva necessariamente, come un corollario implicito, che i nostri concetti ordinari delle facoltà e delle operazioni mentali vanno interpretati in una maniera particolare2. I verbi, i sostantivi e gli aggettivi con cui nella vita quotidiana descriviamo l’intelligenza, il carattere e le prestazioni più elevate delle persone con cui abbiamo a che fare vanno interpretati come termini che designano episodi particolari nelle loro storie segrete, oppure come termini che fanno riferi-

1. Il solipsismo poggia sulla convinzione che sia impossibile accedere alla conoscenza delle menti degli altri, anzi al limite non può neppure asserire che gli altri individui, pur esternamente simili, abbiano una mente. A questa conclusione si perviene se si attribuisce alle operazioni e agli eventi mentali un carattere esclusivamente privato, per cui solo chi li prova sarebbe in grado di percepirli con assoluta certezza, grazie all’introspezione. Ma è proprio l’introspezione che non può essere applicata

mento al fatto che episodi di questo genere tendono a verificarsi nelle loro menti. Quando si dice che qualcuno conosce, crede o congettura qualcosa, che spera, teme, intende o evita qualcos’altro, che progetta di fare questa cosa o è divertito da quell’altra, questi verbi devono significare che si stanno verificando determinate specifiche modificazioni del suo flusso di coscienza, un flusso di coscienza che non ci è manifesto. Solo l’accesso privilegiato a questo flusso da parte della persona in questione, quell’accesso che si verifica nella consapevolezza diretta e nell’introspezione, può provare davvero se questi verbi indicanti la condotta mentale sono stati applicati correttamente o scorrettamente. Lo spettatore (sia esso insegnante, critico, biografo o amico) non può mai essere certo che i suoi giudizi rechino qualche traccia di verità. Eppure, proprio perché tutti noi sappiamo come formulare questo genere di giudizi, e sappiamo come formularli in maniera generalmente corretta e correggerli quando si rivelino confusi o errati, i filosofi hanno ritenuto necessario costruire teorie riguardanti la natura delle menti e il luogo da esse occupato. Accortisi che facciamo uso di concetti che indicano la condotta mentale in maniera regolare ed efficace, è stato naturale per i filosofi tentare di fissare la geografia logica di questi concetti. Ma la teoria ufficialmente raccomandata comporterebbe l’impossibilità di usare in maniera regolare o efficace i concetti che indicano la condotta mentale per descrivere le menti altrui, o per indirizzare a esse le nostre prescrizioni.

per percepire gli stati mentali altrui, sicché, se si vuole evitare il solipsismo, generalmente si sostiene che questi possono essere, se non conosciuti direttamente, per lo meno inferiti per analogia da ciò che avviene in noi e in relazione al comportamento dei corpi, che è osservabile. Ma è chiaro che si tratta di un’inferenza dubbia, dal momento che è fondata sulla presunzione di un’analogia, la quale non dà alcuna garanzia che ciò che vale per eventi che per definizione sono privati valga

anche per eventi che riguarderebbero altri. 2. Emerge qui un presupposto centrale dell’analisi di Ryle: le teorie della mente sono costruite a partire dall’interpretazione del linguaggio usato per descrivere e, in generale, parlare delle capacità e delle operazioni mentali. Scopo di Ryle è mostrare che il dualismo cartesiano poggia su un’interpretazione erronea dei modi in cui nel linguaggio ordinario si parla di tali cose.

i testi

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A grandi linee, questa è la teoria ufficiale della mente. Ne parlerò spesso, e con deliberata insolenza la chiamerò «il dogma dello spettro nella macchina»3. Spero di dimostrare che è una teoria completamente falsa, e che è falsa non già nei dettagli bensì nei principi. Non si tratta semplicemente della somma di errori particolari, ma di un unico grande errore. E di un errore di un genere particolare: un errore categoriale. La teoria ufficiale rappresenta i fatti della vita mentale come se appartenessero a un determinato genere o categoria logica (o a una serie di generi o categorie logiche), quando in realtà essi appartengono a un altro tipo o categoria4. Il dogma è perciò un mito filosofico. Probabilmente, si potrebbe pensare che, nel mio tentativo di demolire questo mito, io stia negando fatti ben noti riguardanti la vita mentale degli esseri umani. Allo stesso modo, è probabile che, quando mi difenderò dicendo che non sto facendo niente se non rettificare la logica dei concetti indicanti la condotta mentale, si dirà che questo è solo un sotterfugio. Prima di tutto, devo mostrare che cosa intendo con l’espressione «errore categoriale». Lo farò con alcuni esempi. A uno straniero che visiti per la prima volta Oxford o Cambridge viene mostrato un dato numero di college, biblioteche, campi da gioco, musei, dipartimenti scientifici e uffici amministrativi. A quel punto egli domanda: «Ma dov’è l’università? Ho visto dove vivono i membri dei college, dove lavora il segretario, dove gli scienziati conducono gli esperimenti, e tutto il resto. Ma non ho ancora visto l’università, cioè dove risiedono e lavorano i membri dell’università». Gli si dovrà allora spiegare che l’università non è un’istituzione aggiuntiva, un ulteriore istituto simile ai college, ai laboratori e agli uffici che ha visto. L’università non è altro che il modo in 3. Dove «spettro» sta per «anima» o «mente» e «macchina» per «corpo». 4. Per tipo o categoria logica di un concetto Ryle intende l’insieme dei modi in cui, per convenzione, nel linguaggio ordinario, è lecito servirsi dei termini corrispondenti a essi. Tale tipo è detto anche semantico perché riguar-

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cui tutto quello che ha già visto viene organizzato. Una volta viste tutte quelle istituzioni e compreso il modo in cui esse sono coordinate fra loro, si è vista l’università. L’errore sta nell’assumere, in tutta innocenza, che sarebbe corretto parlare del Christ Church, della Bodleian Library, dell’Ashmolean Museum e dell’università, parlare cioè come se «l’università» designasse un nuovo membro della classe di cui anche queste altre unità sono membri. Lo straniero dell’esempio commetteva l’errore di assegnare l’università alla medesima categoria a cui appartengono le altre istituzioni. Lo stesso errore verrebbe commesso da un bambino che, assistendo alla sfilata di una divisione militare, una volta indicatigli i battaglioni, le batterie, gli squadroni ecc., chiedesse quando farà la sua comparsa la divisione. Così facendo, il bambino mostra di ritenere che una divisione sia una controparte delle unità già viste, in parte simile e in parte dissimile. [...] non nego che abbiano luogo processi mentali. Eseguire una lunga divisione è un processo mentale e lo è anche fare una battuta. Tuttavia, l’espressione «hanno luogo processi mentali» non ha lo stesso significato di «hanno luogo processi fisici», e perciò non ha senso congiungere o disgiungere le due frasi. Se la mia argomentazione funziona, ne deriveranno alcune conseguenze interessanti. Primo, si dissolverà la venerata contrapposizione fra mente e materia, ma questo non già in virtù dell’altrettanto venerata assimilazione della mente alla materia o della materia alla mente, bensì in modo completamente differente. Infatti, si scoprirà che l’apparente contrapposizione fra mente e materia è illegittima proprio come lo sarebbe contrapporre «Tornò a casa in un fiume di lacrime» a «Tornò a casa in una portantina»5.

da la relazione tra il segno (la parola) e ciò che esso designa. Nel caso particolare, l’errore categoriale consiste nell’attribuire i fatti mentali al tipo o categoria che non è appropriato a essi. Ryle chiama ciò un mito, intendendo per mito «un presentare certi fatti in un idioma non appropriato», sicché il far sal-

18. la filosofia analitica

tare un mito – che è appunto l’obiettivo di Ryle – non consiste nel negare questi fatti, ma nel restituire questi fatti al tipo di linguaggio, ossia alle categorie o tipi logici appropriati a essi. 5. Questi due enunciati appartengono a categorie o tipi logici diversi e, quindi, secondo Ryle, non ha senso né è le-

