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Italian Pages 322 Year 2001
Table of contents :
STRADE PAESAGGIO TERRITORIO E MISSIONI NEGLI ANNI SANTI FRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA......Page 1
Premessa Antonia Pasqua Recchia......Page 8
Fra centro e periferia: strade, territorio, comunità negli Anni Santi fra Cinquecento e Settecento Irene Fosi......Page 10
Le strade che portano a Roma: il governo della viabilità nello Stato pontificio durante gli Anni Santi (secc. XVI-XVIII) Renato Sansa......Page 18
Lavori pubblici nello Stato pontificio d’antico regime. Il restauro della «strada che fa il Procaccio di Napoli» per l’anno santo 1700 Carmine Iuozzo......Page 54
Una strada, il suo ambiente, il suo uso. La Via Aurelia fra XII e XVIII secolo Susanna Passigli......Page 106
Paesaggio e viabilità nel Piano dei Bagni di Viterbo tra Medioevo e prima Età moderna* Silvia Dionisi-Anna Esposito......Page 156
L’assetto viario della via Cassia tra XVII e XIX secolo Cristina Somma......Page 174
La strada consolare da Roma a Viterbo nel Settecento attraverso le carte della Presidenza delle strade Carmine Iuozzo......Page 184
La Via Cassia agli inizi dell’800: presenze, sopravvivenze e permanenze Adriano Ruggeri......Page 244
Una geografia del sacro: missioni e territorio nello Stato Ecclesiastico del Settecento Stefania Nanni......Page 282
Bibliografia generale......Page 296
Indice dei nomi, luoghi e autori A cura di Renato Sansa......Page 303
IRENE FOSI
ANTONIA P. RECCHIA
––––––––– a cura di –––––––––
STRADE PAESAGGIO TERRITORIO E MISSIONI NEGLI ANNI SANTI FRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA Testi di
IRENE FOSI, RENATO SANSA, CARMINE IUOZZO, SUSANNA PASSIGLI, SILVIA DIONISI, ANNA ESPOSITO, CRISTINA SOMMA, CARMINE IUOZZO, ADRIANO RUGGERI, STEFANIA NANNI
GANGEMI EDITORE
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Gangemi Editore Piazza San Pantaleo 4, Roma
Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni; chiunque favorisca questa pratica commette un illecito perseguibile a norma di legge.
ISBN 88-492-0140-0
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI UFFICIO CENTRALE PER I BENI AMBIENTALI E PAESAGGISTICI
STRADE PAESAGGIO TERRITORIO E MISSIONI NEGLI ANNI SANTI FRA MEDIOEVO E ETÀ MODERNA a cura di
IRENE FOSI e di
ANTONIA PASQUA RECCHIA
Testi di:
IRENE FOSI, RENATO SANSA, CARMINE IUOZZO, SUSANNA PASSIGLI, SILVIA DIONISI, ANNA ESPOSITO, CRISTINA SOMMA, CARMINE IUOZZO, ADRIANO RUGGERI, STEFANIA NANNI
GANGEMI EDITORE
Le riproduzioni delle mappe e dei disegni tratti dai Fondi documentari dell’Archivio di Stato di Roma sono stati autorizzati su concessione del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali n. 2001/12. È fatto divieto di qualsiasi ulteriore riproduzione.
Indice
Premessa Antonia Pasqua Recchia
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Fra centro e periferia: strade, territorio, comunità negli Anni Santi fra Cinquecento e Settecento Irene Fosi
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Le strade che portano a Roma: il governo della viabilità nello Stato pontificio durante gli Anni Santi (secc. XVI-XVIII) Renato Sansa
17
Lavori pubblici nello Stato pontificio d’antico regime. Il restauro della «strada che fa il Procaccio di Napoli» per l’anno santo 1700 Carmine Iuozzo
53
Una strada, il suo ambiente, il suo uso. La via Aurelia fra XII e XVIII secolo Susanna Passigli
105
Paesaggio e viabilità nel Piano dei Bagni di Viterbo tra Medioevo e prima Età moderna Silvia Dionisi-Anna Esposito
155
L’assetto viario della via Cassia tra XVII e XIX secolo Cristina Somma
173
La strada consolare da Roma a Viterbo nel Settecento attraverso le carte della Presidenza delle strade Carmine Iuozzo
183
La via Cassia agli inizi dell’800: presenze, sopravvivenze e permanenze Adriano Ruggeri
243
Una geografia del sacro: missioni e territorio nello Stato Ecclesiastico del Settecento Stefania Nanni
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Bibliografia generale
295
Indice dei Nomi, Luoghi, Autori
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Premessa Antonia Pasqua Recchia
La decisione di promuovere uno studio storico volto alla conoscenza e alle trasformazione dei paesaggi attraversati dai percorsi giubilari è stata presa nel 1996 dall’Ufficio Centrale per i beni ambientali e paesaggistici nella consapevolezza del ruolo rilevante che occorre attribuire alla prospettiva storica nell’identificazione delle trasformazioni e delle permanenze nel territorio e quindi di quei valori paesaggistico-ambientali da conservare e valorizzare. L’approfondimento della fase conoscitiva, estesa a tutte le componenti della trasformazione, è ormai ritenuto presupposto essenziale di ogni efficace azione di tutela del paesaggio. L’adeguamento degli strumenti di conoscenza è altrettanto essenziale per governare in modo adeguato la molteplicità delle pressioni che si esercitano sul paesaggio e che ne determinano il mutamento. Tali acquisizioni concettuali sono tanto indiscusse da entrare, e con rilevanza, nella più recente formulazione legislativa sulla materia: dal Decreto Legislativo n. 112 del 31 marzo 1998 articolo 54 sul tema della raccolta e informatizzazione del materiale cartografico all’articolo 147 del Decreto Legislativo n. 490 del 29 ottobre 1999, Testo Unico sui beni culturali e ambientali, che impone il censimento, la catalogazione e l’individuazione anche su cartografia informatizzata dei beni e delle aree di maggior valore paesaggistico. Tra le linee di indirizzo emerse nella Conferenza Nazionale del Paesaggio dell’ottobre 1999 si ricorda il notevole rilievo dato alla necessità di costruire l’Atlante dei paesaggi italiani basato sulle Carte locali delle permanenze e delle vulnerabilità, in grado quindi di orientare non soltanto le valutazioni di compatibilità delle trasformazioni proposte ma anche le scelte strategiche per gli interventi sul paesaggio. Così come accade per l’architettura storica, anche per il paesaggio è assolutamente indispensabile ricostruire il “palinsesto costruttivo” che, attraverso i secoli, ha portato all’attuale configurazione. Certamente si tratta di tracce che quasi sempre sono più difficili da identificare e decifrare, perché riferite ad ambiti vasti, soggetti a dinamiche spazio-temporali assai più complesse di quelle che riguardano il patrimonio architettonico. Ne deriva la necessità di utilizzare per la conoscenza tutte le strumentazioni disponibili, secondo una metodologia basata su approcci interdisciplinari adeguati alla complessità del problema, che utilizzano una molteplicità di fonti e di documenti da raccordarsi però in un quadro coerente con l’obiettivo ultimo di conoscere e definire le attuali connotazioni di “valore” dei paesaggi italiani. In tale contesto si colloca il progetto di ricerca sul paesaggio e gli itinerari giubilari elaborato, sulla base dell’impostazione tematica e problematica dell’Ufficio Centrale, da Irene Fosi che ha scelto, coordinato e indirizzato il gruppo di ricercatori. L’ Istituto Nazionale di Studi Romani, chiamato a partecipare all’iniziativa, ha fornito un supporto amministrativo-gestionale. L’accostamento, nella ricerca, delle tre diverse componenti: paesaggio, percorso, giubileo, che può sembrare indubbiamente alquanto inusitata, nasce dalla considerazione di base sul come, in occasione del giubileo, la Città Eterna sia storicamente diventata non soltanto luogo cosmopolita ma anche “luogo dei luoghi” in cui i diversi territori e paesaggi, da quelli di partenza a quelli attraversati, sono stati in qualche modo rapportati e rappresentati, sia attraverso l’esperienza psicologica dei pellegrini sia con riferimento agli aspetti più specificamente organizzativi, logistici ed economici. A differenza di quanto avviene attualmente (l’uso del mezzo aereo ha completamente disgregato il rapporto tra gli spostamenti e i luoghi attraversati), l’evento del viaggio è stato sempre strettamente legato al percorso e al territorio per due ragioni sostanziali: il contatto con il suolo, che da un massimo (il viaggio a piedi) ad un minimo (il viaggio in carrozza chiusa) permetteva un tipo di contiguità con il territorio attraversato oggi completamente assente; la durata del viaggio che, introducendo la componente temporale, comportava automaticamente relazioni con le strutture della sosta e dell’accoglienza. Viaggio, percorso, territorio: la lettura delle trasformazioni pone al centro dell’indagine le strade, le grandi strade consolari che in occasione degli anni santi si popolano di torme di pellegrini, modificatesi nel tracciato nel corso dei secoli per ragioni di ordine politico-militare (guerre, invasioni, divisioni territoriali), naturale (impaludamenti, espansione dei boschi, terremoti, esondazioni di fiumi e laghi) o antropico (bonifiche, estensione dei coltivi, disboscamenti, attività estrattive). Lo spessore dell’ambito territoriale interessato dalla percorrenza giubilare è molto più ampio del semplice nastro stra-
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ANTONIA PASQUA RECCHIA
dale, includendo i numerosi centri religiosi e devozionali disseminati lungo i tracciati, fruiti da pellegrini e viaggiatori non solo da un punto di vista spirituale ma anche come strutture di mediazione (per i servizi, per gli approvvigionamenti) fra la strada e i centri urbani più vicini. Con l’indagine storica volta ad esaminare le politiche che il governo pontificio metteva in atto in occasione degli eventi giubilari (ma non solo) e che si realizzavano con interventi, ordinari e straordinari, sui tracciati, sui materiali, sui manufatti stradali si ricompone un quadro complesso che lascia intravedere, con sufficiente chiarezza, un paesaggio soggetto a continue anche se impercettibili trasformazioni, in cui gli elementi naturali prevalgono su quelli antropici, con la presenza non rara di emergenze notevoli. E dalla documentazione cartografica storica, iconografica e fotografica emergono agevolmente quelle caratteristiche fondamentali, quegli elementi forti che ancora oggi, nonostante l’immenso impatto delle trasformazioni del ventesimo secolo (soprattutto quelle post-belliche) connotano i paesaggi, ne definiscono l’identità e la riconoscibilità. La consapevolezza di un difficile confronto con una documentazione varia e disaggregata, frammentaria ma complessa, ha reso necessario operare preliminarmente una scelta territoriale che ha ristretto il campo dell’indagine ai percorsi che dal nord convergevano verso Roma: le vie Cassia, Aurelia, Francigena, Flaminia. Questi, sin dal 1300, si ripropongono secolo dopo secolo come i tracciati fondamentali dei flussi giubilari; su di essi si innesteranno più tardi anche le direttrici del Grand Tour. Le tematiche individuate inizialmente dall’Ufficio Centrale sono stati le seguenti: 1. il paesaggio e l’evoluzione della sua percezione attraverso le cronache dei pellegrinaggi e la documentazione iconografica; il ruolo conoscitivo e documentario delle fonti; 2. le trasformazioni dei luoghi in seguito agli Anni Santi; gli interventi sui percorsi, sulle infrastrutture, le trasformazioni urbane e ambientali; 3. i luoghi santi e il paesaggio: pievi, abbazie, santuari, oratori; l’itinerario santo interno al pellegrinaggio; 4. il tempo del viaggio: sosta e attraversamento, i centri di accoglienza e di assistenza, la conoscenza dei luoghi. Nell’organizzazione della ricerca questo impianto problematico è stato conservato e anzi ha costituito il filo conduttore delle due fasi in cui si è articolato il lavoro. Una prima fase è consistita nella ricognizione bibliografica esaustiva relativa ai percorsi selezionati e alle loro modificazioni; nella identificazione dei centri religiosi e devozionali disseminati lungo i percorsi, che scandivano le tappe del progressivo avvicinamento a Roma, luoghi reali e simbolici con funzione sacralizzante del viaggio nonché punti di raccordo con i centri urbani territoriali; nella elaborazione di una scheda informatizzata da utilizzare per l’identificazione delle sezioni territoriali trasversali individuabili lungo il percorso e aventi carattere di omogeneità; nella ricognizione cartografica della viabilità extraurbana sulla base del Catasto Gregoriano. Nella seconda fase, di carattere più analitico e interpretativo, è stata ulteriormente sviluppata la ricognizione della viabilità storica, anche sulla base della mappazione, oltre che della catastazione; è stato svolto lo studio sugli elementi “naturali” interessati dai percorsi e sul loro mutamento: fiumi, fossi, zone umide, boschi, coltivi; è stato svolto, analogamente, lo studio sugli elementi antropici interessati dal percorso e sulle loro trasformazioni: manufatti stradali, centri urbani, luoghi di culto, luoghi di sosta e di accoglienza; si è simulata una verifica dello stato attuale dei luoghi, con particolare riferimento alle permanenze naturali e antropiche. Nel corso di entrambe le fasi l’Archivio di Stato di Roma ha provveduto a fornire il materiale iconografico riprodotto nel presente volume. Il risultato dell’intenso lavoro svolto trova qui la ricomposizione all’interno di saggi in cui il taglio storiografico è prevalente, ma che nel contempo portano un contributo prezioso allo svolgimento del complesso percorso conoscitivo cui si è accennato, finalizzato a fornire strumenti di supporto decisionale per l’individuazione delle compatibilità e la valutazione delle trasformazioni, che siano sempre più adeguati ad un esercizio efficace della tutela e della valorizzazione dei paesaggi italiani.
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Fra centro e periferia: strade, territorio, comunità negli Anni Santi fra Cinquecento e Settecento Irene Fosi
«Accioché i pellegrini nel viaggio dell’Anno Santo del S.mo Giubileo così nell’andar a Roma, come nel ritornar alle proprie case ricevano commodità per le persone et essempi di costumi buoni».*
Può sembrare singolare, a prima vista, il tentativo di valutare l’impatto che un evento, la cui natura originaria fu certamente di carattere spirituale, ha avuto sul territorio e sul paesaggio, su quel contesto morfologico-ambientale che circondava le strade dirette a Roma. Il giubileo, infatti, si connotava alle sue origini come un avvenimento di natura religiosa, nato in un momento di forte attesa e di tensione spirituale. Fu subito però accompagnato da una necessaria sistemazione, non solo nei suoi aspetti dottrinali e teologici, che ne sancì la validità e ne assicurò la durata nei secoli. Anche sul piano strettamente terreno, organizzativo e logistico, l’afflusso di pellegrini verso Roma pose, fin dall’inizio, gravi problemi pratici che indussero, poco a poco, a modificare l’assetto urbanistico, ad esaltare, topograficamente, luoghi sacri fino ad allora marginali, a risacralizzarne altri, a potenziare soprattutto le strutture di ospitalità e la rete assistenziale e caritativa che aveva nelle confraternite il suo centro privilegiato. L’accoglienza si allargava poi ai centri minori, fino a toccare le piccole comunità ed a lasciare così traccia ben visibile lungo le strade, in ospizi, xenodochi, ricoveri più o meno attrezzati, che, per altro, erano spesso solo un modesto riparo per pellegrini e viandanti, come testimonia-
no cronache e resoconti di viaggi della prima età moderna. Diverso era, inizialmente, il titolo del progetto: «In viaggio verso Roma». Poi nel corso del lavoro, ha prevalso un’ottima centrifuga, quasi a voler misurare l’incidenza che l’evento giubilare – un evento ‘urbano’, sacrale e sacrilizzante per la città – ha avuto nell’ impatto con il territorio e con il paesaggio lungo le strade che dalla città si allontanavano. Le ricerche che qui si presentano, articolate in un diverso spessore, determinato anche delle fonti considerate, sono il risultato di una lunga collaborazione fra studiosi. Hanno cercato di indagare, sotto differenti angolature e, soprattutto, soffermando l’attenzione su alcune zone specifiche in un arco di tempo determinato, gli effetti prodotti sull’ambiente e sul paesaggio dagli interventi pontifici in materia di viabilità messi in atto in occasione degli anni santi. Considerata l’importanza che, nel corso dei secoli, ha avuto la via che da Nord conduceva a Roma pellegrini, mercanti, viaggiatori e diplomatici, è sembrato opportuno presentare in maniera collegata ed omogenea, data anche la tipologia delle fonti, i saggi che focalizzano l’attenzione sulle zone attraversate dalle vie Cassia e Flaminia. Sarebbe stato tuttavia riduttivo non prendere in esame la strada che collegava Roma al Sud, asse viario di fondamentale importanza non solo per pellegrinaggi e commerci, ed ignorare anche il segmento della via Aurelia che raggiungeva il porto di Civitavecchia, essenziale nodo di comunicazione via mare, non solo per
lo Stato Ecclesiastico. Ma si è voluto anche sottolineare che la strada fu inoltre strumento essenziale per veicolare il messaggio religioso, per catechizzare le popolazioni rurali con un’intensa azione missionaria non circoscritta agli anni santi. La cadenza giubilare impose, fin dall’inizio, di risanare e mantenere un assetto viario già tracciato fin dall’epoca romana, ma non più in grado di sostenere il peso di un movimento di persone che ormai, da tempo, non limitava la propria presenza agli anni santi, ma aveva in Roma la meta non solo di pellegrini, mercanti, viaggiatori, diplomatici, corrieri postali. Modificare il tracciato stradale per rendere più agevole e sicuro il cammino per Roma significava, spesso, alterare i delicati equilibri esistenti su un determinato territorio, incidere sull’ambiente dal quale le comunità stesse traevano le essenziali risorse economiche. La risposta locale al governo pontificio chiamato, fra Cinque e Settecento, ad intervenire spesso in situazioni di emergenza e in tempi ristretti, non fu sempre positiva. Si è potuto cogliere nella conflittualità fra centro e periferia, fra i relativi ‘sistemi’ di governo1, fra gli organismi centrali e le comunità locali – e rilevare anche una conflittualità che emergeva, in epoca moderna, non solo in materia di viabilità – quell’atteggiamento difensivo «rispetto all’ambiente che ebbero le comunità di villaggio e le collettività contadine»2. La strada non rappresentava infatti solo l’elemento di comunicazione essenziale per raggiungere la città dove si trovavano le tombe degli apostoli, la
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sede del pontefice, centro di una corte sempre più articolata e sfarzosa, peculiare per le sue cerimonie e per il loro significato simbolico. La strada era infatti vitale per le comunità che insistevano su di essa e che da essa traevano il necessario per alimentare un’economia povera, spesso di pura sussistenza; era il segmento di comunicazione fra i mercati locali, il tracciato lungo il quale ci si dirigeva per raggiungere quei centri dove si celebravano le locali solennità religiose, opportunità attese per esprimere una sociabilità che aveva poi la sua ricaduta su ampie sfere della vita dell’intera collettività. La strada era anche il luogo, prolungato nel tempo e nello spazio, delle attese: attese della città, dell’ospitalità, del confronto fra l’immagine della Città Eterna costruita e propagandata dalle guide per pellegrini e viaggiatori, così come dalle parole di predicatori, ma anche da una tradizione orale diffusa da chi, per i motivi più diversi, aveva già maturato l’esperienza del viaggio e del soggiorno a Roma. Il viaggio era «l’exercice d’une sociabilité quotidienne, aussi soudaine qu’éphemère»3. In una società, come quella di antico regime, che aveva scarsa familiarità con la mobilità quotidiana, il viaggio così come il pellegrinaggio erano destinati a segnare non solo l’esperienza individuale, ma quella collettiva ed a lasciare quindi tracce profonde nella mentalità. Lungo le principali direttrici, luoghi di accoglienza e di ristoro erano senz’altro rappresentati, insieme ad ospizi e locande, da bagni e terme che, inoltre, costituivano un elemento propulsore per l’economia locale, come ben mostra il saggio di S. Dionisi ed A. Esposito, che ripercorre la storia, attraverso il Medio Evo, delle terme dell’area di Viterbo, sottolineando la loro valenza economica per tutto il territorio circostante, legata non solo all’intensificarsi dell’affluenza di pellegrini negli anni santi. Le «acque» di Viterbo furono, per secoli, non solo un ele-
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mento fondamentale per l’economia viterbese e di comunità limitrofe che insistevano sulla strada, ma anche un tratto fortemente caratterizzante il paesaggio dell’intera zona, come del resto è facile valutare, ancor oggi, dalle molteplici ‘sopravvivenze’. Arricchite di nuove «comodità» rispetto al Medio Evo, le terme erano tuttavia considerate dalle autorità un pericolo ed un luogo di tentazioni per chi era diretto a guadagnare il perdono giubilare: alle confraternite, alle compagnie laicali, che preparavano e guidavano l’itinerario, era affidato il compito di disciplinare il ristoro dei pellegrini, per altro già istruiti – in teoria – dagli ammonimenti di sacerdoti, confessori e vescovi sul comportamento da osservare durante il viaggio. La strada era il luogo attraverso il quale circolavano le notizie portate dai corrieri con i loro carichi di merci, ma anche dai «menanti»; conduceva ai mercati cittadini più grandi, ed in particolare a Roma, al cuore del potere temporale e spirituale, alla sede delle congregazioni che, dal tardo Cinquecento, furono chiamate ad occuparsi del «buon governo» delle comunità, non solo dal punto di vista finanziario, ma in un più ampio progetto di centralizzazione delle funzioni di governo, per altro non sempre coerente e di facile attuazione. Dalla periferia al centro passavano dunque uomini, merci, idee in uno scambio continuo, spesso non equilibrato ed organico, che portava sul territorio anche le temute «cavalcate» dei «ministri di giustizia» per attuare l’ordine, esigere tasse e tributi, fare leva di soldati, controllare la vita dei sudditi. La strada trasmetteva anche un messaggio religioso elaborato in città da congregazioni e ordini sempre più impegnati nella missione evangelizzatrice, decisa a catechizzare quelle che erano definite «otras Indias»4. Non erano concentrate solo nei periodi giubilari ma, soprattutto nel Sei e Settecento, le missioni condotte da cappuccini, gesuiti, lazzaristi, passionisti e da altri
ordini religiosi nelle comunità, lungo le strade che avrebbero in seguito conservato memoria visibile della loro presenza, rappresentavano un momento di sacralizzazione del territorio, di festa, di pacificazione sociale, come illustra il saggio di S. Nanni che ricostruisce un’accurata geografia delle missioni in gran parte dello Stato Ecclesiastico. Nel periodo del giubileo, la strada ed il pellegrinaggio si connotavano di un più intenso valore simbolico. Diventavano infatti metafore del viaggio verso la salvezza, segnato da insidie e pericoli nascosti esplicitamente allusivi agli ostacoli del percorso dell’anima verso il Paradiso. Gli itinerari per raggiungere Roma da ogni parte d’Europa erano conosciuti fin dall’alto Medioevo e, soprattutto nel corso del Duecento, si arricchirono di descrizioni ed annotazioni apportate da chi aveva già compiuto l’esperienza del pellegrinaggio5. Con la diffusione della stampa si moltiplicarono gli Itineraria e i Mirabilia Urbis divennero sempre più guide specializzate nella descrizione delle antichità di Roma. Nel Cinquecento, poi, con la cesura creata dalla Riforma, Roma divenne il centro della cattolicità rinnovata, la città ‘moderna’ costruita dai pontefici che avevano usato funzionalmente le sue antichità, risacralizzandole. Le guide parlano perciò soprattutto di Roma, della città racchiusa nella cinta delle mura, delle sue basiliche. Rare o addirittura inesistenti sono le notizie che da queste numerose pubblicazioni si possono evincere per delineare il contesto e l’ambiente attraversato dalle maggiori strade. Soprattutto in occasione dei giubilei – ma non solo allora – il pellegrino doveva essere guidato per Roma: l’anno santo era un evento urbano che traeva la sua forza teologica e salvifica dagli spazi sacri di Roma6. Altre, dunque, sono state le fonti che hanno permesso, in questa ricerca, di ricostruire l’incidenza che la scansione giubilare e il suo ‘governo’
FRA CENTRO E PERIFERIA, STRADE, TERRITORIO, COMUNITÀ NEGLI ANNI SANTI FRA CINQUECENTO E SETTECENTO
ebbero sul territorio fra la fine del Cinquecento ed il tardo Settecento. L’ambito cronologico prescelto risponde all’esigenza di analizzare questa problematica nel momento in cui la celebrazione dell’anno santo assunse un più deciso signficato simbolico teso a rilanciare la potenza di Roma dopo la crisi religiosa cinquecentesca. Il tardo Settecento segnò invece il declino, per altro già latente, di un evento minato dalla cultura illuminista e, soprattutto, dagli avvenimenti politici europei. Ma fin dalla seconda metà del Seicento, in una stagione di pre-riforme che vide impegnati pontefici come Innocenzo XII, si era modificato anche il governo della periferia. Anche la realizzazione del Catasto Alessandrino, durante il pontificato di papa Chigi (1655-1667), rispondeva all’esigenza di conoscere il territorio, per agire, in modo incisivo, non solo in materia fiscale. Gli interventi sulla viabilità furono meno casuali e disorganici, come mostrano alcune delle ricerche qui presentate, soprattutto quelle di R. Sansa e di C. Iuozzo, condotte proprio sulle fonti prodotte dalle magistrature centrali preposte al governo della periferia e della viabilità in tutto lo Stato Ecclesiastico. Le strade per Roma divennero, a partire dal tardo Quattrocento, oggetto di specifica attenzione da parte delle autorità del governo pontificio. Fin dal ritorno dei papi da Avignone, le competenze sulle strade, urbane e solo in parte extra urbane, erano state regolate da norme degli statuti che affidavano i compiti in materia ai magistri aedificiorum et stratarum Almae Urbis. Dal pontificato di Martino V, e sempre più nel corso del Cinquecento, anche se non in modo organico, si delineò il tentativo di centralizzare le funzioni e la legislazione in materia di viabilità, conservazione e sicurezza7. La strada era infatti uno strumento essenziale per raccordare l’azione di governo fra centro e periferia, secondo una politica attuata dai pontefici più de-
cisamente, in questa direzione, proprio a partire dal Quattrocento. Fino alla metà del XVI secolo non esisteva però, nello Stato Ecclesiastico, un organismo specificamente preposto alla viabilità, con la conseguente carenza o frammentazione normativa, riflesso dell’assenza di coordinamento nell’operare in questo fondamentale settore. Dalla fine del XVI secolo il problema della ristrutturazione, manutenzione e del potenziamento dell’assetto viario nello Stato Ecclesiastico si legò strettamente allo sforzo di riorganizzare le competenze di governo da parte di Sisto V che, nel 1588, creò, fra le altre, la Congregatio super viis pontibus et fontibus. Venne infatti data sistemazione ufficiale ad un organismo camerale, con a capo cioè un chierico della Camera Apostolica, investito di specifiche funzioni nell’ambito della viabilità fin dalla metà del ‘500 ed a congregazioni cardinalizie che avevano operato fino ad allora in maniera saltuaria. Non erano molti i percorsi noti, come si è detto, fin dall’alto medioevo, che conducevano a Roma. Da Nord si passava spesso lungo l’Adriatico seguendo la costa fino ad Ancona e rientrando poi all’interno, verso Ovest, per utilizzare così l’ultimo tratto della via Flaminia. Questo tracciato era particolarmente seguito da chi proveniva da Venezia e, soprattutto dal Cinquecento, con la decisa ripresa del culto mariano, rappresentò una via obbligata per chi voleva visitare Loreto. Durante il pontificato di Gregorio XIII fu costruito un tratto stradale – la cosidetta via Boncompagna – che congiungeva Otricoli e Narni, proprio per rendere più agevole il percorso verso Loreto, che entrava a pieno titolo negli itinerari giubilari, perché nella Santa Casa era avvenuto il mistero dell’Incarnazione. Loreto si era trasformata, nel corso del Cinquecento da villaggio in castello e da castello in città, acquistando la sistemazione urbanistica «in cui l’elemento ordinatore fondamentale è
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il santuario, nucleo di un complesso che ad esso fa riferimento, anche dal punto di vista economico»8. La posizione del santuario, la sua organizzazione funzionale a tutte le esigenze dei pellegrini erano già state rilevate, alla fine del Cinquecento, anche da Montaigne, colpito, come molti altri viaggiatori coevi e successivi, dalla moltitudine di osti, di «vendeurs de cire, d’images, de patenôtres, Agnus Dei, de Salvators et telles dentrées de quoi ils ont un grand nombre de belles boutiques et richement fournies»9. Nei secoli seguenti, le pagine di diari di viaggi compiuti soprattutto da personaggi provenienti dal mondo riformato furono segnate spesso da osservazioni negative, da irrisione e da parole di aperta condanna per il luogo sacro ed i suoi visitatori. La città marchigiana fu fatta segno di polemiche antiromane che sottolineavano gli aspetti di superstizione, di speculazione sull’ignoranza dei fedeli da parte di tutto il clero che si arricchiva grazie ad un mercato di false reliquie, di oggetti attribuiti alla Vergine e persino di polvere ‘grattata’ dalle pietre della Santa Casa. A Loreto si andava da soli, ma sempre più, dal tardo Cinquecento, in compagnie e confraternite; dal santuario si passava anche per tornare a casa, dopo avere ammirato le meraviglie della Città Eterna ed aver ricevuto il perdono con la visita alle sue basiliche, alle reliquie dei martiri ed aver assistito alle celebrazioni solenni. Pellegrini, e sempre più nel corso del Seicento e del Settecento, viaggiatori stranieri, sottolinearono il contrasto fra il santuario, la sua ricchezza ed il paesaggio circostante, incolto, segnato da molti tratti della strada allagati e costellato da comunità abitate da contadini che vivevano miseramente. Il contrasto fra la bellezza dei luoghi, osservati più tardi con una sensibiltà romantica, e la povertà degli abitanti caratterizzerà, ad esempio, anche le osservazioni di J. G. Seume nel 1802, quando da Lipsia, percorrendo pro-
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prio questo tracciato adriatico, si diresse in Sicilia10. Se questo itinerario incrociava il santuario-simbolo della devozione mariana, altri, come quello più diretto per Roma che passava dall’Emilia attraverso l’Appennino, incontrava non minori «asprezze» e disagi. Nel 1527, Marco Foscari, ambasciatore veneziano ricordava che «per la via di Lombardia sono quattro strade da passare in Toscana, tutte difficilissime e aspre. La prima è quella di Pontremoli, la quale getta nel piano di Lucca…il secondo è quello della Garfagnana per li monti…la terza è quella della Valle del Sasso, la quale sbocca nel piano di Firenze…la quarta strada è quella che va dritto da Bologna per Firenzuola e Scarperia, e sbocca nel piano di Firenze, la quale è peggiore delle altre tre sopradette»11. Era, quella delle strade, una condizione generale segnata da incuria e dissesto, testimoniata anche per i più noti passi alpini: la strada del Brennero era infatti descritta «sassosa e difficile attraverso i precipizi e le sporgenze dei monti»12. Nello Stato Ecclesiastico la situazione non era migliore. Il problema del riassetto e della manutenzione delle strade si intrecciava con quello della loro sicurezza. Al dissesto dei tracciati viari di collegamento fra i diversi insediamenti urbani, causato da impaludamenti, smottamenti, dall’invasione di macchie lungo il percorso e dalla frequente rottura di ponti, si aggiungevano l’arretratezza dei mezzi di trasporto ed il pericolo di assalti di banditi e grassatori di strada. I tempi di percorrenza erano enormemente lunghi ed incerti. La macchia, il bosco erano impenetrabili, oscuri, pericolosi: all’interno, protetti da signori locali che garantivano loro l’impunità con il diritto di asilo, e dalle comunità limitrofe alla strada, i banditi attendevano i procaccia, i ricchi carichi di merci, personaggi famosi, semplici viandanti e pellegrini per derubare, sequestrare e uccidere, co-
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me riferiscono gli Avvisi del tardo Cinquecento e del Seicento. Particolarmente colpita era la via Appia, affiancata in alcuni tratti dalla via Latina, asse di comunicazione con il Regno di Napoli, che attraversava località selvagge, strette fra il mare e i monti Lepini, dove fortemente radicata sul territorio era la presenza di potenti casate del baronaggio romano, come Colonna e Caetani, da sempre generosi ospiti di banditi e grassatori. A Nord, non erano certo più sicure né in condizioni migliori le vie che collegavano lo Stato Ecclesiastico con il Granducato di Toscana, come la Cassia che, con la Flaminia, conduceva al più importante ingresso in città per il flusso di persone né, tanto meno, le strade che da Roma si dipartivano per attraversare le province pontificie di Umbria e Marche per raggiungere le coste dell’Adriatico o, come la Tiburtina, che arrivava nel Regno attraverso Tivoli. Anche questi percorsi erano infatti tormentati dagli stessi problemi di sicurezza, di dissesto idrogeologico del territorio, di incuria da parte delle comunità, spesso troppo povere per poter far fronte anche alle minime spese di manutenzione o di rifacimento di ponti e strade, di ripulitura di fossati, di drenaggio di acque stagnanti. Non tutti – pellegrini, mercanti o diplomatici che fossero – compivano il loro itinerario per terra, come dimostra il contributo di S. Passigli, che ricostruisce in dettaglio, diacronicamente, le vicende morfologiche del tracciato della via Aurelia e, soprattutto, dell’ambiente circostante attraverso la ricca documentazione dell’ospedale di S. Spirito in Sassia, che fin dal Medioevo, era maggiore proprietario terriero in quella zona. Dalla fine del Quattrocento e sempre più spesso nel tardo Cinquecento, soprattutto nel periodo di maggiore diffusione del banditismo, durante i pontificati di Gregorio XIII, Sisto V e Clemente VIII, si erano moltiplicati editti e bandi pontifici che ingiungevano alle co-
munità e ai signori di «assicurare li viandanti e togliere ricetto et sicurezza alli tristi e ribaldi», facendo tagliare «per un trare di mano da ogni parte delle vie publiche et maestre tutte le selve, macchie et altre fratte in che possano ascondersi assassini, latri o altri tristi, sotto pena di 500 scudi et refettione de ogni danno et interesse che qualsivoglia viandante patisse». In una costituzione del 1553, esemplare di una politica mantenuta fino al secolo successivo, ribadita dai continui bandi pontifici, ma destinata a dare ben pochi risultati concreti, si intimava inoltre che «fra tre mesi prossimi ogni communità et particular persona in quanto importa ad esso debbia acconciare tutte le strade, massime maestre et publice…ed acconciare tutte le fonti et ponti et redurle al pristino stato et tenerle nette altrimenti et per questo et per rivedere le strade alle spese delle comunità et de particolari per quanto a ciascuno toccarà, si mandaranno Commissarii i quali per li tre mesi sopradetti non toglieranno viatico, passato detto tempo toglieranno viatico et si procederà contra loro alle pene sopradette».13 La povertà delle comunità, chiamate ad impegnarsi contro chi viveva alla macchia grazie alla complicità ed al sostegno di famiglie locali, la connivenza signorile con i malviventi e, soprattutto, l’impossibilità delle magistrature romane di provvedere ad un sistematico controllo dell’operato delle comunità stesse in materia di viabilità e di sicurezza ed anche di esigere le pene pecuniarie solennemente comminate nei bandi, erano solo alcune delle cause che inficiarono fortemente la politica pontificia in materia di sicurezza e di riassetto della viabilità per tutto il Cinquecento. Le disastrose condizioni della Penisola, sconvolta dagli eserciti, avevano reso assai scarsa la presenza dei pellegrini nel 1525, quando Clemente VII aveva indetto il giubileo, attaccato e schernito violentemente da Lutero. Il 1550 non era stato più
FRA CENTRO E PERIFERIA, STRADE, TERRITORIO, COMUNITÀ NEGLI ANNI SANTI FRA CINQUECENTO E SETTECENTO
felice: momento di passaggio fra due pontefici, – Paolo III e Giulio III – intenti piuttosto a rispondere agli attacchi eretici ed a rinnovare la Chiesa, non aveva ancora reso l’anno santo un momento centrale della celebrazione dell’universalità di Roma e del potere del pontefice. La volontà di celebrare i giubilei del 1575 e del 1600 con toni solenni e trionfanti ebbe un peso decisivo anche nel migliorare le condizioni di viabilità, soprattutto nei percorsi più battuti, non solo dai pellegrini. Non sempre si riuscì con successo in questo intento: le strade, anche quando erano state «acconciate», potevano risultare comunque impraticabili per le avverse condizioni metereologiche. Ricordando il pellegrinaggio compiuto da una confraternita fiorentina per l’anno santo del 1575, il diarista Bastiano Arditi riferiva, ad esempio, che i confratelli erano rimasti bloccati per due giorni fra Acquapendente e Radicofani, non potendo attraversare il fiume Paglia «per amore delle piogie», sebbene proprio in quell’anno Gregorio XIII avesse fatto costruire un ponte (ponte Gregoriano). Altri inconvenienti intralciarono il percorso dei pellegrini che rilevarono «con stupore et grande loro disturbo haver trovate le strade et hosterie dì et notte sì piene di pellegrini che spesse volte etiam in una picciola casetta si ritrovavano più di cinquecento persone»14: le parole del cronista non sono poi molto diverse da quelle di autori di ricordanze e diaristi quattrocenteschi. La preoccupazione di assicurare ai pellegrini un percorso sicuro e, nei limiti del possibile, confortevole, emerge comunque con chiarezza anche nelle istruzioni, negli avvertimenti per i fedeli decisi ad intraprendere il viaggio. Consigli pratici si univano infatti agli ammonimenti spirituali anche nella lettera pastorale di S. Carlo Borromeo, pubblicata nel 157415. In una edizione veneziana, infatti, si aggiungeva un utile elenco delle strade, del modificarsi dei percorsi, delle poste
e dei ricoveri di cui i pellegrini avrebbero potuto servirsi. Per lo stesso anno santo indetto da Gregorio XIII fu data alle stampe l’opera del canonico veronese Pier Francesco Zino, nella quale si saldavano consigli spirituali con suggerimenti utili per il viaggio, tema costantemente ripreso in altre pubblicazioni coeve e successive che, in occasione degli anni santi del Sei e Settecento, venivano puntualmente riproposte16. Basti ricordare, a questo proposito, l’Itinerarium Italiae, edito a Colonia nel 1602, il cui titolo prometteva di elencare tutte le città, i fiumi, monti, ma anche «miracula, monumenta, fontes, acquae calidae» e tutto ciò che potesse attrarre o rivelarsi utile per i viaggiatori17. Con il pontificato di Clemente VIII si verificò un radicale mutamento nella organizzazione del governo della periferia dello stato. L’istituzione della Congregazione del Buon Governo nel 159218, la repressione manu militari del banditismo19 permisero anche di approntare un piano più organico di rifacimento e manutenzione del sistema viario. Non si può parlare tuttavia di un progetto politico ed amministrativo organico riguardo alla viabilità: come dimostra il saggio di R. Sansa, le enunciazioni solenni presenti nelle bolle di indizione dei giubilei sei e settecenteschi si scontravano poi con una serie di ostacoli pratici: l’ esiguità delle risorse finanziarie, la resistenza delle comunità e dei corpi privilegiati, come l’antico baronaggio e la più recente nobiltà che godeva di diritti signorili, a collaborare con le direttive romane. Resistenze furono opposte, ad esempio, anche dagli Orsini, duchi di Bracciano, che chiedevano di essere esentati dal pagamento di una tassa per rimettere a posto un tratto di strada di Civitavecchia, nel 1649, in previsione dell’anno santo che avrebbe visto accorrere a Roma pellegrini giunti via mare, che poi proseguivano da Civitavecchia a Roma lungo l’Aurelia. Il successo degli interventi in materia
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di strade e di sicurezza, soprattutto in periodi eccezionali, come era appunto l’anno santo, dipendeva in larga misura anche dall’iniziativa e dall’energia di legati e governatori, rappresentanti dell’autorità romana in provincia. Un esempio, in questo senso, viene dalle disposizioni emanate dal vescovo Filippo Sega, presidente di Romagna, che si ricollegava a quanto Gregorio XIII aveva ordinato già nel 1573 per preparare le strade per i pellegrini. L’attenzione del pontefice e dei suoi rappresentanti anche per gli aspetti pratici dell’evento si iscriveva nella decisa volontà di lanciare un messaggio di gloria e di potenza della Chiesa tridentina. Così, uno sguardo particolare era rivolto al territorio e si ordinava a governatori e legati di «far provisioni di tutte le cose necessarie al vitto, e a rassettar con diligenza le Strade, et i Ponti, et a farne de’ nuovi dove bisognava: uno de’ quali fu sopra la Paglia Torrente rapidissimo sotto Acquapendente, et un altro nella Strada Flaminia presso a Forlì sul Fiume chiamato il Montone, ne’ quali spesso si affogano i viandanti»20. Bologna e tutta la Romagna erano, come si è visto, zone strategiche per chi veniva dal Nord-Est verso Roma: e, insistendo sul buon esempio che i pellegrini dovevano ricevere non solo dalla carità e dai buoni costumi degli abitanti, ma anche dalle strade «accomodate» e sicure, Filippo Sega ordinava, ad esempio, che «[le] strade habbiano fossati larghi, cupi da ogni banda, ponti risanati e capaci per carri; siano sicure, guardate a’ confini, passi sospetti» e che i fiumi «habbiano ponti racconci, sicuri, vadi piani, sodi, fortificati, barche capaci di huomini, cavalli, barcaroli continui di giorno, notte…»21. Se è indubbio che, dalla fine del Cinquecento, il territorio e le sue infrastrutture abbiano ricevuto un’attenzione diversa, più puntuale da parte di specifiche magistrature, gli interventi appaiono ancora disorganici, mirati a «riparare» solo i
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disastri più eclatanti prodotti dall’usura di un sistema viario ricco, ma trascurato. Le opere, come i passi o passoni – costruzioni in legno che permettevano di superare allagamenti e corsi d’acqua che attraversavano le strade – mantenevano un carattere temporaneo, precario, sottoposto all’usura ed alle bizzarrie atmosferiche. In preparazione all’anno santo del 1600, la Congregazione super viis fontibus et pontibus, divenuta l’organismo con la maggiore autorità in materia, affrontò, in diverse sedute, le modalità dell’intervento sulle vie Cassia ed Appia. Come hanno messo in evidenza le ricerche condotte sul cospicuo materiale archivistico prodotto dagli organismi romani preposti alla viabilità, la strada verso Nord, la consolare Cassia, tradizionale tracciato per i pellegrini diretti a Roma, fu senza dubbio oggetto di un’attenzione più marcata22. I pellegrini avrebbero potuto orientarsi e scegliere percorsi ‘misti’ tra Cassia e Flaminia, soprattutto nel tratto più vicino a Roma. Come suggerisce lo studio di R. Sansa, nel corso del XVII secolo anche in occasione della celebrazione degli anni santi, non era solo Roma al centro delle preoccupazioni del governo pontificio. Sempre più si cercò di intervenire non solo sui percorsi delle vie consolari, ma anche di quelle ‘trasversali’, dei tracciati minori e segmenti essenziali di raccordo fra i piccoli centri e le città. Le comunità, dunque, oltre ad essere investite dell’onere finanziario per i lavori, erano anche chiamate, soprattutto nel XVI e XVIII secolo, ad attuare un controllo sugli interventi promossi dalle magistrature romane, sulla loro qualità e sull’efficacia. Si stabiliva così, attraverso la Congregazione del Buon Governo, un continuo scambio, sebbene non sempre coerente ed organico, fra centro e periferia: e, in questo rapporto, era inevitabile l’insorgere di conflittualità e tensioni. Le comunità inadempienti, ad esempio, potevano essere costrette al paga-
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mento anche da commisssari camerali inviati in loco con speciali poteri, ma nonostante ciò, ritardi e incompletezza nei lavori per gli anni santi sono testimoniati costantemente dalle fonti esaminate. Nel 1652 molte comunità risultavano ancora insolventi nel pagare lavori messi in atto all’inizio del 1648 né sembra che fossero state adottate nei loro confronti particolari misure punitive. Lo scontro fra la magistratura romana super viis pontibus et fontibus, i cardinali della Congregazione costituita, ogni volta, per preparare il giubileo, e le comunità si concentrava sulla rivendicazione e sulla difesa dei privilegi goduti non solo dalle comunità stesse, ma da enti ecclesiastici, come monasteri, abbazie, capitoli di cattedrali, nonché, ovviamente, da signori titolati. Perciò si sollecitava, ogni volta, di ripartire la spesa anche fra monasteri, collegiate, cattedrali, ma la proposta era costantemente osteggiata. Anche in seguito, come ad esempio nel progetto di riattamento del sistema viario per il giubileo del 1675, riemerse questa esigenza di equità nella ripartizione delle spese: per le comunità, si faceva osservare, tali esborsi «sarebbano insopportabili, perché le patiscono spesso»23. Per il giubileo del 1625 le vie consolari erano state ‘affidate’ ognuna alle cure di un cardinale, al quale spettava provvedere, anche in previsione delle ricorrenze giubilari, al riadattamento ed alla manutenzione dei maggiori assi viari. Dalla metà del Seicento però, nell’intricato sistema di governo pontificio, si profilò più netta e con funzioni sempre più precise, la figura del Presidente delle Strade. In occasione del giubileo del 1650 solo il cardinale Federico Sforza fu incaricato di provvedere a tutte le vie consolari, mentre la divisione dei compiti di manutenzione di ciascuna strada fra i diversi cardinali venne adottata di nuovo nel 167524. Un’altra difficoltà era rappresentata, per le magistrature pontificie, dall’esigenza di con-
trollare gli aspetti tecnici delle diverse fasi del riassetto delle strade. Dalla metà del Seicento, fino al 1700, i lavori per la sistemazione di una strada erano affidati ad un appaltatore, scelto dopo una gara, al quale si concedevano una serie di prerogative per poter procedere senza intralcio nella risistemazione delle strade consolari. Nei capitoli si stabilivano i dettagli dell’intervento, i materiali da usare – i migliori, si diceva – le modalità di esecuzione nei diversi tratti, sollecitando in particolare di dar sfogo alle acque, alzando o abbassando il piano stradale «ad effetto non restino pantani». Il 2 aprile 1699 la «Congregazione Generale delle Strade per la distribuzione della Sopraintendenza all’accomodamento delle Strade Consolari per l’Anno Santo» aveva affidato a ciascun cardinale della Congregazione stessa le vie consolari che si presentavano in gran parte in pessimo stato ed esigevano una forte somma per i lavori di ristrutturazione. Le parole erano sempre le stesse, quasi a ricordare che gli interventi precedenti erano serviti a poco e che si confidava nell’impegno del singolo porporato per ottenere risultati qualitativamente migliori e, soprattutto, duraturi. All’appaltatore, infatti, si intimava di portare a termine i lavori assegnati «perfettamente, sodamente e durevolmente». Se il cardinale diventava così una sorta di protettore della strada ed anche agli occhi degli abitanti delle comunità la sua azione era destinata a connotarsi di riflessi positivi, si proponeva, come di consueto, il problema della ripartizione delle spese. Il papa aveva sollecitato il camerlengo a non far gravare tale tassa straordinaria solo su comunità, terre e castelli, ma anche su chiese, capitoli, luoghi pii, cavalieri Gerosolimitani ed altre persone privilegiate. Non mancarono, come al solito, le proteste, i tentativi di sottrarsi al riparto delle spese, la rivendicazione di privilegi, soprattutto da parte di potenti ecclesiastici. Ci si appellava a consuetudini
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passate, ma anche a cavilli formali, ostacolando in ogni modo un riparto equo, mentre la tassazione straordinaria finiva ancora una volta per gravare sulle comunità e non mancavano inoltre i contrasti per il taglio del bosco e delle macchie che inondavano il percorso stradale. È un quadro complesso che emerge con chiarezza dal saggio di C. Iuozzo che analizza appunto i lavori intrapresi sulla direttice verso Napoli sotto la supervisione del cardinale Marescotti proprio in previsione del giubileo del 1700. Le ricerche compiute da C. Iuozzo e R. Sansa sulle modalità di appalto hanno inoltre permesso non solo di ricostruire la tipologia costruttiva della strada che, a metà Settecento, da Roma conduceva a Viterbo, ma anche, più in generale, di evidenziare i limiti ed i condizionamenti interni alla gestione di tali opere. La ricostruzione dell’ambiente naturale, come anche delle proprietà e l’individuazione di manufatti, viene ben messa in luce dall’esemplificazione che A. Ruggeri propone, sulla base del Catasto Gregoriano (1819), proprio del tratto della via Cassia, rilevando, a quella data, le permanenze del passato, ma indagando anche quali siano oggi le tracce lasciate dai diversi interventi sulla strada. Nello stesso contesto spaziale e temporale, lo studio di C. Somma esamina, attraverso la ricca documentazione dell’abbazia delle Tre Fontane, proprietaria di ingenti porzioni di terreno, il tratto stradale che conduceva alla Storta, (Monterosi) ultima stazione di posta prima di giungere a Roma da Nord. Progetti più organici si delinearono insomma, come appare da questa documentazione, solo dalla fine del Seicento, in preparazione degli anni santi del 1675 e del 1700, per subire poi una lunga stasi nella prima metà del XVIII secolo, in un periodo segnato da condizioni economiche sempre più precarie, da un’economia dissestata, da quella che è stata definita la «crisi morale e intellettuale degli anni Trenta» del Sette-
cento25. A conferma di questa nuova tendenza può essere citata l’attenzione con la quale, anche dopo la celebrazione dell’anno santo del 1700, le magistrature romane si dedicarono alla risistemazione dell’asse viario che conduceva a Roma dal Nord. Nel 1705 infatti i Maestri delle Strade compirono una visita, fra l’altro, della Cassia nel tratto Roma-Viterbo, notando, fra l’altro, che la selciata, fra Vico e Ronciglione restava «sollevata in aria e dà impedimento al transito» e che nella valle di Sutri «resta la maggior parte coperta e ammacchiata, potendosi credere da quello si vede…sia selciata buona»26. In altri luoghi del percorso la strada appariva «non più praticata»: viaggiatori e pellegrini, come si è visto, si erano costruiti da tempo, in questi casi, percorsi alternativi, sconfinando nella campagna, nei seminati, nei boschi. Dal Cinquecento, infatti, si era generato un percorso che da Ponte di Roma usciva da Viterbo e proseguiva per Vico, Ronciglione, Monterosi, le osterie di Baccano e della Storta, ed arrivava a Roma attraversando il Ponte Molle. Come rileva C. Iuozzo nella ricerca citata, nel 1533 Clemente VII aveva ordinato a Francesco Del Vantaggio, maestro generale delle poste pontificie, di ripristinare la posta di Sutri, a patto che quella comunità mantenesse a sue spese in buone condizioni la strada di accesso. Conflitti fra comunità e lamenti presso il papa segnavano dunque ogni mutamento di direzione della strada, non solo per timore delle novità ma, soprattutto, per la consapevolezza di perdere una preziosa fonte di guadagno. Nel 1705, e quindi ancora una volta secondo una progettualità più organica e non finalizzata solo alla celebrazione dell’anno santo, che anticipava una linea di tendenza destinata ad affermarsi con Pio VI, fu adottato un provvedimento per riattare la strada che da Monte Rosi conduceva a Sutri e Ronciglione «per non essere communemente pratticata». Il papa concesse ampie facoltà al Presidente
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delle Strade di costringere «li padroni delle tenute, casali et altri beni a prestar patienza di fare e costruir nuove strade, di continuare il transito che fosse stato già indotto e praticato per il passato, e quelle poi far accomodare e risarcire come l’altre [consolari] se qualcuna non fosse commodamente pratticabile e che fosse pericolosa»27. Dunque, questi esempi, ai quali per altro se ne potrebbero aggiungere molti altri che si sono presentati nel corso della ricerca, confermano come solo nel tardo Settecento i lavori di riassetto stradale si inseriscano in un quadro più generale e complesso di riorganizzazione dell’assetto del territorio, dei suoi assi viari, di bonifiche, il cui esempio concreto furono appunto i lavori per il prosciugamento delle paludi Pontine sotto Pio VI. Rimarrà comunque, nelle bolle di indizione, costante il richiamo alla metafora della strada, ai pericoli ed alle difficoltà del cammino verso la «città del perdono». Celebrando di nuovo dopo la tempesta rivoluzionaria, con grande solennità, il giubileo del 1825, Leone XII riprendeva l’esortazione ai governanti a garantire «un sicuro cammino a tutti i pellegrini che, in viaggio verso Roma, passeranno per i territori sottoposti alla loro giurisdizione e provvedano all’ospitalità degli stessi in modo tale che a costoro, che sono intenti in quest’opera di pietà, non venga arrecato alcun danno»28: era, questo, un monito che, dal Medioevo, aveva attraversato i secoli accompagnando la celebrazione del giubileo.
NOTE * F. SEGA, Agevole sentiero per l’Anno Santo, Ravenna 1574, Biblioteca Vallicelliana, Roma, ms. all. G. 34. 1 Sul concetto di ‘sistema’ usato per comprendere storicamente il contrasto fra centro e periferia negli stati italiani cfr. E. FASANO GUARINI, Centro e periferia, accentramento e particolarismi: dicotomia o sostanza degli Stati in età moderna?, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed
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età moderna, a cura di G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 147-178. 2 A. CARACCIOLO, L’ambiente come storia, Bologna, Il Mulino 1988, p. 37. 3 D. JULIA, Rome-Reims: Gilles Caillotin, pelerin (1724), in Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. BOESCH GAJANO e L. SCARAFFIA, Torino, Rosenberg e Sellier, 1990, p. 345. 4 Sul significato dell’evangelizzazione delle campagne in età moderna cfr. A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996, p. 607 sgg. 5 Si veda, a questo proposito, R. STOPANI, Le vie di pellegrinaggio del Medioevo. Gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostella, Firenze, Le Lettere, 1991 e T. SZABÒ, Le vie per Roma, in La storia dei Giubilei, I, Firenze, Giunti, 1997, pp. 70-89; G. e F. LANZI, Vie per Roma, Milano, Jaca Book, 1999. 6 Molte di queste tematiche sono state affrontate in “La città del perdono”. Pellegrinaggi e anni santi a Roma in età moderna. 1550-1750, a cura di S. NANNI e M. A. VISCEGLIA, in «Roma moderna e contemporanea», V, 2/3, 1997 e nei volumi La storia dei Giubilei, II-III, Firenze, Giunti, 1997-1999. 7 Su questa magistratura e le sue funzioni cfr. D. SINISI, Presidenza delle Strade, in M. G. PASTURA RUGGIERO, La Reverenda Camera Apostolica e i suoi archivi (secoli XV-XVIII), Roma, Archivio di Stato, 1984, pp. 100-118. 8 A. TURCHINI, Pellegrinaggi e voti, itinerari di disciplina e di devozione a Loreto nella Controriforma, in Loreto crocevia religioso tra Italia, Europa e Oriente, a cura di F. CITTERIOL. VACCARO, Brescia, Morcelliana, 1997, p. 552. Sulla storia del santuario nella tradizione religiosa europea cfr. L. SCARAFFIA, Loreto. Un lembo di Terra Santa in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998. 9 M. DE MONTAIGNE, Journal de voyage,
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éd. présentée par F. GARAVINI, Paris, Gallimard, 1983, p. 246. 10 J.G. SEUME, Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802, Nördlingen, Franz Greno, 1985, p. 120 sgg. 11 Citato in I Giubilei. Viaggio e incontro dei pellegrini, a cura di D. STERPOS, Roma, Soc. Autostrade, 1975, pp. 68-69. 12 Ivi, p. 68. Sul viaggio e le condizioni delle strade cfr. A. MACZAK, Viaggi e viaggiatori nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994. 13 Constitutioni et ordini del Rev.mo et Ill.mo Sig. Cardinale di S. Clemente, legato di Campagna e Marittima cit. in I. FOSI, La società violenta. Il banditismo nello Stato Pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma, Ateneo, 1985, pp. 230-234. 14 Citato in I Giubilei, p. 82. 15 C. BORROMEO, Lettera pastorale di monsignor ill.mo et rev.mo card. Borromeo… nella quale diffusamente si dichiara che cosa sia l’Anno Santo del Giubileo, la indulgentia che si acquista et quale preparatione si debba fare per pigliarlo con proposito spirituale, Roma, appresso gli heredi di Antonio Blado, 1574. 16 P. F. ZINO, L’Anno santo MDLXXV… Avvertimenti per ricevere con frutto il Giubileo…con molte cose maravigliose pertinenti al viaggio e chiese e antichità di Roma, in Venetia, Francesco Rampazzetto, 1575. 17 Esempi precedenti sono l’opera di B. FONTANA, Itinerario o vero viaggio da Venetia a Roma con tutte le città, terre et Castella per strade più habitate…, Vinegia, appresso Agostino Bindoni, MDL o [G. HERBA], Itinerario delle poste per le diverse parti del mondo…con una narratione delle cose di Roma, et massime delle Chiese, brevemente ridotta, in Venetia, 1564. 18 E. LODOLINI, L’archivio della Sacra Congregazione del Buon Governo (1592-1847), Roma, Archivio di Stato, 1956. 19 FOSI, La società violenta, in part. pp. 195-226.
20 Citato in L. LANZA, Pandentur portae pomari: il giubileo del 1575 in un manoscritto vallicelliano, in «dell’aprire et serrare la Porta Santa…». Storie e immagini della Roma degli Anni Santi, a cura di B. TELLINI SANTONI e A. MANODORI, Roma, centro Tibaldi, 1997, p. 38. 21 Ivi, p. 43. 22 Mi riferisco in particolare alla ricerca di R. SANSA, Le strade che portano a Roma: il governo della viabilità nello Stato pontificio durante gli Anni Santi (secc. XVI-XVIII), in questo volume. 23 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR) Presidenza delle Strade, b. 32 (giugno 1674). 24 Il 25 giugno 1674 un editto del Presidente e dei Maestri delle Strade bandiva l’appalto per il restauro delle strade fuori Porta Portese e Porta S. Pancrazio «in occasione del futuro anno santo» e, un mese più tardi, con un altro editto si bandiva l’appalto per restaurare l’Appia antica da S. Sebastiano a Nettuno e la strada che, dalla chiesa del Quo Vadis conduceva al «Falcogniano»: ASR, Bandi, b. 32. 25 F. VENTURI, Settecento riformatore. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, p. 11. 26 Citato da IUOZZO, La strada consolare da Roma per Viterbo nel Settecento attraverso le carte della Presidenza delle Strade, in questo volume. 27 Ibidem. A riprova dell’intensa attività intrapresa alla fine del ‘700 in materia di viabilità e delle molteplici difficoltà incontrate nel corso del tempo si veda la documentazione in ARCHIVIO DI STATO DI PERUGIA, Governo Generale dell’Umbria, serie XIII, memoriali, vol. 137 (1774-1784): Lavori di manutenzione delle strade della provincia firmati Antonio Casali, prefetto della Congregazione del Buon Governo e del Camerlengo, Cardinal Carlo Rezzonico. 28 Gli anni santi attraverso le Bolle, a cura di R. FISICHELLA, Casale Monferrato, Piemme, 1999, p. 213.
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Le strade che portano a Roma: il governo della viabilità nello Stato pontificio durante gli Anni Santi (secc. XVI-XVIII) Renato Sansa
L’obiettivo di questo contributo consiste nel tracciare un quadro generale delle misure predisposte dalle autorità pontificie in vista dello svolgimento degli anni santi, a partire dalla fine del secolo XVI fino all’ultimo giubileo del XVIII secolo. In particolare sarà affrontata la questione relativa alla gestione della viabilità interna dello stato, escludendo, dunque, l’area urbana di Roma. Una scelta questa che permette di conferire alla ricerca un certo grado di originalità rispetto agli studi già esistenti, prevalentemente incentrati sull’impatto che gli anni santi ebbero all’interno dell’Urbe1. In quest’ottica si tratterà di valutare la qualità dell’intervento pontificio, cercando di comprendere in quale maniera si operasse sul sistema viario che “drenava” il flusso dei pellegrini verso Roma. D’altronde, come ricordava Fernand Braudel, «città e strade, strade e città non sono che una sola medesima organizzazione umana dello spazio. Qualunque sia la sua forma, la sua architettura, la civiltà che l’illumina, la città mediterranea è creatrice di strade e, insieme, creatura delle strade»2. Uno degli argomenti in discussione riguarda l’esistenza o meno di un rapporto di reciprocità tra le dichiarazioni di intenti, con le quali si annunciava l’apertura dei giubilei, e le concrete attuazioni che ne derivavano3. Il grado di efficacia di queste ultime va dunque collocato in un contesto più ampio, teso ad appurare le capacità di previsione e gestione degli interventi programmati, per verificare, se essi recassero il segno di una consapevole pianificazione op-
pure se si trattasse di semplici espedienti, approntati per risolvere un’urgenza che si prospettava con scadenze regolari. Un simile lavoro permetterà inoltre di stabilire se nel periodo preso in esame l’azione delle autorità si giovasse delle esperienze precedenti, oppure se dipendesse prevalentemente da fattori contingenti, condizionati, cioè, dalla volontà dei pontefici o dagli equilibri interni alla curia. Opere pubbliche e Anni Santi La celebrazione di un anno santo comportava un complesso di interventi, che avevano l’intento di regolamentare nella maniera più idonea possibile l’afflusso dei pellegrini verso la città: un insieme di aspetti pratici che concretizzavano anche preoccupazioni di ordine spirituale. All’indomani del Concilio tridentino l’attenzione per l’apparato simbolico delle manifestazioni religiose assunse connotati forti e definiti. In questo contesto l’opportunità offerta dalla celebrazione degli anni santi permetteva di trasformare la “città santa” non solo in un centro di attrazione per migliaia di fedeli ma anche, e soprattutto, in un centro di irradiazione del messaggio cristiano, nelle forme e nei contenuti voluti dalla Controriforma4. L’arrivo di un numeroso stuolo di visitatori consentiva di riverberare verso l’esterno, un’immagine simbolica del messaggio religioso, rafforzata da un’esperienza particolare e molto intensa. Non a caso proprio il giubileo del 1575 venne ricordato nelle cronache successive per il particolare
impegno in esso profuso. Il numero delle presenze fu in quell’occasione assai rilevante, divenendo il termine di paragone rispetto al quale si sarebbe misurata la riuscita dei giubilei successivi5. Nello svolgimento degli anni santi, accanto agli inevitabili riferimenti al significato culturale e simbolico, conviveva una quantità di aspetti pratici, la cui importanza non poteva in nessun caso essere sottostimata. Queste componenti genericamente riconducibili sotto la definizione di “economia del giubileo”, sono state in parte indagate, anche se una rassegna completa dei loro contenuti si rivela tutt’altro che facile, proprio perché molti di questi aspetti restano celati, in un certo senso, dietro le funzioni e le gestualità del complesso apparato religioso6. I provvedimenti assunti per la manutenzione delle vie di comunicazione dello Stato Ecclesiastico costituiscono parte integrante di questi aspetti più concreti relativi alle manifestazioni giubilari. Il pellegrinaggio rappresentava una prova di fede, l’itinerario che i pellegrini compivano verso il luogo di culto recava con sé anche un contenuto allegorico. Le difficoltà incontrate durante il viaggio si trasformavano, in base ad una lettura compiuta dagli stessi fedeli, in altrettante prove che rafforzavano le loro pie intenzioni7. Rispetto alla meta finale, il percorso seguito per raggiungerla non era dunque privo di importanza. Nell’ottica delle autorità che presiedevano all’organizzazione degli anni santi il significato della strada si connotava di una pluralità di valori, nella
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coscienza che provvedere ad un’adeguata sistemazione delle infrastrutture avrebbe consentito un maggior afflusso di pellegrini e, dunque, una maggiore visibilità dell’evento. Nei documenti dell’Archivio di Stato di Roma non è raro imbattersi nelle tracce relative a queste operazioni. Ricorre qui il tema, tipicamente barocco, dello spazio pubblico come theatrum, ambito privilegiato per la rappresentazione di una serie di valori8. Quanto l’apparato stradale rientrasse in questo “allestimento” approntato per l’anno santo, è una questione di non facile soluzione. In simili casi temi di carattere prettamente tecnico si sovrappongono ad un registro percettivo di ordine simbolico. D’altro canto, non è possibile ignorare come agli ordini per il mantenimento delle migliori condizioni per la viabilità si accostassero le direttive emanate per la sicurezza dei viandanti, concorrendo così a perseguire un disegno complessivo teso ad instaurare un clima di ordine e di sicurezza. Nell’Archivio di Stato di Roma sono presenti numerosi riferimenti relativi alle misure adottate dal governo pontificio in materia di viabilità, tali da consentire la ricostruzione di una linea di sviluppo dalle stesse. Non senza che si incontrino, però, alcune difficoltà che sarà bene chiarire. Giunti in prossimità delle scadenze giubilari, non sempre i documenti in nostro possesso permettono di distinguere i lavori specificamente ordinati per questa ricorrenza da quelli di ordinaria manutenzione. La formula usata all’interno dei singoli ordini per la descrizione dei diversi interventi rimaneva talvolta identica: «essendo più volte resoluto nella congregazione delli Eminentissimi Signori Cardinali che si debbano accomodare con ogni diligentia tutte le strade per quanto dura lo Stato Ecclesiastico» o «per meglior commodità de viandanti, forastieri, et altri che portano la grascia a Roma». Solo la loro ripetizione per un medesimo tracciato in tempi ravvicinati permette a volte di riferire con maggio-
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re sicurezza alcune delle disposizioni all’anno santo. L’insieme dei provvedimenti adottati non segue nel suo complesso un andamento omogeneo. A periodi di maggiore impegno si susseguono altri in cui le testimonianze relative ai lavori stradali espressamente ordinati a tale scopo appaiono più sfuggenti. Dunque, se il problema dell’afflusso dei pellegrini si poneva in tutta la sua importanza, la qualità delle risposte fornite dalle autorità risultava assai mutevole, apparentemente priva di una organica coerenza. Non è tanto l’efficacia dei singoli provvedimenti a suscitare qualche perplessità, quanto la possibilità che essi fornissero l’occasione per una generale riorganizzazione dell’intero settore. Nonostante gli interventi straordinari di volta in volta adottati si ha l’impressione che l’evento giubilare non incidesse in maniera determinante sulle preesistenti modalità gestionali dell’apparato viario. A sostegno di questa ipotesi potrebbe essere addotta la circostanza per la quale impegnativi lavori stradali erano compiuti fuori dal periodo concomitante con gli anni santi. La pianificazione di nuovi percorsi, come anche il ripristino di antiche vie di comunicazione, poteva essere realizzata negli anni immediatamente successivi alla scadenza giubilare. Esempi in questo senso sono frequenti. La progettazione della nuova strada che avrebbe dovuto mettere in diretta comunicazione la città di Fabriano con Nocera è riferibile agli anni intorno al 1733, mentre il rifacimento della via lauretana, che si snodava lungo la costa adriatica dal centro di Loreto fino al confine con il Regno di Napoli, prese il via, per quanto riguarda la sua fase progettuale, nel 1731 e fu concluso nel 17369. Si potrebbe obiettare che tali esempi siano poco calzanti, perché si riferiscono a percorsi posti al di fuori dei maggiori assi di comunicazione. In realtà, al di là del fatto che il centro marchigiano, da cui la via prendeva il nome, era un’importante meta di pellegrinaggi, comunemente inserita negli itinerari che conducevano a Ro-
ma, bisogna considerare che i lavori di riattamento messi in cantiere per l’anno santo riguardavano oltre alle vie principali anche i tracciati secondari. D’altronde sono numerosi gli esempi a favore di simili interventi anche per le vie consolari. Sulla via Flaminia, ad esempio, importanti lavori di «risarcimento» vennero effettuati fuori dalla portata degli anni santi, uno di questi, per il tratto che da Roma giungeva ad Otricoli, venne portato a termine nel 163310. Acqua versus terra Gli interventi sul sistema viario divenivano un’esigenza sempre più vincolante a fronte dello sviluppo dei trasporti, che si andavano diffondendo, pur tra mille difficoltà, a partire dal XVII secolo non solo per le merci ma anche per i viaggiatori11. La qualità di questi interventi rende ragione di uno sforzo titanico, il cui compimento era spesso al di fuori della portata dei mezzi tecnici e finanziari impiegati. I documenti d’archivio offrono una straordinaria ricchezza d’informazioni per conoscere le condizioni della viabilità. Ne emerge un quadro suggestivo, nel quale le forze della natura sembrano dominare sugli sforzi degli uomini per contenerle. Ponti che non reggono al trascorrere del tempo e all’impatto delle correnti fluviali, tratti di strada ripetutamente cancellati dal mare in tempesta, percorsi stradali che si perdono in paludi dove «la qualità dell’arina era capace d’inghiottire uomini, e cavalli». Le misure di ordinaria amministrazione che le autorità centrali attuarono in questo campo sembrano essere connotate da due caratteristiche particolari. La prima attiene ad un fattore di ordine cronologico: il numero dei controlli e la loro sistematicità si accrebbero lungo il corso dei secoli XVII e XVIII. La seconda riguarda la capacità di agire in maniera preventiva rispetto ai fenomeni di degradazione ambientale osservati. A questo riguardo può essere illumi-
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nante riportare alcuni esempi concreti. Sullo scorcio del XVIII secolo si venne presentando a più riprese il problema della sistemazione del percorso lungo la via Flaminia presso Otricoli. I contenuti di questa vicenda, definitivamente risolta nel 1778 per mezzo di un Chirografo di Pio VI, palesano modalità di intervento che giungevano di solito a sanare situazioni di fatto ormai consolidate. Il vecchio tracciato che costeggiava l’alveo del Tevere era stato «abbandonato dai vetturini e viandanti», che trovavano scomodo e pericoloso affrontare un tratto idrograficamente tormentato e ricco di corsi d’acqua minori da attraversare. Per questo motivo si era formato un percorso alternativo, che a poca distanza dal precedente aveva formato «una nuova strada, la quale quantunque riesca più commoda, pure non è senza pericolo per mancanza del ponte sopra detto fiume o torrente, in guisa che vedesi necessaria la costruzione di esso ponte sul tratto di essa nuova strada in vicinanza dell’osteria ivi esistente denominata de Frangellini, come pure esservi necessità di formare l’uno e l’altro tratto di strada nuova conducenti al medesimo ponte, per i quali lavori sia per occorrervi la spesa di scudi mille»12. Questa come altre vicende testimoniano come la capacità di pianificazione del centro amministrativo si dimostrasse in alcuni casi piuttosto limitata, riducendosi ad una presa d’atto dei mutamenti indotti dagli elementi naturali e della successiva spontanea reazione ad essi degli utenti più diretti. A fronte delle oggettive conoscenze scientifiche e dei mezzi tecnici a disposizione si può affermare che la struttura del sistema viario pontificio, come nella quasi totalità delle realtà preindustriali, si adeguasse alla conformazione dell’ambiente circostante, anziché modificarla in maniera definitiva13. Non per questo si può sostenere che l’operatività dei costruttori o dei progettisti si limitasse a subire passivamente le condizioni poste dall’ambiente naturale, piuttosto questa si plasmava sull’insieme delle caratte-
ristiche del territorio, creando percorsi stradali che, pur nel tentativo di superare le difficoltà di collegamento tra i differenti siti, non operavano sostanziali trasformazioni della preesistente conformazione territoriale. Il punto più critico era rappresentato dal difficile rapporto con le acque, in un contesto idrografico tormentato e ingovernabile. Le strade dello Stato pontificio erano frequentemente intervallate da passaggi su fiumi e fossi, per superare i quali erano dotate di infrastrutture di vario tipo. Rudimentali manufatti artigianali o più sofisticate opere di ingegneria rappresentavano la volontà di non adeguarsi passivamente alle premesse ambientali. Le costruzioni più frequenti erano costituiti dai cosiddetti «passi», costruiti per lo più in legno, che permettevano l’attraversamento di piccoli corsi d’acqua. Queste opere avevano un carattere intrinsecamente temporaneo; usurandosi rapidamente, dovevano essere sostituite nel giro di pochi anni. Non migliore sorte toccava alle strutture in muratura di dimensioni più imponenti e destinate a sopravanzare ostacoli più importanti14. È bene, però, ricordare che non esisteva una rigida gerarchia tra opere in muratura e opere in legno. Talvolta piccoli ponticelli erano dotati di una struttura muraria, mentre realizzazioni di opere più complesse si potevano avvalere del materiale ligneo15. Al di là dell’importanza delle opere compiute, ciò che colpisce ad una osservazione a posteriori è la loro continua necessità di manutenzione. Capitava così che fosse lo stesso papa Benedetto XIII ad ordinare mediante un chirografo del 1 luglio 1729 il restauro del «ponte detto delle Casaccie situato nella strada consolare, che da Roma tende ad Otricoli dentro il distretto di Roma, e precisamente nel territorio di Magliano in Sabina», il quale era stato «notabilmente danneggiato dall’acque del fosso, che passando sotto il detto ponte, hanno a poco a poco corrose dall’una all’altra parte le ripe laterali, sopra le quali si
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appoggia, di modo che si rende presentemente pericoloso a passaggieri il transito di detto ponte»16. Allo stesso modo nel giro di pochi anni si ripeterono frequenti interventi a favore del ponte Gregoriano costruito sul fiume Paglia nel territorio di Acquapendente. Dapprima nel corso del biennio 1752-3, a causa di una parziale deviazione dell’alveo che andava ad incidere sulla stabilità del ponte, poi nel 1773, per i notevoli danni che aveva subito in seguito ad alcune inondazioni, questa imponente costruzione a sei arcate ebbe bisogno di importanti lavori di riparazione17. Il corso dei fiumi era influenzato dagli andamenti meteorologici, nel corso della stagione invernale tra il 1750 e il 1751 si assistette ad una piovosità fuori dalla norma. L’aumento delle precipitazioni provocò numerosi straripamenti del Tevere, tra gli altri una escrescenza del fiume presso Ponte Galeria portò via un tratto della strada che da Porta Portese conduceva a Porto. Anche in questo caso si rese necessaria una serie di lavori che ripristinasse oltre la strada anche parte dell’argine eroso, in modo da regolarizzare l’ampiezza dell’alveo del Tevere18. Come suggerisce il proverbio non erano soltanto le acque impetuose a provocare danni. La via Appia subiva da sempre l’influenza negativa delle acque dei fossi che costeggiavano il percorso stradale. Già tra il 1695 e il 1696 si intervenne più volte nel territorio di Sezze e dell’Abbazia di Fossanova per ripristinare gli argini del fiume Sisto e degli altri canali, realizzati per conferire alla zona assai ricca di acque un migliore assetto idrogeologico. Tali interventi effettuati, come si diceva, «per le molte doglianze fatte dalli passaggieri, che da Napoli si portano alla nostra città di Roma», traevano motivo dai continui allagamenti che rendevano la strada difficilmente percorribile19. La situazione si ripetè trent’anni più tardi, quando Benedetto XIII ordinò con un suo Chirografo il riattamento delle strade poste nei territori di Piperno, Sonni-
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no e Terracina, a causa delle loro pessime condizioni, ancora una volta cagionate dal ristagno delle acque sul fondo stradale20. Persino le acque del mare potevano giungere ad interrompere lo sviluppo di un tracciato viario. Questo è quanto venne appurato in occasione dei rilievi che precedettero l’estensione del progetto di «rifacimento» della via lauretana. Il progetto cominciò ad essere elaborato nel corso del 1731, quale rimedio urgente e necessario a fronte delle condizioni disastrose della strada, come veniva mostrato in una mappa molto dettagliata ad esso acclusa. Le immagini eloquenti e suggestive della rappresentazione cartografica erano accompagnate da un riepilogo dello stato dei luoghi attraversati, nel quale si esponevano punto per punto le condizioni del percorso. La mancanza di ponti rendeva il guado dei fiumi pericoloso o scomodo, aggravato dalle malversazioni degli «spiantati barcaroli, che servon male i passaggeri». In più punti il percorso stradale si confondeva con l’arenile, laddove gli estensori della mappa segnavano una zona dai confini incerti, accompagnandola con la dicitura «corrusione»21. Le sorprese non si esaurivano allontanandosi dal mare, nelle zone appena più all’interno si manifestava l’altro incomodo della semina sul percorso stradale, attuata «dove il medesimo padrone possiede da una parte, e l’altra della strada pubblica il terreno contiguo alla medesima; poiché alcuni di costoro tutti gli anni, che non incontra la sementa ne detti terreni propri contigui, lasciano una parte di questi ai passageri, e fan la sementa nella strada pubblica». Conferire nuovamente al tracciato un assetto adeguato non era certo affare di poco conto: il costo preventivato raggiungeva, infatti, i 19.000 scudi (pari a 532 chilogrammi d’argento) 22. Questi erano gli ordini di grandezza contemplati negli interventi più impegnativi, per la lunghezza della strada o per l’importanza dei lavori effettuati. Nell’aprile del 1778 un chirografo di Pio VI autorizzava
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una spesa di 26.000 scudi (pari a 637 chilogrammi d’argento) per il rifacimento delle strade del distretto di Roma, danneggiate dalle frequenti piogge delle precedenti stagioni23. Ancora più significativi risultavano i dati riportati per la ricostruzione del tracciato della via Latina tra Roma e il confine con il regno di Napoli, compiuto tra il 1615 e il 1620, che richiese un impegno di spesa superiore ai 40.000 scudi (pari a 1.176 chilogrammi d’argento)24. Gli organismi di governo e gli Anni Santi Il segno negativo della impari lotta con i difficili equilibri ambientali non obliterava comunque l’attenzione rivolta dal governo pontificio nei confronti del territorio: già a partire dal XVI secolo si assiste all’istituzione di uffici che si occupavano di tali questioni. Un interesse che andò rafforzandosi nel corso del Seicento come testimonia l’attività sempre più intensa svolta in questo settore anche dalla Congregazione del Buon governo. Tra gli altri organi di governo la Presidenza delle strade era spesso chiamata ad esercitare una funzione specifica nella cura della viabilità extraurbana. Se si considera il tenore dei Chirografi pontifici ad essa indirizzati, si nota come tali provvedimenti dalla fine del XVII secolo sollecitassero tale istituzione ad una maggiore sorveglianza nei confronti della gestione dello spazio extraurbano, laddove in precedenza la quasi totalità delle disposizioni aveva riguardato la città di Roma. Nel novero di questi ordini che provenivano direttamente dal pontefice, si riscontra una sola occasione in cui si fa riferimento all’anno santo. Nel settembre del 1724 Benedetto XIII in occasione del rinnovo della prerogativa concessa al Presidente delle Strade «di obbligare per un triennio i possessori dei beni adiacenti alle strade consolari all’escavazione, spurgo, o ripulitura delle dette strade»,
incluse in questa disposizione in maniera incidentale un riferimento alla celebrazione giubilare25. Ancora una volta sembrerebbe confermata l’impressione di trovarsi in un cul de sac, dove attenzione al territorio e ricorrenza degli anni santi sembrano viaggiare su due binari distinti. Per acquisire una maggiore quantità di notizie, che permetta di far emergere il quadro delle competenze, è necessario operare un’analisi incrociata delle fonti. I primi espliciti riscontri documentari risalgono al giubileo del 1600, anche se alcuni studiosi hanno riferito l’esistenza di un’intensa opera di adeguamento delle condizioni della struttura viaria già per l’anno santo del 157526. Accanto alla Presidenza delle strade un’altra istituzione era chiamata a svolgere un ruolo importante in questo settore: la Congregatio super viis, pontibus et fontibus. Formalmente inclusa nella bolla pontificia del 1588, la Immensa aeterni Dei, che aveva istituito quindici congregazioni cardinalizie per altrettanti settori della vita pubblica, era in effetti già operativa a partire dal 1567, come risulta dal contenuto del primo dei due registri che raccolgono i verbali delle sedute. La natura di questo organismo pare essere alquanto controversa, e il suo stesso funzionamento manifesta una certa incostanza. A periodi durante i quali la congregazione si riuniva con una certa assiduità, affrontando problemi molto circostanziati, ne seguivano altri nei quali le adunanze si diradavano e l’attenzione posta all’esame delle questioni appare più superficiale o quantomeno segnata dalla ripetizione di una stanca routine27. Eppure proprio questo organismo venne utilizzato quale strumento preferenziale per approntare misure efficaci nei confronti della viabilità extraurbana in previsione degli anni santi. Dai verbali delle sedute emergono una serie di importanti informazioni, che consentono di chiarire come, in realtà, le autorità
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pontificie non si dimenticassero di far fronte con provvedimenti di diversa natura alla più importante fra le scadenze devozionali del cattolicesimo. All’avvicinarsi degli anni santi le riunioni della congregazione acquisivano una frequenza maggiore, elemento che già di per sé potrebbe testimoniare un aumento del livello di vigilanza. Durante questi incontri venivano assunte alcune misure relative alla gestione della viabilità urbana ed extraurbana. L’impegno della congregazione nell’affrontare tali incarichi, l’organicità e l’efficacia dei suoi interventi variavano nel tempo. La prime prove sembrano essere ancora informate ad uno spirito per certi versi approssimativo, limitandosi ad usufruire di strumenti già esistenti, per dare in seguito vita ad una organizzazione più complessa ed articolata. Nel corso del biennio 15991600 vennero commissionate ai Maestri delle strade frequenti cavalcate per verificare lo stato delle vie consolari ed ordinare eventuali restauri. Nel marzo del 1599 si stabiliva che «uno di loro cavalchi sino al Borghetto per vedere i luoghi, dove si devono accomodare con far nota della spesa che vi andarà a destinarsi nelli territorii, quali deveranno accomodare, che l’altro Signore Mastro di strada cavalchi da Roma sino a Viterbo per vedere come di sopra»28. Simili ordini vennero ripetuti nel maggio di quell’anno, affinché «li Signori Mastri de strada cavalchino da Roma sino a Sermoneta per fare accomodare detta strada» e infine nel mese di settembre per il tragitto «sino a Terracina et al confino di Regno»29. In seguito alle loro visite gli incaricati fornivano alla congregazione un «ragguaglio» della loro ispezione, come fece un mese dopo la direttiva ricevuta il «signore Ottavio Clementino maestro di strada» di ritorno dalla cavalcata verso Viterbo, che riferì su «come forno trovate le strade et del ordine che si dette a dette comunità che le accomodassero et del modo et per tutto il mese di aprile dove l’Illustrissimi Signori Cardi-
nali ordinarono che se riservasse acciò eseguisse a quanto se gl’era ordinato». Altre verifiche vennero disposte all’inizio del mese di settembre, quando si decise di prendere un ulteriore «ragguaglio se la strada de Viterbo si è accomodata secondo l’ordine dato alli offiziali di detto loco», e nel mese di dicembre, comandando ad Ottavio Clementino di recarsi a Viterbo per verificare lo stato di avanzamento dei lavori, con l’ingiunzione di non partire di «lì finché non siano accommodate»30. Tali indizi, nei quali non si fa un esplicito riferimento all’anno santo, trovano poi una esplicita conferma, nell’ordine conferito il 6 novembre 1599, nel quale le cavalcate da compiersi da «Viterbo sino a Narni, et dall’altra banda sino a Terracina sino alli confini del Regno» vengono chiaramente riferite all’imminente appuntamento giubilare31. Dunque, per quanto riguarda la scadenza del 1600, la responsabilità dell’organizzazione sembra essere ripartita tra il consesso cardinalizio e la Presidenza delle strade, con deliberazioni prese collegialmente, la cui esecuzione veniva poi demandata agli ufficiali della Presidenza. Il compimento dei lavori veniva affidato alle comunità, sulle quali si esercitavano ripetuti controlli. La vigilanza sull’avanzamento dei lavori continuò anche nel corso del 1600, segno che a quella scadenza non tutti i lavori erano ultimati. Gli interventi di ripristino della viabilità sembrano limitarsi alle principali strade di collegamento lungo la direttrice nord-sud: la Cassia, parte della Flaminia, e le due varianti dell’Appia. Le indicazioni relative ai tracciati stradali non risultano particolarmente dettagliate, il che induce a ritenere che per l’esecuzione degli ordini si facesse riferimento all’esperienza degli ufficiali incaricati e alla loro abilità nel riconoscere gli andamenti dei percorsi sui quali dovevano intervenire. La prassi organizzativa conobbe una significativa evoluzione in previsione del successivo anno santo.
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Ancora una volta la responsabilità dei lavori spettava alla congregazione cardinalizia, al cui interno, però, emerse una più chiara e programmatica divisione delle competenze in riferimento alle strade sulle quali si doveva operare. In una riunione del febbraio del 1623 si decise una ripartizione tra i cardinali presenti, ad ognuno dei quali sarebbe spettata la sovrintendenza di una strada. Le indicazioni relative al percorso risultavano piuttosto concise, comunque più circostanziate rispetto al passato. Le competenze erano attribuite dividendo le strade secondo le porte dalle quali esse si irradiavano. Così, ad esempio, al cardinale Francesco Sforza spettavano i percorsi «fuora di Porta del Popolo per la strada Flaminia fino a Foligno inclusivamente et le strade verso Perugia et Fano fino li confini d’Urbino (…) comprese ancora le strade verso Viterbo, et Orvieto et altre strade traversali»32. È importante notare come nella ripartizione dei compiti non venisse accennato alcun riferimento alla prossima celebrazione dell’anno santo. Si trattava probabilmente di una procedura invalsa nell’uso, per conferire ai cardinali presenti nel consesso una sorta di patronato rispetto ai singoli percorsi stradali, che assumeva un significato più stringente all’approssimarsi delle celebrazioni giubilari. Non a caso l’anno successivo, nel verbale della seduta del primo ottobre 1624, in occasione della ridistribuzione delle vie a causa dell’assenza dei cardinali Pier Paolo Crescenzi e Luigi Capponi e della morte del cardinale Francesco Sforza, si faceva esplicito riferimento a tale scadenza. Per l’anno santo del 1625 è possibile reperire la nota dei mandati di pagamento relativi ai lavori eseguiti sotto la supervisione dei cardinali. Sono cifre frammentarie, con un valore puramente indicativo, che suggeriscono ordini di grandezza, piuttosto che fornire un quadro dettagliato e preciso delle spese. A volte la stessa intestazione dei singoli man-
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dati non permette di riferire in maniera sicura la cifra contemplata ai lavori espressamente effettuati per l’anno santo. I pagamenti qui riportati rappresentavano una prima parte di una articolata operazione: le ingiunzioni di pagamento venivano inoltrate dai rispettivi cardinali ai signori Sacchetti, titolari dell’omonimo banco, in qualità di depositari delle tasse istituite per finanziare i lavori. Questi a loro volta assicuravano i pagamenti ai realizzatori delle diverse opere, in attesa di ricevere in un secondo tempo le cifre anticipate, che sarebbero state raccolte dopo la compilazione delle apposite tabelle per ripartire la spesa tra i «casali, i castelli» o le «vigne» posti lungo le vie. Tra le giustificazioni dei mandati si trovano diciture come quella che attestava il pagamento a favore dell’architetto e sottomaestro delle strade Giacomo Mola «per haver fatto l’infrascritte tasse, et per altre sue fatighe, per esser stato più volte fuora a rivedere li lavori fatti e da farsi»33. La collaborazione del personale della Presidenza delle strade, si rivelava anche questa volta fondamentale per la riuscita dell’operazione. I cosiddetti architetti o sottomaestri delle strade, che rappresentavano il personale tecnico della Presidenza, erano chiamati a svolgere un’azione capillare. Ognuno di essi veniva deputato all’accomodamento di una o più strade, divenendo di fatto il responsabile della sorveglianza di quei lavori che attraverso gli «scandagli» precedentemente compilati avevano indicato come indispensabili. Le loro «fatighe» consistevano in una visita preventiva delle strade, per prendere nota «di tutte le rotture, et accomodamenti», in seguito alla quale compilavano le piante dei percorsi da inviare alle comunità per meglio definire i lavori da compiere, oltre alla stima del costo dei lavori. Successivamente tornavano a recarsi lungo le strade per controllare l’andamento delle operazioni dovendone poi rispondere al
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cardinale incaricato. Si chiudeva così il circolo degli ordini e delle esecuzioni approntati per questo evento: rispetto al passato la struttura dell’organizzazione assumeva dei contorni di maggiore organicità, non essendo più dipendente quanto alsuo funzionamento dalle risoluzioni collegiali. Una volta impostato, il meccanismo procedeva autonomamente. La maggiore agilità del sistema, grazie alla divisione dei compiti tra i singoli cardinali, aveva permesso di estendere l’attenzione ad un più ampio numero di strade. L’ammontare delle cifre corrisposte per i lavori eseguiti rendono ragione di interventi che non possono essere qualificati come strutturali, quanto piuttosto come aggiustamenti resisi necessari in seguito ad un uso continuo o all’imperversare degli elementi. Il tracciato che sembra aver assorbito una maggior quantità di investimenti era la strada posta «fuori di Porta S. Sebastiano fino a Cisterna», soprattutto in ragione degli interventi eseguiti per riattare «li ponti in Campomorto». Il totale della cifra stanziata ammontava, per quanto si è potuto appurare, a 2.200 scudi (pari a 64,680 chilogrammi d’argento). Altri tragitti, dal percorso più breve, avevano richiesto una spesa decisamente più contenuta, 300 scudi per la Portuense (pari a 8,820 chilogrammi d’argento), 255 scudi per la strada fuori porta S. Pancrazio (pari a 7,500 chilogrammi d’argento). I pagamenti per la strada fuori Porta S. Sebastiano verso Marino, Albano, Castel Gandolfo e Genzano ammontavano a 830 scudi (pari a 24,400 chilogrammi d’argento); a circa 1000 scudi, invece, ascendeva la spesa per la Nomentana (pari a 29,400 chilogrammi d’argento). Si tratta, giova a ripeterlo, di cifre approssimative, che possiedono un valore indicativo sull’entità dei lavori e che manifestano lacune importanti, relative, ad esempio, all’assenza di conti per percorsi come la Flaminia. Le procedure organizzative con-
solidatesi per il giubileo del 1625 sembrano essere rimaste in vigore anche in seguito, senza però dare vita ad una normativa omogenea. Per il 1650 si notano alcune differenze che pur non essendo sostanziali appaiono comunque di una certa rilevanza. Nel corso del 1645 ebbe luogo la consueta divisione delle strade tra i cardinali presenti nella congregazione, senza che ad essa fosse riferito alcun accenno all’anno santo, ancora piuttosto lontano in termini temporali34. In realtà per tutto il periodo a ridosso di questa ricorrenza non furono frequenti, né eclatanti i riferimenti a specifiche misure relative alla viabilità extraurbana. In una laconica nota del luglio di tre anni dopo la congregazione deliberava che «per rispetto del futuro anno santo si dia ordine per il raccomodamento delle strade di tutto lo Stato Ecclesiastico», cui fece seguito poco più di un anno dopo un’altra disposizione indirizzata al cardinale Giulio Sacchetti, affinché verificasse con il Presidente delle strade se «li governatori, alli quali fu scritto, che dovessero raccomodar le strade della loro territorii habbiano esseguito l’ordine dato»35. A queste seguirono poche altre indicazioni indirette, relative ad alcuni lavori che si andavano eseguendo lungo i vari tracciati o l’istanza di un architetto sottomastro per ricevere una giusta mercede per le «fatighe di scandagli, piante et altro per le strade Flaminia fuora di porta del Popolo, et fuori di porta di Porta Pia per Rieti»36. Gli scarsi indizi così riscontrati si collegano ad un’altra circostanza inusuale rispetto al passato. Nella maggior parte dei decreti relativi ai lavori di mantenimento dell’apparato stradale era apposta la firma del cardinale Federico Sforza, che ricopriva allora la carica di pro-camerlengo, mentre erano assenti i riferimenti relativi all’azione svolta dai cardinali affidatari dei singoli tracciati37. Apparentemente più funzionale l’organizzazione approntata per l’anno santo del 1675. La divisione
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dei compiti venne attuata ancora una volta all’interno della Congregazione dei cardinali, nel febbraio del 1674. Il riferimento all’anno santo tornò ad essere in questo frangente esplicito, così come negli ordini che si rintracciano nei volumi della Presidenza delle strade, nei quali veniva palesato il nome del cardinale preposto alla cura del tratto di strada menzionato. Rispetto al passato si nota un incremento dei prelati coinvolti, addirittura tredici. Circostanza che può essere dipesa sia dalla volontà di distribuire in maniera più uniforme i compiti di sorveglianza, sia dalla necessità di accontentare un maggior numero di clientele curiali. Un elemento di novità era costituito dall’ordine emanato nel corso della riunione del 20 giugno 1674, che contemplava l’affissione degli editti per «l’accomodamento e mantenimento delle stra-
de e ponti fuori di dette porte»38. Questa misura venne effettivamente eseguita, tra il giugno e l’ottobre successivo furono emanati dalla Presidenza delle strade numerosi bandi, che avvisavano chi avesse voluto «attendere» ai lavori di riparazione delle strade, a presentare entro quindici giorni dalla pubblicazione dell’editto la propria «poliza d’offerta sigillata» presso il notaio della Presidenza39. Si riporta di seguito uno specchio di riferimento per conoscere i nominativi dei cardinali incaricati della sovrintendenza sulle rispettive vie, divise per porte di appartenenza (cfr. Tab. 1). Il sistema degli incarichi cardinalizi conobbe la sua più completa espressione per l’anno santo del 1700, nonostante a quell’epoca la Congregazione super viis, pontibus et fontibus, non fosse più operante. Vale la pena di addentrarsi un poco
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nella questione per comprendere la natura e il funzionamento di questa struttura così intimamente legata allo svolgimento dei giubilei, al punto che nella stessa bolla di indizione del 1588 il pontefice, conferendo ai sei cardinali la competenza sulle strade, faceva un breve ma chiaro riferimento alla cura dei pellegrini che sarebbero giunti nella città durante il successivo anno santo40. Secondo il registro della congregazione l’ultima riunione di quest’organo venne tenuta alla data del primo dicembre 1675, dopo la quale non si riscontra più alcuna traccia della sua attività. Nel 1742, in seguito ad un curioso equivoco generatosi in seno alla Camera Apostolica, l’allora Presidente delle strade, monsignor Lorenzo Casoni, scrisse a monsignor Reali, primo ministro delle cerimonie pontificie, un appunto per rispondere ad un «biglietto» da questi inviatogli,
Tab. 1. Divisione delle sovrintendenze sui tracciati per l’anno santo 1675
Cardinale preposto
Porta di riferimento
Denominazione del tracciato
Barberini Francesco
Porta Pinciana e Salara
Verso la Sabina
Carpegna Gaspare
Porta S. Sebastiano
Verso Albano e Nettuno
Gabrielli Giulio
Porta S. Giovanni
Che fa il procaccio di Napoli
Orsini Virginio
Porta Pertusa
Per Civitavecchia, Corneto
Odescalchi Benedetto
Porta Maggiore
Per Ceprano
Sforza Federico Chigi Flavio
Le strade di Foligno, Loreto, Bologna, Ravenna Porta S. Lorenzo
Altieri Paluzzo
Per Tivoli fino alli confini del regno Flaminia fino a Foligno e confini dello stato d’Urbino
Spinola Giulio
Porta Pia
Per Rieti e confini dello stato
Rospigliosi Giacomo
Porta Angelica
Per Viterbo e la Toscana
De Hossia (Fridericus Landgravius de Hassia)
Porta Portese e S. Pancrazio
Verso Porto e Magliana
Savelli Paolo
Porta S. Paolo
Di qua del fiume e la strada delle paludi pontine e quelle di Hostia per la marina fino a dette paludi
Fonte: ASR, Congregatio super viis, pontibus et fontibus, Reg 2, 22 febbraio 1674, f 301r-303r. Nei mesi seguenti sembra che venissero apportate alcune modifiche a questa struttura originaria; per esempio, Giulio Spinola risulta che esercitasse il proprio ufficio sulla Cassia in principio destinata al cardinale Rospigliosi (Presidenza delle Strade, B. 32, f. 34 r-v).
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nel quale si richiedeva «la nota di tutti i soggetti che compongono la Congregazione delle strade». Di fronte a questa richiesta il Casoni manifestò la massima sorpresa, al punto da definire quella congregazione «cosa affatto incognita ed ideale». Nonostante l’iniziale smarrimento il Presidente delle strade non si perse d’animo e si mise alla ricerca di notizie sull’argomento. «Per le molte diligenze però fatte in questi due giorni», egli giunse a stabilire che «tale congregazione composta di alcuni eminentissimi, più prelati e anco qualche secolare, esisteva ne’ tempi antichi, cioè, in quello di Gregorio XIII e anco di poi, e dai libri de’ registri delle risoluzioni prese da detta congregazione appariscono i nomi de’ soggetti della medesima i quali coincidono con i soggetti che son descritti ne’ passati elenchi come intervenienti per ragioni del loro officio». Si spiegava così la presenza dei nominativi nell’elenco stilato nel 1644 sotto Urbano VIII, poi meccanicamente ripetuta nelle liste delle cariche curiali successivamente compilate fino ai tempi recentissimi. Un’apparenza priva di contenuto, perpetuata probabilmente con fini celebrativi, per conferire un’ulteriore carica ai prelati in essa inclusi. Nella lista più recente a cui si faceva riferimento si trovavano i nomi dei cardinali Nicola Maria Lercari, Carlo Maria Sagripanti, Silvio Valenti Gonzaga e Neri Maria Corsini, quest’ultimo quale cardinal nepote. In realtà, come scriveva monsignor Casoni, «col tratto di tempo mancano le notizie di tale congregazione e sol si hanno quelle di una altra straordinaria congregazione solita in occasione degli anni santi deputarsi di Eminentissimi Cardinali, e tenersi in detto tempo e non altre volte, questa eziandio negli ultimi anni santi non si è deputata né adunata». In un’altra nota informativa, compilata nella medesima occasione, si riportava la notizia che «ne’ tempi remoti si andasse talvolta adunando una congregazione di Cardinali, e
RENATO SANSA
inoltre più a noi d’appresso, che circa il 1675, cioè poco prima ed in occasione del concorso del Giubbileo (…) peraltro vi è apparenza di poter credere, che fosse particolarmente deputata dal papa»41. L’urgenza di fornire un riscontro immediato a quanto si veniva domandando aveva indotto gli estensori delle note in qualche errore. Ma la sostanza del discorso rimaneva valida. La congregazione delle strade aveva cessato di funzionare all’indomani dell’anno santo del 1675, ma venne richiamata in vigore durante i preparativi per il giubileo del 1700. Il 2 aprile 1699 si tenne la Congregazione generale delle strade, in più occasioni definita proprio con il vecchio appellativo super viis, pontibus, et fontibus, nel corso della quale «furono deputati li signori cardinali a’ sopraintendere all’accomodamento delle strade per il prossimo anno santo»42. Le strategie allora assunte dai diversi componenti si differenziarono tra loro per una maggiore e minore attenzione posta nell’espletamento dei propri compiti. L’iniziativa di Galeazzo Marescotti per la via Appia appare informata ad un principio di massima efficienza43, mentre la sovrintendenza del cardinale Pietro Ottoboni diede solo in parte i frutti sperati. Le modalità tramite le quali egli giunse alla ripartizione delle tasse relative ai lavori svolti sulle strade fuori delle Porte Pinciana e Salara verso la Sabina vennero contestate da alcune comunità. La querelle non riuscì a comporsi pacificamente e diede vita ad un incarto processuale denominato «sabinensis taxarum», sul quale venne chiamato a giudicare proprio il cardinale Marescotti. Le somme impiegate, come risulta da alcuni incarti riepilogativi, furono superiori rispetto a quelle osservate in precedenza: il cardinale Ottoboni spese per i lavori contestati 1.654 scudi (pari a 46,312 chilogrammi d’argento) e per il rifacimento del ponte di Corese 3.090 scudi, a cui andavano aggiunti altri
247 scudi per la strada corrispondente (per un totale pari a 93,436 chilogrammi d’argento). Per la strada da Porta Pia a Rieti il cardinale Carlo Bichi impegnò la cifra di 1.283 scudi (pari a 35,924 chilogrammi d’argento), mentre il cardinale Gaspare Carpegna fece fronte ai suoi compiti, relativi alla via Tiburtina, stanziando un totale di 4.633 scudi (pari a 129,724 chilogrammi d’argento) 44. Nel complesso l’organizzazione dei lavori mobilitò una quantità di energie umane e materiali senza precedenti. Il tentativo di fornire una risposta adeguata ai bisogni materiali del pellegrinaggio non sembra essere estraneo ai principi di riforma che circolarono durante il pontificato di Innocenzo XII, diretto ispiratore dell’iniziativa straordinaria che richiamò temporaneamente in vigore l’istituzione dei «tempi antichi»45. Le istituzioni alla prova: gli interventi sulle strade e i meccanismi di attuazione dei provvedimenti Accanto alla diuturna necessità di eseguire le consuete operazioni per ripristinare adeguate condizioni di viabilità, i provvedimenti approntati per gli anni santi si connotavano come una misura straordinaria, finalizzata a sanare quelle situazioni rimaste irrisolte nel corso degli anni precedenti. Seguendo il dipanarsi di questi lavori si è potuto notare come il sistema delle competenze si andasse evolvendo, insieme alle modalità stesse degli interventi, rendendo ragione di una crescente attenzione nei confronti del territorio. La complessità del rapporto tra struttura viaria e percorrenza devozionale venne dapprima organizzata in una forma rigida, che individuava gerarchicamente le direttrici privilegiate verso le quali indirizzare i propri interventi. In seguito il ventaglio delle iniziative si allargò, arrivando a comprendere non solo le
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strade consolari, che a raggiera si irradiavano da Roma, ma anche il reticolo delle strade laterali, che da esse si dipartivano. Dal 1625 gli ordini promulgati in prossimità degli anni santi includevano oltre alla indicazione relativa alle singole vie consolari, anche la dicitura «strade traversali» o «strade collaterali». Si sarebbe predisposta in questa maniera un’azione capillare, attivando una rete in grado di drenare in maniera ottimale il flusso dei pellegrini. Nei documenti gli interventi nei confronti dei percorsi minori sono attestati in maniera meno evidente rispetto ai lavori sulle vie principali, ma attraverso il mutamento delle direttive impartite si riesce a percepire il passaggio tra due diversi approcci alla questione. Le motivazioni che potevano aver favorito questa evoluzione poggiavano su una duplice consapevolezza. Da un lato si intendeva rispondere ad un’esigenza pratica, nel tentativo di garantire una migliore offerta di servizi ai pellegrini, dall’altro si prendeva atto che i viaggiatori non adeguavano passivamente i propri itinerari alle direttrici principali proposte dai responsabili istituzionali ma le rielaboravano secondo una propria lettura, mettendo infine capo ad una serie di percorsi misti. Ad esempio, nel corso del 1599 gli interventi si erano indirizzati quasi esclusivamente, sull’asse nord-sud, lungo le strade consolari della Cassia e dell’Appia. In realtà verso nord il tracciato che passava per Viterbo, era affiancato da una intensa percorrenza sulla via Flaminia, al punto che i due percorsi finivano con l’intrecciarsi tra loro. Non sappiamo precisamente per quale motivo si optasse per una scelta di questo tipo, ma si possono avanzare alcune ipotesi dotate di un certo fondamento. Proprio dal resoconto di una delle sedute della congregazione super viis, tenutasi nel corso del 1599, si viene a conoscenza del fatto che il tratto della Flaminia nei pressi di Civita Castellana necessitava di essere ri-
pristinato rispetto ad un altro percorso che aveva “cancellato” la strada consolare. La congregazione ordinava alla comunità di Civita Castellana di riattare il vecchio tracciato della via Flaminia, «stante che da loro si fa istantia che per benefitio pubblico sarebbe bene di levare la strada della Treia per essere periculosa et trista et in cambio accomodare la via Flaminia che passa per detta città il quale accomodamento loro si contentano farlo alloro spese, fu decretato che stante l’offerta suddetta si conceda che possino serrare la strada suddetta della Treia ma prima accomodano la strada Flaminia a loro spese»46. Gli itinerari che i pellegrini decidevano di percorrere venivano scelti in base a criteri eterogenei, spesso formatisi sulla scorta delle informazioni raccolte lungo il cammino47. Questi tragitti, soggetti a continui mutamenti, tenevano conto solo in parte dell’andamento delle vie consolari, i percorsi delle quali potevano essere invece integrati tra loro, come nel caso della Cassia e della Flaminia nel tratto di avvicinamento a Roma. Almeno fino all’inizio del ‘600 sembrerebbe che il tratto inferiore della Flaminia venisse evitato a favore della strada consolare parallela, probabilmente per condizioni di percorribilità non ottimali. Una volta giunti a Civita Castellana i viandanti si dirigevano attraverso una via interna sulla Cassia, per arrivare così alla capitale. Il costo degli interventi ordinati dalla Congregazione veniva ripartito tra le singole comunità poste in prossimità dei percorsi, in misura del maggiore o minore beneficio che esse traevano dalle riparazioni effettuate, utilizzando quale parametro per la suddivisione delle spese le quote adottate per il pagamento del sussidio triennale. In questa maniera gli oneri che ricadevano sulle casse della Camera Apostolica avrebbero dovuto essere contenuti, ma in realtà così non era. Una lunga esperienza insegna che le autorità centrali dovevano penare a lungo prima di
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venire in possesso delle cifre precedentemente erogate per far fronte ai lavori. Le comunità erano spesso restie ad eseguire interventi da altri ritenuti necessari, ma che loro non avevano pianificato. Non erano rare le situazioni in cui queste chiedevano di essere esentate dal compimento di determinati lavori, come nel caso del comune di Magliano in Sabina che inviò una supplica per non dover contribuire alla costruzione del ponte sul «fosso di Carbone», a cui la congregazione cardinalizia risposte in maniera decisa, ordinando di cominciare a «fare il ponte a settembre et per tutto detto mese sia finito accomodare ogni cosa»48. Altre volte erano i nobili che avevano giurisdizione sul territorio a chiedere di non essere gravati dal cumulo di tasse, portando a supporto delle proprie richieste precedenti casi di esenzione già ottenute. All’istanza così avanzata da Alessandro Piccinino nel maggio del 1649 per il duca di Bracciano, affinché questi fosse escluso da una tassazione per la strada di Civitavecchia, la Presidenza delle strade rispondeva ribaltando i termini della questione e disponeva che il duca fosse tenuto al versamento49. Il continuo tentativo di prorogare i termini dei pagamenti costringeva le autorità a provvedere con adeguati rimedi. Il più delle volte si nominava un commissario incaricato di riscuotere le somme che dovevano essere versate. Per far fronte al proprio incarico questi era dotato di speciali facoltà, potendo usare nei confronti delle comunità inadempienti «la mano regia, e stile camerale (…) secondo quanto dispone la Costituzione Alessandrina»50. I termini entro i quali, a fronte della mancata riscossione della tassa, scattava il meccanismo del prelievo forzato, erano piuttosto ristretti, come suggerisce l’indicazione secondo la quale «essendo stata fatta l’intimatione alli agenti delle communità, che fra otto giorni debbano haver fatto rimettere li danari che sono state tassate dette communità fuori di
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Porta Pia prorogorno detto termine à quindici giorni quali passati [a] quelle communità che non haveranno adempito si spedisca il comissario a riscotere»51. In realtà le autorità non potevano fare completo affidamento nemmeno nei confronti degli esattori che loro stesse avevano nominato. In più di un caso dovettero esercitare pressioni nei loro confronti per costringerli a svolgere i loro compiti con regolarità, imponendo via via regole sempre più rigide52. I ritardi così accumulati, assumevano dimensioni rilevanti: ad esempio, per l’anno santo del 1650 non si era giunti a risolvere ancora a tutto il 1652 le questioni legate al pagamento delle tasse stabilite per i lavori giubilari53. Le resistenze opposte dai comuni introducono il problema dei costi di queste opere, che si aggiungevano ad altri gravami che già pesavano sulle casse delle comunità. Gli «agenti delle comunità», ovvero i rappresentanti da queste nominati, erano ammessi, almeno fino al 1650, ad «essere presenti» alle ripartizioni delle tasse, stabilendo così una forma di controllo, seppure molto blanda, sulle decisioni prese dagli organi del potere centrale54. Ma tale presenza non poteva essere sufficiente a risolvere problemi ben più radicati e strutturali, che si riflettevano anche in questo particolare campo d’azione. Per due volte nel 1624 e nel 1674 i cardinali incaricati di presiedere ai lavori per l’anno santo chiesero al Pontefice specifici ordini che permettessero loro di scavalcare gli ostacoli costituiti dai vari privilegi ed esenzioni presenti all’interno dello stato. Così recitava la loro richiesta formulata nel corso della riunione del 7 dicembre 1623: «similiter dignetur facere verbum cum Sanctissimo super reaptatione viarum totius status ecclesiastici, que cum sint omnes dirute et devastatae et indigeant magna impensa pro illarum reaptatione se complaceat pro hac vice tantum respectum proximi anni Sancti commettere et mandare
RENATO SANSA
quod non solum apponantur in taxis et cogantur civitates, terre, castra, et illorum comunitates officiales et massari ad contribuendum necnon etiam monasteria ecclesia collegiate cathedralis et illorum Presbiteri et fratres regulares et seculares ac milites et alia quaecumque persona privilegiata et quaecumque auctoritate fulgens»55. Le motivazioni su cui poggiava una richiesta di questo tipo erano meglio circostanziate in una successiva rappresentazione al Pontefice, in cui si spiegava che la temporanea abolizione di tutti i privilegi per far fronte ai pagamenti degli interventi straordinari era una misura indispensabile, in quanto avrebbe rappresentato un «grand’alleggerimento delle spese che si faranno le quali quando havessero à farsi da laici solamente e fuori delle militie ecclesiastici e privilegiati sarebbano insopportabili, perché le patiscono spesso»56. Tale auspicio divenne una norma in previsione del giubileo del 1699, come ci informa la lettera circolare inviata ai vescovi dalla Sagra Congregazione dell’Immunità, con la quale si obbligava al pagamento delle tasse per la riparazione delle strade anche gli ecclesiastici «eccettuate le monache», in ragione di un terzo di quanto avrebbero pagato i laici57. Per superare l’intricato sovrapporsi di deroghe e privilegi, dopo aver stipulato i contratti con gli appaltatori che si occupavano del rifacimento delle strade, si concedeva loro un’ampia serie di prerogative al fine di evitare qualsiasi intralcio allo svolgimento dei lavori. Prendendo ad esempio una di queste direttive emanate dai Cardinali competenti in materia, si possono ricostruire le modalità attraverso le quali tali prerogative venivano conferite. Nell’ottobre del 1699 il cardinale Lorenzo Altieri affidava agli atti del notaio del tribunale delle strade una dichiarazione a favore di Ascentio Sperandio, in qualità di fabbricatore per la «strada maestra con le sue laterali fuori di Porta Flaminia», in partico-
lare per il tratto che attraversava il territorio di Todi. L’Altieri si premurava nella compilazione del mandato di premettere un circostanziato preambolo, nel quale ricordava di stare agendo in esecuzione degli ordini ricevuti dalla «Congregazione generale sopra le strade dello Stato Ecclesiastico in conformità della Santa Mente di Nostro Signore (…) per benefitio di tutti li fedeli christiani, che sono per portarsi in Roma in occasione del prossimo anno santo». Seguiva poi una particolare descrizione degli adempimenti compiuti per rilevare la qualità e quantità dei lavori necessari, previo l’invio di un architetto deputato per «fare scandaglio delli luoghi, passi, ponti, che sono necessarii, d’accomodarsi» e il conseguente invio «à tutte le città, territori, e castelli, esistenti fuori detta Porta dell’ordine di far raccomodar tutte le strade delli loro territorii». L’organizzazione degli interventi era in questo caso suddivisa per singoli territori, infatti il cardinale Altieri riportava di aver fatto affiggere nella città di Todi gli editti per rendere noto a «tutti, e singoli capomastri, muratori, fabricatori, et altri che avessero voluto attendere à fare li lavori delle strade del territorio di detta città dovessero dare le loro polize, et offerte nelle mani del notaro di detta città». Le offerte ricevute furono aperte nel corso di un pubblico consiglio tenuto a Todi il 30 agosto di quell’anno, e tra di esse venne scelta «essendo stata trovata esser di migliore conditione l’offerta data da Ascentio Sperandio». A questo punto per consentire all’appaltatore di eseguire i lavori previsti «con ogni sollecitudine», gli si conferivano delle particolari prerogative che consistevano nella «facoltà, et autorità di poter pigliar in qualsivoglia luogo più commodo, e vicino all’opera calce, pozzolana, pietra, sassi, breccia, legniame, e fascine, et altra materia di qualsivoglia sorte atta, et idonea per fare detti lavori pagando però alli padroni dove si pigliaranno detti legnami, fasci-
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ne, et altre materie, atte, et idonee di qualsivoglia sorte sopra nominate il vero e giusto prezzo che detto capomastro giudicarà, che sia roba, che meriti pagamento». In caso di mancato accordo tra le parti si sarebbe proceduto all’elezione di due periti, uno per parte, per stabilire un accordo, mancando il quale sarebbe intervenuto il Governatore. Le autorità locali erano più volte richiamate nel corso di questo documento, ad esse spettava una funzione di controllo sull’esecuzione dei lavori, affiancando nella prassi l’operato del cardinale. Oltre alle facoltà indicate lo Sperandio, e i «suoi huomini, lavoranti, et ostensori, avrebbero potuto estrarre da qualsivoglia luogo più vicino mediate, et immediate sottoposto alla Santa Sede Apostolica ogni sorte di vettovaglie necessarie per il suo vitto, e per tutti quelli, che attualmente saranno per detta opera», non solo, ma questi avrebbero potuto «anche commandare qualsivoglia vetturale, carrari, carrettieri, e qualsivoglia altra persona, à portar nel luogo del lavoro le suddette robbe con li loro carri, carrette, bestie, et animali, pagandosi li loro viaggi, e vetture, solite, e consuete senz’alcuna alterazione». Appare chiara l’intenzione di preservare l’azione dell’appaltatore da qualsiasi rischio di dover pagare tariffe maggiorate per questi servizi, a fronte di un impegno straordinario di spesa, che non doveva passare inosservato in sede locale. Il riferimento al pagamento di «quel tanto, che sarà giusto» ritorna, sotto diverse forme, più volte nel documento e se ne fa menzione anche nel passaggio in cui si indica che gli addetti ai lavori avrebbero potuto «albergare in qualsivoglia hosteria, et altri luoghi commodi all’opra con farsi assegnare stanze de’ quali ne haveranno di bisogno tanto per servitio loro, come de bestiami, et animali, e di potervi tenere li ferramenti, et altre monitioni necessarie per far detti lavori». Ogni ostacolo all’attività del
«fabbricatore» era dunque idealmente rimosso, in più gli si conferiva il crisma dell’ufficialità, equiparandolo per alcuni versi alla figura di un pubblico ufficiale; si spiega in questo modo il divieto di «molestare o impedire in vigor di qualsivoglia mandato tanto per causa civile quanto per causa criminale, ad istanza di qualsivoglia persona per qualsivoglia somma relasciato, e dà relasciarsi dà qualsivoglia tribunale, e dà qualsivoglia giudice tanto in Roma come fuori i lavoranti tanto nelle loro proprie persone, quanto animali, ferramenti, et altri beni di qualsivoglia sorte in qualsivoglia luogo posti, et esistenti», prevedendo a tale scopo l’ingente pena di mille scudi d’oro, e, ancora più indicativa, la facoltà di «portare ogni sorte d’arme solite portarsi dalli officiali camerali»58. Resta da definire chi fossero questi appaltatori e quando cominciasse ad emergere la loro presenza all’interno del meccanismo messo in funzione per realizzare le opere legate al giubileo. Dal 1650 si ha notizia dell’affidamento dei lavori per singole strade ad alcuni «fabricatori», allora nominati direttamente e in seguito scelti in base ad una gara di appalto. Dopo aver fatto affiggere nei luoghi principali dello stato l’avviso relativo, le autorità preposte ricevevano le offerte in busta chiusa e sulla base delle proposte pervenute stabilivano a chi affidare i lavori. I loro nominativi a volte si ripetevano e ad un medesimo individuo potevano essere assegnati più incarichi contemporaneamente. Gli appaltatori erano sorvegliati dagli architetti della Presidenza delle strade, che non solo decidevano quali fossero i principali interventi da attuare, ma controllavano anche il modo in cui venivano eseguiti. Sorgevano a volte delle contestazioni sulla «misura dei lavori da eseguire», in questo caso veniva designato un altro architetto con l’incarico di stabilire una sorta di arbitrato tra le valutazioni del «fabricatore» e quelle del primo «architetto deputato».
