Storia politica della grande guerra 1915-1918 8804442220, 9788804442226

La Storia politica della Grande Guerra di Piero Melograni é un classico della storiografia sul primo conflitto mondiale,

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Storia politica della grande guerra 1915-1918
 8804442220, 9788804442226

Table of contents :
Storia politica della Grande Guerra
Sommario
Avvertenza
Prefazione
Premessa
Elenco delle abbreviazioni
Storia politica della Grande guerra 1915-1918
I. Dal radioso maggio al funereo autunno
1. Gli interventisti e i neutralisti dopo la decisione dell’intervento
2. L’indifferenza di larga parte dell’opinione pubblica
3. Lo spirito dei combattenti durante le prime giornate
4. I soldati socialisti
5. Le prime delusioni dei militari interventisti
6. Impreparazione dell’esercito alla nuova guerra
7. Il fallimento delle offensive sull’Isonzo
8. La demoralizzazione delle truppe in conseguenza delle operazioni militari
9. Ripercussione della crisi militare sul Paese
10. Le critiche al generale Cadorna
11. La crisi degli interventisti nell’autunno 1915
II. L’adattamento del soldato alla guerra
1. La «spersonalizzazione» del soldato
2. Influenza degli ideali patriottici
3. Condizioni morali degli ufficiali
4. Le prime licenze invernali
5. Gli imboscati
6. Trattamento materiale del soldato
7. La giustizia militare
8. L’istituzione dei cappellani militari
9. Orientamenti del clero di fronte alla guerra
10. Religione e superstizioni
11. La guerra come occasione di apostolato
12. Atteggiamenti patriottici dei cappellani
13. Le «case del soldato» ed altre iniziative dei cappellani
14. Assenteismo del Comando supremo in tema di attività propagandistiche e ricreative
15. Considerazioni di Mussolini sul morale dell’esercito
16. Conclusioni
III. I contrasti tra il governo e lo stato maggiore nel 1916
1. Separazione tra militari e politici nell’anteguerra
2. L’autorità del capo di stato maggiore
3. La crisi tra governo e Comando all’inizio del 1916. Il memoriale Zupelli
4. La campagna di stampa promossa da Cadorna
5. Le dimissioni del ministro Zupelli
6. La crisi durante la strafexpedition
7. La caduta del governo Salandra
8. La costituzione del ministero nazionale: Boselli e Cadorna
9. L’urto tra Cadorna e Bissolati
10. Lo scandalo Douhet e la rappacificazione tra Cadorna e Bissolati
IV. Soldati e ufficiali nella guerra «cronica»
1. Conseguenze della strafexpedition
2. Decimazioni alla brigata Salerno e fra le truppe del Carso
3. Insufficienze dei quadri militari
4. Ufficiali di carriera e ufficiali di complemento
5. La vittoria di Gorizia e le offensive autunnali
6. Gli autolesionisti
7. Le distrazioni dei soldati
8. I sentimenti degli italiani verso gli avversari
9. Le circolari sulla propaganda contraria alla guerra
10. Diverse interpretazioni del «non aderire e non sabotare»
11. Il «pericolo» socialista
V. Il 1917 prima di Caporetto
1. Considerazioni preliminari: la crisi del nemico e quella dell’alleato
2. Stato d’animo dell’esercito dal gennaio al maggio
3. Stato d’animo dell’esercito dal giugno al settembre
4. Indisciplina e ammutinamenti
5. La rivolta della brigata Catanzaro
6. I disertori
7. I renitenti residenti all’estero
8. L’immagine che si aveva all’estero dell’Italia in guerra
9. Trattamento materiale dei combattenti
10. I giornali e la guerra
11. L’odio per gli imboscati
12. La protesta popolare contro la guerra
13. La partecipazione femminile al movimento di protesta
14. I fatti di Torino
15. Interventisti e Comando supremo
16. Le voci di un colpo di stato militare
17. Rapporti tra Cadorna e il governo
18. I socialisti e la protesta popolare
19. I salari degli operai industriali
20. I socialisti e la propaganda fra le truppe
21. I cappellani e l’«inutile strage»
VI. La battaglia di Caporetto: cause e svolgimento
1. Stato d’animo delle truppe e dei comandi italiani alla vigilia della battaglia
2. La sorpresa
3. La nuova tattica
4. I successi dell’«infiltrazione» sui vari fronti
5. Le esperienze di Rommel
6. Lo smarrimento dei comandi: Badoglio e la Commissione di inchiesta
7. Lo sbandamento delle truppe
8. Le interpretazioni «moralistiche» di Caporetto
9. Giustizia sommaria
10. Il generale Graziani e il suo plotone di esecuzione
11. L’impreparazione alla ritirata e i problemi del traffico
12. L’esonero di Cadorna
VII. L’ultimo anno di guerra
1. La crisi dopo Caporetto
2. Trattative per una pace separata
3. Ripercussioni di Caporetto negli ambienti politici
4. Ripercussioni nell’opinione pubblica
5. Stato d’animo delle truppe nel novembre-dicembre 1917
6. La riorganizzazione degli sbandati
7. Voci di pace e di ammutinamenti a Natale
8. La propaganda «disfattista» dopo Caporetto
9. Stato d’animo delle truppe all’inizio del 1918
10. Atteggiamento verso i franco-britannici
11. Stato d’animo delle truppe tra il febbraio e il maggio
12. Migliore trattamento del soldato
13. Prime iniziative propagandistiche nell’esercito
14. I giornali di trincea
15. Lo sviluppo della propaganda e l’istituzione del servizio P.
16. Gli ufficiali P. «commissari politici»?
17. La propaganda sul nemico
18. Crescente prestigio degli Stati Uniti in Italia
19. Limiti all’attività dei cappellani
20. Il Partito socialista tra Lenin e Wilson
21. Il gen. Diaz e il governo
22. Amministrazione della giustizia militare nel 1918
23. La battaglia del Piave
24. La battaglia di Vittorio Veneto
Epilogo
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Il libro

STORIA POLITICA DELLA GR ANDE GUERR A DI Piero Melograni è un classico della storiografia sul primo conflitto mondiale, pubblicato per la prima volta nel 1969 e da allora sempre riproposto volutamente immutato dall’autore per non cambiarne la carica anticonformista: un’opera di rottura rispetto agli studi precedenti, tesi alla retorica e alla mitizzazione di impronta ancora fascista, ma anche più corretta rispetto alla storiografia radicaleggiante degli anni ’70 e ’80. Anticipando tendenze che avrebbero poi preso piede, Melograni utilizza i documenti degli archivi pubblici per studiare gli stati d’animo collettivi; osservando i fatti con occhio laico e privo di pregiudizi ideologici, si concentra sui rapporti tra esercito, politica e società civile, per restituire il vero e terribile volto della Grande Guerra, come fu vissuta dalle masse. Un conflitto totale, di logoramento, grande distruttore di uomini ma anche grande suscitatore di energie, così diverso dal mito glorioso della guerra risorgimentale vissuto dai padri.

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L’autore

Piero Melograni (Roma 1930 - 2012) ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Perugia ed è stato Deputato nella XII legislatura. Autore di studi sulla guerra, il fascismo e i sistemi totalitari, si è interessato anche ai temi della modernità, della scienza politica e della rivoluzione industriale; i suoi lavori sono tradotti in tutto il mondo. Ha contribuito alla stesura di numerosi testi di legge e della Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea. Editorialista per quotidiani e settimanali, ha curato documentari televisivi e radiofonici. Appassionato di musica, ha curato due biografie: Mozart e Toscanini. Per custodire la memoria del suo lavoro, nel 2013 è nato l’Archivio Storico Piero Melograni.

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Piero Melograni

STORIA POLITICA DELLA GRANDE GUERRA 1915-1918

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Sommario

Avvertenza Prefazione Premessa Elenco delle abbreviazioni STORIA POLITICA DELLA GRANDE GUERRA 1915-1918 I. DAL RADIOSO MAGGIO AL FUNEREO AUTUNNO

1. Gli interventisti e i neutralisti dopo la decisione dell’intervento 2. L’indifferenza di larga parte dell’opinione pubblica 3. Lo spirito dei combattenti durante le prime giornate 4. I soldati socialisti 5. Le prime delusioni dei militari interventisti 6. Impreparazione dell’esercito alla nuova guerra 7. Il fallimento delle offensive sull’Isonzo 8. La demoralizzazione delle truppe in conseguenza delle operazioni militari 9. Ripercussione della crisi militare sul Paese 10. Le critiche al generale Cadorna 5

11. La crisi degli interventisti nell’autunno 1915 II. L’ADATTAMENTO DEL SOLDATO ALLA GUERRA

1. La «spersonalizzazione» del soldato 2. Influenza degli ideali patriottici 3. Condizioni morali degli ufficiali 4. Le prime licenze invernali 5. Gli imboscati 6. Trattamento materiale del soldato 7. La giustizia militare 8. L’istituzione dei cappellani militari 9. Orientamenti del clero di fronte alla guerra 10. Religione e superstizioni 11. La guerra come occasione di apostolato 12. Atteggiamenti patriottici dei cappellani 13. Le «case del soldato» ed altre iniziative dei cappellani 14. Assenteismo del Comando supremo in tema di attività propagandistiche e ricreative 15. Considerazioni di Mussolini sul morale dell’esercito 16. Conclusioni III. I CONTRASTI TRA IL GOVERNO E LO STATO MAGGIORE NEL 1916

1. Separazione tra militari e politici nell’anteguerra 2. L’autorità del capo di stato maggiore 3. La crisi tra governo e Comando all’inizio del 1916. Il memoriale Zupelli 4. La campagna di stampa promossa da Cadorna 5. Le dimissioni del ministro Zupelli 6. La crisi durante la strafexpedition 7. La caduta del governo Salandra 8. La costituzione del ministero nazionale: Boselli e Cadorna 9. L’urto tra Cadorna e Bissolati 6

10. Lo scandalo Douhet e la rappacificazione tra Cadorna e Bissolati IV. SOLDATI E UFFICIALI NELLA GUERRA «CRONICA»

1. Conseguenze della strafexpedition 2. Decimazioni alla brigata Salerno e fra le truppe del Carso 3. Insufficienze dei quadri militari 4. Ufficiali di carriera e ufficiali di complemento 5. La vittoria di Gorizia e le offensive autunnali 6. Gli autolesionisti 7. Le distrazioni dei soldati 8. I sentimenti degli italiani verso gli avversari 9. Le circolari sulla propaganda contraria alla guerra 10. Diverse interpretazioni del «non aderire e non sabotare» 11. Il «pericolo» socialista V. IL 1917 PRIMA DI CAPORETTO

1. Considerazioni preliminari: la crisi del nemico e quella dell’alleato 2. Stato d’animo dell’esercito dal gennaio al maggio 3. Stato d’animo dell’esercito dal giugno al settembre 4. Indisciplina e ammutinamenti 5. La rivolta della brigata Catanzaro 6. I disertori 7. I renitenti residenti all’estero 8. L’immagine che si aveva all’estero dell’Italia in guerra 9. Trattamento materiale dei combattenti 10. I giornali e la guerra 11. L’odio per gli imboscati 12. La protesta popolare contro la guerra 13. La partecipazione femminile al movimento di protesta 14. I fatti di Torino 7

15. Interventisti e Comando supremo 16. Le voci di un colpo di stato militare 17. Rapporti tra Cadorna e il governo 18. I socialisti e la protesta popolare 19. I salari degli operai industriali 20. I socialisti e la propaganda fra le truppe 21. I cappellani e l’«inutile strage» VI. LA BATTAGLIA DI CAPORETTO: CAUSE E SVOLGIMENTO

1. Stato d’animo delle truppe e dei comandi italiani alla vigilia della battaglia 2. La sorpresa 3. La nuova tattica 4. I successi dell’«infiltrazione» sui vari fronti 5. Le esperienze di Rommel 6. Lo smarrimento dei comandi: Badoglio e la Commissione di inchiesta 7. Lo sbandamento delle truppe 8. Le interpretazioni «moralistiche» di Caporetto 9. Giustizia sommaria 10. Il generale Graziani e il suo plotone di esecuzione 11. L’impreparazione alla ritirata e i problemi del traffico 12. L’esonero di Cadorna VII. L’ULTIMO ANNO DI GUERRA

1. La crisi dopo Caporetto 2. Trattative per una pace separata 3. Ripercussioni di Caporetto negli ambienti politici 4. Ripercussioni nell’opinione pubblica 5. Stato d’animo delle truppe nel novembre-dicembre 1917 6. La riorganizzazione degli sbandati 7. Voci di pace e di ammutinamenti a Natale 8

8. La propaganda «disfattista» dopo Caporetto 9. Stato d’animo delle truppe all’inizio del 1918 10. Atteggiamento verso i franco-britannici 11. Stato d’animo delle truppe tra il febbraio e il maggio 12. Migliore trattamento del soldato 13. Prime iniziative propagandistiche nell’esercito 14. I giornali di trincea 15. Lo sviluppo della propaganda e l’istituzione del servizio P. 16. Gli ufficiali P. «commissari politici»? 17. La propaganda sul nemico 18. Crescente prestigio degli Stati Uniti in Italia 19. Limiti all’attività dei cappellani 20. Il Partito socialista tra Lenin e Wilson 21. Il gen. Diaz e il governo 22. Amministrazione della giustizia militare nel 1918 23. La battaglia del Piave 24. La battaglia di Vittorio Veneto Epilogo Tavole: Tav. I Situazione del fronte all’inizio della guerra e alla vigilia di Caporetto Tav. II Lo sfondamento a Caporetto Tav. III Il fronte del Piave (novembre 1917 - ottobre 1918)

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Avvertenza

Lo storico britannico James Joll, in uno dei suoi più recenti studi sulla Prima guerra mondiale, ha scritto: «Nei giorni della crisi di luglio gli uomini chiamati a reggere le sorti della nazione si sentirono come rinchiusi in una trappola, vittime di un destino che sapevano di non controllare». Molti studiosi in Europa e negli Stati Uniti, come Joll, hanno rinvenuto nello scoppio della guerra e nel suo svolgimento elementi sempre più complessi e comportamenti sempre meno coerenti. A cento anni dal conflitto, nessun calcolo politico e nessuna combinazione di fattori (diplomatici, economici, strategici, sociali) spiega ancora compiutamente ciò che avvenne tra l’estate del 1914 e l’autunno del 1918. Melograni ci ricorda che, in appena pochi mesi, la guerra si trasformò in una catastrofe mondiale che costò perdite umane fino ad allora impensabili, provocò la distruzione di settori vitali dell’economia, impoverì la società europea e generò un vuoto politico che a sua volta produsse a lungo violenza e conflitto. Norman Angell, autore de La grande illusione, un pamphlet di ispirazione pacifista che alla vigilia dell’attentato di Sarajevo fu diffuso in milioni di copie, intuì le ragioni dello sconcerto. La guerra, scrisse Angell, non era la prosecuzione della politica con altri mezzi e non rappresentava il fallimento di un sistema di 10

equilibri diplomatici; non era neppure il prodotto di un conflitto di classe o dell’imperialismo. La guerra era il «retaggio dell’età di Tamerlano», un’epoca remota in cui l’annientamento del nemico assicurava al vincitore profitti e sicurezza per il futuro. Il XX secolo, invece, era dominato dall’industria e dalla finanza, per propria natura interdipendenti; nessuna nazione o gruppo sociale avrebbe tratto beneficio della distruzione del «nemico». Vi era un elemento primordiale e oscuro nella guerra moderna; con le parole di Angell, era «l’apparizione di un fantasma». Anche nel caso dell’Italia, la storiografia ha ben spiegato che le ragioni dell’intervento a guerra già iniziata e a sanguinose battaglie in corso sui fronti europei non sono riconducibili a «opportunismo», «nazionalismo», «irredentismo» – anche se quei sentimenti fecero breccia nella mente e nel cuore di molti italiani. La guerra, inoltre, non fu imposta dall’alto a una nazione inerte, incline al compromesso e al pacifismo. L’ingranaggio della guerra sembrò mettersi in movimento da sé, innescato da meccanismi politici, sociali e psicologici che erano allora sconosciuti e incontrollabili proprio perché, per la prima volta, coinvolgevano grandi masse di uomini. I leader politici e i vertici militari vi svolsero dunque un ruolo di secondo piano e solo in rare occasioni divennero protagonisti di scelte decisive. Eppure la guerra non fu soltanto distruzione, irrazionalità e «buio» – secondo la celebre espressione di Sir Edward Grey. Lo testimoniano i ricordi dei combattenti, le lettere dal fronte, la determinazione dei soldati, la riflessione condotta da intellettuali e uomini di Chiesa, persino la proposta dei socialisti Turati e Treves per una tregua politica in nome della salvezza dell’Italia – analoga scelta fu compiuta da molti socialisti francesi dopo la tragica fine di Jaurès. L’idea di patria era ben viva e radicata in tutta Europa. Gli storici hanno cominciato a studiare la guerra del 1914 non 11

appena questa finì, nel novembre del 1918. Non era, al principio, una «autentica» storiografia; i primi studi intendevano ribadire (e, se possibile, dimostrare) le responsabilità degli Imperi centrali, in particolare della Germania; era una storiografia patriottica, ispirata da un tribunale della storia istituito dai vincitori a cui si associò anche la storiografia italiana. Si basava su principii largamente condivisi nel clima aspro e rivendicativo di quegli anni. L’approccio «giudiziario» si radicò quindi profondamente nella cultura europea. Era però una storiografia interessata, in primo luogo, alle classi dirigenti e ai vertici militari. Solo più tardi l’attenzione degli studiosi si rivolse anche alle esperienze dei soldati e delle popolazioni civili, i loro traumi, i ricordi, i sentimenti. Negli anni Trenta, in Francia, presero avvio le prime ricerche sulla vita di trincea, le corrispondenze, i giornali e il cosiddetto «spirito pubblico». Alcuni anni fa Stéphane Audoin-Rouzeau ha spiegato che ancora, su questi temi, la storiografia è divisa. Alcuni sono persuasi che la determinazione dei soldati e l’eroismo dimostrato in battaglia fossero lo specchio e la misura della partecipazione alla guerra. Molti soldati condivisero le ragioni dell’intervento e, là dove gli uomini si sacrificarono con abnegazione, le nazioni infine vinsero la guerra. Un’altra parte della storiografia, al contrario, ritiene che gli ufficiali e i soldati rimasero al loro posto perché vi furono costretti da una ferrea disciplina militare. La loro estraneità al conflitto e la protesta rimasero inespressi, nascosti dalla vigile censura militare e dalla minaccia, nei casi più gravi, dei plotoni di esecuzione. Quella stessa disciplina sarebbe stata imposta anche negli anni successivi nei Paesi dove si affermarono i regimi totalitari, che proprio dalla guerra ereditarono linguaggi e metodi repressivi. Anche Melograni, in alcuni passaggi del libro, sembra pensarla allo stesso modo. 12

In seguito l’attenzione degli studiosi passò finalmente allo studio delle commemorazioni, dei monumenti, della memoria e dell’uso pubblico, se così si può definire, che della Grande guerra si era fatto da parte di nazioni, governi, partiti, associazioni e organizzazioni di ex combattenti. È stata questa fase, nel giudizio di Melograni, a produrre i migliori risultati perché più libera da condizionamenti e ideologie. È tornata così al centro dell’attenzione la vicenda umana di milioni di uomini e donne precipitati nel vortice della guerra, le sofferenze patite e inflitte, la trasformazione della società ma anche le aspettative di rinnovamento, persino l’immaginazione e l’utopia. La storia e il ricordo della guerra, in questo modo, sono tornati a svolgere un ruolo attivo, diventando protagonisti anche delle vicende dei decenni successivi. Melograni pubblicò la Storia politica della Grande guerra nel 1969 dopo un intenso lavoro in archivio di cui si rinvengono i percorsi nelle note e nella bibliografia. Melograni aveva allora meno di quarant’anni e il libro (era il suo primo) lo fece apprezzare in Italia e all’estero come uno dei più giovani e brillanti studiosi della Grande guerra, anche se non mancarono le recensioni critiche. Il volume era dedicato alla partecipazione italiana al conflitto ma l’autore dimostrava di conoscere anche il lavoro condotto all’estero da due generazioni di storici. La prima, guidata da Pierre Renouvin, si basava su documenti militari e diplomatici ed era ancora incentrata sulla questione delle responsabilità. Non vi era da sorprendersi, a giudizio di Melograni, perché la generazione di Renouvin aveva conosciuto non una bensì due guerre mondiali e il tema della colpa riguardava (anche) un passato recentissimo. Lo ammise lo stesso storico francese quando, a conclusione del lavoro, invitò i giovani ad affrontare questioni «più profonde» e a liberarsi da emozioni, rancori e pregiudizi. 13

A quella stessa generazione apparteneva A.J.P. Taylor, autore di un formidabile studio sulle origini della Prima guerra mondiale, The Struggle for Mastery in Europe, 1848-1918, che appassionò Melograni. Anche per Taylor la tematica delle responsabilità era la prima tra tutte le questioni storiografiche ma, alla fine, lo studioso dichiarò: «Il maggiore contributo alla storia dell’umanità è venuto dalla base, dal lavoro di una massa enorme di persone sconosciute, non dai pochi che stanno al vertice del potere». Era un modo, analogo a quello auspicato da Renouvin, di prendere le distanze da una tradizione storiografica e inaugurarne una nuova. Lo stesso Taylor si cimentò, poco più tardi, nella stesura di un testo che a molti apparve sorprendente, The Trouble Makers, dedicato allo studio delle relazioni internazionali ma inteso anche a dare voce ai protagonisti del dissenso, come Norman Angell, insignito finalmente del Premio Nobel per la pace nel 1933. Un’altra scuola (e generazione) storiografica che fino agli anni Sessanta produsse corposi studi e analisi documentarie, in particolare in Italia, si ispirava al marxismo e faceva riferimento alle tesi di Lenin e della III Internazionale. La guerra, nella più diffusa e radicale delle interpretazioni, derivava dalla fine della crescita delle economie capitalistiche e dalla chiusura degli sbocchi commerciali aperti dall’imperialismo. Questa interpretazione appare oggi avara di spunti interpretativi e meccanica nelle deduzioni, tuttavia stimolò numerosi e innovativi studi tra cui è appena necessario ricordare i saggi di Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, con i quali Melograni condusse un vivace dibattito. Avevano il merito, ammise Melograni, di ricondurre l’analisi verso la concretezza, la documentazione d’archivio, i conflitti di classe. Melograni, tuttavia, aveva abbandonato il marxismo da molti anni; come Renzo De Felice, la storiografia comunista lo aveva influenzato solo per un breve 14

periodo: «Ricordo che nella notte fra il 4 e il 5 novembre ‘56» testimoniò in un’intervista a Elsa Romeo «mentre i carri armati sovietici invadevano Budapest, non riuscii letteralmente a prender sonno. Nel corso di quella notte il timore di perdere la fede fu finalmente sopraffatto dalla rabbia di non averla perduta prima». Nella Storia politica della Grande guerra Melograni studia la società italiana in una fase di estrema tensione che ebbe inizio ben prima delle «radiose giornate» e si protrasse ben oltre l’offensiva di Vittorio Veneto. Il testo indaga aspetti pubblici e privati, esperienze collettive e vicende individuali, episodi di entusiasmo e di sconforto, di ingenuità e scaltrezza, dedizione e opportunismo. Il libro descrive inoltre la vita nelle trincee, nelle retrovie, nelle città e nelle campagne lontane dai bombardamenti; ricostruisce infine i processi decisionali dello Stato maggiore e le pressioni della grande industria ma descrive anche, in dettaglio, i tessuti con cui erano cucite le ruvide uniformi dei soldati e la corruzione nel sistema degli approvvigionamenti bellici. Questo metodo di studio a tutto campo, che Melograni definì «laico» perché privo di modelli ideologici o precostituiti, produsse straordinari risultati e fu subito condiviso da gran parte della storiografia italiana. Esso costituisce, ancora oggi, il principale lascito del libro che infatti ebbe ampia diffusione sia tra gli specialisti sia tra i lettori comuni. Alcuni elementi, occorre aggiungere, furono in seguito riesaminati da Melograni per condurre ulteriori approfondimenti. Il primo, forse il più rilevante, riguarda il «mito» della Grande guerra. Melograni spiegò più volte, in articoli e interviste apparsi dopo la pubblicazione del volume, che per molti anni in Italia si era scritta una storia convenzionale e celebrativa della Prima guerra mondiale. Questo era, del resto, ciò 15

che il regime mussoliniano aveva imposto e poi ottenuto da una generazione di storici. Alla iniziale e retorica esaltazione della guerra si contrappose quindi, in anni successivi, una visione del tutto diversa, intesa a criticare e condannare governi e comandi militari, evidenziando la ferocia dei combattimenti ma anche l’ottusità delle classi dirigenti e la violenza esercitata contro ogni protesta e resistenza. Come quella precedente, anche questa impostazione, secondo Melograni, doveva essere ricondotta al contesto in cui era nata: la Guerra fredda e la penetrazione del marxismo tra gli intellettuali avevano generato un nuovo modello, anch’esso «mitico», di guerra selvaggia e capitalista. Né la prima né la seconda interpretazione erano tuttavia in grado di decifrare eventi così complessi. Melograni studiò negli anni seguenti, con particolare interesse, anche la relazione tra modernità, élite politiche e società di massa. Nello studio della Grande guerra la classe dirigente italiana gli era apparsa impaurita, legata al passato, incapace di elaborare strumenti efficaci di comunicazione, eppure sempre determinata a ottenere «benefici interni», cioè a esautorare e poi colpire i partiti dell’opposizione. Questa miopia, di fronte a eventi epocali e al sacrificio di tante vite, per Melograni rappresentava un «misero machiavellismo» ma anche l’incapacità di comprendere le trasformazioni avvenute nella società e il carattere stesso della modernità. Pochi anni dopo quella stessa miopia avrebbe consegnato il sistema parlamentare italiano alla dittatura. La distanza tra i capi e le masse, evidenziata già nelle prime pagine di questo libro, spinse Melograni a intraprendere una nuova ricerca, pubblicata nel 1977 con il titolo Saggio sui potenti. Il pamphlet era dedicato allo studio della dittatura e del consenso ma il testo, come ha ricordato in più occasioni il suo autore, era anche una lunga, appassionata postfazione alla Storia politica della Grande guerra. 16

Dario Biocca (2014)

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Prefazione

All’indomani della vittoria riportata nel 1918, gli scritti dedicati alla Prima guerra mondiale ebbero in Italia un’intonazione assai meno celebrativa di quel che molti immaginano. La relazione della Commissione d’inchiesta su Caporetto, resa pubblica nell’agosto 1919, costituì sotto molti punti di vista la prima indagine di carattere storiografico ed ebbe un effetto sconvolgente. Le informazioni fornite da quella Commissione a proposito delle decimazioni, degli inutili sacrifici di sangue e dei contrasti tra governo e Comando supremo furono riprodotte nei giornali di tutt’Italia e scatenarono un vero e proprio processo alla guerra. Il rischio che questo processo potesse sfuggire ad ogni controllo fu così grande da indurre Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio, a concludere in tutta fretta la discussione apertasi alla Camera dei deputati. «Ho sepolto l’inchiesta di Caporetto» confidò Nitti al giornalista liberale Olindo Malagodi nel 1919. Cionondimeno la partecipazione dell’Italia alla guerra continuò ad essere sottoposta a processo anche perché vari partiti affermarono che essa si era conclusa con una vittoria «mutilata», vale a dire con la perdita di terre considerate italiane, come la città di Fiume e la Dalmazia. Le proteste contro queste mutilazioni e la spedizione di Gabriele D’Annunzio a Fiume, nel 18

settembre 1919, contribuirono ad accendere vieppiù gli animi e a scatenare polemiche. Le celebrazioni del primo anniversario della vittoria, il 4 novembre 1919, furono tenute in sordina. Cominciarono ad essere dati alle stampe gli epistolari e i diari dei combattenti, gran parte dei quali raffigurarono la terribile esperienza delle trincee in termini fortemente realistici. Perfino le memorie di coloro che poi finirono nelle file del fascismo assunsero toni molto spesso crudi. Ricorderemo a questo proposito gli scritti di Curzio Malaparte (La rivolta dei santi maledetti, 1921), di Ardengo Soffici (La ritirata del Friuli, 1919), di Giuseppe Prezzolini (Dopo Caporetto, 1919), di Arturo Marpicati (La Proletaria, 1920), di Valentino Coda (Dalla Bainsizza al Piave, 1919). Lo stesso Diario di guerra che Benito Mussolini aveva scritto e pubblicato a puntate sul «Popolo d’Italia» del 1915-1917 non teneva affatto nascoste talune verità sgradevoli e brucianti. C’è da ricordare del resto che nel 1967, allorché un giovane storico di sinistra, Mario Isnenghi, volle celebrare il cinquantesimo anniversario della disfatta di Caporetto componendo un’antologia provocatoria e anticonformista (I vinti di Caporetto), finì per raccogliere le pagine di scrittori che in maggioranza erano confluiti nel fascismo. Il fascismo delle origini, insomma, si occupò della guerra in forme niente affatto ipocrite. Fu soltanto più tardi, dopo la marcia su Roma, che esso preferì rifugiarsi nelle esaltazioni convenzionali. Le polemiche sulla guerra e la relazione della Commissione di inchiesta su Caporetto indussero il generale Cadorna, comandante supremo dal 1915 all’autunno 1917, e il generale Capello, comandante della II armata nei giorni di Caporetto, a difendersi dalle accuse loro rivolte. Cadorna diede alle stampe La guerra alla fronte italiana (1921), nonché Altre pagine sulla Grande guerra (1925). Capello intitolò i suoi libri Per la verità e 19

Note di guerra (1920). Numerosi storici militari pubblicarono i loro studi, ma disposero di una documentazione ancora parziale e non sempre tennero conto di ciò che gli ex nemici stavano anch’essi divulgando. Dal punto di vista militare, il miglior studio d’insieme fu quello del giornalista Aldo Valori, La guerra italo-austriaca, pubblicato nel 1921. Dopo questa prima fase piuttosto vivace e polemica, ebbe inizio la lunga parentesi del regime mussoliniano, nel corso della quale la letteratura sulla Prima guerra mondiale assunse caratteri prevalentemente retorici. Quanto accadde a Gioacchino Volpe, il maggiore storico di orientamento fascista, o al colonnello Angelo Gatti, che durante il conflitto mondiale aveva diretto l’ufficio storico del Comando supremo, sta a dimostrarlo. A Gioacchino Volpe, che nel 1923 iniziava a comporre una storia del popolo italiano durante la guerra per conto della Fondazione Carnegie, fu improvvisamente sbarrato l’accesso agli archivi, poiché ci si era accorti ch’egli si interessava troppo di operai, di scioperi e di disfattismo. Angelo Gatti, che nel 1925 era stato incoraggiato da Mussolini a scrivere una storia di Caporetto, fu poco tempo dopo convocato dallo stesso Mussolini il quale lo invitò a interrompere le sue ricerche perché – come il dittatore gli spiegò – il regime «aveva bisogno di miti e non di storia». Gatti dirigeva in quegli anni, per conto dell’editore Mondadori, una collana di diari, memorie e studi dedicati alla guerra, nella quale apparvero – fra l’altro – alcune parti delle memorie del presidente Salandra e del generale Cadorna, uno studio di Alberto Malatesta sui socialisti nel 1914-18 ed uno di Ernesto Vercesi sulle attività svolte dal Vaticano in tempo di guerra. Ma questa pur pregevole collana, anche prima del richiamo di Mussolini a occuparsi di miti, preferì seguire una linea di estrema prudenza. In quegli stessi anni furono pubblicate dall’editore Laterza 20

alcune ottime ed originali indagini relative agli anni della guerra, commissionate dalla già citata Fondazione Carnegie. Tra esse ricorderemo quelle di Giorgio Mortara sulla salute pubblica (1925), di Giuseppe Prato sugli effetti sociali del conflitto in Piemonte (1925), di Arrigo Serpieri sulle classi rurali (1930) e di Luigi Einaudi sul sistema tributario (1930), mentre l’indagine commissionata a Gioacchino Volpe – come già riferito – fu bloccata dai veti politici. La storiografia di carattere militare, d’altra parte, si arricchì grazie alle opere dei generali Roberto Bencivenga (1930-1938), Enrico Caviglia (1933) e A. Maravigna (1935). Inoltre, nel 1940, Gioacchino Volpe fu autorizzato a pubblicare un saggio riguardante il periodo della neutralità (Il popolo italiano tra la pace e la guerra, 1914-1915), mentre nel 1942 fu data alle stampe una poderosa opera in tre volumi del senatore liberale Luigi Albertini, dedicata a Le origini della guerra del 1914. Ma tutte queste pubblicazioni non erano tali da suscitare preoccupazioni al regime mussoliniano, poiché si rivolgevano al pubblico degli specialisti ed evitavano di approfondire l’esame sulle più sconcertanti vicende del periodo bellico. Accadeva così che, nel corso degli anni Trenta, si affermasse in Italia il mito della guerra e niente affatto la sua storia, proprio come Mussolini aveva desiderato. Del Primo conflitto mondiale i testi scolastici fornivano un’immagine edulcorata e falsa. E nelle università, dove non esistevano ancora cattedre di Storia contemporanea, ma soltanto di storia del Risorgimento, la Grande guerra era trascurata benché ad essa venisse ufficialmente attribuito l’appellativo di «quarta guerra del Risorgimento». Gli archivi, ovviamente, restavano accuratamente sigillati. Quest’atmosfera fatta di ignoranza, di conformismo e di sostanziale rimozione del recente passato continuò a prevalere 21

negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale perfino in ambienti antifascisti di educazione universitaria. Nel 1944 e negli anni immediatamente seguenti, accadeva che i cortei dei militanti social-comunisti, transitando in piazza Venezia davanti all’Altare della Patria, interrompessero il canto di «Bandiera rossa» per intonare «La canzone del Piave», ignorando le lacerazioni del 1915-18 e ricordando soltanto che sulle sponde di quel mitico fiume gli italiani avevano respinto il tedesco invasore. Con la fine del fascismo e dell’occupazione tedesca, la memorialistica tornò a svelare per una seconda volta le drammatiche realtà e i contrasti della Prima guerra mondiale. I ricordi di guerra scritti da Emilio Lussu nel 1937, Un anno sull’altipiano, furono pubblicati nel 1945, ma risultarono per lo più condotti sul filo di un’amara ironia. Tra il 1951 e il 1953 apparvero le ben più impegnative memorie che il senatore Luigi Albertini aveva dettate prima della sua morte, avvenuta nel 1941 (Venti anni di vita politica). Gli ultimi due volumi si occupavano degli anni della guerra e consistevano in più di mille pagine di alto valore documentario, dato che Albertini, direttore del «Corriere della sera», era stato un personaggio centrale della vicenda politica italiana, legato da rapporti di amicizia o di collaborazione con molti notevoli personaggi del tempo, quali Cadorna, D’Annunzio, Salandra, Einaudi e Amendola. Piero Pieri – che nel 1959 aveva dato alle stampe una breve e assai utile storia dell’Italia in guerra – pubblicò nel 1965 una nuova edizione di questa sua opera aggiungendovi una nota bibliografica, nella quale dovette ammettere che ancora mancava uno studio di carattere generale sull’Italia del 1914-18. Il miglior saggio sull’argomento, a suo giudizio, restava di carattere memorialistico e si trattava appunto delle citate memorie del senatore Albertini. 22

Nel 1960 Brunello Vigezzi curava la pubblicazione delle Conversazioni della guerra che Olindo Malagodi, il giornalista liberale direttore della «Tribuna» e amico di Giovanni Giolitti, aveva avute fra il 1914 e il 1919 con lo stesso Giolitti, ma anche con Cadorna, Salandra, Sonnino, Orlando, Bissolati, Nitti, Amendola e Albertini. In quello stesso anno 1960, Rodolfo Mosca pubblicava le Memorie 1915-1919 del presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, mentre Paolo Spriano dedicava un volume a Torino operaia nella Grande guerra. Ma probabilmente l’effetto più traumatizzante, anche fra molti storici delle giovani generazioni, fu prodotto nel 1964 dal diario di guerra di Angelo Gatti, Caporetto, curato da Alberto Monticone, nel quale si trovarono descritti quasi dal vivo ammutinamenti di soldati, decimazioni di reparti e smarrimenti di comandi militari. L’immagine mitologica della guerra si spezzò. Nel 1965, Mario Silvestri pubblicò una avvincente e spietata ricostruzione della disfatta di Caporetto (Isonzo 1917), mentre i cattolici, che verso la Grande guerra avevano sempre assunto atteggiamenti ambivalenti, tornarono a discutere di queste ambivalenze in un convegno svoltosi a Spoleto nel 1962, i cui atti furono pubblicati l’anno seguente a cura di Giuseppe Rossini (Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale). Nel 1966, Brunello Vigezzi diede alle stampe un voluminoso saggio dedicato a L’Italia neutrale (L’Italia di fronte alla Prima guerra mondiale, vol. I), mentre Gabriele De Rosa pubblicò il Diario 19141918 di Ferdinando Martini, ricchissimo di notizie. Nel 1968 Enzo Forcella ed Alberto Monticone documentarono l’attività dei tribunali militari (Plotone di esecuzione). L’interesse attorno ai problemi della Prima guerra mondiale tornò a farsi molto vivo anche perché, tra il 1964 e il 1968, si celebrarono i cinquantenari dell’intervento, delle numerose battaglie e della finale, anche se «mutilata», vittoria. 23

Fu in questo clima che, nel 1969, apparve la prima edizione di questa mia Storia politica della Grande guerra 1915-1918. Essa era il risultato di studi intrapresi da anni, e precisamente da quando avevo rinvenuto, al Museo del Risorgimento di Milano, la bozza di una lettera di Luigi Barzini al senatore Albertini, scritta nell’estate del 1917, nella quale Barzini deplorava che i comandi militari nulla facessero per sollevare il morale dei soldati. Il problema che mi posi fu quello di capire come mai l’esercito italiano fosse stato capace di resistere al nemico per ben 41 mesi nonostante le depressioni morali, le manchevolezze dei comandi, le mostruosità della guerra totale e le lacerazioni della società politica italiana. Negli anni durante i quali scrissi questo libro, l’immagine oleografica della Grande guerra, sostenuta dalla propaganda mussoliniana, si era quasi interamente dissolta. Stava invece imponendosi un’immagine del tutto contraria, dissacratoria, radicaleggiante e «sessantottina». Entrambe le immagini mi risultarono estranee ed entrambe mi sembrarono fortemente condizionate da miti, sia pure di segno contrario. Il mio intento fu quello di esaminare i documenti con spirito laico. Il mito nazionalistico avrebbe potuto trattenermi dal descrivere le miserie delle classi dirigenti italiane o le atrocità delle decimazioni. Il mito classista, a sua volta, avrebbe potuto trattenermi dal porre in rilievo i successi delle classi dirigenti, i compromessi accettati dall’intero Partito socialista e la spaccatura determinatasi all’interno delle classi proletarie tra fanti-contadini e operai-imboscati. Cercai dunque di utilizzare la documentazione disponibile senza pregiudizi ideologici e una delle conclusioni a cui arrivai fu quella esposta alla fine del capitolo II. Vale a dire che l’Italia, nonostante tutto, resse alla dura prova della guerra perché questa, oltre a rivelarsi una 24

grande distruggitrice di uomini e di cose, ebbe modo di diventare una grande suscitatrice di energie. Quanto ai soldati che, dopo la lettura della lettera di Barzini, erano al centro delle mie ricerche, tentai di capirne i comportamenti, applicando quelle conoscenze di psicologia individuale e collettiva che all’epoca possedevo. Grazie agli studi che pure da altri erano stati compiuti, mi convinsi, e cercai di convincere i lettori, che lo spirito di adattamento, la rassegnazione di origine contadina e i sentimenti di solidarietà spontaneamente creatisi tra i commilitoni avevano svolto una parte decisiva. Le carte conservate presso gli archivi pubblici mettevano a disposizione una documentazione di prim’ordine per analizzare gli stati d’animo delle masse sia al fronte sia nel Paese. Studiosi come De Felice, Vigezzi, Forcella e Monticone avevano già cominciato a utilizzarla, e anch’io cercai di farne uso. Oggi, dopo il successo ottenuto dai libri di Paul Fussell, Eric J. Leed e George Mosse, molti credono che gli studiosi di area anglosassone siano stati i primi a servirsi degli archivi pubblici per ricostruire gli stati d’animo collettivi degli anni di guerra. È invece probabile che i primi fra tutti siano stati gli italiani. Negli anni in cui scrissi questo libro avrei potuto interrogare molti superstiti della guerra. Oggi mi rammarico di averlo fatto soltanto con pochi. Temevo la deformazione dei ricordi che inevitabilmente si determina con il trascorrere degli anni, e quindi preferii appoggiare le mie tesi sopra documenti scritti, ben identificabili e controllabili da tutti. Non mi resi conto che i colloqui con quei superstiti avrebbero potuto aiutarmi grandemente a cercare, interpretare e capire. Dopo la pubblicazione del mio libro, negli anni Settanta e Ottanta, la storiografia della Prima guerra mondiale è stata assai 25

vivace, così che questa mia storia della Grande guerra, se potesse essere riscritta, dovrebbe tener conto di tutti gli apporti nuovi. Preferisco tuttavia ripubblicarla così come essa apparve nella prima edizione del 1969, anche perché continuo a essere convinto di quanto scrissi allora. Gran parte di coloro che, dopo il ’69, trattarono il tema della Grande guerra in termini esplicitamente o implicitamente polemici nei miei confronti furono fortemente suggestionati dalle opinioni classiste, operaiste e marxiste allora diffusissime. Molti dissero che non avevo dato sufficiente rilievo alla energia esplosiva del proletariato e agli sforzi repressivi dello Stato borghese. Alcuni mi incolparono di aver incondizionatamente accettato l’interpretazione nazional-patriottica della guerra. Altri mi accusarono di aver subìto l’influsso delle scienze comportamentiste, «care alla sociologia e al pensiero politico statunitense e alle rispettive colonie in Europa». Altri non condivisero le mie tesi sui salari reali e sul benessere degli operai, senza rendersi conto che in ogni caso questi operai godettero di grandissimi privilegi nei confronti dei soldati. Ma col passare del tempo, la visione classista che aveva suggerito una gran parte di questi rilievi critici si è alquanto stemperata, per lasciare spazio a nuovi interessi, soprattutto verso i simboli, i miti, il culto dei ricordi, il mondo femminile, gli aspetti psicologici, i fenomeni antropologici. L’indirizzo classista esploso negli anni Settanta è ancora bene documentato nell’antologia curata da Giovanna Procacci (Stato e classe operaia in Italia durante la Prima guerra mondiale, 1983), nella quale furono raccolti gli atti di un convegno tenutosi a Rimini nel 1982. L’indirizzo più recente, rivolto a esaminare problemi di carattere antropologico e psicologico, più che i conflitti di classe, è invece documentato nell’antologia curata da Diego Leoni e Camillo Zadra (La Grande guerra, Esperienza, memoria, immagini, 26

1986), nella quale si trovano raccolti più di trenta contributi presentati al convegno svoltosi a Rovereto nel settembre 1985. Gli studi sulla Prima guerra mondiale apparsi dal 1970 in poi sono stati talmente numerosi che non posso qui citarli tutti. Ricorderò però i lavori di Mario Isnenghi (Il mito della «Grande guerra» da Marinetti a Malaparte, 1970), di Massimo Mazzetti (L’industria italiana nella Grande guerra, 1979) e di Roberto Morozzo della Rocca sui cappellani militari (La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati, 1915-1919, 1980). Mi scuso per aver tralasciato tanti altri pregevolissimi studi. Chi volesse documentarsi meglio potrebbe in ogni caso ricorrere alle rassegne bibliografiche di Paolo Alatri (La Prima guerra mondiale nella storiografia italiana dell’ultimo venticinquennio, in «Belfagor», 1972, n. 5 e 1973, n. 1), di Mario Isnenghi (Prima guerra mondiale, in Il Mondo Contemporaneo, Storia d’Italia - 2, a cura di F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia, Firenze 1978) e infine a quella di Giorgio Rochat (L’Italia nella Prima guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca, Milano 1976). Nessuna di queste rassegne, come appare evidente dalle date di pubblicazione, è tuttavia in grado di aggiornarci fino a oggi. Per concludere, penso che sia ancora valida la già citata osservazione fatta da Piero Pieri nel 1965 circa l’inesistenza di uno studio di carattere generale sull’Italia del 1914-1918, vale a dire di uno studio capace di fondere le diverse prospettive grazie alle quali la Grande guerra combattuta dagli italiani dovrebbe essere considerata. Intendo riferirmi agli aspetti militari, economici, di politica interna, di politica internazionale, di trasformazione sociale e di rinnovamento delle coscienze, che attendono ancora di essere fusi in un tutto organico. Ma si tratta di un compito molto arduo perché bisognerebbe esaminare un materiale immenso, possedendo sia quella maturità che di solito si acquista con il trascorrere degli anni, sia quelle energie fisiche 27

che viceversa, con il trascorrere degli anni, finiscono per declinare. Piero Melograni P.S. La pubblicazione di questo mio libro, nel 1969, fu diversamente accolta. Alcune accoglienze furono molto favorevoli, altre risolutamente avverse ed altre ancora, come spesso accade, si posero nel mezzo. Tra i più favorevoli ricorderò Arturo Carlo Jemolo («La Stampa», 13 luglio e 14 dicembre 1969), Indro Montanelli («Corriere della sera», 19 luglio 1969), Aurelio Lepre («L’Unità», 26 luglio l969), Giulio Goria («Paese Sera Libri», 5 settembre 1969), Domenico Sassoli («Il Popolo», 21 settembre 1969). Tra i giudizi favorevoli, contenenti tuttavia qualche riserva, ricorderò quelli di Paolo Spriano («Rinascita», 8 agosto 1969), Charles F. Delzell («American Historical Review», giugno 1970), Nicola Tranfaglia («Il Giorno», 30 luglio 1969), Aldo Giobbio («Il Movimento di Liberazione in Italia», aprile-settembre 1970), Fernando Manzotti («Il Resto del Carlino», 20 agosto 1969). Un po’ seccati e distaccati furono invece i commenti di Ugo D’Andrea («Il Tempo», 2 ottobre 1969) e di Leo Valiani («L’Espresso», 20 luglio 1969). Il giudizio di Giorgio Rochat fu molto severo («Belfagor», 31 gennaio 1970) e quello di Mario Isnenghi severissimo («Resistenza», maggio 1970).

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Premessa

Se vi è una ricca bibliografia per quanto riguarda gli aspetti tecnicomilitari e diplomatici della Grande guerra, non può dirsi altrettanto per la vita interna italiana nel corso della stessa guerra. Questo libro è nato dal desiderio di precisare quali furono i sentimenti, i problemi, le trasformazioni della società italiana durante i quarantun mesi trascorsi dal «radioso» maggio alla battaglia di Vittorio Veneto. Quando, alcuni anni or sono, la ricerca fu iniziata, aveva per tema il «morale» delle truppe: fra il 1915 e il 1918 più di cinque milioni di italiani – quasi tutta la gioventù – erano entrati a far parte dell’esercito; da molte parti, inoltre, era stato affermato che la propaganda disfattista aveva avvilito l’animo di quei soldati, che la guerra aveva diviso l’esercito del paese, che la sconfitta di Caporetto era stata originata da una crisi morale e che una riscossa spirituale, viceversa, aveva consentito di resistere al Piave. Per numerose ragioni, insomma, il «morale» delle truppe sembrava argomento degno di essere esaminato con attenzione e le tesi in circolazione meritevoli di una verifica. Esisteva al riguardo una assai ampia documentazione edita ed inedita che attendeva soltanto di essere studiata. Poco alla volta la ricerca ha superato i limiti inizialmente previsti, poiché i problemi dei fanti potevano essere spiegati solo 29

tenendo conto di molteplici fattori politici, economici e sociali che condizionavano al tempo della guerra la vita dell’intero popolo italiano. Questo libro, pertanto, ha finito per avere come oggetto i rapporti fra l’esercito, la politica e la società civile: vuole essere un tentativo di ricostruire la storia della Prima guerra mondiale così come essa fu vissuta dalle masse. In tempi recenti sono apparsi vari importanti contributi alla storia della Grande guerra, ed altri ne sono stati annunciati. C’è da augurarsi che il risveglio di interessi attorno ad un periodo così decisivo della storia italiana possa essere ricco in futuro di nuovi frutti, poiché molto ancora ci sarà da dire e da scoprire riguardo ai fenomeni economici, agli orientamenti dell’opinione pubblica, alle vicende dei partiti ed alla vita stessa dell’esercito, soprattutto dopo che sarà reso libero l’accesso agli archivi militari. A cinquant’anni dalla pace di Versailles la storiografia della Grande guerra pare essere ancora ai suoi inizi. Desidero ringraziare tutti coloro che hanno in vario modo facilitato le mie ricerche e soprattutto quelle persone e quegli enti che hanno consentito ad uno studio di carattere complessivo sulla Grande guerra di tener conto, per la prima volta, di una vasta documentazione archivistica. Mi riferisco, in particolar modo, al sovraintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, professor Leopoldo Sandri, nonché ai funzionari tutti di quell’Archivio, prodighi di assai utili suggerimenti e indispensabili guide per orientarsi fra i numerosi e ricchissimi «fondi» conservati nel grande palazzo dell’EUR. Ma ringrazio anche i funzionari dell’Archivio del Risorgimento e Storia Contemporanea di Milano, dell’Ordinariato Militare per l’Italia e della Biblioteca Comunale di Lucera, nella quale sono conservate le Carte Salandra, intelligentemente ordinate dall’avv. Giambattista Gifuni. Sono profondamente riconoscente al generale Giuseppe Vasile, 30

direttore della Biblioteca Militare Centrale, per i suoi consigli bibliografici e, soprattutto, per avermi additato l’importanza della tattica di infiltrazione impiegata dagli austro-tedeschi a Caporetto. Un caldo e sincero ringraziamento, infine, a Giuseppe Gubitosi, Alfredo Salsano, Alberto Ca’ Zorzi e Maria Cordella che hanno tanto intensamente collaborato a risolvere le difficoltà presentatesi durante le ultime fasi del mio lavoro. Piero Melograni (1969)

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ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

ACS, Conflagrazione europea = Archivio Centrale dello Stato, Ministero degli Interni, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Cat. A5G, Conflagrazione europea, 1914-18. ACS, Presidenza = Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, Serie Speciale, Prima guerra mondiale. ACS, Primo aiutante = Archivio Centrale dello Stato, Fondo Archivistico del Primo Aiutante di Campo Generale di S.M. il Re, anni 1865-1946, Sezione Speciale dell’Archivio del Primo Aiutante. ACS, UCI = Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Ufficio Centrale di Investigazione. Circolari Comando supremo = R. Esercito Italiano, Comando supremo, Riparto Operazioni, Ufficio Affari Vari e Segreteria, Sezione Istruzioni, Circolare 31 marzo 1917, Riservata, n. 8900 di prot., Raccolta delle circolari di carattere permanente emanate dal Comando supremo a tutto il 15 febbraio 1917. [Il testo delle Circolari è pubblicato in riassunto.] Inchiesta Caporetto = Relazione della Commissione d’inchiesta istituita dal R.D. 12 gennaio 1918, n. 35, Dall’Isonzo al Piave, 24 ottobre-9 novembre 1917, vol. I, Cenno schematico degli avvenimenti; vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, Roma 1919. LUCERA, Carte Salandra = Biblioteca Comunale di Lucera, Carte di Antonio Salandra. MILANO,

Risorgimento

=

Biblioteca-Archivio

del

Risorgimento

Contemporanea, Milano, Museo del Risorgimento, Fondo Guerra.

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e

di

Storia

Relazione ufficiale Caporetto = Ministero della Difesa, Stato maggiore dell’Esercito. Ufficio Storico, L’Esercito italiano nella Grande guerra (1915-1918), vol. IV, Le operazioni del 1917, tomo 3°, Gli avvenimenti dall’ottobre al dicembre. (Narrazione), tomo 3° bis, (Documenti), Roma 1967.