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Ritenere che mente e materia siano opposte in maniera antitetica significa credere che si tratti di termini appartenenti al medesimo genere logico. Ne segue pure che tanto l’idealismo quanto il materialismo rispondono a una domanda non appropriata. «Ridurre» il mondo materiale a stati e processi mentali, così come «ridurre» stati e processi mentali a stati e processi fisici, sono operazioni che si basano sull’assunzione che sia legittima la disgiunzione «O esistono menti o esistono corpi (ma non entrambi)». Ma questo sarebbe come dire: «O ha comprato un guanto sinistro e un guanto destro, oppure ha comprato un paio di guanti (ma non entrambe le cose)». È perfettamente appropriato dire che esistono menti, e dirlo con un determinato tono di voce, che presuppone una certa logica. È perfettamente appropriato anche dire che esistono corpi, e dirlo con un altro tono di voce, che presuppone una logica diversa. Tuttavia, queste espressioni non indicano due diverse specie di esistenza, perché «esistenza» non è una parola che rimanda a un genere, come «colorato» o «sessuato». Esse indicano, invece, due sensi differenti di «esistere», un po’ come «cresce» ha sensi differenti in «cresce la marea», «cresce la speranza» e «la longevità media cre-

cito costruire proposizioni congiuntive tra essi. Per esempio, ha senso congiungere i due enunciati «ho comprato un guanto destro» e «ho comprato un guanto sinistro», ma non dire che si è comprato un guanto destro, uno sini-

sce». Se qualcuno dicesse che ci sono tre cose che crescono, la marea, le speranze e la longevità, si penserebbe che stia facendo una battuta e nemmeno troppo brillante. Sarebbe una battuta poco brillante anche dire che esistono numeri primi, mercoledì, opinioni pubbliche e flotte, o che esistono menti e corpi. Nei prossimi capitoli proverò a dimostrare che la teoria ufficiale poggia su un gruppo di errori categoriali, mostrando che da essa discendono corollari assurdi. Esporre tutte queste assurdità avrà l’effetto positivo di portare alla luce la corretta logica dei concetti indicanti la condotta mentale o, se non altro, una parte di essa.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché Ryle battezza la «dottrina ufficiale» di Cartesio come «dogma dello spettro nella macchina»? 2. Qual è l’errore categoriale da cui è afflitto il «dogma dello spettro nella macchina»? 3. Quali sono le posizioni dell’idealismo e del materialismo in merito al problema mente-corpo? 4. Perché, secondo Ryle, sia l’idealismo sia il materialismo non danno una risposta soddisfacente al problema mente-corpo?

stro e un paio. Ora, è proprio questo che, secondo Ryle, fa il mito dello spettro nella macchina, quando sostiene che esistono corpi ed esistono menti: esso produce insomma una confusione fra tipi logici diversi, dotati di diverso

significato, in quanto dire che esistono processi mentali non ha lo stesso significato del dire che esistono processi fisici.

i testi

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t52 Searle / La camera cinese Searle

Mente, cervello e intelligenza

cap. II

La polemica di John Searle contro i riduzionisti dell’intelligenza artificiale è condotta soprattutto in Mente, cervello e intelligenza del 1980. Per dimostrare la sua tesi, in base alla quale i calcolatori dispongono soltanto di una sintassi, mentre la mente umana opera anche con una semantica, egli si serve di un esperimento mentale noto come l’argomento della «stanza cinese». Un individuo che non conosce il cinese è chiuso in una stanza con tanti cesti che contengono simboli cinesi e un manuale che illustra la sintassi della lingua cinese (che può equivalere a un programma informatico per la combinazione dei dati). Se a tale individuo vengono proposti altri cesti contenenti domande in cinese, egli sarà in grado, servendosi delle istruzioni sintattiche, di fornire combinazioni di simboli che possano valere come risposte. Ma egli non intenderà il significato né delle domande né delle risposte, perché non è in grado di afferrare il senso dei simboli, pur sapendo connetterli in maniera formalmente corretta secondo le regole della sintassi. Nello stesso modo i computer possono sviluppare programmi che implicano connessioni formali (sintattiche) tanto complesse da non poter essere seguite da nessuna mente umana, ma non sono in grado di comprendere il significato di una frase pronunciata da un bambino di cinque anni.

È essenziale per la nostra concezione di un calcolatore digitale che le sue operazioni possano essere descritte in modo puramente formale; vale a dire, noi descriviamo i passi nell’operazione del calcolatore in termini di simboli astratti – sequenze di 0 e 1 stampate su nastro, per esempio1. Una tipica «regola» da calcolatore determinerà che, quando una macchina è in un certo stato e ha un certo simbolo sul suo nastro, allora compirà una certa operazione, come cancellare il simbolo o stampare un altro simbolo, e poi entrerà in un altro stato, come muovere il nastro a sinistra di un blocco. Ma i simboli non hanno significato; non hanno nessun contenuto semantico; non stanno in luogo di nulla. Devono essere descritti unicamente nei termini della loro struttura formale o sintattica. Gli 0 e gli 1, per esempio, sono semplicemente dei numerali; non stanno nemmeno per numeri. In realtà, è questa loro caratteristica che rende i calcolatori digitali così potenti. Uno e lo stesso tipo di hardware, se progettato in maniera appropriata, può essere usato per

1. È noto che i computer procedono

con il sistema binario (1 e 0), in modo che ogni passaggio è compiuto attraverso una scelta dicotomica tra due alternative. 2. Sin d’ora è chiara la posizione di Se-

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lanciare un numero indefinitamente vasto di tipi differenti di hardware2. Ma questa caratteristica dei programmi, cioè che sono definiti in modo puramente formale o sintattico, è fatale per la posizione secondo cui processi mentali e processi dei programmi sono identici. E la ragione può essere detta con molta semplicità. C’è qualcosa di più nell’avere una mente che nell’avere processi formali o sintattici. I nostri stati mentali interni, per definizione, hanno certi tipi di contenuti. Se sto pensando a Kansas City, o se sto desiderando di avere una birra fresca da bere, o se mi sto domandando se ci sarà una caduta del tasso di sconto, in ogni caso i miei stati mentali hanno un certo contenuto mentale in aggiunta a qualsiasi caratteristica formale che essi possano avere. Cioè, anche se i miei pensieri occorrono in me in stringhe di simboli, ci deve essere rispetto al pensiero qualcosa di più di semplici stringhe astratte, perché le stringhe in sé non possono avere nessun significato. Se i miei pensieri devono stare in luogo di qualcosa,

arle. I computer hanno possibilità di calcolo combinatorio al di là della portata della mente umana. Ma la loro capacità non va al di là dell’applicazione delle regole di combinazione dei simboli (sintassi) senza poter mai perveni-

18. la filosofia analitica

re alla comprensione dei significati inerenti ai simboli stessi (semantica). Tutto il seguito dell’argomentazione – esperimento mentale della «stanza cinese» compreso – riprenderà questo motivo.

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allora le stringhe devono avere un significato che faccia sì che i pensieri stiano in luogo di quelle cose. In poche parole, la mente ha qualcosa di più che una sintassi, ha una semantica. La ragione per cui nessun programma da calcolatore potrà mai essere una mente è semplicemente che un programma da calcolatore è soltanto sintattico, e le menti sono più che sintattiche. Le menti sono semantiche, nel senso che possiedono qualcosa di più di una struttura formale: esse hanno un contenuto. Per illustrare questo punto ho progettato un esperimento di pensiero. Immaginiamo che un gruppo di programmatori abbiano scritto un programma che metta in grado un calcolatore di simulare la comprensione del cinese. Così, per esempio, se si pone una domanda in cinese al calcolatore, esso la confronterà con il contenuto della sua memoria, o base di dati, e produrrà risposte appropriate alle domande in cinese. Supponiamo, per la bontà dell’argomento, che le risposte del calcolatore siano buone quanto quelle di un madrelingua cinese. Dunque, sulla base di questo il calcolatore capisce il cinese? capisce letteralmente il cinese nello stesso modo in cui i parlanti cinese capiscono il cinese? Be’, immaginate di essere chiusi a chiave in una stanza, e ci sono in questa stanza numerosi cesti pieni di simboli cinesi. Immaginate di non capire una parola di cinese (come me), ma che vi sia stato dato un libro di regole in inglese per manipolare questi simboli cinesi. Le regole descrivono le manipolazioni dei simboli in modo puramente formale, nei termini della loro sintassi, non della loro semantica. Una regola potrebbe perciò dire: «Prendi un segno squiggle-squiggle dal cesto numero 1 e mettilo di seguito a un segno squoggle-squoggle preso dal cesto numero 2». Supponiamo ora che altri simboli cinesi vengano introdotti nella stanza, e che vi siano state date altre regole per fare uscire dalla stanza dei simboli cinesi. Supponiamo che a vostra insaputa i simboli passati nella stanza siano chiamati «domande» dalla gente che sta fuori, e che i simboli che voi passate fuori siano chiamati «risposte alle domande». Supponiamo inoltre che i programmatori siano così bravi

