Superbia. La passione dell'essere 8815126848, 9788815126849

Parla senza ascoltare, ha sempre ragione: è presuntuoso. Ha soldi e potere, pretende che tutto gli sia dovuto: è arrogan

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Italian Pages 145 [152] Year 2008

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Superbia. La passione dell'essere
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narcisismo?

€ 12,00 ISBN 978·88·15-12684·9

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vizi capitali a cura di

Carlo Galli

Volumi pubblicati SUPERBIA, di Laura Bazzicalupo GOLA, di Francesca Rigotti ACCIDIA, di Sergio Benvenuto

Di prossima pubblicazione AVARIZIA, di Stefano Zamagni LussURIA, di Giulio Giorello IRA, di Remo Bodei INVIDIA, di Elena Pulcini

Laura Bazzicalupo

Superbia La passione dell'essere

il Mulino

Indice

IV.

V.

Caleidoscopio di superbi

p.

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Individualisti ad oltranza: superbi impenitenti «Ecco, io vi insegno il su peru omo» Superuomini, delitti e false confessioni «Non come tutti!»: snobismo e avanguardia Cinismo e c ru del t à Intermezzo ir o nico : allegro ma non troppo

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Nuovissima superbia

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Che cosa resta oggi? Effetto g lobal e di superbia e individui impotenti Chi dice, oggi: «sei superbo!»? Due esempi Cambiam en t o di linguaggio : il sapere dell'anima Superbia, delirante «passione dell'essere»

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Il cerchio si chiude

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Nota bibliografica

143

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C apitolo p rimo

«lnitium omnis peccati superbia»

Prologo in cielo

È bellissimo. n volto è trasfigurato da un pathos assoluto.

Completamente avvolto dalla luce, non si individuano i con­ tomi della figu ra : sembra una lama splendente. Gli occhi sono fissi su chi lo ha creato: lo ama e vuole essere identico a Lui. Non solo vuole, deve essere simile a Lui. Ma non Lui. Il primo delle creature, non l'unico . È un attimo . E l' angelo bellissimo, Lucifero , il portatore di luce, varca il limite, la soglia dell'interdetto. L'amore, smi­ surato, si rovescia in odio, anch'esso fuori misura. Rifiuta, ag­ gredisce la potenza dell'Altro. Colui a cui più somigliava, a cui era più prossimo, Dio - Lucifero era infatti degli angeli il più bello, il più intelligente, il più vicino a Dio -, diventa l'estra­ neo più radicale, il Nemico, il segno della propria non-perfe­ zione, della mancanza. Rifiutarlo, ribellarsi significa cancellare l'insopportabile visione della non completa somiglianza, della non totale fusione. Cancellare per sempre l'essere due e non il solo, l'Uno. Ostinatamente Uno . E l'angelo precipita dal cielo stellato nella ,profondità gla­ ciale, sordida e buia , nel cuore della terra . E lui S atana, la bestia nera conficcata nell'eterna tenebra. Questa scena è l'archetipo della superbia.

Superbia, radice e regina dei peccati La superbia, radice e regina di tutti i peccati. Così la defini­ scono tanto Agostino che Tommaso. Questo doppio appellativo ci dice che è un peccato diverso dagli altri, che occupa, cioè, nella, gerarchia dei peccati capitali, un posto speciale. E la radice. Dalla linfa del peccato di superbia ricevono nutrimento gli altri peccati che sono, tutti, forme specifiche di superbia. 7

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È anche, la superbia, il culmine, la sommità della gerarchia stessa: la regina dei peccati. E quindi se essi fossero assenti, se la vita di un uomo fosse tutta virtuosa - anzi, se fosse assolu­ tamente virtuosa - e la superbia fosse il coronamento di tanta virtù, es sa basterebbe ad invalidare il senso di quella vita, get­ tandovi sopra un'ombra malefica. La superbia da sola, essendo il più grave dei peccati, basterebbe a condannare l'uomo. Radice e culmine: già si delinea il tratto p aradossale di questa passione dell'essere, come potreb b e definirsi la superb ia Quel tratto che rovescia la virtù più grande nel suo opposto, che rovescia l amore in odio, la perfezione in caos . Come per Lucifero, nella scena primaria della superbia. E il Paradiso è perduto per sempre. Ma cosa ha dunque la sup e rbia per essere così terribile, così letteralmente «radicale», da rimandare addirittura al­ l'espressione male radicale? Certamente non è legata all a sola civiltà giudaico cristiana, anche se in essa trova una collocazione particolarmente signifi­ cativa nell'architettura dei peccati, che la identifica con il pec­ cato o riginale il qu al e infatti non è che un atto di superbia, di disubbidienza ai limiti naturali imposti all ' uomo. Il mondo greco, sia omerico che tragico, guarda alla hybris - il termin e greco per s u perbia come alla colpa specifica dell'eroe. La hybris si annida nel cuore dell'eroe tragico a causa della sua stessa eccellenza: l'eccesso di potenza e di ambizioni lo farà cadere preda di ate, il fato rovinoso. E ate si manifesta come accecamento che awolge la mente nell ing ann o e le impedisce di vedere, mentre la awia alla perdizione. L' una e l ' altra cultura, pur così profondamente diverse , utilizzano la riflessione sulla superbia per dire qualcos a di cru­ ciale circa l'esistenza dell'uomo, qualcosa che sta nel nocciolo della sua stessa natura, minacciandola dall'interno, in modo essenziale. Q u alcosa di intrinseco al punto che sia la coppia hybrislate che quella superbia/peccato originale si possono considerare modi di parlare, in forma sacrale e mitica della condizione umana in generale. Certo - e ne saremo sempre più consapevoli lungo la no­ stra circumnavigazione attorno.all' arcipelago della s uperbia - nella modernità, a questo linguaggio sacrale e mitico (colpa, peccato , espiazione, destino) si affiancano, con capacità di a gget t ivazione molto più determinata, i lessici delle scienze .

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umane, dalla psicologia alla sociologia, all'antropologia: anzi, per un certo tempo è sembrato che fosse possibile parlare di quest'ombra che avvolge la condizione umana, attraverso definizioni più o meno scientifiche, operando così una neu­ tralizzazione di quest 'oscuro «peccato» . La modernità si era infatti adoperata al ridimensionamento del carattere di ecce­ denza superba dell'uomo, in parte trascrivendola in un registro meno drammatico (valorizzando cioè gli aspetti positivi di questa ambivalenza dell'essere umano) , in parte provvedendo, con pari orgoglio, a sanare o a ridurre le sofferenze che una condotta superba può indurre. Ma qualcosa nell'opera di neutralizzazione di quest'ombra che accompagna l'uomo e che spesso lo avvolge completa­ mente non deve aver funzionato. Un fatto è certo: assistiamo, oggi, al ritorno della domanda sulla colpa dell 'essere-uomo , sull'esposizione alla contingenza del peccato , alla mancanza antologica prima ancora che morale, che sembra iscritta nella sua stessa condizione esistenziale. In questo ritorno ha senso usare di nuovo p arole come peccato e superbia, anche al di fuori del contesto strettamente religioso-istituzionale. Percepiamo infatti che il giudizio di superbia si riferisce ad una condizione - di potenza e di fra­ gilità insieme - dell'uomo che, al di là dei contesti storici e delle condanne mutate nel tempo, può essere avvertita e resa pienamente più da un linguaggio poetico, filosofico, oppure mitico e religioso che dalla sua trascrizione secolarizzata che lo ridimensiona, lo espone a terapie e a compensazioni, ma ne perde la dimensione tragica e grandiosa che vi si avvertiva.

Passione dell'essere e verità Ripeto : c'è una particolare natura di questo peccato che lo rende diverso dallo specifico abuso delle p assioni che si verifica in ciascuno degli altri peccati. Nella superbia ne va della verità . Questo ammonisce l ' accecamento di ate: l ' eccesso, la dismisura della superbia sta dentro una percezione accecata della verità. Ma anche il delirio dell'angelo non vede, cancella la differenza creatore­ creatura, non vede e non riconosce l'ordine. Eccede appunto perché non vede, perché non sa come stanno veramente le 9

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cose, come sono disposte nel mondo e dunque non misura il gesto e lo status. Vede solo quello che vuole vedere, quello che fa da supporto all'immagine ideale, all ' amore appassionato di sé e dunque affonda nella nebbia di un delirio in cui re­ sta visibile la sola figura propria, solo la rappresentazione del proprio desiderio. Perciò la superbia fa più paura di ogni altro peccato. Per­ ché il superbo avanza avvolto in una nebbia delirante, anche se usa lucidamente la propria int�lligenza, anche se la sua pa­ rola è tagliente come una lama. E così orgoglioso e determi­ nato, così. sicuro . di sé, perché è cieco sulla realtà propria e del contesto 1n cui vive. La verità e l'essere sono le categorie coinvolte nella con­ dizione di superbia: la verità sull ' essere, la verità su ciò che si è, viene negata, rifiutata. Perché in essa c'è un Altro, una di­ n1ensione esterna a noi stessi, non controllabile, non governa­ bile, da cui dipendiamo, che forse è superiore, che comunque avvertiamo come una minaccia. E dunque la superbia è la passione di essere l'Uno, l'unico, il solo , anzi del volere o del s ap ere di essere unico e solo . Senza nessun altro, senza altri, dichiarati inferiori, irrilevanti, pericolosi. Altri o Altro da odiare e da umiliare, annientare. . L'inquietante radicalità di questo peccato sta dunque nel fatto che germoglia nelle runbiguità del processo di identifica­ zione dell'uomo, che, per diventare se stesso, deve separarsi, deve dire no, rifiutare la simbiosi con il tutto e deve amare se stesso, deve negare l'assimilazione che lo annienterebbe. Ma deve farlo solo fino alla Inisura che lascia essere e sopravvivere l'altro. E magari fiorire e crescere con maggiore potenza. Deve farlo nella dimensione del riconoscimento dei limiti della pro­ pria potenza e nell'accettazione della propria fragilità. Radicale e ambivalente: perché alla radice ciascun indi­ viduo-uotno deve amarsi molto, tanto da non voler rimanere presso chi lo ha curato, dalla cui benevolenza dipende, ma deve anche non din1enticare l'humus in cui la radice affonda, che gli restituisce il senso delle proporzioni. Una cosa difficile, a livello psicologico, a livello sociologico e culturale, a livello esistenziale. Tanto difficile che è più facile negare la realtà ed esse�e superbi. E strano poi che, accanto alla condanna perturbata e se­ vera della superbia, usiamo, invece, spesso l'aggettivo superbo .

lO

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in una valenza positiva. In verità, l'inquietante ambivalenza del termine - connotazione positiva e negativa nel l a stessa parola - si trova in tutte le lingue. A partire dall ' ebraico ga'on , che significa qualcosa di eccellente, di grande, ma anche qual­ cuno che eccede colpevoln1ente dalla giusta misura. La valenza positiva si usa spesso per le cose, le opere o gli eventi, e infine per le performance umane. Ma non direttamente per gli uo­ mini che le hanno messe in atto. Si dice che un tiro di p aJl one in porta è superbo . Che una pasta e fagioli è superba. E su­ perba,_ una cattedrale gotica o un grattacielo incredibilmente alto. E superba l'esecuzione di un brano musicale, l'interp re ­ tazione di un attore, la rappresentazione di un dramma, la corsa di un cavallo. Perché? Perché siamo disposti a riconoscere l'eccellenza, la dismisura nelle opere, ma non pensiamo di attribuire la qualificazione positiva della superbia a chi opera, all ' uomo che ne è artefice? Di lui, dell'uomo, quando diciamo: «è superbo», condann iamo u n peccato e pure gravissimo . n pre suppost o eli questa differenza tra opere e autori è che esista una gerarchia naturale degli enti e che la natura ponga dei limiti agli esseri viventi: se qualcuno eccede con tutta la persona quei limiti, se è superbo nel proprio modo di essere, pensiamo che infranga l'ordine e sia degno di condanna. Non così le opere, le cose o la performance di qualcuno, che solo in quell'azione, in quell ' opera è superbo. In questo ca s o la trasgressione dalla misura non solo è tollerabile, ma posi,­ tiva, degna dell'uomo, il cui destino è dare il meglio di sé. E tollerabil e e a u s p i cabile perché l'eccellenza pun t ual iz zat a in un'azione o in un'opera sarà poi compensata e ricondotta nei limiti da mille altre azioni della stessa persona, mille altre cose e opere che sono mediocri o di b asso livello. Tutto a posto con il genio: in genere scopriamo che, agli occhi del suo ca­ meriere (o dell'amante tradita, o dell'amico) l'eccellenza delle sue opere, di superba bellezza e intensità, sta insieme all ' a rro­ ganza, all'insensibilità, all' egoismo e al narcisismo più sfrenato, e anche a mille piccole meschinerie: l 'avarizia di Beethoven , la volgarit à di Mozart, i tradimenti di Picasso . . . La gerarchia dell'essere non viene turbata. Dunque l'apparente eccezione dell'uso dell'agge t ti v o s upe rbo con valenza positiva ribadi­ sce che la superbia in quanto colpa è un peccato dell' essere, dell'identità dell'uomo, un peccato antologico, che cioè ha a ,

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che fare con la condizione di qualcuno nel mondo o addirit­ tura nel cosmo. E questo vuoi dire , più semplicemente, che consiste in una collocazione - ovviamente superiore a tutti, ovviamente di d ominio e di potere - che il sog g etto crede, ovvero sa, di avere. È dunque una cosa che ha a che fare tanto con l'essere (lo status, la posizione nel mondo) quanto con la veri tà. E con la credenza. Gli a ltri, infatti, vedono e credono diversamente. Diventerà dunque importante, nel nostro discorso, capire chi parla, chi dice: «sei superbo!». Perché chi de fin i sce un a l t ro «superbo» , e dunque giu dica peccatore il superb o , è qualcuno c� e sa un'altra verità da quella dell'uomo che viene gi u dicato . E qualcuno che giudica superbo perché è a cono­ scenza di quello che gli sembra essere l'ordine vero e giu­ sto del mondo, l ' o r dine che l ' altro infran g e e nega. Questa prospettiva la dobbian1o tenere presente. Il superbo non si giudica tale: la sua verità è che lui vale più di tu t ti e non deve sottoporsi alle regole di tutti, i quali - tutti - sono oggetto di di sp rezzo . n suo modo di essere coin cide con questo giudizio, che altri non con dividono , che ad altri appare un delirio. Que­ sto significa che, parlando di superbia, ci dobbiamo cimen�are con la verità di come stanno le cose, o di come la verità ap ­ pare diversa a chi è superbo e a chi lo giudica tale. Perciò , quando parliamo di superbia non ci riferiamo tanto ad un peccato morale, a tma trasgressione dei costumi, dei · mores, ma ad uno scontro, magari presupposto e taciuto, di ideolo gie, di ordini della realtà che si credono veri e che fanno funzionare le posizioni sociali degli uomini.

Dubbi La superbia costituisce una minaccia intrinseca nella natura dell'uomo, di un uomo che è pienamen t e tale e che, agendo secondo i dettami naturali, sviluppa le proprie poten­ zialità migliori, volgendole all ' e c cellen�a e alla magnanimità. Come l' angelo , come l'eroe greco. E l ' eroe nobile di animo a rischiare la hybris, non certo il pus i ll an i m e conformismo del coro, che, mentre l ui , cieco e determinato, va incontro al proprio destino, lo ammonisce ricordandogli la sventura che si abbatte su chi pres ume di poter sfidare gli dei. La superbia 12

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sembra attenere alla natura magnanima, all'alta dignità del­ l'uomo, che dalla propria natura stessa è spinto nella trappola dell'eccellenza, eccedenza, eccesso. Su una sola scia si trovano dunque, come nella scena dell ' angelo , le virtù e la loro per­ versione; quasi che il desiderio naturale , la natura affettiva dell'uomo non fossero che il rivelarsi progressivo della sua na­ tura manchevole, lapsa, come dicevano i Padri della Chiesa. Si tratta dunque di un tratto costitutivo della condizione umana e, per di più, della sua grandezza e dignità. Ma è questo carattere segretamente eroico , grandioso e fiero dell a su perbia che abbiamo difficoltà a riscontrare in una società come la nostra, sì, differenziata ad oltranza, ma in una gamma di diff e renze mediocri e inconsistenti come i sim ula c ri di una società dello spettacolo Se da una parte il fallimento di una visione addomesticata del Male nella condizione umana ci spinge a cercare categorie e parole che vengono dal mondo del passato religio s o e mitico, dall'altra dobbiamo constatare che, nel quo t idiano, usiamo poco la parola superbia. La conside­ riamo lievemente arcaica, proprio perché allusiva a grandezza e magnanimità, che sono virtù magari rischiose, ma poco dif­ fuse nei nostri tempi opachi. Ci troviamo di solito di fronte a piccoli anche se irritanti gesti di presunzione, sicumera in­ diffe renza, sociopatia, vanità, supponenza, autoreferenzialità, disp rezzo per gli altri, arroganza piuttosto che di superbia vera e propria.. Signifi ca che la superb ia, radice e regina di tutti i peccati, si è dissolta in vanità e narcisismo e null'altro ? O è possibile approfondire questa condizione e passione dell'uotno in modo tale da riconoscerne i tratti, ugualmente e forse ancor più terrib il i nella crudeltà opaca e mediocre dell'esistenza di oggi? .

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Flash di piccola superbia quotidiana «Ma chi si crede di essere?». L'uomo, in giacca e cravatta, si fa strada con un fare imperioso nella piccola folla radu­ nata fuori dell'ufficio, che si organizza in una fila in base a certi numerini che, entrando nell'atrio , vengono ritirati. Apre d 'autorità la porta che il funzionario tiene ben chiusa e già varcando la s oglia gli si riv olge, pretendendo attenzione. La ottiene. Tracotanza. 13

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Parla senza ascoltare. Non fa caso al fatto che l'interlocu­ tore tenta di obiettare qualcosa. Il professore è sicuro di sé. Sa sempre tutto e ha sempre ragione perché è il professore ed è professore perché ha sempre ragione. Neanche un pallido dubbio che l'altro possa avere qualche sua prospettiva, magari nuova, sulla questione. Suppone sempre di sapere. O almeno lui lç pensa e dunque il tutto è un po' comico. Presunzione. E un personaggio politico e ha anche molti soldi. L'aspetto è mediocre, non è particolarmente colto. Ma sa di avere molto potere. E si vede. Ha fantasie di illimitato successo, si consi­ dera speciale, unico. Non teme di fare gaffes o errori, perché uno stuolo di adulatori è pronto ad accogliere le sue parole come decisive. E questo gli piace. Pretende che tutto gli sia dovuto, di non dover sottostare alle regole, alle «Leggi uguali per tutti» . Usa toni indignati se si cerca di trattarlo come gli altri. Anche questo privilegio, in qualche modo, risulta verifi­ cato nei fatti e lo rende ancora più potente. Arroganza. Ancora un personaggio politico : viene d al niente e per farsi riconoscere e avere consenso ha lavorato duramente, ac­ quisendo capacità di utilizzare le debolezze degli altri. Ma gestisce il pot�re da molto tempo e crede di poterlo e saperlo fare lui solo. E un accentratore. Preferisce circondarsi di ese­ cutori fedeli, non fa crescere né opposizione né collaboratori critici. Lo scontento, il dissenso, quando infine montano, non li sente nemmeno, convinto di poter controllare come sem­ pre, anzi di poter tacitare ogni voce, ancora una volta con un colpo di mano, con una nuova forzatura. Sicuro di sé, sicuro di vincere. E quando fallisce, del fallimento si stupisce come un bambino . Delirio di onnipotenza. La signora le regala vestiti usati e scarpe fuori moda. La vede arrabattarsi a finire presto il servizio per andare ad ac­ cudire il bambino, coetaneo del suo. Sono nella stessa scuola, ma il piccolo straniero non viene invitato nella casa dove la madre sta ogni giorno a riordinare. «Ciascuno al suo posto, che diamine! » . E questa è gente di cui non ti puoi fidare, finché serve, va bene, ma poi è meglio se tornano dalle loro parti. Lei è una «signora» p ro p rio perché c'è una dome�tica extracomunitaria da tenere a distanza e da disprezzare. E in­ capace di essere qual cun o senza escludere l'altro ed è incapace di escluderlo senza svalutarlo e all'occorrenza odiar! o. Storie di ordinario ra zzi smo. Disprezzo. 14

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Sotto le luci violente dello studio televisivo, il volto è lu­ cido, senza una ruga e senza ombre. Forse un po' piatto, ma bello; secondo i canoni estetici di oggi, è una bella irraggiun­ gibile donna. Concentrata sul gesto che esalta meglio la sua capacità di fare da modello, di essere oggetto di ammirazione, invidia, imitazione. Nell'ilnn1agine non c'è cedimento alle ferite del tempo - e p pure non deve essere poi tanto giovane - né della natura - tna non si diceva che avesse avuto un a grave ma l at t ia? Padroneggia ogni fragilità che possa aggredirla e la

vince. Per ora. Vanità. Lui considera la ragazza un a cosa che gli procura piacere. Non ha gratitudine per la dedizione che riceve e non chiede mai scusa: anche se dipende da l ei per sentirsi sicuro , pe,r provare piacere. Ma non la vede, né lei né i suoi desideri . E avi do e scontento: prende sempre, ma con un atteggiamento di autosufficienza che nega ogni dipendenza . Sembra giocoso o indiff erente quando sono insieme, ma, sia qu a n d o sono soli sia quando stanno con gli altri, la usa a supporto e specchio del proprio potere. E per percepire questo potere, prova piacere a danneggiarla, manipolarla, umiliarla, magari violarla. Abuso.

In vz"aggz"o Questi rapidi flash non sono che una casistica assai limi­ tata di figure di picco l a sordi d a s u pe r bi a . Eppure abbiamo cominciato le nostre riflessioni sottolineando il carattere «ra­ dicale», esistenziale, quasi metafisica della superbia, peccato dell'essere e della verità sull'essere e sulla c o nd i zio ne umana . C'è un abisso tra la magnanitnità della ribellio ne dell ' angelo e questa sequela di piccoli soprusi, di meschine, talvolta ri­ dicole, umiliazioni e crudeltà. Come c'è un abisso tra quella considerazione di San Tommaso che scorgeva n ella natura umana l'impulso alla trascendenza dei prop ri limiti e queste pedestri forme di prevaricazione, di mancanza di rispetto per le esigenze degli altri. Questo significa an che che, in un mondo come quello con­ temporaneo occidentale, c ost ru i to e ispirato dal p resupposto egualitario dei diritti, la supe rb i a è s em p re più travestita e in confessabile. Esiste e come ! Ma sotto mentite spoglie. A un n1ondo come quello in c ui viviamo possono essere attribuiti 15

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milioni di peccati e un tal numero di trasgressioni che si può dubitare dell'esistenza di una qualsiasi regola, ma come si fa a considerarlo superbo? La superbia rimanda ad una certa grandezza; è una dege­ nerazione, certo, ma origina dall ' eccellenza e del nostro mondo si può al massimo dire che è arrogante e vanitoso. Cosa hanno questa arroganza e vanità in comune con il peccato eroico di un angelo che sfida Dio, di un monaco che disciplina il suo corpo fino all'annullamento , di un re che stabilisce la legge e l'interdetto? Cosa c'era nella grandezza, sia pure perversa, di quelle sfide in comune con l'arroganza di oggi? Con le attuali forme inedite, opache di superbia, di delirio di onnipotenza, di disprezzo dell'altro , di blasfema negazione della propria debolezza? Per capire meglio, vorrei intraprendere un piccolo viag­ gio nella storia delle definizioni di superbia. Un viaggio in cui incontreremo «figure» dell'antica superbia e poi di quella n1oderna, che, in un modo o nell'altro , si misurano con l'in­ quietante scena primaria che funge da prologo in cielo della nostra piccola odissea. Vedremo come, nel corso della sua storia, la superbia , intesa come definizione di colpa e condanna morale, prima teologica poi sociale, abbia trovato forme di compensazione e di espiazione. Nella contemporaneità, invece, il linguaggio delle passioni dell'anima è stato monopolizzato dalla psicoa­ nalisi. E la caratteristica di questo passaggio sta nel fatto che la psicoanalisi, anche se si inserisce in un piano terapeutico e dunque dissolutivo della colpevolezza, mantiene una profonda sensibilità sulla necessità e ambivalenza tragica del processo attraverso cui si diventa se stessi. n suo impianto teorico rico­ nosce la costitutività, l'inerenza alla natura umana della ten­ sione superba tra essere e verità, tra dipendenza e autonomia, tra pienezza e mancanza. E solo attraverso il riconoscimento di questa realtà resta accessibile un possibile, tutt'altro che fa­ cile, sbocco terapeutico. Come nei miti tragici cui, appunto, la psicoanalisi ha attinto. Così il sapere psicoanalitico sull'anima rilancia, in un registro diverso, il discorso filosofico e anche religioso e la loro interrogazione sull a condizione umana assog­ gettata al rischio di delirio di onnipotenza, superbia, diniego e separazione dall'altro. In questo viaggio mi troverò a definire superbo ora questo 16

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modo di essere ora quello . Dunque dovrò riferire il giudizio - la condanna - che nei tempi diversi è stata pronunciata. E chi giudica, chi condanna ha in sé una presunzione di verità: a sua volta è, senza saperlo, superbo. Una cosa complicata da cui non sembra facile sfuggire. Perciò ho pensato di fare il mio viaggio in con1pagnia di un amico. Più voci, più prospettive: minor rischio di superbia, di giudizi altezzosi e arrogal}ti. Lui, l'amico che mi accompagna, si chiama Ulrich. E intel­ ligente, sembra freddo, ma so che non lo è, è capace di grandi passioni: qualcuno lo ha definito, una volta, «senza qualità» ed è una buona ragione per pensare che così non si ergerà a giudice superbo dei peccati altrui. Almeno spero.

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C apitolo s e con do

Antica superbia

Ancora angeli e demoni Desiderava porre sé l più in alto nella gloria dei suoi pari: l confidava di uguagliare l'Altissimo l ribellandosi. E con mire l am­ biziose contro il regno e il trono l di Dio, mosse nel Cielo empia guerra l e battaglia superba. Vanamente: lché lui scagliò la Forza onnipossente l dal cielo etereo a capofitto, in combustione orrenda, ruinante, l giù nella perdizione senza fondo, l lui che osò sfidare l'Onnipotente in armi.