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Dai documenti a nostra disposizione è possibile ricostruire la consistenza e le modalità di esecuzione di questi interventi. Nei «capitoli, patti, e conditioni da operarsi dalli Mastri cottimanti che piglieranno per poliza serrata, per accomodare la strada Flaminia dalla Porta del Popolo sino a Foligno, et da Foligno à Nocera, Gualdo, e Sigillo sino alli confini del medesimo stato d’Urbino come anco delle strade verso Peruscia sino alli confini del medesimo stato d’Urbino con le loro collaterali conforme la cura e sopraintendenza data nella Eminentissima Congregazione al Eminentissimo Signor Cardinale Sacchetti», sono presenti dettagliate indicazioni che non lasciavano nulla al caso59. I lavori richiesti avrebbero dovuto compiersi con perizia, avendo cura di scegliere i migliori materiali disponibili, «si debbono far con buona pietra le megliori che si trovano con buona calcie è buona puzzolana con quelle regole et ordini necessarii», il cui reperimento restava a carico degli appaltatori. Si contemplavano diversi tipi di fondi stradali, per ognuno dei quali si fornivano minuziose regole di esecuzione. Le selciate si sarebbero dovute eseguire con «selci bastardotti alti tre quarti di palmo almeno e fora dalle volte di ponti far le massicciate di altezza di un palmo sotto dette selciate ad effetto che non cali e quella delle volte de ponti restasse superiore e facesse gradone»; per le massicciate si prescriveva un’altezza «di palmi doi, cioè palmi uno e mezzo di buoni massicci e palmi mezzo di copertura di breccia o scaglia per non trovarsi breccia»; dove si fosse reso necessario eseguire delle brecciate, «pur che si trovi breccia», queste avrebbero dovuto essere «alte palmi doi purché sia sodo il terreno con le pendenze e sfogature di acque»; per le guide delle «bande tanto di brecciati quanto delle massicciate» l’indicazione era di usare «selci grossi ò vero di pietre di tuffo dove non saranno selci o altri sassi ò massicci grossi ben messi ad effetto ritengono
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le dette brecciate e massicciate». Importante poi la prescrizione relativa al divieto di prelevare i materiali necessari per i lavori «in luoghi che facciano danno né in dette strade né altre collaterali vicini ad effetto non si guasti un luogo per accomodar l’altro». Altrettanta rilevanza era conferita all’inclinazione delle strade per permettere un adeguato scolo delle acque, «ad effetto non restino pantani». Gli scandagli eseguiti dagli architetti deputati confermavano nell’estremo dettaglio dei loro rilievi questo genere di preoccupazioni. Il sottomaestro delle strade Angelo Honorato Recalcati nello stendere la nota delle riparazioni per il percorso sotto la cura del cardinale Pietro Ottoboni, notava i diversi punti dove la strada era «sfossata dall’acqua, et impraticabile», indicando di seguito gli opportuni rimedi: «si deve levare una slamatura di terra sfangare la strada, riempire li scavi fatti dall’acqua»60. Gli incarichi conferiti ai «fabbricatori» non esaurivano almeno formalmente lo spettro delle possibili soluzioni cui far ricorso. Negli ordini emanati dai cardinali si trova in più occasioni una postilla, in base alle quale si lasciava alle comunità la facoltà di eseguire per proprio conto le riparazioni indicate nello scandaglio compilato dall’architetto. Il cardinale Gaspare Carpegna scriveva in tal senso rivolgendosi ai priori di Nettuno, ordinando loro che «otto giorni doppo recevuta la presente facciano principiare detti lavori, perché siano finiti e perfetionati nel termine di due mesi appresso […] altrimente passato il prescritto tempo se non saranno intieramente esseguiti detti ordini, in virtù dell’offittio ingiontoci da detta congregatione generale, si faranno fare, e perfettionare a tutte spese di cotesta comunità, la quale doverà poi contribuire alle tasse convenute»61. Una clausola questa che si ripeté più volte in occasione di quell’anno santo, ma anche successivamente, senza dare però vita ad una
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normativa omogenea. Si consideri, per esempio, la difformità del dettato degli editti pubblicati nel corso del 1674 per sollecitare le offerte pubbliche da parte dei fabbricatori delle strade. In quell’occasione accanto agli avvisi che si premuravano di ricordare come l’eventuale conferimento dei lavori ad appaltatori non escludeva la possibilità che «volendo le comunità far loro li lavori, che saranno necessarij nelle strade pubbliche per quella parte che toccaranno li loro territori, doveranno sempre essere preferite per il medesimo prezzo secondo l’offerta di quel capomastro al quale resterà detta strada»62, trovavano posto altre emanazioni che ignoravano tale procedura63. La possibilità fornita da una normativa in parte incerta veniva comunque abilmente sfruttata dai referenti in sede locale, come dovette accorgersi il cardinale Ottoboni, alla cui azione si opposero alcune comunità utilizzando sapientemente tale facoltà. Esse si appellarono al mancato rispetto di questa procedura per evitare di concorrere al pagamento della tassa istituita per finanziare i lavori eseguiti sulle strade comprese nel loro territorio64. L’efficacia degli interventi dipendeva anche dalla loro tempestività. I lavori per l’anno santo venivano di regola predisposti con un certo anticipo rispetto all’effettivo svolgimento della celebrazione. La loro esecuzione, però, non aveva un inizio contestuale per tutte le singole strade dello stato. L’incarico di iniziare i lavori poteva variare per esempio dall’ottobre del 1699 al settembre dell’anno successivo, con una sfasatura temporale non indifferente rispetto all’urgenza della consegna. Le innovazioni del 1775 Il XVII secolo si era chiuso con una serie di importanti iniziative per quanto riguarda le modalità di intervento nel settore viario. Nel 1680 venne stipulato il primo appalto ven-
ticinquennale per «rifare e resarcire, e mantenere a propria lor cura, fatica, e spese tutte le strade pubbliche consolari, e ponti fuori delle porte di Roma e suo distretto delle 40 miglia, et ancora li ponti sopra dette strade»65. La materia assumeva così una regolamentazione omogenea, consentendo in teoria di programmare una manutenzione continua dell’apparato stradale nelle immediate vicinanze della capitale. Di lì a poco l’emanazione della bolla Suprema cura regiminis, diede al settore una sistemazione definitiva, conferendo alla Presidenza delle strade ampie competenze in merito. La presenza di un appaltatore che si occupava della gestione delle strade nel distretto di Roma ebbe una ricaduta anche sull’organizzazione degli anni santi già a partire dal 1700. I cardinali incaricati fecero riferimento a tale figura, affidandogli l’esecuzione degli interventi previsti dai rispettivi «scandagli» per l’area di sua competenza. Non tutto, però, funzionava a dovere. Per questo motivo prima il cardinale Carlo Bichi, poi Lorenzo Altieri si videro costretti, di fronte alle inadempienze dell’appaltatore ufficiale, Giacinto Ferelli, che non aveva «fatto raccomodare la strada consolare fuori detta porta fino dura il suo appalto, e non havendo finhora adempito quanto in detti precetti gli si ordinava», a conferire tale incarico ad altri «fabricatori» di loro fiducia66. Nonostante i limiti, il sistema dell’appalto per le vie consolari giocò un ruolo importante, se non altro in quanto mise in luce la distanza esistente tra le dichiarazioni di principio e le loro attuazioni pratiche. Ridotta in un primo tempo la scadenza del contratto da venticinque a nove anni, e modificatane in parte la struttura, per cui si ebbero diversi appaltatori distribuiti secondo le singole vie, l’appalto rimase in vigore per il periodo considerato, non senza, però, momenti di crisi. Clemente XII con un chirografo del 1730 sospese gli appalti, a fronte degli
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scarsi risultati fino allora conseguiti. Allo stesso tempo il pontefice sollecitava il Presidente delle strade a provvedere con maggiore sollecitudine alle vie consolari nel distretto di Roma. Tra alti e bassi tale l’appalto generale continuò ad operare, mettendo capo, fra l’altro ad un sistema di tassazione, la cosiddetta tassa fissa delle strade consolari, per provvedere al suo funzionamento67. Pur tra evidenti contraddizioni, il tentativo di trovare un modo più organico di gestire il sistema viario dello stato produsse alcuni risultati, che possono essere riscontrati in maniera indiretta proprio in occasione degli anni santi. Infatti, la circostanza per cui alla scadenza del 1725 e del 1750, non si riscontrano nelle fonti finora indagate tracce relative all’istituzione di organismi specifici può essere spiegata, facendo riferimento all’esistenza di un sistema di manutenzione ordinaria in grado di provvedere in maniera costante al buono stato delle vie consolari. Se la celebrazione giubilare andava perdendo, in questo periodo, lo smalto che aveva avuto in passato, non per questo poteva dirsi caduta in oblio la necessità di provvedere ad un adeguato sistema di comunicazioni. Per il 1725 è possibile riscontrare solo alcuni indizi che attestano l’esistenza di provvedimenti per quella scadenza. Nel testo di un chirografo di Benedetto XIII, in cui si rinnovava al Presidente delle Strade la facoltà già concessa dal suo predecessore di poter obbligare i proprietari dei fondi adiacenti alle strade consolari alla cura dei fossi posti lungo le strade consolari, si ricordava incidentalmente che «avendoci inoltre rappresentato, che in occasione dell’imminente anno santo siano state fatte, e presentemente ancora si facciano delle riparationi, et accomodamenti più straordinari in una gran parte delle strade del nostro stato ecclesiastico, e che perciò più che mai si renda necessario, e conveniente di provvedere al mantenimento delle medesime mediante l’e-
scavatione delli sopradetti fossi…»68. Menzione dei lavori che si andavano allora effettuando può essere riscontrata anche nelle carte della Congregazione dell’Immunità ecclesiastica, incaricata di trasmettere ai vescovi delle Marche e della Romagna i permessi per poter comprendere anche gli ecclesiastici nella ripartizione delle tasse per i lavori stradali dell’imminente giubileo69. D’altro canto non si deve ritenere che l’assenza di riscontri per il successivo anno santo sia da addebitare ad uno scarso interessamento da parte di papa Lambertini. L’impegno profuso dal pontefice per il rinnovamento dello stato ebbe modo di applicarsi anche al settore viario, come testimoniano i chirografi del marzo 1741, con il quale si ordinava alla Presidenza delle strade di intensificare le visite alle vie consolari, e dell’aprile 1742, che approvava il progetto di apporre lungo le vie consolari i termini indicanti in miglia la distanza da Roma70. Altrettanto considerevoli furono le premure riservate alla preparazione del giubileo del 1750 sul piano pastorale. Eppure l’unione di questi due interessi non sembra aver prodotto espliciti risultati sul piano dell’organizzazione del sistema viario. L’assenza di misure straordinarie trova una giustificazione nel mantenimento di un alto livello di vigilanza ordinaria: numerose sono le visite approntate in questo periodo per le singole strade consolari all’interno del funzionamento dell’appalto, senza che per questo in esse si faccia riferimento alla eccezionalità del momento71. Nel frattempo accanto alla Presidenza delle strade cominciava ad emergere su questi argomenti la giurisdizione della Congregazione del Buon governo, specie per il controllo e la cura delle strade poste fuori dal distretto delle quaranta miglia. Espliciti riferimenti documentari, come il chirografo di Clemente XII del 30 agosto 1733 con il quale si conferiva al Buon governo la cura delle strade clementina (Foligno-Fa-
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briano-Adriatico) e lauretana (Loreto-Ascoli), attestano una competenza in materia, che comunque era già nei fatti72. Non meraviglia quindi rinvenire notizie inerenti al giubileo del 1775 tra i documenti della Congregazione del Buon governo. Alla conclusione di un secolo caratterizzato da una marea montante di critiche provenienti dal resto d’Europa, si ha come l’impressione che le autorità pontificie volessero dimostrare anche in questo campo una apertura verso principi organizzativi più consoni ai tempi, almeno a quanto sembra suggerire il fascicolo denominato «Registro di lettere per il riattamento delle strade in occasione dell’Anno santo del 1775»73, in cui sono sistematicamente conservati i provvedimenti allora adottati per riattare le strade dello Stato pontificio. A partire dalla circolare del 30 Aprile del 1774, spedita ai governatori, si innescò un processo di revisione della viabilità dello stato che avrebbe dovuto portare in breve tempo a «riattare, rendere sicure e agiate le strade pubbliche, e spezialmente consolari». La verifica dello stato delle vie, con il rilievo degli eventuali interventi necessari, era affidata alle autorità locali. Queste avrebbero dovuto nel più breve tempo possibile inviare a Roma una relazione sui controlli effettuati, insieme al preventivo dei lavori. Dal maggio successivo cominciarono ad arrivare le prime risposte dai vari «governi» interpellati, in base alle quali il Buon governo dispose ulteriori direttive. Interessa qui rilevare quelle relative al controllo dei lavori e al loro finanziamento. Il Buon governo si riservava di approvare le persone deputate dalle autorità locali alla direzioni dei lavori, alle quali venivano conferite particolari prerogative, come era già accaduto in passato. Le spese restavano a pieno carico delle comunità, che avrebbero a tal fine impiegato «gli assegnamenti fissati per le strade». In mancanza di denaro liquido, previa autorizzazione del Buon
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governo, avrebbero potuto «creare un censo all’usura non maggiore del tre per mille, o essere ammesse a luoghi di monte». Si stabiliva, inoltre, che le successive collette con le quali le comunità avrebbero provveduto a saldare i propri debiti avrebbero dovuto coinvolgere tutti gli abitanti compresi gli ecclesiastici e i privilegiati, ma «i patrimoni sagri, e beni di prima erezione avrebbero concorso per un terzo meno di quello che pagano li laici». La comunità erano tenute ad effettuare i pagamenti direttamente al deputato dei lavori, questi a sua volta avrebbe dovuto rendere conto delle entrate e delle uscite. Nel piano di riassetto erano coinvolte tutte le strade pubbliche e consolari, «eccettuate quelle, che sono di pertinenza del tribunale delle strade, e non mai le vicinali». Circostanza che starebbe ad indicare che anche per questo anno santo la manutenzione delle strade comprese nel raggio delle quaranta miglia restava affidata all’appaltatore del distretto. La Camera Apostolica in quanto tale non si assumeva direttamente gli oneri finanziari delle opere, ma si riservava la prerogativa di mantenere uno stretto controllo sul modo in cui i lavori venivano effettuati, sia dal punto di vista amministrativo, sia dal punto di vista tecnico. Nel novero degli interventi rientrarono anche vie di comunicazione interna come, ad esempio, la strada che da Rieti portava a Terni, o tutta quella miriade di percorsi che dai centri minori conducevano fino alle più importanti vie di comunicazione. La corrispondenza tenuta tra la congregazione e i governi locali informa sulla capillarità di questi provvedimenti. L’8 giugno del 1774 scrivendo al governatore di Perugia, il segretario del Buon governo dava riscontro del ricevimento della relazione relativa al riattamento delle strade pubbliche di Bettona, Collemaggiore e Colazzone. Al governatore di Ascoli, invece, si domandavano delucidazioni riguardo a due
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strade di quel territorio, quella diretta a Rieti e quella che conduceva a Caprarola, specificando di non volere avere informazioni circa la via Lauretana, in quanto già «commissariata» al Cardinale Urbano Parracciani, arcivescovo di Fermo. Probabilmente alcuni percorsi più importanti erano affidati ad esponenti di rilievo, in grado di garantire una certa omogeneità negli interventi effettuati. Oltre al presule fermano si ha notizia dell’interessamento del Tesoriere generale per la Cassia nel tratto compreso tra Viterbo e il confine e della competenza della Presidenza delle strade in merito al riattamento della Flaminia. Le comunità erano tenute a reperire le risorse per finanziare i lavori, ma al tempo stesso potevano godere di una certa autonomia nella gestione dei lavori. A difesa della quale nel luglio del 1774 si scriveva al governatore di Sabina per ricordargli che l’autorità deputata al controllo doveva mantenere la «libertà di ciascuna comunità di fare eseguire nei rispettivi loro territori il lavoro nella maniera più utile, e meno dispendiosa». Tale intervento era stato sollecitato dai «nuovi ricorsi delle comunità» che denunciavano di essere state obbligate a svolgere i lavori in base alle modalità prescritte nelle perizie a suo tempo redatte, senza avere la libertà di poter adattare queste misure alle loro esigenze. L’autogestione di queste riparazioni era stata concessa per la giurisdizione della Sabina in considerazione dello «stato infelice delle stesse comunità», con il solo obbligo dei «comunisti» di completare le opere entro sei mesi. La cura dei particolari che emerge dalla fitta trama della corrispondenza allora instauratasi tra Roma e referenti locali del potere pontificio, ben si accorda con l’idea dell’adozione di strumenti in parte innovativi non tanto relativamente ai contenuti, che paiono per molti versi non discostarsi troppo dal passato, quanto per le modalità, im-
prontate ad una maggiore sistematicità procedurale74. Conclusioni Conoscere le vie di comunicazione, il loro mutare nel tempo, gli interventi che su di esse si attuano si rivela un’operazione “necessaria” per «rimarcare la dimensione materiale della vita sociale degli individui, il loro camminare per le vie del mondo e non solo su quelle, peraltro nobilissime delle idee»75. Queste osservazioni sviluppate da Alessandro Pastore, ricordando i suggerimenti di Lucio Gambi a proposito del rapporto tra l’emigrazione religionis causa e le vie di comunicazione usate per compiere questi viaggi, paiono particolarmente indicate per corroborare le riflessioni finora compiute in merito al ruolo svolto dalla viabilità all’interno delle celebrazioni giubilari. Non un aspetto secondario dunque, ma una parte integrante di un ampio discorso, i cui aspetti religiosi, simbolici e culturali in genere sono stati, a ragione, ampiamente affrontati, lasciando forse in ombra altre questioni. La continuità con la quale si ripetono nel corso di due secoli i provvedimenti in favore della viabilità alla scadenza degli anni santi attesta la complementarità di questi due aspetti, che non deve però celare le discontinuità che pure sono presenti. Non senza difficoltà si cercherebbero le relazioni fisse tra l’impegno profuso nell’organizzazione dei lavori stradali e l’afflusso dei pellegrini o la riuscita delle celebrazioni. Il grande afflusso in occasione del 1600 non venne più di tanto ostacolato da una ancora approssimativa gestione dei lavori sulle infrastrutture viarie. All’estremo opposto le buone intenzioni di Innocenzo XII, la gran mole di misure con la quale si preparò l’avvicinarsi di quel giubileo non servirono ad impedire una drastica diminuzione delle visite dei fedeli. Se qualsiasi de-
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terministico rapporto tra aspetti materiali e istanze spirituali nelle celebrazioni giubilari è da escludere, le misure approntate rendono ragione dell’evoluzione delle competenze in questo settore della vita pubblica. Ragioni di prestigio, considerazioni di ordine pratico stimolavano le autorità ad affrontare in maniera sempre più organica la gestione della viabilità, rispetto alla quale l’anno santo forniva uno spunto per conferire a queste pratiche un’ulteriore sollecitazione. Anche in questo caso bisogna guardarsi da pericolose semplificazioni. Molte variabili entravano nel gioco, prime tra tutte le personalità dei pontefici e i precari e difficili equilibri tra loro e la curia. Le scarse notizie rintracciate per l’anno santo del 1650 con la presenza invadente, per quel che si è potuto accertare, del cardinale Federico Sforza, può essere ricondotta a questo genere di questioni. Una linea di sviluppo coerente può essere invece rintracciata negli sviluppi che si andarono attuando nel settore della politica viaria dalla fine del XVII secolo, che conduce nel corso del Settecento, nonostante gli apparenti silenzi dei giubilei del 1725 e del 1750, ad affinare sempre di più gli strumenti degli interventi ordinari. Questo pare come il passaggio più significativo che sposta gli equilibri rispetto al passato, quando le autorità di governo intervenivano in maniera mirata con strumenti straordinari, per affrontare determinati problemi, la cui soluzione appariva allora improcrastinabile, senza creare però un sistema di governo regolare, fondato su procedure organiche76. Come affermava Franco Venturi, quello viario è uno dei campi nei quali si concretizzano le istanze riformistiche del periodo dei lumi. Ma rispetto agli interventi in favore dei catasti o di una più attenta pratica nelle confinazioni è anche il settore dove tali stimoli incontrano le resistenze più tenaci. Considerazioni relative agli aspetti pratici, necessità di
cospicui investimenti, o la limitatezza dei mezzi tecnici giocarono un ruolo fondamentale nel generare questi ritardi, che dipendevano molto in definitiva da un discorso di maturità e lungimiranza politica. Affrontando il caso lombardo Cesare Mozzarelli rendeva ragione di queste difficoltà, dimostrando come i miglioramenti nel settore viario dipendessero dalle evoluzioni della struttura governativa, dal “modo di governare”, dai rapporti di potere interni allo stato77. Da questo punto di vista lo Stato pontificio non costituisce un’eccezione in termini generali, ma produce, pur senza modificare le difficoltà e le incongruenze del sistema di governo, interessanti fenomeni di sperimentazione, stimolati dalle esigenze di rappresentatività del centro spirituale, dal quale le vie si irradiavano e al tempo stesso convergevano. La celebrazione degli anni santi costituisce, se osservata sul lungo periodo, una riprova di questa peculiarità che favorì, pur in assenza dei presupposti di ordine economico o istituzionale, l’adozione di interessanti misure nel settore della politica stradale78. Introduzione al materiale iconografico La raccolta delle mappe che qui si propone è stata tratta da un volume del fondo della Congregazione del Buon governo, serie X, B. 4 (Fig. 1-13). La loro datazione è piuttosto incerta, probabilmente risalente alla fine del XVIII secolo, anche se Armando Lodolini, segnalando il fascicolo in suo saggio, lo colloca all’inizio del secolo XIX79. Il quadro delle strade, riportato nelle mappe e nella sintetica descrizione che le precede, può a ragione essere considerato una fedele rappresentazione del punto d’arrivo cui mise capo l’insieme dei provvedimenti che si succedettero nel corso dell’ancien règime in materia stradale. Ad una carta generale che mo-
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stra lo sviluppo delle principali strade dello stato, con l’eccezione, però, del territorio bolognese e della Romagna, seguono otto mappe dettagliate che fanno riferimento ai singoli territori secondo una suddivisione amministrativa che colloca il fascicolo decisamente prima della riforma attribuzioni amministrative del 1816. Se la dimensione territoriale della Sabina, che include Rieti, pare attestarlo nel periodo delle trasformazioni territoriali di inizio Ottocento, la permanenza della Marca di Fermo sembrerebbe in contraddizione con le innovazioni introdotte nel giugno del 1800. Può darsi che il «prezioso quaderno», come ebbe modo di definirlo Armando Lodolini, sia stato redatto in seguito alla riforma delle attribuzioni in materia stradale dell’aprile del 1801, ma alcune incertezze sulla sua datazione permangono80. Le piante sono precedute da una «misura e descrizione delle strade corriere o postali, e delle primarie strade provinciali», nella quale si riportano per ogni provincia le denominazioni dei tratti di strada e le distanze misurate in miglia. Nelle mappe le strade postali sono tracciate con il colore rosso, mentre il colore giallo è utilizzato per denotare le strade provinciali. In fondo al prospetto si trova la somma delle due classi di strade, rispettivamente 422 miglia per le strade postali e 1520 per quelle provinciali. Il documento permette di stabilire anche visivamente il quadro complessivo della rete delle principali strade pontificie e di individuare allo stesso tempo i criteri in base ai quali esse venivano classificate dai contemporanei. Lo stato di conservazione del fascicolo non è ottimale, alcune macchie di umidità sono visibili nella parte inferiore delle mappe e in alcuni punti cominciano ad essere presenti lacerazioni sui fogli. Una ragione in più questa per riprodurre il fascicolo onde favorirne la conoscenza e circolazione presso gli studiosi e i cultori della materia.
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Fig. 1. Copertina del fascicolo (Congregazione del Buon Governo, serie X, b. 4)
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Fig. 2. Prima pagina del prospetto delle strade postali e provinciali dello Stato pontificio
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Figg. 3-4. Pagina 2 e 3 del prospetto
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Figg. 5-6. Pagine 4 e 5 del prospetto
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Fig. 7. Pianta generale
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Fig. 8. Pianta della provincia di Marittima e Campagna
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Fig. 9. Pianta della Sabina
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Fig. 10. Pianta del Patrimonio di S. Pietro
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Fig. 11. Pianta dell’Umbria (Spoleto) e dello Stato di Camerino
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Fig. 12. Pianta del Territorio di Perugia e del Territorio di Orvieto
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Fig. 13. Pianta della Legazione di Urbino
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Fig. 14. Pianta della Marca di Ancona
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Fig. 15. Pianta della Marca di Fermo
Fig. 16. Disegno della strada aperta di nuovo nel territorio di Magliano per scansare la corrosione del Tevere (ASR Presidenza delle strade, B. 253, fasc. 10, 1736)
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Fig. 17. Particolare della mappa annessa al progetto di «rifacimento» della via Lauretana (ASR Congregazione del Buon Governo, serie X, B. 68, 1731)
Fig. 18. Altro particolare dello sviluppo stradale della via Lauretana
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Fig. 19. Sviluppo della strada consolare Flaminia (Presidenza delle strade, Catasto Alessandrino, 433/IV, 1660 ca.)
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NOTE 1
Non sono molte le eccezioni a questo approccio prevalentemente focalizzato sugli aspetti urbani dello svolgimento degli anni santi. Tra queste si consideri I giubilei: viaggio e incontro dei pellegrini, a cura di D. STERPOS, Roma, Soc. Autostrade, 1975 e R. STOPANI, A Roma per il giubileo del 1575: lungo la Francigena con la Confraternita della Santissima Trinità, Firenze, Le Lettere, 1999, entrambi interessanti opere di taglio divulgativo. 2 F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 2 voll., Torino, Einaudi 1986, I, p. 291. 3 Un utile strumento per consultare le bolle di indizione e i più importanti provvedimenti per gli anni santi è costituito dalla recente raccolta Bollario dell’Anno Santo. Documenti di indizione dal Giubileo del 1300, a cura di E. LORA, Bologna, EDB, 1998. 4 Sui molteplici e complessi significati da attribuire alla celebrazione giubilare hanno fatto recentemente il punto gli studi apparsi in un numero monografico della rivista Roma moderna e contemporanea, curato da S. NANNI e M. A. VISCEGLIA. Cfr. La città del perdono. Pellegrinaggi e anni santi a Roma in età moderna. 1550-1750, in «Roma moderna e contemporanea», V, 2/3, 1997. 5 Su quel “memorabile” anno santo la cronaca più utilizzata è quella compilata dal Riera, cfr. R. RIERA, Historia utilissima et dilettevolissima delle cose memorabili passate nell’alma città di Roma l’anno del gran giubileo 1575, Macerata, S. Marcellini, 1580. Uno studio diacronico sull’affluenza dei pellegrini per le celebrazioni giubilari è stato compiuto da L. CAJANI, Lungo le strade che portavano a Roma: le confraternite aggregate all’arciconfraternita della Ss. Trinità dei pellegrini e convalescenti (XVI-XIX secolo), in Poveri in cammino. Mobilità e assistenza tra Umbria e Roma in età moderna, a cura di A. MONTICONE, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 339-359. Del medesimo autore si veda anche Gli anni santi: dalla controriforma alla fine del potere temporale, in Roma sancta: la città delle basiliche, a cura di M. FAGIOLO-M. L. MADONNA, Roma, Gangemi, 1985, pp. 121- 127. 6 A tali aspetti è dedicato il lavoro di Mario Romani, le cui riflessioni rappresentano ancora un utile punto di riferimento. Cfr. M. ROMANI, Pellegrini e viaggiatori nell’economia di Roma dal XIV al XVII secolo, Milano, Vita e pensiero, 1948. Si consideri poi per il periodo precedente il contributo di FEDERIGO MELIS, Movimento di popoli e motivi economici nel Giubileo del 1400, in Miscellanea Gilles Gérard Meessemann, Padova, Antenore, 1970, I, pp. 413-448. Una serie di interessanti saggi si trova in Roma sancta cit. 7 Si consideri il resoconto del pellegrinaggio riportato da D. JULIA, Rome-Reims: Gilles Caillotin, pelerin (1724), in Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. BOESCH GAJANO E L. SCARAFFIA, Torino, Rosemberg & Sellier, 1990, pp. 327-364. Su tali tematiche si è
soffermata anche G. PALUMBO, Giubileo, giubilei: pellegrini e pellegrine, riti, santi e immagini per una storia dei sacri itinerari, Roma, RAIERI, 1999. Sul pellegrinaggio medievale vale la pena segnalare un recente studio, utile tra l’altro per documentare gli itinerari e i punti di sosta dei pellegrini diretti a Roma, D. J. BIRCH, Pilgrimage to Rome in the Middle Ages.Continuity and Change, Woodbridge, The Boydell Press, 1998, in particolare pp. 41-56. 8 Sul valore della rappresentazione nella Roma barocca si veda il lavoro, recentemente tradotto, di G. LABROT, Roma caput mundi: l’immagine barocca della città santa, 15341677, Napoli, Electa, 1997. 9 Entrambi questi esempi in ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Congregazione del Buon Governo, serie X, b. 68. A questa busta, con riferimento alla relazione sullo stato della via Lauretana (1731), va riferita la frase citata in fondo a p. 18. 10 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie X, b. 4. 11 Per un quadro generale del sistema dei trasporti cfr. J. DAY, Strade e vie di comunicazione, in Storia d’Italia, V, I documenti, I, Torino, Einaudi, 1973, pp. 89-120. 12 ASR, Presidenza delle strade, Reg. 28, 14 marzo 1778, doc. n. 166, f. 302. L’area era stata al centro di interventi anche nel periodo precedente, si veda in particolare l’illustrazione n. 16, tratta dalla busta 253 del medesimo fondo, risalente al 1736, nella quale si nota il vecchio percorso della via Flaminia lungo il fiume. Interventi strutturali erano stati compiuti per la costruzione del ponte Felice, causa a sua volta del dissesto idrografico nella parte superiore del corso del fiume, si veda C. P. SCAVIZZI, Il ponte Felice al Borghetto nel quadro della viabilità territoriale, in Sisto V, Roma e il Lazio, Atti del VI Corso Internazionale di alta cultura, a cura di M. FAGIOLO-M. L. MADONNA, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1992, I, pp. 625-638. 13 Per un quadro dinamico dell’evoluzione dei sistemi viari sul lungo periodo si veda L. BORTOLOTTI, Viabilità e sistemi infrastrutturali, in Storia d’Italia, Annali, 8, Insediamenti e territorio, a cura di C. DE SETA, Torino, Einaudi, 1985, pp. 289-366. 14 Notizie sul rifacimento di queste infrastrutture si incontrano frequentemente nelle carte della Presidenza delle strade, in particolare si vedano le buste relative alla serie Atti, vie consolari, Bb. 247-279. Un caso particolare è costituito dai lavori effettuati nella prima metà del ‘600 sul tracciato della via Latina tra Roma e Ceprano, frammentato da più di sessanta corsi d’acqua di diverse dimensioni, per i quali si dovettero costruire, secondo la testimonianza di un contemporaneo, più di cento piccoli ponti: cfr. C. P. SCAVIZZI, Un intervento di viabilità nel Lazio meridionale. La ricostruzione e il finanziamento del ponte e della strada di Ceprano, in «Latium», 2, 1985, pp. 235-273. 15 La loro distribuzione varia notevol-
mente secondo i tracciati e i tempi considerati, se per la Cassia secondo i dati di metà Settecento risultano sul suo tracciato soltanto ponti in muratura (si veda il grafico proposto nel contributo di C. IUOZZO, La strada consolare da Roma per Viterbo nel Settecento attraverso le carte della Presidenza delle strade, in questo volume), lo «scandaglio dei lavori» per il «riattamento della via Aurelia» del luglio 1735 segnala sul percorso una continua presenza di «ponticelli in legno», ASR, Presidenza delle strade, b. 253. Sulle tecniche costruttive si veda G. ALBENGA, Le strade ed i ponti, in G. UCCELLI, Storia della tecnica dal Medioevo ai nostri giorni, Milano, Hoepli, 1944, pp. 261-96; e per un quadro più ampio il contributo di S. b. HAMILTON, Ponti, in Storia della tecnologia, III, Il Rinascimento e l’incontro di scienza e tecnica (circa 1500-1750), a cura di CH. SINGER, E. S. HOLMYARD, A.R. HALL, T. I. WILLIAMS, Torino, Boringhieri, 1963, pp. 425-446. 16 ASR, Presidenza delle strade, b. 28, doc. n. 134, f. 266. 17 I danni riscontrati in una prima perizia del 1751 erano stati causati dalla costruzione di «parate» erette «con sassi, erbe e terra da pescatori d’irimpetto all’arco di mezzo del ponte». Tale costruzione formava un sistema di canalizzazione al termine del quale «sta fisso l’ordegno di cannuccie per carcerare il pesce». In quell’occasione si rilevava che «un tale riparo non solo impedisce il corso libero à detta acqua, ma da causa allo scavo formatosi dallo sperone detto di sopra». Ivi, b. 256, 15 giugno 1751. Per la relazione relativa ai lavori di riattamento resisi necessari in seguito alle piene del 1773 e alla successiva ripartizione della tassa tra le «comunità interessate», ivi, b. 262. 18 Ivi, b. 256, 16 marzo 1751. 19 Ivi, b. 34, ff 1v-4v. 20 Nel Chirografo si faceva riferimento in particolare alla strada «dell’Abbadia di Fossanova fino all’osteria delli Marruti alle falde del monte di Sonnino», recentemente riattata con un altro ordine del Pontefice del 1727. Ivi, b. 28, 14 marzo 1729, doc. n. 150, f. 284. 21 Si vedano le illustrazioni n. 17 e n. 18. 22 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie X, b. 68, 1731. La conversione delle cifre, espresse in scudi, in quantitativi d’argento, che permette un più efficace confronto tra i diversi ordini di grandezza, è stata compiuta facendo riferimento ai dati desunti da E. MARTINORI, Annali della zecca di Roma, 21 voll., Roma, Istituto Italiano di Numismatica, 1917-22; J. DELUMEAU, Vie économique et sociale dans la seconde moitié du XVIe siècle, 2 voll., Paris, De Boccard, 1957, II, p. 653 e segg.; S. BALBI DE CARO-L. LONDEI, Moneta pontificia da Innocenzo XI a Gregorio XVI, Roma, Quasar 1984. 23 ASR, Presidenza delle strade, b. 28, 1 aprile 1778, doc. n. 173, f. 309. 24 SCAVIZZI, Un intervento di viabilità, pp. 250-1. 25 ASR, Presidenza delle strade, b. 28, 16 settembre 1724, doc. n. 121, f. 255.
LE STRADE CHE PORTANO A ROMA: IL GOVERNO DELLA VIABILITÀ NELLO STATO PONTIFICIO DURANTE GLI ANNI SANTI
26 Si tratta probabilmente di notizie originariamente riportate nelle cronache del tempo, trasmesse nella memorialistica successiva e infine incluse nelle trattazioni più recenti. Probabilmente i lavori stradali di cui si parla furono interni alla città, ad essi si aggiunse l’intervento sul ponte senatorio, danneggiato da una inondazione del 1567, il cui restauro pare abbia comportato una spesa di 54.000 scudi (pari a 1.587,60 chilogrammi d’argento). La notizia è presente, tra gli altri, in F. A. ZACCARIA, Dell’anno santo. Trattato. Opera divisa in quattro libri: storico l’uno, l’altro cerimoniale, il terzo morale, l’ultimo polemico, Roma, G. Bartolomicchi, 1775, (2 voll.), I, p. 81. 27 Informazioni sugli esordi dell’istituzione in R. SANSA, Istituzioni e politica dell’ambiente a Roma: dalle magistrature capitoline alla presidenza pontificia, in La legislazione medicea sull’ambiente, IV, Scritti per un commento, a cura di G. CASCIO PRATILLI e L. ZANGHERI, Firenze, Olschki 1998, pp. 209-224. 28 ASR, Congregatio super viis, pontibus et fontibus, Reg. 2, 20 marzo 1599 f. 47v. 29 Ivi, 20 marzo 1599 f. 47v; 6 settembre 1599 f. 61v. 30 Ivi, 24 aprile 1599 f. 51r; 6 settembre 1599 f. 61v; 4 dicembre 1699, f. 63 v. 31 L’ordine era dato al fine di «vedere et provedere che le strade siano accomodate per questo anno santo». Ivi, f. 63 v. 32 Per meglio comprendere i criteri di divisione delle competenze si riporta l’assegnazione fatta a favore del cardinale Capponi, che integrava quanto al percorso della Flaminia quella effettuata al cardinale Sforza: «la strada della città da Foligno esclusivamente che va verso la Santa Casa di Loreto, et la strada verso Bologna, Ferrara, et Ravenna per quanto tiene lo Stato Ecclesiastico con li suoi collaterali». Ivi, 13 febbraio 1623, f. 214r-216r. 33 ASR, Presidenza delle strade, b. 537, 31 maggio 1624, per ordine del cardinale Savelli. Le informazioni relative alle spese per i singoli tracciati sono state tratte da questa busta. 34 ASR, Congregatio super viis, pontibus et fontibus, Reg. 2, 18 maggio 1645, f. 266r268v. 35 Ivi, 9 luglio 1648, f. 283 r; 20 luglio 1649, f. 283r-v. 36 Ivi, 10 dicembre 1650, f. 286 r. Alla medesima data si riporta una annotazione interessante riguardo ai lavori compiuti fuori Porta Portese che «ascenderanno alla somma di scudi 1000 in circa», f. 286v. 37 Si vedano al riguardo gli ordini emanati a partire dal 1648 dalla Presidenza delle strade. In essi compare frequentemente la formula: «essendo più volte resoluto nella congregazione delli Eminentissimi Signori Cardinali che si debbano accomodare con ogni diligentia tutte le strade per quanto dura lo Stato Ecclesiastico»; senza che si facesse riferimento agli anni santi. ASR, Presidenza delle strade, b. 30. 38 ASR, Congregatio Super viis, pontibus et fontibus, Reg. 2, 20 giugno 1674, f. 303 r. 39 Biblioteca Casanatense, Editti, Vol. 13
(Per. Est. 18/132), cc. 218, 224, 238, 247, 272, 284, 8 giugno-27 novembre 1674. Alcuni di questi bandi sono presenti anche in ASR, Bandi, b. 32; ulteriori notizie sulla getione di questi incarichi possono essere rintracciate in Presidenza delle strade, bb. 32-33. 40 Bullarum privilegiorum ac diplomatum romanorum pontificum. Opera et studio Caroli Coquelines, t. IV, 4, Roma, G. Mainardi, 1747, p. 399. 41 ASR, Camerale II, Strade, b. 1, t. 1. La risposta del Casoni ff. 50r-51v, 16 febbraio 1642. La memoria dal titolo Foglio di notizie intorno alla Congregazione delle strade solita a descriversi nell’elenco, ff. 46r-49r. Sulle congregazioni «fisse e ordinarie [ma] solite tenersi molto di raro, e soprabondanti più che necessarie pel governo, come per esempio sono le congregazioni delle strade, dell’annona, dell’acque, de’ confini e simili», si era soffermato G. B. DE LUCA, Il cardinale pratico, Roma, Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, 1680, p. 381. Da parte dello stesso autore si vedano anche le considerazioni contenute nel Theatrum veritatis, et justitiae, lib. XV, pars II, disc. XXVII, p. 293 e disc. XXVIII p. 351, Venezia, ex typographia Balleoniana, 1734. 42 ASR, Camerale II, Strade, b. 4, per le carte relative al cardinale Ottoboni; ASR, Presidenza delle strade, b. 248, per le carte relative i cardinali Marescotti, Bichi, Ottoboni e Carpegna. Un quadro riassuntivo della distribuzione delle sovrintendenze stabilite nel corso della riunione del 2 aprile 1699 si può trovare nell’Appendice, tab. 1, del contributo di C. IUOZZO, Lavori pubblici nello Stato pontificio d’antico regime. Il restauro della strada “che fa il procaccio di Napoli” per l’anno santo 1700, in questo volume. 43 Sulla sovrintendenza del Cardinal Marescotti si sofferma in maniera puntuale il contributo di C. IUOZZO, Lavori pubblici nello Stato pontificio d’antico regime. 44 ASR, Camerale II, Strade, b. 4; Presidenze delle strade, b. 248, fasc. 6. 45 Sull’impronta riformistica del pontificato di papa Pignatelli si veda la raccolta di saggi Riforme, religione e politica durante il pontificato di Innocenzo XII (1691-1700), atti del convegno di studio, Lecce 11-13 dicembre 1991, a cura di B. PELLEGRINO, Lecce, Congedo, 1994. 46 ASR, Congregazione super viis, pontibus et fontibus, reg. 2, 12 maggio 1599 p. 54 v. Per una panoramica dello sviluppo stradale della via Flaminia si veda la Fig. 17, relativa allo «sviluppo della strada fuori porta del Popolo da Roma sino a …» tratta dal catasto alessandrino. 47 Sugli incontri tra pellegrini o viaggiatori, sugli scambi di informazioni che modificano poi i loro tragitti si vedano alcuni esempi in D. JULIA, Rome-Reims; J. DELUMEAU, Movimento di pellegrini e assistenza nel Cinquecento, in Roma Sancta, pp. 91-10, che riporta il caso di uno scambio di informazioni tra Montaigne e un viaggiatore tedesco (p. 95). Per i casi dei percorsi compiuti dalle con-
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fraternite si vedano i contributi presenti in Poveri in cammino, in particolare i contributi di Marta Pieroni Francini, di Paolo Caucci von Saucken. 48 ASR, Congregazione super viis, pontibus et fontibus, reg. 2, 12 maggio 1599, f. 54 v. 49 ASR, Presidenza delle strade, b. 10, 17 maggio 1649. 50 Ivi, b. 34, 20 febbraio 1700. 51 Ivi, b. 10, 1 dicembre 1649. 52 Ivi, 21 novembre 1650. 53 Ivi, b. 30. 54 Sugli agenti delle comunità, «complessa figura istituzionale», si sa ancora poco. Ne trattano i giuristi del tempo G. COELLI, De bono regimine rerum ad universitates spectantium, Romae, J. Casonij, 1656, p. 268 e segg.; P. A. DE VECCHIS, De Bono Regimine, Roma, G. Mainardi, 1734, II, p. 36, p. 331; e più recentemente all’interno della più ampia trattazione sul Buon Governo E. LODOLINI, L’archivio della S. Congregazione del Buon Governo (1592-1847), Inventario, Roma, Ministro dell’interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, XX, 1956, pp. XXI-XXXIII; riserva loro un rapido cenno anche STEFANO TABACCHI, del quale si è riportata la definizione iniziale, Il controllo sulle finanze delle comunità negli antichi Stati italiani, in «Annali I.S.A.P.», 4, 1996, pp. 81-115. 55 ASR, Congregazione super viis, pontibus et fontibus, reg. 2, f. 218 r-v 56 ASR, Presidenza delle strade, b. 32, giugno 1674. Da una nota riportata nel De Vecchis, risulterebbe che tale norma venisse già allora approvata. In fondo al testo della proposta viene infatti riportata la dicitura «Sanctissimus annuit exceptis monialibus», cfr. P. A. DE VECCHIS, De Bono Regimine, II, pp. 355-6. 57 ASR, Camerale II, Strade, b. 4, fasc. 3, 5 maggio 1699. 58 ASR, Presidenza delle strade, b. 34, ff. 54 v-56 r 59 ASR, Notai del Tribunale delle acque e strade, b. 76, 15 settembre 1649. 60 ASR, Camerale II, Strade, b. 4, fasc. 3, 12 novembre 1699. 61 ASR, Presidenza delle strade, b. 32, luglio 1674, ff. 152 r-v 62 Biblioteca Casanatense, Editti, V. 13 (Per. Est. 18/132), 8 giugno 1674, c. 218. Simili, anzi più vincolanti a favore delle comunità, gli editti emanati dal cardinale Orsini e dal cardinale Odescalchi, ivi, 11 ottobre e 27 novembre 1674, c. 272, 284. 63 Così l’editto del cardinale d’Hassia, ivi, 25 giugno 1674, c. 224. 64 ASR, Camerale II, Strade, b. 4, 16991707. In base ad una nota stesa su un foglio volante incluso nell’incartamento sembrerebbe che la causa fosse stata poi vinta dalle comunità. In tale foglio datato 21 dicembre 1707 era scritto «…declaramus decta civitatem non teneri, nec obligatam esse ad solutionem taxae, et contributionem pro expensis factis in reaptatione ditae viae». 65 L’appalto ordinato in base ad un chi-
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rografo di Innocenzo XI del 22 giugno 1680, avrebbe dovuto avere una durata di venticinque anni, ma venne modificato con l’esclusione di uno dei due appaltatori nel 1693. A proposito di quest’ultima notizia si veda il contributo di C. IUOZZO, Lavori pubblici, in questo volume. Il testo del chirografo è conservato in ASR, Presidenza delle strade, Reg. 28, 22 giugno 1680, doc. n. 82, f. 181. 66 ASR, Presidenza delle strade, Reg. 34, 6 dicembre 1699, ff. 56v-58r; 4 gennaio 1700, f. 59r-v. 67 La tassa era ripartita tra le comunità e i possessori di beni nell’agro romano, la spesa prevista per l’appalto consisteva in 5400 scudi annui. Su tali vicende si veda LODOLINI, L’archivio della S. Congregazione del Buon Governo, p. CXI e segg. Il testo del chirografo di Clemente XII in ASR, Presidenza delle strade, Reg. 34, 16 dicembre 1730, doc. n. 137, f. 270. 68 ASR, Presidenza delle strade, Reg. 35, 16 dicembre 1724, ff. 94v-95v. 69 ASV, Congregazione dell’immunità ecclesiastica, Libri litterarum, 1724-25, ff. 52v53v; 54v-55v; 85v-86r; 114v-115v. Sono riconoscente al dott. Iuozzo per questa segnalazione. 70 ASR, Presidenza delle strade, 4 marzo 1741, doc. n. 152, f. 286; 22 aprile 1742, doc. 158, f. 292. 71 Ivi, b. 256. Nella serie dei registri, gli instrumenti diversi, che raccolgono buona parte delle informazioni relative agli anni santi, non si trovano per questi due giubilei informazioni al riguardo. Si possono confrontare, per esempio, nel fondo Presidenza delle strade i registri 30 (1650), 32 (1675), 34 (1700),
RENATO SANSA
35 (1725), 36 (1750). Lo stesso si verifica per le buste (247-279) degli Atti (scritture sciolte) relative alle vie consolari. 72 A. LODOLINI, Le vie di comunicazione dello Stato pontificio. Contributo alla storia del diritto amministrativo italiano, Roma, Signorelli, 1923, p. 10. Le comunità delle Marche che avevano scritto alla Congregazione per l’immunità ecclesiastica in occasione dell’anno santo del 1725, riferivano dell’ordine ricevuto dal Buon governo. 73 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie X, Reg. 40 bis. Le notizie di cui si parla in seguito sono tratte da questa fonte. 74 Non è forse un caso che, per la prima volta dal 1575, nella bolla di indizione del giubileo, la Salutis nostrae auctor, compaia una nota sulla difficoltà del viaggio: «nolite committere, ut itinerum labores, et commeandi diffucultates moram vobis afferant». Cfr. Bollario dell’Anno Santo cit., p. 756. 75 A. PASTORE, “Ertissimi monti”. Note sul transito di passi alpini fra Lombardia e Svizzera nella prima età moderna, in Nei cantieri della ricerca incontri con Lucio Gambi, a cura di F. CAZZOLA, Bologna, Clueb, 1997, 95-108. 76 Tale procedura non era sfuggita ai più attenti osservatori del tempo. A tale proposito Giovanni Battista De Luca aveva scritto: «Et anche vi sono molte congregazioni straordinarie chiamate particolari, come deputate a certi negozi, o cause particolari, appartenenti all’uno e all’altro Principato, secondo le contingenze, e opportunità, che non hanno durazione, ma finiscono con la terminazione di quella causa o negozio». G. B. DE LUCA, Il cardinale pratico cit., p. 381.
77 F. VENTURI, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi 1969, pp. 411-442, in particolare sulle strade pp. 417-420. C. MOZZARELLI, Strade e riforme nella Lombardia del Settecento, in «Quaderni Storici», 61, 1986, pp. 117-145; per un caso particolare cfr. M. BERENGO, “La via dei Grigioni” e la politica riformatrice austriaca, in «Archivio Storico Lombardo», LXXXV,1958, p. 5-111. Suscettibile di ulteriori considerazioni la situazione nel resto d’Europa. Si vedano, per il caso della Francia, G. ARBELLOT, La grande mutation des routes de France au milieu du XVIIIe siècle, in «Annales E.S.C.», XXVIII, 1973, pp. 765-791 e B. LEPETIT, Chemins de terre et voies d’eau. Reseaux de transports et organisation de l’espace en France, 1740-1840, Paris, ed. Ehess, 1984. 78 Non a caso il giudizio negativo sulle strade dello Stato pontificio emerse soprattutto nel corso dell’Ottocento a fronte del divario economico e sociale sempre più profondo tra questo e gli altri stati europei. Cfr. G. FRIZ, Le strade dello Stato pontificio nel XIX secolo, in «Archivio economico dell’unificazione italiana», serie I, XVI, fasc. I Roma, 1967. 79 A. LODOLINI, Le vie di comunicazione cit., p. 15 e segg. 80 Il loro scioglimento potrà forse avvenire cercando di mettere in relazione le divisioni territoriali ivi presenti con quelle illustrate nel testo di ROBERTO VOLPI, Le regioni introvabili. Centralizzazione e regionalizzazione dello Stato pontificio, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 225 e segg.
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Lavori pubblici nello Stato pontificio d’antico regime. Il restauro della «strada che fa il Procaccio di Napoli» per l’anno santo 1700 Carmine Iuozzo
Riforme di fine ’600 e restauri delle strade. Una premessa Il 18 maggio 1699 papa Innocenzo XII indiceva l’universale giubileo dell’anno santo 1700 con la bolla Regi saeculorum. In essa esortava i fedeli a celebrare questo tempo speciale con le buone opere, e, rivestiti degli ornamenti della vita cristiana, ad accorrere per chiedere il perdono «ad hanc sanctam in terris civitatem Dei». Il pellegrinaggio terreno assumeva il valore di metafora di quello spirituale, nella quale ricorrevano i termini evocanti il viaggio per strada: ecco dunque i colloqui religiosi per sopportare le «itineris molestias», i canti «in viis Domini», ed i viandanti «ambulantes in semitis iustitiae», fino all’arrivo nella città santa, ove «intrabunt portas (Domini) in confessione, portas iustitiae»1. L’immagine dell’itinerario stradale si concludeva così con il richiamo all’ingresso attraverso le porte cittadine, con il nome delle quali, propriamente, le magistrature edilizie e gli architetti al loro servizio designavano le grandi strade che si dipartivano dall’Urbe. Pressante era dunque l’invito ad intraprendere il viaggio verso Roma, ed occorreva perciò sforzarsi di garantire le migliori condizioni materiali per il suo compimento, a cominciare dagli interventi sulla maggiore viabilità terrestre. L’appello del pontefice non rimaneva del resto inascoltato: nonostante la sua flessione dopo la metà del XVII secolo, il numero delle presenze forestiere nella città, legate al pellegrinaggio durante gli anni santi, continuava a mantenere
una «dimensione eccezionale», tanto che, per esempio, alla fine del XVII secolo, ad una popolazione stabile di circa 140.000 persone, si è calcolato se ne aggiungessero, in periodo giubilare, altre 200.0002. Ed è da ritenere che la via terrestre fosse di gran lunga la più praticata dai viaggiatori per raggiungere la capitale del mondo cattolico, rispetto a quella marittima e fluviale, utilizzata soprattutto per il trasporto delle merci3. La necessità del riassetto delle grandi strade che conducevano a Roma doveva essere perciò avvertita in una dimensione che travalicava i confini della manutenzione ordinaria, la quale, peraltro, aveva assunto caratteri di regolarità e di certezza soltanto a partire dal 1680 e limitatamente al distretto, la zona circostante la città per una profondità di circa quaranta miglia. Il 2 aprile 1699 si riuniva pertanto una Congregazione cardinalizia, ai membri della quale sarebbe stato affidato il compito di coordinare una grande operazione di restauro viario in vista dell’imminente scadenza giubilare. E’ opportuno ricordare qui, rapidamente, quali fossero i poteri, collocati al “centro” del dominio temporale dei papi, cui era affidata la cura delle strade pubbliche. Incardinata nella Camera apostolica – dal momento che il suo vertice era rappresentato da un chierico di Camera – la Presidenza delle strade vedeva, tuttavia, anche la partecipazione dei maestri delle strade, magistrati d’antica origine municipale, tuttora laici di status nobiliare,
ma ormai però di stretta nomina papale4. Tale «mixtura»5 aveva permesso alla magistratura nel suo complesso di ampliare la propria giurisdizione dall’ambito di Roma e suo distretto ad «universum Statum», nonché di agire, con miglior titolo giuridico, nei confronti degli ecclesiastici, i quali dovevano essere sottoposti agli ordini di essa, come ormai da tempo prescrivevano varie disposizioni pontificie. La magistratura, che disponeva di pregnanti competenze tecniche alle sue dipendenze (architetti sottomaestri, maestranze edili), era stata investita, alla fine del secolo XVII, da un processo di forte riorganizzazione, volto ad esaltarne una maggior stabilità e dipendenza dal pontefice, e a riservare in essa uno spazio più ampio alle capacità degli uomini, rispetto ai favoritismi di parte. Con la bolla Romanum Decet Pontificem del 22 giugno 16926, che proibiva ai pontefici di assegnare ricchezze della Chiesa ai propri parenti, abolendo, peraltro, uffici e stipendi con i quali i papi erano soliti gratificare i propri stretti congiunti, Innocenzo XII aveva inteso colpire la figura del cardinal nipote, vertice ed insieme simbolo di un sistema di potere imperniato sulla notevole capacità della famiglia di costruire alleanze, di mediare conflitti fra i corpi della società, di fornire personale fedele agli “uomini-guida” delle istituzioni, primo fra tutti al capo della Chiesa universale e del suo dominio temporale. Tale sistema di potere, se era stato funzionale alla costruzione del principato territoriale, ed inoltre aveva garantito la com-
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Fig. 20. Disegno della strada consolare fuori della Porta S. Giovanni per Terracina, delineato nel 1699 dall’architetto Francesco Massari ed allegato al volume intitolato «Accomodamento della strada consolare fuori della Porta di S. Giovanni in Laterano per l’Anno Santo 1700 sotto la direzione del Card. Mariscotti» (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 248, fasc. 6, c. 24). Per una breve spiegazione dei numeri riportati nella carta, si veda l’illustrazione seguente; per una illustrazione più approfondita di tutti gli elementi rappresentati, rimandiamo, invece, allo «scandaglio» dei lavori da effettuare per l’anno santo, pubblicato, in forma schematizzata, nella tab. 3.1 dell’appendice. Il disegno, realizzato ad inchiostro, appare sbrigativo e assai poco dettagliato. Curioso, poi, è il suo orientamento: da porta S. Giovanni al ponte sull’Amaseno nei pressi dell’abbazia di Fossanova, il tracciato stradale lascia il nord sul bordo sinistro della carta; dopo il ponte, invece, il nord va cercato verso il bordo inferiore. Si può notare, inoltre, che viene indicato, dopo la «Mola di Terracina», l’innesto della consolare nel rettilineo dell’antica «strada Appia», proveniente dalla pianura Pontina. Le quattro osterie disegnate intorno a Terracina sono da identificarsi con quelle che lo «scandaglio» segnala dentro il centro abitato. Infine, per «Sportello» deve intendersi la cosiddetta «Torre dell’Epitaffio», al di là della quale iniziava la fascia di confine fra lo Stato pontificio ed il Regno di Napoli.
pattezza della compagine stretta attorno al pontefice nel periodo della reazione allo scisma protestante, nel corso del XVII secolo mostrava ormai vistosi segni di inadeguatezza, in una situazione che vedeva crescere le difficoltà finanziarie e politiche del papato, sempre meno importante come potenza internazionale, e sempre meno in grado di dare risposte efficaci ai problemi concreti dell’amministrazione del dominio
temporale7. Fare a meno del cadinal nipote – stretto congiunto del papa sì, ma anche strumento per far valere, in qualche modo, al cospetto di quest’ultimo, le richieste della Corte8 – significava perseguire una più accentuata concentrazione del potere nelle mani del pontefice, nello sforzo di una razionalizzazione del sistema di governo temporale. Conseguenza di tale sforzo, per l’esaltazione del criterio della com-
petenza9 su quello del favore alla famiglia o alla parte, fu, tra gli altri, un importante provvedimento del 28 novembre 1692, il quale riformava proprio la Presidenza delle strade. Con la costituzione Sacerdotalis et regiae Urbis10, Innocenzo XII riservò al beneplacito del pontefice la nomina del presidente, in precedenza estratto a sorte ogni anno fra i chierici di Camera. A costui fu contestualmente data la facoltà di nomi-
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nare e rimuovere, anche su parere dei maestri delle strade, tutti i più importanti ufficiali alle dipendenze della magistratura, il procuratore fiscale, il «ratiocinator», gli esattori, il mandatario, il commissario delle strade e il baroncello11. Ai maestri, invece, era confermata la facoltà di nominare, rimuovere architetti sottomaestri e operai, salvo sempre il diritto del presidente di esaminare la giusta causa della rimozione. Venivano, inoltre, delineate con chiarezza le competenze di quest’ultimo, assegnando al suo tribunale la privativa giurisdizione sulle cause riguardanti le strade, fatto salvo l’appello alla Camera apostolica. Infine, era nettamente indicato che le facoltà e la «superintendentia» del presidente comprendevano anche le strade consolari fuori del distretto, e, a questo proposito, tutti i governatori dello
Stato ecclesiastico dovevano mettersi ai suoi ordini. Egli avrebbe dovuto promuovere la costruzione, il riattamento e la manutenzione di tali strade, ma non le azioni giudiziarie inerenti. Al contrario, entro il distretto, la sua giurisdizione sarebbe stata piena sulle strade consolari come sulle altre. L’esigenza di un maggiore controllo e direzione del settore stradale per tutto lo stato aveva condotto già in precedenza alla costituzione di un’istanza di governo di livello ancora più alto, che si era configurata in una Congregazione cardinalizia delle strade, dei ponti e degli acquedotti, attiva dal pontificato di Pio V (1566-1572), ma formalmente inquadrata da Sisto V fra le quindici congregazioni nella bolla Immensa aeterni Dei del 22 gennaio 158812.
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La volontà di condurre un’operazione di restauro viario che coinvolgesse l’intera compagine del dominio ecclesiastico poteva così trovare in questo organismo uno strumento teoricamente funzionale allo scopo. Tuttavia, la Congregazione cardinalizia prevista dalla sistemazione istituzionale sistina aveva potuto vivere una breve stagione di vigenza continuativa ed era stata offuscata dalla sempre maggior importanza della Presidenza delle strade, anche nell’ambito della manutenzione di ponti e strade fuori del distretto. Negli anni ‘70-’80 del secolo XVII il grande giurista Giovan Battista De Luca scriveva che essa, sebbene fosse formalmente viva, tuttavia si teneva raramente, tanto da essere quasi sconosciuta nella Curia13. Non è ben chiaro il rapporto fra tale Congregazione e quella di cui ci
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Fig. 21. La strada consolare da Roma per Terracina e Napoli (secoli XVI - XVIII) e la via Appia antica. La carta è stata elaborata da S. Passigli, sulla base degli studi di J. Coste, e, segnatamente, La via Appia nel Medio Evo e l’incastellamento, citato a nota 99, p. 88. Oltre le stazioni di posta, sono state riportate, evidenziate da sottolineatura, le comunità che contribuivano, dal 1680, al pagamento della «tassa fissa» per la manutenzione ordinaria della strada entro il distretto di Roma (cfr. la tab. 2.2 in appendice). Il limite di quest’ultimo era fissato al miglio 49°. I numeri fra parentesi corrispondono a quelli riportati sulla carta disegnata dall’architetto Massari (cfr. l’illustrazione precedente). Per comodità, se ne dà di seguito una breve illustrazione: 1) «Posticella» o «Osteria della Posticciola di Marino», o altrimenti «Torre di Mezza Via di Marino». 2) Marino, con l’osteria della posta del connestabile Colonna. 3) Macchia della Fajola. 4) Velletri (la città non partecipa alle spese per il restauro ordinato dal Marescotti). 5) Tenuta di Torrecchiola o Castel Ginnetti. 6) Osteria di «Casa Fondata» di Gaetano Francesco Caetani. 7) Ponte in muratura sul fosso «detto fossato», da costruire a spese di soggetti diversi. 8) Osteria «de Preti» di Semoneta (identificabile con la «Posta Vecchia»?). 9) «Portone» della gabella, guardato dalla torre di Acquapuzza. 10) Osteria della posta di «Case Nuove» del marchese Ginnetti. 11) Ponte in muratura da fabbricare sul fosso «adautto», ai confini fra il territorio di Sezze e quello di Priverno. 12) Ponticello in muratura da costruire nei pressi dei prati di «Perneto» della comunità di Priverno. 13) Priverno, dotata di tre osterie. 14) Ponte dell’abbazia di Fossanova sul fiume Amaseno. 15) Località dei «Tre Ponti». 16) Dopo la «mola di Terracina», tratto dell’Appia antica, nei pressi del «rivo del Gambaro». 17) Terracina e «Torre Gregoriana». 18) «Epitaffio», o, altrimenti, «Sportello», così come denominato dal Massari.
occuperemo in questa sede. Si ha l’impressione che vi sia una continuità solo di tipo nominale, e che il richiamo formale ad una «congregatio super viis, fontibus et pontibus» ammanti, nell’ultimo quarto del secolo XVII, iniziative circoscritte e di respiro limitato ad interventi straordinari, come quelli in occasione degli anni santi. Del resto, anche l’isti-
tuzione sistina della «Congregatio decimatertia pro viis, pontibus et aquis curandis» era stata giustificata dall’attenzione del pontefice, non solo per l’ornato della città e degli altri luoghi del suo dominio temporale, per la salubrità dell’aria e l’utilità dei sudditi, ma anche per la comodità dei pellegrini che compivano la pia visita della sede apostolica e dei tan-
ti «sancta loca innumerabilium martyrum sanguine consecrata». Ai cardinali deputati si assegnavano ampie facoltà in materia di costruzione e di manutenzione di strade e ponti, ma soprattutto si affidava loro il compito di alta direzione e protezione «ab contradictoribus» del presidente delle strade e degli altri ministri della Camera, per mezzo della potestà di definire con rito sommario, ma dopo averne fatta parola col papa, le «difficultas aut causas» che fossero sorte, non solo nella città di Roma, ma in tutto il dominio ecclesiastico, per opera di baroni, comunità ed ogni altra persona, quantunque immune ed esente14. L’accennato giudizio del De Luca sembra trovare conferma nell’esiguità del carteggio prodotto dalla Congregazione, ed ora conservato nell’Archivio di Stato di Roma15. Sparse tracce della sua attività si rinvengono anche in vari documenti della Presidenza delle strade, per gli anni relativi alla seconda metà del XVII secolo. Soprattutto, si rinvengono riferimenti ad essa, a proposito degli interventi straordinari sulle strade dello stato ecclesiastico in occasione dei giubilei del 1675 e del 1700. In quest’ultimo caso, come ben presto vedremo, l’unico momento collegiale della Congregazione sembra ridursi a quello in cui si ripartiva, tra i vari cardinali, la responsabilità di sovrintendere ai lavori da effettuarsi per ciascuna strada consolare. Affermava, infatti, il De Luca che, in occasione dei grandi giubilei, il restauro delle consolari veniva seguito «cum aliqua majori diligentia et authoritate» e per ciascuna singola via si soleva aggiungere la «praefectura, seu praesidentia unius Cardinalis»16. Il cardinal Galeazzo Marescotti ed un carteggio appartenuto al suo archivio privato La documentazione utilizzata per la presente ricerca è costituita principalmente dal carteggio che si
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riferisce all’attività svolta dal cardinal Galeazzo Marescotti per la sovrintendenza, affidatagli dalla citata Congregazione in occasione dell’anno santo 1700, sui lavori di riparazione della strada consolare che conduceva a Napoli, partendo dalla porta S. Giovanni nelle mura aureliane. Il volume che raccoglie le carte relative all’alta direzione del Marescotti è rilegato in pergamena ed è conservato nel fondo della Presidenza delle strade, presso l’Archivio di Stato di Roma17. Possiamo tuttavia affermare con sicurezza che non fu questa la sua collocazione originaria, ma, ancora nel 1711 e probabilmente molto dopo, esso faceva parte dell’archivio personale del cardinale, come dimostra il fatto che si trova registrato nell’inventario relativo, attualmente reperibile nel fondo Marescotti-Ruspoli dell’Archivio Segreto Vaticano18. Nel 1870 l’erudito Costantino Corvisieri comprò quell’archivio dall’amministratore dell’eredità Marescotti. Si può dunque ipotizzare che il nostro volume fosse uno dei moltissimi documenti venduti dal Corvisieri all’Archivio di Stato di Roma, che lo acquisì nel 1884, come sembra attestare un’annotazione a penna apposta sulla prima carta sotto il timbro della Direzione dell’Archivio. Nel 1901, dopo la morte dell’erudito, quello che rimaneva della sua biblioteca, e con essa, un consistente nucleo dell’archivio di Galeazzo Marescotti, fu messo all’asta e disperso19. In un panorama documentario generalmente caratterizzato da grande frammentarietà e dispersione20, specialmente per quanto riguarda gli interventi in materia di strade in periodo giubilare, il volume in esame spicca per l’alto grado di completezza e “concentrazione” delle testimonianze, anche se non mancano lacune, specie verso la fine, dove il testo improvvisamente s’interrompe, lasciando il posto ad alcune pagine bianche. D’altro canto, però, tale documentazione limi-
ta fortemente la visuale, condizionandola alla posizione di vertice di chi ne ha curato la raccolta. Tanto più che le modalità della condotta, della quale queste carte costituiscono testimonianza, si sono esplicate, più che altro, in una «soprintendenza», una funzione cioè d’impulso e di controllo dell’azione delegata ad una molteplicità di “periferie”. Tale visione troppo ancorata al “centro” costituisce consapevolmente il limite che in questa sede abbiamo provato a valicare solo sporadicamente, aggiungendo qualche documento, reperibile nell’archivio della Congregazione del Buon Governo, sulle spese delle comunità per i lavori ordinati dal Marescotti. Per tornare al nostro carteggio, occorre avvertire che in esso, accanto alla silloge di documenti ufficiali e della corrispondenza fra il Marescotti ed i suoi referenti in provincia, è possibile trovare anche una narrazione continua, scandita da rubriche laterali, nella quale, alla trascrizione di lettere e documenti, si alternano “pro-memoria”, che c’informano sulla condotta e sugli atteggiamenti di alcuni tra i destinatari dei provvedimenti del cardinale, come sulle decisioni di quest’ultimo e sulle loro motivazioni. Tale narrazione assume così una forma a metà tra la registrazione d’atti (un tipo di scrittura diffuso negli uffici di diverse magistrature pontificie), ed il diario21. Il dossier, costruito in tal modo dai collaboratori del Marescotti, appare dunque funzionale all’esigenza di documentare con puntualità la diligente solerzia del cardinale, uomo di consumata esperienza curiale, molto attivo sia nelle Congregazioni per gli affari spirituali, sia in quelle deputate al governo temporale. La famiglia di provenienza, originata negli anni Trenta del Cinquecento dal matrimonio fra Sforza, un esponente dei Marescotti di Bologna, soldato al servizio di Carlo V, e Ortensia figlia di Beatrice,
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una Farnese del ramo di Latera, aveva consolidato il possesso di Vignanello – il feudo di primogenitura, situato fra Orte e Viterbo – attraverso tormentate vicende di contrasti con i vassalli e con la giustizia romana, che avevano portato perfino alla condanna a morte, poi condonata, del primogenito di Ortensia, Alfonso Marescotti nel 1592. Dopo la morte del figlio di quest’ultimo, Marcantonio, nel 1608, per mano di Ubaldino ed Ercole conti di Marsciano, a causa di contrasti sorti per Parrano (l’altro feudo della famiglia, nel contado di Orvieto), sembrò aprirsi una fase di rapporti più distesi fra i Marescotti ed i loro sudditi, mentre la famiglia iniziò una rapida ascesa, sia grazie a fortunati matrimoni, sia grazie alla brillante carriera ecclesiastica di alcuni suoi rampolli22. Il figlio di Marcantonio, Sforza Vicino, sposò Vittoria dei Ruspoli, famiglia fiorentina trasferitasi a Roma nel XVI secolo23. Il fratello di Vittoria, Bartolomeo, morto senza prole, lasciò erede del considerevole patrimonio di famiglia il nipote Francesco Marescotti, a patto che assumesse il proprio cognome24. Analogamente, una sorella di Sforza Vicino, Ortensia, sposò il marchese Paolo Capizucchi, attraverso il quale anche l’eredità di questa famiglia giunse nelle mani dei Marescotti, finendo al nipote della donna e fratello di Francesco, Alessandro Marescotti, che dovette pertanto assumere il cognome Capizucchi25. Galeazzo Marescotti, fratello maggiore di Francesco e di Alessandro, nacque a Roma nel 1627. Ebbe ottimi precettori e fu ascritto allo stato clericale fin dalla prima giovinezza. Il pungente poligrafo ed agente di Cosimo III de’ Medici, Gregorio Leti sottolinea il fortunato tentativo del Marescotti di legarsi ai Barberini e la non meno fortunata circostanza per la quale, dopo la morte di Urbano VIII, l’ascesa al soglio pontificio toccò ad un espo-
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Fig. 22. Sviluppo complessivo della strada consolare fuori di Porta S. Giovanni fino alle «Case Nuove», limite della manutenzione ordinaria nell’ambito del distretto di Roma. La carta, appartenente al Catasto Alessandrino (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, «Catasto Alessandrino», n. 429/23) è firmata dall’architetto Francesco Contini e datata dicembre 1659. La raffigurazione, che è caratterizzata da una certa ricchezza nel dettaglio idrografico, ci mostra, fra l’altro, il corso dell’Acqua Mariana che, per un tratto, lambisce l’osteria della «Posticciola». Il ponte al n. 27 è identificabile con il ponte «Greppare» nella tenuta di Torrecchiola o Castel Ginnetti. Il percorso rappresentato è lungo, come dichiara lo stesso Contini, 49 miglia e 110 staioli (km. 73,100 circa).
nente dei Pamphili, famiglia con la quale «i Marescotti havevano sempre passato un ottima corrispondenza»26. Il Leti riferisce che Galeazzo entrò in prelatura proprio per volere di Innocenzo X. E difatti è certa la nomina del Marescotti a protonotaro apostolico partecipante proprio nel 165027. Tuttavia, la forte accelerazione della carriera di Galeazzo coincise con il pontificato di Alessandro VII Chigi. Nel 1657 era referendario d’ambedue le segnature; nel 1661 fu inviato ad Ascoli Piceno come governatore; fu poi destinato inquisitore a Malta28 dal 1664 al 1666, anno in cui fu nominato assessore del S. Offizio29. Si delineava in tal modo un percorso che avrebbe condotto il Marescotti ad incarichi di vertice nel governo civile e religioso della Chiesa. Clemente IX Rospigliosi lo inviò come nunzio in Polonia dal 1668 al 167030. Fu in questa occasione che suscitò l’aspra ostilità della Francia nei suoi confronti, la quale finì per essere, almeno in ap-
parenza, la causa più rilevante della sua esclusione dal trono pontificio31. Tuttavia, l’ascesa di Emilio Altieri, che prese il nome di Clemente X, e la cui elezione fu dovuta in gran parte all’opera del cardinale Flavio Chigi32, dovette rappresentare una nuova chance per la carriera di Galeazzo33, il quale infatti fu inviato in qualità di nunzio a Madrid, ove rimase dal 1670 al 1675. Gregorio Leti sottolinea il grande favore che il Marescotti seppe guadagnarsi alla corte di Carlo II34: fu pertanto un capolavoro di mediazione politica del nunzio riuscire a conservare tale apprezzamento e, nello stesso tempo, smussare i contrasti fra il sovrano spagnolo ed il cardinal nipote Paluzzo Altieri, il quale s’era attirato le ire degli ambasciatori delle potenze europee a Roma, per aver cercato di colpire gli abusi compiuti per mezzo della franchigia doganale goduta dai diplomatici, introducendo nel 1674 un dazio del 3% su tutte le merci35.
I servigi dell’abile prelato; «qualche obligo di Patria» avvertito dal cardinal nipote, di antica famiglia romana, nei confronti di un «Cavalier Romano»; il desiderio del Paluzzi di rafforzare la propria fazione, costituirono ottime ragioni perché il Marescotti fosse nominato cardinale nella promozione del 27 maggio del 167536. Il papa lo inviò poi suo legato a Ferrara, ove rimase dal 1676 al 1680, intrattenendo, a detta del Leti, ottimi rapporti con i sudditi e soprattutto con la nobiltà locale37. Il pontificato di Innocenzo XI Odescalchi, improntato ad un’energica azione moralizzatrice e di riforma, coincise, per un certo periodo, con l’opera pastorale del Marescotti, dal 1679 al 1684 vescovo della diocesi di Tivoli, ove promosse con un sinodo la riforma di quella chiesa e si adoperò per la realizzazione di molteplici abbellimenti della cattedrale. A Tivoli rimase legato anche dopo la rassegna del vescovato, fondando in quella città un monastero per le
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monache di S. Elisabetta, nel 1705, e disponendo cospicui lasciti per la cattedrale38. Tuttavia, accanto all’immagine dell’ «ottimo e santo Pastore» consegnata alle biografie ufficiali, la Relazione della Corte di Roma del conte d’Elci, altro agente del granduca di Toscana, giustappone il racconto di un episodio significativo della posizione occupata dal Marescotti nell’ambito del collegio cardinalizio. Si voleva che proprio a Tivoli, in casa del cardinale e per iniziativa del fratello, Alessandro Capizucchi, si fosse svolta, nell’estate del 1681, una riunione dei cardinali Chigi e Altieri per la riconciliazione delle due fazioni (la cui mancanza di compattezza aveva causato l’elezione dell’Odescalchi un outsider, dotato però di grande autorità morale39) e per favorire, al successivo conclave, l’elezione dello stesso Marescotti o del cardinal di Carpegna40. La Relazione, inoltre, presenta Galeazzo come stimato «dalle Creature, et aderenti [d’Altieri], si come dalli Zelanti»41. Non a caso Pastor, nel descrivere i partiti del conclave del 1700, colloca il Marescotti in quello che occupava «una specie di posizione di centro». Infatti, se da una parte imperiali e francesi assume-
vano posizioni inconciliabili, esasperate dalla questione della successione spagnola, dall’altra stavano gli zelanti «accordati[si] per trascurare ogni riguardo politico di nazione, amicizia, parentela, riconoscenza e interesse, per aver di mira solo il bene della Chiesa». In mezzo, i cardinali di Clemente X, fra i quali il Marescotti, e quelli di Alessandro VIII: per essi «vigeva ancora come avanzo del nepotismo il vecchio malcostume che i cardinali del Papa defunto per riconoscenza si mettessero pienamente agli ordini del cardinale nepote»42. In effetti il cardinal Galeazzo giungeva al conclave preceduto da un’ottima fama che lo poneva fra «i più idonei per non dire il superiore di tutti li Cardinali». Sostenuto da «sufficiente dottrina» nelle cariche ricoperte, ciò che colpiva era la «sua gran capacità, e [la] totale sua attitudine a qualunque negozio ricco di partiti, pronto ne’ rimedij, e forte nella difesa dell’Immunità ecclesiastica, e de diritti della S. Sede», anche se molti scambiavano il suo zelo per troppa severità, «superiore ad ogni rispetto umano»43. Dopo il servizio pastorale nella diocesi di Tivoli, egli s’era trasferito a Roma per assicurare la sua assidua presenza ai lavori degli organi di
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governo ai quali era stato destinato ed ai quali partecipò fino in tarda età, morendo a 98 anni, il 3 luglio del 1726. Il conte d’Elci sottolinea il suo impegno infaticabile44, il quale era applicato sia ai negozi del governo temporale, che si trattavano nelle Congregazioni del Buon Governo, della Consulta, delle Strade; sia agli affari del governo spirituale, cui rimandavano i delicati incarichi nelle Congregazioni dei Vescovi e Regolari, dell’Immunità, del Santo Offizio45. Tale perizia costituì, secondo il Moroni, il principale motivo dell’apprezzamento del Marescotti da parte dei cardinali riuniti nel conclave del 170046, tanto da essere, almeno in principio, il candidato più favorito per l’esaltazione al soglio pontificio47. Riguardo a questa intensa ed autorevole attività di governo occorre infine ricordare che il 4 luglio 1698 il prelato fu nominato da Innocenzo XII pro-camerlengo «pro interim», e che proprio a lui, in tale veste, il pontefice diresse il chirografo del 6 ottobre successivo, con il quale gli commissionava l’esecuzione della decisione di abolire una serie di cariche riservate alla nomina del camerlengo, sferrando così un altro duro attacco al «nepotismo» che si annidava non solo al vertice della Curia, ma a tutti i li-
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velli dell’amministrazione48. Il 3 dicembre veniva nominato camerlengo l’ex governatore di Roma, l’austero cardinal Giambattista Spinola49. Questa serie di atti materializza un cruciale momento di passaggio, in cui la figura del Marescotti – «creatura» degli Altieri e dei Chigi, ma anche uomo di alta mediazione e di grande esperienza di governo – rappresenta la «cerniera» fra vecchio e nuovo ed appare quasi come il liquidatore dell’eredità del cardinal Paluzzo Altieri, suo capo-fazione e potente camerlengo, morto il 29 giugno 1698 dopo ben trent’anni di esercizio della carica50. La Congregazione cardinalizia delle strade in occasione dell’anno santo 1700 Il descritto volume, proveniente dall’archivio privato del Marescotti, si apre con il verbale della seduta della Congregazione «super vijs, pontibus et fontibus», tenuta nel palazzo apostolico del Quirinale il 2 aprile 169951. Ad essa parteciparono 9 cardinali52, tra cui il camerlengo Giovan Battista Spinola. Intervennero, inoltre, il tesoriere generale53, il presidente delle strade Paolo Borghese, il segretario della Congregazione del Buon Governo Francesco Maria Caffarelli54, Prospero Marefoschi uditore del camerlengo, Silvio de Cavalieri commissario della Camera apostolica. Furono presenti, infine, Nicola Egidi maestro delle strade, l’abbate Vincenzo da Como uditore del tesoriere ed Antonio Velli procuratore fiscale del Tribunale delle strade. La composizione, allargata alle più alte autorità della Camera apostolica, riflette la complessità dell’operazione prospettata ed il carattere straordinario dell’impegno finanziario richiesto per essa55. La presenza di un prelato autorevole del Buon Governo è, del resto, significativa, dal momento che i lavori sulle consolari avrebbero dovuto incidere sulle disponibilità economiche di un gran numero di co-
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munità situate in tutto lo Stato ecclesiastico. A questo proposito si può qui notare che, accanto alla Presidenza delle strade, il Buon Governo avrebbe svolto in futuro un ruolo fondamentale nella gestione, sia finanziaria sia organizzativa, della viabilità maggiore nelle province del dominio pontificio, anche in occasioni straordinarie, come il restauro della via Flaminia iniziato nel 1706 e la campagna di lavori stradali per l’anno santo 177556. Scopo principale della seduta del 2 aprile 1699, l’unica attestata dai documenti esaminati, consisteva nell’assegnazione delle strade alla cura dei singoli cardinali. Ciò avveniva, come recita il verbale, «per bollettino ut dicitur a sorte»: almeno da un punto di vista formale, dunque, appare chiaro che la procedura voleva essere informata a criteri di imparzialità. Figurano destinatari delle sovrintendenze dodici cardinali. Alcuni nomi spiccano per la posizione di assoluto rilievo nel governo temporale come in quello spirituale. Nella tabella n. 1, in appendice, abbiamo posto i loro nomi, le strade assegnate ad ognuno, i nomi degli architetti preposti dal Tribunale delle strade a verificare la manutenzione dei rispettivi assi viari, denominati dalle porte attraverso le quali essi s’introducevano nella cinta muraria urbana57. Per permettere un confronto con le consolari oggetto della manutenzione ordinaria entro il raggio del distretto, abbiamo predisposto la tabella n. 2.1, con i nomi delle strade ed i rispettivi limiti previsti dall’appalto generale allora in vigore, stipulato dalla Presidenza delle strade con Giacinto e Domenico Ferelli il 7 febbraio 1693. Il cardinale Fabrizio Spada, segretario di stato e prefetto della Congregazione del Buon Governo, ebbe in sorte sia la consolare per Viterbo e Acquapendente, fino a Centeno, al confine con il Granducato toscano, sia le strade «che passano per la Toscana». Con quest’ultima espressio-
ne veniva indicato, probabilmente, l’itinerario che, staccandosi dal precedente a Montefiascone, si dirigeva verso Orvieto e di qui, per Castiglion del Lago ed Arezzo, vi si ricongiungeva in Firenze. A Lorenzo Altieri – pronipote del precedente camerlengo, il più volte ricordato cardinal Paluzzo – toccavano la consolare che seguiva l’itinerario dell’attuale Statale n. 3 Flaminia, fino a Sigillo, ma anche il percorso che da questa si dipartiva all’altezza di Foligno e proseguiva in direzione di Perugia. Per tutte queste strade, la competenza dell’Altieri veniva fissata al confine territoriale con il Ducato d’Urbino. La direttrice che da Foligno conduceva a Loreto (la cosiddetta Flaminia Lauretana), e le strade che si collegavano a Bologna, Ferrara e Ravenna, rimanevano assegnate a Francesco Barberini, già legato di Romagna dal 1694 al 169758 e poi prefetto della Congregazione delle acque e dei vescovi e regolari59. Sebbene non risulti qui esplicitamente, altre fonti inducono a pensare che la sovrintendenza del cardinale comprendesse anche la viabilità dello Stato d’Urbino60. A Pietro Ottoboni, già cardinal nipote di Alessandro VIII e cancelliere di S. R. Chiesa61, toccava la sovrintendenza delle strade fuori di porta Pinciana o Salaria: una seguiva la riva destra del Tevere, toccando il porto fluviale di Nazzano, lungo il precorso dell’attuale Tiberina62; un’altra, invece, alla sinistra del Tevere, seguendo per un tratto il percorso dell’attuale via Salaria, per Fontana di Papa, fino a Passo Corese, si dirigeva poi verso Poggio Catino63. Il termine della sovrintendenza dell’Ottoboni era posto al castello di Configni in Sabina. Veniva infine nominata anche una strada che giungeva nei pressi di Palombara. Ai confini abruzzesi con il Regno di Napoli si estendeva la competenza di Carlo Bichi sulla strada fuori di porta Pia, che, attraverso gli attuali percorsi della via Nomentana
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e Palombarese, raggiungeva la Salaria per Rieti64. Gaspare Carpegna, cardinal vicario di Roma e prefetto della Congregazione dell’Immunità, riceveva l’incarico di sovrintendere al restauro della strada che, da porta S. Lorenzo, per Tivoli, Vicovaro, Riofreddo fino al confine con il Regno, coincideva con l’attuale Tiburtina. A Del Giudice e a Marescotti erano affidate le due grandi direttrici meridionali: al primo la via per Frosinone e Ceprano, che seguiva in parte l’itinerario dell’attuale via Casilina65; al secondo la via per Napoli, ossia la pedemontana per Marino, Priverno e Terracina che era utilizzata dal servizio del procaccio. Vi erano, infine, le strade per il litorale tirrenico. Giovan Battista Costaguti si sarebbe occupato della strada che, per Albano ed Ariccia, conduceva a Nettuno; Gian Francesco Negroni di quelle situate alla sinistra del Tevere che conducevano ad Ostia ed alla zona paludosa verso Ardea e Nettuno66; Giovan Battista Spinola, il camerlengo, della strada alla destra del fiume, in pratica l’odierna via Portuense. Nicola Acciaiuoli avrebbe esercitato la sua sovrintendenza sulla via Aurelia, non solo fino al fosso del Marangone prima di Civitavecchia, come era previsto dall’appalto generale, ma fino al ponte sul Mignone e a Tarquinia67. Risulta ben evidente l’ampiezza del campo dell’operazione di restauro, la quale avrebbe dovuto comprendere, non solo le strade «consolari» per tutta l’estensione dello Stato ecclesiastico, ben al di là del distretto di Roma, ma anche le strade ad esse «collaterali» o «trasversali», finendo per coinvolgere, almeno in via di principio, anche la viabilità secondaria. E’ opportuno soffermarci qui un momento – richiamando l’opinione di una delle menti giuridiche più lucide dell’epoca – sulla classificazione che la giurisprudenza del tempo usava per graduare la diversa importanza dei tracciati viari.
Con riferimento ad una celebre definizione del Digesto68, il cardinal Giovan Battista De Luca enunciava l’usuale tripartizione delle strade in pubbliche, private e vicinali. Le vie pubbliche per eccellenza erano quelle che i Greci chiamavano «Basiliscas», gli antichi giureconsulti «Militares, Consulares vel Praetorias», i feudisti «Regales, regias, magistras seu stratas»; esse, in lingua volgare secondo l’uso dell’Urbe, erano anche dette «strade Romane»69. Si trattava delle strade maggiori, «le quali cominciando dalla città regia o metropoli continuano per tutte quelle parti del regno o principato, per le quali sono tirate le loro linee per il pubblico commercio»70. Dovevano definirsi, invece, private le strade che permettevano la comunicazione fra le consolari ed i vari centri abitati («vici, coloniae, castra»); oppure quelle che consentivano i collegamenti fra un centro abitato ed un altro dello stesso territorio, anche senza intersecare le consolari. Si chiamavano private, in relazione alle strade della prima specie, poiché non servivano alla comunicazione universale, ma all’uso circoscritto degli abitanti di determinati territori; tuttavia, dovevano intendersi pubbliche, in relazione a quei territori e ai loro abitanti71. La terza specie era rappresentata dalle strade vicinali, costituite attraverso il conferimento dei campi da parte dei proprietari e destinate principalmente all’uso e per la comodità di determinati poderi privati, sebbene, accidentalmente, potessero servire anche ad altri soggetti non direttamente interessati. Tali vie, il cui suolo apparteneva ai privati, potevano terminare nei pressi del mare, di un fiume o nelle vie consolari, oppure avere fine tra i campi dei poderi stessi72. La loro natura era quella di strade effettivamente private, cioè appartenenti ai singoli e destinate prevalentemente al loro uso e ai loro scopi. Per mutare tale qualità e divenire pubbliche, occorreva se ne dimostrasse l’u-
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so pubblico continuo da tempo immemorabile, oppure l’esistenza di un provvedimento della pubblica autorità che ne avesse reso pubblico il suolo e lo avesse destinato al pubblico passaggio. Prove di questo tipo, invece, non occorrevano per dimostrare, quando fosse stata contestata, la natura pubblica della prima e della seconda specie di strade, il cui transito non poteva essere impedito o limitato da alcun privato. Nella necessità di discernere fra pubblico e privato – come spesso occorreva fare nelle sedi giudiziarie, mancando una precisa distinzione delle strade stabilita per legge – ciò che bisognava considerare, secondo il parere de De Luca, era la destinazione della strada: se essa fosse stata costituita per utilità di alcuni poderi privati, sarebbe stata da considerarsi privata; se, al contrario, il suo uso fosse stato necessario «ad humanum commercium», essa era senza dubbio pubblica, talché, posto il requisito che iniziasse in luogo pubblico e finisse in luogo altrettanto pubblico, la presunzione era a favore della sua pubblicità, finché non fosse provato il contrario73. Se, dunque, il carattere distintivo delle strade pubbliche doveva fondarsi, non sulla pubblicità del suolo – come ritenevano alcuni, mal interpretando, a detta del De Luca, il diritto romano74 –, ma sull’uso, occorreva, comunque, distinguere le strade munite di «quella maggior pubblicità (…), acciò si possano dire (…) regie, o consolari, le quali cascano sotto la regalia, come destinate per la comunicazione di tutto il principato, ovvero di quella parte o provincia per la quale sono distinate, ed indi comunicare in altre parti del mondo, quando il mare o il fiume navigabile non le termini. Come propriamente son quelle, per le quali vanno i procacci e corrono le poste»75. Era dunque il legame fra l’organizzazione delle comunicazioni e le strade a determinare il rango di queste ultime. L’abbandono di un
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Fig. 23. Il territorio di Sermoneta e di Sezze fra il 1693 ed il 1697 (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. I, cart. 51, n. 17). La pianta - confezionata nel 1697 probabilmente per la risoluzione di controversie fra le due comunità confinanti, sul regime idrografico della zona - contiene elementi utili per esaminare, con maggior ricchezza di dettagli, il percorso della consolare fra Ninfa e Sezze. Per motivi di spazio non pubblichiamo le bandelle laterali della carta, nelle quali è contenuta la legenda. Il territorio rappresentato è caratterizzato da un’estrema ricchezza di corsi d’acqua che, scendendo dalla zona montuosa, o nascendo da sorgive anche attigue alla nostra consolare - indicata come «Strada Romana» - crea l’impaludamento della zona pianeggiante attraversata dalla «Via Appia». Le sorgive affioranti nei pressi della consolare (contrassegnate dai numeri 18, 19, 20, 21, 22 e 34) dànno origine ad uno dei maggiori corsi d’acqua della zona, il fiume «Portatura o Puzza», cui contribuisce anche il fosso «dell’Abbadia», distintinto dal n. 11. Il rivo, proveniente dall’abbazia di Valvisciolo «passa per le vigne e radici de’ monti di Sermoneta, attraversa la strada romana e scorre per li campi inalveato». Si tratta, con ogni probabilità del fosso che nel 1699 il Massari indicava come il «fosso detto fossato», sul quale la comunità di Sermoneta avrebbe dovuto costruire un ponte in muratura, per permettere un più sicuro attraversamento della consolare.
tratto viario da parte del servizio di posta o di quello del procaccio ne provocava il declassamento, che poteva significare un consistente ridimensionamento delle risorse destinate alla sua manutenzione. Poste, come abbiamo visto, sotto l’immediata protezione del principe, era logico che le strade consolari cadessero, per quanto riguarda la loro manutenzione, sotto la giurisdizione di
un funzionario alle sue strette dipendenze: come sosteneva De Luca, la guida di un chierico di Camera, il presidente delle strade, permetteva alla magistratura romana dei maestri delle strade di estendersi dal distretto dell’Urbe a tutto lo Stato ecclesiastico76. Ma in che modo tali affermazioni di principio trovavano pratica attuazione nella realtà? Nonostante
permanga una carenza negli studi recenti a proposito della manutenzione delle strade nelle province più immediatamente a ridosso dell’Urbe, in prima approssimazione si può dire che essa rifletteva le caratteristiche di un territorio costituito da un’aggregazione di entità eterogenee, legate al “centro” politico del dominio pontificio da rapporti diversamente modulati. Entro tale ag-
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gregazione spiccava, tuttavia, la posizione del distretto di Roma, la cui importanza si ripercuoteva sulle risorse finanziarie di un buon numero di comunità poste anche al di fuori di esso. Prima del 1680, la manutenzione delle consolari era effettuata, fuori di Roma, quando se ne presentava il bisogno, ed i lavori relativi erano affidati ad impresari scelti di volta in volta. Come spiega un magistrato delle strade e giurista dell’epoca, il costo delle opere, suddiviso tra vari soggetti, era determinato sulla base di uno «scandaglio», ossia la «nota de’ luoghi d’accommodarsi e stima del pagamento»77, redatta dall’architetto deputato dalla Presidenza delle strade. Il criterio generale
era che, «mentre i lavori si fanno fra le vigne, si tassano le vigne solamente, e quando i lavori si fanno tra Casali, si tassano i Casali, con li quali concorrono anco li Castelli, massime se la tassa è considerabile e molto più se li lavori passino li Casali. E quando le tasse sono eccessive per qualità e per quantità di lavori, si tassano anco li luoghi lontani e quelli, particolarmente, che, con le grascie e mercantie che portano a Roma, godono e ritraggono utilità dalla medesima via»78. Tale sistema presentava però notevoli inconvenienti. Innanzitutto, la scarsa attendibilità degli «scandagli» confezionati dagli architetti, che, per pigrizia, preferivano rifarsi a vecchie ripartizioni, non aggior-
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nate alle mutate situazioni delle proprietà. Ne nascevano perciò interminabili liti che coinvolgevano i soggetti tassati in base all’estensione dei terreni posseduti e adiacenti alle consolari. Ma annose controversie erano innescate anche dalle comunità. Infatti, «Le Città, Terre e Castelli sfuggono anco loro con varij pretesti il pagamento, o perché pretendino di non passare o non godere della via tassata, o perché sia ingiusta la tassa con la regola del sussidio triennale o altra regola simile, della quale si serve l’Architetto nel tassare, o perché habbino accommodata la via nel proprio Territorio a loro spese». Si moltiplicavano i ricorsi in appello, con i quali, di fatto, si procrastinava il pagamento
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della tassa, benché ormai i chirografi di diversi pontefici avessero stabilito il principio che «non possa dalla Camera Apostolica né da qualsivoglia Giudice sospendersi l’esecuzione delle tasse sotto pretesto d’appellazione o di ricorso». Il risultato era che, il «fabricatore», mal pagato forniva in generale un servizio alquanto scadente, quando non fosse inadempiente già per sua propria incuria o interesse. In conclusione: «tutto riflette in danno del publico, perché dove ha cominciato a guastarsi la via va crescendo la rottura e rende il transito impratticabile, e vie più dispendioso il lavoro di accommodarla»79. Non a caso fu un altro grande pontefice fautore di rinnovamento, Innocenzo XI, a promuovere il provvedimento che tentò di porre rimedio alla situazione, dopo che su questi temi la discussione era aperta già da molto tempo80. Il chirografo del giugno 168081 – con il quale si voleva ridurre la misura esorbitante delle tasse per le strade, più volte lamentata dai contribuenti – accoglieva la proposta di affidare ad un unico appaltatore la manutenzione delle strade consolari nel raggio delle quaranta miglia del distretto, sovvenzionandolo con «fisso e stabile pagamento», di 5.400 scudi annui, ripartiti dalla Presidenza delle strade «sopra tutte le Città, Terre, e Castelli soliti tassarsi per dette strade, possessori de casali, tenute, e vigne, et altri soliti tassarsi (…) per l’utile, e commodo privato, che ciascuno ne ricevesse». Si tentava così di organizzare in modo regolare il servizio di manutenzione, ponendo peraltro su basi di maggiore certezza la contribuzione che doveva finanziarlo. A prescindere dal successo che avrebbe avuto in seguito la soluzione scelta, il provvedimento indicava certamente lo sforzo di abbandonare il sistema delle riparazioni attuate in modo discontinuo ed irregolare, per evitare che la spesa assumesse dimensioni incontrollabili, e per imbrigliarla,
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invece, in una programmazione su base pluriennale. Sulla base delle indicazioni del chirografo, infatti, la Presidenza delle strade stipulava il 13 luglio 1680 un appalto, della durata di 25 anni, con l’architetto Carlo Fontana e Domenico Antonio Ferelli82. Il pontefice esplicitamente dichiarava che non era sembrato opportuno oltrepassare tale limite temporale – evidentemente ritenuto sufficiente a garantire gli appaltatori dagli inconvenienti che, quasi con certezza, avrebbero ostacolato il vasto ed impegnativo compito che si andavano assumendo –, ma nemmeno scendere sotto i 20 anni, «affinché vi fosse compreso l’Anno Santo prossimo venturo». L’accenno richiama la grande rilevanza che la scadenza giubilare doveva assumere nell’ambito della manutenzione stradale. A questo proposito, si può osservare che, nonostante il contratto fosse rescisso il 7 febbraio 1693, il nuovo appalto, contestualmente assegnato dalla Presidenza delle strade di nuovo a Domenico Antonio Ferelli (stavolta affiancato dal fratello Giacinto e non più da Carlo Fontana), prevedeva un termine che arrivava a coprire il tempo rimanente alla naturale scadenza della precedente convenzione83. Dopo la sua istituzione nel 1680, la tassa per la manutenzione delle consolari entro il distretto di Roma «come peso camerale fu per ordine della Sag. Congregazione del Buon Governo descritta in Tabella Camerale, acciò potesse dalle Communità a’ suoi debiti tempi pagarsi»84. Essa entrò, cioè, a far parte dei bilanci ufficiali di queste ultime: non solo di quelle presenti nel distretto, ma anche di alcune altre molto lontane da esso, in omaggio al principio che i loro cittadini «mercimonii causa», avevano frequente e quotidiano commercio con la città di Roma, nella quale trasportavano generi alimentari con pesanti animali, dannosi per la copertura stradale, come i perugini, gli ascolani, i norcini, ecc.85.
Fuori del distretto, la manutenzione delle strade consolari spettava, secondo De Luca, al principe e ai suoi magistrati, mentre quella delle altre strade pubbliche alle singole comunità nei territori di competenza86. Quanto poi fosse effettivamente efficace il controllo del potere centrale è discorso tutto da approfondire. Se non mancano interventi caratterizzati da una certa complessità e condotti dalla Presidenza delle strade, come quello del 1695-6 nel tratto Priverno-Terracina della nostra stessa consolare, per altro verso proprio la sovrintendenza del Marescotti sembra costituire, come vedremo, un esempio di controllo “debole” esercitato dal “centro” sui lavori stradali, nonostante essi fossero condotti in un’area più immediatamente a ridosso del distretto. Del resto, il principio recepito dalla giurisprudenza era che ciascuna entità autonoma presente nel dominio del principe dovesse provvedere nel proprio territorio («quilibet reficit in suo territorio»87) e, per conseguenza, sostenerne tutta la spesa. Ma, secondo i giuristi, tale regola poteva essere sicuramente applicata, senza alcuna controversia, laddove si fossero riparate le strade costruite entro le mura dei centri urbani, o in territori nettamente separati da una giurisdizione totalmente diversa, oppure laddove le opere avessero comportato una modica spesa. Se tuttavia si fosse trattato, ad esempio, di grandi ponti gettati su fiumi pubblici, costruiti o restaurati con spesa considerevole, utili in misura non secondaria alla mobilità delle popolazioni appartenenti alle comunità situate nei territori confinanti, in questo caso anche queste ultime avrebbero dovuto essere obbligate a partecipare alla contribuzione88. Tali situazioni richiedevano complesse valutazioni sia di ordine strettamente tecnico, per la realizzazione delle opere, sia di ordine giuridico, per la ripartizione delle spese fra una pluralità di soggetti che spesso potevano avere, anche nell’ambito della stessa pro-
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vincia, un rapporto diverso con il “centro”: per alcuni modulato dal tramite di ufficiali periferici della Curia romana (ad es. i governatori), per altri, dall’appartenenza al dominio della feudalità. Occorreva, insomma, un momento superiore di mediazione e di sintesi fra gli interessi delle differenti “periferie”, ed è logico pensare che proprio questo fosse il principale campo d’intervento della Presidenza delle strade, munita delle facoltà sulle strade extraurbane, di cui sopra abbiamo fatto cenno. Il De Luca affermava, infatti, che il presidente chierico di Camera soleva avvalersi dell’opera e del consiglio dei maestri delle strade, «come periti dell’arte» per la costruzione o il restauro di ponti e strade, anche di quelli situati nelle altre province, «ultra districtum»89. La sovrintendenza Marescotti al restauro della strada consolare fuori di porta S. Giovanni Lo «scandaglio» dell’architetto Massari ed il tracciato viario. Per tornare alla Congregazione del 2 aprile, il verbale di essa, richiamando precedenti interventi promossi in analoghe occasioni, riportava la decisione che, «conforme al solito», ciascun cardinale deputato scrivesse «lettere circolari» ai governatori delle comunità «per il raccommodamento delle strade (…) con prefissione de termini». Inoltre, veniva chiesto ad ognuno di loro un atto di «benignità», osservando quanto era stato stabilito «nelle Congregationi dell’antecedenti Anni Santi», e cioè «il Decreto che ciascheduno Eminentissimo si compiacesse per sgravio delle Communità spedire un Architetto a riconoscere le strade li erano toccate in sorte per farne scandaglio o pianta del bisogno per inviarli poi inserto nelle lettere circolari a detti Governatori delle città, terre castelli (…)»90.
I primi atti della sovrintendenza del Marescotti risultano immediatamente successivi alla riunione della Congregazione, a riprova della grande solerzia del cardinale. Il volume in esame, nella sezione, per così dire, “diaristica”91, attesta che già il 6 aprile egli muniva l’architetto Francesco Massari92 di una patente, in forza della quale avrebbe potuto chiedere aiuto ed assistenza alle autorità locali per l’esecuzione del compito che gli veniva assegnato: «visitare, riconoscere e descrivere lo stato di bisogno» della strada da riparare, «et facere relatione in scritto a tenore della instruttione che per ordine nostro gli sarà consegnata»93. Lo stesso giorno, infatti, l’architetto riceveva disposizioni molto dettagliate per la confezione del preventivo dei lavori. In primo luogo, egli avrebbe dovuto disegnare una pianta (Fig. 20) con la «diligente delineatione e descrittione di tutta la detta strada delli territorij, e con l’annotatione di ogni altra cosa e circostanza reguardevole per renderla ben chiara et intelligibile». In essa avrebbe dovuto indicare con i numeri ogni tratto della strada «presentemente guasto» e quelli «che possano guastarsi nei prossimi autunno ed inverno». In un foglio a parte, poi, avrebbe dovuto riportare, contrassegnati da numeri corrispondenti a quelli annotati sulla pianta, le descrizioni di «ogni passo o luogo che dovrà essere accomodato o meglio assicurato», con l’indicazione dei seguenti elementi: – ubicazione, cioè territorio o contrada e relativa giurisdizione civile e religiosa; – nomi dei proprietari dei terreni ai lati della strada da accomodare; – natura dei lavori da eseguire; – lunghezza e larghezza del tratto da accomodare; – spesa approssimativa dei lavori, per un «durevole accomodamento». Massari avrebbe dovuto descrivere anche le eventuali opportune mi-
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sure per sistemare «li passi de fiumi e fossi, o si passino per ponti, o per barche, o a guazzo», informandosi, inoltre, dei tratti di strada soggetti ad allagamento durante l’inverno, e riferendo quali accorgimenti fossero necessari per rimediare a tale inconveniente e con che spesa, «e se in caso di tali inondationi li passaggieri massime pedoni habiano altra strada per sfugirle». L’architetto doveva poi visitare le osterie in cui erano soliti alloggiare i passeggeri, e riferire su quelle che «restano scarse delle dovute commodità», con l’indicazione dei territori ove fossero situate e del nome dei padroni e degli affittuari. Il perito, infine, avrebbe dovuto firmare e giurare la relazione94. Massari, accompagnato da un capo mastro muratore pratico della strada, si metteva in viaggio il 9 aprile con un calesse «da vittura» impiegando sei giorni a portare a termine la visita. Le spese per il viaggio, il vitto, l’onorario erano sostenute personalmente dal cardinal Marescotti95. La relazione (o «scandaglio»), datata 15 aprile e consegnata il 2696, benché fosse giudicata «mancante di molte circostanze espresseli et incaricateli nella instruttione», rappresentava comunque il documento «tecnico» fondamentale, sul quale basare tutta l’operazione di restauro stradale. Il compito dell’architetto era dunque molto delicato: egli, come scriveva un giurista contemporaneo, non poteva limitarsi alla misurazione della terra (geometria), ma doveva anche fornirne la descrizione (geografia) 97. La sua funzione, infatti, non si esauriva nella misurazione delle strade, dei ponti e degli edifici, e nella valutazione dei lavori occorrenti, ma si esplicava anche nell’esplorazione del territorio, sia come insieme di elementi fisici, sia come articolazione di poteri e giurisdizioni diverse. L’esame dello «scandaglio», dunque, ci permetterà di formulare osservazioni relative ai lavori previsti e al tracciato viario oggetto di essi, ma anche di verificare quanto si è detto a proposito dei sog-
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Fig. 24. Pianta risalente, con probabilità, al XVII secolo, e raffigurante il territorio di Sonnino ed i confini con Priverno e Terracina (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. I, cart. 104, n. 178 bis). Avanziamo qui l’ipotesi che si tratti di una carta «stradale», legata cioè ad interventi di restauro sulla nostra consolare nel tratto fra Priverno ed il confine napoletano. Sono indicate, infatti, le distanze, in miglia, misurate sul tracciato. E’ possibile che la carta sia stata disegnata in occasione dei lavori che interessarono la consolare proprio in questa zona e che furono diretti dalla Presidenza delle strade di Roma fra il 1695 e il 1696 (vedi pag. 71 e nota 124, pag. 90). Se consideriamo le misurazioni stradali riportate, si troverà tuttavia che, non solo la distanza fra Priverno e Terracina è inferiore di circa 2 miglia rispetto quella da noi rilevata sull’attuale carta topografica (miglia 16,7, ossia km. 25), ma, fatto assai singolare, risultano errori evidenti nelle distanze fra le località intermedie. Fra l’osteria «Vecchia» o dei Maruti e «Fontana de’ Ban[diti]» (ossia «Fontana Frasso») la carta riporta la distanza di 2 miglia: sulla precisa mappa disegnata dall’ingegner Gaetano Astolfi nel 1797 (ASR, Collezione di-
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segni e piante, Coll. I, cart. 52/32 «1797. Paludi Pontine. Amaseno, allargamento») è possibile invece rilevare una misura minore di circa la metà (1 miglio e 100 canne). La distanza fra «Frassino» (o «Frasso») e Terracina, misurata sulla carta topografica, risulta di 7 miglia e non di 5. Il passaggio della consolare per la località dei «Tre Ponti» evidenzia un tracciato che doveva correre, per un buon tratto, dopo il ponte dell’abbazia di Fossanova, molto più vicino al fiume Amaseno di quanto non avrebbe fatto in seguito, come dimostra la carta pubblicata nella Fig. 28. Grazie ad una verifica sul Catasto Gregoriano (ASR, Congregazione Generale del Censo, Catasto Gregoriano, «Frosinone», mappa 194) possiamo affermare che i «Tre Ponti» sono da collocarsi nei pressi del «Ponte Nuovo di Sonnino» sull’Amaseno. Il «Fossaccio paludoso» si può identificare con il «Canalone di Sonnino» riportato dalla carta dell’architetto Massari (vedi Fig. 20). Interessante è infine notare, nell’angolo inferiore sinistro della carta, una variante della consolare: la strada, che ancora oggi passa adiacente alla ferrovia Roma - Napoli, per i laghi del Vescovo, risulta «prohibita a passagieri».
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Fig. 25 a/b. L’osteria della «Posticciola» o altrimenti «Torre di Mezza Via di Marino», oggi. L’osteria costituiva la prima stazione di posta, in uscita da Roma, sul percorso della consolare per Terracina e Napoli. La costruzione, attualmente sede di privata abitazione, appare incastonata nel complesso degli edifici prospiciente il lato nord-ovest del grande spiazzo sul qualele Scuderie Vecchie dell’ippodromo delle Capannelle. Dobbiamo alla squisita cortesia di Susanna Passigli il permesso di aver potuto consultare l’archivio dello scomparso storico francese, padre Jean Coste (segnatamente, i taccuini dei sopralluoghi, nn. 841, 842, gennaio 1990), che ha offerto precise indicazioni per l’individuazione del fabbricato (foto C. Iuozzo).
getti normalmente coinvolti nel finanziamento e nella conduzione delle opere di costruzione e manutenzione di strade e ponti. Vale la pena soffermarsi un momento sull’intitolazione del documento, che, definendo i limiti della visita, descrive in grandi linee il percorso della strada. L’ispezione dell’architetto iniziava «fuori di Porta S. Giovanni in Laterano» – l’espressione composita era utilizzata per denominare la strada nel suo complesso – proseguiva per Marino e Velletri, giungeva a Terracina e si concludeva, infine, allo «sportello», al confine col Regno di Napoli, dunque nel luogo detto dell’Epitaffio98. Nell’alto medioevo i collegamenti terrestri fra Roma ed il meridione della penisola si svolgevano lungo due direttrici, delle quali, la
prima ricalcava il tracciato dell’antica via Latina (Anagni, Aquino, Montecassino, Teano), mentre l’altra si andava spostando dal tracciato della via Appia ad un itinerario pedemontano che, partendo da Cisterna, passava per Ninfa, Sermoneta, Sezze, piegava a nord per includere Priverno; poi ridiscendeva verso sud, per Fossanova e lungo la valle dell’Amaseno, fino a Terracina. Studi recenti hanno comunque sottolineato come, almeno fino al XIII secolo, il tratto pontino dell’Appia, fra Terracina e Sezze, fosse ancora frequentato, nonostante l’impaludamento della zona, per essere utilizzato ai fini di un traffico di respiro locale. Jean Coste ha fatto inoltre efficacemente rilevare come la via pedemontana, raccordata per mezzo di diverse importanti traverse alla via
Latina, fosse, per notevole parte del medioevo, collegata da Cisterna a Roma ancora dal percorso dell’antica consolare. Solo nel corso del XIII secolo, lo sviluppo di Velletri ed una nuova fase di fondazioni castrensi produssero l’attrazione di quest’ultimo tratto stradale verso «una nuova direttrice Roma-Marino-Velletri, lungo la quale una via esiste[va] certamente alla fine del sec. XIII, senza per questo sostituirsi ancora all’Appia»99. Inoltre, l’abbandono di Ninfa produceva l’allontanarsi della strada da questo abitato, anche perché l’incremento della velocità di viaggio, permessa dal sistema della «posta», incentivava l’abbreviamento dell’itinerario. Coste ricorda le seguenti stazioni di cambio dei cavalli: Tor di mezza via di Marino, Marino, Mezzaposta, Velletri, Casafon-
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data, le osterie di Sermoneta e Case Nuove, Piperno, Maruti, Terracina100. Il percorso (Fig. 21) misurava circa 49 miglia (km. 73 circa) fino alle Case Nuove101. Di qui fino all’Epitaffio possono calcolarsi poco meno di 28 miglia (km. 41, 250)102. A proposito delle modalità di viaggio, si può osservare che il verbale della Congregazione del 2 aprile indica la nostra strada come quella che «fa il procaccio», alludendo al servizio di origine medievale, che precede la nascita e lo sviluppo della «posta» in età moderna. Le lettere spacciate dai mercanti medievali per conto di terzi venivano definite «del procaccio». In seguito si chiamarono «fanti del procaccio» coloro che svolgevano il servizio di recapito delle lettere indipendentemente dai consorzi fra i mercanti. Essi si muovevano a piedi secondo ritmi definiti con l’espressione «a giornata», interrompendo cioè il viaggio per i riposi, il pranzo ed il pernottamento103. La seconda metà del XV secolo vide lo sviluppo, anche nello stato ecclesiastico, di un nuovo servizio che inaugurò un’epoca di velocità fin’allora inusitate nella diffusione delle notizie: i corrieri (detti anche «cavallari alle poste»), servendosi di un sistema di stazioni («poste») collocate a distanze strategiche per permettere l’ottimale cambio dei cavalli, riuscivano, attraverso un galoppo continuato ed il viaggio notturno ininterrotto, a far recapitare i dispacci in tempi brevissimi per l’epoca. Il sistema era anche utilizzato per il movimento dei viaggiatori, sebbene fosse molto costoso. Fu allora che, pur conservando la modalità del viaggio «a giornata», i procacci «mostrarono di sapersi adeguare ai nuovi tempi e molti, passando alla cavalcatura, si specializzarono, oltreché nel trasporto di lettere, come vettori di merci fini e come accompagnatori di comitive di viaggiatori»104. Il servizio, la cui caratteristica era la regolare periodicità delle partenze – che si estese poco a poco anche al servizio dei corrieri – continuò a funzionare «fino all’alba del XIX
sec., conservando a lungo anche lo scambio dei dispacci. Quest’ultima funzione terminò dopo il 1734 tra Napoli e Roma, e verso Firenze nel 1788, allorché si attivarono i corrieri ordinari per le poste. Da Firenze e Venezia i procacci continuarono fino al 1807, in piena età napoleonica»105. Opere previste nel distretto. Per tornare allo «scandaglio» dell’aprile 1699, si può rilevare come in esso siano indicati, a sinistra, distinti da un numero d’ordine, la persona o l’ente cui spettava far eseguire i lavori o a cui essi sarebbero stati imputati in caso di inadempienza; segue una descrizione sintetica che precisa la località laddove eseguire le opere, la natura di queste ultime e le loro dimensioni (lunghezza in canne dei tratti stradali da accomodare), aggiungendo, a volte, maggiori dettagli tecnici; viene indicato, infine, il costo preventivato in scudi. Contrariamente a quanto previsto nelle istruzioni consegnate al Massari, che richiedevano un maggior dettaglio nell’elaborazione cartografica, soltanto i lavori più importanti, o gli elementi ritenuti di maggior rilevanza, risultano richiamati, per mezzo di numeri, dalla mappa allo «scandaglio»: la prima appare pertanto meno ricca di particolari rispetto al secondo. Per quanto riguarda il tronco di strada, che, partendo da porta S. Giovanni, passava per Marino, la macchia della Faiola, Velletri, Sermoneta, e giungeva fino all’osteria delle Case Nuove, sotto Sezze (Fig. 22), era previsto che i lavori stradali spettassero prevalentemente alla cura dell’appaltatore generale della manutenzione delle strade consolari. Sulle circa 77 miglia complessive (km. 114, 600) interessate dall’operazione di restauro, per quel primo tratto di 49, si poteva dunque sfruttare lo strumento “amministrativo” previsto per la manutenzione ordinaria della strada. Ciò risulta ben chiaro dal precetto che veniva invia-
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to all’appaltatore Giacinto Ferelli il 28 aprile. Ad esso veniva allegato uno stralcio dello «scandaglio», con i lavori ritenuti di spettanza. Il Ferelli avrebbe dovuto portare a termine «perfettamente, sodamente e durevolmente» l’accomodamento della strada in oggetto «per tutto il tratto contenuto da quella parte nell’obligo dell’Instromento del (…) appalto et signanter nelli luoghi e con li lavori infrascritti [cioè quelli indicati dall’architetto Massari] e quella mantenere bene accomodata almeno per tutto l’anno santo imminente». Si stabiliva un termine di otto giorni per l’inizio delle opere, che avrebbero dovuto essere portate a termine entro il successivo mese di maggio. In caso d’inadempienza, sarebbero stati inviati architetti, muratori ed altri operai per rilevare i lavori non fatti o non eseguiti secondo la prescrizione, e per effettuarli o perfezionarli: il tutto a spese, danni ed interessi del destinatario del precetto. Il tono particolarmente perentorio dell’ordine è rafforzato dalla minaccia, di «ogni rigore (…) oltre alli danni, spese et interessi sudetti [e] altre pene corporali e pecuniarie ad arbitrio di S. E. il card. Marescotti»106. Per il tratto spettante all’appaltatore l’architetto aveva prescritto lavori per 523 scudi, ossia il 13,2% del totale preventivato per tutta l’operazione (3952 scudi e 90 baiocchi). Ferelli avrebbe dovuto provvedere ad opere in genere consistenti nel risarcimento dei vari tipi di copertura stradale: massicciata, selciata «a secco» o «a calce». Tuttavia, nell’area del distretto anche altri soggetti avrebbero dovuto curare l’esecuzione di taluni interventi. Lavori di rifacimento dei canali di deflusso delle acque, dopo il ponte di Acquasanta, si prescrivevano all’Ospedale del SS. Salvatore «ad Sancta Sanctorum», per una proprietà adiacente alla strada107. Ciò era conforme, del resto, all’«Editto sopra la Politura e Scauatione de’ Fossi e Forme adiacenti alle Strade Consolari», emanato il 10 febbraio 1699 dal presiden-
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Fig. 26. Gli edifici della tenuta di Torrecchiola o Castel Ginnetti, già appartenuta all’omonima famiglia veliterna. L’antica consolare per Terracina e Napoli (ancora oggi denominata «Via vecchia di Napoli», nel tratto situato nel territorio comunale di Velletri) è qui ripresa in direzione di Roma. Sullo sfondo le alture del monte Artemisio, sede della macchia della «Faiola». Il fabbricato a sinistra è attualmente sede di un grazioso centro di agriturismo (foto C. Iuozzo).
te delle strade Paolo Borghese, concernente l’obbligo di tenere puliti e profondi i fossi di deflusso delle acque, da parte dei proprietari dei terreni adiacenti alle strade consolari entro il distretto di Roma108. Le opere venivano valutate 25 scudi, lo 0,6% del totale. Inoltre, veniva preventivato, nella misura di 30 scudi, un intervento di sistemazione dell’argine del fosso dell’«Aqua Mariana», che durante le piogge straripava allagando la strada dopo l’osteria della «Posticciola di Marino» (Fig. 25). A questo proposito, lo «scandaglio» del Massari individuava nel capitolo di S. Giovanni, titolare della giurisdizione sull’Acqua Mariana, il soggetto responsabile dei lavori: essi erano però da porre a carico, per la parte finanziaria, dei proprietari o degli affittuari dei mulini che venivano alimentati dalle acque del fos-
so109. Come vedremo in seguito, da tale determinazione dell’architetto sarebbe scaturita una controversia fra i mugnai ed il capitolo. Intanto, con lettera del 28 aprile, Marescotti intimava ai canonici «camerlenghi» di S. Giovanni di provvedere a far perfezionare, entro il maggio seguente, le opere previste, e di tenerlo informato sul punto, «perché habbia la consolatione di non dover mandare al principio di giugno a farli a loro spese danni et interesse»110. Sempre entro i confini del distretto, il tratto di strada che attraversava l’abitato di Marino sarebbe stato affidato alle cure ed al finanziamento di quella comunità. Veniva prevista una spesa di 110 scudi (il 2,8% del totale), 80 dei quali da mettere a carico dei proprietari delle cantine adiacenti ad un tratto della consolare poco fuori del borgo111.
Marino era feudo del connestabile Filippo Colonna112, e pertanto al suo luogotenente spettava la sorveglianza sull’esecuzione delle opere. Tale sorveglianza si sarebbe esercitata, come vedremo, anche sui lavori da eseguire, non solo nell’abitato, ma nel resto del territorio della comunità di Sonnino, altro feudo del Colonna, situato però fuori del distretto113. Lo «scandaglio» del Massari seguiva il tracciato stradale dopo Marino, lungo il percorso dell’attuale via dei Laghi: «Palazzola», la «Casetta delli Corsi nella Macchia della Faiola». Nel tratto dopo Velletri – la cui comunità non figura nella relazione dell’architetto – la competenza dell’appaltatore appare affiancata da quella di altri due soggetti. Il marchese Ginnetti avrebbe dovuto provvedere a risarcire la selciata e rifare i fossi entro il territorio del proprio
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casale di Torrecchiola o Castel Ginnetti (Fig. 26), per una spesa prevista di 96 scudi, pari al 2,4% del totale114. Così anche Gaetano Francesco Caetani, principe di Caserta e duca di Sermoneta115, avrebbe dovuto contribuire all’intervento di restauro stradale, facendo eseguire lavori di sistemazione idraulica nei pressi del «portone» guardato dalla torre di Acquapuzza (Fig. 27): in questo punto, laddove la consolare attraversava il territorio di Sermoneta, i passeggeri pagavano un pedaggio al duca (Fig. 23). Le opere erano valutate 70 scudi, l’1,8% del totale116. Opere previste fuori del distretto. Dopo l’osteria di Case Nuove, nel territorio di Sezze, cessava la competenza dell’appaltatore: i lavori di restauro della strada, anche nei tratti extraurbani di essa, venivano imputate alle comunità nei rispettivi territori. Le autorità locali, governatori pontifici e feudatari, avrebbero avuto il compito di sollecitare le opere, esercitare la sorveglianza su di esse, dirimere le controversie che ne sarebbero potute nascere. L’immediata esecuzione dei lavori e l’onere finanziario di essi sarebbero ricaduti invece sulle comunità interessate. La comunità di Sezze, secondo il Massari, doveva provvedere ad interventi di sistemazione stradale ed idraulica per 345 scudi (l’8,7% del totale), dei quali, però, ben 320 valutati per la sistemazione di un fosso che danneggiava la strada in un tratto la cui manutenzione spettava ancora all’appaltatore117. Alla comunità di Priverno toccava l’onere di opere per 583 scudi e 50 baiocchi (14,8%), dei quali, 160 preventivati per la costruzione di un ponte nei pressi del confine con il territorio di Sezze, e 240 per il rifacimento dei fossi laterali di scolo e la costruzione di un ponticello nei prati di «Perneto»118. Interventi valutati in una somma molto ingente avrebbe do-
vuto far eseguire il cardinal Carlo Barberini119, abbate commendatario di Fossanova, laddove la consolare scavalcava il fiume Amaseno: lo «scandaglio» metteva a preventivo ben 1167 scudi (il 29,5% del totale), 1000 dei quali per il rialzo della sede stradale dopo il ponte dell’abbazia. Sul tratto, della lunghezza complessiva di quasi un miglio, si sarebbe dovuto ricostituire, inoltre, il manto di breccia120. La comunità di Sonnino era chiamata a contribuire con lavori del valore previsto di 520 scudi (13,2% del totale), dei quali 432 per il rialzo e la copertura di breccia di un tratto lungo complessivamente 300 canne121. Infine, la comunità di Terracina veniva investita della responsabilità per opere il cui costo previsto ammontava a 483 scudi e 40 baiocchi (12,2% del totale). Accanto ai soliti interventi per il rialzo della sede stradale, poi da «imbrecciare» o selciare (complessivamente 138 scudi), figurano lavori finalizzati a liberare diversi tratti della consolare dalla vegetazione e ad allargare la carreggiata (scudi 265) 122. Opere di costo rilevante da ripartire fra più soggetti. Occorre aggiungere che lo «scandaglio» del Massari metteva in preventivo altre due grandi opere, il cui finanziamento avrebbe dovuto ottenersi attraverso la ripartizione di una «tassa» fra più comunità e soggetti diversi, attesa la considerevole entità della spesa. La partecipazione a quest’ultima era motivata dall’«utile» che essi avrebbero tratto dalla realizzazione degli interventi, oppure dalla rispettiva parte di responsabilità nel deterioramento della consolare, come nel caso della sovvenzione dei lavori idraulici proposti per il fiume Amaseno. In primo luogo, nel territorio di Sermoneta si sarebbe dovuto realizzare un ponte sul fosso «detto fossato» (Fig. 23), con un costo previsto di 400 scudi da ripartire fra vari enti e persone: «et a questa tassa pare che debano concorre-
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re l’Abadia di fossanova goduta dal Sig. card. Barberini, le comunità di Terracina, Piperno, Rocca Secca dei Sig.ri Massimi, Rocca Gorga de Sig.ri Ginnetti et il Sig.r Barone Gavotti»123. In secondo luogo, Massari proponeva un intervento che, a suo parere, avrebbe risolto definitivamente il grave inconveniente causato dal fiume Amaseno dopo l’abbazia di Fossanova (Figg. 24, 28). Il problema, rappresentato dalle esondazioni del corso d’acqua, non era stato superato dai costosi lavori condotti dalla Presidenza delle strade nel 1695-6. Gli interventi proposti in quella circostanza sembra consistetero, sostanzialmente, nel rendere di nuovo agibile un itinerario alternativo al tratto della consolare dopo l’abbazia di Fossanova, la «strada detta della Pedicata», e nell’attuazione di tutta una serie di misure intese a liberare il corso dei fiumi dagli sbarramenti costituiti dalle peschiere, a spurgare gli alvei e a chiudere le «rotture» negli argini124. Nonostante le opere effettivamente realizzate125, all’architetto Massari l’agibilità della consolare appariva, in quella località, ancora gravemente compromessa dal regime delle acque. L’Amaseno, infatti, durante le piogge, «riceve i tributi delli scoli delle montagne, orgoglioso esce dal suo letto e versa nella strada consolare [che] per quattro miglia resta inondata dall’acque di detto e non possono i passaggieri continovare il suo viaggio e [riempie] con le sue acque l’altro fiume»126. Inutili si erano rivelati, secondo l’architetto, i rimedi presi dal cardinal Carlo Barberini, abbate commendatario, per mettere riparo con una «passonata» alle cinque «rotture» che il fiume aveva fatto in località «capomare». Occorreva intervenire – proseguiva il Massari – per diminuire la forza della corrente e «slargare il letto del fiume Amaseno palmi 15, in lunghezza circa miglie 6, alto il taglio dal terreno al pelo dell’acqua». La spesa, calcolata in circa 2400 scudi, avrebbe dovuto essere ripartita fra «tutte le Communità
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di terre e castelli che hanno li scoli dell’acque in detto fiume, e le tenute adiacenti». Si sarebbe in tal modo messo fine ai malumori delle comunità e, concludeva l’architetto con un’immagine suggestiva, «si liberaria una strada consolare che è la pupilla dell’occhio del Prencipe»127. I soggetti da tassare erano individuati, secondo i criteri del Massari, nei signori Gavotti, nell’abbazia di Fossanova e nelle comunità di Terracina, Sonnino, Priverno, Roccasecca, Maenza, Roccagorga, S. Lorenzo, Giuliano, Gavignano, Prossedi, Pofi, S. Stefano e Castro dei Volsci128. Il controllo ed il finanziamento dell’operazione. Dall’esame dei documenti emerge con evidenza l’accortezza del cardinale, ben consapevole di poter fare affidamento su mezzi economici limitati, e quindi determinato a sfruttare al meglio le risorse disponibili. Ciò appare chiaramente, oltre che dalla decisione di sollecitare il Ferelli ad interventi già previsti dall’appalto per la manutenzione ordinaria della consolare entro il distretto, anche dalla condotta assunta per gli interventi prospettati fuori di esso. Considerata la misura ingente della spesa ed i lavori, «che non saranno pochi» nei tratti della strada non spettanti all’appaltatore generale, l’esperienza suggeriva di rivolgersi tempestivamente alla Congregazione del Buon Governo, affinché accordasse alle comunità le autorizzazioni necessarie per l’impiego immediato delle risorse finanziarie già presenti nelle loro casse. In una lettera del 27 aprile, Marescotti pregava il segretario della Congregazione, monsignor Francesco Caffarelli, di informarlo sulla consistenza di tali fondi, che in un secondo momento sarebbero stati reintegrati con la ripartizione di «collette», ossia di contributi straordinari fra i cittadini: «perché essendo incerta la somma che vi si richiederà [nei lavori stradali], e richiedendo tempo considerabile l’impositione e termi-
Fig. 27. La torre di Acquapuzza incombente sul percorso della consolare per Terracina e Napoli, (foto C. Iuozzo).
natione delle medesime [collette] per le dispute che sogliono incontrarvisi degli interessati e per le difficoltà nell’esigerle, non riuscirà certamente il fare in tempo proportionato li lavori». Nell’attesa delle informazioni richieste, il cardinale sollecitava comunque «qualche lettera della Sac. Congregatione del Buon Governo diretta alle Comunità medeme per l’impronto del denaro necessario»129. Il giorno seguente, tuttavia, il Marescotti inviava senza indugio uno stralcio dello «scandaglio» al cardinal Barberini per l’abbazia di Fossanova, al duca Gaetano Francesco Caetani per Sermoneta, al marchese Ginnetti per il casale di Torrecchiola130. Il testo delle missive, adattato nella forma alla dignità dei vari destinatari, evidenzia in tutte la volontà di lasciare a costoro ampia autonomia, limitandosi a fissare il ter-
mine per il compimento dei lavori alla fine del seguente mese di giugno. «Son certo – scriveva per esempio il Marescotti al marchese Ginnetti – ch’ella così per incontrare il gusto di Nostro Signore come per sollevare me da tal briga si compiacerà, senza che io habbia a pensar ad altro, di dar ordine et invigilare non solo che sia subito posto mano alli lavori e siano perfettionati dentro il sudeto tempo ma anche che li medemi assieme con tutto il resto della strada per quanto durano li territorij di loro Signori siano per tutto l’Anno Santo mantenuti immuni da ogni accomodamento con avvisarmi adesso se basti questo cenno o debba io far altra parte per conseguire l’intento, et a suo tempo che siano stati perfettionati li lavori».