nella realizzazione dei programmi, e che voi siate così bravi nel manipolare i simboli che ben presto le vostre risposte diventino indistinguibili da quelle di un madrelingua cinese. Voi ve ne state chiusi a chiave nella vostra stanza mescolando i vostri simboli cinesi che entrano. A partire da questa situazione non avete di sicuro alcun modo di imparare un minimo di cinese attraverso la semplice manipolazione di questi simboli formali. Il punto è dunque semplicemente questo: grazie all’applicazione di un programma formale da calcolatore dal punto di vista di un osservatore esterno, vi comportate esattamente come se voi capiste il cinese, anche se ugualmente non ne capite una parola. Ma se l’attraversare il programma da calcolatore appropriato per la comprensione del cinese non è sufficiente a fornire a voi una qualsiasi comprensione del cinese, allora questo non è sufficiente per fornire qualche comprensione del cinese a qualsiasi altro calcolatore digitale. Ed è di nuovo molto facile darne una spiegazione. Se voi non capite il cinese, allora nessun altro calcolatore potrà comprendere il cinese, perché nessun calcolatore digitale, proprio in virtù del fatto che sostiene l’esecuzione di un programma, ha qualcosa che voi non avete. Tutto ciò che un calcolatore ha, esattamente come voi, è un programma formale per manipolare simboli cinesi non interpretati. Ripetiamo: un calcolatore ha una sintassi, ma non ha semantica. La cosa importante della parabola della stanza cinese è che ci ricorda un fatto che già conoscevamo. Comprendere una lingua, o meglio, anche solo avere stati mentali, comporta di più che il semplice possesso di un mucchio di simboli formali. Comporta il possesso di un’interpretazione, o un significato associato a quei simboli. E un calcolatore digitale, per definizione, non può avere nulla di più che semplici simboli formali, perché il funzionamento del calcolatore, come ho già detto sopra, è definito nei termini della sua capacità di applicare programmi: programmi descrivibili in maniera puramente formale – vale a dire, che non hanno contenuto semantico. i testi

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è la caratteristica dei simboli con cui descriviamo le operazioni di un calcolatore? 2. Perché i processi dei programmi di un calcolatore e i processi mentali non possono essere identici? 3. Riassumi l’«esperimento mentale» sulla lingua cinese proposto da Searle. 4. Ricostruisci la tesi di Searle, secondo la quale «la mente ha qualcosa di più che una sintassi, ha una semantica». 5. Che cosa significa comprendere una lingua o avere degli stati mentali?

t53 Engelhardt / Tensione tra princìpi in bioetica Engelhardt

Manuale di bioetica

capp. I e III

Hugo Tristram Engelhardt jr. insegna Medicina e Medicina sociale al Baylor College of Medicine negli Stati Uniti, dirige il «Journal of Medicine and Philosophy» ed è attualmente uno dei maggiori competenti nelle discussioni di bioetica. Nel 1986 ha pubblicato un volume dal titolo I fondamenti della bioetica, che è stato tradotto nel 1991 in italiano col titolo Manuale di bioetica. In esso sono affrontate le principali questioni in questo settore. Sono qui riportate le pagine, nelle quali Engelhardt mette in luce la tensione e i possibili conflitti che di volta in volta possono insorgere tra due princìpi etici, il principio di autonomia – che impone di rispettare la libertà dell’individuo, per esempio del paziente, e delle sue scelte – e il principio di beneficenza, che impone di tutelare i suoi migliori interessi, per esempio applicando determinate terapie.

Il ruolo della filosofia Dato che probabilmente ogni cultura particolare contiene un insieme di presupposti in qualche modo contrastanti, se non addirittura contraddittori, si è portati a tracciarne un’esposizione razionale e coerente nella misura in cui si cerchino risposte razionali e coerenti. Ciò esigerà che si divenga un geografo dei concetti e dei valori, che analizza e critica i vantaggi e gli svantaggi delle loro proiezioni e rappresentazioni alternative. Un’impresa del genere è filosofica; non si tratta di antropologia empirica o di sociologia. È un tentativo di risolvere un interrogativo intellettuale: «Come posso comprendere in maniera coerente quale sia la giusta condotta nelle professioni sanitarie e nelle scienze biomediche, e giustificarla nei confronti degli altri?». Non è il tentativo di stabilire che cosa, in una particolare società, la gente comunemente pensi a proposito della condotta giusta, né un tentativo di determina572

18. la filosofia analitica

re quale concezione apparirebbe più accettabile per la maggior parte delle persone. Si tratta, piuttosto, di uno sforzo di considerare le ragioni e di determinare quali dovrebbero essere accettate da individui razionali imparziali, liberi da pregiudizi e non condizionati da una cultura, interessati unicamente alla coerenza e alla forza dell’argomentazione razionale. Sebbene un tale punto di vista, libero da pregiudizi culturali, non possa essere pienamente raggiunto, l’obiettivo del suo raggiungimento può servire da idea-guida, che suggerisce una direzione da seguire nel tentativo di chiarire le proprie idee su una materia. Questo accostamento, anche nel caso che non possa fornire risposte definitive (e nonostante, come vedremo, non possa fondare un’etica concreta), può quanto meno far fare un passo avanti, fornendo alcuni tentativi di risposta, e indicando i motivi per cui alcune soluzioni di questioni morali sono migliori di altre in termini di coerenza, opportu-

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nità e forza delle possibili giustificazioni razionali. Questo accostamento intellettuale a un insieme di questioni importantissime (p. es., dichiariamo morto questo paziente adesso? Possiamo, dal punto di vista morale, spendere questi fondi per del buon whisky scozzese, piuttosto che per curare l’ipertensione delle popolazioni più povere?) è in definitiva inevitabile. Si può decidere di scegliere a proprio vantaggio, usando tutti i mezzi disponibili, e non pensare a nient’altro. Oppure si può fare appello alle intuizioni, alla propria coscienza, a ciò che sembra giusto, e farlo bastare. In entrambi i casi si rifiuta la morale come patto pacifico tra persone. Nel primo caso, non ci si preoccupa degli altri né come oggetti né come soggetti morali. Nel secondo caso, l’origine delle possibili azioni morali verso gli altri è irrazionale, irragionevole e inesplicabile per coloro che non condividono le medesime intuizioni morali. Semplicemente si dichiarano i propri sentimenti e si sostiene che coloro che non sono d’accordo hanno torto, in quanto sono privi della grazia delle proprie vere intuizioni. In entrambi i casi, non vi è un patto attraverso il quale dar vita alla comunità morale, se con ciò si intende una comunità fondata sul reciproco rispetto, non sulla forza. Al contrario, nella misura in cui ci si preoccupa di avere una giustificazione che possa valere per altri individui ragionevoli, si entra in una struttura di idee e giustificazioni. Non appena si fa una scelta, come una decisione che si vorrebbe cercare di giustificare, quella scelta e le azioni che da essa derivano si inseriscono dentro una geografia di idee che richiede un’analisi filosofica o etica per fornire orientamento e giustificazione. (P. es., «Sto per dichiarare quel paziente morto, perché il suo intero cervello è morto.» Perché questa è una ragione sufficiente? «Perché l’esistere come persona richiede almeno una minima facoltà di sentire, e le capacità di sentire sono garantite dal cervello.») [...]

Princìpi della bioetica Alle radici più profonde dell’etica vi è una tensione. Essa nasce dal contrasto tra il rispetto

della libertà delle persone e la tutela dei loro migliori interessi. Questa tensione si riflette continuamente nell’assistenza sanitaria. Spesso i pazienti scelgono di assumere comportamenti che i medici e gli infermieri sanno essere pericolosi, probabilmente invalidanti e alla fine, forse, letali. Per rispetto verso quelle persone, medici e infermieri debbono tollerare spesso, se non sempre, degli stili di vita nocivi o dei rifiuti di acconsentire al trattamento. Tuttavia, medici e infermieri, intraprendendo la professione sanitaria, si sono consacrati al perseguimento dei migliori interessi dei pazienti. La discussione condotta nello scorso capitolo indica che si tratta di una tensione radicale. Questo capitolo corroborerà quell’indicazione mediante l’elaborazione di due princìpi etici confliggenti: quello di autonomia e quello di beneficenza. È tenendo presente il contrasto tra questi due princìpi che dev’essere intesa la tensione morale avvertita in molte scelte riguardanti l’aborto, il consenso al trattamento o il rifiuto dell’assistenza sanitaria. Autonomia e beneficenza sono princìpi in due sensi. In primo luogo, riassumono sotto due titoli una gamma di problemi e preoccupazioni morali. Ma sono princìpi anche nel senso che indicano due radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nell’assistenza sanitaria. [...]