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Storia politica della Grande guerra 1915-1918

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I

Dal radioso maggio al funereo autunno

1. Gli interventisti e i neutralisti dopo la decisione dell’intervento – 2. L’indifferenza di larga parte dell’opinione pubblica – 3. Lo spirito dei combattenti durante le prime giornate – 4. I soldati socialisti – 5. Le prime delusioni dei militari interventisti – 6. Impreparazione dell’esercito alla nuova guerra – 7. Il fallimento delle offensive sull’Isonzo – 8. La demoralizzazione delle truppe in conseguenza delle operazioni militari – 9. Ripercussione della crisi militare sul Paese – 10. Le critiche al generale Cadorna – 11. La crisi degli interventisti nell’autunno 1915 1. All’alba del 24 maggio l’esercito italiano iniziò le ostilità contro quello austriaco: la tanto discussa, temuta e desiderata guerra divenne infine una realtà. Nelle precedenti settimane, quando la pubblica opinione si era spaccata in due, il partito della neutralità, il più numeroso, aveva dovuto cedere al partito dell’intervento, meno numeroso ma più battagliero. Fino all’ultimo momento il contrasto tra i due partiti si era svolto tumultuosamente, in un clima da guerra civile quale il regno d’Italia aveva raramente conosciuto durante i suoi cinquant’anni 35

di vita. Ma non appena l’intervento fu deciso sopravvenne nel Paese una calma improvvisa. L’agitazione delle settimane precedenti si placò: non tanto a causa dei silenzi che la censura sulla stampa o le leggi di pubblica sicurezza imposero alla nazione in armi, quanto proprio per il turbamento e il disorientamento provocati in tutti i partiti dalla nuova realtà della guerra. 1 I neutralisti presero atto della propria sconfitta e dimostrarono di essere temperati nei fatti e nelle parole. L’ultima grande manifestazione del neutralismo ebbe luogo a Torino, con lo sciopero del 17-18 maggio, dopo di che le proteste contro l’avvenuta decisione dell’intervento furono sporadiche: qualche articolo di giornale, qualche sciopero di nessuna importanza, distribuzioni di manifestini pacifisti avvenute qua e là; isolate imprecazioni alla guerra da parte delle reclute in partenza. Il Partito socialista espresse la sua moderazione adottando ufficialmente la formula del «non aderire né sabotare», ed i principali esponenti della corrente riformista, gli onorevoli Turati e Treves, offrirono riservatamente al presidente del Consiglio la loro collaborazione per avvicinare le masse alla causa nazionale. 2 I cattolici dichiararono che si sarebbero comportati da cittadini lealmente obbedienti alle leggi e moltissimi di loro, infatti, dimostrarono in vari modi di partecipare sinceramente e patriotticamente alla guerra. I giolittiani, colpiti e disorientati forse più degli altri, mantennero un atteggiamento prudente e riservato, che tuttavia non impedì al loro capo, ritiratosi volontariamente in Piemonte, di pronunciare il 5 luglio un patriottico discorso di devozione al re e di incondizionato appoggio al governo, con un finale appello alla concordia. Il gruppo neutralista di «Italia nostra», infine, poco numeroso ma pur sempre rappresentativo di una autorevole parte del ceto

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intellettuale, si sciolse all’indomani dell’intervento per collaborare anch’esso alla guerra comune, mentre il suo fondatore, il più che cinquantenne Cesare De Lollis, partì volontario per il fronte. 3 Non c’è dunque da stupirsi se nei ricordi del presidente Salandra le giornate di fine maggio poterono essere definite di «idillio nazionale, in molta parte sincero, in qualche parte imposto e subìto». 4 Per la prima volta, dopo nove anni, il tricolore tornò a sventolare dal palazzo comunale di Bologna socialista per salutare, questa volta, i lavoratori combattenti e augurare all’Italia una pronta vittoria. 5 Avendo escluso il ricorso a forme di opposizione violenta, i neutralisti si avvicinarono al campo opposto per motivi patriottici, ideologici, ed anche di mera opportunità politica. Accanto a più nobili considerazioni agì certamente anche il dubbio che potessero rivelarsi esatte le previsioni ottimistiche da molti fatte sulla brevità e la facilità della guerra: in tal caso sarebbe stato assai poco conveniente trovarsi dalla parte sbagliata. 2. Nazionalisti, cattolici, socialisti, salandrini, giolittiani scelsero le loro linee di condotta in base alla logica della società politica. Ma nelle città come nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate rimasero sostanzialmente estranee al dibattito sull’intervento e mantennero un atteggiamento indifferente – talvolta intimamente ostile – verso la guerra ormai in atto. È un luogo comune riconoscere che il mondo contadino italiano non sentì la guerra. Bisogna dire altrettanto per il mondo cittadino, a dispetto delle manifestazioni interventistiche che animarono grandi e piccole città di ogni parte d’Italia durante gli ultimi mesi della neutralità. I rapporti che i prefetti inviarono al governo durante le «radiose giornate» di maggio confermarono l’ampiezza delle manifestazioni favorevoli all’intervento svoltesi 37

in molte città, ma al tempo stesso ne attestarono i notevoli limiti, sia perché le tendenze neutralistiche risultarono assolutamente prevalenti in Toscana, nel Piemonte, in alcune province lombarde e nell’Emilia (Parma esclusa), sia perché alle manifestazioni interventistiche partecipò spesso un numero niente affatto cospicuo di cittadini, in gran parte giovani studenti. 6 Si poté inoltre constatare che in molte località, soprattutto nel Mezzogiorno, le agitazioni in favore dell’intervento, più che esprimere una consapevole e ben determinata volontà di prender parte al conflitto europeo, avevano voluto rappresentare l’affermazione d’una tendenza di politica interna contro un’altra tendenza di politica interna: avevano avuto il preminente scopo di impedire la caduta del governo Salandra non perché esso fosse il governo della guerra, ma perché esso si opponeva al sistema giolittiano ed era guidato da un uomo politico meridionale. 7 Un attento esame dei rapporti dei prefetti dimostra insomma che il carattere delle giornate di maggio non fu quello di un impetuoso moto dell’opinione pubblica. Il consenso popolare all’intervento, certamente, anche se fu in molti casi notevole, conservò sempre un’impronta di parte e soprattutto un largo settore dell’opinione pubblica non si pronunciò, mantenendo un atteggiamento di prudente attesa. 8 Gli avvenimenti successivi fornirono ulteriori conferme dell’indifferenza del mondo cittadino. A metà giugno il ministro delle Colonie, Ferdinando Martini, partì alla volta di Firenze per accertarsi «della condizione delle cose in quella città, che o serba un’indifferenza poco patriottica, o si dimostra contraria alla guerra; indifferenti i signori nella massima parte: contrari alla guerra i teppisti, gli anarchici dei quartieri popolari di S. Croce e di San Frediano». 9 Lo scarso entusiasmo guerresco dei 38

fiorentini, in verità, era stato già notato durante le «radiose giornate». Molto più singolare fu rilevare i sintomi dell’indifferenza nella città che più di tutte le altre si era distinta durante la campagna interventistica, Roma: a metà maggio, era apparsa tutta protesa verso la guerra, tutta agitata e fremente nei cortei e nei comizi che avevano radunato decine e decine di migliaia di cittadini. Eppure, pochi giorni più tardi, un ufficiale francese, il col. François, inviò un rapporto sulle condizioni dello spirito pubblico nella capitale italiana, nel quale disse: «On ne croirait pas ici le moins du monde que l’Italie est en guerre […] La population ne paraît pas s’intéresser outre mesure aux événements […] C’est à peine si on en parle. Quand on le fait, c’est d’ailleurs avec la plus grande confiance. Les italiens ne paraissent pas avoir comme nous le sentiment d’une guerre à fond pour l’indépendence et la vie de la nation. Ils pensent plutôt peut-être à une grande Libye». 10 Le motivazioni degli stati d’animo erano diverse a seconda dei luoghi e degli ambienti sociali: diverse nelle città rispetto alle campagne, tra i «signori» rispetto ai proletari, nei luoghi dominati dai neutralisti, rispetto ai luoghi dominati dagli interventisti. Ma certamente il movimento delle «radiose giornate» aveva coinvolto solo delle minoranze e fin dal primo istante della guerra, dunque, nelle città come nelle campagne si sarebbe posto per il governo il problema di mobilitare, «di rallier le masse alla causa nazionale», per usare le stesse parole di cui si era servito Claudio Treves scrivendo il 5 giugno a Salandra. 11 La guerra europea, difatti, non assomigliava per nulla alle brevi campagne del passato, affidate alla perizia degli eserciti professionali, e richiedeva al contrario la partecipazione di tutti i cittadini, uomini e donne, sia negli eserciti accresciutisi smisuratamente, sia nelle officine e nei campi impegnati alla

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produzione. La guerra europea, insomma, era e sarebbe stata, anche per gli italiani, guerra totale, guerra di masse. Da questo punto di vista l’Italia risultava essere una nazione ancora giovane e impreparata alla grande prova rispetto alle altre nazioni europee più progredite. Le masse, infatti, avevano cominciato ad essere presenti soltanto da poco tempo nella realtà politica e sociale del Paese. Un rapido processo di trasformazione economica e sociale si era già sviluppato nel corso dell’anteguerra, durante la cosiddetta età giolittiana, e la fase del decollo economico poteva già dirsi compiuta fra il 1894 e il 1913. Rapide trasformazioni si erano verificate anche in campo politico, come viene dimostrato da alcuni significativi dati elettorali, poiché da 1.903.000 votanti alle elezioni generali del 1909, si era passati a 5.100.000 alle elezioni del 1913. 12 L’attiva partecipazione alla vita politica, tuttavia, restava ancora limitata ad un numero assai ristretto di persone: nel 1914 il Partito socialista dichiarava di avere 1.300 iscritti a Milano, 950 a Torino, 530 a Roma, 110 a Napoli, appena 25 a Palermo. 13 Più ampia era la partecipazione dei lavoratori alla vita sindacale, con una Confederazione Generale del Lavoro, guidata dai riformisti, la quale nel maggio 1914 raccoglieva ormai circa 250.000 iscritti (ma che restava ancora lontanissima dai 2 milioni e 200.000 aderenti del marzo 1921). 14 Se le masse organizzate, dunque, avevano cominciato ad essere presenti nella società italiana già prima del 1915, esse non avevano però ancora assunto quell’importanza che effettivamente assunsero più tardi, negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra. Nel 1915 il processo di trasformazione dell’Italia in una vera e propria società di massa era già cominciato, ma nella grande maggioranza dei dirigenti politici mancava ancora la capacità di

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padroneggiare e forse anche di immaginare le nuove tecniche di governo imposte dal nuovo tipo di società. Non c’è da stupire se nel 1915 Salandra e gli uomini a lui vicini non seppero o non vollero valutare l’importanza di una mobilitazione delle masse. Un siffatto errore di valutazione dipese dai motivi che sono stati fin qui esposti: dall’educazione politica di quei dirigenti, dal loro intimo disagio nei confronti della società nuova. Accettare o addirittura promuovere il nuovo ruolo delle masse avrebbe significato, da parte di quei dirigenti, abbandonare le concezioni politiche nelle quali continuavano a credere e per le quali, in ultima analisi, avevano favorito l’intervento. Salandra decise di scoraggiare le offerte di collaborazione fattegli da Turati e Treves, poiché agì in lui la preoccupazione di restare prigioniero di una coalizione che dagli interventisti di sinistra giungesse fino ai ben più organizzati e potenti socialisti. Ma Salandra e le forze conservatrici che lo sorreggevano avevano voluto la guerra anche per sconfiggere i socialisti, anche per allontanare definitivamente dal potere Giolitti e porre termine alla politica della mano tesa già condotta da Giolitti verso le forze di sinistra. Poteva adesso Salandra proseguire quella politica ed in forme ancor più radicali? Il fatto è che nelle previsioni di quasi tutti, e certamente nelle previsioni di Salandra, la guerra sarebbe dovuta durare pochi mesi, per concludersi con la piena vittoria italiana. A quel punto proprio lui, Salandra, sarebbe stato l’uomo della vittoria con il Paese ai suoi piedi e le leve del potere saldamente in mano: una anticipata consultazione elettorale avrebbe facilmente trasformato la Camera giolittiana in un nuovo e più docile consesso. Per attuare questo illusorio disegno, il presidente del Consiglio si appoggiava alle forze conservatrici, escludendo dal gioco i socialisti. Né, d’altra parte, esistevano preoccupazioni di tipo «patriottico» che potessero indurlo a rivedere la sua linea di condotta accettando le 41

offerte dei riformisti: secondo il presidente del Consiglio, infatti, l’adesione dei socialisti alla guerra non sarebbe stata rilevante per fortificare il Paese ed affrettare la vittoria. Questa sarebbe venuta comunque, ed anche presto, dato che l’esercito austriaco non veniva giudicato in grado di opporre valida resistenza. Perché dunque consentire ai socialisti di partecipare alla spartizione di un così facile bottino? Per Salandra la formula del «non aderire né sabotare» poteva bastare ed anzi, a ben riflettere, era senz’altro quella che più rispondeva al suo disegno politico poiché, grazie ad essa, i socialisti non diventavano i nemici dai quali temere un danno, ma neppure gli amici ai quali aprire un credito. Pur lasciando cadere l’intesa con i riformisti, il governo avrebbe sempre potuto agire con energia nel campo della propaganda e della mobilitazione politica del Paese, assumendo quelle iniziative che la situazione richiedeva. Ma pressoché nulla fu allora compiuto e prevalse la routine, immaginandosi erroneamente che anche nel campo dell’opinione pubblica, come in altri campi, fosse sufficiente l’ordinaria amministrazione accompagnata da qualche misura di carattere eccezionale. Dominava ovunque un’idea falsa di ciò che la guerra sarebbe effettivamente stata: non soltanto fra gli uomini della strada, ma anche fra coloro che avevano la responsabilità delle decisioni maggiori l’idea prevalente restava quella di «una grande Libia». Francesco Saverio Nitti ha lasciato scritto nelle sue memorie che in una calda sera dell’agosto 1915 egli incontrò il presidente del Consiglio il quale camminava lentamente per via Nazionale, a Roma, risalendo verso piazza Termini. «Sapevo» scrisse Nitti «che ogni sera, seguito a distanza da alcuni agenti, egli per ragioni igieniche

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faceva metodicamente la stessa passeggiata per rientrare a casa sua in via Carducci. Pensavo che Salandra preferiva rimanere solo, come era sua abitudine e suo desiderio, e mi limitai a salutarlo amichevolmente. Invece mi venne incontro; mi domandò se ero libero e se volevo accompagnarlo. Mi chiese di me e dei miei e degli amici comuni, volle ancora ringraziarmi della mia spontanea adesione alla guerra. E poi si parlò della guerra. Io evitavo di dirgli cosa alcuna che potesse dispiacergli; poi che in quel momento avevo risoluto di non creare difficoltà al governo. Fu egli stesso che mi disse che le cose procedevano bene, quantunque gli Austriaci avessero mostrato un’organizzazione e una resistenza maggiori di quello che si poteva supporre nei primi giorni. Io gli osservai che la guerra non poteva essere breve, che bisognava attendersi più grandi difficoltà. Mi chiese subito: “Hai sempre le stesse visioni pessimistiche? […]”. Io gli risposi che non ero pessimista e credevo alla vittoria finale, ma che mi rendevo conto della realtà. E a mia volta gli chiesi: “L’inverno sarà duro nelle Alpi. Hai provveduto completamente agli approvvigionamenti invernali per l’esercito?” Si fermò di botto. Eravamo sotto un fanale. Ricordo ancora la sua impressione di sorpresa e la sua aria diffidente. Mi disse: “Il tuo pessimismo è veramente inesauribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?” E aggiunse: “Ma quali elementi ti dànno questa convinzione?”. 43

Io ero un lettore assiduo della stampa finanziaria inglese e americana e seguivo in essa, più che nei giornali politici, le notizie che riguardavano le grandi organizzazioni industriali. Ero al corrente della stampa e dell’azione finanziaria di Wall Street. Fra le cose che mi avevano più colpito era il fatto che il governo inglese aveva impegnato la produzione delle grandi acciaierie americane non solo per il 1915, ma anche per gli anni seguenti. Era per me una delle prove più sicure che il governo di Londra credeva in una guerra di lunga durata. Lo informai delle cose che erano a mia conoscenza. Salandra rimase un po’ sorpreso. Ma poi si limitò a dirmi con aria scettica: “Si vede che gli Inglesi hanno molto danaro da perdere. Comperano per impedire che altri comperi. Ma la guerra non può essere lunga”.» 15 Certamente il governo italiano comperava molto poco e non si era preoccupato in tempo delle forniture invernali, il cui acquisto sarebbe stato consigliato da una elementare regola di prudenza. «Ad un industriale milanese che disponeva di alcuni fra i più importanti opifici per la confezione di pelliccerie,» ha recentemente ricordato il prof. A. Pincherle «quando nel giugno e nel luglio [del 1915] presentò offerte di giubbe, cappotti, sacchi a pelo da consegnare nell’autunno, fu più volte risposto negativamente, e quasi con scherno. Questo lo so bene, perché quell’industriale era mio padre.» 16 L’incomprensione verso coloro che ardivano parlare di guerra dura e lunga stava appunto a dimostrare come l’atmosfera da guerra civile delle «radiose giornate» si fosse dissolta in un superficiale ottimismo. Lo stato d’animo prevalente era quello di un’attesa passivamente fiduciosa. Non mancava l’angoscia nelle 44

famiglie che avevano visto i congiunti partire per il fronte, ma pochi ebbero davvero coscienza dei rischi e della gravità dell’impresa alla quale l’Italia si era accinta. Come ricordò il Volpe: «Si aveva della guerra, in generale, solo quel vaghissimo sentore che si può avere di cose non conosciute, non sentite». 17 Molti cittadini, nel maggio, avevano esposto il tricolore, con l’intenzione di lasciarlo sui balconi fino al giorno della imminente vittoria. Nelle strade di Milano, in agosto, sventolavano ancora una quantità di bandiere divenute quasi irriconoscibili: i verdi si erano ingialliti, i rossi sbiaditi, i bianchi anneriti. 18 3. Anche i soldati partirono senza sapere quale spaventosa esperienza la guerra fosse già in altri fronti europei. Si avviarono e parteciparono ai primi combattimenti con uno spirito nel complesso molto elevato. Dal punto di vista delle condizioni morali, anzi, quello iniziale fu il periodo più felice di tutta la guerra. Questo stato d’animo di reale partecipazione alla grande impresa nazionale poté diffondersi tra i soldati nonostante il clima di discordia civile che aveva preceduto l’intervento: il riassunto delle operazioni sull’Isonzo, pubblicato dal Comando supremo il 28 giugno 1915, affermò che lo spirito combattivo delle truppe doveva, talvolta, essere frenato, tanto era l’entusiasmo per l’attacco, malgrado le perdite subìte e il pericolo gravissimo, 19 non si trattava di espressioni troppo enfatiche, poiché ovunque, nelle cronache e nei diari, le testimonianze concordano nel celebrare quello che venne più tardi chiamato «il sacro entusiasmo del ’15», nel quale parve rinascere lo spirito garibaldino degli avi. Tale fervore lo si riscontrò naturalmente in una minoranza: soprattutto fra gli ufficiali e i soldati appartenenti alle correnti interventistiche, fra gli intellettuali del Partito nazionalista, di 45

quello radicale e della sinistra repubblicana e riformista, che si trovavano alle armi con le classi di leva o che avevano deciso di partire volontari, come F. Corridoni, A. De Ambris, E. Chiesa, e come Leonida Bissolati, sergente degli alpini prossimo ai sessant’anni. Costoro credettero di dover affrontare una guerra proprio per nulla dissimile da quella che gli avi avevano combattuta nel Risorgimento. «L’idea che vado alla guerra» scrisse Giosuè Borsi partendo per il fronte «mi esalta e mi riempie d’esultanza. Sono felice d’andare a combattere. Chi m’avrebbe detto che un giorno sarei andato incontro alla morte come Mameli, Manara, Medici; che avrei combattuto in una guerra del Risorgimento, con lo stesso animo dei garibaldini, con le loro stesse canzoni, contro lo stesso nemico!» 20 Quasi tutti i soldati, in verità, immaginavano la guerra così come l’avevano vista rappresentata nei quadri storici e nelle litografie popolari, pensando che sarebbero andati all’assalto con accompagnamento di bandiere e fanfare (tanto è vero che durante le prime settimane fanti e alpini si avviarono contro il fuoco nemico proprio così, con bandiere e fanfare). 21 Ci sarebbero state due o tre grandi decisive battaglie e poi, prima dell’inverno, quella fine vittoriosa che era nelle speranze di ognuno. L’entusiasmo si diffondeva insieme con queste false idee e se l’incitamento risorgimentale poteva far presa su un numero limitato di combattenti, la previsione di una guerra facile e di breve durata contribuiva a rendere accettabile – se non addirittura attraente – l’avventura alla grande maggioranza dei tiepidi e degli indifferenti. Nei primi giorni di guerra i soldati si esponevano al rischio della vita per raccogliere i bossoli delle granate austriache: volevano avere un ricordo del fronte «come se la guerra dovesse cessare in quei giorni ed essi temessero di

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dover tornare in paese senza quei preziosi cimeli». 22 Mai più, nel corso della guerra, si riprodusse l’eccitazione a volte epica a volte semplice ed ingenua dei primi giorni, dalla quale tutti furono in qualche modo contagiati, anche i militari socialisti, anche la grande massa priva di precisi orientamenti. Un fante toscano dal cognome straniero, Curzio Suckert, più tardi divenuto famoso con lo pseudonimo di Malaparte, spiegò come la grande massa dei fanti contadini non soltanto non sapesse, ma neppure si preoccupasse di sapere per quali ragioni quella guerra era combattuta: «Il loro semplicismo d’ignoranti e di povera gente non ammetteva disquisizioni e teorie. Quando si parlava loro di fratelli e di civiltà da salvare, la loro mentalità non subiva scosse. La patria era una concezione estranea alla loro facoltà di raziocinio; Trento e Trieste erano creazioni mitiche di cui si era molto parlato negli ultimi tempi, ma che non riuscivano a commuoverli troppo. […] La profonda ignoranza delle nostre masse non ammetteva complicazioni storiche o geografiche. Quando gli ufficiali ci spiegavano le ragioni ideali della nostra guerra e la necessità di schiacciare la barbarie e il militarismo degli Imperi Centrali, i soldati ascoltavano con profonda attenzione: ma non ne capivano niente. I pochi che riuscivano ad afferrare, all’ingrosso, il senso del discorso, lo dimenticavano subito. Il voler insistere sarebbe stata fatica sprecata: che importava ai soldati di sapere per quale ragione si faceva la guerra? L’essenziale era questo: bisognava farla, se no… V’erano certi paragrafi del Regolamento che i soldati sapevano a memoria». 23

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Del resto, dopo l’eccitazione dei primi momenti, uno stato d’animo di rassegnazione dominò la grande massa dell’esercito, come apertamente riconobbero scrittori e memorialisti. Lo ripeté nel 1934 l’Omodeo, pubblicando i Momenti della vita di guerra e scrivendo che la guerra del popolano era sentita come un fatto di natura simile alla vicenda delle stagioni: sarebbe passata, ma ci voleva pazienza; per il contadino, infatti, la guerra era un male, un castigo dei peccati: «Ma, una volta scatenatosi il flagello, lo accettava e lo sopportava virilmente, come il buon agricoltore regge alla tempesta e al solleone». 24 Concetti analoghi aveva espressi il Serpieri, ricordando che il 24 maggio del 1915 «fra i contadini, solo piccoli nuclei di quelli emiliani e romagnoli, seguaci dei sindacalisti e repubblicani, partirono pieni di entusiastico ardore per la guerra (non mancarono fra essi varie centinaia di volontari) – tutti, peraltro, vi andarono senza resistenza. Questa» commentava il Serpieri «è la saggezza profonda dell’anima rurale; l’oscuro istinto che esistono forze superiori alle quali occorre piegarsi e ubbidire». 25 Ma stati d’animo davvero molto simili si ripeterono negli eserciti di tutti i paesi belligeranti. Coloro i quali hanno studiato i diversi aspetti del fenomeno della guerra hanno tratto, a questo proposito, conclusioni generali valevoli ovunque. Gaston Bouthoul, il sociologo francese che ha dedicato ampi studi alla polemologia (la scienza della guerra in quanto fenomeno sociale), ha scritto che in ogni guerra la dominante psicologica del coscritto è la rassegnazione, accompagnata o meno dalla fermezza, dal coraggio, dall’indignazione. 26 Nondimeno nei primissimi tempi della grande guerra fu possibile notare – come appunto in Italia – il diffondersi di una certa eccitazione, capace di animare un po’ tutti, anche i meno sensibili ai richiami del patriottismo. La guerra, infatti,

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introdusse gli individui in un nuovo universo psicologico, nel quale risultarono profondamente sconvolti i princìpi morali fino a quel momento riconosciuti. Anche i civili furono partecipi di questo generale sconvolgimento, ma ne furono colpiti soprattutto i militari, sui quali vennero contemporaneamente ad agire sia i mezzi coercitivi dei quali ogni esercito dispone, sia i valori di cameratismo e solidarietà propri ai combattenti, sia i naturali fattori agonali e ludici che tendono sempre a manifestarsi con l’esercizio delle armi. Gli uomini che entravano a far parte dell’esercito indossavano eguali divise, impugnavano le stesse armi, ricevevano lo stesso rancio e affrontavano comuni pericoli. La vita di ognuno si svolgeva nell’ambito di un gruppo (compagnia, battaglione, reggimento) caratterizzato da vincoli comuni: ciascuno si sentiva accomunato agli altri dagli stretti contatti quotidiani, dal senso di reciproca vicinanza e dall’idea di un eguale destino. La guerra era il rischio di tutti, dove la vita del singolo dipendeva dalle azioni degli altri, dove entravano in competizione i valori schiettamente virili del coraggio e della forza. Al momento della prova ognuno era accompagnato, osservato e giudicato dal suo vicino. Anche se le ragioni della guerra potevano non essere percepite, tutto un insieme di elementi continuavano pur sempre a favorire lo stabilirsi di vincoli di solidarietà e di emulazione. Inoltre la guerra era occasione di sfogo per gli istinti più diversi; per quelli aggressivi, naturalmente, ma anche per quelli agonali e ludici. Secondo il Bouthoul, anzi, la guerra sarebbe, da un punto di vista etnologico, la festa suprema: «Oppure, con più esattezza […] la festa vera e autentica, quella che si fa senza tanti riguardi e senza ritegno e in confronto alla quale le altre forme di festa non sono che pallide imitazioni». 27 Lo storico olandese J. Huizinga si occupò del rapporto tra guerra e gioco nel suo Homo ludens, ed

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avvertì che la teoria della guerra totale aveva distrutto gli ultimi resti della funzione culturale della guerra e, dunque, della sua funzione ludica. Ma, a ben osservare, lo stesso Huizinga non avrebbe completamente escluso la presenza di questa funzione per quanto si atteneva ai primissimi tempi della conflagrazione del 1914-18, dato che ogni guerra conservava una funzione culturale finché era condotta fra gruppi che si riconoscevano pari nel valore o almeno pari nel diritto, che cioè ammettevano le restrizioni del diritto internazionale e rivelavano l’aspirazione di mantenere la guerra nella sfera della civiltà. 28 Per l’Italia del maggio 1915, sotto questo riguardo, non ci pare possano sussistere dubbi: il ritardo con il quale si diffusero le idee e la pratica della guerra totale, lo spirito risorgimentale e garibaldino che animò all’inizio tanti combattenti, il riconoscimento delle qualità dell’avversario («Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi» disse Vittorio Emanuele III nel proclama del 24 maggio), furono tutti elementi i quali attestarono la presenza di quei valori «culturali» che fino ad allora le guerre avevano continuato a possedere. C’è da sottolineare infine che nella misera Italia del 1915 il servizio militare comportò per moltissimi soldati un cambiamento radicale nelle abitudini di vita. L’Italia non aveva assunto ancora le caratteristiche della «società dei consumi» ed era invece in grandissima parte popolata da analfabeti o semianalfabeti, da modestissimi contadini, operai, artigiani che vivevano spesso in condizioni di indigenza e per i quali la soluzione di problemi elementari, come il vitto quotidiano o il vestiario, si poneva talvolta in termini drammatici. È da tener conto poi delle rarissime occasioni che a costoro si offrivano per muoversi, viaggiare, distrarsi. In tali condizioni il servizio militare costituiva spesso un’avventura, qualcosa che rompeva la

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monotonia e la meschinità della vita quotidiana, che consentiva di conoscere luoghi ed uomini nuovi, di mangiare e vestirsi secondo le proprie necessità, e talvolta perfino di assicurare alla famiglia un vantaggio economico grazie ai pur magrissimi sussidi previsti dalle leggi. Tutto ciò valeva anche in tempo di guerra, specialmente agli inizi, quando i combattimenti non avevano ancora rivelato il vero volto dell’avventura che cominciava. 29 4. Di fronte all’entusiasmo degli interventisti, all’emozione che animava la grande massa, alle speranze e alle illusioni che la guerra ovunque suscitava, anche i soldati socialisti fecero la loro scelta. Si potrebbe dire che questa scelta l’aveva già compiuta il loro partito adottando l’equivoca formula del «non aderire né sabotare», che, se poteva essere variamente interpretata da parte degli iscritti restati nel Paese, lasciava invece poche alternative agli iscritti chiamati alle armi. Quale interpretazione pratica poteva essere data a quella formula da parte del fante socialista armato di fucile, esposto insieme con i suoi commilitoni al fuoco nemico ed assoggettato inoltre alla rigida disciplina dell’esercito combattente? Dal momento in cui l’intervento fu irrevocabilmente deciso – con il ritiro delle dimissioni di Salandra – le reclute socialiste partenti per il fronte cessarono dal manifestare contro la guerra. Una volta raggiunta la linea del fuoco, i soldati socialisti stupirono tutti, anche i più prevenuti, per l’impegno con il quale parteciparono ai combattimenti. Gli onorevoli F.L. Pullè e G. Celesia di Vegliasco, quest’ultimo sottosegretario agli Interni, il gen. E. De Rossi, comandante del 12° bersaglieri, ricordarono nei loro diari come si fosse trasformato al fronte lo spirito dei combattenti di idee neutralistiche. Lo stesso sen. Pullè, nel discorso pronunciato in Senato durante la seduta del 16 51

dicembre 1915, spiegò che i socialisti erano ottimi combattenti, e che anzi «il cosciente socialista è il patriota più convinto e perfetto. E compie, per convinzione, nell’ora che passa, questo suo dovere». 30 Il radicale interventista on. Gasparotto, ufficiale di fanteria e futuro ministro della Guerra, dichiarò che quando il suo reggimento, il 154°, aveva lasciato Varese non si era udito che un grido: abbasso la guerra! «Oggi invece» riferì Gasparotto nel suo diario alla data del 26 agosto «questi giovani spregiudicati, questi ex emigranti, messi a contatto della realtà, e soprattutto fatti persuasi della sapiente e possente preparazione austriaca alla guerra, sono diventati dei soldati magnifici.» 31 Il comandante del reggimento, che li aveva «odiati» per il grido pacifista di Varese, era invece rimasto commosso ed entusiasta dopo averli visti all’attacco. Destarono stupore specialmente i combattenti romagnoli. Un ufficiale parlò di loro in alcune lettere del giugno-luglio 1915, sottolineando come quei soldati, «già dimentichi del rivoluzionarismo paesano, abbraccianti con entusiasmo la causa della patria», muovessero all’assalto con «un diluvio di bestemmie rabbiose conio bassa Romagna». 32 La Federazione giovanile socialista aveva fama di essere orientata molto a sinistra, ma il 6 giugno 1915 l’«Avanguardia», organo di quella Federazione, dichiarò che, nell’«interesse supremo della Nazione», anche i giovani socialisti avrebbero «cooperato materialmente e moralmente al miglior esito della guerra», che compagni e lavoratori erano «costretti» a combattere. Quei giovani tennero fede al loro impegno, tanto che molti circoli sparsi nelle diverse province ed aderenti alla Federazione furono costretti a chiudere i battenti perché gli iscritti erano partiti tutti o quasi tutti per la guerra. Sull’«Avanguardia», accanto a grandi spazi sbiancati dalla censura, comparvero lunghi elenchi di caduti. Nel luglio 1915

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morì in combattimento lo stesso segretario nazionale della Federazione: Amedeo Catanesi. 33 L’atteggiamento dei combattenti socialisti trasse origine certamente dalla viva esperienza di guerra da essi compiuta, e fu in quel momento non poco facilitato dal duttile comportamento dei dirigenti riformisti. Il caso del comune socialista di Bologna fu da questo punto di vista assai sintomatico. Fin dal 17 maggio quel comune prese l’iniziativa di distribuire generi alimentari alle famiglie dei richiamati, e il sindaco Zanardi si accordò con il Comitato di preparazione civile, al quale aderivano i più accaniti avversari del socialismo bolognese, per stabilire quali iniziative assistenziali dovessero essere avviate in favore dei soldati e delle loro famiglie. Ben più significativo quello che accadde, sempre a Bologna, il 24 maggio; la giunta comunale socialista rivolse un appello alla cittadinanza: «Salutiamo i più validi che partono verso i campi di battaglia a preparare l’auspicata vittoria; ci rivolgiamo a quelli che restano ad invocare cooperazione, perché la vita civile continui calma e dignitosa, e si affermi consolatrice delle famiglie in angoscia e rassicuratrice ai lontani che non invano essi compiranno il loro dovere.» e il sindaco – come già dicemmo al principio di questo capitolo – ordinò di esporre il tricolore sulla torre di Palazzo d’Accursio fino a che, si badi, la guerra non fosse terminata: «Coerente a sue precedenti dichiarazioni, il sottoscritto, mentre riafferma che il proletariato, avverso alla guerra per ragioni teoriche e pratiche, deve, dopo che questa è dichiarata, difendere il proprio Paese perché non si aggiunga alle ingiustizie del presente 53

sistema la schiavitù politica a dominatori stranieri; ordina che, in omaggio ai lavoratori combattenti e come augurio di pronta vittoria, venga esposta la bandiera alla torre del Palazzo Comunale fino al giorno in cui una pace dignitosa e rispondente agli interessi della Nazione, riconsacri il trionfo della giustizia immortale del lavoro». 34 Le prime esperienze di guerra non modificarono lo stato d’animo dei socialisti bolognesi. Alla fine di luglio lo Zanardi, insieme con altri due deputati del suo partito, gli onorevoli Treves e Bentini, si recò a visitare la zona di guerra. Al suo ritorno il sindaco, intervistato da un redattore del «Resto del Carlino», riferì le sue impressioni: «I soldati con i quali ci siamo intrattenuti sono gli stessi che partecipano alle battaglie proletarie di carattere economico e politico, intorno alle quali così vivo è il contrasto… in tempo di pace; ma la loro ben nota avversione alla guerra non li dispensa sui campi di battaglia dal compiere tutto il loro dovere; e ciò non per una disciplina coatta, ma per un profondo e nobilissimo sentimento; essi sentono di dover impedire in questo momento, non voluto né desiderato, la vittoria dei nemici, che, diminuendo nel presente sistema economico le virtù di resistenza della patria comune, creerebbe una situazione politica più dannosa ancora agli interessi delle classi lavoratrici. Questo senso di responsabilità diffuso anche fra i più umili operai li rende disciplinati e coraggiosi sui campi di battaglia, il che del resto è confermato dalle concordi dichiarazioni degli ufficiali, i quali lodano i soldati emiliani, che 54

chiamano la milizia rossa, per la serenità con la quale affrontano tutti i pericoli della guerra; Molinella stessa [una riga censurata] lascia sui campi di battaglia morti e feriti [cinque righe censurate]». Il sindaco di Bologna volle poi ricordare l’incontro avuto dalla delegazione socialista con l’on. Bissolati, che era stato ferito: «con l’illustre uomo – cioè – per il quale, pur dissentendo», non si poteva avere altro che «profonda simpatia». 35 5. Al suo inizio, dunque, la guerra riservò talune sorprese, poiché rapidamente essa facilitò la partecipazione della grande massa dei militari rimasti assenti dal dibattito sull’intervento, e perfino di quella minoranza che al dibattito aveva preso parte per difendere l’idea della neutralità. Ma le sorprese riguardarono anche il campo degli interventisti, poiché in mezzo alle loro file cominciò a verificarsi un fenomeno inverso, cominciò cioè a scemare l’entusiasmo iniziale che durante le giornate di maggio aveva tanto contribuito a sospingere l’Italia verso la grande prova. I motivi furono numerosi: 1) a tutti gli interventisti, anche ai moderati, anche ai nazionalisti, fu impedito di svolgere una qualunque opera di propaganda fra i soldati; 2) gli interventisti di sinistra, i repubblicani ed i socialisti rivoluzionari furono addirittura trattati nell’esercito come sorvegliati speciali; 3) il fenomeno del volontariato venne di fatto scoraggiato dai comandi e dal governo; 4) l’accoglienza da parte delle popolazioni residenti oltre i confini orientali non fu delle più cordiali, e i militari interventisti, che al riguardo avevano coltivato le maggiori illusioni, furono i più delusi. Già nei giorni immediatamente precedenti la dichiarazione di guerra uno dei capi del Partito nazionalista, l’on. Federzoni, aveva offerto la sua collaborazione al Comando supremo per svolgere 55

opera di propaganda fra le truppe, ma aveva ricevuto un netto seppure cortese rifiuto. Il vice capo di stato maggiore dell’esercito, gen. Porro, ebbe occasione di parlarne il 21 maggio con l’on. Gasparotto, al quale disse testualmente: «È meglio che i parlamentari serbino la loro eloquenza al Paese, che avrà bisogno di essere fortemente sostenuto. Alla cura d’anime, per quanto riguarda l’esercito, provvederemo noi…». 36 Enrico Corradini, anch’egli eminente uomo politico nazionalista, tornò in luglio dal fronte, «dove nella sua qualità di automobilista volontario non gli riesciva far nulla. Ha preferito tornarsene» scrisse il ministro Martini nel suo diario. «Pare che al Comando abbiano in progetto un giornaletto fatto esclusivamente per i soldati. Potrebbe lui esserne il direttore. Gli prometto in ogni caso di aiutarlo nei suoi nobili desideri.» 37 Ma nonostante le promesse quei desideri non si realizzarono. Le offerte dei Federzoni e dei Corradini non erano bene accette ai militari che in generale diffidavano di tutto il mondo politico e sostenevano che la guerra era un fatto esclusivamente militare, da amministrare con criteri rigidamente militari. Tali regole di condotta erano allora sostanzialmente approvate in tutti gli eserciti europei, e nell’esercito italiano erano rigidamente applicate, sia per la profonda sfiducia con la quale il comandante supremo guardava alla vita politica e civile del Paese, sia per la diffidenza con la quale, nonostante tutto, il governo considerava larga parte dell’interventismo. Salandra (come Sonnino) non amava gli interventisti più accesi e, in particolare, gli interventisti democratici: non condivideva la loro concezione della guerra e li temeva. 38 In pratica, fin dal primo momento, fu impedito a tutte le forze politiche favorevoli alla guerra, della destra come della sinistra, di far sentire la propria voce in seno all’esercito. Del tutto

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sporadicamente, in occasione di qualche cerimonia o alla vigilia di qualche azione pericolosa, i comandi si rivolgevano all’intellettuale, al letterato, all’avvocato interventista che ora vestiva panni di ufficiale, affinché pronunciasse un discorso d’incoraggiamento patriottico ai commilitoni, ma in nessun modo si verificò qualcosa che potesse far pensare ad una attività meditata e concertata di propaganda, sia pure sotto il più severo controllo delle autorità militari. 39 Gli interventisti di sinistra, che a maggio tanto avevano influito per trascinare l’Italia all’intervento, una volta entrati nell’esercito furono considerati «sovversivi», e come tali messi a tacere. Il 10 giugno 1915 il gen. Zupelli, ministro della Guerra, inviò disposizioni ai comandi di corpo d’armata, di divisione e di reggimento per impedire agli interventisti rivoluzionari qualsiasi forma di propaganda: «È a conoscenza di questo ministero che a mezzo di riunioni, tenute in qualche centro importante e segnatamente a Milano, dei fasci rivoluzionari interventisti siasi fatta una vivace propaganda fra i fascisti richiamati od arruolati volontariamente sotto le armi perché si adoperino a diffondere largamente fra i soldati la propaganda rivoluzionaria, sia pur raccomandando loro di combattere intanto valorosamente contro gli imperi centrali. A capo di tale movimento sarebbe il prof. Mussolini, direttore del «Popolo d’Italia», il quale dovrebbe fra poco partire per il servizio militare […] È indispensabile che con oculate ed energiche disposizioni sia provveduto ad impedire in modo assoluto che tale insana propaganda possa ovunque penetrare nelle file dell’esercito». 40 Alcuni mesi più tardi fu vietato a Mussolini di partecipare al 57

corso allievi ufficiali, ed analogo divieto colpì moltissimi altri interventisti. Se ne lamentò già nel luglio 1915 l’on. Comandini con il ministro Martini: figli di repubblicani, repubblicani essi stessi, erano stati esclusi dalle scuole di Modena o dagli esami per ufficiali di complemento soltanto a causa delle loro convinzioni politiche. 41 L’idea che gli interventisti potessero costituire speciali battaglioni volontari suscitò la più accesa opposizione non soltanto fra le autorità militari ma anche fra quelle politiche. Iniziative per la costituzione di speciali corpi volontari erano state promosse fin dagli ultimi giorni del 1914 in numerose città italiane. A Genova, a Bologna e a Padova, per esempio, era stata proposta la costituzione di battaglioni universitari autonomi e in moltissime città erano stati formati nuclei di aspiranti volontari desiderosi di dar vita a battaglioni «garibaldini». Alla vigilia della dichiarazione di guerra, proprio durante la riunione del 23 maggio, il Consiglio dei ministri esaminò la questione decidendo di non consentire la formazione di corpi volontari autonomi: sembrò troppo pericoloso armare un nucleo di dodici o quindicimila repubblicani, quanti appunto secondo le previsioni sarebbero stati gli appartenenti a tali corpi. 42 I fratelli Garibaldi, che avevano costituito in Francia la legione italiana e che tornati in patria avevano tentato di promuovere altre autonome iniziative, dovettero entrare a far parte dell’esercito regolare, mentre il ministro degli Interni continuò a restare sul chi vive per impedire qualunque arruolamento a cura di associazioni o comitati «professanti princìpi sovversivi, segnatamente repubblicani». 43 Ed i volontari, pertanto, furono sparpagliati in diversi reparti dell’esercito, se si eccettua un nucleo di una certa consistenza che fece parte della brigata Alpi, nella quale fu arruolato anche Peppino Garibaldi con il grado di tenente

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colonnello. La diffidenza verso i corpi volontari era anzitutto un fatto politico ma, in un esercito come l’italiano, fondato sulla coscrizione obbligatoria, trovava anche altre spiegazioni di natura tecnico-militare, sia perché non si voleva costituire una categoria di più meritevoli e quindi di privilegiati, sia perché nelle iniziative volontaristiche fiorite durante la primavera del ’15 c’era molta improvvisazione e faciloneria. «Bisogna essere sinceri,» scrisse il gen. De Bono nei suoi ricordi «in principio i volontari furono tutt’altro che ben ricevuti nei Corpi. I superiori, memori di alcuni exploits di indisciplina manifestatisi nella Legione delle Argonne e con insipienza esaltati dalla stampa, temevano di avere in loro degli elementi turbolenti capaci di dare il malo esempio agli altri.» 44 Sta di fatto, in ogni caso, che il numero dei volontari risultò essere percentualmente molto basso: una statistica pubblicata dal ministero della Guerra nel 1927 indica la cifra di 8.171 volontari su un totale di 4 milioni e 200.000 armati. 45 Per valutare esattamente tale cifra, tuttavia, si deve tener conto del fatto che ai giovani idonei al servizio militare non fu consentito di arruolarsi volontari, poiché nel maggio del ’15 le loro classi già erano state oppure si trovavano sul punto di essere chiamate alle armi, come ad esempio accadde a Benito Mussolini, appartenente alla classe 1883. 46 I fratelli Garibaldi descrissero le difficoltà incontrate per raggiungere il fronte e il fallimento del loro disegno: «I nostri volontari che affluivano al deposito di Perugia, con un pretesto o l’altro furono incamminati in altri depositi; tutto ciò che era garibaldino e che rappresentava la quintessenza della nostra forza era bandito dal nostro reggimento, e noi stessi Garibaldi ci sentivamo a disagio in un esercito che era poi il nostro». 47 L’epistolario di Cesare Battisti illustra con evidenza le numerose e 59

gravi contrarietà che lui stesso e gli altri volontari trentini irredenti incontrarono nell’esercito italiano. Si cercò di impedire che diventassero ufficiali, mentre fu loro concessa con grande facilità la riforma per allontanarli dal fronte (ma anche perché non avevano effettivamente resistito alle fatiche di guerra). «Quanti tipi giovani e forti io ho visto deperire!» scrisse Battisti il 25 luglio del ’15. «A Edolo eravamo 62 volontari. Ora sai a quanti siamo ridotti? A meno di trenta! […] La vita del campo, e pel cibo, nutriente ma non adatto ai nostri ventricoli, e per la necessità di dormire sulla nuda terra, e per le lunghe veglie, è faticosa. Non ha nulla a che vedere con la vita di caserma, né con lo sport.» 48 Nell’agosto espresse un più severo giudizio: «In genere i profughi trentini hanno fatto, come soldati, cattiva prova. Alcuni che potrebbero sopportare le fatiche […] non si sono arruolati […] Altri hanno finito dopo una settimana di campo negli ospedali. Nessuno che io mi sappia si è in qualche modo distinto». 49 Nel settembre precisò che i trentini si erano oramai ridotti a 7 o 8. Alcuni erano andati alla scuola allievi ufficiali, ma non riuscivano a conseguire il grado: in ottobre Battisti si dichiarò convinto che la mancata nomina ad ufficiale di tutti i volontari del battaglione Edolo era dovuta a un ostruzionismo «non casuale». 50 In novembre Battisti pensò addirittura che sarebbe stato allontanato dal fronte: «Vi è il progetto di mandare a casa tutti i volontari che non sieno graduati. Sarei quindi licenziato anch’io. E mi dorrebbe». 51 Le testimonianze sulla depressione morale di coloro che avrebbero dovuto essere gli alfieri dell’interventismo in seno all’esercito proseguiranno numerose nel corso della guerra. Prezzolini, dopo Caporetto, protesterà perché i volontari erano stati assai maltrattati dai superiori. 52 Padre Gemelli, nel corso stesso della guerra, affermerà: «Coloro che dànno il minimo 60

numero di atti eroici sono i volontari. E lo si capisce. La loro preparazione è troppo affrettata». 53 Ancora nel gennaio 1916 Cesare Battisti, poche settimane prima di morire, scriverà da Verona: «Si parla tanto male quassù dei trentini, che un riconoscimento ufficiale del loro contributo sarebbe non solo utile, ma necessario». 54 Mentre dunque la guerra facilitò inizialmente la partecipazione della grande massa dei combattenti rimasti assenti dal dibattito sull’intervento e perfino di quelli appartenenti alle correnti neutraliste, proprio gli interventisti subirono le peggiori frustrazioni. A quanto finora si è detto occorre aggiungere lo stupore suscitato dal fatto che le popolazioni del Friuli non accolsero con entusiasmo le truppe italiane. Le autorità militari non si erano mai fatte soverchie illusioni in proposito se, nel dicembre del ’14, si poté leggere in un rapporto riservatissimo dell’ufficio informazioni del Comando di stato maggiore dell’esercito che la popolazione del Friuli oltre il confine era dominata dal partito clericale filoaustriaco: «Valendosi dell’odio di classe, i preti, quasi tutti austriacanti, aizzano i contadini contro i loro padroni, i quali sono […] nella massima parte di nazionalità italiana, ed eccitano i contadini all’odio contro l’Italia. […] Nonostante il basso livello intellettuale nel quale si trovano i contadini del Friuli soggetti all’Austria (circa 5/8 della popolazione) essi hanno la coscienza di essere italiani. Non avendo però una chiara visione delle condizioni politiche nelle quali si trovano, da molti anni tenuti sotto la dominazione del clero, che predica loro l’odio contro l’Italia e la fedeltà all’Imperatore, essi non 61

possono necessariamente essere irredentisti, ma conservano tuttavia intatta la loro fede nazionale. È però da escludersi in linea assoluta, un atteggiamento ostile da parte della popolazione del Friuli ad un’azione militare italiana. L’atteggiamento dei contadini sarà probabilmente di perplessità o di indifferenza. L’atteggiamento delle classi colte sarà favorevole ed entusiasta. Avvenuta l’occupazione sarà necessaria una propaganda intensa per spiegare ai contadini la situazione politica nuova, dimostrare i vantaggi dell’annessione, convincerli che amministrati dal governo italiano essi godranno d’un maggiore benessere, che sotto il governo austriaco». 55 L’irredentismo, quel movimento di opinione pubblica che voleva riunire alla madrepatria le terre italiane rimaste in mano all’Austria, aveva avuto una parte importantissima durante i mesi della neutralità nel sospingere l’Italia all’intervento: bisognava compiere l’opera iniziata dai padri con le guerre del Risorgimento, portando finalmente i confini della patria là dove le ragioni etniche e geografiche lo esigevano, liberando i fratelli oppressi dal giogo straniero. Vi fu chi si preoccupò di avvertire che nel Goriziano, a Trieste e nell’Istria la situazione etnica non era così chiara come nel Trentino, 56 ma restò per lo più inascoltato e, nelle piazze, il motivo irredentistico fu rapidamente accolto e confusamente riassunto nella formula di «Trento e Trieste italiane» gridata da migliaia di manifestanti. La liberazione delle regioni nord-orientali divenne il più popolare degli obbiettivi di guerra. Fu detto ai soldati che il loro grande e meraviglioso compito sarebbe stato quello di redimere i fratelli oppressi dall’Austria-Ungheria. Accadde invece che proprio le 62

armate le quali maggiormente soffrirono della guerra, quelle dell’Isonzo, occuparono per 29 mesi un territorio ostile all’Italia e favorevole all’Austria. L’on. Federzoni, che si trovava sotto le armi presso il comando del VI corpo d’armata, espresse immediatamente tutto il suo allarme al presidente del Consiglio, mettendolo al corrente degli avvenimenti, invocando una politica più accorta nei confronti delle popolazioni occupate, e raccomandandosi in particolare di non far nulla sapere al Paese. Nella lettera, scritta appena una settimana dopo l’inizio delle operazioni, Federzoni disse tra l’altro: «Com’Ella sa, la striscia del Friuli orientale in cui si è ora estesa la prima avanzata delle nostre truppe è la parte più austriacante, anzi, forse, l’unica parte austriacante delle terre irredente. Infatti, mentre le manifestazioni d’italianità del Consiglio comunale di Cormons furono – opportunamente, del resto – provocate e quasi imposte dal generale Mambretti, in tutti i paesi da Grado a S. Lorenzo di Mossa noi siamo stati accolti con freddezza, con diffidenza, sovente con aperta antipatia. E in due località, per verità fuori del territorio occupato dal corpo d’armata da cui io dipendo, è accaduto di peggio. A Grado si è tentato restituire la bandiera austriaca là dov’era già stato inalberato il tricolore. A Villesse c’è stata la grave sollevazione notturna, con non poco spargimento di sangue. I preti sono, disgraziatamente, gli agenti fanatici della propaganda e dello spionaggio a favore dell’Austria. Pensi, illustre presidente, alla non buona influenza che questo stato di cose, rivelandosi improvvisamente ai superficiali conoscitori dei paesi irredenti, potrebbe 63

determinare nello spirito pubblico del Regno. Questi sono dunque, si chiederebbe, i fratelli che aspettavano ansiosi le nostre armi liberatrici? E non mancherebbe la rievocazione del tragico disinganno di Sciara-Sciat…». 57 Bisognava preoccuparsi dunque di non fare sapere nulla al Paese. Quanto ai soldati, presenti sui luoghi, potevano osservare con i loro occhi: Caporetto apparve loro come un «paesaggio slavo» che odiava e detestava l’Italia. 58 «Cormons» scrisse il magg. Fiore «è una bella cittadina, in questi giorni tutta imbandierata, per l’occupazione italiana; però ho la ferma convinzione che i suoi abitanti, come del resto quelli dei paesi circonvicini, non siano molto italofili; e lo prova il fatto che molti sono stati in questi giorni arrestati, perché sorpresi a fare segnalazioni al nemico. E fra questa turba italofoba sono in prima linea i preti, alcuni dei quali pare siano stati anche fucilati. Il vero senso d’italianità lo troveremo a Trieste, nell’Istria, in Dalmazia, ove speriamo di giungere presto.» 59 Nei paesi appena occupati ed ostili, i comandi furono presi dall’ossessione dello spionaggio. Un bando del comando delle truppe operanti nel basso Isonzo, a firma del gen. Cavaciocchi, prescrisse l’immediata distruzione di «tutti i piccioni-viaggiatori o domestici, di qualunque specie e razza», e vietò l’importazione e l’esportazione, nonché la vendita e il trasporto di quelli morti: salvoché non fossero spennati. 60 La psicosi delle spie si diffuse in tutta Italia, ma al fronte essa ebbe le conseguenze più gravi. Scrisse il gen. Rocca che nei primi mesi di guerra si immaginavano spie in ogni luogo e furono ordinate esecuzioni sommarie sopra lievi indizi! 61 Anche Vittorio Emanuele III espresse la sua preoccupazione per le spie da cui ci si sentiva circondati: «La popolazione oltre confine» aggiunse «che è rimasta nelle case, non ci è amica». 62

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6. Durante i mesi della neutralità l’esercito aveva compiuto uno sforzo per armarsi ed ampliarsi. Le fabbriche Krupp avevano inviato gli ultimi obici nel marzo-aprile 1915, ma le artiglierie italiane erano restate egualmente insufficienti e prive – per giunta – di adeguate scorte di munizioni: si viveva alla giornata, tanto che era stato impartito l’ordine di sparare soltanto in caso di estrema necessità o quanto meno di assoluta convenienza. 63 Gravi carenze si verificarono anche nel settore delle armi leggere. Fanteria e bersaglieri, infatti, entrarono in guerra senza mitragliatrici e cominciarono a riceverne solo in giugno-luglio in quantità modesta, due armi per reggimento, quando il nemico ne possedeva dapprima due e poi otto per battaglione. 64 Le bombe a mano erano addirittura sconosciute e quando, in giugno, le prime cassette giunsero ai comandi, contenevano un modello assai imperfetto che nessuno sapeva adoperare. 65 Gli ufficiali non ricevettero in tempo le pistole di ordinanza e molti si arrangiarono per proprio conto acquistando dagli armaioli pistole di tutti i tipi, mentre altri parteciparono disarmati ai primi combattimenti. 66 Si verificarono inconvenienti anche per i fucili della truppa: gli uomini alle armi erano circa un milione e mezzo, ma non altrettanti i fucili di ultimo modello (il modello ’91). Fu quindi necessario distribuire anche i fucili Wetterli (modello 1870-87). La produzione del modello 1891, eseguita nel solo stabilimento di Terni, raggiungeva appena i 2.500 fucili al mese. Le reclute furono istruite col bastone al posto del fucile: «Non fu raro, nei primi anni di guerra, che si avesse un fucile ogni dieci uomini da istruire. I corpi alla fronte, però, non ne difettarono, come mai scarseggiò la produzione delle cartucce». 67 Ma non soltanto gli armamenti furono insufficienti. In Italia, a quel tempo, circolavano appena 20.000 autovetture, ma il 24 maggio, al passaggio del confine, l’intero II 65

corpo d’armata, forte di alcune decine di migliaia di uomini, possedeva una sola automobile: quella del comandante. 68 Chi avesse visto i fanti marciare verso il fronte nel maggio, avrebbe notato che essi non possedevano l’elmetto, ma un chepì di panno grigioverde. Negli ultimi giorni di maggio, a guerra ormai iniziata, il gen. Cigliana, comandante dell’XI corpo d’armata, si irritò grandemente nel costatare che i chepì delle sue truppe non avevano la rigidezza prescritta dai regolamenti e non lasciò pace ai suoi ufficiali fintantoché essi non riuscirono a scovare nei dintorni il cartone necessario per irrigidire quei flosci copricapo. 69 Episodi assurdi e ridicoli si verificarono non soltanto nell’esercito italiano, ma anche negli eserciti alleati e nemici: da per tutto mezzi insufficienti, da per tutto illusioni e pregiudizi. Nell’agosto del 1914 gli ufficiali dei diversi eserciti fecero accuratamente affilare le loro sciabole e le cavallerie andarono a combattere con spade ed elmi poco diversi da quelli degli antichi guerrieri. L’elmetto, che mancava ai soldati italiani, mancò anche ai francesi ed anzi, mentre gli italiani avevano almeno adottato il pratico grigioverde, i francesi si avviarono al fuoco con i tradizionali pantaloni rossi che li rendevano individuabili a grandi distanze. Qualche tempo prima della guerra il ministro Messimy aveva proposto di abbandonare quella tinta troppo vistosa per un più pratico grigioazzurro o grigioverde, ma era riuscito soltanto a sollevare le più irate proteste. L’«Echo de Paris» aveva scritto che «privare il nostro soldato di ogni nota di colore, di tutto quanto rende vivace il suo aspetto, significa violare contemporaneamente il buon gusto francese e la funzione stessa dell’Esercito»; altri avevano dichiarato che vestire i soldati francesi di un colore inglorioso sarebbe stato lo stesso che dichiarare vincitori i dreyfusards e la massoneria. Un