Mentre Filippo Colonna veniva informato per il tramite di Francesco Maria Capizucchi, nipote del Marescotti, il cardinale scriveva il 1° maggio a monsignor Filippo Leti, gover-
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natore di Campagna e Marittima, trasmettendogli la lista delle opere da realizzare nei territori di Sezze, Priverno, Terracina, le cui comunità, appartenenti al dominio diretto della S. Sede, erano poste sotto la sua giurisdizione. E’ interessante notare come il cardinale sottolineasse in questa lettera la preoccupazione che i lavori fossero ultimati entro il mese di giugno, «prima che li contadini habiano ad attendere alle faccende delle raccolte». L’accenno allude probabilmente alla prassi d’impiegare, per i lavori stradali, anche manodopera contadina reclutata o precettata dalle autorità locali, in appoggio a maestranze più specializzate. Infine, non mancava la raccomandazione che il governatore si occupasse delle strutture d’accoglienza, affinché «le hosterie situate entro i limiti del [suo] governo siano bene e con pulitia provedute di tutto il bisognevole per commodo de Passaggieri». Risulta evidente, dalle stesse esplicite espressioni usate dal Marescotti nelle lettere circolari alle autorità locali, la volontà di lasciare a queste ultime ampi spazi di manovra, ma anche, come vedremo, tutto l’onere di dover superare il malcontento delle comunità chiamate a sostenere la totalità della spesa. La contribuzione alle opere stradali straordinarie costituiva, inoltre, una rilevante occasione di scontro con gli ecclesiastici, il cui numero sovrabbondante ed il cui peso economico all’interno delle società locali rendeva il loro regime d’immunità fiscale assolutamente insopportabile ai laici. La contribuzione dei laici e degli ecclesiastici. Per quanto atteneva al finanziamento dei lavori ben presto giungeva alle comunità l’autorizzazione della Congregazione del Buon Governo a spendere il denaro di cui esse già disponevano nelle proprie casse. Il 9 maggio il cardinale Fabrizio Spada, prefetto della Congregazione131, fir-
mava una circolare diretta al governatore di Sermoneta, ai vicari del Colonna, al governatore di Marittima e Campagna e al vice governatore di Velletri. Ai destinatari veniva ordinato di porsi a disposizione del cardinale sovrintendente, «con fare che a questo effetto [il restauro della consolare] la Communità si vaglia del denaro che ha più pronto per poi imporre la colletta». A quest’ultima avrebbero dovuto partecipare anche gli ecclesiastici; ma, per tutte le questioni relative a questo affare, il Buon Governo si faceva da parte, invitando le autorità locali a rivolgersi ai vescovi delle rispettive diocesi, ai quali la Congregazione dell’Immunità avrebbe inviato istruzioni132. Come registra il ricordato verbale del 2 aprile relativo alla Congregazione per la riparazione delle strade, per ordine del papa il cardinal camerlengo aveva disposto che la tassa straordinaria da imporre per finanziare i lavori «pro hac vice tantum respectu futuri anni sancti», non doveva gravare soltanto sulle comunità di città, terre e castelli, cioè sui laici, ma anche sugli ecclesiastici dello stato133. In applicazione di questo decreto, il prefetto della Congregazione dell’lmmunità ecclesiastica, il cardinal Gaspare Carpegna134, provvedeva a diramare il 5 maggio una circolare diretta a tutti i vescovi dello stato ecclesiastico interessati all’operazione di restauro delle consolari135. La disposizione riflette quanto la giurisprudenza aveva elaborato a proposito della partecipazione degli ecclesiastici alle spese per opere di pubblica utilità. Crediamo utile richiamare brevemente i termini della questione, facendo nuovamente riferimento ai testi giuridici di Giovan Battista De Luca. L’immunità ecclesiastica, fondata in ultima analisi sul diritto divino, interessa qui nell’aspetto che viene definito «reale», cioè quello riguardante le chiese e le persone ecclesiastiche e le loro cose, ritenuti esenti dalle gabelle, collette, contribuzioni e altri pesi lai-
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cali imposti dal principe e dalla città136. Anche in relazione alle tasse dovute specificamente per il restauro o la nuova costruzione di strade e ponti, mura rocche, acquedotti, fonti, argini, o per la bonifica delle paludi, ed altre cose simili concernenti la pubblica utilità, non vi era dubbio, secondo De Luca, che gli ecclesiastici avessero diritto, in linea di principio, a godere dell’esenzione. Il problema nasceva, tuttavia, dall’applicazione di questa regola alle situazioni concrete, per discernere le quali andava osservata una fondamentale distinzione137. Se le spese di cui parliamo avessero riguardato, in via primaria, il pubblico utile dei cittadini «jure universo et populari», la tassazione avrebbe dovuto colpire indifferentemente tutti i cittadini e gli abitanti del luogo, con una colletta personale o mista, che gravasse cioè sulle persone, secondo la misura dei beni posseduti («per aes et libram»), senza riguardo alla localizzazione di essi. Trattandosi per esempio di terreni, non era rilevante se essi fossero adiacenti o no alle strade, ai ponti o alle altre opere da finanziare. In questo caso, secondo il giurista, l’opinione maggiormente recepita dalla Curia romana era quella dei canonisti e dei dottori di filosofia morale, i quali insegnavano che gli ecclesiastici dovessero essere esentati da ogni imposizione, per la ragione che, sebbene anch’essi fossero stati beneficiati dalle opere eseguite, sopportavano altri oneri, di carattere spirituale (preghiere, penitenze, riti sacri, cura delle anime) e necessari al bene e alla custodia del popolo cristiano138. Se, invece, si fossero realizzate opere pubbliche giovevoli, in via primaria, alla privata utilità, cioè vantaggiose soprattutto ai terreni vicini, alla loro coltivazione o salvaguardia, al trasporto dei loro frutti, e ad altre simili utilità, sebbene ne fosse scaturita, accessoriamente, una utilità pubblica, o «popularis», a favore an-
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Fig. 28. Le Paludi Pontine, la via Appia ed il percorso della «Via di Napoli», nella pianta di Gaetano Rappini (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. II, cart. 51, n. 19 «Carta delle paludi pontine secondo le osservazioni fatte nell’anno 1777»). Abbiamo ritenuto interessante riproporre questo disegno ben conosciuto – opera di uno dei principali artefici della bonifica pontina promossa da Pio VI – poiché in esso è esplicito il riferimento ad un’evoluzione del percorso della nostra consolare nel tratto dopo dopo Fossanova, verso Terracina. Il tracciato della «Strada Romana abbandonata» si era svolto in precedenza più accosto all’Amaseno e aveva incontrato, prima della «posta dei Maruti», il corso del «fosso di Sonnino». Le frequenti inondazioni avrebbero dunque provocato lo spostamento più a monte della «Via di Napoli», secondo una soluzione già prospettata nel 1695-6, ma probabimente attuata solo successivamente (vedi p. 71).
che di altri soggetti, che beni e poderi non possedessero in quel luogo: in tal caso, la tassa o colletta da imporre, sarebbe stata «mere realis», stabilita, cioè, in misura e proporzione di quei terreni e beni immobili che avessero tratto beneficio dai lavori realizzati. In relazione a questo tipo di contribuzione, l’immunità ecclesiastica non avrebbe dovuto essere operante. Tali oneri, infatti, non provenivano dal principe o da altre magistrature secolari, come titolari di un potere giurisdizionale di tipo costrittivo, ma scaturivano dalle necessità connaturate ai beni stessi, come poteva essere, ad esempio, quel-
la di proteggere i terreni dalle inondazioni mediante la costruzione di argini. L’autorità pubblica agiva, cioè, in ragione di una necessaria «oeconomicae administrationis», in nome dei singoli, poiché la natura di quelle opere esigeva un’esecuzione uniforme per essere efficace e conveniente. L’onere che ne derivava era dunque inerente ai beni, non alle persone, ed esserne esentati voleva dire, in realtà, accollare ad altri le spese per la propria privata utilità, con conseguente immorale arricchimento ai danni del prossimo139. Tuttavia, secondo De Luca, il diritto non poteva fornire una guida
sicura per discernere fra i diversi tipi di collette ed applicare il più adatto: occorreva piuttosto esaminare la questione caso per caso, non nascondendosi tutta la difficoltà della decisione e quindi la possibilità che sorgessero spinose controversie140. Sulla tassa relativa alla manutenzione delle consolari il giurista era stato comunque molto reciso: la contribuzione dovuta dai proprietari delle vigne e dei casali presenti nel distretto di Roma rientrava nella specie degli oneri concernenti in via principale l’utilità privata. Infatti, a causa del trasporto dei frutti e degli spostamenti necessari alle coltiva-
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zioni, con i carri e con gli animali, le strade erano soggette al deterioramento e necessitavano di una continua opera di manutenzione. Non si poteva pertanto ammettere, per la tassa in questione, alcuna immunità degli ecclesiastici, ed andavano senz’altro abolite quelle fin’allora godute dai chierici di Camera e da altri ufficiali camerali141. Tale parere era stato fatto proprio dalla Congregazione particolare, deputata nel 1677 da Innocenzo XI alla discussione del problema, sulla spinta delle numerose proteste levatesi dai proprietari del distretto contro i privilegiati, ed alla quale aveva partecipato anche il De Luca in qualità di uditore del papa142. Infine, il chirografo del 22 giugno 1680, istitutivo dell’appalto generale e della «tassa fissa» delle strade consolari, richiamava esplicitamente quel parere e stabiliva che alla contribuzione dovessero essere soggetti tutti, senza distinzione di privilegio. Nella Congregazione particolare De Luca, esponendo i suoi argomenti, aveva fatto cenno, fra l’altro, alla contribuzione «magis generalis» per la riparazione delle strade che si soleva effettuare per tutto lo Stato ecclesiastico in occasione degli anni santi. Siccome «universalis» e principalmente ordinata per la comodità dei pellegrini, questa tassa poteva forse essere interpretata piuttosto come afferente alla specie delle spese orientate in via primaria al pubblico bene, «iure universo». Tuttavia, sosteneva il giurista, qualunque cosa avvenisse nelle altre città e luoghi dello stato, se, cioè, si procedesse per via di colletta personale o reale, «giusta l’uso di ciascuna comunità», era cosa certa che nell’agro e nel distretto di Roma, anche in quella speciale occasione, si usava imporre una tassa non differente da quella ordinaria, di tipo «meramente reale»143. Il discorso di De Luca sembra dunque alludere a diversi modi di ripartizione delle spese per gli interventi sulla viabilità al di fuori del distretto di Roma, accennando agli
«usi» delle differenti comunità locali144. Non si può in questa sede approfondire il discorso. Basti qui dire soltanto che, in una situazione caratterizzata da una molteplicità di sistemi impositivi, il governo pontificio, in occasione dei lavori stradali per gli anni santi, manifestava la volontà di limitare l’immunità ecclesiastica anche laddove si fossero imposte tasse e collette di carattere «personale» o «misto». La contribuzione degli ecclesiastici a questo tipo di imposizioni era infatti ritenuta possibile quando ricorressero sei requisiti che i canonisti ricavavano dal diritto delle decretali: consenso del papa; consenso del vescovo e del clero; pubblica utilità della tassa; utilità riguardante parimenti laici ed ecclesiastici; insufficienza delle risorse dei laici, talché la contribuzione del clero avesse carattere di sussidio; esazione effettuata dall’autorità ecclesiastica competente, e non dal magistrato secolare145. Richiamato l’assenso del pontefice, la circolare del Carpegna del 5 maggio 1699 non mancava, infatti, di riferirsi anche agli altri requisiti su ricordati. Innanzi tutto, essa specificava che la partecipazione del clero agli oneri in parola si configurava in «modo di sussidio in sì straordinario bisogno»: non si presentava, cioè, come una diminuzione dell’immunità, ma come la concessione di un aiuto straordinario da parte degli ecclesiastici ai laici. Dal novero di coloro che dovevano prestare tale sussidio («Ecclesiastici secolari e regolari, Cavalieri di Malta, i padri della Compagnia di Gesù, et ogni altra Persona privilegiata e privilegiatissima») erano escluse le monache, come già si era usato in precedenti simili occasioni. Inoltre, la Congregazione dell’Immunità, in quanto sede pertinente per regolare la misura del sussidio, stabiliva che ciascuno dei soggetti sopra nominati dovesse essere tassato «per la quantità e qualità de beni che ciascuno di essi possiede, la terza parte di quella porzione che per la stessa quantità e qualità si pagarà
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dal laico: di modo che se questo pagarà per dieci rubbia di terreno tre paoli, l’ecclesiastico per altrettanta quantità debba pagarne uno». La «tassa» avrebbe dovuto «formarsi et ordinarsi rispettivamente dal prelato o da chi altro sarà destinato da uno de Sig.ri Cardinali della S. Congregazione deputata da Sua Santità sopra l’accomodamento delle strade». Tuttavia, il potere coattivo di far pagare, «senza dilazione», gli ecclesiastici che possedessero beni nella diocesi rimaneva riservato al vescovo; anche se, per non vanificare l’efficacia della disposizione con il ricorso a cavilli giudiziari, «dalla medesima tassa [non avrebbe potuto] darsi ricorso alcuno in sospensivo, ma solamente in devolutivo»146. Destinatari della circolare, relativamente all’ambito sottoposto alla sovrintendenza del Marescotti, erano i due vicari generali delle diocesi suburbane di Albano e di Velletri ed il vescovo di Terracina. A quest’ultimo però la comunicazione veniva fatta pervenire dal cardinale attraverso il governatore di Marittima e Campagna, con una raccomandazione forse dettata da ragioni di cautela, atteso lo stato di tensione che caratterizzava i rapporti fra ecclesiastici e laici nelle comunità della provincia, proprio a causa della questione dell’immunità fiscale147. Il Leti, infatti, avrebbe dovuto recapitare la lettera al vescovo «a tempo proprio (…) operando nel retto, secondo la sua solita prudenza e zelo»; mentre il Marescotti gli prometteva che «cooperarò ancor io di qua secondo che V.S. Ill.ma mi andarà insinuando»148. A proposito di quelle tensioni e di quei malumori può essere citato un interessante documento relativo ai lavori stradali ed idraulici, ai quali sopra abbiamo fatto cenno, e che nel 1695-6 avevano interessato la nostra consolare nei territori di Sonnino e delle comunità limitrofe. In quella occasione l’architetto Simone Felice De Lino aveva compiuto un sopralluogo ed aveva dato le opportune disposizioni
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«non solo per il sicuro stabilimento di detta strada, e libero corso dell’acque, che prima la rendevano impratticabile, per esser impedite principalmente dal Gavotti padrone della tenuta del Morello, ma anche acciò alcuna delle tre Università interessate [scil. Priverno, Sonnino e Terracina] non havessero giusto motivo di dolersi d’esser gravate; ne nacque in conseguenza che le possessioni spettanti a Luoghi Pij, ecclesiastici e secolari di quest’Università adiacenti alla detta strada si resero e sono rese notabilissimamente buonificate a segno che se per lo passato era quasi certa la perdita d’ogni seminato, oggi è quasi infallibile il lucro et indubitato l’accrescimento del valore di dette possessioni».
La comunità chiedeva pertanto che, almeno per l’onorario del De Lino, potesse imporre una colletta da ripartire, però, soltanto fra quei proprietari «li quali ne hanno avuta dall’Architetto l’utile e la difesa». I lavori ordinati dal De Lino erano stati infatti finanziati attraverso l’imposizione di collette generali che avevano colpito indistintamente tutti i cittadini. Da tali collette, tuttavia, le proprietà ecclesiastiche erano comunque potute sfuggire, nonostante che, in quella occasione, la contribuzione del clero fosse stata espressamente prevista da un chirografo papale. Sosteneva il luogotenente baronale il quale appoggiava la richiesta della comunità: «l’Università, che di proprio nulla possiede nell’adiacenza di detta strada, [non] sentì, o puol sentire immaginabile utilità [dai lavori realizzati], havendo bensì provato il gravamento dall’esser stata astretta a concorrere alle grosse collette imposte per la construzione o reattazione di detta strada, e tanto maggiormente per non essersi potuto imporre giustamente le collette per aes et libram secondo la rettissima intenzione di Nostro Signore, mentre li luoghi Pij et ecclesiastici, che qui sono la maggior parte, puoco o nulla tengono registrato de’ Beni che possiedono nel Publico Catasto, con cui vanno regolate le dette collette che s’impongono per aes et libram»149.
Ancora una volta sono posti a confronto i due diversi sistemi di tas-
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sazione, di tipo «reale» e di tipo «misto» (cioè «personale-reale»). Ed è interessante notare che, anche laddove all’imposizione della seconda specie fosse obbligato a partecipare anche il clero per disposizione pontificia, quest’ultima fosse poi, nei fatti, resa scarsamente operante per la carenza nei sistemi di accertamento fiscale, a tutto vantaggio degli ecclesiastici. L’esecuzione degli interventi. Difficoltà, controversie, varianti In quale misura il piano dei lavori prospettati dall’architetto nel suo «scandaglio» ebbe concreta realizzazione? Quali furono le difficoltà e le resistenze incontrate dalle autorità locali, sulla collaborazione delle quali il Marescotti aveva fatto pieno affidamento? Quali varianti significative intervennero a modificare le previsioni del Massari? E’ impossibile un preciso consuntivo, anche per la mancanza di documentazione “tecnica”, che, se fu prodotta nella fase preliminare dei lavori, sembra essere assente nel momento della verifica finale della loro esecuzione. Si possono comunque formulare alcune osservazioni sulla base della documentazione contenuta nel dossier raccolto dal cardinale sovrintendente. Nella lettera datata 9 maggio da Frosinone, il governatore di Marittima e Campagna assicurava al Marescotti che si sarebbe portato di persona a Sezze, Priverno e Terracina per dare impulso ai lavori spettanti a quelle comunità, e per vigilare che essi fossero eseguiti in modo conforme alla perizia dell’architetto. Ben presto, tuttavia, sulle spalle del governatore sarebbe ricaduto l’onere imprevisto di dover affrontare una variante del preventivo alquanto dolorosa per le popolazioni della sua giurisdizione. Si presentava infatti la necessità di modificare l’imputazione delle cospicue opere, valutate 1167 scudi, assegnate al cardinal Carlo Barberini in quanto abbate commendatario di Fossanova. A
provocare un tale mutamento di rotta erano state le precisazioni che lo stesso Barberini aveva espresso al Marescotti. Il cardinale abbate aveva posto una duplice questione relativa allo stauts della sua commenda e all’ampiezza della formula con la quale la Congregazione dell’Immunità aveva designato i soggetti privilegiati tenuti a partecipare al finanziamento straordinario. Una memoria registrata nel volume in esame espone il pensiero del Barberini e dà quindi conto della successiva decisione del Marescotti. «Havendo il Sig. Card. Barberino Abate dell’Abadia di fossa nova mandato a dire al Card. Mariscotti che l’Abadia di fossa nova da lui goduta non era esenta et egli non vi aveva alcuna giurisditione da potersene valere per fare accomodare la strada aconto delli interessati, e che li beni della sua Abadia non erano tenuti a concorrere a tal spesa non solo perché l’anno santo passato non erano concorsi alla spesa di tal accomodamento di strade ma anche perché la lettera della Sac. Cong.ne dell’Immunità (…) non comprende li Cardinali per non esser in essa nominati, essendo speciali mentione degni150, massime legendovisi nominati li Cavalieri di Malta, e li Padri Giesuiti, fu creduto che il Sig. Card. Barberino dicesse bene, e però fu stimato necessario mutar ordine, et incaricare a Mons. Governatore di Marittima e Campagna anche li lavori da farsi nel territorio della Abadia di fossa nova»151.
Il 13 maggio, infatti, il cardinal Marescotti inviava a monsignor Leti la nota dei lavori in un primo tempo affidati alla cura del Barberini, pregandolo di «ordinare a chi spetta che siano fatti sollecitamente e poi anche mantenuti»152. Il governatore, per cavarsi d’impaccio, aveva sollecitamente cercato d’investire della questione l’affittuario dell’abbazia, De Carolis, ma quest’ultimo aveva declinato ogni responsabilità al riguardo, presentando un memoriale che Leti rimetteva al Marescotti e che ulteriormente chiarisce le ragioni avanzate dal Barberini. Innanzi tutto, De Carolis si dichiarava «mero affittuario» dell’abbazia, «col solo
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peso di pagare l’Affitto» e, dunque, in ordine al compito di riparare la strada, si sarebbe dovuto interpellare direttamente il commendatario. Tuttavia, sulla scorta delle informazioni avute, egli poteva formulare alcune considerazioni. «Pare – osservava De Carolis – che il s.re Cardinale Carlo come Abbate Commendatario dell’Abbadia non possa essere gravato di tassa particolare secondo sogliono gravarsi le Communità de luoghi che hanno territorio separato»: infatti, l’abbazia «non è Terra o Castello con Popolo, ma un semplice monastero, che il di cui Abbate Commendatario non ha né territorio né giurisdittione alcuna, ma solo possiede i suoi beni nei territori di Piperno, Sonnino, Rocca Secca et altri luoghi convicini». Se dunque l’abbazia non poteva essere considerata alla stregua di un luogo baronale, cioè con separata giurisdizione civile, né come un’abbazia «nullius diocesis», cioè con separata giurisdizione religiosa, allora il cardinale commendatario avrebbe potuto soltanto «esser astretto a contribuire alla colletta che ripartiranno le communità di Piperno, Sonnino et altri luoghi nei territorij de quali possiede i beni secondo che dalle medesime saranno collettati gl’altri possidenti nel territorio per esiger da essi ripartitamente la tassa che viene imposta a ciascheduna communità». Poste dunque queste ragioni, delle quali – sosteneva il De Carolis – anche il Leti era «restato persuaso», la conclusione non poteva essere che «le strade adherenti ai beni [che] l’Abbatia possiede nei territorij di Piperno e Sonnino» dovessero essere accomodate dalle comunità di quei luoghi, «le quali quando ottengano la facoltà di far contribuire gli ecclesiastici e specialmente i Sig.ri Cardinali (…) potranno ripartire la (…) colletta anche in sua Eminenza a proportione de beni che l’Abbazzia possiede ne loro territorij». Tuttavia, De Carolis si diceva informato che «Nostro Sig.re non ha voluta conce-
der la facoltà di comprenderli [scil. i cardinali] e sottoporli al rifacimento delle strade, al quale nemeno concorsero nell’Anno Santo passato, nel quale la felice memoria del S. Card. Francesco Barberini era Abbate Commendatario dell’Abbatia di Fossa nova, e non pagò cosa alcuna per la tassa delle strade». La situazione non si presentava facile per il governatore di Marittima e Campagna, il quale riferiva al Marescotti che «sentiti li particolari di Piperno asseverantemente dicano non toccar a loro il reattamento di quelle strade che spettano all’Abbadia di Fossanova, ancor che si potesse dire essere nel territorio di Piperno, come suppongono si sia praticato altre volte, e particolarmente anni santi come è bene informato lo stesso Architetto». Per quanto atteneva poi ai lavori stradali pertinenti ai beni dell’abbazia presenti nel territorio di Sonnino, il governatore asseriva di non avere competenza alcuna, «per essere [Sonnino] luogo baronale e non soggetto a questo governo»153. Il Marescotti, tuttavia, rimaneva sulle sue posizioni, accogliendo pienamente le osservazioni del Barberini. Laici ed ecclesiastici della comunità di Priverno dovevano, senza alcun dubbio, accollarsi i lavori spettanti in un primo momento all’abbazia. «Quanto poi alle strade situate nel territorio di Sonnino essendosene assunta l’incombenza il Sig. Domenico Arigoni magiordomo del Sig. Contestabile potrà sdossarsene V.S. Ill.ma»154. Le incombenze del governatore erano state comunque già alleggerite da una precedente decisione del Marescotti. Nella lettera del 13 maggio a monsignor Leti, ricordando le due grandi «operationi» preventivate dal Massari – il nuovo ponte «sopra il fosso detto fossato prima che si arrivi all’hosteria della Posta di Sermoneta», nonché l’allargamento dell’alveo dell’Amaseno per sei miglia – il cardinale riferiva di aver «supplicato Nostro Signore ad esimermi da tal incombenza et appoggiare la cu-
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ra a mons. Borghese Presidente delle Strade in riguardo dell’interesse che in ambedue detti lavori puol havervi il Sig.r Angelo Gavotti marito di mia nipote155, e per qualche altro rispetto, e Sua Santità si è degnata di essaudirmi onde rispetto ad essi detto Prelato provederà». La decisione, affidata anch’essa ad una memoria presente nel dossier in esame, può probabilmente ascriversi alla volontà del Marescotti di mostrarsi ossequioso dell’orientamento antinepotistico del pontefice; ma sembra dettata anche dalla necessità di lasciare la realizzazione di opere particolarmente complesse e dal costo rilevante alle cure di un organo fornito di maggiori competenze tecniche156. Nonostante ciò, l’azione del Leti incontrava varie difficoltà. Innanzitutto, il ritardo dei lavori rispetto a quanto previsto e prescritto. In una lettera indirizzata al cardinale nel luglio, il governatore riferiva che, recatosi nella Marittima «per riconoscere ocularmente tutte le operazioni che dovevano farsi per il riattamento delle strade di Terracina, Piperno e Sezze», aveva appurato che le opere erano soltanto all’inizio, essendo sopraggiunte le necessità della mietitura, terminata la quale esse sarebbero state condotte con ogni diligenza: «e dalli quattro deputati per ciascuno di detti luoghi unitamente colli commissarij che da me sono stati eletti a tal effetto, mi si renderà stretto conto di quanto si andarà operando». La sorveglianza del governatore veniva dunque effettuata sia attraverso visite personali, sia attraverso propri delegati (commissari), cui erano affiancati, secondo l’uso, rappresentati eletti dagli interessati (deputati). Il Leti sperava che i lavori sarebbero stati portati a compimento entro il mese di ottobre, e, a scusare in qualche modo il ritardo, adduceva che, data la stagione estiva, «ora le strade [non sono] tanto guaste che possino essere da queste incomodati i passeggieri». Non mancavano, tuttavia, ostacoli di altro tipo. Cresceva la tensio-
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ne con la comunità di Priverno. Per quanto concerneva, infatti, i lavori assegnati ad essa, ma in un primo tempo spettanti al Barberini, il governatore asseriva di aver ordinato alla comunità di «soccombere alla spesa senz’altra replica, ma mal volentieri si appaga quel Pubblico, mentre pretende di non esser tenuto, e mi scrive voler far ricorso all’E.V. per mezzo dell’Agente di detta Communità (…) Io però non mancarà d’insistere che si dia pronta esecuzione a quanto mi è stato imposto da V.E. se dalla medesima non mi viene comandato diversamente (…) implorandomi il suo alto Patrocinio appresso S. S.tà per mezzo del quale posso sperare ogni mio avanzamento»157. Non tutti i mali erano dunque fatti per nuocere. Essere disponibili a garantire la pronta e puntuale esecuzione dei comandi del cardinale, nonostante malumori e tensioni nelle popolazioni, veniva presentata dal Leti come un buon titolo per meritare l’appoggio del Marescotti nel frangente di una promozione che – come appare da un’altra lettera – doveva essere ritenuta prossima158. D’altra parte, la comunità di Priverno non si rassegnava certo a soggiacere passivamente agli ordini del governatore; anzi, non si peritava di ricercare un patrocinio al più alto livello, inviando un memoriale al pontefice, per supplicarlo di «compiacersi ordinare che debba l’istesso [il cardinal Barberini] resarcire a sue spese la detta strada, et in quella parte che sta situata dentro la sua Abbatia, essendo l’Oratrice povera, e perché lo stesso si è praticato altre volte dal medemo Sig.r Cardinal Commendatario, che ha resarcita detta strada consolare nel territorio di Sonnino dove parimente s’estende la detta Abbatia (…), supplicandosi ancora la Santità Vostra concedere a tal effetto ogni facoltà necessaria all’E.mo Sig.r Cardinal Marescotti»159. Venivano poi allegate testimonianze, raccolte a Priverno da alcuni «fabri murarij», secondo le
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quali essi erano stati compensati dal Barberini per aver, tre anni prima, accomodato la strada consolare «esistente nel tennimento [dell’abbazia di Fossanova] in territorio di Sonnino, principiando dal Ponte detto dell’Abbattia verso Terracina»160. Del resto un memoriale della comunità di Sonnino, diretto al Marescotti, confermava queste circostanze e ricordava la «spesa considerabile» sostenuta dai «poveri cittadini», per le riparazioni alla medesima strada effettuate nel 1696. Abbiamo sopra richiamato le lamentele dei cittadini di Sonnino a proposito delle collette imposte per il finanziamento di quei lavori. Così come in quella occasione, anche nella presente la comunità ribadiva la richiesta che la tassazione gravasse soprattutto sulle proprietà adiacenti alla strada e colpisse anche quelle degli ecclesiastici. Supplicava dunque il cardinale di voler favorire un’equa ripartizione della contribuzione, soprattutto per ciò che riguardava lo spurgo dei fossi posti ai lati della strada, intervento spettante ai proprietari adiacenti, «essendo raggionevole che chi sente il commodo habbia a soffrire l’incommodo». Pertanto, i rappresentanti di Sonnino chiedevano al Marescotti di voler comunicare «le sue facultà al vice Principe del medesimo luogo o ad altri che pareranno all’E.V., acciò che questo possa obligare et astringere tanto ecclesiastici, come regolari, e luoghi Pij, et acciò possi tassare ciascheduno»161. Le difficoltà incontrate dal Leti nei territori della sua giurisdizione non cessarono neppure quando, terminato il raccolto, le opere furono riprese con celerità. Il 4 ottobre, egli poteva comunicare al cardinale che esse erano state portare a compimento, secondo quanto gli riferivano i commissari ed i deputati delle comunità, ma, nello stesso tempo, era affatto «sospesa l’operazione che si doveva fare nelli beni spettanti all’Abbadia di Fossanova territorio di Piperno». La situazione era divenuta assolutamente paradossale, a cau-
sa della puntigliosa difesa dei propri interessi da parte del Barberini. Le pretese di quest’ultimo erano infatti ingiustificate, dal momento che – a parere del governatore – «non reca a detta Eminenza alcuno pregiudizio ciò che è necessario di fare in detto territorio». Dopo essere stati costretti a por mano ad un lavoro che non ritenevano dovesse loro spettare, i cittadini di Priverno avevano ricevuto un «monitorio», pervenuto su istanza dello stesso cardinale, nel quale venivano diffidati a che «proseguis[sero] l’impresa», consistente nello «slargamento della strada resasi impraticabile per i cavi fatti dall’acqua», e nello «smacchiamento delli cespugli et altri alberi infruttiferi, che occupano il potersi riguardare dai malviventi soliti a ricovrarsi in detto luogo, dove per il passato sono accadute diverse grassazioni». Per cautela, monsignor Leti inviava al Marescotti copia della diffida, «affine che venendole qual che ricorso per dette strade non attribuisca a mia trascuraggine se non si è dato in ciò esecuzione alli veneratissimi comandamenti dell’E.V.»162. Paradossalmente, il «monitorio» del Barberini giungeva a proposito per trarre d’impaccio il governatore, fornendogli un’ottima motivazione per scusare la mancata realizzazione delle opere previste. Il timore espresso dal governatore non era per un’eventuale ispezione tecnica inviata da Roma, ma per i possibili ricorsi di privati viaggiatori. La risposta a monsignor Leti arrivava a stretto giro di posta, rivelandoci che, per altra via, Marescotti aveva appreso delle concessioni fatte dal suo interlocutore agli uomini di Priverno, evidentemente per vincerne la resistenza a sobbarcarsi oneri ritenuti ingiusti. Ancora una volta era piena l’adesione del cardinale sovrintendente alle pretese del Barberini, fino a disapprovare gli accordi presi in sede locale dal governatore con la comunità. Scriveva infatti il cardinale che
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«la difficoltà del ministro del Sig.r Cardinale Barberini non era in lasciar sfrascare e slargare la strada nel territorio dell’Abadia di fossa nova ma in lasciare che in pregiuditio del Sig.r Card. Abate li laici si valessero et appropriassero il legname e frasche che si tagliaranno come avvisa haver V.S. Ill.ma data facoltà alli laici d’appropriarsele, et in ciò detto ministro dice bene perché il legname e frasche che si tagliano come frutto dell’Abatia deve rimanere a benefitio del Sig. Card. Abate: essendomela dunque io intesa con S.E. siamo rimasti che V.S. Ill.ma faccia accomodare, slargare e sfrascare la strada con che però si lascino intatti gli alberi anche giovani che non formano aguato, e che il legname che si taglia resti ivi a dispositione di S.E., al qual effetto assisterà anche il ministro dell’Eminenza Sua»163.
La vasta operazione di riattamento della consolare, nel il tratto fra Priverno e l’abbazia, attraverso le selve appartenenti a quest’ultima, implicava dunque lavori di allargamento della sede stradale e di diboscamento. Tutto ciò rappresentava una buona causa per il riacutizzarsi di mai sopiti conflitti d’interesse fra gli uomini della comunità e il monastero: un dissidio certo di antica data, e le cui asprezze sono rivelate dalle parole del governatore, il quale stigmatizzava le «eccessive strettezze» del ministro del cardinal Barberini nei confronti dei deputati della comunità, ai quali erano state negate «poche frasche e fascini ascendenti al valore di giulij cinque al più, che occorrevano per accommodar certo passo reso impratticabile per il fango del terreno scavato»164. Laddove i lavori interessavano regioni boschive e comportavano il diradamento della vegetazione che attanagliava la sede stradale, invadendo e dissestando la carreggiata, o esponendo i viaggiatori agli agguati dei grassatori, trovavano occasione d’inasprimento anche contrasti provenienti dall’interno delle comunità, proprio perché gli interventi potevano offrire ad alcuni individui la possibilità di tentare qualche fortuna intaccando le risorse comunitarie. Testimonianza in tal senso può con-
siderarsi un memoriale, inviato al Marescotti da Luca Rospetti, Giovanni Antonio Simeone ed altri campieri di Terracina, fatti incarcerare dal governatore per aver tagliato gli alberi di sughero di una grossa macchia, ai lati della consolare, nei pressi del confine del Regno di Napoli. Gli oratori dichiaravano di aver agito «su’ li proietti di esso Architetto», intesi ad allargare la sede stradale, per evitare i frequenti assalti dei banditi, «specialmente in tempo che vi fu rubbato la felice memoria dell’E.mo Caraccioli Arcivescovo di Napoli». Essi perciò si erano «stesi a tagliare e polire diligentemente li lati di detta strada, che si rende celeberrima l’opra anche con l’esaltatione di lode di V.E., mentre da orrido bosco è divenuto seminatorio». Ne era immediatamente scattata la reazione della pubblica autorità: «Hora il Sindico di questa Città – esponevano i campieri – a suggestione de privati interessati, che tengono con dovuta riverenza poche bestiole, s’è fatto ardito querelarli sotto il pretesto d’haver reciso arberi di poco frutto, quando la communità medema ne ritrahe maggiore per l’annua risposta di grano, et il privato l’utile della propria fatiga, colla sicurtà di non potervisi refugiare malviventi». Questa volta il Marescotti, respingendo la richiesta di liberazione avanzata dai carcerati e, supponendo che essi avevano agito per loro esclusiva iniziativa, approvava l’operato del governatore, alla cui «prudenza e giustizia» non trovava nulla da aggiungere165. Come nel corso dei lavori stradali nel territorio di Priverno, anche qui le esigenze di sicurezza della viabilità si scontravano con la difesa gelosa di risorse economiche che rivestivano nell’area un ruolo fondamentale. Il patrimonio boschivo, infatti, costituiva una delle voci più cospicue delle entrate che la comunità di Terracina soleva affittare a grossi imprenditori per periodi novennali166. Tentativi come quelli dei campieri terracinesi erano dunque destinati na-
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turalmente ad infrangersi contro tali forti interessi. Interessi e conflitti locali di vario tipo, attivati dai lavori stradali sulla consolare, possono rilevarsi anche da quanto scrive il notaio pubblico di Priverno, Orazio Visca, al Marescotti, in una lettera del 20 ottobre. La premessa sintetizza la geografia stradale del luogo: «due sono le strade consolari in questo territorio cha da Piperno andavano a Roma, una si dice la via delle selce e sta alquanto bene, e l’altra è denominata la strada delle grazie, e questa è la più breve, più piana, la più sicura da malviventi e la più frequentata, e quest’ultima strada s’è alquanto devastata perché l’acqua d’un fosso, al quale se li è atturato il solito et antico corso di quello, e la detta strada è divenuta fosso nell’inverno». Visca proponeva perciò d’intervenire per restituire al corso d’acqua il suo precedente andamento, e di ordinare ai proprietari adiacenti di pulire i canali ai lati della strada, sicché essa «si renderebbe la più commoda della prima», tanto più che in essa si trovano tre «cone»167 fatte costruire in occasione dei precedenti anni santi, «per commodo (…) de viandanti in tempo da pioggie, e queste si sono devastate dal tempo, che con poca spesa si potrebbero riattare». Spia evidente dei contrasti presenti nella comunità sulla questione è la conclusione del notaio, che afferma di aver recato la notizia al cardinale affinché, «acciò parendo al suo prudentissimo giuditio opportuno il farla aggiustare [la strada «delle grazie»], ne possa dare gl’ordini opportuni, con supplicare per ogni buon fine l’Eminenza Vostra a tenermi celato il nome per non dovere incontrare cimenti che sono evidentissimi»168. Posti sullo stesso piano del governatore, i feudatari rispondono direttamente al cardinale sovrintendente, per quanto riguarda l’esecuzione dei lavori preventivati nei rispettivi territori. In essi gli interessi delle popolazioni locali potevano trovare una certa protezione da par-
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te dei loro signori, almeno nel caso in cui questi ultimi avevano assunto personalmente il compito di sorvegliare la conduzione delle operazioni, senza delegarlo ai loro vicari. Era appunto quanto accadeva per Sermoneta, la cui comunità poteva contare in quel momento sulla presenza del Caetani, a differenza di Marino e di Sonnino, feudi del connestabile Colonna, personaggio più importante, ma certo più lontano. Gaetano Francesco Caetani, sin dal principio, si metteva personalmente in contatto con il Marescotti: dopo aver ricevuto la lista delle opere preventivate dal Massari – il cui costo previsto ammontava, lo ricordiamo, a 70 scudi – rispondeva al cardinale mostrando prontamente di volersi fare interprete delle ragioni dei propri vassalli, i quali asserivano di non ritenersi obbligati a sostenere gli oneri loro addossati, dal momento che già contribuivano all’annuale «tassa fissa», destinata al compenso dell’appaltatore delle strade consolari dentro il distretto di Roma, «acciò venghino quelle del territorio ben accomodate». Il tratto della strada consolare che attraversava il territorio di Sermoneta ricadeva certamente nella competenza dell’appaltatore. Tuttavia, occorre richiamare la circostanza che il contratto d’appalto, stipulato dalla Presidenza delle strade nel 1693 con i fratelli Ferelli, obbligava questi ultimi ad occuparsi soltanto della pulizia dei canali di scolo adiacenti alla consolare169, mentre le opere imputate alla comunità di Sermoneta concernevano la regolarizzazione del flusso delle acque scorrenti dai rilievi posti a monte della strada. Comunque sia, il Caetani spediva a Roma le ricevute dei pagamenti della «tassa fissa» effettuati dalla sua comunità e copia del contratto d’appalto, chiedendo che venissero fatti salvi i diritti dei suoi sudditi. Tuttavia, nel caso fossero stati ribaditi gli obblighi di costoro, si diceva pronto a dare sollecite disposizioni per l’effettuazione dei lavori, pregando, al-
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tresì, che alla spesa fossero fatti partecipare anche gli ecclesiastici, «in riguardo massime che la maggior parte degl’adiacenti son’essi»170. Ancora più significativo era l’appoggio accordato dal duca ai suoi sudditi, al fine di far giungere la loro voce al cospetto del cardinale sovrintendente, col risultato di propiziare l’introduzione di un’altra significativa variante nelle opere previste. Il Massari aveva prospettato, come sopra abbiamo visto, la costruzione di un ponte di pietra, valutato 400 scudi, sul tratto della consolare attraversato dal un fosso detto «fossato», nei pressi dell’osteria di Sermoneta. La realizzazione dell’opera, come abbiamo visto, fu affidata in un secondo momento alla cura del presidente delle strade. Quest’ultimo provvide, infatti, nei primi mesi dei giugno, all’emanazione di un atto preliminare alla ripartizione della tassa fra le comunità designate, con il quale esse venivano invitate a rappresentare le loro eventuali ragioni contrarie entro il termine di quindici giorni171. Le valutazioni dei rappresentanti di una comunità riuscirono, in questo caso, a modificare la perizia prodotta da un tecnico e fatta propria dalla Presidenza delle strade. Nel giugno stesso il duca Gaeano Francesco annunciava al Marescotti la vista del capo priore di Sermoneta, per rappresentargli la situazione del fosso sul quale si sarebbe dovuto costruire il ponte in muratura. Il Caetani abbracciava totalmente il punto di vista dei sermonetani: «l’acque non hanno sempre la strada per una parte, ma se la fanno nuova ogn’anno di maniera che fabricandosi il ponte nel sito destinato converrebbe quasi ogn’anno rifabricarne degl’altri, secondo il corso che piglieranno dette acque»172. Il capo priore di Sermoneta poté dunque trovare buon ascolto presso il cardinale, il quale, il 17 giugno, scriveva al Caetani di essere stato persuaso dalle ragioni addotte dal rappresentante della comunità, «sicome l’E.V. si compiace accennar-
mi», e di avergli dato ordine «che si faccia un ponte di travi ben forte con le sue spallette in modo che con ogni sicurezza possano passarvi sopra carri, carrozze, calessi et ogni sorte di animali». Marescotti invitava perciò il duca «ad imporre alla Comunità di quella sua terra che faccia fare il sudetto ponte di travi a tutta perfettione, altrimenti se non si trovarà tale quando sarà visitato, sarà la Comunità aggravata nelle spese»173. Se dal feudo di Sermoneta non giungevano al Marescotti notizie di ostacoli e controversie relative alle operazioni di restauro della consolare, non altrettanto si può dire per i feudi del Colonna. Accanto al ricordato memoriale della comunità di Sonnino, si può menzionare una lettera del settembre, con la quale il vice duca di Marino comunicava al cardinale che i lavori previsti nel borgo non erano ancora cominciati e che il capo priore, dopo aver intimato per l’ultima volta ai proprietari delle case adiacenti di darvi principio, li avrebbe presto fatti eseguire a spese degli inadempienti174. Ma anche le opere già eseguite avevano provocato malumori e proteste, come quelle che facevano giungere al cardinale i proprietari delle cantine e fienili, situati poco fuori dal borgo, per essere stati – a loro dire – ingiustamente colpiti da una contribuzione troppo esosa175. Non mancano, come abbiamo appena visto, memoriali e ricorsi rivolti direttamente al cardinale e avanzati dai vari soggetti coinvolti nell’operazione di restauro della consolare, anche se le autorità delegate dal Marescotti avevano, unitamente alla facoltà d’impartire gli ordini per l’esecuzione dei lavori, il compito di dirimere le controversie che ne sarebbero potute derivare. Come avveniva per tutte le magistrature d’antico regime, i loro atti di “amministrazione” assumevano naturalmente la forma del contenzioso giudiziario. Così, il governatore di Campagna e Marittima, nella sua veste di sovrastante alle operazioni di restau-
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ro stradale, poteva ben meritare l’appellativo di «giudice deputato dall’Eminentissimo Cardinal Marescotti, deputato da Nostro Signore per il risarcimento delle strade»176. Lo stesso cardinale sovrintendente si trovò a dover affrontare alcune difficoltà connesse agli ordini da egli stesso emanati, come dimostrano le osservazioni ed i documenti di carattere “processuale”, che si trovano sparsi nel volume. Nelle ultime pagine di esso, inoltre, è dato trovare una vera e propria registrazione di atti, ordinata cronologicamente, che dà conto, anche se in modo molto lacunoso, delle procedure seguite davanti al cardinale. In alcune materie, come quelle attinenti alla manutenzione delle strade, le norme si sforzavano di separare il momento propriamente esecutivo dell’attività “amministrativa” da quello giurisdizionale, e quindi ad escludere l’appello degli interessati, finalizzato a sospendere l’esecuzione dei provvedimenti. Nonostante ciò, l’appello «in sospensivo» era molto frequente nella pratica, consentendo alle magistrature di «trattare col massimo riguardo gli appartenenti ai ceti privilegiati»177. Un tipico caso di appello «in sospensivo» era quello presentato dal marchese Marzio Ginnetti, il quale, nei primi giorni di maggio, faceva citare il Ferelli davanti al Marescotti, ritenendo «di non esser tenuto alli lavori descritti [secondo la nota trasmessagli il 28 aprile] ma che ad essi fosse tenuto l’appaltatore generale delle strade per alcune ragioni». Il 6 maggio il marchese otteneva così il decreto secondo il quale Ferelli doveva riparare la strada consolare in località Torrecchiola, «preterquam in ponte ad quem teneatur D. Marchio Ginnettus», a meno che il presidente delle strade non dichiarasse il contrario178. Esclusi quelli per la manutenzione di un ponte, il marchese rifiutava di accollarsi i lavori stradali nel territorio del suo casale, situato sulla consolare qualche miglio a sud di Velletri, sostenendo, attraverso il suo pro-
curatore, che il contratto stipulato con la Presidenza delle strade dal Ferelli prevedeva l’obbligo di quest’ultimo di garantire la manutenzione fino all’osteria delle Case Nuove179, ed il casale di Turrecchiola era senz’altro dentro questo limite. In secondo luogo, produceva una sentenza del 28 novembre 1663, nella quale il Tribunale delle strade aveva dichiarato il «casale jurisdictionale nuncupatur di Turrichiola» libero ed esente, come per il passato, da qualunque tassa per le strade, anche da imporsi nel futuro, fermo restando, tuttavia, l’obbligo di riparare metà del ponte Greppara. Come apprendiamo da una memoria del procuratore di casa Ginnetti, Ferelli presentava, a sostegno della sua posizione una sentenza del 1695 con la quale il Tribunale delle strade aveva condannato il marchese Ginnetti al pagamento di 700 scudi, per non aver provveduto alla riparazione della consolare nel territorio del suo casale180. Tuttavia, contro quella sentenza pendeva un appello «in suspensivo» davanti al tribunale della piena Camera. I chierici di Camera, accogliendo questo tipo di ricorso, avevano riconosciuto in prima approssimazione – a parere dell’avvocato del marchese – le buone ragioni dei Ginnetti, i quali, nonostante non fossero tenuti a pagare oneri per la manutenzione della consolare, tuttavia si erano assunti la cura del ponte situato nella propria tenuta: cura che, altrimenti, doveva spettare all’appaltatore, a norma del contratto. Come nella previsione del Marescotti, il 15 maggio si esprimeva il presidente delle strade, il quale però si limitava a dichiarare che Ferelli, secondo un capitolo dell’appalto, non era tenuto a impegnarsi per quelle strade consolari che non fossero mai state oggetto di manutenzione promossa dalla Presidenza dal 1655 al 1679, in pratica nel venticinquennio precedente l’appalto del 1680181. Ben si comprende allora che la testimonianza dell’architetto Massari – deputato dalla Presidenza alla sor-
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veglianza sulla nostra consolare – costituisse un elemento fondamentale per la decisione in merito alla controversia. Due biglietti, vergati da Ottaviano (?) Lancellotti e diretti a Marescotti, accennano a contatti del procuratore di casa Ginnetti con il Massari, per iniziativa dello stesso cardinale. A quest’ultimo Lancellotti riferisce che l’architetto, «trovandosi fatta la misura et ancora piantato la partita nella forma che ha dato a Vostra Eminenza ha repugnanza di fare la fede a favore delli Signori Ginetti, ma piuttosto s’indurrà a mutare la partita di proprio pugno nella misura che ha Vostra Eminenza quale sup.o (?) della sua protettione»182. Da queste scarne frasi non è dato di capire se la «misura» cui accenna il Lancellotti fosse lo «scandaglio» dell’aprile o altra perizia tecnica stilata dal Massari. E’ ben chiaro, comunque, che il parere dell’architetto doveva ritenersi molto importante ai fini della risoluzione giudiziale della questione. A tal proposito, il 6 giugno, il cardinal Marescotti emetteva a favore del marchese Ginnetti e contro il Ferelli il mandato che obbligava quest’ultimo a riparare la strada «de qua agitur (…) sub penis contentis in precepto alias trasmisso»183. Lo «scandaglio» del Massari subiva dunque un’ulteriore variante nell’imputazione dei lavori previsti: questa volta, però, attraverso un dibattimento fra le parti che aveva coinvolto anche il presidente delle strade ed il procuratore fiscale del suo Tribunale. Tre mesi dopo, tuttavia, l’appaltatore non aveva ancora ottemperato all’ordine relativo alla riparazione della strada nella tenuta del Ginnetti, né completamente – a quanto pare – alle altre prescrizioni contenute nello «scandaglio» del Massari. Il 30 settembre, infatti, veniva stabilito l’ultimo e perentorio termine di un mese per accomodare il tratto dopo il territorio di Velletri, «dove si entra in quello del Sig. Ginetti», ma anche per accomodare «tutta la parte della (…) strada toc-
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cante al detto Giacinto», in modo tale che essa non avesse più bisogno di interventi almeno per tutto il 1701. Sempre entro il medesimo termine, poi, avrebbero dovuto essere prodotte dal soccombente le fedi autentiche attestanti l’avvenuta esecuzione dei lavori, e rilasciate dalle comunità entro il cui territorio erano situati i citati tratti della strada. In caso contrario, l’appaltatore ed il suo ministro sarebbero stati «irremissibilmente» tenuti a rifondere danni, spese ed interessi e avrebbero dovuto «soggiacere alle pene corporali anche gravi proportionate ad arbitrio di S.E., e senza pregiuditio delle pene corporali e pecuniarie già incorse da detto Giacinto alle quali S.E. ha ordinato si proceda»184. Altre difficoltà erano sorte per l’esecuzione dei lavori assegnati al capitolo di S. Giovanni. Quest’ultimo si era infatti trovato di fronte al rifiuto, opposto dalla corporazione dei mugnai di Roma, di contribuire alle opere che il Massari aveva ascritto a loro carico e consistenti nella riparazione dell’argine del fosso dell’Acqua Mariana, nei pressi della consolare, all’altezza dell’osteria della Posticciola o «Tor di mezza via di Marino». Da un memoriale del suo procuratore, apprendiamo che contro l’università dei mugnai di Roma, contraria a tale determinazione del perito, l’organo giurisdizionale competente sull’Acqua Mariana ed espressione del capitolo lateranense185, aveva emesso un mandato per costringere gli associati ad accollarsi l’onere delle opere. Il procuratore, interpretando il capitolo 83° del libro III dei vigenti statuti di Roma, sosteneva invece che soltanto i proprietari dei terreni adiacenti al fosso dovevano provvedere a spurgare il corso d’acqua e a tagliare le siepi lungo di esso, fatto salvo, in ogni caso, il diritto ed il privilegio di coloro che si servivano dell’acqua. La corporazione faceva dunque istanza che fosse rigettato il mandato a lei sfavorevole e che fossero costretti al
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pagamento della tassa i proprietari confinanti con il fosso. Era ragionevole infatti pensare – continuava il legale – che fossero proprio i terreni di costoro a danneggiare l’alveo. Ed inoltre, tenuto conto della tassa annuale pagata dai mugnai e da altri particolari che si servivano dell’acqua, al fine di assicurare la corrente manutenzione del rivo, il procuratore asseriva di non capire perché i suoi rappresentati dovessero essere gravati anche dalla tassa straordinaria prescritta dal Massari186. Diversamente da quanto era accaduto nella vertenza fra il Ferelli e i Ginnetti, per quanto riguarda la questione sollevata contro il capitolo di S. Giovanni non sembra si sia verificato alcun contenzioso giudiziario davanti al Marescotti, se si esclude un’udienza registrata sotto il 17 settembre, per la quale furono citati, insieme, sia l’appaltatore Ferelli, sia il rappresentante del capitolo lateranense. In quella circostanza, entrambi furono minacciati dal cardinale che, se non avessero dimostrato subito di aver ottemperato agli ordini ricevuti, egli avrebbe mandato, d’ufficio e a loro spese, architetto ed operai per eseguire le opere il cui costo sarebbe stato poi messo a loro carico187. Tuttavia, come abbiamo visto, mentre all’appaltatore Ferelli veniva concessa una nuova proroga, non così accadeva per il capitolo di S. Giovanni. Il 4 ottobre il cardinale, preso atto di una nuova relazione, con la quale il Massari documentava la persistente inadempienza dei canonici, ordinava senz’altro allo stesso architetto che incaricasse mastro Giuseppe Corti della fabbricazione dei «ripari (…) all’argine della marrana passata l’hostaria della posticciola». Muratore e architetto (il quale avrebbe dovuto stilare una relazione finale) sarebbero stati poi risarciti dal capitolo di S. Giovanni, il quale solo in un secondo momento avrebbe potuto «rivalerse quando e come e contro chi sarà di ragione»188. Pertanto, il 6 dicembre 1699
il cardinal Marescotti dava ordine al capitolo di rimborsare il Massari e mastro Corti, per un ammontare di 65 scudi e 10 baiocchi, più del doppio, cioè, di quanto era stato preventivato nello «scandaglio» dell’aprile precedente189. Conclusioni L’apporto del cardinal Marescotti all’intervento generale sulla viabilità in occasione dell’anno santo 1700 non si esaurì con la sovrintendenza dei lavori sulla strada fuori di porta S. Giovanni, ma proseguì, qualche anno dopo, con la definizione giudiziaria delle controversie scaturite dalle proteste di alcune comunità contro le ripartizioni di tassa ordinate da un altro dei sovrintendenti, il cardinal Ottoboni. Un ricorso era stato presentato contro la tassa stabilita dal cardinale il 7 maggio 1701, per i lavori sulla strada che, dal porto di Ponzano, andava verso Vacone e Configni. Ricevuto dall’uditore del pontefice, esso era stato da questi “girato” al Marescotti, cui era stata «commessa» la relativa causa. La sentenza del 30 agosto 1702 fu sfavorevole alle comunità sottoposte alla tassa; ma due anni più tardi, il 9 giugno 1704, un’altra decisione del Marescotti esentava il porto fluviale di Ponzano dal pagamento della sua quota, che ammontava a 50 scudi, su istanza del cardinal Lorenzo Altieri. Questi, infatti, era in una posizione analoga a quella del Barberini, avendo in godimento il porto come abbate commendatario delle Tre Fontane190. Anche il ricorso contro la tassa imposta il 15 giugno 1701, sempre dall’Ottoboni, per finanziare i lavori sulla strada dal porto di Nazzano verso Cantalupo, era stato rimesso dall’uditore del papa al Marescotti, il quale il 30 agosto 1702 emetteva una sentenza contraria alle comunità tassate, riconoscendo poi, il 18 dicembre, soltanto le ragioni avan-
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zate da Terni, perché «non gode il beneficio del transito per detta strada». L’importo di 605 scudi, dal quale era stata sgravata la città umbra, fu ripartito dal Marescotti fra le altre comunità soccombenti, il 24 aprile 1703. Nel giugno la tassa non era stata ancora riscossa ed il cardinale deputava un commissario esattore191. Uno sguardo a queste date ci fa capire quanto lunghi fossero in genere gli strascichi delle controversie innescate dalle ripartizioni degli oneri per i lavori stradali straordinari progettati in occasione dell’anno santo. Tali annose contese non si verificarono, invece, per gli interventi sottoposti alla sovrintendenza del Marescotti, perché non ve ne fu materia. Non fu infatti realizzata nessuna delle due grandi opere prospettate dall’architetto Massari e per le quali sarebbe stato necessario procedere ad una più complessa distribuzione dei pesi finanziari. Di lavori riconducibili all’ampliamento dell’alveo dell’Amaseno non abbiamo, peraltro, rinvenuto alcuna traccia nell’archivio della Presidenza delle strade, almeno per gli anni immediatamente seguenti a quello giubilare. Del ponte previsto nei pressi di Sermoneta, ed affidato dal Marescotti al presidente delle strade, abbiamo già detto. E’ opportuno, inoltre, esprimere alcune osservazioni sulla valutazione delle opere preventivate nello «scandaglio» del Massari. Su 3953 scudi, 523 dovevano essere considerati come già finanziati dal gettito ordinario della tassa fissa delle consolari, essendo riferiti alle opere imputate all’appaltatore. Per i lavori assegnati alle comunità poste al di fuori del distretto, alle quali, come si ricorderà, era affidata la cura della consolare anche nei tratti extraurbani, l’architetto indicava una valutazione complessiva di circa 3.278 scudi. Si può ipotizzare che una notevole parte di questo valore non fosse effettivamente erogato in moneta, bensì sotto forma di lavoro prestato da maestranze non specializzate pre-
cettate dalle autorità locali. Si spiegherebbe forse anche così la preoccupazione del Marescotti che le operazioni di riattamento stradale iniziassero e si concludessero prima della mietitura. Un sondaggio operato da chi scrive nell’archivio della Congregazione del Buon Governo (che aveva il controllo finanziario delle comunità), per verificare quanto effettivamente spesero le comunità per i lavori ordinati dal cardinale sovrintendente, ha dato qualche esito solo per le comunità di Sezze e Priverno. In questi casi, tuttavia, non si è rinvenuta traccia di spese rilevanti e di imposizioni straordinarie, laddove erano state invece previsti interventi per valori complessivamente dell’ordine di varie centinaia di scudi, soprattutto nel caso di Priverno che aveva dovuto accollarsi gli oneri in un primo tempo previsti per l’abbazia di Fossanova. Per quanto riguarda Sezze, cui venivano imputati lavori per 345 scudi complessivi, troviamo nel bilancio (la «tabella» inviata al Buon Governo per l’approvazione), per il periodo dal 5 giugno 1699 al 4 giugno 1700, una spesa straordinaria nella misura di 250 scudi192. Di essi, tuttavia, soltanto 79 scudi e 7 baiocchi risultavano poi essere stati effettivamente impiegati per la costruzione di un ponte in muratura in località Fossalto, «secondo gli ordini di Mons. Ill.mo e Rev.mo Governatore di Campagna e Maritima Giudice deputato dal E.mo Cardinal Marescotti deputato da N.S. per il resarcimento delle strade»193. Nell’ambito di una più generale indagine del Buon Governo sulle spese straordinarie affrontate dalle comunità, anche quelle di Sezze furono sottoposte al vaglio della Congregazione, che incaricò Girolamo Costantino Marini, luogotenente del governatore di Campagna e Marittima, di reperire più precise informazioni al riguardo. Per il punto che qui interessa, le istruzioni al Marini recitavano: «Doverà il Commissario riconoscere se li scudi 79, 25 spesi
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dalla Communità nella fabrica del Ponte di Foss’alto, e notati in più partite nella nota delle spese straordinarie, vi siano tenuti a concorrere a detta spesa gl’Adiacenti per il comodo, e benefitio, che ne ritraggono, e quando ciò così sia doverà astringere li medemi Adiacenti a farne rimborsare la Communità per doverli descrivere in tabella»194. Nella sua risposta, il luogotenente riferiva quanto gli era stato riportato dal commissario mandato presso la comunità: «Circa la spesa descritta (…) fatta da quella Communità per la fabrica del Ponte di Fossato alto asserisce il Commissario nella sua relazione, che per esser quello situato nella strada Romana per commodo de’ passaggieri, si crede non debbano concorrere gl’Adiacenti a riguardo che non vi sentano questi alcun utile, poiché non passano loro per il medesimo Ponte, se non quando impienasse il fosso per qualche poco di tempo a causa delle pioggie, mentre nel rimanente dell’anno non vi corre acqua in conto alcuno»195. In questo caso, come si vede, veniva esplicitamente escluso il criterio di addossare ai proprietari adiacenti questo tipo di spese. Infine, è opportuno notare che, nell’ambito di tali uscite straordinarie, nessuna voce indica la retribuzione delle maestranze impegnate nelle altre opere di riattamento stradale, mentre compaiono i compensi erogati ai «deputati» della comunità per seguire lo svolgimento dei lavori. Per gli onorari ad Ascenzio Tomei e Paolo Valletta furono spesi, infatti, 14 scudi e 4 baiocchi, per complessive 48 giornate «d’assistenza alli operarij delle strade riaccommodate in conformità degli ordini di Monsig. Ill.mo e Rev.mo Leti Governatore Giudice»: dal settembre al dicembre del 1699196. Per il caso di Priverno è interessante notare che la comunità fece istanza al Buon Governo, fin dal novembre 1696, per essere autorizzata ad imporre una colletta divisa in tre rate annuali, ed imposta «a
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focolino», cioè su tutte le famiglie della città, senza stretto riguardo ai beni posseduti, ma comunque graduata in relazione alle varie possibilità economiche: «un giulio per ciascheduno a Poveri che poco possiedono, tre giulij a Persone di mediocre facoltà, e cinque alle più facultose». La proposta era stata accolta di buon grado da tutti i cittadini «anco dall’istessi poveri possidenti», sulla base della considerazione che, negli anni passati, la manutenzione delle strade era stata finanziata con una colletta «assai rigorosa», e che, invece, nel modo proposto, «per l’Anno Santo le strade si trovarebbero perfetionate, e forse dal ritratto vi rimarrebbe qualche cosa con che si potrebbero riattare le muraglie di detto luogo et alcuni ponti rotti». La comunità faceva presente che le strade, dentro e fuori la città, erano talmente rovinate da creare grande disagio sia ai cittadini che ai passeggeri, e chiedeva pertanto di poterle riparare prima dell’anno santo «per essere luogho di passaggio non ordinario». Come dichiaravano gli stessi rappresentanti di Priverno, quelle proposte erano state già avanzate in precedenza, ma erano state respinte dal Buon Governo. Sembra che neppure nel 1696 ebbero miglior fortuna, se esse furono di nuovo presentate, sempre per il tramite del governatore di Campagna e Marittima, Filippo Leti, con una lettera del 29 aprile 1699197. Almeno da quanto risulta dai carteggi del Buon Governo, la spesa della comunità per l’operazione di restauro della consolare fu, tuttavia, alquanto esigua. Nell’uscita comunitativa del bilancio («tabella») relativo al 1701, risultano, infatti, appena 47 scudi e 44 baiocchi «spesi in reattare strade, ponti, mura castellane con licenza della S. Congregazione, come lettera d’avviso del governatore, 23 luglio 1699»198. Assolutamente più consistenti e assai vicine a quelle preventivate dal Massari, risultano le spese effettuate dalla comunità di Terraci-
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na. Esse possono ricavarsi, in modo abbastanza dettagliato, dalle giustificazione dei conti prodotte da Giovan Battista De Carolis, affittuario delle entrate comunitative per nove anni, fra il settembre 1693 ed il settembre 1700. Occorre qui ricordare brevemente che l’amministrazione finanziaria di Terracina rimase autonoma dalla Congregazione del Buon Governo fino al 1766, essendo fino a quella data nelle mani del tesoriere generale della Camera apostolica. Quest’ultimo stipulava un contratto, in genere di durata novennale, con un appaltatore incaricato di riscuotere le entrate, in cambio di una somma predeterminata. L’impresario s’impegnava, inoltre, a pagare, su mandato del tesoriere o degli ufficiali comunali, le spese sostenute dalla comunità (stipendi al personale, versamento delle tasse dovute alla Camera apostolica, ecc.). Risultano dunque documentati i pagamenti effettuati dal De Carolis, nel periodo 3 agosto 1699 – 14 marzo 1700, su mandato del sindaco e degli ufficiali di Terracina, «per l’accomodamento della strada consolare». Si tratta di spese, definite esplicitamente «straordinarie», che ammontano complessivamente a 475 scudi e 42 baiocchi. Da un confronto fra questi dati e quelli ricavabili dallo «scandaglio» del Massari si può dedurre che che i lavori fatti eseguire per conto della comunità avevano interessato circa 12 miglia e mezzo (più di 18,5 chilometri) della strada, da Frasso alla Portella199. Occorre, infine, esprimere un’ultima osservazione sull’operazione di riattamento stradale coordinata dal cardinal Marescotti. E’ certamente vero che i lavori straordinari ordinati dal sovrintendente minacciarono di rappresentare un onere considerevole per le finanze delle comunità interessate, soprattutto di quelle poste al di fuori del distretto, e specialmente quando l’impossibilità di toccare le posizioni di più forte privilegio costituiva
un limite invalicabile per una distribuzione più equa delle spese. Ciò provocava il vivo risentimento delle popolazioni locali, come nel caso dell’esenzione di fatto accordata alla commenda del cardinal Barberini. Tuttavia, è vero anche che vi fu, come abbiamo visto, un certo ridimensionamento dei progetti da realizzare, e, soprattutto, appare molto debole l’azione di controllo esercitata dal potere centrale – in questo caso dal cardinale sovrintendente – sull’operato delle comunità. Al termine degli interventi non fu effettuata sulle opere eseguite alcuna perizia di livello tecnico almeno pari allo «scandaglio» iniziale: ciò è quanto risulta sia dal volume proveniente dall’archivio privato del Marescotti, sia da una verifica effettuata nell’archivio della Presidenza delle strade e dei suoi notai. All’inizio del novembre 1699 i lavori nei territori sotto la giurisdizione del Leti potevano dirsi terminati, almeno secondo quanto scriveva il governatore al Marescotti una prima volta il 4 di quel mese, ed in seguito, il 6 dicembre. L’operazione di sistemazione della consolare si chiudeva con la semplice visita di un luogotenente del governatore, il quale, portatosi da Terracina a Frosinone per altri affari, «riconosciutesi dal medesimo le strade romane dai confini di Regno sino a quelli di Sermoneta, trovò essersi perfettamente risarcite tutte in conformità degl’ordini altre volte dati, eccetto che in poco sito quella nella tenuta di Fossanova in Territorio di Piperno»200. Anche la risposta definitiva del duca Caetani al Marescotti – il quale l’aveva sollecitata sin dalla metà di settembre – si faceva attendere fino al 10 di novembre. Il duca riferiva che il ponte di legname sul fossato presso l’osteria di Sermoneta era certo ormai ultimato da settembre, ma, per quanto riguarda gli altri lavori stradali, si manteneva sul vago, tagliando corto: «farò che il tutto si riduca a perfezione per quanto dura il mio stato, mentre di già si ritrova in buon termine»201.
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NOTE 1
Bullarum diplomatum et privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum taurinensis editio, Augustae Taurinorum, A. Vecco et Sociis editoribus MDCCCLXX, t. XX, p. 880. 2 D. JULIA, Gagner son jubilé à l’époque moderne: mesure des foules et récits de pèlerins, in «Roma moderna e contemporanea», 5 (2/3), 1997, pp. 314-315. 3 M. ROMANI, Pellegrini e viaggiatori nell’economia di Roma dal XIV al XVII, Milano, Vita e pensiero, 1948, p. 2. 4 Per i maestri delle strade si veda O. VERDI, Da Ufficiali capitolini a commissari apostolici: i Maestri delle strade e degli edifici di Roma tra XIII e XVI secolo, catalogo della mostra, Roma Musei Capitolini, 20 apr. 31 mag. 1991, a cura di L. SPEZZAFERRO-M.E. TITTONI, Roma, Le carte segrete, 1991, pp. 54-62. Per la Presidenza delle strade: D. SINISI, La Presidenza delle Strade, in M.G. PASTURA RUGGIERO, La Reverenda Camera Apostolica e i suoi archivi, Archivio di Stato di Roma, Scuola di Archivistica Paleografia e Diplomatica, 1987, pp. 100-118. 5 G.B. DE LUCA, Theatrum veritatis, et justitiae, sive decisivi discursus per materias, seu titulos distincti, et ad veritatem edicti in forensibus controversiis Canonicis et Civilibus, in quibus in Urbe Advocatus, pro una parte scripsit, vel consultus respondit, Venetiis, Ex Typographia Balleoniana, MDCCXXXIV (la prima edizione dell’opera apparve a Roma fra il 1669 ed il 1681), Lib. II De Regalibus, discorso CXLI, p. 221. 6 Bullarum, t. XX, pp. 440-446. 7 M. ROSA, Aspetti del pontificato di Innocenzo XII, in Riforme, religione e politica durante il pontificato di Innocenzo XII. (1691-1700). (Atti del Convegno di studio di Lecce (11-13 dicembre 1991), a cura di B. PELLEGRINO, Lecce, Congedo, 1994, pp. 14-16. 8 A. MENNITI IPPOLITO, Nepotisti e antinepotisti: i «conservatori» di curia e i pontefici Odescalchi e Pignatelli in Riforme, religione e politica, p. 243. 9 La competenza e, come è stato detto, il rapporto «di servizio» (cfr. ROSA, Aspetti del pontificato, p.15) degli alti funzionari camerali richiamano, sul versante della politica religiosa, l’esigenza di una più rigorosa selezione del personale ecclesiastico e quella di un suo comportamento più degno e consono alla funzione rivestita, secondo una rinnovata adesione ai dettami del Concilio di Trento. Era questo l’aspetto più importante del programma fatto proprio dal gruppo di cardinali, i cosiddetti «zelanti», che sostennero l’elezione e l’azione di rinnovamento di Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi, 1676-1689), ed in seguito di Innocenzo XII (Antonio Pignatelli, 1691-1700): cfr. C. DONATI, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il Potere Politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. CHITTOLINI-G. MICCOLI, Torino, Einaudi, 1987, pp. 721-725. 10 Bullarum, t. XX, pp. 479-487.
11 Tuttavia, il pontefice riservava, con norma transitoria, la facoltà di nominare e di rimuovere il procuratore fiscale, il «ratiocinator» e il mandatario al camerlengo dell’epoca, «donec vixerit»: costui era il potente cardinal Paluzzo Altieri, nipote del defunto Clemente X. 12 Cfr. DE LUCA, Theatrum veritatis, et justitiae, Lib. XV, pars II, Relatio Romanae Curiae Forensis, disc. XXXVIII, p. 351. L’A. sostiene che Sisto V, proprio per superare il limitato ambito della magistratura stradale cittadina, eresse la Congregazione delle strade «ut partes Principis in universa temporali ditione impleret». Le vie consolari facevano parte, infatti, degli «iura regalia». Sulla Congregazione vedi D. SINISI, Lavori pubblici di acque e strade e congregazioni cardinalizie in epoca sistina e presisistina, in Il Campidoglio e Sisto V, pp. 50-51. Da ultimo, sulla genesi e l’attività di questo organismo, nonché sul rapporto fra cardinali sovrintendenti e presidente delle strade, è tornato R. SANSA, Istituzioni e politica dell’ambiente a Roma: dalle magistrature capitoline alla presidenza pontificia, in La legislazione medicea sull’ambiente. IV. Scritti per un commento, a cura di G. CASCIO PRATILLI-L. ZANGHERI, Firenze, Olschki, 1998, pp. 209-223. 13 DE LUCA, Theatrum veritatis, et justitiae, Lib. XV, pars II Relatio Romanae Curiae Forensis, disc. XXVII, § 4, p. 293. 14 Bullarum, Augustae Taurinorum, Seb. Franco et Henrico Dalmazzo editoribus, MDCCCLXIII, t. VIII, pp. 985-999. Per la Congregazione decimaterza, delle strade, v. pp. 995-6. 15 D. SINISI, Lavori pubblici di acque e strade e congregazioni cardinalizie, in Il Campidoglio e Sisto V, p. 52, nota 16, ritiene la Congregazione ancora presente nel XVIII, ma con «attività (…) assai meno intensa e penetrante». Ricordiamo qui che il fondo della Congregazione «super viis, pontibus et fontibus» è composto soltanto da tre volumi contenenti i verbali delle riunioni di organismi tra loro diversi, in un arco temporale che va dal 1567 al 1708: cioè, la Congregazione di Pio V, quella sistina e, per il secolo XVIII, una diversa Congregazione «specialiter deputata». Cfr., a questo proposito, la voce di C. LODOLINI TUPPUTI, in Guida generale degli Archivi di Stato, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1986, III, p. 1098. 16 DE LUCA, Theatrum veritatis, et justitiae, Lib. XV, pars IV, Miscellaneum ecclesiasticum, disc. XLVIII, §20, p. 313. 17 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Presidenza delle strade, atti sciolti delle strade extraurbane, b. 248, fasc. 6. Nel volume con coperta membranacea le carte non sono distinte da numeri: esse s’indicheranno, pertanto, in base alla nostra personale numerazione. A carta 2r è riportato il titolo: «Accomodamento della strada consolare fuori della Porta di S. Giovanni in Laterano per l’Anno Santo 1700 sotto la direzione del Card. Mariscotti». L’indicazione torna, anche se incompleta, sul dorso del volume, sul quale è però aggiunta la segnatura «n° 25».
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18 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (d’ora in poi ASV), Archivio Marescotti-Ruspoli, Arm. A, n. 30: «Inventario delle scritture conservate nell’Archivio del Sig.r Cardinal Marescotti/ Novembre 1711/ Et accresciute di mano in mano secondo le congiunture accadute e che s’anderanno accrescendo/ Da conservarsi con grandissima gelosia», p. 234, sub lett. «S»: «Strada Consolare fuori della Porta di S. Gio. Laterano per l’Anno Santo…Lib. 1…cas[sa] 3 n° 25». La segnatura coincide perfettamente con quella riportata sul volume conservato nell’Archivio di Stato di Roma (v. nota precedente). Nell’archivio Marescotti la cassa n. 3 figura come parte di una raccolta miscellanea. Altre raccolte, invece, presentano un carattere omogeneo, ad es.: «Contaggio di Roma» (p. 47), «Legazione di Ferrara» (p. 172) ecc. L’inventario era stato redatto per le esigenze della trasmissione ereditaria dell’archivio ai tre nipoti del cardinale, Ruspoli, Marescotti e Capizucchi, come mostra la nota apposta all’inizio di esso, diretta agli esecutori testamentari. 19 Cfr. E. CASANOVA, Le carte di Costantino Corvisieri all’Archivio di Stato di Roma, in «Gli Archivi Italiani», VII, 1920, pp. 20-48. Il catalogo della vendita fu curato da Felice Tonetti, il quale ritenne di dover descrivere di seguito i documenti del Marescotti, perché si conservasse traccia della comune provenienza dall’archivio del cardinale: cfr. Catalogo della Biblioteca del fu Cav. Prof. Costantino Corvisieri: Codici, manoscritti, libri rari, autografi, documenti, stampe. Parte II, Roma, Tipografia Editrice Romana, 1901, p. 31. L’ A. aggiunge che il cardinale «aveva presso di sè parecchi volumi originali di cause e decisioni, che alla sua morte non sono stati richiesti dagli uffici competenti». I documenti sono inventariati, oltre che alle pp. 31-61, anche alle pp. 413-423, 425-430, 432, 450, 453-4. Altre carte del Marescotti facevano parte di un ulteriore frammento della biblioteca Corvisieri, posto in vendita nel 1903. Settantanove documenti di quel lotto furono sequestrati e, dopo lunga vertenza giudiziaria, furono acquisiti all’Archivio di Stato di Roma: cfr. CASANOVA, Le carte di Costantino Corvisieri, pp. 29, 42 e 47-48. Questa seconda vendita fu organizzata dalla Casa Jandolo e Tavazzi: cfr. Catalogo di una interessante raccolta di manoscritti dei secoli XV al XIX: storia, genealogia, araldica, diplomatica e varia erudizione, Roma, Società tipografica editrice romana, 1910. Le carte già appartenute al Marescotti sono inventariate alle pp. 28-9 e 39-46. Nei sopra citati cataloghi non vi è, naturalmente, traccia del nostro volume, il quale dovette essere acquistato dall’Archivio di Stato di Roma in un momento precedente alle due vendite: cfr. ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», c. 1, nella quale, sotto il timbro «Direzione dell’Archivio di Stato di Roma», è indicata, a penna, la data «1884». Su Costantino Corvisieri (1822-1898), erudito, collezionista, primo presidente della Società Romana di Storia Patria e funzionario dell’Archivio di Stato, vedi la nota di L. Lanza in L. LANZA-G. ROMANI, Inventario delle carte
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di Costantino Corvisieri, in «Archvio della Società Romana di Storia Patria», 110, 1987, pp. 246-7. 20 Per la ricerca in materia di viabilità nello Stato della Chiesa di antico regime, occorre far ricorso alla consultazione di più fondi custoditi nell’Archivio di Stato di Roma: non solo quello della Presidenza delle strade, ma anche quello del Tribunale delle acque e strade (braccio, per così dire, giurisdizionale della stessa magistratura), dei Notai delle acque e strade, della Congregazione del Buon Governo (specie la serie X), ed infine quello denominato Camerale II (sotto il titolo delle acque e strade), oltre il già citato fondo della Congregazione cardinalizia «super vijs». 21 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, fasc. 6, «Accomodamento», cc. 62-73, precedute dal seguente frontespizio: «Ordini dati per l’accomodamento delle strade per l’Anno Santo». Alla rubrica «Lavori nel territorio della Abadia di fossa nova», il brano corrispondente concerne la risposta del cardinal Carlo Barberini al Marescotti, in una comunicazione probabilmente solo verbale e non epistolare: «Havendo il Sig. Card. Barberino Abate dell’Abadia di fossa nova mandato a dire al Card. Mariscotti che…» (cc. 69v-70r). Alla rubrica: «Mons. Borghese Presidente delle Strade, 13 maggio 1699», il testo riporta il contenuto di una conversazione del Marescotti con il Presidente delle strade (cc. 70v-71r). 22 Per la storia della famiglia Marescotti e del loro feudo, ricca di notizie, anche se dominata dall’interesse per la storia locale, è la compilazione dovuta ad un esponente di rilievo della comunità di Vignanello, il sacerdote Giovan Francesco Lagrimanti, composta probabilmente in occasione di contrasti giudiziari riacutizzatisi fra i sudditi ed i loro «padroni» nei primi anni ‘80 del secolo XVIII: Memorie delli Padroni di Vignanello ritrovate e raccolte da me Gio. Francesco Lagrimanti Sacerdote di detta Insigne Terra. Incominciate nell’anno 1769 sino al presente anno 17…, BIBLIOTECA ANGELICA, Roma, ms. n. 1588. Il manoscritto reca aggiunte ottocentesche. Cfr. anche P. LITTA, Famiglie celebri d’Italia, Milano, presso Paolo Emilio Giusti stampatore, librajo e fonditore MDCCCXIX, vol. 4, sub voce «Marescotti di Bologna», tavv. III e IV. 23 Cfr. I. POLVERINI FOSI, Genealogie e storie di famiglie fiorentine nella Roma del Seicento, in Istituzioni e società in Toscana nell’Età Moderna. Atti delle giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini, Firenze 4-5 dicembre 1992, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1994, I, pp. 179-195. Bartolomeo Ruspoli, esiliato da Firenze e giunto a Roma nel 1529, iniziò a costruire la fortuna della famiglia con il lavoro nel banco degli Altoviti (ivi, p. 181 e sgg.). L’A. ripercorre l’esplorazione genealogica effettuata da Cesare Magalotti per conto di Sforza Vicino Marescotti, il quale intendeva ottenere, a metà del ‘600, l’ingresso del figlio Alessandro nell’ordine dei Cavalieri di Malta, uno dei riconoscimenti più ambiti dagli esponenti del ceto nobiliare dell’epoca. Fratello mi-
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nore di Galeazzo, Alessandro Marescotti entrava definitivamente nella religione gerosolimitana nel 1663 (ivi, p. 194). 24 Memorie delli Padroni di Vignanello , p. 268. 25 Francesco (1605-1678), figlio di Ortensia, non prese moglie e perciò adottò il cugino Alessandro Marescotti (1641-1703): cfr. M. GIANSANTE, Capizucchi, Biagio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 18, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1975, pp. 560-4. 26 [G. LETI] Il livello politico o sia la giusta bilancia, nella quale si pesano tutte le massime di Roma, et attioni de’ Cardinali viventi, Cartellana [ma Ginevra], appresso Benedetto Marietti, 1678, parte terza, p. 478. 27 Cfr. Legati e governatori dello stato pontificio (1550-1809), a cura di CH. WEBER, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1994, p. 760. Secondo altri, invece, il Marescotti iniziò la carriera prelatizia già sotto Urbano VIII, esercitando «plura (…) Ditionis Ecclesiasticae gubernia»: cfr. M. GUARNACCI, Vitae, et res gestae Pontificum Romanorum et S.R.E. Cardinalium a Clemente X usque ad Clementem XII… Romae MDCCLI, sumptibus Venantii Monaldini, t. I, c. 73. In tal senso, anche G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, dalla tipografia emiliana MDCCCXLVII, vol. XLII, p. 291. Sennonché, alla morte di Urbano VIII, Galeazzo non avrebbe avuto che 17 anni. 28 «carica che viene considerata equivalente ad una nunziatura», secondo R. AGO, La carriera curiale di Antonio Pignatelli, in Riforme, religione e politica, p. 25. 29 Legati e governatori, p. 760. 30 L. VON PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, Roma, Desclée & C. editori pontifici, 1932, XIV, parte I, p. 662. 31 GUARNACCI, Vitae, et res gestae Pontificum, t. I, c. 74. L’appoggio del nunzio al duca di Lorena per l’elezione al regno di Polonia, secondo le istruzioni di Roma, provocò una rivalità non lieve con l’ambasciatore francese, cardinale Pietro de Bonsy. Inoltre una lettera, nella quale il Marescotti esprimeva giudizi negativi su Luigi XIV, inviata dalla Polonia al papa, ma giunta a Roma subito dopo la morte di quest’ultimo, fu intercettata da due cardinali francesi cui erano toccate le funzioni di «capi d’ordine», esercitavano cioè il governo della Chiesa ad interim, per ordine del conclave. 32 VON PASTOR, Storia dei Papi, XIV, parte I, p. 633. Lo stesso giorno dell’elezione fu dichiarato cardinal nipote un congiunto del cardinal Chigi, Paluzzo Paluzzi degli Albertoni, già assurto al cardinalato per volontà di Alessandro VII. Il nipote di Paluzzo, Gaspare, aveva sposato la nipote di Clemente X, Laura Caterina Altieri, unica erede della famiglia; entrambi furono allora adottati dal pontefice ed assunsero il cognome degli Altieri. Il cardinale Paluzzo Altieri accentrò nelle sue mani tutti gli affari dello stato, esercitando pienamente il suo potere a vantaggio dell’ascesa dei propri famigliari (ivi, pp. 636-638). Occupò anche l’uffi-
cio di camerlengo per quasi trent’anni, fino alla sua morte nel 1698, quando fu nominato da Innocenzo XII il cardinal Giovan Battista Spinola. 33 Il legame del Marescotti con i Chigi è sottolineato da un’altra biografia dei membri del collegio cardinalizio, scritta nel 1699 dal conte senese Orazio Pannocchieschi d’Elci, per informazione di Cosimo III de’ Medici: Relazione della corte di Roma composta speditamente per servizio di S. Ecc.za il Marchese Clemente Vitelli Ambasciatore Straordinario al Sommo Pontefice Innocenzio XII per Sua Altezza Serenissima il Gran Duca di Toscana Cosimo III felicemente dominante / l’Anno 1699. Cito qui dalla versione contenuta in BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA, Vat. Lat. 7440, ff. 96v-97r, a proposito della mediazione fra il Marescotti ed i Pamphili, esercitata dal cardinal Flavio Chigi, per opera del quale «si convenne (…) di scordarsi generosamente de’ torti passati con rinovare il libro de conti col recedant vetera, nova sint omnia». 34 [LETI] Il livello politico o sia la giusta bilancia, parte terza, p. 478-479. 35 Cfr. GUARNACCI, Vitae, et res gestae Pontificum, t. I, c. 75. Sull’episodio dell’attacco del Paluzzi all’immunità diplomatica e sulla violenta reazione degli ambasciatori a Roma, vedi L. VON PASTOR, Storia dei Papi, XIV, parte I, pp. 679-681. 36 [LETI] Il livello politico o sia la giusta bilancia, parte terza, pp. 479-480. 37 Ivi, p. 481. 38 MORONI, Dizionario di erudizione, XLII, p. 291. 39 VON PASTOR, Storia dei Papi, XIV, parte II, pp. 3-5. 40 Relazione della corte di Roma, f. 94r. L’A. aggiunge che la riunione «fu causa ne seguisse l’inaspettata promotione d’Odescalchi per motivo del già Cardinale Ludovisi Decano, quale andò dal Papa a destarlo della sua sonnolenza, dicendogli, che mentre egli dormiva in Roma a suoi riposi il Sacro Collegio vegliava per li proprij interessi, poiché in Tivoli Chigi, et Altieri si erano rappacificati col giuramento di fare ogni sforzo nel futuro Conclave per l’esaltazione d’uno de presenti Porporati». Il conte d’Elci si riferisce qui alla promozione cardinalizia voluta da Innocenzo XI il 1° settembre 1681 e che giungeva quando ormai era svanita ogni speranza che il pontefice la effettuasse. Tra i sedici prelati nominati vi era Antonio Pignatelli, futuro papa Innocenzo XII, e Giovan Battista De Luca: cfr. VON PASTOR, Storia dei Papi, XIV, parte II, p. 303. 41 Relazione della corte di Roma, f. 96v. 42 VON PASTOR, Storia dei Papi, XV, 1933, pp. 4-5. 43 Relazione della corte di Roma, f. 97v. 44 Ivi, f. 93v: «È indefesso nella fatica, sollecito non meno nel principiarla, che tardo in finirla». 45 GUARNACCI, Vitae, et res gestae Pontificum, t. I, c. 76. Per un elenco degli incarichi, cfr. anche Memorie delli Padroni di Vignanello, p. 349, che riporta informazioni desunte dal pe-
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
riodico «Diario di avvisi», detto Chracas o Cracas, dal nome dell’editore: «Dal Cracas dell’anno 1726 si rileva che questo Cardinale Galeazzo era delle Congregazioni del S. Offizio, Vescovi e Regolari, […] dell’Immunità, della Visita Apostolica, della Fabrica, di Consulta, del Cerimoniale, dell’Acque e delle strade». 46 MORONI, Dizionario di erudizione , XLII, p. 291: «Crebbe l’estimazione ch’erasi guadagnata, allorché si udirono i di lui savi e gravi consigli nelle congregazioni cardinalizie, talmente che nel conclave per morte di Innocenzo XII poco mancò che non fosse sublimato al pontificato, a cui lo bramava un gran numero di cardinali». 47 VON PASTOR, Storia dei Papi, XV, pp. 56. Il cardinale ottenne il sostegno di quasi tutti gli «zelanti», ma la sua candidatura fallì per la forte opposizione dei francesi. 48 ASV, Archivio Marescotti Ruspoli, Arm. A, n. 30, «Inventario delle scritture conservate nell’Archivio del Sig.r Cardinal Marescotti/ Novembre 1711», ff. 208-210. L’inventario segnala questi documenti sotto il titolo «Pro Camerlengato di Santa Chiesa/ Cassa mezza». Segue la «narrativa» di alcuni chirografi: «Sotto li 4 luglio 1698 la S.M. di Papa Innocenzo XII spedì il Chirografo per la caricha di Pro Camerlengo pro interim a favore dell’E.mo Sig.r Cardinal Marescotti, senza però gl’emolumenti, che dovevano cedere a beneficio della Camera Apostolica. / Sotto li 6 ottobre del sudetto anno fu spedito altro chirografo dal medesimo Sommo Pontefice diretto al sudetto Sig.r Cardinale Marescotti Pro Camerlengo in virtù del quale vennero, o concesse, o soppresse, o moderati in tutto o in parte il prezzo, proventi, e cariche diverse solite godersi dal Camerlengo, o conferirsi dal medesimo, commettendo al sudetto S.r Cardinale di dare tutti gl’ordini opportuni alli Tesorieri, Appaltatori, Computisti, Ministri, et Officiali tanto della Camera che del Popolo Romano in Roma, e fuori per levare dalle liste, cataloghi, e cartoni (…) tutti gl’officij, e provisioni soppressi, (…) e riformate in tutto, o in parte, et applicate all’Ospitio di S. Michele». 49 Ivi, «Sotto li 3 Decembre del sudetto anno il medesimo Sommo Pontefice spedì altro chirografo in virtù del quale dichiarò Camerlengo il S.r Cardinal Spinola, ma con li soliti emolumenti provenienti dal sigillo di tale officio (…) Conferma il chirografo di concessione, soppressione, e moderatione di molte delle cariche spettanti all’uffitio del Camerlengo, o per proprietà, o per collazione spedito sotto li 6 ottobre come sopra. E riserva alla Sede Apostolica la Collatione di tutte le altre cariche, o officij rimasti, e non soppressi, e spettanti al Camerlengo (…)». 50 Uno dei primi atti del nuovo camerlengo, fu la dichiarazione che erano cessate le patenti e le deputazioni rilasciate agli ufficiali da parte dei precedenti camerlenghi. Cfr. C. DONATI, «Ad radicitus submovendum». Materiali per una storia dei progetti di riforma giudiziaria durante il pontificato di Innocenzo XII, in Riforme, religione e politica, p. 177, nota. L’A., pe-
raltro, segnala nel fondo dell’Archivio di Stato di Roma, Congregationes Pariculares Deputatae, un carteggio relativo alla soppressione, nel 1698, di diversi uffici, la cui nomina era riservata al camerlengo. 51 ASR, Presidenza delle strade, Atti sciolti, b. 248, fasc. 6, «Accomodamento», cc. 6-9: «Congregatione Generale delle Strade per la distribuzione della soprintendenza all’accomodamento delle Strade Consolari per l’anno Santo / 2 aprile 1699». 52 Acciaioli, Carpegna, Marescotti, Costaguti, Del Giudice, Ottoboni, Bichi, Francesco Barberini, Spinola. Erano assenti Spada, Negroni, Altieri, ai quali pure sarebbe stata affidata una «soprintendenza» sulle strade. 53 Si trattava di Lorenzo Corsini, arcivescovo di Nicomedia, cfr. MORONI, Dizionario di erudizione, LXXIV, p. 306. 54 Cfr. Legati e governatori, pp. 536-537. Il Caffarelli sarebbe poi stato nominato governatore di Roma nel 1706. 55 Cfr. SINISI, Lavori pubblici di acque e strade e congregazioni cardinalizie, p. 51, relativamente alla composizione della congregazione sistina delle strade. 56 Cfr. E. LODOLINI, L’archivio della S. Congregazione del Buon Governo (1592-1847). Inventario, Roma, Ministero dell’Interno, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1956, pp. CIXCXX, in cui l’A. traccia un sintetico ma puntuale excursus sulla gestione della viabilità nello stato pontificio fino al 1833. Riflessioni sulla questione, in riferimento ai lavori stradali effettuati per gli anni santi dell’età moderna, si debbono ora a R. SANSA, Le strade che portano a Roma: il governo della viabilità nello stato pontificio durante gli anni santi (sec. XVI-XVIII), pubblicato in questo stesso volume. 57 Per un confronto con la distribuzione delle sovrintendenze fra i cardinali, in occasione dei lavori stradali promossi per l’anno santo 1675, si veda la tabella n.1 proposta nel contributo di R. SANSA, in questo stesso volume, p. 23. 58 Cfr. Legati e governatori, pp. 369 e 475. Francesco (1662-1738) era figlio di Maffeo, principe di Palestrina (e poi di Gallicano) e pronipote di Urbano VIII. 59 Cfr. MORONI, Dizionario di erudizione, IV, 1840, pp. 114. 60 Cfr. ASV, Congregazione dell’Immunità ecclesiastica, «Libri litterarum 1698-1699», c. 83r, ove si trova copia della circolare ai vescovi che esamineremo fra breve. Stilata affinché le risorse del clero fossero poste a disposizione dei cardinali sovrintendenti, essa risulta indirizzata, fra l’altro, agli ordinari delle diocesi di Urbino, Cagli, Urbania, Fossombrone, Senigallia, Pesaro, Fano. 61 Cfr. N. DEL RE, La Curia romana. Lineamenti storico-giuridici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970, p. 101. 62 Tale strada veniva però di solito denominata con l’indicazione della porta del Popolo. 63 Cfr. ASR, Presidenza delle strade, iura diversa, reg. 34, cc. 59v-60v. «Deputatio pro
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reaptatione Viae extra Portam Pincianam», a firma del cardinal Ottoboni, 30 gennaio 1700. 64 Cfr. Ivi, taxae viarum, b. 452, cc. 406408 e 420-421: tassa generale fatta per ordine del cardinal Carlo Bichi, in data 18 febbraio 1702. Vengono citate, fra le altre, le comunità di Cretone, Castel Chiodato, Mentana, Moricone, Monticelli, Palombara. 65 Qui viene denominata dalla porta Maggiore, ma si usava indicarla con la porta S. Giovanni. In questa occasione non sono nominate, invece, le località poste lungo la via Prenestina, solitamente indicata con la porta Maggiore. Tuttavia, esse (Zagarolo, Genazzano, Palestrina, Cave ecc.) risultano incluse fra le comunità che avrebbero dovuto contribuire alla spese «pro reaptatione viae extra Portam Maiorem», ordinate dal cardinale Del Giudice il 23 agosto 1699: cfr. ASR, Pres. delle strade, iura diversa, reg. 34, cc. 51v-52r. 66 Cfr. ASR, Pres. delle strade, taxae viarum, vol. 452, c. 214, Tassa fatta per ordine del cardinal Francesco Negroni, 2 febbraio 1700. 67 Tale strada veniva indicata normalmente con la menzione della porta Cavalleggeri. 68 Si tratta del frammento 2° del titolo VIII «Ne quid in loco publico vel itinere fiat» contenuto nel libro 43°. (D.43.8.2, §§ 21-23). 69 DE LUCA, Theatrum, Lib. II «De regalibus», disc. CXXXVI, §14, p. 216. 70 Id., Il dottor volgare ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più ricevute in pratica. Lecce, Battelli, 1839 (la prima ed. romana è del 1673), Lib. II Dei regali, p. 288. La definizione proviene dal Digesto 43.7.2.1. 71 Id., Theatrum , Lib. II, disc. CXXXVI, §16, p. 216. Cfr. D.43.8.2.23. 72 Cfr. D.43.7.3.1. 73 DE LUCA, Theatrum, Lib. II, disc. CXXXVI, §§16-17, pp. 216-217. Era necessario considerare la proprietà del suolo solo in determinati casi che dovevano spesso verificarsi nella viabilità di antico regime: quando, cioè, i vetturini ed i viandanti, per evitare gli incomodi causati dalla maggiore distanza o dal cattivo stato della via pubblica, solevano tagliare scorciatoie attraverso i campi dei privati. Solo in tali fattispecie, per provare il carattere pubblico di queste scorciatoie ed evitare che esse venissero sbarrate dai proprietari, occorreva dimostrare l’uso pubblico da tempo immemorabile (Ivi, §16). 74 Tali giuristi, rifacendosi al Digesto (cfr. D.43.8.2.21), ritenevano che il discrimine fra strada pubblica e privata dovesse essere posto nella proprietà, pubblica o privata, del suolo sul quale essa giaceva. La questione poteva assumere grande importanza nel caso in cui un feudatario avesse preteso di fondare nella proprietà del suolo del suo feudo il diritto di limitare, con l’imposizione di un pedaggio, il transito per una via in precedenza ritenuta pubblica ed aperta al passaggio di tutti: cfr. DE LUCA, Theatrum, Lib. II, disc. CXXXVI, «Sabinen. Viae, seu transitus, pro Principe Burghesio, cum Principe Barberino», pp. 213 e sgg.
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Id., Il dottor volgare, Lib. II Dei regali,
p. 288. 76 Id., Theatrum , Lib. II, disc. CXXXVI, §16, p. 216. 77 A. BRUGIOTTI, Epitome iuris viarum et fluminum praxim Rei Aedilis compraehendens et aliquid de Immunitate opusculum…, Romae, typis Michaelis Herculis, MDCLXIX, p. 70. L’autore pubblica, nelle pp. 69-78, una memoria in volgare, diretta al pro-camerlengo dell’epoca, cardinale Carlo Barberini, sul problema della organizzazione della manutenzione stradale extraurbana. Nato a Firenze nel 1615, giureconsulto, conseguì la laurea in legge presso lo studio di Pisa. Fu avvocato nella Curia romana, e divenne professore di «Istituzioni Civili» nell’Università della Sapienza, insegnando poi per trent’anni anche materie criminali (cfr. Gli Scrittori d’Italia… del Conte Giammaria Mazzucchelli Bresciano, in Brescia, presso a Giambattista Bossini, 1763, II, parte IV, pp. 2153-4). Sembra che il Brugiotti stesso fosse l’autore della memoria sopra citata, nel periodo in cui ricoprì l’ufficio di procuratore fiscale del Tribunale delle strade (cfr. N. M. NICOLAI, Sulla Presidenza delle strade ed acque, Roma, nella stamperia della Rev. Camera Apostolica, 1829, t. I, p. 14). 78 BRUGIOTTI, Epitome iuris viarum, p. 73. 79 Ivi, pp. 70-71. 80 Ivi, p. 76: la memoria, che riporta varie proposte riguardo il finanziamento della manutenzione, è databile al 1668, per riferimento esplicito dell’A. 81 Per il chirografo del 22 giugno 1680, citiamo dal testo pubblicato in P. A. DE VECCHIS, Collectio Constitutionum, Chirographum et Brevium Diversorum Romanorum Pontificum, pro bono regimine…, ex typographia Hieronimi Mainardi, Impressoris Cameralis, Romae, MDCCXXXII. (conosciuto anche come De Bono Regimine, tomo primo), p. 299 e sgg. Il provvedimento nasceva sulla base delle determinazioni della Presidenza delle strade «coll’intervento d’alcuni Prelati», fra i quali il De Luca che si fece da tramite, in qualità di «auditor papae», fra essa ed il pontefice. 82 Se ne veda il testo in ASR, Notai di acque e strade, vol. 107, cc. 351r e sgg. e 380r e sgg. 83 Ivi, vol. 120, cc. 140r-147v e 156r159v. Si concordava, infatti, che l’appalto avrebbe dovuto durare «per anni dodici e mesi sei cominciati il detto giorno 13 gennaro prossimo passato, e da finire a tutto li 12 luglio 1705» (c. 144v). 84 P. A. VECCHI [DE VECCHIS], Raccolta di rescritti, decreti, e lettere della S. Congregazione del Buon Governo, ed altre SS. Congregazioni…, De Bono Regimine Tomo Secondo, Roma, Girolamo Mainardi, MDCCXXXIV, p. 278. 85 DE LUCA, Theatrum, Lib. II De regalibus, disc. CXLI «Reatina viarum», pp. 220221, §11. Per quanto riguarda le comunità soggette alla tassa fissa relativa alla manutenzione delle consolari fuori di porta S. Giovanni, si veda in appendice la tabella n. 2.2.
86 Ivi, Lib. XV, pars II Relatio Romanae Curiae Forensis disc. XXXVIII, §§ 1-2 p. 351. Secondo il giurista, nell’ambito del distretto si davano invece due situazioni diverse: nell’agro romano (una fascia di 10 miglia attorno alla città) i maestri delle strade si occupavano della manutenzione delle strade di qualsiasi tipo; fuori dell’agro, per le altre strade pubbliche diverse dalle consolari, dovevano provvedere le comunità nei rispettivi territori (§ 9). 87 Ivi, Lib. II De regalibus, Discorso CXXXIX «Reatina taxae», § 3, p. 219. Cfr. anche P. A. VECCHI [DE VECCHIS], Raccolta di rescritti, decreti, e lettere, De Bono Regimine Tomo Secondo, pp. 355 e 358, n. DCCCLXI. 88 Id., Decisiones Diversorum Sacrae Rotae Romanae Auditorum materiam Boni Regiminis Universitatum, et Communitatum, signanter Status Ecclesiastici spectantes…De Bono Regimine Tomus Tertius, ex Typographia Hieronimi Mainardi, Romae, MDCCXXXII, Decisio CLXXI «Avenion. pedagii, 4.XII.1719», p. 462, §§ 116. Si veda anche DE LUCA, Theatrum veritatis, et justitiae, Lib. II De regalibus, disc. CXXXIX «Reatina taxae», pp. 219, §4, riferito ad una causa della seconda metà del XVII secolo. 89 Ivi, Lib. XV, pars II Relatio Romanae Curiae Forensis disc. XXXVIII, §8, p. 351. 90 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6, «Accomodamento», c. 9: «Congregatione Generale delle Strade per la distribuzione della soprintendenza all’accomodamento delle Strade Consolari per l’anno Santo / 2 aprile 1699». 91 Ivi, cc. 62-73: «Ordini dati per l’accomodamento delle strade per l’Anno Santo» 92 Di Francesco Massari i dizionari specializzati ricordano soltanto che diresse la riedificazione dalle fondamenta della chiesa di S. Lorenzo in piscibus (rione Borgo) nel 1659, a spese della famiglia Cesi. 93 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, cc. 63r e v: «Patente al Sig. Francesco Massari Architetto del Tribunale delle Strade per quelle situate fuori della Porta di S. Gio. in Laterano, 6 Aprile 1699». 94 Ivi, cc. 63v-64v: «Instruttione al Sig. Francesco Massari, li 6 Aprile 1699». 95 Ivi, c. 64v: prima di partire da Roma erano stati consegnati al Massari 9 scudi e 60 baiocchi per il calesse ed il vetturino, nonché 10 scudi per la ricognizione e per il vitto suo e del capomastro. L’architetto avrebbe poi dovuto ricevere altri 3,80 scudi, per un un totale di scudi 23 e baiocchi 40, in ragione di scudi 3 e baiocchi 90 al giorno, per 6 giorni. Il Massari non si ritenne soddisfatto, producendo, per sostenere le sue ragioni, documentazione riguardante precedenti visite da lui svolte per conto della Presidenza delle strade. Nel luglio 1699, pertanto, riceveva la somma pretesa di ulteriori 6 scudi e 26 baiocchi dal maestro di casa del Marescotti, Francesco Butij (c. 144rv: «Relazione delle provvigioni all’Architetto, Cav. Francesco Massari(…)», e c. 145: ricevuta). 96 Ivi, cc. 16-23: 15 aprile 1699, «Scandaglio delli lavori in selciate in calce, selciate a
secco, massicciate, imbrecciate, muri in calce, tagli di terra per fossi et altro da farsi fuori di Porta S. Gio. in Laterano principiando la visita della strada consolare da detta Porta seguitando per Marino e Velletri sino allo sportello passato Terracina confine dello Stato Ecclesiastico e del Regno di Napoli fatta detta visita per ordine dell’Eccellentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Galezzo Marescotti Deputato di detta Porta da me infrascritto Architetto di detta ecc.». Altra copia dello «scandaglio» è alle cc. 27-35. Abbiamo ritenuto opportuno pubblicare nella tab. 3.1 dell’appendice un’elaborazione del documento, anche per meglio illustrare la carta tracciata dal Massari. 97 BRUGIOTTI, Epitome iuris viarum, p. 43. 98 MORONI, Dizionario di erudizione, LXXIV, p. 151: «Circa 5 miglia dal borgo [di Terracina] si giunge al luogo detto l’Epitaffio dal monumento marmoreo eretto da Filippo II nel 1568 e dichiarante essere il confine del reame di Napoli, ed ove risiedono i soldati pontifici; e questo forma pure il confine meridionale tra lo stato ecclesiastico e il regno di Napoli o delle due Sicilie, ivi cominciando il territorio di Fondi, 1a prima città del reame. Un miglio dall’Epitaffio si giunge al luogo della Portella, dove risiedono i soldati napoletani». Lo «Sportello» cui allude il nostro «scandaglio» è la porta ad arco recante la dedica a Filippo II, collocata accanto alla c.d. Torre dell’Epitaffio, grandioso sepolcro romano quadrilatero. A circa due miglia (km. 3,300) – e non un miglio, come vuole il Moroni – s’incontra la Portella, costituita da un arco che unisce due torrioni. 99 J. COSTE, La via Appia nel Medio Evo e l’incastellamento, in Scritti di topografia medievale. Problemi di metodo e ricerche sul Lazio, a cura di C. CARBONETTI, S. CAROCCI, S. PASSIGLI, M. VENDITTELLI, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1996, pp. 489-501 (originariamente in La via Appia. Decimo incontro di studio del Comitato per l’archeologia laziale, C.N.R., 1990 – Quaderni del Centro di studio per l’archeologia Etrusco-Italica, 18), p. 499. D. STERPOS, Comunicazioni stradali attraverso i tempi. Roma-Capua, Novara, 1966, offre un amplissimo panorama delle vicende concernenti il percorso Roma-Capua dall’antichità al secolo XIX. Per quanto riguarda la questione dell’«uso dell’Appia [Antica] come percorso locale» in età medievale, e, più in generale, per un quadro della viabilità in area pontina, nello stesso periodo, si veda S. PASSIGLI, Ambiente umido e componenti umane nel territorio pontino alla vigilia dei progetti di Pio VI (secoli XIIIXV). Recupero e revisione delle problematiche per una rilettura della storia della bonifica, in Pio VI, le paludi pontine, Terracina. Catalogo della mostra. Terracina 25 luglio-30 settembre 1995, a cura di G. R. ROCCI, Terracina, Fondo Cittadino per i Beni Culturali di Terracina, 1995 (pp. 383-408), pp. 392-393. Jean Coste è tornato in seguito sul tema, tracciando, fra l’altro, una breve ma puntualissima esposizione della sua visita al percorso della nostra consolare: cfr. J. COSTE, Strade da Roma per Sermoneta, in
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra medioevo ed età moderna. Atti del convegno della Fondazione Camillo Caetani Roma-Sermoneta, 16-19 giugno 1993, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 1999. 100 COSTE, La via Appia, p. 501. 101 Cfr. le indicazioni offerte dalla mappa del percorso stradale, nel Catasto Alessandrino in ASR, Presidenza delle strade, Catasto alessandrino, n. 429/23 (Fig. 22). 102 Il dato si ricava dalla carta di cui alla Fig. 21. Abbiamo poi provveduto ad effetuare la misurazione sulla carta topografica I.G.M. Ringraziamo sentitamente Susanna Passigli per l’elaborazione della carta e Francesco Paparozzi per la sua realizzazione grafica. 103 C. FEDELE-M. GALLENGA, Per servizio di Nostro Signore. Strade, corrieri e posta dei papi dal Medio Evo al 1870 (Quaderni di storia postale, n. 10), Modena, Mucchi, 1988, p. 166. 104 Ivi, p. 29. Tra Roma e Napoli, se un corriere poteva impiegare 24 ore, i procacci viaggiavano nelle solite 4-5 giornate (p. 48). 105 Ivi, p. 26. 106 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti… b. 248, n. 6 «Accomodamento…», c. 67rv: «Precetto all’Appaltatore Generale delle Strade», 28 aprile 1699. La data della notifica è il 29 aprile (c. 80r). 107 L’Arcispedale del SS. Salvatore presso S. Giovanni in Laterano, fu lungamente governato dall’arciconfraternita che aveva la custodia dell’immagine «acheropita» (non fatta da mani umane) del Salvatore, conservata nel santuario di Sancta Sanctorum presso la Scala Santa. La tenuta adiacente alla strada era con ogni probabilità quella denominata «Marmoria, Arco di Travertino, Buon Ricovero, Statuario»: cfr. ASR, Presidenza delle strade, n. 429/26, e la restituzione cartografica del catasto dovuta a S. PASSIGLI, Ricostruzione cartografica e paesaggio del catasto alessandrino. II Indici delle mappe, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 116, 1993, p. 250 e mappa allegata. Si veda anche ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 249, n. 4: 25 maggio 1706, «Tabella, o tassa fissa delle Tenute, e Casali dell’Agro Romano», sub voce «Ospedale del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum». 108 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», c. 12, ove è allegato un esemplare a stampa dell’editto. Quest’ultimo ne ribadiva uno precedente del 20 ottobre 1683, il quale, come veniva detto, era stato scarsamente osservato. Il provvedimento del 1699 imponeva ai proprietari di mettersi in regola entro quindici giorni dalla sua pubblicazione. I lavori, altrimenti, sarebbero stati affidati a Domenico Ponziani, a spese degli inadempienti. Al pagamento delle opere si sarebbe proceduto «manu Regia et more Camerali», secondo la misura e stima di un architetto della Presidenza delle strade. 109 Ivi, cc. 16-23: «Scandaglio delli lavori». Al punto n. 12, «Capitolo di S. Giovanni», vengono descritti i seguenti lavori: «si faccino sei ripari all’argine della Marrana che porta l’acqua alle mole di S. Giovanni che nelle pioggie ver-
sa fuori… con farli passonate e rialzi di terra qual lavoro spetta all’Affittuario delle mole sudette o Padroni d’esse». Sul canale dell’Acqua Mariana, si veda F. LAIS, Il rivo dell’Acqua Mariana. Consorzio dell’Acqua Mariana, Grottaferrata, Scuola tipografica italo-orientale «S. Nilo», 1920 (2a ed.), operetta erudita segnalatami cortesemente da S. Passigli. Il fiumiciattolo o «marrana», alimentato da una serie di sorgive nel territorio di Frascati, confluiva originariamente nell’Aniene. Fu Callisto II nel 1122 a deviare il suo corso, entro la tenuta di Morena, in un apposito canale sul quale furono impiantate mole, gualchiere, cartiere che sfruttavano la forza motrice della corrente. Il percorso, costituito da «un canale scoperto e appositamente scavato sul dorso dello spartiacque dei versanti dell’Aniene e del Tevere, (…) segue per lungo tratto l’andamento degli antichi acquedotti (Acqua Giulia, Claudia e Marcia), dai quali poi si distacca, dopo circa un chilometro e mezzo da porta Furba, per raggiungere e rasentare la via Tuscolana: costeggia quindi un breve tratto dell’Appia Nuova, passa davanti la porta S. Giovanni e, scorrendo sempre a breve distanza dalle mura urbane, entra in città sotto l’antica chiusa porta Metronia». Va a scaricarsi, infine, nel Tevere presso piazza Bocca della Verità (pp. 26-28). 110 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», cc. 66v67r: lettera ai signori canonici camerlenghi del Capitolo di S. Giovanni, 28 aprile 1699. Già prima della deviazione del 1122, la giurisdizione sul rivo dell’Acqua Mariana doveva appartenere alla basilica lateranense. Eseguita la deviazione e costruiti i mulini, «i pontefici vollero che la tutela e la difesa dell’intero rivo rimanesse affidata al capitolo della loro chiesa papale lateranense, sia per antico diritto sul tronco superiore, sia per la quasi esclusiva proprietà dei fondi lungo il tronco inferiore». Durante il periodo avignonese, il comune di Roma subentrò alla basilica lateranense, i cui diritti furono però ristabiliti da Bonifacio IX con una bolla del 1399. Il capitolo eleggeva gli ufficiali («difensori») che avevano ampi poteri e facoltà e formavano un vero e proprio tribunale, «privativo», rispetto a tutti gli altri, nelle cause che potevano riguardare il rivo lungo tutto il suo percorso, con diritto di manoregia e d’infliggere pene corporali. Tale magistratura non fu sciolta neppure quando Innocenzo XII decise la soppressione dei tribunali inferiori privilegiati. La piena giurisdizione del capitolo fu confermata da Benedetto XIII nel 1725. Alla «congregazione» degli utenti (detta «consorzio» dal 1862) erano preposti i canonici difensori, i quali deputavano un camerlengo per esigere le tasse annualmente dovute dai consorziati, al fine di finanziare la manutenzione del canale. Il camerlengo era di solito un esponente dell’arte dei mugnai. I difensori nominavano anche un custode armato del rivo (LAIS, Il rivo dell’Acqua Mariana, pp. 60-7). 111 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», cc. 16-23:
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«Scandaglio delli lavori», punto n. 19: cfr. tabella 3.1, in appendice. 112 Era figlio di Lorenzo Onofrio e di Maria Mancini, nipote di Mazzarino: cfr. G. BENZONI, Colonna, Lorenzo Onofrio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 27, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1982, p. 35. Filippo (1663-1714) scelse la neutralità nella guerra di successione spagnola. Fu gran connestabile del Regno di Napoli anche sotto Filippo V, nipote di Luigi XIV. Sposò nel 1681 Lorena di Gianluigi della Cerda Aragona duca di Medinaceli, e, dopo la sua morte, Olimpia del principe Giambattista Pamphili, pronipote di Innocenzo X, nel 1697 (cfr. LITTA, Famiglie celebri d’Italia, voce «Colonna di Roma», tavola XI). 113 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», c. 68v: «Lavori nelli territorij di Marino e Sonnino: li fogli (…) furono consegnati per mezzo del Sig. Francesco Maria Capizucchi al Sig.r Contestabile Colonna Padrone di detti luoghi acciò li facesse fare e S.E. ne incaricò il Sig.r Domenico Arigoni suo magiordomo il quale per mezzo del Sig.r Calisti sollecitatore fece assicurare che li lavori si sarebono fatti e li fogli totalmente adempiti». 114 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», cc. 16-23: «Scandaglio delli lavori», punti 32-35. Vedi anche la lettera del Marescotti al Sig. Marchese Ginnetti del 28 aprile 1699, con la quale trasmette l’elenco dei lavori previsto dallo scandaglio (c. 66rv). Sulla nobile famiglia veliterna dei Ginnetti, si veda A. BORGIA, Istoria della Chiesa, e Città di Velletri, in Nocera, per Angelo Mariotti, 1723. Il marchese Marzio Ginnetti, cui fa riferimento il nostro carteggio, era fratello del cardinale Giovan Francesco (16261691) e di monsignor Giovan Paolo, abbreviatore di parco maggiore e poi votante dell’una e l’altra Segnatura (pp. 526-7, n. 88). Il cardinale Giovan Francesco, sul quale molto aspro fu il giudizio degli «zelanti» (p. 532), era nipote del cardinal Marzio (1585-1671), già prefetto delle Congregazioni dei Vescovi e Regolari, dell’Immunità Ecclesiastica, dei Riti, nonché della Congregazione dei Confini. Quest’ultimo acquistò la tenuta giurisdizionale di Torrecchiola dai Borghese, e vi fondò una colonia agricola col nome di Castel Ginnetti. Nel 1726 essa fu eretta in principato da Benedetto XIII a favore di Orazio Lancellotti Ginnetti. Il fratello del cardinal Marzio, Giuseppe (1580-1653) acquistò il feudo di Roccagorga per il quale ottenne il titolo marchionale (cfr. G. SILVESTRELLI, Città castelli e terre della regione romana, Roma, Bonsignori, 1993 (ristampa, con appendice di aggiornamenti e aggiunte, a cura di M. Zocca, della II ediz. 1940), I, pp. 116 e 128. 115 Su Gaetano Francesco Caetani (16561716) si veda L. FIORANI, Caetani, Gaetano Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 16, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, pp. 170-1. Figlio di Filippo, che fu esule in Sicilia per un omicidio, sposò Costanza, pronipote di Urbano VIII Barberini.
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Fu anch’egli esule per aver partecipato alla congiura filoasburgica contro Filippo V, mettendo insieme un piccolo esercito di banditi nel feudo di Sermoneta. Fu intanto condannato a morte dal sovrano e messo al bando da Clemente XI. Nel 1702 lasciò Roma per Vienna, da dove poté ritornare nel 1704. 116 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», cc. 16-23: «Scandaglio delli lavori…», punto 48, «Principe di Caserta». Si veda anche la lettera di trasmissione della nota del «lavoro da farsi nel territorio di Sermoneta», al Sig. duca di Sermoneta a Cisterna, in data 28 aprile (cc. 65v-66r). 117 Ivi, «Scandaglio delli lavori», punto 50, «Comunità di Sezze». Parte del territorio della comunità di Sezze ricadeva, dunque, ancora entro il distretto. 118 Ivi, «Scandaglio delli lavori», punti 56 e 57: cfr. tabella 3.1 in appendice. 119 Carlo (1630-1706) era pronipote di Urbano VIII e fratello di Maffeo: era dunque zio del cardinal Francesco sopra citato (v. nota n. 58). Carlo Barberini, titolare di diverse cospicue commende, come Farfa e Subiaco, spesso sostituì lo zio Antonio nella carica di camerlengo, ma ebbe comunque scarso peso nella Curia: cfr. A. MEROLA, Barberini, Carlo in Dizionario Biografico degli Italiani, 6, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1964, pp. 171-2. 120 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «Accomodamento», cc. 16-23, «Scandaglio delli lavori», punti 71-75: «Card. Carlo Barberini». In un’altra copia dello «scandaglio», allegata subito dopo la mappa, accanto al nome del cardinale è aggiunta la notazione «non è tenuto»: il Barberini sarà infatti esentato da ogni incombenza. 121 Ivi, «Scandaglio delli lavori», punti 77-79 e 81: «Communità di Sonnino». 122 Ivi, «Scandaglio delli lavori», punti 82-91: «Communità di Terracina». 123 Ivi, «Scandaglio delli lavori», punto 43. Vedi, inoltre: «Tassa da imporsi per fare un ponte sopra il fossato sotto Sermoneta» (cc. 5459). 124 Cfr. ASR, Presidenza delle strade, iura diversa, n. 33, cc. 226r-227v: chirografo di Innocenzo XII del 7.5.1695 diretto a mons. Nicolò Grimaldi, presidente delle strade. L’intervento prospettato si era reso necessario a seguito delle lamentele dei passeggeri. Due architetti, spediti sul posto dalla Presidenza, avevano convenuto con i rappresentanti delle comunità e degli altri soggetti interessati che la cosa migliore da fare era disboscare e risarcire la «strada detta della Pedicata che passa sotto i colli di Sonnino», collegandola poi alla consolare mediante tre ponti da costruire «sopra alcune cocavationi fatte dall’aque tra il ponte di detta Abadia e la medesima strada della Pedicata»: l’inondazione era provocata, infatti, da tre «rotture» apertesi nell’alveo dell’Amaseno e «dalla regurgitatione dell’aque del fosso detto il Canalone (…) per l’angustia del ponte detto del Falsitto nella tenuta di Angelo Gavotti, e per altri impedimenti». La spesa prevista era di 5000
CARMINE IUOZZO
scudi. Il pontefice lasciava al presidente delle strade la decisione di mettere in atto questo progetto, oppure, in alternativa, di risarcire la vecchia strada. Al magistrato era poi data anche la facoltà di ripartire la spesa fra il cardinal Carlo Barberini, Angelo Gavotti e le comunità di Terracina, Priverno e Sonnino, oppure di assegnare a ciascuno di essi una quota parte dei lavori da condurre in proprio. Inoltre, il presidente avrebbe dovuto far rimuovere «tutti gl’impedimenti che ritardassero il corso dell’aque e che dassero causa all’inondationi, con far fare argini, spurgar fossi, alvei di fiume, far tagli di terreni, benché fossero di persone ecclesiastiche». Tutti, anche i privilegiati, avrebbero partecipato alle spese, finanche i cardinali, che venivano esplicitamente nominati. Il pontefice dichiarava che i beni dell’abbazia di Fossanova e la tenuta di Angelo Gavotti non si dovevano considerare compresi nei territori delle comunità, ma si sarebbero dovuti tassare separatamente. I lavori per rimuovere le peschiere che strozzavano l’alveo dei corsi d’acqua e per la chiusura delle «rotture» negli argini, ordinati dal presidente, su parere di una Congregazione particolare, furono approvati da Innocenzo XII con un chirografo del 5.11.1695 (ivi, n. 34, cc. 2v-4r). Con altro simile provvedimento del 22.2.1696 (ivi, reg. 33, cc. 229v-230r), il pontefice concedeva alla comunità di Sonnino, nel cui territorio era situato il tratto più lungo della strada da riattare, una donazione di 100 scudi ed un prestito di altri 158. Il chirografo del 14.4.1696 (ivi, n. 34, c. 1rv) c’informa che a quella data s’erano conclusi i lavori ritenuti più necessari. Innocenzo XII condonava al cardinal Barberini metà della somma che egli avrebbe dovuto pagare per il perfezionamento dei lavori, e a questo scopo metteva a disposizione i denari avanzati dalla tassa fissa delle vigne di Roma. 125 Nel 1696, al posto del riattamento della strada della «Pedicata», sembra fosse stata realizzata semplicemente la risistemazione della strada esistente. 126 Come appare dalla carta del Massari, «l’altro fiume» è la Pedicata (v. Fig. 20). 127 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 16-23, «Scandaglio delli lavori», punto 76. 128 Ivi, cc. 54-59: «Tassa da imporsi per slargare il letto del fiume Amaseno». 129 Ivi, c. 65r: lettera del Marescotti a mons. Caffarelli, del 27 aprile 1699. 130 Ivi, cc. 65v-66v. 131 Fino al 1692 la prefettura del Buon Governo spettava al cardinal nipote. Primo prefetto dopo la soppressione del nepotismo fu Fabrizio Spada che presiedette la Congregazione per tutto il pontificato di Innocenzo XII. 132 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 45-53 e 71r. La circolare si può leggere anche in ASR, Buon Governo, serie V, b. 57, 9.5.1699. I destinatari sono: i cardinali legati di Ravenna e Urbino, ed i governatori di Marca, Jesi, Ancona, Montalto, S. Severino, Fabriano, Matelica, Ascoli, Camerino, Sassoferrato, Perugia, Assisi,
Spoleto, Terni, Narni, Orvieto, Viterbo, Rieti, Frosinone, Velletri; i governatori dei luoghi baronali di Marino, Sermoneta, Sonnino. 133 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6, «Accomodamento», c. 9. 134 Sul Carpegna, si veda G. ROMEO, Carpegna, Gaspare, in Dizionario Biografico degli Italiani, 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1977, pp. 589-591. 135 Il testo della circolare si trova anche in ASV, Congregazione dell’Immunità ecclesiastica, libri litterarum 1698-1699, c. 83r. I destinatari sono gli ordinari delle seguenti diocesi: Bologna, Ravenna, Ferrara, Cervia, Imola, Cesena, Forlì, Rimini, Forlimpopoli, Faenza, Bertinoro, Camerino, Urbino, Urbania, Montefeltro, Recanati, Pesaro, Macerata, Fermo, Tolentino, Ascoli, S. Severino, Fano, Senigallia, S. Angelo in Vado, Ancona, Jesi, Fossombrone, Cagli, Loreto, Montalto, Spoleto, Narni, Foligno, Gubbio, Assisi, Perugia, Terni, Abbazia di S. Rufillo, Città della Pieve, Todi, Nocera, Rieti, Farfa (per gli ecclesiastici di Poggio S. Lorenzo), Albano, Velletri, Terracina, Veroli, Alatri, Anagni, Ferentino. 136 DE LUCA, Il dottor volgare, Parte Quarta. Dell’Immunità Ecclesiastica ed ancora delle Censure Ecclesiastiche, cap. I, p. 666. 137 Id., Theatrum, Lib. XV, pars II Relatio Romanae Curiae Forensis, disc. XXXIII «Romanae Taxae Viarum», p. 337, §5. 138 Ivi, §§5-6. 139 Ivi, §§8-10 140 Ivi, Lib. II De regalibus, disc. LIX, p. 97, §§9 e 10. 141 Ivi, Lib. XV, pars II Relatio Romanae Curiae Forensis, disc. XXXIII «Romanae Taxae Viarum», §11; ed anche Lib. XIV, pars IV Miscellaneum ecclesiasticum, disc. XLVIII «Romana taxae viarum», p. 313, §§10-14. 142 Su tutta la questione si veda A. LAURO, Il cardinale Giovan Battista de Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa, Napoli, Jovene, 1991, pp. 361 e segg. 143 DE LUCA, Theatrum, Lib. XIV, pars IV Miscellaneum, disc. XLVIII «Romana taxae viarum», p. 311, §2, e p. 313, §20. 144 Fa riferimento al diritto (comune), ma anche alle consuetudini locali un’interessante testimonianza del governatore di Marittima e Campagna, Enrico Enriquez. Nel viaggio da Roma alla sua residenza di Frosinone, egli constatava il cattivo stato delle strade della sua provincia e ne scriveva, il 27 aprile 1735, al cardinal Imperiali, prefetto della Congregazione del Buon Governo, annunciando di aver dato opportuni ordini alle comunità e preso contatti con i sovrintendenti dei luoghi baronali, per risolvere il problema. La sua iniziativa aveva sortito effetti solo in parte: «Dissi in parte – scrive l’Enriquez –, perocché ad ottenere pienamente un intento sì utile si richiede il valevolissimo braccio di Vostra Eminenza, perché colle facoltà della medesima io possa astringere gli Ecclesiastici renitenti, e permettere alle Comunità la spesa, che secondo il diritto e le consuetudini de’ luoghi deve cadere sopra di loro. Imperocché io credo di dovere obbligare gli adia-
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
centi alla fattura e spurgo de’ fossi, il popolo alla condotta de’ sassi, e le Comunità al resto della spesa delle strade consolari. Che quanto alle altre strade se son pubbliche e conducono a meta di pubblico uso, come a molini, a fonti, e cose simili, credo che debba appartenere non alle Comunità, ma al Pubblico, cioè a tutti i particolari; e se sono strade private ai soli adiacenti». ASR, Buon Governo, serie II, b. 639, 27 aprile 1735. Il corsivo è nostro. 145 DE LUCA, Theatrum, Lib. II, De regalibus, disc. LVIII, p. 95, §12. 146 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6 «accomodamento» cc. 39-44: lettere circolari del card. Carpegna datate Roma, 5 maggio 1699 e dirette al Vicario Generale di Velletri ed a quello di Albano. 147 Un ricco campionario di episodi relativi alla frizione fra la componente laica e quella ecclesiastica delle comunità di Sezze, Priverno e Sonnino si rinviene nei carteggi del Buon Governo, nella serie II, ordinata per luogo. 148 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6, «accomodamento» , c. 69v: lettera del Marescotti a mons. Leti, governatore di Marittima e Campagna, in Frosinone, 9 maggio 1699. Nella lettera di risposta al Marescotti, datata da Frosinone il 13 maggio (c. 111r), il Leti, oltre ad accusar ricevuta della circolare della Congregazione dell’Immunità, assicurava che egli l’avrebbe fatta presentare al vescovo «a suo tempo», per gli ordini opportuni. 149 ASR, Buon Governo, serie II, b. 4574, 2 giugno 1696. 150 Cfr. G. B. DE LUCA, Il cardinale della S.R. Chiesa pratico. Nell’ozio Tusculano della Primavera dell’anno 1675. Con alcuni squarci della relazione della Corte circa le Congregazioni e le Cariche Cardinalizie, Roma, nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, MDCLXXX, pp. 212-3: «e generalmente i Cardinali hanno per privilegio, che non s’intendano compresi nelle leggi, provisioni, e bandi pregiudiziali, o che portino gravezze, quando di essi non si faccia speciale menzione, se pure l’ampiezza delle parole non fosse tale, che equivalesse, o pure che per altre circostanze apparisse dalla volontà d’includerli (…). Circa l’esenzioni, overo franchigie dalle gabelle, e dalle altre gravezze, generalmente non vi cade prerogativa particolare di questa Dignità, mentre ogni semplice Prelatura, anzi il solo chiericato (…) produce sì fatta esenzione. Ma perché altre volte per giusti motivi, e per quelle pubbliche necessità, le quali riguardano il servizio della Religione, e della Chiesa, la Sede Apostolica suole concedere a i Principi secolari la facoltà d’esiggere alcune gravezze, e contribuzioni dagli ecclesiastici, e lo suol praticare nel proprio Principato temporale (…) segue, che tra i privilegij e le prerogative del Cardinalato si suole annoverare questa delle esenzioni, e franchizie da alcuni di quei pesi, a’ quali soggiacciono li altri Ecclesiastici, o sia perché se ne vogliono espressamente eccettuare, o pure per il privilegio accennato di sopra, cioè che non vengono, e non s’intendono compresi sotto le disposizioni generali».