Le tensioni tra i princìpi Né il principio di autonomia né quello di beneficenza sono giustificati sulla base delle loro conseguenze. Sono piuttosto riassunti di aree inevitabili della condotta personale. Sono in questo senso princìpi deontologici, in quanto la loro giustezza non è definita sulla base delle loro conseguenze. Tuttavia, è probabile che le regole concrete della beneficenza siano teleologiche, essendo giustificate sulla base delle loro conseguenze. Le applicazioni concrete del principio di autonomia, al contrario, vincolano anche se hanno conseguenze negative per la libertà. Il principio di autonomia, che è giustificato sulla base della morale del rispetto reciproco, non concentra l’attenzione sulla libertà come valore, ma sul rispetto della libertà i testi

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come condizione di possibilità dell’autorità morale generale e del merito giustificato di biasimo ed elogio. Non è orientato ai fini o alle conseguenze (cioè, teleologico). Gli accordi medico-paziente (p. es., l’impegno assunto da un medico di tenere riservate le rivelazioni di un paziente) vincolano sulla base del principio di autonomia, indipendentemente dalle loro conseguenze. Anche le regole sul consenso libero e informato, basate sul rispetto reciproco, vincolano indipendentemente dalle loro conseguenze. La sfera del principio di autonomia, nella sua applicazione, rimane nel suo nucleo deontologica. Fonda diritti e obblighi indipendentemente dalla preoccupazione di conseguire ciò che è bene ed evitare ciò che è male. La sfera del principio di beneficenza, nella sua applicazione, diviene teleologica. Fonda diritti e obblighi particolari sulla base del fatto che essi portano a conseguire ciò che è bene e a evitare ciò che è dannoso (anche se il principio generale non è giustificato in questo modo). Una regola particolare di beneficenza che causasse più male che bene perderebbe la sua giustificazione. Così, una regola per la distribuzione delle risorse dell’assistenza sanitaria su basi di beneficenza verrebbe eliminata se non producesse più benefici delle regole alternative. I due princìpi, quindi, conducono a sfere contrastanti del discorso morale: una orientata deontologicamente, l’altra teleologicamente.

Queste dimensioni della morale sembrano abbastanza distinte da permettere un’importante forma di tensione. Un atto può essere giustificato entro una dimensione della morale ma non entro l’altra. Perciò, si hanno conflitti del tipo generale «C ha il diritto (l’obbligo) di fare L, ma questo è sbagliato». Si può portare come esempio di questa formula generale: «i medici hanno il diritto di fare ciò che vogliono del loro tempo libero, anche quando potrebbero facilmente dedicare una piccola parte di quel tempo libero ad aiutare i pazienti indigenti, ma è sbagliato non usare un po’ di questo tempo per aiutare questi pazienti». Vi è un conflitto fra la morale del rispetto reciproco e quella dello stato di benessere. Eppure, non è possibile specificare la morale dello stato di benessere senza appellarsi all’accordo reciproco e perciò alla morale del rispetto reciproco. GUIDA ALLA LETTURA 1. In che cosa si differenzia il compito del filosofo da quello del sociologo o dell’antropologo in relazione alla giusta condotta da avere nelle professioni sanitarie? 2. Quali sono le circostanze in cui si rifiuta la morale come patto pacifico tra persone? 3. Qual è la tensione morale avvertita alla base di molte scelte in campo medico-sanitario? 4. Spiega la distinzione tra sfera deontologica e sfera teleologica del discorso morale.

esercizi/18 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale

2. Evidenzia il compito della filosofia per Ryle.

1. Evidenzia i compiti che Ayer assegna all’analisi del linguaggio.

3. Evidenzia il compito che Quine assegna alla logica.

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esercizi/18

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esercizi/18 4. Evidenzia la tesi sostenuta da Quine in Parola e oggetto.

16. Perché, secondo Rorty, la filosofia – da Cartesio in poi – è venuta a identificarsi con l’epistemologia?

5. Evidenzia che cosa intende Rorty per ironia e per solidarietà?

17. Che cosa dimostra il test di Turing, secondo i sostenitori dell’intelligenza artificiale?

6. Evidenzia in che modo Putnam si oppone al relativismo antropologico e culturale.

18. Quali sono, secondo Rawls, i princìpi di giustizia?

7. Evidenzia in che cosa consistono, secondo Davidson, gli eventi mentali. 8. Evidenzia quali sono le due principali posizioni in cui si articola il dibattito bioetico. Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti: errori categoriali (Ryle) • constatativo e performativo (Austin) • olismo (Quine) • conversazione (Rorty) • realismo interno (Putnam) • meta-etica (Hare)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. Qual è, secondo Ryle, la causa maggiore delle assurdità a cui può dar luogo il linguaggio filosofico? 11. In che modo Ryle attacca il dualismo cartesiano di mente-corpo? 12. In che cosa consiste la fallacia descrittiva spesso presente nell’analisi del linguaggio, secondo Austin? 13. Che differenza c’è, secondo Quine, tra analitico e sintetico? 14. Che rapporto c’è, secondo Quine, tra le nozioni di schema concettuale e di relatività ontologica? 15. In che modo Davidson affronta il problema del significato?

esercizi/18

Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 19. Perché, secondo Ryle, il termine «intelligenza» – usato nel linguaggio ordinario – non si riferisce a un’entità metafisica (ad esempio l’anima), ma a un comportamento? 20. Illustra la teoria dell’indeterminatezza della traduzione elaborata da Quine. 21. In che cosa consiste la tesi del monismo anomalo sostenuta da Davidson in relazione al problema mente-corpo? 22. Perché Davidson estende all’interpretazione il principio di carità introdotto da Quine? 23. Qual è il compito che Ryle e Rorty attribuiscono alla filosofia? Perché? 24. Ricostruisci il percorso teorico che dalla riflessione sul binomio linguaggio-conoscenza approda al problema dell’intelligenza artificiale. 25. Quali sono le implicazioni filosofiche che la discussione sull’intelligenza artificiale ha aperto? 26. Illustra la differenza tra competenza sintattica e competenza semantica, secondo Searle. 27. Illustra la tesi di Hare secondo cui le proposizioni morali implicano tutte un principio di universalizzabilità. 28. Illustra il procedimento con cui Rawls elabora la teoria della giustizia come «primo requisito delle istituzioni sociali».

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3. LE EREDITÀ DI HEGEL E IL MARXISMO Testi La sinistra hegeliana, a cura di K. Löwith, trad. di C. Cesa, Laterza, Bari 1969; Gli hegeliani liberali, a cura di H. Lübbe, trad. di G. Oldrini, Laterza, Roma-Bari 1982; G. Bonacina, La scuola hegeliana e gli “Annali per la critica scientifica” (1827-1831), Guerini, Milano 1997. L. Feuerbach, Opere, a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 1965; Principi della filosofia dell’avvenire, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1946; L’essenza del cristianesimo, a cura di C. Cometti, Feltrinelli, Milano 1971 e a cura di F. Tomasoni, Laterza, Roma-Bari 1997; L’essenza della religione, a cura di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972 e a cura di C. Ascheri, C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1985; Spiritualismo e materialismo, a cura di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari 1993. K. Marx-F. Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1972 sgg.; La Sacra Famiglia, a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1967; L’ideologia tede-

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7. IL PRAGMATISMO Testi Ch.S. Peirce, Opere, Bompiani, Milano 2003; Scritti scelti, Utet, Torino 2008; Scritti di logica, Nuova Italia, Firenze 1981; Scritti di filosofia, Fabbri, Milano 2005; Pragmatismo e pragmaticismo, Liviana, Padova 1966; Semiotica, Einaudi, Torino 1980; Le leggi dell’ipotesi. Antologia dai Collected Papers, Bompiani, Milano 2002; Categorie, a cura di R. Fabbrichesi Leo, Laterza, Roma-Bari 1992. W. James, Principi di psicologia, a cura di G. Preti, Principato, Milano-Messina 1950; Pragmatismo, Aragno, Milano 2007; La volontà di credere e altri saggi, a cura di C. Sini, Rizzoli, Milano 1984; Saggi sull’empirismo radicale, Laterza, Bari 1971; Le varie forme della coscienza religiosa: uno studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 2009. J. Dewey, Natura e condotta dell’uomo. Introduzione alla psicologia sociale, a cura di L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1977; Esperienza e natura, a cura di P. Bairati, Mursia, Milano 1990; La ricerca della certezza, a cura di M. Tioli Gabrieli, La Nuova Italia, Firenze 1968; L’arte come esperienza e altri scrittti, La Nuova Italia, Scandicci 1995; Logica, teoria dell’indagine, a cura di A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1974; Logica sperimentale: teoria naturalistica dell’esperienza e del pensiero, Quodlibet, Macerata 2008; Teoria della

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valutazione, a cura di F. Brancatisano, La Nuova Italia, Firenze 1981. F.H. Bradley, Apparenza e realtà, a cura di D. Sacchi, Rusconi, Milano 1984. G.E. Moore, La confutazione dell’idealismo, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969; Principia ethica, a cura di N. Abbagnano, trad. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1972; Studi filosofici, a cura di G. Preti, Laterza, Bari 1971.