Leggo i versi di Milton dal Paradiso perduto forse con troppa enfasi, perché sia evidente l'importanza che ha per me questa scena biblica, come modello della superbia. - «In quella sfida dell' angelo ribelle- aggiungo- c'è il rifiuto della differenza con Dio; c'è il disconoscimento della creatura verso il suo Creatore (figg. l e 2); c'è la pretesa di es­ ser l'Unico, il Solo e non dipendere da nessuno; c'è, come dice Milton, tangelo apostata, che si separa dal cosmo divino». n mio amico, appoggiato allo stipite della porta dello stu­ dio, mi osserva silenzioso, con negli occhi un lampo sornione per la mia incauta retorica. La stanza è in penombra e sul tavolo sono sparse diverse tavole delle incisioni che ill u strano un'edizione neogotica del poema di Milton. In ogni tavola, sullo sfondo scuro risalta una macchia chiara, l'angelo ribelle: il bianco e nero esalta la frat­ tura del mondo, la lotta del bene e del male. Ulrich è dispo­ nibile ad accompagnanni in questo viaggio, ma dubitare dei luoghi comuni e dunque delle definizioni di bene e di male, del mondo diviso in bianco e nero , fa parte del suo modo di vedere il mondo. Perciò vuole sottolineare le contraddizioni: - «Scusa- dice -, ma non si era detto che , per natura , l'angelo prima e l'uomo poi dovessero tendere all a perfezione, eccellere e superare se stessi? Il povero Lucifero non voleva che fare del suo meglio! Se odia Dio è perché odia il fatto 19

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che abbia creato creature quasi-perfette, ma non perfette, e in fondo lo odia pe r ché lo ama e lo ammira troppo. Si potrebbe pensare ch e l'angelo è invidioso, non superbo e superbo setn­ mai è Dio che si adira della sua indebita aspirazione ad essere come lui e lo punisce senza pietà». - «In effetti è così - replico io. - L'invidia di Lucifero ha origine dalla sua energia ad espandersi, dall'insofferenza per il limite, ma anche dall'ad-miratio (ce lo dic� lo sguardo fisso sul suo Creatore) , il guardare, l' ammirare. E p r oprio questo ad-mirare che diventa in-videre, guardare contro , ribellarsi . Quin di superbia e invidia semb rano quasi intercambiabili , anche se nella nostra percezione sono l'una l'oppost o dell' al­ tra: se si invidia, non si crede in se stessi e non si è superbi. Ma in questo groviglio che sono le passioni dell'anima, basta spostare un minimo l'accento e le emozioni si trasformano. Mentre l'invidia rode la vita, la tormenta perché l'ammirazione si lega al senso di impotenza, alla sensazione di non farcela ad imitare l'altro, nella superbia di Lucifero si scatena la presun­ zione di avere potenza sufficiente per vincere la sfida. Quanto poi al /are del proprio meglio il tono della sfida è diverso, non fa pensare affatto ad un lodevole sforzo per migliorarsi. Lui, l' angelo , nega la differenza onta-teologica con Dio : non ne riconosce la posizione e la potenza maggiore, assoluta. Non ne riconosce la sovranità. Cioè più semplicemente, non accetta la gerarchia dell'Essere: e se l'Essere è Bene, non accetta che il suo proprio essere sia intaccato da una precarietà fondamen­ tale. Non accetta il limite posto alla sua natura, non perfetta come quella di Dio. Non ricordo chi diceva che l'uomo non è che un Dio mancato». - «Sartre lo diceva» - interviene Ulrich , che sa le cose e non dimentica mai i nomi. - «Va bene Sartre - sono un poco contrariata, perché mi sembra che la sua puntualizzazione mi volesse cogliere in fal­ lo -. Ma cerchiamo di capire quella scena famosa, pezzo dopo pezzo. Abbiamo detto, infatti, che si tratta dell ' archetipo, del modello di tutte le storie di superbia L'angelo pecca di super­ bia. La superbia è un modo di essere: potremmo dire che è un tratto del carattere, dell ' identità, ma ha origine in un amore di sé esagerato, in una passione. Ora: se parliamo delle passioni dell'anima come origine di peccati, dobbiamo farci aiutare da chi ne h a competenza: tanto per Sant'Agostino che per ,

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San Ton1maso ogni affezione dell'anima dipende dall ' amore. L'angelo infatti ama Dio e ne è riamato. Questa primari età dell'amore, all'origine anche di una passione per niente altrui­ sta, amorevole solo verso se stessi, come la superbia, bisogna che la teniamo a mente. Ci servirà quando dovremo indagare la superbia nel nostro tempo , con gli strun1enti del sapere psicologico, come è d'uso oggi. A quei tempi, Sant'Agostino e San Tommaso mantengono più facilmente il controllo della questione. L'amore può essere, ci dicono i due saggi, ordinato o disordinato, a seconda che rispetti la misura o si abbandoni all a dismisura». - «Tanto per chiarire - dice Ulrich , con la sua voce dai toni bassi, ben articolata -, quando parli di dismisura, pre­ supponi l'idea dell'ordine e della misura oggettiva di tutte le cose·. Evidentemente Agostino e Tommaso pensano che ci sia un ordine naturale in cui ogni essere o ente ha il suo posto: e giusto è rispettare quest'ordine». - «Perché tu pensi che non sia così ( » - replico. - «Non penso niente - dice lui -. E meglio in ogni caso chiarire. In questa p rospettiva , ogni peccato è definito tall! perché eccede il giusto posto nella gerarchia dell'essere: Ago­ stino sostiene che l'amore di sé - quello che l'angelo nutriva e che era legittimo e naturale - se è condotto fino al disprezzo di Dio , cioè se nega la differenza dell'Essere superiore che ti ha creato, è perversione. È l'amore eccessivo degli uomini per se stessi, infatti, il fondamento della città di Babilonia, rovescio della città di Dio. Tutto dipende da come si pensa sia l'ordine, la gerarchia dell'Essere: sopra il creatore e sotto le creature , prima gli angeli e poi gli uomini. - E poi aggiunge - Rispetto a questa e a ogni altra superba gerarchia dell'essere, solo Cri­ sto è il grande sowertitore, il Dio che si fa uomo, che nasce in una stall a e muore, povero, tra i delinquenti, il Dio che non si contrappone all ' altro, all' uomo, come Ente supremo e onni­ potente, ma che condivide la sofferenza ed eleva gli uomini a suoi fratelli. Bella sfida all a superbia umana e divina! Talmente dissonante da essere p recipitosamente ricondotta all'ordine gerarchico dai suoi stessi seguaci». Mentre dice questo, Ulrich allontana una delle tavole per osservarla meglio nel suo complesso: l' angelo ribelle è chiuso nell'angolo in basso a sinistra, mentre dal lato opposto, sullo sfondo nero , l'arco del cielo è disegnato dal mantello stiliz21

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zato del Dio creatore che traccia un ' aureola alla sua imma­ gine . - «In verità - dico, sorpresa dell'interpretazione eretica del Cristo sovversivo - per San Tommaso (ma p ensa come San Tommaso chiunque crede in un ordine naturale e che quest ' ordine sia in sé giusto) l ' uomo ha un desiderio, natu­ rale, di eccellere. E dunque la via da percorrere è, come al solito, stretta: non seguire la regola naturale del desiderio di eccellenza significa essere pusillanime, indegno della natura umana; andare oltre, eccedere, significa essere superbo. Siamo lì: la scena dell' angelo ha al suo centro la misura. "Non ci gloriamo oltre misura, ma secondo la regola con cui Dio ci ha misurato " : questa volta è San Paolo, a parlare». - «Va bene , va bene ! - mi interrompe - Non stare lì a snocciolare tutta l'agiografia e le vite dei santi».

Eroz� tiranni e incredibili sventure - «Quest'idea - riprendo io - che si deve ri1nanere nella misura non è soltanto biblica e giudaico-cristiana. Anche la cultura greca fa della hybris la causa di tutti i mali che si ro­ vesciano sull' uomo. La hybris dei titani che assaltano il cielo, quella di Prometeo che ruba il fuoco volendo innalzare gli uomini al di sopra del giusto posto, basso e terragno, in cui si trovano . Hybris punita da Zeus, con un così efficace con­ trappasso ! A Prometeo incatenato sarà eternamente roso il fegato, Atlante sarà condannato a portare sulle spalle il peso del mondo (tra l'altro anche Dante condanna l'alterigia dei su­ perbi a curvarsi sotto macigni sulle spalle) . Diciamo la verità: è geniale questo giudice che condanna il superbo ad accettare l'amara, pesante realtà: fa capire che i superbi, nel loro delirio di onnipotenza, h anno negato proprio la realtà dei li1niti e delle gerarchie». Ulrich, evidentemente, non ha simpatia per Zeus giusti­ ziere e non trova divertenti le metafore rappresentate da pene tanto atroci. - «Ma - dice - per come lo dipinge Eschilo, anche Zeus ha la maschera superb a del tiranno che esagera con la sua ira eccessiva , col suo rifiuto di ascoltare il discorso dell' al­ tro. Prometeo viene incatenato da Kratos e Bia, cioè il potere 22

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e la forza, al servizio di Zeus , senza che gli sia con cesso di difendersi. Alla superbia di Prometeo, p ronto a trasgredire l'ordine cosmico, risponde la tracotanza di Zeus , tiraf\no, da poco giunto al potere: e, come dice il coro , i nuovi potenti sono spesso superbi, prepotenti, arroganti». Non ci resta che riconoscere che per Eschilo, tutte e due le figure sono eccessive , superbe e si arrogano , ciascun a di esse, il possesso dell'intera giustizia, dell'unica verità. Ma la verità è Dike, il divino ordine cosmico, mentre hybris è la tra­ cotanza, la cecità che dlln entica la fragile condizione umana e scatena una sequela di mali. - «Cumuli di cadaveri alla terza generazione ancora parle­ ranno muti - recito io - e diranno agli uomini che al mortale ogni eccesso è precluso . Hybris dà come frutto spighe di ro­ vina, e raccoglie una grande 1nesse di pianto». Mentre ancora risuon a la bellezza dei versi dolenti di Eschilo, che ho appena citato: - «Non possiamo - dice Ulrich, osservando come basti evocare il mondo del mito e della tragedia greca perché il senso delle cose umane acquisti una trasparenza nuova , più efficace - dimenticare la hy b ris dell'Edtpo re, Edipo tiranno , come suona il titolo di Sofocle. Povero Edipo ! Modello di tutti gli uomini, destinato a portare il peso segreto del divenire adulto attraverso la rinuncia e il dolore, di ciascun uomo nei tempi a venire ! Lui che assume il potere uccidendo, senza saperlo, il re legittimo, e trasgredendo la più inflessibile delle norme dell'universo , dal momento che quel re era suo padre. Lui, che governa con ragione e saggezza, n1a non sa di aver infranto l'interdetto all'incesto che regge tutte le com unità umane ! Trasgredisce il monito delfico che imponeva agli uo­ mini "nulla di troppo " e "conosci te stesso " . Eccede , senza saperlo né volerlo consciamente, seguendo il suo desiderio , dunque il suo amore, la sua natura. Questa trasgressione è contraddittoriamente un destino, iscritto nella sua natura . Si vede bene in questa lacrimevole storia - Ulrich cerca di smorzare la commozione con un briciolo di ironia: è un po ' oppresso, ma anche affascinato da questo racconto terribile, fatale e grandioso - che i greci avevano scoperto che la super­ bia è una condizione strutturale indotta dal desiderio umano, dal suo bios e però è anche colpa gravissim a . Così, non c'è via di uscita». 23

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- «A meno che - ribatto io - essere uomo sia pensato non come un qualcosa di compiuto, ma piuttosto un diventare uomo, nel tempo, attraverso il dolore e il riconoscimento della realtà. In questo caso la superbia non è destino dell'uomo, ma di una tappa del suo cammino, del suo processo di sog­ gettivazione. Lui, Edipo, l'uomo, ha la hybris della raziona­ lità, dell'intelligenza e con essa ha risolto l'indovinello ( chi è quell'animale che cammina prima a quattro poi a due zampe e poi a tre? L'uomo, risponde Edipo , che dell'uomo è l' ar­ chetipo) . Così, quando si abbatte su Tebe la sventura, Edipo ha il coraggio ( o la hybris) di intraprendere il viaggio della conoscenza. "Farò luce su tutto, ricominciando dal principio " , dice, orgoglioso, anzi superbo della propria lucida capacità di analisi. Fare luce significherà conoscere, come diceva l'oracolo, te stesso, cioè ri-conoscere i tuoi limiti, che cosa sei e cosa ti è possibile fare. La redenzione passa attraverso la verità, la presa d'atto dei limiti, la riconquista del proprio vero essere. "Tutto è ormai chiaro " , grida disperato Edipo, alla fine del lungo infernale viaggio di riconoscimento di se stesso». Ulrich sposta il discorso sul senso politico della condanna greca della superbia, per lo più legata alla figura del tiranno. - «La cultura greca ci trasmette un racconto anti-tirannico, come se l' agorà non sopportasse l'eccedenza di chi domina. D' altra parte, questa figura è delineata, dai greci, in modo ambiguo, come eroica: un eroe, anche se negativo , malvagio, destinato all'autodistruzione. Quasi sentissero in se stessi la passione dell'eccellenza, la furia dell'ambizione e dunque, più pericolosa, la minaccia di fuoriuscire dai limiti consentiti». Una folata di vento scompiglia le illustrazioni del Paradiso perduto sparse sul tavolo e Ulrich, con gesto deciso, le ferma con un piccolo bronzo che riproduce l ' Aristogitone, l 'eroe tirannicida, il cui originale è al Museo archeologico di Napoli. Mi viene in mente che mi fu ironican1ente regalato dallo stesso Ulrich, al tempo delle mie (e di tanti) passioni e utopie poli­ tiche, quando il mondo veniva diviso in tiranni e tirannicidi. Forse per questo tento di ricondurre la hybris al rifiuto del destino di fragilità umana. - «Per i greci - dico - hybris è anche il solo pensare di essere felici, felici al punto da suscitare l'invidia degli dei e in­ correre nella sventura che ti rigetta nella polvere. E questa paura della felicità come scatenamento della sfortuna e come 24

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incauto , inconsapevole atto di effrazione dei limiti resta an­ che nella superstizione popolare . Non certo nella religione cristiana , che p revede colpe volontarie e nessuna invidiosa vendetta di Dio. Ma nella cultura popolare sì: lo stesso fatto di essere felici e dunque situarsi al di sopra di una condizione umana destinata all'ordine della sventura , della p recarietà e della mancanza è cosa superba e pericolosa».

Torri altissime, popoli e spiriti troppo intelligenti Ulrich, provando a mettere ordine nelle storie più o meno poetiche che abbiamo evocato, osserva, con una punta di illu­ ministica erudizione : - «Diciamo allora che tutte le culture arcaiche fanno perno su una concezione gerarchica dell'essere, nella quale c'è una Legge sacra, totemica, che dà ordine alla comunità e che è sacrilego osare toccare. Questa superiorità della Legge, che conferisce ordine all'insieme sociale, permette di identi­ ficare una comunità. Intaccare la Legge significa minacciare l 'intero gruppo sociale e la sua esistenza : perciò chi ci prova è peccatore, reietto, o marchiato dalla sventura . Dire di no a chi vuole essere come Dio significa tutelare la comunità. Lo hanno sempre fatto i custodi della comunità. Pensa un po' al racconto della torre di Babele, quello che sta nel capitolo 11 del libro della Genesi» (fig. 7). Mi faccio più attenta perché non è da Ulrich sfoggiare erudizione e dunque significa che su quel racconto ci ha pensato su; magari è andato oltre la solita interpretazione: - «La Genesi - riprende Ulrich - racconta che all'origine gli uomini usavano uno stesso linguaggio e si capivano tra loro. Decisero di costruire "una città e una torre la cui cima arri­ vasse fino al cielo" e di darsi ((un unico nome". Il motivo della reazione di Dio è proprio l' unicità della lingua e del nome: "ecco che sono un solo popolo e hanno tutti la stessa lingua . . . - dice J ahvè - e non desisteranno dai loro disegni finché non li abbiano condotti a termine". Come sempre, Dio si adira : questa volta , però , non annega gli uomini né li trasform a in sassi, ma li disperde sull a terra, confondendo e moltiplicando le lingue e impedendo che siano un solo popolo». Perché si adira Dio, il custode dei limiti dell'Essere, così

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cmne si era adirato con Lucifero? Perché - questa è l'ipotesi di Ulrich , ma a me sembra di averla letta anche in Hillman - quando il popolo è un unico popolo , un'entità cementata che si mette in testa di ass alta re il cielo, come Lucifero , e fare guerra a Dio, cresce la sua presunzione di farcela, la sua superbia. - «Questa volta - continua Ulrich - sembra che, piuttosto che una punizione, ci sia una prevenzione della superbia che colpisce una condizione che può scatenarla: l'unità. Le lingue si differenziano, cresce il grado di incomprensione e crescono i potenziali conflitti tra gruppi, ma diminuisce l'arroganza del­ l'unità e dell'omogeneità, che vuole annientare tutti i diversi. Molti popoli e culture diverse sono una condizione umana s alutare : anche se le cultu re monoteiste tendono a vederla come un'imperfezione da correggere, la reazione divina sem ­ bra considerarla una salvaguardia. La superbia nasce dall' uni­ ficazione, dal fatto che non ci sono confronti e relativizzazioni della propria verità. In molte culture c'è il racconto della torre altissima: i Nyambi nel Messico e anche i Toltechi, i Cuki nel­ l'Assam, in Birmania i Karen: tutti raccontano storie di superbi assalti al cielo. Mi sembra, ripeto, una buona cosa che la storia non preveda una vera e propria punizione, ma, per prevenire l'atto di superbia, Dio introduca la varietà delle culture, delle lingue, delle comunità». - «Ammettiamo - dico io, riportando il discorso alla di­ mensione dell'individuo - che sia questa la spiegazione socio­ logica del fatto che il modo superbo di eccedere il limite as­ segnato dalla gerarchia sia stato sempre condannato. Si tratta, in genere, di divinità minori che aspirano all'eccedenza: da Gilgamesch a Krishna, a Prometeo e agli eroi di molte saghe nordiche. Comunque sia, nel nostro Occidente la strada si fa ben stretta. n fatto è che , per la nostra cultura , nella natura dell'uomo non è stare fermo al suo posto , ma eccellere, ex­ cellere, cioè uscire da sé, e-mergere, oltrepassare i margini. Si sa che l'uomo ha una natura instabile, poco definita istintual­ mente . �i proietta (si progetta dunque) verso modelli che si sceglie. E dunque grande il rischio di essere superbo: quanto più alto è il modello tanto più superba è la pretesa del p ro­ getto . E quanto maggiore è il rischio di eccedere d ai limiti della cultura comune, tanto maggiore sarà la pressione sociale e morale a tenersi nella norma, a rispettare la misura. Ricordati

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che nel più perfetto degli uomini, non nel meno dotato, sta il rischio dell 'eccesso , della dismisura». - «E infatti ! Angeli e demoni sono la stessa cosa - dice Ulri ch . Lui è talvolta irritante perché, per carattere , s ceglie sempre il punto di vista, possibile ma inusitato , che rende le cose confuse all ' opinione donlinante -. Angeli e detnoni hanno la stessa natura - continua imperterrito -, la stessa origine , le stesse prerogative . Un attimo l i separa, l' attimo i n cui si infrange l'interdetto , il limite. Almeno così hai detto . Anche se mi risulta che la ribellione di Lucifero inneschi una vera e propria guerra, una lotta tra angeli fedeli e angeli ribelli. Lu­ cifero viene seguito da schiere di angeli che lo ammirano e ne condividono l' atnore, trasformato in odio, per Dio. E dunque è da tenere a mente, per tutto il nostro successivo percorso, che il superbo attrae seguaci non meno che il giusto ; il nuovo ordine attrae alcuni almeno quanto il vecchio . E questo sia perché le gerarchie stabilizzate pesano e la dismisura attrae, sia perché la presunzione del superbo affascina coloro che si identificano nel suo successo e dunque vivono nel suo riflesso. Poi penso che Lucifero fosse davvero bellissimo e ammirevole quasi al pari di Dio: altrimenti non lo avrebbero riconosciuto come nuovo cap o . E poi c ' è la lotta. Questo significa che l' aspirazione a distruggere Dio e a p renderne il posto aveva qualche fondamento: n on sembra che duri un attimo. Luci­ fero non è impotente e roso dall'invidia, ma orgoglioso di sé , troppo fiducioso nelle proprie forze: crede di valere di più, di farcela. C'è contesa, magari, per un po' l'esito è incerto, e poi ecco la vittoria del Bene». - «Ti sbagli - controbatto, decisa -. Non sono d'accordo. Di fatto non c'è partita. La lotta è solo simbolica. L' angelo è condannato e sconfitto, da subito e per motivi appunto an­ tologici. Non può la creatura essere pari o superiore al suo creatore. Almeno non lo può in una logica aristotelica, fondata sul metodo della deduzione». - «Va bene» - concede Ulrich. - «Ma - dico io - torniamo a es aminare quell ' angelo : dobbiamo o non dobbiamo trovare dentro di lui i tratti della superbia per antonomasia ? E allora? L'angelo è puro spirito, non ha corpo. Questo significherà che la superbia è peccato dello spirito - lo diranno tutti i moralisti - e implica il con ­ trollo, se non la negazione, del corpo. E infatti, peccato dello

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spirito, dell'intelligenza è la hybris di Edipo e anche l'astu­ zia e la lucidità razionale di Prometeo. Negare o dominare il corpo significa padroneggiare tutto quanto si può opporre al programma di espansione del Sé: la n1alattia, la vecchiaia, ma anche l'esistenza dell'Altro in quanto tale. Essere puro spirito significa controllare tutto: non solo il corpo e le sue debolezze, ma anche l'Altro che si presenta come una variabile impre­ vedibile, sia quando è l'Altro a noi superiore, che quando è semplicemente il prossimo: comunque è ingovernabile e va ridotto e subordinato. L'angelo ha solo seguaci e militanti che lo riconoscono cmne capo, non ha amici, né compagni». Ulrich decide, forse per dispetto, di valorizzare quel pazzo di Lucifero. Probabilmente è influenzato dall ' icona che ha in mano e che sta guardando: un angelo preraffaellita, disegnato a tratto leggero, perfetto. - «Le caratteristiche della spiritualità dell'angelo - dice -, le sue virtù , sono l'intelligenza, la libertà, la responsabilità. Queste virtù gli permettono di com p i ere scelte morali. Può non riconoscere la sovranità di Dio , può opporsi alla sua vo­ lontà. S a di essere totalmente libero e attua se stesso senza resi qui, negando l'Altro». E importante sottolineare la libertà e la scelta n1orale per­ ché sono il fondamento della possibilità che si parli di colpa. - «Già Isaia - dico io - lamentava la superbia come non riconoscimento della trascendepza divina. Dunque superbia è non aderire, separarsi da Dio. E apostasia». - «Sempre più complicato ! » - Ulrich è decisamente bef­ fardo, e io mi sforzo di uscire dal gergo, cercando di spiegarmi meglio: - «Voglio dire: la colpa sta nella separazione, nella pre­ tesa di assoluta autonomia. Lucifero ha voluto qualcosa che conosceva , ma che non aveva: sapeva che Dio è totalmente autonomo , causa sui, causa di se stesso e Lucifero ha voluto esserlo a sua volta, ha voluto agire propria voluntate, senza dover riferirsi a nessuno». - «Detta in questi termini, la superbia - replica Ulrich - si avvicina pericolosamente, non puoi non riconoscerlo, al moderno. Tu capisci? Parlare di autonomia, per l'uomo mo­ derno . . . è la premessa di ogni discorso, sia morale che poli­ tico. Ma allora possiamo dire che la sfida dell'angelo consiste a) nel non riconoscere la sovranità; b) nell'agire di propria 28

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volontà, rifiutando la dipendenza; c) nell'apostasia, cioè nella non-adesione, nella separazione da Dio, come se non ci fosse. Ciascuno di questi elementi si ritrova nella secolarizzazione e psicologizzazione della superbia». Sono d'accordo, ma non dico nulla. Un progenitore ambizioso e disobbediente

Mentre ci avviamo verso il convento, discutiamo anima­ tamente �ull'importanza, nella nostra cultura, di quella scena in cielo. E chiaro che, finché si parla di angeli, si adombrano sì i tratti della superbia, ma m anca un tassello essenziale: il corpo, la carne. Per questo ci vuole l'uomo. E così, alla scena dell' angelo fa riscontro la grande scena - penso a quella, splendida, dipinta da Masaccio - del peccato di Adamo, il peccato originale . Anche quello è peccato di superbia, per­ ché Adamo, spinto dall a sua stessa inquietudine intelligente e dalla seduzione di Lucifero divenuto serpente, disubbidisce e mangia il frutto proibito, per superare i limiti segnatigli dalla sua natura creaturale. Ed è peccato originale, radicale, che segna la condizione umana legandola indissolubilmente alla superbia. La promessa del serpente alla donna è di conoscere il bene e il male. E questo significa mettere se stessi al posto di Dio: esattamente un peccato di orgoglio e di rifiuto della propria creaturalità, un peccato di separazione da Dio. Anche se poi la perdita dell'innocenza è l'inizio della libertà morale, la possibilità della responsabilità. Questa volta la punizione è la cacciata dal Paradiso e la scoperta di essere nudi: la vergogna. li peccato dello spirito penetra nella carne e, attraverso la carne, divenuta disobbe­ diente ed oscena, si trasmette agli uomini tutti. Tutte le colpe, ragioniamo Ulrich ed io , si giocano sempre tra il dentro e il fuori, tra la spiritualità e la carne. Quella che nell'Eden era la spiritualità innocente della carne diventa la carnalità della mente nella peregrinazione terrestre: diventa quel torbido peso dei desideri carnali che ottenebra la mente. La scen a della cacciata dal Paradiso mette la superbia all'origine della storia degli uomini, origine antologica e temporale. La superbia che aveva deviato l'amore tutto spirituale di Lucifero turba, getta nel disordine del desiderio il corpo animato di Adamo che 29

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vuole ciò che non può avere. E l'inquietudine, il tormento del desiderio - a causa dello sconfinato orgoglio - si trasmettono a tutti gli eredi di Adamo (fig. 6) . - «Anche in questo caso le conseguenze saranno dolore e conflitto - dice Ul rich rip ensando all a lotta degli angeli ribelli, n1a anche all e mille guerre scatenate dall 'orgoglio degli uo­ mini e, citando Hobbes e il cupo scenario del suo stato di na­ tura, aggiunge - "gloria, sentimento di compiacen z a o trionfo della mente, quella passione che deriva dall'immagina:?:ione o concetto del nostro potere, superiore al potere di colui che contrasta con noi " : l'amore irrefrenabile del proprio potere, desire o/ power a/ter power, partorirà guerra e disordine. Se il desiderio dei corpi non ha limite e cresce su se stesso, il frutto avvelenato non può essere che lacerazione e conflitto tra gli uomini e dentro gli uomini stessi». - «Ormai - dico - c'è di tnezzo il corpo, il suo disordine e la · sua disobb edienza ai dettami della volontà e della ragione. Insomma diventa in dispensabile educare, disciplinare l'anima e il corpo». ,

Il monaco santo Siamo arrivati all a disciplina e dunque al sistema dei pec cati capitali e siamo anche arrivati al monastero di . . . Il luogo è ameno, verdeggiante e silenzioso , il che sor­ prende piacevolmente come un'oasi che interrmnpe il deserto dei rutnori; la strada per arrivarci è poco fr equentata . N el chiostro, un gruppo di monaci giovani parla a voce sommessa: ogni tanto si sente qualche risata appena soffocata. Un vec­ chio monaco adir ato sgrida un inserviente. Penso al Nome della rosa . Questo convento è meno solenne e meno grigio . Ma anche qui sembra che tutti sappiano cosa fare, q u ando e per quanto tempo. Forse perché hanno acquisito una certa fama come produttori di erboristeria, cosn1etici e distill a ti ar­ tigianali dalle incredibili capacità terapeutiche. Corpi e anime si muovono a tempo e ti chiedi se questa sintonia provenga dall ' anima che tiene prigioniero il corpo o da corpi disciplinati e addestrati che tengono prigioniera l'anima. n disordine non si vede, forse però c'è. Traspare qui e là. Nell'ent u siasmo con cui uno dei monaci discute di qualcosa da comprare o vendere ­

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vantaggiosamente, o nell a cura con cui stanno macellando un b ell 'agnello per pranzo , o in sguardi di complicità che si in ­ crociano. Ma siamo qui per vedere padre Sergio. Ne parlano tutti, del monaco santo . Ha lo stesso nome del protagonista di una novella di Tolstoj : quella che narra di un giovane bello e ricchissimo, brill a nte e pieno di amor proprio che lascia im­ provvisamente il lusso e gli amori di Pietrob urgo per chiudersi in un convento. «Anche nel monastero trovav a gioia nel rag­ giungere la più alta perfezione possibile . . . faceva più di quanto non gli si chiedesse e allargava i limiti della perfezion e . . . an­ nullato dall'obbedienza» . Ne l tnonaco perfetto di Tolstoj si insinua il tarlo delle passioni n egate e perciò osce n e: fuori della scena del consentito, del ri conosc i uto. Diviene eremita per sfug g ire le tentazioni, sempre inseguito dalla seduzione del corpo, dal desiderio represso con le pratiche ascetiche della mortificazione più asp ra. Una lunga serie di o b blighi alla castità, alla povertà, al digiuno, alle privaz ioni, alle autofusti­ gazioni . Finché accetta la propria imperfe zione e il p roprio peccato nella lontana Siberia: così fa finire la sua novella di supe r bia redenta il saggio Tols t oj . Questo p adre Sergio, in ­ vece, ha fama di non essersi mai mosso dal suo monastero . Quando lo vediamo in un angolo, assorto nella p re ghie r a, è come t i immagini che d ebb a essere: una figura s carna per i lun g hi digiuni, la pelle terrea , mani e piedi non si vedono , persi nel saio. Negli occhi at oni, spenti passa all'improvviso un lampo febbrile . Dicono che sia santo , forse addirittura qu ando morirà non si decomporrà il c�rpo e ci sarà profumo di violette anziché puzza di cadavere. E strano, ma non privo di senso , che in tem p i come questi in cui viviamo , te1npi di incredulità, tempi di realtà virtuale e di culto del corpo, si riproponga un frammento di Medioevo, e susciti attrattiva un esempio d i vit� così estremisticamente anticorporea. Oppure non è strano . E solo l'altra faccia dell'incredulità diffusa, il bisogno di cercare scorciatoie all a salvezza, riattivando figure s alvifi ch e Noi siamo immersi nella discussione sul sistema dei pec­ cati. ll monastero è del XII secolo, ma il sistema di organizza­ zione dei peccati è più antico: è stato messo a punto tra il V e il VI s e colo tuttavia ha most rato una straordinaria effi cacia ermeneutica e retorica, una capacità di adattarsi alle diverse epoche per o rganizzarne il mondo morale. .