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deputato gridò in parlamento: «Sopprimere i pantaloni rossi? Mai! Le pantalon rouge c’est la France!». 70 Si è accennato prima alla scarsezza di mezzi di trasporto meccanici nell’esercito italiano: ma nel ’14 nessun esercito li possedeva. C’era qualche automobile soltanto per i generali e gli ufficiali di stato maggiore. L’imponente esercito russo possedeva meno di 700 automobili, fra cui due sole autoambulanze. 71 Quanto agli austro-ungarici, all’inizio del conflitto anch’essi avevano penuria di armi e divise e, nell’inverno 1914-15, sui Carpazi, furono costretti a portare in linea alcuni reparti armati di fucile non a ripetizione. 72 Tutti, insomma, si avviarono alla guerra impreparati e coltivando i più dannosi pregiudizi: ci si immaginava ovunque che il conflitto si sarebbe risolto rapidamente e che sarebbe stato combattuto esclusivamente dagli eserciti permanenti, affiancati dalle sole leve più giovani. «Les réserves c’est zero», veniva comunemente ripetuto tra gli ufficiali francesi, e sembra che anche il Kaiser affermasse che i padri di famiglia non dovevano andare al fronte. Fra tutti i capi di esercito soltanto Lord Kitchener aveva concepito piani per una guerra lunga più di sei mesi. 73 Gli istruttori francesi, prima del 1914, preferirono non insegnare alle reclute il modo di scavare una trincea, nel timore che le trincee potessero favorire la naturale tendenza dei soldati di restare «incollati» al terreno; li addestrarono invece a una tecnica di assalto che non teneva conto dell’esistenza delle mitragliatrici e che dovette essere subito riveduta. I tedeschi commisero analoghi errori e nelle pianure del Belgio avanzarono contro il fuoco nemico a ranghi serrati. Un ufficiale belga raccontò che davanti a lui caddero tanti nemici da formare un’orrenda barricata umana. 74 Anche gli italiani andarono ai primi assalti in formazioni 67

molto fitte, e gli austriaci dichiararono che tirare sugli italiani era più facile che tirare al bersaglio. Durante la recente guerra di Libia i reparti avevano imparato a diradarsi, ma nell’estate del ’15 l’esperienza era stata dimenticata: «E qui lanciamo ancora le fanterie all’assalto – come ieri 26 agosto contro le posizioni austriache di Basson – a bandiera spiegata, ammassate, con musica» scrisse il gen. Pettorelli-Lalatta. 75 Il gen. Cadorna indicò i criteri di impiego delle fanterie in un famoso libretto rosso contenente la circolare intitolata «Attacco frontale ed ammaestramento tattico». Pubblicata nel febbraio 1915, la circolare rielaborava vecchie idee già esposte dal generale negli anni precedenti. Stampata in un grandissimo numero di copie, fu praticamente letta e studiata da tutti gli ufficiali dell’esercito. Le norme sull’attacco frontale suscitarono, durante la guerra e nel dopoguerra, le più aspre critiche, perché molti vollero vedere in esse la causa principale delle enormi perdite subìte e degli scarsi risultati raggiunti. «Sotto il punto di vista espositivo e storico quel fascicolo può dirsi perfetto» scrisse nel dopoguerra Aldo Valori. «È terrorizzante invece pensare ch’esso abbia servito sul serio di base alle operazioni offensive di un esercito in una guerra moderna.» 76 Il gen. Cadorna si difese dalle critiche rivolte al «tanto calunniato libretto» e ricordò che «i veri competenti» avevano invece espresso giudizi favorevoli. 77 Non è qui il caso di entrare nel merito delle polemiche, poiché più delle teorie sull’impiego della fanteria ci interessa precisare la pratica di quell’impiego. Se in teoria l’azione della fanteria doveva essere preparata da un tiro di artiglierie capace di spianare la via e di spazzare «coll’impeto e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione», in pratica le cose si svolgevano solitamente nel modo seguente: l’artiglieria, insufficiente per numero di bocche da fuoco e dotata di scarse

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munizioni, iniziava un bombardamento sulle posizioni avversarie, che aveva il principale effetto di porre il nemico in stato di allarme. Quando era terminato il bombardamento dell’artiglieria, i fanti uscivano allo scoperto e trovavano i reticolati nemici intatti, e le mitragliatrici pronte a falciarli. Se poi il bombardamento aveva operato un varco nei reticolati (e creato dunque un passaggio obbligato), il compito dei tiratori austriaci poteva perfino dirsi facilitato. 78 L’Italia entrò in guerra applicando metodi e mezzi ormai superati o insufficienti, così come del resto era accaduto agli altri eserciti europei. Soltanto che, nello stabilire un confronto tra l’esperienza di questi eserciti e quella italiana, non si può dimenticare come tra l’agosto 1914 e il maggio 1915 fossero trascorsi dieci mesi di importanza storica dal punto di vista della tecnica militare. Come mai i comandi italiani non avevano tratto profitto dalle esperienze altrui? In realtà nell’Europa della primavera 1915 non era ancora definitivamente chiaro quali enormi difficoltà si opponessero ormai alla guerra di movimento, quali fossero tutti gli svantaggi del comportamento offensivo, quale risolutiva importanza fosse stata assunta dalle trincee e dai reticolati. Per il comando italiano il maggior canale di informazione era costituito dagli addetti militari presso le capitali degli Stati belligeranti. Sia il ten. col. Bongiovanni, da Berlino, sia il ten. col. Breganze, da Parigi, comunicarono a Cadorna i particolari tecnici e le novità della guerra in corso, ma non valutarono le conseguenze tattiche di quelle novità. Chi viveva in Italia, a maggiore distanza dai fronti, trovava ancor più difficoltoso afferrare l’essenza della nuova guerra. «Non si può pretendere» ha scritto il Rochat «che chi stava a Roma riuscisse a trarne quelle conclusioni, così lontane dalla dottrina bellica di allora, di fronte alle quali indietreggiavano gli osservatori al

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fronte e talora gli stessi stati maggiori combattenti.» 79 Si disse che l’immobilità dei contrapposti eserciti sarebbe stata un fatto temporaneo, legato magari alla cattiva stagione, e che presto, subito, in primavera, in concomitanza dunque con l’intervento italiano e forse proprio grazie a questo intervento, la guerra sarebbe tornata ad essere quella che era sempre stata. In un certo senso l’esercito italiano iniziò i combattimenti come se le lancette dell’orologio fossero rimaste ferme all’estate 1914. «Era necessaria la dura esperienza del 1915» ammise Cadorna «per giungere all’impiego di quei metodi che tal genere di guerra suggeriva e che i nemici, i quali avevano iniziato la lotta un anno prima, già possedevano.» 80 Gli assalti contro le posizioni austriache ebbero luogo, all’inizio, secondo uno stile che corrispondeva perfettamente a una certa concezione della guerra e della vita. Raccontò per esempio Antonio Monti che il col. Riveri, comandante del 115° fanteria, per andare all’assalto delle posizioni austriache del Basson, lasciò la rozza divisa del soldato da poco tempo imposta agli ufficiali, rivestì la sua migliore uniforme, si mise i guanti bianchi e si collocò alla testa del reggimento, «proprio davanti a tutti, e non metaforicamente, come suole intendersi quando si dice di un comandante che guida i soldati. Avrebbe voluto anche che la banda del reggimento si ricomponesse per l’occasione, per suonare l’inno di Garibaldi nel momento dell’assalto». 81 Gli scontri che ebbero luogo al fronte durante le prime giornate ebbero spesso come protagonisti degli anacronistici eroi. Primo fra tutti quel ten. col. Negrotto, che era un militante nazionalista molto noto ed un ancor più noto organizzatore dei corpi volontari. Credette di incitare al combattimento i suoi bersaglieri facendo scrivere su un cartello alcuni versi dell’Eneide – in latino beninteso. Trascinato da furore guerriero andò 70

all’assalto, alla testa del battaglione, col cappello piumato infisso sulla punta della sciabola sguainata. Colpito dal fuoco nemico fu ferito a morte e rimase fino all’ultimo istante fedele al suo personaggio ripetendo nel delirio: «Champagne… Champagne…». Immolò se stesso per amore di un’antica concezione del combattimento. Non fece in tempo a capire che sui reticolati della Grande guerra stava morendo non soltanto un certo stile guerriero, ma una visione del mondo, un’intera epoca. 82 7. Il piano di operazioni tracciato dal gen. Cadorna prevedeva un’ampia manovra di tipo napoleonico da condursi sulla strada di Lubiana (distante 65 km in linea d’aria dal confine). 83 Gli austriaci organizzarono una linea di resistenza alcuni chilometri al di là del confine, e su quella linea gli italiani si arrestarono. Anzi spesso si arrestarono prima ancora di aver incontrato la resistenza nemica. 84 Fino agli ultimi giorni della guerra non riuscirono mai a portarsi oltre i 20-25 km dal vecchio confine, nonostante i continui sforzi e gli indicibili sacrifici compiuti. Anche la guerra italo-austriaca, dunque, si paralizzò subito tra reticolati e trincee, divenne guerra di logoramento e assunse le stesse caratteristiche di immobilità che contrassegnavano i combattimenti in corso sugli altri fronti europei. Il generale Cadorna non se l’era aspettato: «Chi avrebbe immaginato una catastrofe di questo genere e così lunga?» confessò nel gennaio 1916. 85 L’esercito austriaco era meno numeroso, ma l’inferiorità numerica – si giustificò Cadorna – era compensata dalla maggiore abbondanza di artiglierie e mitragliatrici, dalle condizioni del terreno, dalla potenza delle fortificazioni e «dall’esperienza di dieci mesi di guerra». 86 Eppure, all’inizio, gli austriaci avevano lasciato sguarnite alcune importanti posizioni, e gli italiani non sempre le avevano occupate; qualche volta, dopo 71

averle occupate, le avevano addirittura abbandonate senza ragione. Questo fatto sconcertante si era verificato – per ricordare i due più clamorosi episodi – sul Sasso di Stria, in Cadore, e sul Merzly, nella zona dell’Isonzo, due posizioni di eccezionale importanza strategica, che mai più l’esercito italiano riuscì a presidiare per tutta la durata del conflitto. 87 Sull’episodio del Merzly possediamo il preciso racconto lasciatoci dal gen. De Rossi, il quale descrisse con molti particolari il succedersi degli ordini e dei contrordini emanati dai comandi superiori. 88 Il 24 maggio il gen. De Rossi, con i suoi bersaglieri, entrò senza colpo ferire a Luico, un paese posto a brevissima distanza dal confine. Era là rimasto senza istruzioni per quattro giorni, poi, di propria iniziativa, aveva deciso di occupare il Merzly, vedendo che quel monte non era ancora presidiato dal nemico. Ma i comandi superiori ordinarono di ritirarsi immediatamente. Dopo due giorni quei comandi cambiarono parere e ordinarono al De Rossi di ritornare sul Merzly, ma oramai gli austriaci presidiavano il monte e mai più gli italiani – per tutta la durata della guerra – ne conquistarono la cima. Il racconto del gen. De Rossi è molto istruttivo perché, al di là di quelli che furono i piani e le teorie dei comandi, esso ci rappresenta dal vivo la realtà e la grande confusione della guerra durante le prime operazioni. Il De Rossi, fra l’altro, fu ferito sul Merzly. Portato in un ospedale da campo, fu abbandonato «in una camera senza porte e finestre», dove giacevano altri due ufficiali feriti a morte. 89 Durante la notte il generale riprese conoscenza, trascorrendo ore di incubo: nessuno entrava a curare i feriti. Al mattino il De Rossi ebbe la forza di urlare. Arrivò un piantone; poi un medico che balbettò delle scuse; furono coperti i corpi degli altri due ufficiali, ormai senza vita. Poche ore dopo Vittorio Emanuele giunse all’ospedale per consegnare una medaglia al De

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Rossi (rimasto paralizzato per tutta la vita) e Achille Beltrame immortalò la scena in una delle sue famose tavole a colori. Ma i lettori della «Domenica del Corriere» non poterono nemmeno lontanamente immaginare il tragico antefatto. 90 L’esercito era impreparato e anche Cadorna cominciava a rendersene conto. Il 13 giugno scrisse a Salandra spiegandogli che tutte le altre nazioni, «tranne forse la Germania, maestra nell’arte organizzatrice», si erano lasciate sorprendere impreparate dal corso fatale degli eventi, ma erano corse ai ripari mobilitando le proprie industrie: anche l’Italia avrebbe dovuto fare altrettanto e con urgenza poiché mancavano le munizioni e i cannoni. Ventidue cannoni, per giunta, erano già esplosi per difetti «nelle bocche da fuoco e negli esplosivi». 91 Il generale, il quale si illudeva che le forbici taglia-fili potessero efficacemente servire ad aprire varchi nei reticolati nemici, rimproverò al ministero di avergliele concesse «solo dopo lunghi stenti e pressanti insistenze». Nella stessa lettera soggiunse: «I nostri valorosi soldati hanno dovuto nei giorni scorsi, e dovranno forse scontare tuttora col loro sangue, l’errore di imprevidenza, costretti come sono ad avanzare senza difese sui reticolati delle trincee austriache, poiché le forbici concesse dal ministero non sono state ancora distribuite a tutti i reparti». 92 Secondo Cadorna bisognava mobilitare rapidamente le industrie necessarie alla guerra basandosi sulla ragionevole previsione che la guerra stessa sarebbe durata fino a tutto il 1916: «Il basarsi sulla probabilità di una minore durata, se anche possibile, potrebbe esporre la Patria al più crudele dei disinganni». Quattro giorni più tardi il comandante supremo inviò al presidente del Consiglio un’altra e ben più grave missiva nella quale parlò per la prima volta di una «non improbabile irruzione del nemico» su alcuni tratti del fronte, e trattò il problema della

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convenienza o meno, per l’esercito italiano, di schierarsi senz’altro su una linea difensiva. «Non è però da nascondersi» soggiunse «la penosa impressione che produrrebbe in Italia, non tanto l’arresto dell’iniziata offensiva, quanto e più ancora il fatto che la necessità di tener fermo sopra una linea di difesa tatticamente robusta ci imporrebbe di abbandonare, purtroppo, una parte del territorio conquistato. In un Paese impressionabile come il nostro fatti di tale natura potrebbero avere dolorose ripercussioni.» 93 La conclusione di Cadorna, già implicita in queste parole, divenne esplicita nel suo comportamento dei giorni seguenti. 94 Nella lettera del 17 giugno aveva chiesto a Salandra di intervenire sugli alleati perché iniziassero anch’essi un’offensiva «contemporanea» al fine di mettere in crisi il nemico su tutti i fronti. Ma prima ancora che i rappresentanti alleati si fossero riuniti a Chantilly (7 luglio) per concordare la comune offensiva, Cadorna ordinò alle sue truppe di riprendere l’iniziativa. Ebbe così luogo la prima battaglia dell’Isonzo, destinata al fallimento. 95 Anche la seconda battaglia dell’Isonzo (18 luglio-4 agosto) fu iniziata da Cadorna senza la necessaria preparazione, ma soltanto perché la delusione circa i risultati del primo sbalzo offensivo era cresciuta dopo la prima battaglia dell’Isonzo, ed egli «sentiva salire la marea di malcontento». 96 Anche la seconda battaglia si concluse con perdite elevate e guadagni assai modesti. Il 3 di agosto Cadorna scrisse a Salandra che non avrebbe più ripreso l’offensiva fino a che il governo non gli avesse fatto giungere munizioni, complementi e rifornimenti in misura tale «da evitare, per l’avvenire, la grave crisi odierna». 97 74

In effetti, per ben due mesi e mezzo, durante la buona stagione, l’esercito rimase sostanzialmente fermo, compiendo operazioni di limitata importanza a carattere locale. Fu soltanto il 18 ottobre che Cadorna decise di dare inizio alla terza battaglia dell’Isonzo, sia perché i mezzi tanto insistentemente richiesti gli erano in parte pervenuti, sia perché egli voleva assolutamente conseguire un successo prima della fine dell’anno. L’inverno imminente, infatti, avrebbe reso impossibili vaste operazioni fino alla primavera del ’16, e quale giudizio sarebbe stato dato – in Italia e fuori dell’Italia – di un esercito e di un comando che dal 4 di agosto non si erano più impegnati in alcuna grande battaglia? Si rileggano, nelle memorie di Cadorna, le pagine dedicate ai motivi delle operazioni autunnali: «Né rispetto ai nostri scopi, né di fronte agli alleati, noi potevamo trascorrere in ozio la restante parte dell’anno, mentre gli alleati attaccavano […] Se l’offensiva si doveva ancora intraprendere, non si poteva attendere troppo a lungo ad iniziarla, stante l’avanzarsi della cattiva stagione». 98 Bisognava ora finalmente conseguire quel successo tanto atteso al quale veniva anche dato un nome: Gorizia. Furono gettati in linea, sul basso Isonzo, soldati «giunti la sera precedente dal Paese al fronte; sicché taluni di essi trovarono la morte nei camminamenti senza aver visto il cielo del Carso!». 99

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8. Le condizioni di spirito delle truppe cominciarono a guastarsi per effetto della guerra e non della propaganda 76

contraria alla guerra. La demoralizzazione ebbe inizio quando i soldati constatarono che il conflitto stava diventando una strage organizzata quasi per nulla eroica, quando persero la speranza di tornare presto a casa, quando si avvidero della sproporzione esistente tra i mezzi a disposizione e gli obbiettivi da perseguire. Le prime quattro battaglie dell’Isonzo (23 giugno-2 dicembre 1915) costarono gravi perdite. Dal 24 maggio al 30 novembre furono contati 62.000 morti e 170.000 feriti su un esercito operante di circa 1 milione di uomini. 100 Quella del 1915 fu «una guerra da pazzi», disse il gen. Caviglia nel suo diario. 101 Occorse qualche tempo prima che l’esercito, nel suo complesso, acquistasse piena coscienza dell’esperienza che viveva. Non tutti i reparti erano impegnati al fronte, né tutti quelli che vi erano impegnati erano esposti agli stessi cimenti. Una relativa calma regnò in molti settori del Trentino e del Cadore, mentre sull’Isonzo e sul Carso, dove si dirigeva il maggiore sforzo offensivo, le operazioni acquistarono immediatamente un carattere assai drammatico. Per tutta l’estate e ancora all’inizio dell’autunno 1915 fu dunque possibile riscontrare stati d’animo differenti a seconda delle circostanze e dei luoghi. Le notizie non circolavano facilmente, o circolavano magari deformate. Agì inoltre una certa resistenza ad accettare la nuova realtà per quello che essa veramente era: possibile che la guerra fosse diventata – e per sempre – qualcosa di così diverso dal mito glorioso, dall’avventura eroica dei padri? Soprattutto fu difficile accettare l’idea di una guerra lunga, e se quindi l’entusiasmo un po’ ingenuo e superficiale dei primissimi giorni fece presto a spegnersi, rimase pur sempre la confortante illusione di poter presto concludere la dolorosa prova. Salandra tornava dal fronte, in settembre, dicendo che lo spirito delle truppe, al campo, era ancora ottimo. 102 Ma in verità

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gli animi non erano più così sereni. Come scrisse Omodeo infatti: «I giovani giungevano in linea con quello che fra i combattenti fu poi designato il sacro entusiasmo del ’15. Non tardavano ad accorgersi che la guerra reale era ben diversa da quella fantasticata. Bisognava precingersi di pazienza, d’ostinazione, di tenacia disperata. […] Moriva la guerra garibaldina». 103 La crisi morale più profonda si determinò in seguito alle offensive di autunno, durante la terza e quarta battaglia dell’Isonzo. La pioggia, il fango, le sofferenze patite intristirono gli uomini e mutarono definitivamente il volto della guerra. Gli assalti si ripetevano con esasperante monotonia contro le stesse posizioni; come scrisse Malaparte: «Nessuna specie di inscenatura eroica, di preparazione coreografica: a un tratto, tranquillamente, la fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava trotterellando verso le mitragliatrici austriache, con un vocio confuso che nulla aveva di eroico. Gli uomini cadevano a gruppi, uno sull’altro. Giunta al filo di ferro, l’ondata sostava, rifluiva, si accavallava a un tratto intorno ai passaggi, e, spesso, passava oltre, scompariva nelle buche, riappariva più lontano». 104 Le perdite subite nei combattimenti furono, come si è già detto, assai elevate. Tuttavia, secondo l’opinione espressa dal gen. Bencivenga, esse non contribuirono a deprimere il morale delle truppe quanto i disagi, le privazioni e le malattie. Gli uomini abituati al clima delle tiepide pianure erano stati improvvisamente trasportati a combattere fra le nevi, senza che fossero stati ancora costruiti ricoveri confortevoli e sicuri; molti erano stati contagiati dalle malattie rapidamente diffusesi. 105 In estate, nel Cadore, i soldati patirono gli intensi freddi della 78

notte senza indumenti di lana: «Eravamo nell’estate ancora e abbondavano già i congelati agli arti: che sarebbe avvenuto nell’inverno?» si domandò il cappellano don Giovanni Minozzi, che per necessità di servizio doveva inerpicarsi «sino ai posteggi più ardui, constatando con angoscia le deficienze enormi del nostro apparato militare». 106 Nel settembre-ottobre, in Carnia e in Cadore, la temperatura raggiunse punte notevolmente al di sotto dello zero; nella sola zona Vrata-Monte Nero si verificarono in settembre 700 casi di congelamento. 107 Già in luglio la stampa domandò insistentemente ai cittadini di inviare indumenti ai combattenti, e in alcune città i carri andarono in giro per raccoglierne di nuovi e di usati. 108 Il 22 agosto, dal fronte, Cesare Battisti scrisse alla moglie chiedendo soldi perché le scarpe erano agli sgoccioli, i pantaloni bucati e i guanti rotti, ma consigliò di non spedire indumenti alla Pro-Esercito poiché tutto si arenava a quota 1.000-1.500: «Noi, a 2.600 m, non abbiamo ricevuto niente!». Il 2 settembre era ancora alloggiato in tenda e scrisse alla figlia Livia: «Dirai alla mamma che io sono bloccato dalla neve e dalla nebbia e devo soffiarmi sulle mani perché non si agghiaccino»; soltanto il 15 settembre poté finalmente annunciare che a quota 2.600 erano in costruzione baracche con il riscaldamento. 109 Il D.L. 20 agosto 1915, n. 1257 costituì una «commissione per promuovere e regolare la confezione di indumenti militari da eseguirsi da ogni cittadino italiano o regnicolo», fissando le tariffe di lavorazione. Ma nel novembre, sul Carso, i soldati della Brigata Ferrara non avevano ancora ricevuto in distribuzione vestiario di lana. 110 Il 24 agosto il Comando supremo aveva invece inviato una circolare con alcuni consigli per impedire la congelazione dei piedi: fasce non molto strette e messe dentro alle scarpe; ungersi con sego o grasso i piedi e le gambe, ed in pieno inverno anche il viso e le 79

mani; togliere con frequenza le scarpe; sorvegliare i malintenzionati che si provocavano congelazioni 111 artificialmente. Infezioni ed epidemie si diffusero tra le truppe nella zona di operazioni: circa 6.000 casi di tifo e 15-20.000 di colera. Di quest’ultimo male morirono 4.300 soldati. I mesi critici furono il luglio, l’agosto ed il novembre. 112 Lo storico britannico G.M. Trevelyan, che partecipò alla guerra sul fronte italiano con i servizi della Croce Rossa, si trovò nella zona di Gorizia durante l’epidemia: «Su, alla fronte, era impossibile provvedere ai malati. Ricordo che, entrato in una chiesa, mi trovai solo fra venti uomini distesi al suolo in atteggiamenti che non lasciavano speranze. Guardando più attentamente, mi avvidi che quindici erano già morti di colera, e i restanti erano già tanto vicini alla morte che più non volgevano gli occhi in cerca di soccorso. I simboli della fede sovrastavano a quel silenzioso lembo del pavimento d’inferno. Sembrava la scena di un’allegoria di Chaucer o la “Faerie Queen”. C’era ben poco del clamore e delle glorificazioni del Ventiquattro Maggio, in questi spettacoli! Ricordo una carretta di quei miseri infettati appena giunti ad uno dei lazzaretti, gridare con amaro sarcasmo: “Viva la guerra!”, ed imprecare a quelli che vi avevano spinto l’Italia. In quelle notti di fango e di sangue, sulla cima di S. Floriano, percepii per la prima volta la sorda corrente dell’ostilità alla guerra serpeggiante fra i soldati contadini, valorosi d’altronde nel combattimento, e coraggiosi nel sopportare incredibili privazioni. Mi chiedevo, con un triste presentimento, se avrebbero resistito un altro anno. Ma 80

essi han resistito per due anni ancora prima di Caporetto; e si son ripresi». 113 In realtà si cominciarono a riscontrare sintomi inquietanti di cedimento e insubordinazione. Il ten. A. Campodonico, il 3 settembre, scrisse che i suoi soldati stremati dalle fatiche, durante i bombardamenti notturni, in trincea, cercavano scampo nel ritirarsi indietro: «Ed allora io e gli altri ufficiali li ricacciamo, puntando contro di loro il nostro moschetto carico, pronti ad agire ad ogni tentativo di fuga. Forse questi sono i peggiori momenti della guerra…». 114 L’ufficiale T. Capocci, ad Oslavia, narrò che nella sua trincea c’era stato un momento critico: «Qualcuno s’è lasciato prendere dal panico, qualche disgraziato fantaccino ha alzato un fazzoletto bianco sul fucile. Gli abbiamo bruciato le cervella. Bollardi da un lato (me l’ha raccontato poi), io da un altro». 115 Il 25 ottobre il gen. Giardina, comandante della divisione speciale bersaglieri, inviò un rapporto sulla condizione delle truppe: «TRUPPE DEL ROMBON : Sono scosse e tali – nei riguardi della disciplina e dello spirito che le anima, non esclusi alcuni ufficiali – da non dare tranquillo affidamento, e da fare anzi temere – qualora si voglia ricorrere ad atti coercitivi ed a pene esemplari sul posto – spiacevoli sorprese che avrebbero una pericolosa ripercussione sul fronte, tanto più tenuto conto della capitale importanza che per noi ha il possesso di quel fianco sulla conca». 116 Il gen. Tassoni, comandante del IV corpo d’armata, scrisse il giorno seguente che non era possibile dare il cambio alle truppe del Rombon: 81

«Le truppe» disse «sono quelle che sono. Deficienti sono piuttosto gli ufficiali e i comandanti superiori, che non sanno agire alternando l’azione morale con le punizioni senza false pietà. Se fra i reparti del Rombon vi sono ufficiali indisciplinati o pavidi è stretto dovere del comando della divisione di provvedere». 117 Cadorna lesse i rapporti e si complimentò con il gen. Tassoni apprezzandone le idee, dalle quali trasparivano «la mente ferma e l’animo risoluto di un vero Comandante». 118 Nei giorni seguenti si verificarono incidenti alla brig. Spezia e alla brig. Caltanissetta (dove furono sequestrate lettere e cartoline «contenenti accenni a una rivolta che sarebbe scoppiata tra le truppe della brigata, nonché propositi altamente incriminabili»). 119 Il comandante della II armata, gen. Frugoni, espose a Cadorna, il 25 novembre, le critiche condizioni delle truppe a S. Lucia e S. Maria, nella zona di Tolmino. Cadorna gli rispose molto seccamente: «Non posso consentire nel dilemma posto da V.E. nel telegramma a mano al quale rispondo, e cioè: “conquistare le posizioni dominanti ancora in mano del nemico, o ripiegare”. Non ammetto che si possa cedere un palmo di terreno costato tanto sangue. L’esperienza di questa guerra, e l’esempio che ci dà ogni giorno il nemico dimostrano, con palmare evidenza, che qualunque linea del terreno può essere validamente tenuta, quando opportunamente sistemata a difesa, ed ove non vacilli la fede del difensore. Pertanto, dove non riuscirà possibile conquistare il ciglio delle alture ci si dovrà rafforzare a mezza costa: 82

spesso anche difese di tal genere risultarono inespugnabili, per chi scese ad attaccarle dall’alto». 120 L’esercito, dunque, finì con l’attestarsi molto spesso non nelle posizioni ad esso più favorevoli, ma in quelle prescelte dall’avversario. «Vigeva allora» scriverà nel dopoguerra il gen. Capello «l’ordine ferreo: Non si deve assolutamente abbandonare nemmeno un palmo del terreno conquistato. Bella massima retorica, od anche eroica se si vuole, ma dal punto di vista tattico una vera eresia.» 121 Ancora alla vigilia di Caporetto – come vedremo – gli italiani restarono ad attendere il colpo nemico nelle vulnerabili trincee di mezza costa che gli austriaci non avevano avuto interesse a presidiare. 122 Sottoposto ad uno sforzo che anche i maggiori comandi giudicarono eccessivo, pervaso da inquietanti fermenti, l’esercito fu governato da Cadorna con rigida disciplina. Gli ufficiali di grado più elevato vissero sotto la continua minaccia dei siluramenti, succedutisi durante tutto il corso della guerra ed alquanto intensi agli inizi. Gli esoneri dal comando, fino all’ottobre 1917, riguardarono un totale di 807 ufficiali, fra i quali 217 generali e 255 colonnelli, 123 ma produssero delle conseguenze che andarono ben al di là di quel che il semplice dato numerico potrebbe far supporre. La commissione di inchiesta sulle cause di Caporetto confessò «di essere rimasta seriamente impressionata dalla unanimità delle testimonianze circa i danni delle esonerazioni, asseriti anche da coloro che non ne furono colpiti». 124 I siluramenti apparvero arbitrarii ed iniqui anche perché adottati con un procedimento sommario e segreto, senza che gli interessati avessero la possibilità di difendersi da accuse che non venivano neppure notificate. Molti comandanti sostennero di essere stati silurati soltanto perché

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avevano espresso un parere discorde da quello del superiore, o perché avevano manifestato qualche apprensione sul risultato di talune operazioni. La stessa commissione d’inchiesta concluse esprimendo un giudizio assai duro nei confronti del gen. Cadorna, poiché questi aveva spietatamente colpito e lasciato colpire «illuso dall’egocentrismo suo di far opera di giustizia». 125 Cadorna si difese con abilità da tali accuse, asserendo che i siluramenti erano un male inevitabile, che avevano avuto luogo del resto in tutti gli eserciti, e che lo stesso Comando supremo aveva compiuto al riguardo opera moderatrice. Sembrò a Cadorna assai indicativo che nel 1918 il gen. Diaz avesse creduto opportuno riammettere nell’esercito mobilitato soltanto 13 generali dei 206 che erano stati esonerati. 126 Tuttavia, indipendentemente da queste polemiche, resta il fatto incontestabile che l’istituto dell’esonero fu uno degli strumenti più temuti, e che di esso il Comando supremo si servì per tenere saldamente in pugno gli altri comandi. È indicativo il fatto che il 4 novembre 1915 Cadorna volle dare notevole pubblicità a una punizione da lui inflitta ad un tenente colonnello di stato maggiore, colpevole di essersi «abbandonato, con gli ufficiali dipendenti, ad alcuni discorsi imprudenti che suonavano critica alla condotta e sfiducia nel successo di alcune nostre operazioni militari». «Non avrei mai immaginato che una simile violazione dei princìpi più sacri della disciplina di guerra – da me riassunti e ribaditi nelle circolari n. 1 e 3525 – avvenisse proprio per opera di uno di quelli che – prescelti fra i miei diretti e fidati collaboratori – debbono, primi fra tutti, dare esempio costante di prudenza e di riservatezza e debbono – per ciò che sanno e per ciò che vedono – avere 84

più degli altri

CHIARA OSTINATA LA VOLONTÀ DI VINCERE ED

INCROLLABILE LA FEDE NEL SUCCESSO,

irradiandola serena ed irresistibile nel cuore dei dipendenti. Il Comandante del Corpo d’Armata ha inflitto gli arresti a questo ufficiale; io stabilisco che la punizione sia di 30 giorni di arresti in fortezza ed ordino che egli cessi di far parte del Corpo di Stato Maggiore e sia senz’altro allontanato dal fronte, poiché non voglio che sia al posto d’onore per la Patria, chi, dall’amore di questa, non sa trarre la fede luminosa della vittoria e neppure voglio che guidi gli umili – che con tanto slancio lottano e muoiono nel nome d’Italia – colui che, anziché tenere profondamente nascosto il suo ingiustificato dubbio, lo insinua – con colpevole leggerezza – nell’animo altrui.» 127 Il codice penale per l’esercito era stato emanato molti anni prima della guerra, nel 1869, ed era stato in gran parte modellato sul codice militare sardo. 128 Nel dopoguerra il presidente della commissione incaricata di riformare le leggi penali militari, il sen. A. Berenini, dichiarò che nel passato alla paurosa gravità del sistema penale per l’esercito aveva fatto da eloquente contrasto la consuetudinaria mitezza dei tribunali militari, onde era legittima la supposizione che la mitezza di questi fosse appunto determinata dalla gravità eccessiva delle pene previste dalla legge e che pertanto, nella realtà pratica, la giustizia militare mancasse di equilibrio e di proporzione tra il precetto della legge e la sua attuazione concreta. 129 Certamente il gen. Cadorna intervenne fin dai primi giorni della guerra perché la magistratura militare applicasse con severità le leggi. La circolare n. 1 del Comando supremo (indicativo il fatto che essa portasse il 85

numero 1), emanata il 19 maggio 1915, aveva fissato rigorosamente i princìpi della ferrea disciplina, dell’obbedienza assoluta, della repressione inflessibile ed immediata. 130 Una successiva circolare del 9 luglio 1915 rilevò la mitezza dei giudizi, l’opportunità di una accurata scelta degli ufficiali per la composizione dei collegi giudicanti, e la necessità di espletare i giudizi nel termine di dieci giorni. La magistratura militare, tuttavia, non si comportò nei mesi seguenti con la severità che il Comando supremo avrebbe voluta, così che le circolari sull’argomento proseguirono numerose dopo il luglio 1915, finché, nell’agosto 1916, Cadorna dovette ancora una volta lamentare la persistente mitezza dei tribunali speciali incaricati di giudicare gli ufficiali. 131 Il 28 settembre 1915, tra la seconda e la terza battaglia dell’Isonzo, Cadorna impartì nuove direttive generali sulla disciplina di guerra, che si conclusero con l’annunzio delle sanzioni per chi quella disciplina avesse violata: il piombo dei carabinieri per chi avesse tentato di retrocedere, la pena di morte a guerra finita per chi si fosse vigliaccamente arreso: «Nessuno deve ignorare: che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell’onore, quella che porta alla vittoria od alla morte sulle linee avversarie; – ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà – inesorabile, esemplare, immediata – quella dei tribunali militari; ad infamia dei 86

colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita». 132 Il 15 ottobre Cadorna scrisse a Salandra per comunicargli che «il verificarsi tra i militari combattenti di alcuni fatti delittuosi di estrema gravità» rendeva necessarie più severe misure repressive. La natura dei reati (come ad es. la diserzione) dava spesso luogo a giudizi contumaciali che, secondo Cadorna, presentavano l’inconveniente di dover essere revocati nel caso di successiva volontaria costituzione del condannato o del suo pervenire in mano alla giustizia. Il Comando supremo aveva pensato in un primo momento di dettare norme modificatrici che rendessero irrevocabili le sentenze contumaciali, senonché diverse considerazioni avevano fatto dubitare, dopo più maturo esame della questione, della opportunità e della legittimità della riforma. Cadorna chiese che si escogitasse qualche altro mezzo, come ad esempio l’esclusione del ricorso alla grazia sovrana. Il guardasigilli V.E. Orlando fece conoscere a Salandra, con qualche sarcasmo, la sua opinione: «Mi felicito innanzi tutto che il sullodato generale abbia da sé esclusa la possibilità che siano rese definitive le sentenze contumaciali: ciò ripugnerebbe alla più elementare giustizia e potrebbe condurre a conseguenze assolutamente enormi». Per quanto riguardava il diritto di chiedere la grazia, esso era escluso fintantoché la sentenza restava ancora riformabile in via ordinaria; per escluderlo in relazione a una sentenza definitiva sarebbe stato necessario modificare lo Statuto. 133 87

Cadorna, tuttavia, cercò egualmente di risolvere il problema nel modo da lui desiderato disponendo che i comandi pronunciassero parere favorevole all’inoltro della domanda di grazia soltanto nei casi «veramente meritevoli del beneficio Sovrano», onde evitare inconvenienti dannosi alla disciplina ed alla «esemplarità». 134 In gennaio, poi, come diremo nelle pagine seguenti, Cadorna tornò a lamentarsi con Salandra per i limiti imposti dalle leggi penali e deplorò che il codice penale militare non concedesse, nel caso di gravi reati collettivi, la facoltà di ordinare la decimazione. 9. Durante l’estate del 1915 il Paese, che aveva immaginato rapide e vistose conquiste, poté ricevere dal fronte notizie assai vaghe. I giornalisti non erano ammessi in zona di guerra; in tutto il Paese vigeva la censura, e ben poco si ricavava dalla lettura dei bollettini ufficiali. Durante i primi giorni quei bollettini avevano fornito le cifre delle perdite, poi le avevano improvvisamente omesse suscitando i primi allarmi. «È bastato» scrisse il 2 luglio «La Stampa» di Torino «che in uno dei bollettini si parlasse di perdite gravi perché certa gente o male intenzionata o leggera mettesse in circolazione cifre fantastiche». 135 L’opinione pubblica cominciava a capire che non tutto procedeva nel migliore dei modi. A metà luglio la speranza di un imminente balzo in avanti fu creata da talune frasi dei bollettini di Cadorna e dalle edizioni straordinarie dei giornali. Commentando il bollettino del 21 luglio, per esempio, «La Stampa» (in edizione straordinaria) scrisse: «Dopo quasi due mesi di un’intensa azione preparatoria contro le formidabili difese austriache e di tasteggiamento dell’avversario, ormai si viene ai ferri corti». 136 Ma nei giorni seguenti i bollettini del Comando, lungi dal confermare quelle ottimistiche previsioni, recarono la notizia di inquietanti 88

iniziative austriache. Alla fine del mese il gen. Cadorna scrisse a Salandra pregandolo di invitare la stampa ad essere più modesta nei titoli e più guardinga nell’annunciare vittorie che non esistevano. 137 I giornali, non potendo inviare ufficialmente corrispondenti al fronte, pubblicavano lettere e corrispondenze di soldati ed ufficiali: il 22 luglio Cadorna emanò una circolare a proposito di queste collaborazioni: «Magnificano, in genere, atti di valore dei reparti, o dei superiori, o di chi scrive; il che nuoce alla serietà militare. Siano assolutamente vietate». 138 In agosto Cadorna fece mettere agli arresti il tenente on. De Felice, che aveva scritto dalla Zona Carnia al «Secolo» di Milano trasgredendo gli ordini. 139 Durante i primi mesi alcuni giornalisti erano penetrati di nascosto in zona di guerra. Il 24 maggio Athos Gastone Banti, del «Giornale d’Italia», era riuscito a passare il confine al seguito della brigata Re; poi, nonostante i travestimenti, era stato scoperto ed espulso. 140 Come pubblicamente ammisero i giornali, parecchi altri corrispondenti avevano, per zelo professionale, cercato di eludere la sorveglianza esercitata nella zona del fronte. 141 Fra i primi ad interessarsi efficacemente per porre termine a questo stato di cose, fu l’on. Barzilai, presidente dell’Associazione della stampa italiana, che, il 16 luglio, era stato chiamato al governo da Salandra come ministro senza portafoglio. Ma la diffidenza dell’autorità militare nei confronti dei giornalisti rimase tale che nell’agosto-settembre 1915 il Comando volle limitarsi soltanto ad autorizzare gli inviati di 36 quotidiani e periodici a compiere «una gita» in zona di guerra. 142 Poco più tardi il Comando supremo accettò la presenza stabile di 3 corrispondenti stranieri e 9 italiani, ai quali, per la verità, fu concessa una libertà di movimento notevole, ma, in compenso, una assai scarsa libertà di informazione. La censura 89

esercitata dal Comando italiano si rivelò particolarmente rigida e le corrispondenze si ridussero spesso ad una parafrasi dei bollettini ufficiali. La libertà di movimento concessa a quei giornalisti si dimostrò utile solo perché essi poterono ampiamente e riservatamente informare i direttori dei loro giornali di quanto accadeva nelle diverse parti del fronte. 143 Il Paese cominciò ad intuire la nuova realtà della guerra grazie alle lettere dei combattenti e ai racconti dei feriti ricoverati nelle retrovie. Naturalmente era stata istituita una censura postale militare sulla corrispondenza che i soldati inviavano alle famiglie e, durante le prime settimane di guerra, era stata istituita anche una censura postale civile su tutta la corrispondenza in partenza dalla zona di guerra (si consideri che erano dichiarate in stato di guerra anche province lontane dal fronte come Bologna, Ravenna, Mantova, Ferrara, ecc.). Quest’ultima forma di censura, però, era stata abolita in luglio su invito del gen. Cadorna, preoccupatosi per gli intralci che essa poneva alla speditezza del servizio postale, determinando gravi ritardi negli scambi epistolari tra i soldati e le famiglie residenti nelle zone in stato di guerra. 144 Con l’abolizione della censura civile, però, anche i militari poterono facilmente eludere ogni controllo usando l’accortezza di impostare nelle ordinarie cassette delle lettere. Del resto, prima ancora che si fosse offerta la possibilità di utilizzare un siffatto accorgimento, chi poté si servì di amici compiacenti per far impostare fuori dalla zona di guerra. Ugo Ojetti, che aveva molte conoscenze, poté affidare questo incarico al sen. Albertini, al sen. Gavazzi, a Piero Pirelli o all’ing. Caproni. 145 Anche Cesare Battisti, il 14 luglio, scrisse al Pedrotti dicendogli che la lettera era stata affidata ad un amico che si recava fuori dalla zona di guerra. 146 Il 25 agosto il ministro della Guerra, Zupelli, espresse a 90

Cadorna la preoccupazione sua e del presidente del Consiglio per quanto stava accadendo in seguito all’abolizione della censura civile. Il ministro ne chiese il ripristino e spiegò che un mese prima non si era opposto al provvedimento che l’aboliva pur prevedendo che esso sarebbe stato dannoso: «Ormai l’esperienza di più di un mese non ha fatto che confermare tali previsioni giacché da ogni parte e dalla stessa presidenza del Consiglio, sono pervenute e continuano a pervenire istanze nelle quali si lamenta il diffondersi per il Paese di notizie allarmanti di ogni genere, alcune anche terrificanti, con abbondanza di particolari circa le perdite e con esagerate immagini di reggimenti distrutti, di atti di indisciplina ecc. In alcune delle su dette istanze si fa presente che tali notizie gettano l’allarme e l’angoscia in seno alle famiglie, e, mentre scuotono l’entusiasmo patriottico, provocano scene strazianti che si ripetono quasi giornalmente». 147 La polemica sorta tra le autorità di Udine e quelle di Roma intorno alla censura, ci consente dunque di ricavare elementi di notevole utilità per la comprensione di un problema della massima importanza, a proposito del quale militari, politici e storiografi discussero con tanta passione durante e dopo la guerra: quello delle relazioni tra esercito e Paese. Non ci son dubbi che durante i primi mesi della guerra furono proprio le notizie provenienti dall’esercito a deprimere il morale di una opinione pubblica che continuava sostanzialmente a credere nella guerra mitica, di tipo risorgimentale, idealizzata durante le «radiose giornate» di maggio. Cadorna ne fu consapevole, ma, sia perché temeva il fermento dei suoi soldati qualora il servizio postale non avesse funzionato 91

a dovere, sia perché probabilmente si rendeva conto che, con o senza la censura, il Paese prima o poi certe notizie le avrebbe conosciute, replicò insistendo sulla convenienza di non ripristinare la censura civile, pur ammettendo le conseguenze negative della mancata adozione del provvedimento. Dopo aver esposto le sue ragioni, Cadorna concluse: «Il Comando scrivente non può pertanto condividere il parere sulla opportunità di ripristinare la censura civile, e ritiene che meglio si provvederebbe a tenere alto lo spirito pubblico nel Paese, ad alimentarvi il sentimento patriottico e combattervi le conseguenze della diffusione delle notizie allarmanti, qualora a quest’opera meritoria si dedicassero assiduamente tutte le autorità politiche ed amministrative, le personalità più alte e stimate e soprattutto gli uomini politici. Una raccomandazione a questo intento di S.E. il Presidente del Consiglio riscuoterebbe certamente il plauso generale». 148 Dietro l’apparenza di un invito, dunque, la lettera di Cadorna esprimeva un vero e proprio rimprovero nei confronti di Salandra e del mondo politico. Un rimprovero che aveva le sue ragioni di essere, quando si pensi alla notevole passività dimostrata in quel periodo dal governo, il quale poco o nulla stava facendo per mobilitare la pubblica opinione e per rendere il Paese, in tutti i sensi, un collaboratore efficace dell’esercito combattente. A Roma, anzi, nella speranza di un prossimo fortunato evento e di una guerra non troppo lunga, esisteva semmai la preoccupazione di tener nascosta la verità e di lasciare che gli italiani proseguissero, senza sospetti e senza scosse, la loro vita di sempre. 92

Il ministro Zupelli confermò, il 16 settembre, che le notizie allarmanti si erano diffuse nel Paese proprio dopo l’abolizione della censura civile ed assicurò che – per parte sua – avrebbe fatto esercitare una attiva sorveglianza sui feriti e gli ammalati provenienti dal fronte per impedire che essi si facessero «tramite delle su dette notizie allarmanti». 149 Anche il gen. Cadorna assicurò di aver già provveduto perché non fossero spedite, dai militari al fronte, «lettere inspirate a grande pessimismo», tali da produrre nel Paese «effetti oltremodo dannosi». Precisò inoltre di aver diramato ordini tassativi per indurre i militari a valersi preferibilmente di cartoline o di lettere in busta aperta, mentre un bando del 28 luglio aveva impartito energiche disposizioni contro l’abusiva impostazione di lettere di militari in cassette riservate al pubblico. 150 Il 20 settembre il presidente del Consiglio inviò a tutti i prefetti una circolare, avente come oggetto «La propalazione di notizie allarmanti». 151 A quanto risulta soltanto i prefetti di quattro province inviarono brevi relazioni in risposta a quella circolare. Il prefetto di Bologna, il 24 settembre, segnalò l’inizio di «propaganda antipatriottica e sovversiva» nelle campagne, precisando che «ben 36 carabinieri» si aggiravano in bicicletta nelle zone più sospette. «Personalmente» soggiunse il prefetto «mi occupo di tale servizio e, dato il fondo di settarismo che ancora permane fra la gran massa attiva dei partiti estremi locali, le difficoltà per la scoperta degli autori della propaganda stessa sono gravissime.» In pratica c’era da segnalare solo l’arresto di un merciaio ambulante e il sequestro di una lettera di un soldato. 152 Il prefetto di Ravenna, il 27 settembre, riferì che non era mai stato possibile accertare con elementi giuridici la colpevolezza dei propalatori di notizie allarmanti, stante l’omertà che in quella provincia regnava sovrana e l’avversione che i 93

cittadini, quasi tutti sovversivi, avevano verso le autorità e i poteri costituiti. Le notizie allarmanti, precisò il prefetto, «provengono proprio dal fronte; sia a mezzo di corrispondenza, sia mediante discorsi che, talvolta anche in buona fede, vengono fatti da militari che rimpatriano». 153 Il prefetto di Parma, infine, rispose il 3 novembre, descrivendo la situazione abbastanza confortante della sua provincia, la cui popolazione teneva «in massima un ammirevole contegno, dando scarsissima presa ai tentativi di diffusione di notizie allarmanti, od alle voci che, a scopo di scoraggiamento o per ingenerare stanchezza, potessero essere fatte ad arte circolare». Quei pochi che per motivi di partito dissentivano «dal sentimento nazionale» erano stati costretti ad agire nei limiti della prudenza, così che «la sottile, inafferrabile azione dei socialisti ufficiali» poteva dirsi arginata. Le preoccupazioni nascevano invece proprio per colpa dei militari in licenza: «Ho richiamato l’attenzione del Comando di Presidio e dell’Arma dei RR. Carabinieri in special modo, sui militari feriti o malati, ritornati dal fronte, in licenza presso le proprie famiglie. Costoro e le famiglie, più per incoscienza e per desiderio di esagerare i rischi corsi che per produrre sgomento ed allarme, narrano i fatti cui presero parte e commentano quanto hanno visto ampliando le circostanze, aggravando le cose di maniera che gli ascoltatori spesso riportano una impressione di turbamento. La vigilanza ha prodotto i suoi risultati, vari furono i puniti e vari i soldati fatti rientrare dalla licenza. Ma poiché la viva voce del soldato che ritorna dal campo, ha più forza di colpire sinistramente i parenti e gli amici dei combattenti, sarebbe utile disciplinare 94

rigorosamente la concessione delle licenze, escludendo la possibilità che i soldati si sottraggano alla vigilanza dell’Arma col vestire in borghese, e principalmente inculcando loro la maggiore riservatezza». 154 Il prefetto di Parma, che certamente non aveva assistito di persona all’orrendo spettacolo della guerra, supponeva che i racconti dei soldati fossero esagerati. Ed è probabile che molti soldati si compiacessero di descrivere in forme esagerate e addirittura fantastiche le loro esperienze del fronte, o magari delle retrovie. Ma il fatto era che la guerra dell’Isonzo e del Trentino offriva ampia materia a racconti capaci di turbare gli animi degli ascoltatori senza che il narratore avesse bisogno di alterare i fatti. Imporre il silenzio ai militari in licenza – come quel prefetto sostanzialmente proponeva – avrebbe voluto dire trasformare centinaia di migliaia di militari in altrettanti sorvegliati speciali. Non era certamente una proposta attuabile. La diffusione delle notizie «esagerate», piuttosto, trovò da sola due naturali impedimenti: il timore, da parte della maggioranza dei soldati, di non informare fino in fondo i loro congiunti sui rischi corsi al fronte, e il desiderio, da parte di coloro che erano esentati dai rischi di guerra, di nascondere a se stessi tutta o almeno una parte della verità, per profittare della propria condizione di privilegio senza intollerabili complessi di colpa. 10. Nel corso dell’estate molti avevano continuato a sperare che il poco soddisfacente andamento delle operazioni militari fosse un fatto transitorio. Poi, sopravvenuto l’autunno, ci si rese conto ovunque che le grandi aspettative della vigilia erano destinate a rimanere deluse, almeno per tutto il 1915, e si cominciò a guardare al 1916 più con apprensione che con