151 ASR, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6, «Accomodamento», c. 69v: «Lavori nel territorio della Abadia di fossa nova». 152 Ivi, cc. 69v-70r: lettera del Marescotti a mons. Leti, il 13 maggio 1699. 153 Ivi, c. 113rv: lettera di mons. Leti al Marescotti (17 maggio 1699); cc. 119rv e 122r: Leti a Marescotti, (6 giugno); c. 120rv: memoriale dell’affittuario dei beni dell’abbazia di Fossanova, De Carolis. 154 Ivi, c. 71v: lettera del Marescotti a mons. Leti, l’11 gugno 1699. 155 Si trattava di Ortensia, figlia del fratello del cardinale, Alessandro Marescotti Capizucchi. La donna aveva sposato il barone Angelo Gavotti, il quale morì in duello per mano del marchese Scipione Santacroce nel 1703, cfr. Memorie delli Padroni di Vignanello ritrovate e raccolte da me Gio. Francesco Lagrimanti, p. 327. 156 ASR, Presidenza delle strade, «Accomodamento», b. 248, n. 6, cc. 70v-71r. L’appunto riferisce che la mattina del 13 maggio 1699 il papa affidava l’incarico di far eseguire i lavori in parola al presidente delle strade, al quale Marescotti consegnava copia della relazione del Massari. Il cardinale consigliava poi mons. Borghese di sentire personalmente l’architetto, ed inoltre di richiedere il parere di altri «professori et interessati», trattandosi di dover affrontare lavori particolarmente onerosi. 157 Ivi, c. 126v: lettera del Leti al Marescotti, 19 luglio 1699. 158 Ivi, cc. 67v-68v: Lettera del Marescotti a mons. Leti, Governatore di Marittima e Campagna, in Frosinone, 1° maggio 1699. Il cardinale raccomandava al governatore che, in caso di sua promozione, egli avrebbe dovuto aver cura di passare le consegne relative ai lavori stradali al suo successore. 159 Ivi, cc. 162r e 165v: memoriale della comunità di Piperno diretto ad Innocenzo XII, e fatto poi pervenire al Marescotti «per giustitia». 160 Ivi, c. 163: testimonianze, raccolte a Priverno il 4 agosto 1699 ed accluse al precedente memoriale. 161 Ivi, c. 160r: memoriale della comunità di Sonnino al Marescotti. 162 Ivi, c. 128rv: lettera di Filippo Leti al Marescotti, da Frosinone, il 12 settembre 1699; cc. 134-135: Leti a Marescotti (4 ottobre 1699). 163 Ivi, cc. 72v-73r: lettera del Marescotti a mons. Leti, in Frosinone, il 7 ottobre 1699. 164 Ivi, cc. 142rv: lettera di Filippo Leti al Marescotti, da Frosinone, il 6 dicembre 1699. 165 Ivi, cc. 73rv: lettera del Marescotti a mons. Leti, in Frosinone, il 5 novembre 1699, con la quale gli rimetteva il memoriale dei campieri di Terracina. Costoro chiedevano al cardinale di non essere più molestati, per essere anzi «animati alla totale distrussione di tal macchia perniciosa a viandanti», portando così a compimento l’opera che essi ritenevano meritoria. 166 Cfr. L. PALERMO, Tra terra e mare: l’economia della comunità di Terracina nel Settecento, in Pio VI, le paludi pontine, Terracina, p. 451: «Le entrate patrimoniali sono di gran lunga le più consistenti e rivelano una situazione
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niente affatto scadente: la comunità affittava le sue proprietà e i suoi pascoli, che (…) erano meta di greggi che provenivano da molte località dell’entroterra». Fra gli introiti affittati, quello che risulta più costoso è quello «per il pascolo o sia fida nella montagna e selva grande», per il quale l’affittuario Vernaleoni s’impegnava a pagare 1550 scudi annui, secondo il contratto stipulato nel 1763 (Ivi, p. 450). 167 «Còna»: forma antica di «ancona» dal bizantino «eikóna». Nei dialetti meridionali: «nicchia per tenerci qualche sacra immagine». Nel velletrano: «maestà, chiesina campestre»: cfr. Dizionario Etimologico Italiano, a cura di C. BATTISTI-G. ALESSIO, Firenze, Barbèra 1968, vol. II, sub voce «còna». La strada «delle grazie» è forse da identificare con una variante della consolare, prossima alla chiesa di S. Maria delle Grazie, situata a poca distanza dall’abitato in direzione nord-ovest. 168 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 136137: lettera di Orazio Visca, da Priverno il 20 ottobre 1699. La professione del Visca si desume dalla sua sottoscrizione apposta alle deposizioni di cui alla c. 163. 169 Cfr. ASR, Notai di acque e strade, vol. 120, cc. 140 e sgg.: «Rescissio et concessio novi appaltus generalis viarum extra Urbem» (7.2.1693), art. 5 (c. 156rv): gli appaltatori sono tenuti a pulire e spurgare solo i fossi che servono a ricevere l’acqua dalla strada, «ma per quelli fossi che servono per le tenute, casali, vigne e terreni adiacenti, e che ricevono lo scolo dell’acque di dette tenute, siano tenuti et obligati li vicini padroni e possessori d’esse tanto a darli esito nelle loro tenute e beni come sopra, come anche di rifare, spurgare e pulire come sopra gli altri fossi adiacenti che ricevono l’acque e scoli di dette tenute». 170 ASR, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6 «Accomodamento..», c. 103v: lettera di Gaetano Francesco Caetani al Marescotti, da Cisterna il 1° maggio 1699. 171 ASR, Presidenza delle strade, iura diversa, reg. 34, c. 48rv: 3 giugno 1699, «Deputatio pro reaptatione Viae extra Portam S. Iohannis», a firma di Paolo Borghese, presidente delle strade. Le comunità individuate sono quelle già designate dal Massari. Non compaiono, però l’abbazia di Fossanova e la famigia Gavotti, che pure erano state incluse nella previsione dell’architetto: cfr. ivi, atti sciolti, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 16-23: «Scandaglio», n. 43. 172 Ivi, c. 123rv: lettera di G. Francesco Caetani al Marescotti, da Cisterna il 15 giugno 1699. 173 Ivi, cc. 71v-72r: lettera del Marescotti al duca di Sermoneta, in Cisterna, del 17 giugno 1699. 174 Ivi, c. 132r: lettera del vice duca di Marino al Marescotti, 21 settembre 1699. 175 Ivi, c. 158r: memoriale, senza data, diretto al Marescotti da «Pontiano Rotondi et altri possessori delle cantine e fenili esistenti per la strada vicina al borgo fuori della terra di Marino». I proprietari delle cantine si lamen-
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tavano di aver pagato un prezzo troppo alto agli esecutori dell’opera (uno scudo per ogni canna di massicciata). Inoltre, sostenevano che la strada, «per essere consolare sono tenuti a rifarla li mastri di strada di Roma, conferma altre volte l’anno rifatta, et il caso che siano obligati li oratori sarebono solo tenuti a pagarla per metà delli venti palmi di larchezza alla raggione di quattro giulij per canna stimata dal misuratore Publigo della Comunità con farne il solito stile d’altre strade Comunitative…». 176 Cfr. ASR, Buon Governo, serie XII, b. 1082, cc. 256 e sgg.: «Spese straordinarie» di Sezze. Il corsivo nel testo citato è nostro. 177 L. MANNORI, Per una preistoria della funzione amministrativa. Cultura giuridica e attività dei pubblici apparati nell’età del tardo diritto comune, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XIX, 1990, pp. 476 e sgg. e 498 e sgg. 178 ASR, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6, «Accomodamento», c. 69r: «Signor marchese Ginnetti». La sentenza si trova trascritta, sotto la data del 6 maggio 1699, nella registrazione di atti alle cc. 166-169. 179 Vedi la tabella 2.1, in appendice. 180 ASR, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 148rv e 155r: memoria del procuratore di casa Ginnetti, Cesare Viccione. L’avvocato allega copia del contratto della Presidenza delle strade con gli appaltatori Ferelli, in data 7.2.1693 (cc. 149-153) e copia della sentenza del 28.11.1663 (cc. 152153). 181 Ivi, cc. 166-169: registrazioni d’atti, 15 maggio 1699. Il contratto d’appalto stipulato nel 1693 prevedeva che l’appaltatore fosse tenuto ad assicurare la manutenzione non solo delle strade esplicitamente nominate, ma anche delle «altre strade che fossero state accomodate e poste in tassa nelli anni venticinque conforme si contiene nell’altro Instromento di appalto rogato li 13 luglio 1680 al capitolo primo incominciando dalle dette Porte della Città, per tutto il Distretto»: cfr. ASR, Notai di acque e strade, n. 120, c. 147r. 182 ASR, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6, «Accomodamento»: i biglietti sono fra le cc. 147 e 148. Essi sono datati «di casa», uno il 5 e l’altro il 6 giugno, alla vigilia dell’udienza del Ferelli davanti al Marescotti. 183 Ivi, cc. 166-169, registrazione d’atti, 6 giugno 1699, «pro (…) marchione Martio de Ginnettis (…) contra D. Flaminium de Romanis ex.tum DD. Hiancinthi Ferelli». 184 Ivi, c. 82rv: ordine del card. Marescotti a Domenico Pontiani, ministro deputato da Giacinto Ferelli (30 settembre 1699). Evidentemente non erano state ritenute dirimenti le testimonianze, richieste dal cardinale il 17 settembre, e rese a favore dell’appaltatore il 19 e il 22 settembre. Francesco Sartori dichiarava di essere andato per suoi affari a Sezze al principio di settembre, rilevando che la strada era tutta ben accomodata, eccetto alcuni tratti prima e dopo Castel Ginnetti, ove occorreva qualche rifacimento. Secondo Pasquale Pepe, da porta S. Giovanni alle Case Nuove, la strada «dal mese di aprile in qua è stata perfet-
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tamente reattata e di presente si ritrova in ottimo stato eccettuato la strada per il distretto del Castel Ginnetti la quale non è intieramente accommodata dicendosi che si spetti detto accommodamento alli S.ri Ginnetti padroni di detta tenuta, e ciò lo so per passare continuamente servendo il procaccio di Napoli» (ivi, registrazione d’atti alle cc. 166-169). 185 Vedi nota 110 186 Ivi, cc. 156-157: memoriale di Camillo Panzeri, procuratore «Universitate Molisorum Urbis», per l’udienza del 17 corrente mese (?) davanti al Marescotti. Alla carta 89r si trova copia in volgare del capitolo 83 dello statuto di Roma: «Se il corso e canale dell’Acqua della Marrana che va all’acqua Bollicante sino a Ponte rotto ed a’ piedi della Torre di S. Giovanni e Torre quattrara si rompesse e si guastasse si debba quello pulire e raccommodare da quelli che confinano a detto canale o fosso a tutte loro spese, di maniera tale che il sudetto canale o fosso sia e debba essere di larghezza palmi otto e fondo palmi quattro, e tutte le fratte et altre mondezze che vi sono di quà e di là da detto fosso, si debbano levare e pulire dalli padroni e confinanti di detto fosso parimente a tutte loro spese, e per la raccommodatura et espurgatione di esso fosso non si possa imporre peso né tassa a nessun altra persona, eccettuato che a quelli che possiedano vicino a detto fosso e confinano ad esso conforme si è detto, e nulla di meno tutti quelli che hanno ragione e privilegio d’acqua si debbano restar fermi». 187 Ivi, cc. 166-169, registrazione di atti, 17 settembre 1699, «Pro D. Procuratore fiscali Ill.mi Tribunalis Viarum contra D. Hiacintum Ferellum Appaltatorem Viarum Consularium, D. Dominicum Ponsianum et Rev.m Capitulum S. Johannis Lateranensis». 188 Ivi, c. 87r: fede dell’architetto Massari del 3 ottobre 1699; c. 88r: ordine del Marescotti all’architetto Massari, 4 ottobre 1699. 189 Ivi, cc. 90r-92r: misura e stima dei lavori fatti da mastro Corti d’ordine del Marescotti, per riparare l’argine della marrana alla posticciola di Marino. La perizia è firmata dall’architetto Massari ed illustra la tecnica della «passonatura», ossia la chiusura delle falle nell’argine per mezzo di palizzate (i pali sono detti «passoni») legate fra loro a formare strutture da riempire con terra («Un pezzo di passonata commessa in una rottura dell’argine», per una lunghezza di 23 palmi, con n. 15 passoni lunghi ciascuno palmi 8, ed una catena di 7 palmi, «intrecciati con frasconi da tutte due le parti… e riempita la cassa con terra cavata nella campagna cariolata…»). 190 ASR, Presidenza delle strade, iura diversa, reg. 34, cc. 60v-61v. «Deputatio pro reaptatione Viae extra Portam Flaminiam versus Portum Nazzani» a firma del card. Ottoboni, 30 gennaio 1700, che costituisce l’atto preliminare al riparto della tassa. Il nuovo riparto ordinato dal Marescotti è del 28 luglio 1704 (ivi, cc. 137v-138v). 191 La tassa stabilita il 15 giugno 1701 è in ASR, Presidenza delle strade, taxae viarum, vol. 452, cc. 351 e 394. I nuovi riparti di tassa ordinati dal Marescotti sono alle cc. 371 e 634, ed
ancora in Presidenza delle strade, iura diversa, n. 34, cc. 121v-124v. 192 ASR, Buon Governo, serie XII, b. 59: «Tabella della comunità di Sezze dal 5 giugno 1699 a tutto il 4 giugno 1700». 193 Ivi, b. 1082, cc. 256 e sgg. (non numerate), Sezze: «Spese straordinarie fatte delli denari della Tabella prossima passata li 4 giugno 1700, e riviste da noi (?) deputato del conseglio publico sotto li 13 giugno 1700». Per la descrizione di queste spese si veda la tabella 5 pubblicata in appendice. La costruzione del ponte a «Foss’alto» risulta, peraltro, imputata dal Massari alla comunità di Priverno e non a quella di Sezze: cfr. ASR, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 16-23: «Scandaglio delli lavori», punto 56, nel quale si parla di un «fosso adautto» probabile corruzione dialettale per «Fossalto». 194 ASR, Buon Governo, serie XII, b. 1028, «Ragguaglio per le tabelle spedite nell’anno 1701», c. 359r «Ristretto delle risposte cavate dalle lettere del S.r Girolamo Costantini Marini Luogotenente di Mons. Governatore di Frosinone al foglio mandato dalla Sacra Cogregazione del Buon Governo. Si pone per maggior chiarezza da una parte il foglio, et all’incontro le risposte in succinto». La cifra spesa per il ponte di Fossalto, riportata in questi documenti (scudi 79,25), è leggermente diversa da quella da noi calcolata sulla base delle «spese straordinarie» comunicate dalla comunità di Sezze al Buon Governo (scudi 79,05): cfr. la nota precedente. 195 Ivi, c. 344r: lettera al Buon Governo del luogotenente Girolamo Costantino Marini da Frosinone, il 22 maggio 1701. 196 Ivi, b. 1082, cc. 256 e sgg. (non numerate), Sezze: «Spese straordinarie fatte delli denari della Tabella prossima passata li 4 giugno 1700…». 197 Ivi, serie II, b. 3546, «Piperno»: lettere del governatore Filippo Leti al Buon Governo del 20 gennaio 1697 e del 29 aprile 1699. 198 Ivi, serie XII, b. 60: «Tabella della comunità di Piperno dell’anno 1701». 199 Ivi, Buon Governo, serie VIIa, b. 186: giustificazioni del conto del Sig. G.B. De Carolis, affittuario delle entrate di Terracina, 16931700, n. 68. Per le spese della comunità di Terracina si vedano le tabelle 4.1-4.4, in appendice. Fontana Frasso è identificabile con «Fontana de’ banditi», località segnalata nello «scandaglio» del Massari: cfr. la tabella 3.1, punto 82, in appendice e la Fig. 24. 200 Ivi, Presidenza delle strade, b. 248, n. 6, c. 138r: lettera di Filippo Leti al Marescotti, da Frosinone il 4 novembre 1699. Il governatore riferiva al Marescotti d’aver ricevuto avviso, dai tre commissari designati per la Marittima, che tutti i lavori per il riattamento delle strade erano stati portati a compimento, secondo gli ordini del cardinale; c. 142rv: lettera di Filippo Leti al Marescotti, da Frosinone il 6 dicembre 1699. 201 Ivi, c. 140r: Lettera di Francesco Caetani al Marescotti, da Cisterna il 10 novembre 1699.
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
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Appendice
Tab. 1. Congregazione cardinalizia delle strade del 2 aprile 1699. Distribuzione delle sovrintendenze sui lavori delle consolari per tutto lo Stato ecclesiastico (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 248, n. 6, «Accomodamento», cc. 6-9, «Congregatione Generale delle Strade»).
Cardinale sovrintendente
Strade assegnate
Architetto deputato
Fabrizio Spada
«strade fuori di Porta Angelica che passano per Viterbo et altri luoghi sino al ponte Centeno confino dello Stato Ecclesiastico, e quelle che passano per la Toscana con l’altre collaterali». «strada Flaminia della Porta del Popolo sino a Foligno inclusive e da Foligno a Nocera, Galdo e Sigillo sino a confini dello Stato d’Urbino, come anco (le) strade verso Perugia sino alli confini del medesimo Stato d’Urbino con le loro collaterali». «strade di Foligno esclusive per la Santa Casa di Loreto sino a Bologna, Ferrara e Ravenna per quanto dura lo Stato Ecclesiastico con le sue collaterali». «strade di Porta Pinciana e Salaria verso la Sabina e le Molette di qua e di la dal Tevere, che passano per l’Hosteria di Vacone sino al castello di Confino, e la strada vicino al fiume sotto Riano, Nazzano, Leprignano et altri luoghi di Sabina, e quella che va sino alle caminate sopra Palombara e le sue collaterali». «strade fuori di Porta Pia verso Rieti alli confini d’Abruzzo comprendendovi l’Abbadia di Fara con le sue collaterali». «strade fuori di Porta S. Lorenzo, che per Tivoli, Vicovaro, Riofreddo et altri luoghi sino alli confini di Regno con le sue collaterali». «strade fuori di Porta Maggiore verso Ciprano e Campagna et altre trasversali». «strade fuori di Porta S. Giovanni, che fà il Procaccio di Napoli per quanto tiene lo Stato Ecclesiastico sino alla Portella con sue collaterali» «strade fuori di Porta S. Sebastiano verso Albano e la Riccia sino a Nettuno con le sue collaterali». «strade fuori di Porta S. Paolo di qua dal fiume, e la strada delle Paludi Pontine e quelle di Ostia per la Marina, sino a dette Paludi con le sue collaterali». «strade fuori di Porta Portese e S. Pancratio verso Porto e Magliana». «strade fuori di Porta Pertusa per Civita Vecchia, Corneto et altri luoghi con il ponte del Fosso del Mignone e sue collaterali».
Antonio Maria Borioni
Lorenzo Altieri
Francesco Barberini Pietro Ottoboni
Carlo Bichi Gaspare Carpegna Francesco Del Giudice Galeazzo Marescotti Giovan Battista Costaguti Gianfrancesco Negroni Giovan Battista Spinola Nicola Acciaioli
Giacomo Moraldi
Giacomo Moraldi Francesco Massari, Giacomo Moraldi
G. F. Zannoli Angelo Ho. Recalcati Angelo Ho. Recalcati Francesco Massari Angelo Ho. Recalcati G. F. Zannoli Ludovico Gregorini Antonio Maria Borioni
Tab. 2.1. Consolari assegnate all’appaltatore generale della manutenzione per il distretto di Roma (ASR, Notai di acque e strade, b. 120, cc. 148rv e 156rv: «Nota delle strade consolari publiche che devono accomodare gl’Appaltatori», inserita nello strumento d’appalto stipulato in data 7 febbraio 1693 da Domenico Antonio e Giacinto Ferelli con la Presidenza delle strade).
Consolari
miglia1
«Porta del Popolo cominciando da Ponte Molle sino al Ponte di Viterbo, voltandosi però da Monte Rosi verso Sutri per dove passa la Posta, e da Sutri a Ronciglione * Detta per Utricoli sino alla colonnella passate le vigne di Utricoli * Detta per Fiano, che cominciando da Prima Porta va sino al Porto di Nazzano
39 40 13
Porta Pinciana e Salara passando per l’osteria di Fontana di Papa e termina all’osteria di Correse, eccettuandosi i prati di Monte Rotondo, o sia del Prencipe di Palestrina
18
Porta Pia per Rieti sino a S. Giovanni Valle Reatina
40
Porta S. Lorenzo passando per l’osteria della Piaggia a mano manca per Riofreddo, e termina al fosso del confine di Regno
30
1 Non si tratta della distanza da Roma al termine qui indicato, ma della lunghezza complessiva della strada oggetto della manutenzione dell’appaltatore. Ad esempio, la strada da Porta S. Giovanni per Marino e Velletri, fino alle Case Nuove sviluppava una lunghezza di circa 49 miglia; dall’obbligo dell’appaltatore erano tuttavia esclusi i tratti attraversanti gli abitati di Marino e Velletri.
94
CARMINE IUOZZO
(Segue) Consolari
miglia
Porta Maggiore per Acqua Bollicante sino all’osteria di Pantano * Detta per Boccalione e termina al fontanile * Detta per Torrenova verso la Colonna, e volta all’osteria di S. Cesareo, Zagarola e Palestrina sino alle vigne incontro Giannazzano passato Cavi, cioè sino all’ultima vigna di detta terra di Giannazzano per andare a Paliano
10 2
Porta S. Giovanni, passando dall’osteria di Baldinotti, va alla Molara e Cava e poi all’osteria di Mezzaselva, Valmontone e Castellaccio sino alla prima conetta a mano manca passate le ostarie d’Anagni per andar verso Firentino * Detta per Marino e Velletri sino sotto Sezze arrivando alle Case nove * Per Molara e Cava che dalla Crocetta volta a mano dritta passando sotto Monte Fortino rientra nella strada che va ad Anagni esclusi i tratti attraversanti gli abitati di Marino e Velletri Porta S. Sebastiano sino alla porta d’Albano, che passa sotto il pascolare di Castello * Detta per il braccio che cominciando dalle Frattochie volta a mano dritta per Nettuno, e passando sotto l’osteria di Civita Lavinia, termina al Ponte di Carroceto * Detta che poco lontano da Domine quo vadis volta a mano dritta, et arriva sino al casale del Falcognano
25
40 40 (–) 13 11 8
Porta S. Paolo, e volta passato la chiesa a mano manca verso le Tre Fontane per Ponte Buttaro, e termina all’osteria di Monte Migliore * Detta passando per la chiesa sempre per la strada dritta sino al Ponte d’Ostia, et a mano manca sino declina all’osteria d…
14
Porta Portese sino a Porto tirando però a mano manca dal Ponte Galera sempre a canto al fiume * Detta da Pozzo Pantaleo sino alla Magliana
12 4
Porta S. Pancratio per la strada dritta verso Torre Rossa, e segue sino che entra nella strada di Civitavecchia * Detta pure per Torre Rossa e rivolta a mano manca sino alla Pisana * (Detta) che andando a mano manca dalla vigna di Monsignor Corsini passa avanti la Chiesa di detto Santo e poi per la vigna detta della Vecchia verso Bravetta sino che rientra nella strada di Civitavecchia
4 6 (–)
Porta Cavalleggieri per Civitavecchia sino al Ponte del Marangone
37
Porta Angelica per Monte Mario sino che entra nella strada maestra che da Ponte Molle va verso Viterbo * Detta sino a Ponte Molle
6 21
13
Tab. 2.2. «Tassa fissa» pagata semestralmente dalle comunità per la manutenzione ordinaria della strada da «Porta S. Giovanni per Marino e Velletri» (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle strade extraurbane, b. 249, n. 3, 1706). Importi in scudi e baiocchi.
Albano Ardea Ariccia Bassiano Castel Gandolfo Cisterna Civita Lavinia (Lanuvio) Genzano Maenza Marino Nemi Nettuno Priverno Pratica di Mare Prossedi Roccagorga Rocca di Papa Roccasecca Sermoneta Sezze Sonnino Terracina Vallecorsa Velletri TOTALI
Importo annuale
Rata semestrale
1,69 0,67 2,33 6,88 0,42 2,00 7,16 6,76 6,11 9,17 5,72 13,52 42,01 0,33 3,68 2,28 6,72 3,96 25,50 45,84 4,77 30,56 6,88 73,73 308,69
0,84 0,33 1,16 3,44 0,21 1,00 3,58 3,38 3,05 4,58 2,86 6,76 21,01 0,16 1,84 1,14 3,36 1,98 12,75 22,92 2,38 15,28 3,44 36,86 154,31
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
95
Tab. 3.1. «Scandaglio delli lavori in selciate in calce, selciate a secco, massicciate, imbrecciate, muri in calce, tagli di terra per fossi et altro da farsi fuori di Porta S. Giovanni in Laterano principiando la visita della strada consolare da detta Porta seguitando per Marino e Velletri sino allo sportello passato Terracina confine dello Stato Ecclesiastico e del Regno di Napoli fatta detta visita per ordine dell’Eccellentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Galeazzo Marescotti Deputato di detta Porta da me infrascritto Architetto di detta ecc.» - 15 aprile 1699. (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 248, n. 6, cc. 16-23; altra copia alle cc. 27-35). N.
N. sulla Soggetti cui spetta far effettuare carta i lavori o sovvenzionare le opere
1 2 - 5, 7e9 6
10
68
68
risarcire il ponte roverso di selci a secco
10
1
Acquasanta
rifare le forme
15
15
Capitolo di S. Giovanni in Laterano
Appaltatore
idem
18
idem
19
Comunit di Marino idem
21 22 23 24
Appaltatore idem 3
idem
25
idem
26
idem
27-31
4
32 33
9
15
15
20
80
30
30
27
27
20
2
10
1
10
10
risarcire la selciata a secco per circa canne 30 sino al Casale; rifare i fossi laterali per circa canne 300
30
60
300
30
Appaltatore idem
Osteria del marchese Ginnetti ˙detto tiene in affitto Gio. Rossi commodo di n. 6 letti¨ sino al ponte nella tenuta Ginnetti rifare i fossi laterali ˙rialzare un pezzo di selciata che resta sott’acqua, con farla a all’entrata del ponte schina¨ da Castel Ginnetti all’osteria di Casa Fondata risarcire il canale roverso e riempire le buche con ˙tufarini¨ idem risarcire la selciata a secco
6
6
15 5
10 5
91
91
˙Osteria di Casa Fondata Posta dell’Eccellentissimo Prencipe di Caserta [Gaetano Francesco Caetani] tiene in affitto Arcangelo de Giulij e vi il commodo di poter alzare n. 10 letti e commodo di tener n. 30 cavalli¨
6
Appaltatore
dall’osteriaal luogo detto ˙sferra cavalli¨ e al ponte risarcire la selciata a secco; rifare un pezzo di selciata di canne ˙Cantaluce¨ e poi al ˙fosso detto fossato¨ 15 ˙che attacchi con l’altra et alzare con letto sotto¨
Terracina, Piperno, Sonnino, Abbazia di Fossanova del Card. Barberini, Roccasecca dei Massimi, Roccagorga di Ginetti, Gavotti
sul ˙fosso detto fossato¨
Appaltatore
Posta Sud di Sermoneta dell’Eccellentissimo Sig.r Principe di Caserta tiene in affitto Gioseppe Pellegrini di Sermoneta puole alzare n. 20 letti, e commodo per n. 40 cavalli dopo l’osteria ˙fare diversi sciacquatori per divertire l’acqua della strada¨ ˙passato detto punto vi l’Osteria de Preti di Sermoneta, tiene in affitto Girolamo N. con commodo di alzare n. 10 letti e commodo di tener n. 12 cavalli¨
Appaltatore
prima di arrivare al portone dove si paga la gabella risarcire la selciata a secco
44
47
3
Castel Ginnetti, tenuta del marchese Ginnetti
idem
46
da Palazzola alla ˙Casetta delli Corsi nella Macchia dare la pendenza alla strada nella parte sinistra della Faiola¨ fare 10 canne di massicciata, ˙dove al presente sono l’huomini dopo la casermetta dei soldati c rsi dell’Appaltatore che l’aggiustano¨ idem risarcire la selciata a secco
65
Marchese Ginnetti
36 37
45
dalle ˙Pantanelle¨ a ˙prima di arrivare al piano risarcire la massicciata dell’incasato nella sallita¨ ˙rifare la massicciata tutta devastata e si resa impratticabile la davanti le cantine di Marino strada longa canne 40 e larga palmi 20 quale spetta ai Padroni di Cantine¨ ˙nella sallita e dentro la detta Communit di risarcire la massicciata Marino, sino all’Osteria della Posta¨ ˙Detta Osteria della Posta dell’Eccellentissimo Sig.r Contestabile Colonna tiene in affitto Felice Milanese con commodo assai¨ dal borgo e vigne di Marino a Palazzola risarcire la massicciata
65
125
35
7
idem
risarcire alcune buche nella selciata a secco e nella massicciata; risarcire due canali roversi e costruirne uno, ˙et alzare il basso che fa pantano, con farvi il letto sotto, e poi canne 15 di selciata a secco larga palmi 20¨ fare un pezzo di selciata larga palmi 5, con letto sotto di terra per alzare il basso
125
idem
43
da oltre la Posticciola alle ˙Pantanelle di Marino¨
30
dopo l’abitato di Velletri: ˙dalla soglia della Porta¨ risarcire la selciata a secco e farne nuovi tratti; riempire i buchi e dalle vigne alla tenuta del marchese Ginnetti con ˙tufarino¨
5
39-42
Osteria della Posticciola di Marino ˙delli Signori Gregni tiene in affitto Fabritio Cenci, senza commodo di poter allogiare¨ dopo l’osteria della Posticciola riempire alcune buche nella massicciata ˙si faccino sei ripari all’argine della Marrana che porta l’acqua alle mole di S. Giovanni che nelle pioggie versa fuori con in detto luogo farli passonate e rialzi di terra qual lavoro spetta all’Affittuario delle mole sudette o Padroni d’esse¨
idem
34
38
60
risarcire un pezzo di massicciata, riempire alcune buche nella massicciata e selciata a secco
12
2
30
da detto punto ad oltre il ponte d’Acquasanta
Appaltatore
20
Scudi
idem
11
14
Lung. (canne)
da Porta S. Giovanni ad oltre la ˙memoria rappezzi di selciata in calce d’Urbano¨
1
13, 15-17
Natura dei lavori
Appaltatore
idem Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum
8
Localit
8
˙farvi il ponte perch in tempo di pioggie non si puol passare, asserisce l’hoste di Sermoneta, che vi ci siano affogati della gente in tempo di pienare¨ (non vi alcuna specifica indicazione tecnica per il ponte da costruire)
400
5
10
10
96
N.
48
CARMINE IUOZZO
N. sulla Soggetti cui spetta far effettuare carta i lavori o sovvenzionare le opere
9
Principe di Caserta (Gaetano Francesco Caetani)
49
50
Comunit di Sezze
51
idem
52
53
54
Appaltatore
10
55
Comunit di Sezze
Localit
Natura dei lavori
Lung. (canne)
˙al piano: fare una forma da piede della montagna che unisca e ricogli assieme tutti li capi di acqua puzza che scatorisce in ˙dopo il portone dell’Eccellentissimo Sig.r Principe detta montagna e fare una chiavica in mezzo, dove si radunano di Caserta¨ (sotto la torre di Acquapuzza) le dette acque, con la sudetta forma, imboccarla dentro detta chiavica¨ ˙Osteria di Acquaviva delli Signori Lillo de Belli e Francesco Bertonij tiene in affitto Gio. Batta. Ercolini con commodo di alzare n. 8 letti e commodo di tener n. 10 cavalli¨ dopo l’osteria, al primo ponte: ˙la strada fatta letto dell’acqua e la rende impratticabile¨ idem ˙Osteria delle Pantanelle dell’Illustrissimo Sig.r Marchese Ginetti, tiene in affitto Pietro N. e vi commodo di alzare n. 6 letti e commodo di tener n. 12 cavalli¨ dall’osteria delle Pantanelle all’Osteria delle Case nove (ove termina l’obbligo dell’appaltatore) ˙Osteria della Posta delle Case nove dell’Illustrissimo Sig.r Marchese Ginetti, tiene in affitto Lidolo Brignoutri di Sezze. e vi commodo di alzare n. 12 letti e commodo di tener n. 40 cavalli¨ dopo l’osteria
Scudi
70
˙intimare la comunit di Sezze che rifaccia il fosse che si ripieno, longo canne 400, largo palmi 20, alto palmi 10¨ dopo aver prosciugato l’acqua, riempire di breccia i buchi
320 15
˙fare diversi sciacquatori per levare l’acqua della strada¨
4
rifare il fosso a mano dritta
10
Comunit di Priverno
˙fare un ponte, che nelle pianare non si puol passare e quelli che passano si mettono a pericolo, e li pedoni bisogna si trattenghino che scorri l’acqua¨. Istruzioni tecniche per il ponte: ˙al 2¡ fosso detto fosso adautto nelli confini di ˙largo di luce palmi 13, longo p. 18, con muri grossi p. 4 con Sezze e Piperno¨ ale dalle parti, longa l’unap. 10; e massiccio e selciata sotto alta p. 3, larga p. 12, longa p. 20; con muriccioli sopra longo l’unop. 18, alto p. 2, grossi p. 2; pietra e selciata in calce sopra longa p. 18, larga p. 13 assieme¨
160
idem
˙rifare li fossi dalle bande, e fare un ponticello nel fosso che viene di sopra a mano manca, passato li primi piedi d’oliva ˚long. dette forme in circa canne 1200, larghe p.5, ˙alli prati di Perneto della Comunit di Piperno, fonde p. 4, con risarcire la selciata in alcuni luoghi assieme circa canne 60¨. Istruzioni tecniche per il ponte: ˙longo palmi dove la strada diventata un fosso¨ 15, largo p. 12, con muri alti con fondamenti p. 9, grosso li muri p. 3; e platea sotto longa p. 15, larga p. 8 e muriccioli, longo l’uno p. 15, grosso l’uno p. 2¨
240
58
idem
dopo ˙la conetta [piccola cappella] d’arrivare alla sallita¨
59
idem
56
57
60
11
12
13
61
idem idem
62
63
64
Comunit di Priverno
prima ˙rifare il fosso dalle bandi sino a piedi di detta sallita long. canne 60, larg. palmi 4, fondo palmi 3¨ ˙levare l’impedimento de fossi che sono in detta sallita, acci ˙nella detta sallita¨ non diano impedimento al transito de galessi , e dare esito all’acque¨ ˙nella sallita prima di entrare in detta Communit ¨ riparare le buche nella selciata (cio nell’abitato di Priverno) ˙levare l’acqua che va per la medesima [scenta], e risarcire la Dopo l’abitato, nella discesa (˙scenta¨) fino al selciata a secco, e raggiustare li muriccioli dalle bande di detto ponte ponte¨ ˙Osterie dentro Piperno n. 3 con commodo di letti e stalle¨ ˙Osteria della Posta, fuori detta Communit del Sig.r Francesco Sotavi, tiene in affitto Andrea Malaspina, con commodo di alzare n. 23 letti, e commodo di tenere n. 40 cavalli¨ ˙levar l’acqua( ), e risarcire la selciata a secco, per canne 10, dopo l’osteria, ˙nella sallita prima d’arrivare alla et accompagnare alla testa di detta selciata canne 10 di selciata Chiesa della Madonna del Pozziglio¨ larga palmi 15¨ ˙rifare le forme dalle bande per divertire l’acqua, e risarcire la dopo la chiesa, nella discesa e poi nella salita selciata ( ) e levare la slamatura, sotto la casa fabricata di novo¨ ˙rifare la forma a mano manca, riempire li cavi fatti dall’acqua, ˙passato S. Martino, nella sallita del Monte della e darli la pendenza a detta mano manca, per canne 80, larg. Ripa¨ palm. 20, altezza palm. 3, e farvi n. 30 cordonate di selci per mantenimento di detta¨
65-66
idem
67
idem
68
idem
nel seguente tratto di strada in salita e in discesa
69-70
idem
idem
14
idem
73
idem
74-75
idem
3 2,5
10
20
30
40
20
25
13
80
40
˙rifare il fosso dalle bande, e rialzare la strada, con darli la pendenza a mano dritta per canne 40, larg. palm. 20, con farvi n. 20 cordonate di selci per mantenimento di detta strada¨
40
20
riattare le buche che sono nella selciata a secco
20
20
Card. Carlo Barberini (nella ˙nella macchia spettante al Card. Barberino per ˙slargare la strada con fare il taglio a mano dritta e riempire li seconda copia dello scandaglio, l’Abbadia di Fossanova¨ cavi fatti dall’acqua, con darli la pendenza a mano dritta¨ accanto al suo nome, sono aggiunte le parole: ˙non tenuto¨)
71
72
60
˙dare l’esito all’acqua, rifare canne 3 di rappezzi di selciata in calce sopra detto ponte¨ ˙ricavare il fosso a mano manca, longo canne 500, larg. Palmi dopo il ponte ( ), fondo palmi 5 in circa¨ ˙la strada si rende fangosa e saria bisogno di alzarla con letto dalla selciata che continua quella del ponte sino alla sotto con darli la pendenza a mano manca ( ) larga palmi 20, selciata presso il ˙beveratore¨ ed oltre questo punto con farvi imbrecciata sopra alta palmi 2¨
63
˙prima di arrivare al ponte della suddetta Badia¨
4 500
60
600
1000
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
N.
N. sulla Soggetti cui spetta far effettuare carta i lavori o sovvenzionare le opere
Localit
97
Lung. (canne)
Natura dei lavori
Scudi
˙La sudetta Abbadia di Fossanova viene rigata dal fiume Amaseno, il quale nelle pioggie fa gran danno alla strada; in loco della medesima Abbadia detto capomare ha fatto cinque rotture, e sua Em[inenz]a vi ha fatto fare la passonata, ma non serve perch nelle pioggie, che detto fiume riceve i tributi delle scoli delle montagne, orgoglioso esce dal suo letto e versa nella strada consolare per quattro miglia resta inondata dall’acque di detto e non possono i passaggieri continovare il suo viaggio e riempiendo con le sue acque l’altro fiume. E perch io sono spedito da S.E. ad effetto di liberare la strada Tassa da ripartire fra i soggetti indicati a fianco
76
a causa i passaggieri non habbino alcuno impedimento, il rimedio saria di slargare il letto del fiume Amaseno palmi 15, in
2400
lunghezza circa miglie 6, alto il taglio dal terreno al pelo dell’acqua, e quella medema terra, che si cava origina la sulle sponde di detto fiume la spesa saria di c.a scudi 2400 per li quali andariano tassate tutte le Communit di terre e castelli che hanno li scoli dell’acque in detto fiume, e le tenute adiacenti, e sariano finiti i clamori delle Communit di Terracina, Sonnino, Piperno, Abbadia di Fossanova, Sig.ri Gavotti et altre e si liberaria una strada consolare che
la pupilla
dell’occhio del Prencipe¨. 77
Comunit di Sonnino
all’ingresso nel territorio della comunit
78
idem
˙in detta strada¨
idem
all’˙ultimo ponte¨ dei ˙tre ponti indicati sulla carta¨
80
Card. Barberini
dopo i ˙tre ponti¨ e ˙prima di arrivare ai piedi la montagna¨
81
Comunit di Sonnino
82
Comunit di Terracina
83
idem
84
idem
79
85
15
16
idem
17
idem
86 87
idem
˙passato detto punto e li maruti alli piani¨ (l’osteria di Maruti non viene nominata) all’ingresso del territorio di Terracina, ˙passato la fontana de Banditi alle Grotti¨ dopo le mole, ˙nella via Appia prima di svoltare¨ (la strada consolare gi confluita nell’Appia ˙slargare la strada con levare li spini e terra sopra detta selciata antica; siamo qui nel tratto precedente il rettilineo long. in circa canne 100, larg. pal. 5¨ posto prima di Terracina) ˙ nella detta strada dritta¨
˙passato detto (punto), all’entrata della macchia¨
89
idem
nella macchia
90
idem
idem
idem
˙in detta strada sino alli confini di Regno¨
92
93
94
95
64
300
432 9
200
40
200
15
100
112,4
100
15
˙scoprire li muriccioli dalle bande di detta selciata coperti con spini e terra, acci possino passare li pedoni a causa che non possono passare per detta strada per l’acquache va in essa long. in circa canne 400, larg. palmi 4¨
˙si deve levare l’acqua: necessario fare una forma a drittura al fosso del rivo del Gambaro, et imboccarla a mano dritta e portarla al fosso maestro, con fare un ponte lungo palmi 15 e largo palmi 10 ˚con platea sotto, e con selciata¨ ˙in loco detto la Madonna di Costantinopoli¨ ˙altro ponte e forma come sopra¨ ˙passato detto (punto), e la Citt di Terracina, e la ˙fare in due pezzi canne 7 d’imbrecciatacon alzare la strada per torre gregoriana¨ dar l’esito all’acqua¨
idem
18
800
20
30
˙nella detta strada¨
88
91
˙long. canne 800 in circa, larg. pal. 5, fond. pam. 4¨: non viene specificato il tipo d’intervento, ma probabilmente si tratta dello scavo o dello svuotamento dei fossi laterali alzare la strada ˙in 4 luoghi con darli la pendenza a mano manca e farvi l’imbrecciatasopra detta long. assieme canne 300, larg. palmi 18 in circa, alt. palmi 2¨ ˙fare canne 6 di selciata che attacchi con quella del ponte e risarcire il canale riverso pal. 15 larg. in circa¨ ˙fare diversi pezzi d’imbrecciata e riattare n. 4 canali riversi assieme lunghi canne 200, larg. pal. 15 con letto sotto a schiena, e dare l’esito all’acque¨ ˙rifare le forme dalle bande di detta strada log. canne 200, larg. palm. 4, fond. palm. 3 in circa¨ ˙alzare un pezzo di strada con letto long. canne 100 in circa, larg. pal. 15, e farvi l’imbrecciata sopra¨
˙In detta Citt vi sono 4 hosterie, cio la prima serrata delli RR. PP. di S. Francesco, tiene in affitto Carlo Picerna puole alzare n. 6 letti e commodo di n. 40 cavalli 2. Osteria della Posta di mons.r Ill.¡ Monanni Vescovo, tiene in affitto Gio. Passaretti, puole alzare n. 15 letti e commodo di n. 50 cavalli 3. Osteria del Santissimo, tiene in affitto Gio. Conte puole alzare n. 8 letti e commodo di n. 40 cavalli 4. Osteria del S.r Abbate Claudio Bonanni, tiene in affitto Carlo Picerna puole alzare n. 10 letti e commodo di n. 30 cavalli¨
˙alzare un pezzo di strada con letto sotto et imbrecciata sopra longa canne 15 in circa, larg. pal. 15 e dare l’esito all’acqua¨ ˙fare canne 20 di selciata che attacchi con la selciata grossa, con letto sotto per alzarla¨ ˙levare l’acqua in diversi luoghi, con levare le radiche dell’arbori che impediscono il transito alli calessi¨ ˙smacchiare dalle bande e slargare la strada che si rende stretta et ombrosa alli passaggieri in longhezza di canne 1500 in circa¨
30 7
8
15
18
20
20 30
1500
200
6727,9
98
CARMINE IUOZZO
Tab. 3.2. Sintesi dello scandaglio elaborato nella tabella 3.1.
Soggetti cui spetta far eseguire le opere e/o sovvenzionarle Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum Capitolo di S. Giovanni in Laterano Marino Marchese Ginnetti Sermoneta Appaltatore Ferelli Sezze Priverno Cardinal Carlo Barberini Sonnino Terracina TOTALE
scudi
%
25 30 110 96 70 523 345 583,5 1167 520 483,4
0,6 0,8 2,8 2,4 1,8 13,2 8,7 14,8 29,5 13,2 12,2
3952,9
100
Opere dal costo rilevante da ripartire fra più soggetti: 1) Ponte sul «fosso detto fossato» nel territorio di Sermoneta (punto n. 43 dello scandaglio, per scudi 400). Avrebbero dovuto partecipare alla spesa Terracina, Piperno, Sonnino, Abbazia di Fossanova del card. Barberini, Roccasecca dei Massimi, Roccagorga dei Ginnetti, Signori Gavotti. 2) Taglio del letto dell'Amaseno (punto n. 76, per scudi 2400). Sarebbero state tassate le comunità ed altri soggetti i territori dei quali «scolano» le acque nel fiume, cioè Terracina, Sonnino, Piperno, Roccasecca, Maenza, Roccagorga, S. Lorenzo, Giuliano, Gavignano, Bassiano, Prossedi, Pofi, S. Stefano, Castro, Abbazia di Fossanova, Signori Gavotti.
Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum 0,6% Terracina 12,2%
Sonnino 13,2%
Capitolo di S. Giovanni in Laterano 0,8% Marino 2,8%
Marchese Ginnetti 2,4% Sermoneta 1,8% Appaltatore Ferelli 13,2%
Sezze 8,7%
Cardinal Carlo Barberini 29,5%
Priverno 14,8%
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
99
Le spese di Terracina per il riattamento della consolare in occasione dell’anno santo 1700, nell’ambito della gestione finanziaria della comunità (anni 1691-1700). Con strumento rogato il 16 giugno 1690, Giovan Battista De Carolis otteneva l’affitto delle entrate della comunità di Terracina per nove anni, contro un versamento annuo di scudi 3.350. Di tale cifra complessiva, 2.998 scudi e 73 baiocchi sarebbero stati erogati dall’affittuario per il pagamento delle spese della comunità, su mandato del tesoriere generale o del sindaco ed ufficiali di Terracina; i restanti 351 scudi e 27 baiocchi egli avrebbe dovuto versarli «nel modo e tempo» stabiliti dal tesoriere.
Tab. 4.1 «Tabella del Sig.re Gio. Batta. De Carolis Affittuario dell’Entrate della Communità di Terracina per anni nove dal primo ottobre 1691 a tutto settembre 1700» (ASR, Camerale III, Comuni, «Terracina», b. 2313).
Pagamenti da effettuarsi su mandato del sindaco ed officiali di Terracina Stipendi ad impiegati comunali (maestro, medico ecc.), officiali, periti Stipendi alle milizie e ai castellani delle rocche e delle tori Versamenti a chiese, al predicatore, per festività varie Pagamenti da effettuarsi su mandati del tesoriere generale Emolumenti all’agente e computista della comunità in Roma Tassa dei segretari apostolici Emolumento al predicatore della Quaresima Stipendio al bargello Tassa fissa delle strade consolari «Utensilij d’oglio» ai soldati Pesi camerali da versare ai tesorieri di Marittima e Campagna Versamenti ai detti tesorieri per i frutti di 69 luoghi del monte delle comunità 2a erezione Versamenti al depositario del nuovo Monte «Comunità» per frutti di luoghi 23,60 «Utensilij per il sargente maggiore» «Emolumenti per le rassegne»
scudi 460,4 450 77 scudi 98 31,5 40 30 30,56 4,94 1123,39 211,14 70,8 20 9
Altri pagamenti da effettuarsi su mandati del tesoriere generale «che si mettono a calcolo senza pregiuditio del più e del meno» «Utensilij della Corte di Frosinone» «Tratta di legna» Spese per ruote e casse d’artiglierie Spese per liti e diverse «Guardie de soldati» «Per l’ingresso del vescovo quando succede la vacanza»
scudi 30 120 4 48 140
Totale scudi
2998,73
Tab. 4.2: «Conto del signor Giovanni Battista De Carolis, Affittuario della Comunità di Terracina per anni due dal 1° ottobre 1691 a tutto settembre 1693 e per anni sette dal 1° ottobre 1693 a tutto settembre 1700» (ASR, Buon Governo, serie VII- a, b. 189).
DARE primo biennio 1691-1693 Affitto (a 3350 scudi annui) Effetti spettanti alla comunità e venuti nelle mani di De Carolis
scudi 6700
AVERE primo biennio 1691-1693 Pagamenti fatti agli stipendiati e ad altri, per conto della comunità
201
secondo settennio 1693-1700 Affitto (a 3350 scudi annui) Effetti spettanti alla comunità
23450 1624,77
Totale dare
31975,77
Debito del De Carolis
659,30
scudi
7189,53 secondo settennio 1693-1700 Pagamenti come sopra 24126,77 Totale avere
31316,30
100
CARMINE IUOZZO
Nel primo biennio le spese ordinarie previste (scudi 5997,46: vedi la tab. 4.1) sono superate nella misura di scudi 1192,07 e sono solo in parte compensate dall’affitto versato dal De Carolis e da altri effetti spettanti alla comunità: il deficit ammonta a scudi 288,53. Nel settennio seguente le spese ordinarie previste (scudi 20991,11) risultano superate di 3135,66 scudi. Esse, tuttavia, sono più che assorbite dall’affitto dovuto dal De Carolis e da altri effetti spettanti alla comunità. Alla scadenza del contratto, perciò, l’affittuario appare debitore di scudi 659,30. Nel periodo 1693-1700 la media annuale del surplus rispetto alla spesa ordinaria prevista ammonta a scudi 447,95. Tab. 4.3. Spese della comunità di Terracina nel periodo 1691-1700, per lavori relativi alla strada consolare entro il proprio territorio, esclusi quelli in occasione dell’anno santo (ASR, Buon Governo, serie VII-a, b. 189: conto consuntivo di G.B. De Carolis dal 1° ottobre 1691 a tutto settembre 1700). Importi in scudi e baiocchi.
Riattamento delle strada consolare per ordine di mons. Grimaldi, presidente delle strade. Mandati di pagamento dal 20 giugno al 28 agosto 1695, per emolumenti ai tecnici, ai «deputati» della comunità, alle maestranze: Mandato di pagamento in data 1° settembre 1696, a favore di mastro Giacomo Moretti per saldo dei lavori eseguiti nella consolare durante l’anno corrente: Mandati di pagamento dal 22 giugno al 7 luglio, a favore di Giacomo Moretti, per lavori eseguiti nella consolare: Mandato di pagamento in data 20 febbraio 1699, a favore di Giacomo Moretti per lavori nella consolare: Totale
222 56 50 30,5 358,5
Tab. 4.4. Spese sostenute dalla comunità di Terracina «per l’accomodamento della strada consolare» dal luglio 1699 al marzo 1700, in occasione dell’anno santo. (ASR, Buon Governo, serie VII-a, Amministrazione di Terracina, b. 186: «Giustificazioni del conto del sig. Gio. Batta De Carolis Affittuario di Terracina per anni sette dal primo ottobre 1693 a tutto settembre 1700», filza n. 68. Mandati di pagamento, dal 3-8-1699 al 14-3-1700, per ordine del sindaco e ufficiali di Terracina, con sottoscrizione di ricevuta). I lavori interessarono il tratto extraurbano della strada, giacente nel territorio di pertinenza: in pratica, da Fontana Frasso all’Epitaffio, per una lunghezza di circa 12,4 miglia (18,5 chilometri).
1) Mandati a beneficio di mastro Giacomo Moretti, per la sua opera, per il salario delle maestranze, per altre spese sostenute. I salari giornalieri, com’è esplicitamente detto, ammontano a: 25 baiocchi giornalieri per un uomo; 15 baiocchi giornalieri per un «giovane»; 40 baiocchi al giorno per il Moretti stesso. Data dei lavori
Operai/Giornate
Scudi
Giustificazione
Dal 15 al 19.7. 1699
168 5 161 6 6
42 2 40,25 2,4 0,9 1,48
3.8.1699 4.8.1699 5.8.1699 6.8.1699 7.8.1699 8.8.1699
11 30 33 37 37 38 5
2,75 7,5 8,25 9,25 9,25 9,5 2 0,6
lavori di «reattamento, espurgamento delle strade»; per il lavoro di mastro Moretti; «per largare le strade e fatighe fatte dall’operarij»; per il lavoro di mastro Moretti; per il lavoro di un «giovane»; spesi dal Moretti «per haver fatto fare tre zeppi di ferro di libre ventisette»; per il lavoro degli operai; id.; id.; id.; id.; id.; per il lavoro del Moretti; spesi dal Moretti «per havere acomodato una mazza di ferro con avervi messo acciaro, e sua manifattura»;
11.8.1699
32
-0,5 8
12.8.1699 13.8.1699
36 40
9 10
dal 27.7. 1699 al 1°agosto
defalco dalla paga di un uomo; lavoro degli operai per «espurgare le strade consolari»; id.; id.;
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
101
(Segue)
Data dei lavori
Operai/Giornate
Scudi
Giustificazione
14.8.1699
21 4
17.8.1699
3
5,25 1,6 -0,83 0,3 0,75
22.9.1699
3 15
0,75 3,75
20 21 20 21 5 25 25 24 24 23 5 20 19 19 19 19 2
5 5,25 5 5,25 2 6,25 6,25 6 6 5,75 2 5 4,75 4,75 4,75 4,75 2 0,7
id.; per il lavoro del Moretti; defalco dalla paga di tre «giovani»; a Simone Altobelli per il somaro; per il lavoro degli operai impiegati a «tagliare li sassi verso il pitafio»; id.; per il lavoro degli operai «nelle strade consolari da Terracina per in sino alla fontana del Frasso»; id.; id.; id.; id.; per il lavoro del Moretti; per il lavoro degli operai alla strada consolare; id.; id.; id.; id.; per il lavoro del Moretti; per il lavoro degli operai alla strada consolare; id.; id.; id.; id.;
23.9.1699 24.9.1699 25.9.1699 26.9.1699 28.9.1699 30.9.1699 1°.10.1699 2.10.1699 3.10.1699 6.10.1699 7.10.1699 8.10.1699 9.10.1699 10.10.1699
19.10.1699
TOTALI
0,65
1004
«per haver meso lacciaro alla mazza, et acomodato il paletto e due picconi di ferro»; «Per havere dato lo scolo a l’aqua alla Tentareccia et altri loghi, coiè in quattro busci, con haverci portato un homo a bb. 25 il giorno, et una giornata per me Mastro Giacomo Moretti, che sono bb. 65. Per maturare la giornata si è rotto un sasso con la mazza di ferro alla contrada delle mole».
258,3
2) Mandati di pagamento a beneficio di Francesco Antonio Sagliano muratore, dal 22 novembre 1699 al 14 marzo 1700. Scudi 116
40
156
Giustificazione «in conto delli lavori si fanno nella strada consolare, ad uso di muratore e secondo la deliberatione de medemi a lume di candela, com’al libro delle riforme»; «per resto, saldo e final pagamento delle (…) canne cento trentasei e palmi 45 delli lavori(…) fatti ad uso di muratore, et al medemo deliberati ad estintione di candela a ragione di giulij undeci e mezzo la canna». Totale
3) Mandato a favore del capitano Caraffa in data 10 marzo 1700. Scudi 61,12
Giustificazione «per altrettanti dal medemo spesi per servitio delle strade in conformità della nota sottoscritta da Sig.ri Deputati esistente in secretaria»
102
CARMINE IUOZZO
Sono dunque stati erogati complessivamente scudi 475 e 42 baiocchi. Ad essi sono da aggiungere altri 50 scudi, come appare dal mandato di pagamento a favore di Mutio de Vecchis depositario del Monte dell’Abbondanza, in data 10 marzo 1700, «per altri tanti (scudi) dal medemo somministratili et erogati in servitio delle strade com’appare per ordine del di 18 luglio scaduto». Le note sono tutte sottoscritte dai «soprintendenti» ai lavori, deputati dalla comunità. Si tratta di Domenico Antonio Mauro «vice cancelliere e deputato», Giuseppe De Bellis, ed Erasmo Caraffa. Anche Mastro Giacomo Moretti è nominato come «deputato nelli lavori si fanno nella strada consolare». Quest’ultimo è infatti l’autore di una «Misura, scandaglio… con ordine del Ill.mo Sig.re Commissario cioè alle strade consolare», premessa alla liquidazione a saldo dei lavori eseguiti da Francesco Antonio Sagliano. La perizia descrive le opere eseguite e quelle ancora da compiere: verso il Epitaffio alla salita delli Bisi nell’entrare della macchia ho riconisciuto la terra cavata e palizata alla lunghezza di canne settanta e largha palmi quindici che in tutto fanno canne cento e cinque, e questa terra si è levata per scoprire la selciata vecchia, e si sono tagliati arbori e radiche in diversi luoghi nella detta strada: dico canne 100 5; Segue: si ha da fare due scoli per dare l’esito al acque che fa canna una e palmi quaranta alla sopra detta selciata e più un altro pezzo fatto largo palmi quindeci e lungo palmi cinque che fanno palmi settantacinque; e più si ha da fare la selciata in calce o a secco conforme commandaranno alla lunghezza di canne sedeci e di larghezza palmi quindeci: che in tutto fanno canne ventiquattro con in levar la terra dacciò che communica con la selciata grossa e dicozzarce la strada; segue un pezzo di selciata fatto sopra il ponte vicino l’acqua santa in calce lunga palmi ventisei, larga palmi venti che fanno canne cinque e palmi venti jo mastero Giacomo moretti affermo quanto di sopra mano propria
Seguono le firme dei deputati: si riconosce quella di Giuseppe De Bellis, Erasmo Caraffa e di Domenico Sorrentino «sindico in quelo tempo».
Tab. 5. Spese sostenute dalla comunità di Sezze per lavori stradali nella consolare dal giugno 1699 al gennaio 1700 (ASR, Buon Governo, serie XII conti e tasse diverse, b. 1082, cc. 256 e sgg.: «Spese straordinarie fatte delli denari della Tabella prossima passata li 4 giugno 1700, e riviste da noi (?) deputato del conseglio publico sotto li 13 giugno 1700».
Data
Beneficiari e giustificazione
13.6.1699
«a Gio. Framorta scudi due moneta per spese de Cavalli et altro fatte nella venuta di Monsig. Ill.mo e Rev.mo Leti Governatore per l’accesso fatto d’ordine di Nostro Signore per il reattamento delle stradi consolari a Mastro Marco Marchionno (...) per una quarta di legno (...) per misurar la calce per servitù del ponte in foss’alto a Pietro Magnardone e Compagni (…) per haver cariggiata la calce viva, fatto fosso e bagnata la detta calce per servitio del ponte fabricato in foss’alto secondo gli ordini di Mons. Ill.mo e Rev.mo Governatore di Campagna e Maritima Giudice deputato dal E.mo Cardinal Marescotti deputato da N.S. per il resarcimento delle strade a Mastro Marco Marchionno (…) per rubbia vent’uno di calce mandataci per servitio della fabrica del ponte in foss’alto secondo l’ordine di di Mons. Ill.mo e Rev.mo Leti Governatore e Giudice deputato a Bernardino Menola (…) per una giornata messa in bagnare la detta calce a Carlo di Fiorio (…) a bon conto delli Tufi dal medemo cavati per servizio della fabrica del ponte in foss’Alto secondo gli ordini (…) a Mastro Gregorio Marchionno Muratore e Manipoli (…) per due giornate di Mastro e due di Manipoli per fare le fondamenti del ponte in fosso Alto (…) ad Isidoro Tito (…) per una giornata impiegata in carigiar sassi con la sua bestia per la fabrica del ponte in foss’Alto (…) a Mastro Gregorio Marchionno, a Mastro Marco Masella Muratori, ad Isidoro Tito, Alessandro Zacheo et Andrea Framorta, et altri compagni (…) per loro giornate messe nella fabrica del ponte in foss’Alto (…) a Carlo Fiorio (…) a bon conto delli tufi dal medemo condotti in foss’alto per servitio della fabrica del ponte a Mastro Marco Marchionno Muratore (…) per prezzo di rub.e dieci di calce mandataci per servitio della fabrica del ponte in foss’alto (…) ad Elauterio Liberatore (…) per prezzo di una canna de tufi condotti in foss’alto per servitio della fabrica del ponte (…) a Mastro Gregorio Marchionno Muratore … per due giornate e manipoli messe nella fabrica del ponte in foss’alto (…) a Carlo Fiorio (…) a resto di canne cinque di tufi e (…) per haver cariggiato per sei giorni consecutivi con due cavalli sassi, calce et acqua, et un giorno con cavalli tre per servitio della fabrica del ponte (…) ad Isidoro Tito e compagni (…) per sei giornate messe con bestie in cariggiare sassi, acqua e calce per servitio della fabrica del ponte (…)
14.6.1699 15.6.16
16.6.1699 16.6.1699 16.6.1699 22.6.1699 23.6.1699 27.6.1699 4.7.1699 15.7.1699 10.8.1699 30.8.1699 6.9.1699 6.9.1699
Scudi 2 0,3 0,6
6,3 0,2 2 1,3 0,4 8,85 3 2 1,5 0,9 5,5 3,6
LAVORI PUBBLICI NELLO STATO PONTIFICIO D’ANTICO REGIME
6.9.1699 6.9.1699 8.9.1699 13.9.1699 13.9.1699 13.9.1699 20.9.1699 20.9.1699 20.9.1699 20.9.1699 27.9.1699 27.9.1699
29.9.1699
4.10.1699 4.10.1699 11.10.1699 11.10.1699 11.10.1699 18.10.1699 25.10.1699 29.11.1699 10.12.1699 9.1.1700
103
a Mastro Gregorio Marchionno Muratore (…) per quattro sue giornate messe nella fabrica del ponte (…) ad Alessandro Zaccheo et Andrea Framorta (…) per nove giornate di manipole messe nella fabrica del ponte a Mastro Gregorio Marchionno Muratore e manipoli compagni (…) per una loro giornata messa nella fabrica del ponte (…) al Sig. Ascentio Tomei deputato per assistere alli lavori delle strade per tre sue giornate di assistenza a detto lavori (…) in conformità degli ordini di Mons. Governatore a Mastro Gregorio Marchionno Muratore (…) per quattro giornate di manipolo per la fabrica del ponte in foss’alto (…) a Carlo Fiorio, Isidoro e Pietro Tito (…) per loro giornate con bestie in cariggiare acqua e sassi per la fabrica del ponte (…) al Sig. Ascentio Tomei deputato (…) per sei sue giornate d’assistenza hauta all’operarij delle strade che conforme l’ordine di Mons. Ill.mo Governatore Giudice deputato a Mastro Gregorio Muratore, Alessandro Zoccha et Andrea Framorti manipoli (…) per sei giornate di esso Mastro Gregorio, (…) per altre sei giornate di esso Alessandro e (…) sei giornate di Andrea Framotta ragazzo messe nella fabrica del ponte (…) ad Isidoro e Pietro Titi (…) sono per dodici giornate con due bestie il giorno in cariggiare sassi et acqua per servitio del ponte (…) a Carlo Fiorio (…) per cinque giornate con due cavalli il giorno messe in cariggiare acqua e sassi per servitio della fabrica del ponte (…) al Sig.r Ascentio Tomei deputato (…) per cinque giornate di assistenza alli operarij delle strade in conformità degl’ordini come sopra a Mastro Marchionno Muratore, Alessandro Zaccheo et Framorta (…) sono per una sua giornata di Muratore e di una giornata per ciascheduno di essi manipuli, compresivi di bb. 16 per chiodi e bb. 40 per camparacanti (?) serviti nella volta del ponte (…) ad Isidoro e Pietro Ziti e Carlo Fiorio (…) per quattro giornate per ciascheduno con quattro bestie respetto a detti Ziti, e tre di Carlo Fiorio in cariggiare arena, sassi e calce et acqua per servitio della fabrica del ponte di foss’Alto (…) a Mastro Gregorio Marchionno Muratore, Alessandro Zaccheo mannipulo, e Gio. Jacovaccio arenarolo, cioè sc. 1,75 a Mastro Gregorio per cinque sue giornate di muratore, e scudo uno alli sudetti mannipolo et arenarolo per cinque loro giornate messe per servizio della fabrica del ponte (…) ad Isidoro e Pietro Ziti et a Carlo Fiorio (…) per quattro giornate per ciascheduno con quattro bestie a cariggiare arena, sassi e calce per servitio della fabrica del ponte (…) a Mastro Gregorio Muratore et Alessandro Zaccheo manipulo (…) per sei loro giornate di muratore e manipulo messe in servitio del ponte in foss’Alto (…) ad Isidoro e Pietro Ziti e Carlo Fiorio vitturali (…) per quattro giornate con una bestia (Isidoro sc. 1,20) e per sei giornate con due bestie (Pietro sc. 1,80), e per due giornate con due bestie (Fiorio sc. 1,20) messe in cariggiare calce, sassi, arena et accqua in servitio della fabrica del ponte (…) al Sig. Ascentio Tomei deputato (…) per nove giornate d’assistenza hauta alli operarij delle strade in conformità degli ordini come sopra al Sig. Ascentio Tomei deputato (…) per quattro sue giornate d’assistenza alli operarij delle strade riaccommodate in conformità degli ordini di Monsig. Ill.mo e Rev.mo Leti Governatore Giudice al Sig. Ascentio Tomei deputato (…) per tre sue giornate d’assistenza hauta alli operarij delle strade resarcite in conformità degli ordini come sopra al Sig. Paulo Valletta deputato (…) per dieci sue giornate d’assistenza hauta sopra gli operarij delle strade risarcite in conformità degli ordini di Monisg. Ill.mo e Rev.mo Governatore Giudice deputato come si è detto di sopra al Sig. Paulo Valletta deputato (…) per otto sue giornate d’assistenza hauta sopra gli operarij delle strade resarcite in conformità degli ordini come sopra a Mastro Marco Masella muratore (…) per esser andato d’ordine del Magistrato a rivedere il ponte novamente fatto in foss’alto» TOTALE
di cui:
– per la visita di mons. Leti: – per il ponte di Fossalto: – per i «deputati» incaricati dalla comunità di seguire i lavori stradali:
1,40 1,4 0,66 0,9 2,6 4,6 1,8 3,9
3,6 3 1,5 1,21 4,2
3,75
4,5 3,3 4,2 2,7 1,2 0,9 3 2,4 0,3 95,47
2 79,07
14,40
104
105
Una strada, il suo ambiente, il suo uso. La Via Aurelia fra XII e XVIII secolo Susanna Passigli
La via Aurelia tra Roma e Civitavecchia attraversa in parte la Maremma laziale e in parte corre lungo la costa: si tratta di territori caratterizzati dalla presenza di ambienti umidi, stagionalmente allagati o punteggiati da veri e propri stagni costieri. Questo saggio si propone di analizzare il rapporto tra la strada e il suo ambiente a partire dal periodo medievale: quanto intensamente è stata frequentata la strada come asse di comunicazione con il Nord? Quale incidenza ha avuto il percorso nell’assetto fondiario locale? La presenza di zone allagate ha comportato fasi di abbandono dell’asse stradale? Quanto ha inciso la letteratura storica nel valutare le cause di abbandono di una strada e in che termini si può parlare, anche per la via Aurelia, di continuità, un carattere che distingue le antiche strade consolari diramate da Roma rispetto a quelle del resto dell’Europa1? Percorrendo la via Aurelia al di fuori del suburbio si entra in contatto con una realtà che ha contribuito a caratterizzare fortemente il paesaggio intorno alla strada sino ai giorni nostri. Si tratta dei possedimenti rurali di un ente monastico prima – il monastero romano dei SS. Andrea e Gregorio al Clivo di Scauro – e di un grande ente ospedaliero romano, il S. Spirito in Sassia. L’idrografia e la copertura vegetale, insieme all’assetto dei manufatti, assumono una peculiare concretezza grazie alla ricca e varia documentazione conservata all’interno dell’archivio dell’ospedale del S. Spirito, presso l’Archivio di Stato di Ro-
ma. L’ente ospedaliero ha infatti mantenuto il possesso delle tenute costiere di Castel di Guido, Malagrotta, Palidoro, S. Severa e S. Marinella lungo un ampio arco cronologico – che si estende in qualche caso dal XII al XIX secolo – consentendo un processo di accumulazione del materiale documentario di estremo interesse, sia per la sua varietà tipologica – titoli di proprietà, registri di possessi, mappe delle tenute, contratti di locazione – sia per la sua continuità nel tempo. Fondato alla fine del secolo XII dal papa Innocenzo III, il S. Spirito si annovera fra gli ospedali romani i cui archivi costituiscono una miniera di notizie circa la storia sociale ed economica della Campagna Romana fra basso Medioevo ed età moderna2. La vera e propria fioritura economica dell’ospedale risale alla seconda metà del XV secolo quando, al ritorno dei papi da Avignone, ne venne ricostruito l’edificio e fu dotato di ampie rendite e possedimenti. Tali possedimenti sono documentati da una serie di pergamene, datate fra il XIII e il XVII secolo. L’archivio conserva inoltre ordinate serie di registri e fascicoli relativi alle tenute, ai feudi e priorati, ai beni rustici, agli Istrumenti (dal 1431 al 1887), alle cause, nonché alcune buste di Catasti e piante delle tenute ordinate topograficamente. I grandi registri relativi alle singole tenute risalgono agli anni 1655-1660, hanno un aspetto formale elegante e contengono una pianta a colori dell’intera tenuta, seguita dalle piante dei singoli quarti agricoli compresi. Una scrittura posata è impiegata per la
descrizione di ciascun quarto e delle singole porzioni di terreno agricolo o boscoso comprese al loro interno. La gestione patrimoniale dell’ospedale si dimostra particolarmente accurata per i secoli XVIIXIX: le buste relative alle tenute conservano infatti munimina – cioè le registrazioni di precedenti acquisti di un dato possedimento prima della sua definitiva acquisizione da parte dell’ospedale – numerosi contratti di affitto corredati da inventari di fabbriche e di ponti e fossi, disegni e piante a corredo di progetti di restauro e di cause per questioni territoriali. Particolare attenzione risulta attribuita dai ministri dell’ospedale all’assetto idrografico della zona presa in esame, ricca di acque correnti di piccola portata e di riserve di acqua piovana che richiedevano un costante ordinamento per assicurare la conduzione agricola dei terreni agricoli, dei prati e pascoli, delle macchie. I possedimenti dell’ospedale, oltre ai beni urbani, si estendevano lungo buona parte del litorale, da Cisterna e Astura fino a S. Severa e Tarquinia, nel Lazio meridionale presso Ferentino, nella Maremma, presso i laghi sabatini e lungo alcune anse del lato destro del Tevere. La documentazione patrimoniale relativa all’area esaminata sarà utilizzata non tanto per ripercorrere la storia della proprietà, nota attraverso studi di carattere generale, come La Campagna Romana di Giuseppe e Francesco Tomassetti, o monografie, quanto piuttosto per la ricostruzione dell’ambiente, della sua trasformazione e della sua percezione.
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Fig. 29. Strada fuori porta Cavalleggeri e Porta Fabrica che va a Civitavecchia, in sei segmenti. (ASR, Presidenza delle Strade, Catasto Alessandrino, 1661, Francesco Contini). Interessano l’area presa in esame il 4° e il 5° segmento. Le strade raffigurate, oltre la via Aurelia sono: la Strada che va a Maccarese che si distacca dopo Malagrotta (n. 25) identificabile con il percorso antico, la strada che la incrocia che va a Campo Salino detta la Muratella, che parte in senso opposto dalla Aurelia al Ponte sul fosso dei Tre Denari, oltrepassa l’Arrone con il Ponte di Maccarese e incrocia la precedente n.25 (n.43). La serie dei ponti sui fossi e delle osterie lungo la strada è puntualmente numerata: 22 Ponti e fossi di Malagrotta (S. Spirito) – 27 Ponte e fosso confine tra Bottacchia e Castel di Guido (S. Spirito) – 31 Ponte e fosso Arrone confine tra Castel di Guido, Testa di Lepre, Torrimpietra – 42 Ponte e fosso di Tre Denari – 45 Ponte e fosso di Palidoro confine tra Torrimpietra e Palidoro – 47 Ponte e fosso di Statua – 23 Osteria di Malagrotta – 26 Osteria della Bottacchia – 46 Palidoro, casale e osteria (S. Spirito) – 50 Osteria di Monteroni. A questi manufatti, in stretto rapporto con la strada, vanno aggiunti gli edifici dei casali e la chiesa di Castel di Guido n.29, segnata come edificio a sé stante rispetto alla struttura del casale. Manca invece l’osteria dell’Arrone o di S. Spirito segnalata tra il fiume e l’Aurelia sia da Eufrosino, che nella pianta di Torrimpietra del 1620. L’idrografia segnata è sempre in stretto rapporto con i ponti e con la funzione di confine tra tenute, quindi figurano il Galera, il Bottaccia, il Pantan di Grano individuato come confine tra Bottaccia e Castel di Guido, l’Arrone, il Tre Denari, il Palidoro che si distacca dal Tre Denari e delimita a nord la Macchia di Maccarese verso la Marina coincidente con l’area naturale del Pagliete e Vasche di Maccarese, area oggi molto cambiata dalla bonifica e dall’aeroporto di Fiumicino.
Alla documentazione interna dell’ente proprietario si aggiunge quella redatta dall’amministrazione centrale della Presidenza delle Strade, in particolare rappresentata dalle mappe delle tenute effettuate per volere del papa Alessandro VII per motivi fiscali e annonari nel 1660. Le mappe del Catasto Alessandrino consistono nel rilevamento, articolato secondo la dislocazione delle tenute dell’Agro Romano ai lati delle strade consolari romane, di elementi legati all’uso del suolo quali le superfici di terreno seminativo, di prato, di vigna, di canneto, ma anche degli elementi del paesaggio incolto – anch’esso dotato di una propria valenza economica – come la macchia, il bosco, l’acquitrino, la spiaggia.
L’analisi dettagliata dei dati scaturiti da queste fonti è sembrata sufficiente per ricostruire i particolari del paesaggio esteso ai lati della strada, le sue trasformazioni, l’uso che l’uomo ne ha praticato, gli elementi dal carattere più conservativo. Tale documentazione ha infatti sollecitato una indagine molto dettagliata dei particolari ambientali nella regione considerata, consentendo di individuare sulla attuale carta militare in scala 1: 25.000 elementi del paesaggio come fossi, piscine, superfici boscate. Essa ha inoltre permesso di verificare una volta di più l’efficacia del metodo applicato da Jean Coste in Topografia storica, anche nel campo della storia ambientale e della ricostruzione dei paesaggi antichi.
In seguito all’analisi e al riporto cartografico dei dati territoriali scaturiti da documenti e mappe, si è ricorsi alla competenza naturalistica e botanica per affrontare in modo interdisciplinare lo studio del paesaggio storico, al fine di ricostruire una vera e propria ‘carta della vegetazione’ storica del territorio considerato. Lungo tutto il periodo considerato l’area ha testimoniato un’intensa frequentazione da parte dell’uomo. E questo nonostante la presenza di quegli elementi ambientali considerati perniciosi da parte della letteratura igienista ottocentesca: i nostri documenti mostrano, al contrario, un intenso uso del suolo in questo territorio esteso ai margini della via Aurelia, uso del suolo almeno sino al XV secolo, ba-
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sato proprio sullo sfruttamento delle sue diverse risorse, agricoltura, allevamento, caccia, pesca, raccolta di frutti spontanei, taglio del legname. Il manufatto La via Aurelia La ricostruzione del tracciato stradale antico si basa sulla individuazione delle stazioni menzionate dagli antichi Itinerari, soprattutto quello di Antonino risalente al III secolo d.C. e la Tabula Peutingeriana, una guida grafica redatta nel IV secolo. Il primo tratto da Roma a Statua si mostrava adattato alle accidentalità del terreno, un elemento che testimonia la preesistenza di una via etrusca di collegamento tra Roma e Caere. La strada infatti costituiva la spina dorsale dell’Etruria marittima, intorno alla quale si moltiplicarono ville e fattorie, spesso dotate di peschiere3. Nell’ambito della stessa via Aurelia antica si distinguono due diversi percorsi, l’uno con la funzione di grande via di comunicazione e l’altro come raccordo tra gli insediamenti del litorale. La traversa che si
distacca dalla via Aurelia poco dopo Malagrotta e che attraversava le tenute del S. Spirito, raffigurata nelle mappe alessandrine e nella pianta del 1793 (Figg.29-31), consiste in un tratto della Aurelia Vetus, della quale è testimoniata se non la continuità d’uso, almeno il recupero in età moderna. Si tratta di una via strettamente litoranea, la cui costruzione viene messa in relazione con la colonizzazione romana lungo la costa tirrenica a nord di Roma. L’abbandono della via costiera antica come collegamento principale non deve però essere considerato definitivo con la costruzione dell’Aurelia Nova. Infatti, se da un lato essa poteva essere soggetta ai danni provocati dall’erosione dovuta alle correnti marine e all’impaludamento, d’altra parte la sua esistenza è documentata, per esempio, nell’importante documento del 1018 relativo ai confini della diocesi di Porto (Fig. 32). Dunque era questo tratto costiero ad essere a fasi alterne trascurto e non la Via Aurelia in senso lato, come collegamento nord-sud. La Aurelia Nuova, quella indicata nell’Itinerario di Antonino, utilizzò il primo tratto della Vecchia, distaccandosene all’altezza del casale di Malagrotta e rettificò il traccia-
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to da qui sino a Pyrgi (corrispondente all’attuale S. Severa). Sino a Civitavecchia il tracciato doveva coincidere mentre in seguito la strada manteneva un percorso estremamente litoraneo. L’utilizzo della strada, o più probabilmente, del suo tracciato litoraneo, subì alcune trasformazioni in seguito alle invasioni barbariche e al crollo dell’impero romano: la testimonianza del viaggio di Rutilio Numaziano di ritorno verso la Francia è considerata dagli studiosi significativa per raffigurare lo stato della strada costiera e dei centri da essa toccati. Fonte scritta e testimonianze archeologiche attestano la distruzione dei centri portuali di Alsium (attuale Statua), Pyrgi (attuale S. Severa), con l’unica eccezione di Centumcellae (attuale Civitavecchia)4. Alla brusca interruzione delle opere di manutenzione dei corsi d’acqua, del sistema di approvvigionamento idrico e della rete fognaria andrebbe imputato l’abbandono dei due percorsi della via Aurelia, ai quali sarebbe stato preferito il più sicuro sistema viario dell’entroterra, costituito dalle vie Clodia e Cassia, oppure quello marittimo. Se è vero che la stragrande maggioranza di testimonianze circa i percorsi di pelle-
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grinaggio e di commercio tra Roma e il Nord riguarda quest’ultima strada, un’analisi più dettagliata della seppur scarsa documentazione in nostro possesso induce a ipotizzare un uso della via Aurelia costiera almeno dall’XI secolo e indipendentemente dalla presenza di zone paludose, una caratteristica peculiare che non ha inciso negativamente nel rapporto tra uomo e ambiente. Tra gli itinerari per i pellegrini, quello redatto dal geografo arabo Edrisi nel 1154, indica la possibilità di seguire più percorsi per raggiungere Roma, distinguendo fra quelli di terra e quelli di mare: in quest’ultimo caso, arrivati da Pisa a Civitavecchia, l’ultimo tratto seguiva la via Aurelia, toccando il centro di S. Severa – porto commerciale presente nel trattato del 1166 fra Roma e Genova – seguito da Torre Flavia, Palo, Palidoro, Baebiana, a sud del casale di Castiglione (attuale Torrimpietra) dove si staccava una via che raggiungeva la Clodia-Lorium (attuale Castel di Guido)5. Già dall’inizio del IX secolo, allo scopo di segnalare e di contrastare le incursioni saracene, si diffuse la necessità di costruzioni fortificate costiere. In questo progetto rientrarono le strutture di Corneto, S. Marinella, S. Severa, Palo, Palidoro, Maccarese, ristrutturate più volte a partire dal XVI secolo. Al posto dunque degli antichi centri portuali, si sostituirono le torri costiere, centro esse stesse di insediamenti vecchi e nuovi: le torri avevano infatti lo scopo di proteggere un porto o un centro retrostante e furono inserite dopo l’XI secolo, in castelli fortificati collegati fra loro dall’asse della via Aurelia costiera. Il panorama rappresentato da Rutilio Claudio Numaziano si riferisce dunque ai secoli dell’alto Medioevo per il quale, del resto, scarseggiano ulteriori testimonianze. Come già accennato, questo panorama di desolazione si riferisce più allo stato degli antichi centri portuali che alla percezione dell’am-
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biente «naturale» da parte dell’uomo. Disponiamo infatti di una testimonianza che, oltre al precisare il percorso della strada, ne mette in risalto l’uso in connessione con la presenza di aree paludose all’altezza di Palidoro. Il papa Benedetto VIII nel 1018 confermava al vescovo di Porto i beni compresi nella diocesi, i cui confini settentrionali seguivano un tratto della via Aurelia fuori porta S. Pancrazio «per silicem vero ipsius porte usque ad pontem marmoreum qui est super Arronem et ducente per ipsam silicem usque ad Paritorium (attuale Palidoro) indeque revolvente per paludes usque in mare, indeque veniente per mare usque ad duo miliaria ultra farum et usque ad focem maiorem»6. Dopo Palidoro la strada curvava per dirigersi verso il mare lambendo o addirittura attraversando le paludi situate verso Palo, proseguiva adiacente al mare per almeno due miglia, fino all’altezza dell’odierna Ladispoli, per poi arrivare alla foce maggiore, probabilmente quella del Mignone, dopo aver attraversato un altro tratto paludoso ben documentato dalla cartografia storica, quello di Torre Flavia. Solo molto tempo dopo, nelle piante del XVII secolo, è attestato il percorso più interno punteggiato dalle osterie di Monteroni e di Palo, nell’entroterra del centro omonimo. Il ponte sul fiume Arrone è menzionato in un altro documento dell’XI secolo, anche se attribuito al VI quando S. Silvia, madre di Gregorio Magno, dotò di beni il monastero di S. Gregorio al Celio: si parla in questo caso del tratto di strada precedente a quello costiero, quello più interno che attraversava la Maremma con i suoi pantani. Il confine settentrionale dei possessi del monastero, individuato attraverso una serie di elementi idrologici, a partire dal mare, superato lo stagno di Maccarese, da Malagrotta «descendit per plagia et per medium pantanum, ubi est modicum canone recte in fossatum de Ardilione, unde currit aqua per tempore inverni, et mittit
in rivum qui vocatur Galerie, et recte in arciones antiquos, qui sunt in pede de pantano ascendente per canonem in sursum in valle de Arenula (Aurelia) et per ipsam vallem ambulantem per fossatum et cava pergente in fontana iuxta silices». Anche in questo caso il confine seguiva l’itinerario della via Aurelia Nova, dopo aver costeggiato il fosso di Pantan di Grano che si immetteva nel fiume Galeria, fino al pantano che si estendeva nella attuale piana di Pantan di Grano, oggi occupata dalla raffineria confinante con la discarica di Malagrotta. Superato il ponte sull’Arrone, il confine seguiva l’Aurelia verso la costa: «inde descendit per viam publicam in piscina viticosa et per fossatum (…) qui est aqua discendente in stagno, vel in mari»7. Nel corso dell’XI secolo questo stesso tratto di strada maremmana citata per individuare i confini del territorio di Malagrotta – incluso il pantano Lorano che rimase importante nell’economia della zona sino alla fine del XV secolo – assumeva diverse denominazioni probabilmente connesse con l’uso per il trasporto delle derrate alimentari: nel 1019 essa era definita via Piponesca e nel 1041 via Paponica, dal frutto popone, o via Carraria8. Faceva parte del reticolato viario intermedio di questa zona maremmana anche la strada che collegava Roma con il castrum di Boccea, identificabile con l’odierna via di Boccea. Questa strada, presente nell’elenco dei confini di un pantano presso Boccea, fu oggetto di una lite nel 1272: essa era allora «in usu euncium et redeuncium a Roma ad castrum Bucceye et a predicto castro Romam»9. Come ha più volte avuto modo di dimostrare Jean Coste, la vitalità di una strada si misura in relazione al proliferare degli insediamenti che essa veniva a raccordare. Il nostro tratto della via Aurelia nel XIII secolo è interessato dalla signoria territoriale stabilita dalla famiglia Normanni e documentato da alcune pergamene,
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Fig. 30. Pianta su fogli IGM con la ricostruzione del percorso della via Aurelia, delle sue varianti e percorsi minori, delle selve dalle mappe del Catasto Alessandrino e dei punti segnalati dalla carta di Contini.
in particolare dal testamento di Albertus Iohannis Stephani del 125410. La fioritura di castelli nella Campagna Romana del XII-XIII secolo, come è noto, costituisce una conseguenza del generale incremento demografico, anche se la stessa vicinanza di Roma aveva contribuito a far sì che questo territorio non avesse mai subito un massiccio spopolamento e si fosse mantenuto come area agricola da sempre. In questo territorio maremmano, caratterizzato dalla presenza di ampi terreni solo lievemente ondulati e cosparsi di stagni e acquitrini, l’insediamento fortificato non conobbe quella fortuna che si è potuta registrare per le zone collinose e montane: non che vi fossero assenti, gli insediamenti conservavano la loro caratteristica altomedievale di tipo aperto e tali rimasero senza soluzione di continuità, sotto forma di massae, villae, fundi, forme altomedievali di occupazione del suolo spesso facenti capo a chiese rurali. E questa caratteristica non è priva di nessi con l’ambiente nel quale sorsero tali insediamenti, le vaste superfici pianeggianti della Maremma contrastavano infatti anche dal punto di vista della topografia con i rilievi interni, dominati dall’insediamento chiuso e fortificato. I castra nominati nel testamento erano confinanti tra loro e definivano un territorio vasto e circoscritto, esteso a nord e a sud del percorso della via Aurelia fino al mare e ad ovest del fiume Arrone, ad eccezione del territorium castri Guidonis, situato a est di questo corso d’acqua, concesso in locazione dal monastero di S. Gregorio al Celio fin dal 1193. Tra i castelli della famiglia Normanni nominati nel testamento del 1254 figura il castellum Pali, si-
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tuato sul sito del futuro castello di Palo, dato che il percorso della via Aurelia doveva essere allora quello costiero, come è anche attestato da una pianta del 1687 (cfr. Fig. 33). Allo stato attuale delle ricerche questa è la prima menzione del castrum Pali: esso rappresentava uno dei punti di approdo del litorale tirrenico tra S. Severa e la foce del Tevere e alla metà del Trecento era ancora sotto la signoria dei Normanni-Alberteschi; i confini del suo territorio erano coerenti con quelli degli altri tenimenta castrorum spettanti alla stessa famiglia, un po’ come si verificherà alcuni secolo dopo con le proprietà del S. Spirito registrate nel Catasto Alessandrino. Lo stesso documento contiene anche la prima menzione del castrum Castiglionis identificabile con il sito del successivo casale di Torrimpietra, nella cui mappa alessandrina è compreso un tratto della nostra strada: proprio qui è stata individuata dagli archeologi l’antica stazione sulla via Aurelia di Baebiana, la cui unica testimonianza è contenuta nella Tabula Peutingeriana, la carta itineraria del IV secolo già ricordata. Tale stazione è posta dopo quella di Lorium e sei miglia prima di Alsium (attuale Statua). Il sito insomma mostra una continuità di insediamento veramente rilevante, se consideriamo anche le testimonianze di presenza umana risalenti al Paleolitico inferiore. Nel territorio di Castiglione era allora compresa la torre de Paratoro (attuale Palidoro), ricordata per la prima volta nel citato privilegio pontificio del 1018: la torre doveva trovarsi a ridosso e a controllo dell’antico ponte romano i cui resti, oggi scomparsi, erano ancora ben visibili alla fine del secolo scorso, inglobati all’interno del casale di Palidoro. Tramite questo ponte la via Aurelia scavalcava quello che è oggi denominato fosso delle Cadute, il cui corso ha però subito nel tempo una deviazione verso est proprio all’altezza del casale, esaurendo la funzione del ponte.
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Presso l’antica stazione di Lorium, a est dell’Arrone, era situata la fondazione castrale dovuta a un certo Guido e nominata in un atto del 1075, quando venne donata al monastero di S. Gregorio al Celio. Essa risale dunque ai primi decenni dell’XI secolo e passò alla fine del successivo tra i possessi della famiglia per rimanervi fino al secolo XV. Del medievale castrum non rimane oggi alcun resto, ma sappiamo che esso sorgeva circa 1500 metri a ovest del moderno centro di Castel di Guido. Presso questo insediamento fortificato figuravano anche plebes et ecclesias a testimonianza di popolazione residente di una certa consistenza. Tramite i vari castra in suo possesso la famiglia poteva controllare un settore del litorale a nord della foce del Tevere e soprattutto un lungo tratto della via Aurelia, che dunque anche nel Medioevo continuava a costituire un’arteria di traffico importante: il percorso dell’antica via consolare nel tratto che ci interessa non era stato abbandonato né dovette subire modifiche sostanziali nel tempo anche se, come succedeva normalmente a partire dal XXI secolo, le grandi vie romane non venivano più indicate con i loro propri nomi ma con generiche espressioni, come via antiqua, via romana, silex, via silicata. Il fatto inoltre che le indagini archeologiche abbiano restituito questo tratto di strada confermano la corrispondenza del tratto antico con quello medievale e inducono a supporne una sostanziale continuità di uso anche per quei secoli dei quali non abbiamo notizie. La decadenza del dominio e della signoria territoriale dei Normanni-Alberteschi rientrava nel processo più generale di spopolamento che nella seconda metà del XIV secolo coinvolse una notevole quantità di castra, in particolare i più piccoli e quelli dalla fondazione più recente. Tali castra si trasformarono in casali, vaste unità fondiarie destinate
alla cerealicoltura e all’allevamento, prive di popolazione stabile, nelle quali le strutture fortificate medievali vennero utilizzate come ricovero per attrezzi e risorse agricole. La funzione rurale dei casali implicava l’uso della via Aurelia per il trasporto delle derrate verso la città e dei percorsi minori di raccordo fra i vari centri agricoli. Ma prima di soffermarci sulle testimonianze sei e settecentesche di questa rete viaria, attestata soprattutto dalla cartografia storica, è bene tracciare un quadro generale dell’uso della strada. A partire dal XII secolo si fanno più ricche le testimonianze relative anche alla via Aurelia come grande via di percorrenza tra Roma e Civitavecchia, un centro portuale fiorente che non ha conosciuto praticamente soluzione di continuità. Tali menzioni si riferiscono soprattutto agli spostamenti di papi e imperatori, talvolta con i rispettivi eserciti, diretti o provenienti dal nord utilizzando in parte la via marittima e il porto di Civitavecchia, come già indicato dal geografo Edrisi11. A Civitavecchia si arrivava tramite la via Aurelia o anche seguendo la via Cassia fino a Viterbo e poi un raccordo trasversale che attraversava Vetralla e le giogaie di Tolfa, esso stesso definito come strada Aurelia di Viterbo nel XIX secolo, quando subì ripetuti restauri12. I due percorsi erano utilizzati contemporaneamente, la scelta dell’uno o dell’altro era dovuta alla necessità di raggiungere centri politicamente importanti o alla impraticabilità dovuta sempre a motivi di ordine militare, come nel caso della fuga di Innocenzo II da Civitavecchia, dove erano stanziati i sostenitori dell’antipapa. Civitavecchia rappresenta per Edrisi l’ultima tappa del viaggio delle navi di pellegrini provenienti da Narbonne e Montpellier, prima di raggiungere la foce del Tevere. Non è affatto escluso che parte dei viaggiatori concludesse il proprio percorso via terra, utilizzando la strada
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Fig. 31. Pianta dimostrativa dell’andamento e lunghezze delle tre strade tendenti alla tenuta e casale di Maccarese coll’indicazione delle tenute e terreni adiacenti. (ASR, S. Spirito, b. 1093, fasc. Maccarese, beni rustici, 22 aprile 1793). La via Aurelia vi è raffigurata con la scansione delle miglia (Malagrotta al m.VIII, Castel di Guido al m.XI, il fiume Arrone subito dopo il m.XIII, Palidoro al m.XVIII) e le tre strade sono caratterizzate da coloritura gialla, rossa e verde. Da notare che la strada di Campo Salino risulta definitivamente scomparsa. Nei pressi dell’incrocio fra queste due strade era il precoio di S. Spirito, qui denominato Precoio della Muratella, il toponimo derivante dal frutto del mirto attribuito a un quarto agricolo della tenuta di Castel di Guido caratterizzato dal paesaggio selvoso e corrispondente all’attuale Macchia Grande. In giallo è raffigurata la strada, lunga sei miglia e mezzo, che dalla via consolare porta al casale di Maccarese: si tratta della strada più volte raffigurata nella cartografia storica, corrispondente all’Aurelia Vetus. Dall’edificio del casale di Castel di Guido parte una strada rettilinea che si congiunge alla precedente, all’altezza della Casetta de’ Bifolchi, un casale non raffigurato nelle mappe seicentesche, corrispondente all’attuale Casale le Pulcette, dal quale attualmente parte a sua volta il sentiero diretto alla Macchia Grande. In rosa è disegnata la strada lunga tre miglia e mezzo, dal confine di Maccarese al Rimessone, corrispondente al recinto palificato compreso entro il casale di Palidoro e designato in una precedente carta come Riserva delle Bufale (cfr. Fig. 46) e in una successiva come Riserva del Rimessone (cfr. Fig. 34): si tratta di un percorso parallelo a quello della via Aurelia, che correva tra questa e la costa per assicurare la comunicazione tra le tenute, attraversando il fosso delle Tre Cannelle, il fosso dei Tre Denari con il ponte delle Tavole (=attuale Ponte di Passo Scuro), per diventare la già nota Strada che da Palidoro conduce al Rimessone corrispondente alla strada di mare (cfr. Figg. 39 e 46), oltrepassando il fosso con il ponte di S. Carlo: questo percorso si individua abbastanza facilmente sulla tavoletta IGM, alle spalle della fascia selvosa del tumoleto (Bocca di Leone e Passo Scuro) e a ovest della bonifica delle Pagliete. In verde è raffigurata infine la strada, lunga tre miglia e mezzo, che dal casale di Maccarese conduce al Ponte dei Tre Denari sulla via Aurelia (n.42 della pianta alessandrina della via Aurelia), presente sulla tavoletta IGM con lo stesso toponimo: il reperimento della strada è solo ipotizzabile sulla tavoletta a causa dello sconvolgimento territoriale dovuto alla bonifica delle Pagliete. Sull’opposto lato della via Aurelia, compreso entro il casale di Torrimpietra, è tracciato un breve percorso della più rettilinea Strada di Maccarese, presto abbandonata e forse corrispondente al diverticolo segnalato da Francesco Peperelli nel 1620 sulla pianta di Torrimpietra, poi compresa nel Catasto Alessandrino. Il fascicolo contiene altre due piante, non riprodotte, relative l’una alle strade interne per il passaggio fra tenute, sec.XVIII, l’altra allo spurgo di un fosso e il transito che il S. Spirito pretende dalla tenuta di Palidoro alle altre di Castel di Guido e della Muratella, passando per Maccarese del Duca Rospigliosi, risalente al 1807.
litoranea, così come era prassi per i pontefici, per esempio Sisto IV nel 1481 di ritorno da una visita alle miniere di allume recentemente scoperte nei monti della Tolfa13. Analogamente siamo indotti a pensare a proposito delle rotte giubilari documentate dalle lettere dei mercanti conservate nel carteggio Datini: nel 1400 i pellegrini si imbarcavano a Barcellona o a Marsiglia su navi che trasportavano cera e botti di vino, giunti a Pisa o a Civitavecchia essi si spostavano su navi di tonnellaggio inferiore per poter risalire il Tevere sino a Roma oppure proseguivano via terra raggiungendo la via Francigena o Romea a nord di Siena, diretti a Viterbo e poi a Vetralla14.
In effetti, seppure scarsamente menzionata dalle fonti relative ai viaggi di pellegrinaggio, la via Aurelia va senz’altro annoverata fra questi: è vero, principalmente essa era nel Medioevo una via commerciale, di raccordo fra i porti e i centri di consumo dell’entroterra e si conservava inoltre come percorso frequentato dalla corte pontificia, spesso in viaggio fra Roma e Civitavecchia per motivi amministrativi e per lo svago fornito dalle cacce della Maremma. Ma è vero anche che fin dai primi anni santi lungo il percorso si trovava facile occasione di esercitare la caccia. E proprio questa funzione ambivalente tipica dei percorsi meno tradizionali caratterizzava la via
Aurelia. Infatti il suo impiego anche da parte dei pellegrini è mostrato, se non da testimonianze dirette, dal fatto che la strada a partire dal Quattrocento fosse ripetutamente nota come strada Francesca15. Via Francigena o via Francesca o via Romea non è dunque definizione valida solo per il percorso della via Cassia con le sue varianti, ma deve considerarsi aggettivo attribuito anche contemporaneamente a più percorsi, noti nella pratica locale come vie di comunicazione fra il Nord e Roma. Troviamo questa definizione attribuita in particolar modo alla via Aurelia nei dintorni di Corneto: oltre che dal Polidori, essa è attestata nel 1455 lungo il tracciato costiero
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dell’Aurelia presso il casale di S. Matteo e nel 1537 vicino al casale di Cazzanello situato a circa 2500 metri a sud ovest del km. 100 dell’attuale Aurelia16. Il territorio di Corneto risulta infatti al centro dell’attenzione durante gli anni santi per il suo ruolo di fornitore di grano della città santa e il trasporto di tale approvvigionamento via terra non poteva essere altro che lungo la via Aurelia, il cui traffico dobbiamo immaginare costituito in prevalenza dai carri carichi di derrate alimentari17. Ma ai carri, almeno a partire dal Giubileo del 1575, si aggiungevano gruppi di persone in viaggio a piedi, organizzati in compagnie in movimento dagli ospizi esistenti nello stesso territorio cornetano, gestiti dalle confraternite che hanno lasciato testimonianze della propria attività di pellegrinaggio in veri e propri registri di presenze18. Corneto, Tolfa e Toscanella sono fra i centri che inviarono compagnie religiose nel 1625, Anno Santo peculiare per la sua impronta provinciale, i pellegrini provenendo principalmente dai dintorni di Roma lungo itinerari diversi da quelli tradizionali, fra cui la nostra Aurelia-Francesca. Il porto era utilizzato per il passaggio e per la sosta dei viaggiatori via mare provenienti dalle coste francesi. Come durante lo scisma, i viaggi tra Avignone e Roma erano praticati attraverso Civitavecchia, così i pellegrini vi facevano tappa nel loro percorso giubilare. In più di una occasione tali viaggi erano infestati da pirati e da banditi, soprattutto di origine corsa nei territori di Corneto, Tolfa e Civitavecchia, come ricorda il Polidori nell’anno 1500. In occasione del Giubileo del 1400, il prefetto di Vico sancì un patto per il passaggio pacifico dei pellegrini promettendo di non dare asilo ai malfattori, né ricevere «aliquem nuncium vel familiarem antipapae aut anticardinalem vel alterius eorum, viva voce nec per literas nec eos in suis terris receptare»19. Per il giubileo del 1500 venne atti-
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vata una squadra di difesa contro i turchi, lungo tutto il litorale da Civitavecchia a Terracina, soprattutto «quod via romana a S. Severa usque ad Civitatem veterem sit sicura a corsariis»20. Le tappe del viaggio da Roma a Civitavecchia erano scelte utilizzando per l’ospitalità i centri già noti nel periodo centrale del Medioevo: la prima notte si trascorreva a Palidoro e il giorno dopo si raggiungeva la meta dopo aver sostato a Palo, presso la fortezza, come narrato nel Diario del Burcardo a proposito degli spostamenti di Alessandro VI. Nel 1588 Sisto V si fermò a dormire nel podere di Pio V a due miglia da Roma sulla sinistra della via Aurelia, pranzò a Palidoro accolto dai ministri dell’ospedale del S. Spirito, per la notte fu ospitato da Alessandro Farnese a Palo, ripartito all’alba arrivò al tramonto a S. Severa, da dove alcuni del suo seguito proseguirono per mare; il papa preferì la via di terra, non senza rimpianti, a causa del suo cattivo stato di conservazione. Gli otto giorni di viaggio del papa Clemente VIII nel 1597 furono invece articolati nel percorso interno: Castelnuovo, Borghetto, Civitacastellana, Caprarola, Bagnaia, Viterbo, Toscanella, Corneto, Civitavecchia. Nel 1694, mentre i soldati erano di guardia lungo la spiaggia per tenere sicura la via Aurelia, Innocenzo XII venne ricevuto dai signori locali: gli amministratori del S. Spirito a Castel di Guido, il principe Odescalchi a Palo che offrì ospitalità per la notte, il cardinal Barberini a S. Marinella dove il corteo pontificio giunse in vista delle galere ormeggiate al largo. L’immagine è facilmente ricostruibile osservando le piante della strada del Catasto Alessandrino e quella successiva «delli terreni che presentemente si adacquano» presso Palidoro che presenta un suggestivo panorama da terra e dal mare (cfr. Fig. 34). L’interesse per le potenzialità economiche e politiche della fascia costiera e del suo percorso è attesta-
to fra XVI e XVII secolo dal progetto di ristrutturazione del sistema difensivo costiero dello Stato Pontificio che prevedeva la costruzione di nuove torri e la ricostruzione delle esistenti: Maccarese, Palidoro, Flavia, Corneto presentano infatti un aspetto cinquecentesco pur risalendo nella loro prima costruzione ad epoca assai più antica. Il Cinquecento fu il secolo dei restauri anche per la strada stessa: nel 1578 si lavorò alla strada da S. Severa a Civitavecchia in occasione del passaggio del corteo papale di Gregorio XIII; nel 1597 Urbano VIII provvedeva a un lavoro più radicale visto che sino ad allora se ne faceva solo qualche riparazione in occasione delle venute del papa e il suo stato non era buono anche per i furti di pietre del lastricato, in particolare si conservano i conti di pagamento per «smacchiamenti di boschi contigui alla strada»21. I boschi comunitari erano oggetto di particolare interesse da parte di Civitavecchia, perché rappresentavano un pericolo per la sicurezza della strada sia contro i banditi sia contro i lupi. I lavori alla strada e ai punti di sosta di essa furono sollecitati nei primi decenni del Cinquecento anche dall’amore del papa Leone X per la caccia. Gli itinerari che il pontefice percorreva, con un seguito anche di centocinquanta persone, prediligevano esattamente la porzione di Maremma estesa fra Civitavecchia e la Magliana22. Recatosi a Civitavecchia attraverso la strada che passava da Viterbo, il papa nei mesi autunnali faceva ritorno percorrendo la via Aurelia e fermandosi nelle selve a ridosso delle spiagge di S. Severa e Palo, dove ebbe cura di far restaurare la fortezza: «il zorno seguente si andò in Civita Vechia fu fatto appresso la marina (attuale S. Marinella) una caza in uno loco che era bosco de lentischo, et fu serato de tele atorno, dove li cervi, se li volevano fuzer, bisognava andasseno in mare». La tecnica si avvaleva dell’uso
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Fig. 32. Pianta ricostruttiva del percorso della via Aurelia nell’XI secolo, secondo la descrizione contenuta nel privilegio di Benedetto VIII.
di reti con le quali gli animali erano stretti su tre lati, lasciando libero solo il lato verso la spiaggia per fuggire. Non era raro fossero catturati dal mare con le barche: la battitura delle selve costiere e il posizionamento delle reti sono visibili in alcune mappe del Catasto Alessandrino relative ai possessi Sforza Cesarini sul litorale a sud del Tevere. Il Sanuto poi si dilunga nel descrivere i partecipanti alla caccia, in gran numero e con gran seguito di cavalli. Di tali selve predilette possiamo oggi riconoscere qualche lacerto nelle zone costiere protette: Macchia Tonda di S. Marinella, individuabile nella mappa del Catasto Alessandrino che ne rileva la vegetazione a fasce dall’entroterra alla spiaggia; palude di Torre Flavia23, [studiata dal
punto di vista storico e ambientale nel volume Tra acqua e terra]; le selve di cerro di Palo e Palidoro; per finire nella selva di Maccarese tra i cinghiali e le piscine disseminate alle spalle della spiaggia. La viabilità minore Sulla pianta ricostruttiva sono stati riportati i percorsi minori che, derivati dalla via Aurelia nel tronco qui analizzato, si sono potuti identificare attraverso la ricca documentazione cartografica conservata nell’Archivio dell’ospedale del S. Spirito (cfr. Fig. 30). Tali percorsi sono denominati, nei secoli XVII-XIX, secondo le località o meglio i nomi delle tenute che mettevano in collegamento e spesso non è difficile riconoscerli nei sentieri che tutt’oggi
collegano fra loro le fattorie di questo settore dell’Agro Romano. La comunicazione stradale attraverso le tenute non era poco importante: essa infatti richiedeva tutta una serie di norme giuridiche sulle servitù di passaggio tra le diverse proprietà della quale è rimasta più di una traccia nella documentazione patrimoniale e nella toponomastica attuale. E’ solo una fra le tante testimonianze, quella recata da una pianta del 1763 che faceva da corredo a un atto «super concessione transitorum in tenuta Palidori»: la famiglia Borghese, proprietaria della tenuta di Castel Campanile, aveva infatti ripetutamente chiesto e finalmente ottenuto dal S. Spirito il permesso di realizzare una strada di raccordo tra la tenuta e la via Aurelia, necessariamente attraversando una porzione
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di territorio appartenente al casale di Palidoro di pertinenza dell’ospedale. La strada figura tratteggiata sulla pianta e risulta avere origine tra i due edifici del casale e dell’osteria di Palidoro, parallela a un fosso (cfr. Fig. 40). I tracciati secondari, non solo erano utilizzati per collegare fra loro gli edifici dei casali con la viabilità principale – come lo «stradone che porta al casale dalla Strada Romana», menzionato nel 1779 in un inventario di fabbrica di Castel di Guido e individuabile sulla spianata dell’attuale cortile (cfr. Fig. 41)24 – ma soprattutto era correlato con tutta l’attività rurale delle tenute. Essa andava dal trasporto di uva e mosto con i carri durante la stagione della vendemmia verso le cantine dei casali, al più documentato carico della legna tagliata nelle selve e condotta nelle legnaie dei casali e soprattutto delle osterie per fungere da combustibile per le ampie cucine dotate di camini: il contratto di affitto dell’osteria di Malagrotta nel XVI secolo implicava proprio la concessione di tre rubbia di bosco e di sei cavalli per il trasporto della legna ivi tagliata (cfr. Fig. 42). Il diritto di tagliare tre some di legna nelle selve per uso dell’osteria si ridusse nel corso dei decenni centrali del secolo per evitare un eccessivo depauperamento del bosco e implicò la riduzione a tre del numero dei cavalli impiegati per il trasporto25. I contratti di affitto conservati per i secoli XVIII e XIX relativi alle tenute di Castel di Guido e Malagrotta comprendono doviziosi inventari di fabbriche, in particolare rete idrografica e fontanili, per garantirne il buono stato nell’atto della restituzione: fra gli elementi elencati non compare direttamente la descrizione dei tracciati interni, che pure erano in uso. Testimonianza della loro frequentazione si ricava attraverso l’analisi dei vari ponti e ponticelli, dalla natura anche molto effimera. I ponti a occhio della tenuta di Castel di Guido nel 1779 era-
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no per esempio: sul fosso della strada di Maccarese, nel Prato Rotondo, nella Longarina, sul fosso della Vipera, nella Polledrara, che rappresentava uno dei quarti agricoli della tenuta, nella Valle delle Vignole26. La maggioranza di essi si riferisce alla strada da Roma a Maccarese, la più documentata fra i percorsi interni alle tenute nella cartografia storica e oggetto di una particolare pianta redatta nel 1793 (cfr. Fig. 31). Questo percorso si staccava dall’Aurelia poco dopo Malagrotta e raggiungeva l’insediamento di Maccarese dopo aver oltrepassato alcuni fossi tra i quali il Pantan di Grano, con un andamento leggermente movimentato tra prati e zone boscose come si può ancora oggi constatare. Si è già dimostrato come in questo percorso vada identificata la via Aurelia Vetus, l’antichissimo tracciato litoraneo che collegava i centri etruschi con Roma: proprio l’antichità di questa frequentazione spiega la sua funzione prolungata nel tempo e la sua conservazione in uso senza soluzione di continuità. La sua funzione nel territorio è dimostrata dalla cura che la sua manutenzione richiedeva, come nel 1691 quando in un veloce appunto relativo all’affitto Rospigliosi si rendeva necessario deviarne il percorso all’altezza del confine fra Maccarese e Castel di Guido, perché il tracciato era stato smosso dai cavalli (cfr. Fig. 44). Più frammentario è stato invece l’impiego del tracciato che nella pianta della tenuta di Castel di Guido appare incrociare la via di Maccarese, la «Strada da Palidoro a Campo Salino»: essa risulta infatti allo stato di Vestigia nel 1789 (cfr. Fig. 45) e non figura più nelle successive carte; ne è invece documentata la riattivazione di un tratto di mezzo miglio nel 1830, per consentire un migliore collegamento tra Castel di Guido e la macchia della Muratella, conservata in parte nella attuale Macchia Grande27. La strada di Campo Salino costituiva in questo periodo il confine della Muratella, il
territorio selvoso che dava il nome al quarto agricolo della tenuta di Castel di Guido nella metà del Seicento – la cui localizzazione si può ricostruire in pianta grazie alla sua raffigurazione conservata nel Registro di Castel di Guido degli anni 1655-1660 – e proseguiva oltre fino alla tenuta di Castel Malnome. Il percorso è rintracciabile sulla tavoletta IGM (cfr. Fig. 30) e risulta attraversare le Macchie di Monte Sallustri, attualmente prive di vegetazione: ci troviamo di fronte a una chiara testimonianza di arretramento dell’area boschiva della Muratella, una volta spinta sino a questo punto e oggi ridotta alla Macchia Grande, la cui vegetazione presenta un confine rettilineo con andamento nord-ovest sud-est. L’incrocio dei due percorsi è ravvisabile anche nella pianta cinquecentesca di Eufrosino della Volpaia. L’attività rurale di età moderna aveva fatto sì che oltre l’Arrone e l’abitato di Maccarese, il percorso interno proseguisse parallelo alla costa fino a congiungersi con la Strada di Mare di Palidoro (cfr. Figg. 31 (strada rosa) 39, 46). Questo tracciato nel suo complesso, compreso tra le dune macchiose attualmente di Bocca di Leone e Passo Oscuro, collegava fra loro le selve paludose di Maccarese e di Palidoro, oltrepassando i principali fossi Arrone, Tre Denari e Palidoro e non è difficile immaginare servisse anche al corteo pontificio a caccia, in azione con le reti, all’inizio del Cinquecento: la carta di Eufrosino della Volpaia risulta molto particolareggiata a questo scopo proprio perché la sua redazione nasce in concomitanza dell’opera di Domenico Boccamazza, Le cacce di Roma, stampata nel 1548 (cfr. Fig. 49). Direttamente verso l’Aurelia, in particolare al ponte dei Tre Denari, segnata da un andamento trasversale era la terza strada da Maccarese (cfr. Fig. 31 strada verde), il cui reperimento è quasi impossibile a causa della bonifica delle Pagliete. Alcune parole infine meritano
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Fig. 33. Tenuta di Palo (Roma, COLLEGIO GERMANICO E UNGARICO, S. Saba, faldone Palidoro, 1687).
di essere spese sul «tridente» di Palo, ben evidente nelle carte storiche conservate (cfr. Figg. 33, 47-48). Le due piante seicentesche, in particolare quella del 1687, mostrano decisamente in uso il percorso che abbiamo definito interno, con la denominazione «Selciata o sia strada da Civitavecchia a Roma». Superata Statua, all’interno della tenuta di Palidoro, la via si dirigeva verso l’osteria di Monteroni, segnata anche da Francesco Contini nel 1661 con il n. 50. La strada incrociava la via trasversale per Ceri e quella per Cerveteri insieme al fosso Sanguinara. Sul mare sono ben visibili il castello diruto di Palo e la omonima fortezza, ben nota attraverso i dati sugli itinerari dei pontefici in viaggio da Roma a Civitavecchia. Il tratto costiero del-
la strada non era certo abbandonato: la sua funzione era in questo periodo proprio quella di raccordare Palo alla via di grande percorrenza e ai centri dell’entroterra, Monteroni, Cere e Cerveteri, dai quali i tre tratti di strada prendevano il nome. Il tratto dell’Aurelia interna era preferito da chi non doveva sostare presso la fortezza di Palo, per il suo andamento rettilineo e ciò trova conferma nell’esistenza di un’osteria chiamata di Palo, pur trovandosi a una certa distanza dalla fortezza proprio sul tratto interno dell’Aurelia, tra l’incrocio della strada per Cerveteri e il fosso Sanguinara. L’esistenza di aree boscose a ridosso della costa presso i due bracci trasversali non costituiva un condizionamento negativo nella scelta
del percorso, scelta che era operata piuttosto per la necessità di una strada più diretta verso il Nord. Nella seconda metà del XIX secolo si preferì invece riabilitare il percorso costiero, secondo una pianta non datata e realizzata proprio per la «Strada programmata per deviare da Monteroni e passare da Palo». Il percorso era considerato secondario ancora all’inizio del secolo, come documenta la mappa del Catasto Gregoriano, che registra a Monteroni non solo l’antica osteria, ma anche un edificio di posta e un oratorio (cfr. Figg. 39, 53). Ulteriore testimonianza di queste forme di viabilità minore è fornita dalla tenuta di S. Severa: la pianta seicentesca riproduce due percorsi interni che, originati dalla via Au-
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Fig. 34. Pianta delli terreni che presentemente si adacquano nella tenuta di Palidoro di proprietà della Pia Casa di S. Spirito in Sassia con legenda comprendente l’Indice degli incastri, forme e ponti per eseguire l’adacquamento. (ASR, S. Spirito, b. 1480, fascicolo di carte sciolte, n.4, 1809). La carta raffigura con particolari relativi al paesaggio una porzione del territorio di Palidoro, compresa tra il fosso Cupino, la via Aurelia e il mare. Vi si trovano raffigurati in prospettiva gli edifici pertinenti alla tenuta con l’osteria e la Strada del mare che si diparte dalla via Aurelia, una serie di elementi legati allo sfruttamento della rete idrologica (incastri), rappresentati anche in particolare prospettico con lo sfondo del mare. La pianta se confrontata con le altre relative a Palidoro, rende bene l’idea del tipo di paesaggio umido caratteristico di questo tratto della maremma costiera laziale con tumoleto e dune, capanne ancora individuabili nella toponomastica militare, selve, terreni allagabili con piccole piscine. Risalta inoltre il recinto in legno che delimita la Riserva del Rimessone, nel 1763 più chiaramente attribuita al pascolo delle bufale, attività silvo-pastorale tipica di questa porzione di Campagna Romana.
relia all’altezza del castello, conducono verso l’interno. Si tratta della «Strada alla casetta dei Bifolci» e della più importante «Strada che va da S. Severa a la Mantiana», ambedue individuabili sulla tavoletta IGM (cfr. Figg. 30, 37). Il percorso verso Manziana ci interessa più da vicino perché collegava la via Aurelia con i centri toccati dalla Cassia, la via più frequentata verso il nord: esso inoltre, staccatosi dall’Aurelia, seguiva un itinerario collinare e attraversava l’importante Macchia di Pian Soldano, cartografata nella metà del secolo XVII e oggetto di importanti norme di tutela nei contratti notari-
li successivi. Proprio attraverso una testimonianza relativa a controversie insorte fra gli affittuari circa la possibilità di praticare l’interno della macchia per il trasporto del legname, nel 1757 veniamo a conoscenza del fatto che «a capo la Macchia di Pian Soldano di S. Severa vi è la strada antichissima che esce in strada Romana di Civitavecchia (…) e che questa si fa e con barozze e con cavalli», essa veniva chiamata per questo la strada dei Mulattieri: il percorso della strada antichissima battuta è ricostruito con precisione provenire in discesa dalla macchia verso ponente alle Terre Nuove e girare intorno a
una zona pianeggiante per poi scendere definitivamente verso la via Aurelia28. Non stupirebbe dunque la possibilità di identificare questo percorso con uno dei tanti tratti trasversali in uso per collegare gli antichi centri dell’entroterra con la via Aurelia e le località costiere, percorso rimasto in uso nella consuetudine locale per il trasporto del legname tagliato nella macchia. In sostanza, del percorso della via Aurelia tra Malagrotta e S. Marinella, quello di Palo rappresenterebbe l’unico tratto soggetto a qualche mutamento di uso nel corso del tempo: per il resto le miglia com-
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prese tra il IX e il XVIII non hanno subito variazioni, fino ai tempi recenti, a quando risale la rettifica dell’ansa dove si trova l’edificio della Bottaccia, tra il km.16 e il km. 21. La viabilità interna alle tenute era molto articolata e la creazione o l’abbandono dei tracciati era documentata sulla cartografia, anche se le cure per la manutenzione da parte degli enti proprietari sembrava più concentrata sulla gestione dei fossi, dei boschi, delle aree coltivate, dei fabbricati. Il paesaggio La topografia Il territorio lambito dalla via Aurelia costituisce una delle regioni pianeggianti del Lazio, la Maremma laziale29. Si tratta di una pianura grosso modo triangolare con la base sul Tevere e il vertice poco a sud di S. Marinella, delimitata verso l’interno da terrazzamenti tufacei, i cui ultimi gradoni scendono verso il mare proprio presso il vecchio abitato di S. Marinella. La piana è composta in superficie da alluvioni deposte dal Tevere e dai torrenti minori come l’Arrone, durante le piene; verso la costa sono presenti placche di sabbie marine e un calcare conchigliare presso Palo, denominato macco. Il territorio non supera i 25 m. di altezza e i suoi rilievi sono rappresentati dai cordoni di dune, i tumoleti, la cui successione cronologica segue l’andamento dall’interno verso la costa. Tra i cordoni e nelle aree più depresse, la Maremma era caratterizzata dalla presenza di acquitrini, stagni e pozzanghere di varia estensione secondo le stagioni, le piscine. I modesti corsi d’acqua che scendono dal tavolato sono talvolta ostacolati dai cordoni di dune: il loro sfocio in mare è di regola ad estuario, il che comporta un andamento uniforme della costa. La singolare e complessa rete idrografica della Maremma laziale è il risultato
degli apparati vulcanici della Tuscia romana, stabilito in epoca relativamente recente. Tra i fiumi minori tributari del Tirreno interessa la nostra zona l’Arrone, emissario del lago di Bracciano. Il suo bacino è ristrettissimo perché tra Marta e Arrone altri torrenti, tra i quali il Mignone, vanno direttamente al mare, mentre più a est il fosso Galeria, che corre quasi parallelamente all’Arrone, tributa invece al Tevere. L’incidenza del Tevere nella costa maremmana si misura soprattutto con il fenomeno dell’avanzamento della costa: in corrispondenza della foce principale esso risulta ammontare a due chilometri in circa millecinquecento anni. Tale incremento non fu uniforme, infatti esso viene collegato col fatto che nelle regioni interne più elevate del bacino tiberino si ebbe durante il Medioevo un naturale rimboschimento e come conseguenza, una minore intensità dell’azione denudatrice, quindi un minore apporto di materiali in sospensione destinati a depositarsi sulla costa. La sistemazione della regione deltizia, oggi ormai ultimata, ha cancellato o alterato molti lineamenti naturali con la demolizione di cordoni di dune, il colmamento di barriere, lo scavo di canali, opere queste che, se sono iniziate con una certa sistematicità solo a partire dal secolo XVI, in realtà sono attestate in parte seppur minima anche nell’età classica e nei secoli dell’alto e del pieno Medioevo, con una minore incidenza sulla trasformazione dell’ambiente a causa dei limiti tecnologici. Ad altri fattori, cioè alla regressione della acque marine nel Würm I, è dovuto l’avanzamento della linea di costa che ha determinato la nuova pianura litoranea maremmana, nella quale cacciava l’uomo di Neanderthal, del quale sono conservate tracce. In quell’epoca le foreste con abeti, estese sull’Appennino, si propagarono verso la nuova pianura sino alla costa e con esse la fauna glaciale oggi estinta o relegata nelle regioni più settentrionali, come l’orso,
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lo stambecco, la marmotta, i cui resti sono stati rinvenuti insieme a quelli dei manufatti litici e dei focolari dei cacciatori. Successivamente, ed è ancora in atto seppure con ritmi lentissimi, il cambiamento delle condizioni climatiche e il conseguente ritiro dei ghiacciai ha comportato un processo di aumento del livello marino, che in qualche modo contrasta con il fenomeno già osservato, di interrimento della costa. Quali di questi elementi del paesaggio «naturale» ritroviamo nella documentazione storica e soprattutto come essi erano percepiti dai nostri predecessori, così come ci tramandano i vari tipi di fonte – testuali e non – fino a oggi pervenute? La letteratura igienista ottocentesca insisteva sulla necessità dell’eliminazione di elementi ambientali, quali pantani e acquitrini, per risolvere il problema dell’aria malsana; le macchie erano considerate un insidioso pericolo perché nascondevano ladri e assassini, motivo per cui Nicolai nel 1803 considerava un «prudentissimo provvedimento quello di tagliare dalle radici i boschi adiacenti alla strada per un tratto entro le campagne laterali per un mezzo miglio, essendovi colà accaduti replicati assassini»30. Risalendo indietro nel tempo, gli agrimensori e i topografi del XVI e XVII secolo, pur agendo su due fronti completamente distinti, si sforzavano di rappresentare e descrivere – i primi con metodi molto più rigorosi e aderenti alla realtà – la varie parti del paesaggio geografico che li circondava, con scopi economici e annonari come nel caso delle mappe del Catasto Alessandrino del 1660; storici e antiquari, o infine prettamente topografici come nella carta della Campagna Romana del 1547 di Eufrosino della Volpaia. Procedendo ancora a ritroso ci rendiamo conto che l’ambiente era percepito sempre più come parte di se stessi, un elemento familiare che non implicava la necessità di essere descritto minuziosamente.
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Fig. 35. Misura e pianta della tenuta di S. Marinella, agrimensore Mario Gentile (ASR, S. Spirito, b. 1481, fascicolo di carte sciolte di S. Marinella, n.1, 6 aprile 1634). La tenuta, che risulta di proprietà del Principe di Palestrina Taddeo Barberini, è compresa tra il mare e i tre fossi (attuali Ponton Castrato, Marangone e S. Maria Morgana). La pianta costituisce l’originale dal quale è stata tratta la copia redatta nel 1660 per il Catasto Alessandrino, come appare dalle forti similitudini che uniscono le due piante. Il territorio della tenuta è diviso in due parti caratterizzate da diverso aspetto ambientale: la parte verso il mare è composta da Tumoleto e la parte interna consiste in una Macchia di legname grosso (leggermente diversa è la caratterizzazione grafica utilizzata per le due specie di vegetazione e diverso è lo stemma riportato in alto). Le uniche piccole aree coltivate e prative si trovano nei pressi del forte e della strada. Adiacente alla costa è la Strada che viene da Roma e va a Civitavecchia, praticamente sul mare all’altezza dei due ponti sulle foci dei fossi che delimitano la tenuta. Ben visibili sono i ruderi della chiesa di S. Maria Morgana, scomparsi sulla tavoletta IGM, come il fontanile più meridionale; sono invece conservati i due fontanili lungo il fosso Ponton Castrato (sulla carta IGM: fontanile e fontanile di Camporosso). La presenza di questa carta può aver determinato la mancata redazione di un Registro di S. Marinella.