Studi critici • C. Sini, Il pragmatismo americano, Laterza, Bari 1972; A. Santucci, Storia del pragmatismo, Laterza, Roma-Bari 1992; M.R. Calcaterra, Introduzione a Il pragmatismo americano, Laterza, RomaBari 1997; J.P. Murphy, Il pragmatismo, Il Mulino, Bologna 1997; C. West, La filosofia americana, Editori Riuniti, Roma 1997. • N. Bosco, La filosofia pragmatica di C.S. Peirce, Edizioni di Filosofia, Torino 1959; W.B. Gallie, Introduzione a C.S. Peirce e il pragmatismo, GiuntiBarbera, Firenze 1965; R. Fabbrichesi Leo, Sulle tracce del segno. Semiotica, faneroscopia e cosmologia nel pensiero di Charles S. Peirce, La Nuova Italia, Firenze 1986; G. Proni, Introduzione a Peirce, Bompiani, Milano 1990. • M. Knight, Introduzione a William James, Editrice Universitaria, Firenze 1963; Il pensiero di William James, a cura di A. Santucci, Loescher, Torino 1963 (antologia); P. Guarnieri, Introduzione a James, Laterza, Roma-Bari 1985; G. Riconda, Invito al pensiero di James, Mursia, Milano 1999; G. Maddalena, Metafisica per assurdo: Peirce e i problemi dell’epistemologia contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. • A. Bausola, L’etica di Dewey, Vita e Pensiero, Milano 1960; A. Granese, Introduzione a Dewey, Laterza, Roma-Bari 19994; V. Milanesi, Logica della valutazione ed etica naturalistica in Dewey, Liviana, Padova 1977; C. Fasalli, John Dewey. Una filosofia del diritto per la democrazia, Clueb, Bologna 1988; A. De Maria, Invito al pensiero di Dewey, Mursia, Milano 1990; M. Alcaro, John Dewey. Scienza, prassi, democrazia, Laterza, RomaBari 1997; L. Hickman, La tecnologia pragmatica di John Dewey, Armando, Roma 2000; B. Piatti

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Morganti, John Dewey: i giochi dell’immaginazione nella vita della mente, Argalìa, Urbino 2007. • M.A. La Torre, Metafisica e gnoseologia. Studio sul pensiero di F.H. Bradley, Liguori, Napoli 1989; G. Rametta, La metafisica di Bradley e la sua ricezione nel primo Novecento, Cleup, Padova 2006. • A. Granese, G.E. Moore e la filosofia analitica inglese, La Nuova Italia, Firenze 1970; E. Lecaldano, Introduzione a Moore, Laterza, Roma-Bari 1988.

8. IL NEOIDEALISMO ITALIANO Testi B. Spaventa, Opere, a cura di G. Gentile, Sansoni, Firenze 1972. A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1969; Saggi sul materialismo storico, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Editori Riuniti, Roma 1969; Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 2 voll., Einaudi, Torino 1976. B. Croce, Opere, Laterza, Bari (in numerosi volumi); una nuova edizione è in corso presso Adelphi, Milano e un’altra presso Bibliopolis, Napoli. G. Gentile, Opere, Sansoni, Firenze (in numerosi volumi); una nuova edizione è in corso presso Le Lettere, Firenze.

Studi critici • G. Vacca, Politica e filosofia in B. Spaventa, Laterza, Bari 1967; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1973; Id., Napoli e i suoi filosofi, Angeli, Milano 1990; S. Poggi, Introduzione a Labriola, Laterza, Roma-Bari 1982; Antonio Labriola. Celebrazioni del centenario della morte, a cura di L. Punzo, 3 voll., Edizioni dell’Università di Cassino, Cassino 2006. • E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari 1955; Id., La cultura italiana tra ’800 e ’900, Laterza, Bari 1962; Id., Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 19872; N. Badaloni-C. Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Laterza, Roma-Bari 1981; Il neoidealismo italiano, a cura di P. Di Giovanni, Laterza, Roma-Bari 1988; Itinerari dell’idealismo italiano, a cura di G. bibliografia

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10. L’ESISTENZIALISMO, HEIDEGGER, L’ERMENEUTICA Testi K. Jaspers, Ragione ed esistenza, trad. di E. Paci, Bocca, Milano 1942; trad. di A. Lamacchia, Marietti, Casale Monferrato 1971; La mia filosofia, a cura di R. De Rosa, Einaudi, Torino 1946; La colpa della Germania, trad. di R. De Rosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1947; Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950;

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La bomba atomica e il destino dell’uomo, trad. di L. Quattrocchi, Il Saggiatore, Milano 1960; La Germania tra libertà e riunificazione, trad. di A. Spinelli, Comunità, Milano 1961; Psicologia generale, trad. di R. Priori, Il pensiero scientifico, Roma 1964; Origine e senso della storia, trad. di A. Guadagnin, Comunità, Milano 1965; La filosofia dell’esistenza, trad. di O. Abate, Bompiani, Milano 19673; Max Weber politico, scienziato, filosofo, trad. di E. Pocar, Morano, Napoli 1969; Autobiografia filosofica, trad. di E. Pocar, Morano, Napoli 1969; Ragione e antiragione del nostro tempo, trad. di G. Saccomanno, Sansoni, Firenze 1970; Filosofia, trad. di U. Galimberti, 3 voll., Mursia, Milano 1972-78 (in un solo volume, Utet, Torino 1978); La fede filosofica, trad. di U. Galimberti, Marietti, Torino 1973; I grandi filosofi, trad. di F. Costa, Longanesi, Milano 1973; Cifre della trascendenza, trad. di G. Penzo, Marietti, Genova 1990. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. di P. Chiodi, Bocca, Milano 1953 (nuova edizione rivista, Utet, Torino 1969, contenente anche L’essenza del fondamento; nuova edizione a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005); Sentieri interrotti, trad. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968; Introduzione alla metafisica, trad. di G. Masi, Mursia, Milano 1968; La dottrina del significato nello psicologismo, trad. di A. Babolin, La Garangola, Padova 1972; In cammino verso il linguaggio, trad. di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973; La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, trad. di A. Babolin, Laterza, Roma-Bari 1974; Saggi e discorsi, trad. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976; Che cosa significa pensare?, trad. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1978-79; Che cos’è la filosofia?, trad. di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1981 (testo tedesco a fronte); L’abbandono, trad. di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1983; Logica. Il problema della verità, trad. di U. Ugazio, Mursia, Milano 1986; Segnavia, trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987; Ormai solo un dio ci può salvare, a cura di A. Marini, Guanda, Milano 1987; La poesia di Hölderlin, trad. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988; Domande fondamentali della filosofia, trad. di U. Ugazio, Mursia, Milano 1988; I problemi fondamentali della fenomenologia, trad. di A. Fabris, Il Melangolo, bibliografia

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va 1987; Il problema della coscienza storica, trad. di G. Bartolomei, Guida, Napoli 19883; L’attualità del bello. Saggi di estetica ermeneutica, trad. di R. Dottori, Il Melangolo, Genova 19882; Elogio della teoria, a cura di F. Volpi, Guerini, Milano 1989; Verità e metodo 2, a cura di R. Dottori, Bompiani, Milano 1996.

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18. LA FILOSOFIA ANALITICA Testi A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, a cura di G. De Toni, Feltrinelli, Milano 1961; Il concetto di persona e altri saggi, a cura di F. Mondadori e E. Renzi, Il Saggiatore, Milano 1966; Il problema della conoscenza, a cura di F. Costa, La Nuova Italia, Firenze 1967; Bilancio filosofico, a cura di G. Ferrara, Laterza, Roma-Bari 1976. G. Ryle, Lo spirito come comportamento, a cura di