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- «Cosa intendi per sistema?» - chiede Ulrich, che, lo so, considera i sistemi atti di violenza ( di superbia ? ) del sapere che i filosofi costruiscono per imprigionare il mondo, essendo impotenti a dominarlo. - «Cassiano - rispondo - e poi Gregorio Magno h anno " inventato " uno schema di classificazione dei vizi, i sette vizi capitali, che è un modo di riconoscere e governare le forme di condotta degli uomini e un modo per sorvegliate, indirizzare e punire le loro emozioni, desideri, sentimenti. E la premessa di esercizi spirituali volti all ' autocontrollo» (fig. 3 ) . La faccia di Ulrich si atteggia a ghigno. «Alia buonora ! Le vite degli uomini sono governate dal pastore» . - «Effettivamente sì - rispondo io -. Quello che dobbiamo capire è che per governare la condotta e orientarla occorre lavorare sulla sep arazione e s ull'interdipendenza del corpo e dell'anima, del dentro e del fuori: è questo che fanno quei due, Cassiano e Gregorio . Per Cassiano, la superbia e la sua faccia esteriore, la vanagloria sono vizi della parte spirituale e razionale». - «L'avevamo già detto - Ulrich si annoia presto delle mie ripetizioni scolastiche - che hanno a che vedere con la verità e con l'intelligenza». Non raccolgo il sarcasmo e continuo, didattica: «L'anima deve combattere contro la concupiscenza del corpo, e corpo e anima non sono entità ma moti, passioni, desideri in con­ flitto». - «Se ho capito bene - dice Ulrich , senza attenuare il tono di lieve sarcasmo -, per Cassiano il povero monaco dà battaglia ai vari vizi arretrando sempre più verso la propria interiorità. Ma così facendo, diventando cioè sempre più per­ fetto e spirituale, finisce col cadere in braccio alla tentazione più pericolosa, quella della superbia. L'orgoglio gli tende la trappola, l'orgoglio di aver sconfitto le tentazioni e per aver raggiunto la spiritualità, la perfezione». Non si può non pensare a padre Sergio, così povero, così umile da essere santo. Nella sua diversità dagli altri frati ri­ suonano la tensione fino allo spasimo verso la perfezione, la sfida all a fragilità del corpo e ai suoi desideri di godimento e di riposo: il riflesso dello sguardo scintill a nte dell'angelo. - «Geniali quei due - continua Ulrich - e psicologi ante litteram grandissimi, se la psicologia è la scienza umana che 32

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gestisce la personalità e le emozioni in modo funzionale a ciò che è giusto, opportuno e vero in una società». - «Autosufficienza e autocompiacimento : padre Sergio - osservo -, che si è consumato in una continua dis ciplina e ascesi per essere perfetto , ora, forse, per la sua superbia, è perduto». Mentre p arlo , guardo p adre Sergio . Racchiuso nel s aio logoro, non sembra abbia corpo: l'ha consumato e con esso si è consumato nell'autocompiacimento di essere puro, perfetto, solo spirito. Ma Ulrich non è d'accordo e affila le armi della sua intelligenza tagliente. - «Sei proprio sicura che padre Sergio, praticando l' asce­ tismo e mortificando i desideri del suo corpo, sia divenuto tutto spirituale e, perciò, sia a rischio di superbia? Io penso, invece, che avesse ragione Gregorio Magno e che il processo sia inverso: non è dalla carne allo spirito che diviene superbo della propria spiritualità , ma da una carne conciliata con la sua spontanea spiritualità ad una carne solo carnale . La fine intelligenza di Gregorio intuisce che è la superbia dello spirito che genera gli eccessi perversi dei vizi corporali: dall'interno all'esterno, dall' anin1a al corpo, alla carne. La superbia spinge la spiritualità innocente della carne - la naturale armonia p si­ cofisica, per esempio, di Adamo - verso l'esteriorità del solo corpo, apparentemente ripudiato e invece esaltato, eccitato dai desideri naturali che vengono negati e repressi. Il superbo è concentrato sull ' esteriorità carnale, vede solo con gli occhi del corpo e non pensa che attraverso imm agini del corpo. La ge­ nealogia dei peccati inizia dalla superbia, che è dunque punto di partenza, non di arrivo». Forse Ulrich ha ragione: guardo di nuovo il frate raggo­ mitolato nell'angolo, chino su se stesso e mi sembra di capire meglio. Ma è ancora Ulrich che tira le somtne: - «Padre Sergio è tutto carnalità ed esteriorità: è ossessio­ nato dal corpo e dalla disciplina cui lo sottopone. Non riesce a pensare che attraverso le seduzioni e le passioni carn ali e si avvita ad esse: la sua spiritualità ne dipende. La sua severis­ sima pratica ascetica non lo libera dalla carne, ma lo lega i n modo perverso al suo piacere». Povero frate, in lotta con il proprio demone, ossessionato dall a perfezione, non fa che ricondurla alla fisicità, al controllo del corpo. Se Gregorio e Ulrich hanno ragione, la guerra con33

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tro i vizi, a, cominciare dalla superbia, si combatte sui corpi e nei corpi. E il corpo vivo il centro di tutto. Questo spiega quello che succede nei secoli della piena gestione p astorale e biopolitica delle anime- corpi da p arte della Chiesa. La carne diventa sinonim·o di peccato. - «Paolo - dice Ulrich - e la sua lettera ai Romani: è lui che ha cominciato». - «Sarà stato lui - rispondo -, ma fatto è che focalizzando tutta la gestione delle condotte umane sulla disciplina della carne, il peccato stesso della superbia diventa come tutti gli altri: una cosa che si vede, che si può identificare e classificare, un atteggiamento esteriore visibile e riconoscibile. E degrada in vanagloria, esibizione di potere». - «Perché questa smania di riconoscere, dire, classificare?» - mi chiede Ulrich. - «Perché - rispondo - il perno del controllo e del governo biopolitico delle vite sta nella pratica della confessione: il confessionale è il posto dove la colpa segreta è messa � nudo, diventa visibile ed emendabile, tramite penitenza. E chiaro che padre Sergio , come il suo doppio tolstoj ano , più affinava la sua santità, più si prosternava nell'ombra del con­ fessionale, umiliandosi e denunciando le proprie trasgressioni infinitesimali, e più, con questa esibizione di umiltà, cercava di celare il peccato di superbia latente». Questa esibizione di virtù esasperata e sottilmente superba si replica anche in tempi miscredenti come i nostri: sotto le spoglie magari del medico eroico , senza frontiere, che di­ sprezza le comodità e le sicurezze che gli altri inseguono e leva alta la sua superiorità morale, facendo risuonare mediati­ camente la propria eccellenza. Nei secoli della regola pastorale, comunque, il problema non è tanto p iù quello di disciplinare la vita monastica e la sua aspirazione alla perfezione ( con conseguente rischio di superbia) , quanto quello di classificare i comportamenti de­ vianti ai fini di un più generale controllo sociale. A questo scopo bisogna che ci si riferisca a cose visibili e relativamente semplificate. Certo la superbia è dell'anima, ma si manifesta nell' esteriorità, nella vanagloria come ostentazione di lusso, esibizione di case ricche e imponenti, di abiti, di gioielli, di ornamenti. Anche nella pastura del corpo si rivela il superbo: il suo portamento è rigido, gonfio di sé, è sordo alle voci degli ·

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altri, il tono è arrogante, imperioso. Tutti segni del disprezzo per gli altri e per Dio. Ovviamente siamo agli antipodi rispetto al corpo consunto, quasi immateriale del monaco santo: dal­ l' orgoglio di sé esibito nella mortificazione del corpo all ' arro­ gante ostentazione della propria potenza e vanità. - «Questa seconda faccia - dice Ulrich - è più facile, direi quasi banale: ed è quella che i sistemi di classificazione disci­ plinare hanno individuato e stigmatizzato. Mentre l'altra è più segreta e pericolosa. Si capisce che condannare ed emendare una condotta vanitosa e arrogante è un'operazione di discipli­ namento assai più funzionale al potere pastorale. Soprattutto perché, immagino, sarà rivolta ai potenti e ai ricchi. Sull a loro ostentazione di potere e di vanità farà cadere un giudizio nega­ tivo, che non può non conferire un potere più alto al pastore, al monaco che lo pronuncia». - «Sì - dico io, mentre ci allo ntaniamo dal convento -, la dinamica è interessante: condannare la vanagloria dei potenti (addirittura quella dello stesso pontefice nella cerimonia del­ l'incoronazione, quando passa un monaco incappucciato che spegnendo una candela an1monisce: sic transit gloria mundi, così passa la gloria mondana) conferisce al pastorato spirituale della Chiesa un potere superiore a quello mondano. Non resta che chiedersi se è maggiore la superbia del monaco o quella del pastore-re. Direi di essere cauti nel giudicare: entrambi non p arlano per se stessi e per puro orgoglio , ma in nome dell'ordine delle cose che viene trasgredito da chi si pone al di sopra dei fratelli, degli uomini e si assimila a Dio».

Vanagloria di re Ma ora il nostro sguardo deve fermarsi sui superbi per antonomasia: i re. La sovranità è potestas superiorem non recognoscens. Si addice, nell'ordine delle cose (che nessuno ha ancora conte­ stato) , solo a Dio. Ma sull a terra, nel processo di formazione degli Stati moderni, diventa l ' attributo del re, del sovrano. Che non può non essere superbo: la radice delle due parole è la stessa, super: la vetta della gerarchia. Scettro, corona, trono devono essere esibiti, come segno di sovranità, perché i sudditi li riconoscano e accettino la volontà di chi li porta, come su35

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periore ai loro conflitti, ai loro interessi, capace di tacitarli. La manifestazione della superiorità, le vestigia esteriori , il corpo visibile del re perché possa essere sovrano devono trasgredire l'ordine naturale e farsi simili a Dio. Dunque il peccato più che essere un rischio è una certezza: la gloria sarà detta vana in relazione all'uomo vivente, alla carne e alle ossa che la in­ carnano, ma è necessaria e consustanziale al corpo sovrano, alla figura regale. Ulrich ed io siamo nella galleria del Prado, il museo che, già nella struttura architettonica, cupa, severa, compatta, testi­ monia di una monarchia tra le più grandi e meno contestate, quella spagnola ed asburgica. Ci fermiamo a contemplare una sequenza di ritratti di sovrani, imperatori, principi, regine. Ci sono anche molte raffigurazioni b arocche di Dio o della Madonna che circonfusi di angeli, in uno sfondo azzurrissimo, si chinano a incoronare un sovrano inginocchiato sotto un prezioso manto regale, mentre più in basso gruppi di nobili e prelati esultano. Gente con1une non se ne vede. - «Se il corpo è la visibilità del peccato di superbia ed è anche il luogo della visibilità della sovranità - osservo, par­ lando a voce bassa, per non disturbare gli altri visitatori della galleria , è ovvio che questi imperatori , i Carlo, i Filippo, i Luigi, app aiono tesi, irrigiditi. Come persone, si sentono la­ cerate ed esposte ad una fragilità che debbono negare. Nei ritratti, il viso è tirato, adattato alla maschera che indossano; la pastura sacrifica il movimento spontaneo alla funzione che rappresentano, ma in cui non possono identificarsi completa­ mente. Solo la grandezza del pittore riesce a far trasparire la 1nalinconia, l'ira dello sguardo, la pressione del desiderio : ci sarà dietro le quinte il monaco o il gesuita pronto a ricordare loro la punizione che aspetta la carne che si lascia coinvolgere nella superbia, la quale si addice al solo corpo sovrano e non all'uomo in quanto tale». Ulrich sen1bra calamitato da un ritratto di Velazquez con una tremenda principessina, una niiia, prigioniera di una co­ razza di seta e merletti, e risponde a voce un po' troppo alta: - «Saranno stati tormentati fino a quando la loro anima è stata catturata da quella doppia verità, fino a quando hanno creduto al monito pastorale che quella sovranità non si addice alla parte umana di sé, fino a quando ancora l' imitatio Christi e il suo monito vanitas vanitatum hanno influenza. La lacera-

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zione, credimi, non dura a lungo ! I sovrani si inseriscono in un indiscusso ordine sociale a struttura piramidale, naturalmente all'apice della piramide. La gerarchia aristocratica legittima la diversa qualità degli uomini, il privilegio , il diritto , cioè, di sottrarsi alla legge di tutti e sottostare solo al giudizio dei pari. Considera giusto che re e nobiltà siano esentati, immuni dalla fatica servile del produrre, del lavorare, del commerciare. Dunque l' alterigia, la tracotanza non sono veramente colpe sociali: hanno riconoscimento, non riprovazione. Tempi duri anche per il pastorato cristiano che , come ceto , si pone al riparo sotto l'on1brello della gerarchia sociale, collocandosi an ­ ch' esso al di sopra degli u01nini comuni. Pensa a don Rodrigo e al conte Attilio , nella storia degli sposi promessi: storia di arroganza, di sopraffazione autorizzata e che non fa scandalo . Storia in cui il monaco Cristoforo , che all e spalle ha una sto­ ria di peccato e di violenza proprio perché non sa tollerare la superbia, nel lanciare il suo anatema sul soverchiatore - quel Rodrigo , superbo e vano nell' angaria cui sottopone i più de­ boli - trascende a sua volta in un gesto di superbia e prende il posto di Dio per condannare come Dio solo può fare. Storia, infine, in cui una buona quantità di ecclesiastici - soprattutto in quel tal monastero di Monza, prigione per sole donne - non solleva alcuna condanna verso gli atti di superbia, di disprezzo per le vite e le volontà degli altri, di insensibilità per la loro sofferenza. Scatenando, come prevedeva qualche secolo prima il saggio Gregorio, una catena di peccati senza fine. E pochi sono i superbi che, come l'Innominato, si pentono . Diciamo pure, cara mia, che i secoli della sovranità e dell ' aristocrazia possono ben poco cond annare un vizio che è connaturato allo status. Alterigia e tracotanza subiscono riprovazione solo se c'è un eccesso , una qualche dismisura rispetto alle forme codificate della diseguaglianza sçciale e soprattutto solo se l' arroganza si volge contro Dio. E Dio , in fondo, il modello del sovrano». - «È in ogni caso troppo facile - aggiungo io - peccare di superbia, quando nell'etichetta, nel codice di comportamento si cancella ciò che si ha in comune con gli altri uomini: la fragilità della carne, la vecchiaia, la dipendenza dalla terra, dal bisogno. Anche se mi sembra che tu abbia ragione e quella superbia non sia considerata peccato». Non siamo nelle sale del Louvre, ma se fossimo stati fi, alle 37

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Tuileries o addirittura a Versaille s, certo avremn1o osservato le tracce della più scenografica ed enfatizzata delle sovranità, che in quei luoghi celebrava se stessa e la propria superba quasi­ divinità. Ma, se fossimo stati a Parigi, avremmo anche calpe­ stato il selciato, le pietre, su cui la folla si raccolse, furibonda contro tanta tracotanza, alterigia arroganza, improvvisamente visibili a tutti e improvvisamente, per tutti, ingiustificate e insopportabili. ,

Orgoglio borghese Ulrich , che mi conosce, sembra avere indovinato la mia silenziosa esaltazione e infatti ridacchia. Poi decide di rove­ sciare l'approccio. Mi ricorda quello che ho detto al principio del nostro viaggio , che la superbia è un peccato legato alla verità, a quello che si pensa e si crede sia l'ordine dell'Essere o , più tnodestamente, l'ordine delle cose e delle persone. E dunque? Mentre ancora la società aristocratica era istallata con le sue diseguaglianze antologiche e addirittura biologiche nella cornice tomista e dantesca del mondo - al vertice Dio, motore e causa prima di ogni cosa, poi l'Empireo popolato di angeli, sotto la terra con la sua brava piramide: il sovrano, poi bellato­ res e orantes (nobili e preti} e sotto, ma sotto davvero, la gente comune -, mentre, dunque, ancora si strutturava in questo modo l'ordine dell 'essere e dunque era superbia qualunque eccedenza da quei ranghi stabiliti, una grandiosa rivoluzione ideologica aveva luogo. Anzi una rivoluzione copernicana, che viene prima di quella francese e la rende possibile. Declinano le forme sociali aristocratiche e le emozioni che le sostenevano: la p assione della gloria, la dépense, la gene­ rosità dispendiosa, smisurata, ma anche lo spreco di energia nella lotta, l'eccesso , la violenza. Lo scatenamento, sovrano, dissipativo e perdente, della passione di sé comincia ad essere guardato con diffidenza e sospetto. Quella stessa passione di sé, self love, viene addomesticata nella nuova società borghese, e trasformata in senso autoconservativo. Mentre attraversiamo la periferia di Madrid, appare il profilo di qualche silos e di qualche ciminiera, e la forma dentellata di una vecchia fab­ brica, da archeologia industriale; sull a destra una lunga fila di 38

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capannoni e camion che entrano ed escono. n paesaggio, poco solenne , disordinato e dissemin ato di edifici sorti secondo logiche commerciali casuali, ma vivace e attivissimo , sembra rispondere al cambiamento che stiamo cercando di evocare e che prese inizio in quel lontano Settecento, in u n 'altra parte dell ' Europa : la Spagna dovette attendere ancora a lungo. Una vera rivoluzione culturale: al centro del mondo ora c'è l'uomo. Anzi l ' in dividuo - un Tom Jones qualunque, energico, inquieto, inventivo, un po' mascalzone - sciolto da condizio­ namenti familiari e dai ranghi che lo legavano ad uno status. L' uomo divenuto misura delle cose, cui ogni valutazione fa riferimento e, soprattutto , da cui tutto dipende. Tutte quelle cose che si consideravano date e dunque era giusto accettare così com 'erano - la distribuzione di ricchezza e povertà , la potenza e la forza di alcuni e la debolezza ,degli altri -, tutto può essere discusso e tutto può cambiare. E l'uomo che si dà le leggi e le regole . - «E Dio?», chiedo , facendo io, una volta tanto, dell'iro­ nia. - «Ma - dice Ulrich - Dio non è che non ci sia più . Sci­ vola dentro l' anima dell'uomo, si scioglie nella legge morale e da lì de�tro continua a presidiare la qualità dei comportamenti umani . E owio che sto parlando a grandi linee e sono infinite le eccezioni, le resistenze a che questa nuova verità diventi cre­ denza comune. Solo quando diventa senso comune, una cosa del genere può far funzionare un sistema di vizi o di colpe e cambiare il modo di considerare la superbia» . - «Ma - obietto - non è superbia anche questa? Non è superba questa p retesa dell'uomo di essere il centro e il ri­ ferimento di tutto? Entria m o in un ' epoca dove è proprio la visione della realtà , più ancora che gli individui singoli, ad essere superba». - «Oh - replica Ulrich - ancora oggi non cessano i lamenti di sensib ili intellettuali contro gli eccessi superbi della rivolu­ zione antropo cen t rica, contro l'arroganza dell'umanesimo. Ma ci vorrà molto tempo, e non ancora ci siamo del tutto , per smantellare questo nuovo sapere sull ' uomo e questa nuova superbia. Che peraltro - aggiunge piccato - ha sostenuto e sospinto la corsa al progresso e l'eccellenza dell'Occidente». Comunque, resta assodato che si costruiscono un altro senso del Sé, una diversa legittimazione delle proprie umane 39

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qualità e dell' amore di sé, e l'ascesi del monaco santo appare oscurantista e bizzarramente gotica. - «Si fa spazio - continua Ulrich - ad una nuova ascesi intramondana : cioè gli uomini si sottopongono ad una nuova disciplina (non più pastorale ) che potenzia la capacità di essere più produttivi, più forti, più ricchi. E per fare questo ci vuole una giusta autostima. Orgoglio e autostima sono le nuove pa­ role di questa rivoluzione della superbia. Non l'umiltà, siamo polvere e peccato, ma la consapevolezza di avere doti di intel­ ligenza e volontà che possono spostare la nostra originaria po­ sizione nel mondo. L'orgoglio può essere una virtù, o meglio, poiché si parla assai meno di peccati e penitenze, può essere una passion e positiva, sel/ love, un 'indispensabile affettività interiore che muove, motiva la voglia di fare». E Ulrich tira fuori il discorso sull'Inghilterra, sull a cultura e la filosofia borghese e su come Hume definisce l'orgoglio: «Pride - orgoglio, dice il vecchio Hume - è quella piacevole impressione che nasce nella mente quando ci sentiamo sod­ disfatti di noi stessi per la nostra virtù, bellezza, ricchezza o potere» . - «Mentre Hobbes - continua Ulrich - sottolinea il dera­ gliam ento infinito del desiderio di potere e considera pessimi­ sticamente la van agloria, l'ira, l'ambizione all'origine (naturale e inevitabile) della guerra, un gruppo di scozzesi, più curiosi e meno prevenuti, muove all a conoscenza dell'uomo attraverso l'os s e rvazion e empirica dei comportamenti: quello che si vede di sentimenti e di affetti che si manifestano nella vita quoti­ diana. Nella vita quo t i diana di chi? Ma della gente comune, dei borghesi, dei gentiluomini di campagna che cominciano a inve s tire in lucrose imprese commerciali o addirittura in quella nuova catena produttiva, l'industria, che usa le macchine per incrementare la produzione e il guadagno. Le vecchie cose che ci eravamo detti sull'uomo , il quale si trova, per essere davvero umano, nella condizione di dover eccedere se stesso e seguire modelli ideali che lo spingano a superarsi, si ripro­ pongono in una forma meno drammatica, ma solida, positiva, come un programma di perfezionamento , piuttosto che di perfezione». Conosco il debole del mio amico per Hume, il signore scozzese che prese gusto a demolire alcuni luoghi comuni e quello che chiamava «lo stile delle scuole e dei pulpiti», per 40

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ripensare la natura umana e le sue passioni, e non interrompo il lungo affondo di Ulrich. Voglio solo sottolineare che si trattò di un attacco frontale a quel sistema di governo delle vite con­ dotto dal pastorato attraverso lo schema dei vizi capitali, radi­ cati nella superbia vitium vitiorum: - «Prop rio la gestione pastorale delle vite, che può av­ venire solo all'interno di un sistema di verità che la autorizzi - dico - viene messa in crisi, se si osservano gli uomini a partire dalle loro etnozioni, dai sentimenti e, per descriverli, si parte non da Dio e dall a gerarchia dell'essere, evidenziando quello che manca, ma da quello che c'è. Come si è detto la superbia ha a che fare con la verità, o quell a che si crede essere la verità; allora, a una verità si contrappone un ' altra verità». - «Cara mia, sì ! - fa Ulrich, una volta tanto con una certa enfasi di cui in genere è avaro - Non si tratta qui nemmeno di una ripresa dell'umanesimo rinascimentale, anche se un po' ce n'è di umanesimo. Quello faceva dell'uomo un'entità ancora una volta metafisica e dunque collocata tra bestia e angelo , anche se dotata di virtù simili a quelle del Dio creatore. Ma qui cambia il modo di awicinarsi al problema: i moti psicolo­ gici dell'anima e gli effetti sociali: da cui via via si costruisce il quadro cmnplessivo e l'eventuale giudizio morale. L'amore di sé, il self lave, non può non esserci, e nella veste di giusta au­ tostinla, è indispensabile nella vita, che è sempre vita relazio­ nale e sociale. Pride, l'orgoglio, stimola il potenziamento di sé ed è un vizio/virtù incorporato nella nuova morale economica e sociale. Con Mandevill e diventa sel/-liking, cioè l' egoismo legittimo, il preferire se stesso , connesso ad un forte bisogno della stima altrui. L'approfondimento della dimensione psico­ logica dell'Io non solo evidenzia la centralità dell'amore di sé, ma anche la sua dipendenza dall a relazione con l'altro: l'amore di sé coincide con la ricerca dell'amore/ammirazione degli altri verso di noi. Cade la spinta alla separatezza, al diniego degli altri, che era ·stata il cuore dell' atto di superbia dell' angelo . Quelli che erano peccati interiori, dell'Io con se stesso e con Dio , mostrano d ' essere emozioni vive e di natura speculare e relazionale. Si aprono all 'interdipendenza sociale. Così il sociale diviene la misura delle passioni. Si ama se stessi nella misura in cui gli altri ci an1ano». Lo interrompo : «Bene ! Vedo che tutte queste cose, che 41

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più che carnali sono materiali, trovano finalmente cittadinanza senza problemi». - «D ' accordo sull'ironia - dice Ulrich -, ma è difficile sopravvalutare il cambiamento ! Queste cose materiali in cui si colloca il giusto orgoglio e la stima di sé sono in realtà beni sociali, indicatori per lo sguardo degli altri della nostra iden­ tità. Essere orgogliosi della casa adorna di manufatti preziosi, delle scuole frequentate dai figli, della stanza adibita a studio e carica di volumi, tra cui la copia pirata dell'Encyclopédie di Di­ derot, significa inviare una serie di messaggi sociali sul proprio Sé, sui valori e sui modelli che sono a tal punto interiorizzati da poter chiamare tutto ciò autonomia, governo di se stessi. La volontà di autonomia era stata il peccato di Lucifero e diventa il perno della moralità e della libertà civile. Ma anche qui c'è una trappola: anche qui si danno forme di ascesi e di disci­ plinamento, perché Dio si è trasferito nella coscienza morale. E la coscienza si fa giudice della giusta misura delle passioni, e dell'orgoglio soprattutto. Così, tramontata la condanna teo­ logica, resta quella n1orale che ordina di tenere l'amore di sé nei lin1iti in cui è dignità, senso dell'onore, responsabilità; non deve eccedere perdendosi nella presunzione, nella tracotanza, nella vanità. E questo tenere il limite è piuttosto complicato in una realtà di capitalismo nascente, agonistico e concorren­ ziale in cui non ci si può fermare, causa il tasso decrescente del profitto. In effetti ciò che viene condannato dell'eccesso di orgoglio è un possibile effetto disordinante sul sociale, che potrebbe mettere a rischio il ruolo positivo del self lave in un contesto di mobilità, concorrenza e conflittualità sociale. Se l'orgoglio eccessivo diventa vizio (non peccato) di superbia, significa che ha sfidato il nuovo ordine, la nuova misura la cui sede non è più Dio ma la società». il quadro della Inodernità borghese e dell'orgoglio ricon­ quistato mi sembra un po' troppo privo di on1bre e dico: - «Metterei in conto poi che, in questa nuova società, la superbia si tiene stretta alla p assione che le è sempre stata vicina e che ne è, per alcuni moralisti, l'altra faccia o addirit­ tura la segreta punizione: l'invidia. Se l'orgoglio diventa una passione sociale, la superbia è tale nello sguardo invidioso dei vicini, che ammirano, vorrebbero imitare, invidiano , dunque odiano e non potendo confessarlo (l'invidia è inconfessabile perché riconoscerla significherebbe proclamare la propria in42

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feriorità) definiscono superbo colui che è riu scito , che eccelle. Anche l'invidia è superbia per� é pensa di dover avere ciò che conosce , ammira e non ha. E s upe rbia coniugata ad impo­ tenza, risentimento e livore. Diciamo la verità: il nuovo mondo presenta una scena di meschina aggressività, in una s ociet à in cui le diseguaglianze non sono più facilmente accettate perché derivate dall'ordine divino, ma sono conquistate da chi le ha e malviste dagli altri». Ma con la società del risentimento e dell'invidia, la super­ bia - l' accusa : «sei superbo ! » - entra nella fase della piena modernità.