I notai romani del XIV e XV secolo, pur conoscendo bene numeri e misure, non avevano bisogno di un alto grado di precisione nell’enumerare i confini o nell’individuare il territorio oggetto delle transazioni poiché esso era definito secondo categorie certe e il sistema di riferimento topografico era basato su una divisione idrografica semplice, completato dall’elenco dei quattro confini. Riguardo alla descrizione dei fondi, il generico formulario esprime la chiara intenzione di voler inglobare tutto, e solo quando fossero esistiti elementi meno consueti – allora sì – intervengono menzioni specifiche che integrano l’elenco delle pertinenze: è questo il caso di silvae e pan-
tana, la cui presenza figura solo nel caso di effettivo accumulo di acque stagnanti e di concentrazione arborea di tipo specifico31. La menzione dei fossi, realmente esistenti, è spesso legata alla necessità di punti di riferimento topografico nell’enumerazione dei confini di una terra: è questo il caso sia dei grandi fiumi – Tevere e Aniene – in base al quale era tripartito il territorio della Campagna Romana, così suddiviso ancora nel XVI secolo nella pianta di Eufrosino della Volpaia, sia dei piccoli corsi d’acqua spesso privi di idronimo e semplicemente individuati dall’espressione rivo mediante. Questo tipo di pratica sembra conservarsi anche nelle registrazioni notarili successive, an-
che se queste si presentano più dettagliate nella descrizione dei fondi, includendo spesso inventari di fabbrica e della rete idrografica per la quale era necessaria una scrupolosa manutenzione. Il linguaggio e i termini sono però analoghi e ci consentono di familiarizzare con la regione geografica, con i nomi topografici, con il vocabolario rurale attraverso il quale ricostruire le pratiche di gestione dell’ambiente e il suo stesso esercizio in epoche precedenti, per le quali disponiamo di più scarne informazioni. La copertura vegetale «La Campagna Romana, nono-
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stante il suo aspetto relativamente uniforme, risulta un mosaico di situazioni geologiche, geomorfologiche, pedologiche e bioclimatiche, sulle quali si sono sovrapposte le variazioni climatiche del Quaternario e le conseguenze del prolungato impatto da parte di una popolazione dedita durante millenni alla pastorizia e all’agricoltura. Ne è derivata una elevata diversificazione del paesaggio vegetale»32. Dal punto di vista fitoclimatico, la Campagna Romana e la Maremma laziale interna si trovano nella regione definita «mediterranea di transizione», in quanto il carattere prevalente – dato da: una precipitazione annuale piuttosto uniforme con apporto estivo non basso, una temperatura media annua compresa fra i 14,8 e i 15, 8° C, un’aridità estiva piuttosto prolungata, cioè da giugno ad agosto, un freddo invernale altrettanto prolungato, da novembre ad aprile, – è quello di un’area di transizione tra la regione mediterranea e quella temperata, pur essendo più evidente il collegamento bioclimatico con la regione mediterranea: si parla infatti di regione «temperata di transizione» per un’area più interna, quella delle valli del Tevere e del Sacco33. Per quanto riguarda il tipo di vegetazione forestale prevalente, la nostra area si presenta come un caso di studio molto interessante: infatti la tradizione geobotanica europea tende a operare una suddivisione rigida tra clima mediterraneo, identificato con quello della foresta sempreverde e clima temperato, associato a quello della foresta caducifoglia. Nel caso del settore tirrenico attuale, questa generalizzazione non si può applicare in quanto ci troviamo spesso di fronte a un misto di sclerofille, cioè da vegetazione forestale sempreverde dalle foglie protette da cotica rigida e impermeabile e caducifoglie: la vegetazione forestale prevalente è costituita infatti da cerreti, querceti misti di roverella e cerro – che rappresentano gli elementi caducifogli –
misti a elementi del bosco di leccio e di sughera e, verso il litorale, di elementi primari di macchia e lecceta, dal carattere sempreverde. La discussione, proprio per quanto riguarda la vegetazione potenziale, è però sempre aperta. Infatti, se da un lato le indagini palinologiche hanno attestato un’assoluta prevalenza della vegetazione caducifoglia nelle aree pianeggianti della Campagna Romana, non è facile stabilire se la grande diffusione della vegetazione sempreverde a partire da 3500 anni fa in quest’area sia stata effetto di un’oscillazione climatica, anch’essa attestata con certezza, oppure a un progressivo aumento dell’uso del suolo. E’ noto infatti che sia l’attività antropica, mediante il pascolo e l’incendio o anche solo lo sviluppo agricolo nelle aree prative intercalate al bosco, sia l’andamento naturale del clima, possono provocare inaridimento ed erosione del suolo e di conseguenza favorire lo sviluppo di vegetazione a querce sempreverdi. Il fatto che attualmente il bosco misto sia quasi ovunque scomparso, mentre rimane quello sempreverde più facilmente adattabile, rende da un lato un’ingiustificata impressione di mediterraneità per tutto il territorio e dall’altro quella, altrettanto ingiustificata, di carattere originale di esso34. Le domande che poniamo alla nostra documentazione storica consistono nel verificare quanto di questo tipo di ambiente fosse presente nei secoli precedenti e in che misura e secondo quali modalità ne fossero utilizzate le risorse da parte dell’uomo. La gestione del territorio e le trasformazioni del paesaggio lungo la strada La percezione dell’ambiente nel medioevo Paludi, acquitrini, boscaglie offrivano risorse non trascurabili al livello di economia silvo-pastorale nel-
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l’ambito delle pertinenze castrali duecentesche. I documenti notarili del XIV secolo testimoniano la pratica dell’uccellagione, la pesca nelle paludi, negli acquitrini e nel mare, il cui diritto era tutelato da clausole dettagliate. Insieme ad altri, questi prodotti erano oggetto di commercializzazione presso l’approdo di Palo, dove arrivavano attraverso la via Aurelia dai centri situati più all’interno o non dotati di un punto di attracco. Tra l’XI e il XIV secolo il territorio di Malagrotta fino a quella che era stata l’antica stazione di Lorium, al XII miglio della via Aurelia, tra Castel di Guido e la Bottaccia – dalla quale deriva il toponimo medievale Lorano – era di proprietà del monastero romano dei SS. Andrea e Gregorio al Clivo di Scauro35. Gli atti del monastero dei SS. Andrea e Gregorio localizzano i vari elementi del paesaggio rurale nell’ambito di un generico territorio di Malagrotta: si è già fatto riferimento alla stazione romana di Lorium come ulteriore indicazione topografica per individuare il toponimo Lorano nelle vicinanze; il toponimo Botticella era già presente nell’area per individuare una terra nel documento del 1328 e un casale nel 1340, successivamente esso designò un fosso (cfr. Fig. 10) oltre che il casale appartenente ai Doria Pamphili nel XVII secolo, noto con la denominazione di Bottacchia. Il fosso in questione è chiamato da Eufrosino della Volpaia nel 1547 Pantan di Grano e risulta scendere dalla Bottacchia verso il Galeria: sulla odierna tavoletta IGM esso è identificabile nel Fosso di Pantan di Grano che raccoglie le acque di un minore Fosso della Bottaccia. Lungo questo stesso fosso, il disegno dettagliato del Quarto di Malagrotta, compreso nella tenuta di Castel di Guido, segna un’anonima piscina, uno specchio d’acqua di natura stagionale, analogo ad altri ugualmente raffigurati nelle tenute situate nella Maremma laziale. Tale piscina è identificabile con
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quanto resta di un intervento documentato tra il 1512 e il 1515 nell’archivio del S. Spirito. L’appezzamento di terreno di Malagrotta risulta nel XVI secolo ancora spettante al monastero romano, che lo concedeva in locazione con l’onere non solo di costruire un hospitium lungo la via Aurelia, ma anche di prosciugarne una superficie di tre rubbia che «propter exuberantiam aquarum locus ipse fuit paludis»36. Questa palude non viene purtroppo definita più precisamente, ma in essa non è difficile riconoscere l’antico pantano Lorano, esteso a sud ovest dell’Aurelia all’altezza di quello che sarà in seguito il centro abitato di Malagrotta composto da osteria, edificio del casale e chiesa, presso il fosso di Pantan di Grano. Essa doveva trovarsi nel punto, indicato dal disegno del 1655-60, dove il terreno è sottoposto a un avvallamento, attualmente definito Prati Madonna: l’antico pantano, anche se sottoposto a variazioni secondo le tendenze stagionali di accumulo delle acque, difficilmente poteva arrivare sino al punto che sulla tavoletta IGM è definito proprio Pantan di Grano, oggi occupato dagli impianti della raffineria, non superando secondo la memoria del 1512, la superficie di circa cinque ettari (pari a tre rubbia, cioè a circa un quadrato di cm.1 di lato sulla tavoletta IGM, cfr. Fig. 50). D’altra parte non dobbiamo immaginare necessariamente l’esistenza di un solo pantano: il Lorano infatti è definito maior nella documentazione scritta e, in età moderna, cioé assai dopo l’intervento attestato nel XVI secolo e confermato dalla presenza del fosso scolatoro nel Seicento, il Fosso Pantan di Grano è così descritto: «ha sempre acqua perenne, ma ripieno di lezzo, d’imposte di terra, frasche e piante acquatiche, che ne impediscono il libero corso, formando tanti stagni ripieni nella state, quando l’acqua è poca» e quindi è fornita di scarsa spinta che ne impedisce lo scorri-
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mento nelle parti più pianeggianti37. Non dimentichiamo che il piccolo stagno al confine con Macchiagrande di Galeria è un elemento tuttora conservato nel paesaggio attuale anche in estate. Ben più identificabile, perché dotata di un carattere più conservativo, è la selva di Cancellata. Perso definitivamente il toponimo, a differenza per esempio della vicina selva di Maccarese, essa è facilmente individuabile sulla pianta di Eufrosino della Volpaia, compresa tra la via Aurelia, il fosso Pantan di Grano (segnato decisamente troppo distante, secondo una caratteristica distorsione della pianta Volpaiana, cfr. Fig. 49) e il tracciato stradale interno di raccordo tra Palidoro e MaccareseCampo Salino, anch’esso segnato erroneamente congiungersi con l’Aurelia al ponte sull’Arrone e identificata con la denominazione La Selvotta. I limiti della selva compresa nel quarto della Muratella, a sua volta nella tenuta di Castel di Guido, nel 1655-1660 sono bene individuabili nelle piante del registro di tale tenuta e riconoscibili sulla cartografia attuale (cfr. Figg. 38, 50): la sua superficie seguiva le curve di livello e si estendeva ben oltre la squadrata Macchia Grande, frutto di una più recente delimitazione. Essa si spingeva dal confine meridionale della tenuta, agli attuali Fossi di Pantan di Grano e La Carosara e di poco oltrepassanva, verso la costa, il percorso interno da Palidoro a Campo Salino. Presso quest’ultima strada la pianta raffigura uno spazio libero dalla vegetazione e recintato per ospitare le tipiche capanne di pastori e carbonari, quasi una lestra come quelle di ambiente pontino. Come si vedrà oltre, la selva della Muratella o di Malagrotta nel Cinquecento sarà continuo oggetto di scrupolose misure per salvaguardarne un equilibrato regime di ceduazione: la sua configurazione fisica ed economica risulta dunque avere una forte incidenza all’interno del paesaggio dell’intera tenuta.
Tornando alla nostra documentazione più antica, si deve evidenziare come tra XI e XIII secolo infatti, diversamente da quanto avverrà in seguito, i contratti non ricorrano a rigorose suddivisioni topografiche e agricole e soprattutto menzionino i più vari elementi del paesaggio colto e incolto come fossero giustapposti fisicamente e quindi integrati dal punto di vista dello sfruttamento. L’oggetto delle concessioni, genericamente riferito a un fundus del monastero – cioè una forma di ripartizione ampia del suolo agricolo derivata dalla nomenclatura antica – era infatti rispettivamente: una terra seminata e il Pantano Lorano; una porzione della Selva Cancellata con vigne al suo interno, con fili di salina per l’estrazione del sale, con selva e pantano per il taglio della legna e per il pascolo dei porci; una terra seminata di sei rubbia comprendente al suo interno una selva. Se è vero che si tratta di superfici molto frammentate, la cui configurazione possiamo ipoteticamente visualizzare sulla pianta ricostruttiva realizzata, è anche vero che possiamo immaginare la realtà dei vari elementi del paesaggio compresi all’interno della vasta area della successiva selva della Muratella. Vediamo dunque come tra XII e XIII secolo si parli genericamente di porci al pascolo e nel 1236 l’area umida incolta risulti compresa entro un appezzamento di sei rubbia in parte coltivato. La superficie di meno di un ettaro consentirebbe il pascolo di solo due o tre porci, secondo un rapporto tra superficie di bosco e possibilità di soddisfazione alimentare38. Ciò contribuisce a ricostruire un quadro di estrema promiscuità tra paesaggio colto e ambiente incolto. In questo quadro una terra seminata poteva comprendere al suo interno una porzione di selva più estesa, rimanendo quest’ultima dotata della sua precisa funzione silvopastorale. E’ significativo, infatti, che nell’elenco delle pertinenze stilato nel 1128 all’interno della selva figurasse-
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Fig. 36. Tenuta di Palidoro (ASR, S Spirito, b. 1480, registro con piante e test, ca.1655-1660). Il volume è senza data ma per analogia con gli altri pertinenti ad altre tenute è possibile collocarlo intorno al 1660. Contiene sei piante: la prima dell’intera tenuta, cfr. confini riportati sulla tavoletta IGM; le altre relative ai cinque quarti sono quindi a una scala più piccola: Polletrara, Campo Santo, Torre della Perna, Mentuccia, Villa. Il testo che accompagna le piante è una descrizione accurata delle porzioni che compongono i singoli quarti, porzioni recanti un numero romano e distinte fra loro per il tipo di utilizzazione rurale: vigna, canneto, lavorativo, macchia, prato, pascolare. Le piante sono molto significative per la ricostruzione dell’ambiente vegetale, così come il testo che le accompagna dove spesso figura anche il tipo di alberi compresi nelle selve, per l’individuazione della posizione e dello stato di conservazione dei manufatti siti lungo la strada (ponti, osterie, edifici del casale, fontanili). Il testo inoltre contiene anche alcuni consigli relativi ad eventuali lavori di miglioramento per lo scorrimento delle acque, per l’accertamento dei confini. Esso è sempre corredato dalle superfici dei singoli terreni, dei quarti e dell’intera tenuta.
ro vigna, fili di salina e prati e che solo i due elementi selva e pantano meritassero di essere ripetuti con la specificazione del tipo di sfruttamento. Ne veniva precisata l’individualità così come, nel documento del 1236, si faceva espresso riferimento al diritto di entrare sia nella terra seminata sia nella selva in essa compresa: i due tipi di terreno erano l’uno compreso entro i confini dell’altro, meritavano una considerazione indipendente e non risultavano l’uno marginale rispetto all’altro.
Anzi, nel contratto del 1128, l’elemento preminente appare proprio la selva con il pantano Lorano, all’interno della quale trovavano un proprio posto anche i terreni caratterizzati da lavorazione intensiva. Quali specie arboree costituissero la selva in questione non è specificato da di precisa nomenclatura, ma per questo tipo di indicazioni dobbiamo generalmente aspettare un periodo assai successivo, se si è fortunati. Ciò che si può fare però è collegare le indicazioni circa l’uso che se
ne faceva con i dati offerti dalla ricerca di tipo botanico: le ghiande utilizzate per l’alimentazione del bestiame brado e il legname tagliato e trasportato tramite i percorsi viari interni possono aver appartenuto a un lacerto dell’antica macchia-foresta a leccio, che in quest’area sembra essersi conservata fino all’epoca storica seppure, come si è visto, integrandosi e diversificandosi in relazione alle altre forme di sfruttamento delle risorse rurali da parte dell’uomo.
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Fig. 37.Tenuta di S. Severa (ASR, S. Spirito, b. 1481, registro con piante e testi, ca. 1655-1660). I quarti compresi sono: Porcareccia, Monterosso, Castellaccia, Selva Piana, Torricella, Pozzo di Ferro. Anche in questo caso il testo che accompagna le piante del Registro si è rivelato di estremo interesse per individuare con maggior sicurezza tutti gli elementi territoriali, fra cui le superfici e le componenti vegetali delle aree incolte e boschive della tenuta sulla tavoletta IGM e per ricostruirne le spesso veloci trasformazioni che ciclicamente le hanno viste coltivate e poi riconquistate dalla vegetazione spontanea.
Non solo. In questo caso abbiamo la fortuna di poter cogliere una delle rare menzioni di struttura artigianale, comprese all’interno di una concessione in enfiteusi e legata all’uso di una bene individuata specie vegetale, propria dell’ambito paludoso. Si tratta di una sorta di sega circolare azionata e impiegata per il taglio della cartica, una fibra simile al papiro reperibile nelle zone umide. Questa specie di vegetazione palustre è oggetto di distinzione molto precisa nella documentazione scritta e
cartografica, per esempio veniva dissociata dalla cannuccia e dal giunco che sono specie caratterizzate dalla sommersione prolungata: il cannetum e il cartinum si trovavano nei luoghi di minore sommersione e lungo i canali di drenaggio insieme al rovo. La funzione di questa fibra era diffusa sia come sostegno per la vite, sia per l’intelaiatura e la copertura delle capanne; la sua raccolta caratterizzava lo sfruttamento delle zone allagate, come è attestato dal passaggio a vero e proprio toponimo
o attributo del termine pantano39. Nell’insieme delle risorse agrosilvopastorali del territorio si deve dunque annoverare l’attività di raccolta della vegetazione dall’ambiente della palude e la sua stessa lavorazione in situ mediante strutture «industriali» sistemate nel prato adiacente allo stesso pantano. Questa integrazione tra risorse ambientali trovava una sua ragion d’essere nel quadro che si viene delineando a partire dalla documentazione raccolta e nella prospettiva più
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ampia di un sito già utilizzato nell’alto Medioevo come azienda agraria con insediamento rurale aperto, una domusculta. Al di là dell’individuazione topografica esatta della domusculta Lauretum, fondata dal papa Zaccaria nell’VIII secolo, resta peculiare la vocazione dei terreni pianeggianti e paludosi nei confronti delle forme di occupazione del suolo e di sfruttamento delle sue risorse: tali aree, indipendentemente dalla loro distanza da Roma, non sono state interessate che eccezionalmente dal fenomeno dell’incastellamento e dell’accentramento degli abitati, caratteristico dei secoli X-XI. Proprio per le loro caratteristiche ambientali e per l’integrazione agro-silvo-pastorale che essi hanno determinato sino al XIV secolo, questi territori vantano una sostanziale continuità di insediamento sparso legato agli assetti demografici e al ciclo rurale. Al loro interno il campo era arato e concimato dal bestiame che a sua volta pascolava sui prati o nelle selve adiacenti e si abbeverava nei pantani e nelle piscine naturali, dalla cui vegetazione proveniva il materiale per la costruzione di recinti, capanne e sostegni per la vigna, insieme a quella arborea delle selve sottoposta a regolare taglio40. Il prato-pascolo nell’economia del casale Il fenomeno più vistoso che caratterizza l’assetto rurale dell’Agro Romano nel basso Medioevo è costituito dal profondo cambiamento verificatosi sia sul piano gestionale e patrimoniale, sia su quello produttivo, sia infine su quello demografico e insediativo, una forma di evoluzione economica e sociale ben studiata e fondata sulla documentazione notarile appartenente alla seconda metà del XIV e ai primi decenni del secolo successivo. In sintesi, lo spopolamento da un lato e la crisi economica dei grandi proprietari fondiari – le chiese e i monasteri romani – da un altro hanno determinato l’ascesa di una nuova classe di
imprenditori agricoli, i bovattieri, orientata allo sfruttamento del grande possesso fondiario, il casale, esclusivamente per l’allevamento e la coltura cerealicola estensiva. Questa evoluzione ha inciso profondamente nella trasformazione del paesaggio rurale dell’Agro Romano, che ha cominciato lentamente e progressivamente ad assumere quell’aspetto di abbandono e desolazione, largamente diffuso nella letteratura storica e nelle opere a carattere agronomico del XVIII e XIX secolo. L’appezzamento di terra era costituito da un corpo principale al quale si affiancavano talvolta unità più piccole topograficamente isolate, chiamate pediche e valzoli. Il casale di Malagrotta, per esempio, continuava a mantenere una caratteristica individuata nella precedente documentazione cioè quella di essere suddiviso «in diversiis petiis terrorum, terre, pedice posite in diversiis lociis atque vocabulis», come sottolinea un documento del 1328 nel quale sono riportati i riferimenti topografici di alcune pediche41. Secondo le vocazioni del suolo e anche in relazione alla distanza da Roma, esso era in parte seminato a grano e in parte lasciato al prato-pascolo: un atto del notaio Venettini risalente al 1395 relativo alla concessione per due anni di Castel di Guido indica nel suo insieme il tipo di frutti scaturiti dal territorio «videlicet herbarum, silbagiorum, glandaticorum et frumenti»42. L’estensione del pascolo sembrava crescere in rapporto alla lontananza dall’Urbe, ma esso acquisiva una specifica peculiarità proprio nelle zone umide pianeggianti e nella Maremma costiera. La vendita di erbe grosse e minute era per l’appunto oggetto specifico dei contratti notarili riguardanti i casali di Galeria, Selce, Palo, Palidoro e Malagrotta negli ultimi decenni del Trecento43. Il territorio di Malagrotta è anche nel caso della documentazione notarile quello che riserva la maggior parte di testimonianze. Anche se
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sappiamo bene che il pantano continuava a esistere, esso non figurava quasi in questo tipo di testimonianze se non di rado e unicamente come riferimento topografico per la localizzazione di terreni: in un atto del 1328 l’attenzione era tutta concentrata sui pratis et pascuis bobum. L’indicazione precisa delle vacche al pascolo sulle erbe di Malagrotta doveva avere una forte incidenza poiché la sua menzione ricorre più di una volta. Ottocento, questo il numero espresso in un documento del 1364, era un quantitativo cospicuo che può trovare una spiegazione nel fatto che la superficie del casale fosse ormai interamente votata al pascolo, come succedeva nel caso di alcuni appezzamenti costieri dove l’erosione del suolo impediva la coltura estensiva44. In questa occasione il notaio Scambi interveniva per registrare le posizioni nell’ambito di una lite vertente tra il monastero e Pietro Paolo di Andrea Ponziani pescivendolo della regione S. Angelo, «occasione vaccharum missarum ad pascuandum in territorio Cancellata in casalis Malagripte» che il Ponziani aveva in locazione dai monaci di SS. Andrea e Gregorio: la selva costituiva una riserva ed era oggetto di speciale protezione contro l’eccessivo sfruttamento e i danni che il pascolo libero del bestiame avrebbe prodotto sul ciclo di riproduzione dei suoi frutti. La clausola relativa alla riserva nel caso di Malagrotta rappresenta un forte elemento di continuità per tutto il Medioevo e per l’età moderna e contribuisce a delineare un quadro nel quale le risorse del territorio erano sostanzialmente limitate a due rispetto al più variato paesaggio rappresentato dalla documentazione precedente: il prato-pascolo e il bosco, nei quali anche il rapporto fisico e la compenetrazione funzionale sembrano molto inferiori rispetto a prima. I contratti risalenti agli ultimi anni del XIV secolo distinguevano regolarmente la consistenza del casale in terre e selve e in erbe grosse e minute più glandes et castaneas i
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frutti da esso scaturiti45. La distinzione tra parte boscata e parte adibita al prato da sfalcio era comune ad altri casali del nostro litorale settentrionale: nel 1389 è attestata a Castiglione (attuale Torre in Pietra), a proposito del quale il notaio forniva un ricco elenco di pertinenze «terris, silbis, pratis, pantanis, paludibus, cavonibus, sterpariis, aquis, aquarumque decursibus» a Statua, a Palo e a Galeria46. Per quanto riguarda Malagrotta, una vendita per sette anni stilata nel 1392 a favore del nobile Iacobello Mattei fornisce un’ulteriore precisazione circa il rapporto concreto tra prato e bosco all’interno del paesaggio della tenuta, paesaggio che siamo ormai in grado di visualizzare con una buona approssimazione attraverso la cartografia storica e il suo confronto con la pianta moderna (cfr. Figg. 38, 50): i frutti venduti sono riferiti in particolare «tam tenimenti silbarum stricti tam tenimenti largi casalis predicti», specificando la suddivisione fra selva e larghi, un termine relativo a uno spazio aperto, pianeggiante e prativo o seminato, di ampio impiego nelle fonti moderne. In questo caso è interessante la contrapposizione con stretto, riferito invece ad ambiente chiuso morfologicamente e dal punto di vista della vegetazione. Il contratto prevede che il concessionario potesse ricavare per ciascun anno un raccolto di erba e di spighe; il notaio aveva compreso fra questi frutti anche il ghiandatico annuale, ma questo è stato oggetto di un ripensamento ed è stato depennato. Il ghiandatico era di solito compreso in questo tipo di contratti, ma nel caso di Malagrotta gli elementi dell’ambiente incolto determinavano una particolare forma di rispetto e il ripensamento trova una sua giustificazione alla luce della clausola che segue: «reservato taglio grosso et minuto lignarum et silbarum dicti casalis Molerupte et reservate XVI falciatis feni, reservatis etiam glandaticis et glandis et cellationis et usu cellandi in silbis in
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tenimento dicti casalis»47. La selva di Malagrotta costituiva un corpo individuale dal punto di vista fisico e vegetazionale e il suo sfruttamento implicava un uso controllato per il taglio della legna, distinto secondo la funzione per costruzione o per combustione, per la raccolta delle ghiande e per l’uccellagione. La vicinanza fisica tra selve e stagni e piscine costiere ha favorito un’estensione delle attività degli imprenditori agricoli romani trecenteschi, che in questa zona del litorale potevano arricchire i propri introiti grazie alla pesca e alla caccia. Il 3 febbraio 1367 l’Universitas della regione Arenula vendeva per tre anni al pescivendolo Lello Ponziani della regione S. Angelo – il quartiere romano dove aveva sede la Schola piscatorum presso la chiesa di S. Angelo in Pescheria, per la quale rogava il notaio Scambi – i diritti sulle piscarie e sulle spiagge pertinenti ai centri di Statua, Palo e Civitavecchia. Ecco infatti che nel 1377 il pescivendolo Petruccio Grassi detto Picço acquistava per tre anni i diritti di caccia agli uccelli nelle silvas et silvaricias, pantana et pantanicia dei territori di Maccarese, Castel di Guido, Testa di Lepre e Leprugnana, in cambio di 150 paia di colombe e dodici mortitorum all’anno: i termini relativi agli ambienti di caccia si devono probabilmente interpretare come selve di diversa scala dimensionale e come pantani dalla diversa quantità delle acque secondo la stagione, un po’ come in seguito si distinguerà, nella cartografia, la selva dalla selvotta (cfr. per es. Fig. 49). Nel 1392 lo stesso pescivendolo era protagonista dell’acquisto per quattro anni di «omnes et singulas ucellationes et venationes avium silvarum castri Guiddonis, tenimentorum silvarum castri Baccharenis». Per quanto riguarda le specie animali oggetto della caccia, esse sembrano in questo caso limitate agli uccelli definiti tali in generale senza specificarne il tipo se non nei censi in natura, quando si faceva riferimento
ai colombi e a una specie non meglio identificata e ricorrente nella documentazione relativa alla costa meridionale48. Gli statuti trecenteschi di Roma e gli statuti delle gabelle enumeravano fagiani e pernici e comunque conservavano la distinzione tra aves e animalia silvestria: bisogna comunque tener presente che nella zona costiera approdavano in gran numero, soprattutto nei mesi fra aprile e giugno, gli uccelli di passo, si possono quindi annoverare tra le specie cacciate lungo il nostro litorale anche le quaglie provenienti dall’Africa oltre al colombo selvatico, che può essere sia di passo sia sedentario. La costa maremmana, come si vedrà a proposito delle fonti della prima età moderna, è stata una meta privilegiata per la caccia agli uccelli e alla selvaggina pesante lungo tutto il periodo considerato, sia da parte della classe nobiliare sia della media, rappresentando questo tipo di carne un cibo molto diffuso nell’alimentazione dei romani. Diminuzione delle terre seminate, delle vigne e del popolamento in un’area che fu oggetto di insediamento sparso fino al XIII secolo; concentrazione dello sfruttamento delle risorse ambientali a favore del prato-pascolo per l’allevamento, della raccolta di frutti per l’alimentazione del bestiame nelle selve, della pesca negli stagni e negli acquitrini e della caccia agli uccelli nelle selve paludose costiere; esaurimento di quella forma di integrazione che vincolava l’attività agricola a quella silvo-pastorale: questi gli elementi caratterizzanti fine del secolo XIV e l’inizio del successivo in coincidenza con i cambiamenti demografici e fondiari che hanno avviato le trasformazioni dell’ambiente naturale nell’area romana, ulteriormente delineate nella piena età moderna. Le trasformazioni del territorio fra XVI e XVII secolo Il territorio dell’Agro Romano è rappresentato nel Cinquecento da
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Fig. 38. Tenuta di Castel di Guido (ASR, S. Spirito, b. 1467, registro con piante e testi, ca. 1655-1660). Il volume è aperto da una pianta e alzato dell’edificio del casale di Castel di Guido. I quarti compresi sono: Castel di Guido, Malagrotta, Selce, Muratella, Piano dell’Arrone.
una delle prime carte che vantino di una certa sistematicità, quella di Eufrosino della Volpaia del 1547, la cui lettura è arricchita da un testo meno conosciuto e ad essa legato, Le cacce di Roma di Domenico Boccamazza, stampato l’anno successivo49 (cfr. Fig. 49). Il territorio intorno alla via Aurelia è riprodotto sulla pianta purtroppo solo fino a poco oltre l’Arrone e i dati utili concernenti la selva di Cancellata, La Selvotta sono già stati sopra presentati. Le altre componenti naturali che la pianta raffigura sono la selva di Maccarese, anch’essa dotata di testimonianze medievali relative alla famiglia Normanni e il Quarto della Villa presso
l’Arrone, caratterizzato da vegetazione palustre e considerato un tutt’uno con la selva di Maccarese nella cartografia più dettagliata del secolo successivo (mappa di Maccarese del Catasto Alessandrino 433bis/35). A nord dell’Arrone il disegno di Eufrosino accenna la caratterizzazione grafica di una fitta vegetazione costiera, ma la pianta non arriva nemmeno alla definizione del territorio di Palidoro. Diversamente, la trattazione del Boccamazza si spinge da Campo Salino a Maccarese e da Palo a Civitavecchia e Corneto e offre così un quadro di partenza generale sull’ambiente naturale in questo secolo,
per entrare più nel dettaglio con la documentazione scritta e cartografica successiva. Lo scopo dell’autore era quello di compilare una guida per i cacciatori: il suo testo presenta quindi elementi descrittivi del paesaggio in funzione del più o meno facile reperimento della selvaggina, cervi in prevalenza, ma anche cinghiali e caprioli, consiglia la migliore tecnica per ottenere buoni risultati secondo le caratteristiche dei luoghi, indica infine i tempi e i luoghi di sosta per il pranzo o se necessario per il pernottamento. La nostra Selvotta e il Pantan di Grano sono citati sia a proposito di Campo Salino sia a proposito di
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Fig. 39. Pianta topografica della via Aurelia da Roma a Civitavecchia (ASR, Disegni e Piante, I, 108/258). La pianta consiste in un quadro di unione, dove figurano gli edifici e i ponti situati lungo di essa e le tenute contraddistinte da una diversa coloritura, e nel dettaglio i vari tratti a più piccola scala. Essa è da collegarsi alla rappresentazione del Catasto Gregoriano e analogamente riporta le strutture relative ai vari manufatti lungo il percorso. Ne sono stati riprodotti i tratti relativi a Malagrotta (il casale di Malagrotta – scomparso nella letteratura storica – figura disegnato come quello di Bottaccia come un edificio rettangolare che ingloba la chiesa della quale si vede la facciata nel lato lungo intitolata al Santo Spirito come risulta dal Catasto Gregoriano), figura poi un edificio allungato lungo la strada corrispondente alla nuova fabbrica e il fontanile, sempre lungo la strada, del quale rimangono oggi alcuni resti in situ, Bottaccia (edificio del casale con chiesa di S. Antonio come risulta dal Catasto Gregoriano), Castel di Guido (due nuclei: edificio rettangolare comprendente la chiesa intitolata al S. Spirito secondo il Catasto Gregoriano, tipologia analoga a quello di Malagrotta e Bottaccia, edificio del casale (cfr. Fig. 38) con altri tre corpi di fabbrica minori attualmente conservati e fontanile proprio presso la strada simile a quello di Malagrotta), Palidoro (casale con quattro corpi di fabbrica, visibili in prospetto nella bella pianta della Fig. 34, tra i quali si deve identificare la chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, parrocchiale secondo il Catasto Gregoriano e che riproduce l’intitolazione di una chiesa napoletana aggregata all’ospedale del S. Spirito e un fontanile, Strada di mare che parte dal casale e si può identificare con quella già rappresentata nelle piante delle Figg. 31 e 46, cemeterio affacciato sulla strada e documentato anche dal Catasto Gregoriano, strada che dall’Aurelia parte per Castel Campanile, cfr. Fig. 40 e infine osteria), Palo (Posta e osteria di Monteroni costituiti da un grosso edificio e da uno più piccolo compreso tra due aree verdi, corrispondente all’osteria n.50 della carta alessandrina della via Aurelia, strada di Palo).
Maccarese: la prima era considerata un punto di riferimento negativo, i cacciatori infatti, non essendo sufficienti le reti per coprire una tale estensione, erano costretti a intervenire a piedi e a cavallo per evitare che i cervi vi trovassero un ricovero tale da impedirne la cattura. Questi infatti erano costretti a passare nel piano largo per poter venire intrappolati. Il Pantan di Grano era ormai un fosso che conservava solo nel toponimo una traccia del suo precedente aspetto, quello di zona di acqua stagnante perenne. Per raggiungere la caccia di Maccarese bisognava andare «da porta S. Pancrazio per la via di Malagrotta fino a Valle Mancina (un toponimo presente nella cartografia seicentesca: fosso di Valmancina e poi scomparso, attualmente Fosso della Macchia, che delimitava a nord la selva della Muratella, cfr. Fig. 30),
poi si cali con li bracchi alla porta di Vaccharese che guarda l’Arrone e si cerchi tutte le longare de Vaccharese e si vada cercando sino alla ponta dello stagno poi si passi la Carrareccia (il percorso interno di raccordo fra Palidoro e Campo Salino) che va dallo Arrone in Campo Salini e si vada a magniare alla Fontana che sta alla ponta della Selvotta. Poi de magniare si cerchi tutte le ponte della Selvotta fino alla Muratella, poi si torni arrieto e si cerchi tutte le coste de Pantano di Grano quelle che sono verso la Selvotta e si vada ha finire la caccia al passo delli Maligni»50. La testimonianza offerta indica che il toponimo Muratella cominciava in questo periodo ad affacciarsi, per precisare e poi sostituire nella documentazione successiva il più generico Selvotta; che il percorso lambiva la stessa selva senza consigliare di introdurvisi per i motivi già esposti e
che, in un margine di essa, si trovava un fontanile, presso il quale era raccomandata la sosta, la cui posizione non possiamo ricostruire con precisione, ma che siamo in grado di immaginare in base alla documentazione successiva riguardante proprio la costruzione di un condotto per la raccolta di acque sotterranee. Il territorio di Palo riservava tre caccie bellissime nei tre boschi di Sanguinara, circondato per tre lati dalla campagna e per un lato dal mare, dei Montaroni, tutto circondato dalla campagna larga e di S. Nicola, confinante per due lati con il largo, da una parte con il mare e di dietro tramite un fosso con il bosco di Statua. Si tratta di boschi grandi, per far uscire le fiere allo scoperto dai quali, era necessario attraversarli con reti. Questo sistema era applicato secondo il Boccamazza con più successo nel passato, perché essi erano
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quartigiati di strade e quindi la superficie del bosco si presentava più frammentata e controllabile: questo dato è interessante perché nella cartografia seicentesca e settecentesca il territorio di Palo si presenta ben scandito da un sistema di strade convergenti verso il castello sul mare e l’area densamente occupata dalla vegetazione boschiva ridotta ad alcuni punti all’interno di questa suddivisione, il che dunque farebbe pensare a una riduzione del manto boschivo intervenuta già tra la fine del XV e il XVII secolo. Questa caccia offriva una grande abbondanza di porci, ma anche cervi e caprioli e implicava la necessità di pernottare a Palo stessa, nel borgo inerente al castello Orsini o a Cerveteri. La caccia di Civitavecchia era concentrata verso l’interno presso il Mignone e sul litorale verso S. Marinella, dove le reti si sistemavano sulla spiaggia per incastrare la selvaggina tra questa e il mare, dal quale operavano i cacciatori con apposite barche. Questo particolare tecnico è ricordato anche dal Sanuto, nella narrazione di una delle spedizioni del papa Leone X tra il 1518 e il 1520. I territori di S. Marinella, S. Severa e Palo erano compresi nell’itinerario di ritorno dalle cacce che il papa era solito percorrere nella stagione autunnale51. Le trasformazioni dell’assetto ambientale nel XVI secolo non procedono in quello che ai nostri occhi moderni potrebbe essere concepito un modo unilaterale. Come infatti si è potuto verificare per i secoli centrali del Medioevo, anche in questo caso non si riscontra una tendenza uniforme verso la conservazione o viceversa verso la trasformazione: il microterritorio che costituisce il nostro osservatorio presenta situazioni apparentemente contrastanti ma che, in realtà, sono il risultato di esigenze produttive legate al processo che si è venuto sopra delineando, orientato verso la limitazione dello sfruttamento delle risorse al pascolo e alla coltu-
ra estensiva. Nel caso delle nostre tenute maremmane si aggiunge in modo preponderante l’utilizzazione del bosco per il taglio differenziato secondo le specie arboree e la funzione dei diversi tipi di legno. Queste impressioni scaturiscono ancora una volta dall’analisi della documentazione riguardante Malagrotta. Nel 1512, prima ancora dell’entrata in possesso del territorio da parte del S. Spirito, l’area veniva concessa in locazione a patto che vi si costruisse un’osteria e che venissero investiti trecento ducati per «desiccare dictas petias terrarum ab aquis quibus inundabant et facere ad hunc effectum fossas necessarias et replantare arbores ab inundationem aquarum desiccatur usque ad numerum mille ducentorum», permettendo il pascolo di sei cavalli per il trasporto del legname tagliato dal vicino bosco ad esclusivo uso dell’osteria. Nel 1515, nonostante l’insufficienza del denaro destinato all’operazione, questa era stata portata a termine e i monaci dei SS. Andrea e Gregorio, riuniti in capitolo, constatavano con soddisfazione che era stato finalmente ridotto a fertilità un luogo che prima era incolto, paludoso, occupato dalla vegetazione invasiva, insomma infruttuoso52. Ciò contribuisce a chiarire come si sia venuta formando una percezione nei confronti dell’area paludosa ben diversa rispetto a quella registrata nei secoli centrali del Medioevo: sappiamo ormai infatti che l’area era utilizzata dai monaci per le sue molteplici risorse e che il pantano Lorano, lungi dall’essere considerato infruttuoso, forniva diverse specie vegetali, legno, pesca, cacciagione e pascolo. A cosa si deve questa trasformazione della mentalità? Il delicato equilibrio fra elementi dell’ambiente e uomo è decisamente mutato in seguito allo spopolamento dell’Agro e alle trasformazioni economiche intervenute nella seconda metà del Trecento: questo ha senz’altro inciso molto nell’abbandono di un rapporto stretto tra am-
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biente incolto e uomo e di conseguenza nel far sì che l’area paludosa non rientrasse più nel processo produttivo concentrato sulla coltura estensiva e sull’allevamento stanziale, fosse quindi isolata dal restante territorio e così divenisse infruttuosa e in seguito potenzialmente anche malsana53. Grazie al dovizioso materiale cartografico abbiamo potuto ricostruire l’assetto in pianta dell’area in esame, si sono concretamente visualizzate la vicinanza fisica e la probabile estensione delle aree umide e incolte del territorio di Malagrotta. Il pantano venne prosciugato attraverso lo scavo di una serie di canali di scolo e al suo posto venne piantata una vigna arborata con mille e duecento alberi, le selve adiacenti divennero oggetto di un tutt’altro genere di attenzioni. Fino alla metà del secolo XVI lo ius lignandi era compreso nei contratti di locazione, senza ulteriori clausole se non quelle relative alla costituzione di riserve come si è visto a proposito del bosco e del pascolo. Nel 1559, pochi anni dopo l’acquisto del casale da parte dell’ospedale del S. Spirito, l’osteria con il suo territorio veniva confermata ai propri concessionari, ma a condizione che i cavalli tenuti a pastura, da utilizzare per il trasporto del legname, fossero ridotti da sei a tre e che il diritto di legnare, prima concesso senza limitazioni, fosse ora ridotto alle sole selve Torricella, Muratella e Selvotta. Dieci anni prima, a quando cioè risale l’acquisto di Malagrotta da parte dell’ospedale, le pertinenze del casale consistevano in «sylvas, nemora, prata, domos, capannas, aquas aquarumque decursibus, stagna, piscationes», comprese nei quarti di Prato Rotondo, di Pantan di Grano e nell’area boschiva chiamata la Muratella e la Selvotta; otto cavalli avevano il permesso di pascolare e trasportare legna che non poteva essere tagliata, se non per uso dell’osteria. Addirittura nel 1580, poiché i danni alla selva continuavano a essere considerati ingenti an-
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che con l’impiego dei soli tre cavalli «per carreggiare la legna», gli amministratori dell’ospedale giunsero alla determinazione di eliminare completamente lo ius lignandi dalle concessioni in affitto54. Fra gli elenchi di pertinenze redatti dai notai nell’atto di confezionare un documento di locazione, interessante è anche quello relativo a Palidoro risalente al 1539: «cum piscationibus, sciabica, aucupationibus, mortellis, nemoribus, pratis, pascuis, herbis et terris laborantibus, et aquis aquarumque decursibus». L’interesse è nel fatto che, oltre agli elementi più generici del territorio – compresi nell’elenco per dare l’idea di un ambiente il più ricco possibile – siano presenti alcuni particolari che per la loro peculiarità non possono che essere veritieri. Tali termini relativi all’attività effettuata lungo questo tratto di costa maremmana – pesca, caccia e raccolta del mirto che vegetava all’interno della macchia mediterranea e che godeva di un ampio impiego in artigianato, per esempio per la concia delle pelli – coincidono con quelli che delineavano lo stesso ambiente e il suo sfruttamento da parte dei bovattieri romani trecenteschi: in questo caso quindi i quasi duecento anni che separano i due documenti non sembrano aver determinato forti trasformazioni sia del territorio sia della sua percezione. Possiamo forse attribuire questa forma di continuità alla posizione costiera del territorio di Palidoro, che non consentiva diverse scelte di tipo produttivo. A proposito delle zone boscose di Palidoro, risaltano le stesse premure a tutela del taglio sregolato da parte dell’ente proprietario: una locazione del 1554 prevede una serie di clausole fra cui che «lo predicto conductor non possa tagliar legna né fare travi né travicelli né tavole né altri legnami se non legnami per uso della massaritia et non de arbori fructiferi». La legna nella tenuta di Palidoro era particolarmente soggetta all’eccessivo taglio per la presenza
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di antiche fornaci da calce, il cui sfruttamento implicava anche un certo pericolo ai danni dei pascoli del casale, dove infatti era vietato il trasporto dei materiali con i bufali nel periodo invernale, per consentire la crescita dell’erba55. È ora giunto il momento di concentrare l’attenzione in modo sistematico sull’estensione e sulla consistenza delle selve e della vegetazione incolta all’interno delle tenute del S. Spirito, Castel di Guido, Malagrotta, Palidoro, S. Severa e S. Marinella alle quali siamo in grado di aggiungere Palo e Torre Flavia che, pur non spettando all’ente ospedaliero, integrano i dati in nostro possesso per fornire un più completo quadro del litorale attraversato dalla via Aurelia. La «carta della vegetazione» del XVII secolo L’eloquenza delle nostre fonti nel precisare l’estensione e la consistenza delle aree boschive dipende senza dubbio dalla funzione economica agro-silvo-pastorale che i contemporanei attribuivano loro. E’ questo il motivo per cui i testimoni ai quali si deve il tramandare le notizie sul territorio ci sembrano spesso reticenti e di scarsa soddisfazione: i dati sull’incolto – sia esso bosco, macchia o area di acqua stagnante – si possono ricavare magari indirettamente attraverso considerazioni negative su una zona o sottili distinzioni di termini utilizzati per indicare un terreno e difficilmente saranno espliciti riguardo alle singole specie vegetali che componevano il sottobosco o la macchia. La documentazione principale sulla quale ci baseremo per ricostruire la nostra «carta della vegetazione» è costituita dalle già citate piante dei Registri di Castel di Guido, Palidoro, S. Severa, dalle mappe del Catasto Alessandrino da queste riprese (Maccarese, Castel di Guido, Palidoro, Palo, Torre Flavia, S. Severa e S. Marinella) e dalla documentazione conservata per
Palo presso l’Archivio Orsini e l’Archivio del Collegio Germanico e Ungarico di Roma (cfr. Figg. 35, 36, 37, 38). Cercheremo poi di sovrapporre la nostra carta inerente alla situazione antica a quella redatta dai botanici sull’assetto attuale e di formulare qualche osservazione conclusiva sulle trasformazioni emergenti. La mappa 433bis/35 della tenuta di Maccarese riproduce il confine occidentale del casale del S. Spirito di Castel di Guido, quasi interamente occupato dal Pantano detto Lingua d’Oca, corrispondente allo stagno di Maccarese ancora riprodotto nella cartografia novecentesca anteriore alla bonifica. Il limite fra l’area allagata e i larghi macchiosi protesi verso la spiaggia era costituito da un canale parallelo alla costa originato dall’Arrone e riutilizzato in età moderna come collettore delle acque stagnanti (Canale dell’acqua dolce nella pianta del 1789, cfr. Fig. 45). Il terreno compreso tra l’Arrone e il confine con Castel di Guido era più asciutto e solo punteggiato da un Pantanello caratterizzato da vegetazione palustre, assimilabile a una delle tante piscine di carattere perenne56. Il disegno della selva costiera si presta per proporre un confronto con quella che doveva essere la situazione risalente ai secoli centrali del Medioevo. Nel testamento di Alberto Normanni risulta che la selva potesse ospitare più di cinquecento porci: la cifra già a occhio risulta essere molto alta; essa diventa ancora più eloquente se si tenti di operare un confronto tra il numero dei capi e la superficie di terreno che ospitava la vegetazione ghiandifera, probabilmente di leccio. Se, come è stato stimato, ogni animale aveva bisogno di mezzo ettaro di selva per la propria alimentazione, dal calcolo risulterebbe una selva dell’estensione di circa milletrecento rubbia. Così misurata, essa verrebbe precisamente a coincidere con l’intera superficie della tenuta
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Fig. 40. La via Aurelia presso Palidoro. (ASR, S. Spirito, b. 57, c. 35, 1763). Registro di Notizie di istrumenti di Palidoro e Malagrotta, comprendente tra l’altro gli atti di una concordia tra il S. Spirito e la famiglia Borghese super concessione transitorum in tenuta Palidori. La pianta raffigura il tratto della strada consolare da Civitavecchia a Roma, estesa da Palidoro a Castel di Guido, con un ponte e con l’osteria di Palidoro. Il casale di Palidoro è rappresentato con tre comignoli e una torre circolare merlata. È visibile anche una casetta sullo sfondo, forse corrispondente all’edificio della villa. Tra l’osteria, il n.46 della pianta alessandrina, e il casale è tratteggiata la strada che si concede dalla Venerabile Casa di S. Spirito all’Eccellentissima Casa Borghese diretta verso l’interno cioè verso la tenuta di Castel Campanile, strada che passa il fosso che divide il quarticciolo dal pascolare due quarti della tenuta di Palidoro e che verso est farà da confine con il detto Castel Campanile. Alla pianta è annessa una perizia degli agrimensori.
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Fig. 41. Stato attuale dello stradone di Castel di Guido.
seicentesca di Maccarese: considerando un certo margine di approssimazione – la cifra probabilmente sovrastimata e l’estensione della selva anche al di fuori dei successivi confini della tenuta di Maccarese – si può comunque osservare che la presenza del pantano non precludesse il pascolo dei porci anche all’interno di esso e che l’attuale bosco igrofilo a leccio e alloro possa essere un resto dell’antica selva, particolarmente produttiva per l’alimentazione di questo bestiame57. La lecceta doveva dunque estendersi sino alla spiaggia, anche nell’area
oggi occupata da macchia e da praterie, risultate dalla riconquista della vegetazione spontanea in seguito all’abbandono di campi coltivati e al taglio delle specie arboree utilizzate per la raccolta del legname. Per questo il paesaggio appare oggi molto più diversificato, seppure presenti ampie aree di vegetazione spontanea e fortunatamente protetta, nelle quali solo in parte possiamo ipotizzare di riconoscere l’antica selva: alterni cicli di coltura e di abbandono, canali di bonifica, piantagioni di pini, vasche per la piscicoltura hanno dato l’incentivo
per la formazione di praterie, bosco, sottobosco e canneto che implicano la presenza di specie molto più variate rispetto alla nostra «carta delle vegetazione» seicentesca. La «parte di stagno non peschereccio» compresa nella tenuta di Castel di Guido è facilmente ricostruibile a partire dalla pianta dettagliata del Quarto di Pian dell’Arrone, disegnato in blu, con vegetazione palustre (cfr. Fig. 38). La porzione di «macchia di cerque, mortella et altro», che insiste nella pendice meridionale della grande selva della Muratella, è compresa in un’area definita sodo boschivo in parte macchiosa e in parte nuda, quasi sempre coperta dalle acque e per questo definita inutile dagli agenti dell’ospedale. L’indicazione generica di quercia è da collegarsi alla più diffusa fra queste, la roverella, mentre il mirto fa parte dell’insieme degli arbusti che compongono la macchia mediterranea: il quadro di un bosco composto da macchia alta sarà meglio delineato in seguito a proposito della Muratella58. Già nella metà del Seicento non figurava più un boschetto di pioppi (albucci) situato nell’angolo compreso tra l’Arrone e la strada da Maccarese a Roma e sostituito da un prato che ne conserva memoria nel toponimo (Prato dell’Albucceto): si trattava di una formazione che, legata al terreno umido circostante il corso del fiume, non offriva alcun vantaggio al punto da venire completamente eliminata da un taglio effettuato nei primi anni del secolo. A metà Seicento la grande selva della Muratella, nella quale abbiamo già riconosciuto la più antica selva della Cancellata, vedeva la sua superficie diminuire a causa di un recente dissodamento del quale si ha memoria nel Registro di Castel di Guido: ciò fa riflettere sulle continue modifiche, anche solo limitate ai propri margini, alle quali poteva essere soggetto un bosco compreso nell’ambito di una tenuta dell’Agro Romano. In questo caso l’operazione di cioccatura degli alberi per la-
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sciar posto al quarto lavorativo nel vocabolo Campo di Pantan di Grano da sottoporre a semina ha lasciato una chiara traccia di sé nel toponimo reperibile sulla carta IGM, i Cioccari. Presso il fosso si estendeva una lingua di selva proveniente dal vicino Castel Malnome, consistente in una macchia di «cerque et altro legname basso». Questa macchia, come quella della Muratella, ospitava con regolarità vacche, bufali e altri animali che rappresentavano una causa di limitazione di valore ai danni del campo lavorativo stretto fra i lembi di bosco. I limiti della Macchia della Muratella sono facilmente individuabili sull’odierna cartografia grazie alla sua parziale conservazione e alle curve di livello che ne determinavano il perimetro. Come si vede dalla ricostruzione in pianta (cfr. Fig. 50), solo una parte di essa compone l’attuale Macchia Grande di Galeria dove si conserva la macchia a mirto e ginestra che diventa arbustiva, sui versanti con il leccio e la fillirea e poi ancora bosco igrofilo di cerro, farnetto, farnia e pioppo nelle aree più basse e argillose. Queste specie sembrano corrispondere con una certa precisione a quelle descritte nel Registro della tenuta: macchia di mortella (corrispondente al frutto del mirto, che ha dato il nome all’intera macchia), cerque, elce (leccio), cerase marine (corbezzolo), ginepre, scope, che compongono il quadro di un bosco misto di cespuglieto basso e discontinuo e macchia alta più uniforme, ormai già molto lontano da quella che poteva essere l’antichissima macchia-foresta a leccio, scomparsa in seguito alla lenta erosione determinata a partire dalla primitiva attività di allevamento e raccolta. L’attuale prevalenza delle specie caducifoglie, come il cerro, l’olmo e il farnetto, rispetto alla roverella e al leccio, citati nel Seicento, può costituire un’ulteriore tappa della trasformazione di un ambiente sottoposto a pressanti necessità di adattamento. L’olmo, un tipo di
quercia legato alle zone umide, è presente nel toponimo che individua il prato salmastrino utilizzato per il pascolo e lo sfalcio di erba, posto al confine nordoccidentale della Macchia. Nello stesso prato si insinua una porzione di Sodo boschivo, caratterizzato graficamente da una presenza di alberi più fitta del precedente, nella località Tumoleto di Monte di Pulce, caratterizzato da una macchia composta dalle stesse specie e corrispondente all’attuale Macchia del Quartaccio ben visibile nelle fotografie aeree. Per il territorio di Castel di Guido, scelto come modello, disponiamo anche di una restituzione in pianta dell’assetto agricolo ottocentesco, realizzata da Adriano Ruggeri in base ai dati sull’uso del suolo del Catasto Gregoriano. Rispetto all’età precedente, la macchia risulta ridotta a vantaggio del terreno seminativo, mentre le sue componenti vegetali si conservano, annoverate nella categoria del bosco ceduo forte. All’interno della macchia, la cui superficie abbiamo potuto seguire nel corso dei secoli, si è venuta precisando un’area prettamente riservata al pascolo, in coincidenza con la parte più umida del bosco (cfr. Fig. 51). Le indicazioni fornite dagli amministratori circa il quarto di Malagrotta contribuiscono a delucidare il tipo di gestione e l’interesse che l’ente riponeva nelle tenute maremmane. In questo periodo si riscontra infatti un generalizzato interesse verso la messa a coltura, soprattutto a grano, di molte aree, fra cui quelle già utilizzate a prato. E’ questo il caso di un terreno «lavorativo in vocabolo il Campo di Casa, altre volte prato, del sodo macchioso in vocabolo lo Spineto della Torricella, macchia di spini e roghi. Tagliarla e farla lavorare», del terreno, infine, disegnato con due tipi di vegetazione diversa corrispondente all’antica area paludosa della quale si è trattato sopra, definita «Sodo macchioso e pantanoso. Macchia bassa di spini, perazzi, olmi e simili in vocabolo la
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Macchia del praticello di Val Bambace e scarseto paludoso in vocabolo Pantano del Casale Abbrugiato. Con un fosso si scolarebbe, altre volte vi era». Queste espressioni, insieme al tipo di copertura vegetale – una macchia bassa dovuta a una recente riconquista da parte della vegetazione spontanea tipica di una zona in parte allagata – e alla chiara allusione ai lavori di prosciugamento realizzati un centinaio di anni prima, ci informano sull’evoluzione ciclica dell’aspetto di queste terre, sottoposte a continue trasformazioni: dall’abbandono alle acque, al prosciugamento, alla coltura, al pascolo. Tali trasformazioni si riflettono nel tipo di vegetazione spontanea che, se composta da specie fra loro analoghe, assume un aspetto cespuglioso più che arbustivo e quindi meno fruibile per un’utilizzazione silvopastorale. Il terreno adiacente all’Arrone, dove è compreso l’abitato di Castel di Guido dal quale prende il nome questo quarto agricolo, comprende due aree boschive di diversa composizione. Oltre l’Arrone e oltre la fascia prativa che lo costeggia, si estende un «Sodo macchioso in vocabolo le Macchie di Mandrione, macchie di cerque, antani e simili», una macchia che andava estendendosi a danno dei prati: questa constatazione comportava la proposta di «dare per due o tre anni a farlo seminare e restringere la macchia per fino dove non si puole andare con l’aratro, che si farebbero più utili, prima si cavarebbe del grano e dopo il bestiame lo potrebbe godere assai meglio e farebbe più herba». Invece il bosco stretto e allungato esteso sull’attuale Monte Stallonara, più allontanato dal fiume, è composto da cerque, farnie et altro legname da fuoco. Sul lato basso del quarto si estende l’altra porzione dell’attuale Macchia del Quartaccio, definita «Sodo macchioso in vocabolo il Tumoleto del Monte di Pulce overo dell’Olmo del Poltrone, macchia bassa di mortella, cerase marine».
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Fig. 42. Osteria di Malagrotta, interno dell’attuale cantina.
La tenuta di Palidoro presenta tutto un lato affacciato sulla costa, ma si incunea verso l’interno, oltre la via Aurelia, mediante il quarto della Polletrara quasi interamente utilizzato come pascolo per cavalli: una staccionata separa il pascolo da una delle due aree boschive composta da «una gran quantità di olmi, cerque et altro legname buono per sega e fuoco». Tutta questa zona è definita attualmente dal toponimo La Macchia e come macchia, cioè piccolo bosco ceduo, era definita nel XVII secolo, con l’indicazione delle specie principali: olmi, oppi, cerque, elcine la cui legna risulta impiegata per l’uso nel casale, per costruire staccionate e come combustibile per la produzione di calce in quattro calcare situate ai piedi della macchia, visibili nella mappa complessiva della tenuta (cfr. Fig. 36). Nello spirito di quanto si dice-
va sopra a proposito dell’orientamento verso la messa a coltura, va osservato come tutti i prati da sfalcio e i pascoli del centrale quarto di Camposanto abbiano subito una recente trasformazione, risultando terreni lavorativi, colti e seminati all’epoca della redazione del Registro di Palidoro. La macchia triangolare compresa tra due fossi risulta composta da olmi, dei quali si indica la precisa utilizzazione come pascolo per le bufale e taglio, il cui diritto è riservato alla Camera Apostolica, per la costruzione delle galere59. Questa specifica finalità implica un’organizzazione della quale non si fa cenno nel Registro, ma che doveva prevedere il trasporto dei tronchi su carri, lungo la via Aurelia, destinati nei cantieri situati a Civitavecchia per la definitiva lavorazione. La vegetazione verso la spiaggia, oggi completamente scompar-
sa, era condizionata dal basso livello del terreno che determinava il formarsi di conche con ristagno di acque: alcune di esse erano piscine utilizzate per abbeverare le bufale al pascolo, in altri casi si trattava di allagamenti invernali che impedivano qualsiasi impiego. La macchia di Statua, situata sul confine con il territorio di Palo, era composta da olmi, frassini e cerque, mentre la macchia delle Grotte di S. Michele era in quegli anni parzialmente riconvertita a lavorativo. Tre ulteriori porzioni di macchia risaltano nella prateria sabbiosa estesa verso il mare e destinata per il pascolo delle bufale lattare: esse portano il significativo nome di Asco, attribuito a limitate zone ombreggiate60. Queste piccole macchie contengono «cerque, olmi et altro legname che serve per il Procoio delle Bufale», la riserva è racchiusa da una vistosa staccionata, af-
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Fig. 43. Il bosco di Castel di Guido.
facciata sul mare e compresa nel quarto Villa. Anche in questo caso le cerque arrivavano sino alla spiaggia, vegetando anche nel «Prato della Foce» del fosso Palidoro (cfr. Fig. 52), nella stessa riserva delle bufale e occupando, insieme alle farnie, la Macchia del Monte di S. Carlo; quest’ultima era utilizzata per il taglio del legname «per far legni da mare», secondo un diritto riservato alla Camera Apostolica, non senza sospetto da parte degli amministratori dell’ospedale che vedevano in questo diritto, un pericoloso tentativo di espansione ai danni dei boschi della propria tenuta. Il problema dei confini di questo lato del casale emerge anche dalla descrizione dei quarti boschivi riportata nel Registro, insieme a quello dell’impaludamento della foce del Fosso dei Tre Denari: la questione merita una soluzione efficace, se-
condo l’agente dell’ospedale, poiché – come viene specificato – «il solito è che infra le macchie sempre si tirano confini dritti e non altrimente come in questo». Dunque, come si è visto nel caso di altre porzioni delle tenute del S. Spirito, la determinazione dei confini in quest’epoca non veniva condizionata dalla densità di un bosco e se quest’ultimo apparteneva a due diversi proprietari, la delimitazione al suo interno era tracciata segnando le piante o fissando cippi con andamento rettilineo, indipendentemente da altri fattori geomorfologici. Il territorio di Palo, riprodotto nella mappa 428/22 del Catasto Alessandrino, ha subito vicende patrimoniali diverse da quelle delle altre tenute costiere confinanti, essendo sottoposto prima agli Orsini e poi al Collegio Germanico e Ungarico di Roma e agli Odescalchi. La
precisa individuazione delle sue aree incolte è però ugualmente importante perché queste costituiscono un elemento di continuità geografica rispetto alle tenute del S. Spirito, seppure soggette a una diversa gestione sulla quale molto meno si è potuto indagare: il bosco di Palo inoltre costituisce attualmente un’area protetta oggetto di importanti studi dal punto di vista ecologico e ambientale, oltre ad essere stato attraversato da una sistema viario connesso alla via Aurelia del quale è stato possibile ricostruire le più importanti trasformazioni61. La cartografia storica di Palo fornisce dati sulle tappe della estensione e della riduzione delle aree boschive, ma non purtroppo sulla consistenza delle specie, per la quale ci dobbiamo limitare alle conoscenze botaniche attuali. Una carta risalente al XVII secolo presenta quattro
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Fig. 44. Castel di Guido-Maccarese (ASR, S. Spirito, b. 54, foglietto aggiunto alla c.15v, sec. XVII). Schizzo relativo a una breve nota aggiunta un testo relativo alla confinazione fra Castel di Guido e Maccarese datata 1691 ott.1°: Accordato al Sig. Camillo Rospigliosi il permesso d’addrizzare la corsa. Il tracciato in questione corrisponde a un breve tratto della strada da Roma a Maccarese, che figura in altre piante (Catasto Alessandrino e pianta del 1793 cfr. Fig. 31) e che conferma la continuità di uso anche se locale della via Aurelia Vetus. La necessità di effettuare questo piccolo intervento di deviazione risulta dallo stato rovinato a causa del terreno (smossa da cavalli): il nuovo percorso implica il passaggio di un fosso tramite un ponticello. Quest’ultimo non è attualmente individuabile a causa della molteplicità di fossi e fossetti che attraversavano la tenuta (cfr. elenchi compresi nei contratti d’affitto). Ci troviamo certamente a breve distanza dal confine tra Maccarese e Castel di Guido, quindi nei pressi dell’Arrone.
zone definite Asco ben delimitate da un perimetro, il cui andamento è ricostruibile sulla tavoletta IGM grazie alla coincidenza di alcuni confini e all’andamento delle curve di livello. L’Asco di Palo aveva un andamento grosso modo triangolare con la base sulla spiaggia e il vertice poco oltre l’attuale linea della ferrovia. Due zone alberate più piccole, l’Asco dei Pantieri e l’Asco del Fontanile erano comprese tra il confine con Cerveteri e la strada trasversale che collegava questo centro a Palo. Nella parte meridionale della tenuta si estendeva l’Asco di S. Nicola, circondato da terre sode, prative e lavorative senza arrivare fino alla spiaggia. La raffigurazione di alberi di una certa imponenza e la distinzione fra essi di due diversi tipi di chiome consente forse di individuarvi una tappa dell’evoluzione verso il bosco misto di leccio, roverella, olmo, con prevalenza di cerro, pianta caducifoglia introdotta dall’uomo per la rapidità dell’accrescimento e la buona qualità del legname. Gli stradoni
a tridente che scandiscono la tenuta in tutte le sue raffigurazioni sono costeggiati da arbori, come si vede nella pianta di Francesco Contini del 1660: in essi possiamo identificare gli antenati degli attuali pini, in alcuni punti unica spia che consenta di individuare gli stessi antichi percorsi che collegavano Palo a Cerveteri, Ceri e Monteroni (cfr. Figg. 33, 47, 48). La pianta del 1687 non aggiunge molto alla nostra carta della vegetazione, poiché riproduce schematicamente due gruppi di alberi in coincidenza con le due formazioni principali di Palo e di S. Nicola. Tra la fine del XVII e la metà del secolo successivo una notevole produzione di carte della tenuta venne giustificata dall’aprirsi di una lunga causa per questioni territoriali, sulla quale non ci soffermiamo, tra il Collegio Germanico Ungarico e gli Odescalchi: la pianta del 1732 riproduce la superficie dei due Aschi nel periodo della loro massima estensione. Quello di Palo oltrepassava abbondante-
mente la strada Palo-Cerveteri (non è chiaro se è la vecchia rettilinea o la nuova inerente all’Osteria Nuova, della quale riproduce un gomito simile) ed è tagliato da un’altra strada più vicina alla costa, più tardi definita Strada di Torre Flavia e in seguito utilizzata come deviazione costiera della via Aurelia. Il Quarto di Mezzo risulta in parte prativo e in parte coltivato, mentre attualmente è completamente riconquistato dalla vegetazione arborea e arbustiva. Il bosco di S. Nicola appare leggermente ampliato verso sud e verso la fortezza. Le piante ottocentesche inerenti alla deviazione della strada verso la costa presentano la Macchia di S. Biagio limitata dalla strada dell’Osteria Nuova verso l’interno e da un prato-pascolo denominato longarina verso la spiaggia e la Macchia di S. Nicola ristretta a due porzioni ai lati del nuovo percorso della via Aurelia costiera (cfr. Figg. 47-48). Le due carte non caratterizzano l’area che il principe Odescalchi destinò a
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Fig. 45. Maccarese e Campo Salino. (ASR, Disegni e Piante, I, 93/767, 1789). Pianta dimostrativa della Pianura inondata in Campo Salino e nelle tenute adiacenti dello stagno di Maccarese, delli Piani della Muratella, sino al fiume Arrone e di quelli della Vignola, Ponte Galera e Quartaccio sino al fiume Tevere ed al fosso Galera, fatta per ordine di sua Eccellenza (…) Fabrizio Ruffo tesoriere generale di Pio VI, febbraio marzo 1789, relativamente al progetto di colmare quelli terreni allagati. Si tratta di uno degli innumerevoli progetti che hanno arricchito la documentazione di quest’area, redatti dalla fine del secolo XVIII fino alla definitiva realizzazione dell’opera all’inizio del nostro secolo (cfr. anche la pianta annessa al progetto di G. AMENDUNI, Sulle opere di bonificazione della plaga litoranea dell’Agro Romano, Roma 1884). Oltre a mostrare un quadro di insieme del tipo di paesaggio umido a fasce dalla maremma interna alla costa, la pianta riporta la Strada da Roma a Maccarese (=via Aurelia Vetus individuabile nella cartografia alessandrina) che incrocia quella che ormai è solo Vestigia di strada antica tendente a Campo Salino con un ponte diruto sull’Arrone, in procinto di essere definitivamente abbandonata, come mostra la sua assenza nella cartografia storica successiva. Questo percorso non risulta antichissimo come il precedente, esso era funzionale all’attraversamento delle tenute, come mostra la pianta seicentesca di Castel di Guido (cfr. Fig. 38). Al suo tracciato corrisponde nella pianta il percorso proposto della linea di livellazione. Presso l’incrocio delle due strade è disegnata la Casetta del precoio di S. Spirito, corrispondente sulla tavoletta IGM alla Casetta delle Pulci e non attestato nella cartografia alessandrina relativa alla tenuta di Castel di Guido.
parco botanico, area che doveva estendersi adiacente verso l’interno ai Prati del Forno, compresa tra le due strade di Cerveteri e di Ceri. Così delimitato, il Bosco di Palo figura anche in una carta del 1911, la porzione all’interno, rispetto alla ferrovia, essendo destinata al taglio del legname per uso dell’Osteria Nuova. Le grandi trasformazioni del paesaggio che caratterizzarono questo periodo, implicarono la suddivisione del territorio in Riserve nelle quali risulta ripartita anche l’antica area del bosco di S. Nicola: all’interno di questa ripartizione agricola l’unico terreno che conserva la sua superficie, oltre alla vecchia denominazione, è proprio il Bosco di Palo.
Separate da una lingua di territorio appartenente al comune di Cerveteri, le due tenute di Palo e Torre Flavia (mappa del Catasto Alessandrino Campo di Mare, 428/4) sono state accomunate dalle stesse vicissitudini fondiarie: la seconda però, pur legata dal punto di vista strategico alla prima con la sua torre cinquecentesca, vanta di una messe documentaria molto inferiore. La documentazione cartografica su cui ci possiamo basare per completare la nostra «carta della vegetazione» consiste infatti nella mappa alessandrina, nel Catasto Gregoriano e in due piante di boschi ottocentesche: documentazione che possiamo confrontare con la attuale lettura na-
turalistica e con la tavoletta IGM63. La stessa carta alessandrina è purtroppo fra le più laconiche dal punto di vista grafico e non presenta quelle distinzioni di vegetazione che risaltano in altri casi: non vi risaltano infatti le praterie salmastre a salicornia che, seppure rare per il litorale tirrenico, dovevano costituire la peculiarità del paesaggio della tenuta costiera; non vi sono raffigurati neppure i caratteristici giunchi e le stesse due zone occupate dallo stagno si estendevano proporzionalmente assai meno dei trenta ettari documentati fino agli anni Settanta. Anche le fonti storiche conosciute si occupano della torre quale opera di fortificazione costiera o sede di guarni-
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gioni pontificie, mentre non fanno mai menzione degli stagni, oppure della qualità e natura del terreno che si estende tra il fosso Zambra a nord e il fosso Vaccina a sud, i due canali che delimitano il territorio della torre e della tenuta seicentesca. I quarti lavorativi della tenuta di S. Severa sono nella metà del Seicento caratterizzati dalla promiscua presenza di poche cerque, definite buone o cattive perché secche: nel caso del quarto Porcareccia, attraversato da uno dei tratti più costieri della via Aurelia, la motivazione è forse da ricercarsi nel tipo di terreno in parte sabbioso e buono per il pascolo di scrofe e porci, ma scarso di acqua. L’alternanza delle colture a grano, a prato da sfalcio e del pascolo si registra attraverso la descrizione che accompagna le piante: se infatti il vistoso prato della Vigna rende l’idea di stabilità della sua funzione, diversamente accade per altri quarti definiti lavorativi seguiti da indicazioni come «oggi prato buono nudo per il pascolo». Queste espressioni che indicano alternanza di uso del suolo si distinguono da quelle, poco fa descritte, relative alla compresenza di coltivazioni e alberi di quercia, indice di una più o meno recente trasformazione. Le due zone allagate costiere, comprese nei due quarti Porcareccia e Torricella, sono definite «lasco o sia padulo e lasco o sia stagno o sia paglieta» e la loro superficie è facilmente ricostruibile perché compresa fra elementi ben definiti sulla attuale cartografia: i Grottini (Grotte sulla pianta dell’intera tenuta) e il fosso Eri (coincidente con il fosso di Carrari sulla pianta del quarto Porcareccia) e il fosso del Fontanile che circonda l’intera palude di Macchia Tonda. In ambedue i casi si tratta di una palude di acqua dolce piovana, ma la prima – il padulo – rispetto alla seconda – lo stagno – ha un carattere più effimero poiché il suo prosciugamento sarebbe consentito dal solo scavo di un fosso orientato verso ovest: per trasforma-
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re la seconda in terreno asciutto coltivabile è invece prescritto l’abbassamento della duna di sei palmi per permettere lo scolo delle acque stagnanti. Tali aree appaiono attualmente molto ridotte, sia a causa dei lavori di canalizzazione che già dall’epoca considerata devono aver sortito alcuni effetti – per esempio riconoscibili nei fossi di scolo con fontanile sulla tavoletta IGM e nella piccola area caratterizzata dal tratteggio per le zone paludose nel caso di quella più settentrionale – sia a causa dell’erosione della costa. Gli attuali bacini d’acqua ricostruiti si trovano poco più a sud rispetto alla posizione dello stagno seicentesco, così come l’area attualmente occupata dall’importante boschetto retrodunale dominato dall’olmo e dall’alloro si trova in quello che nella pianta seicentesca era il quarto lavorativo in vocabolo Campo della Torricella della Foce, definito «buono con macchiozze di mortella. Il fosso che lo circonda sono acque morte. Non si gode né erba d’inverno né grano», a proposito del quale si raccomanda di riscavare i fossi che prima facevano sfociare l’acqua in mare. Anche l’adiacente terreno lavorativo di Campo del Fontanile di Macchia Tonna risulta sodo e tutto acquastrino a causa dei fossi ostruiti. Se la pianta seicentesca non riporta alcuna sorta di disegno relativo alla vegetazione estesa tra la Torretta o Torricella e il mare e la descrizione a essa collegata si limita a registrarvi una zona di macchia bassa (macchiozze di mortella), abbiamo una testimonianza per la stessa area di «Sodi, Macchia e Pascolari in Campo di Mare» da una carta del 1741, realizzata in occasione di una concessione in affitto con specifico interesse nei confronti della rete idrologica: il bosco retrodunale vi è raffigurato interamente circondato da fossi, due dei quali presentano anche un ponte di pietra sul quale doveva passare un percorso che, staccatosi dall’Aurelia, raggiungeva la spiaggia dopo aver attraversato lo
stesso bosco. Come interpretare la discordanza sulle componenti vegetali di quest’area? Due sono le possibili risposte al problema: infatti può trattarsi di un effettivo segno di trasformazione da macchia bassa a bosco di alto fusto, oppure al contrario di una scarsa attenzione dedicata alla consistenza vegetale dell’area dovuta alla mancanza di funzione economica di essa nell’ambito dello sfruttamento dell’intera tenuta da parte dell’ente ospedaliero. L’area circostante il casale di S. Severa è costituito da una vigna con canneti, la cui memoria si conserva sulla tavoletta IGM e da un prato esteso fino al mare, ma non godibile per le ultime tre canne a causa della salinità del terreno e dell’aria. Il lavorativo compreso fra l’Aurelia e il fosso del Fontanile e quindi confinante con l’area paludosa, è un terreno sodo con pochi peri buoni ed è adibito a pascolo d’inverno per le cavalle, un uso confermato dalla pianta del 1741 che riproduce una struttura edilizia definita Rimessone e Casetta delle Cavalle. Il quarto di Selva Piana, esteso dalla via Aurelia verso l’interno, conserva nel suo toponimo il ricordo di un carattere incolto ciclicamente perso e poi riconquistato. La descrizione infatti presenta ormai una serie di terreni lavorativi, alcuni dei quali sono sottoposti al turno di semina a grano, ma che presentano con regolarità l’elemento arboreo consistente in poche cerque, le migliori delle quali «servono tagliandosi per legna e si vendono ai Genovesi e per la Casa». Il terreno denominato Campo della Castellaccia consiste in una macchia di cerquozze e mortella chiamata la Macchia delle Cannuccieta, mentre i due terreni compresi fra le uniche tre strade della tenuta, sono attualmente nella fase di riconquista da parte della vegetazione spontanea consistente in spini e ginestre poiché «sono molti anni che non si semina e perciò si rammacchia, è necessario seminarlo e cioccarlo». Il Quarto della Castellaccia com-
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Fig. 46. Via Aurelia: Ponte dei Tre Denari. (ASR, S. Spirito, b. 1093, carte sciolte sulla questione del confine Palidoro-Maccarese, 1729). Disegno a penna dell’ultimo tratto del fosso dei Tre Denari verso la foce, con il Ponte dei Tre Denari sulla strada di Civitavecchia, il ponte sul fosso di S. Angelo (confine fra Palidoro e Torrimpietra = fosso di Palidoro), identificabile con il ponte n.45 della pianta dell’Aurelia del Catasto Alessandrino e i seguenti edifici relativi a Palidoro: il casale caratterizzato da due campanili emergenti, l’osteria e la villa verso la costa, presso un altro ponte sul fosso di S. Angelo chiamato S. Carlo. La villa, che ha dato il nome a una quarto agricolo del casale (cfr. Fig. 36) è un edificio rettangolare che non ha lasciato tracce sull’odierna tavoletta IGM. Tra il casale e l’osteria di Palidoro parte una strada diretta verso il litorale (la successiva strada di mare, cfr. Fig. 39) individuabile sulla tavoletta IGM in uno stradello parallelo a un fosso, che attraversa la Valle Romana di S. Spirito, superando il fosso di S. Angelo con il ponte S. Carlo. Questo agiotoponimo si trova sulla tavoletta IGM attribuito a un casale situato proprio presso il fosso e presso il ponte e a un precoio, ubicato sul tumoleto. La strada attraversa poi il fosso delle Paiara di S. Spirito, forse una corruzione del successivo Pagliete, il toponimo del fosso e della zona di Maccarese poi bonificata (=pagliaio?) ed entra nel recinto tipo staccionata che si ritroverà in altre piante successive (cfr. Fig. 34: Riserva del Rimessone), denominata Riserva delle Bufale e comprendente due capanne delli Bufolari, con la tipica forma della capanna che boscaioli e carbonari costruivano all’interno delle selve costiere o sulle dune dei tumoleti. Al di fuori del recinto, ma compreso entro l’ansa dell’ultimo tratto del fosso dei Tre Denari è il Pantanello di … …, caratterizzato graficamente da un’area boschiva più densa. Quest’area selvosa corrisponde sulla tavoletta IGM al Passo Scuro, all’interno della quale è ancora la memoria di Capanne: si tratta della fascia selvosa a ridosso della duna costiera, che caratterizza questo tratto del litorale laziale. Il disegno venne preparato per corredare le testimonianze relative a una causa, che contiene anche perizie agrimensorie e testimonianze dei pastori effettuate fra il 1730 e il 1743, relativa al cambiamento di direzione dell’ultimo tratto del fosso e allo spostamento della sua foce, interventi che comportarono un detrimento di terreno a svantaggio della tenuta di Maccarese. Infatti, facendo riferimento alla pianta del Catasto Alessandrino del 1660, il fosso costituiva il confine fra le due tenute, quando però la sua foce era più a nord. La questione giuridica, protrattasi fino alla fine del secolo (cfr. causa a stampa del 1793) tenne conto di una serie di problemi di natura ambientale dei quali i contemporanei avevano piena consapevolezza: le perizie infatti accertavano che la nuova apertura fosse più rettilinea della vecchia e assicurasse, grazie alla sua inclinazione, il migliore scorrere delle acque verso il mare.
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prende alcuni rilievi che, seppure compresi fra i cento e i duecento metri, ne distinguono l’assetto morfologico rispetto alla precedente Selva Piana. La circoscritta Macchia in vocabolo la Castellaccia si estendeva in un’area delimitata ancora nella tavoletta IGM da un confine regolare e priva di vegetazione: la presenza di specie arbustive, definite cerquozze e perazzi, ne determinava la vocazione per il pascolo delle pecore e l’auspicio verso una efficace semina. Il lavorativo confinante, seminato a grano, presentava contemporaneamente «buone cerque e quantità di pedagnole in occasione di far legna». Anche la macchia che costituiva un’appendice della grande Macchia di Pian Soldano, estesa al di là della strada tra S. Severa e Manziana, all’epoca della redazione del Registro figura coltivata a grano, a dispetto della sua raffigurazione nella pianta seicentesca. La zona boscosa di questo quarto, compresa fra il fosso di Carcari e la strada per Manziana (attualmente Riserva di Pian Sultano con chiaro nesso linguistico) figura costituita da «cerque da ghianne, serve da pascolo di bovi e per le ghianne per li porci di Casa. Questa macchia è godibile per ghianne et per herba di ottima qualità. Sarebbe ottimo a seminarsi come altre volte è stato seminato». Il sottolineare la importante funzione per l’allevamento del bestiame non impediva la possibilità di un uso promiscuo del terreno che, dotato di piante di alto fusto, si prestava contemporaneamente – e lo aveva già fatto in passato – alla semina di grano, in base a una necessità riscontrata in tutte le pagine dei Registri seicenteschi del S. Spirito. La parte più bassa del quarto e caratterizzata, come si vede dalla pianta, dalla presenza di colline calcaree, «coperto in parte da pietre di peperino bianco, presenta poche cerque e streppaglie rinate da pochi anni per non essersi lavorato che sono molti anni».
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Il quarto Pozzo di Ferro, toponimo dovuto alla presenza di molti precipizi, è interamente costituito dal grande bosco che rappresenta la continuazione della Macchia di Pian Soldano – facilmente identificabile nell’attuale area boschiva Riserva di Pozzo di Ferro, Monte Grande, Monte Fagiolano e Poggio dell’Uliveto – è costituito da «cerque, cerri, fargna et altro legname da foco e da edificio». La presenza di specie di alto fusto unita alla manutenzione del sottobosco consentono il pascolo di bestie grosse, soprattutto sul Monte Fasciolano, dove la macchia non è molto fitta. La parte più settentrionale del bosco, per una superficie di 90 rubbia e corrispondente alla zona di curve di livello più fitte e più esposta al freddo, per questi motivi non adatta al pascolo del bestiame, si caratterizzava per la presenza di «elci d’esterminata grossezza, del qual legname si potrebbe cavare delle migliara di scudi per fare edifizii, sì di carrozze, carri et altro per il trasporto» dei quali già esiste un tratto percorribile dai carri che «con poca spesa si accomoderebbe il restante». La Valle di Carcari si presterebbe invece bene per essere sottoposta a coltura, «per non essere molto folta di macchia», utilizzando il ciclo triennale e alternando l’erba per le pecore, al grano. Nella parte bassa del bosco, circondata da un sentiero e da un confine sull’attuale tavoletta IGM, si distingue l’area dove doveva trovarsi la capanna immersa in una macchia composta da «elcine, cerque, perazzi, spini et altro» e delimitata da una staccionata e da una fratta: anche questa porzione di macchia – meno fruibile della precedente per le sue componenti vegetali – sarà destinata a riduzione a coltura. Secondo la percezione del ministro che redige la descrizione, infine, fra le due casette disegnate sulla pianta e utilizzate come rimessa per le capre, si deve individuare una «chiesa diruta indizio di castello» immersa nel folto della macchia. L’estrema porzione di macchia
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compresa nella tenuta di S. Severa è costituita dal Monte Rosso, toponimo attribuito in base alla natura del terreno e consistente in «cerque, perazzi, elcine et altro legname da foco», fra le quali alcune querce dal tronco più ampio sono segnate con la croce e utilizzate come segno di confine. La superficie di questa macchia boscosa, all’interno della tenuta di S. Severa, risulta notevolmente aderente a quella riprodotta sulla tavoletta IGM, un segno di importante conservazione che risalta nella tendenziale scomparsa dei boschi negli ultimi anni: si tratta naturalmente di un bosco «manufatto», cioè di un bosco utilizzato dall’uomo e quindi gestito e conservato per la migliore attivazione delle sue risorse interne. Il territorio pianeggiante esteso ai lati della via Aurelia e delimitato dal mare, anch’esso ben caratterizzato nella percezione degli agenti ospedalieri del Seicento, è invece assai più soggetto alle continue modifiche comportate dalla semina a grano alternata all’abbandono e quindi alla riconquista da parte della vegetazione bassa di rovo: la presenza che appare regolarmente in questi terreni e che funge da tramite con un lontano passato è quella dell’albero isolato di quercia, che inoltre – utilizzato o meno secondo il suo stato di salute – contribuisce a comporre il quadro di coltura promiscua tipico dell’ambiente coltivato mediterraneo. L’assenza di un Registro della tenuta di S. Marinella fra le buste dell’archivio dell’ospedale del S. Spirito è giustificata dal fatto che essa non rientrasse ancora fra i possessi costieri dell’ente nella metà del Seicento: la pianta del 1634 che si conserva insieme all’estratto del Catasto Gregoriano costituisce un munimen, un documento precedente all’acquisto e in quell’occasione acquisito dal nuovo proprietario insieme al bene materiale. Da questo originale è stata realizzata la copia, molto fedele, consegnata ai Maestri di
Strada nel 1660 dall’allora proprietario principe Barberini. Se ne distingue infatti solo la caratterizzazione grafica scelta per distinguere i due principali tipi di suolo esistenti, la «macchia di legname grosso» e il tumoleto (cfr. Fig. 35). Lo stato attuale del paesaggio riprodotto sulla tavoletta IGM consente di verificare la fedeltà del disegno sia delle curve di livello, sia delle due principali componenti vegetali, sia infine della rete idrografica di confine, poiché si tratta di elementi sostanzialmente conservati seppure poco studiati dal punto di vista ecologico. Il Tumoleto, la fascia più esterna affacciata sul mare con le caratteristiche della duna e della macchia bassa che vi vegeta, è in questo caso molto sviluppato verso l’interno senza variazioni al suo interno, i fossi che lo attraversano essendo riprodotti solo sulla cartografia catastale ottocentesca. La trasformazione più evidente da segnalare rispetto alla tavoletta IGM, dove non figura ancora l’urbanizzazione del centro balneare, consiste nell’erosione della costa, costa che nel XVII secolo presentava sporgenze più pronunciate. All’interno di questo tipo di ambiente sono state ricavate le due modeste aree di terreno lavorativo estese ai due lati della via Aurelia in coincidenza con l’edificio del casale. Per uno studio della gestione dell’area boschiva da parte dell’ente ospedaliero bisogna aspettare però la metà secolo successivo quando avvenne la definitiva acquisizione da parte del S. Spirito. I contratti e le bonifiche dei secoli XVIII e XIX L’uso e la gestione dell’incolto da parte del S. Spirito è documentato in modo sempre più dettagliato dalle descrizioni e dalle clausole contenute nei contratti d’affitto, attraverso i quali giunge la percezione degli elementi dell’ambiente considerati alla stregua dei manufatti: se ne redigono inventari particolareggia-
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Fig. 47. Tipo dei nuovi tratti di strada postale nella tenuta di Palo per Civitavecchia. (ASR, Disegni e Piante, I, 51/13, sec. XIX). La pianta raffigura, analogamente alla cartografia seicentesca del sito, il territorio tra Palo e Monteroni, scandito dalle tre strade rettilinee che collegano la fortezza con la via Aurelia, le due laterali corrispondenti al percorso costiero della stessa strada consolare, preferito nell’età di maggior fortuna della fortezza, tra XVI e XVII secolo, la centrale costituisce il raccordo diretto tra la costa e l’insediamento di Monteroni, dotato di un’osteria sin dal Seicento (n.50 della pianta alessandrina) e poi di un poderoso edificio di posta, documentato nel particolare della Fig. 39 e nel Catasto Gregoriano.
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Fig. 48. Strada programmata per deviare da Monteroni e passare per Palo. (ASR, Disegni e Piante, I, 51/10, sec. XIX). All’altezza di Palo la via Aurelia si divide e segue due percorsi, l’uno più interno raffigurato nel particolare della Fig. 11 risalente alla prima metà del secolo, scandito dalla presenza dell’osteria di Monteroni, n.50 della pianta alessandrina della via Aurelia, nel XIX secolo arricchita da una posta e un oratorio della Madonna della Consolazione, come documenta il Catasto Gregoriano, l’altro costiero diretto alla fortezza di Palo. I due percorsi dovevano convivere nei secoli XVI-XVII come attestano le Figg. 33 e 38: in particolare risulta in quest’epoca più frequentato il percorso costiero, come risulta dalla tappa notturna presso la fortezza Odescalchi dei cortei pontifici diretti da Roma a Civitavecchia. Anche il percorso medievale doveva più probabilmente essere orientato verso la costa secondo l’interpretazione del privilegio del 1018, dove la strada risulta volgere per paludes dopo aver superato Palidoro, quindi dirigersi verso la zona più acquitrinosa compresa tra le dune e il mare. Questo stesso percorso sembra risalire in auge nella seconda metà dell’Ottocento dopo un periodo di abbandono, se ci affidiamo alla testimonianza di questa pianta. Questi spostamenti pongono in risalto la stretta connessione tra l’uso di un percorso stradale e la vitalità degli insediamenti toccati: indipendentemente dal tracciato preferito, un tridente di strade poneva in comunicazione il castello di Palo con l’insediamento più interno di Monteroni (per alcuni identificabile con l’antico castrum Pali nominato nel 1254 fra i possessi della famiglia Normanni), come attesta la cartografia storica dal XVII al XIX secolo (cfr. Figg. 33-47).
ti, se ne registrano le mancanze e i danni e se ne fissano i tipi di intervento necessari per la manutenzione. La Descrittione dei quarti di Castel di Guido e di Palidoro del 1749 ne è un esempio, in quanto vi sono riportati toponimi, fossi, fontanili, prati e macchie che ormai siamo bene in grado di riconoscere sulla tavoletta IGM e che, anzi, ci hanno fornito l’essenziale sostegno per ricostruire le superfici e i caratteri di tali elementi nelle epoche precedenti. Rispetto alla rilevante intraprendenza registrata nelle descri-
zioni dei Registri seicenteschi nei confronti della possibilità di coltivare aree potenzialmente redditizie, siamo ora di fronte alla constatazione di un certo abbandono che ha interessato quelle zone che non fornivano sufficienti frutti dell’incolto e che avevano implicato eccessivi sforzi per la coltivazione. Così fu per il Quarto delli Cioccati, significativo toponimo conservato sulla tavoletta IGM tra la macchia della Muratella e l’antico tracciato della via Aurelia, che dopo il 1730 non si tenne più a maggese a causa
della sterilità del terreno verso la macchia; per alcuni terreni aperti nella stessa macchia, dalla parte verso Maccarese, che «solevano anticamente lavorarsi essendovi ancora le vestigie dei solchi, ma sono stati tralasciati e presentemente sono ammacchiati essendovi moltissimi perazzi, spini e rogacceti e servono per pascipascolo»; infine per i quarti Ortaccio e Mentuccia di Palidoro, dove la «piscina o sia pantaniccio circondato da fossi scolatori rende inutile per la sementa e resta sempre a mezzagna»63.
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Fig. 49. Pianta di Eufrosino della Volpaia, 1547. La porzione di territorio che ci interessa è compresa tra i fiumi Galera e Arrone: vi figurano la Strada che va a Civitavecchia, più altri due tracciati che si incrociano tra questa e il territorio di Maccarese nei quali, nonostante la distorsione tipica della carta eufrosiniana, possiamo individuare i due percorsi interni alle tenute figuranti nelle mappe del Catasto Alessandrino e nella carta del 1793; dei due, l’asse grosso modo parallelo alla via Aurelia è stato riconosciuto come antico (cfr. La via Aurelia, carta archeologica): esso però in questa raffigurazione non ha origine, come poi sarà nelle piante successive, poco dopo Malagrotta, ma più a est. Eufrosino della Volpaia rappresenta anche le due osterie di Malagrotta (n. 23 del Catasto Alessandrino) e dell’Arrone: quest’ultima manca nella pianta complessiva alessandrina, mentre figura nella mappa di Torrimpietra definita come Osteria di S. Spirito che è del 1620 (può essere scomparsa tra il 1620 e il 1661). Castel di Guido appare spostato verso l’interno, forse confondendo il tratto della via Aurelia con il percorso che si dirige verso Torrimpietra. L’edificio di Malagrotta è compreso tra il fiume Galera e il suo affluente Pantan di Grano, proveniente dalla Bottaccia, il fosso che probabilmente nel Medioevo dava origine al Pantano Lorano, forse da individuare nel punto di confluenza dei due corsi d’acqua, dove nell’attuale tavoletta IGM figura il toponimo Pantan di Grano e nelle vicinanze del ponte che Eufrosino definisce Passo delli Maligni. Il fosso e il pantano erano associati nella documentazione del monastero dei SS. Andrea e Gregorio alla selva Cancellata, un toponimo del quale non si trova traccia nella documentazione cartografica e scritta di età moderna, ma che dobbiamo presumibilmente identificare in quella che Eufrosino chiama La Selvotta, che nella documentazione del S. Spirito appare come un quarto della tenuta di Castel di Guido chiamato la Muratella (=selva di Mortella) e che infine si è in parte conservata con delimitazione regolarizzata nella tavoletta IGM come La Macchia Grande.
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Fig. 50. Disegno ricostruttivo su tavoletta IGM della selva della Muratella nel territorio di Castel di Guido.
Diverso è il tipo di percezione che traspare a proposito del bosco, per il quale dalla descrizione si passa a vere e proprie perizie e alla previsione di clausole per la manutenzione, tutela e corretta fruizione. Nelle convenzioni per l’affitto della Macchia della Muratella, la nostra antica selva Cancellata, stabilite il 24 luglio 1768, si prevedeva che la ceduazione avesse un ciclo novennale e rispettasse l’ordine dei nove quarti che componevano il bosco (Acquaviva, Marmo, Sugareta, Ficurella, Bottegone, Monte Bandito, Monte Abbrugiato, Muracciole, Olivelle); che, «essendo non solo per li incendi che detta Macchia ha sofferto, ma anche a causa che dagli affittuari precedenti sia stata tagliata nel secco e vecchio e contro lo stile dell’arte et altresì per non essere stata riguardata da bestiami vaccini nelli tagli freschi, si è ridotta in uno stato che non è capace di produrre più legna da taglio o carbone», fosse consentito ai proprietari di incaricare gli affittuari di ridurre a col-
tura e a pascolo i quarti di «Monte Bandito» e di «Monte Abbrugiato», con l’eccezione degli «alberi matricini e delle pedagne di quercia e cerro» che gli agenti del S. Spirito avrebbero segnalato. La regola del taglio a carbone ogni nove anni, da cominciare il 1° novembre e terminare l’8 marzo, si conserva nella concessione in affitto del 1776: entro il 24 giugno la pulizia della macchia doveva essere conclusa portando via legna e carbone; per uso del casale di Castel di Guido, per il forno e per l’osteria sarebbe stato necessario riservare tutta la macchia estesa sotto la strada che dal fontanile andava a Campo Salino e ai piani di Maccarese, cioè Valmancina, Monte delle Pulci e Spallette della Polledrara, che comprendeva la Macchia del Quartaccio, un lacerto di bosco fitto per questo motivo rimasto intatto; sarebbe stato comunque vietato tagliare alberi da lavoro, cioè olmi, albucci (pioppi) e olivelle e alberi grossi destinati a beneficio dell’ospedale; gli alberi matricini compresi nella
macchia avrebbe dovuto essere tagliati solo dalla prima croce in su e gli altri «vicino a terra e non a bocca di lupo et a strega, ma che sia taglio tondo e scolato et ad uso d’arte»; ai ministri del S. Spirito sarebbe spettato il compito di segnare gli olmi giudicati buoni da lavoro e a ogni taglio della macchia di farli ripulire64. A causa di una serie ripetuta di tagli sbagliati, operati anche ai danni degli alberi matricini della macchia del Monte Grande di S. Severa, i ministri del S. Spirito nel 1791 si trovavano costretti a registrare i danni attraverso una perizia che censisse il numero esatto degli alberi tagliati: «32 olmi grossi matricini da lavoro tutti tagliati a fondo per fare carrozze e aratri 1601 olmi di minor grandezza e oppi o sia stucchi tra grandi e piccoli 333 cerri matricini per fare carbone 10 ornelli matricini per fare carbone 126 olivastri matricini che avevano centinaia di anni 190 olivastri matricini che avevano centinaia di anni scrociati contro l’arte cioè sotto la croce e nel fusto del tronco per fare carbone»65. Questo documento con i dati numerici che contiene, seppure limitati alle specie tagliate, può offrirci una chiave di lettura importante per la conoscenza dell’intera composizione arborea della macchia, se interpretato alla luce delle conoscenze sullo stato attuale della vegetazione. La concessione in affitto stipulata nel 1808 della tenuta di S. Marinella, un’acquisizione recente, come si è visto, da parte del S. Spirito rispetto alle altre tenute costiere, comprendeva il taglio della macchia cedua, «con patto che non possa rompersi o cioccarsi giammai ma possa solamente tagliarsi quando la macchia avrà la sua giusta età e debba essere il detto taglio
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Fig. 51. Ricostruzione dell’uso del suolo secondo la mappa del 1818 del Catasto Gregoriano realizzata da Adriano Ruggeri.
o a carbone o a legna soltanto con eseguirsi il taglio tondo e scolatore secondo il buon uso e stile dell’arte, e non a bocca di lupo o a sdrega e in occasione del sudetto taglio debbano lasciarsi duecento pedagne almeno (…) e dopo il sudetto taglio debba la detta macchia riguardarsi per tre anni immediati consecutivi dal bestiame bovino, caprino e somarino» e i tempi per il taglio e per la ripulitura del bosco riflettevano quelli stabiliti per la macchia della Muratella di Castel di Guido; dal taglio sarebbero stati però esclusi gli alberi che non erano soliti tagliarsi a legna o a carbone, come gli olmi e poi i matricini66. Più vicende hanno dimostrato che l’area del Delta del Tevere, con le proprie caratteristiche idrogeologiche, abbia costituito già dal pieno Medioevo un importante banco di
prova per la sperimentazione di una forte consapevolezza da parte degli uomini nei confronti dei fenomeni ambientali: progressione della costa, cambiamenti di alveo di corsi d’acqua, spostamenti di stagni e piscine, impoverimento di suoli per l’eccessivo uso, taglio sconsiderato delle selve…, una serie di fenomeni che dovevano essere conosciuti e controllati al fine di proseguire nello sfruttamento economico degli elementi del paesaggio «naturale». Il rapporto tra uomo e ambiente ha subito diverse trasformazioni a causa delle tendenze demografiche, degli orientamenti economici, delle diverse gestioni patrimoniali, la più significativa delle quali tra Medioevo e prima età moderna sembra essere stata nella seconda metà del Trecento67. Dal XV secolo sembra infatti di assistere alla rottura di un rapporto di integrazione fra le varie forme di uso del suolo colto e in-
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colto: il bosco si proteggeva quando esso fosse decisamente redditizio, altrimenti se ne disponeva lo smacchiamento, la cioccatura. Le aree più fragili dal punto di vista idrologico e pedologico difficilmente venivano conservate per la raccolta della vegetazione palustre o per il pascolo, più spesso erano abbandonate o, nel caso in cui la tecnica acquisita e la produttività garantissero buoni risultati, venivano seminati a grano. Si spiegano così i numerosi interventi registrati dalle nostre fonti tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni del secolo successivo, che si inseriscono in un periodo nel quale fiorisce una intensa produzione di letteratura igienista, la quale a sua volta determinerà una serie di forti condizionamenti nel rapporto tra uomo e ambiente e una concezione culturale che porterà alle bonifiche e, per reazione, alla nostra attuale forma di «naturalismo» ed «ecologismo». Proprio all’anno giubilare 1750 data uno dei tanti memoriali circa l’impraticabilità della via Aurelia all’altezza della tenuta di S. Marinella, per poco tempo ancora di proprietà dei Barberini, «così imboschita di spine, ch’era divenuta un sicurissimo ricovero di malviventi; onde continui erano li clamori e querele de passaggieri rubbati e spogliati; si offerì Don Taddeo Barberini smacchiare ambi li lati di detta strada a proprie spese e mantenerla per lo spatio di 150 canne in circa». La praticabilità della strada era importante anche perché fin dal 1638 Urbano VIII concesse l’esenzione dalle gabelle per l’estrazione «per terra e per mare ed imbarcare alla spiaggia di essa tenuta tutta la quantità di grano, orzo, biade, legumi, vino, oglio e qualsivoglia frutti raccolti in detta tenuta ed ancora animali esistenti in essa e alevimi ed ancora legnami si per edifici come ancora per bruciare»68. La stessa tenuta era tra il 1774 e il 1775 oggetto di una serie di interventi di «cioc-
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Fig. 52. Stato attuale della foce del rio Palidoro.
catura per godere a sementa e a pascolo, cavando dal terreno del quarto di Valle Pellegrina radiche di quercia, mortella, guainelle, lentischio e spini»69. Pochi anni dopo fu la volta della tenuta di S. Severa, dove gli affittuari vengono incaricati dello smacchiamento di una zona che andava dal confine orientale lungo il fosso del Cannucceto fino al quarto Terre Nove, un toponimo conservato sulla tavoletta IGM già di per sé indicativo di una recente trasformazione. L’operazione dovette essere condotta con la massima attenzione per evitare di danneggiare le macchie vicine «dando fuoco alle cese e alle stoppie dello smacchiato», la semina non poteva essere estesa alle mezzagne ossia ai larghi che si trovavano nelle macchie e alle spallette di macchia più folta70. Concludendo, torniamo alla
Macchia della Muratella di Castel di Guido che ha lasciato un’ulteriore testimonianza di sé nelle nostre fonti, a proposito di lavori buonifici effettuati nel 1830 per estendere l’area a prato del Pantan di Grano e i terreni larghi della Riserva di Sallustio, da poco cioccati71. Proprio questa modesta superficie di terreno, con le sue vicende legate ai proprietari e agli andamenti demografici ed economici, ha rappresentato una forte testimonianza della costante presenza dell’uomo in un territorio in gran parte incolto e dell’alternanza ciclica dei passaggi tra colto e incolto e quindi del risultato che questo continuo lavorio ha comportato sulla formazione dell’attuale ambiente vegetale. Il mutamento del paesaggio, così come la sua conservazione, è conseguenza del suo uso e delle scelte di gestione che via via ne sono state ef-
fettuate. La Macchia della Muratella, nella sua composizione giunta sino a noi ne è un esempio: la sua conservazione all’interno degli ampi possessi ospedalieri aveva un senso economico molto importante come risorsa scaturita dalla ceduazione che i suoi alberi potevano offrire, se governati accuratamente; e d’altra parte la ripetuta pratica forestale ne ha determinato le trasformazioni che i botanici individuano rispetto alla sua forma potenziale72. L’ospedale del S. Spirito si annovera fra i proprietari delle più vaste tenute della Campagna Romana di età medievale e moderna e la «politica della terra per l’ente rappresentava uno dei fini primari, non solo perché era il sostegno dell’Istituto, ma anche perché permetteva di mantenere una situazione di prestigio e di peso politico al-
UNA STRADA, IL SUO AMBIENTE, IL SUO USO. LA VIA AURELIA FRA XII E XVIII SECOLO
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Fig. 53. Stato attuale delle strade che si dipartono dalla fortezza di Palo.
l’interno delle istituzioni romane». A tal fine l’amministrazione dell’ospedale aveva una complessa e precisa organizzazione attraverso l’accentramento e un rigido controllo73. La posizione delle tenute nel territorio maremmano e presso la via Aurelia, territorio solo più tardi divenuto malarico, depresso e spopolato, acquisisce un senso nella storia della gestione da parte dell’ospedale se reinterpretata alla luce delle tante notizie circa lo sfruttamento dei diversi elementi propri al suo ambiente nel lungo arco di tempo considerato. Dispensa, forno, osteria erano intimamente legate alle erbe necessarie per il bestiame, alla legna da recuperare per alimentare i fuochi. E questa forma di compenetrazione fra vari tipi di risorse si rivela tanto più effettiva nella gestione del territorio messa in atto nei secoli precedenti l’insedia-
mento da parte del S. Spirito, quando selva, acquitrino e terre coltivate apparivano ancora più legate dal punto di vista economico e topografico, in una fase di gestione diretta da parte monastica e di non forte pressione demografica. NOTE 1
Su questi temi si veda T. SZABÒ, Comuni e politica stradale in Toscana e in Italia nel Medioevo, Bologna, Clueb, 1992 (Biblioteca di storia urbana medievale, 6). 2 Per la storia dell’ospedale si veda O. MONTENOVESI, L’archiospedale del S. Spirito in Roma, in «Archivio della Società romana di storia patria», 62, 1939, pp. 177-229 e, limitato sino al Cinquecento, P. DE ANGELIS, L’ospedale di S. Spirito in Sassia, 2 voll., Roma, Nuova tecnica grafica (collana di studi storici sull’ospedale di S. Spirito in Sassia e sugli ospedali romani, 23), 1960 e 1962; sull’archivio, O. MONTENOVESI, Gli archivi degli Ospedali Romani nell’Archivio di Stato in Roma, in «Archivi», 3, 1936. 3 La via Aurelia da Roma a Forum Aure-
li, Quaderni dell’Istituto di Topografia antica dell’Università di Roma, IV, Roma 1968, in particolare La via Aurelia da Roma a Civitavecchia, a cura di G. M. DE ROSSI, P. G. DI DOMENICO, L. QUILICI, pp. 13-73; E. CARNABUCI, La via Aurelia, Antiche Strade del Lazio, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 1992. 4 RUTILIO CLAUDIO NUMAZIANO, De reditu suo, a cura di J. VESSEREAUX, F. PRECHAC, Paris, Collection des Université de France, 1933, p. 16. 5 EDRISI, Il libro di re Ruggero, a cura di M. AMARI, C. SCHIAPARELLI, Roma, Salvucci editore, 1883. 6 Il privilegio di Benedetto VIII si trova inserito in una bolla di conferma di Gregorio IX del 1236: l’edizione più recente è in H. ZIMMERMANN, Papsturkunden 896-1046, Vienna, Oesterreichische Akademie der Wissenschaften, 3 voll., 1984-1989, IIa ed., pp. 990-995, doc.522. La questione del rapporto tra percezione dell’ambiente nelle zone umide e permanenza in uso delle strade è toccato da chi scrive in una tesi di dottorato di prossima pubblicazione. 7 Il documento è pubblicato in G.B. MITTARELLI, A. COSTADONI, Annales Camaldulenses ordinis S. Benedicti …, I, Venezia, 1755, Pasquali, coll.296-301, doc.137. Il ter-
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mine canone figura in P. SELLA, Glossario Latino-Italiano. Stato della Chiesa, Veneto, Abruzzi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana (Studi e Testi 109), 1944, p. 115, con il significato di canale e il verbo vitigare, alla p. 628, che indica coltivare la vite, può essere messo in connessione con l’aggettivo inserito nel documento: viticosa, attribuito a una piscina, uno specchio d’acqua naturale di ridotte dimensioni dovuto all’impermeabilità del sottosuolo. I possessi del monastero si estendevano fra XI e XIV secolo principalmente nell’area del delta del Tevere e nella Maremma laziale fino al territorio di Nepi: qui ci interessano i territori di Malagrotta, Castel di Guido, pantano Lorano e selva Cancellata. 8 MITTARELLI, COSTADONI, Annales Camaldulenses, I, coll. 231-235, doc. 104 e II, coll. 92-93, doc. 46. 9 Boccea era già da allora di proprietà del Capitolo di S. Pietro, cfr. R. MONTEL, Le «casale» de Boccea d’après les Archives du Chapitre de Saint-Pierre, in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome», 91, 1979/2, pp. 593617, soprattutto le pp. 605 e 615. Il documento è conservato in BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA (da ora in poi BAV), Arch. Cap. S. Pietro, caps. XXXVI, fasc. 142. 10 Un modello è costituito dal saggio di J. COSTE, La via Appia, in ID., Scritti di topografia medievale, Problemi di metodo e ricerche sul Lazio, a cura di C. CARBONETTI, S. CAROCCI, S. PASSIGLI, M. VENDITTELLI, Roma 1996, Istituto storico italiano per il Medioevo, Nuovi Studi Storici 30, pp. 489-501. I documenti duecenteschi della famiglia Normanni sono studiati dettagliatamente da M. VENDITTELLI, Dal castrum Castiglionis al casale di Torrimpietra. I domini dei Normanni-Alberteschi lungo la via Aurelia tra XII e XV secolo, in «Archivio della Società romana di Storia patria», 112, 1989, pp. 115-182. 11 Il già citato itinerario di Edrisi è ricostruito insieme agli altri percorsi verso il nord da R. STOPANI, Le grandi vie di pellegrinaggio del Medioevo. Le strade per Roma, Firenze, Imprimerie du Vatican, Centro Studi Romei 1986, pp. 73-75. Le notizie circa l’uso della via Aurelia e del porto di Civitavecchia sono raccolte nel lungo periodo da C. CALISSE, Storia di Civitavecchia, Firenze, Biblioteca istorica n. 64, 1936. 12 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (da ora in poi ASR), Buon Governo, serie X, b. 254255 e 56, fascicoli interni sotto il nome della strada, datati fra il 1808 e il 1818. 13 E. CARUSI, Il diario romano di Iacopo Gherardi da Volterra dal 7 settembre 1479 al 12 agosto 1484, Città di Castello, S. Lapi 19401911. 14 F. MELIS, Movimento di popoli e motivi economici nel Giubileo del 1400, in ID., I trasporti e le comunicazioni nel Medioevo, a cura di L. FRANGIONI, Firenze, Le Monnier, 1984 (Istituto internazionale di Storia economica «F. Datini», Prato, 6), pp. 237-259, soprattutto le pp. 148-253. 15 «Fra il mare e Corneto v’era la via Au-
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relia, detta dal volgo la strada Francesca…»: così si esprime nel secolo XVII MUTIO POLIDORI nelle Croniche di Corneto, a cura di A.R. MOSCHETTI, Tarquinia Editore società tarquinense di arte e storia,1977, p. 28. 16 F. GUERRI, Fonti di storia cornetana, I. Il “Registrum Cleri cornetani”, A. Giacchetti, Corneto-Tarquinia, 1908, p. 305, doc. 146 e ASR, Arch. Osp. S. Spirito, b.1467, n. 23, f.20, Catasti e piante di Corneto e Toscanella. 17 Ancora il Polidori riporta nei suoi Annali una notizia relativa al Giubileo del 1450 in occasione del quale il papa incaricava «di far provisione di grano per l’annona de pellegrini e concorrenti alla devotione dell’Anno Santo», p. 246. 18 D. STERPOS, I Giubilei. Viaggio e incontro dei pellegrini, Quaderni di «Autostrade», 27, Roma 1975, pp. 83 per l’Anno Santo del 1575, p. 95 per il 1625, p. 125 per il 1825. 19 A. THEINER, Codex diplomaticus Sanctae Sedis, III, Roma 1862, n. 54, del 1399 ottobre 20. 20 CALISSE, Storia di Civitavecchia, pp. 100, 143, 175, 276. 21 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (da ora in poi ASV), Reg. Chirogr. II, 1596-1609, c.28, 1597 settembre 26 e CALISSE, Storia di Civitavecchia, pp. 377 e 404. 22 CALISSE, Storia di Civitavecchia, pp. 308-311 e più in dettaglio D. GNOLI, Le Cacce di Leone X, in «La Nuova Antologia», s. III, 18, 1893, pp. 51-59 e le cronache dei percorsi raccontate nei Diari del biografo veneziano Sanuto, in parte riportate in CALISSE, Storia di Civitavecchia. 23 Tra acque e terra. La palude, gli equilibri maturati e l’uomo, a cura di F. M . MANTERO, S. PANZARASA ET AL., Provincia di Roma, Assessorato Sanità e ambiente, Roma, Officina 1986. 24 ASR, Arch. Osp. S. Spirito, b. 1092, registro Castel di Guido, 1779. 25 ASR, Arch. Osp. S. Spirito, b. 1093, fascicolo scritture Osteria di Malagrotta. 26 ASR, Arch. Osp. S. Spirito, b. 1091, registro Castel di Guido, 1779. 27 ASR, Arch. Osp. S. Spirito, b. 1091, fascicolo relativo all’affitto di Castel di Guido ai Rospigliosi. 28 ASR, Arch. Osp. S. Spirito, b. 1096, Beni rustici S. Severa. 29 R. ALMAGIÀ, Lazio, Le regioni d’Italia, 11, Torino, UTET, 1966, pp. 96-97, 136-137. 30 N. M. NICOLAI, Memorie, leggi ed osservazioni sulle campagne e sull’annona di Roma, Roma, Pagliarini, 1803, vol. III, p. 281, dove si riferiva in particolare alla via Flaminia nel tratto tra Nepi e Borghetto. 31 J. COSTE, Descrizione e delimitazione dello spazio rurale nella Campagna Romana, in ID., Scritti di topografia medievale, pp. 2540, in particolare le pp. 38-40. 32 C. BLASI, et al., La vegetazione naturale potenziale dell’area romana, in La vegetazione italiana, XI Giornata dell’Ambiente, Roma 5 giugno 1993, Atti dei Convegni Lincei, Roma Accademia Nazionale dei Lincei, 1995.
33 C. BLASI, Fitoclimatologia del Lazio, carta del fitoclima, in BLASI et al., La vegetazione naturale. 34 BLASI et al., La vegetazione naturale. 35 VENDITTELLI, Dal castrum castiglionis. Il primo documento risale al 1041 e consiste in una concessione in enfiteusi da parte del monastero ai fratelli Donato, Siccono e Pietro, di una «terra sementaritiam cum pascuis, montibus et collibus, plagiis (…), cum rivis infra se, simulque totum pantanum maiorem quod vocatur Lorano, vel cum omnibus eorum pertinentiis vel adiacentiis. Similiter duas rotas ad secandum carticam positam in fundum vestri monasterii, sicuti incipit a prato de suprascripto pantano maiore, quod appellatur Lorano (…) «, MITTARELLI, COSTADONI, Annales, II, doc. XLVI, coll. 92-93. Nel 1067 il monastero recupera alcuni terreni nel territorio di Malagrotta che erano stati concessi a terza generazione a Giovanni de Tocco e parenti, «idest terram sementaritiam et pantanum quod vocatur Loranum», Ibid., doc. CXX, coll. 215-216. Nel 1128 il monastero concede in locazione a Stefano Micino, nuovamente a terza generazione, il luogo chiamato S. Gregorio dove era una chiesa e «quartam partem de sylva de Cancellata cum vineis ibidem et vasca circa se, cum filis salinarum ad excotendum cum prati, campis, pascuis, fontibus ac rivis, cum sylva et pantano, in quibus potestatem habeatis ligna cedere pro tua utilitate, et vestros porcos glande in ipsa sylva et pantano depascendos sicut alii, qui in eadem sylva per nos detinetur (…) «Ivi, doc. CXIV, coll. 316-317. Nel XIII secolo, secondo una tendenza comune ad altri monasteri romani proprietari di beni in zone umide dell’Agro – come per esempio S. Ciriaco in via Lata e S. Silvestro in Capite lungo le anse della media valle del Tevere – il cenobio mette in atto una politica fondiaria di acquisizione di ulteriori beni, comprando nel 1236 da Giovanni Crasso della regione Trastevere «sex rublos terre sementaritie cum sylva intra se, cum introitu et exitu (…) positos in territorio Molerupte in Cancellata» confinante con altri possessi dello stesso monastero: già in precedenza la selva era stata oggetto di altre concessioni sempre con la clausola che i monaci ne potessero trarre la legna necessaria, così come essi si riservavano la libertà di pescare nello stagno di Maccarese secondo le concessioni che lo riguardavano. La documentazione pone dunque l’accento sulla conduzione di questi elementi dell’ambiente – selva e stagno – che viene conservata in comune tra proprietario e concessionario, A. GIBELLI, L’antico monastero de’ SS. Andrea e Gregorio al Clivio di Scauro, Faenza S. Bernardino 1892, pp. 229230, doc. 8 e atto del 1158 marzo 24 in MITTARELLI COSTADONI, Annales, III, col. 500. A distanza di cento anni le testimonianze sull’area proseguono, anche se le forme di occupazione del suolo e di gestione rurale del territorio sono cambiate sotto la spinta di vari elementi, come si vedrà nel successivo paragrafo. Nel 1328 il monastero vende i frutti
UNA STRADA, IL SUO AMBIENTE, IL SUO USO. LA VIA AURELIA FRA XII E XVIII SECOLO
del casale posto nel territorio di Malagrotta cum pratis e pascuis bobum, casale che risulta suddiviso in «diversis petiis, locis atque vocabulis» dove si alternano pediche site in zone vallive, Vallis de, confinanti con il pantano Lorano e pediche situate in aree collinari denominate Mons, GIBELLI, L’antico monastero, pp. 282-283, doc. 48. Il pantano è ancora compreso nel 1340 tra i riferimento topografici del casale Bocticella, confinante con Castel di Guido, a proposito del quale si affaccia il ruolo dell’ospedale del S. Spirito come proprietario dell’area, ASR, Arch. Osp. S. Spirito, perg. 103, cass. 61. 36 Fascicolo di scritture su Malagrotta in ASR, S. Spirito, b.1093, l’argomento del prosciugamento verrà ripreso sotto. 37 R. CANEVARI, Cenni sulle condizioni altimetriche ed idrauliche dell’Agro Romano, Roma, Stabilimento tipografico alle Terme di Diocleziano, 1874, pp. 240-241: tenuta di Malagrotta. 38 M. MONTANARI, L’alimentazione contadina nell’Alto Medioevo, Napoli Liguori, 1979, pp. 232-233 sull’area necessaria per il pascolo dei porci di circa mezzo ettaro di selva per capo. Pochi documenti in realtà indicano il numero degli animali al pascolo nelle selve, tra questi è il testamento già citato di Alberto Normanni, su cui si veda VENDITTELLI, Dal castrum Castiglionis, pp. 127-128, 150151, 170-176 e appendice 1, relativamente alla selva di Maccarese. La tenuta di Maccarese è riprodotta nella mappa 433bis/35 del Catasto Alessandrino, nella quale su un totale di circa 1285 rubbia, le selve e i pantani ammontano a circa 845 rubbia: la restituzione cartografica della superficie seicentesca indurrebbe a concludere che l’estensione della selva e dei pantani di Maccarese nel XIII secolo coprisse tutta la porzione del litorale, verso l’interno fino quasi all’attuale ferrovia, prolungato a nord oltre l’ultimo tratto dell’Arrone e a sud al casale di Porto e allo stagno di Ponente. 39 Il Carticheto risulta distinto dal più diffuso canneto anche nel Catasto Alessandrino, si veda per esempio la mappa 433bis/10 Muratella con la presenza di questo termine. Sul termine, sulla sua attribuzione per definire il tipo vegetale di un pantano, es. pantanum carticineum nel XII e XIII secolo e sul suo passaggio a vero e proprio toponimo, si veda S. PASSIGLI, L’ambiente naturale delle zone umide nella toponomastica del Lazio medievale, in «Rivista italiana di Onomastica», 2, 1996), pp. 320-353, in particolare p. 346. 40 Su questo modello di equilibrio economico agro-silvo-pastorale limitato all’alto Medioevo nell’Italia settentrionale, si veda M. MONTANARI, Mutamenti economico-sociali e trasformazione del regime alimentare dei ceti rurali nel passaggio dall’alto al pieno Medioevo. Considerazioni sull’Italia Padana, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di V. FUMAGALLI e G. ROSSETTI, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 79-97; sulla sua realtà anche nella nostra regione dove sembra estendersi più a lungo, solo un accenno in P. TOU-
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Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, Rome 1973 (Bibliothèque des Ecoles françaises d’Athènes et de Rome, 221) a proposito della zona reatina. 41 GIBELLI, L’antico monastero, pp. 282283, doc. 48. 42 ASC, A.U. sez.I, 785/10, cc.89r-90r, 1395 agosto 27. 43 La vendita d’erbe di Palo del 1368 è conservata in Arch. Coll. Germanico e Ungarico, Arch. S. Saba, Liber Instrumentorum, c.74v. Palidoro figura nella vendita d’erba grossa e minuta redatta dal notaio Pietro Astalli, in cambio di 65 fiorini, 200 pezzi di formaggio e 12 castrati, secondo la consuetudine dell’Arte dei Bovattieri, in I. LORI SANFILIPPO, Il protocollo notarile di Pietro di Nicola Astalli (1368), Roma 1989 (Società romana di Storia patria, Codice diplomatico di Roma e della regione romana, 6), pp. 86-87, doc. 85 del 1368 agosto 19. Per Galeria e Palo, cfr. l’atto di Scambi, in BAV, S. Angelo in Pescheria, I/14, cc.18r-22v. Il casale della Selce, confinante con Malagrotta e Boccea è citato in un documento del notaio Lorenzo Staglia, in EAD., Il protocollo notarile di Lorenzo Staglia (1372), Roma 1986 (Società romana di Storia patria, Codice di Roma e della regione romana, 3), pp. 14-16, doc.12 del 1372 gennaio 8. I documenti del notaio Venettini riguardanti Malagrotta sono citati nelle note successive. 44 Scambi 1364 marzo 8 in BAV, S. Angelo in Pescheria, I/2, cc.44v-45r. 45 Venettini, 1389 gennaio 20 in ASC, A.U. sez. I, cc. 13r-14v: il monastero vende a Palutio Nucii Egidii dictus alias Grassi de Perleonibus: «Idest omnias et singulas herbas grossas et minutas glandes et castaneas tenimenti casalis olim castri Malegripte dicti monasterii quod situm est extra portam S. Pancratii infra suos fines et silbarum eiusdem castri, incipiendum in festo S. Angeli de mensis septembris et finendum in festo S. Angeli de mensis maii, ad habendum, tenendum, possedendum, utendum, fruendum cum bestiis suis vel alienis», per il prezzo di 150 fiorini, 21 sacchi di castagne e 4 castrati e con la clausola reservati pascuis solitis eiusdem casalis, secondo un tenore che si ritrova anche nel documento del 1397 ottobre 13 in ASC, A.U. sez.I, 785bis/1, cc.128rv e 128v-129r. 46 Venettini per Castiglione e Statua, 1389 marzo 25 e dicembre 23, in ASC, A.U. sez.I, 785/5, cc. 53r-55r e 163r-165r: sugli elenchi di pertinenze stilati da parte dei notai cfr. quanto commenta J. COSTE, Descrizione e delimitazione dello spazio rurale nella Campagna Romana, in ID., Scritti di topografia medievale, pp. 25-40 soprattutto sul valore attribuito agli elementi più singolari come selve e pantani. Per Palo e Galeria, atti in Scambi, BAV, S. Angelo in Pescheria, I/14, cc. 18r-22v e I/16, cc.31r-32r. Il solo affitto delle ghiande dalle foreste figura a proposito di Castel Fusano, in Venettini 785/5, c. 116rv. 47 Venettini 1392 in ASC, A.U. sez. I, 785/8, cc. 96r-98r.
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48 Scambi 1392 marzo 21, in BAV, S. Angelo in Pescheria, I/15, cc. 14r-15r. Anche il territorio di Statua è oggetto di simili concessioni di selve e peschiere nel 1404 da parte del proprietario, il monastero di S. Anastasio ad Aquas Salvias, in ASV, Reg. Vat., t. 3, p. 179: questi dati contribuiscono ad arricchire la nostra carta relativa all’estensione delle acque stagnanti costiere tra Palo e S. Severa, già nel XVII secolo ridotta all’area paludosa di Torre Flavia, cfr. atto sulla via Aurelia del 1018 e il volume Tra acqua e terra. La palude, gli equilibri naturali e l’uomo, a cura di V. AMADIO, F. M. MANTERO, S. PANZARASA, Roma 1986 con figure e mappa del Cat. Aless. 428/4. I termini relativi alle specie volatili oggetto della caccia nel Trecento si trovano per esempio a proposito del castrum Verpose, il successivo casale di Buon Riposo, nella cui documentazione viene distinta la caccia agli uccelli dalla caccia bestiarum salvaginarum e si trova indicata la stessa specie difficilmente interpretabile insieme ad altri animali noti, cfr. A. MONACI, Regesto dell’abbazia di Sant’Alessio all’Aventino, in «Archivio della Società romana di Storia patria», 28, 1905, pp. 433-434, doc. 119. Sulla caccia nel Medioevo c’è un’ampia bibliografia, per le nostre regioni a partire da A. CORTONESI, I boschi e le cacce, in ID., Ruralia. Economie e paesaggi nel Medioevo italiano, Roma, Il Calamo, 1995, pp. 121-170. 49 D. BOCCAMAZZA, Le cacce di Roma, Roma M. Gyronima de’Cartolari, 1548. 50 BOCCAMAZZA, Le cacce di Roma, pp. 6rv: Campo Salino; pp. 8rv: Maccarese; pp. 32v-33r: Palo, p. 33rv: Civitavecchia. 51 SANUTO, Diari, a cura di, XXIX, p. 442. 52 ASR, S. Spirito, b. 1093, fascicolo con scritture su Malagrotta e la sua osteria. La geomorfologia dell’area e le condizioni tecniche del periodo non consentivano però di ottenere una riconversione definitiva dell’area paludosa, infatti nel 1567 un contratto di locazione prevede ancora fra gli obblighi «sciocchare, nettare et redurre a coltura il pantano ch’è in dette tenute». 53 Sono eloquenti in proposito numerosi studi sulla malaria e in particolare osservazioni sul delicato rapporto numerico e di frequentazione tra uomo e ambienti umidi che, se abbandonati diventano malsani. 54 ASR, S. Spirito, b. 57, carte relative all’acquisto di Malagrotta e b. 1093, fascicolo su Malagrotta. 55 ASR, S. Spirito, b. 57 e b. 1093, fascicolo sui Beni rustici di Palidoro. 56 CANEVARI, Cenni sulle condizioni altimetriche ed idrauliche, pp. 502-503. 57 Sull’area necessaria per il pascolo dei porci, cfr. supra n. 38. 58 Sull’individuazione della cerqua nella Q. pubescens ossia la roverella, cfr. le osservazioni di TOUBERT, Les structures, I, p. 173, n. 1, riprese da CORTONESI, I boschi, p. 124, n. 9. 59 Sui boschi, il trasporto, i cantieri per la costruzione delle galere nel XV secolo è in corso una ricerca condotta da Ivana Ait.