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F. Rossi-Landi, Einaudi, Torino 1955; Dilemmi, a cura di E. Mistretta, Ubaldini, Roma 1968; Animale ragionevole, a cura di E. Riverso, Armando, Roma 1977; Per una lettura di Platone, pref. di G. Cambiano, Guerini, Milano 1991. J.L. Austin, Senso e sensibilia, a cura di W.L. Antuono, Lerici, Roma 1968; Come fare cose con le parole, a cura di C. Penco e M. Sbisà, Marietti, Genova 1987; Saggi filosofici, a cura di P. Leonardi, Guerini, Milano 1990. W. van O. Quine, Manuale di logica, a cura di M. Pacifico, Feltrinelli, Milano 1960; Il problema del significato, a cura di E. Mistretta, Ubaldini, Roma 1966; Parola e oggetto, a cura di F. Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1970; I modi del paradosso e altri saggi, a cura di M. Santambrogio, Il Saggiatore, Milano 1975; Logica e grammatica, a cura di D. Benelli e P. Parrini, Il Saggiatore, Milano 1981; Saggi filosofici. 1970-1981, a cura di M. Leonelli, Armando, Roma 1982; La relatività ontologica e altri saggi, a cura di M. Leonelli, Armando, Roma 1985; Dallo stimolo alla scienza, a cura di G. Rigamonti, Il Saggiatore, Milano 2001. D. Davidson, Azioni ed eventi, a cura di R. Brigati ed E. Picardi, Il Mulino, Bologna 1992; Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, a cura di G. Millone e R. Salizzoni, intr. di D. Marconi e G. Vattimo, Bompiani, Milano 1986; Conseguenze del pragmatismo, a cura di F. Elefante, Feltrinelli, Milano 1986; La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, a cura di G. Boringhieri e A.G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1989; Scritti filosofici, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1993-94. H. Putnam, Ragione, verità e storia, a cura di A.N. Radicati di Brozolo e S. Veca, Il Saggiatore, Milano 1985; Mente, linguaggio e realtà, a cura di R. Cordeschi, Adelphi, Milano 1987; Il pragmatismo: una questione aperta, Laterza, Roma-Bari 1992; Matematica, materia e metodo, Adelphi, Milano 1993; Realismo dal volto umano, Il Mulino, Bologna 1995; Etica senza ontologia, a cura di E. Carli e L. Perissinotto, Bruno Mondadori, Milano 2005. J. Searle, Atti linguistici, a cura di G. Cardona, Boringhieri, Torino 1976; Dell’intenzionalità: un bibliografia

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saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, Milano 1985; Mente, cervello, intelligenza, Bompiani, Milano 1987; La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994; Mente, linguaggio, società, a cura di E. Carli e M.V. Bramè, Cortina, Milano 2001; La costruzione della realtà sociale, a cura di A. Bosco, Einaudi, Torino 2006. Antologia di saggi: L’io della mente, a cura di D.R. Hofstadter e D.C. Dennett, Adelphi, Milano 1985; La filosofia degli automi, a cura di V. Somenzi e R. Cordeschi, Boringhieri, Torino 1986; L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, a cura di G. Giorello e P. Strata, Laterza, Roma-Bari 1991; La filosofia analitica, a cura di F. D’ Agostini e N. Vassallo, Einaudi, Torino 2002. R.M. Hare, Il linguaggio della morale, a cura di M. Borioni e F. Palladini, Ubaldini, Roma 1968; Libertà e ragione, a cura di M. Borioni e F. Palladini, Il Saggiatore, Milano 1971; Il pensiero morale, a cura di E. Lecaldano, Il Mulino, Bologna 1989; Saggi di teoria etica, Il Saggiatore, Milano 1992; Scegliere un’etica, a cura di L. Ceri, Il Mulino, Bologna 2006. J. Rawls, Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1982; Liberalismo politico, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano 1994; Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Torino 2001; Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Torino 2001; Giustizia come equità: una riformulazione, a cura di S. Veca e G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 2006; Lezioni sulla storia della filosofia politica, a cura di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2009; Leggere Rawls, a cura di V. Ottonelli, Il Mulino, Bologna 2010. T.H. Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999.

Studi critici • J.O. Urmson, L’analisi filosofica. Origini e sviluppo della filosofia analitica, Mursia, Milano

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bibliografia

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le fonti

Presentiamo qui, per ciascun autore, le edizioni di riferimento utilizzate nelle sezioni antologiche di ciascun capitolo. Arendt, Vita activa, a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano 1964 [t39]. Barth, L’epistola ai Romani, trad. di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1962 [t40]. Bergson, Opere, 1889-96, a cura di P.A. Rovatti, trad. di F. Sossi, Mondadori, Milano 1986 [t17]; L’evoluzione creatrice. Estratti, a cura di O. Montani, Signorelli, Roma 1958 [t18]. Bonhoeffer, Resistenza e resa, trad. di S. Bologna, Bompiani, Milano 1969 [t41]. Carnap, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969 [t48]. Comte, Discorso sullo spirito positivo, a cura di A. Negri, Laterza, Roma-Bari 1985 [t10]. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 19509 [t24]. Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale (1872), trad. it. di L. Fratini, Introduzione di G. Montalenti, Boringhieri, Torino 1967 [t12]. Dewey, Intelligenza creativa, a cura di L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze 1957 [t23]. Dilthey, I tipi di intuizione del mondo e la loro elaborazione nei sistemi metafisici, trad. it. in Lo storicismo tedesco, a cura di P. Rossi, Utet, Torino 1977 (antologia) [t19].

Foucault, La volontà di sapere, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1984 [t44]. Freud, Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1966 [t32]: trad. it. di E. Fachinelli e H. Trettl Fachinelli; Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978 [t33]: trad. di E. Sagittario. Gadamer, Verità e metodo, trad. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983 [t31]. Gentile, Genesi e struttura della società, Sansoni, Firenze 1946 [t25]. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975 [t34]. Heidegger, Essere e tempo, trad. di P. Chiodi, Bocca, Milano 1953 (nuova edizione rivista, Utet, Torino 1969, contenente anche L’essenza del fondamento) [t28-29]; Segnavia, trad. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987 [t30]. Husserl, in S. Poggi, Husserl e la fenomenologia, Sansoni, Firenze 1973 [t26]; La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961 [t27]. Horkheimer, Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, a cura di L. Vinci, Einaudi, Torino 1966 [t36].

Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1991 [t53].

James, La volontà di credere e alri saggi, a cura di C. Sini, Rizzoli, Milano 1984 [t22].

Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, a cura di C. Cometti, Feltrinelli, Milano 1971 [t5].

Kierkegaard, Briciole di filosofia e Postilla conclusiva non scientifica, a cura di C. Fabro, le fonti

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Zanichelli, Bologna 1962 [t3]; Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1965 [t4]. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, a cura di A. Carugo, Einaudi, Torino 1969 [t50]. Lukács, Storia e coscienza di classe, a cura di G. Piana, Sugar, Milano 1967 [t35]. Marcuse, Eros e civiltà, a cura di L. Bassi, Einaudi, Torino 19682 [t37]. Marx, Opere filosofiche giovanili, a cura di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1963 [t6]; La sinistra hegeliana, a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 19662 [t7]. Marx, Engels, L’ideologia tedesca, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1969 [t8]; Manifesto del partito comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1967 [t9]. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965 [t43]. Mill, Utilitarismo, trad. di G. Facchi, in Il pensiero di John Stuart Mill. Un’antologia degli scritti, Loescher, Torino 1963 [t11]. Nietzsche, La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, I-III, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano 1972 [t14]; La gaia scienza. Idilli di Messina e Frammenti postumi (1881-1882), a cura di F. Masini, Adelphi, Milano 19670 [t15]; Così parlò Zarathustra, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968 [t16].

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le fonti

11:03

Pagina 600

Popper, Logica della scoperta scientifica, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970 [t49]. Russell, Logica e conoscenza, a cura di L. Tavolini, Longanesi, Milano 1961 [t45]. Ryle, Il concetto di mente, trad. di G. Pellegrino, Prefazione di D.C. Dennett, Laterza, RomaBari 2007 [t51]. Sartre, L’essere e il nulla, a cura di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 19652 [t42]. Schmitt, Le categorie del «politico», a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972 [t38]. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1991 [t1]; Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1982 [t2]. Searle, Mente, cervello e intelligenza, Bompiani, Milano 1987 [t52]. Spencer, Primi princìpi, trad. di P. Rossi, in Positivismo e società industriale, Loescher, Torino 1973 (antologia) [t13]. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. di A. Oberdorfer, La Nuova Italia, Firenze 1930 [t20]; Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1968 [t21]. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-16, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964 [t46]; Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967 [t47].

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indice dei nomi

L’indice non riporta i nomi che compaiono nei brani antologizzati. I numeri in corsivo indicano le pagine nelle quali un autore è trattato dettagliatamente, i numeri in neretto indicano le pagine che comprendono i brani antologici utili per la conoscenza del suo pensiero.

Abbagnano, Nicola, 310, 446. Adler, Alfred, 335, 341. Adorno, Theodor Wiesengrund, 338, 360-61, 363-66, 373, 382-85, 401, 404, 526. Agostino d’Ippona, santo, 292. Althusser, Louis, 370-71, 373. Altizer, Thomas, 425-26. Ampère, André-Marie, 85. Anscombe, Elisabeth, 489. Apel, Karl Otto, 402-4, 405-6. Ardigò, Roberto, 101-2. Arendt, Hannah, 290, 398401, 405, 409-11. Aristotele, 43, 103, 258, 291, 308, 363, 478. Aron, Raymond, 441. Assmann, Hugo, 428. Austin, John Langshaw, 55354, 563-64. Avogadro, Amedeo, 85. Ayer, Alfred Jules, 517, 552. Bachelard, Gaston, 370. Bachofen, Jakob, 338. Bacone, Francesco, 103, 363. Badoglio, Pietro, 229. Bakunin, Michail, 42, 46.