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C apitolo terzo

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Primo intermezzo teatrale: Faust o dell'impazienza Siamo stati invitati entrambi ad una rappresentazione del Faust, in una saletta del Goethe Institut di Napoli. Veramente - come annunciato nella brochure - si tratta di un testo che ricompone liberamente le diverse versioni dell'opera: il tragico UrFaust, con la grande sfida al Caos, che termina con la morte e la catarsi di Gretchen-Margherita, e l ' epico secondo Faust che si misura con la serie storica dei mondi creati dal genio del protagonista e dall'artificio diabolico . Per fortuna la rap ­ presentazione evita ogni banale at tualizz a z ione. Apprezziamo l'invito perché, giustappunto, stiamo raccogliendo m ateriale su Faust, il dottor Faust, che, d al m ago alchimista del dramm a di Marlowe allo s ci en z i at o fil osofo di Goethe fino al Doktor Faustus di Mann , pr es i dia la m o de rn i tà con la sua tragica e inquietante figura. Non a caso al suo fianco c'è, una volta an­ cora, il grande tentatore, il demone, Mefistofele come nuovo Lucifero. Faust è il mito più pregnante della superba sfida dell'uomo moderno all'ordine naturale. E si misura direttamente con la scena primaria della ribellione dell'angelo. Quell'ordine natu­ rale che Lucifero si rifi u tava di riconoscere come dato, come dono, diventa il premio di una sfida, l 'oggetto di un sapere come potere, come fare e manipolare. La potenza emblematica della figura di Faust sta proprio in questa nuova posizione del­ l'uomo di fronte all a verità della natura: non più contempla­ tiva e recettiva, ma attiva, impaziente, creativa, manipolativa. E questa è già, per la visione del mondo premoderna, una sfida -

superba, gravida di peccato.

La nuova forma di sapere, che si fa strumento dell'uomo­ sfidante, conferisce a Faust il ruolo divino del creatore di vita, del demiurgo, insieme alla consapevolezza della trasgressione, della forzatura . Mettersi al posto di Dio. In Faust c ' è una

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cosciente ripresa tanto della ribellione di Lucifero ) quanto della tentazione di Adamo: Eritis sicut Deus) scientes bonum et malum, questa la dedica che Mefistofele, nelle vesti di Faust) scrive sul libro dello studente venuto a chiedere consiglio. Prendiamo posto nella saletta già buia, gli spettatori sono p o ch i . Il riflettore illumina un ambiente non gran d e , un a stanza con la volta gotica, stretta ed alta) e Faust, yisibilmente inquieto) nella poltrona davanti al suo scrittoio . E subito evi­ dente che lui raffigura il sapere, la scienza: tutt'intorno non si vedono che scaffali colmi di libri e pergamene polverose e il tavolo è coperto dio alambicchi, storte, fornelletti e molte fiale e bottiglie, alcune delle quali con qualcosa dentro di oscuro e vagamente ripugnante, che stanno ad indicare alchimia, scien­ tia naturalis e medicina. Faust dice che lo chiamano Doktor e Magister, ma della lenta fatica della sçienza è deluso: «Mi è chiaro che nulla possiamo conoscere ! E qualcosa che quasi mi b rucia il cuore» . Mentre Faust si lamenta della p overtà della stanza e annuncia la s celta di darsi alla m agia , io già mi distraggo . Il passaggio dal sapere descrittivo alle pratiche magiche e alchemiche non è solo il segno di una conoscenza piegata all ' arricchimento, al godimento di beni , ma è anche il segno della ricerca di una strada più b reve - una strada ingenua e onnipotente come il desiderio di un bambino - per ottenere risultati subito , perché la manipolazione sia subito efficace. Si salta la faticosa, lenta raccolta di dati che, tra mille fallimenti, avvicina al segreto della legge naturale, e si spera di coglierne m agicamente la formul a , di trasformare in un attimo quegli oggetti polverosi in oro scintillante . Di Faust mi colpisce l ' impazienza. E mi ricordo Kafka: «Esistono due peccati capitali, neU: uomo) dai quali derivano tutti gli altri: impazienza e ignavia. E l'impazienza che ha fatto cacciare gli uomini dal Paradiso , è per colpa dell'ignavia che non ci tornano. Ma fç>rse non esiste che un unico peccato ca­ pitale: l'impazienza. E a causa dell' impazienza che sono stati cacciati, a causa dell'impazienza che non tornano». Ecco - mi dico - è questo il carattere che apre la porta alla superbia e alla sfida. Faust h a fretta, non aspetta i tempi delle cose. Non aspetta che il mondo proceda con i suoi ritmi. La sua p assione, «che quasi gli brucia il cuore» ) tnuove le cose, le trasforma. La sua intelligenza è impaziente, risolutiva. Perciò viene a p atti con «la forza che vuole sempre il male

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e opera sempre il bene», con un Mefistofele, intelligente ed ironico servitore di Dio, che - dismesso l'atteggiamento di tra­ gico orgoglio di Lucifero - ha a sua volta con Dio stipulato la scommessa di riuscire a coinvolgere F au s t nel gioco del potere e della superbia. Faust accetterà il patto, perché non sa aspet­ tare che le cose awengano: vuole determinarle. E, de term in an ­ dole, controllarne l'esito . Impazienza e controllo, due passioni che sembrano iscritte in tipologie umane diverse: l'una, l'im p a zienza, passione calda, vorace, urgente verso l'azione, l' altra, il controllo, passione fredda, che non rispetta il suo oggetto, lo blocca, lo posiziona, lo manipola. La s upe rb ia di Faust assume questa doppia veste emozionale. Così la magia e il potere , offerti d a Mefistofele in cam­ bio dell ' anima, gli servono per sedurre la pi cc ola Gretchen, operazione che - sostiene Ulrich a n1ezza voce avrebbe po­ tuto compiere con calma, ascoltando la realtà del contesto e inserendosi in esso o magari atnando a sua volta (fig. 1 1 ) . Ma Faust non ha imparato ad amare: la seduzione di Marghe­ rita passa attraverso il ridurla ad oggetto , il forzare i tempi del suo desiderio per imporre il controllo del proprio piacere dominante: ancora impazienza e controllo. Quella che Faust chiama «la pena di questa angusta esistenza terrena» è l'insof­ ferenza verso la dipendenza dalla realtà, dai suoi tempi lenti . «Come la vita è lenta e come la speranza è violenta - cantic­ chia Ulrich, citando Guillaun1e Apollinaire -. Troppo vecchio per giocare soltanto. Troppo giovane per non desiderare. Che mi può ancora offrire il mondo? Rinunciare, tu devi rinun­ ciare ! . .. Lacrime an1are vorrei piangere quando vedo la luce di un giorno che passerà senza adempiere uno solo dei miei desideri . . . il Dio, che i n cuore mi abita, p u ò fino i n fondo scuotermi l'anima ma lui che domina ogni mia forza nulla al di fuori può muovere . Così l 'esistenza mi pesa, la morte mi auguro; la vita la odio». Ecco, c'è un Di o dentro l'uomo, Faust ne sente la forza , l' energia creatrice: sa di essere come Dio . L a superbia è u n peccato dell'essere, una passione dell'identità: Faus t è s u p erbo non per quello che fa , ma per quello che sa o presume di sapere su se stesso e sul mondo che vede come oggetto del suo po te r e. Faust sa di essere un Dio, ma senza il patto con il demone che realizza, trasforma la realtà esterna secondo il de s i derio , quel Dio dentro l ' uomo resterebbe im p o t e nt e : ­

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il sapere, la scienza , l'inventiva debbono diveptare tecnica, magica manipolazione delle cose al di fuori. E il p assaggio dalla scienza alla tecnica , alla tecnoscienza, che conosce per manipolare, per produrre cose e la passione del ricercatore è piegata al fine tecnico che gli segna la strada. L'attore che impersona Faust è bravo, pesa le parole senza troppo enfatizzarle: mostra la noia dell'impotenza, l 'impa­ zienza: «maledetta la speranza ! - grida - maledetta la fede, ma soprattutto maledetta la pazienza ! ». Faust, l'uomo tnoderno fatto di ansia e di impazienza, non può resistere all a promessa di pieno godimento: vivrai l'attimo che adempie il desiderio e che ferma il tempo. Quell'attimo che ferma la corsa inquieta di Faust val bene un futuro al servizio del diavolo . L' uomo tnoderno - penso - non esita a bruciare il futuro , magari a desertificare il pianeta, pur di avere subito il sogno realizzato: subito, senza aspettare. Osservo Ulrich, che sorride silenzioso immaginando le mie riflessioni moraleggianti; p enso che si diverta a stare dalla parte di Mefistofele, spirito che sempre dice no. - «La superbia faustiana - sussurro al n1io vicino - è quella demiurgica del Moderno, del tecnoscienziato "impuro " , oggi enormemente prevalente, quello che dissolve l' ordine della natura inorganica e biologica in un codice manipola­ bile». Certo è così, ma le parole di Goethe, taglienti come lame, evocano qualcosa di altro e di più della superbia della tecno­ scienza. Faust è proprio l'uomo moderno che vuole, pretende di /are la felicità e fare la storia. Per impazienza, per depres­ sione, per sfida e per gioco . E quel suo «fare», quell'ininter­ rotto creare, mentre cancella dolore e sofferenza, crea altret­ tanti dolori e sofferenze, inusitati e crudeli. Perché all ' impa­ zienza si lega la pulsione del controllo, che non si contenta di dare inizio ad un processo, lasciando che l'Altro vi immetta le sue scelte, ma pretende che il processo sia tutto come previsto. E questo genera la mancanza di rispetto per gli altri, il diniego della loro soggettività, che, quando dovremo confrontarci con la superbia dei nostri giorni, ne rappresentano l 'aspetto più inquietante. Per questa via la superbia si lega alla crudeltà, con cui, prima della modernità, aveva un rapporto accidentale. Si lega all'insensibilità per quelli che vengono travolti, quelli che re48

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stano indietro: qui è la piccola Gretchen, sedotta, pazza di do­ lore per aver affogato il suo bambino; ma, sulla sua scia, tutti quelli che non sono funzionali al nuovo progetto, alla nuova epoca, quelli che restano indietro , che restano fuori. Perché , mentre ascolto le splendide parole del dramma, mi torna in mente la tnetafora triviale di Lenin , che, inter­ rogato sulle vittime della Rivoluzione, risponde che per fare una frittata bisogna rompere le uova? Glielo avranno chiesto alle uova se vogliono essere rotte? Accidenti ! Non faccio che distrarmi con imtnagini volgari e mi sfuggono molte battute della sfida faustiana. Ora la scena è quella che una didascalia definisce un luogo ameno, il fondale è dipinto di verde e di azzurro. Faust, di­ mentico della sventura di Margherita (è il Faust di cui Goethe scrive cinquant'anni dopo ed è tutt'altro: meno in1paziente, più saggio, più concreto nella pulsione del fare) , saluta l'energia, la vita che, nel suo corpo - fedele alla terra, orgoglioso della sua terrestrità -, si rigenera: «tu sei rimasta, terra, salda anche questa notte e ricreata, respiri ai miei piedi. Già cominci ad avvolgermi di gioia: tu svegli e smuovi una decisa volontà di tendere senza requie a più alta esistenza». - «Ancora una volta - cmnmento, piegandomi in direzione di Ulrich, a voce bassissima - la vera natura dell'uomo sembra essere quella, come diceva il buon Tommaso, di sorpassare se stesso, di tendere a più alta esistenza: la superbia è inevita­ bile ! ». Ma Ulrich non sembra del tutto d'accordo; sempre sussur­ rando, argmnenta che qui, con Faust, ad essere instabile non è lo status dell'essere umano, ma la sua volontà. Il suo desiderio che diventa volontà di potenza. E di colpo tni ricordo che per Abelardo - filosofo medievale di acume pari alla sventura che lo colpì - il peccato di superbia non sta nell'essere, ma nella volontà. E si tratta di un cambiamento profondo, che rende possibile parlare ancora di peccato: tutto fa perno non sul­ l' antologia, cioè sull a distribuzione degli esseri nel cosmo, ma sull'etica, e sulla volontà. La ribellione della superbia non è tanto un disconoscimento della vera realtà, ma una decisa ma­ nipolazione, un rovesciamento volontario della stessa realtà. Quando si entra nella modernità l'essere e il sapere val­ gono solo se si pongono al servizio della volontà e del fare. S apere, dice Bacone, è potere. La storia di Faust è la storia 49

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della grande pretesa della tecnoscienza: dominare le cose per utilizzarle , dominare le persone come se fossero cose. Non c'è invece la pretesa di dire la verità sulle cose: si assumono con1e vere le probabilità che n1eglio si piegano a quei fini che generavano l'inquietudine e il desiderio. Quell'uomo d al lungo mantello di velluto nero , che abita u n fosco Cinquecento lacerato da discussioni teologiche e fa­ natismo , 1na anche illuminato da gen iali tentativi di rinnovare la conoscenza scientifica tra homunculi ed esperimenti alche­ mici, ha un'anima moderna: da quello sfondo superstizioso e oscurantista emerge la sua figura di 1nago che vende l a pro­ pria anima al demonio per superare i propri limiti umani e diventare demiurgo, artefice e creatore, in mezzo ad una folla di spiriti. L'ombra lunga della magia nera che accompagna, con un vago odore di zolfo, la nuova era della scienza rivela - anche nella nostra epoca moderna, illu minata e illuminista, terrestre e tutta umana - una segreta traccia del dran1ma luciferino del titano che anela al don1inio del creato . Dunque il tema è esattamente la superbia che t r a volg e e disprezza il dolore e che non rifugge dal patto con il demonio pur di accontentare la propria illimitata volontà di potenza. - «Perciò - faccio notare ad Ulrich - lo Spirito della terra s beffeggi a Faust chia1nandolo superuomo, a futura memoria di quanto sarà detto e pensato più tardi>>. E questa superbia si pone sotto il segno del fare, del mo­ dificare il mondo: non in principio era il logos, nza in principio era l'azione. Nell'anima faustiana si agitano passione taumatur­ gica per l'umanità e dismnano disprezzo per la gente che non può capirlo ; fede nella propria qualità e vocazione, insieme a una determinatezza feroce a realizzarla, a dare spazio alla potenza. - «Volontà di potenza, fiducia e desiderio illimitato, pas­ sione umanitaria e disprezzo, risolutezza e ferocia, insensibi­ lità ed e n e rgi a ma anche depres s i on e , noia, angoscia». Ulrich snocciola le p assioni ed emozioni che si aggrovigliano nella superbia faustiana perché, di ce, io p renda nota che quelle sono esattamente le caratteristiche della s uperbia moderna, del tempo in cui gli dei sono in esilio dal mondo e al centro dell'universo non c'è che lui, l'uon1o mortale. - «Cara mia - aggiunge - una cosa è certa: siamo i n ,

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un'epoca post- cristiana, in cui non puoi più misurare le con­ dotte a partire dal sistema dei peccati capitali. Faust non teme l'inferno perché crede solo nella terrestrità e sa che Mefistofele è dentro di lui, è la sua ombra, un fantasma del suo inconscio. La sua passione, lo Streben romantico teso al mutamento, tro­ verà una giustificazione nell'idea di progresso, ma è irrequie­ tezza, impazienza indivisibile dall'ansia. Eccola la nuova su­ perbia, incapace di accontentarsi della realtà, arrogante come se si appartenesse di diritto ad una condizione migliore che ci spetta e che ci è stata indebitamente negata, ma anche inca­ pace di conquistare l'ideale o più semplicem�nte di adempiere il godimento: tra scontentezza e impotenza. E un'irrequietezza tutta terrestre che ignora la trascendenza. Ascolta: il linguaggio è pieno di sensualità. Niente più disciplinamento ascetico; la regola viene solo dal successo, dall'efficacia del progetto. Non è un caso - Ulrich è piuttosto accigliato, mentre parla - che una simile superbia metta in atto, più che vere azioni libere e contingenti, continue palingenesi, creazioni dal nulla che somigliano all ' opera d ' arte , alla sua hybris in competizione con la realtà. Un esempio della superbia moderna è proprio il genio, l'artista». Questa cosa non mi è molto chiara: forse Ulrich sovrap­ pone a Faust lo stesso Goethe, oppure pensa che l'opera d'arte sia modello dell'operare demiurgico dei grandi protagonisti moderni della storia o della scienza. Ma gli altri spettatori pretendono energicamente un po' di silenzio e rimandiamo a più tardi l' approfondin1ento. Rientrando, mentre respiriamo un 'aria piacevolmente fre­ sca dopo la sensazione di muffa e di artificio meccanico che impregnava la piccola sala, meditiamo ancora sulla figura di Faust e il discorso scivola di nuovo sull a tecnoscienza e sul suo orgoglioso andare sempre oltre, in qualche modo pacificato, protetto dall'aura severa e quasi ascetica dei laboratori dove viene praticata. Ci viene in mente che, quanto più si procede nella modernità , tanto più il peccato della dismisu ra viene attribuito a Entità astratte e collettive, la Scienza, la Tecnica, piuttosto che a individui singoli, la cui statura non reggerebbe la sfida antologica ai limiti umani e la cui personalità non è adeguata agli inauditi progetti della volontà di potenza. Al contrario, i singoli individui portatori di queste entità risultano sempre meno grandiosi, sempre meno personalmente superbi. 51

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Pensando ai numerosi amici, scienziati e ricercatori, non pos­ siamo non ricordare che hanno un tratto, uno stile di vita assolutamente modesto , quasi umile, nell' offrire il proprio contributo, piccolo ma coordinato con quello degli altri, al grande lavoro della conoscenza. Non solo nel portamento, nell ' abito non esibiscono alcuna megalomania, né tracce di potere terreno ( che infatti, personalmente, non hanno) , ma sono anzi piacevolmente auto ironici: l'opposto di quanto chia­ meremmo superbia. Eppure c'è nella loro forma di vita una strana mescolanza di umiltà, spirito di squadra, capacità anche di anonimato, e fermissima credenza nella verità del proprio lavoro, decisa, anche superba consapevolezza di stare nel giu­ sto e nel vero: quando agiscono sul codice genetico , quando compongono farmaci che prima non esistevano e che possono trasformare - magicamente? ! - l'umore, la voglia d'amare, la speranza di vivere, la possibilità per tante piccole Gretchen di quietare il dolore e finalmente addormentarsi. Ma intanto il discorso scivola su episodi che li riguardano, su storie parallele e il filo sulla superbia si perde.

«In nome dell'Idea»: Robespierre e tutti gli altri La discussione è, oggi, animata. - «Insomma, decidiamoci - dice Ulrich - a chiarire come e quanto nella modernità cambia il peccato di superbia, una volta che lo schema dei peccati capitali non disciplina più in modo significativo le condotte degli uomini». Concordo sul fatto che dobbiamo , se è possibile, rag­ giungere una certa chiarezza . Le questioni che ci poniamo vanno organizzate attorno a queste domande: chi è superbo, cosa significa essere superbo e chi dice: «sei superbo ! »? Ma si aggiunge la necessità di determinare anche il qua n do . Siamo nella piena modernità: tutto umano, immanente alla terra, alla produzione e riproduzione della vita umana era il p ride dei borghesi; umano era il titanismo di Faust. Si tratta ora di guar­ dare ad una dimensione sociale e condivisa della centralità dell'uomo. E se vogliamo indicare una data anche troppo sim­ bolica, non c'è che il 1789, la Rivoluzione francese. - «Bene, ma non è una cosa facile - argomenta Ulrich, che nella vita fa il matematico e il logico e , nelle cose, persegue 52

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anima ed esattezza. - Noi abbiamo definito superbo chi crede di essere al di sopra degli altri e chi, dunque, ipotizza una distribuzione dei ranghi diversa da quella che gli altri consi­ derano giusta (altri che saranno pronti a giudicare superbo il dissidente che si presume superiore) . Se consideriamo super­ bia questa credenza, come si potrà essere superbi e credersi superiori quando la nuova verità, il nuovo ordine che germina dalla Rivoluzione pensa gli uomini come tutti uguali e tutti fratelli? Qui si detenninano parecchi paradossi. Innanzitutto, siamo in un 'epoca in cui le colpe delrangelo (essere regola a se stessi, cioè il principio di autonomia; essere uguale a Dio , causa sui: cioè la responsabilità; esistere non per grazia ma a partire da sé: la libertà) sono diventate valori positivi. E, in secondo luogo , il sistema di valori cristiani che condann ava quelle colpe ora divenute virtù viene tifiutato nella forma re­ ligiosa ma ribadito in fanna secolare. E il tempo della Dichia­ razione dei diritti deltuomo: r eguaglianza universale è la seco­ larizzazione dell'essere tutti figli di Dio e fratelli. TI paradosso logico è: se tutti sono autonomi, allora tutti sono superbi, ma sono anche superbi ed eguali, mentre lo spirito della superbia è la separatezza, la diseguaglianza ! ». Guardo perplessa Ulrich : lo sapevo che con lui le carte si confondono quanto più si chiariscono. - «La superbia - continua lui imperterrito - si sposta dal­ l'individuo, che non può che essere, per natura, eguale a tutti gli altri, alle Verità (la Storia, la Giustizia, la Scienza) e alle identità collettive (l'Umanità, la Nazione, il Popolo, la Classe, la Razza)». Cerco di interromperlo e di farmi chiarire le cose che ha detto: - «Vuoi dire forse che il superbo poggia la sua presun­ zione di superiorità su una verità d'ordine collettivo in nome della qu ale assume le decisioni discriminatorie su altri , su quelli, cioè, che ancora non hanno capito e riconosciuto la nuova verità? Bene, mi sembra plausibile. E chi dirà: " sei superh o .l " .';l ». - «Ovviamente - risponde Ulrich - lo diranno quelli di cui stai parlando, i discriminati e gli esclusi, quelli che stanno dall'altra parte. L'accusa di superbia verrà dall a parte perdente, che, in una rivoluzione riuscita, sia pur parzialmente, è la parte più legata al passato, alle consuetudini che sembravano vere 53

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perché si è sempre fatto e pens ato così . Ma parte perdente potrà essere anche la nazione sconfitta, la razza stigmatizzata come inferiore, la religione cui non è riconosciuta la dignità di fede. E l' accusa di superbia verrà anche, se p ur in modo sommesso (dal momento che le loro voci sono considerate insignificanti) , da parte di quelli che sono macinati dall e de­ cisioni di chi parla in nome della Storia, dell'Umanità, della Classe o della Razza: i chiamati alle armi e arruolati per forza, quelli che vedono le proprie vite stravolte, i risparmi svaniti, le piccole cose che erano tutta una vita gettate in aria, i figli mandati lontano, e non capiscono neanche per cosa». - «Beh - convengo io, abbastanza coinvolta dall'evoca­ zione della folla anonima di quelli che , nei grandi cambia­ menti della storia, nelle grandi e gloriose rivoluzioni, restano indietro, non capiscono, soffrono e basta: come le uova della frittata di Lenin -, questo è ovvio: la condanna viene dalla parte perdente . La norma è, nella modernità, tutta sociale, non religiosa. Dunque all' interno di una comunità, superbi sono quelli che si mettono alla testa del collettivo, gli danno un' identità e un p rogetto e in suo nome /anno la storia. Mentre coloro che perdono, che subiscono o che sempli ­ cetnente sono travolti senza capire, esprimono la condanna (cui raramente segue la punizione) : " siete superbi ! " . Eppure - aggiungo , perché il quadro mi appare troppo semplificato - nella nuova epoca c'è un altro tribunale che condanna il superbo, salvo incorrere a sua volta nella cqlpa di superbia: la coscienza, la voce della coscienza morale. E un giudice che rappresenta se stesso come individuo, libero e segreto, istal­ lato nel tabernacolo dell'Io, e dimentica volentieri di essersi formato introitando valori e disciplinamento». - «Brava ! - fa Ulrich che, come dovrebbe essere chiaro, è piuttosto avaro di complimenti ( dunque il mio Io si insu­ perbisce alquanto) e ama spostare la prospettiva in modo da far ruzzolare dal podio i vincitori - Brava ! La scena si arric­ chisce e si complica con personaggi nuovi: da un a p arte le entità ideali (Verità, Giustizia, Storia, Natura) , poi le identità gruppali collettive (Popolo, Nazione, Classe, Razza) , infine gli individui, ciascuno con la sua bella coscienza morale organiz­ zata come un tribunale. Sì, pensare, come fa Kant (e dopo di lui, un po' tutti gli altri, fino ad oggi) , la coscienza tnorale all a stregua di un tribunale, la dice tutta sulla funzione di con54

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trollo, an�i di autocontrollo che deve esercitare sui compor­ tamenti. E un 'eredità del confessionale; un 'eredità religiosa che diventa secolare e che finisce dritta dritta nel Super-Io di Freud». - «Alcuni si pongono in ascolto della voce della coscienza - continua Ulrich - e sembra loro di udire che essa è ancella della Verità, della Giustizia, del Bene. Non si dicono che di­ pende dal disciplinamento e dall'educazione cui si è stati sot­ toposti. Quasi per riscattare la propria insignificanza di eterni imputati, si autoinvestono del ruolo superbo di interpreti di entità come la Nazione, la Classe, la Razza che a loro volta incarnano la Verità, la Giustizia e il Bene. È come se si verifi­ casse una sublimazione, una transustanziazione dell'individuo - la voce di Ulrich ha un'intonazione ironica: io so che ha una particolare idiosincrasia per le cosiddette entità ideali e per le ub riacature retoriche con cui si usa parlarne -. L'individuo - prosegue Ulrich - si trasforma elevandosi dall'Io al Noi, in Entità che gli conferiscono identità e valore: la verità, il senso del singolo passa alla dimensione collettiva cui appartiene e in cui si identifica, alla quale tutto è consentito perché è in sé portatrice di verità e di giustizia. Altri, poi - forse i più dotati e i moralmente ineccepibili - arretrano ulteriormente. Per loro sono in consistenti an che quelle Collettività e si pongono al servizio dell'ultimo personaggio, che abbiamo dimenticato di menzionare, l'Umanità: tutti gli uon1ini uguali e fratelli. Sono quelli che vivono il paradosso maggiore, lo stesso paradosso di un cristianesimo degli ultimi e una gerarchia cristiana che giu­ dica e discrimina. Cominciano col giudicare più severamente che mai la superbia dal momento che negano, per principio, qualsiasi differenza; ma, quando quel tutti ugualz� tutti fratelli si presenta in carne, ossa e sangue, con la bocca spalancata nell'insulto o nella preghiera, nel lamento o nella rivendica­ zione, sono pronti a separare i giusti d agli ingiusti, i degni di soccorso dagli indegni, compiendo a loro volta un atto di superbia. Questa famosa superbia, nell'età della piena tnoder­ nità, tende, dunque, a presentarsi come una latna di rasoio che definisce l'umano e taglia fuori quella parte degli uomini cui questo carattere di umano viene, per una ragione o per un' altra, negato. Paradossale affermazione e disconoscimento dell'umanità comune: selezione di gruppi e comunità, separa­ tezza dalla fratellanza degli infetti, immaturi, ingiusti, in una 55