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60 S. CONTI, Territorio e termini geografici dialettali nel Lazio, Roma, Istituto di Geografia dell’Università «La Sapienza» 1984 (Glossario di termini geografici dialettali della regione italiana V), p. 91. La prima è chiamata Asco della Rimessa, la seconda e la terza sono definite Macchia lasco, probabilmente unendo in modo erroneo l’articolo con il nome, poiché il termine lasco si attribuisce normalmente a radura libera per il pascolo, ibid., pp. 183-184. 61 Su Palo, cfr. G. SACCHI LADISPOTO, La fortezza di Palo tra Sei e Settecento,in «Lunario Romano», 10, 1981, Palombi, pp. 479-502 e la tesi inedita in corso di stampa di F. CASTELLANO e A. M. CONFORTI dalla quale si sono tratti alcuni documenti altrimenti irreperibili per l’inagibilità dell’Archivio Orsini: pianta del sec. XVII di Palo e suo territorio, A.O., I, C, X, 78. Le piante conservate nell’ARCHIVIO DEL COLLEGIO GERMANICO E UNGARICO DI ROMA, Archivio di S. Saba, faldone Palo, sono del 1687, del 1725 e del 1732. Un ringraziamento affettuoso va ad Aldo Marinelli, custode dellOasi di Palo, profondo conoscitore dell’area e disponibile accompagnatore. Le piante sono confrontabili con quelle del sec. XIX conservate in ASR e del 1911 tratta dalla tesi in questione, sulle quali l’estensione del bosco appare definitivamente delimitata. I documenti degli archivi Orsini, S. Saba e Odescalchi, come già accen-
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nato visti solo indirettamente si soffermano prevalentemente sulle strutture – cfr. infra – e non aggiungono altro sulla gestione delle aree incolte rispetto alla ricca messe di piante storiche, sulle quali dunque si concentrano le nostre riflessioni. 62 La cartografia relativa Torre Flavia è stata raccolta da Orietta Verdi per il volume Tra Acqua e terra e su questa raccolta ci basiamo, nello stesso volume è lo studio naturalistico e botanico. Sui due progetti di recupero di Macchiatonda (S. Severa) e Torre Flavia, cfr. anche F. M. MANTERO e D. MANTERO, Il restauro ambientale: due zone umide del Lazio, pubblicazione del WWF, pp. 27-38. 63 Fascicolo in ASR, S. Spirito, b. 1091. 64 Ibid. Un altro fascicolo contiene gli atti della concessione in affitto del 1819 al principe Rospigliosi, le cui clausole relative alla macchia della Muratella prevedono il divieto di pascolo di porci e bufali e la concessione del taglio a carbone con l’eccezione degli olmi e dei pioppi, il divieto di rompere prati e pascoli, quindi ancora una tutela a vantaggio dei terreni semilavorati. 65 Beni rustici della tenuta di S. Severa, in ASR, S. Spirito, b. 1096. 66 Cfr. nota precedente. 67 La documentazione di età moderna del S. Spirito conferma l’alto grado di consapevolezza mostrato dai contemporanei nel
confronti dell’ambiente umido, cfr. per esempio la lite per il cambio di alveo del fosso dei Tre Denari che determinò dal 1730 una serie di cause per l’attribuzione della terra delimitata dal fosso alle due tenute confinanti di Palidoro e Maccarese, ASR, S. Spirito, b. 1093, carte sciolte. 68 Memoriale alla Congregazione Camerale da parte di Cornelia Barberini, a stampa, in ASR, S. Spirito, b. 53, cc. 30r-33v. 69 ASR, S. Spirito, b. 53, scritture di S. Marinella, ultime carte del registro, dove si riferiscono i confini precisi dell’area dissodata nel 1774, il quarto di Valle Pellegrina e nel 1775, il quarto di Pian delle Vacche e Piana di Mare, con l’esclusione di «quattro piccole mezzagne che rimangono sterpose e incolte per essere il fondo di sua natura scoglioso». 70 Smacchiamento del 1778, in ASR, S. Spirito, b. 1096, Beni rustici S. Severa. 71 ASR, S. Spirito, b. 1091, fascicolo relativo all’affitto Rospigliosi. 72 Sul bene ambientale considerato come risorsa attivata da una serie di pratiche, D. MORENO, Dal documento al terreno Storia e archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, Bologna, Il Mulino, 1988. 73 G. ROSSI, L’Agro di Roma tra ‘500 e ‘800. Condizioni di vita e di lavoro, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Biblioteca di storia sociale, 19, 1988, pp. 93-98.
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Appendice La documentazione dell’ospedale del S. Spirito sui manufatti lungo la strada 1. I centri abitati rurali e le strutture per il ricovero di attrezzi e raccolto 1.a. Malagrotta – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1467, casale di Castel di Guido: nel quarto Malagrotta: Torricella scaricata: recinto esagonale in ruderi, identificabile presso il confine meridionale della tenuta, nel punto della quota m.66 sulla tavoletta IGM; nel quarto Selce: Malagrotta: nome attribuito a edificio rettangolare con due piani, porta e finestre, tetto a due spioventi. –
1777 Nuova fabbrica Malagrotta, registro, b. 1091, c. 55r: situata a sinistra della strada consolare per Civitavecchia, contenente: stallone, rimessa, fienile, stanze interne.
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1779 Descrizione di Castel di Guido, b. 1091, registro: casale e osteria di Malagrotta: stanze, cantina, dispensa, due stallette, chiesa accanto al cortile;
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s.d. Pianta della nuova fabbrica di Malagrotta, b. 57: si tratta dell’edificio rettangolare con andamento parallelo alla strada del 1777, oggi adibito a sede ente morale (cfr. Fig. e foto)
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1803 Conto di dare-avere dell’affittuario Sig. Canevari, registro, b. 1091: casale di Malagrotta contiguo alla chiesa saccheggiata dalle truppe, tra cui stanza ove era l’antica cucina dell’osteria
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1846 Descrizione contenuta nella consegna del tenimento di Malagrotta, b. 1093: casale aderente alla chiesa, a due piani, con padiglione avanti la porta d’ingresso, verso la Strada Romana, androne e stanza grande con camino, stanze, stanza dove era la cucina dell’antica osteria, scuderia sotto il casale, grotta sotto il casale; chiesa; fabbrica dell’osteria.
1.b. Castel di Guido e Bottaccia – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1467, casale di Castel di Guido: pianta e alzato del palazzo di Castel di Guido; nel quarto Malagrotta: Bottacchia scaricata: edificio in ruderi con contrafforti raffigurato presso il sito del casale, al di fuori del confine; nel quarto Castel di Guido: castellaccio: cospicui ruderi con torre situati nella porzione di terra compreso tra la via Aurelia e il confine settentrionale della tenuta, coincidente con il quadratino nero alla quota m. 81 sulla tavoletta IGM, nella descrizione definito Castello scaricato; edificio del casale formato da due corpi di fabbrica uniti; nel quarto Muratella: tre capanne comprese entro una staccionata nella parte meridionale della selva. –
1779 Descrizione di Castel di Guido, b. 1091, registro: chiesa, osteria al piano superiore della chiesa, fabreria, granai, stanza accanto al granaio uso pizzicheria, casale (cappella dell’appartamento superiore, stanze interne, stalla, dispensa ossia casciara, stanza della campana, farinaro, stanza dei fulloni, forno, cantina, cucina, cortile, dispense, gallinaro, granaio del forno, stalla nobile e fienili), casetta dove stava la vigna vicino al casale, casetta delle vigne, casetta dei bifolci, bagnatore delle pecore, stradone che porta al casale dalla strada Romana, stato generale dei fossi, fontanili, ponti (cfr. sotto 4.b.).
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1803 Conto di dare-avere dell’affittuario Sig. Canevari, b. 1091, registro: elenco dei lavori necessari alle fabbriche: cimitero vicino alla chiesa, magazzino, stalla, casale, granaio del forno, forno, granaio isolato fra il casale e la chiesa, legnaia, stalla dell’osteria, fabreria, casetta nella vigna prossima al casale, casetta del Monte delle Pulce uso Procoio per le vacche, casetta dei bifolchi sopra l’ara della vigna prossima alla strada di Maccarese.
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1838 Progetto nuova fabbrica per la posta di Castel di Guido, b. 1091, fascicolo Fabbricati: sono previsti locali per norcineria, scuderia in grado di ospitare diciannove cavalli, fienile e osteria di fronte alla chiesa lungo la strada Romana.
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sec. XIX Lavori da farsi al casale, b. 1091, fascicolo Fabbricati.
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sec. XIX Scandaglio per una grotta da farsi nel Monte delle Pulci, pianta e sezione, b. 1091, fascicolo Fabbricati.
1.c. Palidoro – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1480, casale di Palidoro: edifici del casale di Palidoro e di S. Carlo, chiesa, cimitero e osteria presso la via Aurelia, torre quadrangolare costiera, capanna entro il recinto delle bufale, ruderi dell’antica Statua presso la via Aurelia, casetta del caporale dei bufali (Casa Lunga sulla tavoletta IGM), mola, calcare e capanne. –
secc. XVII-XIX, b. 1480, fascicolo con carte sciolte di Palidoro: 1. s.d. concessione strada Palidoro-Castel Campanile lungo il fosso (cfr. b. 57), 2. s.d. pianta del I e del II piano del palazzo di Palidoro, 3. 1782 pianta di una porzione di Tumoleto controverso tra Palidoro e Maccarese, 4. 1809 (cfr. sotto), 5. 1814 pianta del nuovo pascolare che comprende la maggior parte del quarto dell’Ortaccio, 6. 1820c. pianta della tenuta di Palidoro e Selva della Rocca con brogliardo.
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1729 Disegno a penna del territorio compreso fra la via Aurelia, il Fosso dei Tre Denari e la spiaggia, b. 1093, carte sciolte inerenti a causa giuridica: casale, osteria, Villa di Palidoro (casale S. Carlo), ponti, capanne delle bufale e staccionata.
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1763 Pianta della via Aurelia tra Castel di Guido e Palidoro, b. 57, c. 35, Notizie di istrumenti di Palidoro: osteria, casale con tre comignoli e una torre circolare merlata, edificio della villa di Palidoro.
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1809 Pianta delli terreni che presentemente si adacquano nella tenuta di Palidoro, b. 1480, fascicolo di carte sciolte n.4: corpi di fabbrica in prospettiva del ponte presso il casale S. Carlo.
1.d. S. Severa – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, casale di S. Severa: fortezza e casale, torretta quadrangolare costiera (torre di Macchiatonda), edificio della Porcareccia, capanne, ruderi della Castellaccia, edifici rurali disseminati nei quarti non sempre identificabili sulla tavoletta IGM, fontanili, molaccia, S. Lorenzo. –
secc. XVIII-XIX b. 1481, fascicolo di carte sciolte: 1. 1741 pianta dei fossi della tenuta: torretta costiera, rimessone e casetta delle cavalle, ponti, 2. s.d. progetto per mola a grano, 3. 1820c pianta della tenuta e brogliardo.
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1755 Inventario della fortezza di S. Severa, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Severa.
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1815 Perizie per il risarcimento delle fabbriche, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Severa: a. granaio detto dell’orologio, b. magazzino del legname, c. muri esterni della rocca e giardino.
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1817 Perizia per la nuova scala da costruire nella torre di S. Severa, con pianta e sezione, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Severa.
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1839-1844 Progetti per la fabbrica della scuderia e per la posta, con piante, prospetti, sezioni, a cura degli architetti Camponesi e Moneti, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Severa.
1.e. S. Marinella – 1634 Pianta della tenuta del principe Barberini, b. 1481, fascicolo carte sciolte, n. 1: torre e forte, ruderi della chiesa rurale di S. Maria Morgana, fontanili. –
s.d. Pianta del fabbricato di S. Marinella, b. 1481, fascicolo carte sciolte, n. 2.
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s.d. Disegno del mosaico pavimentale scoperto nella tenuta in riva al mare, b. 1481, fascicolo carte sciolte, n. 4.
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1751 Inventario degli edifici esistenti nella tenuta, b. 53, cc.117r ss.: osteria, macello, grotta, cucina con focolare, tinello, stalla, cortile con mangiatoia, isola di case attaccata alla chiesa: bottega del falegname, bottega del ferraro, muro del cimitero, granaio, stalla, isola di case verso il giardino: granaio, tinello, casa degli affittuari, forno, stufa, farinaro, cantina, gallinaro, casa delle monelle, casa dei bifolchi, legnaia, casa del fattore, orto, selciata verso la strada Maestra per Civitavecchia intorno alle isole, fontanili.
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1764 e 1765 altri inventari simili, b. 53, cc.143v ss.
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1773 Descrizione dei beni del palazzo di S. Marinella, b. 53, cc.93r-95v: stanze e suppellettili: loggia del torrione, foresteria, armeria, giardino verso il mare, chiesola, osteria affacciata verso la strada Romana, casetta della tonnara.
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1808 Concessione in affitto della tenuta, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Marinella:
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il palazzo è escluso dall’affitto, mentre sono compresi: pizzicheria, forno, macello, magazzini, granai, casetta vicino al forno con stalla, casette della tonnara, giardino accanto al palazzo. –
1809 Descrizione e ricognizione delle mancanze trovate nelle fabbriche e nei fontanili da parte del vecchio affittuario, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Marinella: i lavori riguardano: bottega del facocchio presso il prato della chiesa, stalla, bottega del fabbro, granaio, fabreria, forno, stanza ad uso di fascinaro, casetta dei Bifolci verso la strada Romana, osteria, stanza dell’ammazzatore, macello, casetta del tonnaro.
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1811 Consegna delle fabbriche all’affittuario con inventario e descrizione dell’osteria, b. 1096, Beni rustici della tenuta di S. Marinella.
2. I luoghi di culto rurali 2.a. Malagrotta – 1779 Descrittione di Castel di Guido, b. 1091, registro: il casale e osteria di Malagrotta comprende la chiesa accanto al cortile con tre finestre, volta a botte, sacrestia; sulla facciata sono pilastri, fasce, cornicione, una mostra di stucco intorno alle finestre. –
1803 Conto di dare-avere dell’affittuario Sig. Canevari, b. 1091, registro: casale di Malagrotta contiguo alla chiesa saccheggiata dalle truppe, tra cui stanza ove era l’antica cucina dell’osteria
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1820c Catasto Gregoriano: chiesa di S. Spirito.
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1846 Descrizione chiesa Malagrotta nella consegna all’affittuario, b. 1093: descrizione particolari edilizi della chiesa e della sacrestia, della facciata e dell’altare con baldacchino, inventario delle suppellettili sacre e degli arredi, quadro raffigurante S. Isidoro, quadro con Vergine e S. Antonio abbate e altri santi, acquasantiera in marmo, confessionale.
2.b. Castel di Guido e Bottaccia – 1779 Descrizione di Castel di Guido, b. 1091, cc. 87rv: chiesa al piano superiore dell’osteria e cappella compresa all’interno dell’edificio del casale: la chiesa parrocchiale di Castel di Guido è dedicata allo Spirito Santo e contiene un quadro con la venuta dello Spirito Santo con cornice dorata, un baldacchino e un ciborio in legno, una croce in legno e ottone, un confessionale, necessita restauri. –
1802 Inventario delle suppellettili sacre della chiesa e dell’abitazione dell’arciprete in occasione della venuta del nuovo arciprete, b. 1093: quadro con la venuta dello Spirito Santo, tabernacolo, sei candelieri sull’altare, croce e leggio di legno nero, baldacchino, due inginocchiatoi, due confessionali di castagno; nella sacrestia: credenza che serve per archivio; stanza superiore con cucina, campanile.
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1820c. Catasto Gregoriano: S. Antonio nella tenuta Bottaccia, S. Spirito nella tenuta di Castel di Guido
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1845 Visita della chiesa parrocchiale di Castel di Guido con descrizione delle suppellettili e degli arredi della chiesa e inventari dei libri parrocchiali, b. 1091, fascicolo Chiese.
2.c. Palidoro – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, casale di Palidoro, b. 1480: il quarto di Campo Santo Novo prende il nome dal cimitero sotto la via Aurelia, di fronte all’edificio del casale, con chiesa. –
1820c Catasto Gregoriano: chiesa parrocchiale dei SS. Filippo e Giacomo di Palidoro e cimitero, oratorio della Madonna della Consolazione a Monteroni.
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1845 Visita alla chiesa parrocchiale di Palidoro con descrizione delle suppellettili sacre e inventario dei libri parrocchiali, b. 1091, fascicolo Chiese.
2.d. S. Severa – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1481, casale di S. Severa: sulla pianta generale della tenuta, presso il confine settentrionale, figurano ruderi con la denominazione S. Lorenzo, vicino a un fontanile (nulla sulla tavoletta IGM). –
1844 Nota di ciò che serve all’arciprete di S. Severa, b. 1096
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2.e. S. Marinella – 1634 Misura e pianta del casale di S. Marinella, b. 1481, pianta 1: nella parte boscosa della tenuta sono raffigurati i Vestiggio e muracci di S. Maria Morgana. –
1753 Parrocchia di S. Giuseppe di S. Marinella, b. 53, c. 47r.
–
1766 Istituzione della cappellania di S. Marinella, b. 53, cc. 55r ss: cure necessarie per provvedere al campanile, al cimitero, all’abitazione per il cappellano, alla cura delle anime; viene ricordata una relazione del vescovo portuense degli anni 1667, 1682, 1696 dove si menzionano i dieci abitatori fissi della tenuta impegnati nel lavoro dei campi e nell’allevamento e si descrive la chiesa di S. Giuseppe con fonte battesimale e una seconda cappella.
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1773 Descrizione delle suppellettili sacre della chiesa parrocchiale di S. Giuseppe di S. Marinella, b. 53, cc. 96r-97v: altare in muratura, quadro della Vergine con bambino, S. Giuseppe e serafini.
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1776 Visita pastorale del vicario di Porto in occasione della quale si prevedono i lavori da eseguire per la manutenzione della chiesa di S. Marinella, b. 53, c. 186r.
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1800c. La chiesa di S. Marinella raccoglie la popolazione delle tenute vicine nelle occasioni festive, b. 1096, Beni rustici S. Marinella.
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1809 Descrizione e ricognizione delle mancanze trovate nelle fabbriche e nei fontanili di S. Marinella, b. 1096, Beni rustici S. Marinella: l’isola di case intorno alla chiesa comprende la bottega del facocchio presso il prato della chiesa, una stalla, la bottega del fabbro.
–
1843 Inventario della chiesa parrocchiale di S. Marinella, b. 1096, Beni rustici S. Marinella.
3.
Le osterie
3.a. Malagrotta – 1512 Costruzione dell’Hospitium di Malagrotta, b. 1093, fascicolo Osteria di Malagrotta: l’onere di costruire l’osteria viene affidato all’affittuaria Latina Cibo insieme a quello di prosciugare dall’acqua alcune rubbia di terreno paludoso e di piantare alberi, da parte del monastero dei SS. Andrea e Gregorio al Clivo di Scauro. L’incartamento contiene la trascrizione di altri documenti cinquecenteschi relativi alla vicenda che determinò un contenzioso fra i Cibo e il S. Spirito, tra cui un contratto di affitto del 1524 che attesta l’avvenuta costruzione dell’edificio definito capanna sive domus apta ad hospitandum. –
sec. XVI Notizie sull’osteria di Malagrotta e sulle attività connesse, b. 57, cc. 57r-74r: la concessione dell’osteria implica il diritto di tagliare legna per uso della cucina nelle selve vicine e di trasportarla mediante l’ausilio di sei cavalli, poi ridotti a tre.
–
1655-1660 Piante registro S. Spirito, casale Castel di Guido, b. 1467: nel quarto Selce è visibile l’edificio presso la via Aurelia.
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1803 Conto di dare-avere dell’affittuario Sig. Canevari, registro, b. 1091: casale di Malagrotta contiguo alla chiesa saccheggiata dalle truppe, tra cui stanza ove era l’antica cucina dell’osteria (cfr. foto stato attuale)
–
1846 Descrizione della fabbrica dell’osteria di Malagrotta, b. 1093: strada d’accesso dalla via Aurelia, prima stanza con focolare e cinque finestre, cucina con bancone di muro coperto da lastre di peperino, tavoli, stallone, cascina, arma del commendatore Guidi nel prospetto verso la strada Romana, corridoio d’ingresso, stanze, scala a due branchi che ascende alle stanze superiori, stanze superiori; fontanile a sinistra della strada Romana di contro il casale: una vasca grande e una piccola, frontone con l’arma del commendatore De Carolis e lapide con iscrizione.
3.b. Castel di Guido e Bottaccia – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1467, casale di Castel di Guido: quarto Malagrotta: Ostaria della Bottacchia: edificio rettangolare a due piani con porta e finestre, tetto a capanna; quarto Castel di Guido: osteriaccia con insegna individuabile nell’attuale Casetta delle Pulci presso la stazione di Maccarese –
1779 Descrizione di Castel di Guido, b. 1091, cc. 87rv: l’osteria è descritta al piano superiore della chiesa con la cucina al piano terra.
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3.c. Palidoro – 1539 Memoria sull’unione dei possessi di Palidoro e Statua da parte del S. Spirito, b. 57, cc. 1r-9r: (…) cum hospitiis sive tabernis et palatiis et aliis casamentis rusticis seu capannis. –
1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1480, casale di Palidoro: osteria disegnata senza denominazioni nel quarto Mentuccia.
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1730c Pianta dell’osteria di Palidoro, b. 1093.
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1763 Istrumento di concordia tra il S. Spirito e la famiglia Borghese per il transito nella tenuta di Palidoro, b.57, c.35: pianta del tratto della via Aurelia tra Castel di Guido e Palidoro con un ponte, il casale di Palidoro e l’osteria di Palidoro.
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1820c Catasto Gregoriano: Malagrotta, Castel di Guido, Palidoro, Monteroni: qui anche posta
3.e. S. Marinella – 1751 Inventario degli edifici ed altro esistente nella tenuta di S. Marinella, b. 53, cc. 117r ss.: osteria, descrizione degli arredi e degli oggetti ivi esistenti. – 1773 Descrizione e scandaglio dei risarcimenti necessari al palazzo, al giardino e alle fabbriche di S. Marinella, b. 53: osteria con facciata presso la strada Romana vicino alla chiesa.
4. I ponti, i fontanili e gli incastri nei fossi 4.a. Malagrotta – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1467, casale di Castel di Guido: quarto Malagrotta: fontanile individuabile con quello poco a sud della scritta Riserva Capanna Murata sulla tavoletta IGM; Fontanile della Muratella individuabile in quello presso il Fosso di Pantan di Grano, vicino alla quota di m.65. –
1820c Catasto Gregoriano: fontanile Malagrotta, fontanile con corte Malagrotta.
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1846 consegna del tenimento di Malagrotta, b. 1093: fontanili: bagnatore delle pecore prossimo al ponte nella strada di Maccarese, fontanile di Prato Rotondo detto della Breccia con tre vasche, frontone e arma del monsignor Vaj, fontanile del Roncione con tre vasche grandi e una piccola e frontone con lapide di marmo; ponti: due ponti di muro a occhio nella strada che mette all’incastro maggiore nella valle dell’Albuccio e segnatamente dove passava la vecchia strada Romana (…), ponte di muro a occhio senza parapetto nella valle dell’Albuccio (…), ponte di muro a occhio sopra il fosso maestro (…) in tutto dieci; incastri: incastro maggiore situato nel ponte sopra il fosso detto Galera ove passava la strada Romana, qual ponte è composto con due archi (…), incastro scaricatore alla sinistra della strada Romana (…), in tutto undici.
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sec.XIX Pianta del fontanile da farsi tenuta Muratella, b. 1480, carta sciolta: il fontanile è reperibile sulla tavoletta IGM proprio sul confine tra le tenute di Castel di Guido e Castel Malnome.
4.b. Castel di Guido, Bottaccia e Maccarese – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1467, casale di Castel di Guido: fontanili presso il casale. –
sec. XVIII Ponte della Mola di Maccarese, Dis. Piante I 6 234: Profilo della livellazione della caduta dell’Arrone dallo sbocco del fosso della Polledrara al ponte della Mola di Maccarese.
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1779 Descrizione di Castel di Guido, b. 1091, cc. 87rv: fontanili: sotto il casale, detto della Paola, sotto il casale Ceccanibbio, detto della Valle dei Ladri, sotto la Casetta della Vigna, Polledrara, nei Larghi di Maccarese, Ficurella, Prato Madonna, Prato Rotondo ossia delle Grotte, Roncione, Porcaro, sotto la Chiesa a tre vasche, Malagrotta nella strada Romana; ponti a occhio: sul fosso della strada di Maccarese, Prato Rotondo, Longarina, sul fosso della Vipera, Polledrara, Valle delle Vipere.
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1793 Pianta delle tre strade nella tenuta di Maccarese, b. 1093, Beni rustici di Maccarese: ponti e fossi nelle tenute di Maccarese, Castel di Guido e Palidoro.
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sec. XIX Ponte della via Aurelia sull’Arrone, Dis. Piante I 108 254.
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1820c Catasto Gregoriano: ponte fosso Bottaccia (2), ponte Arrone
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1852 Ponte sul fosso della Bottaccia, Dis. Piante I 108 259: progetto di ricostruzione con profilo, pianta e sezioni: il disegno riproduce i vecchi tracciati sinuosi del fosso e della via Aurelia, che saranno rettificati in occasione del rifacimento.
4.c. Palidoro – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1480, casale di Palidoro: fontanile nel quarto Polledrara; mola nel quarto Mentuccia. –
1729 Disegno a penna dell’ultimo tratto del fosso dei Tre Denari, b. 1093, carte sciolte sulla questione del confine PalidoroMaccarese: Ponte dei Tre Denari sulla strada di Civitavecchia, Ponte sul fosso di S. Angelo (fosso di Palidoro), Ponte di S. Carlo sullo stesso fosso, Ponte delle Tavole oggi di pietra (ponte di Passo Scuro).
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1809 Pianta delli terreni che presentemente si adacquano, b. 1480, carte sciolte n.4: legenda con Indice degli incastri, forme e ponti per eseguire l’adacquamento: particolarmente interessante il ponte S. Carlo.
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1820c Catasto Gregoriano: ponte dei Tre Denari, ponte fosso delle Cascate, ponte di Statua, fosso del ponte a Monteroni, ponte fosso Sanguinara; fontanile Palidoro, fontanile presso cimitero Palidoro
4.d. S. Severa – 1655-1660 Piante Registro S. Spirito, b. 1481, casale di S. Severa: fontanile rotto nel quarto Monte Rosso al confine tra area boscosa e area lavorativa (cfr. tavoletta IGM); molaccia sul confine settentrionale del quarto Pozzo di Ferro; altro fontanile rotto al limite dell’area boscosa del quarto Pozzo di Ferro (cfr. tavoletta IGM); fontanile presso la via Aurelia nel quarto Torricella (cfr. tavoletta IGM senza denominazione). –
1740 Pianta di tutti li fossi, b. 1481, carte sciolte n. 1: fontanile vicino alla via Aurelia (esistente sulla tavoletta IGM senza toponimo) e quattro ponti nell’area intorno la torretta di Macchiatonda, irriconoscibili sulla carta IGM.
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1835 Ponte sul torrente Rio Fiume con lungo testo descrittivo, Dis. Piante I 108 256.
4.e. S. Marinella – 1634 Misura e pianta, b. 1481, carte sciolte n. 1: fontanili lungo i fossi di confine. –
1751 Inventario degli edifici ed altro esistente nella tenuta, b. 53, c. 117r ss.: fontanile detto delle Vignacce (fontanile sulla tavoletta IGM), fontanile in faccia a Campo Rosso (fontanile di Campo Rosso), fontanile delle Case, fontanile in faccia alle guardiole, fontanile alla strada Romana.
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Paesaggio e viabilità nel Piano dei Bagni di Viterbo tra Medioevo e prima Età moderna* Silvia Dionisi-Anna Esposito
«Anno Domini 1350. Fu l’anno del Giubileo et rimasero ad Viterbo assai denari de quelli che andavano ad Roma»1.
Viterbo e la campagna ad ovest della città, punto di passaggio obbligato tra il Nord e Roma, possono essere considerate un buon osservatorio per tracciare una panoramica di un tratto della via consolare Cassia, una tra le strade giubilari di massima frequentazione nel corso dei secoli2. Già nel dettagliato itinerario di Sigerico del X secolo3, così come in quello dell’abate islandese Nikulas di Munkathvera (anno 1154) 4 e negli Annales Stadenses della metà del XIII secolo5, Viterbo e i suoi dintorni risultavano tra i luoghi privilegiati per la sosta del pellegrino; si garantivano buona ospitalità, bellezze paesaggistiche e ricchezza di luoghi sacri6. Una notizia meno conosciuta, risalente all’anno 1320, conferma che il percorso nel XIV secolo era rimasto invariato: «cum autem in Italiam peregrinus venisset ad visitanda loca sacra, Aquapendentem, Vusenam, Biterbum, civitatem Romae, et alia plura loca»7. Nel corso di questo breve contributo tenteremo di leggere le modifiche avvenute nel territorio viterbese soprattutto nelle aree attraversate dalla via Cassia, non dimenticando che l’importanza del percorso riuscì a far sopravvivere l’antica strada consolare, pur adattata alle nuove esigenze. La ricostruzione delle trasformazioni ambientali di questo territorio – segnato dalla presenza delle sorgenti sulfuree del Piano dei Bagni8 – e le eventuali persistenze naturalistico-architettoniche rendono necessaria una
rilettura e una puntualizzazione delle fonti documentarie già note, di quelle cartografiche oltre ad una più approfondita ricerca nei fondi archivistici locali9. L’obiettivo è quello di analizzarne l’aspetto quando era ancora in uso il tracciato dell’antica via Cassia, che fu affiancata col tempo da una serie di diverticoli, atti a favorire la circolazione all’interno degli ampi coltivi, ancora rintracciabili nel tessuto rurale10. Grazie alle registrazioni delle disposizioni del comune viterbese e attraverso la viva voce dei cronisti del tempo, si può constatare l’alternarsi di periodi di abbandono ed altri di valorizzazione della zona termale; dopo un periodo di declino iniziato in epoca tardo antica, la zona, pur mai del tutto abbandonata, ebbe una rinascita tra il XIII e il XV secolo, ospitando pellegrini e malati bisognosi di ristoro e rispondendo alle esigenze espresse da papi e re, visitatori incuriositi dalla singolarità e dalla salubrità delle acque sulfuree. L’utilizzazione della cartografia permette di visualizzare l’assetto del territorio così come si è delineato dal Seicento fino ai nostri giorni, rendendo più agevole una ricostruzione spazio-temporale delle contrade termali. Le fonti Poche sono le testimonianze relative alla zona termale dei secoli alto medievali, inserite per lo più tra i regesti dell’Abbazia di Farfa11 e nel Chronicon farfense di Gregorio da Catino12. La zona doveva aver subito una forte ruralizzazione a seguito dell’abbandono sia dell’abitato più antico, preesistente alla città di Viterbo, sia dei fiorenti impianti ter-
mali dell’età romana. Unico centro vivo per pietà devozionale doveva essere la tomba dei santi Valentino e Ilario, nelle cui vicinanze era sorto un piccolo borgo, fiancheggiato dal basolato della via Cassia, sottoposto ben presto alla giurisdizione della chiesa di S. Maria di Farfa13. Nel corso del Duecento la chiesa cattedrale di Viterbo divenne proprietaria di gran parte dei terreni e degli edifici della zona e si occupò della regolamentazione dell’attività agricola, della gestione dei mulini e delle strutture di accoglienza (ospedali ed edifici termali). Ne danno notizia alcune pergamene conservate presso l’Archivio capitolare. Parallelamente nel XIII secolo si assiste anche all’acquisizione, da parte delle istituzioni laiche cittadine, di terreni, di strutture abitative e di piscine termali. Questo fenomeno trova riscontro in un incremento di notizie relative alla zona dei Bagni viterbesi, con accenni al suo sfruttamento come centro agricolo e terapeutico, derivato dal rinnovato interesse dell’amministrazione comunale per la campagna immediatamente esterna alle mura urbane e su tutti gli spazi pubblici su cui il comune intendeva affermare la propria autorità14. Lo statuto cittadino del 12515215, che riprende in parte la normativa del 1237-38, attesta la rinascita delle contrade termali; si sofferma, in particolare, sulle modalità di sfruttamento delle sorgenti sulfuree, gestite da appaltatori privati, utilizzate per fini terapeutici, ma testimonia anche che alcune piscine erano utilizzate per l’irrigazione dei coltivi16. Dalle deliberazioni dell’amministrazione comunale viterbese, conservate a partire dall’inizio del XV secolo, si trova conferma della vivacità della zona,
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cui dà ulteriore prova il corpus statutario del 146917. Si delinea, pertanto, il quadro di una rinnovata vitalità lungo tutto il Piano dei Bagni, che appare risollevato e sanato grazie ai numerosi insediamenti: non fiorirono soltanto nuovi impianti termali, dotati di buone strutture per la ricettività di viterbesi e forestieri, ma si progettarono restauri degli edifici già esistenti; le autorità locali elaborarono, inoltre, una politica di controllo e di regolamentazione delle abbondanti acque, che permisero lo sviluppo di una fiorente economia agricola. Tra Duecento e Trecento comincia ad apparire anche documentazione di carattere narrativo e cronachistico: Lanzillotto e Niccolò Della Tuccia18, in particolare, narrano leggende, aneddoti ed elaborano ricostruzioni storiche che sottolineano l’importanza raggiunta in epoca medioevale dalla zona delle terme; sono testimoni diretti delle frequenti visite che principi, re, imperatori e papi effettuarono in queste contrade nel corso dei secoli19. Nello stesso periodo si assiste al personale interesse dei pontefici per la rinascita delle terme viterbesi; si avvia una nuova fase di ristrutturazione e di abbellimento degli impianti. I biografi pontifici20, i medici di corte21, elogiano le virtù terapeutiche delle acque termali, giustificando così gli onerosi interventi edilizi che gravarono fortemente sulle casse della Camera Apostolica. Infine bisogna ricordare i protocolli notarili, conservati nell’Archivio di Stato di Viterbo dalla metà del XV secolo, che forniscono notizie sui proprietari, sui contratti di locazione e di vendita e in generale sulle condizioni materiali delle terme medievali. Tra tardo antico e primo medioevo Il paesaggio Nel delineare un quadro diacronico della vita delle terme è im-
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portante soffermarsi sull’aspetto naturalistico della Tuscia viterbese, sulla viabilità e sulle emergenze architettoniche – tuttora visibili o fissate nella memoria storica tramite la documentazione a nostra disposizione – tutti elementi che incidono fortemente nella caratterizzazione del paesaggio22. L’area attraversata dalla via Cassia – Francigena presenta un ricco patrimonio idrico, che prende la forma di paludi e di fenomeni di natura vulcanica. In prossimità delle pendici dei monti Cimini abbondano le fuoriuscite di acque sorgive, che danno luogo ai «fossi», fitto reticolo di torrenti, facili da utilizzare per l’irrigazione dei campi23. La tradizione vuole che a poca distanza dalla via consolare Cassia, nelle immediate vicinanze della sorgente del Bullicame, sorgesse isolato il centro romano di Surrena o Surrina24, ameno per il clima e per i boschi, circondato da una pianura di colore biancastro per i depositi lasciati dalle numerose polle di acqua sulfurea. Poco più a nord, tra la pianura monotona di pallida vegetazione, si ergevano in epoca romana degli splendidi edifici termali – le cui acque erano già note per le virtù terapeutiche – di cui ancora oggi rimangono isolati ruderi, a ricordo di un’antica grandezza. La strada consolare attraversava questa pianura scavalcando, da Sud a Nord, i ruscelli di acqua sulfurea della Valle del Cajo. L’invasione dei Goti del VI secolo provocò la devastazione di questo antico centro urbano e degli edifici termali circostanti, dando avvio ad una progressiva ruralizzazione dell’area e al conseguente decadimento di una delle arterie stradali più importanti della penisola. In epoca tardo antica il sito, precedentemente occupato dalle terme sudoccidentali, fu occupato dal borgo di S. Valentino, meta di pellegrinaggi, rimasto in vita fino all’XI secolo, quando la valle fu messa a coltura. La documentazione farfense,
dell’VIII e inizio IX secolo, rivela l’esistenza dell’antico centro di Surrena «presso al Bullicame di Viterbo»25, rimasto nel toponimo «Cazalis Surrinae o Surrine» localizzato sul colle del Riello; ma nel corso del IX secolo l’area doveva essere già trasformata in zona agricola26. La campagna viterbese in quell’area doveva apparire allora disseminata da orti e da una fitta rete di corsi d’acqua di modeste dimensioni, detti comunemente fossi27, tra cui i più notevoli erano il torrente Urcionio, volgarmente detto «Caldano» per il calore delle acque del Bullicame che vi confluivano28, e il fosso Freddano. Le fonti documentarie altomedievali tacciono a proposito di terme; solo un documento del IX secolo fa menzione di una località detta Aqua bibula, con probabile riferimento alle abbondanti acque del Piano dei Bagni29. La viabilità30 E’ interessante a questo punto seguire il percorso della via consolare Cassia che, oltrepassati gli immediati dintorni di Roma e superata la valle di Baccano31, si dirigeva verso il territorio dell’entroterra viterbese. La zona, segnata da dolci colline, si distingue per le formazioni tufacee che emergono durante il percorso e per le «tagliate», realizzate già in epoca etrusca per aprire le principali vie di comunicazione32. Con la fine dell’Impero romano la strada visse un periodo di decadenza: le carreggiate erano invase dalla vegetazione e danneggiate dagli agenti atmosferici. Il basolato necessitava di continui lavori di manutenzione, ma l’instabilità politica e la mentalità del tempo impedivano l’eleborazione di progetti di riattamento viario e di tutela ambientale33. Il tracciato medievale dovette sovrapporsi comunque a quello romano, che pur viveva questa fase di lento declino; di conseguenza l’abbandono della via Cassia favorì lo sviluppo della viabilità lungo la via Flaminia34.
PAESAGGIO E VIABILITÀ NEL PIANO DEI BAGNI DI VITERBO TRA MEDIOEVO E PRIMA ETÀ
Fig. 54. Stralcio carta IGM 137 – III – SO (Castel d’Asso) relativo alla zona a Sud-Ovest di Viterbo
Dall’VIII secolo la Cassia riconquistò un ruolo importante dal punto di vista strategico-militare: la necessità dei re franchi di mantenere un collegamento funzionante con Roma rese fondamentale il recupero di questa arteria, che assunse di nuovo l’aspetto di una grande via di comunicazione35. Abbiamo già menzionato gli Itinerari altomedievali36, che nell’Alto Lazio proponevano di percorrere il tracciato dell’antica via consolare, passando per Sutri, proseguendo fino a Forum Cassii, nei pressi di Vetralla, in direzione di Viterbo. Attraversando le campagne, talvolta paludose, la strada raggiungeva il territorio viterbese e tagliava da sud a nord il Piano dei Bagni37, passando sul ponte di Risieri38, sul ponte S.
Nicolao, noto come «Pons quinquagesimus»39, fino ad arrivare al ponte Camillario, in piena zona termale, nella Valle del Cajo40. Nel toponimo San Valentino in Silice, borgo ubicato tra il ponte S. Nicolao e il ponte Camillario, si ravvisa la vicinanza del tracciato della via consolare; il termine in silice era infatti riferito al basolato della strada romana41. Affiancata da entrambi i lati dagli antichi edifici termali, che si alternavano a coltivazioni di lino e canapa, la Cassia superava Viterbo, lasciandosi sulla sinistra i ruderi delle terme del Bagnaccio, corrispondente alla mansio romana detta «Aquae Passeris»; proseguiva poi in direzione di Montefiascone, scavalcando il fosso della Sanguinara sul ponte di S. Maria de rivo Sanguinaro42.
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Questo asse stradale dovette essere piuttosto transitato in piena epoca medievale, non solo come percorso principale per i pellegrini ma anche per i collegamenti con l’entroterra viterbese e con i vicini centri di Toscanella e Corneto (le odierne Tuscania e Tarquinia), rispondendo così alle esigenze di comunicazione tra comuni confinanti e facilitando le relazioni politico-economiche. Il tracciato della Cassia, la strata veteris43 – chiamata così nel XIV secolo, con evidente riferimento alla sopravvivenza del più antico asse stradale –, all’altezza del Piano dei Bagni era comunemente chiamato via publica44, perché sottoposto al controllo della comunità cittadina; altre volte era nominato via regalis, perché percorso da personaggi illustri45, ovvero strata Beati Petri46, perché conduceva a Roma, capitale della cristianità. Accanto a questo asse si diramavano una serie di diverticoli secondari che penetravano nel territorio. Come in altre regioni della penisola, la viabilità della zona durante il medioevo aveva perduto la regolarità del periodo romano. Dall’antica strada consolare si erano originate delle varianti per far fronte alle esigenze degli abitanti, dediti soprattutto all’agricoltura, e per facilitare la circolazione delle merci destinate ai mercati locali. L’andamento dei più recenti tracciati viari, che dovevano avere tutto l’aspetto di viottoli di campagna, doveva apparire, tuttavia, poco lineare. D’altra parte ogni amministrazione locale si preoccupava soltanto della cura di quella porzione di territorio immediatamente adiacente alla zona abitata – «infra civitatem et iuxta vineas» – affidando l’onere finanziario ai proprietari frontisti47; al contrario, i tragitti extraurbani, percorsi per gli scambi commerciali o transitati da contingenti armati, erano lasciati al dominio della natura. Anche se alcune tappe dell’antica via consolare erano rimaste immutate nel corso dei secoli e se alcu-
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ne zone erano cadute in disuso, si distinsero tuttavia nuovi punti di passaggio obbligato. Il paesaggio medievale risultò caratterizzato dalla presenza di osterie, di locande e di alberghi di piccole dimensioni, ove il viandante, il mercante e il pellegrino potevano rifocillarsi, foraggiare i cavalli e sostare per breve tempo. Presso i principali centri di confluenza si potevano trovare anche delle strutture più organizzate, gli hospitalia, ospizi che davano ospitalità a coloro che si muovevano in direzione di Roma48. Già nei secoli altomedievali cominciarono a fiorire i primi insediamenti dotati di queste strutture di accoglienza, privilegiando i nuclei di interesse devozionale e il Piano dei Bagni di Viterbo, ove si affiancarono agli edifici termali rinnovati e ristrutturati, per garantire ospitalità ai malati e ai più deboli. Gli ospedali La presenza di alcuni ospedali nella zona è testimoniata da alcuni documenti della metà del Duecento49 ma è probabile che già in epoca precedente fossero sorti numerosi centri di ricovero nelle vicinanze dei luoghi di culto più noti. Nel XIII secolo esisteva un ospedale detto di Foricasso, sito poco più a nord di Vetralla, presso la più antica pieve di S. Maria di Forcassi50. Probabilmente l’ospedale era nato come appendice della pieve, che verosimilmente fino a quel momento aveva funzionato come luogo di accoglienza per i viaggiatori51. Più a nord, all’altezza del ponte Camillario, prese vita il Borgo di S. Valentino, nato per garantire ospitalità ai numerosi pellegrini che facevano visita alle tombe dei martiri Valentino e Ilario. Per l’edificazione degli edifici e della chiesa annessa erano stati reimpiegati materiali prelevati dalle antiche strutture delle terme romane52. Ed è in prossimità di questo centro che sorgeva l’ospedale di S. Maria in Silice, adiacente alla via Cassia, voluto nel XIII seco-
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lo come struttura organizzata dipendente dalla chiesa omonima, eretta presso il diruto Borgo di S. Valentino. Le memorie dei martiri erano ovunque meta di pellegrinaggi sin dall’età tardo antica, tuttavia le fonti in nostro possesso per l’area viterbese sono disponibili a partire soltanto dall’VIII secolo. Era stato stipulato presso S.Valentino in Silice un atto del 788, con cui Gairone offriva di prestare servizio nelle terre appartenute alla chiesa di S. Maria di Farfa53. Il centro dovette costituire un polo attrattivo per la comunità locale: nell’anno 802 i fratelli Gualfredo, Agiperto e Pertone vendettero al preposto di S. Valentino alcuni beni posti nel territorio di Viterbo54. E’ probabile che intorno al monastero cominciassero a sorgere una serie di casolari di campagna, immersi nei coltivi e nei vigneti; un documento dell’824 menziona infatti un casale Camilliano, ove si trovavano alcuni campi e alcune vigne che Gumpolo, figlio di Gundo, donò al monastero di Farfa55. Non si deve escludere che con il termine casale si possa identificare una sorta di borgo agricolo, che aveva preso nome dal pons Camillarius o Camillianus sulla via Cassia56, nato proprio di fronte a S. Valentino in Silice. Si può anche ipotizzare che le due località facessero parte di un unico insediamento. Tra gli anni 824 e 830 cominciò il declino di S. Valentino. L’abate Sicardo, preposto dell’abbazia di Farfa, avendo fatto edificare un oratorio dedicato al Salvatore, accanto alla chiesa sabina di S. Maria, vi trasferì i corpi dei martiri Valentino e Ilario, su concessione di papa Gregorio IV57. Malgrado ciò, nel 96758 e negli anni a seguire la chiesa e il monastero di S. Valentino furono sempre riconfermati al monastero farfense59; ma intorno al 1120 la chiesa fu distrutta e non più di un decennio dopo la stessa sorte toccò al borgo (1137), che non fu mai ricostruito60. Il complesso aveva perso la capacità attrattiva di un tempo. Una
bolla di Innocenzo II testimonia invece che nel novembre 1139 la chiesa era stata ricostruita dall’arciprete Azone e ceduta, col nome di S. Maria in Silice, alla Chiesa cattedrale di Viterbo61. E’ sulla scia di questi interventi che si crearono le condizioni per l’edificazione dell’ospedale per i pellegrini, menzionato per la prima volta nel 1264 come hospitalis S. Marie in Silice62. Si ha notizia che almeno fino al primo ventennio del XIV secolo la struttura forniva servizio di accoglienza per i poveri «et alios venientium ad ecclesiam et ad dictum hospitalem», grazie all’atto di donazione di Nuccio di Salimbene che aveva offerto i suoi beni alla chiesa di S.Maria in Silice e all’ospedale ipsius ecclesie (1320)63. Nella periferia di Viterbo, presso la contrada di Faulle, o poco al di fuori della porta sorgevano due strutture ospedaliere dipendenti rispettivamente dalle chiese di S. Stefano e S. Lorenzo64. Purtroppo non sono noti altri dettagli. Oltre il Piano dei Bagni si trovava un’altra struttura ospedaliera, annessa alla chiesa di S. Maria Sanguinara, sulla strada per Montefiascone. Pinzi la identifica con l’ospedale dell’Amalazia lungo la via Cassia, menzionato in testamento della seconda metà del XIII secolo, insieme all’ospedale di Forcassi65. La presenza di una chiesa66 e di un ospedale Sancte Marie de rivo Sanguinario è inoltre documentata in un documento datato al 1282, in località Poggio Bontalenti67. Il Ceccotti afferma che queste strutture ospedaliere, prossime alle terme, ospitavano i malati affetti da malattie cutanee che potevano curarsi facendo abluzioni nelle acque termali e con l’applicazione di fanghi68. Secoli XIII-XIV: il Comune organizza il recupero delle contrade termali Alla metà del XIII secolo il regime comunale viterbese è ampia-
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mente consolidato. Lo statuto del 1251-52 aveva codificato le consuetudini locali, fornendo, tra l’altro, precise disposizioni sulla zona termale, che doveva rivestire importanza vitale per l’economia della collettività cittadina. Gli amministratori viterbesi mostrano, anche nella normativa statutaria, molta attenzione allo sviluppo dell’agricoltura e infatti tra le rubriche spicca l’importanza attribuita alla coltivazione ed alla lavorazione di canapa e lino, settori trainanti dell’economia locale: nei terreni extraurbani si provvedeva a far crescere la materia prima, poi si passava direttamente alla macerazione delle fibre all’interno delle piscine termali, in quantità tale da permetterne l’esportazione. A custodia del Piano dei Bagni si doveva nominare un giudice – «unum bonum et legalem hominem, peditem» – e un notaio. A loro spettava istruire le cause «de furtiis, et percussionibus et aliis», tranne le cause di omicidio e ferimento, deferite alla curia podestarile. La loro presenza era altresì necessaria per verificare il regolare adempimento delle convenzioni stipulate tra i proprietari dei coltivi di lino e canapa e gli addetti alla battitura69 – «conventio facta inter dominos, vel dominas lini et canapis et incilgnatores» –70. Non appena il dominus lini vel canapis portava le materie prime alla macerazione presso le piscine termali, dava ai piscinarii piena responsabilità della buona riuscita del prodotto71; il custode delle vasche, in caso di insuccesso, doveva risarcire la perdita. Il comune stabiliva inoltre rigide regole di comportamento per produttori, venditori e acquirenti72. La lavorazione del lino e della canapa avveniva in aperta campagna73. Si erano fatte deviare le acque del Bullicame nelle piscine del Ionketo (giuncheto) comunale, in piena zona termale; la stessa sorte toccò all’aqua Rianensis, convogliata oltre il Bullicame e passante per Ionketum plani74. Nel 1278, volendo favorire
la presenza della curia papale a Viterbo, le autorità cittadine, per garantire una maggiore salubrità dell’aria, stabilirono di allontanare le strutture per la macerazione del lino dalle immediate vicinanze del centro urbano e deliberarono di concentrare tutte le piscine in un luogo più remoto, nello Iunketum comunale75. Le piscine erano considerate spazio pubblico: si doveva impedire che qualche privato le occupasse senza che il comune le avesse cedute in appalto76. L’organizzazione delle attività spettava ai sindaci del comune, responsabili di garantire l’efficienza delle strutture in vista della crescita economica della città e del territorio «taliter quod ex ipsis comunitas possit habere utilitatem». Ai sindaci spettava anche il controllo della vendita del lino de valle Riolli77. Un’adeguata gestione del pubblico era prova, d’altra parte, della solidità raggiunta dal regime comunale. L’intero paesaggio era caratterizzato anche dal gran numero di mulini, posti sia all’interno che all’esterno della città, lungo i corsi d’acqua. Uno dei problemi più frequenti, a tal proposito, era legato al convogliamento delle acque. Le condutture intramuranee erano curate a spese dei proprietari habentes domos circa viam78 e si doveva suddividere equamente la portata79 sulla base delle esigenze della popolazione ed evitare che lo straripamento dei fossi danneggiasse le coltivazioni80. Erano frequenti anche dei conflitti tra leghe di mulini81 e impianti termali. A questa epoca risaliva infatti la riscoperta del valore terapeutico delle sorgenti termali ed il buon funzionamento delle terme era considerato settore cui destinare maggiori investimenti. Nel 1268, ad esempio, il comune di Viterbo sancì la distruzione della lega della chiesa di S. Lorenzo, che andava a danneggiare il Bagno della Grotta82, offrendo al clero di spostarsi presso il ponte S. Valentino83. Negli anni seguenti si delinearono i confini delle aree da sfruttare,
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distinguendo quelle destinate all’attività termale da quelle per l’impianto di mulini, agli spazi per le coltivazioni e per la macerazione di canapa e lino. Così presso la domus Balnei si allestirono gli spazi per la tutela della salute, mentre sulla collina del Bullicame si confinarono le piscine ad macerandum; i corsi d’acqua della contrada del Caio e del Piano dei Bagni si riservarono ai mulini, mentre i terreni vicini alle mura cittadine erano invece occupati da orti; infine, la zona adiacente al ponte S. Nicolao, più collinare, era destinata ai vigneti, appartenenti alle istituzioni religiose84. La presenza di canneti, spesso menzionati nelle fonti documentarie e segnalati ancora dalle mappe catastali del XIX secolo, prova l’incapacità dell’amministrazione di sfruttare al massimo le potenzialità naturali di quei terreni85. Dall’inizio del XIII secolo la città aveva dato impulso al restauro delle vecchie strutture romane e alla sistemazione di nuovi bagni, a seguito del fortuito rinvenimento delle cosiddette «acque della crociata», di cui diedero vivace notizia i cronisti del tempo (1217)86. Lo statuto vietava di restaurare in modo indiscriminato i bagni della zona87 ma imponeva ai proprietari terrieri di mantenere le strutture e di curare l’assetto stradale88. All’interno, appositi guardiani erano garanti della pulizia delle piscine e delle strutture annesse ma si occupavano soprattutto dell’imposizione delle cuppae (coppelle) per salassare i malati. Per la terapia si richiedeva un contributo di un denaro89, mentre il semplice accesso alle terme era gratuito; anzi, veniva multato qualunque balnearolus vel balnearola avesse tentato di speculare sugli utenti90. Un documento conservato presso l’archivio capitolare ricorda il contratto di locazione – rogato nel 1256 – delle terme più famose della zona il balneum crucesignatorum. Tra i proprietari comparivano il nobilis vir Monaldo di Pietro Fortisguerra, al-
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Fig. 55. Vasche naturali di acqua sulfurea nella zona termale di Viterbo
lora capitano del popolo, e Giovanni Rosso e tra i locatari un esponente della famiglia Gatti, anch’essa ai vertici dell’amministrazione cittadina. La gestione delle terme comportava l’assolvimento dei principali servizi a scopo terapeutico: il responsabile infatti, «debeat eos et eorum familias, radere, sanguinare et (…) ponere cuppas et alia servitia (…) facere in balneo»91. L’afflusso nelle contrade termali era costante ed interessava viterbesi e forestieri – «peregrinus, vel hospes, seu mercator forensis» –92 Alcune rubriche dello statuto duecentesco pongono l’accento sulla necessità di garantire ospitalità ai pellegrini. Ogni cittadino viterbese poteva mettere a disposizione la propria abitazione, offrendo protezione ai beni che il viator lasciava loro in custodia93. Alcuni ufficiali comunali si preoccupavano della sicurezza dei frequentatori degli impianti; la zona
termale era frequentata, difatti, anche da malviventi, da ladri94, homicidi, vel exbanditi ed il comune si impegnava a difendere l’incolumità dei visitatori95. Dalla seconda metà del Duecento il comune aveva intensificato gli acquisti di «domos, balneos, ortos, casalena, alveos, cursus aquarum, et domuncolas positas in plano balneorum»96. Nel giugno 1254 Ugo, capitano del popolo di Viterbo, ricevette a nome del comune alcune proprietà «scilicet Ionkleti, aque Rielli», alcuni appezzamenti di terreno, polle d’acqua ed edifici fortificati97, in prossimità del Bullicame98. Altre proprietà «iuxta viam publicam et iuxta Bullicamen», furono accorpate nel 1293, perché il comune ne facesse libero utilizzo99. Visconte Gatti, ex capitano del popolo viterbese, cedette al comune «omnia iura, omnesque actiones, condiciones, rationes» di cui era ti-
tolare per i suoi beni della Valle del Cajo. L’anno seguente l’amministrazione acquistò da privati alcune piscine – con i relativi tennitoria destinati all’asciugatura degli steli- e acquedotti nel Piano dei Bagni e presso il Bullicame100. Ancora nei secoli XIV e XV è testimoniata la proprietà di terreni siti in contrata Planumbalnei di proprietà del comune101. Anche le istituzioni ecclesiastiche si impegnarono nella riconquista della zona e soprattutto la chiesa di S. Lorenzo consolidò gran parte dei suoi possedimenti; nel 1275 gli eredi di Giovanni Rosso, che almeno venti anni prima aveva affittato il Bagno dei Crociati alla famiglia Gatti, cedettero ora la terza parte dello stesso impianto a Jacopo, canonico della Chiesa medesima102. Solo cinque anni più tardi Raniero di Giovanni di Rosso vendette ad un altro arcipresbitero una piccola
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Fig. 56. Particolare della zona termale del Bullicame. L’area in azzurro indicata con la lettera “F” è la “sorgente di acqua sulfurea detta il Bullicame”, detenuta dalla comunità di Viterbo. Le particelle circostanti erano in gran parte occupate da “macere di canapa”. Di proprietà dell’arte degli ortolani di Viterbo, si alternano a canneti e prati (ASR, Presidenza generale del Censo, Catasto Gregoriano, Delegazione di Viterbo, mappa 173 “Bollicame”)
parte di un mulino, sito presso il Bagno della Grotta «cum omnibus utilitatibus acvei et aque currentis»103 Per il Trecento si assiste ad un incremento di questa tipologia di contratti: la chiesa di S.Lorenzo, ad esempio, risulta possedere mulini in contrata Cruciatorum seu S. Valentini104 e appezzamenti di terreno in contrata Caii105. Gli atti che abbiamo menzionato evidenziano un paesaggio di una certa singolarità, «in cui balnea, piscinae ed orti si affiancano entro una fitta trama di fossati, sorgenti, viottoli e ponticelli. Si ha frequente riferimento anche ad edifici (domus) i quali dovevano essere utilizzati sia in connessione con le attività che si svolgevano nel Piano dei Bagni, sia in certi periodi dell’anno, come alloggio per quanti avevano necessità di pernottare (piscinarii, lavoratori
della canapa e del lino, gestori dei bagni, etc.). È attestata anche l’esistenza di una torre, acquistata dal comune nel 1293 e per la quale si ha notizia di un progetto di restauro quattrocentesco»106. La rinascita del Piano dei Bagni. La testimonianza dei cronisti Tutti i cronisti viterbesi dedicano ampio spazio alla descrizione delle sorgenti solfuree nelle loro campagne e la loro testimonianza risulta particolarmente viva e dettagliata, anche se per il periodo più antico è frutto di tradizioni indirette. Un avvenimento particolare, che si colora di toni epici, segnò la riscoperta delle terme del Piano dei Bagni. Riferisce il cronista quattrocentesco Niccolò Della Tuccia: 107
Nell’anno 1217 «fu trovata l’acqua del Bagno della Crociata, che era stata privata108 più di mille anni, e la ritrovò un viterbese che voleva andare in Gerusalemme, e cui pareva per sogno trovare un gran tesoro in quel loco. Vi andorno con le processioni di preti e frati, e ritrovorno quell’acqua così virtuosa e gli posero nome l’Acqua della Cruciata. Alcuni vogliono dire che si chiama l’Acqua dé Cruciati, cioè infermi». Il cronista Iuzzo di Viterbo109, fornisce ulteriori particolari, perché specifica che il luogo dove il bono omo avrebbe dovuto cercare il «tesoro», era presso il Bagno della Grotta e lì «trovarono l’acqua calda assai virtuosa, alla quale posero nome Acqua della Crociata, e ora si chiama il Bagno del Papa: ché lo rifece Niccola»110. A partire dai primi decenni del XIII secolo quindi l’amena Valle del
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Fig. 57. La sorgente del Bullicame come appare oggi
Cajo risvegliò gli interessi della comunità locale e vide il fiorire di una serie di impianti termali semplici e all’inizio poco accoglienti; questo primo nucleo delle terme medievali, comprendente il Bagno della Grotta e quello dei Crociati, prese il nome di Domus Balnei111. Un atto di locazione del 1256 ne definisce i confini. Il balneum crucesignatorum era ubicato «…iuxta balneum Crypte, iuxta fossatum (…) et aquam ipsius balnei»112. Secondo l’Orioli113 invece, nei dintorni del Bullicame, si potevano vedere soltanto delle domuncula114, semplici capanne, o meglio delle tettoie coperte di frasche, utili per ripararsi dal sole nella bella stagione e utilizzate dalle meretrici, abituali frequentatrici di queste sorgenti115. La fama delle terme arrivò in quegli anni fino alla Roma dei papi. Si narra infatti che Gregorio IX vi avesse fatto visita più volte, durante le sue permanenze a Viterbo; secondo Matteo Paris il pontefice, nel
1241, non essendo riuscito a recarsi ai Bagni viterbesi per curarsi, morì116. Nel 1243 «all’8 di ottobre giunse l’imperatore con grande esercito, e alloggiò nel Piano dé Bagni»; così Della Tuccia riferiva a proposito dell’arrivo di Federico II a Viterbo, costretta all’assedio. Nel 1320 fu la volta del vicario del rettore del Patrimonio, Bernardo di Coucy; tra le spese registrate nel suo libro di conti, risulta anche un pagamento fatto ad un ospite viterbese: «Cino hospitatori de Viterbio (…) dixit pro ipso domino expendisse in cibo et potu et aliis necessariis cum dictus dominus ivit ad balnea Viterbii»117. Le acque calde del Bullicame, situato su un’altura ad oriente del Piano dei Bagni, scendevano a valle, alimentando le sorgenti solfuree, che rifornivano le terme, e i molti canali della pianura, utilizzati dai coltivatori per l’irrigazione delle «piantagioni di diverso genere»118. È noto come queste acque fumanti abbiano però evocato spesso
immagini infernali; tralasciando i più noti versi danteschi, è curioso ricordare il racconto del principale cronista viterbese – Niccolò Della Tuccia – del terremoto e della peste dell’anno 1320, immagine fedele della mentalità del tempo. Nel maggio di quell’anno la popolazione assistette al miracolo della Madonna Santissima della Trinità «che liberò Viterbo dalle mani de’ diavoli, di cui tutta l’aria era piena (…) furno visibilmente veduti tutti demoni buttarsi con urli orrendissimi nel Bullicame»119. Nel Quattrocento si moltiplicarono le presenze di visitatori illustri, incuriositi dalla particolarità del luogo e dalle acque benefiche. Nel febbraio 1404 ai priori di Viterbo giunse notizia che papa Bonifacio IX, affetto da gotta, si apprestava a visitare le terme solfuree di Pozzuoli; rammaricati, lo invitarono a visitare i bagni viterbesi: «cum balnea Viterbii sint illi meliora et magis salutifera». La risposta del Papa fu fa-
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Fig. 58. Piscine artificiali nei pressi del Bullicame
vorevole ma alcuni sconvolgimenti interni al Regno di Napoli annullarono i progetti120. Da una lettera del rettore Correr al comune di Orvieto sappiamo che nel 1408 alcune truppe napoletane, che attraversavano le terre del Patrimonio, «apud balnea viterbiensia castramentate sunt»121 e nel 1419 fu la volta di Braccio da Montone e Tartaglia, che si fermarono «di qua dal Bullicame, ove fu la città di Torrena»122. Nel marzo 1452 anche l’imperatore Federico III, seguendo il consueto percorso proveniente da Nord, «partendosi la matina tardi da Montefiascone con 450 cavalli, andò prima a vedere il Bullicame, e poi entrò (…) in Viterbo»123. La Valle del Cajo doveva ancora avere un aspetto piuttosto desolato e dobbiamo immaginarla ampia e disabitata, visto che era prescelta per l’accampamento di truppe e corti regali. Bisogna arrivare alla metà del XV secolo per assistere all’edificazione del più grande impianto ter-
male del periodo medievale, voluto da papa Niccolò V. Nel 1448 la nobildonna Andreola di Sarzana e sua figlia Caterina, rispettivamente madre e sorella di Niccolò V, si recarono a Viterbo per fare abluzioni nelle famose terme. Rimasero in zona per venti giorni, dimorando in una casa privata sita ante accessum ad balnea124. Questa visita stimolò l’idea di elaborare un progetto di rinnovamento dell’area. Il paesaggio extraurbano cambiò aspetto. La costruzione di uno splendido edificio, interamente finanziato da papa Niccolò e quindi di proprietà pontificia, portò alla distruzione dei fatiscenti edifici medievali e evitò che la zona fosse solo soggiorno per i malati125. L’intervento impegnò grandi architetti e valide maestranze126 e la spesa complessiva, riferisce Della Tuccia, superò i tremila ducati d’oro. Questa imprese colpì i contemporanei: numerosi sono infatti i cronisti, biografi e poeti che ricordano il Bagno del Papa.
L’edificio, simile ad una fortezza, si impostò sui Bagni della Crociata e della Grotta, lungo il corso del «Caldano» ed era dotato di stanze accoglienti e architettonicamente maestose127, come dimostra la descrizione tramandata da Niccolò Della Tuccia: «Era una chiusa di muro novo lungo 35 passi e largo 24, con due torrioni in due canti del fossato del “Caldano” che esce da Viterbo. Sopra era la volta e merlato d’intorno. Sotto detta volta, una sala con quattro camere, innanzi alla quale era una volta quadra e per ogni canto erano ventiquattro passi. Sotto detta volta era il Bagno della Crociata in quattro peschiere, e nel fondo di palazzo erano tre stanze; la prima sotto la saletta dove stava il Bagno della Grotta. Era alto detto palazzo centodiciotto scalini. La volta più bassa era al paro del terreno, e ogni stanza avea il camino, ornata di belle finestre». La costruzione delle Terme del Papa coincise con l’indizione del giu-
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bileo del 1450, che vide un grande afflusso di pellegrini: «era cosa mirabile a vedere il gran concorso de’ popoli, che venivano. Erano le strade da Roma a Firenze piene in modo pareano formiche a vedere tanti quanti popoli v’erano concorsi»128. La popolazione approfittava di quel fermento, lucrando sui pellegrini di passaggio; una bolla di Niccolò V volle colpire i viterbesi che imponevano novas impositiones et gravamina agli ospiti e ordinava di ristabilire la normalità.129 Bisognava comunque ribadire le qualità delle acque viterbesi e la grandezza del palazzo di Niccolò V; il fiorentino Giannozzo Manetti elogiava l’operato del papa che «plura ac diversa habitacula (…) tanta magnificentia, tantisque impensis construxit, ut non solum idonea ac salubria aegrotorum omnium tabernacula, sed cunctorum etiam principum accomodata aedificia, regalesque regiae haberentur»130 Negli anni seguenti ricorrenti dovettero essere gli interventi per mantenere in efficienza gli impianti termali di Niccolò. Nel fondo Diversa cameralia dell’Archivio vaticano sono infatti registrati diversi documenti per assicurare la manutenzione necessaria, non a caso concentrati nell’anno 1474, quindi in previsione del giubileo del 1475. Particolarmente interessante un lettera camerale indirizzata – il 5 dicembre 1474 – al chierico di camera Luca de Lenis con l’incarico di esaminare personalmente lo stato in cui versava il «palatium quod balneis viterbiensibus imminet et ad Cameram Apostolicam spectat» e di segnalare i restauri da fare131 Sulla fine del XV secolo il Bagno del Papa fu ceduto all’Ospedale di S. Spirito di Roma, a sconto di denari prestati. Nell’arco di breve tempo fu acquistato dalla famiglia viterbese degli Spiriti e da questa famiglia lo rivendicò il comune nel 1573132. Nell’agosto 1458 anche il cardinale Enea Silvio Piccolomini, poi papa Pio II, «cum podagre do-
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loribus plus solito vexaretur, indulgente Calisto, ad balnea viterbiensia se contulit»133. La monumentalizzazione del Piano dei Bagni proseguì senza tregua. Il Della Tuccia riferisce che papa Pio II «fu incoronato in Roma con grandissiomo onore li 4 di settembre in domenica 1458» ed era il cardinale Piccolomini che era stato l’estate precedente «alli bagni di Viterbo»134; il Comune viterbese inviò due ambasciatori al cospetto del nuovo papa che «anche domandorno donasse alla città di Viterbo le provisioni pè bagni. Il papa disse volerli acconsentire, e che ci voleva tutti arriccare, e darci pace, dovizia e giustizia. Il papa voleva gran bene a Viterbo». L’anno seguente infatti Pio II «balnea viterbiensia agri non immemor Ethruriae suae reficit»135 Questo nuovo intervento ampliò un’ala del palazzo di NiccolòV136. Nella seconda metà del XV secolo sempre più numerosi esponenti del mondo ecclesiastico decisero di dare il loro contributo al definitivo risanamento della zona termale, ampliandone i confini. Assiduo frequentatore dei Bagni fu il cardinal Bessarione, patriarca di Costantinopoli, e «per sette anni volle sperimentare le acque, fu di là e precisamente nel Bagno del Papa»137. Comunque è all’arcivescovo di Siponto Niccolò Perotti – dal 31 agosto 1464 al 1469 rettore del Patrimonio- che si deve l’intervento più significativo. Così lo ricorda Niccolò Della Tuccia: nel 1466 «messer Nicolò di Sasso Ferrato, arcivescovo Sipontino, rettore del Patrimonio, fe’ fare sopra il Bagno delle Donne della Valle del Cajo certi bagni belli con camere belle, e casamenti d’una casata chiamata la casa de’ Perotti. Anco nel detto anno fu fatta una copertura al Bagno del re Pipino e sopra l’entrata di detto bagno fu posta l’arme del cardinale greco chiamato Niceno»138. Nel marzo di quell’anno ser Nicolò Perotti aveva acquistato un pezzo di terreno, cum muraglis – probabili rovine del precedente im-
pianto termale –, nella contrada del Cajo, confinante da una parte con il Bagno delle Donne, e su due lati con la via pubblica139. Fu grande la riconoscenza dei viterbesi per il Sipontino, che elogiarono per il bel palazzo delle terme, impensa non parva a fundamentis erectis140. Il Bagno delle Donne era situato a monte del Ponte Camillario; era detto anche Bagno Longo e da questo momento Bagno del Sipontino vel balnea Perocta141. Era rifornito dall’acqua della Milza e da quondam alvium Bullicaminis142 e il palazzo era dotato di stanze comode, acqua calda, stuphis et aliis masseritiis143. Da un atto notarile del 1530 sappiamo che il Bagno del Sipontino era stato tenuto a titolo enfiteutico da ser Agostino Almadiani, cantore delle bellezze viterbesi144. In quell’anno restituì al capitolo del Duomo «petium orthi situm in contrata Vallis Caii, nuncupatum El Bagno del Sipontino, iuxta stratam qua itur ad balneum Pape». Con questa notizia si specifica l’ubicazione di questa terma145. Il Bagno del Re Pipino si trovava vicino al fosso Freddano. Entrambi funzionavano dal tardo Duecento146. Da un sondaggio effettuato nei registri della Tesoreria del Patrimonio, contemporanei all’Anno Santo del 1450, risulta che i bagni erano frequentati da comuni forestieri; il tesoriere Filippo de Podio bononiensis annotò tra le entrate straordinarie della tesoreria provinciale, sei ducati detratti «de uno forestiero moritte ali Bagni»147. Purtroppo notizie di questo tipo sono poco frequenti. Fiorivano anche le iniziative dei privati. Nel 1470 «fu incominciato a fare di novo il Bagno dello Stoppio, e fu fondatore di esso e padrone un cittadino chiamato Battista Perone. Il qual Bagno era assai virtuoso a quelli che avevano doglie, e fece fare cannelle per la goccia disseccativa al mal di testa»148. Fu il primo bagno dotato di docce, situato in località «le fornaci», oltre il Freddano149. Nel 1493 il notaio viterbese Paolo Benigni edi-
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ficò un altro ricco edificio termale alimentato dalle acque del Bullicame, sulle rovine di un impianto romano, in contrada Riello150. Le riformanze, lo statuto del secolo XV e i documenti del liber instrumentorum communis: ulteriori informazioni La campagna ad ovest di Viterbo aveva assunto un aspetto più monumentale a seguito dell’edificazione dei nuovi impianti termali. Abbiamo già menzionato la presenza di alcune strutture difensive nelle vicinanze del Bullicame per la metà del XIII secolo. Il Consiglio generale del comune il 26 dicembre 1431 sancì la necessità di riparare «domum et fortellitium communis situm in plano Balnei iuxta Bullicamen»; ai priori si delegava la decisione relativa alle spese per il materiale da costruzione151. La zona doveva essere oggetto di dispute; lo statuto del 1469 riferisce che parte del territorio del Piano dei Bagni era stato usurpato. Si tentava di recuperare terreno e di consolidarne i confini, con la collaborazione degli homines veteres ortulani, direttamente interessati al corretto sfruttamento di quello spazio152. Si dovevano essere verificati dei problemi nell’alimentazione delle terme perché si chiedeva il restauro del Bagno della Grotta, di S. Maria, dell’Asinello e dello Stoppio, riforniti dalle acque calde del Bullicame, ove cominciava ad entrare acqua fredda. Il comune aveva il compito di recuperare le terme, le piscine e i giuncheti per metterli a disposizione di tutti in modo che «quilibet possit commode se balneare»153. Era necessario migliorare ancora la viabilità; bisognava costruire un ponte sul fossato che riforniva il Bagno del Caio, «per quem possit libere pertransiri»154. Nel Quattrocento esisteva una gabella comunale per la gestione del Piano dei Bagni e del Bullicame per la macerazione del lino155. Si appaltava anche la manutenzione delle terme
del Piano dei Bagni e degli edifici annessi; nel 1434 l’incarico venne affidato ad Antonio di Nicola di Viterbo156. Costui era l’unico addetto all’applicazione di coppette e cornette ai malati e alla distribuzione del vitto e dell’alloggio per gli ospiti. Il contratto venne rinnovato dopo un decennio (1441) per favorire la bonifica e il restauro del Bagno della Grotta, dei Crociati e della Colonna, andati in rovina per la grande affluenza di persone. Le terme fino ad allora erano dotate di allodiamenta, fraschatas et acconcimina, costruzioni precarie che stavano andando in rovina157. Nel 1447 il contratto di locazione e di manutenzione della domus Plani Balneorum iuxta Bullicame era affidato per tre anni dai priori a Tucio alias dicto Montesciano de Viterbio, che si impegnava a farla «fructare more boni hominis» e inoltre «balnea ibi propinqua manutenere et conservare munda, ut illis unusquisque uti possit et se in eis inrigare pro libito voluntatis exceptis leprosis, malesanis et gaglioffis mendicantibus, quos teneatur et possit expellere ac etiam modeste verberare ab humeris infra, libere et impune». Inoltre Tuccio poteva gestire in regime di monopolio le cure di salassi cioè «inicere aut apponere coppas et sibi solvere (…) et vendere et vendi facere vinum et quecumque comestibilia ac hospitari ac hospitalitatem dare remanentibus illic»158. Nel contratto di locazione palatii balneorum Cruciate, sottoscritto nel 1456 dal comune con Sebastiano di Giovanni di Viterbo, è inserita la clausola che nell’edificio «nullus ludere possit ad ludum azardi sed tamen ad ludum tabularum et scacchorum» e quella di non permetterne la frequentazione alle meretrici luxuriandi causa. Inoltre il conduttore avrebbe dovuto riservare tre camere per il tesoriere della provincia ad ogni sua richiesta159. Nel 1447 anche il bagno del Naviso – positum in territorio dicte civitatis – è dato in locazione dal comune al barbiere viterbese ser Angelo di maestro Pietro con l’esclusività di apponere cornecte e di vendere «vinum
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et alia comestibilia (…) capannam suis sumptibus facere (…) hospitarique et hospitalitatem dare»160. Nella normativa statutaria del 1469 troviamo codificate le misure per garantire la sicurezza ai frequentatori dei bagni e per dare all’ambiente un’immagine decorosa, già espresse nei contratti di locazione prima ricordati. Lo statuto colpiva duramente i lebbrosi e i malati di scabbia che passavano per Viterbo e osavano bagnarsi nelle sue acque termali; per loro era allestita un’apposita vasca all’interno del Piano dei Bagni161. Si vietava ai ruffiani, ai lenoni e alle meretrici di sostare nel Piano dei Bagni162 e si punivano tutti coloro che fossero stati sorpresi ad avere rapporti sessuali presso il Bagno della Grotta, di S. Maria Paganella, del Busseto e del Caio163. In generale nessuno straniero poteva assumere un comportamento sconveniente, né poteva insozzare in qualsiasi modo i bagni vel fontanella balneorum: poteva essere punito immediatamente da qualsiasi cittadino viterbese164. Nel 1455 un bando del governatore del Patrimonio, Stefano Nardini di Forlì, impedì agli ebrei di accedere alle stesse terme dei cristiani165 e con una riforma del 1469 si relegarono le meretrici nel bagno del Bullicame166. Malgrado l’irrigidimento delle norme, l’ingresso alle terme continuava ad essere gratuito per viterbesi e forestieri: continue hostia sint aperta, ma sotto il controllo periodico da parte dei priori che avrebbero dovuto punire gli eventuali trasgressori167. Continuità nell’utilizzo del Piano dei Bagni. Alcune notizie di età moderna Nella zona dei Bagni, nel XV secolo, l’ospedale di S. Spirito di Roma aveva alcuni beni fondiari, ancora parte del patrimonio dell’ente nel XVII secolo. L’ospedale otteneva rendite dall’affitto di orti, canneti e vi-
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Fig. 59. Particolare del piano dei Bagni di Viterbo. Gli edifici in Rosa indicati con la lettera “E” sono i “Bagni pubblici” appartenuti alla comunità cittadina; le particelle circostanti erano per lo più occupate da canneti; solo più tardi diventano campi coltivati (ASR, Presidenza generale del Censo, Catasto Gregoriano, Delegazione di Viterbo, mappa 173 “Bollicame”)
gneti localizzabili lungo il Piano dei Bagni. La maggior parte degli orti si estendeva in località «Bagno Longo», localizzato nell’area del Bagno del Sipontino. A questi coltivi si alternavano dei canneti, che si estendevano fino alla contrada del «Caldano», lungo la via pubblica.168 Le fonti catastali mostrano la continuità delle coltivazioni in questi territori. Al contrario si verificò la distruzione delle terme medievali durante il sacco dei Lanzichenecchi nel 1527 mentre nel nubifragio 1706 si allagò inesorabilmente la Valle del Caio. Malgrado i vari tentativi di restauro condotti sia da parte del Comune che da parte della Chiesa cattedrale, la fiorente pianura all’inizio del XIX secolo era in rovina169. Il paesaggio tornava ad essere silenzioso e desolato, meta ideale per i viaggiatori romantici. Di notevole importanza per la ricostruzione dell’ambiente naturale
dell’area esaminata risulta anche una relazione del Consiglio comunale di Viterbo dell’anno 1890170. Il 15 settembre di quell’anno la riunione verteva sulle pretese fatte dall’Arte degli Ortolani sulla proprietà delle acque e dei terreni adiacenti al Bullicame. Il documento ripercorre la storia di quelle contrade a partire dal XIII secolo, soffermandosi sulle attività che ivi si svolgevano, e sulla disputa nata tra la corporazione degli Ortolani e il comune, che rivendicavano precisi diritti di proprietà in quella zona. In questo documento si trova conferma del fatto che il comune di Viterbo aveva acquistato alcuni terreni del Piano dei Bagni già nell’anno 1292 e ne aveva avuto il dominio per molti secoli, durante i quali la zona veniva utilizzata «per distendervi ed asciugarvi le canapi ed i lini macerati» nelle piscine del Bullicame. I cittadini viterbesi vi si recavano per coltivare gli orti, per bagnar-
si nelle acque delle terme e per macerare lino e canapa e lì era stata edificata una torre, a loro difesa. La gestione di queste terre aveva permesso al comune di riscuotere ingenti somme di denaro ma anche l’Arte degli Ortolani percepiva degli introiti, derivati dal controllo delle piscine da macerazione. Sulla base di questo compito l’Arte degli Ortolani quasi si arrogò il diritto di possesso delle acque e delle terre del Bullicame, fino al punto di contenderlo allo stesso comune durante il XV secolo. Il 6 marzo 1492 veniva stipulato un atto contenente la «concessione del Bullicame fatta dalla Illustrissima Comunità di Viterbo alla Magnifica Arte degli Ortolani». In seguito a questo provvedimento gli Ortolani ottennero l’incarico di risistemare la zona circostante la sorgente, che era in rovina, e in particolare di restaurare i «muri di cinta del Bullicame e del ponte sul fossato,
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Fig. 60. Campi di grano nella zona del piano dei Bagni dopo la mietitura
e di riparare il ponte di Riello». Nell’ambito di quella seduta si contestò però che lo statuto cittadino non riconosceva in alcun modo il diritto di autorità avanzato dagli Ortolani; ma la promessa di questi ultimi di sovvenzionare i restauri necessari, spesa che avrebbe gravato in modo troppo consistente sulle casse del Comune, permise di deliberare che gli Ortolani «debbano godere in perpetuo e godano di tutti e singoli privilegi, giurisdizioni, consuetudini, immunità» nell’organizzazione dei lavori di macerazione di lino e canapa nel Bullicame171. Dal confronto con le fonti catastali (catasto gregoriano, antico catasto pontificio viterbese) del XIX secolo, risulta che l’Arte degli Ortolani consolidò nel tempo i suoi privilegi su questa zona. Gran parte dei terreni e delle piscine in contrada Bullicame – destinati ancora alla ma-
cerazione di lino e canapa – risultano appartenenti agli Ortolani. Dalle carte del catasto gregoriano si legge bene come veniva sfruttata la zona nel XIX secolo. In vicinanza della porta Faulle si concentravano boschi e oliveti, entrati a far parte del paesaggio solo dal Trecento172. La contrada denominata S. Ilario e Valentino era ancora in mano ad enti ecclesiastici e utilizzata per i pascoli, lasciata a canneto o coltivata. La pianura della Valle del Cajo era occupata da canneti e orti; mentre la zona intorno ai «bagni pubblici» era occupata per lo più da canneti, in stato di degrado rispetto ai secoli precedenti. La piazza davanti agli edifici termali apparteneva alla comunità di Viterbo così come l’intero complesso termale e la sorgente d’acqua solfurea del Bullicame. Lontano dalle sorgenti la collina del Bullicame e il vicino Riello ospitavano vigneti, alternati da ulivi.
Il rilevamento fatto nel 1873 e registrato nell’antico catasto pontificio di Viterbo è praticamente sovrapponibile a quello gregoriano, di pochi anni precedente. Si può vedere semmai un tentativo di bonifica della zona, perché gli spazi occupati prima da canneti risultano in parte trasformati in terreni seminativi, in pascoli e piantagioni di lino. Il percorso alternativo per Roma tra i Monti Cimini. Esisteva già da epoca romana una variante montana alla via Cassia, di andamento pianeggiante. Si trattava della via Ciminia, così denominata dai monti Cimini che attraversava. Sembra che a partire dall’XI secolo questo tracciato fosse integrato nella via Francigena, proveniente da Nord. Secondo un’ipotesi recente fornita dal D’Orazi173, è pro-
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babile che il viaggiatore, superate le tappe devozionali della chiesa del S. Sepolcro ad Acquapendente, di S. Cristina a Bolsena, di S. Flaviano a Montefiascone, all’altezza di S. Valentino nel Piano dei Bagni, potesse scegliere se proseguire per la via Cassia, in direzione di Sutri, passando per S. Maria di Forcassi, ovvero optare per la via Ciminia. Questo tragitto alternativo, dopo essere entrato dentro la città di Viterbo, saliva sulla montagna di Vico, costeggiava l’omonimo lago e, passando nei pressi di Ronciglione, raggiungeva di nuovo Sutri174. L’autore menziona la mansio ad aquae Passaris come probabile snodo della via Ciminia. E’ importante evidenziare però che la suddetta mansio si trovava più a nord rispetto al borgo di S.Valentino; pertanto non si può escludere – ma per il momento sono solo ipotesi- che il Piano dei Bagni, in epoca medievale, fosse ancora servito dal tracciato della via Cassia, mentre la via Ciminia poteva entrare in città a nord-est, toccando forse il complesso di S.Maria della Quercia, che dal XIV secolo era divenuto un importante polo attrattivo. Le fonti medievali non forniscono elementi sufficienti per delineare con maggiore precisione la sorte dei due tratti stradali. E’ certo però che la preferenza per il percorso montano potrebbe spiegare il rapido sviluppo che ebbero – dal XIV secolo – i centri di Ronciglione, Capranica, Caprarola e S. Martino al Cimino175, fino ad allora isolati all’interno della selva della Montagna. Interessanti sono anche le alterne vicende di Vetralla e Sutri da una parte e Ronciglione dall’altra, condizionate dal controllo della viabilità. Nel Cinquecento era già delineato il percorso della moderna via Cassia, divenuta poi la strada postale e corriera dei secoli moderni. Alle soglie del XVI secolo (1506), il cardinale Adriano Castellesi de Corneto (Tarquinia) 176, nel ricordare il viaggio di Giulio II nello Stato della Chiesa, a proposito del suo pas-
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saggio per Viterbo declamava: «mox per Cimini montem, lacumque/ tendimus, insignem per balnea multa, Viterbum./ Discordes bonus hic cives pacavit Julius»177. Nel 1641 gli appunti di viaggio di Luca Holste attestavano il ritrovamento di un’ antica selciata «che viene abbasso dal Monte Cimino et un simile ramo (…) da Sutri verso la medesima montagna; né vi può esser dubbio che questa sia la via Ciminia antica, che va sopra detta montagna (…) e della medesima strada ho poi ritrovato riscontro (…) che calava verso il Piano de Viterbo et entrava nella Cassia alli Bagni di Viterbo». Gli studi effettuati dal Duncan negli anni Cinquanta del nostro secolo178 hanno rivelato che la strada effettivamente usciva da Viterbo presso Porta Faulle seguiva poi il percorso della via Cassia179. Il viaggio compiuto da papa Clemente VIII nella primavera del 1597 nel Patrimonio, conferma l’interesse per il nuovo percorso; passando per Civita Castellana, Caprarola e Bagnaia, il pontefice avrebbe fatto visita a S. Maria della Quercia, per proseguire poi verso Viterbo, S. Martino al Cimino e Toscanella fino a Civitavecchia180. Un’interessante serie relativa ai «Viaggi di sovrani e pontefici» si conserva nel fondo Camerale I dell’Archivio di Stato di Roma181. Per l’anno 1653 sono documentati i preparativi fatti dalla Curia pontificia per il passaggio di papa Innocenzo X, in occasione della visita fatta a Donna Olimpia, residente a San Martino al Cimino. Sono qui forniti in dettaglio gli interventi di ristrutturazione previste per le locande di Baccano, Monterosi182, della località «Le Capannaccie» e di S. Martino. Si percorreva sicuramente la via Ciminia. La strada doveva essere abbastanza transitata tanto è vero che a Monterosi si ordinò di farla sbarrare per non disturbare il papa «acciò non si senta il rumore, e i passeggieri dovranno fare un’altra strada»183. Giunti a destinazione il papa chiedeva inoltre di far tappa a
Viterbo e di proseguire fino a Bagnaia e a S. Maria della Quercia. La questione della rete stradale sembra risolversi nel Settecento con la realizzazione del nuovo ramo della moderna via Cimina. La Presidenza delle Strade imponeva delle tasse fisse alle osterie, alle comunità e alle stazioni di posta del Patrimonio, toccate da percorsi stradali. Tra le comunità si citano Acquapendente, Bagnaia, Capranica, Caprarola, Montefiascone, Ronciglione, Toscanella e Viterbo184. NOTE * I paragrafi 1-3, 7 sono di Silvia Dionisi, quelli 4-6 sono di Anna Esposito. 1 Cronaca inedita di fra Francesco di Andrea da Viterbo dei minori, trascritta dal manoscritto originale del secolo XV della Biblioteca Angelica di Roma, a cura di F. CRISTOFORI, Foligno, Tip. F. Salvati, 1888, p. 53. 2 Sull’importanza dell’antica via consolare Cassia, sul tracciato della via Francigena e sul suo valore come percorso spirituale cfr. E. MARTINORI, Le vie maestre d’Italia: via Cassia, in «Latina gens», VIII, 1930, pp. 413-417; ID., La via Cassia antica e moderna, Roma, Tip. S.A.P.E., 1930; D. CAVALLO, Via Cassia, I, Roma, Libreria dello Stato, 1992; G. CERICA - C. PRUGNOLI - M.R. SFORZA, La via Francigena: una strada europea per Roma, in «Informazioni»,VIII, 1993, pp. 11-13; F. RICCI-L. SANTELLA, La via Cassia. Notizie storiche-topografiche, Centro catalogazione Beni Culturali provincia di Viterbo. Viterbo 1987; M. RINALDI, Il territorio come bene culturale: il sistema francigena, in «Informazioni», VIII, 1993, pp.15-16; P. CARLUCCI, La via francigena, in «Tuscia», 63, 1995, pp. 91-95; La Via Francigena: cammino medievale di pellegrinaggio quale proposta di un itinerario religioso e turistico del 2000, a cura del Centro regionale per la documentazione dei beni culturali e ambientali del Lazio, Pomezia 1995; M. BEZZINI, Strada Francigena-Roma con particolare riferimento ai percorsi Siena-Roma, Siena, Il Leccio, 1996; M. MIGLIO, In viaggio per Roma. Un itinerario nella Tuscia agli inizi del Quattrocento, in «Biblioteca e società», XVI, 1997, pp. 8-15. 3 Di ritorno da Roma l’abate passò per Baccano, Sutri, Forcassi e raggiunse il Borgo S.Valentino, presso il Piano dei Bagni viterbesi. 4 Viterbo viene indicato come Boternis borg, situato nelle vicinanze di Thithreks bath, che qualche studioso ha identificato con i bagni del Bullicame viterbese, cfr. R. STOPANI, Le vie di pellegrinaggio nel Medioevo. Gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostella, Firenze, Le Lettere, 1991. L’autore ha dedicato un’ampia produzione alla ricostruzione degli itinerari giubilari. Cfr. in particolare R. STOPANI, La Via
PAESAGGIO E VIABILITÀ NEL PIANO DEI BAGNI DI VITERBO TRA MEDIOEVO E PRIMA ETÀ
Francigena. Una strada europea nell’Italia del Medioevo, Firenze, Le Lettere, 1988; ID., Le grandi vie di pellegrinaggio nel Medioevo. Le strade per Roma, Firenze, Centro studi Romei, 1986; ID., Le vie di pellegrinaggio nel Medioevo. Gli itinerari per Roma, Gerusalemme, Compostella, Firenze, Le Lettere, 1991; ID., Guida ai percorsi della Via Francigena nel Lazio, Firenze, Le Lettere, 1996. 5 Anche questo itinerario prevedeva delle soste ad Acquapendente, Bolsena (Lacus Sancte Cristine), Montefiascone, Viterbo e Sutri. Ampia descrizione degli itinerari giubilari si trova in D. STERPOS, Comunicazioni stradali attraverso i tempi, Firenze-Roma, Novara, Istituto geografico de Agostini, 1964; ID., I giubilei. Viaggio e incontro dei pellegrini, Roma, Soc. Autostrade, 1975. 6 Su Viterbo e i suoi monumenti: F. ORIOLI, Di alcune memorie de’ primi secoli dopo il Mille relativi a Viterbo e à paesi contigui, in «Giornale Arcadico», CXXVIII, 1859, pp. 239262; ID., Florilegio viterbese, in «Giornale Arcadico», CXXXIV, 1865, pp. 195-278; G. SIGNORELLI, Leggi e costumi di Viterbo nel Medioevo, Viterbo, Tip. Monarchi, 1887; ID., Viterbo nella storia della Chiesa, Viterbo, tip. Cionfi, 1907-8; ID., Guida di Viterbo, Viterbo, Agnesotti, 1922; J. RASPI SERRA, Viterbo medioevale, Novara, Istituto geografico de Agostini, 1975; G. BARBIERI, Viterbo e il suo territorio, Roma, Quasar, 1991; F. ORIOLI, Viterbo e il suo territorio. Archeologiche ricerche, a cura di B. BARBINI, Viterbo, Sette città, 1997. 7 Cfr. F. BUSSI, Istoria della città di Viterbo, Roma, Stamperia Bernabò e Lizzirini, 1742, p. 189. 8 Gli studiosi locali hanno dedicato numerose compilazioni alla zona termale. Cfr. in particolare C. CRIVELLATI, Trattato dei bagni di Viterbo, Viterbo, Tip. Girolamo Discepolo, 1706; F. ORIOLI, I bagni di Viterbo, in «L’Album», XVII, 1850, pp. 145-149; 178-181; ANONIMO, Suburbi di Viterbo, in «Rosa, strenna viterbese», Viterbo, Tip. Monarchi, 1873-4; F. CRISTOFORI, Sul Bullicame di Viterbo ricordato da Dante, Assisi-Roma-Viterbo, Metastasio e presso l’autore, 1888; F. CRISTOFORI, Delle terme viterbesi. Memorie e documenti fino ad ora inediti raccolti e pubblicati dal Conte Francesco Cristofori, Siena-Viterbo-Roma, presso l’autore, 1889; C. ZEI, Le terme romane di Viterbo, in «Bollettino d’Arte», 11, 1917; A. GARGANA, Le terme viterbesi, Viterbo, Tip. Agnesotti, 1930; A. MARTIGNONI-N. GROTTANELLI, Storia delle terme viterbesi, in «La clinica termale», XXII/1, 1969, pp. 4-6; A. MARTIGNONI, Lungo la via consolare Cassia. Alla ricerca nell’agro viterbese delle antiche terme romane, Viterbo, Caale, 1970; E. MARTINORI, Le acque termali di Viterbo, in «Latina gens», VIII, 1930, pp. 426-432; Viterbo città termale. Atti del Convegno, Viterbo 1980; S. MILIONI, Le terme romane delle Zitelle, in «Biblioteca e Società», XVIII, n. 3/4, 1999, pp.2225; B. AMBROGETTI FORTINI, Storia delle terme di Viterbo, Acquapendente commerciale, s.d. 9 Le fonti medioevali sono conservate a Viterbo nei fondi dell’Archivio capitolare, dell’Archivio di Stato e della Biblioteca degli Ar-
denti che ospita l’Antico archivio comunale viterbese; rare notizie, di epoca più recente, sono state rinvenute nei fondi dell’Archivio di Stato di Roma. Fonti inedite: ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Congregazione del Buon Governo, Serie X, b. 21 bis: Rendiconti degli amministratori camerali, esattori delle tasse corriere e provinciali, Giulio Zelli Pazzaglia (1803); ASR, Congregazione del Buon Governo, Serie X, b. 5 bis: Riparti e conti della tassa fissa delle strade consolari e straordinarie (17921800); ASR, Congregazione del Buon Governo, Serie X, b. 244: Tasse delle strade partenti dalle porte di Roma, (1642-1662); ASR, Congregazione del Buon Governo, Serie X, b. 5: Tassa fissa delle strade consolari, tasse straordinarie e lavori; ASR, Congregazione del Buon Governo, Serie X, b. 112: Affari diversi relativi a grandi vie di comunicazione, Viterbo; ASR, Presidenza delle Strade, Tassa fissa sopra le comunità, reg. 487 (1736-1755); ASR, Presidenza delle Strade, Atti sciolti delle Vie consolari, b. 247 (15641699); ASR, Presidenza delle Strade, Atti sciolti delle Vie consolari, b. 248 (1700-1705); ASR, Presidenza delle Strade, Atti sciolti delle Vie nazionali, Viterbo, b. 379 (1819); ASR, Tribunale delle acque e delle strade, Sentenze originali, b. 337 (1586-1612); ASR, Camerale I, Viaggi di pontefici e sovrani, bb. 1561-1562 (16501654); ASR, Camerale I, Viaggi di pontefici e sovrani, bb. 1563-1564 (1597); ASR, Camerale I, Viaggi di pontefici e sovrani, bb. 1565-1566 (1655-1657); ASR, Camerale I, Tesoreria generale del Patrimonio, b. 4; ASR, Camerale II, Arti e mestieri, b. 29; ASR, Camerale II, Antichità e Belle Arti, b. 11; ASR, Camerale II, Lavori pubblici, b. 10; ASR, Camerale II, Dativa reale, reg. 9 (1816-1867); ASR, Camerale II, Dativa reale, reg. 25 (1803-1814); ASR, Camerale II, Dativa reale, reg. 26 (1815-1820); ASR, Camerale II, Poste, fasc. 1 (1531-1704); ASR, Camerale II, Conti delle entrate e uscite, b. 1 (1587-1626); ASR, Archiospedale S. Spirito, Stabili a Viterbo, b. 34 (sec. XVI); ASR, Archiospedale S. Spirito, Feudi e priorati, b. 1082; ASR, Archiospedale S. Spirito, Inventario delle case e degli ospedali di S. Spirito, b. 73 (sec. XVI); ASR, Archiospedale di S. Spirito, Tenute e vigne, b. 65, (1816); ASR, Ospizio Trinità dei pellegrini e convalescenti, Anni santi. Diario delle Compagnie e pellegrini, b. 373/11 (1675-1700); ARCHIVIO SEGRETO VATICANO (d’ora in poi ASV), Registri vaticani, Registri di Innocenzo III; ARCHIVIO DI STATO DI VITERBO (d’ora in poi ASVt), Protocolli notarili (XV-XVI secolo); BIBLIOTECA COMUNALE DEGLI ARDENTI (d’ora in poi BCA), Archivio storico comunale di Viterbo, Statuto di Viterbo, a. 1469; BCA, Archivio storico comunale di Viterbo, Riformanze; BCA, Archivio storico comunale di Viterbo, Margarita; BCA, Archivio storico comunale di Viterbo, L. CECCOTTI, Indice delle contrade e dei vocaboli del territorio viterbese; BCA, Archivio storico comunale di Viterbo, L. CECCOTTI, Copie di documenti sulle antichità e storia di Viterbo; ARCHIVIO DELLA CATTEDRALE DI VITERBO (d’ora in poi ARCH. CATH. VITERBO), Archivio di S. Stefano.
MODERNA
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10 Lavoro puntuale e dettagliato, fondato sul diretto riscontro sul territorio, è il recente libro di A. ESCH, La Via Cassia, Roma, Roma nel Rinascimento, 1996. 11 Il Regesto di Farfa di Gregorio da Catino, a cura di I. GIORGI U. BALZANI, IV, Livorno, «Biblioteca di società romana di storia patria», 1892-1914. 12 Il Chronicon farfense di Gregorio da Catino, a cura di U. BALZANI, Roma, Fonti per la storia d’Italia, 1903. Nei secoli alti del Medioevo gran parte del Piano dei Bagni era appartenuto all’Abbazia di Farfa. 13 Già nel 788 il monastero di S. Maria «quod positum est in finibus vel territorio sabinensi», risulta destinataria di donazioni da parte di cittadini viterbesi (Regesto Farfense d’ora in poi Reg. Farf., II, doc. 145). 14 Un documento del 1268 conferma la presenza sia della chiesa cattedrale di S. Lorenzo, sia del comune viterbese, nell’amministrazione della zona dei Bagni. La cattedrale doveva privilegiare il controllo della lega dei mulini, sorti lungo il corso dell’Urcionio, mentre il comune gestiva la distribuzione delle acque all’interno della zona termale: «de lega molendinorum ecclesie Sancti Laurentii, que est sub balneo de Cripta, quia illa lega offendebat multum dictum balneum Cripte, archipresbiter et canonici ipsius ecclesie Sancti Laurentii, ex una parte, et commune Viterbii, ex altera, de dicta lega destruenda et facienda alibi ad concordiam devenerunt». Per l’edizione del documento: Liber memorie omnium privilegiorum et instrumentorum et actorum Communis Viterbii (1283), a cura di C. CARBONETTI VENDITTELLI, Roma, Società romana di Storia Patria, 1990, n. 293, p. 99. 15 Per l’edizione dello Statuto: Cronache e statuti della città di Viterbo, a cura di I. CIAMPI, Firenze, Cellini e C. alla Galileiana, 1872, pp. 449-599. 16 Col tempo la normativa statutaria si arricchisce di regole per la gestione del Piano dei Bagni e, in particolare, il IV libro dello statuto del XV secolo (De extraordinariis) regolamenta le attività agricole, attestando il perdurare di una consuetudine sviluppatasi alcuni secoli prima. 17 BCA, Archivio storico comunale di Viterbo, Statuto di Viterbo, a. 1469. 18 Lanzillotto è un cronista del XIV secolo che definisce così la città: «Pulchram et fertilem et amenam (…) viridaria pulchra et fontes et vinee (…) et multi agri et etiam silve cum magnis venationibus aut magna abilitas balneorum (…) molendina», cfr. BUSSI, Storia di Viterbo, p. 209. Per Niccolò della Tuccia cfr. CIAMPI, Cronache e statuti, Anche questo autore ricorda l’importanza delle cronache trecentesche di Lanzillotto, come fonte per i successivi cronisti. Degna di memoria è la compilazione di GOTHIFREDO DE VITERBIO, Pantheon seu memoria saeculorum, Basilea, ex officina, 1559 e in Rerum Italicarum Scriptores, VII, Milano, 1725. 19 Il cronista Francesco di Andrea da Viterbo ricorda che Federico II «alloggiò nel Piano de Bagni» nel 1243, durante l’assedio alla città. Cfr. Cronaca inedita, p. 34.
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20 In particolare il Platina nelle sue Vite dei Pontefici (B. PLATINA, Le vite dei pontefici. Dal Salvator nostro fino a Innocenzo XI, Venezia, Brigonci, 1684-1685; cfr. anche B. PLATINA, Platinae historici liber de vita Christi ac omnium pontificum, in Rerum Italicarum Scriptores, III/1, Citta di Castello, Lapi, 1932) e Giannozzo Manetti nella Vita di Niccolò V (cfr., Vita Nicolai V, summi pontificis auctore Iannotio Manetto florentino, in Rerum Italicarum Scriptores, III/2, Milano, ex Tip. Societatis Palatinae, 1734, pp. 907-960). 21 Un manoscritto quattrocentesco della Biblioteca nazionale di Firenze contiene un ulteriore trattato sulle terme di Viterbo, (GERONIMUS, Tractatus de balneis viterbiensibus, XV, VII, 189), opera del medico viterbese Girolamo. Il manoscritto era indirizzato a papa Innocenzo VI. Il trattato fornisce un elenco dei bagni esistenti nella pianura cittadina e delle virtù delle singole acque. Il Cristofori ne ha curato l’edizione in CRISTOFORI, Delle terme viterbesi. Memorie e documenti fino ad ora inediti, 1889). Girolamo è ricordato anche da Ciampi (Cronache e statuti, Prefazione, p. XIX, n.1). Un illustre archiatra pontificio (A. BACCIO, Andree Bacii Elpidiani De thermis, Venezia, apud Valgrisium, 1587) – fu medico di Sisto V – nel quarto libro del suo trattato esalta le «singulares virtutes» dei bagni viterbesi, meravigliandos «pro amoenitate undique agri salubri aere, atque commoda hospitalitate». 22 Sulle emergenze archeologiche e architettoniche cfr. G. MAROCCO, Monumenti dello Stato Pontificio e relazione topografica di ogni paese, Roma, Tip. Boulzaler, 1836; A. SCRIATTOLI, Viterbo nei suoi monumenti, Roma, Stab. F. lli Capaccini, 1920; G.F. GAMURRINI - A. COZZA - A. PASQUI - R. MENGARELLI, Carta archeologica d’Italia. Materiali per l’Etruria e la Sabina: un territorio come esperienza d’arte: evoluzione Urbanistica-Architettonica, Firenze, Olschki, 1972; J. RASPI SERRA, La Tuscia romana, Roma, ERI, 1972; J. RASPI SERRA C. LAGANARA FABIANO, Economia e territorio. Indagine sui toponimi, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 1987. 23 L. C. PACINI, Utilizzazione del territorio nel Lazio centro settentrionale, in «Informazioni», XIII, 1997, pp.19-24 [19]. Di recente si è approfondita la ricerca sull’organizzazione agricola e sulle tecniche agrarie del territorio soprattutto con A. LANCONELLI, Sistemi e metodi di coltivazione dei cereali nelle campagne viterbesi del tardo medioevo (secc. XII-XIV), in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXII, 1989, pp. 219-247; A. CORTONESI, Il lavoro del contadino: uomini, tecniche, colture della Tuscia Tardomedievale, Bologna, CLUEB, 1988; A. LANCONELLI - R. DE PALMA, Terra, acque e lavoro nella Viterbo medioevale, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1992; A. CORTONESI, Ruralia: economiche e paesaggi del Medioevo italiano, Roma, Il Calamo, 1995. 24 AMBROGETTI FORTINI, Breve storia delle terme di Viterbo, p.5. 25 Così nella cronaca quattrocentesca trascritta da Cristofori; cfr. Cronaca inedita, p.14.
SILVIA DIONISI-ANNA ESPOSITO
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ORIOLI, I Bagni di Viterbo, p.146. LANCONELLI-DE PALMA, Terra, acque e lavoro, p. 1. 28 F. ORIOLI, Viterbo e il suo territorio, in «Giornale arcadico», CXVII, p. 285. 29 Si tratta di un importante documento farfense dell’anno 824 (Reg. Farf., II, doc. 274). 30 Per lo studio dei tracciati viari principali e secondari nonché dell’assetto territoriale abbiamo preso visione delle seguenti fonti cartografiche: ASVt, Antico catasto pontificio di Viterbo, 1873; ASR, Catasto gregoriano, 1834; ASR, Presidenza delle Strade, Catasto Alessandrino, cart. 433, V, 1660; ASR, Collezione Disegni e Piante, Coll. I, cart. 126 (secc. XVIIIXIX); ASR, Collezione Disegni e Piante, Coll. III, cart.8.; A. P. FRUTAZ, Le carte del Lazio, Roma, Istituto di Studi Romani, 1972; CARTE I.G.M. 1: 25 000, F.137 III, N.E.Viterbo; F.137 III, S.O. Castel D’Asso. 31 Baccano rimase per lungo tempo importante nodo stradale. Dal braccio principale della via Cassia si dipartivano delle diramazioni che conducevano, ad est, alla via Flaminia e, ad ovest, alla via Aurelia. Interessanti notizie sui centri minori della Tuscia sono fornite da S. CONTI, Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di S. Pietro, Firenze, Olschki, 1980. 32 EAD., Territorio e termini geografici dialettali nel Lazio, Roma, Istituto di Geografia dell’Università “La Sapienza”, 1984, p.73. 33 ESCH, La Via Cassia, p. 8. 34 F. RICCI-L. SANTELLA, La via Cassia. p. 23. 35 A tal proposito merita di essere menzionata la bolla di Leone IV inviata al vescovo Virobono di Tuscania. Lungo il percorso della strata Beati Petri vengono citate Viterbo e Montefiascone, che avevano assunto una posizione rilevante lungo il percorso (ASV, Registri Vaticani, Reg. di Innocenzo III, cc. 29r.-30v.). 36 Su questo argomento cfr. STOPANI, Le vie di pellegrinaggio. 37 Seguendo l’indicazione per Castel D’Asso, piccola località fortificata, prossima alla zona termale (CONTI, Le sedi umane, pp. 98-100). 38 Nel 1199 «li Romani vennero a campo ad Viterbo ed allogiorno ad Risieri». Così nella Cronaca inedita, p. 21. 39 Se ne indicava così la distanza di cinquanta miglia da Roma. 40 Il Ponte del Risiere valicava il Fosso del Risiere, di cui non è rimasta traccia; il Ponte S.Nicolao passava sul fosso dell’Olmo. (MARTIGNONI- GROTTANELLI, Storia delle terme, n. 1, pp. 4-6). 41 ESCH (La Via Cassia, p. 8) sottolinea un episodio fondamentale per la storia della viabilità di queste contrade: la deviazione del traffico dentro la città di Viterbo, dopo la distruzione del Borgo (1137). 42 Il rivo Sanguinaro era indicato come confine tra Viterbo e Tuscania nel IX secolo; la chiesa di S. Maria Sanguinara era contesa ancora nel XIII secolo tra i vescovi di Bagnorea (Bagnoregio) e Viterbo (SIGNORELLI, Viterbo nella storia, p. 70 e n. 29). 43 Così in un documento dell’Archivio 27
capitolare, datato al 29 ottobre 1320 e nel testamento di Stefano, priore di S. Stefano, del 1325, in cui si fa riferimento ad un campo positus in contrata Planibalnei, iuxta rem communis Viterbii (…) stratam veterem etc. Cfr. Il “catasto” di S. Stefano di Viterbo, a cura C. BUZZI, Roma, Società Romana di Storia Patria, 1988, doc. LXXXVI, p. 236, 1325 marzo 27). È detta ancora via vetus in un documento del 1513 (Il “catasto” doc. XXXI, p. 86, 1513 aprile 20). 44 BCA, Margarita, II/2, perg. 103, 1293 dicembre 6. 45 Negli Annali d’Italia del Muratori, in occasione della narrazione dell’incontro tra Lotario di Supplimburgo e papa Innocenzo II, prima dell’incoronazione dell’imperatore avvenuta a Roma nel 1133, si dice: «addolcito alquanto il verno, passò in Toscana il re Lottario, e a Calcinaia nel territorio di Pisa si abboccò di nuovo con papa Innocenzo. Marciò dipoi per la strada Regale fino a Viterbo, dove arrivato ancora per la maritima il Pontefice» (L.A. MURATORI, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1500, Milano, G. Pasquali, 1744, ad annum 1133, VI, p. 436). Il Baronio per descrivere lo stesso incontro chiama la strada fino a Viterbo stratam publicam (C. BARONIO, Annales Ecclesiastici, XVIII, Lucca, Typis Leonardi Venturini, 1746, ad annum 1133, p. 486). 46 Così nella già menzionata bolla di Leone IV. 47 Statuto 1251, Libro I, rubr. 48: De viis reaptandis extra et intus; rubr. 51: De viis aptandis. 48 CONTI, Territorio e termini, p. 73. 49 Momento in cui si verificò l’incremento delle scritture documentarie nell’Italia centrale ma anche epoca di una più razionale organizzazione del territorio, per impulso del Comune cittadino di Viterbo. Un’aggiornata puntualizzazione del processo di affermazione delle scritture documentarie si deve a P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, NIS, 1991. Uno studio sulle istituzioni comunali viterbesi si deve a N. KAMP, Istituzioni comunali in Viterbo nel Medioevo, Viterbo, Agnesotti, 1963. 50 L. MATTIOLI-M.E. NAGLIA, Forum Cassii e la chiesa di S. Maria: nota storico documentaria, in «Informazioni», IX, 1993, pp. 93-95. 51 C. PINZI, Gli Ospizi medioevali e l’Ospedal Grande di Viterbo, Viterbo, Monarchi, 1893, pp. 87-99; ESCH, La via Cassia, pp. 18-20. 52 C. PINZI, I principali monumenti di Viterbo. Guida pel visitatore, Viterbo, Monarchi, 1911, p. 202. 53 Reg. Farf., II, doc. 145. 54 Ivi, doc.179. 55 Ivi, doc. 274. 56 PINZI, Gli Ospizi, p. 91. ESCH, La via Cassia, pp. 27-28. 57 Chronicon Farfense, I, p.198. 58 Reg. Farf., III, doc. 404. 59 Nel 1082 l’imperatore Enrico IV «inter burgum S.Valentini in iudicio adesset», a favore dell’abate Berardo (Reg. Farf., V, doc. 1101). Se ne trova conferma qualche anno dopo quan-
PAESAGGIO E VIABILITÀ NEL PIANO DEI BAGNI DI VITERBO TRA MEDIOEVO E PRIMA ETÀ
do nel 1118 Enrico V sostò «in burgo S. Valentini quam olim Beate Marie genitor noster Henricus imperator eidem monasterio restituit» (Chronicon farfense, c. 399r). Il borgo di S. Valentino non risulta più tra le proprietà viterbesi della chiesa di S. Maria di Farfa nel florilegio di Gregorio di Catino compilato nel 1130 (M.T. MAGGI BEI, Il “liber floriger” di Gregorio da Catino, Roma, Società alla Biblioteca Vallicelliana, 1984, p. 355). 60 Il borgo di S. Valentino fu distrutto dai viterbesi, seguaci dell’antipapa Anacleto: «qui et prius urbem S. Valentini adiacentem, et forum imperatoris destruxerant». Così riferisce C.G. ECCARD, Corpus historiae medii aevi, in Rerum Italicarum Scriptores, III/2, Milano, ex typographia Societatis Palatinae, 1734. 61 «In reedificatione ecclesie viterbiensis Sancti Valentini, que peccatis exigentibus olim destructa fuit (…) et prefatam ecclesiam (…) tibi (scil. Azone) tuisque successoribus, et per vos ecclesie Beati Laurentii, apostolica benignitate, concedimus atque firmamus». ARCH. CATH. VITERBO, doc. XX, 1139 novembre 16. 62 Con questo atto domina Mathalena donava se e i suoi beni a Dio e all’ospedale in questione. Il documento era stato redatto in hospitali. Citato da CRISTOFORI, Sul Bullicame di Viterbo, pp. 66-67. L’autore non cita il fondo di provenienza del documento. 63 ARCH. CATH. VITERBO, Arch. S. Stefano, 1320 ottobre 29. 64 Vengono menzionati in un atto di permuta del 14 ottobre 1235, conservato nell’archivio capitolare. 65 Si tratta del testamento del prete Giovanni citato da PINZI, Gli Ospizi, pp. 87-89. 66 Nel 1574 si crea una parrocchia in ecclesiam Sanctae Mariae Sanguinarie dirutam etc. Il documento è citato da CRISTOFORI, Sul Bullicame, p. 70. 67 Il documento è citato da CRISTOFORI, Sul Bullicame, p. 69. 68 La notizia è riferita da CRISTOFORI, Sul Bullicame, p. 73. L’ autore si è soffermato sulle descrizioni fornite dal Ceccotti, erudito viterbese del XIX secolo, e in particolare sulle Dissertazioni sugli Spedali, conservate manoscritte nella Biblioteca Comunale degli Ardenti a Viterbo. 69 Statuto 1251, Libro I, rubr. 30: De electione eorum qui debent esse in plano balnei constituti. 70 Ivi, Libro IV, rubr. 195: De incilgiatione lini et canapis.. Compito degli incigliatori era di collocare le fascine entro le piscine. Durante l’epoca della macerazione affluivano sul posto molti lavoranti delle vicine contrade che costruivano baracche per la vendita di cibi e bevande (Statuto 1251, Libro III, rubr. 210). 71 Ivi, Libro IV, rubr. 193: De maceratione lini et canapis. Il piscinarius poteva essere scelto direttamente dal dominus lini vel canapis. 72 Ivi, rubr. 194: Quod nullus emat linum, vel canapem, vel vendat nisi in termino statuto; e rubr. 196: Quod nullus vendat linum, vel canapem forensibus post festum sancte Marie de augusto. 73 Nella lista delle Arti di Viterbo era compresa l’Arte dei Textorum panni lini. Sull’im-
portanza del lino nell’economia viterbese cfr. CORTONESI, Il lavoro del contadino, pp. 25-29. 74 Statuto 1251, Lirbo I, rubr. 41: De aqua Rianensis mittenda ultra Bullicamen; rubr. 48: De aqua Rianensis. 75 C. PINZI, Storia della città di Viterbo, II, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 1887. Cfr. A. THEINER, Codex diplomaticus dominii temporalis Sanctae Sedis, III, Roma 1861-1862, [I, 359, pp. 205-207]. 76 Statuto 1251, Libro I, rubr. 34: De ducenda aqua ad piscinas Ionketi. 77 Nel 1254, a pochi anni dalla compilazione statutaria, alcuni scindici communis Viterbii vendiderunt certam quantitatem lini de valle Riolli. Ove Riolli sta per Rielli. Cfr. Liber memorie, n. 280, p. 95, 1254 luglio 9. 78 Statuto 1251, Libro I, rubr. 53: De conductis aptandis et alveis. 79 Ivi, rubr. 99: De divisione aque Peie. 80 Ivi, rubr. 41: De aqua Rianensis mittenda ultra Bullicamen; Libro III, rubr. 174: De pena imponenda illis qui prohibent balneare; Libro IV, rubr. 186: Quod unum molendinum reddat aquam alteri molendino sicut continetur in hoc capitulo. 81 Famose quella della Chiesa di S. Lorenzo, dell’Acqua di Riano e del Ponte di S. Nicolao e di S. Valentino. 82 Liber memorie, n. 293, p. 99, 1268 luglio 10. 83 BCA, Margarita, IV/3, perg. 125, 1267 luglio 10. 84 LANCONELLI-DE PALMA, Terre, acque e lavoro, Appendice I: Inventario dei beni del Convento della S.ma Trinità del 1439, p. 166. 85 PACINI, Utilizzazione del territorio, p. 23. 86 Lo riferisce DELLA TUCCIA, Cronache e statuti, pp. 14-15, traendo la notizia da Iuzzo. Nella citata Cronaca inedita quell’avvenimento viene così descritto: «Anno Domini 1217. Uno bono homo de Viterbo voleva andar ad Hierusalem oltra mare, et hebbe in visione la nocte innate come dovesse cavar appresso el Bagno della grotte de la Regina et trovar uno grande tesoro. La quale visione notificò alli consoli et tutto el Popolo andarno con la croce innanti et con la processione, et cavorno in quel loco et trovorno l’acqua calda assai virtuosa, alla quale posero nome l’Aqua de la Cruciata» (Cronaca inedita, p. 27). 87 Statuto 1251, Libro IV, rubr. 170: De reservatione balnei Cripte. Si fa riferimento in particolare al Bagno della Crociata o dei Crociati, al Bagno della Grotta. 88 Ivi, rubr. 173. 89 Ivi, rubr. 174. 90 Ivi, rubr. 92: De pena bangnarolorum et quantum accipiant de cuppis…; rubr. 95: Quod bangnaroli teneantur bis in anno remunire balneum equorum. 91 ARCH. CATH. VITERBO, Arch. S. Stefano, 1256 marzo 16. 92 Statuto 1251, Libro III, rubr. 80: De securitate danda illis qui venerint ad mercatum die Iovis. 93 La presenza di queste diverse categorie di forestieri è testimoniata dalla norma che re-
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golamenta il comportamento da assumere in caso di morte dei pellegrini. Statuto 1251, Libro III, rubr. 28: De peregrinis mortuis. 94 La riformanza del 27 giugno 1441 testimonia che ancora nel XV secolo era necessario difendersi da lebbrosi, gaglioffi e mendicanti. 95 Statuto 1251, Libro III, rubr. 104: De securitate illorum qui venerint ad planum Blanei. 96 Così in una pergamena del 7 dicembre 1259 relativa all’acquisto di beni da parte del comune (citata da MARTINORI, Via Cassia antica, p. 53, n. 1) in un atto di vendita del dicembre 1293 (BCA, Margarita, II/2, perg. 110, 1293 dicembre 10). 97 Indicati coi termini carbonarium e barbacani, elementi delle strutture di fortificazione. 98 Liber memorie, doc. 271, pp. 92-3. 99 BCA, Margarita, II/2, perg. 103, 1293 dicembre 6. 100 BCA, Margarita, III, perg. 59, 1294 agosto 11. 101 Nel 1319 Nicola del fu Bartolomeo di maestro Rollando concesse a Muzio del fu maestro Giacomo «unum petium terre positum in contrata Planibalnei, iuxta rem communis Viterbii». Cfr. Il “catasto” di S. Stefano, doc. LXXX, p. 215, 1319 maggio 20. 102 ARCH. CATH. VITERBO, 1273 ottobre 21, doc. edito da CRISTOFORI, Sul Bullicame, pp. 86-87. 103 Margarita iurium cleri viterbiensis, a cura di C. BUZZI, Roma, Soc. alla Biblioteca Vallicelliana, 1993, doc. XIV, p. 61, 1280 gennaio 16. 104 Margarita iurium cleri, doc. LXXI, p. 190, 1333 maggio 5. 105 Margarita iurium cleri, doc. LXXVIII, p. 215, 1348 giugno 3. 106 CORTONESI, Il lavoro del contadino, p. 29, n. 121. 107 NICCOLÒ DELLA TUCCIA, Cronaca di Viterbo, a cura di I. CIAMPI, Cronache e statuti, p. 15. 108 Secondo alcuni «trovata». 109 Riferimenti alla cronaca di Iuzzo sono fatti da Ciampi (Cronache e statuti, p. 15 e n. 1). Iuzzo riferisce di aver seguito le testimonianze di Lanzillotto fino al 1255 poi quelle di Cola di Covelluzzo (CIAMPI, Cronache e statuti, Prefazione, p. XVII). 110 Con riferimento al grande intervento di restauro compiuto da papa Niccolò V nel 1450 che riunì all’interno del nuovo impianto termale sia il Bagno della Crociata sia quello della Grotta. Il papa «nel tempo suo fé fare al Bagnio della Crociata un palazzo che ora se chiama Bagnio del Papa»; la notizia è tratta dalla cronaca di Iuzzo, riferita da Niccolò Della Tuccia, in CIAMPI, Cronache e statuti, p. 56 111 Così viene chiamato nello Statuto e nelle Riformanze del Comune. 112 Si tratta del già citato documento dell’archivio capitolare del febbraio 1256. 113 ORIOLI, I Bagni di Viterbo, art. II: Il Bullicame, p. 178. 114 La definizione è di un manoscritto di BENVENUTO DA IMOLA, conservato nella Bi-
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blioteca Nazionale di Parigi e copiato personalmente dall’Orioli. 115 Nella zona si distinguevano i bagni per le cittadine viterbesi, detto Balneum dominarum, dal Bullicame ove potevano bagnarsi anche le meretrici. Il Comune stesso emanò spesso delle normative che vigilavano sul comportamento dei bagnanti. 116 MATTHEUS PARIS, Angli Historia maiora Gulielmo Conquistatore, ad annum Henrici tertii, Londra, Hodgkinson, 1640, ad annum 1242, p. 517. 117 M. ANTONELLI, Estratti dai registri del Patrimonio del secolo XIV, in Archivio della Società Romana di Storia Patria, XLI, 1918, pp. 59-85. L’autore riferisce alcune notizie tratte dal registro dell’introitus et exitus, contenuto nel registro avignonese di Clemente V (cc. 163219) dell’anno 1312. 118 G. MARTELLI, Delle acque Caje ovvero de’ Bagni di Viterbo, Roma, Tip. Boulzaler, 1777, p. 7. 119 DELLA TUCCIA, Cronaca, ad annum 1320, p. 33. 120 BCA, Riformanze, I, cc. 93-95. 121 PINZI, Storia, III, p. 495, n. 2, cita questa testimonianza edita dal Fumi (Codice diplomatico della città d’Orvieto. Documenti e regesti dal secolo XI al XV e la carta del popolo, codice statutario del Comune di Orvieto, a cura di L. FUMI, Firenze, G. e P. Vieussieux, 1884, doc. 728, p. 616). 122 DELLA TUCCIA, Cronaca, ad annum 1419, p.51. 123 Episodio citato da BUSSI, Istoria di Viterbo, p. 249. 124 BCA, Riformanze, XI, c. 204. 125 SIGNORELLI, Guida di Viterbo, p. 65. 126 Le riformanze del 1455 ricordano il lavoro del lombardo Stefano Beltrami qui domos balneorum Viterbii edificavit (BCA, Riformanze, XIV, c. 208). Progettista fu l’architetto Bernardo Rossellino (PINZI, Storia, IV, p. 109). 127 DELLA TUCCIA, Cronaca, p. 235. 128 Cfr. VESPASIANO DA BISTICCI, La vita di Nicolao papa V, in Le Vite, ed. critica di A. Greco, I, Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1970, pp. 35-81 [62]. 129 BCA, Riformanze, XII, c.176. 130 Vita Nicolai V, col. 929. 131 ASV, Arm. XXIX, t. 37, c. 82v. Ibidem, c. 153r; c. 283v. 132 SIGNORELLI, Guida di Viterbo, p. 65. 133 Il brano è citato da PINZI, Storia, IV, p. 152, n. 4. 134 DELLA TUCCIA, Cronaca, ad annum 1458, p. 257 135 Cfr. G. LEON PELLISIER, De opere historico Aegidii cardinalis viterbiensis, quod manuscriptum latet in Biblioteca Angelica ciusdam operis cui Titueus est “historia XX saeculorum”, Montpellier c. Boehm, 1896, p. 233. 136 PINZI, Guida, p. 216. 137 G. RUSCELLI, Lettere di principi le quali o si scrivono da principi, o a principi, o ragionan di principi, Venezia, Giordano Ziletti,
SILVIA DIONISI-ANNA ESPOSITO
1573, in AMBROGETTI FORTINI, Breve storia delle terme, p. 14. 138 DELLA TUCCIA, Cronaca, ad annum 1466, p. 91. 139 BCA, Liber instrumentorum, III, c. 236, da PINZI, Storia, IV, p. 229, n. 1. 140 BCA, Liber instrumentorum, I, c. 101, da PINZI, Storia, IV, p. 230, n. 1. 141 ASVt, Arch. Not. Viterbo, notaio Michelangelo Caprini, 1489 dicembre 18, citato da PINZI, Storia, IV, p. 229, n. 1. 142 BCA, Riformanze, XLI, c. 147. 143 Cfr. ASVt, Arch. Not. Viterbo, notaio Mariotto de Fayanis, prot. V, c. 24. Sul periodo viterbese del Perotti cfr. G. LOMBARDI, Galiane in rivolta. Una polemica umanistica sugli ornamenti femminili nella Viterbo del Quattrocento, Manziana, Vecchiarelli, 1998, pp. XXVIII-XLI. 144 ALMADIANO AUGUSTINO, Delle virtuti dè bagni de Viterbo, con alcuni sonetti et canzoni a piacere, Roma, mastro Stephano Guillereti, 1510. 145 ASVt, Arch. Not. Viterbo, notaio Antonio Maria de Antiquis, prot. II. 146 MARTIGNONI-GROTTANELLI, Storia delle Terme, pp. 4 e sgg. 147 ASR, Camerale I, Tesoreria del Patrimonio, b. 4, r 16, sezione Introytus condemnatorum et extraordinariorum, c. 64: «Item de uno forestiero moritte ali Bagni pro monete avea a dosso detracte le spese de li sotterrare e le altre spese: ducati 5». 148 PINZI, I principali monumenti, p. 214. 149 MARTINORI, Via Cassia antica, p. 50. 150 PINZI, I principali monumenti, p. 92 e ZEI, Le terme romane, pp. 5-6. 151 BCA, Riformanze, IV, cc. 27-31. 152 BCA, Statuto 1469, Libro IV, rubr. 106. 153 Ivi, Libro IV, rubr. 104. 154 Ivi, Libro IV, rubr. 113. 155 BCA, Riformanze, III, c. 59 e V, cc. 16v.-17r. Anche lo Statuto del 1469 continuava a regolamentare lo sfruttamento delle acque per la lavorazione del lino e della canapa (Statuto, Libro IV, rubr. 55 e 71). 156 BCA, Riformanze, VIII, cc. 149v150v. 157 La popolazione stessa minacciava di distruggerle. 158 BCA, Liber instrumentorum, II, c. 21rv. Il contratto fu rinnovato a Tuccio per altri tre anni nel 1450, cfr. ivi, cc. 48v-49r. 159 Ivi, c. 122r-v. Il tesoriere in quell’anno era il romano Paolo di Cencio de’ Rustici. Che la zona nei pressi dei bagni fosse uno dei luoghi solitamente frequentati dalle prostitute è provato dal contratto con cui il comune appaltava nel 1454 alla slava Agnese tutta l’attività del meretricio dentro e fuori il postribolo, nell’area urbana e in quella extraurbana e particolarmente «apud balneos, stratam, viam et semitas balneorum», cfr. ivi, cc. 104v-105v. 160 Ivi, c. 26r. 161 Statuto 1469, Libro IV, rubr. 94.