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speranza. Sia negli ambienti politici, sia in quelli militari furono formulate critiche assai vivaci alla condotta della guerra. Nel diario del ministro Martini un primo giudizio negativo nei confronti dell’esercito è registrato alla data dell’11 agosto: «Il Paese non è contento della propria armata. E forse non ha tutti i torti, sebbene troppo si affretti a giudicare e conchiudere». 155 Tre mesi più tardi anche il Martini si sentì in grado di giudicare e conchiudere: «La fiducia nel Cadorna è scossa: non è uno stratega, non è un tattico: non è uomo di quella genialità che gli fu attribuita». 156 Preoccupati per le condizioni dell’opinione pubblica, incitati da Cadorna e da organi di stampa, gli uomini di governo presero al principio dell’autunno alcune iniziative propagandistiche. Il presidente Salandra, che non amava la folla («In piazza non ci vado, non è il mio ambiente» aveva detto il 16 settembre) invitò i suoi amici a parlare, e il guardasigilli Orlando si recò a Palermo per pronunciare un discorso politico che ebbe vasta risonanza (e che peraltro consentì ai neutralisti di replicare che non erano stati loro ad ingannarsi sulla guerra breve). 157 Negli ambienti militari le critiche al gen. Cadorna cominciarono ad essere formulate da comandanti di grandi unità combattenti, oltre che da molti ufficiali «silurati». Questi ultimi erano stati feriti nel loro amor proprio e, come scrisse la commissione di inchiesta su Caporetto, non tutti, ritornati in paese, ebbero la forza di sopportare con serenità e rassegnazione la propria sorte, così che taluno, in pubblico, si lasciò andare a commenti che non potevano giovare al prestigio del Comando supremo. 158 Sullo scrittoio dell’on. Giolitti, per esempio, giunse il lungo rapporto di un ex comandante di corpo d’armata (forse il Ruelle), datato 13 novembre, nel quale furono assai energicamente denunciate l’impreparazione materiale e la crisi 96

morale dell’esercito. «L’impreparazione dell’esercito si manifesta nella mancanza di tutto» scrisse lapidariamente l’ex comandante di corpo d’armata. «Gli ufficiali più arditi» soggiunse «hanno crisi di pianto di fronte alla vanità dei loro sforzi: davanti all’impossibile.» Responsabile principale di questo stato di cose sarebbe stato il gen. Cadorna, il quale: «Diede a bere al Paese che aveva preparato l’esercito alla guerra: e la sua improvvisazione si manifestava ora colla creazione a getto continuo di ufficiali senza attitudine né preparazione, di colonnelli che ieri erano capitani, di generali che ieri erano stati esclusi dall’avanzamento ai gradi di ufficiali superiori». In queste parole si può trovar l’eco dell’amor proprio ferito: la vita militare rappresentava per gli alti ufficiali «la carriera», con tutte le gelosie e i risentimenti, giustificati o ingiustificati, propri a tutte le carriere. Ma l’ex comandante di corpo d’armata volle esplicitamente precisare che il suo stato d’animo di sfiducia e di crisi era condiviso anche dai generali che non erano stati ancora colpiti dall’esonero: «I generali, in presenza d’una guerra nuova a cui non erano preparati, sono sfiduciati, non hanno più sicurezza di sé, sia per la spada di Damocle che pende ogni giorno sul loro capo, sia perché si va travolgendoli a dozzine nel baratro, sia perché loro si richiede ciò che non è possibile dare. Loro si ordina di vincere, e loro si danno truppe sgretolate dalle fatiche, dal gelo, dalla morte». 159 Dure critiche a Cadorna furono effettivamente formulate anche dai generali restati ai comandi. Il 20 novembre, per esempio, Ugo Ojetti, che era addetto al Comando supremo, incontrò il gen. F.S. Grazioli, capo di stato maggiore del XIII corpo d’armata: «Con Grazioli ho parlato a lungo» scrisse Ojetti riferendo il contenuto di quel colloquio. «Non si va 97

avanti che a metro a metro con perdite enormi sproporzionate allo scopo. Tutti i generali sono contro Cadorna e più contro Porro che non si vedono mai, coi quali non riescono mai a parlare: mancano di lanciabombe, di buoni tubi, di telefoni ecc. Non s’è a tempo, imparato niente dai dieci mesi di guerra altrui. E nessuno osa parlare». 160 La spada di Damocle dei siluramenti consigliava il silenzio: molti temevano che il descrivere le cattive condizioni dei propri reparti equivalesse a denunciare la propria inettitudine al comando. Il gen. Capello, comandante del VI corpo d’armata, inviò tuttavia al comando superiore realistici rapporti, ove si poté leggere che i soldati erano affamati, stremati, che si trascinavano faticosamente come «pezzi di fango ambulante», che i vincoli organici dei reparti erano rotti, mentre gli ufficiali, e soprattutto gli alti ufficiali, risentivano assai negativamente della situazione: «La diminuita efficienza delle truppe si riverbera naturalmente anche sullo spirito aggressivo degli ufficiali, in parecchi dei quali – specialmente ufficiali superiori – esso non è più molto spiccato». 161 Il gen. Cadorna cominciò ad essere consapevole delle enormi difficoltà presentate dalla nuova guerra e delle gravi condizioni di spirito delle truppe, ma, fino ai primi di dicembre, continuò a tenere queste ultime sotto sforzo, nella vana speranza di raggiungere almeno Gorizia. In mezzo alla tormenta, il generalissimo restò impassibile, pensando che fosse questo il dovere di un capo. 162 «Ma ci vuol pazienza e calma,» scrisse il 4 agosto «e di questa ne ho molta. Mi dicono tutti quelli che hanno assistito alle mie manifestazioni bollenti del tempo di pace che sono così sorpresi di vedermi così tranquillo. La spiegazione è semplicissima: ciò che mi mantiene calmo è la profonda 98

persuasione della necessità di esserlo e la tendenza naturale ad esserlo senza sforzo in tutti i momenti gravi.» 163 Il mese seguente Cadorna conobbe il capo d’un esercito alleato, il gen. Joffre, e ne rimase favorevolmente impressionato: «Ha molto buon senso, mano molto ferma, tutto ciò che occorre per una guerra così poco geniale quale è questa». 164 Il gen. Cadorna era convinto che gli eserciti potessero essere comandati da buoni amministratori privi di genialità: «È una guerra dove l’effetto di qualunque genialità è scomparso perché l’attuazione di qualunque idea geniale si basa sulla rapidità di manovra e questa si infrange contro ogni buon sistema di trincee e reticolati». 165 Era insomma una guerra di genere «ingrato, odioso», 166 che doveva essere combattuta con lentezza e con metodi «ossidionali». 167 «Questa guerra» precisò Cadorna il 6 novembre «ha sconvolto tutti gli antichi criteri e quando si va all’offensiva si va incontro a difficoltà insormontabili.» 168 Pochi giorni più tardi aggiunse che se non si era ancora riusciti a raggiungere dei risultati veramente tangibili, la colpa stava nei metodi di guerra che si erano imposti e che favorivano «straordinariamente» la difensiva. 169 Le difficoltà dell’offensiva erano dunque ritenute «insormontabili» dallo stesso comandante supremo, ma alle truppe, come già abbiamo detto, veniva egualmente ordinato di persistere nell’offensiva, nella vana speranza di chiudere l’anno con il tangibile risultato della conquista di Gorizia. Tra la fine di novembre e i primissimi giorni di dicembre Vittorio Emanuele III ricevette una lettera alquanto curiosa e sgrammaticata, nella quale un anonimo «ferito» indicò fatti precisi, denunciò che a fine ottobre sul Podgora e sul Sabotino le fanterie erano rimaste prive di munizioni e rinforzi, e criticò pesantemente la condotta degli ufficiali, definendoli austriacanti, incerti e paurosi. «Perbacco Maestà!» scrisse il ferito. 99

«Noi abbiamo militari che scappano come cavalli appena ànno ordine di attaccare, ma se non sono ben guidati si scoraggiano giustamente, poiché attacca una volta, attacca una seconda, una quinta, una decima volta e non si occupa nulla ed allora avviene che tutto l’entusiasmo sparisce. Ciò è avvenuto a me sul Podgora e sul monte Sabotino negli ultimi attacchi. Si debbono vedere attaccare senza ordini concreti, deliberati poiché: signori ufficiali ànno paura e non avanzano.» 170 L’aiutante di campo del re, gen. Ugo Brusati, ritenne opportuno inviare a Cadorna la lettera dell’anonimo ferito, e il comandante supremo rispose il 2 dicembre dichiarandosi «perfettamente al corrente dello stato fisico e morale dell’Esercito. Ma» soggiunse «gli Austriaci stanno peggio di noi! E così stando le cose» domandò «è conveniente di sospendere le operazioni quando tra Oslavia e il Podgora è il momento di raccogliere i frutti? Perciò è d’uopo avere il cuor duro, pur facendo il possibile perché le truppe non impegnate accantonino e riposino, e le altre accelerino tutti i lavori di ricovero invernale. È una guerra così infame, questa, che senza una estrema energia non si viene a capo di nulla». Restituì la lettera dell’anonimo ferito commentando: «Ne ricevo anch’io molte di anonime, e se si dovesse tener dietro a tutto ciò che lo spirito critico italico suggerisce, si starebbe freschi». 171 Quello stesso giorno, tuttavia, Cadorna ordinò che cessasse l’offensiva e rinunziò, fino al 1916, ad occupare Gorizia. 172 11. Le difficoltà con le quali si erano svolte le operazioni militari avevano contribuito ad incrinare il fronte degli interventisti. Radicali, nazionalisti, liberali e rivoluzionari, che in maggio si erano uniti nel voler l’intervento e la rapida vittoria, si erano trovati di fronte al fallimento del loro ottimistico disegno: le loro divergenze di un tempo sarebbero tornate in primo piano. La crisi della guerra cronica, insomma, nata sull’Isonzo, era 100

presto rimbalzata nel Paese. Sull’Isonzo, come nelle città dell’interno, il disagio più grave era quello degli interventisti, perché più doloroso era in loro il crollo delle illusioni, più grande il peso delle responsabilità. 173 «Lo smarrimento morale nella guerra cronica» scrisse l’Omodeo «fu la prova più amara dell’esercito. Falliva ciò per cui si era sognata la guerra: la rapidità tagliente delle risoluzioni.» 174 Gualtiero Castellini, nel suo diario di guerra, scriveva di vedere nell’avvenire una nebbia più fitta di quella che lo separava dal nemico. 175 Un altro interventista, lo studente Paolo Marconi arruolatosi con entusiasmo negli alpini, spiegava ai suoi, in agosto, come oramai ogni istante gli fosse dolore: «Io non so che mi sia, ma non conosco più gioia, ovverosia m’è di gioia il dolore, l’angoscia». 176 Il 10 settembre, dopo soli dodici giorni di guerra combattuta fra il Sabotino e il Podgora, un sottotenente di vent’anni, nazionalista, Napoleone Battaglia, scriveva ad un suo professore: «Oh, mi creda, qui, dinanzi alla spaventosa realtà che chiama disperatamente a raccolta tutti gli istinti della vita, non può esserci entusiasmo. C’è senso del dovere. C’è… in Italia bisogna che non s’illudano, bisogna che spengano le loro fiamme garibaldine nell’acqua lenta monotona della tenacia, della pazienza, della costanza. La nostra guerra sarà lunga, dura, dura, feroce. Abbiamo dinanzi un nemico formidabile e valoroso inchiodato a un suolo formidabilissimo. Abbiamo dinanzi un muraglione liscio che non dà presa: per salirvi, bisogna ammucchiarvi sotto dei cadaveri». 177 Gli interventisti alle armi cominciarono ad essere trattati con odio e disprezzo dai commilitoni. «Era come se la guerra l’avessero provocata loro… I soldati guardavano bieco. I soldati 101

perseguitavano.» 178 Chi era partito volontario cercava di mantenere questo fatto assolutamente segreto. 179 Il 1° novembre 1915 Mussolini era al fronte e, al ritorno da una corvée, incontrò un soldato che gli chiese: «Sei tu Mussolini?». «Sì.» «Benone, ho una bella notizia da darti: hanno ammazzato Corridoni. Gli sta bene, ci ho gusto. Crepino tutti questi interventisti.» 180 Giacomo Morpurgo, giovane nazionalista partito per il fronte, ricordava come un fatto assai lontano il grido di guerra lanciato nelle piazze romane da lui e dai suoi amici: «Certo quando la gridavamo, quando la chiedevamo eccitati, esultanti, frementi, non si pensava precisamente agli aspetti giornalieri della guerra: ne vedevamo la gloria luminosa, ma non la paziente opera quotidiana». Un’opera quotidiana che destava orrore, che appariva come un brutto sogno da dimenticare: «Certo, se e quando giunga una pace vittoriosa,» scriveva sempre il Morpurgo «io non ricorderò che il principio e la fine […] Scorderò, vorrò scordare lo sforzo lungo, continuo, doloroso della guerra per se stessa». 181 Nulla era più demoralizzante dello spettacolo quotidiano della guerra: «I fanti,» disse Malaparte «senza un lamento, andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare». 182 La vita degli uomini sembrava distruggersi senza scopo: «Chi non ha fatto la guerra sul nostro fronte nel 1915 non può avere un’idea di ciò che significa inutilità del sacrificio». 183 «La morte» soggiunse Prezzolini «era sicura ed inutile. L’eroismo dal basso si mescolava all’imbecillità dall’alto.» 184 Padre Semeria, un barnabita ex modernista, divenuto cappellano militare del gen. Cadorna, era stato un appassionato interventista. Al cospetto della guerra «provò l’angoscia smarrita di aver tradito la sua vocazione sacerdotale»; fu internato in una 102

casa di salute svizzera, pensò addirittura di togliersi la vita, «credendosi colpevole della morte di giovani, di padri di famiglia che alcuni suoi incitamenti potevano forse aver spinto alla guerra». Il Gallarati Scotti, che era andato a trovarlo «in quell’oscuro momento di turbamento della sua ragione», non poté mai dimenticare «il suo viso pallidissimo, cereo, coi grandi occhi neri spalancati fissi e le labbra esangui quasi tremanti, incapaci di esprimere il segreto della sua desolazione». Padre Semeria era un uomo corpulento, con una grande barba nera, e che nelle fotografie del tempo di guerra vediamo quasi sempre sorridente: «Figlio mio, supplicava, prega perché il Signore abbia pietà di me… perché mi salvi». 185 Altri cercavano di non perdere il controllo di se stessi e si preoccupavano di indicare le possibili soluzioni: considerando irrimediabile l’immobilismo del fronte dell’Isonzo, alcuni ritenevano che lo sforzo militare dovesse essere rivolto altrove, e fra questi ultimi era anche Giovanni Amendola, allora ufficiale di artiglieria, che ne scrisse in novembre ad Ugo Ojetti: «Io,» disse «fin dall’agosto, ho intuito che sull’Isonzo non avremmo mai concluso niente: oggi ne ho la certezza assoluta, matematica […] Oggi la nostra iniziativa militare dobbiamo esercitarla altrove: nei campi dove si decide la guerra europea». Secondo Amendola le forze disponibili avrebbero dovuto essere impiegate nei Balcani: «Il nostro intervento nei Balcani poi giustificherebbe al Paese l’arresto dell’offensiva sull’Isonzo e servirebbe a mascherare l’insuccesso». 186 Il sottosegretario alle Colonie, Gaetano Mosca, e il giornalista Vincenzo Morello temevano, in quella situazione, che sopravvenisse improvvisamente la fine del conflitto mondiale. Cosa avrebbero contato gli italiani al tavolo delle trattative di pace se si fossero presentati soltanto con i modestissimi risultati

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dell’Isonzo? Mosca e Morello desideravano pertanto anch’essi una partecipazione alla spedizione dei Balcani, supponendo che se gli anglo-francesi fossero giunti da soli a Costantinopoli la fine della guerra sarebbe stata molto vicina. Ed allora: «Guai per noi se la pace oggi avvenisse, guai per noi rimasti sul Carso e sull’Isonzo dove non abbiamo conquistato che pochi palmi di montagna». 187 Governo e Comando supremo discussero anch’essi del possibile intervento nei Balcani. Cadorna voleva inviare 60.000 uomini in Macedonia, come gli alleati francesi chiedevano; il governo e, soprattutto, Sonnino desideravano invece una spedizione in Albania, per mantenere questo paese entro la «sfera d’influenza» italiana. Lo scontro tra Cadorna e Sonnino ebbe toni drammatici. Il ministro degli Esteri impose la spedizione in Albania, ma Cadorna ottenne che ad essa partecipasse un contingente limitato di truppe. Sia il governo, tuttavia, sia il Comando supremo furono d’accordo nel ritenere in ogni caso secondario il fronte balcanico. Le direttive politico-militari della nostra guerra esigevano, infatti, che il fronte veneto dovesse sempre restare il fronte principale. 188 Cadorna richiese al governo il massimo sforzo finanziario per ottenere tutti quegli uomini e quei mezzi che sarebbero stati necessari nella primavera del ’16 per intensificare l’azione sul fronte veneto e concorrere «con maggiori forze, a far traboccare dalla nostra parte la bilancia, ancora incerta, dell’esito della guerra». 189 La questione finanziaria venne pertanto a turbare anch’essa i già difficili rapporti tra Comando supremo e governo. Cadorna chiedeva larghi mezzi per logorare il nemico, e poneva il governo di fronte alla responsabilità di un insuccesso militare qualora quei mezzi gli fossero stati negati. Il governo avvertiva il peso di

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questa responsabilità e riteneva di trovarsi di fronte a un dilemma irresolubile: la bancarotta, se fossero state accolte le richieste del generale, o la disfatta, nel caso opposto. «Ciò che più affanna Salandra e tutti noi è la finanza» scrisse il Martini in settembre. «Le richieste dello Stato Maggiore per la campagna di primavera sono immense. Come, dove procurare il danaro? E dovremo arenarci per esaurimento economico? Impossibile.» 190 Il presidente del Consiglio prese in considerazione l’eventualità di un ritiro dell’Italia dal conflitto 191 e, il 18 settembre, espose al Consiglio dei ministri i termini di quella drammatica situazione: le richieste del Comando supremo avrebbero condotto a una spesa di 6 miliardi fino a maggio, di 9 miliardi fino a settembre. Si sarebbero potute un po’ ridurre le spese, ma il re non era parso favorevole. D’altra parte, il ridurre le spese avrebbe anche voluto dire ridurre le probabilità di vittoria. Dove trovare il danaro necessario? Il presidente lasciò l’interrogativo senza risposta e i ministri deliberarono molto genericamente che ognuno avrebbe pensato e poi proposto un programma di economie. 192 L’indomani, il ministro della Guerra gen. Zupelli incontrò due suoi colleghi nell’anticamera del duca di Genova, luogotenente del regno, ed accennò «al contegno veramente un po’ troppo dispotico del capo di stato maggiore, alle sue incessanti richieste, al suo non intender ragione circa le possibilità finanziarie», e poi concluse: «Io non veggo via d’uscita: o per dir meglio ne veggo due: o la disfatta o il fallimento; o dichiarare che non possiamo da maggio in poi seguitare la guerra o bruciare il gran libro e non pagare gli interessi del debito pubblico». 193 La questione finanziaria e quella balcanica si complicarono notevolmente in ottobre-novembre ma si risolsero entrambe in un compromesso. Sia Cadorna, sia Zupelli minacciarono le dimissioni. In Consiglio dei ministri, Sonnino propose la sostituzione di Cadorna qualora 105

questi non avesse limitato le proprie richieste. Tutti i ministri approvarono la proposta ma si augurarono che un provvedimento così radicale non fosse necessario: era opinione diffusa che Cadorna godesse la fiducia dell’esercito e del Paese e che la sua rimozione avrebbe avuto un effetto morale disastroso. 194 I ministri in realtà non osavano affrontare i problemi della guerra fino in fondo, poco o nulla conoscevano delle cose militari e si trovavano a disagio nel loro dialogo con Cadorna. Restavano impacciati e perplessi dinanzi alle paurose incognite dell’avvenire. Coloro che a maggio avevano costruito i loro programmi sull’idea di una guerra facile e breve, come ad esempio il Martini e il Riccio, provavano adesso il più amaro scoramento: «Il collega Riccio,» scrisse il Martini alla data del 17 novembre «mentre scendevamo le scale di Palazzo Braschi dopo aver approvato altri 150 milioni di tasse ed imposte, diceva: “L’impressione che da qualche tempo portiamo con noi uscendo dal Consiglio è sempre triste”. Ed è così, purtroppo. Di prender Gorizia in questa prima campagna non si ha più speranza. Lo stato maggiore dice aver fiducia di prenderla a primavera. Perché? perché allora e non ora, se i mezzi a nostra disposizione saranno gli stessi? E pensare che avremmo potuto essere da sei mesi a Gorizia e a Trieste». 195 La guerra si svolgeva ormai in un’atmosfera per molti versi incomprensibile, irrazionale, che lasciava senza facile risposta molti interrogativi. Se Martini non capiva perché mai dovesse essere più facile conquistare Gorizia in primavera, già Cadorna e Vittorio Emanuele non attribuivano più alcun valore pratico alla 106

conquista di quella città tanto contesa. La presa di Gorizia sarebbe servita soltanto a tranquillizzare gli italiani, essi dicevano, ma non avrebbe rappresentato nulla dal punto di vista militare, poiché oramai la guerra era soprattutto guerra di logoramento. «Chissà cosa si crede in Italia di aver fatto quando si è presa Gorizia!» avrebbe esclamato il re il 10 novembre. E un mese più tardi Cadorna scrisse: «E poi che vale entrare in Gorizia? Subito dopo si trovano altre linee fortificate. La presente guerra non può finire che per esaurimento di uomini e mezzi, e l’Austria è molto più vicina di noi ad arrivarci. È spaventoso, ma è così». 196 I neutralisti non assistevano indifferenti al fallimento della guerra così come essa era stata concepita a maggio. In verità anch’essi, o almeno buona parte di essi, si erano ingannati nel maggio sulle reali difficoltà della guerra e si erano preparati ad esclamare presto il loro basta, non appena fossero state conquistate le due città di Trento e Trieste. Ma l’insuccesso militare poté egualmente servire al loro gioco: sia per affermare che l’inganno subìto dagli altri era stato ancor maggiore, sia per dimostrare che il vero patriota era stato colui che in maggio aveva sconsigliato al Paese la pericolosa avventura e non colui che vi si era gettato con leggerezza. 197 «Gli allarmisti della prima ora tendono a riprendere fiato» ammise sintomaticamente il «Corriere della Sera» del 16 settembre. 198 Ma in realtà i neutralisti poco facevano, poiché si trovavano anch’essi coinvolti nella guerra di tutti, dominati dagli eventi e da una situazione così profondamente rinnovata rispetto al passato da non consentire più loro di costituire una vera alternativa di governo. Per di più – come adesso diremo – i rapporti tra il governo e gli stessi interventisti erano molto tesi, ed anche questo fatto consigliava ai neutralisti di non muoversi e stare a guardare.

107

Giolitti e i suoi seguaci, se avessero tentato di rovesciare il governo, avrebbero ricostituito l’unità dei loro avversari e sarebbero andati incontro a responsabilità molto gravi che in quel momento non avevano nessuna intenzione di assumere. 199 E in dicembre, infatti, la Camera giolittiana votò la sua fiducia al ministero che aveva deciso l’intervento con 405 voti favorevoli. L’opposizione, che nel maggio aveva raccolto 74 voti, discese a quota 48. Erano gli interventisti a costituire in quei giorni la più consistente minaccia per Salandra. La loro inquietudine non nasceva soltanto dal fatto – già accennato – che in loro ben più grandi erano stati il crollo delle illusioni e il peso delle responsabilità, quanto anche dalla mancanza di una adeguata rappresentanza in seno al ministero di molte delle loro correnti: non condividevano l’impostazione limitata data dal governo alla «nostra guerra»; reclamavano concordemente ed invano la dichiarazione di guerra alla Germania. 200 Come nell’esercito gli interventisti si trovavano più degli altri in una condizione di disagio, così anche nel Paese proprio essi risultavano essere i più inquieti e scontenti. Sei mesi di guerra avevano cancellato i trascorsi entusiasmi al punto che – lo ha ricordato Rino Alessi, un giornalista interventista – nel «funereo autunno del 1915 […] le radiose giornate di maggio erano diventate il più fastidioso dei ricordi e il solo nominarle assumeva il sapore amaro del sarcasmo». 201

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Note 1

La censura sulla stampa e sulla posta, nonché alcune modifiche alla Legge di Pubblica Sicurezza, furono istituite il 23 maggio 1915, con i decreti nn. 674, 675 e 689. Cfr. A. SALANDRA , L’Intervento, Milano 1930, pp. 308-11.←

2

Cfr. P. MELOGRANI , I riformisti italiani e la guerra in alcuni documenti del giugno 1915, in «Rivista storica del socialismo», n. 28, maggio-agosto 1966, pp. 102-14.←

3

Su De Lollis e il suo gruppo cfr. M. VINCIGUERRA , Il gruppo di «Italia nostra», in «L’osservatore politico letterario», maggio 1965, pp. 53-80.←

4

A. SALANDRA , L’Intervento, cit., p. 311.←

5

Cfr. ibidem, pp. 376-77, e N.S. ONOFRI , La Grande guerra nella città rossa, Milano 1966, pp. 149-50.←

6

Cfr. B. VIGEZZI , Le «Radiose giornate» del maggio 1915 nei rapporti dei Prefetti, in «Nuova rivista storica», settembredicembre 1959, pp. 313-44 e gennaio-aprile 1960, pp. 54111.←

7

Dopo la caduta del Di Rudinì (1898) nessuno dei dieci ministeri susseguitisi fino a quello Salandra era stato presieduto da un uomo politico meridionale.←

8

Cfr. B. VIGEZZI , Le «Radiose giornate», cit., pp. 101-03. Il Monti fece inoltre notare quanto fosse assurdo affermare che, in maggio, la gioventù era nelle piazze a reclamare l’intervento, dato che già nell’aprile si trovavano alle armi le classi dal 1887 al 1894 e tutti gli ufficiali di complemento nati dal 1882 in poi; tutta la parte fisicamente più valida della gioventù era 109

insomma in divisa e si trovava per questa ragione nell’impossibilità di far valere la sua opinione nella stampa, nei comizi e nelle dimostrazioni. Cfr. A. MONTI , Combattenti e silurati, Ferrara 1922, p. 26.← Editing 2017: nick2nick www.italiashare.info 9

F. MARTINI , Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano 1966, p. 450.←

10

Il rapporto del col. François è citato in H. CONTÀMINE , La guerre italienne vue par des officiers français. Documents inédits, 19151918, estratto dall’«Annuario dell’Università di Padova», 1958-59, p. 7.←

11

Il testo della lettera è pubblicato nel saggio citato alla nota 2.←

12

Le cifre si riferiscono ai soli votanti. Gli aventi diritto al voto furono infatti 2.930.000 nel 1909 e 8.443.000 nel 1913.←

13

Cfr. PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, Relazione amministrativa, anni 1914-1917, Roma 1917, pp. 59, 61, 66, 79, 83.←

14

Cfr. La Confederazione Generale del Lavoro, negli atti, nei documenti, nei congressi, 1906-1926, a cura di L. Marchetti, Milano 1962, pp. 187 e 315.←

15

F.S. NITTI, Rivelazioni, Dramatis personae, Napoli 1948, pp. 387-88. In altra parte dello stesso volume (pp. 183-84) Nitti ha anche scritto: «Avevo udito con le mie stesse orecchie in un piccolo circolo di amici riuniti in una sala del Senato ai primi di aprile 1915 il generale Cadorna dire che l’Italia, entrando in guerra, poteva essere sicura di essere dopo un mese a Trieste e di minacciare i centri vitali dell’Austria».←

110

16

A. PINCHERLE , Ricordi sul maggio 1915, in «Clio», novembre 1965, pp. 483-84.←

17

G. VOLPE , Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915), Milano 1940, p. 265.←

18

Cfr. O. CIMA , Milano durante la guerra, noterelle in agrodolce di un Ambrosiano, Milano s.d., pp. 63-64. Cfr. anche l’ordine dato dal sindaco di Bologna, da noi citato a p. 19.←

19

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca 1915-1918, Bologna 1920, p. 111.←

20

G. BORSI , Lettere dal fronte (agosto-novembre 1915), Torino s.d., p. 132.←

21

Su un assalto condotto dagli alpini italiani al suono della banda musicale del reggimento, cfr. F. WEBER , Tappe della disfatta, Milano 1965, p. 29.←

22

A. MONTI , Combattenti e silurati, Ferrara 1922, p. 47.←

23

C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, in L’Europa vivente e altri saggi politici (1921-1931), Firenze 1961, pp. 48-49.←

24

A. OMODEO , Momenti della vita di guerra (Dai Diari e dalle Lettere dei Caduti), Bari 1934, p. 18.←

25

A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, Bari 1930, p. 36.←

26

G. BOUTHOUL , Le guerre, Elementi di polemologia, Milano 1961, p. 370.←

27

Ibid., p. 352.←

28

J. HUIZINGA , Homo ludens, Milano 1964, pp. 135-36 e 298.← 111

29

Cfr. anche quanto si legge in G. BOUTHOUL , Le guerre, cit., p. 354.←

30

Atti Parlamentari, Senato, Discussioni, seduta del 16 dicembre 1915, pp. 1908-9. Cfr. inoltre: F. L. PULLÈ- G. CELESIA DI VEGLIASCO , Memorie del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale, Bologna 1932, p. 9, e E. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, Milano 1927, p. 264.←

31

L. GASPAROTTO , Rapsodie (Diario di un fante), Milano 1923, p. 38.←

32

Per la memoria del dott. Giuseppe Tellini, Bologna 1915, s.p. (lettere del 20 giugno e 21 luglio 1915), citato anche da A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., pp. 395-96.←

33

Cfr. l’«Avanguardia» del 6 giugno 1915, p. 2 (Propositi), e dell’8 agosto 1915, pp. 1 e 2 interamente dedicate alla figura del Catanesi.←

34

N.S. ONOFRI , La Grande guerra nella città rossa, cit., pp. 14850.←

35

«Il Resto del Carlino», 3 agosto 1915, p. 4 (I soldati bolognesi al fronte. Le impressioni del sindaco e dell’on. Bentini). Anche M. PUCCINI , Psicologia di guerra, Spirito di corpo, in «La Lettura», luglio 1916, pp. 653-56, parla della trasformazione che subirono i «sovversivi» una volta indossata la divisa.←

36

L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 25.←

37

F. MARTINI , Diario, cit., pp. 494 e 505.←

38

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, Bologna 1952, parte II, vol. II, pp. 150 e 154-55.← 112

39

Cfr. G. BORSI , Lettere dal fronte, cit., pp. 40-42 e 73. «Il Resto del Carlino» del 30 luglio 1915, p. 3, pubblicò la fotografia di un volontario, l’avv. De Cinque, mentre parlava ai soldati poche ore prima del combattimento nel quale rimase ferito.←

40

ACS, Mostra della rivoluzione fascista, II, p. 30, circolare n. 2025 (cit. in R. DE FELICE , Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino 1965, pp. 319-20).←

41

F. MARTINI , Diario, cit., p. 486. Sul caso Mussolini cfr. R. DE FELICE , Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 320.←

42

F. MARTINI , Diario, cit., p. 428, e cfr. pp. 429-40.←

43

Circolare 16 giugno 1915 n. 23795 della Direz. Gen. di P.S. ai Prefetti del Regno in ACS, Conflagrazione europea, b. 45 B. Sulla questione dei volontari cfr. anche ibid., b. 9, nonché LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, I, Cose riguardanti l’esercito (Fratelli Garibaldi). Alcune notizie sui volontari milanesi considerati dall’autorità con scetticismo misto a sospetto in E. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano, cit., pp. 254-59. Per informazioni di carattere generale sui volontari milanesi della «Sursum Corda», cfr. G. CUCCHETTI , I cittadini-soldati, in «La Lettura», aprile 1915, pp. 374-75.←

44

E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista e combattuta io, Milano 1935, p. 39.←

45

Cfr. MI N I S T E RO DE L L A GU E R R A , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella Guerra Mondiale, La forza dell’esercito, Roma 1927 (Bozze di stampa), pp. 28-29. La cifra di 8.000 volontari è ripetuta anche da E. SCALA , Storia delle Fanterie Italiane, vol. IX, I volontari di guerra, Roma 1955, p. 665. Un’eco dei commenti sfavorevoli dell’opinione pubblica 113

per il gran numero di interventisti rimasti a casa può trovarsi in G. DE ROBERTIS , Il signor pubblico, in «La Voce» del 15 luglio 1915, riprodotto in La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. IV, «Lacerba», «La Voce» (1914-1916), a cura di G. Scalia, Torino 1961, pp. 553-54. Con risentimento il De Robertis scrisse per difendere gli interventisti: «Ha più diritto di rimanere a casa un interventista intelligente che un neutralista». Per quanto riguarda inoltre la cifra complessiva dei volontari si consideri che come tali furono arruolati anche i proprietari di un certo numero di autovetture requisite, cfr. qui di seguito la nota 68.← 46

Cfr. G. PINI e D. SUSMEL , Mussolini, L’uomo e l’opera, vol. I, Firenze 1957, pp. 288, 290 e 449.←

47

R. GARIBALDI , I fratelli Garibaldi dalle Argonne all’intervento, Milano 1934, pp. 182 e passim. Si noti che le famiglie dei volontari non ricevevano sussidio alcuno. Allorché, nel marzo 1916, l’on. De Felice chiese che le famiglie dei volontari fossero trattate come tutte le famiglie degli altri combattenti, i rappresentanti del governo dichiararono che non c’erano fondi e che, d’altra parte, quei soldati erano pochi ed appartenenti in maggioranza a famiglie che non si trovavano in ristrettezze. Il «Popolo d’Italia» commentò la vicenda scrivendo che il volontario era «un po’ il reprobo dell’esercito». Nel febbraio 1917 il Comando supremo avvertì i comandi delle grandi unità che – secondo informazioni raccolte – gli agenti dello spionaggio austriaco ricevevano notizie da volontari di guerra arruolati nell’esercito italiano. Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, Roma 1937, p. 162.←

48

C. BATTISTI , Epistolario, a cura di R. Monteleone e P. Alatri, 114

Firenze 1966, vol. II, p. 73, lettera del 25 luglio 1915 alla moglie Ernesta.← 49

Ibid., p. 109, lettera del 19 agosto 1915 a Irene Bittanti Trener.←

50

Ibid., p. 177, lettera dell’8 ottobre 1915 a G. Pedrotti←

51

Ibid., p. 222, lettera dell’11 novembre 1915.←

52

G. PREZZOLINI , Caporetto, Roma 1919, pp. 18-19.←

53

A. GEMELLI , Il nostro soldato, Saggi di psicologia militare, Milano 1917, p. 100.←

54

C. BATTISTI , Epistolario, cit., vol. II, pp. 308-09, lettera del 9 gennaio 1916.←

55

Promemoria riservatissimo n. 976, 16 dicembre 1914, del Comando del Corpo di Stato Maggiore, in ACS, Primo aiutante, b. 13.←

56

Cfr. G. SALVEMINI , Guerra o neutralità?, Milano 1915, p. 20.←

57

ACS, Carte Salandra, scat. 10, (Appendice). A Sciara-Sciat, in Libia, quattro anni prima, le truppe italiane erano state violentemente attaccate da quelle turco-arabe, mentre una parte della popolazione le aveva assalite contemporaneamente alle spalle. Gli italiani avevano subìto gravi perdite e si erano verificati episodi di inaudita crudeltà.←

58

Cfr. M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, Milano 1939, p. 258. Ma cfr. anche E. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, cit., p. 136.←

59

M. FIORE , Diarii e ricordi, Napoli 1934, p. 200.←

115

60

MINISTERO DELLA GU E R R A , COMANDO DEL CORPO DI STATO MAGGIORE, SEZIONE STORICA, Bandi, ordinanze e proclami emanati durante la guerra italo-austriaca (Bozze di stampa, edizioni fuori commercio), Roma 1917-1919, vol. I, p. 49.←

61

F. ROCCA , Vicende di guerra, Firenze 1926, pp. 175-76. Sulla ossessione dello spionaggio nei primi tempi della guerra, cfr. A. VALORI , La condotta politica della guerra, Milano 1934, pp. 194 sgg., e E.M. GRAY , Germania in Italia, Milano 1915, p. 31.←

62

ACS, Carte Riccio, fasc. 1 (p. 169 del diario). Il 21 giugno il presidente Salandra scrisse a Cadorna per dirgli che il Vescovo del Campo (mons. Bartolomasi) doveva essere subito insediato e spronato ad esercitare la sua influenza soprattutto sul clero austriacante. V. LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 7.←

63

Cfr. A. SALANDRA , L’intervento, cit., p. 352; A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 68; F. MARTINI , Diario, cit., pp. 63, 80 e 504, nonché L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, Milano 1934, pp. 146, 156 e 165.←

64

Cfr. E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 37; L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 154; A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., pp. 67-68.←

65

Cfr. E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 35, e L. CAPELLO , Note di guerra, Milano 1920, vol. I, p. 53; E. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano, cit., p. 264.←

66

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 73 e A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., pp. 47-48.←

67

Inchiesta Caporetto, II, pp. 29-30. Sulla questione dei fucili Wetterli cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 338 e 370; si veda però 116

anche LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, doc. 13 e 14. Cfr. inoltre A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., pp. 72-73.← 68

Cfr. E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 49. Il De Bono narra che nei giorni successivi giunse un buon numero di autocarri e di macchine, «la maggior parte requisite e condotte dagli stessi proprietari, i quali all’inizio furono ingaggiati come volontari automobilisti» (ibid. p. 54).←

69

Cfr. F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., p. 13.←

70

Cfr. B.W. TUCHMAN , I cannoni d’agosto, Milano 1963, p. 53.←

71

Cfr. A.J.P. TAYLOR , The first World War, Norwich 1966, pp. 2324, e B.W. TUCHMAN , I cannoni d’agosto, cit., p. 248.←

72

Cfr. G. ROCHAT , L’esercito italiano nell’estate 1914, in «Nuova rivista storica», maggio-agosto 1961, p. 339.←

73

Cfr. B.W. TUCHMAN , I cannoni d’agosto, cit., pp. 50-51 e 148. Anche Kitchener, tuttavia, disprezzava i territoriali, ibid., pp. 233-34.←

74 75

76 77

Ibid., pp. 208-209.← C. PETTORELLI- LALATTA , ITO (Informazioni Truppe Operanti), Note di un Capo del Servizio Informazioni d’Armata (19151918), Milano 1934, p. 38.← A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 53.← L. CADORNA , Pagine polemiche, Milano 1950, pp. 232-41. Giudizi negativi sulle norme emanate da Cadorna in P. PIERI , L’Italia nella Prima guerra mondiale (1915-1918), Torino 1965, pp. 65-66 e 79.←

117

78

Cfr. C. SALSA , Trincee (Confidenze d’un fante), Milano s.d., p. 78.←

79

G. ROCHAT , La preparazione dell’esercito italiano nell’inverno 1914-15 in relazione alle informazioni disponibili sulla guerra di posizione, in «Il Risorgimento», febbraio 1961, p. 25.←

80

L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 166.←

81

A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., pp. 79-81. Sulla partecipazione delle bande musicali agli assalti degli italiani contro i forti austriaci del Trentino, cfr. l’episodio già riferito nella precedente nota 21.←

82

E. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano, cit., pp. 255-56, 274-75 e 283-84. Michele Pericle Negrotto era un fervente nazionalista militante, che nel dicembre 1910, a Firenze, era stato relatore al primo congresso nazionalista, e che aveva fondato e comandato il Battaglione Volontari Milano. Cfr. C. BATTISTI , Epistolario, cit., vol. II, p. 21; M.P. NEGROTTO , I Battaglioni volontari e il loro congresso-convegno in Milano, Brescia 1912 e P.M. ARCARI , Le elaborazioni della dottrina politica nazionale fra l’unità e l’intervento (1870-1914), Firenze 1934-1939, vol. III, pp. 3 e 643, ove si legge che al congresso del 1910 il Negrotto tenne una relazione sulla preparazione militare; secondo l’Arcari quello del Negrotto fu il primo audace tentativo di una educazione militare della gioventù.←

83

Sul piano offensivo italiano cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 85 sgg. Cfr. inoltre G. ROCHAT , L’esercito italiano nell’estate 1914, cit., p. 332, nota 2. Il Rochat cita un documento dell’Archivio Cadorna dal quale risulta che il generale, nel dicembre 1914, «per dare una base ai calcoli sul 118

fabbisogno di complementi, abbozzava a grandi linee il possibile andamento di una campagna contro l’AustriaUngheria: una grande battaglia in territorio austriaco entro 15 giorni dall’inizio delle operazioni, a due o tre tappe dal confine ed una seconda grande battaglia a sei-sette tappe dal confine entro 45 giorni: raggiunta la zona di Lubiana, si sarebbe puntato su Vienna». I piani difensivi degli Imperi centrali e quello offensivo di Cadorna sono inoltre riassunti in P. PIERI , L’Italia nella Prima guerra mondiale, cit., pp. 75-80.← 84

Il generale Cadorna, a questo proposito, mosse dei rimproveri al comandante della IV armata, gen. Nava, e ai comandanti della cavalleria operante sulla fronte Giulia. Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 131-33. Anche sul Carso gli austriaci erano pochi, cfr. ibid., pp. 123-24, nota 1.←

85

L. CADORNA , Lettere famigliari, a cura di R. Cadorna, Milano 1967, p. 135 (lettera del 17 gennaio 1916).←

86 87

88

Ibid., pp. 127-28.← Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., pp. 91 e sgg.; nonché P. PIERI , La nostra guerra tra le Tofane, Napoli 1930, pp. 26-28.← E. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano, cit., pp. 267-85.←

89

Uno dei due moribondi era il ten. col. M.P. Negrotto, del quale si è già discorso nelle pagine precedenti.←

90

La tavola di A. Beltrame fu pubblicata dalla «Domenica del Corriere» del 20-27 giugno 1915.←

91

LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 4, lettera di Cadorna a Salandra del 13 giugno 1915 sui problemi della mobilitazione 119

industriale. Il gen. Cadorna era azionista della società Ansaldo, come risulta da L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 138 (lettera dell’8 febbraio 1916).← 92

Sulla inutilità delle forbici tagliafili distribuite ai soldati italiani cfr. E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., pp. 35 e 123-24, nonché F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., p. 17 e Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 31-32. Si noti inoltre che lo stesso Cadorna – che nella lettera del 13 giugno reclamava altre pinze tagliafili – nelle memorie da lui scritte a guerra finita si guardò bene dal far cenno di questa sua richiesta e disse invece che le pinze erano mezzi primitivi e molto pericolosi. Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 137-38.←

93

Ibid., n. 5, lettera di Cadorna a Salandra del 17 giugno 1915, avente per oggetto la «Riunione della Commissione dei Rappresentanti militari delle Potenze della quadruplice Intesa per fissare la data dello svolgimento d’una concorde azione offensiva». Cadorna diede un riassunto di questa sua lettera in La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 106-11.←

94

Si noti che nella sua replica del 21 giugno, Salandra non si pronunciò né per l’offensiva né per la difensiva, ignorando completamente il problema. Cfr. LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 7, lettera di Salandra a Cadorna del 21 giugno 1915.←

95

Sui motivi che spinsero Cadorna ad iniziare la prima battaglia dell’Isonzo cfr. R. BENCIVENGA , La campagna del 1915, Saggio critico sulla nostra guerra, Roma 1933, pp. 80 sgg.←

96

Ibid., pp. 104-105.←

120

97

LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 11, lettera di Cadorna a Salandra del 3 agosto 1915. Due giorni dopo Cadorna scrisse al Thaon di Revel, capo di stato maggiore della Marina, per informarlo che, secondo vari indizi, gli austriaci stavano concentrando forze assai notevoli sul Carso, e per richiedergli artiglieria da Marina. Cfr. ACS, Primo aiutante, sc. 28.←

98

L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 148←

99

R. BENCIVENGA , La campagna del 1915, cit. p. 213.←

100

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 438-39, tav. 33 e MINISTERO DELLA GU E R R A , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare, La forza dell’esercito, cit., pp. 183 sgg., dati sull’esercito operante, che per tutto l’anno 1915 oscillò tra 975.000 e 1.050.000 unità.←

101

E. CAVIGLIA , Diario (aprile 1925-marzo 1945), Roma 1952, p. 116. Cfr. altre dichiarazioni di Caviglia in A. CAPPA , La guerra totale, Politica e strategia nel XX secolo, Milano 1940, p. 168.←

102

Cfr. F. MARTINI , Diario, Milano 1966, pp. 527 e 537.←

103

A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 274.←

104

C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., pp. 58-59. Nel novembre un prigioniero ungherese disse al Malaparte: «Il vostro spirito di sacrificio e la vostra rassegnazione cominciano a disgustare anche noi». Ibid., p. 62.←

105

R. BENCIVENGA , La campagna del 1915, cit., pp. 31-32.←

106

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, Amatrice 1956, vol. I, p. 21.←

107

Cfr. M. CARACCIOLO , L’Italia nella Guerra mondiale, cit., p. 92.← 121

108

Cfr. C. PREMUTI , Eroismo al fronte - Bizantinismo all’interno, Roma 1924, pp. 38-39; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 59; N. SALVANESCHI , Contro il freddo, in «La Lettura», novembre 1915, pp. 1017-24.←

109

C. BATTISTI , Epistolario, cit., vol. II, pp. 113-14, 128, 139, 153 e 162.←

110

F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., p. 26.←

111

Cfr. Circolari Comando supremo, p. 102, circ. n. 2860, del 24 agosto 1915 dell’Ufficio Aff. Vari Segret. Sezione Discipl.←

112

Cfr. G. MORTARA , La salute pubblica in Italia, durante e dopo la guerra, Bari 1925, pp. 212 e 382 sgg. Alcune unità furono decimate dall’epidemia, perché il numero dei colpiti, in taluni reggimenti, superò il 20% della forza media, e il numero dei morti l’8%.←

113

G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, Bologna 1919, pp. 72-73. Narrò il Lorenzini che gli ammalati di colera erano curati soltanto con «un po’ di cognac diluito con acqua; fino a che con l’ultimo fiotto di vomito veniva fuori anche l’anima e non se ne parlava più». E. LORENZINI , La guerra e i Preti soldati, Padova 1929, pp. 34-35.←

114

A. CAMPODONICO , Lauri di gloria. Epistolario d’un eroe. Lettere del tenente A.C., Genova 1918, pp. 65-66. (Citato anche in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 76.)←

115

Dall’epistolario inedito di T. Capocci, citato nel volume dell’Omodeo, a p. 289.←

116

ACS, Primo aiutante, b. 26, Lettera del comando della divisione speciale bersaglieri, prot. 389, 25 ottobre 1915, al 122

comando del IV corpo d’armata← 117

Ibid., Lettera del comando del IV corpo d’armata, prot. 4699, 26 ottobre 1915, al comandante della II armata.←

118

Ibid., Lettera del capo di stato maggiore dell’esercito al comandante della II armata, prot. 890, 28 ottobre 1915.←

119

Ibid., b. 28, Lettera del comando dell’XI corpo d’armata, prot. 7004, 23 novembre 1915, al comando della III armata. Per i fatti alla brig. Spezia, ibid., b. 26.←

120

Ibid., b. 26, Telegramma a mano del comando della II armata, n. 11855, 25 novembre 1915, al Comando supremo, e Telegramma del Comando supremo, n. 1072/G, 26 novembre 1915, al comandante della II armata. Il gen. Frugoni fu esonerato dal comando della II armata.←

121

L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, p. 226←

122

Mussolini attestò che nella zona del Monte Nero occupata dall’11° bersaglieri, gli austriaci erano in grado di far rotolare macigni sopra agli italiani che occupavano trincee di mezza costa: «Qui il macigno è un’arma micidiale quanto il cannone!». Cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra (19151917), in Opera omnia a cura di E. e D. SUSMEL , vol. XXXIV, p. 15 (alla data del 19 settembre 1915).←

123

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 324-25. Durante l’anno in cui il gen. Diaz rivestì la carica di comandante supremo furono silurati 176 ufficiali; pertanto durante l’intero corso della guerra si arrivò a un totale di 983 siluramenti. Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 75-76.←

124

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 342.← 123

125

Ibid., p. 344.←

126

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 74. Nell’aprile 1918 il gen. Diaz rifiutò di ammettere al comando di unità mobilitate 14 alti ufficiali su 15. (Espresse parere favorevole per il magg. gen. Graziani, ma parere contrario per i ten. gen. Nasalli Rocca, Grandi, Briccola, Angelotti, Reisoli, Segato, Lequio, Cigliana, Frugoni, Nava, Aliprindi, Ragni, Garioni e Roffi.) Cfr. ACS, Primo aiutante, b. 25, lettera del capo di stato maggiore dell’esercito al ministro della Guerra, prot. 25585 (uff. personale), del 30 aprile 1918.←

127

ACS, Primo aiutante, b. 26, Comando supremo, Riparto operazioni, Uff. Aff. Vari, Sez. istruzioni e disciplina, circolare n. 3969 del 4 novembre 1915. La circolare fu stampata e inviata a tutti gli ufficiali in servizio di stato maggiore dell’intero esercito.←

128

R.D. 28 novembre 1869, n. 5378. Sul regime penale militare cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, I processi della Prima guerra mondiale, Bari 1968.←

129

Cfr. MINISTERO DELLA GUERRA , Per una riforma della legislazione militare, Lavori della commissione istituita con R.D. 16 novembre 1920, raccolti e pubblicati a cura del presidente on. prof. A. Berenini, senatore del regno, e del segretario G.C. Rubbiani, Roma 1925, p. 26.←

130

Il testo della circolare è in L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 59-61.←

131

Circolari Comando supremo, p. 106, circolare del 5 settembre 1916, n. 22591, reparto discipl. av. giust. milit. Altre circolari (tutte del reparto discipl.) furono, oltre a quella citata del 9 124

luglio 1915, n. 422, le circolari 12 agosto 1915, 1021 (Ritardi rilevati nella definizione delle cause, ecc.); circ. 30 agosto 1915, n. 1508 (Mancata convocazione di tribunali straordinari, ecc.); circ. 12 settembre 1915, n. 1981 (Sollecita definizione delle procedure, ecc.); circ. 15 settembre 1915, n. 2001 (Tribunali straordinari); circ. 20 ottobre 1915, n. 2933 (Inchieste penali reggimentali); circ. 5 dicembre 1915, n. 4702 (Intervento di persona tecnica nei tribunali straordinari); circ. 22 marzo 1916, n. 10261 (Mitezza rilevata nei tribunali straordinari e nei tribunali ordinari di guerra. Raccomandazioni per la accurata scelta dei giudici); circ. 1° aprile 1916, n. 10993 (Composizione di tribunali speciali e di consigli di disciplina); circ. 8 aprile 1916, n. 11451 (Persistente mitezza dei giudicati dei tribunali straordinari, ecc.); circ. 15 agosto 1916, n. 21138 (Mitezza rilevata nei giudicati dei tribunali speciali per ufficiali).← 132

Circolare del Comando supremo, del 28 settembre 1915, n. 3525, Ufficio Aff. vari e segret. sezione Discipl., pubblicata in A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., pp. 88-89. La circolare fu distribuita a tutti gli ufficiali dell’esercito. Sull’argomento cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 84.←

133

ACS, Presidenza, b. 102, fasc. 8, lettera di Cadorna a Salandra del 15 ottobre 1915, n. 702 G, e lettera di Orlando a Salandra del 20 ottobre 1915. L’osservazione sul fatto che la grazia sovrana costituiva una prerogativa derivante dallo Statuto è contenuta nella lettera di Salandra a Cadorna del 25 ottobre 1915, ibid.←

134

Cfr. Circolari Comando supremo, p. 109, circolari nn. 1816 (8 sett. 1915), 6769 (25 genn. 1916) e 16798 (23 giugno 1916).←

125

135

«La Stampa», 2 luglio 1915 (Due sistemi).←

136

«La Stampa», 22-23 luglio 1915.←

137

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 498 (alla data del 24 luglio 1915).←

138

Riassunto della circolare 22 luglio 1915, n. 1849, Ufficio Aff. vari, sezione Discipl., in Circolari Comando supremo, p. 82. Cfr. inoltre L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 64-65.←

139

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 119 (lettera del 14 agosto 1915).←

140

Cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, Roma 1924, p. 199.←

141

Cfr. «La Stampa», 4 luglio 1915, p. 4 (L’inchiesta del Governo sull’affondamento del San Daniele. I giornalisti al campo).←

142

V. l’elenco dei 36 quotidiani e periodici in A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., p. 193. Molte notizie sulle difficoltà incontrate dalla stampa nel ricevere informazioni dal fronte in L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926, a cura di O. Barié, Milano 1968, pp. 391 sgg.←

143

Cfr. ibid., p. 195. Per i servizi informativi inviati da L. Barzini alla direzione del «Corriere della Sera», cfr. A. ALBERTINI , Vita di Luigi Albertini, Roma 1945, p. 131. Sulle informazioni altrettanto riservate inviate da R. Alessi al direttore del «Secolo», G. Pontremoli, cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, Lettere clandestine di un corrispondente di guerra, Milano 1966. Infine cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 536.←

144

Cfr. ACS, Presidenza, b. 19.6.4 (119), lettera di Cadorna (reparto operazioni uff. vari) del 13 luglio 1915, n. 484, al 126

ministro delle Poste on. V. Riccio. Di quest’ultimo cfr. inoltre il diario, in ACS, Carte Riccio, fasc. 1, pp. 83 sgg. Il disservizio non dipendeva soltanto dalla censura ma anche dal fatto che non si conosceva l’ubicazione dei reparti. Sulle preoccupazioni e le proteste che la mancanza di notizie da casa creava fra i soldati cfr. C. BATTISTI , Epistolario, cit., II, pp. 18, 20-21, 36-37 e 63, nonché U. OJETTI , Lettere alla moglie, 1915-1919, a cura di F. Ojetti, Firenze 1964, pp. 14-15. Notizie sulla censura e il disservizio postale in O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, Roma 1937, pp. 90-91 e 103. Cfr. inoltre L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 58-59.← 145

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 28, 37, 40 e 44.←

146

C. BATTISTI , Epistolario, cit., II, p. 57.←

147

ACS, Presidenza, b. 19.6.4 (119), lettera del ministro Zupelli (ministero della Guerra, Segr. gen., Div. stato maggiore, sez. III) al gen. Cadorna, del 25 agosto 1915, n. 4957 G.←

148

ACS, Presidenza, b. 19.6.4 (119), lettera del gen. Cadorna (Comando supremo, riparto operazioni, uff. informaz.) dell’8 settembre 1915, n. 4248, al ministero della Guerra, Segr. gen., Div. stato maggiore.←

149

Ibid., lettera del ministro della Guerra (Segr. generale, Div. stato maggiore, sez. III) del 16 settembre 1915, n. 5358-G, diretta a Salandra.←

150

Ibid., lettera del gen. Cadorna, del 17 settembre 1915, diretta a Salandra.←

151

Ibid., Circolare del 20 settembre 1915, del presidente del Consiglio dei ministri, n. 10-6-4-17.← 127

152

Ibid., lettera del prefetto di Bologna, 24 settembre 1915, Gabinetto, n. 36-6, al presidente del Consiglio.←