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parola inumani. Una nuova superbia che , nel caso concreto, ricorre - non inorridire - a sacrifici umani, perché Umanità e Fratellanza vanno perfettamente d ' accordo con i sacrifici umani». Ulrich sembra esitare: lo stile del suo ragionamento sta tutto nel dinamismo che imprime alle cose, ne fa slittare il senso finché rivelano il loro lato oscuro, e la retorica si rove­ scia nello smascheramento . Sembra voler riflettere su questo grondare sangue sacrificale di parole d'ordine quali u g u a ­ glianza libertà umanità, di cui è andato giustamente orgoglioso l'Occidente. Anche a me vengono in mente le molte volte in cui - in questo nostro spazio globalizzato, dove pure nazioni, classi e razze si sono fuse e confuse in un'unica miscela pla­ netaria -, in nome di quelle parole, si sono condotte guerre contro qualcuno, cui si è negato il nome di uomo. Per ora Ulrich si ferma, temendo a sua volta di perdere la complessità del quadro. Poi, insieme, cerchiamo di individuare una figura che funzioni da icona di questa singolare svolta della superbia. - «Se il tempo deve essere quello della Rivoluzione fran­ cese, allora , che sia lui, Robespierre , la figura emblematica - dico -. La scena non può che essere Parigi, tra la piazza della Bastiglia, oggi irriconoscibile , in cui dobbiamo imma­ ginare la mole del vecchio bastione, e il quartier generale del Cmnitato di salute pubblica» . Ma lui, proprio lui, Robespierre, possiamo andare a ve­ derlo «di persona», nel museo delle cere al n. 10 di Boulevard Montmartre. Porta una redingote nera, lucida per il troppo uso; ha un viso pallidissimo, una figura scarna, segaligna: pare che questo sia un tratto tipico nella fisiognomica dei virtuosi. Seduto ad un tavolo di fattura modesta, nell' angolo di una stanza senza pretese ornamentali, firma qualcosa, forse un di­ scorso, una condanna a morte, una lettera, un appello all a Na­ zione: in ogni caso, con quel gesto decide la storia. La cupezza del luogo non rimanda al momento della gloria rivoluzionaria, ma agli anni del Terrore. Non riesco a non ripensare a quanto ha detto Ulrich: sacrifici umani. . . un evento che sembra appar­ tenere all e società primitive è invece molto presente in quelle moderne e contemporanee. Mi sembra indizio forte della piega che assume oggi la superbia: vittime collaterali di operazioni di giustizia internazionale; vite anonime che si perdono negli 56

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abissi del mare mentre tentano di raggiungere una qualche terra che le includa nel mondo produttivo , nel mercato; vite ignare che, al bar o in un supermercato, saltano in aria senza sapere nemmeno di essere designate a rappresentare il nemico, e vite travolte, sacrificate per attirare l'attenzione su un tema o un problema, come se fossero vissute e morte solo per offrire immagini scioccanti alla disattenzione del mondo: e neanche riescono a trattenere più di una manciata di minuti l'attenzione sulla loro stupida morte. Nessuno orchestra la loro specifica morte, ma essa ha una ripetitività ritualistica che rimanda agli antichi sacrifici: l'uccisione di innocenti che, ponendo fine a legami abituali con le cose e le persone, crea il vuoto, la di­ scontinuità, dischiudendo un nuovo mondo. Un mondo che è messo in opera, un mondo /atto, non dato. n nlondo dischiuso dal sacrificio si oppone al mondo come è da sempre, al dato della realtà , allo stesso modo in cui l'eccesso, la superbia, si oppone alla moderazione, alla pazienza che conserva e che lascia essere. Ma - non dimentichiamo l'ambiguità - si oppone anche all'ignavia che tollera il dolore, l'ingiustizia, la prevari­ cazione, a sua volta e più che mai superba e arrogante. Con1e l'esaltazione si oppone al lento organizzarsi delle cose. Nelle cose sta infatti la misura, nelle identità e nel loro legame sta la ragione: il sacrificio dissolve cose, identità, legami, ragioni e spalanca l 'oscurità in differenziata della violenza che non riconosce differenze, storie, biografie, che distrugge la realtà per far apparire il nuovo ordine simbolico . Impazienti, intolleranti contro la lentezza e l' opacità del reale, i superbi, in nome dell'idea , perseguono trasp arenza , contrçllo, ordinano le cose secondo u n piano coerente, razio­ nale. E questo il senso dell'ideologia: cancella le sbavature e le opacità della realtà, e costruisce una bolla delirante, paranoica, in cui tutto si tiene, tutto è sotto controllo. Si separa dalla realtà, cioè non vede, non riconosce di essa che la parte che appartiene al disegno del nuovo ordine, trascinandosi dietro la scia dei sacrificati. Dunque nella modernità il nucleo incandescente della su­ perbia, passione dell'essere, si trasforma; p erché è l'essere, l'ordine della realtà che diventa trasformabile, plasmabile alla potenza umana. Il peccato, che sin dall ' antichità si riferisce all'essere, all'identità, diventa un peccato della volontà, della volontà di potenza, che fa la storia, che /a la natura. E porta 57

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con sé la costellazione di passioni proprie della volontà: l'im­ pazienza il controllo, la creazione dal null a . . . Le nostre rifles­ sioni sulla nuova superbia ideologica e corale sono interrotte dalla lettura del discorso di Robespierre, riportato su un do­ cumento religiosamente conservato in una teca; comincia così: «par pitié, par amour pour l'humanité, soyez inhumains ! » , per pietà , per amore dell'umanità, siate disumani ! n grido di Robespierre, mosso a con1passione dalle sofferenze dei po­ veri, che il vecchio regime condannava ad un infimo posto , fa emergere ad un tempo la sua virtù e la sua superbia. La Rivoluzione avrebbe affermato «la grandezza dell'uomo , di fronte all a piccolezza dei grandi»: così suonano le parole del giacobino, nel febbraio del 1794 . Le ha pronunciate all' Assem­ blea nazionale, sporgendosi leggermente in avanti, con le mani salde sulla balaustra, perché la voce - sicura, tagliente, senza ombra di esitazione - raggiungesse meglio i cuori e le menti d e gli ascoltatori. Allo stesso modo, con il busto ugualmente un po' spostato in avanti, ricordo una fotografia famosa di Lenin, il berretto sul capo, all' aperto: anche lui parlava senza incertezze di superbia dei grandi finalmente piegata e di gran­ dezza di quanti a lungo avevano subìto ingiustizia. Virtù e su­ perbia anche nel capo bolscevico della Rivoluzione d'ottobre e anche qui la promessa che la meschinità dei grandi, arroganti e superbi sarebbe stata sostituita dalla riscattata grandezza dei proletari (figg. 8 e 9) . - «Si tratta, evidentemente - commenta Ulrich - di due ordini del mondo: quelli che si ritenevano grandi ora sono detti superbi e saranno respinti alla loro reale piccolezza Con Robespierre, grande non è che l'Uomo, generico e universale. I beni, prima della Chiesa e poi dei nobili emigrati, ma infine di tutti i sospetti, vengono confiscati per essere consegnati ai diseredati: cosa rappresenta questo immenso sconvolgimento se non la sconfitta dell'antica superbia in nome della Giustizia? Un attimo . Come era già avvenuto con Lucifero, con la mor­ tificazione di padre Sergio, con l' appassionata sete di sapere di Faust: un attimo e la Giustizia si rovescia nel suo opposto. Un soffio, un battito d'ali, separa il Bene, l'eccellenza, la virtù disinteressata, dal Male, dal precipizio nella più grave delle colpe». Ancora uno sguardo all a sa goma di cera, segaligna, gelida, insignificante dopo tutto. Come poterono uomini così qualun,

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que nell'aspetto fisico, così ordinari nella condizione sociale, vivere la grandiosa assurdità di osare sfidare tutte le autorità che vigevano sull a terra, con generoso coraggio e una cosciente magnanimità, orgoglio della propria missione, e insieme sot­ tomettersi umilmente all a necessità storica di cui si ritenevano strumenti? La dmnanda se la pone Hannah Arendt, ma io la ripeto ora, perché in essa c'è quel nodo , così importante per capire la storia moderna, tra individuo insignificante, qualun­ que, sostituibile con un altro qualsiasi, pronto al sacrificio e all'annullamento di sé, e forme ideali e collettive - la Giustizia, la Ragione, la Storia, l'Umanità - cui tutto è pennesso. Sono queste entità che legittimano la sicurezza inesorabile di quel singolo, che di quel qualunque fanno un giustiziere, e armano la sua mano, pronta ad eseguire il sacrificio umano. U1nili stru­ menti gli individui. Superba, perché consapevole del proprio posto nella Storia, dei propri diritti contro un ordine ingiusto, è quella moltitudine - la pluralità concreta di singoli, uomini e donne - che si presenta trasfigurata in un unico corpo, una sola forma di vita, spinta da una volontà generale, sovrumana, irresistibile. Orgogliosa la virtù che le si consacra, annullando se stessa, senza piegamenti, senza dubbi, senza compromessi. Questa superba virtù traspare nell'isolamento altero di Robe­ spierre - l'incorruttibile, l'inflessibile. - «Non ti p are che ricordi p adre Sergio - dice Ulrich , che, me ne ero accorta, non aveva simpatia per il monaco santo - dal momento che, come lui, avendo cancellato tutte le debolezze, si sente più perfetto, non comprmnesso come gli altri? E questa purezza, questo non essere contaminato dall a corruzione, lo autorizza ad essere giudice severo e inflessibile delle meschinerie, dei dubbi, delle defezioni dei suoi stessi compagni di lotta, verso i quali, anzi, è più feroce. Praticando la virtù si separa da quanti non sono virtuosi, fa apostasia - come direbbe qualcuno dei nostri Padri della Chiesa - e si arroga il diritto di giudicare e condannare. Come il monaco, con in più una qualità e un'aggravante. La qualità è che Ro­ bespierre agisce non per la propria salvezza, come il frate, ma per gli altri, per tutti gli altri, coraggiosamente, generosamente. L'aggravante sta nel fatto che la superbia virtuosa si collega , nella modernità, con l a potenza del fare, ha una volontà im­ paziente e realizzatrice, fa la storia, fa il mondo, fa la natura e fa gli uomini. In principio era l'azione, diceva Goethe, ma 59

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meglio sarebbe dire la fabbricazione. Quando si fabbrica un mondo nuovo, quando si modellano nuovi cittadini, quando c'è palingenesi, c'è setnpre l'ombra della ghigliottina. La ghi­ gliottina del Terrore strazia i corpi dei non-virtuosi. La volontà di punire, di separare i giusti dagli ingiusti si rafforza con il pericolo di sconfitta: si ha un perpetuo stato di eccezione che identifica colpevoli sempre nuovi, nuovi responsabili delle dif­ ficoltà che il nuovo ordine incontra. Si innesca una spirale di criminalizzazione incessante, secondo un rituale nel quale non c'è salvezza alcuna per i condannati. Essi infatti sono fuori, esclusi dalla nuova verità, sono esclusi dalla salvezza anche dell'anima. La virtù, la visione etica di Robespierre sorreggono il sacrificio umano rendendolo, se non innocente, consacrato, ritualistico e capace di fondare la nuova repubblica». - «Virtù - dico io , cercando di farmi una ragione della tragicità di personaggi che dedicandosi alla giustizia, ad un nobile progetto politico di en1ancipazione, commettono ingiu­ stizia, eccedono in superbia e si perdono - dovrebbe essere il contrario del vizio . Invece virtù, nella superbia corale del­ l'ideologia e della storia, è identificare la propria volontà con quella del popolo. Il /aut une Volonté Une, dice Saint-Just: una sola volontà, una sola lingua, un popolo coeso senza disomo­ geneità. Più che il monaco santo mi viene in mente la torre di Babele, la cui superbia aveva origine dall'essere gli uomini un popolo solo con un'unica lingua. n rimedio divino, allora, era stata la differenza, la dispersione nella pluralità che è l' unica prevenzione della superbia». Ulrich sposta la prospettiva e, sempre rimirando la brutta sagoma del giacobino, dice: - «Forse in Robespierre giocava una dose di narcisismo, la vanità di essere popolare, di essere applaudito quando parlava, forte, lucido, tagliente, all a Convenzione». - «Non saprei - rispondo, d ubbiosa - ed es clamo: le cronache ce lo descrivono controllato , imperios o , privo di debolezze per i piaceri del corpo, certo ambizioso , ma non credo vanitoso. Attraversato da quello che veniva chiamato zèle compatissant, impulso compassionevole verso gli sventu­ rati. Più che altro insistono tutti su quello che è un concetto chiave della superbia moderna, la volontà: aveva una volontà di ferro , determinata fino alla ferocia. Ed era possibile nu­ trire una tale volontà feroce, indefettibile, perché la attribui60

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vano, Robespierre e tutti gli altri, alla famosa entità collettiva - Popolo, Nazione, Umanità - cui pensavano di appartenere. Volontà unitaria: une Volonté Une, inc�rnata, incorporata in quella del suo rappresentante, �obespierre, potente al punto da mutare l'ordine della storia. E lo stesso meccanismo che si ripete, anche se con meno generosa buonafede, in altre ditta­ ture del Novecento». Mi ren do conto che siamo ad uno snodo delicato della nostra ricostruzione sulla superbia. È fin troppo facile esten­ dere la superbia della virtù rivoluzionaria del giacobino al bol­ scevico, al nazista, al fascista: se da una parte regge il quadro concettuale che assegna la superbia alle entità collettive e all e ideologie , cambiano, e molto, le figure che portano il peso di quelle volontà di potenza. E infatti Ulrich sembra un po' infastidito dall ' estensione del modello di superbia: - «li solito Hitler ! - dice - Ma sai che faccio fatica a pen­ sarlo come superbo? In fin dei conti nella superbia c'è sempre una qualche grandezza». - «Ti capisco - dico io -, ma credo che dobbiamo abi­ tuarci a vedere nella modernità e nella tarda postmodernità figure di superbi assai poco grandiose, poco coraggiose, men­ tre il coraggio , lo sprezzo della propria salvezza erano stati il tratto eroico dell 'angelo che osa sfidare Dio . Ci saranno molte superbie per così dire banali. Anche se alcuni h anno creduto di ravvisare nei dittatori moderni il volto demoniaco del potere. Pensarli come demoni di superbia e di arroganza semplifica un po' troppo le cose. A meno di accostarli non al bellissimo Lucifero divenuto l'orrendo Satana, ma magari a un Mefistofele qualunque. Aveva, ti ricordi?, improvvisi guizzi di trivialità, di bassezza morale, di volgarità che non sarebbe difficile riconoscere in Mussolini o in Stalin . Anche se era certo un gaglioffo assai più simpatico e trattabile di molti di questi ceffi». Ulrich non regge più l'atmosfera opprimente del museo delle cere e, avviandosi verso l'uscita, sbotta insofferente: - «Superbo Napoleone, superbo Lenin , superbo Musso­ lini, superbo Hitler, superbo Stalin, s u.,p erbo Mao e così via: non mi basta elencare queste persone. E sottinteso che le loro ideologie e il terrore che hanno praticato erano densi di su­ perbia e disprezzo dell'altro; è sottinteso che la manipolazione dell'informazione e della formazione dei soggetti, l'uso spre61

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giudicato e strumentale delle vite, la violenza sacrificale che h anno scatenato siano la prova di un delirante rifiuto della realtà stessa, sostituita da un'altra che potessero controllare e dominare. Ma non mi basta. Voglio capire». E così, camminando verso l'albergo, cerchiamo di chiarirci le idee. C01ne è tipico della dinamica della superbia, il mondo si spacca in due, sopra e sotto, giusto e ingiusto, e i due tron­ coni si separano. Ora è la volontà umana a provocare questa spaccatura, nonostante un sapere che ci definisce uguali. Per­ ciò diciamo superba questa volontà che spacca e separa. Essa rifiuta i condizionamenti della realtà così com'è. D'altra parte, si trattava di una realtà già da sempre, già dall ' antico spaccata, diseguale. La volontà è impaziente di cambiare il vecchio or­ dine diseguale, è impaziente di costruire daccapo il n1ondo unitario, uno: dunque si giudicano arroganti e superbi quelli che occupano un posto che, nel nuovo ordine, non gli spetta. Ma anche nella n1odernità , coloro che parlano in nome del Nuovo, vogliono l'Uno, vogliono annientare l'Altro. Ulrich mi riferisce un'osservazione intelligente che ha letto non ricorda dove , circa il fatto che una fede non più attuale diventa una devozione demoniaca e un Dio non più attuale è un demone. Discutiruno un poco tra noi se sia il caso di essere così severi con rivoluzionari che, sia pur violentemente, hanno posto fine al giogo imposto a tante persone e conveniamo di chiamare quest' azione superba quan do avviene con l 'inutile sacrificio, senza pietà, della parte perdente, che è demonizzata, giudicata non-umana. Tutto qui. Ovviamente - su questo punto siamo totalmente d'accordo - quando tutto questo si organizza attorno al concetto di vita biologica e di razza siamo al culmine della superbia. In fondo Robespierre, pur celebrando il sacrificio di chi non trova po­ sto nel nuovo ordine, rimane all ' interno di una prospettiva di uguaglianza universalistica. I diritti umani, in nome dei quali ha agito, pur nella loro enunciazione retorica, sono una cor­ nice di valori che sosterrà il recupero delle parti perdenti ed escluse e la compensazione delle persecuzioni messe in atto dalla superba ossessione di separare. L'ideologia della razza superiore, invece, articola la co­ mune natura biologica in una scala di valori che colloca alcune vite nelf ambito di vite minori, non degne di essere vissute e 62

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tutelate. Facendo leva su una presunta verità scientifica, la su­ perbia paranoica del razzismo cancella l'altro come portatore di infezione, di rischio e giustifica una pratica di immunizza­ zione, come se si trattasse di un virus da stern1inare, per m an­ tenere pura, superbamente integra la vita del popolo eletto. Io faccio notare che, nel razzismo, si riattivano a livello gruppale i tratti della scena primaria : il peccato dell'apostasia che nega il confronto e l'appartenenza al ghenos comune. Ulrich, più attento al discorso scientifico, mi ricorda che il sostegno ideologico alla tracotanza razzista è stato offerto da un'indebita lettura della teoria darwiniana in termini va­ lutativi , tali da giustz/icare la differenza di valore tra vite e tra capacità di adattamento. Una fuorviante interpretazione sociobiologica di un principio come quello della lotta per la sopravvivenza e della selezione del più adatto, indebitamente ridotto di complessità e gravato di un'inesistente normatività etica. Una cos a risulta da questi nostri discorsi : la passione identitaria dei tedeschi, la passione di essere, nucleo incande­ scente della superbia, frustrata a livello individuale dopo una guerra perduta e reiterate umiliazioni, si sposta sull'identità collettiva del popolo, si esalta nel rifiuto del popolo ebraico di cui si dichiara la natura infetta nel corpo sano della N azione e si adempie nel suo annientamento. - «Sul corpo della Nazione - faccio osservare al mio com­ pagno - attraverso l ' entità fantasmatica del Popolo e della Razza ariana, ciascuno proietta la p arte oscura di sé. Non è l'eccesso di autostima, ma questa parte oscura - paura, fragilità - non riconosciuta, che scatena l'inaudita superbia dell'inutile strage, del sacrificio (Olocausto è esattamente una parola per dire sacrificio) . Con maggiore capacità di suggestione di un Robespierre o di un Lenin, che abbiamo in1maginato sporgersi dal banco o dal palco per arringare la folla, la voce di Hitler, del piccolo austriaco, dalla faccia qualsiasi, dall a bassa statura, forse persino, come mostra Charlot, un po' ridicolo, risuona acuta, magnetica nel grande stadio di Norimberga. L'adunata, gigantesca, è convocata di notte. Le migliaia e migliaia di in­ dividui affollano l'area dei giochi, nel buio, illuminato soltanto dal fuoco di un in1menso b raciere, alle cui spalle è spiegata una grandissima bandiera con la croce uncinata. La scena­ grafia è studiata da qualcuno davvero competente nell' arte della manipolazione e della suggestione propagandistica. La 63

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voce, stentorea sgradevole imperiosa, si l�va da quel fondo scuro senza che nessuno possa vedere Lui. E pi ù efficace, così. Funziona meglio il meccanisn1o di i dentificazione nel Tutto: nessuno conosce il vicino , ciasc u no è solo con le sue paure, ciascuno è tutto fuorché s uperbo Ma tutti insieme sì che lo sono, tutti insieme h a nno un 'anima superba, tracotante che sfida il mondo, che disprezza gli altri, che disprezza soprat­ tutto quel gruppo, che infetta l'intero, come un verme la mela. L'odio cementa l'identità, l'odio, la negazione dell'altro diventa l'affermazione esaltata, amorosa, delirante del Noi. Dio è con Noi, anzi Dio è Noi». L'appassionata rievocazione dell'adunata nazista ha coin­ volto parecchio anche Ulrich: abbiamo ricordato vecchi film di Leni Riefensthal e anche qualche pellicola sovietica della prima ora, Dziga Verto\1, Ejzenstejn. Ma così ci siamo allontanati dal nostro argomento. ,

,

.

Piccolo

ma

importante intermezzo teatrale n.

2:

Antigone

Ieri se r a Ulrich ed io siamo andati a teatro per assistere all'Antigone; ogni volta questa tragedia mi emoziona , per quanto, in questo caso, la messa in scena non fosse eccezio­ nale. n regista ha cercato l'effetto realistico, seminando il pal­ coscenico di grossi massi grigi e lasciando intravedere nello sfondo i bastioni della città. Ma sin dal primo dialogo tra le due sorelle Antigone e Ismene, si avverte il senso di s qu ilibrio che è lo spirito del­ l' opera e che ci fa pensare alle sfide della superbia. La piccola Antigon e così minuta e inflessibile, vestit a di nero, dritta nel­ l'incredibile energia della sua intransigente volont à , cont r asta orgogliosam ente la superbia del potere, l'arrogante pretesa di Creante di imporre la propria legge e non rispettare l'antica giustizia del ghenos. Creante, re di Tebe, proibisce la sepolt ura del fratello di lei, Polinice, morto in battaglia contro la ci tt à Antigone, la figlia di Edipo che porta su di sé lo stigma di una stirpe peccatrice e sventurata, Antigone, aspra figlia di un aspro padre, è decisa a di s obbedire, a sfidare il sovrano, ob ­ bedendo a quella che ritiene essere la giustizia. n dramma di Sofocle, come Ulrich mi spiega con un certo sussiego erudito, è strutturat o in modo dicotomico e dicoton1ica, mi ricorda, è ,

.

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la struttura dell a superbia: in ogni dialogo due personaggi, due parti, due verità si fronteggiano scontrandosi senza mediazioni possibili, ciascuna con la fierezza, la presunzione di rappresen­ tare la verità. Negando all'altra parte di avere alcuna validità. Infatti sin dalla pritna scena Ismene, la sorella più fragile, più prudente, più attaccata alla vita, con la sua patetica esitazione ha la funzione di far risaltare lo squilibrio, la disarmonia delle relazioni. La violenza delle parole di Antigone prive di dubbi e di conflitti interiori: «Devi decidere. Dimostrare se la tua na­ tura è nobile o se tradisci il sangue degli avi», 1ni fa sussultare: ancora una volta un personaggio che, a dispetto della debo­ lezza del genere e del nen1bo di sventura che l'accompagna, non ha perso, n1a anzi guadagnato, ossessivamente, in orgoglio, in radicalità - perché no? - in superbia. Mi torna alla mente Robespierre e lo dico piano ad Ulrich, che è seduto accanto a me e ascolta attento. Annuisce, anche se mi fa osservare che il giacobino è stato a lungo potente, vincente. Lo straordinario fascino della figura di Antigone sta invece nel fatto che la sua superbia, la sua radicale negazione delle ragioni dell'altro, è a filo doppio legata all'impotenza più totale, all 'inerme offerta della propria morte. - «E noi avevamo deciso, se ben ricordo - sussurra Ulrich -, che avremn1o chiamato superbi i virtuosi e i giusti solo se fossero stati crudeli, impietosi con i vinti. S uperbo dunque Creante, non la piccola figlia di Edipo, magnanima, grande come suo padre, pronta ad accogliere la sofferenza e la morte». Il dramma scorre davanti ai nostri occhi , rapido, quasi precipitando verso la catastrofe che fin dall'inizio è consape­ volmente evocata, voluta dalla protagonista. L' attrice si muove poco sul palco . Piuttosto si colloca in modo che la scena appaia sempre divisa a metà: un 'implaca­ bile separazione e opposizione al nemico . Quando si muove è come se una via a noi invisibile, ma chiarissima a lei, fosse tracciata. Tutto è già da subito segnato senza possibili ripen­ samenti: il nemico è Creante e non esistono altri legami che quello con il fratello morto, né Ismene la sorella, né Emone il futuro sposo, figlio di Creante. Il mondo si spacca in due parti. Né c'è dubbio per la piccola Antigone dove sia quella giusta. «lo non lo tradirò». Le parole suonano taglienti: non ammette debolezze, non concede a se stessa alcun futuro. La 65

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sfida di Antigone ha per posta la morte e mentre si delinea la relazione del potere con la morte ( «Polinice, povero nostro morto, hanno proibito a tutti di dargli una ton1ba e di pian­ gerla . . . il trasgressore sarà lapidato») , avverto la sensazione che la tragedia ci stia rivelando un aspetto più segreto della passione della superbia, della passione di identificarsi con una verità e negare il resto del mondo : la pulsione di morte che la attraversa. Ecco: la morte stringe da un lato e dall'altro l'eroina. Pul­ sione di morte nella sua decisione di fedeltà e di pietà verso il morto, pulsione di morte nell'aggressività ostinata del re. L'at­ taccamento alla vita si rovescia in vocazione a morire. «lo lo seppellirò e in quest'azione sarà bello morire». La voce della protagonista è secca , tagliente, evita sbavature: i versi sono talmente belli che non è possibile immaginare un sovraccarico emotivo . Anche il suo antagonista, Creante, separa il mondo e la scena del dramma in due parti : «Eteocle, morto in difesa della patria, sarà sepolto e avrà gli onori . . . Suo fratello Poli­ nice, che tornò dall'esilio per bruciare la sua terra . . . si deve !asciarlo senza tmnba, esposto all ' infamia, cibo di cani e di uc­ celli». Neanche il coro, che suggerisce che la volontà degli dei, l'ordine cosmico, non possa essere quello di incrudelirsi sul vinto, rende più esitante la determinazione di Creante. Anche lui, il tiranno, non ha dubbi. Risponde duro ad Emone, il fi­ glio innamorato di Antigone che spera nelle nozze e gli chiede moderazione. Nonostante l'attore che interpreta Creante sia un po' troppo istrionico e gridi più del necessario, quando si arriva alla scena di lui con Antigone rimaniamo ipnotiz­ zati sia io che Ulrich . «Hai osato trasgredire le leggi?», dice minaccioso Creante; orgogliosa, quasi sprezzante, risponde Antigone : «L'editto non era di Zeus e la giustizia che siede accanto agli dei non ha mai stabilito tra gli uomini leggi come queste. Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire ad un essere mortale le leggi non scritte, immutabili, fissate dagli dei. . . non potevo, per paura di un uomo, rispondere di questa violazione alle divinità». Pqi provocatoria aggiunge: «Vuoi fare di più che uccidermi?». E durissima; esclude, nella propria superba solitudine, la sorella che vorrebbe condividerne la condanna : «Non n1orire con me, non arrogarti cose che non hai neppure toccato . . tu hai scelto di vivere, io di morire». Ha ragione il coro a chiamarla .