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Ivi, Libro III, rubr. 57. Ivi, rubr. 51. 164 Ivi, Libro IV, rubr. 94. 165 «Che veruno judeo o judea de qualuncha conditione et età se sia, citadino o forestiero, presumi ne ardesca bagnarse in alcuno bagno de cristiani..» (BCA, Riformanze, XIV, c. 214). 166 «Che nisuna publica meretrice ardisca ne presuma de hora inanse bagnarse in alcuno bagno, dove siano consuete bagnarse le citadine et donne viterbesi» (BCA, Riformanze, XVII, c. 65v). 167 Statuto 1469, Libro III, rubr. 99. 168 ASR, Archiospedale di S. Spirito, Feudi e Priorati, b. 1082. 169 PINZI, I principali monumenti, pp. 218-221. 170 BCA, II. F. II. 9, int. 4. 171 La stessa polemica fu nuovamente sollevata nel 1610 ma fu di più semplice risoluzione. 172 PACINI, Utilizzazione del territorio, p. 22. 173 F. M. D’ORAZI, La Via Francigena nell’area viterbese e cimina, in «Informazioni», XIII, 1997, pp. 49-57. 174 Il percorso della via Ciminia è individuato anche da CAVALLO, in Via Cassia, che conferma questo tragitto con il congiungimento alla Via Cassia all’altezza di Aquae Passaris. 175 Il centro era dislocato rispetto alla strada antica, lungo un asse stradale minore che collegava la via Cassia alla Ciminia (CAVALLO, Via Cassia, p. 71). 176 Cardinale di S. Crisogono, vescovo di Bath e Wells (G. VAN GULIK-C. EUBEL, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi sive summorum pontificum, S.R.E. cardinalium, ecclesiarum antistitum series, III, Regensburg, 1923). 177 A. CASTELLESI, Castellesi Adriano cardinalis bathoniensis et wellensis, Iter sanctissimi domini nostri Iulii papae II per Hadrianum cardinalem S. Crisogoni, Venezia, de Nicolinis de Stabio, 1533. 178 G. C. DUNCAN, Sutri (Sutrium), in «Papers of the British School at Rome», XXVI (1958). 179 S. FRANCOCCI-D. ROSE, Note sulla Via Cimina, in «Informazioni», XIII, 1997, pp.5860. 180 J. A. F. ORBAN, Un viaggio di Clemente VIII nel Viterbese, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», XXXVI, 1913, pp. 114-145. 181 ASR, Viaggi dé sovrani e dé pontefici, bb. 1561-1562; 1563-1564. 182 Si menzionano l’osteria della Campana e della Porta, delle Palle, di S.Angelo e di S. Marco. 183 ASR, Viaggi, b. 1561-1562, Viaggi del Pontefice a S. Martino (1650-1654), c. 166. 184 ASR, Presidenza delle strade, Tassa fissa sopra le comunità, r. 487 (1736-1755). 163
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L’assetto viario della via Cassia tra XVII e XIX secolo Cristina Somma
Lo studio dell’evoluzione del paesaggio lungo le direttrici delle vie consolari che portano a Roma, in concomitanza con la cadenza giubilare, non può prescindere da una individuazione e analisi delle fonti archivistiche e bibliografiche che forniscono preziose testimonianze sull’argomento. L’accostamento alle fonti prevede un preliminare lavoro di selezione e puntualizzazione dei centri cittadini posizionati sulla strada consolare. Nel caso di questa ricerca l’attenzione è stata rivolta alla Cassia Cimina e ai centri di Monterosi, San Martino al Cimino e, in minore misura, a Sutri tra i secoli XVII e XIX. La vastità del tema non ha permesso un esaustivo reperimento e analisi delle fonti, ma è stata privilegiata una ricerca archivistica secondo precise e limitate linee di sviluppo. Presso l’Archivio di Stato di Roma sono stati analizzati i fondi della Presidenza delle Strade, specificatamente le buste relative alle strade consolari e la collezione dei bandi, della Congregazione del Buon Governo, serie II Atti per luogo, del Camerale III, serie Comuni. Presso l’Archivio Segreto Vaticano sono state individuate le serie ritenute più significative dei fondi dell’Abbazia delle Tre Fontane e, presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, quelle dell’archivio del Capitolo di S. Pietro. Del tutto assenti sono, invece, le fonti locali, poiché l’ottica di questa ricerca ha escluso in questa fase l’indagine presso gli archivi comunali. Le ricerche in fondi archivistici di enti diversi hanno permesso di raccogliere una maggiore e differen-
ziata documentazione relativa ad un medesimo argomento. Così, mentre nei fondi della Congregazione del Buon Governo, serie II Atti per luogo, e del Camerale III, serie Comuni, è stata raccolta la documentazione prodotta dalla comunità e spedita al governo pontificio, l’esame dei fondi vaticani ha integrato tale documentazione con quella prodotta per interesse degli enti ecclesiastici della Abbazia delle Tre Fontane, per la zona di Monterosi, e del Capitolo di S. Pietro, per la zona di San Martino al Cimino. In tal modo la prospettiva dello studio sull’evoluzione della strada si è ampliata all’interno di una considerazione dinamica degli interessi privati e «pubblici» sullo sfruttamento del territorio. Dal punto di vista della ricerca archivistica emergono due linee di sviluppo dello studio sempre in un’ottica globale della storia del paesaggio: una, generale sulla viabilità delle vie Cassia e Cimina basata sull’analisi dei fondi della Presidenza delle strade, nelle buste relative alle strade consolari e ai bandi; un’altra, specifica dei luoghi adiacenti alle due strade nei fondi della Congregazione del Buon Governo, del Camerale III e quelli vaticani. L’esposizione di quello che è stato rintracciato nei fondi archivistici non è, come detto, esaustiva, ma tende a fornire una linea di riflessione sulla evoluzione dell’assetto viario della zona compresa tra Monterosi e Viterbo, nelle direttrici Monterosi-Sutri-Ronciglione-Viterbo e Monterosi-Sutri-Vetralla-Viterbo con riferimento anche al tratto precedente Roma-Monterosi, all’inter-
no di una considerazione del rapporto tra strade e territorio. In questa prospettiva la ricerca ha privilegiato l’analisi dei documenti relativi alle strade, con annessi lavori di pubblica utilità (acquedotti, fontane, mura) e ai manufatti adiacenti le strade costruiti dall’uomo (osterie e poste) che si pongono come centri di interessi umani, economici e politici, nonché di interazione con l’ambiente. La documentazione raccolta offre ulteriori e stimolanti spunti di indagine su altri aspetti che intervengono nel rapporto dell’uomo con il territorio. Dalla rilevazione paesaggistica, approfondita su carte e mappe, si può delineare il tipo di coltivazioni e i terreni lasciati incolti, o boschivi, che costeggiano la strada e che caratterizzano l’economia della comunità adiacente. La ricerca può sviluppare, a questo punto, l’analisi delle linee politiche e delle realizzazioni concrete attuate dalla comunità per salvaguardare l’economia agricola, nella difesa del territorio sia dagli animali domestici che dalle locuste. Un altro argomento utile da approfondire, anche nell’ambito di una ricerca sulla storia delle tecniche e dei materiali, è la conoscenza del livello tecnologico raggiunto in un determinato periodo nella costruzione e restauro delle strade, come risulta da alcune descrizioni di strade. La ricerca sulla via Cimina ha preso avvio dallo studio delle serie della Presidenza delle Strade, l’organo centrale di gestione dei lavori di mantenimento e restauro delle strade urbane ed extraurbane. In questa sede sono stati presi in considerazione i
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bandi relativi ai mutamenti apportati alla via Cassia e alla via Cimina. Ad integrazione della documentazione della Presidenza delle Strade, il materiale della Congregazione del Buon Governo, serie II Atti per luogo, del Camerale III, serie Comuni, e dei fondi vaticani propone il punto di vista e gli interessi delle comunità e dei privati possessori adiacenti l’itinerario stradale della Cassia in una produzione documentaria di viva e immediata attualizzazione. Prima di iniziare a considerare il materiale archivistico è opportuno fornire alcune indicazioni, tratte da pubblicazioni moderne, sulla identificazione della via Cassia Cimina e della via Ciminia. Dagli studi di F. M. D’Orazi1, S. Francocci e D. Rose2 emerge prima di tutto la distinzione tra le due strade: la via Cassia Cimina odierna, che parte all’altezza del lago di Monterosi, venne costruita nel 1788 ad opera dei Ronciglionesi e non ha nulla a che vedere con la via Ciminia o Cimina antica che parte dalla Porta Morona di Sutri, entra nel territorio di Ronciglione, raggiunge la località Poggio Cavaliere, supera Vico, si inerpica sul Monte Venere, discendendo percorre la strada che porta a San Martino al Cimino e si dirige verso Viterbo. È inoltre opportuno fornire alcune brevi informazioni sulla storia e sulla presenza nel territorio dell’Abbazia delle Tre Fontane, in rapporto a Monterosi, e sul Capitolo di S. Pietro, in rapporto a San Martino al Cimino. Monterosi e l’Abbazia delle Tre Fontane (SS. Vincenzo e Anastasio «ad Aquas Salvias») L’Abbazia delle Tre Fontane, posta sulla via Laurentina, ha origini molto antiche e possiede, secondo Moroni, le chiese di SS. Vincenzo e Anastasio «ad Aquas Salvias», di S. Maria in Scala Coeli, di S. Paolo alle Tre Fontane3. Il monastero di S. Anastasio «ad
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Aquas Salvias» risale alla prima metà del VII secolo ed appartiene ai monasteri detti «de Cilicia» in riferimento alla terra di origine di S. Paolo. I monaci di Cilicia, di origine greca, giunti a Roma si erano insediati nel luogo dove credevano fosse avvenuto il martirio del santo. Si ritiene che in origine il monastero fosse titolato non già a S. Paolo, ma alla «Theotokos» e poi al martire S. Anastasio4. Nell’806 il monastero, insieme ad altri monasteri romani, è beneficiato da papa Leone III di città, luoghi e porti marittimi sui quali esercitare la propria giurisdizione. Fino al XIX secolo compaiono, tra questi beni, S. Oreste al Soratte, Ponzano, Monterosi. Sotto il pontificato di Innocenzo II (1130-1143), i Cistercensi giungono a Roma e, su concessione papale, nel 1140 si insediano presso il monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio «ad Aquas Salvias». In seguito, mossi da un fervore religioso di rinnovamento, i Cistercensi si adoperano per riformare altri monasteri o per crearne di nuovi, grazie alle generose donazioni dei fedeli. Nascono le filiazioni di S. Agostino di Montalto (1234), S. Giusto di Tuscania (1236), S. Maria di Palazzolo ad Albano (1237): l’abbazia romana estende le sue proprietà immobiliari nella Campagna romana fino ad Orbetello in Toscana e nel Lazio meridionale. Le precarie condizioni politiche e sociali caratterizzate dall’assenza di un governo centrale e dai conflitti tra le famiglie nobiliari, contribuiscono al deterioramento della vita religiosa nei monasteri. Così il 3 dicembre 1320 Giovanni XXII incarica il vescovo di Viterbo e l’abate di SS. Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane di costringere Berardo «de Montenigro», dell’ordine dei Minori, «pro abbate» di S. Gregorio al Celio, a presentarsi davanti a lui per rispondere dei gravi crimini commessi durante l’amministrazione del monastero. Berardo veniva accusato che «ecclesias S. Fortunatae de Sutrio et
S. Georgi e Flaiano consuetas per monachos tantum dicti monasterii gubernari, apostatis contulit de monasterio S. Laurentii extra muros Urbis»5. Diversamente, quando si tratta di difendere la propria vita monastica, i monaci si ribellano al visitatore Pietro, inviato da papa Gregorio IX nel 1373 per riformare i monasteri maschili di Roma. Nel 1466, l’Abbazia delle Tre Fontane compra dalla Camera Apostolica il castello, il borgo e il territorio di Monterosi, acquisto confermato da Paolo II nel 1469. Dopo l’invasione di Nepi, che il monastero fu costretto a restituire nel 1470, Monterosi rimane possesso dell’Abbazia delle Tre Fontane. I rapporti tra Monterosi e l’Abbazia di S. Paolo risalgono al secolo XI, quando Gregorio VII conferma con una bolla il lago di Janula all’Abbazia. Nel secolo XIII, l’Abbazia allarga la sua proprietà al territorio di Nepi «usque ad montem Rossulum et lacum qui vocatur Janula»6, ma nella bolla di conferma dei beni a S. Paolo da parte di Carlo IV (1369), non sono più ricordati né Monterosi né il lago di Janula. Durante il secolo XIV era avvenuto un passaggio di proprietà dall’Abbazia agli Orsini, signori di Nepi, che avevano esteso il loro dominio anche su Monterosi. Ciò è confermato da un bando del 1396 in cui Monterosi e altri castelli sono messi all’asta da Maria, vedova di Giovanni Orsini. Monterosi viene infeudata a Poncello di Francesco Orsini nel 1404 da Gregorio XII: nella bolla7 si ricorda che Monterosi è posta sotto la sovranità immediata della Santa Sede e che l’importanza del luogo è data dalla sua posizione lungo la strada percorsa dai pellegrini che venivano dal nord. San Martino al Cimino e il Capitolo di S. Pietro L’antica basilica di S. Pietro dovette possedere, fin dalle origini, un archivio con biblioteca che contene-
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va i documenti più antichi relativi alle donazioni fatte sulla tomba dell’apostolo8. Nell’inventario dell’archivio del Capitolo, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, si trovano le carte relative ai possessi in San Martino. La più antica citazione su di una chiesa di San Martino al Cimino risale all’8389, quando viene donata all’Abbazia di Farfa, una chiesa posta in una zona detta «Casa Putida». Questa prima chiesa non è da identificarsi con l’Abbazia di San Martino al Cimino, edificata in epoca posteriore dopo che i monaci di S. Martino si resero indipendenti da Farfa e, nel luogo detto «Novellitu» o «Novelletu», di cui si ha menzione in un documento del 104510, cominciano a costruire l’Abbazia intorno alla quale si sviluppa il villaggio di San Martino. A causa della precaria situazione economica in cui versava l’Abbazia, questa viene prima donata da papa Eugenio II, nel 1145, ai monaci Cistercensi di S. Sulpizio, e poi da papa Innocenzo III, nel 1207, ai Cistercensi di Pontigny11. Innocenzo III va oltre questa iniziale manifestazione di assistenza, prodigandosi nell’accrescimento economico del monastero attraverso un’azione di riconoscimento dei possessi e di concessione di benefici di vario genere. La bolla che ratifica questi benefici contiene l’elenco dei beni in possesso del monastero, perlopiù chiese nel territorio viterbese12. Dopo lo Scisma d’Occidente l’antipapa Clemente VII (13781394) rende l’Abbazia commenda che passò, nel corso del tempo, in mano di personaggi legati ai papi. Nel 1461 la commenda è data a Francesco Piccolomini, poi ad Alessandro Farnese (1503), Giulio della Rovere (1525), Gerolamo Riario (1535), Ranuccio Farnese. Dopo la rinuncia (1564) di Ranuccio Farnese, Pio IV sopprime la commenda e con una bolla pone il monastero alle dipendenze del Capitolo della Basilica di S. Pietro13. Il Catasto, conservato nell’archivio capitolare, è datato 21 maggio
1564 e mette in luce il legame instaurato tra il Capitolo e l’Abbazia di San Martino e si definisce come strumento di gestione amministrativa e fiscale dei beni spettanti all’Abbazia, ora passati al Capitolo14. Nel 1645 l’Abbazia viene ceduta in permuta da papa Innocenzo X a Donna Olimpia Maidalchini Pamphili in cambio della tenuta di Prisciano e di due pediche nel territorio di Velletri15. Sotto Olimpia Maidalchini Pamphili viene costruito il palazzo e restaurata la chiesa abbaziale. San Martino diviene principato feudale dei Pamphili che lo tennero fino al 1760 per poi passare ai Doria Landi16. Per quanto riguarda i rapporti tra la città e il Capitolo è utile ricordare che il questlo nominava un potestà con autorità civile e penale e con riserva di appello al Capitolo stesso. Un commissario rappresentante del Capitolo a San Martino gestiva l’amministrazione della città nella riscossione dei censi, stipulazione di contratti, coltivazione delle terre. Vi era, inoltre, un affittuario generale deputato alla conduzione delle terre dell’Abbazia date in affitto. La comunità di San Martino era rappresentata da un Capo priore, coadiuvato da due Priori che si occupavano della raccolta del grano, dei proventi del forno e delle imposte e della gestione delle terre affittate al Capitolo. La via Cassia e la via Cimina nei documenti d’archivio XVII secolo L’unica mappa rintracciata del secolo XVII che illustri dettagliatamente il tracciato della strada da Roma a Viterbo è il Catasto Alessandrino17. Il disegno indica il percorso che partiva da Porta del Popolo, giungeva a Monterosi e poi si diramava a ovest verso Sutri (Cassia antica e via Ciminia), a est verso Ronciglione (Cassia Cimina e via Ciminia), attraversava la Montagna, confinante con il territorio di
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San Martino, e giungeva a Viterbo. Arricchisce il tracciato viario la presenza di centri cittadini, di casali e delle osterie, importanti luoghi di sosta dei viandanti che percorrevano questa strada. Menzione di lavori intrapresi per l’assetto viario della Cassia compare nel XVII secolo nella documentazione della Presidenza delle strade e della Congregazione del Buon Governo. Nel 1603 il governo centrale si occupa di «accomodare la Strada fuora di Porta del Populo. Essendo la Strada … fatta quasi impraticabile in più luoghi per essere rotta, & guasta» attraverso una gara d’appalto18. Nutrita per questo periodo, è la documentazione relativa a Sutri dove, nel 1641, si comanda il riattamento della strada che passa per Sutri, Capranica, Vetralla e Viterbo «come passava anticamente»19. Inoltre, l’anno dopo, «La Città di Sutri avendo con licenza dell’Em.mo sig. card. Antonio fatto un ponte et aperto una nuova strada fuori della porta Morona, ad effetto di perfectionare la strada romana che deve passare per dentro la Città per maggior comodità de passeggieri» chiede di potere creare un censo20. La strada che parte da Porta Morona viene definita da P. Bondi21 una «consolare lastricata» e si identifica con il tracciato della via Cassia antica sopra citata. In occasione di questi lavori al ponte e alla strada si apprende, in un documento successivo, datato 14 aprile 1675, che viene fatta una porta «d’ordine d’un tal Commissario Tazza che fù deputato a fare aggiustare queste strade quando dalla Em. Di Papa Urbano VIII fù proibito il passare per quella di Ronciglione»22. L’ordine papale non ebbe effetto se, nel 1644, Angelo Celluzzi appaltatore della gabella del passo di Sutri sostenendo che la strada romana doveva «continuare a passare per detta città di Sutri e non altrove» lamenta che «li mulattieri et in generale tutti li bovi (…) pasano per Ronciglione in suo gran danno»23. Evidentemente i passeggeri trovavano
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Fig. 61. Caprarola e Ronciglione, Macchie di Montevenere e Valle di Vico (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. I, cart. 12/58). La pianta illustra il lago di Vico e le comunità adiacenti.
più comodo e preferibile passare per la strada di Ronciglione, seguendo il tracciato Monterosi-Ronciglione. L’esclusione dal percorso viario arreca un danno economico a Sutri che, nel 1674, supplica «la restitutione della strada romana col passo de corrieri et Posta in modo che dà Monte Rosi passi per il territorio di Sutri e di lì si porti à Ronciglione»24. E’, probabilmente, la stessa direttrice stradale (via Ciminia) con inclusione della comunità di Capranica oggetto di una richiesta di accomodamento nel 1675. Il documento riferisce che dovendosi rifare i ponti e accomodare la strada romana urbana che da Sutri conduce a Viterbo viene ripartita la spesa tra
Sutri e Capranica che hanno interesse a rendere praticabile la strada «per l’augmento che l’entrate publiche ricevono dal’ passo di essa, con il qual augmento pagano li frutti delli denari che furno presi ad interesse al tempo della glor. Me. di Urbano 8 che commandò se facesse detta strada»25. La menzione dell’aumento dell’entrate pubbliche derivato dal «passo», intendendo con esso la gabella che si faceva pagare all’entrata nel territorio cittadino, può essere una spia di una maggiore frequentazione di viandanti lungo la strada in occasione della celebrazione dell’Anno santo. Per l’anno 1674 compare una menzione al restauro di strade per
l’Anno santo del 1675: «Dovendosi in occasione del futuro Anno Santo per servitio dei fedeli, che vengono à Roma, per raccomodare le strade fuori di Porta Angelica verso Viterbo, sino ponte Centino, con massicciare, selciare, & altro conforme sarà necessario, & conforme alli capitoli, e scandaglio fatti sopra ciò essistenti negli atti dell’infrascritto nostro Notaro»26. In questo caso la menzione è riferita alla Porta Angelica da cui partivano diverse «strade» in direzione di Viterbo, tra le quali si suppone che qualcuna si ricongiungesse alla via Cassia. Per comprender meglio la diramazione viaria da Porta Angelica a Viterbo è indicativo
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Fig. 62. Il Patrimonio di S. Pietro secondo una rappresentazione cartografica del XVIII sec. (ASR, Collezioni disegni e piante, Coll. I, cart. 56/145, autore Giacomo Filippo Ameti)
un passo di un bando del 175827 che propone l’appalto per il mantenimento delle strade consolari fuori di Porta del Popolo verso Viterbo, con il braccio Monterosi-Sutri-Ronciglione, e fuori di Porta Angelica «che tende a Monte Mario fino alla Giustiniana (attuale via Trionfale), con l’altro picciolo braccio da detta Porta fino a Ponte Molle». Da Ponte Molle la strada consolare fuori di Porta del Popolo si dirigeva per Sutri e terminava al Ponte detto di Roma vicino Viterbo28. Un bando del 1676 propone il percorso (via Ciminia) da farsi passando per la «strada publica della Posta per il tratto» da Monterosi a
Sutri «e da quella uscendo per la Porta chiamata Morona si porti à Ronciglione per la strada nuovamente fatta aggiustare à quest’effetto con haver anco ordinato, che li Corrieri (…) Postieri (…) qualsivoglia persona (…) non debbano in avvenire passare per altra strada, che per la sudetta»29. Si può quindi ipotizzare che nel 1674, in occasione dell’anno santo, si fosse aggiustata la direttrice Monterosi-Sutri-Ronciglione. Fino alla fine del secolo la preoccupazione del riattamento delle strade territoriali e urbane è un elemento costante delle lettere spedite dalla comunità di Sutri alla Congregazione del Buon Governo. Alla ripara-
zione delle strade si affiancano opere di ingegneria edile, nella riparazione di mura cittadine, e idrica, nella manutenzione di acquedotti e fontane. Per questo secolo le uniche testimonianze relative a questi lavori si trovano a Sutri, impegnata nella riparazione delle mura cittadine, nel 164630. Per le fontane è attestato il lavoro alla fontana della Martora intrapreso, nel 1694, dalla comunità. Come risulta dalla documentazione Sutri, che possiede due fontane secche, una del «Pisciarello» e una della «Madonna della Grotta», «è penuriosa di acqua bona, et una sorgiva che ven’è sotto le mura della med.a à piè della Porta nova in una bassezza,
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che si rende inutile à tutti (…) è di tanta leggerezza, e perfezione» che dal Governatore la si vuole riattare31. È questa la fontana di Martora che si trova sotto le mura castellane, nella strada che conduce a Capranica e per la cui riparazione viene ricostruito anche il ponte. L’ultima tappa del percorso stradale Roma-Viterbo è costituita dalla città di San Martino al Cimino. Bene appartenuto al Capitolo di s. Pietro, la fonte archivistica privilegiata nello studio sulla configurazione paesaggistica del territorio è il Catasto del Capitolo. Al Catasto non vi sono allegate piante o disegni esplicativi della disposizione planimetrica dei beni descritti nelle assegne catastali. Comunque, attraverso l’esame delle assegne è possibile ricostruire l’ambiente, con le sue costruzioni abitative e di uso, le coltivazioni, i terreni boschivi, che caratterizza, tra i secoli XVI e XVII, il territorio di San Martino al Cimino con particolare riferimento alla «strada publica». In assenza di un confronto con una pianta dell’antico abitato di San Martino si può dedurre, dalle indicazioni delle assegne del Catasto, datate agli anni 1568-1592, che la strada pubblica è la strada principale che dal centro del paese portava a Viterbo. Pur non esaurendo l’analisi della composizione urbanistica e paesaggistica lungo la strada si può, tuttavia, notare la prevalenza di vigneti32 e orti33, attigui le case; minore la presenza di oliveti34, castagneti35, olmi36, campi di grano37, querceti38, noceti39. XVIII secolo Diversi bandi del secolo XVIII contengono indicazioni sullo spurgo dei fossi e delle forme e sugli appalti per il mantenimento delle strade consolari, con riferimento al tratto Monterosi-Sutri-Ronciglione-Viterbo e, per il tratto della Cimina, al percorso che incontra la «Fontanella nell’ultima scesa della Montagna»40. Un’indicazione del tracciato è conte-
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nuta in un bando del 1746 relativo all’appalto per il «mantenimento della Strada Consolare di Viterbo, e del Braccio parimenti Consolare di Sutri fuori di Porta del Popolo». Si precisa che la strada consolare di Viterbo inizia dopo Ponte Molle, passa per La Storta e «per dove và la Posta» si dirige verso Baccano e, poi Ronciglione, fino al «Ponte di Viterbo, passata la Fontanella nell’ultima scesa della Montagna»41. Da questo percorso sono esclusi il tratto di Monterosi, che spetta alla Badia di Monterosi, e il borgo di Ronciglione. Il braccio di Sutri comincia dopo Monterosi verso la porta di Sutri e poi fino al borgo di Ronciglione. L’appalto per il mantenimento delle strade prevedeva, oltre i lavori pertinenti le selciate e i fossi, anche la manutenzione dei ponti. A proposito della linea stradale che congiunge Roma-Sutri-Vico-Viterbo, ad inizio secolo, una «Descrizione, Risarcimenti, e Qualità della strada consolare, che da Porta del Popolo, cominciando da Ponte Molle per Sutri, termina al Ponte detto di Roma vicino à Viterbo»42 testimonia di un progetto di riattamento di questo tratto di strada. Il dettaglio della «Descrizione» contempla anche l’altro e maggiormente trafficato tratto di strada che collega Ronciglione direttamente a Monte Rosi. L’unico riferimento al riattamento delle strade in prossimità dell’Anno Santo, in questo secolo, si trova in un bando del 1773, in cui la Presidenza delle strade «coll’intelligenza della Sagra Congregazione del Buon Governo» impone una tassa straordinaria per i nuovi lavori da farsi alle strade consolari43. L’indicazione generica delle strade non esclude un intervento anche sulla via che conduceva a Viterbo e sulla diramazione per Sutri come si ritrova nel bando precedente. Nel territorio di Monterosi, già nel 1713, viene espressa l’esigenza di un riattamento della «strada romana (…) per relationi haute del pessimo stato nel quale si ritrova»
secondo un editto di Piero Eutizij, rappresentante dell’Abbazia delle Tre Fontane, pubblicato per ordine dell’Abbate Commendatario il cardinale Altieri, diretto al popolo di Monterosi44. In questo caso il tratto di strada da riparare è in direzione di Roma e il progetto prevede di «ricavare la forma su la mano dritta della porta verso Roma e spianare il morrone regolatamente à piano della strada ultimamente reattata». L’anno seguente la comunità di Monterosi è impegnata nel riattamento della «strada, che và a Roncilioni per la Via di Puciacco»45. Ulteriori lavori stradali vengono raccomandati, tra il 1752 e il 1764, nella strada consolare di Viterbo, nel tratto Monterosi-Sutri, all’altezza del Fontanile fino al «Ponte di Muro», che è rovinato a causa dell’acqua che. fuoriesce dalla fontana «per non essere posta nel suo canale solito come anche li vicini di detta strada non puliscono le forme»46. Per l’anno 1755 abbiamo una dettagliata «descrizione dello stato del braccio di strada consolare che da Monterosi per Sutri sino al borgo di Ronciglione» scritta dall’architetto Giovanni Francesco Fiori47. La relazione è una dettagliata analisi delle condizioni della strada e delle tipologie di materiale impiegato nella selciatura della strada («riempitura di rapillo», «selciata a secco di bastardoni bianchi») alternata a tratti di «strada a terreno tra li prati». Il percorso indicato «principia dal Borgo di Ronciglione, e precisamente in fianco la Chiesa di S. Bartolomeo in detto Borgo, e proseguisce sino alla Porta di Sutri, e ripiglia dopo l’altra Porta passato la Scenta di Sutri, sino dove termina il Fontanile prima di arrivare a Monterosi con aver descritto tutte le selciate, Ponti di Muro, e riempiture esistenti in detto Braccio di Strada ed anche le Strade a terreno nello stato in cui sono». Nella seconda metà del secolo XVIII (1764-1765) continuano i lavori di riattamento della strada «romana» di Monterosi per rendere la
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strada «così fuori, come dentro (…) sufficientemente praticabile» e permettere il passaggio agevolato dei viandanti rimandando alla stagione migliore l’opera di selciatura a calce della medesima48. Un successivo lavoro di manutenzione interessa la selciata della strada fino al Palazzo dell’Abate Commendatario, il cardinale Colonna di Sciarra che ordina, contemporanemante, di «imbiancare la Chiesa con dare à pilastri il color di marmo, alli sfondi il color celeste»49. Sempre in questi anni il rappresentante a Monterosi dell’Abbazia delle Tre Fontane viene incaricato dal Tesoriere generale di far fronte alle spese necessarie per il risarcimento delle strade sia interne che «le strade fuori di Porta Romana, che conduce à quella del Tribunale, e l’altra per la parte di Viterbo, che conduce al Laghetto»50. Mentre per le strade interne la spesa è a carico dell’Abbazia, la strada esterna trattandosi di «Via consolare» rientra nelle competenze dell’appaltatore. Il ritardo nel riattamento della strada fuori di Porta Romana ha provocato danni ai privati che possiedono i prati posti a margine della strada, attraverso i quali i «calessanti e postiglioni della Posta per scansare il pericolo del fango, e delle buche» si addentrano creando un nuovo passaggio51. Il progetto di una nuova strada da Monterosi verso Sutri, per evitare la Montagna di Viterbo, viene intrapreso da Pio VI (1775-1799). La disposizione papale di imporre una tassa alle comunità interessate alla strada trova opposizione nella determinazione della comunità di Ronciglione «rappresentandogli il grave danno (…) in deviare la Posta della Strada di Ronciglione specialmente per il Commercio del Ferro colla vicina Città di Viterbo, con tutto il rimanente della Provincia». La comunità di Ronciglione chiede di essere esentata dal pagamento della tassa ed aprire a proprie spese una strada che conduca a Viterbo «più breve, e transitabile con strasciri e barrozze, per cui non si avesse più a
passare per la detta Strada della Montagna»52. Si definisce, secondo le carte, la progettazione di due strade: una da Monterosi a Sutri, l’altra da Ronciglione a Viterbo. Nel 1781 è attestata la costruzione di una nuova strada consolare che da Monterosi giunge a Sutri in occasione dell’espianto di 39 piante di «mori celsi» di proprietà dell’Abbazia delle Tre Fontane che vengono piantate in un altro luogo53. Ma la costruzione della strada origina una controversia in merito al lavoro degli «stradaroli» i quali, nel costruire la strada, hanno tolto all’Abbazia parte dei terreni adiacenti54. Da Sutri a Viterbo il riattamento della strada assume, intorno gli anni ‘80 del secolo, una fisionomia diversa. Da notare che, già nel 170055 la comunità di Sutri è impegnata in lavori di ingegneria in un progetto di ricostituzione di strade, ponti e acquedotti. Si tratta di accomodare la strada che conduce alla Porta di mezzo «ridotta a non potersi più passare», i ponti della strada per Capranica e quelli che portano alla chiesa di S. Giacomo, gli acquedotti delle fontane pubbliche «penuriando d’acqua». Fino al 1773 sono documentati lavori alle strade dentro e fuori la città con il riattamento delle selciate56. In un documento del 1784 le comunità di Sutri e Vetralla appoggiano il progetto della Presidenza delle strade contro un tale Antinori, sostenitore della causa dei Ronciglionesi, di aprire una «nuova Linea, che da Roma conduce a Viterbo (…) per iscansare l’aspra salita della Montagna (…) il tragitto di questa Linea è senza paragone più piana, e comoda di quella dei Ronciglionesi» la quale «per la sua infelice situazione hà dal principio del Paese una continua discesa fino a Viterbo (…) è situata nel limite d’una gran Macchia, che in un luogo così deserto non può rendersi il tragitto sicuro (…) ed in mezzo ad aspre Montagne». Per comodo dei viandanti la nuova strada «passa in mezzo alla città di Sutri, e di Ve-
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tralla (…) è in somma la stessa Via Cassia formata dalli antichi Romani»57. A sostegno del nuovo tracciato sono gli interessi economici delle due comunità di Sutri e Vetralla che si vedevano escluse da tutti quei proventi derivati dal passaggio di merci e viandanti a favore dei Ronciglionesi. Viene in tal modo espressa l’esigenza di ripristinare l’antico tracciato della via Cassia. Per salvaguardare i propri interessi e non essere esclusa dall’itinerario Roma-Viterbo, la comunità di Ronciglione si impegna, come riferisce un documento del 179358, a «costruire à proprie spese la nuova Strada che conduce a Viterbo (…) in luogo della Vecchia della Montagna». Per il 1788 è riferita la notizia della costruzione della moderna Cassia Cimina, che si presuppone essere la «nuova strada» del documento citato59. Più a nord, per il territorio di San Martino al Cimino, non si ha notizia di riattamento di strade, eccetto in un documento del 1794 a proposito delle strade interne dette «del macello» e «del vicolo di mezzo»60. XIX secolo In questo secolo continuano i lavori al tratto stradale MonterosiSutri, mentre nuovi lavori vengono eseguiti sulla «via Cassia di Toscana» che congiunge Monterosi direttamente a Ronciglione fino alla Montagna. In quegli anni (18141815) la Presidenza delle strade appalta a Mattia Manetti «per il risarcimento e manutenzione ad anni nove del tratto di strada, che dal Ponte dell’Edera conduce fino al Ponte di Valdiano» all’altezza della Colonnetta di Nepi61. I lavori sono stabiliti per quel segmento stradale che parte dall’osteria dell’Edera62, prima della posta di Baccano, fino al ponte di Valdiano. Ad Orenzo Sebaste viene appaltato il «risarcimento, e manutenzione ad anni nove del tratto di strada, che dalla Colonnetta di Nepi63 giunge alla Chiesola della Montagna64 per poterlo ricosti-
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tuire e perfezionare. Nel lavoro di rifacimento della «via Cassia di Toscana» vengono restaurati anche i ponti della Solfara, di Pucciaca, di Grassano e del Cavaliere che si trovano nel tratto stradale Roma-Monterosi65. Nell’ itinerario per Viterbo, nel 181966, vengono riattati i ponti compresi nel tratto stradale RomaMonterosi, quelli della Valchetta, «ponticello prima di arrivare all’osteria di Baccanaccio», «ponticello prima di arrivare all’osteria del Pavone», «ponticello detto della Passarella», e quelli che da Monterosi seguono il percorso verso Viterbo passando per Sutri, «ponte vicino la fontana di Monterosi», «ponticello passato il ponte delle Tavole», «ponte detto del Salvatore» a Sutri, « ponticello che segue», «ponticello à piedi la scenta», e per Vico, «ponticello di Vico», e all’altezza della Montagna di Viterbo,«ponticello della Porchetta» e «ponticello della Cartiera». L’itinerario dei ponti è quello che collega Monterosi-Sutri-Vico-Viterbo seguendo, nell’ultima parte, il tracciato della «antica strada corriera» corrispondente alla via Ciminia. Notizie sull’esito dei lavori intrapresi nell’altra direttrice Monterosi-Sutri, nel percorso corrispondente alla via Cassia antica vengono fornite da un documento del 181667 che denuncia il pessimo stato di questa strada, specie in «tempi di piogge, come succede … delle altre strade, che non son consolari a quella poi si unisce il dissesto delle selciate fattevi fare dal Governo allorchè volea ridurla consolare, e che poi ha abbandonata; ma non per questo è impraticabile alli pedoni, e bestie solite passarvi, presentando soltanto alli legni la difficoltà del transito». Il fatto che la strada non sia «nè postale nè provinciale, ma soltanto particolare di quelle communità» che vi hanno una pertinenza implica che il pagamento del riattamento stradale sia un onere delle comunità di Monterosi, Sutri, Bassano, Capranica e dal punto di vista della percor-
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ribilità l’abbandono di questo percorso a favore di quello MonterosiRonciglione. Nel 1824, quando la Presidenza delle strade ordina un riepilogo dei lavori fatti alla strada Cassia da Roma a Viterbo, viene fornito un quadro dettagliato dei lavori a partire dall’anno 1818 (appalto del 1815) 68 . Dal riepilogo risulta che il tronco La Storta-Ponte dell’Edera è ancora in via di miglioramento, nonostante siano stati fatti molti lavori; i tronchi Ponte dell’Edera-Ponte del Pavone e Ponte del Pavone-Colonnetta di Nepi sono sistemati; il tronco Colonnetta di Nepi-Posta della Montagna è stato sistemato «ed ora le strade sono in generale perfettamente ridotte, ed in istato da non richiedere, che la semplice manutenzione ordinaria». Per la zona di San Martino, ultimo centro cittadino interessato al percorso stradale per Viterbo, si parla di «strade consolari» a proposito della esazione delle tasse relative69. Il termine può far ipotizzare che il tratto stradale Ronciglione-Viterbo, oltrepassata la Montagna, corrisponde all’antico tracciato della via Ciminia fosse considerato «consolare». Nel 1805 vengono iniziati i lavori alla strada che collega San Martino a Viterbo, della quale si forniscono alcune indicazioni sul percorso, dal momento che questa «abbisogni di restauro, e che sia necessaria la traffico che passa trà questo e quel luogo conterritoriale (…) mentre per esser tutta montuosa quella linea ha bisogno di lavori stabili, e di assidua assistenza»70. Accanto ai lavori stradali, la comunità fa fronte a quelli relativi al riattamento della fontana pubblica, posta nella piazzetta71. La situazione delle strade extraurbane di San Martino, l’anno dopo, è assai grave se i rappresentanti della comunità denunciano i carreggiatori di legname, provenienti dai castagneti di Viterbo, i quali «passando per le strade consolari di questa terra, evitando le strade carrareccie hanno fatto un danno nota-
bile rendendo le dette strade in varri luoghi impraticabili nell’inverno»72. Nella perizia allegata dai rappresentanti di San Martino vengono dichiarati i danni arrecati alle strade consolari, specie alla strada che passa «sotto alla chiesa nova (…) affatto impraticabile su la stagione dell’inverno». Questa strada risulta riparata l’anno dopo e per il mantenimento di essa la comunità stabilisce una tassa sopra i carri che trasportano legname73. Fino agli anni ‘30 del secolo continuano ad essere testimoniati lavori di restauro alle selciate delle strade urbane e territoriali74. Le osterie e le poste La frequentazione più o meno assidua di un percorso viario, rispetto ad un altro, è un elemento di notevole importanza economica per le comunità adiacenti la strada. Dal passaggio dei viandanti traggono beneficio sia gli affittuari delle gabelle del passo, sia gli osti che tengono le osterie dentro e fuori la città. Il passo e l’osteria sono due beni che la comunità gestisce direttamente e che, attraverso una gara di appalto, affitta per uno o più anni al migliore offerente traendone un importante provento economico. Il disegno del Catasto Alessandrino riporta secondo un tracciato lineare l’assetto paesaggistico della via Cassia nel 1660 a partire da Roma fino a Viterbo. Per il XVII secolo abbiamo testimonianze per Monterosi di una osteria di Santa Rita posta lungo la strada per Ronciglione, in località Puciacco75. Per Sutri constatiamo l’esistenza «lontano dalla città tre miglia sù la strada romana» verso Ronciglione, della osteria di Grassano76, non presente nel Catasto Gregoriano, e di un’osteria di Borgo e una del Leoncino77. Relativamente alle osterie le lettere della comunità di Sutri chiedono alla Congregazione del Buon Governo di sostenere la loro attività attraverso la concessione di appalti e
L’ASSETTO VIARIO DELLA VIA CASSIA TRA XVII E XIX SECOLO
di difenderle da ogni pregiudizio78. È il caso della osteria di Grassano per la quale, trovandosi il sospetto della peste, l’affittuario Enea Orlandino non può alloggiare forestieri, «se bene pochi ne passano» e chiede il defalco delle tasse «restando tutta l’hostaria serrata»79. Nel 1641 Giovanni Antonio Garofoli, affittuario dell’osteria di Borgo di Sutri, lamenta che l’apertura di una nuova porta «in luoco non habitato per introdurre la strda romana dentro la città» ha dato «occasione à particolari cittadini di aprir le case proprie per hosterie» e inoltre, l’apertura di «nuove hosterie» gli ha provocato un grave danno economico per il quale chiede l’intervento della Congregazione del Buon Governo80. Quando la comunità veniva meno alla gestione della osteria poteva intervenire il Governatore che decideva sull’affitto. Questo caso risulta nel 1697, quando il Governatore Filippo Giacomini denuncia che un tempo la comunità di Sutri affittava due soterie, una dentro la città e una nel borgo, e che ora nessuna delle due è affittata, mentre vi è un tale che alloggia a propria discrezione i viandanti81. Il Governatore sollecita affinchè si proceda all’appalto delle due osterie «per commodo de passaggieri, particolarmente nella imminenza dell’Anno Santo». Il riferimento ai pellegrini conferma che, in questo periodo, Sutri è luogo di sosta del percorso viario che da nord conduceva a Roma. Dopo Sutri, la tappa successiva era Monterosi. Che Monterosi fosse punto di passaggio dei pellegrini provenienti del nord risulta evidente, non solo dalla sua posizione geografica, ma anche da una attestazione in un documento del 1766 a proposito di una causa insorta per l’affitto dell’Osteria dell’Angelo82. Nel documento sono menzionate anche le osterie della Croce bianca e di S. Marco. Il signor conte Francesco Martinozzi affitta per tre anni al signor Giuseppe Barzi, mastro di posta, «In
vigore de Privilegii, che godono tutti li Mastri di Posta per la prelazione» la sua osteria dell’Angelo «non ostante sia affittata ad altri» secondo il Bando generale delle poste, che ha potere di «permutare le osterie delle medesime poste in quelli siti benchè affittati, che stimerà più commodi e vantaggiosi per il sefizio pubblico». Contro l’affittuario muove causa Giovanni Battista Matani che tiene in affitto l’Osteria della Croce bianca «una picciola osteria di pochi comodi, e di poca polizia servendosene il medesimo per uso de poveri passaggieri pellegrini». L’indicazione è riferita solo ai «poveri pellegrini» costretti ad adattarsi ad un alloggio di umili condizioni. Il Summarium riporta, a difresa di Matani, l’istrumento di locazione con il conte Francesco Martinozzi di una casa con orto e grotta «ad uso di osteria posta nel borgo romano della terra di Monterosi detta l’osteria dell’Angelo». Nella causa intervengono altri personaggi, tra cui Cesare Bagiaia anch’egli pretendente all’affitto dell’osteria in virtù di una dichiarazione sottoscritta dal conte Martinozzi il quale «intendeva riconoscere per affittuario di detta osteria il sudetto Bagiaja». A Sutri, nel 1701, poichè l’osteria non era stata affittata e vi erano, evidentemente, richieste di vitto da parte dei viandanti, alcuni cittadini si mossero per «alloggiare homini et animali con pagamento et il dar commodità di mangiare e di cucina con vendere anche robba comestibile nelle loro cantine» con grave danno alle entrate comunali83. Nel 1809 a Monterosi è ancora attestata l’osteria dell’Angelo di cui non si ha menzione nel brogliardo del Catasto Gregoriano84. Nel tratto precedente Monterosi, venendo da Roma, nel 1819, sulla strada nazionale Cassia, è ancora attiva l’osteria di Baccanello85 al Ponte dell’Edera (osteria detta dell’Edera). L’osteria si determina quale punto di sosta dei viandanti e per una migliore acco-
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glienza il proprietario Benedetto Sala chiede di poter costruire un’opera murata al posto di un capannone. NOTE 1
F. M. D’ORAZI, La via Francigena nell’area viterbese e Cimina, in «Informazioni», a cura del Centro di Catalogazione Beni Culturali di Viterbo, anno VI, n.s. 13, 1997, pp. 49-57. 2 S. FRANCOCCI-D. ROSE, Note sulla via Ciminia, in «Informazioni», a cura del Centro di Catalogazione Beni Culturali di Viterbo, anno VI, n.s. 13, 1997, pp. 58-64 3 G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, 84, Venezia, Tipografia Emiliana, 1842, pp. 212-213. 4 Monasticon Italiae, a cura di F. CARAFA, 1, Cesena 1981, p. 84. 5 ibidem, vol. 1, p. 29 6 G. SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della regione romana, 2, Roma, 1970, p. 563. 7 Citata da SILVESTRELLI, 2, p. 563. 8 L. SCHIAPPARELLI, Le carte antiche dell’Archivio Capitolare di S. Pietro in Vaticano, in «Archivio della società romana di storia patria», 24, 1901, pp. 393-418. 9 Regestrum Farfensis, ed. Giorgi, Balzani, II, 239, doc. 283 citato anche da P. EGIDI, L’Abbazia di S. Martino al Cimino secondo documenti inediti, in «Rivista storica benedettina», anno II, 6, 1907, p. 161. 10 EGIDI, L’Abbazia, p.163. 11 Ivi, p. 168. 12 Ivi, pp. 168-172 con l’elenco di tutti i beni. 13 Ivi, pp. 505, 508. 14 BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA [d’ora in poi BAV], Capitolo S. Pietro, vol. 20. Il Catasto, prodotto in due copie (voll. 20, 21) è stato redatto tra il XVI e XVII secolo. 15 EGIDI, L’Abbazia, p. 512. 16 Ivi, p. 516. In ARCHIVIO DI STATO DI ROMA [d’ora in poi ASR], Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4237 è contenuta una lettera in cui Girolamo Pamphili Principe di San Martino, ricorda l’unione del priorato di San Martino al Capitolo di San Pietro durante il pontificato di Pio IV e l’alienazione a Donna Olimpia Maidalchini Pamphili e ne chiede l’esenzione di tutti i pesi e gabelle. 17 ASR, Presidenza delle strade, Catasto Alessandrino, cart. 433/V (cfr. fig. 97). 18 ASR, Bandi, b. 446, n. 14 (4.16.1603). Sui bandi vedi D. SINISI, I bandi della Presidenza delle Strade nella collezione II della Biblioteca dell’Archivio di Stato di Roma (1580-1758), in «Rivista storica del Lazio», 5, 1996, pp. 277-358. 19 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (23.3.1641). 20 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (2.8.1642). 21 P. BONDI, Memorie storiche sulla città sa-
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bazia ora Lago Sabatino (…), Firenze, Tipografia Calasanziana, 1836, p. 134. 22 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4780. 23 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (17.12.1644). 24 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4780, (15.8.1674). 25 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4780, (6.11.1675). 26 ASR, Bandi, b. 446, n. 180 (8.6.1674). 27 ASR, Bandi, b. 448, n. 113 (22.2.1758). Si può ragionevolmente pensare che il percorso sia stato lo stesso anche nel secolo precedente. 28 ASR, Bandi, b. 448, n. 240 (1763). 29 ASR, Bandi, b. 446, n. 191 (14.2.1676). 30 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (7.7.1646). 31 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4781, (14.8.1697). 32 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn.3, 5, 33, 51, 63, 65, 66, 67, 68, 69, 77, 81, 123, 124, 134, 141, 191, 195, 202, 207, 210. 33 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn. 5, 6,, 7, 18, 33, 46, 47, 48, 51, 196. 34 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn. 51, 141, 205. 35 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn.65, 67, 72, 117, 147. 36 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn. 48, 55. 37 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn. 115, 124, 139, 198, 205. 38 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn. 117. 39 BAV, Capitolo San Pietro, 20, assegne nn. 117, 147 40 ASR, Bandi, b. 449/44 (26.3.1767). 41 ASR, Bandi, b. 447, n. 296 (25.5.1746). 42 ASR, Presidenza delle strade, b. 248 (14.6.1705). 43 ASR, Bandi, b. 449/169 (17.9.1773). 44 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO [d’ora
CRISTINA SOMMA
in poi ASV] Abbazia Tre Fontane, B 181, (4.8.1713). 45 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (30.5.1714). 46 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (28.5.1752); (28.4.1753); (4.8.1759); (2.4.1762). 47 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (1755). 48 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (10.6.1764); (22.2.1765). 49 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (3.2.1765). 50 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (1.6.1765). 51 ASV, Abbazia Tre Fontane, B 181, (26.12.1765). 52 ASR, Bandi, b. 263/5. 53 ASR, Camerale III, Comuni, b. 1443, (11.11.1781). 54 ASR, Camerale III, Comuni, b. 1443, (25.11.1785). 55 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4781, (22.8.1700). 56 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4789, (11.6.1746), (10.6.1747), (24.1.1750), (21.2.1750), (4.3.1752), (16.12.1752); b. 4794, (7.8.1773). 57 ASR, Presidenza delle strade, b. 263/5 (1784). 58 ASR, Presidenza delle strade, b. 263/5 (21.6.1793). 59 D’ORAZI, La via Francigena, pp. 49, 55. 60 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4239 (5.4.1794). 61 ASR, Presidenza delle strade, b. 276, n. 4 (18.4.1815). 62 Corrisponde al n. 27 della mappa Viterbo 291 Territorio di Monterazzano, sez. IV della comunità di Campagnano-Tavola Monterotondo ed è identificata con l’osteria in località di Baccanaccio, cfr. fig. 112. 63 Cfr. fig. 117. 64 Corrisponde al n. 69 della mappa Viterbo 156 Territorio della Montagna, sez. II della comunità di Canapina-Tavola Ronciglione, cfr. fig. 119.
65 ASR, Presidenza delle strade, b. 276, n. 4 (1815). 66 ASR, Presidenza delle strade, b. 281, n. 3 (1819). 67 ASR, Congregazione del Buon Governo, b. 2707, (5.3.1816). 68 ASR, Congregazione del Buon Governo, b. 2707, (7.4.1816). 69 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4239, (8.8.1801). 70 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4239, (6.4.1804). 71 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4239, (9.14.1805). 72 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4239, (15.11.1806). 73 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4239, (8.8.1807). 74 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4240, (21.9.1822), (12.5.1827), (24.11.1829), (29.5.1830), (30.10. 1830). 75 ASV, Abbazia Tre Fontane, b. 181, senza data. Corrisponde al n. 43 della mappa Viterbo 291 Territorio di Cero, sez. V della comunità di Nepi-Tavola Ronciglione. 76 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (22.2.1631). 77 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (9.5.1635). 78 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4780; b. 4781, (25.6.1701) ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4781, 79 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (22.2.1631). 80 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4777, (22.6.1641). 81 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4781, (14.12.1697). 82 ASR, Camerale III, Comuni, b. 1443, (1766). 83 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 4781, (25.6.1701). 84 ASR, Congregazione del Buon Governo, serie II, b. 2707, (4.3.1809). 85 ASR, Presidenza delle strade, b. 280, n. 3 (10.5.1819). Si tratta della osteria situata in località Baccanaccio.
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La strada consolare da Roma a Viterbo nel Settecento attraverso le carte della Presidenza delle strade Carmine Iuozzo
Le «visite» dei maestri delle strade e la cura della consolare Datati soprattutto a partire dal secolo XVIII, i documenti reperibili fra gli «atti sciolti delle vie extraurbane» – serie miscellanea dell’archivio della Presidenza delle strade1 – possono offrire vari elementi utili ad approfondire la conoscenza di uno degli assi viari più importanti del dominio pontificio in età moderna: la direttrice da Roma per la Toscana. Nel presente contributo si è cercato di utilizzare alcuni di tali documenti, al fine di ricostruire l’aspetto materiale del tracciato stradale nel XVIII secolo e di precisare la sua dislocazione nel territorio fra Roma e Viterbo. La ricerca ha preso le mosse dall’esame di una serie di relazioni, frutto delle «visite» effettuate dai maestri delle strade di Roma, con l’assistenza dei loro architetti, per verificare lo stato di manutenzione dell’asse viario. In questa documentazione di carattere tecnico la strada era indicata generalmente con il nome della porta cittadina dalla quale essa si dipartiva: in questo caso, la «Porta del Popolo o Flaminia» nelle mura aureliane. La denominazione – che pure, comunemente, aggiungeva anche l’aggettivo «consolare»2 – potrebbe indicare la precisa coscienza delle differenze fra i grandi tracciati di allora e quelli delle antiche strade romane. Un nuovo percorso della strada per Viterbo, che si proclamò esplicitamente progettato sulle tracce dell’antico asse viario negli anni ‘80 del Settecento, fu allora indicato, non a caso, con il nome di «Cassia»3.
Nei secoli dell’età moderna l’interesse primario del governo romano si concentrò sulle maggiori strade del dominio, soprattutto nell’ambito del distretto dell’Urbe, la fascia di territorio estesa intorno alla città, per circa 40 miglia. Ai fini della manutenzione dei tracciati, la magistratura stradale romana ripartiva e curava la riscossione di imposizioni a carico dei proprietari dell’Agro Romano e delle comunità interessate. Contribuzioni di questo genere, pervenuteci a partire dal secolo XVI, furono rese regolari e stabili nello scorcio del secolo XVII, allorché Innocenzo XI, con un chirografo del 22 giugno 1680, decretò una «tassa fissa», da corrispondersi semestralmente da parte dei proprietari dell’Agro Romano, in base all’estensione dei loro possessi, e da parte delle comunità, in proporzione all’imposta del sussidio triennale da esse dovuta. In tal modo venne finanziata la regolare manutenzione delle strade consolari entro il distretto, assegnata nel 1680, per venticinque anni, agli appaltatori generali Carlo Fontana e Domenico Antonio Ferelli. Il contratto venne rescisso nel 1693 e di nuovo stipulato con Domenico Antonio Ferelli e suo fratello Giacinto4. Giunto a scadenza nel luglio del 1705, l’appalto generale venne concesso, nell’agosto dello stesso anno, a Giacomo Rai, Giuseppe Curti e Domenico Pontiani5, ma la sua durata fu accorciata a nove anni. Il sistema durò fino al 1727 per lasciare il posto, in seguito, ad una molteplicità di contratti stipulati con diversi appaltatori6. Un interessante schema sinteti-
co delle visite compiute dai maestri nel 1705, allo spirare dell’appalto generale concesso ai fratelli Ferelli, fornisce un quadro dei sopralluoghi effettuati in quell’anno, riportando il nome di ciascuna strada, il numero delle miglia di competenza dell’appaltatore, il nome dei visitatori, ed infine il preventivo delle opere da effettuarsi7. La cifra complessiva ammontava a 25.661 scudi (26.511, compresi i restauri dei ponti) e si riferiva ai lavori di semplice manutenzione cui era obbligato il Ferelli, a norma dei capitolati del suo appalto, giacché dalla stima – come affermava l’anonimo estensore di questa scrittura – erano «lasciati fuori molti lavori descritti da farsi di novo, a quali in niun modo era tenuto il Ferelli, anzi nell’istromento del suo appalto si escludono»8. Per la consolare di Porta del Popolo per Viterbo s’indicava una cifra di 2.500 scudi, «consideratisi li lavori necessarij particolarmente alle selciate, che sono in gran quantità, et erano tutte devastate, rotte et in pessimo stato». La relazione della «visita» sulla base della quale era prodotta questa stima9, riporta, infatti, soltanto la misura dei tratti a selciata affidati alle cure dell’appaltatore: se si considera un percorso totale di circa 48 miglia (71,5 chilometri circa) da Roma a Viterbo10, le selciate rappresentavano, complessivamente, il 22%, cioè 13,787 miglia (20,5 chilometri circa). Soltanto pochi tratti di esse non richiedevano alcun intervento di riattamento (circa 4,5 chilometri in totale11), mentre, all’opposto, erano definite «dirute» selciate per un chilometro complessivo.
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A volte, brevi notazioni mettono in luce le piccole ma inesorabili modificazioni del paesaggio stradale per opera degli elementi naturali e a causa della mancanza di un’efficace manutenzione, fattori che finivano per rendere le selciate veri e propri ostacoli per i viaggiatori ed i trasporti. Ecco, ad esempio, quella che, dopo Vico verso Ronciglione, «resta sopra il piano della strada sollevata in aria e dà impedimento al transito»; oppure, quella che, nelle vicinanze dell’Osteria dell’Isola (Farnese), «non è più praticata», ed è da credere che i viaggiatori vi passassero accanto, sconfinando nella campagna. Abbandonati dal traffico, questi manufatti stradali erano inesorabilmente infestati dalla vegetazione, come, ad esempio, la selciata nella «valle delli prati di Sutri, [che] resta la maggior parte coperta e ammacchiata, potendosi credere da quello si vede (…) sia selciata buona»12. La visita effettuata nel 1705 ci offre, inoltre, un esempio piuttosto macroscopico dei percorsi «alternativi», che potevano generarsi, nel lungo periodo, sull’asse principale delle consolari. Nella sua descrizione, il maestro delle strade Giovan Filippo Angeli enumerava le tappe più salienti del percorso: Ponte «detto di Roma» presso Viterbo, Vico, Ronciglione, Sutri, Monterosi, Osteria di Baccano, Osteria della Storta, Ponte Molle a Roma. Veniva però acclusa anche la descrizione e la stima di lavori necessari per il riattamento della «strada battuta da passaggieri, che da Ronciglione va a drittura a Monte Rosi, non compresa nel passato appalto generale», quello cioè stipulato da Fontana e Ferelli nel 1680 e poi rinnovato nel 1693. Si trattava di una scorciatoia che permetteva di raggiungere Ronciglione da Monterosi senza dover passare per Sutri. Oltre alla riparazione dei tratti a selciata che risultavano misurare complessivamente più di un chilometro13, si proponeva la sostituzione di alcuni tratti «a terreno» con selciate o massicciate, co-
CARMINE IUOZZO
me, ad esempio, nei pressi del ponte della Solforata, ove – notava con espressione colorita l’architetto della Presidenza – il terreno «resta paludoso et impraticabile l’inverno, [quando] li cavalli sfondano a mezza panza»14. La preferenza dei viaggiatori per questa variante è attestata già da un breve del 12 settembre 153315, col quale Clemente VII rispondeva alle suppliche della comunità di Sutri. Quest’ultima lamentava il fatto che i procaccia e i corrieri postali, diretti da Roma a Ronciglione, non passavano più per la loro città. Il pontefice ordinava, dunque, a Francesco del Vantaggio, maestro generale delle poste, di ripristinare la tappa di Sutri, a patto che quella comunità mantenesse la promessa di costruire e conservare a sue spese una nuova e comoda strada d’accesso. Appare dunque evidente che, due secoli dopo il documento appena ricordato, si continuasse a preferire il percorso diretto Monterosi – Ronciglione. E’ altrettanto evidente, tuttavia, che la manutenzione di tale asse viario non fosse contemplata dal primo contratto dell’appalto generale, stipulato nel 1680, il quale affidava agli impresari esclusivamente la cura della strada passante per Sutri. Ciononostante, allo scadere del contratto, si profilavano nuovi orientamenti del potere centrale a proposito della strada diretta: non è un caso che proprio nel 1705 la Presidenza facesse effettuare la visita anche di questo tronco stradale. Con il chirografo del 29 luglio 1705, che preludeva al nuovo appalto generale delle consolari stipulato con Giacomo Rai e compagni, Clemente XI concedeva al presidente delle strade ampia autorità di costringere «li padroni delle tenute, casali et altri beni a prestar patienza di fare e costruir nuove strade, di continuare il transito che fosse stato già indotto e praticato per il passato, e quelle poi fare accommodare e risarcire come l’altre [strade consolari]», qualora qualcuna di esse «non fosse com-
modamente pratticabile e che fosse pericolosa». Il provvedimento – affermava il pontefice – valeva «specialmente [per] la strada che da Monte Rosi va a Sutri e Ronciglione, quale per non essere communemente pratticata, vogliamo in caso di bisogno, che vogliate e potriate farla mutare con fare accommodare e pratticare quella che da Monte Rosi va a Ronciglione a dirittura, non ostante il Breve e chirografo respettivamente di Urbano VIII 23 gennaro 1641, Clemente IX in ottobre 1667 e Clemente X 29 agosto 1674: alli quali a tal effetto col presente nostro chirografo deroghiamo»16. Questa molteplice deroga lascia dunque intravedere lo sviluppo di una secolare vicenda nella quale la comunità di Sutri oppose una costante resistenza nei confronti dello spostamento della direttrice viaria, mentre il potere pontificio assunse atteggiamenti diversi, anche a seconda di eventi politici contingenti. Esemplare, a questo proposito, il ricordato breve di Urbano VIII del 1641. Il pontefice esordiva affermando che, dai tempi di Giulio II o di Paolo III, il corso di quella che certamente era la «prisca via Cassia» era stato mutato: al tragitto Monterosi – Sutri – Capranica – Capanne Bruciate (Capannacce) – Vetralla, i viaggiatori ed i vettori di vario tipo avevano cominciato a preferire quello passante per Ronciglione, Vico, ed il monte Cimino. Ne erano nate liti, ancora pendenti «in Congregatione Viarum», fra il duca Farnese e la città di Ronciglione da una parte, e la comunità di Sutri dall’altra, danneggiata, quest’ultima, dallo spostamento della via. Papa Barberini imponeva alle contese giudiziarie il silenzio perpetuo ed ordinava che il corso della strada fosse ristabilito come era in antico e su di esso fossero ripristinate le osterie e le stazioni di posta, mentre minacciava pene severe per coloro che avessero intrapreso il viaggio verso Viterbo passando per Ronciglione. Nel momento in cui il conflitto fra la S. Sede ed i Farnese
LA STRADA CONSOLARE DA ROMA A VITERBO NEL SETTECENTO ATTRAVERSO LE CARTE DELLA PRESIDENZA DELLE STRADE
per il ducato di Castro stava entrando nella fase più acuta, il pontefice si presentava come il difensore degli interessi dei sudditi danneggiati dalla ricordata deviazione stradale, ed esplicitamente dichiarava che la via avrebbe dovuto passare esclusivamente per i territori direttamente soggetti al suo potere17. Tornato il ducato di Castro nelle mani della Sede Apostolica nel 1649, la Presidenza delle strade poté estendere la sua giurisdizione su tutte le comunità del Patrimonio, riscuotendo le tasse per la manutenzione della nostra consolare anche da quelle che erano «solite a contribuire alla spesa delle strade che faceva accommodare il Serenissimo Duca di Parma»18. Eliminato il problema della grande enclave feudale, in parte incastonata nello stesso distretto di Roma, dell’antica via Cassia, che invano Urbano VIII aveva cercato di riesumare, non si parlò più. Clemente X non ne faceva alcun cenno nel chirografo dell’agosto 1674. Il provvedimento era emanato per rispondere, ancora una volta, alle proteste di Sutri, la quale chiedeva che fosse imposto ai viaggiatori il passaggio per la strada che la collegava a Ronciglione: infatti – notava il pontefice – nonostante le disposizioni dei suoi predecessori, «per abuso e per corruttela detto passaggio hoggi non [è] in osservanza battendosi la strada romana che da Monterosi conduce a Viterbo» attraverso il territorio di Nepi e Ronciglione. Dopo essere stato informato dal presidente delle strade «della miglior qualità» della strada che stava tanto a cuore alla comunità ricorrente, Clemente X emanava i soliti ordini ai corrieri, ai procacci, ai maestri di posta, a tutti coloro che intendevano viaggiare in direzione di Viterbo, servendosi delle stazioni postali, diffidandoli dall’usare altre strade se non quella passante per Sutri19. Il citato chirografo del luglio 1705 annunciava dunque un muta-
mento di rotta del potere pontificio rispetto alla questione. Lo strumento notarile del 28 agosto 1705, col quale veniva rinnovato l’appalto generale in base alle direttive del documento pontificio, recava ancora, nella lista delle strade oggetto del capitolato, quella che «da Porta del Popolo principiando passato Ponte Molle per Monterosi [va] verso Sutri per dove passa la Posta e da Sutri a Ronciglione fino al Ponte di Viterbo passato la fontanella nell’ultima scenta della Montagna»20. L’articolo 13 dell’atto, comunque, prevedeva che «in occasione di far costruire nuove strade e ponti et altri lavori di qualsivoglia sorte d’ordine del Tribunale non appartenenti al presente appalto siano li (…) Appaltatori preferiti (…), e volendo il Tribunale variare con fare qualche strada nuova e lasciare la strada vecchia consolare compresa nel presente appalto, li medesimi Appaltatori non siano tenuti a spesa alcuna per il facimento di detta strada nuova, ma solo siano obbligati doppo fatta di mantenerla in luogo della vecchia».21 Finalmente, nel novembre 1706, il presidente delle strade annunciava al «giudice» (governatore) di Ronciglione l’arrivo di Giacomo Rai, uno degli impresari dell’appalto generale, per disporre quanto necessario all’esecuzione della volontà pontificia espressa nel luglio 1705, «volendosi in vece della strada che da Monte Rosi va a Sutri e da Sutri a Ronciglione accommodare e stabilire quella che dal medesimo Monte Rosi va direttamente a Ronciglione per esser veramente riconosciuta più vantaggiosa e più commoda e di fatto più praticata da Passaggieri (…)»22. Contro il progetto, finalizzato ad escludere il «braccio» di Sutri dalla manutenzione finanziata dalla tassa fissa, i rappresentati della comunità ricorrevano, per l’ennesima volta, al pontefice lamentando «il pregiudizio che [la comunità] riceveva dalla mutazione della strada consolare (…) massime che per accomodarla soggiace ad un censo di scudi
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seimila erogati per la detta strada, e che dovendosi accomodare (…) la strada per abuso introdotta che passa per il territorio di Nepi, pareva giusto ed equo che si accomodasse la strada consolare che passa per il suo territorio di Sutri». Il considerevole sforzo finanziario della comunità era forse sembrato al pontefice un buon argomento per sottoporre a revisione la propria precedente decisione, e, pertanto, egli ordinava «una Congregazione da tenersi avanti il (…) Camerlengo», con l’intervento del presidente delle strade. Riunitisi il 23 febbraio 1707, i prelati decidevano a favore del ricorso, e cioè che fosse accomodato il «braccio» sutrino «dall’Appaltatore Generale delle Strade e dalla stessa Communità di Sutri», e fosse eseguito il chirografo di Clemente X del 1674. Clemente XI accoglieva il parere della sua Congregazione particolare, derogando dunque dalla decisione del luglio 170523. Come si vede, la protesta della comunità s’indirizzava, non solo contro un mutamento generatosi spontaneamente nel percorso stradale, ma soprattutto contro il tentativo del governo romano di assecondare e dare conveniente sistemazione a tale mutamento. La soluzione, tuttavia, finiva per essere ancora quella, di compromesso, prospettata dal breve del lontano 1533. L’episodio rivela la persistente difficoltà del potere centrale d’incidere sull’assetto territoriale della grande viabilità, persino in zone relativamente prossime all’Urbe, costretto a tener contro della resistenza di una comunità ancora in grado d’impegnare risorse economiche ed evidentemente anche politiche, nel tentativo di non essere estromessa da un percorso consolare. La mediazione metteva capo ad una soluzione che sarebbe durata almeno fino allo scorcio del XVIII secolo. Dalle relazioni delle visite che, nel corso del secolo, i maestri delle strade effettuarono alla strada per Viterbo, il percorso principale appare
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ormai stabilmente includere il tratto che collegava direttamente Monterosi a Ronciglione: ma gli appalti di manutenzione non trascuravano gli altri «bracci», fra i quali quello «parimente consolare di Sutri»24. Questo tronco, peraltro, rientrò fra le strade da sottoporre ai lavori di riattamento generale promossi, al principio degli anni ‘30 del Settecento, da Clemente XII che, per il loro finanziamento, assegnò 3.000 luoghi del Monte di S. Pietro alla Presidenza delle strade25. Rescissi i contratti d’appalto con i diversi impresari, ne furono stipulati di nuovi, sempre di durata novennale. Le opere da eseguire erano state indicate negli scandagli effettuati dai tecnici della magistratura stradale, nelle loro «visite» alle consolari del distretto. Nel 1733 la «visita» del maestro delle strade, marchese Naro, si concludeva con un preventivo di spesa «per un lavoro stabile e permanente» di 22.524 scudi, relativamente alla consolare per Viterbo, e di 3.043 scudi, relativamente al «braccio» di Sutri26. L’aumento della tassa fissa – che Clemente XII prescriveva soltanto per un trentennio, a restituzione del prestito dei 3.000 luoghi di monte – provocò il ricorso dei proprietari delle tenute dell’Agro Romano e la costituzione di una Congregazione particolare deputata, presieduta dal cardinal Neri Corsini, la quale commissionò ad alcuni architetti «revisori» il compito di verificare se i lavori precedentemente ordinati dalla Presidenza fossero davvero necessari ed i prezzi pattuiti con gli appaltatori effettivamente equi. Per quanto riguarda la nostra consolare (non viene però menzionato il «braccio» sutrino), l’architetto «revisore» Nicola Salvi, su ordine del cardinal Corsini, eseguì nel 1734 una perizia che ridimensionò nettamente le cifre preventivate dai tecnici della Presidenza, indicando la somma di scudi 15.66027. Un altro sopralluogo, effettuato dall’architetto Ferrazzi nel novembre del 1735, metteva a presentivo ulteriori 1.406 scudi28.
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Come narra il chirografo di Clemente XII del 4 gennaio 173629, l’opera di revisione mostrò gravi lacune: la verifica «sul campo» che erano state omesse previsioni di opere assolutamente necessarie portò al blocco dei lavori, con grave danno per la conservazione di quelli già eseguiti. La Presidenza si rifiutò d’intervenire, lasciando che si esprimesse la Congregazione particolare, la quale, riunitasi finalmente nel dicembre del 1735, formulò il parere, poi accolto dal pontefice, che la magistratura stradale potesse «in avvenire a [suo] arbitrio, e piacimento, e colla direzione solamente delli Periti del Tribunale, aggiungere, levare, accrescere, e diminuire li lavori delli scandagli fatti da’ Periti Revisori». Così, nel novembre del 1736, il maestro delle strade, Petroni, dopo aver visitato il «Braccio di Strada che da Monte Rosi tende à Sutri per Ronciglione ad effetto di riconoscere li lavori più e meno necessarj di quello dice la Descrizione del S.r Salvi Revisore», indicava un preventivo di 717 scudi30. Negli «atti sciolti» dell’archivio della magistratura stradale si rinvengono, inoltre, due «visite» dello stesso presidente delle strade, mons. Casoni: una nel giugno del 1740 alla strada principale fino a Viterbo, ed un’altra, nel giugno del 1741, al «braccio» Monterosi – Sutri – Ronciglione, «per riconoscere i lavori necessari per l’ultimo stabilimento», con preventivo che ascende a 1.009 scudi31. Dopo la vicenda conclusasi, come abbiamo visto, nel 1736, con il riconoscimento alla Presidenza della sua capacità di valutazione e di controllo32, troviamo nel 1737 titolare dell’appalto, Ilario Pavoni, al quale subentrò nel 1746, a scadenza del contratto, Stefano Berti33. Quest’ultimo morì però nel 1748 e dunque la strada venne consegnata a Giacomo Morichelli34, il cui appalto novennale venne rinnovato per due volte almeno, cioè fino al 176735. Nel 1780 la manutenzione fu affidata a Giuseppe Catena36.
All’inizio del periodo di appalto la strada veniva consegnata all’impresario, accompagnata da una puntuale descrizione delle sue condizioni e caratteristiche tecniche37. Il concessionario era tenuto a restituirla così come l’aveva presa in consegna, «anzi megliorata», come recitano generalmente i contratti. In cambio egli riceveva un «annuo assegnamento» proveniente dagli introiti della tassa fissa. In qualunque momento dell’appalto, la strada poteva essere «visitata» dai maestri, per verificare che l’impresario adempisse ai suoi obblighi: queste verifiche, eseguite «sulla faccia del luogo», con l’assistenza degli architetti, erano previste almeno una volta l’anno dalla bolla di Innocenzo XII Sacerdotalis et Regiae Urbis del 1692 e poi dal motu proprio del 28 ottobre 1748 di Benedetto XIV38. Nelle «visite» i maestri confrontavano lo stato di manutenzione della struttura viaria con la sua descrizione effettuata al momento della concessione dell’appalto, per verificare le possibili «mancanze» imputabili all’appaltatore, o, al contrario, i miglioramenti dovuti alle sue cure39. In queste occasioni, essi rilevavano, inoltre, anche l’eventuale necessità di lavori eccedenti la normale manutenzione, indicando le cifre da mettere a preventivo40. Era poi la magistratura delle strade, riunita in congregazione, a deliberare l’esecuzione di tali opere che potevano essere affidate all’appaltatore stesso, al quale i contratti riconoscevano un diritto di prelazione. Altre «visite» si potevano effettuare ad hoc, al fine di ordinare lavori «nuovi» su specifici tratti della via41, a volte su impulso delle lamentele fatte pervenire in congregazione da viaggiatori spesso altolocati. In tutti questi casi, i sopralluoghi portavano alla confezione di preventivi detti «scandagli». Allorché le «visite» erano effettuate, invece, per verificare la qualità dei lavori già eseguiti, esse servivano per la redazione di «misure» e «stime», sulla base delle quali venivano liquidati gli impresari42.
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Fig. 63. Territorio di Vico nel XVIII secolo. Pianta delineata dall’agrimensore della comunità di Ronciglione, Alessandro Mariti (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. I, cart. 125, n.46). La strada consolare da Roma a Viterbo - nel tratto utilizzato prima del 1782 - è indicata come «Strada Romana che conduce a Viterbo».
Nonostante i contratti di manutenzione prescrivessero agli appaltatori il dovere di riconsegnare la strada, al termine del periodo prescritto, in buone condizioni, «anzi megliorata» e comodamente praticabile, da tali contratti erano generalmente esclusi i «lavori nuovi», ossia quelli di radicale rifacimento delle opere. Inoltre, dal compito degli impresari esulava il riattamento di «quelle strade che per derupamento restassero rovinate o portate via dall’inondatione de’ fiumi e torrenti a dette strade vicini». Lo stesso valeva per la manutenzione dei ponti. Dunque, ben si comprende come, a meno che non si promuovessero lavori straordinari di una certa rilevanza, le condizioni delle consolari potessero giungere a livelli di forte
deterioramento, nonostante la continua manutenzione: e ciò soprattutto in quei tratti «a terreno» che spesso necessitavano d’essere sostituiti da selciate o massicciate, a causa del cattivo fondo, fangoso ed impraticabile soprattutto l’inverno. E’ quanto riconosceva lo stesso Clemente XII nel chirografo del dicembre 1730, con il quale dava inizio alla ricordata campagna di lavori stradali43: la spesa di circa 88.000 scudi in tredici anni (dal 1717 al 1730) non aveva prodotto alcun miglioramento delle consolari, nonostante la vigilanza dei maestri delle strade. Come l’esperienza che si era andata facendo insegnava, «appaltare a mantenere strade cattive, scomposte e devastate non sottopone ad altro obbligo gli appaltatori, che a
conservarle pratticabili in quel grado se gli consegnano»; ne conseguiva che, o gli impresari non facevano il loro dovere («il che può difficilmente riconoscersi in strade di tal natura»), oppure che, anche quando lo avessero fatto, «il più che possa conseguirsi di vantaggio, è il provvedere, che tali strade non deteriorino dallo stato consegnatoli, onde mai ne risulta il miglioramento delle medesime, e resta sempre luogo a tali appaltatori di disputare quello gli conviene di fare, e quello no». Il paesaggio stradale attraverso le «visite» dei maestri delle strade Alla morte di Stefano Berti nel 1748 – due anni dopo che questi
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Fig. 64. Chiesa di S. Lucia, sulla riva orientale del lago di Vico. In questo sito, prima del 1782, la consolare per Viterbo attraversava il piccolo borgo di Vico, abitato da pescatori e agricoltori. Il percorso della strada, ora occupato da una carrabile asfaltata, è qui visto in direzione di Viterbo (Foto C. Iuozzo).
aveva ottenuto l’appalto – lo stato della consolare era a tal punto che il maestro Alessandro Petroni, nel consegnarla al nuovo appaltatore, Giacomo Morichelli, scriveva che essa presentava «più e diverse mancanze derivanti dall’essere (…) rimasta senza ricorso», ossia senza il continuo ripassare degli stradini addetti a reintegrare la copertura stradale usurata. Tali «mancanze» potevano essere va-
lutate la rispettabile somma di 4.794 scudi, mentre Berti aveva preso in consegna la strada – dopo il novennio del Pavoni, suo predecessore – con «mancanze» valutate 542 scudi44. Sempre il Petroni, in seguito alla sua visita del maggio 1749, preventivava per il «braccio» sutrino, più di 207 scudi, per i «lavori d’accrescimento riconosciuti necessarj»45. Le successive visite ci segnalano
il puntuale adempimento degli obblighi contrattuali da parte dell’appaltatore46. Tuttavia, nonostante la strada fosse in genere trovata ben «ricorsa» dagli operai stradali, le sue condizioni richiedevano frequenti lavori aggiuntivi, come ad esempio nel 1752, dopo la visita del maestro Girolamo Mignanelli, quando si decideva di mettere a preventivo 823 scudi, soprattutto per la sistemazione delle strade «a terreno [che] in maggior parte in tempo d’inverno fanno del fango, specialmente alcuni siti di maggior bisogno, che si sono riconosciuti di fondo più cattivo, e necessarj d’accrescergli lavoro per non esservi stato mai proveduto»47. Molto interessante, a questo proposito, il quadro sintetico fornitoci dalla relazione della visita compiuta dal maestro Giovan Battista Cicogni nel 175448. Nel tratto di strada da Ponte Molle alla posta della Storta e alla posta di Baccano, le «riempiture confrontate esattamente con la Descrizione, si sono queste ritrovate ricorse dall’Appaltatore a tenore del suo obbligo, e secondo che gli sono state consegnate». Per ciò che riguarda le selciate, non vi sono difetti che possano attribuirsi alla sua incuria, «ma confrontate con la Descrizione si è riconosciuto essere nello stato in cui gli sono state consegnate, quali selciate per altro sono molto incomode, e ridotte in cattivo stato». Alla manutenzione delle «strade a terreno intermedie alle riempiture e selciate dette di sopra» l’appaltatore aveva provveduto, ma vi erano siti impraticabili d’inverno, «per uno de quali si è fino dall’E.mo Sig. Cardinale Oddi fatto ricorso, che resta precisamente vicino l’Osteria della Giustiniana». Da Baccano a Monterosi stessa situazione, ma «le selciate di questa Posta benché senza mancamento attinente all’Appaltatore si sono ritrovate di peggior condizione delle precedenti riuscendo molto incomode à Passaggieri». Da Monterosi a Ronciglione il problema maggiore sembrava essere costituito dalle acque
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Fig. 65. Mappa dei boschi camerali appartenenti alla conca vulcanica di Vico, nel XIX secolo (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. I, cart. 12, n. 56). Ben evidente è il percorso della consolare per Viterbo, che un tempo attraversava Vico «diruto» ed il Procoio, fino a scavalcare la conca vulcanica in località «Montagna Vecchia». Il nuovo percorso, costruito dalla comunità di Ronciglione nel 1782 e passante accanto alla chiesa di S. Rocco, è indicato come «Strada corriera».
sorgive e piovane: i pezzi «a terreno», nonostante gli adempimenti dell’appaltatore, in inverno risultavano del tutto impraticabili per la pessima qualità del fondo, e da ciò provenivano «li continui clamori de passaggieri». Riguardo ai tratti a copertura, le cosiddette riempiture, l’appaltatore «le ha abbondantemente ricorse anche più del suo obligo». Le acque erosive del piano stradale rappresentavano un problema anche più grave fra Ronciglione ed il ponte Romano presso Viterbo. Nel punto in cui la strada giungeva, dopo la «croce di Vico», in vista del lago omonimo49, in «un sito dove si scaricano tutte le acque provenienti dalla mano destra, si è formato una
corrosione, la quale ha ristretto la strada in maniera, che vi si passa con qualche pericolo da Passaggieri notturni». Si prospettava, dunque, di costruire un muro di riparo, ma, soprattutto, di costringere i padroni dei terreni adiacenti alla strada che proveniva da Caprarola – e che in questo punto si raccordava con la consolare – «a fare un fosso, che raccolga i scoli dell’acque della collina superiore, e scaricarle in altro sito che li riesca di miglior utilità, e di minor detrimento della strada». Occorre precisare che la strada per Caprarola – della quale chiariremo in seguito l’importanza – percorreva l’orlo della conca vulcanica, parallela per un buon tratto alla consolare,
che, invece, era situata sul fondo della caldera. Le acque, correnti lungo il declivio collinare verso il basso, segnavano profondamente il paesaggio stradale con una fitta rete di fossi, il cui disegno, mutevole nel tempo, richiedeva una continua opera di revisione della struttura viaria. Così – proseguiva la relazione – «prima della montagna», dopo il miglio 41, vi sono 40 «ponti roversi di selciata a secco situati molto frequenti, e ridotti in stato che riescono molto incomodi, così consegnati all’Appaltatore, in maniera che è necessario disfarli, e ridurli al numero di soli sei ponti roversi in calce». L’azione di dilavamento dell’acqua agiva fortemente sulla «riempi-
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tura» della strada, sicché si prescriveva di accrescerne lo spessore portandola ad un palmo e mezzo. Soprattutto nel tratto in cui la consolare s’inerpicava fino alle cime settentrionali della conca vulcanica (la cosiddetta «Montagna di Viterbo»), l’assottigliarsi dello spessore (ridotto a 6, 5 e addirittura 4 once) era osservato «in molte partite di riempiture»; e si riconosceva apertamente che esse erano affatto incompatibili con la giacitura, fortemente inclinata, del piano stradale: infatti, «non è possibile poterle mantenere, esistendo queste nella sallita, e nella scenta di detta Montagna». Ed è proprio in questo luogo che l’acqua provocava i danni maggiori: la strada «si è poco a poco talmente ristretta a causa che le acque di mano in mano l’hanno corrosa in alcuni siti, e ridotta talmente angusta che vi si passa con evidente pericolo». Due erano i rimedi prospettati: allargare il terrazzamento sul quale giaceva la carreggiata, facendo «un taglio continuato nella mano destra salendo detta Montagna dove più, o dove meno, largo à proporzione del bisogno, e secondo la qualità del fondo»; oppure «in questi siti tanto pericolosi tagliare alcuni alberi, e metterli lungo la strada con qualche mozzatura in piedi à guisa di sbarratura per far ritegno in caso di disgrazia». La congregazione della magistratura stradale, tenutasi nel settembre 1754, ordinava dunque, «a spese della tassa fissa», lavori straordinari all’appaltatore Morichelli per 935 scudi50. Esattamente un anno dopo, nel maggio del 1755 – come si apprende dalla relazione della visita del maestro Petroni – la situazione sembrava essere la stessa dell’anno prima, nel tratto fra Roma e Monterosi: nessuna negligenza dell’appaltatore, per quanto riguarda la manutenzione delle «riempiture» e delle strade «a terreno», sebbene alcuni punti di esse erano definiti, come sempre, impraticabili d’inverno. La maggior preoccupazione era costituita dalle
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selciate, le quali continuavano ad essere «incomode e ridotte in cattivo stato», ma – aggiunge la relazione – esse erano state «consegnate (…) a detto appaltatore nello stato in cui sono di presente»: vi era, indubbiamente, grande difficoltà a metter mano ai costosi lavori di riparazione di questo tipo di pavimentazione, che, superato un certo livello di usura, necessita non più di semplici rappezzi, ma di totale rifacimento. In compenso, come ordinato dalla Presidenza, si lavorava sulla «montagna»51; e pertanto, di nuovo il Petroni, l’anno seguente poteva scrivere: «La montagna di Viterbo per quanto resta in salita sino alla Casetta de Corsi si è ritrovata resarcita, et in buono stato», così come le riempiture dalla sommità della montagna al ponte «Romano» di Viterbo52. Proprio in riferimento ai cosiddetti lavori «nuovi», eccedenti cioè la manutenzione ordinaria, il contratto del 7 maggio 1758, che rinnovava l’appalto del Morichelli53, conteneva una novità. Come al solito, all’appaltatore veniva affidato il «mantenimento delle strade consolari fuori di Porta del Popolo per Viterbo», con i suoi consueti «bracci». Ma questa volta la somma assegnata all’impresario ammontava a 900 scudi annui, contro i 500 ottenuti dal Berti per l’appalto del 174654. Una delle clausole del contratto recita infatti: «Condizione però e patto così convenuto che dall’Ill.mo Tribunale per maggior stabilimento di dette strade consolari e suoi bracci e per rendere al detto appaltatore più facile il mantenimento (…) si debbino ordinare ogn’anno tanti lavori nuovi quanto potranno contenersi nella somma di scudi quattrocento, e questi da destinarsi dove più parerà e piacerà al Tribunale (…) secondo li scandagli che veranno fatti dall’Architetto (…), quali lavori (…) terminati che saranno e riconosciuti e misurati dal detto Architetto, a tenore dell’attestato da esibirsi dal detto appaltatore, il (…) Sig.r Fiscale [il procuratore fiscale delle strade] promette e si
obliga pagargli con la tassa fissa, detratti gli ottavi55 (…) conforme il solito (…)». Si cercava, dunque, di programmare per il novennio seguente un intervento sistematico che prevedeva lavori straordinari progettati dalla magistratura stradale, e da eseguirsi, come al solito, sotto la sua stretta sorveglianza. Dopo un consuntivo del 29 maggio 1761 di circa 413 scudi, per lavori «di muro, passonate, cavi di terra ed altro», eseguiti dal Morichelli per ordine della congregazione delle strade56, lo «scadaglio» scaturito da un sopralluogo del 1763 prevedeva ben 17.517,21 scudi per la strada principale e 153,45 per il «braccio» sutrino57. Altri lavori venivano preventivati, sempre nel 1763 e poi nel 1765, in alcuni luoghi specifici della strada: nei pressi dell’osteria della Storta (751 scudi); dopo il miglio 18°, presso la posta di Baccano (29 scudi); tra il miglio 34° e 35°, nelle vicinanze di Ronciglione, accanto la vigna Faccheres, per ovviare ai danni di una «sfondatura sopra il sito delle grandi et antiche cave di pozzolana» a fianco della strada consolare (scudi 182) 58. I documenti inerenti al rinnovo dell’appalto nel 1758 ci offrono interessanti notizie circa la struttura materiale della strada in rapporto a taluni aspetti caratteristici del traffico che interessava il tracciato da Roma a Viterbo. Aperte da monsignor presidente nel «congresso generale» del 25 aprile di quell’anno, due delle tre offerte giunte per l’aggiudicazione della manutenzione novennale concordavano nel richiedere un maggior compenso per la cura del tratto da Roma a Viterbo e del braccio da porta Angelica a ponte Molle, rispetto alle offerte proposte per il «braccio» sutrino e per quello di porta Angelica-Monte Mario-La Giustiniana. Dichiarava, ad esempio, l’impresario Giacomo Moretti59: «L’altra strada lungha dove si core la posta (…) assieme con l’altro piccolo braccio che da Porta Angelica passa per l’ol-
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Figg. 66-67. La strada consolare da Roma a Viterbo in una «visita» dei maestri delle strade nel 1758 (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 258, fasc. 4: cfr. il par. 4 dell’appendice). In alto: percorso rettificato e schema delle tipologie costruttive dal miglio 2° al miglio 12° (elaborazione C. Iuozzo). A fianco: il percorso reale del medesimo tratto (per la cartografia ringraziamo cordialmente l’architetto F. Paparozzi).
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mata sino a Ponte Molle oferisco a scudi 22 per ogni miglio, ateso che ci vada spesa maggiore per il continuo caregio di cari, baroze che ci passano tutto l’anno con pesi straordinari di phero, legname ed altro, che la devastano e particolarmente d’inverno, come ancora ho veduto che diverse riempiture sono di rapili ligieri che non possono resistere a simili pesi, atese la quantità delle discese e salite che la sogetano ad essere portate via dalle acque di rapina e specialmente nella montagna di Viterbo».
Le coperture in lapillo (o «rapillo», secondo la corruzione popolare), che, come vedremo, erano molto diffuse in tutto il tracciato, non erano dunque capaci di sopportare i carichi pesanti costituiti dai prodotti provenienti dalla zona di Ronciglione e da tutta l’area vicana. Il minerale ferroso, trasportato via mare dall’Elba a Civitavecchia o a Tarquinia, veniva prima trattato nei forni di Canino e poi in quelli di Ronciglione. Al prodotto era accordata l’esclusiva della vendita nelle provincie del Patrimonio, Umbria e Sabina. Si trattava di uno dei vantaggi assicurati agli affittuari dei beni e delle entrate precedentemente appartenuti ai Farnese e poi passati alla Camera apostolica con l’acquisizione alla Santa Sede del Ducato di Castro nel 1649. Tale enorme patrimonio veniva appaltato in blocco a grandi società di capitali, rappresentate dal maggior azionista di esse. Facevano parte dell’appalto anche tre ferriere presenti a Ronciglione ed i boschi di proprietà camerale estesi su tutto il territorio vicano: questi ultimi dovevano garantire, secondo i capitolati stipulati dalle società con la Camera apostolica, il rifornimento annuale di legname ai forni di fusione ed alle fucine. Oltre alle ferriere camerali che producevano semilavorati, esistevano nel territorio di Ronciglione un discreto numero di ferriere appartenenti a privati, adibite alla produzione di «ferri da taglio», ossia di attrezzi vari60. La «consegna» della consolare a Giacomo Morichelli, che si era ag-
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giudicato l’appalto nel 1758, era accompagnata da una relazione tecnica molto puntuale sullo stato della strada da ponte Molle (ponte Milvio) a Roma al ponte «Romano» presso Viterbo. Rinvenuta negli «atti sciolti» della Presidenza delle strade61, i suoi dati più significativi sono stati utilizzati per l’elaborazione di uno schema grafico delle tipologie costruttive del tracciato viario (Figg. 66, 69, 71, 76). I dati riguardano in primo luogo la descrizione tecnica delle singole «partite» (carreggiate) di strada, contrassegnate da un numero progressivo: selciate, «riempiture» (ossia coperture della sede stradale allestite con materiale lapideo di vario tipo), o, infine, strade «a terreno» (cioè di semplice fondo naturale). Di ognuna di esse viene riportata lunghezza, larghezza, spessore, nonché il giudizio sul grado d’usura. Ove necessario per la loro esatta individuazione, sono indicati nomi dei proprietari adiacenti, fabbricati, toponimi di vario tipo. Si è cercato di ricavare, in tal modo, una «fotografia» del tracciato stradale, certo molto ravvicinata, ma comunque utile per la ricostruzione dell’aspetto immediatamente «materiale» del paesaggio stradale e per la sua puntuale localizzazione. La relazione inizia da ponte Molle, all’altezza dell’indicazione del 2° miglio. Dopo un brevissimo segmento di selciata, la strada s’inoltrava tra i vigneti, con un considerevole tratto d’«imbrecciata» di circa 2 miglia e mezzo. Dalla cosiddetta «Tomba di Nerone» fino a Monterosi l’aspetto della consolare mostrava un carattere estremamente composito: segmenti di diverse tipologie si alternavano fra loro con notevole frequenza. E’ in questa porzione della strada che si concentrava la presenza delle selciate, le quali rappresentavano il 18% del percorso totale da Roma a Viterbo, in confronto alle «riempiture» (40%) e alla strada «a terreno» (42%). Da ponte Molle alla posta della Storta, la strada «a terreno» non rap-
presentava più del 17% del tracciato, mentre la selciata, sebbene presente in modo assai frastagliato, arrivava al 24%. La frequenza di questa tipologia tendeva ad aumentare nei tratti successivi, arrivando al 30% tra la poste della Storta e di Baccano, e persino al 36% tra Baccano e Monterosi. Colpisce questa marcata presenza della selciata – tipologia preferita all’interno dei centri urbani – in un paesaggio che talvolta ci appare particolarmente sfavorevole alla concentrazione dell’insediamento. Per quanto riguarda questo tipo di pavimentazione stradale, la «visita» del 1758 distingueva fra le selciate «antiche» e «vecchie», e le altre, prive di aggettivazione temporale. Proprio fra Baccano e Monterosi, la descrizione registrava l’indicazione più frequente di selciate «antiche», quasi sempre descritte come «diseguali di piano con bassi e careggiate». Non sappiamo dire se esse fossero avanzi di strada romana pienamente integrati nel percorso, oppure segmenti di recente costruzione, secondo una tipologia che ritorna nei capitolati dei lavori per il rifacimento delle strade extraurbane, ossia la «selciata di selci grossi antichi». Frammenti del basolato romano, o selciate poste in opera da moderni capi mastro, quelle pietre segnate dai profondi solchi lasciati dai carri, comparivano sporadiche fra quinto e sesto miglio, affioravano più consistenti in un paesaggio desolato e selvaggio, prima della macchia di Baccano, per perdersi «sotto i greppi» e per ripresentarsi «tra le macchiozze» prima dell’osteria del Pavone, concentrandosi, infine, più copiosi, intorno all’osteria di Sette Vene, prima della strada per Nepi. Da ponte Molle a Monterosi il tracciato della consolare era, grosso modo, quello dell’attuale Statale n. 2 Cassia. Superato il bivio per Bracciano, situato poco dopo la prima stazione di posta alla Storta, la strada incrociava quella diretta a Formello, e giungeva poi all’osteria del
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Fig. 68. Mappa dei terreni situati sulla riva orientale del Lago di Vico e appartenenti alla fattoria vaccina detta del «Procoio» (ASR, Collezione disegni e piante, Coll. II, cart. 140, n. 20). La mappa, riferita alla situazione del 1791 - quando cioè era già in funzione la variante stradale costruita dai ronciglionesi -, indica il vecchio percorso della consolare per Viterbo, come «Strada antica di Viterbo», all’intersezione con la strada che collegava la fattoria al lago.
Fosso, dopo aver scavalcato quest’ultimo con un ponte in muratura «detto dell’Isola», con riferimento al vicino abitato di Isola Farnese62 (Fig. 69 n. 3). Dopo circa quattro miglia il percorso oltrepassava l’osteria della Merluzza, e prendeva a salire sui rilievi dei Sabatini fin sull’orlo del cratere di Baccano, per poi ridiscendere verso il fondo di esso. Nella depressione, dopo l’osteria di Baccanaccio, s’incontrava la stazione di posta, situata in un paesaggio desolato e insalubre, dominato da uno specchio lacustre e
dalle folte macchie che rivestivano i versanti del cratere, comodo nascondiglio per i grassatori. Presso l’osteria di Baccanaccio, un ponte in muratura scavalcava l’emissario, la cui soglia sarebbe stata abbassata nel 1838 per tentare il prosciugamento del lago63, secondo la volontà della famiglia Chigi, che dal 1661 dominava la zona, per aver acquistato dagli Orsini Formello, Sacrofano e Campagnano, e, più a nord, Magliano dai Borromeo. Come risulta dalla descrizione del 1758, la manutenzione della selciata «a calce» davanti alla posta di Bacca-
no era di competenza del cardinal Flavio Chigi. Dopo aver attraversato il piano di Baccano, la consolare risaliva i versanti della conca, e giungeva al poggio «della Selce», oltrepassato il quale, con un lungo tratto «a terreno» di circa 1 miglio, mostrava, come abbiamo detto, frammenti di selciata definita «antica» tra l’osteria del Pavone e quella di Sette Vene. Poco prima di quest’ultima, troviamo un ponte in muratura, la cui manutenzione spettava alla comunità di Nepi, «essendo la gabella del passo». Qui
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Figg. 69-70. La strada consolare da Roma a Viterbo in una «visita» dei maestri delle strade nel 1758 (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 258, fasc. 4: cfr. il par. 4 dell’appendice). In alto: percorso rettificato e schema delle tipologie costruttive dal miglio 13° al miglio 24° (elaborazione C. Iuozzo). A fianco: il percorso reale del medesimo tratto (cartografia F. Paparozzi).
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Fig. 71-72. La strada consolare da Roma a Viterbo in una «visita» dei maestri delle strade nel 1758 (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b 258, fasc. 4: cfr. il par. 4 dell’appendice). In alto: percorso rettificato e schema delle tipologie costruttive dal miglio 25° al miglio 36° (elaborazione C. Iuozzo). A fianco: il percorso reale del medesimo tratto (cartografia F. Paparozzi).
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Fig. 73. La fattoria del «Procoio», oggi. A sinistra, nella foto: corpo avanzato in direzione della consolare per Viterbo. A destra: edificio un tempo adibito a stalle. (Foto C. Iuozzo).
dunque si riscuoteva il pedaggio a favore della comunità che dal 1545 era retta da governatori pontifici. Subito dopo l’osteria s’incontrava il frammento più cospicuo di selciata «antica», lungo circa 514 metri (230 canne). Dal miglio 22° fino al 30° – poco prima del quale era posto il cippo confinario fra il territorio di Nepi e quello di Ronciglione – quasi tutti i ponti più importanti erano affidati alle cure della comunità nepesina. Al miglio 23° ci s’imbatteva nel bivio per Nepi. Poi, fra il miglio 25° ed il 26°, la consolare incontrava il borgo di Monterosi, che già nel 1466 l’abbazia delle Tre Fontane aveva acquistato dalla Camera apostolica. La manutenzione della strada prima di arrivare al borgo era dunque affidata all’abbate commendatario, mentre nell’abitato e appena fuori di esso, per un buon tratto in direzione di Viterbo, spettava ai proprietari adiacenti.
Dopo Monterosi, seguendo la direzione che prende l’attuale Statale n. 2, si staccava il «braccio sutrino»: la strada, dopo aver attraversato l’abitato di Sutri, si ricollegava al troncone principale entro le mura di Ronciglione. Più avanti, presso il laghetto di Monterosi, era situato un altro punto di riscossione dei pedaggi. Di qui la consolare si dirigeva verso Ronciglione, da dove essa avrebbe cominciato a salire sui versanti dei Cimini. Al 30° miglio, come abbiamo detto, si usciva dal territorio di Nepi per entrare in quello di Ronciglione. All’altezza del 33° miglio, era situata l’antica chiesa di S. Eusebio64, non riportata dalla «visita» del 1758, perché non immediatamente contigua all’asse viario. Verso questo punto, l’aspetto materiale della strada cambiava, con la brusca scomparsa dei tratti a selciata, i quali non risultano presenti neppure nelle immediate vi-
cinanze di Viterbo, ma si ritrovano ormai solo all’interno dei centri abitati attraversati. Complessivamente, nel tratto da Monterosi fino a Viterbo, il tipo della strada «a terreno» occupava, circa il 50% del percorso, mentre un po’ meno il tipo a «riempitura». Gradualmente le due tipologie si alternavano, con i rispettivi segmenti di sempre maggiore ampiezza. Si può rilevare, osservando il grafico (Fig. 71, n. 6), che la strada a «riempitura» di lapillo era prevalente nella zona delle vigne situata nelle immediate adiacenze del borgo di Ronciglione. In tale zona – denominata «vigne dei particolari», nella carta settecentesca disegnata dal pubblico agrimensore della comunità di Ronciglione, Alessandro Mariti (Fig. 63) – si localizzava il cosiddetto «ristretto», comprendente le proprietà dei privati delimitate da stabili recinzioni. In questa porzione
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Fig. 74. La fattoria del «Procoio», oggi. Lato posteriore del corpo avanzato (Foto C. Iuozzo).
del territorio non vigeva il «jus pascendi» appartenente alla comunità, a differenza dei campi aperti, ove era ammesso il pascolo degli animali posseduti dai cittadini65. La carta del Mariti evidenzia questo ed altri elementi che caratterizzavano la complessità del territorio attraversato dalla strada. Al centro della rappresentazione sono raffigurati la valle ed il territorio di Vico. A meridione, i contrafforti della
conca vulcanica sono coperti dalla «macchia grossa», mentre ad est, all’altezza del borgo di Vico, si estende la macchia di «Casa Maria di Sopra», separata da quella di «Casa Maria di Sotto» (all’interno della quale vi era la tenuta del Barco) da una fascia di «vignati» appartenenti ai «particolari» di Ronciglione e di Caprarola. Nel Medioevo i castelli di Vico e Casamala erano stati nelle mani della famiglia dei Prefetti.
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Spossessata quest’ultima nel 1234 per ordine di Eugenio IV, e distrutti i castelli, i loro redditi vennero incamerati dagli Anguillara, signori di Ronciglione. In seguito alla ribellione di costoro a Paolo II, questi territori passarono nel 1465 sotto il dominio diretto della S. Sede. Sisto IV li concesse ai Della Rovere, i quali li cedettero poi ad Alessandro Farnese nel 1504 e quindi entrarono, in seguito, a far parte del Ducato di Castro (1537). Sin dal 1472, per quanto si ha notizia, le comunità di Caprarola e Ronciglione si scontrarono per la giurisdizione sui territori una volta appartenuti a Vico, i diritti di pascolo e la regolamentazione delle acque del Rio Vicano. La vertenza territoriale si sarebbe conclusa soltanto nel 1760, quando la Camera apostolica concesse in affitto perpetuo a Ronciglione il Barco e 64 rubbia e mezzo del territorio di Casamala, mentre a Caprarola i rimanenti territori66. La complessa vicenda storica aveva dunque visto la scomparsa di un distretto castrense, dalla quale poi era scaturita una contesa fra due comunità che in seguito avrebbero assunto una posizione di rilievo nel dominio farnesiano. Tale contesa aveva attraversato anche la fase successiva alla caduta del Ducato di Castro e alla sua reintegrazione nel dominio diretto della S. Sede. Al centro della disputa fra Ronciglione e Caprarola vi era un territorio la cui varia articolazione può essere descritta seguendo l’itinerario della nostra consolare: le «vigne» poste ai limiti degli abitati, i prati della stretta valle vicana, lambiti dal lago, le foreste che ancora oggi coronano la conca vulcanica e rivestono il monte Venere. L’«amenità» di questo paesaggio doveva essere colta dal viaggiatore del passato, del quale, tuttavia, non bisogna dimenticare la fatica ed il timore nell’intraprendere la salita boscosa sull’orlo vulcanico, la «dolorosa Montagna», come la definisce un documento degli inizi dell’800. La descrizione di questi
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luoghi, che qui sta per seguire, è frutto di un confronto fra la citata «visita» alla consolare nel 1758 e la cartografia attuale. Tale confronto, inoltre, ha fornito l’occasione per una verifica dei dati sul terreno: chi scrive ha percorso a piedi il tracciato ricostruito sulla carta, dalla chiesetta di S. Lucia, sul lago di Vico, fino a Viterbo. Documentano queste gite – effettuate in più occasioni, durante l’estate e l’autunno del 1998, e poi nella primavera del 2000 – alcune fotografie, qui proposte per tentare di restituire la suggestione dei luoghi e per accennare ad alcuni mutamenti del paesaggio che si offre a chi, oggi, percorra quanto rimane della consolare: prima attraverso la Riserva naturale del lago di Vico67, poi nella discesa dalla «Montagna» verso Viterbo tra maestosi castagneti e ciò che resta delle «vigne», in prossimità del centro urbano. Per quanto riguarda l’individuazione cartografica del tracciato di seguito descritto, si farà riferimento alle carte topografiche ufficiali dell’Istituto Geografico Militare Italiano. Il lago si mostrava al viaggiatore proveniente da Ronciglione, una volta giunto alla «croce di Vico». In questa località, che può essere situata a circa 1.680 metri (750 canne) a nord del borgo, dalla consolare si staccava, in direzione della chiesa di S. Rocco, la strada che la comunità di Ronciglione, alla fine del Seicento, definiva come la «principale», e perciò «pubblica», per andare a Caprarola68. Il nostro percorso passava davanti alle opere idrauliche poste allo sbocco dell’emissario sotteraneo nel lago. Tali opere, destinate alla regolazione del flusso nel canale, sono definite appunto «il regolatore» nella descrizione del 1758 (Fig. 71, n. 6)69. Qualche centinaio di metri dopo, si giungeva al borgo di Vico, preceduto anch’esso da una zona di «vigne». Si trattava di un piccolo abitato di agricoltori e pescatori, in cui erano però presenti due alberghi ed un’osteria. Quest’ultima ed il diritto di pesca nel lago facevano parte dei
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Fig. 75. La fattoria del «Procoio», oggi. Edificio originariamente utilizzato per le stalle (Foto C. Iuozzo).
beni appaltati dalla Camera apostolica70. La carta del Mariti (Fig. 63) riporta, accanto al borgo, il toponimo «Castellaccio di Vico», che non sembra indicare alcuna costruzione castrense, ma appare ormai solo un ricordo del lontano passato di potenza durante la signoria dei Prefetti. Dell’abitato ora rimane quasi soltanto la parrocchiale di S. Lucia (Fig. 64) prospiciente la strada asfaltata che costeggia la riva est del lago: il percorso di tale strada coincide con
quello della vecchia consolare71. Esso appare ben evidente in una carta delle foreste camerali, che riporta la data del 1842 (Fig. 65): sarà utile, pertanto, far riferimento, nelle pagine che seguono, anche ai toponimi riportati in tale carta. Il tracciato dunque s’inoltrava nella valle di Vico, la cui estensione era stata ampliata gradualmente per mezzo di successivi svuotamenti del lago. I vari arretramenti di quest’ultimo sono evidenti nella pianta (Fig.
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68) dei terreni annessi al Procoio (fattoria vaccina), un altro dei beni appaltati e poi dati in enfiteusi dalla Camera apostolica72. Si trattava di estensioni prative, riservate al pascolo degli animali della fattoria e attraversate dalla consolare poco più di 2 chilometri dopo il borgo di Vico (la descrizione del 1758 indica circa 950 canne, ossia poco meno di un miglio e mezzo, cfr. Fig. 76, n.7). Il Procoio oggi appare in un ampio spazio aperto fra i noccioleti – che è quanto rimane dei prati di un tempo –, mentre alle sue spalle campeggiano i boschi delle «Coste del Lago» (Fig. 65). Il corpo centrale della costruzione si protendeva in direzione della consolare, e doveva essere raccordato ad un edificio allungato perpendicolarmente sul retro, forse per mezzo di un arco sotto il quale passava una strada di ciottoli ancora visibile. La parte superiore del fabbricato sembra essere stata ricostruita in epoca recente con blocchetti di tufo; in basso, invece, il più antico muro di pietra reca tracce di annerimento, forse a causa di un incendio. I locali della fattoria, nati per ospitare le stalle dei bovini, sono ora adibiti ad essiccatoi delle nocciole (Figg. 7375). L’impianto del noccioleto in epoca molto recente – laddove prevalevano i prati e la coltura cerealicola – ha comportato una forte trasformazione del paesaggio, modificando profondamente anche la stessa visuale di chi transita per il percorso sulle tracce della vecchia consolare: oggi la fitta coltre delle colture arboree impedisce quasi completamente la libera vista delle azzurre acque del lago. Oltrepassato il Procoio, si giunge all’incrocio con la strada che, sormontata la conca vulcanica verso est, arriva all’attuale via Cimina presso la chiesa di S. Rocco (Fig. 78), e poi si dirige a Caprarola. Parallela a questa strada asfaltata, si scorge, ricoperta di lapillo, una vecchia carrareccia che abbiamo voluto riprendere (Fig. 79) per proporre un’immagine che richiamasse le «riempiture» stradali
realizzate con quel materiale. Peraltro, a poca distanza dal percorso in esame, sull’orlo settentrionale della conca vulcanica, si può osservare una cava dismessa ove veniva estratto lapillo (Fig. 80). Subito dopo l’incrocio citato, il percorso del nostro tracciato stradale può identificarsi dapprima con quello di un fosso che l’attuale carta topografica segnala da quota 529 a quota 541; e poi, a partire da quota 559, con quello di una strada campestre, che oggi risulta asfaltata. La consolare, dunque, procedeva sempre più a settentrione, secondo l’andamento della valle vicana, stretta fra il boscoso monte Venere ad ovest ed i contrafforti del cratere ad est, anch’essi ricoperti dalla foresta (macchia camerale di «Monte Tosto», in località «Coste dell’Orioletto», cfr. (Fig. 65). Si può facilmente immaginare un paesaggio la cui forte suggestione era – ed è ancora – prodotta dal contrasto fra gli affrontati rilievi selvosi (quote intorno agli 830 metri) e l’angusto fondo valle in dolce salita verso nord (quote dai 530 ai 590 metri). La strada asfaltata prosegue attorno monte Venere, verso località «Nocicchiola»: per seguire le tracce della consolare, invece, occorre prendere una strada sterrata che inizia presso quota 578, nelle vicinanze di un ampio spiazzo, in cui è situato un fontanile (Fig. 81) non indicato in carta topografica. Un brevissimo frammento di selciata (Fig. 82) s’incontra all’inzio della strada che punta verso nord e conduce ai piedi dell’orlo settentrionale del cratere, a quota 620, forse dove la «visita» del 1758 collocava la «salita aspra della Montagna». Il percorso si svolge fra i noccioleti, delimitato da muri costruiti a secco con grossi ciottoli, che affiorano, a volte, anche dal piano stradale (Fig. 83). Nel punto dove inizia la salita, una sbarra di ferro segna l’ingresso in un sentiero naturalistico della Riserva. La pendenza s’impenna rapidamente, mentre la vegetazione
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cambia: il noccioleto lascia il posto alla macchia d’alto fusto di querce (Fig. 84). La nostra carta dei boschi rappresenta con chiarezza la strada in questo tratto, mentre penetra nella macchia camerale di «Monte Tosto», fra le località de «il Pertuso» e di «Punto Imagine» (Fig. 65). Il percorso può chiaramente indentificarsi con il sentiero naturalistico che le attuali carte topografiche individuano da quota 620, e che giunge in località «Montagna Vecchia», a quota 851: qui erano situati, presumibilmente, l’osteria della posta – «Osteria della Montagna», come la indica generalmente la cartografia antica – e la «Casetta» dei soldati còrsi: edifici entrambi nominati dalla descrizione del 1758 (Fig. 76, n. 7). Nella località – segnalate peraltro anche dalla carta topografica I. G. M., proprio nei pressi di quota 851 – s’incontrano diverse costruzioni dirute e avviluppate dalla vegetazione, disposte ai lati del sentiero che è quanto rimane del vecchio tracciato stradale. Le strutture murarie meglio visibili appartengono ad un edificio posto sul lato sinistro della strada (se si guarda verso Viterbo). La costruzione doveva essere costituita da almeno due piani: si notano, infatti, i fori per le travi a sostegno di un solaio. Sulla parete di fondo, rivolta ad ovest, si aprono tre vani – quello centrale ad arco fortemente ribassato – che permettono la comunicazione con un ambiente retrostante, delimitato da un muro (Figg. 85, 86). I ruderi sembrano quelli descritti da Cesare Pinzi, il quale, «sul vertice della Montagna, nella località oggi detta la Posta Vecchia, a cavaliere dell’antica via Romana», collocava un ospedale medievale ed una chiesa, citati dalle fonti. Rettore del nosocomio risultava essere, nel 1324, Maestro Fardo, un benefattore viterbese proveniente da una famiglia di notai. Pinzi riferiva che «un alta parete, ritta tuttora a sud – ovest in faccia alla cresta di Montefogliano, e squarciata da tre aperture simmetriche, che
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Figg. 76-77. La strada consolare da Roma a Viterbo in una «visita» dei maestri delle strade nel 1758 (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 258, fasc. 4: cfr. il par. 4 dell’appendice). In alto: percorso rettificato e schema delle tipologie costruttive dal miglio 37° al miglio 47° (elaborazione C. Iuozzo). A fianco: il percorso reale del medesimo tratto (cartografia F. Paparozzi).
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certo furono un tempo due finestre ed una porta, vorrebbe rammentare la facciata della Chiesa»73. Altri ruderi74 si trovano accanto al lato nord dell’edificio descritto, allineati sempre lungo il margine sinistro della strada; altri sono posti di fronte, sul margine destro: di essi, però, non rimangono che tracce ancora più esigue. Nella nostra visita non abbiamo potuto riconoscere fra tali ruderi – forse perché troppo infestato dalla vegetazione – quello che il Pinzi vedeva come «un fabbricato quadrilungo, nel cui mezzo vaneggia un ampio camerone, forse lo Spedale; e sul lato est reca alcune stanzuccie, probabilmente le abitazioni degli Spedalieri». Certo è – come infine ammette l’autore – che gli edifici medievali sono scomparsi «sotto le posteriori ricostruzioni, per acconciare il sito ad albergo rurale». Nel 1538, infatti, l’ospedale fu venduto ad un tale di Canepina per trasformarlo in un’osteria sulla strada «romana»75. Oggi si può solo dire, genericamente, che le rovine visibili in località «Montagna Vecchia» appartengono agli edifici della stazione postale sulla consolare; ma è obiettivamente molto difficile identificare e distinguere l’originaria funzione di ciascuna costruzione diruta. Le fonti, come abbiamo visto, menzionano un ospedale trecentesco, poi trasformato in osteria; una chiesa medievale, che, secondo il Pinzi, «si chiamò Santa Maria del Monte; ed anche di Boccabove, dal nome della contrada»76; una casermetta o «casetta» dei soldati còrsi. Si deve ricordare, infine, un’altra chiesa, S. Maria Incoronata, che fu costruita nel 1621 da un certo Domenico Palladino, gestore dell’Osteria della Rosa sulla «Montagna», come egli stesso ebbe a dichiarare al vescovo di Bassano Romano, in visita pastorale quell’anno77. Lasciato il sito dei ruderi, si oltrepassa la strada asfaltata che collega S. Martino alla via Cimina, e si inizia la discesa verso Viterbo, che si offre improvvisamente alla vista, con bello scorcio, al centro della pianura. Poco
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Fig. 78. Ruderi appartenenti alla chiesa di S. Rocco, situata all’incrocio fra la strada per Caprarola e la nuova strada per Viterbo costruita nel 1782, l’attuale via Cimina (Foto C. Iuozzo).
dopo si giunge – sempre seguendo il sentiero ben evidente – a quello che le attuali carte topografiche designano come «Casale della Montagna»: l’edificio (Fig. 87) è indicato dal Catasto Gregoriano, al principio del XIX secolo, come appartenente alla famiglia Bussi78. La località è dunque identificabile con quella dove la descrizione del 1758 situava la casa della famiglia Bussi, aggiungendo che quella era l’osteria in cui, in prece-
denza, era stata collocata la stazione postale (Fig. 76, n. 7). La distanza fra questo punto e la citata osteria della posta sulla «Montagna» veniva calcolata nel 1758 circa 116 canne (circa 260 metri): la stessa distanza che può misurarsi sulle attuali carte topografiche fra il «Casale della Montagna» ed i ruderi su menzionati e ritratti nelle foto qui pubblicate. Tanto si è voluto argomentare, per dimostrare che quei ruderi si trovano proprio nel
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sito che fu della stazione postale sulla «Montagna» rilevata nel 1758, dal momento che di quest’ultima non vi è alcun riferimento nell’attuale carta topografica, né essa è riportata da una carta topografica antica affidabile, come è quella del Catasto Gregoriano. La vecchia consolare, infatti, per il tratto sul versante sud della «Montagna», non è rappresentata nelle mappe di quel catasto, le quali però tornano a riportarla per il tratto sul versante nord, lungo la discesa verso Viterbo79. Al giorno d’oggi, invece, di questo segmento della strada non vi è più alcuna traccia, all’infuori di un sentiero, ben evidente nella cartografia moderna. Subito dopo il «Casale della Montagna», il percorso attraversa boschi di castagno ben coltivati; poi, avvicinandosi alla città, percorre macchie meno ordinate, fitte di castagni selvatici (Fig. 88). Secondo la descrizione del 1758, nella salita verso l’osteria della posta, la strada appariva costituita, per lunghi tratti, dal semplice fondo naturale del terreno, mentre nella discesa verso Viterbo essa presentava con maggior frequenza la tipologia della «riempitura» di lapillo. Il sentiero passa per quota 734 e giunge fino a quota 612. Nella sua prima parte procede in un’infossatura, alla fine della quale, forse, possono collocarsi una seconda «casetta» dei soldati còrsi, una croce ed una cappelletta, ora scomparse, ma segnalate dalla descrizione del 1758 alla distanza di circa 655 canne (1465 metri) da casa Bussi (Fig. 76, n. 8). A quota 612, dove il sentiero incrocia la strada asfaltata che proviene da S. Martino al Cimino, dovrebbe, invece, situarsi l’osteria «detta della Porchetta», riportata dalla citata descrizione a circa 540 canne (quasi 1200 metri) dalla casermetta dei còrsi: anche questo edificio è scomparso. La «visita» del 1758 rilevava l’attraversamento del fosso della Porchetta mediante un ponte di muro, distante dall’osteria circa 80 canne (poco più di 180 metri). Il nostro sentiero raggiunge poi
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la strada, oggi asfaltata, che si dirige verso Viterbo a fianco del fosso del Roncone. Quest’ultima, secondo la descrizione del 1758, scavalcava il fosso con un «ponte di muro detto della cartiera», proprio come oggi fa la strada del Roncone, davanti all’opificio designato nello stesso modo dall’attuale cartografia (Fig. 89). Circa 250 metri da questo punto, all’incrocio con una carrareccia, sul ciglio destro della strada (volgendosi a Viterbo) si rinviene una pietra miliare, recante incisa la data «1740» (Fig. 90). L’indicazione mutila del miglio si può integrare, secondo le informazioni desunte dalla «visita» del 1758, in questo modo: «XXXX[VI]». La descrizione settecentesca riporta, per questo tratto, la menzione di una serie di «vigne», la cui presenza, come abbiamo visto, era abituale nelle immediate adiacenze dei centri urbani. Oggi si può osservare come le recinzioni in muratura di questi terreni s’integrino perfettamente nella «tagliata» praticata nel materiale tufaceo che delimita la sede stradale (Figg. 91, 92). Al termine della strada del Roncone, laddove essa s’incontra con la carrozzabile proveniente da S. Martino, si trova un edificio allungato, situato sul ciglio destro, che deve identificarsi con l’«osteria detta della Fontanella», menzionata nel 1758: la costruzione risulta, infatti, distare dal ponte della cartiera più di un chilometro e mezzo, ossia le circa 700 canne misurate nella «visita» settecentesca. Questa registrava altre 66 canne (circa 150 metri) dall’osteria all’inizio del ponte «Romano» che segnava il termine del servizio di manutenzione garantito dall’appaltatore: la stessa distanza si misura oggi dall’edificio fotografato (Figg. 93, 94) al ponte chiaramente indicato dalla carta topografica, sotto il quale passa un fosso. 3. Mutamenti di fine secolo. Se la regolare manutenzione della viabilità «consolare» nel di-
stretto di Roma era garantita dalla «tassa fissa», oltrepassata quell’area la cura delle strade più importanti – possibile solo con uno straordinario sforzo finanziario – si concentrava prevalentemente nei grandi lavori di riattamento intrapresi soprattutto per l’urgenza di situazioni particolari, come l’affluenza dei pellegrini a Roma in occasione dei giubilei80, il passaggio di sovrani, i danni provocati da straordinari fenomeni atmosferici81. Nel corso del secolo XVIII, inoltre, le novità introdotte nell’assetto viario furono sporadiche, anche se non mancarono esempi di qualche rilievo, come la via «Clementina», costruita appunto per iniziativa di Clemente XII, allo scopo di collegare direttamente Ancona e la via Flaminia82. Tuttavia, negli anni ‘80 gli sforzi del governo centrale in vista di un miglioramento della rete stradale – concentrati, ancora una volta, nelle province confinanti con Roma – si fecero più consistenti, e l’attività della Presidenza delle strade, guidata da monsignor Giovan Battista Bussi De Pretis, fu caratterizzata da un fervore progettuale assolutamente inedito. La complessità ed organicità degli interventi, la loro forte incidenza su equilibri territoriali consolidati c’inducono ad inscriverli nell’ambito più vasto della rinnovata stagione di riforme economiche e amministrative che caratterizzò il pontificato di Pio VI83. Il significato delle grandi opere promosse dalla Presidenza può comprendersi, dunque, nel quadro di provvedimenti come gli editti del 1777, intesi all’abolizione dei pedaggi e alla creazione di un mercato interno unificato, per il cui effettivo funzionamento era certamente necessaria una rete stradale più efficiente e razionale – orientata, cioè, soprattutto allo scopo di facilitare il movimento delle merci – di quella fino ad allora in uso. Ciò è evidente con chiarezza nello sforzo di realizzare, come vedremo, un collegamento più diretto, e dunque più
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rapido, fra i due maggiori porti dello Stato, Civitavecchia ed Ancona. In questa sede ci limiteremo ad esaminare brevemente la questione, soprattutto in relazione agli interventi progettati per il collegamento fra Roma e Viterbo. Vogliamo qui, tuttavia, sottolineare la necessità di uno studio dettagliato della vicenda nel suo complesso, dal momento che i lavori stradali progettati ed effettuati nel dominio pontificio nell’ultimo ventennio del secolo XVIII sembrano rappresentare un singolare momento di dinamismo nella situazione italiana, in cui «nello stesso secolo dei lumi e del progresso ben rare appaiono le realizzazioni pratiche» a proposito di strade84. Peraltro, occorre comunque non dimenticare che la spinta innovativa del governo romano trovò un freno, anche in questo campo, nella forza degli interessi particolaristici che caratterizzavano la compagine dello stato, ed in quelli della stessa Camera apostolica, oltre che nella difficoltà di reperire le risorse finanziarie. Non sempre il tentativo di operare mutamenti radicali nell’assetto stradale raggiunse lo scopo auspicato, ed anzi esso sembrò, a volte, incontrare le stesse difficoltà che condussero al fallimento le grandi riforme promosse dal pontificato di Pio VI e miranti ad una nuova organizzazione dello spazio statale. Si ricorderà, infatti, che molti dei pedaggi aboliti nel 1777 continuarono ad essere riscossi anche dopo quella data, mentre l’esito finale dell’istituzione delle dogane ai confini fu l’allontanamento del tesoriere, il cardinal Ruffo, uno dei principali sostenitori del provvedimento85. Presso la Depositeria generale della Camera apostolica venne aperto un conto speciale, intitolato alle «nuove linee consolari», nel quale dovevano essere versati gli introiti delle tasse straordinarie imposte alle comunità, per finanziare la costruzione o il miglioramento dei tracciati stradali86. I rendiconti dell’esattore Gioacchino Galluzzi, deputato dalla
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Fig. 79. Copertura di lapillo («rapillo») su una vecchia strada di collegamento fra il fondo della conca di Vico e la via Cimina (Foto C. Iuozzo).