Barth, Karl, 416, 418-19, 423, 429-30, 431-33, 446. Bauer, Bruno, 37. Beauvoir, Simone de, 441, 446. Beccaria, Cesare, 91. Benjamin, Walter, 358, 35960, 373. Bentham, Jeremy, 90-91, 92, 95, 102. Berg, Alban, 364. Bergson, Henri, 155-66, 18283, 186-92, 207, 336, 532. Berkeley, George, 158, 267. Bernays, Martha, 326. Bernstein, Eduard, 61, 360. Berthollet, Claude-Louis, 85. Bloch, Ernst, 358-59, 373, 427, 430. Bobbio, Norberto, 352. Boff, Leonardo, 428. Bohr, Niels, 516. Bolyai, Janos, 515. Bolzano, Bernhard, 260, 479. Bonhoeffer, Dietrich, 422-24, 425, 429-30, 434-35. Bonomi, Ivanoe, 229. Boole, George, 478. Boutroux, Emile, 154-55, 182.

Bradley, Francis Herbert, 215. Braig, Carl, 291. Brand, Gerd, 260. Breda, Hermann Leo van, 260. Brentano, Franz, 258-59, 260, 273, 289, 291, 326. Breuer, Josef, 326. Bridgman, Percy William, 516. Brouwer, Luitzen Jan Egbertus, 488-89, 493. Bruno, Giordano, 226. Buber, Martin, 417. Buffon, George-Louis Leclerc de, 97. Bülow, Cosima von, 120. Bultmann, Rudolf, 290, 305, 419-20, 424, 429-30. Buonaiuti, Ernesto, 417. Burckhardt, Jacob, 120-21, 123-24. Campanella, Tommaso, 226. Camus, Albert, 441, 446. Canaris, Wilhelm, 423. Cantor, Georg, 479. Carlo X, re di Francia, 36. Carnap, Rudolf, 517-19, 521-

indice dei nomi

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24, 525-26, 535-36, 538-41, 555, 564. Carnot, Sadi, 85. Cartesio (René Descartes), 154, 158, 182, 226, 258, 26467, 273-74, 341, 558. Cassirer, Ernst, 167-68, 183. Cesare, Gaio Giulio, 477, 498. Charcot, Jean-Martin, 326. Chenu, Marie-Dominique, 426. Chrušcˇëv, Nikita, 441, 481. Cohen, Hermann, 167, 168, 183, 417. Colli, Giorgio, 122. Colombo, Cristoforo, 477. Comte, Auguste, 85-90, 91, 100-2, 104-8. Costantino, imperatore, 123. Cousin, Victor, 154, 182. Cox, Harvey, 424-25. Croce, Benedetto, 170, 226, 227-37, 238-41, 243, 246-47, 249-51, 352-54, 372. Cuvier, Georges, 98. Darwin, Charles, 60, 96-97, 98, 100, 102-3, 111-13, 333. Darwin, Erasmus, 96. Davidson, Donald, 558, 560, 563. Dedekind, Richard, 479. Deleuze, Gilles, 459. Della Volpe, Galvano, 354, 372 Democrito, 174. Derrida, Jacques, 404, 459-60, 559. De Ruggiero, Guido, 240. De Sanctis, Francesco, 22627. Descartes, René, v. Cartesio. Dewey, John, 208-15, 217-18, 221-22, 517, 559. Diderot, Denis, 97. Dilthey, Wilhelm, 170-75, 183-84, 193-94, 237-38, 270, 358. 602

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Diogene Laerzio, 120. Duhem, Pierre, 514, 520, 52526, 535, 556, 564. Eccles, John, 526-27. Eichmann, Adolf, 399. Einstein, Albert, 516, 526-27, 533. Engels, Friedrich, 41-43, 46, 49-59, 60, 64, 74-80, 179, 227, 355, 372. Epicuro, 43, 174. Eraclito, 124, 175. Euclide, 515. Euripide, 123, 138. Fechner, Gustav Theodor, 101. Federico Guglielmo IV, re di Prussia, 37, 41. Feigl, Herbert, 517, 526. Feuerbach, Ludwig, 37-40, 43, 48-50, 63-64, 66-67. Feyerabend, Paul, 534-35, 537. Fichte, Johann Gottlieb, 3, 175, 241-42. Finke, Heinrich, 289. Flaubert, Gustave, 441. Foucault, Michel, 404, 45759, 462, 468-71. Fourier, Charles, 45-46, 368. Fourier, Joseph, 85. Frank, Philip, 517. Frazer, James, 332. Frege, Gottlob, 95, 258, 260, 476-78, 479, 488, 493-94, 49699, 521, 555. Fresnel, Augustin-Jean, 85. Freud, Anna, 335. Freud, Sigmund, 326-34, 33541, 342-48, 367-68, 374, 445, 452, 527. Friedländer, Paul, 305. Fromm, Erich, 335, 338, 341, 360. Gabetti, Giuseppe, 290.

indice dei nomi

Gadamer, Hans Georg, 29091, 305-9, 312-13, 320-22, 452. Galilei, Galileo, 205, 269, 274, 354. Garibaldi, Anita, 486. Garibaldi, Giuseppe, 486. Gast, Peter (Heinrich Köselitz), 121. Gauss, Karl Friedrich, 515. Gentile, Giovanni, 226, 228, 235, 239-46, 247-48, 251-54, 290, 352, 354, 372. George, Stefan, 304, 311. Gesù Cristo, 25, 36-37, 292, 418-20, 422-26, 428-30. Gioberti, Vincenzo, 226. Giolitti, Giovanni, 228, 352. Giovanni Battista, santo, 94. Gödel, Kurt, 487-88. Goethe, Johann Wolfgang, 3, 175. Göring, Hermann, 335. Gramsci, Antonio, 352-54, 372, 375-78. Gröber, Konrad, 291. Groddeck, Georg, 331. Grünberg, Karl, 360. Guattari, Félix, 459. Gutierrez, Gustavo, 428. Habermas, Jürgen, 401-4, 405-6. Hahn, Hans, 517-19. Hal Cone, James, 428. Hamilton, William, 425, 427. Hare, Richard Mervyn, 561, 562, 564. Harnack, Adolf von, 416. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 3, 8, 12, 20-21, 26, 3637, 39-40, 43-44, 48, 50, 62-64, 124, 175, 211, 215, 226-31, 235, 237, 241-42, 244-46, 248, 307, 354-58, 361, 365, 367, 370, 372, 401-2, 416, 419, 446, 448, 451, 531. Heidegger, Martin, 25, 25960, 289-305, 306-12, 314-20,

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339, 358, 367, 395-96, 399, 401, 404, 419-20, 426, 429-30, 441-42, 446-47, 452, 459-61, 522, 559. Heisenberg, Werner, 516, 535. Helvétius, Claude-Adrien, 91. Hempel, Carl Gustav, 517, 526. Hertz, Heinrich, 492, 512. Heschel, Abraham J., 417. Hilbert, David, 487-88, 517. Hitler, Adolf, 334, 396-98, 423, 517, 526. Hobbes, Thomas, 174, 397, 405. Holbach, Paul-Henry Dietrich, barone d’, 97. Hölderlin, Friedrich, 301, 304, 311. Horkheimer, Max, 338, 36064, 373-74, 382-85, 404. Hume, David, 91, 101, 103, 527. Husserl, Edmund, 259-70, 271-75, 276-81, 289-92, 298, 300, 310, 364, 367, 441-42, 450, 452, 460-61, 479. Jacobi, Friedrich Heinrich, 3. Jaja, Donato, 239. Jakobson, Roman, 453-54. James, Henry jr, 206. James, Henry sr, 206. James, William, 155-56, 206-7, 208, 210, 217, 219-21. Jaspers, Karl, 25, 286-89, 29091, 293, 305, 310, 399, 446. Jones, William, 428. Jung, Carl Gustav, 334, 33537, 341. Jünger, Ernst, 394-96, 405. Kant, Immanuel, 3-6, 12, 20, 26, 93, 166-68, 175, 208, 226, 241-42, 267, 271, 275, 306, 360, 446, 457, 462. Kautsky, Karl, 61, 227.

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Kennedy, John Fitzgerald, 481. Kierkegaard, Søren, 19-25, 26, 27-32, 292, 296, 310-11, 416, 418-19, 429, 446. Klein, Melanie, 335. Korsch, Karl, 354, 357. Koyré, Alexandre, 259. Kronecker, Leopold, 259. Kuhn, Thomas, 532-34, 53537, 545-47. Laberthonnière, Lucien, 417. Labriola, Antonio, 227, 22829, 246. Lacan, Jacques, 338-40, 341, 371. Lagrange, Joseph-Louis, 85. Lakatos, Imre, 534, 536-37. Lamarck, Jean-Baptiste, 96, 98, 100. La Mettrie, Julien Offray de, 97. Landgrebe, Ludwig, 260. Laplace, Pierre Simon de, 85. Laterza, Giovanni, 228. Lavoisier, Antoine-Lorain, 85. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 479. Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), 62, 240. Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa, 417. Lévinas, Emmanuel, 259, 452. Lévi-Strauss, Claude, 454-56, 462. Lincoln, Abramo, 207. Linneo (Carl von Linné), 97. Lipps, Theodor, 270. Lobacˇevskij, Nicolaj Ivanovicˇ, 515. Locke, John, 103, 258. Loisy, Alfred, 417. Lombardo Radice, Giuseppe, 240. Löwith, Karl, 290.