153

Ibid., lettera del prefetto di Ravenna, 27 settembre 1915, uff. prov. di PS, div. I, n. 3989, al presidente del Consiglio.←

154

Ibid., lettera del prefetto di Parma, 3 novembre 1915, Gabinetto, n. 1691, al presidente del Consiglio. Rispose anche il prefetto di Messina, lettera 24 settembre 1915, Gabinetto, n. 711-19, al presidente del Consiglio, ibid., dichiarando che gli uffici dipendenti, i carabinieri e la guardia di finanza esercitavano la più attenta vigilanza, ma che l’autorità giudiziaria non secondava. Citava – con scandalo – un caso grave e flagrante, per il quale il giudice istruttore aveva dichiarato il non luogo a procedere.←

155

F. MARTINI , Diario, cit., p. 509.←

156

Ibid., p. 579 (alla data dell’11 novembre 1915).←

157

Ibid., p. 534 (ove è riportata la frase di Salandra), e pp. 54447 (sulle iniziative propagandistiche non approvate dal Martini). Per i commenti dei neutralisti al discorso di Orlando, cfr. ibid. pp. 586-87, e «La Stampa», 23-24 novembre 1915, p. 4 (L’oracolo di Delfo) e giorni seguenti. Cfr. inoltre L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 122-24. Lo stesso Orlando, in una conversazione avuta con O. Malagodi cinque giorni prima di parlare a Palermo, aveva confessato che in maggio il governo si era ingannato sulla situazione militare e politica. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra (19141919), a cura di B. Vigezzi, Milano-Napoli 1960, vol. I, p. 72.←

158

Inchiesta Caporetto, pp. 326-27.←

159

La lettera è pubblicata in G. GIOLITTI , Quarant’anni di politica 128

italiana (dalle carte di G. Giolitti), vol. III, Dai prodromi della Grande guerra al fascismo, 1910-1928, a cura di C. Pavone, Milano 1962, pp. 186-88.← 160

U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 141.←

161

L. CAPELLO , Note di guerra, cit., I, pp. 190 e 193-94 (rapporto del 15 novembre e dei primi del dicembre 1915).←

162

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 112 (lettera del 9 luglio 1915).←

163

Ibid., p. 116 (lettera del 4 agosto 1915).←

164

Ibid., p. 120 (lettera del 6 settembre 1915).←

165

Ibid., p. 107 (lettera del 10 giugno 1915).←

166

Ibid., p. 116 (lettera del 4 agosto 1915).←

167

Ibid., p. 112 (lettera del 9 luglio 1915).←

168

Ibid., p. 128 (lettera del 6 novembre 1915).←

169

Ibid., p. 130 (lettera del 28 novembre 1915).←

170

ACS, Carte Brusati, sc. 11, fasc. VIII, 4-48, carta 134.←

171

Ibid.←

172

Sui motivi che indussero il Comando a sospendere l’offensiva cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 156 sgg.←

173

Sull’argomento cfr. V. DE CAPRARIIS , Partiti politici ed opinione pubblica durante la Grande guerra, in ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO, Atti del XLI congresso di storia del Risorgimento italiano (Trento, 9-13 ottobre 1963), Roma 1965, 129

pp. 122-23. Il De Caprariis spiegò il risorgere delle divergenze tra gli interventisti con il fatto che questi ultimi avevano ormai raggiunto il loro fine immediato (l’intervento) e non tenne conto dell’influenza che le vicende militari avevano avuta al riguardo.← 174

A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., pp. 311-12.←

175

G. CASTELLINI , Tre anni di guerra, Milano 1919, p. 86.←

176

P. MARCONI , Io udii il comandamento, Roma s.d., p. 82. Citato anche in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 262.←

177

Dall’epistolario inedito di N. Battaglia citato nel volume dell’Omodeo, p. 281. Sulla figura del Battaglia, oltre a quanto detto nel volume dell’Omodeo, cfr. V. GALIZZI , Giolitti e Salandra, Bari 1949, pp. 121-47.←

178

Così scrisse Silvano Fasulo, citato in R. DE FELICE , Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965, p. 323.←

179

Cfr. A. FRESCURA , Diario di un imboscato, Bologna s.d., pp. 14042 (alla data 21 dicembre 1916), nonché G. PREZZOLINI , Caporetto, Roma 1919, pp. 18-19 e Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 476, nota 1.←

180

M. SARFATTI , Dux, Milano 1932, p. 181. Allorché, nel febbraio 1917, Mussolini fu ferito due suoi commilitoni si rifiutarono di trasportarlo all’ospedale. Cfr. G. PINI- D. SUSMEL , Mussolini, l’uomo e l’opera, Firenze 1957, vol. I, p. 323.←

181

G. MORPURGO , MDCCCXCVI-MCMXVI, Firenze 1926, p. 15. Citato anche nel volume dell’Omodeo, p. 275.←

182

C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 58.← 130

183

Ibid., pp. 56-57.←

184

G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., p. 13.←

185

T. GALL AR ATI SCOTTI , Idee e orientamenti politici e religiosi al Comando supremo: appunti e ricordi, in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale (Atti del convegno di studio tenuto a Spoleto nei giorni 7-8-9 settembre 1962), a cura di G. Rossini, Roma 1963, p. 510. Cfr. anche G. DE ROSSI , Quotidie morior…, in «Il prete al campo», 15 febbraio 1916, p. 50, ove si legge che il padre Semeria era stato messo «temporaneamente fuori combattimento» da «un accesso acuto di nevrastenia», poiché egli aveva avuto «per mesi dinanzi agli occhi lo spettacolo completo di quanto accadeva lungo tutta la linea».←

186

E. AMENDOL A KÜHN , Vita con Giovanni Amendola, Epistolario 1903-1926, Firenze 1961, pp. 395 e 397 (lettere di Amendola a Ojetti del 14 e 16 novembre 1915). Sulle dolorose impressioni di Amendola, D’Annunzio e Ojetti per la «piccola guerra» voluta da Roma, cfr. anche L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 96, che riferisce una conversazione del 14 ottobre 1915. L’altro scrittore del «Corriere», da Albertini non nominato, era l’Ojetti, cfr. infatti di quest’ultimo le Lettere alla moglie, cit., p. 113. Cfr. inoltre L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926, cit., pp. 488-91 (lettera di G. Amendola dell’11-14 novembre 1915).←

187

F. MARTINI , Diario, cit., p. 548 (alla data del 4 ottobre 1915).←

188

Sulla questione balcanica cfr. L. CADORNA , Altre pagine sulla Grande guerra, Milano 1925, pp. 101 sgg., e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 89 sgg.←

189

LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 14, lettera di Cadorna 131

(Comando supremo, ufficio del capo di stato maggiore, uff. ordinamento e mobilitaz., n. 4021) del 5 settembre 1915 al ministro della Guerra.← 190

F. MARTINI , Diario, cit., p. 527 (alla data del 7 settembre 1915).←

191

Ibid., pp. 534 e 537 (alle date del 16 e 17 settembre 1915).←

192

Ibid., p. 537.←

193

Ibid., p. 538 (alla data del 19 settembre 1915).←

194

Ibid., p. 558 (alla data del 27 ottobre 1915).←

195

Ibid., p. 582.←

196

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 135 (lettera del 17 dicembre 1915 alla figlia Carla). Le dichiarazioni di Vittorio Emanuele sono riferite in L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 107.←

197

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 452 (alla data 21 giugno 1915)←

198

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 120-21 e F. MARTINI , Diario, cit., pp. 533-34.←

199

Cfr. V. DE CAPRARIIS , Partiti politici ed opinione pubblica, cit., pp. 125-26.←

200

Cfr. R. DE FELICE , Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 327-30.←

201

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 13.←

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II

L’adattamento del soldato alla guerra

1. La «spersonalizzazione» del soldato – 2. Influenza degli ideali patriottici – 3. Condizioni morali degli ufficiali – 4. Le prime licenze invernali – 5. Gli imboscati – 6. Trattamento materiale del soldato – 7. La giustizia militare – 8. L’istituzione dei cappellani militari – 9. Orientamenti del clero di fronte alla guerra – 10. Religione e superstizioni – 11. La guerra come occasione di apostolato – 12. Atteggiamenti patriottici dei cappellani – 13. Le «case del soldato» ed altre iniziative dei cappellani – 14. Assenteismo del Comando supremo in tema di attività propagandistiche e ricreative – 15. Considerazioni di Mussolini sul morale dell’esercito – 16. Conclusioni 1. Le truppe si adattarono ai pericoli e ai disagi della nuova guerra. L’adattamento forse più difficile, quello che consisteva nell’accettazione di una guerra «lunga», fu reso possibile dal fatto che le truppe continuarono sempre a credere in una guerra breve. Se alla fine del 1915 l’esercito avesse saputo di dover trascorrere in trincea non uno, ma ancora tre inverni, probabilmente quell’adattamento non sarebbe stato possibile. Accadde invece 133

che alla fine del 1915 quasi tutti previdero la pace per la primavera del ’16. In primavera attesero la pace per l’autunno, in autunno per la primavera successiva, e così di seguito, finché, nell’autunno del 1918, furono ancora in molti a ingannarsi, pensando che la pace tanto attesa non sarebbe giunta prima del 1919. 1 Durante le prime settimane di guerra, le truppe non sapevano neppure come dovessero essere scavati i ripari nel terreno. 2 Poi impararono a costruire i più complessi sistemi di camminamenti e trincee, nei quali condurre un’esistenza da talpe, in mezzo al fango e alla sporcizia, sotto il tiro dei cannoni nemici e dei «cecchini». 3 Infine si adattarono a trascorrere settimane o addirittura mesi a breve distanza dal nemico poiché riuscirono a vivere la vita di trincea come se si fosse trattato di un’esistenza «normale», priva di eccessiva tensione o emozioni. Per quanto possa parere strano, infatti, proprio la monotonia costituì la principale caratteristica della vita di trincea. Padre Agostino Gemelli, direttore del laboratorio psicofisiologico del Comando supremo, ne trattò diffusamente in una serie di articoli pubblicati nel corso stesso della guerra: «La vita di trincea,» scrisse «ad eccezione dei periodi di azione difensiva (i bombardamenti) o offensiva (gli attacchi), è così monotona e scolorita che determina un caratteristico fenomeno, una specie di restringimento del campo della coscienza». 4 Gemelli descrisse il paesaggio uniforme sempre presente davanti agli occhi dei combattenti, limitato dalla visibilità delle feritoie: «Il cannone ha distrutto ogni germe di vegetazione; tra la propria trincea e quella nemica non vi è che un tratto di terreno sconvolto, più o meno ampio, di là e di qua i reticolati, paletti contorti, qualche straccio che il

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vento agita goffamente. È un deserto. Non un movimento. Gli osservatori, le vedette conoscono il terreno punto per punto, in ogni minuzia. Un ramo d’albero smosso, una palata di terra fresca, un sasso cambiato di posto sono avvertiti come grandi novità. A quando a quando, nelle giornate di tregua, romba d’un tratto un colpo secco di fucile, che desta, come per eco, altri colpi; a quando a quando il rabbioso chiacchierare delle mitragliatrici. Poi di nuovo silenzio di morte». 5 In un ambiente così squallido e uniforme la vita non poteva non immeschinire, facendo assumere un’importanza gigantesca e sproporzionata alle piccole cose. «Il soldato in trincea» spiegò Gemelli «pensa poco, perché vede assai poco; pensa sempre le stesse cose. La sua vita mentale è assai ridotta e niente la alimenta. Il suo spirito lavora senza oggetto», e diviene «preda dei sogni, delle leggende, delle voci più strane ed assurde, delle false notizie.» 6 Di regola, in trincea, la notte era movimentata e il giorno tranquillo. Di notte, infatti, bisognava restare all’erta: perché i soldati uscivano di pattuglia, perché il nemico poteva tentare una sorpresa, perché le tenebre favorivano un eventuale passaggio di disertori. «Nessuno in guerra poteva chiudere gli occhi al sonno prima che dalle balze d’oriente sorgesse l’alba.» 7 Di giorno, invece, si faceva poco o nulla. Non c’era la sveglia, e chi voleva poteva continuare a dormire. Le prime linee erano piene di uomini, ma su di esse regnava un assoluto silenzio. La distribuzione dei viveri costituiva l’unico avvenimento della giornata. 8 Finiva per accadere che le più grandi preoccupazioni del soldato riguardassero «in modo esagerato e quasi esclusivo» i suoi bisogni materiali, come notò Gemelli. «Un nonnulla del

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rancio o dei servizi lo preoccupa e lo turba.» 9 Fenomeni analoghi si verificavano anche presso gli altri eserciti e Georges Bonnet spiegò come anche sul fronte francese la maggior parte dei poilus fossero assai meno occupati che nella vita civile: «d’une manière générale» disse «on se laisse vivre». Al fronte non soltanto si lavorava poco ma, secondo Bonnet, si cercava anche di lavorare il meno possibile, al punto che l’ozio costituiva per molti il solo elemento che consentisse di paragonare la vita militare a quella civile senza troppi rimpianti. 10 Il gen. De Bono, il futuro «quadrumviro» della marcia su Roma, dichiarò nelle sue memorie che «la trincea era considerata più una pena che un dovere; poiché nessuna forza animatrice era in gioco nei lunghi giorni in cui vi si doveva permanere». 11 Il gen. Capello, comandante del VI corpo d’armata, affermò, in una relazione del gennaio 1916, che uno degli effetti più caratteristici della logorante vita di trincea consisteva in una «forte depressione dei poteri volitivi, estrinsecantesi con incuria nella persona, con l’apatia più spiccata anche per quanto può concorrere al miglioramento del proprio benessere, e con un torpore intellettuale». 12 I combattenti che possedevano istruzione e cultura soffrivano più degli altri per questa decadenza intellettuale. «Davvero che i nostri cervelli si impigriscono nell’esercizio unico e limitato del compito giornaliero, sempre eguale, e sempre terra terra», lamentava Giacomo Morpurgo in una lettera del 16 gennaio 1916. 13 «L’indifferentismo m’ha invaso e non mi preoccupo di nulla», confessava Gaetano De Vita in una lettera scritta in quello stesso anno. 14 Non un contadino di una valle sperduta, ma un uomo politico nazionalista di primo piano come Gualtiero Castellini scriveva dal fronte, fin dal 15 luglio 1915: «Niente posta, niente notizie, un lento inebetimento per cui non si vive 136

che della piccolissima guerra delle nostre trincee. È strano come sono diminuito d’intelligenza. Ho rarissime nostalgie e percezioni da uomo che sa ragionare e scrivere». 15 Il 30 ottobre 1915, dieci giorni prima di essere ucciso in combattimento, lo scrittore Giosuè Borsi, ufficiale volontario, scrisse alla madre: «Siamo in ozio da due giorni, mentre continua il duello delle artiglierie, e intanto meniamo la vita più seccante del mondo, quella delle trincee». 16 In un’altra lettera del settembre, Borsi aveva già spiegato quale fosse lo stato d’animo dei soldati sulla linea del fronte: «Siamo a pochi passi dal nemico, e la guerra sembra lontanissima. S’inganna di molto chi crede che in prima linea di fuoco, almeno lì, la guerra si veda. Chi si figura grida, fucileria, si è fatto della guerra un’idea fantastica e convenzionale, diversissima dal vero. Un’azione decisiva è molto più di questo, è un macello infernale, uno sterminio, un orrendo uragano di ferro e di fuoco, da cui si esce sbalorditi ed esterrefatti come da un cataclisma; ma un’azione decisiva è rara, avviene soltanto nelle grandi avanzate, ed è il risultato ultimo di una lunga e completa preparazione, che alle volte dura dei mesi e di cui a noi non giungono che vaghi e rari indizi: […] un lavoro immenso, dalle linee colossali, che è compiuto con una maestosa e terribile lentezza di settimane e settimane, e che ci sfugge appunto per la sua vastità, sebbene ci viviamo in mezzo». 17 Neppure le azioni difensive ed offensive scuotevano il soldato dall’apatia e dal fatalismo nei quali era immerso. Anzi, secondo le osservazioni di Gemelli, l’insensibilità affettiva, l’apatia sentimentale, crescevano molto durante le azioni. Più volte gli 137

ufficiali avevano riferito di essersi stupiti perché, conducendo le truppe all’assalto, erano restati insensibili vedendo cadere i soldati che amavano. 18 Il prof. Giulio Cesare Ferrari, fondatore della «Rivista di psicologia», esaminò il fenomeno in un saggio del luglio 1915. All’attacco – gli aveva confessato un soldato – «si perde la testa, non si è più che macchine». 19 Nella stessa epoca un sottotenente di Carrara scrisse al «Corriere della Sera»: «Io non so più che diavolo subentri nei cuori, ma è certo che si è di una durezza speciale. Vedi cadere colpiti per non rialzarsi soldati e colleghi, e vedi altri balzare in piedi per scendere giù, agitando le braccia ferite, o premersi un fianco o l’addome in mille posture di persone straziate, e te ne rimani lì, tranquillo, con solo un senso di noia per tutto quel frastuono, per tutto quel turbinio. E ti scappa come detto verso gli avversari: E smettetela un po’, noiosi! Se ripenso alla mia sensibilità di quando ero borghese, non so come capacitarmi del mutamento». 20 A maggior ragione, apatia e fatalismo si manifestavano sotto l’infuriare dei bombardamenti nemici, quando non restava che attendere, nella più assoluta e passiva immobilità, il cessare del fuoco nemico: «Se le facoltà individuali intorpidiscono nella monotona trincea» scrisse il Marpicati «e il campo della coscienza si riduce a un cerchio minimo, durante il bombardamento il fenomeno più generale nella massa è addirittura l’arresto nel lavorio mentale. Si sta lì; si accompagna con tutto il nostro essere il sibilo e lo schianto dei proiettili; ma non si pensa a nulla; l’orologio del cervello è fermo». 21 Da principio la guerra era stata combattuta con slancio, e il Ferrari aveva riferito nella «Rivista di psicologia» le 138

conversazioni da lui avute con i primi feriti, affermando addirittura che tra di essi si manifestava un «entusiasmo lirico per la bellezza dell’assalto». Lo studioso aveva concluso, sulla base di quelle conversazioni, che nell’esercito: «L’annuncio di prepararsi per l’assalto è accolto sempre con gioia, anche se si sa che è in quei momenti che le mitragliatrici fanno strage». 22 Qualche tempo dopo Gemelli replicò al Ferrari dicendo che poteva dirsi vero proprio il contrario. Naturalmente esisteva una minoranza di individui entusiasticamente disposti al sacrificio, che andavano all’assalto anche con gioia, ma per quanto riguardava gli individui normali, soggiungeva Gemelli, prima di compiere un’azione pericolosa, il soldato di frequente o brontolava o si abbandonava alle critiche; ciò non significava che il soldato rifiutasse di accettare il sacrificio della sua persona, tutt’altro; ma il coraggio del soldato non era necessariamente un coraggio-attivo, un coraggio-emozione, giacché «per andare all’assalto basta molte volte […] che il soldato compia regolarmente ciò che compiono gli altri, che accetti passivamente la sua condizione», che abbia, in altre parole, un coraggio-passivo. «È questo lo stato d’animo della maggioranza dei soldati, i quali fanno ciò che debbono fare, ma si limitano al puro necessario.» 23 A giustificazione delle tesi esposte dal Ferrari si deve qui ricordare come egli scrivesse sulla base di informazioni raccolte nei primissimi tempi della guerra, quando le condizioni morali dell’esercito si presentavano ancora assai buone. I giudizi del Ferrari mutarono sensibilmente con il trascorrere dei mesi. In uno scritto pubblicato nel marzo 1916 anch’egli constatò l’affievolirsi degli entusiasmi e specificò che nei primi tempi, quando un ufficiale chiedeva dieci uomini per un’operazione rischiosa se ne offrivano volontari venti: «Oggi mi si dice che

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questo non avvenga più, almeno nelle stesse proporzioni, per cui l’ufficiale designa quelli che ritiene più adatti o un gruppo di soldati». 24 Anche gli studiosi, dunque, confermarono il mutamento intervenuto nello spirito delle truppe, ma occorre dire che proprio grazie a questo mutamento la guerra poté essere proseguita. L’ardore garibaldino, infatti, era scomparso e la guerra sembrava ai combattenti non troppo diversa da un lavoro che occorreva in qualche modo portare a termine, o da una calamità naturale che bisognava necessariamente accettare. Nonostante ciò i soldati continuavano a combattere: il fatto è che essi potevano continuare a combattere proprio perché l’eccitazione garibaldina era svanita e la guerra cominciava ad essere vissuta come un evento che rientrava in una «eccezionalenormalità». Esisteva una assoluta incompatibilità tra l’entusiasmo delle prime giornate e le avvilenti condizioni della guerra presente, e chi avesse preteso di conciliare l’inconciliabile avrebbe presto finito col logorare se stesso. I soldati impararono a risparmiare le forze, a sopravvivere e quindi a combattere distaccandosi il più possibile dai loro sentimenti e affetti, rinunciando alla loro personalità. «Il soldato cessa di essere lui;» scrisse Gemelli «il suo io è un altro; la vita che egli conduce come soldato è una parentesi nella sua vita; essa non è la sua vita, ma un’altra vita alla quale annette scarsa importanza; quindi egli vive estraneo a se stesso.» 25 I soldati capaci di compiere un’analisi del loro io e dell’ambiente che li circondava intuivano facilmente il nesso esistente tra questa diffusa condizione psicologica e le possibilità di sopravvivere e combattere. Secondo l’ufficiale alpino Eugenio Garrone quella «calma preparazione al distacco dalla vita», che costituiva «uno degli stati d’animo più strani» da lui notati al

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fronte, diventava per l’appunto «una delle fonti più grandi di serenità e d’energia, una delle forze più intime e convincenti». 26 Distacco dalla vita, spersonalizzazione, fatalismo diventavano addirittura delle doti. Il veterano non si faceva troppe illusioni, era distaccato e disincantato, aveva esperienza e si era adattato alle circostanze. Se non si offriva volontario quando venivano ordinate azioni pericolose, era perché non voleva forzare il destino o perché aveva sperimentato l’inefficacia di tanti gesti eroici, dei quali si era così spesso abusato nei primi tempi, anche nel corso di azioni insignificanti. 27 Ma quando l’ufficiale gli ordinava di uscire dalla trincea per andare a collocare i tubi di gelatina sotto ai reticolati nemici, usciva anche lui con gli altri, facendosi il segno della croce, ma badando anche alla pelle. I più abili e fortunati, capaci di colpire il nemico risparmiando se stessi, impararono il mestiere delle armi, esercitandolo come era necessario esercitarlo nella nuova guerra. Gli imprudenti, i novellini, coloro che non ebbero il tempo (o la volontà) di adattarsi alla guerra furono raramente di qualche utilità: continuarono a combattere come si era combattuto ai primi tempi, e andarono allo sbaraglio compromettendo talvolta, oltre alla propria, anche la vita dei compagni e la riuscita stessa delle azioni. «Anche la guerra è un fatto di prudenza ed è certo che i soldati più vecchi» scrisse con qualche enfasi un «vecchio» soldato, il pittore e scrittore Luigi Bartolini «hanno la pellaccia più dura. Non muoiono più. All’attacco ci vanno e balzano quand’è silenzio da esser sicuri che non incomincia la sparatoria tanto presto, intorno. O se cantano le mitragliatrici si fermano in tempo, si buttano come morti, a terra: si rialzano quando il macinino da caffè sta zitto. I novellini soldati vanno, 141

invece, alla baraonda; li diresti – a osservarli attentamente da un osservatorio di linea – vogliosi di far presto, prima che si può a buttar via la vita non ancora acciaccata dagli strapazzi. Il torto loro è d’essere sicuri di morire alla prima battaglia.» 28 2. L’ideale di patria esercitava scarsa o addirittura nessuna influenza sul comportamento della grande massa dei combattenti e specialmente dei fanti-contadini che costituivano la quasi totalità della fanteria. Si potrebbe essere tentati di riferire il fenomeno a ragioni storiche, politiche e sociali preesistenti alla guerra stessa. Si potrebbe cioè qui ricordare che l’impresa risorgimentale era stata compiuta da una minoranza, senza il concorso delle masse contadine; che i cinquant’anni di vita unitaria non erano stati sufficienti a far sì che quelle masse potessero sentirsi parte integrante della giovane nazione; che nel maggio 1915 lo stesso intervento era stato voluto da una minoranza in mezzo all’indifferenza dei più. Senonché tutte queste condizioni storiche, politiche e sociali ebbero certamente il loro peso, ma non bastarono a giustificare quanto avvenne. Innanzi tutto perché le esperienze della Grande guerra furono tali da smorzare la fiamma degli ideali anche in quegli italiani che si sentivano parte integrante della nazione e che erano partiti alla volta del fronte pieni di patriottici ardori. In secondo luogo perché lo stesso fenomeno si riscontrò su larga scala anche in nazioni ed eserciti che possedevano storia, tradizioni e condizioni politico-sociali ben diverse da quelle della nazione e dell’esercito italiani. Già durante la guerra, per esempio, Georges Bonnet smentì le leggende sorte sul patriottismo dei fanti francesi: «Ce n’est pas l’idée de la patrie» scrisse «trop complexe pour la plupart de ces cerveaux frustes, qui les soutient dans leur tâche, mais un des élements de cette idée: la famille, l’amour du sol, 142

l’amitié». 29 Bonnet spiegò come anche ai fanti francesi non importasse un bel nulla della lotta tra civiltà e Kultur e di altri motivi ideali di questo tipo: «On sent qu’ils n’arrivent pas à prendre pleinement conscience des motifs qui les font agir». 30 Allo stesso modo padre Gemelli, riferendosi nel 1917 alla grande massa dei fanti italiani, dichiarò che: «Parlare di patria a riguardo di questi uomini semplici non ha alcun significato. Si tratta di uomini umili, che non hanno studiato, che non hanno per certo coscienza nazionale, né la visione storica dei destini della patria […] Il soldato pensa a sé, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi; le parole di giustizia, di civiltà non risvegliano in lui un’eco profonda; forse perché noi abbiamo abusato troppo di esse e nei giornali e nelle conferenze. Io ho provato qualche volta a interrogare dei soldati in questo modo: “Sai tu che sei il campione della giustizia e della libertà?”. I nostri uomini umili, intenti all’opera di trincea mi risposero: “Questo mi fa diventar grasso! – Sarebbe assai meglio che potessi tornare a casa mia”. Il soldato nostro non sente altro che la voce dei suoi interessi. È un uomo». 31 Questo – proseguiva Gemelli – non significa affatto che egli sia insensibile ad ogni idealità. Al contrario. «Ma questa idealità deve rientrare nella sfera dei suoi interessi personali e coincidere con essi.» Il soldato, pertanto, non farà alcun caso alle polemiche sulla cultura germanica, ma si riempirà d’ira davanti a un ospedale bombardato o davanti alle mazze ferrate adoperate dagli austriaci per finire i prigionieri. 32 Un concetto così circoscritto della patria fece sì che gli accenti 143

epici comparissero molto di rado nelle canzoni spontaneamente sorte e rapidamente diffusesi tra i combattenti. Nella grande maggioranza quelle canzoni non nominarono quasi mai l’Italia ed espressero invece quasi sempre gli affetti familiari ed amorosi, i sentimenti dell’uomo, insomma, e non quelli del cittadino. 33 Si diffusero inoltre fra i soldati numerose strofette e canzoni «proibite», che erano cantate in sordina e che nominavano la patria, il re o il gen. Cadorna, ma per schernirli, o, talvolta, per ingiuriarli. 34 I giornali e i settimanali popolari offrivano l’immagine di un fante che balzava dalla trincea e si lanciava contro il nemico gridando alto il suo amor di patria, ma, secondo la testimonianza lasciataci dal Marpicati, la realtà era molto diversa, e perfino il grido di Savoia! era privo di alcun contenuto ideale: «Occorre per la verità ch’io dichiari come i nomi dolci e sacri di Patria e d’Italia, io non li abbia mai uditi pronunziare dalla massa avanzante sia nei combattimenti ai quali ho preso parte, sia in quelli a cui ho assistito da vicino. Sì – creature d’elezione, tanto ufficiali che soldati, hanno avanzato, sono morti con questi nomi sulle labbra. Ma la gran massa in questi momenti mugola e grida brutalmente. Grida: Savoia; ma è per abitudine; non è grido per lei di contenuto ideale; e un grido è fisicamente necessario al pugnante nella mischia; così accanto al grido di Savoia voi udite suoni gutturali, rauchi, lamentevoli, rabbiosi: udite il nome della mamma; mentre vi lacera l’orecchio una bestemmia». 35 Un’atmosfera che coinvolgeva tanto i fanti quanto i loro ufficiali, dato che «la piccolissima guerra» delle trincee, come la 144

chiamava Gualtiero Castellini, inaridiva le menti di ognuno, ed anzi poneva in crisi molto più facilmente proprio quegli individui i quali avevano creduto di trovare nella guerra il mezzo per affermare dei valori ideali. L’impoverimento della vita psichica, scrisse padre Gemelli, «esercita la sua influenza principalmente sugli ideali superiori della vita, e precisamente su quelli che sono in relazione con la vita del soldato. Così si spiega il fatto […] che il soldato compie atti eroici non già per motivi ideali, ma per motivi comuni, umani, per un interesse immediato. Quasi sempre egli uccide per non essere ucciso, egli attacca per non essere cacciato dalla posizione che occupa, che è buona e nella quale è ben difeso. Con ciò non si vuol dire che egli è del tutto estraneo alle ragioni ideali della guerra, perché alla fine dei conti sono queste ragioni che gli hanno reso più facile l’abbandono della sua casa, e che nelle ore di riflessione gli rendono meno amare le privazioni […] Ma questi motivi ideali non sono permanenti che in pochi soggetti eccezionali. Nella maggioranza dei soldati, allorché son presi nell’ingranaggio della vita militare, anche se a casa loro si interessavano di politica e di azione sociale, queste perdono il loro significato». 36 Gli obiettivi territoriali della guerra, riassunti nel binomio di Trento e Trieste, erano forse gli unici che i soldati potessero facilmente comprendere. Ma quegli obiettivi non avevano per la grande massa un vero significato patriottico. Nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, il movimento irredentistico non aveva fatto quasi più parlare di sé, al punto che il ministro degli Esteri di San Giuliano, nel 1910, lo aveva 145

addirittura dichiarato «morto». La guerra lo aveva fatto rinascere a nuova vita, ma la propaganda interventista non era certo riuscita a renderlo popolare. I fanti-contadini interpretavano la conquista del Trentino e della Venezia Giulia senza tener conto né del suo aspetto ideale né delle aspirazioni dell’Italia a diventare una grande potenza; molto più semplicisticamente essi valutavano quella conquista alla luce delle loro esperienze dirette e dei loro consueti problemi, scorgendo in essa, soprattutto, la presa di possesso di un territorio da arare e da seminare: «I contadini della grassa Romagna strabiliavano nel vedere la magra rossiccia fanghiglia carsica e domandavano agli ufficiali se valeva la pena di scatenare quell’ira di Dio per conquistare quella terra da pipe». 37 Circa la metà dell’esercito fu composta da contadini. Secondo i calcoli del Serpieri, su un totale di 5 milioni e 750.000 combattenti complessivamente richiamati durante l’intero conflitto, ben 2 milioni e 600.000 furono per l’appunto contadini. 38 Quasi tutti appartennero alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite. 39 Al principio della guerra fu possibile trovare tra i fanti anche degli operai, degli studenti, degli impiegati, ma quasi subito gli uffici, i comandi e le diverse specialità dell’esercito prelevarono dai reggimenti di linea fin l’ultimo specialista del ferro, dell’ago, della lesina, della calligrafia. «Chi è rimasto?» si domandò il Marpicati. «Il modesto artista della zappa, lo sterratore siciliano, calabrese, lombardo, il lavoratore troppo sovente analfabeta, tornato dalle Americhe o da altre regioni lontane, docile al richiamo del Paese, che s’è ricordato di lui forse solo perché ne aveva bisogno.» 40 Al termine del conflitto, su un totale di 345.000 orfani di guerra, gli orfani dei contadini furono 218.000, pari al 63% del totale. 41 La classe più contraria alla 146

guerra offrì alla patria il maggior contributo di sangue. Questo sacrificio così grande ebbe notevolissime conseguenze, come meglio vedremo nelle pagine seguenti, e se i documenti che sono stati fin qui citati hanno dimostrato la vacuità di molti luoghi comuni sul patriottismo e l’effettivo stato d’animo dei combattenti, bisogna pur aggiungere che, attraverso l’esperienza dolorosa e drammatica della guerra, anche il fante-contadino cominciò ad avvertire sia pur confusamente la propria appartenenza ad una più vasta comunità. 3. Alla fine del 1915 gli ufficiali si trovarono in una condizione di spirito somigliante per molti aspetti a quella dei loro subordinati. Sotto molti punti di vista, anzi, l’adattamento degli ufficiali (più in generale: di tutti gli intellettuali alle armi) risultò più difficile di quello dei soldati. Gli ufficiali, infatti, potevano distinguersi dai semplici soldati per una maggiore sensibilità ai valori patriottici, per l’istruzione e l’educazione ricevute, per le maggiori responsabilità che la funzione del comando loro attribuiva, per i privilegi conferiti dal grado. Ma nelle prime linee la guerra parificava tutti i combattenti, senza fare distinzioni tra comandanti e comandati. Molti disagi, a ben vedere, colpivano gli ufficiali, in maggioranza anziani e già da tempo abituati alle comodità della pacifica vita borghese, più dei giovani fanti, contadini in maggioranza, abituati a vivere in condizioni spesso di estremo disagio per non dire quasi di primitività. 42 In trincea, inoltre, l’ufficiale non correva rischi minori di quelli dei suoi soldati, e durante le azioni ne affrontava probabilmente di più grandi, poiché usciva insieme con gli altri allo scoperto, spesso esponendosi alla testa dei suoi soldati per dare esempio di coraggio. 43 Anche l’istruzione militare ricevuta nelle accademie aiutava ben poco ad affrontare con serenità e sicurezza i combattimenti; anzi al banco di prova di una guerra così nuova e 147

sconosciuta, gli ufficiali vedevano improvvisamente cadere quasi tutti i princìpi sui quali essi si erano esercitati durante i corsi di istruzione o le grandi manovre del tempo di pace. 44 Se negli ufficiali era più grande la sensibilità ai valori ideali, tanto maggiore risultava la loro pena nel vedere deluse le attese della vigilia. Nello svolgersi della dura esperienza quotidiana anche il sentimento patriottico si affievoliva. La vita di trincea, le perlustrazioni notturne, le stesse operazioni offensive contro reticolati e trincee nemiche venivano condotte in forme che molto raramente consentivano ai combattenti di compiere l’atto eroico, il gesto bello e glorioso che valesse a distinguere l’individuo dalla massa. Per più ragioni, come abbiamo già detto, la spersonalizzazione diventava una delle doti principali del combattente e la preparazione del soldato all’atto di valore consisteva negativamente in un distacco dagli affetti familiari, dagli interessi, da tutto ciò che lo teneva legato alla vita. Per l’impossibilità di rinunziare alla propria personalità, secondo padre Gemelli, «alcuni individui intellettuali» si dimostravano incapaci di vivere la vita militare: «Sono poveri infelici che vivono immersi nell’antico mondo al quale appartenevano, inadatti al nuovo. Essi sono perciò dei pessimi soldati ed anche dei soldati poco… eroici, perché la vecchia personalità costituisce un grave freno inibitorio ad atti di valore, ossia ad atti contrari alla conservazione della propria personalità». 45 Il Marpicati – i cui giudizi coincisero quasi sempre con quelli di padre Gemelli – arrivò a dichiarare nel suo libro che il contadino, proprio grazie alla sua semplicità e ignoranza, si trovava nelle migliori condizioni per trasformarsi rapidamente in soldato: «Difatti egli oppone meno resistenza, nelle azioni collettive, alla perdita della propria personalità. La sua mente, povera di pensiero, vien presto suggestionata dalla

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vastità dell’organizzazione che lo afferra». 46 Era questa opinione, probabilmente, che intendeva esprimere il giovane Paolo Marconi, ufficiale alpino, quando nel febbraio 1916 descriveva in una lettera l’invidia da lui provata verso i suoi subordinati: «Credete! La vita dell’ufficiale è un po’ arida spiritualmente. A me spesse volte accade di invidiare i soldati che se ne stanno le lunghe ore tranquilli a contemplare il cielo e la terra, maestosamente. E vivono la loro vita interna, ascoltando se stessi, compresi di se stessi null’altro che della loro grande persona… Noi no! Noi dobbiamo vigilare, tutto osservare, a tutto badare. Spesso manifestare severità e rigidezza che in realtà non abbiamo. E di fronte all’incubo delle cose esterne, e allo sforzo dell’interiore volontà, davanti al senso della grande responsabilità, si fanno aride le fonti della vita interiore». 47 Anche durante i periodi di riposo, gli ufficiali, confrontando la propria condizione con quella dei loro soldati, potevano trovare nuove ragioni di sconforto. Era infatti estremamente importante per il morale del combattente svagarsi durante i periodi di riposo, ritrovare i segni della vita borghese, il calore dei rapporti umani: «I soldati» scrisse Arturo Rossato, ufficiale e redattore del «Popolo d’Italia» «appena arrivano in un paese trovano subito la bontà premurosa, la timida fraternità, l’osteria, il sorriso di una ragazza, ma l’ufficiale no. L’ufficiale è un’altra cosa. Può crepare ma nessuno gli dice niente. Nemmeno se crepa». 48 I numerosi esoneri dai comandi superiori che ebbero luogo nel 1915 furono motivati da inettitudine, mancanza di energia, ma spesso da stati di depressione e di apatia, da vere e proprie crisi 149

nervose. Molti ufficiali erano sconvolti per le carneficine alle quali avevano assistito e partecipato e delle quali si sentivano in certo qual modo corresponsabili; soffrivano per la mancanza di armi, mezzi e cognizioni atte a far superare le difficoltà. Una ulteriore ragione di turbamento era costituita dal fatto stesso di vedere tanti colleghi e superiori destituiti improvvisamente e – così si credeva – troppo facilmente. Il 17 dicembre 1915 il comandante della 20 a divisione fanteria, operante nella regione dell’Alto Isonzo, inviò un rapporto ai comandanti di brigata lamentando la rilassatezza generale esistente «nelle truppe e specialmente negli ufficiali». 49 Il 7 gennaio seguente il gen. Capello, comandante del VI corpo d’armata, propose l’esonero di un colonnello dal comando di un reggimento fanteria asserendo che, nel corso di due visite consecutive compiute in quel reggimento, egli stesso aveva constatato «un disastroso andamento disciplinare, una apatia completa in tutti gli ufficiali». 50 Il giorno successivo il direttore di sanità di quel corpo d’armata, Gerundo, descrisse al gen. Capello i negativi effetti prodotti tra gli ufficiali dalla prolungata vita di trincea: «Da qualche tempo si notano frequenti casi di esaurimento nervoso specialmente negli ufficiali, che si presentano la maggior parte sotto una forma depressiva ed in alcuni, fortunatamente rari, sotto forma eccitatoria. Mentre i primi si presentano in genere apatici, indolenti, ipobulici, attoniti, gli altri si presentano con fenomeni alterni di eccitabilità e di depressione. Queste ultime forme si osservano prevalentemente in chi ha diretta responsabilità, e per sua natura e temperamento non ha energia nervosa

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sufficiente da superare le emozioni che sono intimamente legate alla vita speciale alla fronte». 51 Nella circolare del 12 gennaio 1916, che biasimava i discorsi disfattisti fatti nel Paese dai militari in licenza, Cadorna sottolineava come «a questa propaganda subdola di viltà» avessero partecipato anche ufficiali e come a carico di taluni di essi fossero già stati adottati provvedimenti di estremo rigore. La Commissione d’inchiesta per Caporetto, anzi, interpretò il testo della circolare nel senso che, con essa, il gen. Cadorna aveva voluto lamentarsi soprattutto dei discorsi disfattisti degli ufficiali. 52 Le testimonianze qui ricordate possono indurci a riflettere – come già abbiamo detto – sulle somiglianze e le differenze esistenti tra il mondo della truppa e quello dell’ufficiale. La responsabilità del comando, una maggiore identificazione con la comunità nazionale, una visione più ampia dell’andamento generale del conflitto erano elementi che potevano determinare in maggiore o minor misura il comportamento dell’ufficiale. Numerosi fattori sociali, politici e morali rendevano in generale più complesso il suo adattarsi alla nuova guerra. Ma una profonda modificazione della sua personalità diventava comunque necessaria, poiché la guerra era tale da non consentire al riguardo molte alternative: fatalismo e spersonalizzazione diventavano anche per l’ufficiale condizioni essenziali della sua sopravvivenza. «Vi assicuro che quell’entusiasmo dei primi mesi per essa [la guerra] non lo conservo più» riconobbe Gaetano De Vita nell’ottobre del 1916 «e solamente perché allenato e perché spinto dal dovere farò tutto e bene in caso si ritorni al fuoco.» 53 L’abbandonarsi al destino, al fato, costituiva più che una tentazione, una necessità, se perfino un uomo come Giovanni Amendola, all’indomani del battesimo del fuoco scriveva alla 151

moglie: «A’ la preuve je me suis découvert une discrète quantité d’indifferentisme et de fatalisme: ce qui ne m’empêche pas de désirer infiniment de retourner à la vie, à ma famille, à mon travail et à ma carrière!». 54 Ed un altro ufficiale, Teodoro Capocci, annotava nel suo diario: «La calma viene dalla rinuncia completa; ormai tornare a casa è cosa difficile: bella fortuna. Noi invece si vive tranquilli perché siamo convinti che dài oggi e dài domani, arriva un colpo che ti manda al creatore. Siamo insieme cinici e sereni. Cinici, perché con tanti morti, tanti disagi, non si può approfondire il dolore. S’impazzirebbe […] Son migliaia di ufficiali che fan questa vita, e tutti, specie i caratteri forti, son rassegnati e quasi contenti». 55 Il rassegnarsi era dunque dei forti, non dei deboli e a dispetto delle molteplici diversità esistenti tra ufficiali e soldati, la guerra finiva per essere vissuta dagli uni e dagli altri con stati d’animo somiglianti, e quando in tanti testi sulla Grande guerra leggiamo che nei reparti gli ufficiali e i soldati si sentivano spesso legati da un rapporto che non era semplicemente di gerarchia e di disciplina, ma di affetto e di protezione (e si noti che molte volte poteva essere il soldato a proteggere il suo ufficiale), dobbiamo concludere che quel rapporto era reso possibile anche da un processo di reciproca identificazione, attuatosi grazie alle pene e alle angosce in comune sofferte. Alberto M. Ghisalberti ha rievocato la sua esperienza di giovanissimo ufficiale di fanteria smentendo molti luoghi comuni tuttora in circolazione sullo stato d’animo dell’esercito nel 1915-18: «Io non so se sia ancora possibile, perché molto 152

materiale è andato disperso, ma vorrei suggerire di tentare ancora ricerche negli epistolari dei soldati di allora per approfondire la ricerca di quello che è stato l’animo del combattente, che non risulta dai rapporti dei prefetti, né tanto meno dalle relazioni degli uffici storici dei vari stati maggiori. E non sarebbe male interrogare ancora i superstiti in occasione, magari, delle manifestazioni delle varie associazioni combattentistiche o d’arma. Sarebbe opportuno chiedere loro: “Cosa pensaste realmente?”. Io non ho mai avuto un caso di ribellione; i miei soldati mugugnavano, perché a nessuna persona sana di mente piaceva rischiare la pelle, vivere quella vita molte volte ingrata, dormire nel fango, o, addirittura, non dormire affatto nelle trincee del Carso. Chi non ha conosciuto il Carso non sa cosa siano la fatica e il tormento, non sa come la paura possa attanagliare la gola di un uomo. Il senso reale di cosa fosse la guerra per gli uomini che la combattevano non ve la può dare la relazione dello stato maggiore. In questa sono rappresentati i grandi e i piccoli fatti, le grandi e le piccole ore della guerra, ma non la lotta contro la paura. Non ci vuol molto, oserei dire, ad andare all’assalto: l’assalto è la “fuga” in avanti, è la paura che ti prende e ti fa dire: “piuttosto che star qui, mi faccio ammazzare”. È star qui che è duro, perché star qui vuol dire non muoversi, sentirsi rovesciare addosso i colpi dei “152” nemici, quelli dell’artiglieria leggera e delle mitragliatrici senza potersi muovere né avanti né indietro ad aspettare. Ad aspettare che cosa? Quello che faceva invocare a me e al mio caro amico Elio Zorzi, nel bosco di Magnaboschi, durante l’offensiva austriaca in Trentino, la “pallottola liberatrice”. Ho commesso 153

anch’io questa viltà, ho desiderato anch’io di essere ferito per sottrarmi a quell’angoscia. Io ero un uomo comune, non un eroe, uno dei cinque milioni di “uomini comuni” mobilitati, che hanno fatto la guerra come un dovere fino all’ultimo, ma che non desideravano morire. Non sognavo di diventare un eroe, non volevo mi si intitolassero strade o mi si erigessero busti: volevo soltanto riportare intatto il mio busto a casa. E con me gli altri cinque milioni». 56 4. Dopo la quarta battaglia dell’Isonzo, terminata ai primi di dicembre, le operazioni militari subirono un rallentamento. Il gen. Cadorna approfittò della cattiva stagione per riordinare l’esercito in vista della progettata offensiva primaverile. 57 Le truppe, a turno, andarono in licenza per quindici giorni. Fino all’inverno i soldati avevano cercato di non pensare molto alle famiglie e agli interessi lasciati in sospeso. 58 Nell’imminenza del sia pur breve ritorno, era inevitabile che essi riandassero col pensiero ai parenti, agli amici, e che i quindici giorni di licenza si caricassero di innumerevoli promesse. I soldati pensavano ai discorsi che avrebbero fatti, alle accoglienze che avrebbero ricevute. Avevano combattuto contro l’austriaco, avevano partecipato alle più tremende battaglia, e ritenevano che in città, in paese, sarebbero stati considerati e rispettati come dei valorosi o addirittura degli eroi. Non pensavano che la licenza potesse riservare amare sorprese. Prima della partenza i soldati ricevevano l’ordine di non rivelare il luogo di residenza del reparto, e magari il consiglio di non parlare affatto della guerra. «E allora» commentò il pretesoldato Lorenzini «di che cosa si deve parlare? Si fa la guerra e non se ne deve parlare! Perché? Forse perché le cose non vanno

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tanto bene? E che colpa ne abbiamo noi?.» 59 E poi, dopo aver ascoltato le raccomandazioni, i soldati si assoggettavano a varie pratiche igieniche, al bagno, allo spidocchiamento, alla visita medica, all’esame della divisa, operazioni assai consigliabili, ma che avevano il difetto di ritardare la partenza e di suscitare irritazione. «Se tutte queste funzioni le studiassero apposta per provocare gli improperi dei soldati non ci si riuscirebbe meglio», scrisse sempre quel prete-soldato. 60 Ma il lamentarsi per queste contrarietà serviva forse soltanto a dissimulare l’inquietudine suscitata dall’imminente viaggio. Più spiacevoli, piuttosto, dovevano risultare gli scomodi e lenti viaggi nelle tradotte, o i frequenti controlli compiuti dai carabinieri sui fogli di licenza, ai quali tanto spesso mancava una firma o un timbro regolamentare. 61 Dopo il viaggio, finalmente, il soldato ritrovava la famiglia, le amicizie, il paese natìo dove la vita di sempre scorreva distante dalle tribolazioni della trincea. Ma ben difficilmente ritrovava la serenità. D’improvviso, infatti, il soldato comprendeva che la vita normale era questa, e non quella di «lassù». Rivedere la fidanzata, la moglie, i figli, il proprio ambiente di lavoro significava ritrovare la personalità perduta e con ciò compromettere l’opera di adattamento faticosamente compiuta nei lunghi periodi di trincea. La crisi aveva luogo in ogni caso, sia quando l’ambiente familiare era sereno, sia quando esso era invece inquieto per motivi economici o affettivi. Anche l’evento più lieto poteva costituire motivo di turbamento: la nascita o i progressi di un figlio, dal quale era necessario separarsi, o la fortuna del proprio commercio, affidato in mani altrui. A quanto risulta dalla maggior parte delle testimonianze, tuttavia, le più appariscenti ragioni del disagio provato dal soldato in licenza erano altre. Le persone che egli incontrava sapevano molto poco della 155

guerra. I giornali fornivano descrizioni idilliache e le più veritiere notizie diffuse dai soldati tornati nelle retrovie non erano state capaci di modificare le idee correnti. 62 Gli ufficiali in licenza raccontarono spesso che il Paese non soltanto non sapeva molto delle reali condizioni dei combattenti, ma cercava anche di non saperne troppo, come se, per una forma di autodifesa, avesse avuto paura della verità. Nei diari e nei libri di ricordi i combattenti si lamentarono spesso della incomprensione dalla quale si sentivano circondati. Come ha detto il Ghisalberti: «Quando si veniva in licenza e ci si sentiva domandare, affettuosamente, garbatamente, da parenti ed amici: “Ma a Trieste quando ci arrivate? Quando prendete Trento? Cosa state facendo?” si aveva l’impressione che il Paese non si accorgesse dello sforzo enorme che si stava compiendo. Il Paese pareva avere scarsa coscienza, con tutta la retorica che straripava sui giornali, delle difficoltà reali della guerra». 63 Ma soprattutto destò collera e sdegno constatare che nelle città e nei paesi erano rimasti tanti giovani, esonerati dal servizio militare, i così detti «imboscati», ignari delle tragedie della guerra ed anzi sempre più bramosi di godere gli agi e i divertimenti che la società offriva loro: «La licenza è trascorsa in un baleno» scrisse il Lorenzini «Condita da un malumore straordinario e dall’assillo di dover tornare quassù, ma più dallo schifo e dalla nausea provocata da quelli che la guerra la fanno fare agli altri, e menano una vita da rivoltare lo stomaco a un ottentotto. […] La vita delle città e dei paesi nonché cambiare abitudini si è trasformata in peggio. 156

È cresciuto il lusso, è aumentata la smania dei divertimenti; i cinematografi sono pieni zeppi, lunghe teorie di uomini e di donne si accalcano allo sportello dei biglietti a disputarsi l’entrata al teatro. Dovunque gente che si affanna a godere, a divertirsi, dando prova di non comprendere affatto la gravità del momento, né di darsi alcun pensiero per chi conduce una vita di patimenti inenarrabili». 64 Né è da credere che il prete-soldato Lorenzini fosse il solo a scagliarsi contro i costumi degenerati, forse perché animato da zelo sacerdotale. I militari che protestarono contro i «civili» così pronti a godere ed a divertirsi furono invece moltissimi. 65 Quando tornarono al fronte, i soldati si tormentarono all’idea che le loro donne si rallegrassero in compagnia degli imboscati. 66 «A Padova» scrisse nel novembre 1915 G. De Vita «ho visto tanti di quei giovani godersela nei teatri e nei caffè che mi veniva voglia di prenderli a pugni e di odiarli più degli austriaci.» 67 I fanti non potevano essere così spassionati nei loro giudizi, da rendersi conto che la vita del Paese doveva necessariamente svolgersi come di consueto e che anzi l’eccitazione da essi notata nelle vie costituiva un sintomo inevitabile della guerra. Un sintomo, in altre parole, non soltanto dei facili guadagni, ma anche delle trepidazioni e delle incertezze da tutti vissute, che imprimevano alla vita quotidiana il segno della provvisorietà. Come scrisse Adolfo Omodeo venti anni più tardi: «Doveva continuare la vita d’ogni giorno, anche più eccitata, perché il Paese producesse, lavorasse, sentisse il meno possibile il lutto e la tragedia che l’avrebbe paralizzato. Era quella la febbre che accompagna il male, lo segnala, ma aiuta anche a superarlo. Ed era stata in parte favorita politicamente, per reagire

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all’impressionabilità del pubblico, e concorrevano a diffonderla nelle retrovie e durante le licenze gli stessi combattenti con la loro sete insaziata di vita. Era l’egoismo primordiale della vita». 68 Improvvisamente aggrediti da questa realtà, turbati dagli impulsi contraddittori che le licenze suscitavano in loro, i soldati accettarono il ritorno in trincea abbandonandosi al disprezzo verso il Paese: spregiando dunque proprio quella società per la cui affermazione, in sostanza, essi stavano combattendo. «Nell’inverno dal ’15 al ’16» scrisse Malaparte «quando il popolo delle trincee cominciò a rifluire – per quindici giorni – nell’interno del Paese, i primi segni di questa esplosione di malvagio rancore contro chi non conosceva il fango, i pidocchi e il sangue delle prime linee, apparvero in tutta la loro impressionante gravità. Durante “la prima licenza invernale” (chi saprà, un giorno, esprimere tutta l’immensa tragedia della prima licenza invernale?) i fanti impararono a odiare il così detto “Paese”.» 69 La contrapposizione tra esercito e Paese, testimoniata da innumerevoli lettere, diari, ricordi, fu accentuata dalla tendenza, che tutti gli eserciti manifestano sempre nel corso delle lunghe guerre, di chiudersi in se stessi, di acquistare caratteristiche «corporative». Quando il soldato andava in licenza si serviva di espressioni abituali, come «vado dai miei», «torno a casa», ma con dolorosa ironia diceva anche: «vado in Italia», come se il fronte e la trincea non fossero stati anch’essi Italia. 70 L’Italia era alle spalle, lontana, estranea, indifferente. Eugenio Garrone la contemplava sconsolato dall’alto dei monti:

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«Dalla posizione dove siamo vedo sfumare lontano, oltre i monti degradanti lentamente, la pianura vicentina: stamattina seduto solo sul prato in un muto raccoglimento di me stesso verso tutti voi cari, ho guardato a lungo quella pianura, e ho veduto città spensierate, uomini e donne dimentichi di noi, indifferenti a quanto si svolge quassù, e mi sono sentito chiudere forte forte il cuore di sgomento». 71 Gli intellettuali interventisti che avevano immaginato la guerra come una prova rinnovatrice dell’intera società, dopo aver assistito all’insuccesso militare, credettero di assistere anche ad un insuccesso «civile» della guerra. Videro che il Paese stava tradendo il suo esercito. Cercarono allora di alimentare la loro fede idealizzando il puro, nobile, autentico mondo delle trincee: da esse – dissero – stava germinando la società nuova per la quale era giusto continuare a combattere. La logica di un tale ragionamento condusse spesso a singolari rovesciamenti di valori: la vita nelle città sarebbe dovuta apparire più attraente che non quella delle trincee, eppure molti scoprirono in loro stessi una vera «nostalgia del fronte». In trincea, sotto i tiri del nemico, l’esistenza di ognuno era messa di continuo in pericolo, mentre nelle città quei pericoli non esistevano: eppure ad alcuni parve vero proprio l’opposto. «Qui c’è morte, lassù c’è vita», disse durante la licenza un ufficiale che rimase poi ucciso in battaglia. 72 Ma la grande massa dei fanti tornarono al fronte pensando di riavvicinarsi alla morte, non alla vita. Il 1° febbraio 1916 don Giulio De Rossi, direttore del «Prete al campo», bollettino quindicinale dei cappellani militari, scrisse esplicitamente che «tutti» i soldati reduci dalle licenze recavano in loro «una diminuita resistenza alla lotta, alla fatica, all’obbedienza vigile e 159

pronta al dovere, al dovere duro della guerra». 73 Il gen. Cadorna non accusò i «disfattisti» residenti nel Paese di aver minato il morale delle truppe, ma al contrario redarguì queste ultime per il comportamento tenuto durante le licenze. Assai indicativa, a tale riguardo, risulta la circolare inviata il 12 gennaio 1916 dal comandante supremo a tutti i comandi di reggimento e, per conoscenza, al presidente del Consiglio, al ministro della Guerra e al comandante generale dell’arma dei carabinieri. Cadorna dichiarava che, nonostante gli espressi divieti già fatti: «Ho dovuto dolorosamente constatare che vi sono molti pusillanimi ed incoscienti i quali, recandosi in licenza, anziché diffondere la fiducia nel successo della nostra impresa, come vorrebbe il loro onore di soldati e il loro più sacro dovere verso la Patria, compiono nel Paese una vergognosa opera di abbattimento e di sconforto che attesta del loro basso livello morale. I più accaniti sono certamente quelli che si sono peggio comportati di fronte al nemico. Spargono inconsulte voci di insormontabili difficoltà, di perdite enormi subìte; insinuano la sfiducia nei capi, esagerano le sofferenze della vita di trincea, raccontano che il colera e il tifo infieriscono fra le truppe, ecc. Tali notizie false od esagerate, anche se non propalate in pubblico, ma divulgate fra i parenti e gli amici, dilagano rapidamente e deprimono, specialmente nella parte meno colta della popolazione, quello spirito pubblico che una saggia preparazione civile ha saputo mantenere finora così alto e fiducioso nella vittoria delle nostre armi». 74 Quest’ultima frase della circolare induce a qualche riflessione: conteneva un nuovo implicito appello alle autorità politiche 160

perché potenziassero l’opera di propaganda all’interno? Può darsi, ma conteneva anche un nuovo esplicito riconoscimento del fatto che lo spirito del Paese si manteneva sostanzialmente buono, mentre gli elementi di perturbazione provenivano dal fronte. Come nel settembre 1915 la propalazione di notizie allarmistiche era stata addebitata ai racconti dei feriti e alle lettere dei combattenti, così adesso la stessa colpa era attribuita ai soldati in licenza. 75 Benché si lamentasse del neutralismo serpeggiante nel Paese, 76 Cadorna si asteneva dal rivolgere contro di esso quelle accuse che avrebbe poi rivolte – come vedremo – nel 1917. I soldati subivano invece il rimprovero di aver diffuso voci false o esagerate sulle perdite, gli orrori delle trincee e le epidemie. Ma erano davvero tanto fantastiche quelle voci? Alcune unità erano state decimate dal colera e G.M. Trevelyan aveva assistito a scene di morte degne di un’allegoria di Chaucer. 77 Perfino Cadorna, proprio in quei giorni, disse ai familiari che si trattava di «una guerra infame», e che durante l’ultima offensiva, in soli 50 giorni, l’esercito aveva perduto circa 100.000 uomini oltre agli ammalati. 78 «Chi avrebbe immaginato» scrisse «una catastrofe di questo genere e così lunga?» 79 Nella citata circolare del 12 gennaio Cadorna avvertì che sarebbero state comminate punizioni severissime a carico di chi fosse stato riconosciuto colpevole di aver diffuso «notizie esagerate o comunque tenuto discorsi inopportuni», e che già erano in corso provvedimenti di estremo rigore nei riguardi di qualche ufficiale e di militari di truppa. Concluse minacciando: «Ma se continuassi a constatare che gli ammonimenti e le repressioni non sono sufficienti, io non esiterò a prendere il provvedimento di sospendere le licenze». La minaccia era inattuabile ed infatti non fu messa in atto. Alcuni anni più tardi il 161

gen. Capello dichiarò che essa era stata fatta da «qualche semplicista scettico e iniquo». 80 Il problema della crisi vissuta dal soldato durante la licenza invernale rimase sostanzialmente irrisolto. In parte era irrisolvibile, perché la licenza produceva una inevitabile interruzione al processo di adattamento alla guerra. In parte trovava un correttivo nell’automatica ripresa di questo processo: un colonnello riferì alla Commissione d’inchiesta per Caporetto che «dopo pochi giorni di trincea i soldati tornavano tranquilli». 81 Ciò nonostante le licenze lasciavano il loro segno e il soldato ritornava al fronte afflitto da tormenti grandi e meno grandi ai quali, almeno a questi ultimi, si sarebbe potuto tentare di porre rimedio. Fra l’altro, nell’esercito, vigeva in generale un severo regime di austerità, che produceva il pernicioso effetto di accentuare la tetraggine dell’ambiente. Ancora nell’estate del 1917 Luigi Barzini si lamentò che nulla allietasse, nulla interrompesse la vita di fatica del soldato. Nell’esercito italiano non erano stati organizzati, come negli eserciti francese e inglese, spettacoli e feste per le truppe, ai quali ufficiali e soldati potessero partecipare dimenticando, almeno per un po’, la guerra in corso. Barzini citava casi nei quali, al fronte, era stato vietato agli ufficiali di suonare e cantare «per rispetto ai morti». Sull’Isonzo tutte le cerimonie e tutti gli onori erano per i morti, salvo qualche premiazione, e questo – diceva Barzini – non bastava certo per incoraggiare a morire. 82 Bastava, invece, per rendere più odioso il confronto che i fanti facevano al ritorno dalle licenze tra la loro condizione e quella dei cittadini. Proprio nel corso delle licenze altri fatti singolari avevano contribuito ad esasperare questo confronto. Spesso un ordine dei comandi vietava al soldato l’ingresso in un caffè, o gli proibiva di uscire in compagnia di donne che non fossero la madre, la sorella

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o la moglie legittima. Raccontò Malaparte che non erano rari i casi di ufficiali e soldati fermati in mezzo alla strada e immancabilmente puniti perché colpevoli di essersi mostrati in pubblico in compagnia della fidanzata. «Fidanzata», sottolineò Malaparte, soggiungendo: «Perché di un’amante non era il caso di parlare. Per questo ci sono i postriboli, spiegavano i superiori inabili alle fatiche di guerra e preoccupati di difendere la morale pubblica nelle città – ma ottimi patrioti, che diamine!». 83 5. La questione degli «imboscati» agitò più di ogni altra l’animo dei combattenti. Il termine stesso di imboscato acquistò durante la guerra il significato nuovo che ad esso oggi attribuiamo. Fino alla Grande guerra «imboscarsi» aveva voluto dire nascondersi in un bosco per tendere insidie al nemico. Dopo di allora servì ad esprimere un concetto molto diverso se non addirittura opposto: sottrarsi, cioè, al servizio di guerra restando in un posto lontano dal fronte. Imboscato, in senso ironico dunque, divenne colui che non cercava il nemico ma stava ad attenderlo in luogo – almeno per il momento – tranquillo. «Imboscato», disse A. Baldini, era: «Una parola a dondolo, per cancellare gli imbarazzi: non una parola come disertore, traditore, parole a picco, dalle quali si precipita; sferzante, ma imbrogliata come una frusta che s’infiocca e annoda in aria e quando colpisce non fa più male. Nessuno direbbe per ischerzo: ho tradito; son tanti a confessare: mi sono imboscato». 84 Nel gergo dei militari gli imboscati furono definiti anche con altri termini canzonatori: salesiani, ciclamini, filugelli. 85 Il concetto di imboscato fu alquanto variabile: chi stava in una trincea particolarmente esposta considerava imboscati coloro che occupavano una posizione meno pericolosa; coloro che combattevano sul fronte dell’Isonzo giudicavano imboscati i fanti delle armate schierate tra lo Stelvio e la Carnia: le 163

chiamavano «armate della salute», e la prima armata – per la relativa calma che regnò sul suo fronte durante il primo anno di guerra – ricevette l’appellativo di «serenissima». 86 Per i fanti erano imboscati gli artiglieri, e per l’intero esercito, infine, erano imboscati tutti gli italiani che non si trovavano in zona di guerra. Il fante di trincea aveva diviso l’esercito in quattro categorie: 1) i fessi, come lui, che combattevano in prima linea; 2) i fissi, presso i comandi (da quello di divisione in su); 3) gli italiani, nelle retrovie; 4) gli italianissimi, all’interno del Paese. 87 Alcune canzoni popolari sul tema degli imboscati ottennero un improvviso successo. Ne furono composte parecchie, e una delle più famose fu quella scritta da «Galucio ’l barbon», poeta torinese, che cominciava coi versi: «Il General Cadorna ha chiesto dei soldati – Rispose Re Vittorio, le mando gli imboscati – E passerem la visita a tutti i riformati – Din don dan, al fronte non ci van…». Il poeta Totila Baduilla, di Codogno, scrisse una Canzone dell’imboscato, parodia di «Addio mia bella addio», dove questa volta: «L’armata se ne va – Però non parto io – Che invece resto qua – […] Ed ecco l’avvocato – Spazzino diventar; – Il dotto laureato – Il fieno maciullar. – Ed ecco l’ingegnere – Vuotare anche il pital, – Addetto all’infermiere – Del civico ospital! – Ed ecco professori, – E illustri cavalier, – Dottor, commendatori, – Far anche il carrettier». 88 A Udine, presso il Comando supremo, vivevano alcuni imboscati di lusso. Il Comando, come scrisse U. Ojetti nel luglio del ’15, era pieno di ufficiali che avevano ben poco da fare. Piero Pirelli, ufficiale di segreteria addetto all’ufficio cifra, doveva giornalmente decifrare sì e no cinque telegrammi. Il giovane sottotenente Edoardo Agnelli era vice-direttore del parco automobilistico del Comando supremo, alle dipendenze di un capitano che nella vita civile dirigeva il garage Fiat di Milano, ed Ojetti commentava: Agnelli «quindi è quasi il padrone». Il figlio

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del senatore Gavazzi aveva grado di sergente, con mansioni di chauffeur presso lo stesso Ojetti. 89 Una canzoncina in voga nell’esercito diceva che: «Da Cividale a Udine – Ci stanno gl’imboscati – Hanno gambali lucidi, – Capelli profumati». 90 Molti accusarono il presidente Salandra di aver dato per primo il cattivo esempio imboscando, «con ostinata perseveranza», tutti e tre i suoi figli! 91 Il problema fu avvertito dai soldati in forma molto più acuta di quel che gli ironici versi delle loro canzoni potrebbero a prima vista lasciar credere. Padre Gemelli dichiarò che il fenomeno dell’imboscamento costituì il principale tema di conversazione nelle trincee. 92 Nell’ottobre 1915 il governo istituì un’imposta sulle esenzioni dal servizio militare, alla quale furono assoggettati i riformati e gli esonerati, costituita da una quota annua di sei lire per coloro che avevano redditi inferiori alle mille lire annue, integrata da contributi supplementari per chi avesse goduto di redditi superiori. I soldati la battezzarono «tassa sugli imboscati» e molti credettero che bastasse pagarla per ottenere l’esonero. 93 Secondo G. Prezzolini l’odio generale delle truppe verso gli imboscati non nasceva da un sentimento di giustizia offesa, ma dall’egoistico desiderio di ripartire fra tutti, e in parti eguali, i rischi e i disagi della guerra. Tutti gli artiglieri, gli automobilisti e gli operai addetti alla produzione di guerra avrebbero dovuto combattere, insomma, per almeno sei mesi in fanteria, e ciò «non per vincere prima, ma per contentare i più». Si trattava, secondo Prezzolini, di un «pregiudizio democratico», nel quale, cioè, troppo parlava l’invidia e poco l’interesse del Paese, poiché l’opera di disboscamento non avrebbe mai dovuto essere compiuta in base al criterio errato di lasciare gli inabili negli uffici e di trasferire gli abili al fronte. Non bisognava scordare che 165

in una grande guerra gli uffici e i servizi assumevano spesso un’importanza tale da superare quella del fronte, di modo che – diceva sempre Prezzolini – il criterio giusto avrebbe dovuto essere quello della utilità e speditezza dei servizi stessi, quello della più razionale utilizzazione delle competenze, quello di scacciare gli incapaci dai posti che occupavano, al fronte o nel Paese. 94 Non è facile far comprendere al soldato che i cittadini rimasti negli uffici o negli stabilimenti possono essere utili alla vittoria quanto e talvolta più di lui. La protesta dei combattenti contro le esenzioni dal servizio militare può essere quindi considerata come un dato di carattere permanente nelle grandi guerre moderne. 95 Ma in Italia, cinquant’anni or sono, quella protesta raggiunse un grado di esasperazione davvero eccezionale. Abbiamo già detto che la fanteria, nella sua grande maggioranza era composta da contadini. La quasi totalità degli operai industriali, invece, erano esonerati per legge dal servizio militare. Inoltre gli operai richiamati alle armi militavano molto raramente in fanteria poiché, se conoscevano sia pure superficialmente un motore o sapevano maneggiare un attrezzo, erano avviati a far parte di altri corpi. Per il fante-contadino, dunque, dire operaio equivaleva dire imboscato, nascosto in qualche corpo speciale o più spesso rimasto in città a guadagnare paghe sempre più elevate e a sfruttare in qualche modo la guerra. «La guerra la fanno i contadini!» gridò alla Camera l’on. Soderini. «La pagano col loro sangue in proporzione del 75 per cento», confermò l’on. G. Ferri. 96 Soprattutto suscitò indignazione il fatto che un gran numero di giovani validi fossero entrati nelle industrie mobilitate per la produzione bellica. L’on. Francesco Ciccotti disse che alcuni imprenditori traevano un lucro occulto e illecito facendo passare per operai parecchi giovani di buona

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famiglia, e che addirittura erano stati impiantati degli opifici non tanto per fabbricare armi e munizioni, quanto per organizzare l’imboscamento, «industria più profittevole di ogni altra». 97 In realtà le industrie destinate alla produzione di guerra erano state costrette a reclutare in gran parte elementi improvvisati. Il ministro della Guerra, gen. Zupelli, trovò facili argomenti per spiegare ai deputati che in Italia, al principio della guerra, esisteva una modestissima industria metallurgica, e che mentre l’Italia, in passato, aveva sempre potuto fornire sterratori, muratori e falegnami a tutto il mondo, non aveva mai avuto operai metallurgici altro che per le sue pochissime fabbriche. Lo sviluppo dovuto alle esigenze di guerra si era dunque necessariamente attuato facendo ricorso a mano d’opera non qualificata. 98 Le argomentazioni del ministro erano fondate, ma i soldati non le conoscevano, anche perché non esisteva una propaganda che si preoccupasse di farle conoscere. Ma anche se questa propaganda fosse esistita i soldati avrebbero pur sempre continuato a pensare che l’ingresso in fabbrica di tanti giovani costituiva una grossa «ingiustizia», se non altro perché gli operai industriali ricevevano un trattamento economico enormemente superiore a quello dei combattenti. 99 Le maestranze degli stabilimenti addetti alla produzione di guerra ricevevano le retribuzioni stabilite nei contratti dell’industria privata. Il gen. Dallolio – sottosegretario e poi ministro delle Armi e Munizioni – spiegò che era impossibile parificare le retribuzioni degli operai militarizzati a quelle dei combattenti, poiché sarebbe stato necessario assicurare anche ai primi l’alloggio e il vitto. Né, in ogni caso, egli avrebbe mai potuto ordinare di retribuire col solo stipendio militare quei direttori di officina o quei capitecnici che avevano conquistato una cospicua

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posizione nel mondo industriale. 100 Un operaio metallurgico, a Torino, retribuito a cottimo, riceveva nel 1915 una paga media giornaliera di lire 7,60, e il fante era facilmente indotto a fare tristi confronti tra la condizione sua e quella degli imboscati. La paga giornaliera del fante era infatti di 50 centesimi compreso il soprassoldo di guerra, di cui al decreto 23 maggio 1915, n. 677. 101 Tale decreto aveva stabilito le indennità speciali «per le truppe in campagna», commisurandole in cent. 40 per i caporali, gli appuntati, i soldati, gli allievi carabinieri e i carabinieri aggiunti; in cent. 60 per i carabinieri; in lire 1 per i sergenti, 2 per i sergenti maggiori, 2,50 per i marescialli di alloggio. Per gli ufficiali, invece, le indennità speciali di guerra erano le seguenti (in lire del tempo):

Gradi e cariche Capo di stato maggiore dell’esercito e comandante di armata Comandante di corpo di armata e ufficiali generali che coprono cariche corrispondenti Tenente generale Maggior generale Colonnello Tenente colonnello, maggiore e primo capitano Capitano Tenente e sottotenente

Indennità di Soprassoldo Indennità entrata in giornaliero di carica campagna di guerra (annua) (una tantum) 8.000

40

20.000

7.000

25

15.000

5.000 3.500 1.500

20 15 12

9.000 5000 1.000

900

10

-

600 400

8 6

-

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Tali indennità e soprassoldi si cumulavano inoltre con i seguenti stipendi annui (espressi anch’essi in lire del tempo): Generale d’esercito Tenente generale Maggior generale Brigadiere generale Colonnello

15.000 12.000 10.000 9.000 8.000

Tenente colonnello

da

7.000 a

6.000

Maggiore Capitano Tenente Sottotenente

» » »

5.500 » 4.800 » 3.600 » 2.000

5.000 4.000 2.400

(secondo l’anzianità di servizio) » » » » » » » » »

Ugo Ojetti, mentre era al Comando supremo, si interessò di sapere quanto guadagnavano i suoi superiori e annotò nel diario: «Cadorna ha, credo, 4.000 di stipendio: 200 ne tiene, il resto manda a casa». 102 I fanti si interessarono delle retribuzioni percepite dai commilitoni addetti alle altre armi e ai servizi, in favore dei quali il decreto 23 maggio 1915 aveva stabilito indennità varie oltre al soprassoldo di 40 centesimi: «Il maniscalco – dicevano i fanti – non combatte, ma avrà l’indennità di ferratura, il motorista avrà l’indennità di motore, il telefonista addetto agli uffici avrà l’indennità di telefono, l’automobilista l’indennità di macchina; al combattente è riserbato un trattamento unico ed inesorabile: cinquanta centesimi ed il pericolo della vita, giorno per giorno». 103 I congiunti dei richiamati alle armi, riconosciuti bisognosi da speciali commissioni comunali, ricevettero un sussidio giornaliero nella misura di lire 0,60 per la moglie, e 0,30 per 169

ciascun figlio di età inferiore ai 12 anni. I figli dei soldati che avevano superato tale età potevano essere ammessi al lavoro anche senza il prescritto grado di istruzione, in deroga alle norme di legge sulla protezione del lavoro del fanciullo. Tanto era bastato per escluderli senz’altro dal sussidio. Si potrà obiettare che nelle campagne il lavoro dei fanciulli era un fenomeno diffuso; che inoltre il giudizio delle commissioni incaricate di assegnare i sussidi si ispirava generalmente a criteri molto larghi, così che quasi tutte le famiglie dei contadini richiamati potevano approfittarne; ed infine che i lavoratori agricoli erano abituati a percepire retribuzioni assai basse, tali da far sì che i sussidi governativi costituissero un contributo apprezzabile per l’economia delle loro famiglie. È stato infatti calcolato che nel 1913-14 la retribuzione media annua per unità lavoratrice giungesse appena alle 440 lire nell’Italia centro-settentrionale e alle 360 in quella meridionale. Tuttavia – come scrisse il Serpieri – il concorso dato dai sussidi statali per reintegrare i bilanci contadini, pur essendo rilevante, non bastò nella maggioranza dei casi a ristabilire l’antico equilibrio tra redditi e consumi. A maggior ragione, dunque, esso non bastò per placare il malumore dei fanti-contadini contro i ben più privilegiati «operaiimboscati». 104 Si pensi che nel 1917 i sussidi giornalieri della moglie del soldato furono aumentati di 15 centesimi e quelli del figlio di 10 centesimi, mentre il costo della vita era cresciuto del 43 per cento. 105 In forma più o meno consapevole i fanti-contadini avvertivano che, mentre toccava ad essi di soffrire e combattere, tutto il mondo dell’industria progrediva grazie alla guerra. Nell’agosto 1915 l’ing. Nicola Romeo riferiva ad Ojetti – uno dei suoi maggiori azionisti – che la loro fabbrica, la quale oltre alle automobili produceva anche proiettili e perforatrici, stava

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andando «a gonfie vele». 106 Bastava leggere i giornali per apprendere che le industrie concludevano ottimi affari: «La Stampa» di Torino, in un articolo del 13 novembre 1915 significativamente intitolato Lo Stato indifeso?, riprovava gli illeciti arricchimenti dei fornitori dello Stato e nel numero del 29 novembre chiedeva più rigorose tassazioni denunciando gli enormi profitti conseguiti dalla Fiat nel 1915, calcolati intorno al 70% del capitale. Alcuni industriali imputati di frode nelle forniture militari erano stati arrestati e «La Stampa» ne dava notizia stigmatizzando il fatto che i fornitori trovassero il modo di arricchirsi mentre la guerra rendeva povere le nazioni: a quei profittatori non importava che il soldato restasse scalzo sulle rocce o con l’abito lacero e insufficiente a ripararlo dal freddo. Essi avevano venduto materiale scadente a prezzi eccezionali, accrescendo mediante la frode il loro già lauto guadagno: «Alla gogna questi cattivi industriali, questi pessimi italiani». 107 6. Le autorità civili e militari provvidero con ritardo ai rifornimenti di vestiario invernale e alle attrezzature necessarie per combattere i rigori del freddo. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, ancora alla fine di settembre i soldati che combattevano in alta montagna mancavano delle necessarie attrezzature, tanto che l’iniziativa dei cittadini aveva cercato di porvi rimedio organizzando la confezione e la raccolta di indumenti di lana. 108 Nell’autunno, tuttavia, un ampio e coordinato sforzo fu compiuto dai servizi logistici dell’esercito. Vennero edificati vasti baraccamenti che richiesero l’impiego di enormi quantità di materiale, trasportato spesso nelle condizioni più difficili, a dorso di mulo o a spalla d’uomo. Nelle retrovie, furono costruite nuove strade e impiantate segherie idrauliche, fornaci, fabbriche di materiale cementizio. Dove il terreno non permise la costruzione di baracche furono scavate gallerie in 171

roccia, o utilizzate caverne naturali. Il gen. Cadorna poté scrivere con compiacimento che sotto al suo comando fu risolto, per la prima volta nella storia, il difficile problema del soggiorno invernale di un grande esercito su una catena montuosa come quella delle Alpi. 109 Anche gli indumenti invernali vennero largamente distribuiti, al punto che si dovette lamentare un notevole sciupìo di oggetti di vestiario compiuto dai reparti. 110 Tuttavia motivi più o meno validi di scontento continuavano a permanere fra le truppe per quanto riguardava il loro trattamento materiale. I problemi logistici presentavano gravissime difficoltà e si poteva facilmente comprendere che i servizi – soprattutto nelle prime linee – non procedessero sempre bene. Spesso, però, era la burocrazia militare che frapponeva inutili intralci alla sollecita distribuzione di materiali giacenti nei magazzini. A volte il materiale distribuito risultava scadente, perché fornito da produttori disonesti, e a volte insufficiente, perché saccheggiato da una certa camorra soldatesca. La razione invernale doveva essere composta da 750 g di pane, 375 di carne, 200 di pasta, oltre a una certa quantità di cioccolata, caffè, formaggio, zucchero, vino e condimenti. 111 Ma caffè, cioccolata, vino e grappa passavano per troppe mani di conducenti, caporali e piantoni prima di arrivare in linea, così che il povero fante riceveva spesso molto meno di quanto gli era stato assegnato. 112 Anche per quanto riguardava il vestiario si continuarono a lamentare gravi inconvenienti, tanto che nel dicembre 1916 il cappellano del 46° fanteria fu costretto a segnalare numerosi casi di congelamento e a raccomandare insistentemente l’invio di calze di lana. 113 Agli alpini di Piero Jahier furono distribuiti scarponi fabbricati in America che consumavano molto rapidamente le calze e facevano passare l’acqua. 114 Luigi Barzini, che scriveva dal fronte al suo direttore, si lagnò 172

nell’estate 1917 perché nella dotazione del fante era compresa la mantellina di lana (che si impregnava di acqua e favoriva le malattie) ma non l’impermeabile (giudicato troppo costoso). Si calcolavano insomma i milioni che sarebbero costati gli impermeabili senza tener conto che anche le malattie e i disagi degli uomini avevano un prezzo: «Se ogni soldato» scrisse Barzini «fosse comperato come un mulo e rappresentasse una cifra, sarebbe meglio difeso, perché da noi si protegge tutto quello che costa». 115 Non a caso l’ufficiale era obbligato a riempire un lungo verbale quando moriva un mulo, mentre doveva scrivere solo poche righe quando moriva un soldato. 116 I primi elmetti cominciarono a fare la loro apparizione tra la fine del 1915 e la primavera del 1916. Fino ad allora – l’abbiamo già ricordato – i fanti andarono all’assalto con il «chepì» di panno, i bersaglieri con il berretto privato delle tradizionali piume e gli alpini con il cappello senza la penna nera, per non attirare il fuoco nemico. 117 Nell’ottobre 1915, nella famosa «trincea delle frasche» (proprio in quei giorni Filippo Corridoni vi avrebbe trovato la morte), soltanto pochi soldati possedevano l’elmetto. 118 Da principio ne erano stati distribuiti appena 6 ogni 250 uomini, e portavano stampate le iniziali: «R.F.» (Repubblica Francese). I soldati se li passavano di mano in mano con curiosità e diffidenza. 119 In complesso i comandi compirono un considerevole sforzo per assicurare alle truppe il vitto, soprattutto, e il vestiario. Le frequenti distribuzioni di tabacco e di alcolici introdussero tra i soldati abitudini che nella vita civile molti di essi non avevano. Tuttavia numerose elementari esigenze del soldato restarono insoddisfatte. Possedere una candela in trincea era privilegio di pochi ufficiali. Le notti trascorrevano interminabili e i soldati tentavano di rischiarare le loro tane fabbricando con le scatole 173

della conserva rudimentali lumicini. 120 Nell’autunno del 1915 la povertà dei mezzi a disposizione dei comandi di linea era così grande che «ogni libro, ogni piccolo indumento, ogni pezzo di sapone, ogni foglio di carta da lettera, ogni cartolina, ogni matita apparivano tesori da fiaba». 121 Ancora nell’estate del 1918 i comandi distribuivano mensilmente a ciascun uomo di truppa appena tre o quattro cartoline in franchigia, talvolta due foglietti di carta, e mezzo lapis ogni cinque soldati! 122 Dal punto di vista delle condizioni materiali, tuttavia, la vita di prima linea presentava inconvenienti che neppure il più ricco ed efficiente dei servizi logistici sarebbe mai riuscito ad eliminare. Molte trincee, infatti, erano state scavate a pochi passi dal nemico, e potevano essere rifornite saltuariamente, a prezzo di gravissime difficoltà. 7. L’adattamento del soldato alla guerra si compiva grazie al concorso di molteplici fattori, fra i quali la disciplina e la minaccia delle punizioni svolgevano senz’altro un ruolo di primaria importanza. Altrettanto accadeva anche negli altri eserciti combattenti e, qualche anno più tardi, lo stesso fondatore dell’armata rossa, Trockij, avrebbe dichiarato che era impossibile costruire un esercito senza avere nell’arsenale del comando la pena di morte: «Fin tanto che quelle scimmie senza coda,» disse «orgogliose della loro tecnica, che si chiamano uomini, formeranno gli eserciti e combatteranno, il comando di quegli eserciti dovrà porre i soldati tra la morte probabile sul fronte e quella inevitabile dietro il fronte». 123 Trockij, però, soggiungeva che non bastava il terrore per mantener uniti gli eserciti e attribuiva grandissima importanza al «cemento delle idee», alla propaganda, che egli stesso dirigeva e curava percorrendo la linea del fronte a bordo del suo famoso treno blindato. 124 Nell’esercito italiano, viceversa, la 174

propaganda era destinata a svolgere un ruolo incomparabilmente più modesto per un complesso di motivi dei quali si è già fatto cenno e che torneremo ad esaminare in seguito. 125 Il gen. Cadorna, mentre non sollecitava uno sviluppo delle attività propagandistiche o anche soltanto ricreative dell’esercito, si occupava con tenace insistenza dell’applicazione del codice militare. Già durante i combattimenti dell’estateautunno 1915 si erano verificati frequenti casi di indisciplina fra le truppe, e Cadorna aveva reagito alla «eccessiva e nefasta indulgenza» con la quale la magistratura militare li aveva giudicati. 126 Nell’inverno 1915-1916 i combattimenti entrarono in una fase assai più calma, ma i casi di indisciplina continuarono egualmente a verificarsi. La stasi invernale delle operazioni, del resto, ebbe valore relativo, poiché in cinque mesi, dal 1° dicembre al 30 aprile, furono contati 15.000 morti e più di 35.000 feriti, su una forza media di 1 milione e 150.000 uomini appartenenti all’esercito operante. 127 Gli incidenti disciplinari fra le truppe furono numerosi soprattutto verso la fine dell’anno, per l’assegnazione delle licenze e dei turni di riposo. Nel dicembre del ’15, per esempio, il gen. Rocca, comandante della brigata Ferrara, condusse le sue truppe al riposo dopo che esse avevano sostenuto duri combattimenti sul San Michele. Il generale organizzò esercitazioni, sfilate, distribuzioni di ricompense. Scrisse nelle sue memorie di aver galoppato spesso, in quei giorni, sul suo focoso destriero davanti alle truppe schierate in bell’ordine poiché queste piccole coreografie, chiamate in gergo militare «Trionfi di Mardocheo», avevano il loro valore e, se non esagerate, aumentavano l’ascendente del superiore. Non era trascorsa una settimana che uno dei due reggimenti della brigata, il 48°, alla vigilia del ritorno in linea si

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ammutinava e faceva fuoco contro i suoi ufficiali. Il 48° era composto in gran parte di calabresi che volevano partire tutti insieme per la licenza: all’entrata in guerra erano tremila, ma in pochi mesi si erano ridotti a 700; il primo turno di licenza prevedeva la partenza di soli 200 uomini. Nottetempo i soldati cominciarono a rumoreggiare e a sparare. Occuparono un piazzale. Durante gli incidenti due soldati caddero uccisi. Carabinieri e altre truppe, presto accorsi, ristabilirono l’ordine e un tribunale straordinario, riunitosi sotto la presidenza dello stesso gen. Rocca, condannò due soldati alla fucilazione. 128 Il 26 dicembre, a Sacile, quattrocento alpini in partenza per il fronte (alcuni dei quali ubriachi) uscirono dalla caserma sparando e gridando: «Abbasso Salandra! Viva Giolitti!». Gli alpini si lasciarono condurre alla stazione ferroviaria, ma qui giunti interruppero la linea telegrafica con Treviso e costrinsero altri trecento soldati, anch’essi in partenza per il fronte, a scendere dal treno. Gli ufficiali fecero opera di persuasione; gli animi si placarono e con quattro ore di ritardo i reparti riuscirono a partire (tranne 28 uomini allontanatisi dal grosso, i quali furono arrestati). Giunti a Cividale, gli alpini discesero tranquillamente dal treno. Il loro comandante, nonostante il contrario avviso del comando di tappa, rifiutò di far compiere ispezioni «per non riaccendere gli animi», e ordinò che i reparti proseguissero alla volta di San Piero d’Isonzo, luogo designato per il pernottamento. Immediatamente carabinieri e ufficiali superiori si recarono a San Piero per accertare le responsabilità degli ufficiali alpini che non avevano frenato i disordini fin dall’inizio, e per identificare tra le truppe i colpevoli, in modo da fornire a tutti un «salutare esempio». 129 Con procedura straordinaria, nella notte tra il 29 e il 30 dicembre, il tribunale militare giudicò 35 militari di truppa, assolvendone 4 e

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condannandone 31 a pene varianti dai 15 ai 5 anni di reclusione. 130 Anche questa volta Cadorna rimase deluso per l’andamento del processo, ed anzi proprio quanto era accaduto a Sacile gli offrì l’occasione di precisare le sue opinioni sul diritto penale di guerra, in una lettera del 14 gennaio 1916 diretta al presidente Salandra: «Ringrazio l’E.V. per avermi dato comunicazione della lettera scritta da S.E. il ministro della Guerra per rilevare la necessità di indagini, diligenti e severe, dirette ad accertare quali influenze d’ordine politico possano avere contribuito a suscitare i disordini deplorati a Sacile, e convengo pienamente nell’importanza che riveste l’ipotesi della esistenza di sobillatori nei paesi di provenienza dei militari colpevoli. 131 Ma, nei riguardi della constatata indifferenza dei condannati alla lettura di una sentenza tanto grave, debbo dire che il contegno dei condannati non mi stupisce. È pur troppo radicata nei soldati e nel Paese la convinzione che a guerra finita il governo provvederà a largire ampie amnistie per modo che le sentenze di condanna all’ergastolo ed alla reclusione militare non intimoriscono più i male intenzionati, i quali anzi preferiscono incorrere in una condanna, pur di non affrontare i rischi della guerra, e stare al sicuro dai proiettili nemici nelle carceri, perché (come pur troppo, e da tempo, si usa fare con le conseguenze che vediamo) interverrà a liberarli l’amnistia. In tempo di guerra quindi soltanto le condanne capitali possono avere efficacia intimidatrice, ma nei processi contro molti imputati e del genere di quelli 177

originati dai disordini di Sacile, gli elementi di accusa sono spesso soltanto indiziari, e perciò i tribunali militari non possono – come sarebbe salutare – concludere con esemplari condanne a morte. È quindi vivamente da deplorare che l’attuale codice penale militare non conceda più, nei casi di gravi reati collettivi, la facoltà della decimazione dei reparti colpevoli, che era certamente il mezzo più efficace – in guerra – per tenere a freno i riottosi e salvaguardare la disciplina». 132 È molto significativo che Cadorna, nelle sue Pagine polemiche, pubblicò un riassunto di questa lettera, ma censurò l’ultimo paragrafo. 133 Il provvedimento della decimazione consiste, infatti, nella fucilazione di un certo numero di militari estratti a sorte, appartenenti ad un reparto nel quale si sono verificati reati punibili con la pena di morte. Ma la decimazione può trovare applicazione in due tipi di casi notevolmente diversi fra loro. Un primo caso si verifica allorché le autorità militari accertano l’esistenza di un grande numero di responsabili condannandone a morte soltanto alcuni. Questo tipo di decimazione viene spesso definito «umanitario» perché – si pretende – servirebbe a risparmiare un certo numero di vite umane. (Ma nella normalità dei casi le autorità militari si trovano nella impossibilità pratica di condannare alla fucilazione mille o anche soltanto cento soldati colpevoli di un identico reato, e quindi la decimazione cosiddetta «umanitaria» offre la via per fucilarne almeno un certo numero.) Il secondo tipo di decimazione, più aberrante del primo, si verifica quando le autorità militari non riescono ad individuare le singole responsabilità penali e, nel migliore dei casi, dispongono soltanto di indizi. Esse stabiliscono pertanto di 178

inviare innanzi al plotone di esecuzione alcuni militari, magari innocenti, sol perché appartenenti al reparto nel quale i reati sono stati commessi. Questo secondo tipo di decimazione fu invocato da Cadorna a proposito dei fatti di Sacile. Non risulta che Salandra replicasse alla lettera di Cadorna del 14 gennaio, ma quel che era accaduto nell’ottobre a proposito dell’esclusione del ricorso alla grazia sovrana costituiva un precedente assai significativo sugli orientamenti del governo in materia di diritto penale. 134 La decimazione non era prevista dal codice militare, ma tale silenzio non poteva assolutamente significare autorizzazione, poiché essa contrastava in ogni caso con i princìpi generali del diritto. 135 La Commissione di inchiesta sui fatti di Caporetto pubblicò il testo di una circolare del 22 marzo 1916, nella quale Cadorna dichiarava che i giudici dei tribunali straordinari eludevano la responsabilità di infliggere pene di morte accordando agli imputati le attenuanti generiche. Si rendeva pertanto necessario – secondo Cadorna – che i comandanti, convocando i giudici, facessero comprendere ai medesimi («pur non coartando le loro coscienze e senza esercitare alcuna influenza sul loro giudizio») quali gravi conseguenze potevano derivare dalla loro abituale mitezza. Per quanto poi si atteneva ai tribunali ordinari, il generale disponeva che lo stesso inconveniente fosse «eliminato mediante una accurata scelta dei giudici», escludendo quelli che non davano «affidamento di comprendere lo spirito della legge e le esigenze disciplinari del momento». 136 Ancora una volta, in aprile, Cadorna tornò a lamentarsi per la persistente mitezza dei tribunali straordinari. Poi i suoi inviti alla severità ebbero termine (tranne una circolare, nell’agosto, riguardante i tribunali speciali incaricati di giudicare i soli ufficiali). 137 Si deve credere – come del resto credette la 179

Commissione di inchiesta per i fatti di Caporetto e come a questa fu riferito da numerosi testimoni – che nella primavera del 1916 la giustizia militare cominciò ad essere molto più rigorosa. 138 Lo stesso Cadorna, nel libro che scrisse a sua difesa, ammise che i tribunali erano stati indulgenti nei primi tempi della guerra, lasciando intendere che successivamente le cose erano cambiate: anche la decimazione – come vedremo – cominciò ad essere applicata su vasta scala. 139 8. L’opera dei cappellani militari ebbe grande importanza in tutti gli eserciti belligeranti, sia perché i sacerdoti possedevano una conoscenza antica dei problemi spirituali, sia perché le inquietudini del tempo di guerra risvegliavano ovunque il sentimento religioso dei popoli. Ma nell’esercito italiano l’attività dei cappellani acquistò un’importanza ancora più grande che altrove dato che – fino a Caporetto – le autorità politiche e militari non promossero alcuna vasta opera di assistenza e di propaganda fra le truppe. Nei suoi Quaderni dal carcere Gramsci scrisse che Cadorna fondava la sua politica verso le masse militari sull’influsso del sentimento religioso: «l’unico coefficiente morale del regolamento era, infatti, affidato ai cappellani militari». 140 Va tuttavia ricordato che, anche in eserciti più efficienti e moderni di quello italiano, i comandi ritennero opportuno far leva sul sentimento religioso per meglio disporre i soldati al combattimento ed al sacrificio supremo. Nel 1917, per esempio, il gen. Pershing, che comandava le forze statunitensi in Europa, raccomandò al governo di Washington di aumentare il numero dei cappellani per creare tra i soldati una forza d’animo che nascesse «da un grande coraggio morale e da alti ideali religiosi». 141 All’inizio del 1915 l’esercito italiano non aveva cappellani. 180

Erano stati aboliti tra il 1865 ed il 1878, 142 e riammessi nel 1911, al momento della campagna di Libia, ma in numero ridotto – una ventina appena – e con funzioni limitate all’assistenza dei feriti negli ospedali. 143 La costituzione di un ampio corpo di cappellani fu invece promossa nell’aprile 1915 dal gen. Cadorna, con una circolare che previde l’assegnazione di un ecclesiastico a ciascun reggimento delle diverse armi. 144 Quando le ostilità italo-austriache erano già iniziate da una settimana, la Santa Sede decise di istituire un «vescovo del campo» avente giurisdizione pastorale su tutto il clero in armi. 145 Fu questa una decisione unilaterale, accolta con fervore «non unanime» dalle sfere ufficiali dello Stato italiano. Il barone Monti, tuttavia, direttore del fondo per il culto ed amico personale di Benedetto XV, agì come intermediario tra il Vaticano ed il governo Salandra, e un regio decreto del 27 giugno 1915 riconobbe il vescovo del campo, accordandogli «l’alta direzione del servizio spirituale» nell’esercito, e l’«autorità disciplinare ecclesiastica su tutti i cappellani militari di terra e di mare». 146 La carica di vescovo del campo fu occupata durante tutto il corso della guerra da mons. Angelo Bartolomasi, il quale ebbe diritto di scegliere i cappellani e di proporli al ministero della Guerra per la nomina. 147 A mons. Bartolomasi venne inoltre assegnato il grado ed il trattamento economico di un maggior generale dell’esercito, mentre i cappellani furono parificati ai tenenti. La «Civiltà cattolica», rivista dei padri gesuiti, si compiacque vivamente per le norme scaturite dall’accordo con il governo italiano, e dichiarò che esse risultavano senz’altro migliori di quelle emanate in Francia o in Gran Bretagna. 148 Tuttavia la grande maggioranza dei religiosi chiamati alle armi non diventarono cappellani ma rimasero semplici pretisoldati, generalmente insoddisfatti per il trattamento loro 181

riservato. Le cifre relative alla mobilitazione degli ecclesiastici sono spesso discordanti, ma risulterebbe che nell’estate del ’15 si contarono 700 cappellani su un totale di circa 10.000 sacerdoti entrati a far parte dell’esercito e, secondo i dati della Sacra Congregazione Concistoriale, durante l’intero corso della guerra gli ecclesiastici alle armi furono 24.446 e i cappellani 2.400. 149 Il 90% dei sacerdoti alle armi furono dunque soldati come tutti gli altri cittadini italiani sottoposti ad obblighi militari, ma ebbero il diritto (che diede loro fama di «imboscati») di chiedere il passaggio alle compagnie di sanità, dove svolsero mansioni di infermieri, portaferiti, ecc., ma dove furono anche spesso incaricati di compiere lavori ingrati ed umilianti, che essi giudicarono in contrasto con la dignità del sacerdozio. La disparità di condizioni tra i cappellani e i non cappellani suscitò un diffuso scontento tra i religiosi e mons. Bartolomasi se ne rese interprete presso le autorità. Riviste e giornali cattolici si interessarono alla questione, ma gli scritti che riferirono le lamentele e le richieste dei preti-soldati non sfuggirono all’attenzione della censura. 150 Fra i non cappellani, però, fu possibile riscontrare una notevole varietà di situazioni. Risulta, fra l’altro, che 1.582 religiosi ottennero il grado di ufficiale e più di una volta si verificò il caso di reparti comandati da preti i quali avevano regolarmente frequentato i corsi allievi ufficiali ed erano diventati tenenti o capitani del regio esercito. 151 Invidiati dalla grande massa dei preti-soldati, i cappellani conobbero gli onori, ma anche gli oneri della loro missione. Molti si avvidero anzi che disprezzare il pericolo, visitare i combattenti nelle trincee, assisterli da presso durante le azioni erano i soli mezzi che consentivano di acquistare il necessario prestigio. Un grande numero di cappellani ottennero encomi e medaglie per il coraggio dimostrato in mezzo alle battaglie, ed è singolare

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constatare che molti compirono atti di valore in circostanze che nulla ebbero a che vedere con la loro missione sacerdotale. Don Sebastiano Allio, cappellano del 33° fanteria, si trovava nell’ottobre 1915 sul Sabotino; durante la battaglia salvò la bandiera del reggimento rimasta abbandonata in una casa sulla quale sparava l’artiglieria nemica. 152 Don Giovanni Minzoni, il sacerdote romagnolo che nel 1923 fu ucciso da due squadristi fascisti, era nel 1918 cappellano del 255° fanteria. Il 15 giugno, durante la battaglia del Piave, impugnò il fucile e, messosi alla testa di una pattuglia di arditi, si lanciò contro il nemico. Fu decorato con medaglia d’argento. 153 La Sacra Congregazione Concistoriale calcolò che su 24.446 ecclesiastici richiamati alle armi, i morti furono 845, i feriti 795, i decorati 1.243. 154 9. I religiosi collaborarono alla guerra nello stesso momento in cui Benedetto XV la condannò. Il papa, infatti, pronunciò una energica condanna della guerra fin dall’inizio del suo pontificato. Il 25 maggio 1915, giorno successivo all’intervento italiano, volle ripetere che l’Europa era disonorata da una «orrenda carneficina». Nel marzo 1916 dichiarò che era in corso il «suicidio dell’Europa civile». 155 Benedetto XV non attese insomma l’agosto del ’17 per esecrare l’«inutile strage». Tuttavia, se in cuor suo favorì una delle due parti contendenti, in pubblico si astenne dal censurare le colpe o le passioni dell’una o dell’altra parte del suo gregge. Se la guerra gli apparve simile a un suicidio – anche perché milioni di cattolici attentavano alla vita di altri milioni di cattolici – non vietò ai fedeli di partecipare al massacro. Il capo della cristianità, come uomo della politica e della diplomazia, ma anche della religione e della Chiesa, ritenne che la scelta più saggia fosse quella di collocarsi al di sopra della mischia, sia per salvare il destino della fede, sia per potere eventualmente intervenire come arbitro pacificatore al 183

momento opportuno. Benedetto XV, che ascoltò le diverse voci della Chiesa nel mondo, poté bene avvertire la generale sovversione delle coscienze. Poté rendersi conto che dal suo trono era ancora possibile giudicare con qualche distacco gli avvenimenti e soffrire per l’urto violento manifestatosi tra i valori universali e nazionali della Chiesa, ma che nello stesso tempo altrove, in Germania come in Francia, i fedeli, i sacerdoti e anche i vescovi, uomini tra gli uomini, compivano le loro scelte facendo propri i miti e le passioni della società e dell’epoca alla quale appartenevano. Molti condannavano il conflitto; ma altri si avviavano al fronte e benedicevano i combattenti senza essere troppo tormentati dal rimorso per la distruzione delle vite e delle cose che la guerra avrebbe provocata. Il gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, convinto della necessità di distruggere l’imperialismo tedesco, partì per il fronte senza neppure porsi il problema dell’obiezione di coscienza. Non uccise nessun nemico perché, a differenza dei suoi commilitoni, fu assegnato in qualità di sacerdote ad organismi non combattenti, ma questa differenza costituì per lui una vuota questione di parole. Sapeva che in guerra tutti uccidono, dal generalissimo all’operaio della fabbrica di munizioni, e padre Teilhard sentiva anzi il disagio di non balzar fuori dalla trincea al momento dell’attacco, di non lanciar bombe o di non servirsi della mitragliatrice. 156 Anche in Italia molti cattolici ed ecclesiastici partirono entusiasti per la guerra e presero parte ai combattimenti con uno spirito patriottico non diverso da quello di Teilhard. «Il soldato italiano» ha scritto A.C. Jemolo «non poté mai temere che la sua non fosse una guerra lecita, fosse una guerra non benedetta.» 157 Lo stesso episcopato italiano finì con l’avere verso la guerra un orientamento molto simile a quello che era stato assunto, su più vasta scala, dalla pubblica opinione. Come questa si era divisa in

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una minoranza di interventisti e di neutralisti e in una grande maggioranza di indifferenti, disposti tuttavia – almeno in buona parte – a collaborare, così anche l’episcopato si divise in una minoranza di nazionalisti e di neutralisti ad oltranza e in una grande maggioranza di «patriottici» e di «moderati». 158 10. La guerra avvicinava gli uomini alla Chiesa, ma fin dal 1915 nacquero vivaci polemiche tra chi sosteneva che la più intensa partecipazione dei fedeli (combattenti o non combattenti) alle pratiche religiose costituiva la precisa testimonianza di un sincero e spesso profondo risveglio religioso, e chi viceversa negava l’autenticità di questo risveglio e scorgeva nella più intensa partecipazione ai riti un riflesso delle paure e delle superstizioni che in quell’eccezionale periodo dominavano gli individui. 159 I religiosi al fronte erano i primi ad avere seri dubbi sulla effettiva profondità della fede rinnovata, anche se raccoglievano quotidianamente notizie di atti di devozione: un soldato calabrese passava di trincea in trincea portando, nello zaino, una grossa croce di ferro, simile a quelle dei camposanti, che poi piantava davanti alla sua postazione; un capitano ferito al torace vietava al medico, che lo operava, di togliergli la catenina con l’immagine della Madonna. «La pia medaglia benedetta» si chiedeva don Giulio De Rossi «si porta sul cuore come l’immagine di un essere caro o come un amuleto? Io non so, non posso e quindi non voglio rispondere. C’è però indubbiamente qualche cosa negli usi religiosi che ha apportato la guerra, c’è dico qualche cosa qua e là che urta il mio senso cristiano.» 160 Un cappellano confermava che la maggior parte dei soldati 185

concepivano la religione come un mezzo atto ad assicurare l’invulnerabilità e a sopprimere le sofferenze, e quindi come un complesso di manifestazioni esteriori rivolte a Dio, piuttosto che come un codice morale. 161 Moltissimi portavano sul berretto, sulla divisa, al polso, medagliette religiose in gran quantità, e le consideravano come amuleti equivalenti ai cornetti o ai gobbetti d’avorio. 162 Durante la guerra, del resto, il fenomeno del propagarsi delle superstizioni assunse un’ampiezza davvero impressionante in tutti gli eserciti, non solamente in quello italiano. Quando Cesare Battisti fu impiccato nel castello del Buon Consiglio, la corda servita all’impiccagione fu ridotta in minutissimi pezzi e contesa avidamente dai numerosi ufficiali dell’esercito austro-ungarico presenti, poiché ognuno voleva conservarne un pezzetto quale talismano contro i rischi ed i pericoli della guerra. 163 «La superstizione» fu giustamente notato «non è soltanto del fante abruzzese, che porta sul petto il sacchettino contenente un po’ di terra del paese nativo, o dell’ufficiale calabrese, che stringe al seno la crocetta di legno stregonio, ma anche degli uomini d’arme della Francia e dell’Inghilterra, recanti i primi la pietra a forma di cuore, che deve rendere il loro cuore duro come la pietra; e gli altri il cuore d’un gatto nero, perché li preservi d’ogni pericolo.» 164 E, naturalmente, non era neppure vero che le superstizioni costituissero – tra gli italiani – un fenomeno circoscritto ai soli meridionali. Accadeva spesso che i soldati piemontesi pronunciassero al momento del pericolo una formula magica: «Samel Arant, Samel Su», e le regole per la pronuncia di essa erano numerose. 165 Fanti della Lombardia conservavano gelosamente le schegge del ceppo natalizio (sciocc de Natal), portandosele appresso in un sacchetto, o tenevano in tasca un pezzo di ceralacca come rimedio contro il raffreddore. Erano stati 186

i prigionieri austro-ungarici a diffondere tra gli italiani l’uso di altri simili talismani da portare in tasca contro le malattie: i dadi da minestra contro il raffreddore, le cipolle contro il mal di testa, l’aglio contro il colera. 166 La maggior parte delle pratiche superstiziose appartenevano alla tradizione popolare delle regioni dalle quali provenivano i soldati, ma in zona di guerra quelle pratiche si mescolavano con grandissima rapidità. Alcune di esse diventavano internazionali, come ad esempio l’uso, di importazione britannica, che vietava di accendere tre sigarette con un solo fiammifero. 167 L’origine di quelle superstizioni era spesso antichissima e comune a più popolazioni. I soldati abruzzesi, come abbiamo accennato, portavano sul petto un sacchetto contenente un po’ di terra del paese natale; al momento del pericolo, specialmente quando andavano all’assalto, prendevano un pizzico di quella terra e la gettavano dietro alle spalle; ma un tale rito era stato osservato anche in Francia. 168 Secondo un altro antichissimo uso molti soldati, in particolare calabresi, fabbricavano pupazzi di stracci simboleggianti la morte e, con riti complicati, li gettavano sulle linee nemiche, nei burroni, sui falò. 169 Tutti i combattenti furono più o meno superstiziosi, indipendentemente dal grado di educazione e di cultura. Felice Troiani partì per il fronte munito di numerosi amuleti; Giosuè Borsi ricevette dalla madre la cosiddetta «preghiera di Carlomagno», un talismano da recare sempre indosso; Benito Mussolini confessò di portare al dito mignolo un anello fatto con un chiodo di cavallo. 170 Esistevano riti magici più sofisticati, come quello di Omodeo, per esempio, che traduceva in zona di guerra i Vangeli: «Tante volte» scrisse un giorno «mi prende una smania superstiziosa per questo lavoro: penso: quando lo finirò

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finirà pure la guerra. Si diventa superstiziosi anche contro voglia». 171 Le più complicate forme di scongiuro erano legate a indecifrabili formule cabalistiche. Migliaia di soldati, passando per i paesi della vallata del Natisone, avevano ricevuto una misteriosa scritta che ricopiavano e portavano con loro: 172

Per garantire la loro invulnerabilità e colpire con sicurezza il nemico, i soldati si affidavano a moltissime altre formule magiche. Alcuni scrivevano su tre biglietti i nomi dei tre re magi, Gaspard, Melchior, Balthasar, e li riponevano in tre tasche diverse. Altri, prima di sparare, sputavano tre volte in terra e, puntando il fucile, pronunciavano tre parole: Metor, Suter, Palar. Altri ancora, per salvarsi dai colpi nemici, portavano con loro dell’erba ruta, oppure tre piselli, rotti in tre pezzi, racchiusi in tre sacchetti, riposti in tre diverse tasche e, come se non fosse bastato, spostati ogni giorno dall’una all’altra tasca. 173 Una delle forme più semplici e più diffuse di scongiuro era quella di toccarsi la punta del naso, le stellette e il resto col pollice, l’indice e il medio uniti a triangolo. Molti portavano lunghi chiodi di ferro e vi fu chi combatté la guerra tenendo cuciti al cinturone due ingombranti ferri di cavallo. 174 La jettatura è un influsso molto temuto dagli italiani, e durante la guerra perfino un generale d’armata, Ettore Mambretti, fu perseguitato da questo diffuso pregiudizio. 188

«È una persona tutt’altro che antipatica» scrisse di lui il Gatti «ma in tutto l’esercito, quando si parla di lui, si fanno gli scongiuri. Tutte le azioni alle quali ha preso parte sono andate male. Ora questo non conterà per le menti superiori: ma per il giovinetto ufficiale, ma per il soldato, conta e molto.» 175 La vicenda del Mambretti è narrata dal gen. Cadorna nelle lettere scritte ai familiari tra il giugno e il luglio 1917. Il 10 giugno, infatti, la VI armata italiana, sotto il comando del Mambretti, aveva dato inizio alla battaglia dell’Ortigara. Alcune infauste circostanze, come la mancanza di visibilità e la pioggia, avevano contribuito a far sì che quella battaglia cominciasse per gli italiani con un gravissimo insuccesso. I comandi avevano deciso di ritentare. «Il tempo» scrisse Cadorna il 17 giugno «è bello e caldo. Domani M. [Mambretti] ritenta l’operazione. Speriamo che egli riesca anche a sfatare la deplorevole leggenda di jettatore che gli hanno fatto. È una stupidaggine, ma in Italia compromette la reputazione e il prestigio. Figurati che, quando saltò prematuramente quella mina alla vigilia della fallita operazione, attribuirono la cosa alla sua jettatura!» 176 Tre giorni più tardi Cadorna dovette comunicare alla moglie che l’operazione si era risolta in un fiasco, anche se gli alpini erano riusciti a conquistare la cima dell’Ortigara. 177 Il 25 giugno, con un attacco di sorpresa, gli austriaci riuscirono a riprendersi anche quella cima.