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aspra, perché «non sa cedere alle avversità». Avverto quasi

un

b rivido, cedere alla sventura . . . «la sventura non si allontana più , striscia di generazione in generazione . . . sciagura dopo sciagura, sui vivi dopo i morti», nella stirpe di Edipo, l'uomo per antonomasia . . . «un Dio li abbatte e non las cia respiro»: ma loro n o n cedono, non si piegano alla sventura che rivela la fragilità, la dipendenza della vita un1ana. Lui, Edipo, che cerca ostinatamente di sapere , di controllare l'oscura colpa che ha dentro, lei, Antigone, che non ha pietà per se stessa, né per i vivi, ma, devota solo ai 1norti, innesca con il suo gesto intran­ sigente di fedeltà ad essi la terribile, luttuosa sequenza di san­ gue. Emone si uccide stringendo il cadavere di lei e macchia di sangue quel pallidissimo volto di vergine, poi la madre di En1one, disperata della morte del figlio , si uccide a sua volta, punendo con assurda violenza l' arroganza, la cecità dell' altro superbo, Creante. - «Storia di inenarrabili, intrattabili superbie», aveva com­ mentato Ulrich alla fine dello spettacolo , andando a casa. Pic­ cola, intransigente e orgogliosa, Antigone è inflessibile nella cond anna dell ' altro , nel rifiuto del compromesso , della vita titnorosa e adattativa della sorella Ismen e . E come sempre quando c'è inflessibilità, verità, giustizia senza transazioni, c'è anche morte, violenza, una scia di dolore e di sangue che parla di virtù , di s up e rbia e di sacrificio . All'uscita dal teatro non si vede nessun taxi; solleviamo i baveri dei cappotti e ci avviamo lentamente verso casa. Ulrich è an cora p reso dalla contrapposizione d e l l e due superbie , che era n1olto sottolineata dalla regia. Continua a parlare di Creante, della sua tracotanza, al di là delle letture che tradi­ zionalmente ne fanno più asetticamente il rappresentante del nomos, d ell e leggi positive dello Stato. Si avverte, a suo avviso, un grado di intolleranza che non è riportabile alla sola logica del governo, poiché l'intransigenza di Creante è c aric a d'ira. - «Lui ritiene - dice Ulrich - la p ropria sovranità s u ­ periore alla ragionevolezza e al perdono . I d u e s u p e rbi non vedono la verità dell ' altro : assegnano ciascuno alla p ropri� visione del mondo uno status superiore e non contrattabile». E certamente così; ma io lo ascolto in silenzio perché non riesco a toglierrni di dosso quell'aria di morte, quella sensazione che la tragedia sia percorsa dalla fascinazione che la morte eser­ cita sui personaggi tutti. Forse solo ora, quando ho ascoltato

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il dramma di Antigone - molto più intensamente che davanti alle mortificazioni di p adre Sergio o alle corazze dorate dei sovrani di Sp agna o davanti al nero mantello di Faust o al livido profilo di Robespierre -, ho percepito nettamente che la superbia ha a che fare soprattutto con un diniego della vita, con una pulsione di morte. Nonostante il superbo si avvolga spesso di panni di gloria, di parole di potere, nonostante esalti la propria grandezza , la sua passione è passione di morte. La figu ra sottile della figlia di Edipo , minuta come quella di un ' adoles cente, con il pallidissimo volto incorniciato di un velo nero , ha svelato di colpo la spinta feroce ad affermare la propria esistenza solo facendo il vuoto delle cose vive, in­ certe, confuse, solo staccando da sé la promessa di go dimento, solo, dunque, in un 'affem1azione autodistruttiva, che mi lascia sgomenta. Stamattina però , quando Ulrich ritorna ancora sull a pic­ cola Antigone, mi rendo conto che il suo sguardo ha percepito una prospettiva diversa. n che dice molto sulla complessità e sulla ricchezza della tragedia . Per lui, Antigone è superba sì, ma eroica nella cura dei legami e del ricordo; cita a memoria la battuta della giovane donna: «la n1ia natura è di condividere gli affetti, non gli odii». Quando io tento di proporre la mia interpretazione che, al contrario, nell'odio vede il perno della personalità dell'eroina e, a mio avviso, ne determina il fascino e la potenza drammatica, capisco che Ulrich ha soprattutto voglia di apprezzare in Antigone la sua devozione a quella che per lei è la G iustizia e che legittima il suo orgoglioso rifiuto dell'obbedienza. - «Ci sarà pure qualcuno che disobbedisce - dice Ulrich , r i p r en d en do il filo della superbia politica e mirando a eviden­ ziare quello che già per Aristotele era il centro ideologico della tragedia, il conflitto tra legge umana e legge naturale, divina -, qualcuno che ha il coraggio, l imp r u denza, l'orgoglio di resi­ stere ! Ai tribunali speciali, ai tribunali del confo rmismo , ai tribunali rivoluzionari, tutti luoghi di criminalizzazione sociale e politica. Dobbiamo chiederci a quale verità questo qualcuno farà appello , contrapponendo (come è proprio della sfida an­ tologica della su pe rbia ) il proprio ordine a quello vigente». - «Farà appello, direbbe Kant, al tribunale della coscienza o alla naturale empatia verso gli altri uomini, come direbbe più sommessamente Hume. Si appellerà alle leggi non scritte del '

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ghenos, dice Antigone, alla pietà per quelle vite che saranno

travolte, che non contano niente . Oppure parlerà in non1e della contingenza della realtà, del fatto che le cose possono sempre essere diverse da come sono , direbbe Ulrich , o no?», rispondo io , alleggerendo la tensione. Discutiamo animatamente per chiarirci le idee: se la su­ perbia riguarda l ' essere dell'individuo , la sua identità , dob­ biamo tenere presente che per diventare soggetti e acquisire un'identità è inevitabile assoggettarsi a dei modelli e fare p ro­ prie forme culturali e morali comuni. Per essere un soggetto è necessario identificarsi con qualcosa o qualcuno che si consi­ dera vero e degno di valore. Da parte mia insisto che la vera domanda - ben più dif­ ficile di questa oggi posta da Ulrich su quale sia la verità con cui giustificare la sfida superb a - rigu arda il come questo processo di identificazione assoggettata all 'ordine possa in ­ trecciarsi con quella pulsione di morte, di autodistruzione e distruzione dell' altro e di �iniego della vita reale che esplode nel dramma di Antigone. E quanto dovrò chiedermi quando sarà il momento di riflettere sul presente, sull'oggi .

Obbedienti e gregari: superbia senza radici Ci appassiona la discussione sulla superbia della politica moderna, sullo splendore luciferino della coerenza ideologica e della presunzione di giustizia. La violenza dell'etica appli­ cata alla politica ! La tno dernità rivoluzionaria che lotta per costruire uno Stato etico , giusto , rifiuta la sep arazione ma­ chiavelliana dei due campi della prassi, la morale e la politica, e mescola continuamente il discorso politico con quello etico: e questa mes colanza, tra l ' altro , è oggi in forte ripresa . Ma non è una cosa nuova. La novità sta, piuttosto, nel fatto che la politica proclama di cercare il Bene, ma non pensa ad esso nella veste garantita e prudente dell 'Utile, quanto piuttosto lo intende come perfezione, purezza dell ' Essere, che integra e assorbe la differenza dell'Altro. E questo le conferisce il ca­ rattere superbo e tragico della sfida antologica: sfida per il controllo di ciò che è Vero, di ciò che è umano. Sfida lanciata dalla volontà di potenza che ha il desiderio, ma anche la forza di plasmare l'Essere, di fare l'Uomo e la Storia. Le maiuscole

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(l'Un1 anità, la Libertà, la Nazione, il Popolo , la Giustizia) in questa fase storica abbondano . Queste le cose che ci siamo detti Ulrich ed io, però ci sembra che qualche pezzo, e anche importante, ci sfugga. Troppo spazio alle ideologie, troppo spazio ai leader ec­ cezionali, per la semplice ragione che sono più visibili, che li si trova nei musei delle cere, insieme a J ack lo S quartato re e ad Al Capone. Forse i famosi , i carismatici, sono anche più faciln1ente immaginabili nella veste demoniaca di superbi. Ma ci stia1no accorgendo - soprattutto io lo faccio notare a Ulrich a più riprese - che è necessario ridisegnare il profilo della su­ perbia . Se riuscissin1o a non farci ipnotizzare dall'iconologia tradizionale della superbia - pavoni che attirano gli sguardi an1mirati , aquile che volano in cieli inaccessibili, arroganti leoni che divorano il pasto dei più deboli compagni di caccia, potenti bardati di tiare e di corone, tronfi e gloriosi di sé -, ma riguardassimo ai caratteri che si rivelano nel gesto ribelle di Lucifero , in quello disobb ediente di Adam o , nell'impa­ zienza temeraria di Faust, nella solitudine orgogliosa di Anti­ gone, nella virtù senza pietà di Robespierre o di padre Sergio, vedren1mo sempre meglio che la superbia non risiede soltanto, o non risiede più in tratti 1nacroscopicamente altezzosi, ma è una segreta , inquieta p assione che mina la vita mentre la esalta , corrode l 'identità mentre la afferma. Questo richiede un ' attenzione maggiore, via via che ci avviciniamo al nostro tempo, quando abiti sfarzosi e penne di pavone sono appan­ naggio di povere squinzie e guitti decerebrati e la superbia si nasconde dietro abiti grigi, in forme anonime e all'apparenza insignificanti. Il primo vero saggio di ciò era l ' abito liso di Robespierre. Dunque occorre ripensare quali siano i caratteri tipici di una figura superba. Elenchiamo diligenten1ente su un foglio: a) l'individualizzazione spinta all'eccesso: certo. Ma questo crea dei problerni perché, nella modernità , essere individui os cilla tra forze «esterne» sociali e forze «interne» psicolo ­ giche. E invece la grande presunzione del soggetto moderno sta proprio nell'attribuire a se stesso una coscienza «interna» autonoma , non condizionata, pura come l'imperativo catego­ rico di Kant; b) il disconoscimento della dipendenza , dell' eteronomia: certo. Ma ognuno di quei leader che ha avuto la presunzione

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di fare la storia in nome di una qualche Idea era poi coinvolto nella dinamica del consenso e, in un 'epoca di socializzazione democratica , dipendeva dal riconoscimento. Lo m anipolava, ma anche lo rappresentava; c) l'impazienza e il controllo: certo . Ma b ruciare i te m pi , per poter dominare l 'intero progetto, è p ossibile solo se ci si inserisce all'interno di un regime di verità «condiviso» che ha la forza di strutturare il potere; d) infine la separat�zza dell' angelo . Ecco . La separatezza va messa in evidenza . E disp rezz o, indifferenza e noncuranza per gli altri, quegli altri che assumono, nella sfida del potere , un ruolo solo strumentale. E l'uso degli altri uomini come se fossero cose, mezzi per i propri scopi e non altro: beh ! questo se1nbra essere un dato addirittura ep ocale della modernità e del predominio a t tuale della logica economica. Puntualizzati questi aspetti non appariscenti ma fonda­ mentali della superbia, Ulrich ha deciso di mettere tra i no s tri superbi un individuo d all' aspetto assolutamente qu alunq u e , di1nesso, né b rutto né b ello , un burocrate, un fun zion ario, un padre di famiglia che amava le bestie di casa e si riteneva kantiano, colui che, per antonmnasia, ha agito obbedendo agli ordini, negando , senza dilemmi interiori, la q u alifica di umani a quelli che si trattava di man da re ai forni, Adolf Eichmann . Ulrich ha attaccato con un fermaglio la sua foto, tratta da una vecchia inchiesta del «New Yorker» del 1 96 1 , al foglio c on il piccolo elenco. Se ne era già parlato dell ' aspetto b anale della superbi a, del fatto che, con l' awicinarsi del mondo di oggi, ci sarermno dovu ti abituare a superbi al qu anto meschini e privi di corag­ gio , triviali in fondo, e segnati , con tutta la loro arroganza, da bassezza morale. Ed è questa la sorpresa agghiacciante del nostro viaggio : via via scoprire che il grandi s simo Male, che è sconfinam ento da qualsiasi consuetudine morale, si annida nel meno eccentrico e meno trasgressivo degli ind ividui . Hannah Arendt, che, appunto, faceva la reporter per il «New Yorker» quando si svolse il pro cesso a d Eichmann a Gerusalemme e che su di lui h a scritto un libro straordinario, La banalità del male, sostiene, a proposito dell'Olocausto, che qualificare un male come estremo significa affermare che in esso n o n ci sono limiti. Il male estremo - dunque - ha a che fare con la superbia, che è esattamente l'abolizione del limite. 71

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Arendt sostiene ancora che il limite - l'unico limite possibile oggi - non è dato da qualche verità ideologica da contrap­ porre a quella sostenuta dal male estremo, ma dalla capacità di pensare e ricordare: quello che lei chiama «l'essere radicati nei propri pensieri e ricordi, per cui, sapendo che si deve vi­ vere con se stessi, ci saranno limiti a ciò che ciascuno permet­ terà a se stesso di fare» . Eichmann è, esattamente, incapace di pensare, di essere radicato nei pensieri e nei ricordi: la sua anima, la sua mente sono assolutamente banali, superficiali, in superficie, senza radici, senza legami, aggiungerei io, con la realtà dell'altro. - «Non avere limiti significa, dunque - dice Ulrich -, non avere radicamento, essere superficiali, scivolare sulla superficie delle cose che accadono e che si fanno . I nuovi superbi che infrangono i limiti, cioè infrangono i legami e i radicamenti, sono obbedienti e disciplinati, efficienti nel perseguire un pro­ getto omicida senza inibizioni, perché non avvertono alcuna comunanza con le vittime. Ovviamente per mettere in atto l' annientamento di altri uomini, saranno sostenuti - come la struttura della superbia ci insegna - da una qualche ideologia che afferma questa estraneità ontologica e biologica rispetto alle vittime. Vittime, gli ebrei, che dividevano le stesse strade, la stessa lingua materna, che avevano frequentato le stesse scuole, presso le cui botteghe si sono acquistate ogni giorno le stesse cose di uso quotidiano. Legami, radici che si dissolvono nella superficie. Comunità che non è pensata né ricordata, mentre appare verosimile una pseudoscienza che li classifica come insetti, come parassiti. I nuovi superbi non sono esplici­ tamente fanatici, sadici, o almeno non nel senso più comune di questo genere di perversione ( anche se sul genere sadico dovremo comunque tornare) . Si muovono in una razionalità strumentale, efficiente, all'interno di un progetto orientato a risolvere un problema, rispetto al quale alcuni uomini, o sottouomini, fanno da ostacolo. E questo uso strumentale del­ l' altro è tipico del sadismo». Eichmann - guardo la vecchia foto in bianco e nero, che lo riprende durante il processo - è lì, nella gabbia di vetro del tribunale (fig. 1 0) : un uomo di mezza età, di n1edia sta­ tura, piuttosto calvo, miope, con denti irregolari, l'abito scuro da funzionario stirato a dovere: la cronista, Hannah Arendt, ne des crive la voce educata, un po' lenta ( ogni volta biso72

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gna attendere che le sue parole siano tradotte in ebraico) , a fronte dell'irruente teatralità del pubblico 1ninistero, che nella requisitoria mobilita , al solito , le famose entità dall'iniziale maiuscola. Nessuna particolarità nel viso e nel portamento , tranne un lievissimo tic delle labbra, nessun lampo luciferino nello sguardo; espone meticolosamente argomenti che possano rendere ragionevole la distruzione fisica di milioni di persone. Separatezza, distanza, disprezzo senza emozione, senza em­ patia. - «Eichmann, va bene. Ma poi c'è tutta una folla di mezze figure»: Ulrich, mai soddisfatto, è pronto a far ulteriormente slittare il nostro concetto di superbia; vuole dilatarlo in modo che possa contenere, sulla scia del burocrate nazista , anche quei numerosi individui che ne permisero , con la propria connivenza più o meno dichiarata, il potere omicida . Vuole arrivare alla rete microfisica del potere, a tutte quelle persone, cioè, che approfittano di minuscole «rendite di posizione» , marginali situazioni di potere, per esercitare angherie sui più deboli, senza vederli, senza riconoscerne i diritti. - «Una folla di gerarchi e gerarchetti di ogni tipo - dice, con tono sprezzante - che danno il loro contributo attivo o tacitamente consenziente alla messa in opera della decisione superba di annientare i sottouomini. Possono averlo fatto per convenienza, per poter occupare lo spazio e i beni dei depor­ tati; per fragilità, perché subiscono il fas cino del capo; per convinzione, perché ne condividono le idee; per calcolo , per­ ché sperano di fare carriera e saltano sul carro del vincitore . . . insomma pusillanimi al servizio d i superbi, che dei superbi diffondono, a macchia d'olio, la nuova terribile caratteristica: l'indifferenza, l'insensibilità al dolore degli altri, la mancanza totale di empatia , anche se non h anno alcuna traccia della grandezza del superbo. Delirio di onnipotenza e indifferenza, questa è la superbia del potere della modernità». TI campo di concentramento , conveniamo Ulrich ed io, è il suo simbolo. All'interno di Auschwitz, di Treblinka sembra non ci sia posto che per una superbia atona, gelida, ideologica, tanto più feroce quanto più spersonalizzata: nessuno scatto di orgogliosa, in1prudente protesta, tanto nelle vittime, p assive o collaborative, quanto nei carnefici, superbi o conformisti. Carnefici e vittime sono implicati in dispositivi di criminaliz­ zazione diversi ma complementari: il sistema degli aguzzini 73

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sadici, che uccidono e torturano per ostentare la propria su­ periorità su uomini che sono ridotti a larve, a cose, e il sistema dei prigionieri che , a loro volta, umiliano la n atura umana esibendone la corruttibilità, l abiezione , assimilando le pratiche degli aguzzini contro quelli ancora più deboli. - «Il campo - dico io , con un certo calore - è una meta­ fora del carattere delirante , paranoico cui può giung e re una sup erbia collettiva, che cancella la realtà, per sostituirla con un unive r so a rt i fi ci ale c o e rente co m p leta tn e n t e sotto controllo , efficientissimo nel suo p r oge t t o c rimin ale». - «Controllare una non realtà, un delirio - mi fa oss ervare Ulrich è possibile solo riducendo qualsias i evento sponta­ neo, imprevedibile che emerga dagli altri. Dunque riducendoli a m acchine , a cose, di cu i s i dispone senza rischiare che de­ vino dal progetto». '

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Arroganza anonima: gerarchz� giudici, poliziottz: funzionari Per la folla dei piccoli su p erbi non ci sono foto che iden­ tifichino qualcuno, uno qualunque: è una schiera anonima . Non ci sono gr a n d i individualità o ce ne sono solo poche, residuali e plat e alm ente fuori dal gr u p p o : e sono su un 'altra lunghezza d'onda. Quell i sui quali si sta fern1ando la nostra attenzione sono i superbi piccoli - la microfisica del potere appunto, la rete di poteri esercitati nelle scuol e ne i trib u n ali, negli uffici, nelle carceri, negli o spedali -, neanche più la n1assa manipolata dal ca p o che esegue il suo volere perché si identifica con il ditta tore, ma la meschina su p erbia impiegati­ zia dei personaggi di Gogol, o di Kafka, per esempio . In una società tendenzialmente egualitari a come qu ella democratica, questi piccoli s up erb i - o, meglio superbi piccoli, pusill animi - si accomodano nelle nicchie di potere che si formano al suo interno. Pensiamo alla società conformista descritta da Alexis de Tocquevill e n e ll a sua profetica Democrazia in America. Si sp egne la fiamma dell'eccezionalità, della superbia magnanima e aristocrati c a e si fa spazio all'arroganza pusilla nime di ammi­ nistratori, in1 p iegati, poliziotti, funzionari di un ordine, di una �icurezza amati troppo, amati in modo eccessivo, disordinato. E vero che il n ost ro politologo, da buon liberale, p arla di in­ vasività del dispotis m o paternalista dello S tato nello spazio ,

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individuale; n1a lo Stato , il dispotismo paternalista non sono che fantasmi astratti. Essi si fanno carne e ossa nei funzionari, negli esecutori , nella moltitudine dei piccoli in dividui grigi che , in carn ando questo n uovo immenso potere tutela re , n e assumono la superbia, l' arroganza, la pervasività inquisitoria. Quella cui stiamo pensando è dunque l'arroganza delle rotelle del meccanism o , degli ingranaggi del disp ositiv o , ciascuno dotato di un tnicropotere rispetto al quale è solo funzione, ma che , nel con1plesso , è immenso e irresis tibile e dunque sorregge la singola tracotanza. E controllano e sorvegliano e dispongono risorse e le negano e umiliano e vessano. Il dato che emerge d alla discus sione tra Ulrich e me è che, nella società democratica e formalmente egualitaria, non esiste, nella concretezza delle relazioni, una vera uguaglianza di poteri e di p osizioni sociali . Il potere istituzionale - ch e assume sempre più carattere tecnico e amministrativo di fronte al gigantesco compito di realizzare i diritti di tu tti e ottenere consenso - si organizza sempre in modo verticale, eccedendo strutturalmente il potere dei singoli. Nonostante il verbo egua­ litario, si ripristinano i ruoli differenziati e le gerarchie. - «Lo Stato sono i suoi funzionari, alcuni dediti al bene comune e al servizio dei cittadini , altri assai men o : e questi usano la piccol a , m a nevralgic a p orzione di potere che gli deriva dall ' app artenenza alla grande Macchina buro cratica, per vessare e umiliare i cittadini», dice Ulrich , che è piuttosto anarchico nell ' animo e tra l'altro scalpita, perché l'ho costretto ad accompagnarmi a sbrigare una pratica noiosa in un ufficio al terzo piano di un edificio di marmo grigio e nero , di pretta in1pronta fascista , con immensi, gelidi saloni. Un tempo do­ veva essere l ' ufficio di un gerarca di partito: ce lo possiamo immaginare alla scrivania in radica di noce, con il b usto di Mussolini dall a mascella sporgente e il cranio calvo, in fondo alla sala: per essere ricevuti bisognava attendere a lungo , ma­ gari ottenere l' accesso attraverso una raccoman dazione, una qualche promessa di fedeltà o disponibilità. Oggi l' ampio lo­ cale è suddiviso malamente in un 'infinità di piccole nicchie di policarbonato , che sarebbero trasparenti all o sguardo inquisi­ tore del capoufficio se solo fossero un po ' meno polverose. In ciascuna di esse un impiegato o un'impiegata con davanti un computer di modello antiquato, a seconda del genere, legge la gazzetta sportiva o si dà lo smalto.

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Facciamo la fila per essere ricevuti da una signora. Ulrich sbuffa, vuole andar via. Ma è necessario che io venga a chia­ rire la 1nia posizione che, dall' avviso che ho ricevuto, risulta difforme da qu ella ch e è: si tratta di un ufficio comunale per la riscossione dei tributi n documento sull a cui base mi hanno inviato la cartella fiscale sbagliata non si trova. La signora che sembrava gentile si fa arcigna, mi tratta malissimo, come se fossi stata io ad averlo perduto o, peggio, sottratto. Faccio no­ tare che in verità non è mai esistito Ma la funzionaria mi con­ sidera una delinquente: pretende da me una giustificazione. - «Ma - si intromette quel pazzo di Ulrich - controlli meglio, come è suo dovere ! » Mi sento gelare il sangue. So che se la cosa prende una piega s b agliata rischio di dover far intervenire un le g ale e, anche se ho la cos cienza (fiscale) a posto , mi sento misera­ mente ansiosa. L'arroganza della signora aumenta e aumenta il tono stridulo dei suoi rimproveri. La scena giunge al diapason dramtnatico, quando d'improvviso la signora interroga il suo computer e . . . effettivamente avevo ragione. Vado via senza che nessuno mi ab b ia chiesto scusa. - «Quella - dico a U lrich sempre più nervoso - è un'icona della superbia dei pi c coli». Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle, e in modo più grottesco che drammatico, che il potere è sempre asimmetrico e questo agevola l'arroganza 9 ei diversi attori che lo ammini strano, «facendo funzione» E in questa folla di anonimi fun zionari, di cui in genere si vedono non le facce ma le divise - i distintivi del poliziotto, la toga del giudice, e talvolta del pro­ fessore, la «cimice» sulla giacca del gerarca o del politico di partito, fino alla trivi ale paletta del vigile urbano -, che ci im­ battiamo in quei personaggi qualunque, portatori del gradino più mediocre della s uperbia del potere. A parte l'impiegata di stamattina, abbiamo entrambi una particolare antipatia verso quei piccoli ras che rivestono ruoli di potere e ne abusano, senza avere il coraggio della lotta per il riconoscimento. - «Voglio dire, cioè - spiego a Ulrich, che mi guarda in­ terrogativo per queste ultime parole -, che molti di quelli che fanno i giudici, i professori, i poliziotti, i ministri sanno di non possedere la dignità e l ' autorevolezza riconosciuta al ruolo che ricoprono. Allo ra compensano la propria indegnità con il tormento che infliggono al più debole. L'abuso di potere è una .

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meschina soperchieria che a stento posso chiamare superbia. Kant pensava a loro quando si chiedeva perché la superbia fosse così spesso anche servile: perché - rispondeva - sa di essere pronta a prostituirsi». Ulrich passa il pomeriggio a cercare qua e là, in romanzi, film , ritagli di giornale, qualche esemplare convincente. Quando ci rivediamo , a sera, comincia a leggere a voce alta, volutamente caricaturale: «TI giudice . . . camminava rigido verso lo scranno. La sua sentenza tra un attimo avrebbe annientato il disgraziato che gli era stato trascinato di fronte. Un breve gesto della mano per all o ntanare dall a mente la fastidiosa im­ magine della signora . . . sua moglie che dieci minuti prima lo aveva insultato per la sua inettitudine, rinfacciandogli le loro ristrettezze. La formula " irrimediabile, che condannava l'im­ putato che disperatamente continuava a fissarlo dal suo banco suonò secca, senza altro com1nento se non quello rituale, ac­ compagnato dal sordo colpo di martelletto sulla cattedra». Gli chiedo da quale testo abbia preso questa descrizione, anche se mi sembra di aver incontrato mill e volte, in mill e racconti , la sagoma del giudice puritano, rigido e intollerante contro la più piccola trasgressione, il giudice che porta dentro di sé una fonda cloaca di pensieri perversi, di meschine frustrazioni, ma si presenta nell'esercizio delle sue prerogative come la superba icona della giustizia. Ulrich ridacchia facendomi capire che il brano è un collage di pezzi di N athaniel Hawthorne, l'autore della Lettera scarlatta; anche quella una storia di ordinaria superbia e intolleranza in cui un potere religioso, incarnato in una ben modesta persona, distrugge la vita della donna, parte debole, estromessa dalla comunità. Ma Ulrich ci ha preso gu­ sto e sciorina una nuova storia-pastiche; questa volta, lo capi­ sco subito, da Raymond Chandler: ne hanno fatto anche un film, un vecchio film con Robert Mitchum : «Philip Marlowe a terra, con la mascella che gli doleva , osservava con un ghi­ gno amaro il poliziotto sudato, il pugno alzato a minacciare e l'altra mano che strattonava la ragazza, minacciando con frasi volgarissime di fargliela pagare se non avesse confessato. Poi era entrata lei, biondissima e sexy, la signora . . . notoriamente responsabile del furto commesso sotto effetto di cocaina e per noia, per gioco; ma era noto anche che era sposata col po ­ tente proprietario di una catena di night. n poliziotto l' aveva salutata con deferenza, senza mollare la presa della più facile 77

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vittima: un ottimo capro e sp iato ri o e per di più una donna ancora giovane e piacente». Come commentare così miserabili esempi di abuso di po­ tere, fi i sup erbia senza grandezza, di arroganza senza corag­ gio? E ancora Ulrich a parlare, citando , questa volta, il poeta ribelle, Majakovskij : «Una risata vi seppellirà».