Luigi Filippo d’Orléans, re di Francia, 36. Lukács, György, 354-57, 358, 361, 372-73, 379-82, 447, 451. Lutero, Martin, 292. Luxemburg, Rosa, 61. Lyell, Charles, 98. Lyotard, Jean-François, 460. Mach, Ernst, 233, 494, 513, 517, 519, 535. Machiavelli, Niccolò, 235. Malebranche, Nicolas de, 154, 182. Malthus, Thomas Robert, 54, 96. Mann, Thomas, 286, 364. Marcel, Gabriel, 440, 461. Marcuse, Herbert, 360, 36769, 373-74, 386-89. Marx, Karl, 41-59, 60, 62-65, 68-80, 179, 227, 229, 235, 24041, 354-57, 361, 363, 370, 37273, 399, 401-2, 448, 451-52, 527, 531. Matteotti, Giacomo, 228. Maupertuis, Pierre-Louis Moreau de, 97. Mauthner, Fritz, 494. Maxwell, James Clerk, 515-16, 535. Meinecke, Friedrich, 417. Mendelssohn, Moses, 417. Merleau-Ponty, Maurice, 354, 441, 446, 449-51, 454, 461, 466-68. Michelet, Karl Ludwig, 36. Michelson, Albert Abraham, 515. Mill, James, 91, 95. Mill, John Stuart, 91-95, 1023, 109-11, 477. Mises, Richard von, 517. Moehler, Johann Adam, 417. Moltmann, Jürgen, 427-28, 429-30. Mondolfo, Rodolfo, 352, 372.

indice dei nomi

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Montaigne, Michel de, 154, 182. Montinari, Mazzino, 122. Moore, George Edward, 21516, 479, 485-86, 488-89, 496, 498, 552, 563. Morley, Edward, 515. Morris, Charles W., 517. Mozart, Wolfgang Amadeus, 21, 55. Murri, Romolo, 417. Mussolini, Benito, 240. Nagy, Imre, 355. Napoleone I Bonaparte, 85. Napoleone III, imperatore dei Francesi, 86. Natorp, Paul, 167, 183, 290, 305. Neurath, Otto, 517-19, 52021, 522-23, 525-26. Newman, John Henry, 417. Newton, Isaac, 87, 167, 516, 533. Nietzsche, Elisabeth, 121. Nietzsche, Friedrich, 120-37, 138-40, 141-50, 175, 272, 3001, 311-12, 358, 416, 424, 452, 457-59, 462. Nizan, Paul, 441. Novalis (Georg Philipp Friedrich von Hardenberg), 529. Ockham, Guglielmo di, 48586. Olsen, Regina, 19. Omodeo, Adolfo, 240. Otto, Walter, 305. Overbeck, Franz, 120-21. Paci, Enzo, 446. Paolo di Tarso, santo, 94, 290, 292. Pascal, Blaise, 154, 182. Peano, Giuseppe, 480, 482, 497. Peirce, Charles Sanders, 2046, 207-8, 210-11, 216-17. 604

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Petri, Elfride, 289. Pfeiffer, Gabrielle, 259. Pietro, santo, 94. Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto), papa, santo, 417. Planck, Max, 516, 519, 535. Platone, 3, 8, 43, 127, 130, 132, 241, 291, 299-301, 303, 308-9, 311-12, 358, 363, 400, 459, 531, 552. Plechanov, Georgij Valentinovicˇ, 62. Poincaré, Henri, 233, 514, 535. Pomponazzi, Pietro, 101. Popper, Karl Raimund, 103, 366, 517, 526-32, 533-37, 54244. Proudhon, Pierre-Joseph, 41, 46-47, 53. Proust, Marcel, 155. Putnam, Hilary, 559, 563. Quine, Willard van Orman, 517, 554-57, 558, 563-64. Rahner, Karl, 426-27, 429. Ravaisson, Félix, 154, 182. Rawls, John, 562, 564. Rée, Paul, 121. Reich, Wilhelm, 335, 337, 341. Reichenbach, Hans, 517, 521, 526. Ricardo, David, 46, 53-55. Rickert, Heinrich, 169-70, 176, 183, 289, 417. Ricoeur, Paul, 452. Riemann, Bernhard, 515-16. Ritschl, Albrecht, 416. Ritschl, Friedrich, 120. Robinson, John, 425. Rorty, Richard, 558-59, 563. Rosenberg, Alfred, 290, 396. Rosenzweig, Franz, 338, 417. Rosmini Serbati, Antonio, 226. Rousseau, Jean-Jacques, 45.

indice dei nomi

Russell, Bertrand, 215, 47987, 488, 493-94, 496-98, 500-3, 518, 524-25, 552, 563. Russell, John, 479. Ryle, Gilbert, 552-53, 563, 566-69. Saint-Hilaire, Geoffroy, 98. Saint-Simon, Claude-Henri de Rouvroy de, 45, 86, 100. Sartre, Jean-Paul, 25, 291, 302, 310, 355, 370, 441-49, 455, 450-51, 456, 461, 463-65. Saussure, Ferdinand de, 339, 453, 462. Scheler, Max, 156, 259, 27072, 274-75. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 19, 175, 340, 358, 416, 422. Schiller, Johann Christoph Friedrich, 368. Schlechta, Karl, 121. Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst, 3, 38, 171, 173, 175, 307, 416. Schlick, Moritz, 517, 519-20, 524-25. Schmitt, Carl, 396-98, 405, 407-9. Schönberg, Arnold, 364, 367. Schopenhauer, Arthur, 3-11, 12-13, 14-16, 120, 122, 124, 130, 135-36, 138, 166, 340. Scott, Walter, 498. Searle, John, 561, 564-65, 570-72. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, conte di, 95, 175. Simmel, Georg, 270, 355. Smith, Adam, 46-47, 54-55. Socrate, 93, 123, 127, 481, 484, 486. Sofocle, 329. Sombart, Werner, 179, 270. Spaventa, Bertrando, 226, 228, 239, 242, 246. Spaventa, Silvio, 227.

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Spencer, Herbert, 98-100, 101-3, 114-16. Spengler, Oswald, 175-76, 183. Spinoza, Baruch de, 175, 226. Stalin, Iosif (Vissarionovicˇ Dzugašvili), 354, 357, 372. Stauffenberg, Claus conte Schenk von, 423. Steinscheider, Malvine Charlotte, 259. Stendhal (Henri Beyle), 366. Strauss, David Friedrich, 36, 37, 120. Strauss, Leo, 398. Suárez, Francisco, 291. Szilasi, Wilhelm, 290. Teognide di Megara, 120. Teilhard de Chardin, Pierre, 426. Tillich, Paul, 421-22, 429-30. Tommaso d’Aquino, santo, 289, 291.

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Tönnies, Ferdinand, 394. Trakl, Georg, 304, 311. Treccani, Giovanni, 240. Trubeckoj, Nikolaj, 454. Turati, Filippo, 352. Turing, Alan, 560, 561, 565. Tyrrell, George, 417. Usener, Hermann, 120. Vahanian, Gabriel, 425. Van Buren, Paul, 425. Vico, Gian Battista, 170, 226, 232, 234, 242. Villari, Pasquale, 229. Voeghelin, Eric, 398. Volta, Alessandro, 85. Voltaire (François-Marie Arouet), 121, 126. Wagner, Richard, 120, 122, 130, 136, 138. Waismann, Friedrich, 517-18, 525.

Weber, Ernst Heinrich, 101. Weber, Max, 176-81, 184-85, 195-99, 302, 355-56, 363, 374, 451, 460, 520. Weierstrass, Carl, 259. Westphalen, Jenny von, 41. Whitehead, Alfred North, 480, 482, 497, 518. Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von, 120. Winckelmann, Johann Joachim, 122. Windelband, Wilhelm, 169, 183. Wittgenstein, Ludwig, 480, 486-87, 488-97, 498-99, 503-8, 517-18, 524-26, 536, 553, 555, 559, 563. Wundt, Wilhelm, 101. Zarathustra (Zoroastro), 133, 135-36, 139.

indice dei nomi

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C

M

Y

CM

MY

CY

CMY

K