Presidenza alla riscossione di queste tasse, ci permettono di avere un’idea generale della considerevole portata dell’intervento, che appare coinvolgere, in una visione d’insieme, gran parte del «sistema» delle consolari87. Secondo altri documenti contabili, l’operazione delle nuove «linee» consolari, iniziata nel 1778, risulta costata complessivamente, nel 1795, 1.649.695 scudi (media annua
113.772 scudi), a fronte di 1.208.047 scudi di tasse riscosse (media annua 83.313 scudi) 88. A nord di Roma, l’attenzione si orientò anzitutto sui collegamenti con l’Umbria. Il progetto della Presidenza delle strade – la cui attuazione iniziò dal luglio 1782 – prevedeva il miglioramento di una strada parallela alla via Flaminia, ad est del Tevere e coincidente all’incirca con il
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percorso dell’odierna Statale n. 313 da Passo Corese a Terni. Si trattava della «aperizione e costruzione dell’antica via Salaria [sic], che ha il suo principio dopo il Ponte chiamato del passo di Corese fuori della Porta Salara, e proseguendo verso Monte Buso, Cantalupo, ed altri luoghi nella Provincia di Sabina, continua passando sotto Configni e Collescipoli nella Provincia dell’Umbria, ed indi alla Città di Terni, dove ha il suo termine»89. La contribuzione complessiva per la via «Salaria» risulta ammontare a 73.167 scudi90. Questa somma venne ripartita fra le comunità, terre e castelli della provincia di Sabina, i possessi dell’abbazia di Farfa e l’intera provincia dell’Umbria. Fu esclusa la città di Rieti, poiché essa finanziava il collegamento, all’altezza di Passo Corese, fra la nuova strada in via di realizzazione e quella da Porta Pia al capoluogo della Sabina91. Tale raccordo, che nel 1782 si diceva già iniziato, partiva infatti «dalli cerquoni di Nerola [e] viene ad imboccare nella stessa Via Salara al Passo di Corese». Come si vede, il riferimento alle antiche strade dei Romani accompagnava spesso, in questo periodo, le dichiarazioni d’intenti delle autorità pontificie. Anche per quanto riguarda i collegamenti fra Roma e le province meridionali, il piano della Presidenza delle strade prevedeva radicali novità, consistenti sostanzialmente nel ripristino del percorso dell’Appia antica, nell’ambito della grande operazione della bonifica pontina. Con l’inizio di essa, nel 1778, fu intrapresa anche la ricostruzione dell’antico tracciato rettilineo attraverso le paludi, condotta contemporaneamente allo scavo del parallelo canale della Linea Pia. Nello stesso tempo si immaginò di collegare, secondo il percorso romano, il lungo rettifilo pontino con Albano, passando sotto Genzano e S. Gennaro. Tuttavia, per non essere tagliata fuori, Velletri ottenne di poter costruire una strada che la raccordasse, da una parte, a S. Genna-
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ro, e dall’altra, a Cisterna, raggiungendo così la strada in costruzione nella pianura pontina92. Lo strumento notarile del 12 agosto 1782 formalizzava gli accordi soltanto verbali del 1780 fra monsignor De Pretis e Giuseppe Catena, con la concessione a quest’ultimo dell’appalto per i lavori della nuova strada da Albano a ponte S. Gennaro. Recita la premessa dell’atto93: «Ritrovandosi in pessimo stato ed impraticabile la Strada Consolare fuori di Porta S. Giovanni, che passando per Marino, la Fajola e Velletri tende alla volta di Napoli, la Santità di Nostro Signore avendo sempre presente il bene pubblico e de suoi Sudditi, comandò a Mons (.…) Gio. Batta. Bussi de Pretis (…) presidente delle strade che si togliesse affatto l’aspra Montagna della Fajola, anche con l’abbandonare la strada di Marino, e si ricercasse altra linea più commoda ed essendosi fissata una nuova linea che d’Albano, Genzano e Velletri prosiegue per l’antica Via Appia fino a Terracina, fu questa linea confermata da Sua Santità, come dal rescritto in data 12 marzo 1780 col quale s’ingiunse al medesimo Mons. Presidente delle Strade la facoltà di fare per le spese occorrenti la Tassa comprensiva delle Città, Terre e de’ Castelli delle due Provincie di Marittima e Campagna (…)».
La consolare per Napoli abbandonava dunque il percorso in altura costituitosi durante i secoli del Medioevo94: non solo tutto il tratto nella zona pedemontana da Sermoneta a Sezze e Priverno, ma anche quello per la «Montagna della Fajola, dov’era situata l’antica strada de Posta non meno disastrosa per la lunga ed aspra salita, che pericolosa al publico transito per la vastezza della Macchia, di cui è vestita non solo la detta Montagna, ma anche li terreni confinanti…»: in pratica, l’itinerario oggi seguito dalla cosiddetta via dei Laghi95. Allo stesso modo, per la consolare di Viterbo venne fissato un nuovo itinerario, coincidente con quello dell’attuale Statale n. 2, e che «da Monterosi passando per Sutri, e Vetralla deve giungere alla Città di Viterbo a scanzo della Montagna, che nella Strada Vecchia si incontrava»96.
Anche in questo caso si prospettava una svolta radicale nell’assetto di uno degli assi viari più importanti nella regione a nord dell’Urbe. Nel maggio del 1780, come abbiamo visto, venne rogato il contratto novennale fra la Presidenza delle strade e Giuseppe Catena per la manutenzione della consolare per Viterbo, «senza alcuno però dei bracci che prima andavano uniti alla medesima consolare». Per l’annuo «assegnamento» di scudi 650, l’appaltatore s’impegnava a mantenere la strada «ad uso di buon arte, partita per partita, tanto di lavori vecchj di ogni sorte, quanto di lavori nuovi da ordinarsi». A proposito di questi ultimi, una delle clausole prevedeva il «patto espresso (…) che quantunque per bene del pubblico e per agevolare il transito [il presidente delle strade] venisse nella determinazione di abbandonare il tratto di strada scoscesa e pericolosa della Montagna di Viterbo e determinarlo e stabilirlo in altro sito più comodo, debba il medesimo Signor Catena per il medesimo assegnamento mantenere e conservare il nuovo tratto di Strada in vece dell’altro della Montagna, ancorché il nuovo tratto di strada riuscisse di maggior lunghezza ed estensione»97. Dopo circa un anno, nel marzo 1781, la scelta era ormai fatta, come risulta dalla supplica che la magistratura delle strade indirizzava a papa Pio VI, per essere autorizzata alla ripartizione di una nuova tassa destinata a finanziare l’opera. Il tribunale faceva sapere al pontefice di trovarsi nella circostanza di dover effettuare ingenti spese «in lavori nuovi diretti ancora a scansare la rapidissima salita della Montagna», al fine di «liberare la Strada da incommodi notabilissimi e dai pericoli anche di vita che sovrastano presentemente ai Passaggieri». Con i proventi dell’ordinaria tassa fissa «appena si possono conservare i lavori altre volte fatti in detta strada», e perciò si chiedeva di poter distribuire le nuove spese non solo «tra le comunità in qualunque modo
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utenti della medesima strada e che possono far uso di essa», ma anche, «quando faccia di bisogno», fra tutte le comunità della Provincia del Patrimonio. Il pontefice, con rescritto del 14 marzo 1781, aderiva alla richiesta, e nel luglio seguente il tribunale istituiva una prima tassa di 6.019 scudi da ripartire nel modo richiesto, escluse però le comunità «che sono tassate per il riattamento dell’altra Strada Consolare di Civita Vecchia»98. Anche i lavori che avrebbero dovuto radicalmente mutare il percorso della consolare per Viterbo furono affidati dalla presidenza a Giuseppe Catena99. Nell’ottobre del 1782, la lettera circolare alle comunità del Patrimonio, chiamate a contribuire alla terza tassa per la nuova consolare, conteneva due importanti novità100. La prima era che, da allora in avanti, i danari riscossi sarebbero stati spesi anche «[per] il nuovo braccio di traversa che da Monte Rosi, passando per la Città di Nepi dovrà giungere a Civita Castellana per riunire con quella Consolare», cioè la Flaminia. Come abbiamo visto, una strada per Nepi già collegava la consolare di Viterbo all’altezza del miglio 23° (Fig. 69, n. 4): ora, invece, s’avviavano i lavori per un nuovo percorso all’altezza del miglio 26° presso Monterosi. Il borgo, dunque, avrebbe dovuto assumere una posizione di snodo centrale, all’incrocio fra la nuova «linea» passante per Sutri ed il suo collegamento con la «Flaminia» che attraversava Civita Castellana. Nel 1786 vennero istituite tasse destinate a finanziare lo «sterro fatto dentro la Città di Civita castellana», per raccordare la nuova strada al centro urbano101; mentre, dal 1788 al 1791, furono ordinate tasse per il rifacimento della Flaminia stessa102. La seconda novità contenuta nella «terza tassa di Via Cassia», con l’esenzione ottenuta dalla comunità di Ronciglione, apriva un nuovo interessante capitolo della vicenda settecentesca riguardante la nostra consolare. A causa della deviazione stradale progettata dalla Presidenza, Ronci-
glione, uno dei centri di rilievo dell’ex ducato farnesiano, sede di numerose manifatture, al centro di una zona ricca di ingenti proprietà della Camera apostolica, non sarebbe stato più un punto di passaggio obbligatorio per la posta, le merci e gli uomini in viaggio fra Roma e la Toscana. Come sembra di capire da una supplica dei rappresentanti della comunità, la città sarebbe stata collegata alla nuova consolare mediante il più volte citato «braccio» secondario di Sutri103. Il progetto avrebbe dunque scosso gli equilibri di un assetto territoriale consolidatosi ormai da secoli attorno alla via di comunicazione. La reazione della comunità non si fece attendere, mettendo in moto una trattativa con il governo pontificio. L’accordo fra le istanze centrali e quelle della comunità venne raggiunto anche per le forti pressioni degli interessi coinvolti nella gestione dei cospicui beni camerali presenti nel territorio di Ronciglione. Il compromesso, tuttavia, rimase subordinato all’impegno di trovare una soluzione alternativa, elaborata e finanziata in sede locale. Esclusa la soluzione minimale di risistemare la vecchia strada, le finanze locali furono sollecitate ad uno sforzo ben più cospicuo, necessario per dare una nuova impostazione all’asse viario esistente e per realizzare un sostanziale miglioramento del suo assetto materiale nel tratto fra Ronciglione e Viterbo. Nella vicenda entrava così in gioco la Congregazione del Buon Governo, l’ufficio centrale preposto al controllo delle finanze comunitative. Come vedremo, il suo ruolo avrebbe implicato anche una supervisione tecnica del progetto proposto dalla comunità. Con quest’ultimo si delineava, dunque, una soluzione alternativa rispetto al piano del presidente delle strade De Pretis, piano che peraltro avrebbe incontrato grandi difficoltà di realizzazione, nonostante le considerevoli risorse finanziarie mobilitate attraverso l’istituzione, fino al 1795, di 10 tasse straordinarie. Già il 5 gennaio 1781 il consi-
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glio della comunità decise di ricorrere al pontefice perché impedisse che «possa (…) variarsi il metodo da immemorabil tempo tenuto circa la strada consolare detta Flaminia [sic], che passa in mezzo di detta Città [Ronciglione] e quella stabilire nell’altra di Sutri [poiché] una tal variazione sarebbe di sommo pregiudizio alla Città per essere questa fermata di tutti li passaggieri, e perciò verrebbe a mancare notabilmente lo smercio de prodotti con grave danno de Particolari». Intanto si chiedeva al Buon Governo di autorizzare le spese necessarie alle misurazioni del pubblico agrimensore Alessandro Mariti, per la preparazione di progetti alternativi a quello avviato dal De Pretis104. Sulla perizia, prodotta dal tecnico nel febbraio 1781, si basò una seconda supplica che la comunità rivolse al pontefice nell’aprile successivo105. L’argomento principale era esposto nell’attacco altisonante che associava la brevità delle strade ai loro requisiti di comodità e sicurezza: «Che la brevità nelle strade Beatissimo Padre siasi riconosciuta in tutti i tempi ed a tutte le Nazioni per un requisito egualmente pregevole alla commodità e sicurezza delle medesime, non è certamente ignoto alla sublime cognizione della Santità Vostra, tanto più che molte maravigliose operazioni lo comprovano: mentre a tale effetto sono stati con spese e fatighe immense tagliati e traforati i monti, per questo si è alle volte mutato il letto de fiumi, eretti sopra di essi e nelle valli più vaste ponti di rispettabile mole, e si sono anche inalzate sopra la superficie delle acque sostenute dalli argini per traversare i lochi paludosi: tanto si è operato e si opera tuttavia qualora si riconosca che con simili mezzi possino abreviarsi».
Era dunque un errore deviare la consolare, poiché ne sarebbe risultato l’allungamento del percorso. A sostegno di questa tesi venivano riportate alcune decisioni della stessa Presidenza intese ad abbreviare i tracciati stradali: il presunto abbandono del braccio Monterosi-Sutri-Ronciglione all’inizio del secolo, ed i più recenti progetti a proposito della «Sa-
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Fig. 80. Cava di lapillo rosso in località «Montagna Vecchia» (Foto C. Iuozzo).
laria»106. Non mancava il richiamo agli «Antichi Romani» in modo assai singolare. Infatti, dopo aver detto che il requisito della brevità aveva fatto sì che «fosse tralasciata l’altra [strada], che molto tempo prima da (…) Sutri sulle tracce dell’antica Via Cassia (…) andava a Viterbo», la supplica rivendicava «titoli più ragionevoli» a Ronciglione, «per dove li Antichi Romani l’avrebbero certamente aperta senza curar punto la
decantata Montagna di Viterbo, che alla fine non è già una parte delle Alpi o de Pirenei delle Spagne, se non avessero in que tempi stimata questa nostra Regione, allora disabitata affatto, come impraticabile per il folto e vasto Bosco Cimino, che tutta l’ingombrava, e dove non era mai penetrato alcuno per timore di qualche strano accidente».
Anche l’argomento relativo alla sicurezza dei passeggeri veniva rovesciato a favore del percorso che la Presidenza voleva mutare, «la di cui
mancanza farebbe ridurre la Montagna sudetta un nido di malandrini, togliendo da essa la guardia de soldati Corsi che vi si tiene per sicurezza de passegieri». Al centro della supplica erano esposte le ragioni economiche alle quali certamente il pontefice e la Camera apostolica non potevano rimanere insensibili. Affatto necessaria «per poter trasportare in Roma il ferro che si fabrica in queste ferriere ed il prodotto del procojo di Vico, effetti ambidui spettanti alla Santità Vostra», la strada per Ronciglione poteva essere giustamente definita «principale decoro e sostegno della Città». La supplica passava poi a valutare, sulla scorta della perizia del Mariti, la qualità dei percorsi alternativi a quello passante per Ronciglione, il borgo di Vico e la «Montagna». Quest’ultimo, con le sue 47 miglia da Roma a Viterbo, era, in ogni caso, più breve dei primi. In particolare, la strada progettata dal De Pretis, «a seconda dell’antica Via Cassia» (SutriCapranica-Capannacce-Campo Giordano-Viterbo), prevedeva più di 53 miglia. Quanto poi alle condizioni del terreno e ambientali in genere, sotto accusa era proprio il nuovo tratto di pianura che costituiva la principale novità della «linea» De Pretis: esso era «bastantemente interrotto (…) da molte discese e salite considerabili. Mancano altresì (…) le acque perenni in più lochi e la qualità del suolo privo di materiale buono, tutto di terra fangosa, lo fanno sufficientemente incommodo, e niente può essere sicuro per l’aria insalubre di alcune sue stazioni». A proposito dei punti di sosta, si faceva notare che «le tanto valutate Capannacce107 (…) altro queste non sono che una osteria campestre priva di ogni commodo e di acqua sorgente, con tutto ciò considerate nella presente occasione per un punto troppo necessario alla condotta di una tale impresa, senza del quale sembra che niun progetto benché di gran longa megliore sia valutabile»108.
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Dunque – proseguivano i rappresentanti della comunità – qualunque strada fosse passata fuori dal territorio di Vico sarebbe stata più lunga, scomoda ed insicura, perché i viaggiatori avrebbero dovuto «pernottare in siti di aria poco salubre, privi affatto di acque perenni e di tutti li altri commodi che si ritrovano in Ronciglione per qualunque occorrenza, oltre il dispendio di più che doveranno soffrire». Dopo attento studio sul campo, alla ricerca di una soluzione «che possa mantenere la strada Romana in questa parte [Ronciglione], e che riesca insieme commoda, breve e sicura», il Mariti aveva riferito la strada migliore per andare da Ronciglione a Viterbo, era «quella esistente nel piano detto di S. Rocco, la quale oltre il sensibile scanso della Montagna, ha un suolo di materiale breccioso, molto adattato all’uso delle buone strade, che ancora si mantiene pratticabile in tutta la sua estensione, sebbene non sia stata da gran tempo risarcita ed ajuta dall’arte, di maniera che con spesa tollerabile potrebbe ridursi molto commoda e sarebbe sempre asciutta tanto per la buona qualità del suo terreno, che per l’amenità della sua situazione». Il progetto elaborato dal pubblico agrimensore prevedeva dunque lo spostamento del percorso consolare dal fondo della valle di Vico, più a monte, sull’orlo orientale della conca vulcanica. Su tale dorsale collinare esso sarebbe venuto a coincidere con la strada dalla «Croce di Vico»109 per Caprarola, la quale si distendeva «nel (…) ameno Piano di S. Rocco, (…) sopra il dorso del colle che fiancheggia la (…) Valle Vicana con un falso piano, sintanto che giunga a sormontare la predetta Montagna, in quella parte però dove colla sua declinazione verso l’Oriente si riduce più bassa della sua sommità in cui presentemente passa la Strada Romana canne quaranta almeno». La strada da sistemare descriveva un ampio arco, girando sull’orlo settentrionale della conca, ed intersecando
il tracciato della consolare sulla sommità della «Montagna», nei pressi dell’osteria della posta. La nuova «linea», invece, una volta giunta al culmine della salita, avrebbe dovuto puntare subito verso Viterbo, proseguendo il netto spostamento verso oriente del nuovo percorso rispetto al precedente. Il tracciato avrebbe poi attraversato la tenuta della Palanzana «quasi rettamente con un falso piano», per innestarsi presso Viterbo nella vecchia consolare, «mantenendo così lo stesso decoroso ingresso [nella città] dalla Porta Romana, lo che non succederebbe qualora si dovesse andare per la progettata strada delle predette Capannacce, perché condurrebbe alla Porta Salciccia situata nella parte più infelice della Città sudetta». Il nuovo percorso proposto dal Mariti sarebbe stato lungo così soltanto 61 catene (681 metri) in più rispetto a quello da sostituire, passante per il borgo di Vico e la Montagna. La strada per il piano di S. Rocco sarebbe riuscita quindi «asciutta, piacevole e commoda a tutti i forastieri che da qui passano, anche per l’abbondanza delle acque sorgenti». Del resto essa era già, di fatto, notevolmente utilizzata, giacché «commoda riusciva all’Eminentissimo Lante di chiara memoria, che ogni anno vi passava per andare a Bagnaja, ed a corrieri medesimi, che nelli anni indietro, benché la proseguissero sino alla Posta della Montagna, e così fosse alquanto longa, l’anno colle loro corse pratticata, e ben volentieri, come essi dicono, adesso che sarebbe più corta praticherebbero». Se poi questo progetto non fosse stato accolto, gli estensori della supplica proponevano una soluzione meno dispendiosa: addolcire semplicemente la pendenza del percorso in uso, «con un mezzo palmo di elevazione per ogni canna (…) in maniera che appena se ne capisca il salire tanto da una parte che dall’altra discendente verso Viterbo, che parimente potrebbe agilitarsi di molto e
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ridursi tale che le cambiature potessero anche questa [strada] trottarla tutta come appunto nelle strade di falso piano succede». Nel gennaio del 1782 lo stesso presidente delle strade De Pretis, assistito dall’architetto Mazzoni, verificava sul posto la strada proposta «per la via di S. Rocco e della Paranzana»110. Fuori di Ronciglione «dal fine dell’Osteria detta del Casalino dove è il Bottino dell’acqua» iniziava una deviazione che avrebbe immesso la consolare nella valle di Megro. Lo scopo era eliminare la grande curva a destra fino alla «Croce di Vico», per arrivare in linea retta in questo punto, dove iniziava la strada di S. Rocco. Per formare il piano della nuova carreggiata, sarebbe stato necessario operare un «taglio nella picciola collina macchiosa a sinistra della larghezza (…) palmi 60, ed in tal spazio formare poi la massicciata composta a mano di altezza palmi 2 con palmi 1 di copertura di rapillo con guide, fiancheggiature e fossi». Il tracciato si sarebbe svolto «alle falde della stessa collina, con aspetto a tramontana, giaché il mezzo giorno viene impedito dalla medesima collina, fino incontro la Croce di Vico». Per sboccare nel piano vicano, occorreva procedere alle «smacchiature e cioccature de’ i folti castagneti che in tutto quel colle vi sono e provare di adagiare per quanto sarà possibile la salita nella stessa falda della collina». Dalla «Croce di Vico» si sarebbe imboccata la «strada battuta detta di Caprarola», lasciando a sinistra il vecchio tracciato della consolare, per condursi in pianura pressappoco all’altezza del borgo di Vico. Qui iniziava la salita, «tra li greppi alti», lungo l’orlo craterico; per circa 280 canne (632 metri) la larghezza della strada, di soli 15 o 20 palmi, andava ampliata «per quanto sia possibile alla sinistra, atteso il favore del getto dei materiali, verso la valle profonda da detta parte (…) smacchiando anche le vigne nel sito (…), e la superficie di questo tratto
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trovasi sassosa e quasi tutta di buon fondo». Il percorso si sarebbe svolto poi, in falso piano, per circa 1088 canne (Km. 2,5 e mezzo) fino alla chiesa di S. Rocco (Fig. 78), fra le macchie cedue di castagni di proprietà della Camera apostolica: ad est quella di Vasiano, ad ovest quella detta «delle Coste del Lago», come viene indicato nella citata carta dei boschi (Fig. 65). Alcune querce avrebbero dovuto essere abbattute «per formare la linea più retta che sia possibile». Per scavare la «cassa» della nuova strada, ove alloggiare la «riempitura», i «tagli» non sarebbero stati molto profondi, ma avrebbero dovuto essere effettuati «in forte materiale sassoso». Dalla chiesa di S. Rocco «sino a capo la Montagna», per un miglio, la strada sarebbe salita gradualmente, e poi più bruscamente, per un altro miglio. Quest’ultima era chiamata la salita «delle Cerrete»: ripida, ma riducibile ad una pendenza non maggiore di 7 once per canna (5,6%), secondo l’architetto Camporesi, chiamato, come vedremo, dal Buon Governo a dare il suo parere. In questo tratto erano necessari i soliti «tagli» per allargare la sede viaria ed inoltre un’opera di sfoltimento delle macchie attraversate: quella camerale d’alto fusto di «Monte Tosto», in località «coste dell’Orioletto ad ovest, e quella cedua di castagni dei «tagli di Canepina» ad est (Fig. 65). Si ritenevano, dunque, indispensabili «la cioccatura dei cerquoni di più grossezza in varij siti anche folti (…), e nel principio alcuni de’ medesimi alberi più radi, parimenti da cioccare, oltre la continua smacchiatura e cioccatura delle rinascenze della macchia bassa». Tale paesaggio boscoso sarebbe stato in seguito descritto dall’architetto Camporesi, con accenti sostanzialmente favorevoli al progetto della nuova strada: «Questo è quel tratto in parte de quali si incontrano lateralmente varie partite di terreno vestito di alberi grossi di Querci e
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Fig. 81. Percorso della consolare da Roma per Viterbo, prima della entrata in funzione della nuova strada costruita nel 1782. Superato il «Procoio» di circa km. 3,5 in direzione di Viterbo, nei pressi della «Montagna», a quota 578 nella carta I.G.M.: fontanile con abbeveratoio (Foto C. Iuozzo).
Castagne i quali però non sono si spessi ma radi, ne hanno rami o frasche nel basso per cui rimaner possa il sito macchioso ed imboscato ed anzi può spaziarvi l’occhio con libertà da per tutto senza timore d’imboscate come succeder potria se fosse macchia folta, e vestita di rami e cespugli nel basso (…)»111.
Poi, per circa un miglio, la «carrareccia» da trasformare nella nuova
strada consolare addolciva la sua salita, sempre procedendo tra le macchie di «Monte Tosto». Nel luogo detto «Cavaspina» (nella macchia camerale di «Monte Tosto», in località «Il Conicchio»: cfr. Fig. 65) si sarebbe dovuta operare una diramazione verso sud: infatti, proseguendo in direzione di S. Martino, si finiva alla casermetta dei soldati còr-
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dopo oltre un miglio e mezzo, al «fontanile dove si dice voler formare la Posta»112. Infine: «La rimanente lunghezza di questa proposta linea che siegue in continuata discesa uniforme alla precedente sino al suo termine vicino alla Porta Romana della Città di Viterbo di lunghezza canne 3.760 [poco meno di 8,5 chilometri] verebbe situata in quasi tutta la sua estensione sopra un fondo cattivo, a riserva di una piccola parte che è di masso vivo, ma tutta al sommo irregolare al piano, con quasi continuati macchiozzi e scopiglieti113, e verso il fine per poco tratto una diradata macchia di cerquoni che dovrebbero cioccarsi a similitudine delle precedenti porzioni, riempendo tutte l’accennate escavazioni, mediante i tagli e trasporti dei medesimi materiali».
Fig. 82. Percorso della consolare da Roma per Viterbo, prima del 1782. Resti di selciata nei pressi della «Montagna», a quota 578 nella carta topografica I.G.M. (Foto C. Iuozzo).
si, nei pressi della posta, sul vecchio percorso della consolare (cfr. Fig. 76, n. 7). Con la svolta verso sud, invece, la strada, giunta dopo una breve salita a superare la «Montagna», sarebbe stata indirizzata, in declivio, verso la tenuta della Palanzana e Viterbo. Tale itinerario avrebbe incrociato, ma solo per un piccolo tratto, «una larghezza di circa palmi 12 di strada battuta passando il miglio 43 in principio della sudetta Tenuta
della Paranzana, la quale conduce a Bagnaia». Dalla sommità della «Montagna», dunque, il progetto sembra prevedesse, non più soltanto l’ampliamento e la sistemazione di una preesistente carrareccia, ma l’apertura e l’attrezzatura di un percorso quasi totalmente nuovo. Dal prato di «Cava Spina», per mezzo di «tagli» nel terreno e pulizia della vegetazione, la nuova strada sarebbe giunta,
La Presidenza delle strade approvò il progetto solo «fin alle Cime di Vico», ma lo rigettò «per tutto il tratto fino a Viterbo specialmente nella Tenuta della Paranzana». Finalmente, una supplica presentata al pontefice dal procuratore Cerasoli riuscì a sbloccare la situazione: la comunità offrì di far costruire a proprie spese la nuova strada attraverso il piano di S. Rocco, in cambio dell’esenzione dalle tasse per il finanziamento della nuova «linea» De Pretis114. Un ruolo di rilievo nella decisione del pontefice dovettero probabilmente giocare gli interessi collegati alla gestione dei beni camerali, che dava luogo, come abbiamo visto, ad importanti attività economiche protette. Non a caso gli oratori della comunità lamentavano nella supplica che il raccordo della loro città con la nuova «linea», attraverso «la pessima strada traversa che conduce in Sutri», avrebbe avuto il risultato di prolungare il viaggio verso Viterbo almeno di 13 miglia: l’aumento delle spese di trasporto avrebbe danneggiato gravemente il commercio di Ronciglione che «consiste tutto nel lavoro de ferri, mercanzia poverissima, la quale è in situazione di non poter soffrire senza ruina una vettura maggiore». La strada che la comunità si offriva di costruire sa-
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Fig. 83. Percorso della consolare da Roma per Viterbo, prima del 1782. Muretti laterali costruiti con ciottoli a secco, ai piedi della «Montagna». (Foto C. Iuozzo).
rebbe stata «se non bella e spaziosa, almeno breve, e transitabile dalli strascini e barozze», e dunque funzionale al trasporto pesante. La supplica reca il rescritto in data 16 febbraio 1782, col quale il pontefice comandò che, mentre fosse portata a termine la strada a spese dei ronciglionesi, si sarebbe nel frattempo soprasseduto, nei loro confronti, all’esazione della tassa per
le nuove «linee» consolari. Il consiglio di Ronciglione deliberava così, il 10 marzo, di fare i passi necessari affinché il Buon Governo – cui spettava il controllo finanziario delle comunità – desse l’assenso alla nuova opera «con tutti quei patti, capitoli e condizioni (…) le quali saranno credute più proficue a questa nostra Communità»115. L’ingerenza della Congregazione non si limitò, tutta-
via, soltanto al piano finanziario e amministrativo, ma sconfinò palesemente in quello attinente alla realizzazione tecnica, con un atteggiamento nettamente più favorevole nei confronti del progetto della comunità che non quello già espresso dalla Presidenza delle strade. Nell’aprile del 1782, l’architetto Camporesi, su incarico della Congregazione, redasse «scandagli» e perizie per determinare e verificare i preventivi di spesa. «Le selciate – scriveva Camporesi – nella Strada Consolare che resta in mezzo della Città [sono] nella loro maggior parte scomposte ed escavate in molti luoghi affatto nude in altri siti con piccioli selci irregolari, e con pochissima calce (…) e senza le necessari[e] pendenze (…)». Prevedeva perciò una spesa di scudi 2.242,27 per riattare la strada nell’abitato, e di scudi 19.949,12, necessari alla costruzione del nuovo tracciato fino a Viterbo116. E’ forse in seguito all’intervento dell’architetto che il progetto della nuova strada subì una variante, giacché venne deciso di limitarsi a migliorare il percorso esistente da Ronciglione, fino alla «Croce di Vico», abbandonando l’idea di operare anche una sua rettifica, passando per la valle di Megro117. Il giudizio complessivo formulato dall’architetto sul progetto fu, come abbiamo detto, positivo: «(…)vedesi chiaramente che col nuovo giro va scansando l’acclività della Montagna per cui passava la strada antica, e perciò avrà dovuto fare qualche inflessioni che si osservano nella nuova a fine di scostarsi da que siti che si incontrarebbero, o troppo erti e troppo umidi, e portare la strada per un andamento comodo e durevole». La strada sarebbe stata lunga miglia 13 e canne 469 (km. 20,4), «per il qual tratto, deviso certamente in varie pendenze per adattarsi alli siti per cui si passa, non si trovano però anche nelle maggiori acclività più di oncie 8 per canna (6,4%) il che succede anche ne’ pochi siti e non molto lunghi ove sono
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Fig. 84. Sentiero naturalistico, appartenente alla Riserva naturale del lago di Vico, che inizia ad inerpicarsi sulla «Montagna», a quota 620 della carta I.G.M.. Il tracciato può identificarsi con quello della consolare per Viterbo, prima del 1782 (Foto C. Iuozzo).
indicate le linee punteggiate, e perciò non dubito che riuscirà commoda per li trasporti anche in queste parti essendo poi nel rimanente molto più agile e piana»118. Il parere dell’architetto sarebbe stato determinante anche in seguito, quando l’esecuzione della nuova opera fu messa in pericolo da una serie di suppliche anonime indirizzate al Buon Governo, le quali lamenta-
vano «di non essere di verun utile alla Communità il farsi a sue spese detta nuova strada, ma proficua solo per qualche Particulare». Approvato di nuovo in consiglio «a pieni voti segreti», il progetto fu di nuovo verificato sul posto dal Camporesi, il quale ne redasse una nuova positiva perizia. A proposito di un memoriale inviato in Congregazione da sedicenti «zelanti», i quali sostenevano
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che il costo della strada era maggiore di quello convenuto, l’architetto riteneva che «non va alcun luogo alla rescissione del contratto o all’augmento del convenuto né può tampoco l’appaltatore diminuire al contrario la quantità e qualità del lavoro. Se dunque la detta strada pagandosi a misura richiederebbe maggior costo ciò sarà vantaggio della comunità di aver convenuto per un intiero prezzo sicuramente minore». Un’altra obiezione degli anonimi oppositori riguardava il fatto che «rimanendo su le cime de Monti [la strada] sarà ventosa carica di neve e di gelo nell’invernata di maniera che non riuscirà punto praticabile». Ma «pure a dire il vero – proseguiva il perito – non ho veduto quelle altezze di Monti ma solo colline che avendo larga base ajutate anche dall’arte non avrà la strada quelle salite di monti (…) né (…) quelle cime isolate che siano il bersaglio de venti e delle nevi». Le ragioni addotte dagli «zelanti» erano dunque più frutto della fantasia che dell’intelletto. Essi prospettavano anche il pericolo di dover passare per una strada che sarebbe rimasta priva di un quartiere di soldati, una volta aperta la nuova strada voluta dalla Presidenza. Rispondeva Camporesi che, dove il percorso proposto dai ronciglionesi avrebbe attraversato la foresta, non vi sarebbe stato eccessivo pericolo, poiché gli alberi erano così radi che nel terreno fra essi era possibile praticare la semina119. Il 6 luglio 1782 il Buon Governo dava la sua definitiva approvazione al progetto e la comunità di Ronciglione poteva così affidare i lavori di costruzione a Filippo Prada. Secondo il contratto d’appalto, l’impresario avrebbe dovuto ricevere 20.000 scudi per la nuova strada, e 2.100 per il rifacimento della selciata nella consolare entro la città. Egli avrebbe dovuto fare il possibile per terminare i lavori entro il settembre dell’anno seguente; per contro la comunità prometteva di pagargli 15.500 scudi «nel termine di un an-
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no prossimo avvenire (…) in quelle rate e tempi che alla medesima Communità riuscirà trovare danaro ad interesse». I rimanenti 4500 scudi sarebbero stati versati al Prada «entro lo spazio di anni 9 dopo terminato il lavoro, ed in ogn’anno la rata parte di scudi 500, senza che la detta Communità abbia a pagare frutti». Prada si obbligava, per contro, alla manutenzione della nuova strada per nove anni, cioè fino a tutto il mese di settembre 1792. La vigilanza sui lavori veniva affidata al vicario foraneo don Camillo Mariani e all’«Illustrissimo Signor Angelo Stampa figlio dell’Illustrissimo Signor Filippo»: questi ultimi erano i principali esponenti della società alla quale la Camera apostolica aveva dato in appalto i beni dell’ex Ducato di Castro nel 1767 e nel 1779120. La qualità della struttura materiale da realizzare per il nuovo tronco sarebbe stata migliore rispetto a quella della vecchia consolare, che nei tratti nella valle di Vico e sulla «Montagna» presentava, come abbiamo visto, diversi segmenti di semplice fondo naturale («a terreno»). La nuova opera, invece, avrebbe visto l’impiego della «riempitura» in tutta la sua estensione. Dove il fondo non era buono e stabile, il Prada vi avrebbe fatto «massicciato» spesso 2 palmi (4,4 centimetri) e composto a mano, per poi «imbrecciarlo o sia ingallarlo», in modo che non si formasse fango. Se l’impresario non avesse trovato ghiaia («galla») in sito, avrebbe potuto usare altra «materia soda». Dove, invece, si fosse incontrato un buon fondo, avrebbe potuto mettersi in opera, direttamente sopra il «masso rapilloso», la sola «riempitura» dello stesso materiale «minuto e sodo» per uno spessore di 2 palmi, senza massicciato. La sede stradale avrebbe dovuto contare 24 palmi di larghezza (5,3 metri); ma, comprese le guide di selci, le «rinfiancature nelle sponde in larghezza di palmi 4 con sue forme laterali a scolo e respettive razzette per deviare l’acque», essa avrebbe do-
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Fig. 85. Ruderi lungo il sentiero naturalistico iniziato a quota 620 (vedi la precedente illustrazione). Il sito, in località «Montagna Vecchia», a quota 851, è identificabile con quello della stazione di posta denominata «Osteria della Montagna», sul percorso della consolare per Viterbo precedente al 1782 (Foto C. Iuozzo).
vuto essere larga complessivamente 40 palmi (8,9 metri). Nei tratti di maggior pendenza, quest’ultima sarebbe stata contenuta nella misura di 5 o 6 once per canna (4 – 4,8%), «eccettuato il tratto della strada delle Cerrete», ove si avrebbe avuto una pendenza non maggiore a 7 once per canna (5,6%). Prada avrebbe dovuto inoltre costruire ponti di muro
«in luogo de canali roversi descritti nello scandaglio». Una serie di clausole riguardava i danni eventualmente causati a terzi dai lavori di costruzione, e la disciplina delle maestranze da impiegare. Gli alberi, quando occorreva, dovevano esser recisi, «ma altresì dicioccarsi»: gli operai ne avrebbero fatto uso per il fuoco e per costruire
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le capanne che sarebbero loro servite da ricovero durante la notte. L’impresario, perciò, non doveva essere tenuto a nessun «pagamento per tali alberi121 (…) e tagliando qualunque altro albero fuori di detto tratto di strada che deve costruirsi debba esser tenuto a tutti li danni». Nel caso, invece, «si dovesse tagliare in qualche parte del territorio di Ronciglione, e Viterbo vigne, sterpagli, o altri terreni si conviene che esso impresario debba esser tenuto al pagamento de danni che potessero ricevere i respettivi Possidenti nella sola determinata somma di scudi 150, ed il di più debba andare a carico della detta Communità di Ronciglione». Il forno della città avrebbe fornito il pane necessario al cantiere, mentre l’impresario sarebbe stato «investito di facoltà necessarie e pronte per esser corredato dal braccio del Signor Governatore ed anche di Monsignor Preside di Viterbo (…) per evitare sconcerti» che avrebbero potuto nascere fra le maestranze. Infine, a proprie spese Prada avrebbe dovuto aprire, per circa tre quarti di miglio, una carrareccia «sulle cime verso Cava Spina per il transito de carrimatti che portano il legname a fiume122 nella stagione estiva affinché non danneggino la nuova strada». Nello stesso mese di luglio, la comunità, in difficoltà nella ricerca di denaro per pagare il Prada, lamentando la mancanza di «surrogazioni a Monti»123, otteneva dal Buon Governo di poter «imporre cenzi al fruttato non maggiore di scudi 3,20 per ciascun centinajo ed anno, colla legge di depositare nel Monte della Pietà di Roma il danaro per consegnarlo (…) al lodato Sig. Prada». Risulta che, a distanza di un anno, erano stati contratti prestiti per 11.466 scudi: pertanto la comunità chiedeva al Buon Governo, nel 1783, l’autorizzazione a contrarne ulteriori per 2.033 scudi, nonché per altri 4.000 da «corrispondere a quelli che anno [sic] ricevuto danno per la costruzione della nuova strada», e per ef-
fettuare lavori all’acquedotto di Ronciglione, che erano stati affidati ancora al Prada124. Nel frattempo procedevano anche i lavori per la costruzione della nuova «linea» consolare per Viterbo voluta dal De Pretis. Nel gennaio 1783 lo stesso presidente delle strade si recava in visita al nuovo ponte di Sutri, probabilmente l’opera più imponente (e costosa) che si stava realizzando sul nuovo percorso. Scopo del sopralluogo era anche quello di contare tutti gli uomini che si trovavano al lavoro, agli ordini dell’impresario, Giuseppe Catena, lungo il tracciato nel suo complesso. Assieme a 17 «legni» (barozze), erano computati, in tutto, 606 operai: di essi 224 lavoravano fra Acqua Traversa ed il bosco di Baccano, 32 al «nuovo braccio di Sutri», 220 dopo Vetralla, mentre ben 150 al nuovo ponte sutrino125. Taluni allarmismi creava il rifornimento di pane al cantiere, che, dal novembre 1781, era assicurato dal forno di Ronciglione affittato a Pietro Leali, e che qualcuno vedeva come un pericolo per il normale approvvigionamento della città. Le autorità locali giudicavano infondati questi timori126, ma le cose cambiarono nel dicembre 1782, quando il pane proveniente da Ronciglione era diretto, non solo al cospicuo numero di operai impiegati alla costruzione della nuova «linea» De Pretis (dopo Natale se ne contavano 350 solo nel territorio di Sutri), ma anche a quelli ingaggiati dal Prada. Il confaloniere ed i priori della città rappresentarono che Pietro Leali mandava ogni giorno ai lavoranti del Catena tre o quattro some di pane, con il rischio che ne rimanessero privi i propri concittadini. Su sollecitazione dei rappresentanti di Ronciglione, la Congregazione del Buon Governo era dunque costretta ad intervenire presso la Presidenza delle strade, chiedendo di voler provvedere all’approvvigionamento degli operai del Catena in modo che le misure adottate dalla comunità per facilita-
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re l’affitto del forno, in presenza di scarso raccolto, non finissero per nuocere alla popolazione: infatti, per venire incontro all’appaltatore del forno, il suo obbligo di panificazione era stato limitato a mille rubbia di grano soltanto, «quantità ragguagliata sufficiente allo spaccio e consumo di quella Popolazione»; dunque, considerata l’entità della richiesta da parte degli operai stradali, si temeva che non vi fosse pane a sufficienza per Ronciglione. Nella sua risposta il presidente delle strade riferiva di aver ordinato al Catena di rifornirsi esclusivamente ai forni di Monterosi, Sutri e Vetralla; chiedeva tuttavia al Buon Governo «di fare in modo che restino i detti forni proveduti del pane (…) affinché non venga ritardata la linea [scil. della nuova strada]»127. Le difficoltà incontrate nella realizzazione della nuova consolare per Viterbo non si esaurivano, tuttavia, nel rifornimento alimentare alle maestranze, ma coinvolgevano gravi problemi finanziari e tecnici, legati soprattutto – come sembra di capire – alla costruzione del ponte di Sutri. Tali complicazioni finivano probabilmente per provocare conflitti anche fra le magistrature del governo romano, ai quali s’intrecciavano quelli fra le comunità interessate alle vicende che stiamo descrivendo: questo è almeno quanto sembra emergere dal testo di una supplica rivolta al pontefice da parte delle comunità di Sutri e di Vetralla, risalente con grande probabilità al 1784128. Essa ci mette sotto gli occhi una situazione che diveniva sempre più carica di tensioni polemiche. Secondo gli estensori del documento, era in circolazione a Roma un libello «quanto impertinente, altrettanto insussistente e falso», col quale un certo Antinori si permetteva di parlare «contro il proseguimento della nuova Linea, che da Roma conduce a Viterbo, ordinata da Vostra Beatitudine per iscansare l’aspra salita della Montagna, [e] per sostenere la cattiva strada fatta dai Ronciglionesi». Quest’ultima –
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svolgeva un percorso pianeggiante che non attraversava macchie e «gode di una veduta sempre amena, e deliziosa, è situata in vicinanza dei Paesi, ed in mezzo à Terreni coltivati, e perciò sempre in vista de’ Coltivatori, non ha bisogno di quartieri di soldati, e passa in mezzo alla Città di Sutri, e di Vetralla, ed a riserva di picciole variazioni è in somma la stessa Via Cassia formata dalli antichi Romani; questa sola riflessione, senz’anche l’oculare ispezione delle Linee suddette è sufficiente per decidere quale delle due esser debba la più adattata, e la più migliore».
Fig. 86. Ruderi nel sito della «Osteria della Montagna». Nella foto è ritratto l’esterno dell’edificio di cui alla illustrazione precedente (Foto C. Iuozzo).
argomentavano i rappresentanti di Sutri e Vetralla – era tutta costituita da un percorso di montagna, «nel limite d’una gran Macchia, che in un luogo così deserto non può rendersi il tragitto sicuro, senza fissarvi un quartiere di soldati». Inoltre, nella discesa dalla cima della «Montagna» verso Viterbo, attraversava «un gran Vallone voltato a settentrione, ed in mezzo ad aspre Montagne [di modo] che l’abbondanza delle Nevi, e dei ghiacci la rendono inservibile nell’Inverno, co-
me successe nell’anno scorso, con gravissimo incommodo de’ Passaggieri, che furono forzati a trattenersi per dodici giorni in Ronciglione e se non voltava improvviso scirocco, sarebbe per qualche mese dovuto continuare il loro arresto, giacché con molti centinaja di uomini speditevi da Viterbo, e da Ronciglione non fu potuto aprire il passaggio, come risulta dalle pubbliche Gazzette, e dai documenti, che abbiamo passato nelle mani di Monsignor Presidente».
Al contrario, la nuova «linea» fissata dalla Presidenza della strade
Dunque, «amenità», decoro, sicurezza ed il solito argomento della qualità – la migliore possibile – delle strade costruite dagli antichi: erano tutte «prove» a difesa delle scelte operate dalla Presidenza, la quale, comunque, aveva agito, non per «eccessivo zelo (…) che in buon linguaggio vuol dire scioccamente» nell’attuare le direttive del pontefice, ma solo dopo «le più mature riflessioni», facendo eseguire «scandagli» scrupolosi e mappe, e procedendo a «replicate osservazioni» sulle proposte avanzate dai ronciglionesi e da altri. Esplicita era la polemica nei confronti del Buon Governo che, evidentemente, s’era messo a riveder le bucce alla Presidenza: «e se il Signor Cardinale Prefetto del Buon Governo in vece di fare ripetere inutilmente tutte queste funzioni [scil. i rilievi e le perizie], si fosse degnato d’interpellare il presidente delle strade avrebbe dal medesimo saputo di essersi in questo pubblico affare proceduto con tutte le buone regole, e colle dovute riflessioni». Ma quali erano gli errori contestati alla magistratura stradale romana? L’autore del libello, l’Antinori – il cui scopo era «favorire li Ronciglionesi, e li Signori loro Protettori, che non anno mai desistito dall’impegno di volere quella strada non ostante la disaprovazione di Vostra Beatitudine» – si spacciava per perito giudiziale se non addirittura giudice e osava «calunniare la Presidenza d’essersi omesse tutte le dili-
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Fig. 87. Edificio indicato nell’attuale carta topografica I.G.M. come «Casale della Montagna». Situato sulla consolare per Viterbo, nel tratto funzionante prima del 1782, esso probabilmente ospitava l’osteria appartenente alla famiglia Bussi, come risulta dalla descrizione della strada nel 1758, elaborata nella Fig. 76 (Foto C. Iuozzo).
genze, e precauzioni necessarie, e d’aver perciò defraudate le Providenze Sovrane». Egli, pertanto, aveva tentato di mostrare i presunti inconvenienti della nuova strada con un cumulo di falsità, che gli autori della supplica respingevano: «falsa è l’asprezza della salita di Sutri in paragone di quelle di Civita Castellana, di Otricoli, di Narni, di Monte Fiascone, di Piperno, di Ronciglione, e di tant’altri Paesi, come non sono mai state considerate e tolte negl’altri Dominj. Falsa la demolizione della suddetta Città [Sutri] nella decima parte; falso che il ponte di Sutri minaccia rovina, e che li ripari siano peggiori del male, e l’Architetto deputato per quest’opera non è un impostore, ed intende il Vitruvio assai più dell’Antinori; falso che passato Vetralla vi vogliono due ponti uguali al Sutrino; false le gran valli nelle quali si è piantata la Linea, e siccome questa linea doveva esistere in terra, e non nelli spazi immaginarj, così do-
vevano devastarsi dei terreni. Falso finalmente che il lavoro finora eseguito non sia che la sesta parte, perché la spesa maggiore dell’upertura si è fatta, e quella che rimane a farsi o sarà al più uguale, o minore della già fatta».
L’appoggio del pontefice al progetto della nuova strada fra Sutri e Viterbo consentì, evidentemente, la prosecuzione dei lavori e l’intensificazione degli sforzi finanziari, anche dopo che, intorno al 1785, un’ulteriore difficoltà si aggiunse alle altre. Datate a quell’anno, si rinvengono, fra le carte della Presidenza delle strade, due voluminose perizie, una dell’architetto Ricci, l’altra dell’architetto Coscia, sui lavori compiuti dal Catena per l’apertura della nuova consolare. Esse erano il frutto di controversie sorte fra l’impresario e la magistratura romana a proposito
del prezzo di lavori straordinari129. L’importanza assegnata al progetto può essere colta, del resto, considerando che esso aveva già conosciuto un nuovo sviluppo, collegandosi ad un’altra iniziativa. Nel settembre del 1781, la comunità di Tuscania supplicava il pontefice di poter contribuire – «con un maggiore riparto di tassa unitamente con gli altri luoghi» interessati – alla costruzione di un più rapido raccordo con la nuova «linea» consolare per Viterbo, voluta «per maggior commodo de’ Viandanti e del Commercio per le Terre di Capranica e Vetralla». La comunità si diceva dunque «animata dall’istesso spirito di giovare non solamente al Commercio e Commodo de’ propri Cittadini, ma ancora a quello delle vicine Terre dello Stato di Castro», e perciò proponeva che venisse riaperta «l’antica strada»
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Fig. 88. Dalla «Montagna» in discesa verso Viterbo. Il percorso della consolare, precedente al 1782, s’intuisce seguendo un sentiero che attraversa macchie di castagni e giunge fino alla strada per San Martino, all’altezza del fosso della Porchetta (Foto C. Iuozzo).
da Tuscania a Vetralla, per evitare che gli abitanti dell’ex Ducato di Castro fossero costretti, per recarsi a Roma, a raggiungere prima Viterbo e quindi Vetralla, con «lungo e disastroso giro». Il rescritto, apposto alla supplica in data 19 settembre, rimandava la decisione «sui loco et tempore». In una seguente richiesta la comunità sottolineava con più forza il fine di «accrescere e facilitare il commercio»
che avrebbe avuto la nuova strada, la quale, «facendo capo appunto nella nuova Via Consolare», avrebbe permesso di risparmiare più di 10 miglia nel percorso verso l’Urbe. D’altra parte, «dalla mancanza di questa [strada] si ripete nella maggior parte la caggione della decadenza della medesima Città [scil. Tuscania], e dell’infrequenza e scarzezza della popolazione, rimanendo privi di un mez-
zo così vantaggioso di potersi più industriare e smaltire quei generi che può abbondantemente produrre il territorio». Tuttavia, solo con rescritto del 22 marzo 1783 – apposto ad un’ennesima supplica di Tuscania che individuava non solo gli abitanti dello «Stato di Castro Superiore», ma anche quelli delle «Maremme Fiorentine», come beneficiari dell’auspicata realizzazione stradale – il pontefice decideva di accogliere le richieste ed affidava al De Pretis il compito di portare a compimento l’opera, dopo aver ripartito le contribuzioni necessarie «juxta stjlum Tribunalis Viarum». In questo caso, tuttavia, le facoltà del presidente apparivano chiaramente condizionate dal chirografo del 30 marzo 1783, col quale Pio VI, pur concedendo al De Pretis il potere di tassare, non solo Tuscania, ma anche gli altri centri dello «stato di Valentano», imponeva tuttavia alla Presidenza l’obbligo di affidare i lavori agli impresari Carlo Ludovisi e Rocco Trocchi, «senz’osservare le solite formalità»130. Nel gennaio 1795 i lavori per il «braccio consolare che da Toscanella [Tuscania] conduce a Vetralla» sembravano finalmente conclusi: il nuovo presidente delle strade, Francesco Mantica ordinava l’ultima tassa a completa copertura della spesa, che ammontava complessivamente a 39.118, 72 scudi131. Fu tuttavia la nuova strada aperta dai ronciglionesi a prevalere sulla «linea» De Pretis: fu la prima, infatti, ad essere attrezzata per farvi funzionare il servizio di posta. Le carte della Presidenza attestano pagamenti a Filippo Prada «per li lavori fatti fare per espresso commando della Santità di Nostro Signore Papa Pio VI felicemente regnante per la costruzione di una Chiesa e fontanile fatto sotto la Montagna di Viterbo, e per render commoda e servibile ad uso di Posta la fabrica già edificata dal sig. Pietro Moneti situata nella nuova Strada aperta per la Montagna di Viterbo»132. La nuova opera si av-
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Fig. 89. La consolare per Viterbo, nel tratto in funzione prima del 1782: ponte sul fosso Roncone in prossimità della cartiera, nel sobborgo meridionale della città (Foto C. Iuozzo).
viava così ad acquistare pienamente dignità di percorso consolare. Ma intanto, già dalla fine degli anni ‘80, l’amministrazione pontificia andava sperimentando rilevanti novità nel «sistema» della manutenzione delle grandi vie di comunicazione. Per quanto riguarda la nostra strada, il ruolo della Congregazione del Buon Governo veniva ad assumere un’importanza sempre più rilevante, anticipando quanto sareb-
be stato disposto da Pio VII nella costituzione Post diuturnas del 30 ottobre 1800, dopo il breve periodo repubblicano133. Un ricco carteggio, datato fra il 1789 ed il 1795, e conservato nell’archivio della Congregazione testimonia i mutamenti avvenuti e permette di esprimere alcune considerazioni. Il nuovo tratto di strada fra Ronciglione e Viterbo era divenuto ormai parte integrante della «Via
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Cassia [sic! ], o sia Strada Corriera di Toscana», come recita il titolo di una «Descrizione» che considera il tracciato dal fiume Elvella, confine con il Granducato di Toscana, a Ronciglione134. Il percorso è raffigurato in una carta allegata, nella quale i numeri progressivi rimandano ad un elenco dei proprietari adiacenti contenuto nella «Descrizione»: ciascuno di essi doveva partecipare alla manutenzione dei fossi laterali in proporzione alla lunghezza del tracciato viario confinante con i rispettivi fondi. Da altri documenti si apprende che allo stesso architetto Prada il Buon Governo aveva affidato, fino al 1791, la manutenzione della strada dal territorio di Ronciglione (ossia dalle «Colonnette di Nepi») fino al confine della Toscana granducale, eccettuato però il tronco passante per il territorio di Montefiascone135. Il tratto precedente, da Roma alle «Colonnette», risulterebbe, invece, affidato alla cura della Presidenza delle strade, che provvedeva a stipulare i relativi contratti di appalto per i «lavori nuovi» e per la conseguente manutenzione136. Si profilava in tal modo la divisione dei compiti che Pio VII avrebbe introdotto con la citata costituzione dell’ottobre 1800, affidando alle comunità, sotto la guida del Buon Governo, i tratti delle consolari nei rispettivi territori, mentre alla Presidenza soltanto la competenza sulle strade al di fuori dei territori comunitativi137. Dal 1801, infatti, alla manutenzione della «strada Cassia di Toscana» ebbe a provvedere la Presidenza delle strade, ma solo limitatamente al tratto da Roma al ponte dell’Edera (ossia Baccanaccio, dopo il miglio 18°); mentre, per la parte restante, fino al confine toscano, il Buon Governo stipulò contratti d’appalto distinti, relativi a ciascun territorio comunale interessato dal tracciato viario, nominando, inoltre, i deputati delle comunità, incaricati di sovrintendere ed informare la Congregazione sulla materia138. Il problema fondamentale da risolvere, nel campo della gestione del-
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vuto bandire, per proprio conto, le gare d’appalto delle opere, il costo delle quali sarebbe stato a carico di ciascuna di esse. Delle cinque comunità, chiamate a dar conto di quanto eseguito, Proceno e Acquapendente avevano cercato di ottenere dal Buon Governo un ridimensionamento dei lavori e quindi una minor spesa da affrontare, mentre Viterbo, Bolsena e Ronciglione non avevano risposto affatto. Scriveva dunque il Bracci: «In tale stato di cose si scorge che per sistemare una tal strada di Toscana poco si approfitta col sistema intrapreso di deferire al sentimento delle comunità limitrofe, le quali non avendo in vista che il loro minor dispendio, stimolate, non fanno al più che salvare l’apparenza con superficiali lavori, li quali non conservano la sostanza della strada, dal che poi in breve tempo nasce la necessità di prender dei provvedimenti ad esse gravosi. Il mio sentimento sarebbe di formare sulla detta opera una sola Commissione indipendente dalle comunità adiacenti, in sussidio delle quali o potrebbe chiamarsi tutta la Provincia del Patrimonio; overo si potrebbero ripartire li pagamenti delle respettive quote in più anni, creando su di esso riparto un debito (…). Fissato tutto ciò si potrà con profitto e speditezza convenire con un impresario abile il perfetto ristabilimento di tal linea, e l’esatto mantenimento e riduzione de’ fossi per lo scolo delle acque»139.
Fig. 90. La consolare per Viterbo, nel percorso utilizzato prima del 1782. Poco lontano dalla cartiera, procedendo in direzione di Viterbo, s’incontra un cippo miliario con l’inscrizione: «1740/XXXX[VI]» (Foto C. Iuozzo).
la grande viabilità dello Stato (ma, ovviamente, non solo in esso), era quello del rapporto fra governo pontificio e comunità locali, e, conseguentemente, anche quello dei criteri sui quali basare la ripartizione degli oneri per la costruzione e la ripartizione delle più importanti arterie stradali. Vale la pena riportare alcune interessanti riflessioni dell’architetto Virginio Bracci, tecnico del Buon
Governo, sul problema della manutenzione della nostra consolare, nel periodo immediatamente precedente alle innovazioni amministrative ottocentesche. Alla scadenza del contratto con il Prada nel 1791, l’architetto aveva provveduto a redigere un preventivo dei lavori da eseguire per una generale riparazione della strada. Le comunità, i cui territori erano attraversate dal tracciato, avrebbero do-
La soluzione dei problemi connessi alla gestione della viabilità stava, dunque, per Bracci, nel porre la relativa tassazione su basi nuove140, e nello stesso tempo esercitare un più stretto controllo del governo centrale sulla conduzione delle opere stradali. A riprova di quanto gravoso fosse avvertito il sistema descritto e criticato dall’architetto, è utile qui richiamare una supplica rivolta dalla comunità di Ronciglione al pontefice, nel luglio del 1793. La città ricordava che era «riuscita di somma commodità» la nuova strada per Viterbo, e perciò vi era stata fissata la stazione postale ed il quartiere dei soldati còrsi. Essa dunque rappresentava non solo un «commodo di essa Città, ma publico», e pertanto la comunità supplicava di volerla sol-
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Fig. 91. La strada del fosso Roncone rappresenta un tratto della consolare per Viterbo prima del 1782, nelle immediate vicinanze della città. Recinzioni in tufo delle «ville» e delle «vigne».
Fig. 92. La strada del fosso Roncone. Antiche tombe nella «tagliata».
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Fig. 93. Osteria «della Fontanella». Posta al termine della strada del Roncone, alla confluenza nella strada proveniente da S. Martino al Cimino, l’osteria si trovava sul percorso della consolare per Viterbo, nel tratto utilizzato prima del 1782. Subito dopo, in direzione della città, s’incontrava il ponte «detto di Roma» o «romano».
levare dal peso del debito contratto per finanziare la costruzione «con ripartirne la spesa alle Communità adiacenti che ne godono il beneficio, o all’istesso Tribunale delle Strade, a cui spettava la strada vecchia della Montagna, e ne aveva il peso della manutenzione, ed ordinare che detta Presidenza ne riceva la consegna, e ne assuma il peso della manuten-
zione nella maniera istessa, che l’aveva di prima, sul riflesso ancora che detta Communità, è sottoposta alla tassa fissa delle Strade nella somma aumentata di scudi sessantadue e bajocchi settanta annui»141. Il rescritto, datato 13 luglio 1793, prometteva che l’istanza sarebbe stata considerata dopo aver «spedito» la tassa finale che gravava sulle comu-
nità del Patrimonio (ad eccezione di Ronciglione) per finanziare la nuova «linea» consolare per Viterbo. Solo in quel momento si sarebbe proceduto al sopralluogo della nuova strada della «Montagna», al fine di rilevarne gli eventuali difetti: la correzione di questi ultimi sarebbe stata addebitata alla comunità, prima dell’eventuale consegna dell’opera alla Presidenza delle strade142. Per concludere, vorremmo qui soffermarci brevemente su alcuni documenti riguardanti un progetto concepito dalla Congregazione del Buon Governo agli inizi dell’800, per dare impulso alla comunicazione diretta fra Adriatico e Tirreno, mediante il restauro della strada Civitavecchia – Tarquinia – Monte Romano – Vetralla – Viterbo, «cosa da tanti anni considerata non solo a comodo delle Provincie ma altresì de passageri e carri a cui resta aperta la comunicazione del porto predetto con il rimanente dello Stato Romano e Pontificio». A distanza di circa 25 anni dall’inizio dei primi interventi ordinati dal De Pretis, l’esigenza di raccordare trasversalmente le principali direttrici nord-sud e di permettere in tal modo un collegamento più agevole fra Civitavecchia ed Ancona, i due maggiori porti del dominio pontificio, sembrava non aver trovato ancora adeguata risposta. Scriveva, infatti, nell’ottobre 1804, Filippo Carabelli di Ronciglione, capo mastro muratore dell’Ospedale di S. Spirito che «sino a questo momento anno auta la necessità i carri d’Ancona dar la volta a Roma per li Monteroni143 costeggiando la marina e condursi a Civita Vecchia», utilizzando, cioè, il percorso dell’odierna statale Aurelia. Secondo quanto scrive il capo mastro, i piani del Buon Governo prevedevano il collegamento tra Civitavecchia e la Flaminia attraverso il tratto della «strada di Toscana» fra Viterbo e Monterosi. A Viterbo, infatti, giungeva la strada da risistemare, proveniente da Civitavecchia; mentre all’altezza di Monterosi sboc-
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Fig. 94. Piccolo fontanile in prossimità dell’osteria «della Fontanella», ritratta nell’illustrazione precedente.
cava nella consolare la strada fatta costruire dalla Presidenza e diretta a Nepi e Civitacastellana, e quindi alla Flaminia. Tuttavia – asseriva il Carabelli – anche nel caso si fosse attuato questo progetto, il percorso sarebbe riuscito scomodo, non solo ai viandanti e ai vetturali, ma soprattutto ai «carri per trasporti necessarj alle diverse mercanzie maritime». Essi, infatti, nel provenire dall’Adriatico, «averebbero la necessità lasciando a Nepi la strada consolare della Marca tornare a Ronciglione e passare la Montagna e da Viterbo incanalarsi nelle nuove linee che ora si travaglia per condursi a Civita Vecchia». Anche per Carabelli, l’ostacolo da aggirare era ancora la «disastrosa strada della Montagna di Viterbo fino a Ronciglione, lunga circa sedici miglia, la quale per la lavorazione come pel continuo mantenimento si rende più dispendiosa». Il suo percorso «in mezzo di una campagna senza abita-
zione e circondata da selve», la rendeva esposta agli attacchi dei banditi. Per evitare la «dolorosa montagna», il capo mastro proponeva di aprire una strada «dall’Osteria detta le Capannacce [Vico Matrino], per la lunghezza di miglia cinque, e terminare alla piazza grande di Ronciglione». Essa avrebbe poi raggiunto Viterbo, raccordandosi alla linea «formata circa 20 anni fà dal (…) de Pretis, che tentò formare e costruire la nuova strada corriera detta di Sutri»144. Di quest’ultimo percorso, dunque, si sarebbe utilizzato – secondo il progetto del Carabelli – soltanto il segmento dalle «Capannacce» a Vetralla, evitando, invece, il tratto fra Sutri e le «Capannacce», dove erano sorti i gravi problemi tecnici che avevano molto probabilmente provocato il fallimento della nuova «linea» consolare progettata dalla Presidenza delle strade quasi un quarto di secolo prima145. Tuttavia, i tentativi di riesumare,
in tutto o in parte, il vecchio progetto del De Pretis sembravano destinati al fallimento. Ancora per lungo tempo il percorso della strada postale – poi «nazionale», secondo la distinzione introdotta dal motu proprio emanato da Pio VII il 23 ottobre 1817 – rimase fissato lungo il tracciato costruito dalla comunità di Ronciglione alla fine del Settecento, oggi denominato via Cimina. Fu solo nel 1930 che la direttrice principale da Roma per la Toscana fu spostata dal percorso della «Montagna» a quello dell’attuale statale n. 2 Cassia146. NOTE 1 All’interno della Camera apostolica, era questa la magistratura che in età moderna si occupava, fra l’altro, sia della viabilità di Roma che di quella extraurbana. Di essa facevano parte, oltre ad un chierico di Camera – il presidente – anche i maestri delle strade, ufficiali di antica origine comunale. Per le funzioni e l’archivio della Presidenza delle strade, si veda
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il contributo di D. SINISI, La Presidenza delle Strade, in M.G. PASTURA RUGGIERO, La Reverenda Camera apostolica e i suoi Archivi (secoli XV-XVIII), Roma, 1987, pp. 100-118. Per i maestri delle strade, oltre a E. RE, Maestri di strada, in «Archivio della R. Società Romana di Storia Patria», vol. XLIII, 1920, pp. 5-102, si veda, più recentemente, O. VERDI, Da ufficiali capitolini a commissari apostolici: i maestri delle strade e degli edifici di Roma tra XIII e XVI secolo, in Il Campidoglio e Sisto V, a cura di L. SPEZZAFERRO-M.E. TITTONI, Roma, Carte Segrete, 1991, pp. 54-62. 2 Per alcune considerazioni sul significato dell’aggettivo «consolare», si veda, in questo stesso volume, l’altro contributo di chi scrive. 3 Sulle denominazioni della strada, anche nella cartografia, si veda in questo stesso volume A. RUGGERI, La via Cassia agli inizi dell’800: presenze, sopravvivenze e permanenze, pp. 243-251. 4 Per queste vicende si veda quanto sinteticamente ricordato da chi scrive, nell’altro contributo a questo volume, p. 64 5 ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Notai di Acque e Strade, vol. 126, cc. 727r e seg.. 6 E. LODOLINI, L’Archivio della S. Congregazione del Buon Governo (1592-1847). Inventario, Roma, Ministero dell’Interno, pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1956, p. CXI. 7 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti delle vie extraurbane, b. 248, fasc. 1: «Ristretto» delle visite del 1705. 8 Per il problema dei lavori «nuovi», che cioè eccedono la manutenzione, si veda più oltre. 9 ASR, Pres. delle strade, atti sciolti, b. 248, fasc. 1, «Visita delle Strade Consolari fatta dall’Illustrissimo Signor Marchese Gio. Filippo Angeli Mastro delle Strade l’Anno 1705», nella quale, alle cc. 46 e sgg.: «Visita della strada Consolare che da Porta del Popolo, o Flaminia, cominciando da Ponte Molle, per Sutri, termina al Ponte detto di Roma vicino a Viterbo (…) con l’assistenza del Sig. Francesco Ferrari Architetto, intimato giudicialmente Giacinto Ferelli Appaltatore Generale». 10 Grazie alla relazione di una «visita» effettuata nel 1758 (della quale parleremo più avanti) sappiamo che la strada, misurata da porta del Popolo all’inizio del «ponte Romano di Viterbo», contava 47 miglia (cfr. le Figg. 66, 69, 71, 76). Il percorso misurato in quella occasione collegava direttamente Monterosi a Ronciglione. La misurazione sulla carta topografica ci permette di affermare con molta approssimazione che il tracciato considerato nella «visita» del 1705 arrivasse, invece, a 48 miglia, poiché esso raggiungeva Ronciglione, non direttamente da Monterosi, ma passando prima per Sutri. 11 Di essi, solo 500 metri sono esplicitamente indicati come buoni o passabili. 12 ASR, Pres. delle strade, atti sciolti, b. 248, fasc. 1, «Visita della strada Consolare che da Porta del Popolo», nn. 20, 84, 38. 13 La lunghezza del tracciato diretto fra
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Monterosi e Ronciglione era di 9 miglia e 300 canne circa (Km. 13,800), stando alla citata relazione della «visita» nel 1758. 14 ASR, Pres. delle strade, atti sciolti, b. 248, fasc. 1, «Visita della strada Consolare che da Porta nel Popolo», lett. E. 15 ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Arm. XXVIIII, vol.91, f.159, citato da F. M. D’ORAZI, La via Francigena nell’area viterbese e cimina, in «Informazioni. Periodico del Centro di Catalogazione dei Beni Culturali della Provincia di Viterbo», nuova serie, VI, n.13, gennaio-giugno 1997, p. 55. 16 ASR, Buon Governo, serie II, b. 4032, 7 aprile 1781, supplica della comunità di Ronciglione, allegato «A»: copia del capitolo del chirografo del 29 luglio 1705 diretto a mons. presidente delle strade, «sopra la permuta della strada che da Monte Rosi va a dirittura a Ronciglione». 17 Bullarum Privilegiorum ac Diplomatum Romanorum Pontificum amplissima collectio t. VI, pars secunda…, Romae MDCCLX, Typis, et sumptibus Hieronymi Mainardi, pp. 266-268. Le prime attestazioni sicure di un percorso che non ricalcava più la Cassia romana, ma passava ad oriente del lago di Vico (per l’omonimo borgo e la «montagna di Viterbo») risalgono alla metà del secolo XIV. Agli inizi di quello successivo, l’itinerario, secondo le «commissioni» del mercante fiorentino Rinaldo degli Albizzi, era ormai stabilmente fissato nelle tappe seguenti: Viterbo, Vico del Prefetto, Ronciglione, Sutri, Monterosi, Torre a Baccano, Borghetto, Roma: cfr. D. STERPOS, Comunicazioni stradali attraverso i tempi, Firenze- Roma, Roma, Società Autostrade, 1964, pp. 77 (e nota 9, p. 298), 92, 166 (sul fallimento del tentativo di Urbano VIII di ristabilire il percorso per Capannacce e Vetralla). Per una rapida sintesi delle vicende riguardanti il tracciato fra Medioevo ed Età Moderna, si veda, in questo stesso volume, A. RUGGERI, La via Cassia agli inizi dell’800, pp. 243-247. 18 Cfr. ASR, Pres. delle strade, taxae viarum, vol. 448, c. 792rv, in cui si rinviene una ripartizione di oneri datata 28 luglio 1653. Le comunità dell’ex ducato di Castro che vi figurano sono: Montalto, Canino, Tessennano, Arlena, Cellere, Pianiano, Ischia, Valentano, Piansano, Marta, Capodimonte, Bisenza, Gradoli, Grotte, Castiglione della Teverina, Borghetto, Fabrica, Corchiano, Castel S. Elia, Vico e Casamala. Esse avrebbero dovuto partecipare ad una contribuzione già stabilita il 1° marzo 1649 e ripartita tra le comunità «le quali devono e sogliono contribuire a pagare le spese che si fanno per l’accommodamento delle strade fuora di Porta del Popolo andando verso Viterbo sino alli confini di Fiorenza». Tra esse figurano, già a quella data, anche Ronciglione e Caprarola, centri di rilievo dell’ex dominio farnesiano (cfr. ivi, cc. 475rv-476r). La ripartizione del 1653 venne ripetuta il 10 marzo 1654 «conforme all’entrate che possiedono» le comunità, e non più «al repartimento che vi haveva fatto il Serenissimo Duca di Parma», effettuato, cioè, «per li Monti farnesi» (cfr. ivi, cc. 853rv).
19 ASR, Presidenza delle strade, iura diversa, reg. 32, cc. 153v-154r. 20 ASR, Notai di acque e strade, vol. 126, c. 726v. Il corsivo nel testo citato è nostro. 21 Ivi, c. 764r. 22 ASR, Buon Governo, serie II, b. 4032, 7 aprile 1781, supplica della comunità di Ronciglione, allegato «A»: copia autentica della lettera di Niccolò Giudice, presidente delle strade, al giudice di Ronciglione (20 novembre 1706). 23 ASR, Pres. delle strade, chirografi, r. 28, f. 238: chirografo di Clemente XI al presidente delle strade Fabrizio Agostini (30 marzo 1707). 24 cfr. ASR, Notai di acque e strade, vol. 150, cc. 236 e sgg.: congregazione delle strade del 15 giugno 1746 e contratto d’appalto del 2 agosto seguente; ivi, vol. 157, cc. 601 e sgg.: contratto d’appalto del 7 maggio 1758. Gli altri «bracci» della consolare sono: 1) da porta Angelica per Monte Mario fino all’osteria della Giustiniana; 2) dalla fine dello stradone alberato (l’Olmata) fuori porta Angelica sino a ponte Molle procedendo lungo il Tevere. 25 Cfr. i chirografi del 16 dicembre 1730 e del 14 marzo 1733, in P. A. VECCHI (DE VECCHIS), Appendice al Secondo Volume dell’Opera De Bono Regimine in Roma MDCCXLIII, nella Stamperia di Girolamo Mainardi, pp. 167-174. 26 ASR, Pres. delle strade, atti sciolti, b. 252, fasc. 1. Alla relazione per il «braccio» sutrino è apposto il testo del decreto della Congregazione delle strade del 18 agosto 1733: per non eccedere la spesa preventivata al fine di «proseguire il risarcimento delle strade consolari secondo il denaro che si ritraerrà dalli due mila luoghi de monti a tenore dell’altro Chirografo di Nostro Signore, si è risoluto che in quanto al risarcimento di quelle strade per dove passa la posta, si debba ordinare il risarcimento posta per posta, et in quanto all’altre strade si debba ordinare quattro o cinque miglia per volta». 27 Ivi, «Descrizione dei lavori necessari per il riattamento della strada consolare fuori di Porta Flaminia, che incomincia dal ponte d’Acquatraversa, e termina al Ponte Romano vicino alla Città di Viterbo formata nella visita fattane per ordine dell’E.mo e R.mo Sig. Cardinal Corsini da Nicola Salvj nel presente anno 1734» 28 Ivi, b. 253, fasc. 1: «Visita fatta di nuovo nella strada consolare di Viterbo per riconoscere li lavori necessari per compimento della medesima» (29 novembre 1735). 29 VECCHI (DE VECCHIS), Appendice al Secondo Volume…, pp. 175 – 178. 30 ASR, Pres. delle strade, atti sciolti, b. 253, fasc. 1 (18 novembre 1736). 31 Ivi, b. 254, fasc. 1: «Descritione dello stato in cui si è riconosciuto la strada consolare fuori di Porta del Popolo, che tende à Viterbo nella visita fatta da Monsignor Illustrissimo e Reverendissimo Presidente delle Strade, in compagnia dell’Illustrissimo Signor Conte Petroni Maestro delle Strade (…) ad effetto di riconoscere lo stato di detta strada, con
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aver anche destinato alcuni lavori di nuovo ne precisi siti della medesima, ne quali si è riconosciuto il bisogno per il totale riattamento in forma stabile di essa strada, la quale con i lavori già fattivi secondo le Ordinationi del Perito Revisore non si è trovata bastantemente accomodata(…)» (10 giugno 1740); descrizione della «visita del Braccio di Strada Consolare che da Monte Rosi passando per Sutri tende a Ronciglione», effettuata dal Presidente delle Strade Casoni e dagli Architetti Francesco Ferruzzi, e Tommaso de Marchis (6 giugno 1741). 32 Allo scopo di estinguere il debito dei 3.000 luoghi di monte, fu dunque la Presidenza a procedere ad un nuovo riparto aumentato della tassa fissa, per una cifra complessiva di 19.894,63 scudi annui, di cui 9.336,04 (poi ridotti a 8.833,42) a carico delle comunità. Questo nuovo cespite, previsto per il trentennio 1734-1763, fu invece prorogato fino al 1786 (cfr. LODOLINI, L’Archivio della S. Congregazione del Buon Governo, pp. CXI-CXII). Con tale entrata si continuava anche a finanziare la manutenzione delle consolari, affidata a diversi appaltatori, con contratti di durata novennale. 33 ASR, Notai di acque e strade, vol. 150 cc. 236 e sgg.: congregazione delle strade del 15 giugno 1746. 34 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 255, fasc. 2: descrizione della visita alla strada fuori porta del Popolo per Viterbo, compiuta dal Maestro delle Strade Alessandro Petroni Buongiovanni (maggio 1749). 35 ASR, Notai di acque e strade, vol. 157 cc. 601 sgg.: contratto d’appalto del 7 maggio 1758. Ivi, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 260, fasc. 1: «Descrizione delle mancanze ritrovate nella Strada Consolare di Viterbo che incomincia da Ponte Molle e termina al Ponte romano al Miglio 47, con li suoi Bracci (…) nella visita fatta con l’intervento di Giacomo Morichelli (…) valutate dette mancanze alli prezzi soliti convenuti ne i capitoli, con avere anche annotate le partite ritrovate di maggior altezza di quello furono consegnate, sino dal anno 1749 al detto Morichelli, valutate anche queste alli prezzi sudetti». 36 ASR, Notai di acque e strade, vol. 180 cc. 381 e sgg.: contratto d’appalto dell’8 maggio 1780. 37 Documenti di questo tipo, ossia le relazioni di «consegna» delle strade, possono reperirsi, oltre che nella serie «atti sciolti» della Presidenza delle strade, anche nei protocolli dei Notai di acque e strade, i quali rogavano esclusivamente per la magistratura edilizia. 38 SINISI, La Presidenza delle Strade, pp. 104-105 e 116. A proposito delle «visite», si può aggiungere quanto scriveva N. M. NICOLAI, Sulla Presidenza delle Strade ed Acque e sua giurisdizione economica, I, Roma, nella Stamperia della Rev. Camera apostolica, 1829, p. 16: «[Benedetto XIV] ordinò (…), che negli accessi per visitare le strade consolari, si pagassero i viatici, i quali secondo la costituzione innocenziana [del 1692] erano compresi nell’onorario stesso de’ maestri delle strade
(chirografo diretto al Presidente delle strade dei 4 marzo 1741) ». 39 Come ad esempio, quando, misurato lo spessore delle «coperture» del piano stradale, tale spessore veniva trovato accresciuto rispetto al momento della «consegna» della strada, e ciò era valutato a favore dell’appaltatore (v. nota 35). 40 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 257, fasc. 39: relazione della «visita» del maestro, Gio. Battista Cicogni nel maggio del 1754; ivi, fasc. 42: relazione della «visita» del medesimo nell’agosto del 1754. 41 Ivi, b. 259, fasc. 1: preventivi vari in data: 22 gennaio, e 5 dicembre 1763, 15 luglio 1765. 42 Ivi, b. 259, fasc. 2: misura e stima dei lavori eseguiti «di muro, passonate, cavi di terra ed altro [sulla consolare di Viterbo] d’ordine dell’Illustrissima Congregazione delle strade: il tutto fatto a spese e fatture di Giacomo Morichelli» appaltatore della strada. La stima è dell’architetto deputato per le porte del Popolo ed Angelica, Gio. Francesco Fiori. Il valore dei lavori ammontava a scudi 413, 87. 43 Cfr. sopra, nota 25. 44 Cfr. ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 255, fasc. 4: scrittura posteriore al 1748, con attestato dell’architetto Fiori del 4 dicembre 1747. La cifra di 542 scudi risulta dalla visita del Fiori alla scadenza dell’appalto Pavoni, nel giugno 1746 (cfr. ivi, Notai di acque e strade, vol. 150, c. 238 sgg.) La relazione della «visita», eseguita dal maestro Alessandro Petroni, per la consegna della strada al Morichelli nel maggio 1749, è conservata in Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 255, fasc. 2. 45 Ivi, fasc. 1: «Descrizione delli lavori… in occasione della visita fatta dall’Ill.mo Sig.r Conte Petronj il di 9 Maggio 1749 alla strada consolare di Viterbo, e suoi bracci di Sutri, Monte Mario per la Giustiniana, e stradone di Porta Angelica a Ponte Molle». 46 Ivi, b. 256, fasc. 2: descrizione della visita del maestro delle strade Mignanelli (30 maggio 1751). 47 Ivi, descrizione della visita del maestro delle strade Mignanelli (27 maggio 1752). Per il preventivo, cfr. ivi, fasc. 1: relazione dei lavori da farsi in alcuni tratti della «strada consolare di Viterbo», stilata dall’architetto Fiori in occasione della visita del maestro delle strade Girolamo Mignanelli (29 agosto 1752). 48 Ivi, b. 257, fasc. 39: relazione della visita compiuta dal maestro delle strade Gio. Battista Cicogni (31 maggio 1754). 49 Per la descrizione topografica di questo tratto, si veda più avanti. Per i dettagli di tipo tecnico e le unità di misura antiche, si rinvia all’appendice. 50 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 257, fasc. 42: «Descrizione delle partite di strade a terreno, et altri siti nella strada consolare da Ponte Molle à Viterbo, nelle quali vi è presentemente precisa necessità di lavoro, riconosciuto anche con la visita fatta dall’Ill.mo Sig. Gio. Batta Cicogni Maestro delle Strade» (8 agosto 1754). 51 Ivi, b. 258, fasc. 1: relazione della vi-
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sita del maestro Petroni (4 maggio 1755). 52 Ivi, relazione della visita del maestro Petroni, con l’intervento dell’appaltatore Morichelli (9 giugno 1756). 53 ASR, Notai di acque e strade, vol. 157, cc. 601 sgg. 54 Ivi, vol. 150, cc. 236 sgg. 55 Una parte del compenso destinato all’appaltatore era trattenuta dalla Presidenza a garanzia della manutenzione, per 8 anni, dei nuovi lavori compiuti. La somma veniva divisa in otto parti («ottavi»), ciascuna delle quali era versata all’impresario per ogni anno di manutenzione effettuata. 56 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 259, fasc. 2: misura e stima dei lavori eseguiti: «il tutto fatto a spese e fatture di Giacomo Morichelli» . 57 Ivi, fasc. 1: preventivo del 1763 per i lavori da eseguire sulla consolare di Viterbo. 58 Ivi, b. 259, fasc. 1: preventivi del 22 gennaio e 5 dicembre 1763; descrizione dei lavori da eseguirsi nei pressi di Ronciglione(…), del 15 luglio 1765. 59 ASR, Notai di acque e strade, vol. 157, c. 609r. 60 Cfr. O. PALAZZI, Ronciglione dal XV al XIX secolo, Ronciglione, Spada, 1977, pp. 91-92, 126-127 e 188-193. Per volontà di Pio VI, alla fine degli anni ‘80 del Settecento, si passò dal sistema dell’appalto a quello dell’enfiteusi, che avrebbe dovuto favorire le iniziative di sviluppo dei concessionari, pur mantenendo la proprietà dei beni alla Camera apostolica. L’appalto fu smembrato secondo le circoscrizioni delle sei castellanìe di Castro: quella di Ronciglione, il cui utile per l’amministrazione pontificia ammontava a circa 11.000 scudi, fu divisa, a sua volta, in dodici enfiteusi perpetue. 61 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 258, fasc. 4: «Descrizione, misura e respettiva consegna della strada consolare che presentemente passato Ponte Molle fuori di Porta del Popolo segue per la Storta, Posta di Baccano, Monterosi, eccetto il tratto del territorio che spetta all’Abbadia di Monterosi sudetto, proseguisce per Ronciglione, eccettuato il Borgo del Incasato, e ripiglia dopo Ronciglione passando la Montagna sino al Ponte romano dopo la fontanella nell’ultima scesa di detta Montagna(...)». Per l’elaborazione dei dati quantitativi contenuti nella descrizione, si veda il par. 4 dell’appendice. Non è stato possibile reperire la descrizione del «braccio» Monterosi-Sutri-Ronciglione, che pure era compreso nell’appalto del 1758 (cfr. ASR, Notai di acque e strade, vol. 157, cc. 601 e sgg.). 62 Agli inizi del secolo XIX, il Catasto Gregoriano denominava il ponte come «ponte del Fosso»: cfr., in questo stesso volume, RUGGERI, La via Cassia agli inizi dell’800, p. 261. 63 La bonifica fu completata solo negli anni ‘20 del Novecento. 64 Sorta tra il VII e l’VIII secolo su un mausoleo romano della metà del IV, la chiesa costituì un’attrattiva per i pellegrini in viaggio verso Roma almeno fino al XV secolo.
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65 In un memoriale del 1775 i priori di Ronciglione affermavano che «oltre la memoria degl’uomini questo Popolo ha goduto pacificamente il pascolo in tutti li terreni aperti fuori del ristretto delle Vignie di questo territorio». Nel settembre 1761 la comunità ricevette dalla Camera apostolica, in affitto perpetuo, dietro pagamento di 100 scudi annui, i pascoli della tenuta del Barco con annessi 64 rubbi di terreno «parte macchioso e parte camporile» posti in contrada Casamala di Sotto. Tali terreni furono allora uniti al pubblico pascolo: per questo beneficio la comunità riscuoteva annualmente 450 scudi da suddividere sul numero dei capi di bestiame ammessi al pascolo. (cfr. ASR, Buon Governo, serie II, b. 4030). 66 PALAZZI, Ronciglione, pp. 12 e 156. 67 Istituita con la Legge Regionale n. 47 del 1982, ed ampliata con la n. 81 del 1985, la Riserva è gestita dal Comune di Caprarola. Essa comprende quasi tutta la caldera vulcanica con i suoi 3.300 ettari. 68 Come abbiamo visto sopra, questa strada veniva citata dal maestro delle strade Gio. Battista Cicogni nella visita compiuta durante il maggio del 1754 (cfr. ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 257, fasc. 39). Nella documentazione consultata abbiamo rilevato la menzione di altre due strade per Caprarola attraverso il territorio di Ronciglione. La prima passava per le contrade di Casamala e Vasiano e per la «Vigna Grande», appartenuta in precedenza ai Farnese, e che nel 1699 troviamo concessa dalla Camera apostolica in enfiteusi a terza generazione al conte Organi. In quell’anno il conte chiedeva di venir rimborsato delle spese affrontate per la riparazione di un ponte sulla strada anzidetta, indispensabile al passaggio dei vignaioli e garzoni che lavoravano nella sua tenuta. La comunità di Ronciglione, tuttavia, si rifiutava d’intervenire «col motivo di non haver mai contribuito cos’alcuna per il passato, poiché, conforme dicono i più vecchi, la riattazione del predetto ponte si faceva dalli Sig.ri Farnesi e poi si è fatta dalla Camera su la considerazione ch’il principal utile risulti alla vigna grande della medesima Camera, che da alcuni anni in qua possiede a terza generatione il conte Organi. Adduce anco detta Communità di Ronciglione, per sua difesa, che l’accennata strada non sia la consolare per andare a Caprarola, servendosi di quella di Vico, ch’è la principale» (ASR, Buon Governo, serie II, b. 4017, 29.11.1699). La seconda strada si staccava dalla consolare all’altezza del 30° miglio, presso la colonnetta del confine fra il territorio di Nepi e quello di Ronciglione. L’importanza di questa strada, non a caso definita «romana», è documentata dalle richieste della comunità di Ronciglione di essere autorizzata dal Buon Governo ad erogare danaro per la riparazione dei ponti di Jacomuzzo e di Vespena presenti sul tracciato, atteso anche l’ordine della Presidenza delle strade di Roma e la considerazione che «non nasca altresì qualche disordine nel passaggio frequente (…) anche di persone di distinzione, che si portano in Caprarola par-
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ticolarmente in tempo di notte» (ivi, b. 4030, 2.8.1775) 69 L’emissario del lago di Vico, già esistente nell’antichità, fu ampliato dagli abitanti di Caprarola ai quali i Farnese concessero perciò parte dei territori emersi nella valle grazie a quest’opera. La regolazione dell’emissario – per mezzo di «incastri» e di una «caditoia» – fu un altro motivo della contesa fra Ronciglione e Caprarola, soprattutto nei periodi di piena, quando i padroni dei terreni che rischiavano di finire sott’acqua cercavano di ottenere il massimo deflusso, mentre invece i proprietari degli opifici di Ronciglione tentavano di limitarlo, poiché l’eccessiva pressione del Rio Vicano, nel quale si scaricava l’emissario, danneggiava le macchine idrauliche: cfr. O. PALAZZI, Ronciglione, pp. 156-7. 70 Ivi, pp. 226-228. 71 Nella mappa del Catasto Gregoriano, questo tratto è indicato come «strada che mette al Procojo»: cfr., in questo stesso volume, A. RUGGERI, La via Cassia agli inizi dell’800, Fig. 118 72 Il Procoio era stato impiantato dai Farnese che vi avevano impiegato una colonia di contadini settentrionali; nel 1649 era passato alla Camera apostolica: cfr. PALAZZI, Ronciglione, p. 156. 73 C. PINZI, Gli Ospizi medioevali e l’Ospedal -Grande di Viterbo, Viterbo, Monarchi, 1893, pp. 141-142. 74 Si tratta forse del «pozzo da neve diroccato», di cui parla il Pinzi a p. 142. Nelle vicinanze sono identificabili «due grandi strutture ipogeiche, forse edifici tombali, riutilizzati come stalle o magazzini», secondo S. FRANCOCCI-D. ROSE, Note sulla via Ciminia, in «Informazioni. Periodico del Centro di Catalogazione dei Beni Culturali della Provincia di Viterbo», nuova serie, VI, n.13, gennaio-giugno 1997, p. 61. 75 PINZI, Gli Ospizi, p. 147. 76 Ivi, p. 142. L’autore afferma di aver rinvenuto in situ «un capitello di peperino, con rozze foglie d’acanto dalle cime arrovesciate. La sua pretta fattura del secolo XIV lo fa sospettare appartenuto alla Chiesa». 77 La notizia è riportata da PALAZZI, Ronciglione, pp. 227-8. 78 Cfr., in questo stesso volume, A. RUGGERI, La via Cassia agli inizi dell’800, p. 269. 79 Ivi, p. 269. La consolare è designata come «Antica strada corriera». 80 A questo proposito, si veda il contributo di SANSA, Le strade che portano a Roma: il governo della viabilità nello stato pontificio durante gli anni santi (sec. XVI – XVIII), pubblicato nel presente volume. 81 In virtù del chirografo di Clemente XIII del 5 settembre 1767, il Monte di Pietà elargì al Tribunale delle strade un prestito di 16.000 scudi da impiegare nei lavori di sistemazione della direttrice che da Viterbo, attraversando Roma, giungeva fino a Sezze (in pratica, la consolare per Viterbo e quella per Napoli), in occasione del passaggio di Maria Carolina d’Austria, che nel 1768 si recava a Napoli per unirsi in matrimonio a Ferdinando IV.
Un altro grande intervento fu promosso da Pio VI, il quale, con chirografo del 28 marzo 1778, autorizzò la concessione di un prestito del Monte di Pietà al Tribunale delle strade di 26.000 scudi, per «far risarcire tutte le strade Consolari dell’Agro Romano e Distretto di Roma danneggiate dalle Acque impetuose cadute nelli mesi di Autunno e d’Inverno». La restituzione dei due prestiti si ripartì complessivamente fra le comunità delle province di Marittima, Campagna, Patrimonio, Lazio, Sabina, e fra i proprietari delle tenute «per la consolare di Civita Vecchia» (cfr. ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 260, fasc. 7: libello manoscritto intitolato «Rimborzo dovuto all’Ill.mo Tribunale delle Strade dalle Comunità delle Provincie finintime, e da alcune Tenute per causa delle Prestanze avute dal Sag. Monte della Pietà negli Anni 1767, e 1778 in tutto di Scudi 42 mila»). Per il restauro della Firenze-Roma, in occasione del passaggio di Maria Carolina, cfr. D. STERPOS, Comunicazioni stradali, pp. 168-170. 82 A. CARACCIOLO, Da Sisto V a Pio IX, in M. CARAVALE, A. CARACCIOLO, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino, Utet, 1978, p. 470. Negli anni ‘30 del Settecento, il problema delle vie di comunicazione si collegava alle «aspettative di valorizzazione di piazze come Ancona e Ferrara e di porti come Civitavecchia e Goro», nel quadro di un risveglio di tipo mercantilistico, che, nel 1732, portò alla concessione della franchigia ad Ancona. Scrive Caracciolo, a proposito del pontificato di Clemente XII: «Le opere portuali, i ponti, le strade, che in questo periodo, a dispetto dei passaggi di truppe, vengono intraprese o curate mediante restauri, sono assai più numerose e caratterizzano questo pontificato maggiormente dei precedenti». Per i restauri delle consolari promossi dal pontefice mediante il prestito di 3000 luoghi di monte, si veda quanto si è detto sopra, nel primo paragrafo. 83 Sulla«intensificazione delle vie di comunicazione» durante il pontificato di Pio VI si soffermava molto brevemente e sulla scorta del solo von Pastor, ormai ben oltre quarant’anni fa, E. PISCITELLI, La riforma di Pio VI e gli scrittori economici romani, Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 120-121. L’autore richiamava la circostanza che il miglioramento delle strade «al fine di renderle atte al trasporto de’ generi» era raccomandato da un saggio anonimo uscito a Livorno nel 1776, un anno dopo l’ascesa di Pio VI. L’anonimo era in realtà Ange Goudar, scrittore francese pre-fisiocratico ed avventuriero, identificato come l’autore del Saggio sopra i mezzi di ristabilire lo stato temporale della chiesa in cui l’autore dà un piano di agricoltura, di commercio, d’industria e di finanze, da F. VENTURI, Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, in «Rivista storica italiana», LXXV, 1963, pp. 795-6. 84 Cfr. C. MOZZARELLI, Strade e riforme nella Lombardia del Settecento, in «Quaderni Storici», nuova serie, 61, 1986, p. 118. A proposito della Lombardia austriaca, l’autore sottolinea che l’attuazione del Piano stradale del
LA STRADA CONSOLARE DA ROMA A VITERBO NEL SETTECENTO ATTRAVERSO LE CARTE DELLA PRESIDENZA DELLE STRADE
1777 – il quale, peraltro, introduceva importanti novità riguardo l’amministrazione delle strade ed il criterio di finanziamento della loro manutenzione – non fu d’impulso ad una nuova «progettualità» sul piano dell’organizzazione della rete stradale. Se aumentò l’attenzione per le strade urbane, nel quadro della volontà d’accrescere il decoro cittadino da parte del regio governo, nell’orizzonte di quest’ultimo si nota «l’assenza già prima della guerra contro i francesi di una volontà e di una consapevolezza programmatica in materia di strade [extraurbane]».Tuttavia, pur mancando una nuova dimensione progettuale e «l’esistenza di un disegno ‘modernizzante’, d’una ipotesi d’uso delle strade diversa da quella fino ad allora accettata», il mutamento della struttura amministrativa e del «rapporto fra autorità regia e ceti di governo locali rinnovati essi stessi nella composizione e nella legittimazione, e resi coerenti ad un assetto tendenzialmente statale», avrebbero prodotto il miglioramento delle condizioni della viabilità lombarda nell’ultimo quarto del Settecento. Quel miglioramento fu in sostanza da ascrivere all’«esatta individuazione delle procedure tecniche, dell’iter amministrativo e finanziario, delle competenze e delle responsabilità in funzione del controllo e della moderazione delle spese» (ivi, pp. 131-134). 85 Per queste vicende e per un giudizio complessivo sulla stagione delle riforme sotto Pio VI, cfr. CARACCIOLO, Da Sisto V, pp. 498516. Nel commentare gli esiti del tentativo di stabilire una barriera doganale unica per tutto lo stato, l’autore sostiene che essi confermano «come anche nello scorcio del secolo prevalessero in sostanza, malgrado la consapevolezza di un pugno di riformatori e di prelati aperti a una diversa concezione dell’amministrazione pubblica, le tradizionali pretese particolaristiche» (p. 504). 86 La ripartizione fra le comunità era stabilita dal Tribunale delle strade, secondo un’inveterata prassi, sulla base cioè del sussidio triennale, oppure del numero delle «anime», per quelle comunità che non erano tributarie del sussidio. 87 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 3: primo e secondo rendimento di conti dell’esattore Gioacchino Galluzzi, deputato dal Tribunale delle strade in ottobre 1783. Il primo rendimento fa il punto della situazione al 28 giugno 1785, il secondo al 22 dicembre 1788. Il Galluzzi era stato nominato esattore delle «Tasse di via Salaria, Appia, Viterbo, Braccio di Montopoli, Sterro di Civita Castellana, e Strada che da Porta Salara tende a Fonte di Papa». 88 Si noti che l’introito annuale della «tassa fissa» proveniente dalle comunità, secondo un nuovo riparto operato dal Buon Governo nel 1787, ammontava a poco più di 13.000 scudi. La tabella Conto delle nuove «linee» consolari (1780 – 1795), posta in appendice (par. 5), vuole offrire dati riassuntivi sull’entità delle tasse riscosse e dei pagamenti effettuati agli impresari e agli esattori. Essa è stata elaborata sulla base di due «ristretti» generali di cassa:
«Ristretto generale di cassa dell’Ill.mo Tribunale delle Strade per conto delle Tasse imposte (…) per conto dei riattamenti, costruzioni, aperizioni e continuazioni delle Consolari esistenti nelle Provincie di Marittima e Campagna, Patrimonio, Lazio, Umbria, e Sabina, ed incassate dall’anno 1780 a tutto li 31 Luglio 1793» (ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 269, fasc. 5); «Ristretto generale di cassa (…) per conto delle Tasse imposte (…) ed incassate dal primo Agosto 1793 a tutto li 31 Luglio 1795» (Ivi, b. 268, fasc. 4). 89 Cfr. ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 3: «Primo rendimento de conti di Gioacchino Galluzzi», che contiene la menzione di una «Terza tassa di via Salaria», per finanziare i lavori ordinati da Pio VI con rescritto dell’11 luglio 1782, per l’«Aperizione e costruzione dell’antica via Salaria». La somma di scudi 25.910 veniva assegnata a Domenico Guidi e Compagni «Fabricatori eletti» dal Tribunale delle strade, a conto dei lavori fatti per la detta «aperizione e costruzione». 90 Cfr., in appendice, par. 5, la tabella Conto delle nuove «linee» consolari (1780-1795). 91 La consolare che conduceva a Rieti seguiva un percorso fissato attraverso le seguenti tappe: Porta Pia o «Veminale», Mentana («Lamentana»), Nerola, Montelibretti, Poggio San Lorenzo, ed infine S. Giovanni in Valle Reatina, limite fin dove arrivava la competenza dell’appaltatore per la manutenzione. 92 Per un’esauriente descrizione della complessa operazione promossa da Pio VI, intesa al radicale rinnovamento del collegamento stradale fra Roma e Terracina, cfr. D. STERPOS, Comunicazioni stradali attraverso i tempi. Roma-Capua, Novara, Tip. Istituto Geografico De Agostini, 1966, pp. 198-248. Per quanto riguarda i lavori al tratto fra Roma ed il rettifilo pontino, l’autore così sintetizza: «costruzione essenzialmente nuova da Albano a ponte S. Gennaro; restauro della strada esistente (in parte sul tracciato dell’Appia) da Roma ad Albano; restauro della postale da Velletri a Cisterna; riapertura dell’Appia da Cisterna a Tor Tre Ponti». 93 ASR, Notai di acque e strade, vol. 182, cc. 541r e sgg.: «Istromento di concessione della costruzione della nuova strada Consolare per Albano, Genzano, Velletri e Via Appia, come anche dell’altra Consolare di Viterbo e braccio di Nepi col mantenimento per un novennio e col rilascio dell’ottava parte a favore delle Communità, con il signor Giuseppe Catena» (12 agosto 1782). 94 Per le vicende medievali del tracciato da Roma a Terracina, si veda J. COSTE, La via Appia nel Medio Evo e l’incastellamento, in Scritti di topografia medievale. Problemi di metodo e ricerche sul Lazio, a c. di C. CARBONETTI, S. CAROCCI, S. PASSIGLI, M. VENDITTELLI, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1996, pp. 489-501 (originariamente in La via Appia. Decimo incontro di studio del Comitato per l’archeologia laziale, C.N.R., 1990 – Quaderni del Centro di studio per l’archeologia Etrusco-Italica, 18). Dello stesso autore cfr. anche Strade da Roma per
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Sermoneta, in Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra medioevo ed età moderna. Atti del convegno della Fondazione Camillo Caetani Roma-Sermoneta, 16-19 giugno 1993, a cura di L. FIORANI, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 1999, pp. 95-105. 95 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti…, b. 263, fasc. 1: «Misura e stima delli lavori occorsi per costruire una porzione della nuova Strada Consolare tendente verso le Paludi, ed in progresso verso Napoli, e segnatamente quella, che doppo la Città d’Albano seguitando il circondario di Valle Ariccia passa per l’abitato di Genzano, e di poi continua sino al Ponte detto di S. Gennaro, dove si unisce con la porzione fatta fare dalla sola Communità di Velletri (…) eseguiti da Giuseppe Catena (…) Appaltatore della precedente porzione di strada da Roma sino a detta Città di Albano (…)». Il costo totale delle opere sembra ammontare a oltre 116.000 scudi. 96 Ivi, fasc. 3: «Primo rendimento di conti…», che fa menzione di una «Quarta tassa della Strada di Viterbo» D. STERPOS, Comunicazioni stradali attraverso i tempi, Firenze – Roma…, p. 305, n. 37, cita le seguenti tappe di questo itinerario: Sutri, Le Capannacce, Vetralla, Caldo, Confine, Ciavalletta, Petrignano, Risciere, chiesa delle Farine e di S. Pietro. La strada si congiungeva poi, nei pressi di Viterbo, a quella proveniente da Ronciglione. 97 ASR, Notai di acque e strade, vol. 180, cc. 381 e sgg. 98 ASR, Presidenza delle strade, taxae viarum, vol. 466, c. 934rv. La somma di scudi 6.019 e baiocchi 86 sarebbe stata versata nelle mani del Sig. Giovanni Retroù, esattore deputato da Giuseppe Catena «fabricatore di detta strada», e sarebbe stata ripartita in ragione di baiocchi 25 per ogni scudo di sussidio, oppure, di baiocchi 5 per ciascuna «anima»: cfr. ivi, chirografi, r. 38, f. 86v e sg.. 99 Vedi nota 93. 100 Ivi, f. 128v e sg.. 101 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 3: «Secondo rendimento di conti…Tasse dello sterro fatto dentro la Città di Civita Castellana spedite dal Tribunale delle Strade li 5 aprile e 17 luglio 1786, in somma di scudi 4.500». 102 Ivi, b. 265, fasc. 2: «Terzo rendimento di conti (…) Rifacimento di Via Flaminia». 103 Ivi, b. 263, fasc. 5: supplica della comunità di Ronciglione al pontefice, con rescritto del presidente delle strade, De Pretis, in data 16 febbraio 1782. Una volta dirottato il traffico sulla nuova «linea» consolare per Vetralla – affermava la comunità – «quando anche [essa] si sottoponesse alla spesa di rendere pratticabile la pessima strada traversa che conduce in Sutri, sempre è vero che per andare in Viterbo dovrebbe prolungare almeno 13 miglia». 104 ASR, Buon Governo, serie II, b. 4032: supplica dei rappresentanti di Ronciglione al Buon Governo (13 gennaio 1781). 105 Ivi, supplica della comunità di Ronciglione al pontefice (7 aprile 1781). Seguono va-
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ri allegati. L’allegato «A» consiste in una lettera del presidente delle strade al giudice di Ronciglione, in data 20 novembre 1706, e nella copia del chirografo del 29 luglio 1705. Negli allegati «B»-«E» si articola la perizia del pubblico agrimensore Alessandro Mariti. 106 «E’ fatto incontrastabile che in grazia delle meglior qualità sin da primi anni del corrente secolo, fu restaurata questa strada che da Monte Rosi conduce direttamente a Ronciglione, abbandonando [sic] quella che da detto Monte Rosi passava per Sutri e poi veniva qui, come risulta da una lettera di Mons.r Nicolò Giudice presidente delle strade in data li 20 novembre 1706 (…). E Clemente XII in occasione che fece restaurare tutte le strade Consolari, mai pensò di restituire nelle già descritte parti la Strada Romana donde era stata levata, ma bensì fece riattare questa di Ronciglione perché la riconobbe più breve, più vantagiosa e più commoda di qualunque altra. Comprova finalmente con incontrastabile evidenza che la brevità nelle strade è troppo pregevole, la recente restaurazione che si vocifera dell’antica Via Salaria, la quale sebbene sia di sua natura molto disastrosa perché distesa tralle continovate basse e Monti Sabini, ed intersecata da spessi torrenti, che in tempo di piogia non sono in conto alcuno senza ponte guadabili, pure perché si decanta più breve della Flaminia per andare da Roma a Terni se ne è intrapreso il ristauro a fronte di qualunque rispettabile spesa». 107 Si tratta del sito dell’antica statio di Vicus Matrini che compare nella Tabula Peutingeriana: cfr. A. ESCH, La via Cassia. Sopravvivenza di un’antica strada con note per un’escursione tra Sutri e Bolsena, Roma, Roma nel Rinascimento, 1996, p. 17. 108 Il Mariti bocciava senza appello la «linea» De Pretis in tutto il suo percorso. Scriveva, infatti, nella sua perizia: «avendo osservata la detta strada da Monte Rosi a Viterbo, ho ritrovato che quella per se esistensa [sic] nella Valle di Sutri, incominciando dal fontanile determinato di S. Martino sino alla salita dirimpetto al contra fosso detto della ferriera vecchia sia necessario di rialzarla tutta di molto per liberarla dalle innondazioni, perché in tempo delle pioggie le acque la ricoprono e la rendono impraticabile. Di più ho riconosciuto che la medesima dalle Capannaccie sino passato tutto il territorio di Vetralla verso Campo Giordano è di terreno fangoso, e nell’estensione di essa in quella parte si contano nove ponti ed altre tante salite e discese delle quali alcune sono di somma considerazione e non dissimile da certi passi della Montagna di Viterbo, ed a riserva del detto Fontanile di S. Martino ed il fosso di Sutri e Capranica per il rimanente è priva di acqua sorgente, e nell’ingresso di detta Capranica ha una salita molto dificoltosa, di maniera che non è praticabile colla muta delle carrozze e con stento con i calessi, di modo che stimo la detta strada per i motivi addotti sia troppo incomoda e pregiudiziale a passagieri stante l’aria insalubre delle Capannaccie sudette e di tutto il restante della medema».
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Per la «Croce di Vico» vedi p. 198. ASR, Notai di acque e strade, vol. 182, cc. 12 sgg.: «Descrizione della nuova linea proposta dalli Sig.i Priori della Città di Ronciglione (…) per la via di S. Rocco e della Paranzana (…)», riscontrata sul posto da mons. De Pretis, presidente delle strade, Eustachio Mazzoni, architetto del tribunale, alla presenza di Camillo Mariani e Cristoforo Moretti, in rappresentanza della comunità di Ronciglione. 111 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 5: perizia sul posto dell’architetto Camporesi, per ordine del Buon Governo, posteriore al 9 maggio 1782. 112 Nella citata supplica della comunità di Ronciglione, nell’aprile 1781, si diceva che la nuova strada, scesa dalla «Montagna», avrebbe proseguito «per la pianura di alcuni campi [andando] a troncare la strada di Bagnaia per giungere al Fontanile de Penniccioni dentro la Tenuta della Paranzana presso di cui potrebbesi situare la Posta nova, che sarebbe proveduta di aria salubre e di acqua sorgente, commodo che manca in quella della sudetta Montagna, la quale [posta] non sarebbe lontana da (…) Ronciglione più di migli 7 e catene 45, e da Viterbo migli 4 e catene 106». 113 Lo «scopeto» è un terreno incolto ricoperto da piante selvatiche con prevalenza di erica, chiamata anche «scopiglio» (erica scoparia). 114 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 5: copia semplice del contratto fra Ronciglione e Filippo Prada, cui è allegata copia della supplica con rescritto del 16 febbraio 1782. 115 Ivi, copia del verbale del Consiglio della comunità del 10 marzo 1782. 116 Ivi, perizia, datata 9 aprile 1782 dell’architetto Camporesi sulle selciate della consolare nel tratto cittadino entro Ronciglione; «scandaglio della spesa occorrente per aprire la nuova linea di strada di comunicazione fra le Città di Ronciglione e Viterbo per il piano denominato di S. Rocco e tunuta [sic] della tenuta della Palanzana». 117 Ivi: «Capitoli, patti e convenzioni per la nuova strada» con l’appaltatore Prada. Da essi risulta l’introduzione della variante accennata, contenuta anche nello «scandaglio» del Camporesi, di cui alla nota precedente. 118 Ivi, perizia richiesta dal Buon Governo all’architetto Camporesi sui «disegni, scandaglio e capitoli (…) per la costruzione della nuova strada» (16 aprile 1782). Non è stato possibile reperire i disegni cui fa menzione la perizia. 119 Ivi, le vicende che formarono il laborioso antefatto precedente alla stipula del contratto con il Prada sono ripercorse nella premessa dell’atto notarile. Tra le carte ad esso allegate, vi è copia del verbale del Consiglio di Ronciglione del 9 maggio 1782, nel quale si parla dei ricorsi presentati a nome del «Popolo» e degli «Zelanti», nonché la perizia del Camporesi con le risposte di quest’ultimo al memoriale degli «Zelanti». 120 Cfr. O. PALAZZI, Ronciglione, p. 87. Filippo Stampa era, inoltre, enfiteuta delle fer110
riere camerali dal 1778 fino al 1791 (ivi, p. 229). Solo con l’approvazione dei «deputati eletti» dalla comunità e del Buon Governo, il Prada avrebbe potuto operare quelle deviazioni dalla «linea proposta a tenore della Pianta e livello esistenti in posizione della Segreteria». Una volta terminata l’opera, essa sarebbe stata ispezionata dai due deputati e dall’architetto Camporesi, per darne notizia alla Congregazione del Buon Governo, e così iniziare il pagamento rateale. Ogni anno successivo la strada sarebbe stata visitata dai deputati, che avrebbero dato il nulla osta per il pagamento di ciascuna rata. Infine, alla fine dei nove anni, essi avrebbero effettuato l’ultima visita, prima di prendere in consegna l’opera. 121 E’ da credere dunque che la comunità si assumesse tutti gli oneri al riguardo. 122 Si allude probabilmente ai tronchi tagliati nelle foreste che rivestivano la conca vulcanica. 123 I prestiti pubblici (Monti) furono impiegati anche per sovvenire alle necessità finanziarie delle comunità. Con l’operazione di «surrogazione», il denaro versato in Depositeria generale, per estinguere le sottoscrizioni («luoghi» da 100 scudi l’uno) del Monte Nuovo delle comunità, non veniva restituito ai montisti, ma prestato ad altre comunità che così venivano ammesse al Monte (cfr. E. LODOLINI, L’Archivio della S. Congregazione del Buon Governo, p. LXXXVI). 124 ASR, Buon Governo, serie II, b. 4032: supplica dei pubblici rappresentanti di Ronciglione al Buon Governo, con rescritto in data 13 luglio 1782; supplica dei medesimi, con rescritto in data 16 agosto 1783. 125 ASR, Notai di acque e strade, vol. 183, c. 1: visita del presidente delle strade, De Pretis, accompagnato dal notaio Gioacchino Orsini e dall’architetto Angelo Cappellini, ai lavori della Consolare Sutri-Vetralla-Viterbo (3, 4 e 5 gennaio 1783). 126 Il ricorso avanzato al Buon Governo dal canonico Alberto Bartolocci, a nome del clero secolare di Ronciglione fu giudicato assolutamente ingiustificato da Flavio Meschini, «giudice» della città: cfr. ASR, Buon Governo, serie II, b. 4032, memoriale dell’affittuario del forno di Ronciglione, Pietro Leali, con rescritto in data 15 dicembre 1781. 127 Ivi, supplica del confaloniere e dei priori di Ronciglione e conseguente lettera del Buon Governo alla Presidenza delle strade, in data 24 dicembre 1782, con relativa risposta. 128 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 5: copia semplice del contratto fra la comunità di Ronciglione e Filippo Prada, cui è allegata, fra l’altro, una copia della supplica al pontefice delle comunità di Sutri e di Vetralla, senza data, ma con la notazione «Strade consolari 1784 Viterbo». Tale datazione sembra essere confortata da una lettera posta poco dopo la supplica e firmata da D. Francesco Pacquier de’ Minimi, indirizzata da Roma, Trinità de’ Monti il 19 giugno 1784. Il testo fa chiaramente riferimento a «controversie con troppo vivacità agitata» riguardo alla «nuova direzione della strada di Vi-
LA STRADA CONSOLARE DA ROMA A VITERBO NEL SETTECENTO ATTRAVERSO LE CARTE DELLA PRESIDENZA DELLE STRADE
terbo». Il personaggio sembra essere stato sollecitato dal presidente delle strade ad esprimere un parere sulla questione. Tuttavia, durante la sua visita «ne’ luoghi, che sono con tanta esagerazione, e anche con acrimonia contrastati», e dopo il suo ritorno a Roma, egli aveva avvertito «varie contraddizioni» che ignorava prima della sua partenza e che lo avevano indotto a tenersi lontano da una disputa poco conveniente alla sua età avanzata e al decoro del suo stato. 129 Ivi, b. 264, fasc. 4a e 4b: perizia dell’architetto Coscia (1785) e dell’architetto Ricci. 130 ASR, Notai di acque e strade, vol. 183, cc. 142 sgg.: concessione a Rocco Trocchi e Carlo Ludovisi dell’appalto dei lavori per l’apertura della nuova via da Vetralla a Tuscania «onde si unisca alla Nuova Consolare che da Sutri, passando per Vetralla tende a Viterbo» (5 aprile 1783). Sono allegati e: tre suppliche della comunità di Tuscania al pontefice, due delle quali con rescritto in data 19 settembre 1781 e 22 marzo 1783; copia del chirografo di Pio VI datato 30 marzo 1783. 131 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 4: «Ristretto della misura de’ lavori fatti da Rocco Trocchi e Carlo Ludovisi fabbricatori e spese occorse per la nuova costruzione del Braccio consolare, che da Toscanella, conduce a Vetralla, e tasse imposte dall’Ill.mo Tribunale delle Strade alla Communità di Toscanella ed altre Communità della Provincia del Patrimonio, utenti del medesimo». Il ristretto è approvato dal presidente Mantica il 30 gennaio 1795. 132 Ivi, b. 267, fasc. 2b: «Tasse imposte sopra le Comunità della Provincia del Patrimonio a tutto li 25 Gennaro 1793 tanto per la Consolare di Viterbo, quanto per il braccio di Toscanella, ed erogazione delle somme esatte dalle medesime à tutto li 31 Luglio 1793». I pagamenti a Filippo Prada erano stati effettuati dal giugno 1788 al luglio 1792, per 1.188,35 scudi complessivi. 133 E’ opportuno qui ricordare che, fin dal 1770, mentre la Presidenza delle strade continuava ad assegnare gli appalti per la manutenzione e costruzione, alla Congregazione del Buon Governo era affidata l’esazione della tassa fissa (cfr. LODOLINI, L’Archivio della S. Congregazione del Buon Governo, p. CXII). 134 ASR, Buon Governo, serie II, b. 5526: «Descrizione, e misura della via Cassia, o sia Strada Corriera di Toscana, che passa per Ronciglione, Viterbo, Monte Fiascone, Bolseno
ed Acquapendente, e giunge al Confine dello Stato Pontificio con quello della Toscana, la qual Misura incomincia dalla metà del Fiume Elvella, e distinguendo territorio per territorio giunge fino a tutto quello di Ronciglione». 135 Ivi: lettera della comunità di Acquapendente della primavera del 1792; «Riflessioni sulla strada di Toscana» dell’architetto Bracci; altra scrittura in data 5 marzo 1791. 136 Si veda, per esempio, il contratto stipulato nel marzo 1787 dalla Presidenza con Andrea Imbardella, il quale avrebbe dovuto effettuare «lavori nuovi» ed il loro «mantenimento» per nove anni, sul tratto da Monterosi (23° miglio) alle «colonnette» di Nepi (30° miglio): cfr. ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 265, fasc. 7. 137 Per questa nuova fase della gestione delle strade nello stato pontificio, si veda LODOLINI, L’Archivio della S. Congregazione del Buon Governo, pp. CXIII-CXVIII. 138 Per una puntuale descrizione della manutenzione e dei lavori effettuati sulla Roma – Firenze dagli anni dell’Impero napoleonico alla Restaurazione, si veda STERPOS, Comunicazioni stradali attraverso i tempi, Firenze- Roma, pp. 223-252. 139 ASR, Buon Governo, serie II, b. 5526: «Strada di Toscana nel Patrimonio. Parere sugli atti fatti per sistemarne il restauro stabile e generale» (5 maggio 1792). 140 Non è possibile in questa sede approfondire il discorso sui mutamenti introdotti, agli inizi del XIX secolo, nel sistema della tassazione per il finanziamento dei lavori stradali. Basti qui dire che già nel 1801, con un editto, il cardinal Ignazio Brusca, prefetto del Buon Governo, sulla scorta della citata costituzione Post diuturnas, imputava la tassa fissa delle strade (in totale scudi 99.814) a tutte le comunità dello Stato, e non solo a quelle i cui territori erano interessati dal passaggio delle consolati (cfr. LODOLINI, L’Archivio, pp. CXIV-CXV). Un passo ancora più importante fu fatto dalle norme contenute nel ricordato motu proprio del 23 ottobre 1817, emanato da Pio VII. Commentandone l’art. 96, il Nicolai ricordava che «per i lavori delle strade nazionali, si stabilì, che dovesse esiggersi una tassa addizionale sulla diretta o prediale per tutto lo Stato», abrogando tutte le «antiche tasse di qualunque sia forma», eccetto quelle che i proprietari frontisti pagavano per lo spurgo dei fossi. Sicché, le strade «nazionali» (già definite «consolari») sarebbero state costruite e
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conservate con i fondi pubblici provenienti da una sopratassa sulle proprietà territoriali di tutto lo Stato; «per la ragione giustissima, che l’oggetto delle medesime riguarda l’interesse generale dello Stato, cioè dell’universalità de’ sudditi» (N. M. NICOLAI, Sulla Presidenza delle Strade ed Acque, I, pp. 29-30, t. II, p. 20). 141 Dal 1787, il Buon Governo aumentò infatti la quota della tassa fissa delle comunità da 8.833, 42 a 13.093, 88 scudi (cfr. LODOLINI, L’Archivio, p. CXII). 142 ASR, Presidenza delle strade, atti sciolti, b. 263, fasc. 5: copia semplice del contratto fra Ronciglione e Filippo Prada, cui è allegata, in ultimo, copia della supplica della comunità al pontefice, con rescritto in data 13 luglio 1793. 143 I tumuli dei «Monteroni», nelle vicinanze della odierna Strada Statale n. 1 Aurelia, presso Palo, sono tombe etrusche del sec. VII – VI a. C. appartenenti alla necropoli di Alsium. 144 ASR, Buon Governo, serie X, b. 105, Ronciglione: «Progetto/Descrizione della Strada dalla Città di Ronciglione sino alla Città di Vetralla» (20 ottobre 1804); pro-memoria del capomastro muratore Filippo Carabelli al Buon Governo. 145 In un sopralluogo del 1808 a Vetralla, al fine di verificare il progetto della strada fra quel centro e Ronciglione, l’architetto Camporesi sembra descrivere come un’opera incompiuta la «linea» De Pretis, della quale, «principiando dopo l’incasato di Vetralla si trova di già indicato l’andamento con tagli, spiani, e proseguendo quasi rettamente ed in piano termina al Casale detto della Capanaccia»: cfr. ASR, Buon Governo, serie X, b. 105, Ronciglione: «Descrizione dell’apertura della nuova strada che dalla città di Vetralla conduce a quella di Ronciglione eseguita per commissione della S. Congregazione del B. Gov. dall’architetto Giuseppe Camporese» (27 ottobre 1808). Nella relazione sulla sua visita a Ronciglione del 1788 per conto del Buon Governo, mons. Castiglioni scrive di quella comunità: «In oggi non si può più temere di perdere il passo dei forestieri, essendosi abbandonata l’opera del Ponte di Sutri, già intrapresa dalla Presidenza [delle Strade]»: cfr. ASR, Buon Governo, serie IV, bb. 696-697, citato in PALAZZI, Ronciglione, p. 151. 146 Per queste vicende vedi D’ORAZI, La via Francigena nell’area viterbese e cimina, p. 56.
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CARMINE IUOZZO
Appendice Le strade consolari nello Stato pontificio del XVIII secolo. Metodi e tecniche di realizzazione
1. Unità di misura1
Miglio romano Catena architettonica Canna architettonica Palmo romano Oncia Canna architettonica quadra Canna architettonica cuba
1 scudo:
Misure antiche 666 2/3 Canne architettoniche 5 Canne architettoniche 10 Palmi romani 12 Once 5 Minuti o 10 Decimi 100 Palmi quadri 1000 Palmi cubi
Metri 1489,478 11,171 2,234 0,223 0,018 4,991 metri quadri 11,152 metri cubi
Monete 10 giuli o paoli:
100 baiocchi
2. Alcune nozioni tratte da un manuale d’ingegneria degli inizi del secolo XIX2 Elementi che si distinguono in una strada «considerata come opera d’arte»: a) Andamento topografico: è «una linea mista tracciata sulla carta topografica del paese la quale determina le proiezioni di tutti i punti della superficie terrestre per cui passa la strada o sia la proiezione della linea stradale sopra un piano orizzontale, o più rigorosamente sopra una superficie sferica concentrica alla terra. Ordinariamente gli estremi di questa linea sono due punti dati nella superficie della terra più o meno distanti fra loro, e separati da pianure e da montagne. I punti intermedi vengono determinati dietro il più circostanziato e maturo studio del paese, in guisa che l’andamento risultante soddisfaccia alle condizioni di solidità, di comodo, e di amenità, e di economia combinate nel modo più soddisfacente». In ordine al comodo, gli elementi da considerare sono: «1°. La brevità. 2°. Il passaggio pel minor numero possibile di luoghi abitati. 3°. Evitare i passi in vicinanza delle macchie, che possono servir da rifugio ai malviventi. 4°. Schivare le balze, e i dirupi, i quali potessero rendere indispensabili salite molto ripide o inutili. 5°. Scegliere le più favorevoli esposizioni segnatamente nei paesi montuosi, procurando che la strada vada a riuscire difesa dai venti settentrionali, e ben dominata dal sole. 6°. Sviluppare le risvolte con curvature dolci, per cui il cambiar direzione non riesca malagevole e pericoloso alle vetture». La bellezza è «riposta nella regolarità delle linee (…), e quindi nella maggior possibile frequenza e continuazione dei rettifili, nel ben inteso sviluppo dei tratti curvilinei, e nella buona forma delle risvolte; ed insieme nella bella esposizione consistente tanto nell’amenità del paese che si attraversa, quanto nel frequente incontro di bei punti di vista, e di luoghi abitati. Per massima la bellezza a questo proposito è un requisito accessorio, a cui non debbono sacrificarsi né la solidità, né il comodo; e per cui sarebbe poco senno d’andar incontro a ragguardevoli aumenti di spesa». L’economia richiede: 1°. In pianura evitare i fondi paludosi o soggetti alle inondazioni: ciò richiederebbe la costruzione di un argine sul quale far passare la strada; i fondi paludosi andrebbero consolidati. 2°. In montagna evitare le falde facili a franare (necessità di muri di sostegno), le «coste di sasso vivo» (necessità di costosissimi tagli), i dirupi (necessità di muri o barricate di riparo per sicurezza dei viaggiatori). 3°. Scegliere la via più breve fra i due punti che si debbono congiungere, purché ciò non comporti costi eccessivi. 4°. «La buona esposizione riguardo all’aspetto del cielo tiene la strada dominata dal sole e dai venti meridionali, che ne facilitano l’asciugamento dopo le piogge, e il disfacimento delle nevi, ed impediscono quel maggior consumo, che succede nel materiale della strada quando conserva per lungo tempo l’umidità». 5°. Per lo stesso motivo occorre evitare scaturigini d’acqua o filtrazioni. 6°. Occorre scegliere luoghi nei quali si trovino vicini i materiali da costruzione. 7°. Evitare il più possibile tagli e movimenti di terra per agevolare salite e discese. 8°. Si devono scegliere i punti di passaggio dei fiumi, in modo che i ponti siano di costo moderato e resistenti.
LA STRADA CONSOLARE DA ROMA A VITERBO NEL SETTECENTO ATTRAVERSO LE CARTE DELLA PRESIDENZA DELLE STRADE
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b) Profilo di livellazione longitudinale: «rappresenta la linea stradale nelle sue diverse giaciture relativamente ad una data retta orizzontale. La giacitura considerata nei singoli tratti può essere orizzontale, o inclinata. I tratti inclinati diconsi in salita se divergono dalla orizzontale secondo la direzione del profilo, che per una semplice convenzione geodetica procede dalla sinistra verso la destra di chi ha sott’occhio il disegno; e diconsi in discesa quando convergono con l’orizzontale. Ciò sussiste per altro nell’ipotesi che l’orizzontale cada sotto al profilo (…). Se due tratti si succedono con inclinazioni opposte diconsi in contropendenza». La pendenza delle salite e delle discese si desume dal rapporto fra la lunghezza del tratto inclinato e la sua altezza, ossia la «distanza verticale fra due linee orizzontali condotte per gli estremi del tratto». «La giacitura orizzontale è senza dubbio la più conforme alla comodità; tuttavia una tenue inclinazione (…) dispone meglio la strada per lo scolo delle acque, e favorisce l’economia in quanto che esenta dal bisogno di cavar fossi laterali molto profondi, o di moltiplicare le chiaviche (…). E d’altra parte convien persuadersi che in un lungo andamento di strada la giudiziosa alterazione dei tratti orizzontali, delle salite, e delle discese di moderata pendenza, (…) tenendo in esercizio ed in riposo alternativo diversi muscoli della macchina animale, rende le bestie adoperate nel tiro delle vetture capaci di resistere ad un più lungo cammino giornaliero». Finché la pendenza3 non supera il 5% e la distanza non è molto estesa, «l’esperienza ha fatto conoscere, che i cavalli delle vetture posson