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«La jettatura» scrisse Cadorna che cominciava a crederci «ha voluto esercitarsi fino all’estremo. Gli Austriaci, dopo una gran preparazione di artiglieria, hanno assalito e ci hanno preso l’Ortigara, malgrado una difesa strenua. […] Ieri l’ho telegrafato a Lello [il figlio Raffaele] e dice anche lui di non più ricominciare perché, quando i soldati vedono M. fanno gli scongiuri. In Italia purtroppo questo pregiudizio costituisce una grande forza contraria […].» 178 Nel 1896 il Mambretti aveva preso parte, come capitano, all’infausta battaglia di Adua; nel 1913 era andato in Libia e, quasi appena giunto, aveva diretto lo sfortunato combattimento di Sidi Garbaa. Nel 1916 aveva conquistato grandi meriti durante la seconda e fortunata fase della battaglia degli altipiani, ma ora ai precedenti insuccessi si aggiungeva anche l’Ortigara: 179 «La fama di M. cresce tutti i giorni» scrisse Cadorna il 13 luglio «ed ormai non può comparire in alcun luogo senza che soldati ed anche comandanti facciano i più energici scongiuri. Ne sono seccatissimo perché se gli affido una operazione offensiva non può riuscire perché tutti sono persuasi che non riesce. E capirai che non posso cambiare un comandante solo perché ha questa fama. Certo si è, per chi ci crede, le ha avute tutte: il mal tempo, scoppio della mina il giorno prima, che uccise quasi tutti gli ufficiali di due battaglioni che dovevano andare all’assalto, pare tiri corti della nostra artiglieria ecc. Pare che si era già fatto quella fama in Africa, dove aveva voluto andare lui invece di seguire la sua sorte». 180

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Due giorni più tardi il Mambretti fu destituito: «Ed ora vi devo dare una notizia ben dolorosa, cioè devo liquidare M. dal comando. Dall’inchiesta che ho fatto sull’ultima offensiva, che fu un vero fiasco malgrado la grande abbondanza di mezzi, emergono delle responsabilità anche sue. Egli ha perduto la fiducia delle truppe anche per quella sua maledetta jettatura». 181 Sembra in realtà che la vera causa del «siluramento» fosse soltanto quest’ultima. Rino Alessi spiegò infatti al suo direttore quali erano state all’incirca le risultanze dell’inchiesta: «I comandanti in sottordine avevano interpretato l’irrompere improvviso del temporale come un segno indiscutibile dell’avversa sorte» che perseguitava il Mambretti in ogni suo atto; così che il pregiudizio aveva dato luogo a «una specie di fenomeno psicologico collettivo d’improvvisa sfiducia nel condottiero». L’attacco, in altre parole, era mancato, come dimostrava il fatto che soltanto 2.000 uomini fossero stati messi fuori combattimento al termine della prima giornata, mentre la massa di sfondamento era composta di oltre 300.000 uomini. 182 Le superstizioni, insomma, anche se affondavano le loro radici nelle tradizioni popolari e nelle credenze del tempo di pace, trovavano modo di propagarsi con eccezionale ampiezza e rapidità in tempo di guerra. Quei legami di tipo corporativo che bene o male univano tutti gli uomini dell’esercito assicuravano una notevole uniformità di atteggiamenti. Le condizioni di insicurezza nelle quali tutti i combattenti vivevano, e la sensazione che essi avevano di essere continuamente minacciati dalle gigantesche e incontrollabili forze della guerra facevano sì che i comportamenti irrazionali fossero abitualmente ed 191

apertamente accettati, molto più che in tempo di pace. L’angoscia profonda della propria impotenza si trovava all’origine di questo fenomeno, determinando un regresso verso comportamenti primitivi. Decine e decine di migliaia di soldati si trasmisero sulla linea del fronte le più strane leggende: sant’Antonio si era presentato di fronte ad una trincea, predicendo la fine della guerra per l’agosto 1916; Pio X non era morto, e si trovava invece in Germania, prigioniero di Guglielmone; Pio X stava in Austria e col suo denaro aiutava la guerra. Un’altra diffusissima leggenda corsa rapidamente di bocca in bocca pretendeva che un vecchio venerando fosse apparso di recente ad un pastorello, chiedendo alcune pecore; il pastorello aveva riconosciuto nel vecchio il defunto Pio X ed era subito corso dal padre; il padre gli aveva ordinato di offrire a Pio X tutte le pecore del gregge, ma il pontefice ne aveva scelte soltanto quattro: tre le aveva gettate in un burrone ed una l’aveva portata via con sé. I soldati sostenevano che questa pecorella era l’Italia, protetta e salvata da Pio X a differenza delle altre nazioni. 183 11. Il vescovo castrense, mons. Bartolomasi, spiegò ai cappellani militari che la guerra avvicinava i soldati alla religione: «Lo sapete» disse loro «in trincea non ci sono atei». 184 Il pericolo accostava gli uomini a Dio, e dunque anche al sacerdote che di Dio era il ministro. Il conflitto era una grande occasione di apostolato, per ridare la fede ai dubbiosi e rinsaldare tra la chiesa ed i battezzati quei legami che la pacifica vita di tutti i giorni aveva così spesso allentati. Nella primavera del 1916 si poté constatare che in molti reggimenti il precetto pasquale era stato soddisfatto dall’80, dall’85 e perfino dal 95 per cento dei soldati, mentre in più di un ospedale era stato soddisfatto dalla totalità dei ricoverati. 185 È facile immaginare quali preoccupazioni nascessero negli ambienti anticlericali italiani 192

per quanto stava accadendo. Il 10 dicembre 1915, alla Camera, l’on. E. Dugoni, socialista, svolse un’interrogazione per protestare contro la censura che aveva impedito a più giornali di denunciare «la speculazione clericale nell’esercito». Dichiarò che le dame della Croce Rossa distribuivano materiale religioso in grande quantità: «Aggiungo» disse «che per notizie fornitemi da deputati che sono stati sotto le armi o come volontari o come richiamati, i cappellani dei reggimenti e dei reparti in genere sono diventati più autorevoli degli stessi colonnelli. […] Aggiungo che i soldati hanno avuto ordine indiretto di presenziare la messa». 186 Nel gennaio del ’16 la massoneria di Palazzo Giustiniani indisse (a quanto scrissero alcuni giornali) un’adunanza speciale, con la partecipazione di numerosi aderenti venuti in licenza dal fronte, proprio per esaminare la necessità di vigilare i cappellani militari. 187 L’anticlericalismo era a quel tempo molto diffuso in Italia, e la massoneria molto potente nell’esercito; sappiamo che i cappellani si lamentarono nei loro diari delle molestie da essi subìte nei reparti comandati per l’appunto da ufficiali anticlericali o massoni. Tuttavia se la «vigilanza» degli ambienti laici servì in qualche modo a controllare l’attività dei cappellani, non riuscì a limitarla troppo. Mons. Bartolomasi accortamente esortò i suoi subordinati ad operare anche fuori dell’ambito strettamente religioso. «Fatevi anche gli umili e buoni segretari dei soldati» disse «e quando questi non possono, non sanno scrivere, fate voi per loro.» 188 Lo ripeté anche «La civiltà cattolica» spiegando che: «Se tutti desiderano comunicare coi parenti, con gli amici, non tutti ne sono in grado per mancanza di mezzi e di istruzione. Ed allora ecco il prete incaricarsi della lettera e sacrificare il suo tempo di sollievo per tale esercizio di pazienza. […] Così il soldato si avvezza pian piano a considerare nel prete il tramite, talora

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unico, per comunicare con la famiglia, per richiamarsi dei sussidi non distribuiti dalle autorità locali, per le mille occorrenze insomma della vita di famiglia». 189 Grazie a una lunga tradizione che il risorgimento nazionale non aveva infranta, il prete possedeva una assai forte autorità tra i contadini, i quali molto spesso gli riconoscevano quel rapporto di fiducia che viceversa negavano al funzionario governativo. L’influenza del clero era, insomma, considerevole proprio in quella classe sociale che doveva essere così ampiamente rappresentata nell’esercito e dalla quale sarebbe uscita quasi per intero la fanteria. Esisteva inoltre una singolare affinità di giudizi intorno alla guerra tra il mondo dei contadini e quello dei religiosi. Tanto la rassegnazione del coscritto, quanto la devozione del sacerdote si accordavano facilmente nel considerare la guerra come un evento di natura simile alla vicenda delle stagioni o alle epidemie e alle alluvioni ricorrenti. Spesso la letteratura di guerra ha attribuito questi pensieri soltanto al fante-contadino, dimenticando che il sentimento di molti, anche fra i più educati sacerdoti, non era poi molto diverso. Fin dallo scoppio del conflitto europeo, il 6 agosto 1914, don Alessandro Cavallanti dichiarava sulle colonne dell’«Unità cattolica» che la guerra era «un flagello come la fame, la peste, il colera», scaraventato dalla mano di Dio sulla terra ad corripiendos homines. 190 12. I cappellani poterono ampiamente operare tra le truppe perché riscossero la fiducia dell’autorità militare: sottolinearono, infatti, quella parte del discorso evangelico che favoriva non l’obiezione, ma la partecipazione e l’obbedienza. «L’anima dei nostri soldati» scrisse un sacerdote nel settembre del ’15 «si è fatta in tutto maschia, rigida e fiera in forza dei suoi due amori, sentiti come mai: Dio e patria.» 191 La tradizione cattolica, in 194

effetti, non pronunciava una condanna delle guerre in se stesse, e i padri della Chiesa (a parte Lattanzio e, in qualche misura, Origene e Tertulliano) non avevano mai sostenuto una incompatibilità tra la professione della fede e il mestiere delle armi. Sant’Agostino, tuttavia, costituiva da quindici secoli la più alta autorità in fatto di guerra, ed aveva organicamente trattato l’argomento ponendo per la Chiesa una fondamentale distinzione tra guerre giuste e ingiuste. Anche le guerre giuste, secondo sant’Agostino, per essere considerate tali dovevano in ogni caso dipendere da una necessità alla quale fosse stato impossibile sottrarsi. Forse l’intervento italiano del maggio 1915 non rientrava esattamente negli schemi agostiniani della guerra giusta, ma nel giornale dei cappellani militari si lesse che quando il capo dello stato ordinava ai suoi sudditi di andare alla guerra, i sudditi stessi avevano il dovere di obbedire anche se forse non comprendevano la necessità della guerra: avrebbero potuto disobbedire soltanto se l’ingiustizia della guerra fosse apparsa chiaramente ed apertamente. 192 L’insegnamento di Cristo, scriveva sempre quel giornale, era un insegnamento di pace e di perdono che non veniva violato dalla collaborazione prestata dai cappellani all’esercito italiano in guerra: «Profanatori siamo noi dunque, che osiamo usurpare il Nome di Cristo per incoraggiare l’immane esercito potente alla guerra? […] No, non siamo profanatori. Lo saremmo se la guerra che combattiamo fosse mossa dall’odio, dalla vendetta, dalla prepotenza nostra, e se con questi sentimenti s’incitassero i soldati al combattimento. Lo saremmo se volessimo la guerra per la guerra e se osassimo godere di quest’orribile carneficina. Ma la guerra per noi Cristiani non è che una 195

dura necessità, come l’operazione chirurgica per un malato; non è che la base dolorosamente necessaria per una pace duratura». 193 La parola del vescovo e dei cappellani fu risolutamente ispirata ai princìpi patriottici. Mons. Bartolomasi, in occasione della prima Pasqua di guerra, spiegò senza equivoci ai soldati cattolici quale fosse il loro dovere: «Soldati, vi desidero forti, perché tali vi desidera ed ha bisogno che voi siate la Patria, tale è il dovere vostro; e dalla fortezza vostra compatta per disciplina, temprata per virtù d’animo dipendono le sorti delle armi. La Patria guarda a voi, spera in voi, da voi attende il lieto giorno di pace gloriosa. Soldati, siate forti!». 194 Erano concetti, questi, che i cappellani svolgevano di continuo nella loro predicazione quotidiana e che ispiravano durante le messe la spiegazione del Vangelo. «Il prete al campo» consigliò talvolta ai cappellani come collegare il significato religioso del testo con l’esperienza vissuta dai soldati, e la lettura di tali consigli testimonia non soltanto del tipo di predicazione svolta dai cappellani, ma anche del tipo di problemi che lo stato d’animo dell’esercito faceva sorgere. Il 19 settembre 1915 doveva essere illustrato quel passo del Vangelo di san Matteo nel quale si legge di Gesù che espone ai Farisei i primi due comandamenti: «Tutto questo» scrisse «Il prete al campo» esemplificando la predica di quella domenica «può aver un’applicazione pratica alla vita militare di ogni tempo, alla vostra vita militare d’oggi. C’è il soldato che fa il soldato, sì, lo fa, osserva il regolamento, rispetta la 196

disciplina, per paura – paura del superiore, paura dei suoi rimproveri, paura dei castighi… la prigione, l’ergastolo. Finché il superiore è lì, coll’occhio aperto e col fucile teso, come suol dirsi, il soldato cammina: non è brillante; il suo modo di fare tradisce la sua cattiva, inerte, riluttante volontà. Non è il primo all’assalto, per certo, come non il primo alle marce faticose, ai duri e pur necessari servizi. Fa il meno che può. La sua preoccupazione è svignarsela, farla franca. Perciò non appena il superiore parte o volta l’occhio altrove, questo soldato per forza si rivela nei suoi istinti egoista, peggio, vile; incrocia le braccia all’ozio in caserma, incrocia le braccia alla viltà sul campo di battaglia. Credete voi che si possa vincere una battaglia, una lunga e aspra guerra con tali soldati? quando il povero capitano invece di pensare a combattere il nemico deve esaurirsi a spronare i suoi soldati e difendersi dai loro sotterfugi? Il soldato che fa il soldato per paura è la rovina del reggimento e dell’esercito. Le sorti dell’uno e dell’altro sono affidate al soldato che fa tutto con amore e per amore. Sia o no presente, guardi o non guardi il superiore, il buon soldato fa quello che deve fare perché è il suo dovere, perché egli ama il superiore, ama la disciplina, ama la patria, ama il buon Dio. Si vergogna il buon soldato di lesinare i suoi servizi, di speculare sopra una distrazione del suo capo…». 195 Talvolta l’illustrazione del Vangelo riecheggiò addirittura la polemica di piazza, come quando, nell’estate del ’15, celebrando la messa innanzi a due generali e ad una folla di militari, un cappellano spiegò che anche Giovanni Giolitti doveva essere collocato tra i falsi profeti preannunciati da Gesù. 196 197

Mussolini non era certamente un uomo di Chiesa, ma quando il 31 dicembre 1916 volle chiudere l’anno andando alla messa insieme con i bersaglieri del 7°, rimase stupefatto nell’ascoltare la predica patriottica del cappellano. Ai soldati che desideravano sempre di più una pace qualunque, il cappellano spiegò che la pace tedesca sarebbe stata la pace del vincitore il quale pone il piede sul petto del vinto, mentre la pace italiana avrebbe consacrato la giustizia e la libertà dei popoli, per cui l’Italia doveva rimanere nei cuori «anzi tutto e sopra tutto». Mussolini si rese conto che nemmeno gli ufficiali tenevano ai loro soldati dei discorsi così pieni di fervore: «Avrei voluto gridargli: Bravo! Avrei voluto andare a stringergli la mano. Voglio qui ricordare» scrisse Mussolini nel suo diario «il primo discorso veramente ed accesamente patriottico che ho sentito in sedici mesi di guerra». 197 I cappellani compresero assai bene le preoccupazioni delle autorità militari circa il morale dell’esercito, e collaborarono con esse per rimuoverne le cause. Numerosi elementi fanno concludere che l’intervento dei cappellani fu molto spesso coordinato dallo stesso Comando supremo, ed a tale proposito sembra indicativa la direttiva impartita da «Il prete al campo» subito dopo il ritorno dei primi soldati dalle licenze del dicembregennaio 1915-16. Il direttore don Giulio De Rossi, dopo aver scritto che i soldati tornavano demoralizzati, e che qualche generale aveva fatto del suo meglio per rimontare l’ambiente con ordini del giorno e discorsi vibranti, aveva anche lasciato chiaramente intendere che tali incitamenti non avevano ottenuto lo scopo. Cosa potevano fare per parte loro i cappellani? La risposta non era semplice – scriveva sempre il De Rossi – poiché i sacerdoti non potevano profanare la loro missione rubando il mestiere agli altri (ai militari ed ai politici) o

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trasformandosi in agenti della propaganda. Ma non potevano neppure assistere inerti alla crisi che metteva in pericolo le anime dei soldati: «Anche i cappellani militari debbono dunque “rimontare” l’ambiente psicologico e morale, debbono “rimontarlo” non con i discorsi patriottardi, fatti al solito di parole grosse e di immagini viete, non con gli appelli quarantotteschi – che, se stanno bene in bocca di chi deve esternamente trascinare entusiasticamente una massa di uomini ad uno scopo determinato, diventano ridicoli in chi è chiamato ad operare nella sacra intimità delle anime – ma debbono rimontarlo con la parola calma e serena della persuasione, con lo zelo raddoppiato, con l’efficacia di un più profondo e più trasparente insegnamento cristiano e sopra tutto con una più vivida fiamma d’amore». 198 13. I cappellani svolsero un’ampia attività di assistenza e di propaganda, in forme molteplici, occupandosi della ricreazione dei soldati nelle retrovie del fronte, distribuendo libri ed opuscoli in grande quantità, collaborando attivamente con le organizzazioni sorte per facilitare la trasmissione delle notizie tra i combattenti e le loro famiglie. Allorché la Sacra Congregazione Concistoriale volle elencare le opere di assistenza operanti tra il 1915 e il 1918 collegate in qualche modo alla guerra (per la propaganda, per i soldati, per i feriti e gli infermi, per le famiglie dei richiamati ecc.) giunse a stabilire un totale di ben 11.932 opere di assistenza religiosa funzionanti in Italia. I segretariati e gli uffici notizie organizzati dai religiosi assommarono complessivamente a 4.177. 199 A Bologna, in particolare, per iniziativa della contessa Lina Cavazza, fu fondato un imponente 199

ufficio notizie al quale i cappellani residenti negli ospedali fornirono periodicamente relazioni e informazioni. 200 Rilevante, come si è detto, fu il numero di pubblicazioni e di immagini sacre distribuite ai soldati dai cappellani. Quasi tutti i militari portavano indosso medagliette o santini a guisa di amuleti. 201 Nell’autunno fu diffuso in centinaia di migliaia di copie un libretto di preghiere e suggerimenti di vita spirituale espressamente destinato ai soldati. Compilato da don Giovanni Minozzi e da padre Vincenzo Ceresi, il libretto si intitolava «Via retta». 202 La preoccupazione di mantenere i soldati, appunto, sulla retta via, consigliò ai sacerdoti di promuovere una vera e propria campagna perché fosse impedita tra i soldati la circolazione di letture non consigliabili. La stampa pornografica aveva ottenuto un grande successo fra le truppe e il 24 novembre 1915 una circolare del Comando supremo comunicò che l’autorità politica e l’intendenza generale erano state interessate perché fosse repressa «questa vergognosa forma di speculazione». Il Comando supremo fece assegnamento sulla solerte e coscienziosa vigilanza di tutti gli ufficiali, specialmente di quelli che si occupavano della distribuzione della corrispondenza, affinché avesse termine «una simile bruttura, dannosa alla dignità dell’esercito ed a quelle energie morali» che allora, più che mai, era necessario «conservare integre e salde». 203 Nell’ottobre 1915 «L’Italia», quotidiano cattolico milanese, pubblicò un numero speciale (Guerra alla pornografia) per protestare contro certa stampa che aveva invaso il Paese e raggiunto le retrovie. In dicembre la Camera dei deputati si occupò dell’argomento 204 e fu anche presentato un disegno di legge contro la stampa pornografica che rimase tuttavia allo stato di progetto. 205 Nelle retrovie del fronte furono istituite le «case del soldato» 200

per iniziativa dei cappellani e, in particolare, di don Giovanni Minozzi, che aveva già partecipato alla guerra di Libia e che apparteneva all’Ordine di Malta (e dunque non dipendeva gerarchicamente da mons. Bartolomasi). 206 Don Minozzi istituì una prima sala di lettura a sue spese, nell’estate 1915. Decise di aprirla a Calalzo, nel Cadore, «dove s’addensavano centinaia e migliaia di soldati, annoiati di se stessi e degli altri, inaspriti in un ozio acido e rissoso». 207 Anche le successive sale di ritrovo furono aperte da don Minozzi con i mezzi che gli riuscì di raggranellare da varie parti, grazie all’aiuto, fra l’altro, della contessina Carla Cadorna, figlia del comandante supremo. 208 La società Ansaldo, la Navigazione Generale, la Fiat, la Terni e vari altri enti aiutarono economicamente l’impresa. Il sen. Luigi Albertini promosse una pubblica sottoscrizione sul «Corriere della Sera». 209 Il Comando supremo, viceversa, non si dimostrò generoso. Don Minozzi, infatti, salì per la prima volta le scale del palazzo del Comando nell’agosto 1916, e fu ricevuto dal gen. Porro: «Il colloquio col Vice Cadorna fu breve, scheletrico, ultra militare, pur nella benevola cordialità. Eccolo esattissimo: “Noi sappiamo che cosa ella ha fatto per la IV Armata e gliene siamo grati, caro Don Minozzi. La prego di estendere la sua azione a tutta la fronte. Io però non ho un soldo da darle. Io ho appena ventimila lire di fondi speciali con i quali debbo compensare in qualche modo le spie, perché ella comprende bene che le spie non rischiano gratis la pelle. Se ne avrò, a suo tempo, gliene darò. Ma ella ha animo sacerdotale ardente e saprà

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trovarne. Le metto a disposizione il Maggiore Gazzera. Prenda accordi con lui. E Dio la benedica!” Non una parola di più». 210 Il 2 settembre 1916 don Minozzi fu autorizzato formalmente dal gen. Porro a creare subito e dovunque quelle che furono ufficialmente chiamate «Le case del soldato alla fronte», ma dalle memorie del sacerdote risulta che le somme a tal fine stanziate dall’intendenza generale dell’esercito fino a Caporetto restarono assolutamente irrisorie. «L’incubo delle spese ossessionava il ministero e irretiva i comandi alla fronte», scrisse don Minozzi. Nel febbraio 1917 l’intendenza rifiutò di spendere 600 lire per portare l’energia elettrica (necessaria per le proiezioni cinematografiche) alla casa di S. Maria La Longa, una località «ove s’ammassavano a migliaia i poveri soldati, in una specie di accampamento alla Sciangai». 211 Neppure le autorità civili si dimostrarono generose, e se il presidente del Consiglio Boselli volle incontrare don Minozzi per tributargli lodi e ringraziamenti, non gli fornì tuttavia concreti aiuti. 212 Nell’estate del 1917 Luigi Barzini scrisse che nell’esercito italiano quasi nulla era stato tentato per rendere meno squallida la vita del soldato: «Da noi» disse «si sono istituite qua e là, per cura di cappellani, le così dette “case del soldato”, delle ridicole baracchette nelle quali non ci si sta in venti persone». 213 Il giudizio era sostanzialmente esatto, anche se l’alacrità dei cappellani era talvolta riuscita a creare case ampie ed accoglienti, capaci di ospitare ben più di venti soldati. Ma molto spesso si trattava di modeste cappelle, costruite con tavole di legno, miseramente adattate a sale di lettura, dove i soldati trovavano qualche libro, qualche strumento musicale, una lanterna magica, e talvolta un conferenziere invitato dal

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comando a tenere un’orazione patriottica. Ancora nel 1916 le case furono, sull’intero fronte, poche decine. Nel maggio 1917 diventarono 100 (25 delle quali con cinematografo), nel luglio 125, e nell’ottobre quasi 200 (secondo Cadorna) o quasi 250 (secondo don Minozzi), fra grandi, piccole e piccolissime per un esercito che aveva superato i 2 milioni di uomini. 214 14. Il gen. Cadorna, accusato di aver trascurato la propaganda fra le truppe, poté citare in pratica a sua difesa soltanto le case del soldato di don Minozzi, confermando così che esse avevano costituito l’unica iniziativa di un certo rilievo. Spiegò che il Comando supremo aveva dovuto rinunziare ad altre attività propagandistiche perché il governo non aveva concesso i finanziamenti; ricordò che lo stesso don Minozzi aveva incontrato continue difficoltà, con il ministero della Guerra, per istituire le sue case. In conclusione il generale ammise che fino a Caporetto era stato fatto ben poco per curare il morale delle truppe, ma ne addossò la responsabilità alle autorità romane. 215 Certamente il governo, allarmato per l’enorme costo della guerra, aveva sempre perseguito una politica di rigide economie, ma era anche vero che Cadorna, pur di ottenere le armi, le munizioni e gli uomini che gli occorrevano, aveva sempre fieramente mostrato la sua ostinazione, presentando più di una volta le sue dimissioni. Quando invece il governo aveva negato i fondi per le poche iniziative propagandistiche proposte dal Comando supremo, né lui né altri generali di quel Comando avevano mostrato eguale ostinazione. Per valutare tale comportamento dobbiamo tuttavia ricordare che, nonostante la «rivoluzione industriale» ed i fermenti da questa suscitati, la società italiana del 1915 era rimasta fedele, per molti versi, a consuetudini antiche. La vita si svolgeva secondo moduli ben lontani da quelli della moderna società di 203

massa e, in particolare, se la pubblicità commerciale cominciava a disporre di mezzi più ricchi che non nel passato, la propaganda di massa doveva ancora fare la sua apparizione. L’introduzione di una siffatta propaganda nel regio esercito sarebbe apparsa dunque come un fatto assolutamente nuovo, addirittura rivoluzionario. Tanto è vero che anche coloro i quali, fin dal 1915, chiedevano che qualcosa fosse tentato in questo campo, rimanevano ben lontani dal pretendere ciò che invece, nell’ultimo anno di guerra, sarebbe stato compiuto. Il fatto però che fino a Caporetto le iniziative propagandistiche non soltanto non raggiungessero carattere di «massa», ma restassero al contrario scarsissime, quasi inesistenti, deve essere spiegato ricordando altre circostanze concomitanti. La propaganda, innanzi tutto, che per definizione consiste nella divulgazione di idee e di dottrine, esigeva che esistessero idee semplici e persuasive, tali da poter essere facilmente divulgate tra le grandi masse. Nell’Italia del 1915, viceversa, la classe politica possedeva idee contrastanti e spesso molto confuse sui caratteri ed i fini della guerra in corso, e le stesse dottrine interventistiche, dopo la fiammata del maggio, erano entrate rapidamente in crisi. In secondo luogo, il Comando supremo temeva grandemente le implicazioni politiche che una vasta opera di propaganda nell’esercito avrebbe avute. I timori del Comando si accordavano molto bene con gli sforzi sempre compiuti dai militari (di tutta Europa) per emancipare i loro eserciti dalla guida dei politici, e si accordavano benissimo con le inclinazioni personali di Cadorna e con i giudizi estremamente severi da lui pronunciati nei riguardi del mondo politico italiano. Vedremo nel prossimo capitolo quanto furono difficili le relazioni tra l’Alto Comando militare ed i governi di Salandra e di Boselli. Durante tutta la prima parte della guerra, infatti, fino all’ottobre 1917, l’antica frattura tra il mondo politico e quello 204

militare non si sanò e divenne anzi molto grave fino a sboccare in ripetuti violenti dissidi. Quando pertanto cerchiamo di spiegarci la mancata attuazione dell’organica opera di propaganda fra le truppe non possiamo dimenticare gli aspetti generali della situazione, quali sono stati qui esposti. Il Comando supremo, in pratica, non promosse fino a Caporetto alcuna opera attiva per tenere alto il morale delle truppe, e si affidò ai metodi tradizionali: disciplina, giustizia militare, appelli al dovere, al patriottismo e all’onore militare. Il Comando non si impegnò in un’opera sua di propaganda, ma cercò di impedire, anche in questo caso con metodi tradizionali, che quella degli altri avesse effetto: allontanò dal fronte gli elementi ritenuti pericolosi, processò coloro che erano stati sorpresi ad esercitare una qualche forma di propaganda «sovversiva», e vietò l’ingresso in zona di guerra a trenta giornali, fra i quali, naturalmente, l’«Avanti!». 216 Ma se trenta giornali furono vietati, non per questo furono letti i giornali «ammessi» né venne pubblicato un qualunque foglio militare che fornisse alle truppe almeno le informazioni essenziali. 217 Quasi tutti i soldati ignorarono l’andamento delle operazioni e non conobbero neppure i bollettini di Cadorna. 218 15. Fra i numerosi diari del primo periodo della guerra quello del bersagliere Benito Mussolini dedicò forse più spazio di ogni altro ad una analisi di carattere generale sulle condizioni morali delle truppe. Il diario fu scritto per essere pubblicato dal «Popolo d’Italia», così che l’autore tenne per sé, e per un diario intimo che è stato smarrito, le osservazioni più imbarazzanti. 219 Ma, nonostante le evidenti autocensure, il testo pubblicato dal «Popolo d’Italia» contenne più di una significativa ammissione e non indulse alla retorica patriottarda. Mussolini disingannò molti fra i suoi lettori allorché, nel novembre 1915, a proposito 205

dei suoi commilitoni, dichiarò apertamente: «Amano la guerra questi uomini? No. La detestano? Nemmeno. L’accettano come un dovere che non si discute». «Io» disse «non ho mai sentito parlare di neutralità e di interventismo. Credo che moltissimi bersaglieri, venuti da remoti villaggi, ignorino l’esistenza di queste parole. I moti di maggio non sono giunti fin là.» Ma allora? Se non avevano ideali, se subivano la guerra passivamente, perché mai i soldati continuavano a combattere? «È il “nemico”» rispondeva Mussolini, «la presenza del “nemico”, che spia e spara a cinquanta, cento metri, ciò che tiene elevato il “morale” dei soldati: non i giornali che nessuno legge; non i discorsi che nessuno tiene…» 220 Nell’aprile del ’16 Mussolini tentò un’analisi più precisa del morale del soldato, mettendo in guardia i suoi lettori dalle facili generalizzazioni. Non si poteva giudicare, disse, da qualche episodio o da contatti occasionali, dato che il gesto di un soldato poteva far credere che tutto l’esercito fosse composto di eroi, e la parola di un altro soldato poteva far ritenere il contrario. I soldati di prima linea erano diversi da quelli delle retrovie, gli anziani dai giovani, i contadini dai cittadini. Più volte Mussolini sottolineò che gli ex emigrati possedevano un «morale» più alto di coloro che invece non si erano mai mossi dal borgo natio. Le sfumature erano insomma infinite, come innumerevoli i tipi umani. Ma dopo aver messo in guardia i lettori dalle facili generalizzazioni, Mussolini rivendicò a se stesso il diritto di trattare l’argomento con piena cognizione di causa, grazie a sette mesi di vita militare. Assumendo quale «campione» una compagnia di guerra di 250 uomini, Mussolini dichiarò che dal punto di vista del «morale» essa poteva essere suddivisa in più gruppi: 1) un 10% di artigiani, professionisti e volontari che sentivano le ragioni della guerra e la combattevano con entusiasmo; 2) un altro 10% di ex emigrati,

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uomini che avevano vissuto ed acquistato una certa esperienza sociale, soldati ottimi sotto ogni rapporto; 3) un 20% di individui giovani, che facevano la guerra volentieri; 4) il grosso, cioè un 40%, che stavano fra i rassegnati e i volonterosi, che sarebbero volentieri rimasti a casa ma che avevano accettato il fatto compiuto, senza discuterlo; 5) un 16% di individui indefinibili, ora valorosi ora vigliacchi, a seconda delle circostanze; 6) infine un 4% di refrattari, di incoscienti e di canaglie che non avevano il coraggio di rivelarsi per paura del codice militare. Mussolini ritenne che questi dati valessero per l’intero esercito e concluse avvertendo che il morale dei soldati risultava nel complesso «buono», anche se in definitiva esso dipendeva dal morale degli ufficiali che comandavano i diversi reparti. Di questi ufficiali egli non si occupò nel diario. 221 Indubbiamente Mussolini presentò un quadro realistico dell’esercito in confronto alle descrizioni fantasiosamente ottimistiche offerte sulla stampa italiana dalla maggior parte dei corrispondenti di guerra. Ma oggi, alla luce delle informazioni in nostro possesso, anche esso può essere giudicato non veritiero. Mussolini ammise che soltanto un piccolo gruppo di artigiani, professionisti e volontari interventisti facevano la guerra con entusiasmo, ma tralasciò di dire che proprio quel gruppo era stato colpito dalla profonda crisi spirituale della quale si è già trattato in queste pagine. 222 Quanto al secondo gruppo, quello degli ex emigrati, c’è da osservare che essi soffrirono disagi sempre crescenti, tanto che la stampa finì col dibattere pubblicamente la questione dei ritornati. 223 Risulta poi troppo sommaria, e quindi non convincente, la descrizione del terzo gruppo, quello dei giovani, poiché infatti il fattore giovinezza poté rendere più sopportabili i disagi e più facili le illusioni, ma non costituì un patrimonio inesauribile. Mussolini fu in parte

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fuorviato nei suoi giudizi dal fatto di appartenere ad un corpo scelto, nonché dalla fortuna, che egli ebbe, di risiedere in un settore tranquillo del fronte. 224 Né può essere dimenticato che il fondatore del «Popolo d’Italia» destinava al pubblico il suo diario e stava rischiando la sua carriera politica proprio sulla questione dell’intervento. 16. Il crollo delle illusioni, i disagi delle trincee e gli orrori delle battaglie demoralizzarono l’esercito, ma sbaglierebbe chi immaginasse i soldati italiani in una condizione di perpetuo rassegnato avvilimento, interrotto solamente dall’erompere di improvvise proteste. Certamente, e lo abbiamo detto, queste proteste ebbero luogo; certamente la dominante psicologica del coscritto fu quella della rassegnazione; ma i meccanismi di difesa psicologica spontaneamente determinatisi fra i soldati (distacco dalla realtà circostante e dagli affetti familiari, spersonalizzazione, integrazione nella massa) impedirono ai soldati stessi di vivere ogni istante della loro vita di guerra negli opposti stati d’animo dello scoraggiamento e della rivolta passionale. E difatti fu possibile vedere i soldati sforzarsi di cogliere gli aspetti meno spiacevoli della guerra, udirli mentre fra loro scherzavano, sorprenderli mentre trascorrevano il loro tempo come se i compagni non fossero caduti, il ritorno in linea niente affatto imminente, la guerra lontana. Possiamo capire perché i ricordi pubblicati dagli ex combattenti abbiano dedicato maggior spazio agli aspetti avventurosi ed accettabili della guerra, che non alle vicende amare e sconcertanti. Quanto accadde nell’esercito si collocò, del resto, in un più ampio contesto, perché fu l’intero corpo sociale del Paese ad attraversare un processo di adattamento alla guerra. Pochi avrebbero creduto, nella primavera del 1915, che l’esercito italiano potesse reggere a quarantun mesi di duri combattimenti; 208

e pochissimi avrebbero immaginato che il Paese potesse a sua volta sopportare uno sforzo così lungo, assicurando all’esercito gli uomini ed i mezzi da sacrificare nelle battaglie. Già nell’estate del 1916, però, la «Rivista internazionale di scienze sociali» pubblicò un articolo di C. Grilli nel quale venne riconosciuto che la guerra stava rivelando una umanità capace di sopravvivere alla distruzione dei suoi elementi migliori e di ricostituire rapidamente la sua compagine con inesauribili riserve di uomini e di materiali: le radici della vita sociale non soltanto non si erano inaridite in mezzo a tante distruzioni, ma avevano fatto germogliare nuovi organismi dotati talora di maggiore resistenza di quelli antichi. In particolare, fece notare l’autore, fin negli strati più umili della società si era formata una mentalità «piena di relatività», tale da far apparire del tutto naturali le pur spiacevoli novità della guerra. Ogni nuova chiamata alle armi di uomini giovani e vigorosi veniva accolta come un provvedimento logico; ogni aumento del costo della vita era subìto con repugnanza decrescente; anche la sensibilità individuale alle vicende familiari risultava ogni giorno di più attenuata dall’assuefazione. Le modificazioni in atto nello spirito degli uomini presentavano delle analogie con i fenomeni in via di svolgimento nel mondo delle cose e dell’economia: le miniere fornivano incessantemente materia prima, il risparmio pareva inesauribile, gli impianti producevano a ritmi crescenti e la produttività aumentava. 225 Anche il Bachi, nelle sue annuali rassegne dell’Italia economica, seguiva con attenzione e quasi con stupore i progressi compiuti. Molte pessimistiche previsioni della vigilia erano state smentite: il commercio con l’estero, per esempio, «che negli albori della guerra sembrava votato a gravissime falcidie», aveva raggiunto invece giganteschi importi. Il

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movimento degli affari era diventato quanto mai febbrile, superando i massimi fino ad allora registrati; nuove imprese venivano create, nuovi investimenti venivano decisi. I prezzi salivano, ma con essi salivano anche le quotazioni dei titoli azionari, il saggio del profitto e quello degli interessi. Molti di questi sintomi avevano magari «caratteri fittizi», ma «un pertinace senso di ottimismo nel mondo dei produttori» provocava ugualmente singolari audacie, animava molte speranze e velava «le tante incognite del futuro». Una nuova organizzazione e una nuova disciplina stavano nascendo. Una delle più straordinarie novità, forse la più straordinaria di tutte, era che lo Stato fosse divenuto in maniera sempre più significativa il centro motore e dominatore dell’economia. Gli economisti fedeli alla tradizione del liberismo se ne impensierivano; il mondo della produzione non altrettanto. 226 Era la guerra che stava rivelando la sua doppia natura di creatrice e di distruggitrice, che dava la morte e nello stesso tempo suscitava nuove energie, che concludeva un’epoca dando vita a nuove regole ed a nuovi valori. Ed era in mezzo a queste ambiguità che il processo di adattamento alla guerra si attuava anche in Italia, in modo non troppo dissimile da quello delle altre nazioni belligeranti, e consentiva, anche agli italiani, di portare a termine uno sforzo che non aveva precedenti nella loro storia.

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Note 1

Ugo Ojetti, addetto al Comando supremo, scrisse alla moglie il 25 ottobre 1918: «Comincio a credere che la guerra durerà fino a primavera». U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 620.←

2

Cfr. A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., pp. 46-47, ove si legge: «Le trincee erano state affrettatamente costruite durante la mobilitazione occulta da lavoratori borghesi, sotto la direzione del genio militare. Erano delle buche profondamente scavate nel terreno per una lunghezza di cinque metri all’incirca e per la larghezza di un metro. Vi si penetrava per una scala a pioli collocata in posizione assolutamente verticale nell’apertura che affiorava al livello del terreno, e quando s’era dentro ci si trovava nell’oscurità più completa, le feritoie erano inservibili sia perché mancavano di campo di tiro, sia perché erano troppo alte per tiratori in ginocchio, e troppo basse per tiratori in piedi. Gravava sul capo il tetto fatto di travicelli assai sottili, sostenenti uno strato di terra che non avrebbe fermato, non dico il più piccolo proiettile d’artiglieria, ma neppure una pallottola di fucile. Una tana, una orribile tomba!».←

3

Il termine «cecchino» fu un neologismo della Grande guerra che stette ad indicare il tiratore scelto austriaco. Secondo alcuni si trattava di un diminutivo di «Cecco», da «CeccoBeppe», come era comunemente chiamato durante la guerra in Italia l’imperatore Francesco Giuseppe. L’Ojetti, tuttavia, udì per la prima volta il termine «cecchino», con una sola c, pronunciato da alcuni soldati romani i quali gli spiegarono che esso era diminutivo di cieco, poiché i tiratori austriaci dovevano chiudere un occhio per prendere la mira. Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 55 (lettera del 3 agosto 1915).← 211

4

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 49.←

5

Ibid., p. 50.←

6

Ibid., p. 51.←

7

A. GARAVENTA , In guerra con gli alpini, Milano 1935, p. 48.←

8

Cfr. M. QUAGLIA , La guerra del fante, Milano 1934, p. 77; B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra (1915-1917), in Opera Omnia a cura di E. e D. Susmel, vol. XXXIV, pp. 27 e 71 (alle date dell’11 ottobre 1915 e del 12 aprile 1916)←

9

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 51.←

10

G. BONNET , L’âme du soldat, Paris 1917, p. 50. Sulla somiglianza degli stati d’animo in ogni guerra di trincee, cfr. per la guerra civile spagnola G. ORWELL , Omaggio alla Catalogna, Milano 1964, pp. 30 sgg.←

11

E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 95.←

12

L. CAPELLO , Per la verità, Milano 1920, p. 199.←

13

G. MORPURGO , MDCCCXCVI-MCMXVI, Firenze 1926, p. 33, citato anche in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 312.←

14

G. DE VITA , Memorie di G. de V., Ostuni 1922, p. 143 (lettera del 4 novembre 1916), citato anche nel volume dell’Omodeo di cui alla nota precedente, p. 299.←

15

G. CASTELLINI , Lettere, Milano 1921, p. 20.←

16

G. BORSI , Lettere dal fronte, cit., p. 115.←

17

Ibid., pp. 51-52.← 212

18 19

20

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 86.← G.C. FERRARI , Osservazioni psicologiche sulla nostra guerra, Bologna 1916, pp. 12, 24 e passim.← Cit. ibid., p. 12.←

21

A. MARPICATI , La proletaria. Saggi sulla psicologia delle masse combattenti, Firenze s.d., p. 22.←

22

G.C. FERRARI , Osservazioni psicologiche sulla nostra guerra, cit., p. 14.←

23 24

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 91.← G.C. FERRARI , Osservazioni psicologiche sulla nostra guerra, cit., p. 14.←

25

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 103.←

26

G. e E. GARRONE , Ascensione eroica, Milano 1919, p. 165.←

27

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 92.←

28

29 30

31 32

L. BARTOLINI , Il ritorno sul Carso, Milano 1930, pp. 136-37, opera ripudiata dall’autore. Cfr. [A.F. FORMIGGINI ] Chi è? Dizionario degli italiani d’oggi, Roma 1936, p. 64.← G. BONNET , L’âme du soldat, cit., p. 36.← Ibid., pp. 123-24. Si vedano inoltre le osservazioni di J. MEYER , La vie quotidienne des soldats pendant la Grande guerre, Paris 1967, pp. 260 sgg.← A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 39.← Ibid., pp. 39-40, 53. Sui sentimenti dei soldati nei primi mesi di guerra cfr. inoltre: Il processo del maggiore Zunini al 213

Tribunale di Guerra di Portogruaro, in «La Stampa», 17 dicembre 1915, p. 4. Il maggiore Carlo Zunini era il critico militare della «Stampa» di Torino e fu incriminato per lettere ed articoli spediti a Frassati e ad alcuni redattori di quel giornale. Chiamato alle armi, lo Zunini era stato addetto alla censura militare ed aveva pensato di preparare uno studio psicologico nel quale «dimostrare come i combattenti fossero più attaccati alla famiglia che non alle operazioni militari». Sul processo Zunini, durante il quale il Frassati fu convocato come teste, cfr. L. ALBERTINI , Vent’anni di vita politica, cit., parte II, p. 129, F. MARTINI , Diario, cit., pp. 599-600.← 33

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., pp. 194-95, ove si legge «che la canzone militare raramente è patriottica, mentre di frequente è nostalgica, parla di un villaggio, di un campanile. Una tinta di ironia, di scherzo caratterizza la più parte delle canzoni; ma non manca la nota triste». Cfr. inoltre A. MARPICATI , La proletaria, cit., p. 95: «La maggiore e migliore parte dei nostri canti militari, durante questa guerra, è quella inspirata dagli affetti famigliari ed amorosi».←

34

Sui canti dei soldati esiste una assai vasta letteratura, in merito alla quale ci limiteremo qui a ricordare C. CARAVAGLIOS , I canti delle trincee (contributo al folclore di guerra), Roma 1935 (con bibliografia); P. JAHIER , Canti di soldati, Firenze 1920; L. MERCURI- C. TUZZI , Canti politici italiani (1793-1945), Roma 1962, pp. 255-61; M.L. STRANIERO- S. LIBEROVICI , Canti di protesta, in «Il Contemporaneo», giugno 1961, pp. 152-64.←

35

A. MARPICATI , La proletaria, cit., pp. 24-25.←

36

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 52.←

214

37

A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 394.←

38

A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 49-50.←

39

Cfr. Inchiesta Caporetto, tav. 30 a p. 382.←

40

A. MARPICATI , La proletaria, cit., p. 10. Cfr. anche l’intervento di P. PIERI , in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale, cit., p. 76.←

41

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 4243.←

42

Cfr. ibid., p. 47. Secondo il Serpieri le abitudini alimentari dei contadini erano più parche di quelle che essi contrassero in guerra: «Ricordiamo che la stessa carne, prima della guerra, era per la maggior parte dei contadini italiani un cibo eccezionale, un lusso». Si consideri poi che nell’esercito furono distribuiti generi (come i liquori, il tè e il cioccolato) che molti contadini neppure conoscevano.←

43

Da ricordare inoltre che nel corso dei primi combattimenti l’ufficiale indossava una divisa diversa da quella dei soldati e recava ben visibili i segni del suo grado, così da costituire il più distinguibile dei bersagli per i cecchini austriaci.←

44

Soltanto 100.000 uomini presero parte alla campagna di Libia, la quale ebbe caratteristiche ben diverse da quella italoaustriaca.←

45

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., pp. 102-03.←

46

A. MARPICATI , La proletaria, cit., p. 12.←

47

P. MARCONI , Io udii il comandamento, Roma s.d., p. 82, citato anche in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 263.← 215

48

A. ROSSATO , L’elmo di Scipio, Milano 1934, p. 41.←

49

ACS, Primo aiutante, b. 25, Rapporto del comando della 20 a div. fant. ai comandi delle brig. Brescia e Ferrara, del 17 dicembre 1915, prot. n. 4611.←

50

Ibid., Rapporto del comandante del VI corpo d’armata, gen. Capello, al comando della II armata, del 7 gennaio 1916, prot. n. 17.←

51

L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 207-08.←

52

Il testo della circolare è riprodotto in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 497-98; per il commento della Commissione sul malumore degli ufficiali cfr. ibid., p. 522.←

53

G. DE VITA , Memorie di G. d. V., cit., p. 126 (alla data del 16 agosto 1916), citato anche in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 274.←

54

E. AMENDOL A KÜHN , Vita con Giovanni Amendola, cit., p. 393 (lettera del 25 agosto 1915).←

55

Dai frammenti del diario inedito di T. Capocci, cit. in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 282.←

56

ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO, Atti del XLI congresso di storia del Risorgimento italiano, cit., pp. 495-96.←

57

Tuttavia Cadorna dispose che le truppe più avanzate continuassero a mantenere contegno offensivo per mascherare ogni attività diretta a completare le difese, e che nella zona Gorizia-Tolmino le operazioni continuassero a svolgersi con carattere ossidionale. Dovevano essere organizzate azioni di sorpresa affidate a reparti minori, costituiti «con gente scelta». Per maggiori particolari cfr. la 216

circolare riservatissima del Comando supremo, del 28 novembre 1915, n. 1086 di prot., della segreteria del capo di stato maggiore, avente per oggetto: «Norme generali per l’inverno», in ACS, Primo aiutante, b. 28; nonché la lettera di Cadorna a Salandra, del 7 dicembre 1915, n. 1157, in LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 15.← 58

Cfr. A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 101.←

59

E. LORENZINI , La guerra e i Preti Soldati, cit., pp. 36-37.←

60

Ibid., p. 38.←

61

Sulle complicazioni dei viaggi con le tradotte cfr. TENENTE ANONIMO , Glorie e miserie della trincea, fronte italiano 19151918, Milano 1933, pp. 151-59.←

62

A proposito dei giornali cfr. quanto diremo alle pp. 322 sgg.←

63

64

ISTITUTO PER LA STORIA congresso, cit., p. 498.←

DEL

RISORGIMENTO

ITALIANO,

Atti del XLI

E. LORENZINI , La guerra e i Preti Soldati, cit., p. 63.←

65

Cfr., tra gli altri, P. JAHIER , Con me e con gli alpini, Roma 1919, pp. 121-26.←

66

Cfr. tra gli altri V. LENTINI , Pezzo, fuoco!, Milano 1934, p. 81 e pp. 125-26 e A. SOFFICI , Le lettere di Cadorna, in Opere, vol. III, p. 465.←

67

G. DE VITA , Memorie di G. d. V., cit., p. 75 (alla data del 14 novembre 1915), cit. anche in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 318.←

68

Ibid., p. 321← 217

69

C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., pp. 65-66. Sull’argomento cfr. anche Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 415.←

70

A. FRESCURA , Diario di un imboscato, Bologna s.d., p. 135 (alla data del 9 novembre 1916). Mussolini volle dare una interpretazione positiva del fenomeno, cfr. infatti Il mio diario di guerra, cit., p. 32 (alla data 16 ottobre 1915): «Qui nessuno dice: torno al mio paese! Si dice: tornare in Italia. L’Italia appare così, forse per la prima volta, nella coscienza di tanti suoi figli, come una realtà una e vivente, come la patria comune, insomma». Si tenga però presente che i fanti definirono «italiani» e «italianissimi» i peggiori imboscati. Cfr. in questo capitolo p. 111.←

71

G. e E. GARRONE , Ascensione eroica, cit., p. 121 (alla data 16 settembre 1916).←

72

B. BELOTTI , L’avvocato Carlo Freguglia, Medaglia d’oro, Milano 1927, p. 15.←

73

G. DE ROSSI , Dopo le licenze…, in «Il Prete al campo», 1° febbraio 1916. Perfino i viaggi nelle lente tradotte avevano contribuito a creare nuovi motivi di inquietudine poiché, nelle conversazioni intrattenute con militari provenienti dalle varie armate, molti avevano avuto modo di trovare sconcertanti termini di confronto in ciò che avveniva in altre parti del fronte e di cui, proprio finché era restato al fronte, poco o nulla aveva saputo. Come notò il gen. Capello: «Nei contatti in treno, o nel paese natio, i soldati dell’Isonzo seppero che, in altri settori, la guerra era ben diversa […] L’idea di un poco di giustizia distributiva e conseguentemente di un turno fra i vari settori, sorse spontanea. […] La questione dei cambi e dei turni divenne assillante alla fronte ed ebbe eco anche nel 218

Parlamento e nel Paese». Cfr. L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, pp. 274-75.← 74

75 76

77 78

79 80

81

Circolare del Comando supremo, sezione disciplina, del 12 gennaio 1916, prot. n. 402, riprodotta in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 497-98.← Cfr. Cap. I, par. 9.← Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 122 (lettera del 13 settembre 1915).← Cfr. pp. 47 e 63-64.← L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 135 (lettera del 17 dicembre 1915 alla figlia Carla).← Ibid. (lettera del 17 gennaio 1916 alla sorella Maria).← L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, p. 277. Anche il ministro Zupelli, nel memoriale del 6 gennaio, scrisse che i soldati in licenza, con la narrazione dei pericoli e dei disagi avevano abbassato lo spirito pubblico, e dichiarò che «sarebbe stato forse meglio non concedere le licenze». Il promemoria di Zupelli è in LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 19. Si vedano le osservazioni che in merito torniamo a fare a p. 174.← Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 500.←

82

MILANO , Risorgimento, n. 16775, lettera di L. Barzini a L. Albertini, dell’estate 1917, lasciata interrotta. Riprodotta in La guerra 1914-1918, Documenti di storia contemporanea, a cura di L. MARCHETTI , Milano 1965, pp. 221-24.←

83

C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 72. Per un diverso esempio di «austerità» durante le licenze cfr. anche M. 219