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Capitolo quarto

Caleidoscopio di superbi

Individualisti ad oltranza: sup erbi impeniten ti

Sta crescendo l'insofferenza di Ulrich. Ne capisco il fondo accoratan1ente tnorale, di una morale, c01ne è prop rio di Ulrich , non prescrittiva: una morale che non sta nelle cose da fare, ma nel modo in cui si fanno . Il fatto è che Ulrich , indi­ vidualista ad oltranza, non sopporta i gregari del potere, i con­ formisti e molto malvolentieri si è adattato ad attribuire a co­ storo la p assione della superbia, quella superbia solitaria ed eroica di cui, in fondo, ammira la magnanimità, il coraggio. Ha ragione: solo se, nel concetto di superbia, si includono, come con fatica analitica abbiamo fatto, la separatezza e l'in­ sensibilità, si possono considerare superbi esseri così meschini come i gregari, gli aguzzini obbedienti, i burocrati della su­ perbia. Capisco la sua insofferenza, ma non si può fare gran che, perché è proprio questo trascolorare della superbia verso forme di sociopatia e sterilizzazione delle passioni che ci per­ metterà di capire la superbia di oggi, l'approdo, cioè, del no­ stro viaggio . La tneta si disegna più cupa degli esempi eroici del passato; ho l'impressione che vedremo crescere l ' alone mortifero che Antigone mi ha fatto presagire. Il punto di vista di Ulrich è diverso dal mio : lui non ap­ partiene veran1ente a questo nostro tempo . Il suo modo di pensare è ancora legato all'idea eroica, trasgressiva della super­ bia, alla fierezza individuale, alle icone angeliche e infernali, al genere disperatamente autodistruttiva eppure fierissimo di un Ahab , per esempio . E infatti, quando, per sollevare il suo umore, glielo propongo: - «Che ne dici di Ahab ? » , accetta con convinzione, e si lascia andare a imitare, in modo un po' comico , il gesto di Gregory Peck che, impersonando in un vecchio film il furente cacciatore di balene, circondato da marosi quanto mai sitnbo­ lici, lancia l'arpione sul dorso della maledetta Moby Dick: 79

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- «Ah ab ? - dice - Bene ! n n1arinaio che sfida la Balena bianca , dichiarando contro di lei, simbolo del male e della na­ tura ostile, una guerra senza quartiere nella quale è impossibile vincere, ha una statura all ' altezza di Lucifero . C'è dentro l'os­ sessione della guerra al Male che l'America si porterà dietro , c'è il puritaneslino che non cede a nessun compron1esso con il corpo, con i suoi desideri e bisogni: Ahab è capace di sacrifici inauditi per raggiungere il suo scopo , la sua ossessione. C ' è , naturalmente, il tratto cupo e peccaminoso della superbia nel disprezzo delle vite dei suoi marinai, perché nulla vale quanto la sua volontà di vincere quell ' ente metafisica , quel demone che la stessa Balena bianca è». Ecco : Ahab ci è servito ad abbandonare il livello delle dinamiche politico-sociali che, pur essendo le più efficaci nel descrivere la superbia moderna, ci fanno perdere quella dimen­ sione del peccato così legata all'identità personale e all a lotta psichica interiore, che è in verità più consona al mio amico. Le sue letture sono infatti Nietzsche, Emerson , Dostoev­ skij . E il tem po suo è il p rimo N ovecent o , il tempo in cui l'individualità - alcune individualità - cerca disperatamente di differenziarsi dal dilagare della massa. n suo tempo è segnato dalla lotta di individui solitari, che vengono fuori, per lo più , dalla p attuglia per definizione minoritaria degli intellettuali , de gl i artisti, degli anticonformisti, degli originali, come si di­ ceva un tempo blasés, a fronte della crescente p ressione della folla, nella quale si iscrivono i comportamenti di superbia ot­ tusa, irreggimentata su cui abbiamo appena riflettuto. L'indi­ viduo e la massa. n solitario e la folla. L a sua condanna senza appello della folla anonima di aguzzini e p repotenti che la massificazione del mondo p ro­ duce nasce dal culto appassionato per l'individuo , come con­ creta realtà rispetto all' astrazione sociale . Questa la ragione per guardare con simpatia la folle ossessione del marinaio di Melville . Anche il peccato, ripete, vuole una certa grandezza ! Il suo punto di vista - che condivide con un Ortega y Gasset, n1a con una dose maggiore di curiosità per la lucida intelli­ genza, per il disordine, la sowersione che lo spirito critico del singolo può introdurre nella piatta morale comune - è diffi ­ dente verso l a società. Società.' Quella parola che serve a dere­ sponsabilizzare la vita, la quale è sempre la vita di ognuno. n sociale, usava dire l'intellettuale spagnolo in modo sprezzante,

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«gli uomini lo hanno in comune con vegetali ed animali. L'al­ veare, il forn1icaio, il termitaio, il gregge ! » . La vita umana è sempre la vita di qualcuno , irriducibile e personale. Soltanto del singolo si può riconoscere ciò che pensa, sente, vuole, ese­ gue con il proprio corpo, con le mani: soggetto creatore delle cose o soggetto passivo che quelle cose le subisce. Dovrebbe essere chiaro che ho scelto il mio intelligente, ironico compagno di viaggio p erché conosce e pratica una buona dose di superbia e di disprezzo : certo , mai triviale e incapace di sacrifici umani. Perciò sottolinea sempre il confine tra buona e cattiva superbia, tra superbia crudele, sacrificale, e orgoglio , fierezza indispensabile ad una vita m agnanima , a d una vita autentica. Anche se il suo individualismo non h a nessuno dei tratti umanistici che fanno dell'Uomo il portatore di Valori e di Verità, anche se la sua intelligenza corrosiva si esercita proprio su queste pretese superbe di verità , pure, il fuoco dell'individuo, la sua singolarità è per lui non negozia­ bile: va salvaguardata fino in fondo e lanciata nelle sfide che possono condurla non si sa dove . . . anche a riconoscere che si può vivere in Utopia , nel Paradiso terrestre, e che questo significa soltanto vivere in questo nostro mondo in un modo diverso ! La tensione ali 'Utopia, alla perfezione sta nascosta nel cuore della sua ironia dissolvente, corrosiva: e cosa più dell'Utopia , del Regno millenario , ci ricorda la sfida di Lu­ cifero? Ora Ulrich ed io dobbiamo affrontare questa prospettiva superb a che coesiste e combatte con la superbia ottusa del collettivo . Si tratta, l'ho detto, di artisti, di intellettuali, e dunque la loro sfida è di ordine culturale, intellettuale: a lungo non ha conseguenze, appare irrilevante e impotente; ma poi - cosa as­ sai peggiore -, quando diventa senso comune e si diffonde tra i molti, viene travisata e si fonde pericolosamente proprio con quella superbia collettiva e massificata contro cui si batteva. Destino veramente paradossale ! Possiamo dunque - per chiarirci le idee e a rischio di ap­ parire pedanti - annunciare una nuova rivoluzione nelle dina­ miche del peccato ed elencarla in coda alle precedenti, su cui già ci siamo soffermati: a) dapprima c'è la doppia condanna, da una parte quella arcaica e greca della hybris, dall'altra il sistema cristiano dei 81

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peccati. In entrambe la superbia era il più grave dei peccati perché, con accenti diversi, rifiutava l'ordine del cosmo o del creato; b) poi c'è stata la rivoluzione antropocentrica che ha tra­ dotto in termini mondani quell'ordine sacro: il ruolo di Dio è assunto dalla società, fatta dagli uomini e per gli uomini. La superbia non è più un peccato ma un vizio, ambivalente - si può essere ambivalenti solo se c'è un sistema di valori - tra orgogliosa espansione di sé (la virtù necessaria per essere uo­ mini davvero e portare avanti un progetto scientifico o politico degno dei valori riconosciuti dalla società e dalla coscienza) e disconoscitnento dell'umanità degli altri (il vizio) ; c) ora, la nuova più radicale rivoluzione morale annuncia: c'è una «grande ragione del corpo», della vita che sa e vuole per se stessa, al di là del bene e del male. E questo significa al di là di colpa e vizio, e al di là della n1orale. Che senso assume la superbia? E, sop rattutto dove troverà il suo litnite? Chi potrà condannare il superbo? Tra me e Ulrich inizia una discussione attorno a quel­ l'espressione un po ' misteriosa di Nietzsche: la «grande ra­ gione del corpo» . Ci rendiamo conto infatti che è questa nuova prosp ettiva - che non vede più nel corpo vivente la prigione dell'anima, il sotto di quel sopra che è lo spirito ra­ zionale, ma ne riconosce il valore intrinseco - che determina, nelle sue ultitne propaggit1i, il sapere e il potere di oggi. Per Ulrich ragione del cotpo significa solo farla finita con i dualisn1i. - «Significa che il mio p ensare e sentire è umano solo se penso qualcosa per conto mio. Voglio dire - dice Ulrich nello sforzo di spiegarsi meglio - che sono io quando, facendo qualcosa, la faccio esclusivrunente perché ha un senso per me, perché la capisco». A il1io avviso, in questo 1nodo, Ulrich accentua troppo l'aspetto autonomo, o aln1eno percepito come autonomo, del­ l' azi one umana e, così facendo , rivela la portata superba del suo individualismo, la pretesa di sottrarsi ai condizionamenti sociali, culturali. N o n ci si può tirare fuori dal debito, dal legame �he abbiamo con gli altri: - «E - dico , con energia - un mito arrogante quello di partire da sé come se si potesse essere separati da tutti». Ulrich replica, accalorandosi: ,

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- «l denti, quando mi fanno male, fanno male solo a me: posso parlartene, lamentarmi e ricevere un po' di conforto o un analgesico, m a il dolore è tutto mio , cmne tutto mio è il corpo. La ragione del corpo ci separa, ci fa soli. Se entriamo nell'era in cui verranno riconosciute le ragioni del corpo, ca­ dranno tutti gli imperativi sociali che non trovano giustifica­ zione nel corpo stesso di ciascuno. Chi può dire che eccedo, che sono superbo se il senso della mia vita, il mio valore sta solo nel panni all'ascolto di me stesso in quanto corpo? E taceranno le voci del sociale, della morale, che potranno solo dire: " segui te stesso, il tuo godimento ! " ». A questo punto Ulrich si ferma: non gli somiglia poi tanto questa esaltazione egocentrica del godimento; essendo un n1a­ tematico tiene in gran conto l'intelletto, la passione della co­ noscenza che lui considera una vera e propria pulsione, pari e superiore a quella sessuale, una dispomania - così la defi­ nisce, ironicamente - da cui può essere travolto: non quindi estranea alla ragione del corpo. E questa passione per la lo­ gica lo spinge sempre a portare agli estremi il ragionan1ento , senza fermarsi di fronte alle deduzioni dagli assiomi da cui parte, quali che siano . Se, come in questo caso , la sua argo­ n1entazione n1uove dal corpo, le inferenze sono obbligate: la legge morale, quella cui spetterebbe di dirci qualcosa sul no­ stro eccedere dai limiti, non può che essere quella che ordina «Godi ! ». Ma, insomma . . . non è che lo stesso Ulrich non veda un certo rischio di ridicolo: e questo lo terrorizza, anche più dell'incoerenza di una deduzione logica. Io approfitto dell' attimo di sospensione e replico: - «Parli come se non fossi viennese, come se pensassi che la ragione del corpo - una volta ammesso che si possa affer­ mare senza le stratificazioni interpretative e le classificazioni più o tneno scientifiche di origine culturale e sociale - sia una cosa compatta, omogenea, priva di conflitti ! Vienna ! La città di Freud, la città che negli anni tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, ma anche nel terribile periodo tra le due guerre mondiali, si è opposta all a monolitica cultura dell'idea­ lismo e al positivismo più riduttivo, in nome dell'empirismo logico e del pluralismo ! Proprio a Vienna, nella sua arte, nella musica, nella pittura, nella scienza, nella filosofia e nella psi­ cologia, questa ossessione sul soggetto, sull ' Io personale di cui mi sembri vittima, viene a sfaldarsi: il soggetto, il protagonista

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egocentrico della superbia - peccato, vizio, o Inalattia che sia - si rivela una rete di influenze, di tracce, di traumi, di orna­ menti che lo sommergono: come in un quadro di Klimt, dove il viso di una donna si disegna attonito in mezzo ad un'infinità di drappeggi dorati, misteriosi geroglifici che provengono da epoche perdute nel tempo, simboli arcani e muti di corone, di fregi, di animali neri, di occhi vuoti. Proprio Vienna, dovresti saperlo, dà un colpo mortale all a superba filosofia del soggetto dell'idealismo tedesco, o della letteratura di un Thomas Mann, per esempio ! ». Ulrich è veran1ente punto nel vivo. Accusarlo di non aver recepito la lezione della sua cultura asburgica, della sua Kaka­ n.ia , come bonariamente la chiama ! Che diamine, non era quello che voleva dire: non sta tratteggiando la superbia di un soggetto forte e coeso, ma solo cercando di rappresentare la prospettiva soggettivistica, dunque sempre relativistica cui siamo condannati ! - «Non voglio dire affatto - precisa, alquanto accalorato - che siamo al centro del mondo in quanto soggetti: da questa superbia arrogante siamo usciti fuori ! Voglio dire però che tutto il mondo passa attraverso il nostro corpo che lo sente, lo vuole , lo cambia, lo desidera, lo subisce. Veramente superbo era il S oggetto di prima , sin1ile a Dio , che aveva il mondo dentro di sé, nelle sue idee e, quando ne aveva il potere, le metteva in atto prescindendo dai mille rivoli del mondo, a dispetto che il mondo stesso potesse essere diverso da come era contenuto nella sua 1nente ! Quel Soggetto non inciampava mai in nessuna sconferma, non era disturbato da nessuna eve­ nienza perché con la ragione, oppure con la forza, era capace di ricondurre ogni evenienza, ogni accidente all a Sostanza. E la Sostanza era sempre Lui, il grande supe rbo Soggetto ! Que­ sta follia megalomane non appartiene all a mia generazione. Al contrario, quando dico vita, corpo, voglio dire: essere fuori di me, nelle possibilità e nelle circostanze casuali, imprevedibili del mondo. Queste cose, che da me non dipendono, le debbo affrontare, volente o nolente, debbo venire a patti con il fuori, con il caso, con il reale : questo , cara mia, è - correggimi se sbaglio - l' opposto della superbia , che è fatta di delirio di onnipotenza e di separatezza dall ' altro ! Quello che intendevo dire è che questo venire a patti col reale che sono costretto a riconoscere accade solo a me, in quanto individuo, in quanto 84

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singolo. Voglio dire che ciascuno di noi, solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole , va incontro alla sera, do­ vendo ogni volta prendere decisioni , scegliere , preferire . E se ne deve assumere il peso e la responsabilità, senza cullarsi nelle legittimazioni e nei Valori, in quello che Carlyle chia­ mava " il chiaro di luna trascendente " . Se questa è superbia, se questa è hybris, allora, in questa accezione, sono disposto a convenire che quella che si viene delineando, e a cui so di ap­ partenere, è una nuova bybris: una bybris da allontanamento , da presa di distanza. Quello che non sono disposto ad accet­ tare è che si pensi all'individualismo di cui stiamo parlando come ad una forma di egolatria, di esaltazione dell'Uomo, lui, l'uomo e nient'altro. È proprio il contrario: via via che affondiatno sempre di più nella vit a , nel nostro corpo e ce ne carichiamo il peso s ulle spalle , semp re più avvertiamo che siamo soli , con gli altri, con una folla di altri , ma soli , e che quelli che pensa­ vamo potessero salvarci se ne sono andati. La nostra verità sta nella radicale solitudine con cui dobbiamo vivere tutte le sfide e tutte le emozioni, tutte le domande che filtrano da fuori nel nostro dentro . Tutto questo fuori che è fatto di cose, di persone, di ambiente, è sempre, per noi, l'altro, un elemento estraneo che ci molesta, ci stimola, ci inquieta: un elemento negativo, ostile, che vorremmo, secondo la tentazione più clas­ sica della superbia, ridurre al silenzio, negare, cancellare, per poter sognare di nuovo di essere in armonia, nella pienezza del godimento». li tono di Ulrich, ora che ripete questa parola, godimento, si abbassa e diventa più sommesso , come consapevole della sua impossibilità: perché quell'individuo che noi siamo non è perfetto, non è conchiuso, per quanto aspiri ad esserlo, non è bastevole a sé come vorrebbe. - «In questa prospettiva, però - dico io, dopo aver riflet­ tuto a lungo, in silenzio, giocherellando con uno stiletto di non chiara utilità, che era sul tavolo -, tutte le cose e tutti gli esseri viventi non sono niente in sé, non hanno una condizione indi­ pendente; sono solo qualcosa per noi, anzi per ciascuno di noi, per i nostri fini. Tutto il mondo è un complesso di cose con le quali io, quest'uomo o questa donna qui, posso e debbo fare qualcosa. Il mondo (e nel mondo ci sono ovviamente anche gli altri esseri viventi) non è che l'insieme di mezzi, ostacoli, 85

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agevolazioni, strumenti che facilitano o rendono difficile il mio vivere. La hybris di questa nuova prospettiva sta dunque nella superbia di non credere che la verità sia un dato oggettivo, ma assumere invece la potenza di darne un'interpretazione di cui siamo responsabili. La hybris sta nel praticare le cose, utiliz­ zarle o evitarle, per il solo fine di con1piere ciò che desidero. Il mondo è cosa o pragmata che non esiste in sé: certo , mio caro, che si spalanca un nuovo abisso di superbia e parados­ sahnente convive con la fragilità del superbo stesso, convive çon il fatto che quel singolo è manchevole, disorientato, solo. E una superbia strana che dipende tutta dalla natura mani­ polabile dell'essere, dal fiero disincanto di aver smascherato le false credenze attribuendone l'origine al potere, una volta che la verità sia sparita dalla scena e, con la verità, la giustizia e la legge. Ogni cosa risulta sempre e soltanto favorevole o awersa: una cosa che dà calore, vita, beneficio, consolazione, oppure una cosa che ferisce, lacera, danneggia. Manipolare, usare, sono i verbi della superbia. Pur essendo anche i verbi della debolezza, del bisogno, alludono ad un essere inquieto, manchevole, impedito, ostacolato . » . . .

«Ecco, io vi insegno il superuomo» Questa appassionante, nonché un po' troppo astratta di­ scussione si svolge in un caffè all ' aperto a Vienna, davanti ad una splendida Sacher con panna. Un posto gradevolissimo, dagli arredi primo Novecento un po' polverosi, ma gioiosi ed eleganti. Tracce di una belle époque, o di quella che un poeta chiamò «la gaia apocalisse di Vienna». Ci siamo fermati per riposare un poco , dal momento che, a piedi, ci stiamo diri­ gendo verso la casa di Ulrich, che abita in centro, all'interno del grande Ring, l' anello che circonda la p arte più vecchia della città. Per arrivare da lui si passa per la Berggasse, dove si trovava lo studio di Freud, e non manchiamo di visitare quella stanza scura con il lettino coperto da un plaid. Poi finalmente c'è il palazzetto dove abita Ulrich; abbiamo deciso di fermarci un po' lì per esaminare con calma le molte cose, libri, stampe, oggetti d'arte, che lui ritiene utili all a nostra ricostruzione del­ l'ultima tornata del percorso sulla superbia. So già che Ulrich si fermerà lì e dovrò proseguire da sola. 86

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La casa è un edificio di forma originale, eppure risultato di un aggregato di stili sovrapposti alla rinfusa, come se il padrone di casa volesse solo mostrare, attraverso di essa, la compatibilità di fonne di vita diverse e non ne abbracciasse nessuna come definitiva e pienamente espressiva di sé. L'ala da cui entriamo è decisamente liberty, con strette finestre neogo­ tiche; cornici curvilinee e floreali attraversano come costole di una pianta la facciata, fregi in tnosaico con fogliame dai colori pastello arricchiscono l'insieme. La sala d'ingresso è invece fredda, con un eccesso di marmi bianchi e n eri vagamente funerari, un pesante tavolo di radica e vetro al centro, cariatidi di stucco e ottone; di ottone anche il lan1padario. L'atmosfera è un po' pretenziosa, un po' imperiale, come è tipico dell'art déco . Mi fermo esitando, perplessa. Per fortuna, Ulrich mi guida nella zona nuova della casa, dove ha il suo studio . Qui l'ambiente è molto diverso, è luminoso , razionale, spoglio di orpelli. L'arredo è di stile cosiddetto moderno, secondo le re­ gole del Bauhaus , di Mackintosh e di Gropius: le sedie sono nere con schienali alti ed eleganti, le poltrone piacevoli e basse in colori base come il giallo , il rosso, il blu . Gli scaffali sono lineari, dallo stile pulito e la luce invade l'atnbiente renden ­ dolo allegro. S ulla scrivania c'è una copia del lib ro che Ulrich pro­ pone come punto di p artenza di questa nostra tappa . Uno strano libro che già nel titolo mima - in barba ad ogni virtù della modestia - l'annuncio evangelico , cmne se si trattasse di una nuova Buona Novella, ma rovesciata, rivoltata come un guanto: Così parlo Zaratbustra. Un libro - recita il sottotitolo - per tutti e per nessuno. - «Il titolo - commento io - è paradossahnente superbo e umilissimo. Ad ogni buon conto, dobbiamo cercare di farne uscire il p ersonaggio , il profeta del superuomo; dobbiamo raccogliere le sue battute, che , se ricordo, sono per lo più espresse in forma drammatica, molto simile ad una rappresen­ tazione teatrale. Nietzsche, si sa, aveva un gusto speciale per l'aforisma, la frase ad effetto, sintetica ed efficace, pensata per sorprendere e far sobbalzare il benpensante». Ulrich si presta di buon grado ad in doss are - ironica­ mente, m a non troppo - i panni del profeta nietzs cheano: avanza dal fondo della sala - così luminosa, razionale, lineare - con una specie di cappa orientale intorno al collo , e sui 87

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capelli chiari e radi una strana corona, che a me sembra di vischio (siamo prossimi a N a tale) , ma lui giura essere di rose, la famosa corona di rose di Nietzsche-Dioniso, che si contrap­ pone a quella di spine di Cristo. Mentre avanza verso il centro della sala, accenna ad un passo di danza. Rido per nascondere un certo imbarazzo. Ulrich imperterrito descrive se stesso: afferma che sulla sua spalla ci sono un'aquila e un serpente e che lo segue un codazzo di strani personaggi, il viandante, il nano, l'ombra. Mettere in scena una parodia dell'amato filo­ sofo permette a Ulrich di prenderne la distanza: è il suo modo per onorario, n1a anche, lievemente, deriderlo: tecnica ironica per eccellenza. Anche un modo sottilmente superbo di non cedere all'emozione, all e passioni. - «Ecco, io vi insegno il superuomo», declama Ulrich con il libro aperto tra le mani, e mi accorgo che, nonostante aborra il ridicolo, gli piace, anche molto, recitare. - «Cosa significa superuomo?», chiedo io , che, avendo superato il momento di sorpresa, comincio a divertirmi e mi aspetto che dalla pantomima venga fuori una comprensione più vivace delle cose. - «Il superuomo - prosegue Ulrich , con tono ieratico , dopo aver ricordato che questo famigerato sostantivo è stato usato p.rima da Goethe nel Faust (tutto torna ! ho commen ­ tato io) " il superuon1o è il senso della terra . . . vi scongiuro fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze ! Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e awelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire. Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massilno sacrilegio " (io a queste parole mi faccio più attenta: Ulrich ha scelto un brano che si riferisce al peccato di superbia come rivolta contro Dio) , ma - continua Ulrich con voce stentorea - ''Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile"». Non posso che rip etere in altra forma la domanda: - «E cos'è la terra, di cui il superuomo è il senso ?». Ulrich è costretto a intervallare pezzi del testo di Nietzsche con qualche frase che possa chiarirli, senza tuttavia rinunciare a mimare l'annuncio profeti co: - «La terra evidentemente è il corpo, la famosa ragione del corpo. - E aggiunge - " In passato l'anima guardava al corpo -

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con disprezzo e questo disprezzo era allora la cosa più alta: essa (l'anima cristiana, si capisce) voleva il corpo n1acilento, orrido, affamato "». Mi sembra evidente, ora, quale sia la superbia del supe­ ruomo: innanzitutto si costruisce, ritorcendo in positivo l' ac­ cusa di superbia che per secoli, nel mondo cristiano, è stata fatta ai più forti, a quelli più in sintonia con gli impulsi vitali. Sì, è vero ! Rifletto tra me, mentre Ulrich continua la sua pan­ tomim a : il superuomo è superbo, ma la sua superbia non è vanità né manipolazione. n superuomo è fiero di dire di sì all a vita, allo spirito dionisiaco che si accorda al pulsare delle pas­ sioni. Assume su di sé il peso del desiderio, che gli accusatori, invidiosi, hanno mortificato in nome di una verità superiore a quella del corpo e della terra. - «l benpensanti inorridiscono e disprezzano - continua Ulrich, mimando le proprie parole -, ma lui, incurante, avanza a passo di danza, la danza ditirambica del dio Dioniso, e an­ nuncia il nuovo verbo. Smaschera il vero peccato, che non è separarsi da Dio e dal Valore, ma separarsi dal corpo. Sma­ schera la forma di superbia, piena di voluttà, che era nascosta nell'ascesi del monaco santo. La sua genealogia della morale mostra che la tavola dei valori è un dispositivo di colpevolizza­ zione per mantenere un ordine funzionale ai mediocri, a quelli che invidiano i più forti , i più vitali, i superbi». - «Non si era detto - intervengo , interrompendo la sua enfasi - che la superbia magnanima tramonta in una sequela di piccoli gesti di ordinario disprezzo degli altri? Chi ascolterà il richiamo di Zarathustra all'espansione vitale?». - «Vedi - risponde Ulrich, che conosce assai bene il no­ stro personaggio, ne è attratto , ma ne coglie anche i limiti -, la superbia di Zarathustra è antagonista: voglio dire che è una reazione all'invidia e al risentimento di quanti non hanno ab­ b astanza potenza di vita. Una risposta al gregge dei piccoli arroganti, che utilizzano il grande dispositivo tnorale (cristiano, democratico, socialista che sia) per denigrare la vita stessa, la sua innocente crudeltà, la sua pretesa di affermarsi nel caos . Superbia e invidia si fronteggiano. La società, il nuovo Dio moderno, aveva visto nel gesto di superbia una segreta invidia, e nell'invidia una segreta pretesa di valere di più, e dunque una forma meschina, vile di superbia. Questo chiasma sociale faceva di invidia e superbia forze dinamiche di una società 89

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competitiva e concorrenziale, ma anche tristemente risentita, rancorosa fino al ridicolo. Zarathustra svela un livello assoluto di antagonismo tra uomini superiori, s u perbi, ridondanti di forza vitale, gioiosamente conflittuali e la massa di invidiosi, risentiti, meschini, che in questa invidia riversano la p ropria impotenza. "Amico mio, fuggi nella tua solitudine. Io ti vedo tormentato dalle punture di mosche velenose " . n baricentro di questa sfida sta nella volontà, non nella coscienza: "li mio pensiero - cita Ulrich a memoria - è che la coscienza non appartenga all'esistenza individuale dell'uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria " . La coscienza, sede elettiva della dignità dell'uomo, si rivela sociale e grega­ ria, assoggettata ad una p ressione conformistica. Ecco, dice Zarathustra - a questo punto Ulrich quasi declama -, la sfida degli uomini superiori, spiriti liberi, che preparano l' avvento del superuomo, al di là dell'umano, troppo umano. " Spezzate, spezzate, ve ne prego, le antiche tavole" . Rinunciare alla rll1W1cia e all a misura è la rivendicazione orgogliosa della volontà di vita, senza falsi pudori, accettandone il rischio, in pura perdita . Contro il m ondo del calcolo economico costi/benefici, rispar­ mio/investimento, che differisce il godime n to per accrescere avaramente il guadagno o per un futuro maggior piacere che non è mai al presente . " Là dove la solitudine finisce comin­ cia il mercato e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche velenose » . Lo stile immaginifico , esaltato di Nietzsche ricrea una scena all' altezza del dramma primario della superbia: angelo ribelle ·all'ordine, lanciato in una sfida tesa sull'abisso, in cui è destil1ato a perde r si. - «L'uomo - continua Ulrich, ed è così compenetrato nel ruolo che mi sembra impossibile interromperlo per avanzare qualche riserva - è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra dell'abisso. Non frutto, come hanno pensato interpreti orecchianti di Nietzsche, della selezione adattativa alla Darwin , ma miracolo di dissip azione in cui generosa­ mente gettare energie, risa, danza. Eccola la nuova superbia del superuomo ! Il migliore deve dominare, il mz.g lz"ore vuole anch e dominare. Opprimerà gli altri, i piccoli, i mediocri sui quali ha riversato il dileggio? Li annienterà?». La domanda Ulrich se la rivolge da solo, sapendo che è il punto cruciale, il ,

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discrimine tra bene e male in questo affascinante e sfuggente peccato delridentità: «Talvolta sembra che i superuomini siano inclini all a prodigalità e alla dissipazione di sé, dunque capaci di vivere e comunicare gioia di vivere. Talvolta sembra siano attratti dallo snobisrno che li chiude in un'élite autosufficiente. Talvolta, invece, la hybris del superuomo non sembra nient'al­ tro che la capacità di assumersi la responsabilità del proprio desiderio senza che sia sorretto da verità e da regole». Annuisco a questa ipotesi che mi semb ra più p rossima allo spirito inerme del profeta nietzscheano, mentre Ulrich continua, sia pur malvolentieri: - «Ma è fin troppo noto che alcuni lettori di Nietzsche sapranno trovare in queste stesse parole l'invito a ripristinare la gerarchia di dominio sulla plebe. La decisione anticristiana di dire di sì all a vita e di rinn ovare in eterno questo sì produce un uomo nuovo comunque pericoloso». - «Nietzsche sembra difendere un ordine naturale violato ! - replico - Ma non so, ripeto, se questa interp retazione sia convincente . . il tono, il gesto . . . le parole . . . sono piuttosto un grido di rivolta contro la società di massa, la società gregaria che minaccia la creatività, il desiderio , l' arte e il gioco del­ l'uomo. E qui, in queste pagine, il tono e il gesto sono tutto. E poi talvolta sembra che per Nietzsche ci siano differenze naturali, nella dotazione istintuale, talvolta sembra piuttosto che si tratti di liberare dal disciplinamento morale istinti che sono vitali e cmnuni, quasi impersonali . . . ». Il fatto è che non andremo avanti di un passo fino a quando il mio amico Ulrich , suo grande lettore, non avrà messo a punto, della superbia superomistica di Nietzsche, al di là delle interpretazioni banali, la rivalutazione della diffe­ renza, , che è categoria indispensabile per capire il mondo di oggi. E questo il fascino, la molla dinamica della superbia: la differenza, la spinta ad essere ciascuno un individuo, a diven­ tare se stesso, rifiutando la dipendenza. - «La nuova tavola dei valori impone l'eterno ritorno - co­ mincia a spiegare Ulrich, che finalmente si è tolto il vis chio dalla testa e abbandona il tono ieratico e declamatorio, che francamente mi dava disagio -, ma questo non significa che si ripete il ciclo dell'identico, del simile o, ancor n1eno, dell'uni­ versale. Ciò che torna sempre è, invece, proprio la differenza. L'essere è la differenza che si ripete ogni volta come un lancio .

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di dadi. Ogni essere vivente ripete la vita in forma sempre differente, sen1pre unica, come unico voleva essere l'angelo . Ecco : il lancio di da di , la sfida sono, ancora una volta, l'at­ timo cui F a u st dice: " fermati, sei bello " . Questa differenza è minacciata - continua Ulrich, un po' accalorato, ma non più istrionico - dalle tecniche di disciplinan1ento con cui religione e politica (e tanto più la religione politica) hanno sottomesso gli u om i ni riducendoli a gregge. E contro di esse Nietzsche adopera , certo, parole superbe per dire la vita: " volontà di potenza appropriazione, sopraffazione, offesa di tutto quanto è es t raneo e più debole , oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, : e questo è abbastanza terribile. Ma lo fa per far etnergere , alle spalle dell' amore per il prossimo , un osceno, impotente risentimento , che odia la gioia di vivere , intesa come eccedenza , eccellenza, eccezione creativa d i cui l'uomo possa andare superbo Il risentimento è una p assione mortificante e mortifera , che si offre alla manipolazione dei dominatori di folle, ben più rischiosa della pretesa di aristocratico dominio dei futuri superuomini. Non sono nietzscheani, per quanto nutriti di divulgazioni nietzscheane, i meneurs de foules, tutti interni all a dinamica dell'invidia, incapaci di leggerezza, di riso Lo so, lo so che M aurras e tan ti altri ne faranno un credo politico di allucinante aggressività, eppure il problema della differenza, nel tempo dell egualitarismo, è posto: anche se gli diamo il nome di sup erbia» - «Diciamo allora - esclamo, cercando di compensare con un a dose di ragionevolezza il suo coinvolgimento - che la sua s u perbia è una sfida al proprio tempo, per educarci contro di esso. Nietzsche, lui stesso tragico giullare, superbo profeta senz' armi, sta sulla soglia di un'epoca nuova, che si rivelerà terribile. Vacilla la costruzione morale che ha fo rnito il contenimento alle società umane, dando agli uomini che vi convivono un motivo per non uccidere un altro uomo quando il desiderio li spinge a farlo. n peccato di superbia non appare più come il turbamento volontario di un ordine giusto, prima divino, poi naturale o storico. Vacill a col Bene anche il Male, con Dio muore anche Lucifero . La morte di Dio annunciata da N i et zsche è an che la morte dell'uomo che già all'alba del Rinascimen t o aveva assunto le prerogative di Dio . E che in­ vece deve riconoscere di essere decentrato , attraversato da ,

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forze che lo determinano e che è lui a percepire come proprie. E Nietzsche, con tutta la scia di superuomini, grandi, piccoli, o piccolissimi, è l'ultin1a protesta ancora luciferina, al nuovo ordine . E poi - la mia voce si fa più som1nessa e pensosa, mentre Ulrich mi guarda con espressione riflessiva e turbata - c'è del paradossale in questa sfida di Nietzsche, che fa ap­ pello alle passioni vitali, al desiderio di godimento e li affida tutti, non più alla coscienza e alla verità, ma alla Volontà di potenza C'è del paradosso perché mette in gioco una potenza del desiderio e dell'istinto di vita che invece - quando cadono le remare della Legge, quando si dissolve l'interdetto e, dal n1omento che Dio è morto) tutto è permesso non può essere voluta e diventerà più deb ole e più incerta. Mettendoci di fronte al fatto che l'identità umana è più complessa, e che non basta rovesciare le tavole dei valori. Rovesciate, si confern1ano sempre di nuovo». .

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Superuomint� delitti e false confessioni - «Da Nietzsche si muovono spiriti sottili, dissacratori , nemici implacabili di una realtà volgare, deturpat� dalle merci; insofferenti verso il patetismo e la retorica» . E Ulrich che parla, sottolineando contro la falsa umiltà un'etica affennativa, in qualche modo spinoziana , dove il desiderio , la cupiditas, sono la vera sostanza dell'uomo e hanno finalmente diritto ad estrinsecarsi. - «Ti faccio osservare che in Spinoza - replico io, perché mi interessa la piega della superbia in direzione del desiderio affermativo di sé, anche a causa dell' attuale ripresa del pen­ siero spinoziano il desiderio, la vz'v endi cupiditas, chiamia­ mola più semplicemente la voglia di vivere, è sì liberata dal peccato, ma è congiunta con la misura. Dunque siamo sempre all'interno della solita legge: giusto orgoglio, niente eccessi che annebbiano la mente, giusta dose di passioni vitali, che ci permettono di apprezzare il piacere e di sentirei parte di una grande vita comune, che circola itJ. tutte le forme viventi, senza alcuna cupidigia personalistica. E questo stare dentro la vita che ci permette di non chiuderci nell'indifferenza per il dolore degli altri e recupera, in chiave affermativa, la n1isura, il limite». -

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- «Su questo sono anch 'io d' accordo - dice Ulrich sor­ bendo il caffè e guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa che renda visibili le nostre riflessioni e possa fungere da figura emblematica -. Non c'è niente che possa essere utilizzato a tal fine e il volume di Spinoza Ethica 11tore geometrico demonstrata appare poco appetibile». Ulrich continu a: - «Sì. Ciò che fa la differenza tra superbia e superbia è l indifferenza per gli altri, il disprezzo delle loro emozioni e, più in generale, dei loro corpi. La vitalità dell'orgoglio di sé, l'autostima, la passione p er il riconoscimento - liberate dall e p astoie che denigravano la carne, i sensi, la vita - possono considerarsi malamente superbe quando non vedono l ' altro, lo manipolano, e addirittura ne operano la selezione, arro­ gandosi il diritto di decidere se sia o meno adatto o degno di vivere». - «Ecco perché - intervengo - dobbiamo metterei sulla traccia di quei person aggi che, sentendosi giustificati dalla propria p assione di sé, annullano le esigenze e i sentimenti degli altri». Poi mi viene in mente un personaggio che può aiutarci a capire. - «In Delitto e castigo - continuo -, il p robletna di Raskol'nikov sembra essere questo: può lui - lui che sa e vuole vivere, o meglio, lui che crede di sapere e volere vivere, mentre le circostanze lo vedono povero e socialmente debole -, può dunque lui, Raskol'nikov, riconoscersi il diritto di uccidere un essere inutile e dannoso , una vecchia strozzina, paragonabile ad un insetto, ad una sanguisuga, che ostacola la felicità, sua e degli altri? Lui, lo studente " dai lineamenti fini, decisamente bello, con bellis simi occhi scuri, capelli castani, di statura oltre la media, esile e snello" - un angelo quasi, pensiamo noi - ma irritabile, ipocondriaco, traboccante di amaro cinismo, lui, che n o n nasconde più la p ropria miseria. La doman da annoda ossessivamente le due idee, l'una virtuosa, quasi mnanitaria o presentata a se stesso come tale, l'altra superba, superomistica: il bene che sarebbe possibile fare con il denaro che l'usuraia nasconde dopo averlo depredato ai disgraziati costretti a ri­ correre a lei, e la facoltà, accordata ad uno spirito superiore e indipendente dalle leggi morali convenzionali, di impadro­ nirsi del denaro, uccidendo. Due punti di vista contraddittori che pure si sommano , si intrecciano nell'illusione di trovare entrambi, nel delitto , una soluzione. Ecco: per rispondere a '

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quella terribile domanda, Raskol'nikov non ha che da per­ correre settecentotrenta passi nella sordida viuzza dove abita, perché la sua mostruosa ma allettante temerarietà si compia e lui uccida la vecchia strozzina, ma anche, incidentalmente, l'innocente sorella di lei. Sì, si può uccidere un essere infe­ riore, meno che umano, vile, rapace, in modo che, col denaro rubato, la propria vita sia potenziata, incrementata e il quasi­ angelo abbia tutto quello che spetta al suo desiderio , anche al suo desiderio di altruismo e di giustizia. Ma la vittima si trasforma. Qui non c'è la società conformista a condannare e a invidiare. Qui c'è solo un giudice istruttore, Petrovic, che scruta i segreti dell' anima e soprattutto c'è un ' anima che si tormenta da sola nel rimorso e che, nonostante persista nel­ l' autogiustificazione, per poter argomentare, giustificare il de­ litto, non cerca che di confessare. La vittima - ho detto - si trasforma e diventa epifania di giustizia, senza peraltro che ci sia la certezza della catarsi». Ulrich ha seguito il racconto sfogliando il volume delle opere dello scrittore russo , che sulla copertina riproduce un malinconico interno di Cézanne con due che bevono assenzio, vicini, ma ciascuno chiuso nella propria solitudine. La figura è ben scelta perché, nel romanzo di cui stiamo parlando , al centro non c'è che l'interiorità dell'uomo e la sua solitudine. Un'interiorità lacerata tra assoluta potenza e assoluto amore: duplicità che coesiste nella superbia. - «In Dostoevskij - osserva Ulrich - non conta nem1neno più sapere se Dio esista, ma se e come l'esistenza di Dio possa spiegare perché non si debba eccedere nella propria superbia fino ad uccidere altri uomini». È la domanda da cui abbiamo preso le mosse. - «D'altronde - continua Ulrich il vero timore di questi superuomini che sacrificano vite (penso anche a Ivan Kara­ mazov) non è tanto la legge umana cui credono meno che al loro rituale, quanto piuttosto l'eventuale inattualità della loro fede nichilista. La sottile linea di confine con la colpa è ora quella tra un disprezzo degli altri che arrivi ad uccidere o che si mantenga nella sua aristocratica indifferenza». Nella discussione che segue tra noi, notiamo uno squilibrio tra l'imponente crescita delle emozioni interiori generate dall a superba decisione di eliminare, sia pure a fin di bene, una vita insignificante e l'azione crudele, il delitto: ci sembra di intuire -

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che la crudeltà degli uomini sarà sempre più sommersa da pensieri, giustificazioni, argomentazioni e sempre meno visibile nella sua nudità. Il tumulto dei pensieri , l' ossessione febbrile del p rota­ gonista, le intuizioni del giudice: questa è la dimensione del racconto, mentre la scena efferata, crudele del delitto, la vio­ lenza sull'inerme, il sangue versato, il coltello, il primo cada­ vere, poi il secondo durante la fuga: tutto questo non ha altro senso che nel dramma interiore, il dramma della superbia e della virtù, dell'odio e del pentimento, dell'ossessione e della perdizione. Si awicina un tempo in cui azioni sacrificali, vio­ lenza e morte saranno sempre meno visibili, reali, e sempre più la riflessione cancellerà ancora la vittima per perdersi nei meandri dell'anin1a colpevole. Raskol'nikov poi, per quanto si riempia la bocca di argomenti superomistici, manca del tocco di disprezzo per gli altri su cui avevamo pensato di soffermarci quando abbiamo iniziato a ragionare dei lettori di Nietzsche. Sì, Raskol'nikov è febbrile, violento , ma la crudeltà, la can ­ cellazione dell'altro non sembra sia voluta in se stessa: peral­ tro, adduce molte giustificazioni , per quanto fantomatiche, al delitto e invece, nel superbo disprezzo della vita altrui, c'è sempre qualcosa di gratuito, un dominio violento esercitato per puro potere. Ulrich infatti suggerisce, per cogliere l'accentuazione più indifferente al dolore degli altri, di guardare ad un altro ro­ manzo di Dostoevskij : - «Nei Demoni, un vortice di violenze si annoda attorno ad un fuoco centrale: l ' organizzazione di delitti, per mezzo dei quali Verchovenskij , il capo del movimento nichilista ter­ rorista e anima dannata dell'azione, lega tra loro, in una rete di ricatti e di paure, i congiurati. La sofferenza, che è l'effetto dell'azione demoniaca che decide chi vive e chi muore, è come risolta nella causa, la sfida diabolica al mondo e alla morale, che la motiva: tutti i delitti che sconvolgono la città, assassinii, incendi, rivolte, suicidi, rinviano a Verchovenskij manipolatore e segreto burattinaio». - «Ma è l'altro demone, Stavrogin - lo interrompo io -, ad agire con una superbia che ha l'inconfondibile tratto del­ l'indifferenza al dolore altrui. Anche lui, bello e dannato fino all a parodia, conclude un itinerario di discesa agli inferi con una lettera-confessione, inviata a tutti i maggiorenti della città, 96

l. William Blake, Tbe Ancient o/ days ( God creating the Universe) ( 1794 ) , London British Museum. 2 . William Blake, Satan (smiting ]ob witb sore boi/s) ( 1 825 ) , in Illu strations of the Book o/ ]ob, McCo rmick L ib r a r y of S pecial Collections, N o rthwestern Uni­ versity.

l.

2.

3.

3 . Hieronymus Bosch, I sette peccati capitali, scompa rto della

Madrid , Museo del Prado. 4. Maarten de Vos, Superbia, da

Superbia ( 1 475-80 ) ,

Circulus Vicissitudini's Rerum Huma1tarum (XVII sec.) .

5 . Frans V!}n Mieris, Do11na di fronte allo specchio, part. ( 1 660 ca. ) , Miinchen , Alte Pinakothek.

4.

6. Pieter Paul Rubens,

seo del Prado.

Adamo ed Eva ( 1 628-29) , Madrid, Mu­

7. La torre di Babele ad opera

cento, Firenze, Museo Stibbert.

di un anonimo olandese del Sei­

8.

10.

9.

8. J. -L. David, Giuramento della pallacorda , grisaglia, Musée N a c i on a l

de Versailles.

du Chateau

9. Disegno della maschera mortuaria di Robespierre: Madame Tussaud la c o m i nc iò pochi istanti dopo che la testa era caduta dall a ghigliottina (28 luglio 1794 ) , London, Madame Tussaud 's (Museo delle cere ) . 10. Adolf

Eichmann nella gabbia di vetro nel processo di G erusalemme ( 1 96 1 ) .

1 1.

1 1 . Locandina di Faust, film muto per la regia

di Fried rich Wilhelm Murnau ( 1 926) .

12. Una scultura di Lucifero nella Cattedrale Saint-Pau) a Liegi. 13. Montaggio fotografico: Egolatry. Postbuman cyborg.

13.

14.

15.

16.

17.

14.

Ma n ifes to in stile Beardsley, di ,

C a rl o

Nicco per il film muto del 1 9 18.

15. Manifesto del Terzo uomo, di Carol Reed ( 1 949) . 16. Manifesto di Aranda meccanica, di Stanley 17. Marlon Brando in te rp re t a il colonnello Ford Coppola ( 1 979).

Kubrick ( 1 97 1 ).

Kurtz n el film Apocalypse now, di Fra n cis

Caleidoscopio di superbi

nella quale si accusa del suo delitto di superbia, di disprezzo della vita degli altri. Ha sedotto una piccola serva: una sedu­ zione annoiata, priva di qualsiasi rispetto per la vita e la sen­ sibilità della vittima, una seduzione che è solo abuso di potere e disprezzo, una violenza gratuita sulla piccola Matrjosa, la bambina che fa pulizie nella sua stanza per guadagnare qual­ che soldo; un atto privo di senso , come è prop rio del male che definiamo superbo, in quanto inutilmente, futilmente in ­ fligge sofferenze estreme. Questa prepotenza gratuita spinge la bambina al suicidio. Nella sua autoaccusa, Stavrogin si spinge cinicamente fino a rinnovare in forma plateale e parodistica l' antica pratica della confessione; ma il senso di questa con­ fessione è esattamente il rovescio dell'antico rito cristiano di penitenza. Egli, come bene indovina il suo amico e confidente, confessa pubblicamente solo per un ulteriore atto di dannata superbia: al solo fine , cioè, che la p ropria sfida alla morale appaia in tutta la sua enormità. Ciò che Stavrogin cerca nella pubblica confessione che dovrebbe cop rirlo di vergogn a è esattamente che questo atto insensato e crudele abbia tutto il suo spessore, la sua risonanza. Non vuole cioè, il nostro superuomo, che esso galleggi nella volgare trasgressione, ma pretende, in modo blasfemo, che assurga ad atto di super­ bia antologica contro Dio . La vittima deve essere tale e il delitto deve essere conclamato perché gli uomini divengano demoni». Anche in questo caso conveniamo che, nella magistrale scrittura di Dostoevskij , si ricava quella strana sensazione che la violenza, il delitto scompaiano, appena accenn ati dal rac­ conto, efficacissimo e reticente, del demoniaco Stavrogin, tra­ volti dallo spessore contraddittorio e drammatico dell' anima, oscurati dal primo piano riservato alla superbia, questa volta evocata, accusata, ma anche paradossalmente esaltata dal rac­ conto del carnefice stesso. Pensando a superbi superuomini con un 'inclinazione alla violenza, anche psicologica , gratuita, ci allontaniamo sempre di più dall'inerme, lirica, un po' fanciullesca e patetica enun­ ciazione di forza e di egoismo del profeta Zarathustra e ap ­ paiono figure assai meno innocenti, anzi, volutamente torbide, perverse, talvolta terribilmente simili a gente che abbia1no conosciuto, talvolta leggermente comiche, per il nostro disin­ canto. 97

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di superbi

Sono quei superbi che assorbono arroganza e disprezzo dall ' atmosfera cinica del mondo del denaro o del potere, op­ pure si tratta di quel drappello di superbi che hanno letto Nietzsche e magari non l'hanno ben digerito: gli eroi dan­ nunziani, per esempio , e i loro imitatori di tutti i tempi. Un Giorgio Aurispa del Trionfo della morte, o un Andrea Sperelli del Piacere. Contrastando platealmente la n1orale borghese e cristiana che vieta l'egoismo e l'esaltazione superba dell'Ego , eccitano artificiosamente le proprie presunte forze vitali, il nativo istinto di dominazione da superuomo /orte e tirannico. Le avventure erotiche di Sperelli, l'elegantissimo conte circondato dal lusso, alto (come avrebbe voluto essere D'An­ nunzio ! ) , la cui sensualità trova eccitazione nel tormentare chi lo ama e che si dedica in modo sacrificale al suo piacere, espri­ mono un completo indifferentismo morale. Aurispa , cinico, raffinato, sensuale, moralmente inerte e amaran1ente consape­ vole della propria aridità, uccide se stesso e la donna da cui si sente sessualmente avvinto, per negare la dipendenza dalla passione, per affermare all' estremo il dominio sul desiderio che lo spossessa. Li attende una punizione che non viene tanto dalla società conformistica la cui condanna suonerebbe come merito, ma dall a propria sottile impotenza, da un'apatia indo­ lente che, dapprima, è volta al mondo degli altri, secondo la dinamica tipica della superbia, ma poi avvolge e travolge loro stessi, rovesciando l'energia in noia. Anche quella del lettore. - «Di questo mare di passioni e superomismi un po' kitsch - dico - ci sono anche oggi le tracce, sia pure in toni meno melodrammatici: il cinismo dei rapporti erotici, l'insofferenza verso il legame di dipendenza , insofferenza che non fa che esasperarlo, la pretesa superba di dominare il piacere, usando l'altro e non riconoscendone la sensibilità, il diverso deside­ rio. E anche quel suono sordo e cupo di sottofondo, che, tra le molte pesantezze del Trionfo della morte, rivela l'angoscia mortale che risuona nell'egoistica e prepotente affermazione di sé». Ulrich non ha voglia di fare alcuna concessione al tor­ mento voluttuoso di D'Annunzio, e sbotta: - «Ma che crudeltà: qui al m assimo siamo allo snobi ­ smo ! ».

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«Non come tutti.'»: snobismo e avanguardia E siamo ad una nuova declinazione dell'essere superbi , meno cupa e drammatica, anche se capace di esclusioni umi­ lianti e dolorose. Una superbia che si lega all ' eccezionalità, all a raffinatezza, anche se la traspone in campi di pura visibilità e di relazione pubblica superficiale. Una superbia ancora oggi molto diffusa, sia pur con accenti un po' cambiati: la passione di essere diversi, di farlo notare, di essere snob . A rischio di vanità. - «Il fatto è dico io - che in una società conformista e sempre più spettacolare, la superbia assume i tratti del gesto estetico , per rendere visibile il suo distacco dal mondo co­ lnune». Stiamo conversando in una sala del circolo frequentato da Ulrich : un ambiente silenzioso, dall'arredo sobrio e tipica­ nlente maschile; nessuno che alzi la voce e rida sgangherata­ lnente; molte riviste e giornali sui tavoli bassi tra le poltrone. Riviste internazionali, di selezionata diffusione e di elegante ilnpaginatura, ma anche fogli pirata, alcuni dei quali sembrano vecchi ciclostilati. Non per tutti: sembrano dire. I quadri alle pareti sono prevalentemente opere grafiche, di Kandinskij e di Klee. Eleganti e per niente figurativi. Un pizzico di con­ servatorismo ostentato che si tiene con tracce di anarchismo, assolutamente non popolare . Noi sorseggiamo una bevanda «esotica» - così, in modo un po' antiquato, me l'ha presentata Ulrich - lieve1nente amara e con un retrogusto di zenzero. Io guardo il mio amico . A Ulrich, se lo si osserva, non possono negarsi tratti di quell'eleganza non supina alla moda, con una trasandatezza apparente che ha effetto di ricercatezza (e che probabilmente è ricercata) , che lo rende diverso, che lo fa notare, senza che ci sia un porsi troppo sopra. le righe. Penso a Swann, il finissimo gentiluon1o, dall'incerto stato sociale e dall' amore sregolato per una cocotte, ma anche esteta e conoscitore insuperabile di arte, della Ricerca del tempo perduto di Proust, e allo stesso Proust. Capace di parlare con la stessa serietà e con lo stesso tono di voce del dipinto di Botticelli che raffigura le figlie di Ietro o delle scarpe di colore rosso da abbinare felicemente all'abito da sera della duchessa di Guermantes . Quelli sì che erano snob , sia l'autore che il personaggio: dilettanti di sen-

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sazioni immateriali e insieme consunti dal desiderio di essere parte di un 'élite. Ulrich, no, non è abbastanza snob ; dovrò inquadrare al­ trove il suo filo di superbia . Dello snob gli manca l'eccesso estetizzante, il pizzico di banalità, che impoverisce il disincanto verso le norme sociali di massa. Come si vede, qui si tratta di sfumature. Quelli che giudichiamo snob sono (o si sentono) simili a residui di originalità in una realtà banale e prevedi­ bile. Dalla decomposizione della massa conformista si levano, quasi fossero fuochi fatui, i loro bagliori «che non h anno la forza di fare nuova luce, ma che bastano appena a illuminare il disgusto». Gli snob infatti non cambiano il mondo come Robespierre, ne illuminano solo il degrado e la volgarità: per contrasto . Nello snobisn1o, il n1oralismo sotteso alla grande sfida nietzscheana si banalizza. Dell'ordine nuovo e vivo non resta più che la nostalgia: il cerchio sociale riassorbe sempre ogni tentativo di originalità e spinge a distinguersi in modo ostentato. - «Lo snob - dice Ulrich, volendo sottolineare proprio il carattere dell'ostentazione, che gli è totalmente estraneo - si costruisce una legge visibile che lo separi dagli altri, anche se mantiene il retropensiero che questa legge visibile sia solo un artificio» . Incuriosita gli chiedo spiegazioni: - «In che senso lo snob si dà una legge visibile? Che si­ gnifica?». - «Significa - dice Ulrich - che segue certe regole di com­ portamento, diverse da quelle di tutti, ma rigide e, soprattutto, ostentate, visibili. Faccio un esempio: sceglie sempre non ciò che sul mercato vale di più, ma ciò che nessun altro ha, ciò che è una rarità per pochi eletti. E questo non nel senso, tri­ viale, della merce più costosa: questo genere di snobismo su­ perbo è d 'accatto , volgare; ma nel senso che sceglie la cosa che pochi sanno apprezzare, che vale perché sono in pochi a saperla desiderare». . Ho capito il . senso della rarità e della visibilità, ma aggiungo, per precisare: - «Salvo poi essere ammirati e imitati, come spesso ca­ pita ai superbi. E, allora, quella scelta diviene di tendenza, e dunque la cosa è più richiesta, più costosa. Lo snob è legato a filo doppio alla società di mercato, dunque al nostro mondo 1 00

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di oggi; ma è lo snob , quello vero, che fa il mercato e non il mercato che fa lo snob». Mi sembra interessante, e lo faccio notare ad Ulrich, che il superbo acquisisca, in questo caso, il suo valore di eccellenza in modo passivo , limitandosi a identificare (e rifiutare) ciò che è banale. Sceglie qualcosa di raro di cui pochi pochissimi sono in grado di intendere il valore, ma, e questo è parados­ sale, il suo messaggio è rivolto sempre a chi non capisce, agli altri appunto, che devono ricavarne un'impressione di males­ sere. Penso a certi amici, intellettuali post di qualcosa, molto raffinati, elitari, che mettono in cri si senza rimorso chi arranca a seguirne la sempre riaffermata diversità . . . Anche se fatuo , lo snobismo p uò essere crudeltà sottile assai più dell' espli­ cita risata. Il grande appello nietzscheano alla differenza si è svuotato : «Oh spaventosa noia del cerchio che uccide ogni diversità, che induce a definire tutto ciò che è eguale come infinitan1 ente diverso. Noia che ci spinge alla differenziazione lacerante». Ulrich riprende, con una severità fin eccessiva: -