QUAGLIA , La guerra del fante, Milano 1934, pp. 167-68. Sulla condizione di abbrutimento del soldato al ritorno dalla licenza cfr. E. LORENZINI , La guerra e i Preti Soldati, cit., p. 39← 84

85 86

87 88

A. BALDINI , Definizioni di gergo, in G. PREZZOLINI , Tutta la guerra, Antologia del popolo italiano, Firenze 1918, p. 275. L’on. E. Ciccotti definì imboscati «tutti coloro che, dovendo prestare un servizio militare, fanno in modo da renderlo più apparente che reale, più formale che effettivo», cfr. Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 21 marzo 1916, p. 9700. Sull’origine francese del termine «imboscato» cfr. A. NICEFORO , A proposito del libro di Albert Dauzat, «L’argot de la guerre», in «Rivista italiana di sociologia», luglio-dicembre 1918, pp. 37174. In generale sul «gergo» dei soldati italiani cfr. G. MELE , Gergo di guerra, Roma 1941 (con bibliografia); in vari numeri dell’«Astico», il giornale di trincea diretto da P. Jahier, apparve un dizionarietto di gergo (cfr. A. GANCELLOTTI , Giornalismo eroico, Roma 1924, pp. 88-89); ma utili informazioni su numerosi vocaboli possono essere ricavate dalle lettere e dai diari dei combattenti. Cfr. infatti A. OMODEO , Lettere 19101946, Torino 1963, pp. 155, 179 e 247; M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, Milano 1939, p. 166, nonché B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., pp. 35, 71, 74, 88 e 103.← G. PREZZOLINI , Tutta la guerra, cit., p. 274.← Cfr. Inchiesta Caporetto, p. 399 e A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., p. 5. Cfr. inoltre la precedente nota 73.← Cfr. A. MARPICATI , La proletaria, cit., pp. 68-69.← Cfr. A. MONTI , Dalle trincee alle retrovie, Bologna 1933, pp. 156-58, nonché R. GIULIANI , Gli arditi, Breve storia dei reparti 220

d’assalto della terza armata, Milano 1919, p. 248.← 89

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 28, 38, 40 e 50.←

90

Cfr. A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 320, e A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., pp. 204-206. Nella versione pubblicata nel 1917 da padre Gemelli, tuttavia, il primo verso era differente, e non conteneva alcuna allusione al Comando supremo.←

91

Cfr. F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., p. 386; F. MARTINI , Diario, cit., p. 707 (alla data del 28 maggio 1916). Nel 1914 Salandra aveva dichiarato che in caso di guerra tutti e tre i suoi figliuoli sarebbero partiti per la prima linea. Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 5 aprile 1914, p. 2276.←

92

Cfr. A. GEMELLI , ibid., p. 54.←

93

Cfr. R.D. 12 ottobre 1915, n. 1510. Nel novembre 1916 l’imposta non fu più calcolata in misura fissa, ma in percentuale (dall’uno al tre per cento). Cfr. R.D. 9 novembre 1916, n. 1525.←

94

Cfr. G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., pp. 29-32. L’on. F. Ciccotti presentò un progetto di legge contro l’imboscamento che all’art. 7 prevedeva un turno tra i periodi da trascorrere in trincea e in retrovia. Cfr. Atti parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 21 marzo 1916, p. 9702.←

95

Cfr. S.A. STOUFFER (e altri), Studies on Social Psychology in World War II, Princeton, New Jersey 1949, vol. II, The American Soldier: Combat and Its Aftermath, pp. 290 sgg.; 320 sgg.←

96

CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 20 marzo 1916, p. 9677. Il 30 dicembre 1915 Ferdinando Martini scrisse da 221

Monsummano al presidente Salandra per rendergli noto il «malo animo» dei mezzadri: «sia perché contrari, come sempre, alla guerra, sia perché veramente le braccia mancano, finalmente perché, com’io già sapevo, li irritano le molte concessioni di esonero degli operai non tutte, a dir vero, giustificate» (G.B. GIFUNI , Lettere inedite di Martini a Salandra, in «L’osservatore politico letterario», dicembre 1967, p. 24).← 97

Ibid., seduta del 21 marzo 1916, p. 9700. I versi di una canzone sugli imboscati dicevano: «La paura della guerra – Li ha improvvisati – Meccanici e fabbri – pur d’essere imboscati…». Cfr. A. MONTI , Dalle trincee alle retrovie, cit., p. 156.←

98

Cfr. Atti Parlamentari, Camera, Discussioni, seduta del 20 marzo 1916, p. 9681.←

99

È sintomatico che il problema dell’imboscamento preoccupasse a distanza di anni Antonio Gramsci nei suoi scritti dal carcere. Cfr. A. GRAMSCI , Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino 1949, pp. 203-04. Da buon politico Gramsci esaminava la questione «spinosa» pensando non soltanto al passato, ma anche al futuro. Riconosceva che l’Italia possedeva un apparato industriale ristretto rispetto alle esigenze belliche, il che rendeva inevitabile la prevalenza dell’elemento contadino nell’esercito. Sarebbe stato dunque erroneo fare di questa necessità un elemento di agitazione demagogica e chiamare imboscati gli addetti all’industria di guerra, la cui opera risultava così indispensabile per la guerra stessa. Tuttavia Gramsci ammetteva che le proteste dei fanti-contadini avessero un parziale fondamento: parecchi tecnici di secondo grado erano davvero degli imboscati – secondo Gramsci – poiché la 222

riduzione al minimo delle operazioni di lavoro, determinata dal limitato numero degli oggetti fabbricati e dalla loro struttura elementare, aveva ridotto la funzione di quei tecnici da quella di maestri d’arte a quella di puri sorveglianti disciplinari e questo fatto aveva effettivamente dato la possibilità di imboscarsi a molti che con l’industria non avevano mai avuto a che fare; costoro erano i veri imboscati, dato che il loro posto poteva essere assegnato a operai anziani, mentre non era il caso di definire tali i contadini entrati nelle fabbriche direttamente dalle campagne o comandati dall’autorità militare.← 100

Cfr. le dichiarazioni del Dallolio in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 407-12.←

101

Sulle paghe degli operai esonerati dal servizio militare cfr. quanto diremo alle pp. 359 sgg., nonché P. SPRIANO , Torino operaia nella Grande guerra (1914-1918), Torino 1960, p. 193. Il fante riceveva in teoria una paga giornaliera di cent. 89, ma gli erano trattenuti cent. 38 per il vitto, cent. 14 per manutenzione e vestiario ed infine cent. 27 per il pane. Riceveva pertanto una paga effettiva (detta «paga alla mano») di cent. 10, più 40 cent. di soprassoldo di guerra; cfr. Il libro del soldato di fanteria, Piacenza 1881, p. 44. Il 7 marzo 1916 il gruppo parlamentare socialista presentò una mozione nella quale chiese al governo di aumentare «l’indennità giornaliera in modo proporzionale ai crescenti aggravi della vita delle famiglie operaie e contadine», ma il governo si oppose adducendo le critiche condizioni dell’erario. Sembra viceversa che gli stipendi degli ufficiali – da noi indicati alla pagina seguente – fossero piuttosto consistenti nei gradi superiori e medi, e in molti casi (specialmente quando si trattava di

223

ufficiali giovani senza carico di famiglia) anche nei gradi inferiori.← 102

U. OJETTI , Diario inedito di guerra, in «L’osservatore politico letterario», febbraio 1966, p. 30 (alla data del 25 agosto 1916). In effetti il capo di stato maggiore, che aveva il grado di tenente generale, riceveva mensilmente tra stipendio, indennità e soprassoldo, circa 4.000 lire al mese. Sulle retribuzioni nell’esercito cfr. O. MONACO , Le competenze dei militari (Raccolta delle disposizioni che ne stabiliscono il diritto), Roma 1918. Gli stipendi degli ufficiali furono aumentati con il D.L. 18 febbraio 1918, n. 107.←

103

L. GASPAROTTO , Rapsodie, Milano 1923, pp. 159-60.←

104

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 1619 e 122-25.←

105

Per i sussidi cfr. R.D. 13 maggio 1915, n. 620 e D.L. 29 luglio 1917, n. 1199. Erano previsti sussidi anche per i genitori maggiori di anni 60 e per i fratelli minori e inabili. L’aumento percentuale del costo della vita è stato ricavato dal Sommario di statistiche storiche italiane, 1861-1955, pubblicato dall’ISTAT, Roma 1958, p. 172.←

106

U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 56 e 101-02.←

107

Cfr. «La Stampa», 5 novembre 1915, p. 5 (L’arresto del cav. Bauchiero, dei suoi procuratori e di altri industriali per frode nelle forniture militari). Sullo sviluppo produttivo ed i profitti dell’industria torinese cfr. P. SPRIANO , Torino operaia nella Grande guerra, cit., pp. 140-59 e passim.←

108

Cfr. pp. 46-47.←

224

109

Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 17273.←

110

Cfr. L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 200-01; E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista e combattuta io, cit., pp. 126-27; A. VALORI , La guerra italo austriaca, cit., pp. 73-74. Il 15 ottobre 1915 il Comando supremo emanò la circolare n. 3701, avente per oggetto provvedimenti disciplinari contro lo sperpero e lo sciupìo di oggetti. Cfr. anche C. ALVARO , Vent’anni, Milano 1964, p. 150.←

111

Cfr. R. CORSELLI , Come vive l’esercito italiano alla fronte, in «Rivista militare italiana», 16 settembre 1916, p. 1065.←

112

B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., pp. 30-31 (alla data del 15 ottobre 1915), e pp. 55-56 (alla data del 22 febbraio 1916, quando viene segnalato un netto miglioramento nella distribuzione dei viveri). Cfr. anche il rapporto del gen. Capello in data 15 novembre 1915 in L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, p. 190. La distribuzione del rancio, tuttavia, nonostante gli inconvenienti lamentati, fu abbondante e migliorò finché, nel 1917, non vennero decise riduzioni. Anche nei periodi durante i quali gli approvvigionamenti alimentari furono resi difficili da ragioni finanziarie o dalla scarsità del naviglio, le assegnazioni alla amministrazione militare vennero eseguite con precedenza assoluta rispetto alle esigenze della popolazione civile. Cfr. V. GIUFFRIDA- G. PIETRA , Provital, Approvvigionamenti alimentari d’Italia durante la Grande guerra 1914-1918, Padova 1936, p. 233 e passim. Sull’abbondante razione del primo anno di guerra, cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 380.←

113

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 173. Sui casi di 225

congelamento cfr. inoltre G. CASTELLINI , La guerra fra la neve, in «La Lettura» gennaio 1916, pp. 28-37 e R. TONDI , Fanti di Avellino, Siena 1923, p. 113.← 114

Cfr. P. JAHIER , Con me e con gli alpini, cit., pp. 31-35.←

115

Cfr. la nota 82 a p. 104.←

116

Cfr. P. CACCIA DOMINIONI, 1915-1919, Milano 1965, p. 202. Nel settembre 1917 morirono alcuni muli del reparto comandato dall’autore: «E ora è un guaio,» scrisse «verbali su verbali, inchieste. Quando muore un soldato è molto più semplice, un frego sul nome nel ruolino e la notizia schematica nel rapportino giornaliero».←

117

Cfr. E. DE BONO , Nell’esercito nostro prima della guerra, Milano 1931, p. 212, nonché, dello stesso autore: La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 107. Secondo il De Bono privare i bersaglieri delle loro piume fu un grave errore psicologico, perché nell’anteguerra soltanto i bersaglieri consegnati in classe di punizione portavano il berretto senza pennacchio, come contrassegno di menomazione. Nel 1918 si rimediò consentendo ai bersaglieri di applicare le piume sull’elmetto.←

118

E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 107.←

119

Cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 31 (alla data del 15 ottobre 1915); G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., p. 98, e E. LORENZINI , La guerra e i Preti Soldati, cit., pp. 49-50.←

120

Cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 41 (alla data 1° novembre 1915).←

121

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 46.← 226

122

Ibid., vol. II, pp. 174, 179-80 e 189.←

123

L. TROCKIJ , La mia vita, Milano 1961, p. 347.←

124

Ibid., p. 349. Sulla attività militare di Trockij cfr. I. DEUTSCHER , Il profeta armato, Milano 1956, pp. 548 sgg.←

125

Cfr. pp. 21 sgg. e 156 sgg.←

126

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 83-84. Cfr. anche quanto abbiamo detto alle pp. 53 sgg.←

127

Come già detto a p. 44 dal 24 maggio al 30 novembre 1915 i morti erano stati 62.000 e i feriti 170.000. Le perdite da dicembre ad aprile furono quindi notevolmente inferiori, sia in senso assoluto, sia in senso relativo, non soltanto tenendo conto dell’accresciuto numero di combattenti (dal milione circa del maggio 1915-febbraio 1916, al milione e 400.000 della fine dell’aprile 1916) ma anche delle perdite medie giornaliere: 326 morti e 893 feriti nel maggio-novembre; 98 morti e 234 feriti nel dicembre-aprile. Cfr. MINISTERO DELLA GUERR A, UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare ecc., La forza dell’esercito, cit., pp. 183-84, e Inchiesta Caporetto, pp. 438-39, tavola 33.←

128

F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., pp. 29 e 129-33.←

129

ACS, Primo aiutante, b. 28, telegrammi del Comando supremo, segreteria del capo di stato maggiore, a firma del gen. Porro, diretti al ministero della Guerra, del 27 dicembre 1915, nn. 1270 e 1273.←

130

Ibid., telegramma del comandante del presidio di Sacile alla segreteria del capo di stato maggiore, del 30 dicembre 1915, n. 845. Sull’episodio cfr. anche E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone 227

d’esecuzione, cit., pp. 491 sgg. Per un altro caso di protesta collettiva verificatosi a quell’epoca cfr. ACS, Primo aiutante, b. 26, «Stralcio del rapporto del Comando del 151° reggimento fanteria in data 17 gennaio 1916, ecc.». Il 17 gennaio, infatti, verso le sette del mattino, da molti baraccamenti del 151° fant. (brigata Sassari) posti tra Campolongo e Cavenzano, cominciarono a levarsi grida che invocavano le licenze. Vi furono anche colluttazioni tra soldati e ufficiali. I fanti non volevano tornare in trincea prima che fossero state loro concesse le licenze.← 131

Ai fini delle polemiche sulla influenza del Paese verso l’esercito va sottolineato che Cadorna conveniva sulla eventuale responsabilità di sobillatori esistenti nel Paese soltanto perché il governo glielo aveva suggerito come «ipotesi». Gli alpini ribellatisi a Sacile erano di Torino, Susa e Pinerolo. Cfr. ACS, Presidenza, b. 102 (19.4.8), fasc. 24.←

132

ACS, Presidenza, ibid., La lettera di Cadorna è stata parzialmente pubblicata anche in R. DE FELICE , Ordine pubblico e orientamenti delle masse popolari italiane nella prima metà del 1917, in «Rivista storica del socialismo», settembre-dicembre 1963, pp. 470-71.←

133

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 92, nota 1.←

134

Cfr. pp. 55-56.←

135

Nel dopoguerra la riforma del codice militare fu discussa dalla commissione ministeriale presieduta dal sen. Berenini. Questi – per evitare che in futuro la decimazione potesse essere applicata – propose di introdurre nel nuovo codice una norma che vietasse ai bandi militari emanati dai comandi di derogare alle disposizioni generali del diritto penale vigente. Il gen. 228

Morrone, ex ministro della Guerra, propose a sua volta l’inclusione di un articolo che vietasse in maniera assoluta ed esplicita la decimazione e prevedesse adeguate punizioni a carico di quei comandanti che l’avessero ordinata. Il ten. gen. D.A. Tommasi, avvocato militare, spiegò che sarebbe stato sufficiente integrare l’art. 168 del codice militare vigente che puniva l’abuso di autorità. Infatti, disse il Tommasi, l’art. 168 aveva fino ad allora contemplato – stranamente – soltanto il caso delle lesioni e non anche quello dell’omicidio commesso per abuso di autorità. «Non si comprende» aggiunse «che la repressione di un reato collettivo si effettui col sistema della decimazione, solo perché non si riescano a individuare le singole penali responsabilità.» Cfr. le pp. 33 e 287-88 degli atti della commissione ministeriale già citati a p. 52 (nota 129).← 136

Inchiesta Caporetto, II, p. 366.←

137

Cfr. l’elenco delle circolari del Comando supremo sulla giustizia militare a p. 54 (nota 131).←

138

Cfr. Inchiesta Caporetto, II, pp. 366-67.←

139

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 91 sgg.←

140

A. GRAMSCI , Passato e presente, Torino 1951, p. 43.←

141

J.J. PERSHING , Le mie esperienze della Grande guerra, Milano 1931, pp. 198-99.←

142

Nel dicembre 1865 furono soppressi i cappellani dei bersaglieri, artiglieria e genio; nel 1867 quelli della fanteria; nel 1878 quelli della marina. Cfr. F.A. PUGLIESE , Storia e legislazione sulla cura pastorale alle forze armate, Torino 1956, pp. 52-53.←

229

143

Cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, Torino 1956, p. 12. Don G. Minozzi fu tra i cappellani di Libia, cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 619←

144

Cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 13 (circolare del 12 aprile 1915).←

145

Il decreto di nomina fu emanato dalla Sacra Congregazione Concistoriale il 1° giugno 1915, cfr. Acta Apostolicae Sedis, 1915, p. 287.←

146

Cfr. R.D. 27 giugno 1915, n. 1024. Sulla mediazione del barone Monti cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 16.←

147

Il presidente Salandra ricevette assicurazioni che mons. Bartolomasi era «un prelato degno ed animato da spirito patriottico». Cfr. lettera di Salandra a Cadorna, del 21 giugno 1915, in LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 7.←

148

Cfr. «La civiltà cattolica», del 15 aprile 1916, pp. 205-206 (I cappellani militari nell’esercito italiano).←

149

Ho tratto le cifre relative al 1915 da F. FONTANA , Croce ed armi, cit., pp. 14 e 18; quelle riguardanti l’intera durata della guerra da SA C R A CONGREGAZIONE CONCISTORIALE , L’operato del clero e del laicato cattolico in Italia durante la guerra (19151918), Roma 1920, p. 107. Nell’estate 1915 i religiosi alle armi furono però circa 15.000, se, oltre ai sacerdoti, si comprendono anche i novizi, i seminaristi, ecc., cfr. «Il prete al campo», 1° settembre 1915 (Che cosa vogliamo?). Secondo un dato fornito da F.A. PUGLIESE , Storia e legislazione, cit., pp. 5758, i cappellani raggiunsero il numero massimo di 2.200 nel 1918, oltre a circa 1.500 sacerdoti militarizzati che prestarono servizio nelle unità sanitarie e nei concentramenti dei 230

prigionieri. Viceversa, secondo il volume citato del Fontana (p. 35) quando le unità mobilitate raggiunsero la massima efficienza, i cappellani al fronte toccarono la cifra di 1.350, ma con gli addetti agli ospedali, ai prigionieri di guerra, e con gli aiuto-cappellani, raggiunsero la cifra complessiva di 2.700.← 150

Cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, cit., pp. 13-14. Sull’intervento della censura cfr. «Il prete al campo», del 1° marzo 1916, p. 80 (Piccola posta), ove fu risposto ad un sacerdote: «Non ci accusi di disinteressarci della sorte dei preti-soldati. La risposta esauriente che Ella vorrebbe sta nei lunghi articoli inseriti nel “Corriere d’Italia” e sempre censurati; nel sequestro della rivista “Vita e Pensiero” per uno di questi nostri articoli; nella censura di qualche appunto inserito nel nostro stesso periodico, e nelle vane e lunghissime pratiche che il Vescovo di Campo ha fatto al Ministero per migliorare la sorte dei pretisoldati. Tuttavia stia certo, che insisteremo ancora».←

151

I 1582 religiosi non cappellani, ma ufficiali, sono indicati nelle statistiche della SA C R A CONG R E G A Z ION E CONCISTORIALE , L’operato del clero e del laicato, cit., p. 107. Don Michele Genovesio, un prete-soldato che era sergente di compagnia in un battaglione del 2° alpini, vide cadere durante un assalto tutti gli ufficiali del suo reparto. Ne assunse quindi il comando e seppe così bene condurlo all’assalto da meritare la promozione ad ufficiale per merito di guerra. Cfr. «Il prete al campo», 15 gennaio 1916, p. 24 (Atti di valore).←

152

Cfr. «Il prete al campo», ibid.←

153

Cfr. G. MINZONI , Diario, a cura di L. Bedeschi, Brescia 1965, pp. 213-15 e 221-22.←

154

Cfr. SACR A CONGREGAZIONE CONCISTORIALE , L’operato del clero e 231

del laicato, cit., p. 107.← 155

Cfr. la lettera di Benedetto XV al cardinale decano, del 25 maggio 1915, citata anche in E. VERCESI , Il Vaticano, l’Italia e la guerra, Milano 1925, p. 32, e la lettera sempre di Benedetto XV al cardinal vicario, citata in «La civiltà cattolica», 1° aprile 1916, p. 4 (Il suicidio dell’Europa civile).←

156

Cfr. P. TEILHARD DE CHARDIN , Genesi di un pensiero, Lettere dal fronte (1914-1919), Milano 1966, pp. 26-27, 158 e passim.←

157

A.C. JEMOLO , Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1949, p. 569.←

158

Cfr. A. MONTICONE , I vescovi italiani e la guerra, in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale (Atti del convegno di studio tenuto a Spoleto nei giorni 7, 8 e 9 settembre 1962), a cura di G. Rossini, cit., pp. 627-59. Secondo il Monticone erano «patriottici» quei vescovi che, essendo convinti della inevitabilità della guerra, si facevano anche fautori degli ideali patriottici, evitando tuttavia di ricorrere ai richiami mitici del sentimento nazionale; «moderati», invece, erano quei vescovi che, pur non condividendo le ragioni dell’intervento, accettavano il fatto compiuto e collaboravano lealmente alla buona riuscita della guerra, propendendo tuttavia ad interpretare il proprio compito in senso caritativo, a sollievo dei dolori dei combattenti e delle famiglie, e ad incitamento a sopportare sino alla fine i sacrifici richiesti dalla patria. Per una documentazione dell’attività dell’episcopato durante la guerra si veda inoltre la già citata pubblicazione della SACRA CONGREGAZIONE CONCISTORIALE , L’operato del clero e del laicato, che alle pp. 56-73 contiene un elenco di circa 200 pastorali, circolari, notificazioni, ecc. di vescovi italiani durante il 232

conflitto, divise per anno e con indicazione bibliografica.← 159

Su tale polemica e, in particolare, sulle superstizioni di guerra cfr. fra l’altro A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit.; C. CARAVAGLIOS , L’anima religiosa della guerra, Milano 1935; numerosi scritti apparsi durante e dopo la guerra in «Bilychnis», rivista di studi religiosi e in «Il prete al campo», giornale dei cappellani. Si veda inoltre A. PRANDI , La guerra e le sue conseguenze nel mondo cattolico italiano, in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale, cit., pp. 167-74. Recenti ed interessanti osservazioni sui sentimenti religiosi degli italiani durante la Grande guerra in G. DE ROSA , I cattolici, in AA.VV., Il trauma dell’intervento: 1914-1919, Firenze 1968, pp. 194-96. Si tenga presente che il Caravaglios, autore del libro sopra citato, versò all’archivio del Museo del Risorgimento, in Milano, numeroso materiale sulle superstizioni, usi e costumi dei soldati (si veda in particolare nel «Fondo guerra» di quel museo la cartella 31, n. 20263).← Editing 2017: nick2nick www.italiashare.info

160

G. DE ROSSI , Amuleti cristiani?, in «Il prete al campo», 15 gennaio 1916, p. 17.←

161

G. DE ROSSI , Credo e decalogo, ibid., 1° agosto 1916, p. 229.←

162

Cfr. B. MUSSOLINI , Diario, cit., p. 54 (alla data del 20 febbraio 1916).←

163

Cfr. ACS, Primo aiutante, sc. 26 (Prigionieri di guerra), Interrogatorio di un soldato ceco che nel luglio 1916 si trovò presente alla impiccagione di Cesare Battisti e di Fabio Filzi, documentazione del Servizio informazioni del Comando supremo dell’esercito, in data 7 agosto 1918, prot. n. 12072.←

233

164

R. CORSO , La rinascita della superstizione nell’ultima guerra, in «Bilychnis», febbraio 1920, pp. 97-98. Il Corso fornisce nelle note un’ampia bibliografia italiana e straniera sull’argomento.←

165

Cfr. A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 153.←

166

Ibid., pp. 151-52 e 162.←

167

Ibid., p. 148, ma cfr. anche R. CORSO , La rinascita della superstizione, cit., p. 95.←

168

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., pp. 161-62.←

169

Cfr. C. CARAVAGLIOS , L’anima religiosa della guerra, cit., pp. 118-19; sugli amuleti e le superstizioni di guerra cfr. in generale le pp. 97-191.←

170

Cfr. F. TROIANI , La coda di Minosse, Milano 1964, p. 46; G. BORSI , Lettere dal fronte, cit., p. 116 e cfr. pp. 69-70; B. MUSSOLINI , Diario, cit., p. 42 (alla data del 2 novembre 1915).←

171

A. OMODEO , Lettere 1910-1946, Torino 1963, p. 208.←

172

Cfr. B. MUSSOLINI , Diario, cit., p. 54 (alla data del 20 febbraio 1916).←

173

Cfr. A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 153.←

174

Cfr. A. SOFFICI , Kobilek, in Opere, cit., p. 144, e G. BINI CIMA , La mia guerra, Milano 1932, pp. 88-89.←

175

A. GATTI , Caporetto, Dal diario di guerra inedito (maggiodicembre 1917), a cura di A. Monticone, Bologna 1964, pp. 117 e 130.←

176

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 206.← 234

177

Ibid.←

178

Ibid., p. 207.←

179

Cfr. F.S.M., Il generale Ettore Mambertti, in «La Lettura», novembre 1916, pp. 1006-08.←

180

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 209.←

181

Ibid., p. 210.←

182

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 80-81 (alla data del 23 luglio 1917).←

183

Cfr. A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., pp. 150-51.←

184

«Il prete al campo», supplemento al n. 1, a. II (1° gennaio 1916), p. 3 (Il Vescovo di Campo ai preti-soldati).←

185

Cfr. G. DE ROSSI , Rinascita religiosa e rinascita morale, in «Il prete al campo», 15 maggio 1916. L’autore faceva notare inoltre che si trattava quasi sempre di giovani uomini tra i 20 ed i 35 anni, i quali pertanto normalmente costituivano «la immensa lacuna del popolo nostro» per ciò che si riferiva a pratiche religiose. Padre A. Gemelli promosse un’inchiesta tra i preti-soldati sulla rinascenza religiosa nell’esercito, cfr. ibid., 1° aprile 1916, p. 103 (Un’inchiesta del P. Gemelli), e pubblicò le sue considerazioni nel volume Il nostro soldato, cit., pp. 131 sgg. Gemelli ritenne che al fronte non si fosse determinata una vera rinascenza cristiana (p. 134) se non negli ospedali (p. 137).←

186

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 10 dicembre 1915, p. 8467, interrogazione dell’on. E. Dugoni sulla «Soppressione di scritti sulla speculazione clericale nell’Esercito». Anche Luigi Albertini protestò presso il 235

Comando supremo perché i cappellani esercitavano un’attività di propaganda a favore dei giornali del gruppo cattolico. Cfr. L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926, cit., pp. 475-76 e 479 (lettere di Albertini a Porro del 17 e 27 ottobre 1915).← 187

Cfr. «Il prete al campo», 15 febbraio 1916, p. 59 (Una riunione a Palazzo).←

188

Cfr. la circolare del vescovo cit. alla nota 184.←

189

«La civiltà cattolica», 6 maggio 1916, p. 331 (I cappellani militari nell’esercito italiano).←

190

Cfr. G. DE ROSA , Storia del movimento cattolico in Italia, Dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966, pp. 580-81.←

191

«Il prete al campo», 15 settembre 1916, p. 8 (I Cappellani chiedono buoni libri, lettera al direttore di don Giovanni Soldini).←

192

D.P.S. [Don Pirro Scavizzi], La guerra nel concetto cristiano, in «Il prete al campo», 1° ottobre 1915, p. 11←

193

Ibid.←

194

«Il prete al campo», supplemento al n. 7, a. II (1° aprile 1916), p. 2 (Il Vescovo di Campo ai soldati d’Italia).←

195

«Il prete al campo», 15 settembre 1915, pp. 4-5 (Il principale precetto). Sull’illustrazione del Vangelo ai soldati cfr. la recensione a N.M. CAMPOLIETTI , Il Vangelo del soldato italiano, in «Rivista militare italiana», 16 settembre 1916, pp. 116365.←

196

E. LORENZINI , La guerra e i Preti Soldati, cit., pp. 18-19.←

197

B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., pp. 104-05 (alla data 236

del 31 dicembre 1916).← 198

G. DE ROSSI , Dopo le licenze…, in «Il prete al campo», 1° febbraio 1916, pp. 33-34.←

199

Cfr. SACR A CONGREGAZIONE CONCISTORIALE , L’operato del clero e del laicato, cit., pp. 107-08. Un elenco dei periodici religiosi per i soldati si trova in A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, Roma 1925, pp. 76-77. In Italia furono numerose le iniziative di enti religiosi o laici per la raccolta di pubblicazioni e doni da inviare alle truppe. Sull’argomento cfr. M.S., Come Milano provvede di libri i nostri soldati, in «La Lettura», febbraio 1916, pp. 183-85; G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 123 e vol. II, p. 213; G. LICOMATI , Il libro pel soldato italiano al campo, in «Rivista militare italiana», 16 luglio 1915, pp. 1385-95. Anche i socialisti appoggiarono alcune di queste iniziative, cfr. «Critica Sociale», 1-15 giugno 1915, p. 176 (Per l’assistenza morale ai soldati feriti ed ai combattenti).←

200

Cfr. F.A. PUGLIESE , Storia e legislazione, cit., p. 55, e A. SORBELLI , Accanto alla guerra, L’ufficio notizie, in «La Lettura», gennaio 1916, pp. 63-69.←

201

Cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 42 (alla data del 2 novembre 1915).←

202

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 46. Il Ceresi era definito dal Minozzi come l’anima gemella di padre Genocchi.←

203

Cfr. «Il prete al campo», 15 febbraio 1916, p. 60 (Si domanda), e Circolari Comando supremo, p. 84. La circolare del Comando supremo, ufficio affari vari, sez. istruzione, era del 24 novembre 1915, prot. n. 4313.← 237

204

Cfr. CAMERA 1915←

DEI DEPUTATI,

Discussioni, seduta del 1° dicembre

205

Cfr. «Il prete al campo», 15 luglio 1916 (La guerra e la moralità). I cappellani intervennero anche per impedire l’apertura di case di tolleranza in alcune località della zona del fronte. Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, pp. 43-44.←

206

Cfr. F.A. PUGLIESE , Storia e legislazione, cit., p. 56.←

207

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 19.←

208

Ibid., pp. 183-84. Don Minozzi ottenne 25.000 lire dall’Ansaldo, nel gennaio 1917, grazie all’interessamento di Carla Cadorna.←

209

Ibid., pp. 145, 158-60, 165, 191-92, 218-20. Anche Albertini fu conosciuto da Minozzi grazie ad una presentazione di Carla Cadorna.←

210

Ibid., p. 92.←

211

Ibid., pp. 143, 198. Con molte difficoltà don Minozzi ottenne un versamento dall’Intendenza generale dell’esercito soltanto il 24 novembre 1916 e per sole 5.000 lire, cfr. Ibid., pp. 140 sgg.←

212

Ibid., pp. 49, 135, 151, 236-38 e 266-72. Soltanto il ministro Dallolio riuscì a stanziare 50.000 lire in favore della casa del soldato, ibid., p. 236.←

213

V. nota 82.←

214

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, pp. 168-69, 22327, 235-38, 250, 417, 491-92, 560, 593-94, 607. Cfr. inoltre L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 29.← 238

215

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 29-30.←

216

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 28.←

217

Cfr. quanto detto alle pp. 21-22. Il gen. Porro spiegò alla Commissione di inchiesta per Caporetto che un giornale destinato alle truppe non era stato pubblicato per ragioni di indole finanziaria. Cfr. Inchiesta Caporetto, II, p. 388, nonché L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 30. Mussolini si domandò, nel diario pubblicato dal «Popolo d’Italia», perché mai non fosse pubblicato un bollettino bisettimanale o trisettimanale destinato ai soldati e contenente i comunicati dell’esercito nostro e di quelli alleati «unitamente a qualche articolo e racconto di episodi di valore, atti a tenere elevato il morale delle truppe». Cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 39 (alla data del 29 ottobre 1915).←

218

Cfr. quanto scrissero a questo proposito Mussolini (Ibid.), e Luigi Barzini (nella lettera citata alla nota 82).←

219

Sull’esistenza di questo secondo diario cfr. G. PINI- D. SUSMEL , Mussolini, l’uomo e l’opera, cit., vol. I, p. 318.←

220

B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 42 (alla data del 2 novembre 1915).←

221

Ibid., pp. 69-70 (alla data del 7 aprile 1916).←

222

Cfr. pp. 20 sgg.←

223

Cfr. pp. 311-13.←

224

Cfr. G. PINI- D. SUSMEL , Mussolini, l’uomo e l’opera, cit., vol. I, p. 316.←

225

C. GRILLI , L’adattamento sociale allo stato di guerra, in «Rivista 239

internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 31 agosto 1916, pp. 393-400.← 226

Cfr. R. BACHI , L’Italia economica nel 1916, Città di Castello 1917, pp. VI-XVI.←

240

III

I contrasti tra il governo e lo stato maggiore nel 1916

1. Separazione tra militari e politici nell’anteguerra – 2. L’autorità del capo di stato maggiore – 3. La crisi tra governo e Comando all’inizio del 1916. Il memoriale Zupelli – 4. La campagna di stampa promossa da Cadorna – 5. Le dimissioni del ministro Zupelli – 6. La crisi durante la strafexpedition – 7. La caduta del governo Salandra – 8. La costituzione del ministero nazionale: Boselli e Cadorna – 9. L’urto tra Cadorna e Bissolati – 10. Lo scandalo Douhet e la rappacificazione tra Cadorna e Bissolati 1. Accade spesso che un corpo sociale si adatti alle realtà nuove ed impreviste senza che gli uomini collocati nei posti di comando riescano a dirigere, controllare e talvolta neppure intendere il corso degli avvenimenti. Fu il caso dell’Italia durante la Prima guerra mondiale. La classe dirigente venne dominata e travolta dalle forze sconosciute della storia come e forse più di tutte le altre parti del corpo sociale; politici e militari contesero aspramente fra loro su «chi» dovesse guidare la guerra, e questa frattanto continuò a procedere quasi per suo conto, perversa ed indomabile, ribelle ad ogni regola che le si sarebbe voluta 241

imporre. «La verità» ammise il gen. Di Giorgio nel 1919 «è che nessuno governò in Italia la guerra.» 1 Dicemmo nelle pagine precedenti che la profonda frattura determinatasi tra politici e militari fu una delle cause che per molto tempo impedirono una efficace attività di propaganda tra i soldati. Ma naturalmente i gravi contrasti tra Comando e governo ebbero significato ben più ampio, costituirono il sintomo più macroscopico della crisi generale, e nello stesso tempo si ripercossero indirettamente o direttamente sia sull’andamento delle operazioni militari, sia sullo spirito dei soldati e dei cittadini. Già nell’anteguerra l’assenza di tradizioni militari nella classe politica italiana, e l’appartenenza dell’esercito alla sfera d’influenza del sovrano avevano contribuito a mantenere distanti fra loro dirigenti politici e militari. Alla fine dell’Ottocento Guglielmo Ferrero aveva già avuto modo di constatare la scarsa vitalità dello spirito militaristico in Italia, e nel 1914-15 la situazione non poteva certo dirsi gran che mutata. 2 Nel 1911 l’impresa di Tripoli aveva suscitato gli entusiasmi nazionalistici di larga parte dell’opinione pubblica e rafforzato in molti ambienti il convincimento che occorresse conferire maggior prestigio alla vita del soldato, ravvicinare nazione ed esercito, spirito civile e spirito militare. 3 Sentimenti, questi, tuttavia condivisi da una minoranza di intellettuali e non dalla classe politica nel suo complesso. Ed è sintomatico che alla Camera dei deputati, fino al 1914, i dibattiti intorno alle questioni dell’esercito si svolgessero in un clima di generale indifferenza, con una estrema sinistra che si opponeva genericamente e in via di principio alle spese militari e una maggioranza governativa che esprimeva altrettanto

242

genericamente la sua fiducia alle forze armate, senza affrontare alcun problema concreto. I politici si disinteressavano dell’esercito, e i militari negavano al parlamento di ingerirsi nelle cose loro. 4 Anche il particolare legame esistente tra forze armate e corona aveva distolto i politici dalla guida delle cose militari. Nell’estate del 1900, salendo al trono dopo l’uccisione del padre, Vittorio Emanuele III aveva infatti confermato quel legame inviando all’esercito e alla marina un messaggio personale privo della controfirma dei ministri. L’anno seguente, dovendo per la prima volta risolvere una crisi di governo, il giovane re aveva scelto personalmente i due ministri della Guerra e della Marina, e vietato al presidente Zanardelli di ridurre le spese militari. Aveva riaffermato in tal modo l’antica tradizione secondo la quale il sovrano poteva disinteressarsi della politica interna, ma non di quella militare ed estera. 5 Le interferenze tra i due mondi, quello politico e quello militare, erano tuttavia frequenti, se non altro perché i ministri della Guerra e della Marina dibattevano i problemi dei loro dicasteri in seno al Consiglio dei ministri e, come tutti i ministri, erano assoggettati al controllo delle Camere. Il governo, inoltre, utilizzava di continuo le truppe per garantire l’ordine pubblico; il sistema stesso di reclutamento dell’esercito si informava anzi a tale scopo. Eppure, nonostante ciò, i due mondi avevano continuato a restare sostanzialmente estranei l’uno all’altro, animati da reciproca diffidenza, se non addirittura da reciproca disistima. Il De Bono, descrivendo la vita degli ufficiali nell’anteguerra, affermò che nessuno di essi si occupava di politica; lui stesso confessò di non aver mai badato alle crisi ministeriali e di aver conosciuto per puro caso il nome del presidente del Consiglio in carica. 6

243

D’altro canto ministri e deputati si comportavano in maniera quasi per nulla diversa nei confronti dei militari. L’on. Marazzi testimoniò che prima della guerra fra gli uomini politici più colti era stato «quasi un vanto civico far pompa di ignoranza d’ogni nozione militare». 7 I politici e, più in generale, i «borghesi» stimavano ben poco gli ufficiali di carriera, e ripetevano frequentemente che la gioventù più dotata aveva sempre preferito gli uffici civili. 8 Nel settembre 1914 il presidente Salandra scrisse a Vittorio Emanuele III che la professione delle armi era discesa al livello di «una modesta carriera, intrapresa più in vista del pane quotidiano che non della guerra» 9 e nel maggio 1915 Giolitti dichiarò a Malagodi che i giovani ufficiali potevano essere colti e preparati, ma che i generali valevano ben poco: «Sono usciti dai ranghi» disse «quando si mandavano nell’esercito i figli di famiglia più stupidi, dei quali non si sapeva cosa fare»; poco dopo la disfatta di Caporetto lo stesso Giolitti ribadì che per due generazioni le famiglie italiane avevano inviato alla carriera militare «i discoli e i deficienti»: 10 «Quando [nel 1908] si doveva creare il nuovo capo di stato maggiore» dichiarò Giolitti «i candidati erano lui [Cadorna] e Pollio; ed io dissi al Re: “Pollio non lo conosco; ma lo preferisco a Cadorna che conosco…”. Una sola volta ho lodato Cadorna, ma in questo modo; che dovendosi ad un Consiglio generale militare passare un giudizio sulla capacità dei nostri generali, io dissi che non c’era che Pollio, e dopo lui Cadorna. Ma soggiunsi che non intendevo con questo fargli una gran lode, perché tutti gli altri erano sotto zero». 11 Cadorna, a sua volta, esprimeva giudizi risolutamente negativi sulla società politica del suo tempo e su Giolitti in particolare. 244

Aristocratico, educato alla rigida scuola militare piemontese (suo padre aveva comandato nel 1870 la spedizione per la presa di Roma), sensibile ad influssi clericaleggianti (due sue figlie, fra l’altro, erano monache), 12 il gen. Cadorna lamentava che l’indisciplina sociale degli italiani fosse aumentata durante i primi sessanta anni di vita unitaria proprio perché era stato sradicato quel sentimento religioso che costituiva «il freno piò efficace, anzi il solo veramente efficace al dilagare delle umane passioni». A suo giudizio il regime parlamentare aveva subìto una progressiva degenerazione «specialmente dopo la così detta rivoluzione parlamentare del 18 marzo 1876», e l’epoca giolittiana aveva corrisposto ad una vera e propria dittatura, «la quale avrebbe potuto essere benefica, se fosse stata unicamente rivolta al bene del Paese», mentre era servita «solo a maggiormente guastare i costumi parlamentari, a screditare le istituzioni e a corrompere l’anima nazionale». Al generale non piacque nessuno dei governi succedutisi nel corso della Grande guerra, neanche il governo Salandra. Lo giudicò «di gran lunga il migliore», ma «anch’esso irretito dalle pressioni e dalle influenze parlamentari ed incapace di scuoterle e di governare come l’ora grave richiedeva, come seppe fare Clemenceau in Francia. Tali governi» concludeva con gravità Cadorna «meritavano di essere spazzati via per essere sostituiti con un regime più confacente alle necessità della grave ora che si stava attraversando»: il generale si riferiva al regime di Mussolini. 13 2. La reciproca ostilità tra dirigenti militari e politici, favorita da una complessa situazione politico-costituzionale, non si attenuò, e divenne anzi assai più grave durante la Grande guerra. Lo Statuto riservava formalmente al re il comando delle forze armate, ma l’esercizio effettivo di quel comando era impedito dal 245

principio dell’irresponsabilità sovrana – sancita dallo Statuto stesso – e dall’evoluzione costituzionale italiana. Chi avrebbe dunque comandato in caso di guerra? L’attribuzione delle responsabilità presentava non poche incertezze dal punto di vista giuridico. Tali incertezze furono troncate dal gen. Cadorna, le cui idee in proposito erano estremamente chiare: se il re non poteva essere responsabile, tutte le responsabilità e il comando effettivo dovevano appartenere a lui stesso, in quanto capo di stato maggiore. Fin dal 1908 il generale aveva precisato le sue condizioni per assumere il comando in caso di guerra: 1) libertà d’azione nella condotta delle operazioni; 2) libertà d’azione nella preparazione della guerra in ciò che aveva rapporto con le operazioni; 3) facoltà di esonerare quegli ufficiali che non meritavano la sua fiducia. Il re – secondo Cadorna – poteva mantenere tutte le apparenze del comando, ma solamente quelle. 14 Nel 1908 Vittorio Emanuele aveva nominato capo di stato maggiore il gen. Pollio e non il gen. Cadorna. Nel 1914, però, quando Pollio improvvisamente morì proprio nei giorni in cui maturava la crisi di Sarajevo, il re decise di rivolgersi a Cadorna, ben sapendo che quest’ultimo aveva precisato di non voler in alcun modo transigere sulle condizioni poste nel 1908. Molti dati di fatto sono ancora oscuri a proposito delle trattative che accompagnarono nel 1914 la nomina di Cadorna. È probabile tuttavia che Vittorio Emanuele avesse buone ragioni per non essere dispiaciuto del fatto che il capo di stato maggiore volesse assumersi l’intera responsabilità delle operazioni. Il re poteva essere a ciò consigliato, oltre che dal suo carattere notoriamente scettico e schivo, anche da considerazioni di ordine costituzionale e da preoccupazioni di ordine politico. La guerra costituiva per l’istituto monarchico una prova gravissima (al

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punto che nell’agosto del ’14 il ministro degli Esteri di San Giuliano dichiarava che la monarchia sabauda sarebbe caduta in caso di sconfitta militare), 15 ed in tali condizioni il sovrano poteva giudicare politicamente saggio accontentarsi delle apparenze del comando, esercitare magari opera di consiglio e di moderazione, ma evitare nello stesso tempo di intervenire in prima persona nella direzione delle operazioni. Quanto agli uomini del governo del tempo c’è da supporre che essi fossero indotti a non approfondire il delicato problema dei poteri del capo di stato maggiore per le ragioni già note: sia perché tale problema rientrava in uno specifico settore di competenza del sovrano, sia perché essi avevano scarsa o nessuna esperienza in materia militare, e infine perché immaginavano – come tutti – di andare incontro ad una guerra che si sarebbe risolta con qualche breve battaglia, e che quindi non avrebbe fatto in tempo a suscitare gravi conflitti tra potere militare e potere politico. 16 3. Il 2 dicembre le operazioni militari furono sospese senza che Gorizia fosse stata conquistata. Il 1915 si concluse dunque con un bilancio poco soddisfacente, e le notizie recate nel Paese dai militari in licenza destarono allarmi ed apprensioni non soltanto fra i comuni cittadini, ma anche fra i membri del parlamento. L’on. Giampietro, che alla qualifica di deputato univa anche quella di ufficiale, lesse agli amici un memoriale nel quale aveva scritto che il piano strategico e l’azione tattica erano sbagliati, che i danari pubblici erano stati sprecati, che lento e scarso risultava essere tutto ciò che si atteneva all’igiene, alla salute del soldato, ecc. 17 Anche Gaetano Salvemini tornò dal fronte e narrò che «il tentare e ritentare molte volte la stessa impresa» senza che essa riuscisse aveva «un po’ depresso lo spirito dei soldati»; che il male non stava in Cadorna, ma «nei comandi intermedi: nei 247

generali di brigata e di divisione» i quali non si facevano mai vedere mentre avrebbero dovuto dirigere personalmente le operazioni. 18 Fu poi la volta di Amendola, anche egli reduce dall’Isonzo: «Uno sgomento» disse «comincia a penetrare nell’esercito, il quale diffida ormai non di se stesso ma del piano di guerra: persuaso che dove non si sfondò in novembre non v’è ragione alcuna per credere che si sfonderà nell’aprile». 19 Il 26 gennaio si riunì il Consiglio dei ministri e il Martini volle esprimere lo smarrimento suo e dei suoi colleghi dinanzi agli avvenimenti. «Noi volevamo Gorizia» dichiarò il ministro «e non l’abbiamo presa… Ora ci si dice che bisogna star fermi per tre mesi a cagione della neve ecc. ecc.; a primavera ricominceremo a fare quello che abbiamo fatto sin qui; ed io desidero mi si dica il perché otterremo al fiorir delle rose ciò che non abbiamo ottenuto al passo dei tordi.» 20 I ministri civili non capivano nulla né di tattica né di strategia, ma fra essi sedeva un tecnico, il ministro della Guerra, gen. Zupelli. Questi prese la parola e ridiede coraggio ai convenuti dichiarando che ci si poteva muovere subito ed ottenere molto. Indicò quale fosse, a suo avviso, il sistema per isolare Trieste. Zupelli, in sostanza, espose i princìpi già indicati in un memoriale riservato, da lui consegnato venti giorni prima al presidente Salandra. 21 Il documento faceva eco alle critiche che l’operato di Cadorna stava ovunque suscitando. Iniziava mettendo in rilievo quanto fosse modesto il territorio conquistato fino ad allora. A parte l’eliminazione delle due punte austriache ad ovest e ad est del Garda, i vantaggi territoriali non erano stati molto rilevanti, in

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quanto l’esercito italiano si era fermato proprio «là ove gli austriaci avevano stabilito la loro linea di difesa»! L’esercito tuttavia aveva subìto un logoramento enorme, e una crisi di sfiducia aveva colpito truppa e comandi: «Lo spirito delle truppe si conserva abbastanza buono, quantunque comandanti e truppe, in taluni settori, dopo replicati infruttuosi attacchi sempre quasi con gli stessi mezzi e con gli stessi metodi, siano alquanto sfiduciati. Qualche indizio di tale stato d’animo si è avuto anche con fatti, prontamente repressi. Anche negli Alti Comandi esiste un certo senso di trepidazione per gli errori avvenuti in troppo larga misura». Lo spirito pubblico del Paese si manteneva «buono, nel complesso» ma non mancavano segni di malcontento, che si stavano accentuando proprio in quei giorni in seguito alle deprimenti narrazioni dei soldati in licenza: «Sarebbe occorso un fatto saliente, patente ed a noi favorevole, prima della concessione delle licenze per controbilanciare e forse per controvertire l’effetto morale del ritorno in famiglia dei combattenti. Essendo mancato questo successo sarebbe forse stato meglio non concedere le licenze». Così scriveva il gen. Zupelli, dimostrandosi assai vicino alle opinioni che anche il gen. Cadorna aveva al riguardo. L’intero memoriale, del resto, non conteneva alcun cenno al trattamento morale e materiale dell’esercito che potesse far supporre – da parte dello Zupelli – la preferenza verso un sistema di governo delle truppe diverso da quello applicato dal gen. Cadorna. 22 Il dissenso tra il ministro e il capo di stato maggiore aveva altre origini, che riguardavano essenzialmente il piano di operazioni. 249

Zupelli ripeteva nel memoriale ciò che da tempo confidava ai suoi amici: Cadorna aveva errato disperdendo le sue forze lungo tutto il fronte anziché concentrarle sul Carso, che costituiva per il nemico il punto più vitale e vulnerabile. 23 Il gen. Cadorna si proponeva di trascorrere tutto l’inverno e forse parte della primavera senza compiere alcuna azione offensiva in grande stile. Zupelli non era d’accordo e, a suo avviso, anche in pieno inverno sarebbe stato possibile impadronirsi del Carso e precludere al nemico le vie di comunicazione con Trieste. Bisognava però riunire su un breve fronte di 12 km almeno 500 delle 770 bocche da fuoco possedute. Il memoriale concludeva affermando l’opportunità di predisporre immediatamente i concentramenti per iniziare l’operazione entro febbraio. Quando Zupelli esponeva ai suoi colleghi queste idee si era giunti ormai al 26 gennaio, e il tempo stringeva. Sonnino dichiarò che le sorti della guerra non potevano essere decise dal solo Cadorna e propose la convocazione di un Consiglio di ministri e di generali. Gli altri ministri furono d’accordo e, ignorando completamente che tale Consiglio era un organismo previsto per il solo periodo di pace, decisero di riunirlo al più presto. 24 Quattro giorni più tardi, però, Salandra e Sonnino si incontrarono nelle sale del Quirinale: erano nel frattempo venuti a sapere che il cosiddetto «Consiglio di difesa» funzionava solo in tempo di pace e riconobbero l’opportunità di trovare un’altra soluzione. «Facciamo un decreto che gli dia determinate attribuzioni in tempo di guerra», propose Sonnino, al che Salandra replicò: «La nomina di questo comitato di generali potrebbe indurre Cadorna a dare le dimissioni: prima di correre questo rischio indicatemi il successore». 25 Nessuno seppe indicarglielo. Salandra, tuttavia, volle esprimere al re il disagio suo e dei

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ministri per quanto stava accadendo: «Tutti i miei colleghi del Ministero,» scrisse il 30 gennaio «ed io con loro, sono gravemente preoccupati dello stato d’animo dell’esercito e del Paese, e più delle direttive e delle prospettive della guerra in un prossimo avvenire. Tutti gli ufficiali che sono venuti dal fronte, in licenza, o per altra ragione, hanno diffuso l’impressione che ricominciare, come pare si prefigga il Comando supremo, press’a poco negli stessi luoghi e nelle stese forme, l’attacco della linea dell’Isonzo sia come dare della testa al muro. Ciò pensano e dicono, con maggiore o minor prudenza – e mi risulta – non soltanto i generali privati dal generale Cadorna del comando attivo ma anche coloro che hanno progredito nella carriera per opera sua e gliene sono grati. Ciò dicono tutti gli ufficiali di grado inferiore che non hanno mai avuto rapporti personali col Comando. Si può rimanere indifferenti di fronte a questo che è, indubbiamente, lo stato d’animo dell’esercito e che, dall’esercito, si va ogni giorno trasfondendo nel Paese? Si aggiunga il dubbio che il Paese non ha, ma che abbiamo noi governo – e ne feci cenno a Vostra Maestà – che le provviste di munizioni, sia perché non tesoreggiate durante l’inverno proseguendosi nel consumarle largamente, sia perché le officine, come sempre, mancheranno in parte ai loro impegni, non saranno in aprile quelle che il Comando supremo si ripromette e senza le quali – lo ha ultimamente ripetuto il generale Cadorna – il futuro attacco verso il Carso non avrebbe maggior successo dei precedenti. 251

Si aggiungano finalmente le pressioni dirette e indirette degli Alleati per una nostra più attiva partecipazione alla guerra comune. La visita di Briand, col numeroso seguito, di cui telegrafai ieri a Vostra Maestà, non può avere altro scopo. Che cosa diremo agli Alleati di essere disposti a fare, dato il programma di quasi completa inazione sino alla fine di aprile che pare sia quello del Comando supremo? Sono dubbi condivisi da tutti i ministri e che io non posso non presentare a Vostra Maestà. Implicando essi tutta la condotta politico-militare della guerra, cui sono legate le sorti del Paese, noi pensiamo che non possa la loro risoluzione essere lasciata alla intelligenza e alla volontà di un uomo solo, per quanto degno di stima e di ogni riguardo. Noi pensiamo che una consultazione debba avvenire a cui partecipino altri capi militari nella misura e nella forma che si potrà stabilire dopo l’assenso di Vostra Maestà. Così soltanto la responsabilità nostra e quella dello stesso capo di stato maggiore, che diventa troppo enorme per un uomo solo, potrà essere confortata ed alleviata; e si potrà scegliere, speriamo di comune accordo, una direttiva politica e militare e proseguirla con minore esitazione e con maggiore coscienza». 26 Non sappiamo che cosa rispose il re alla lunga lettera del presidente, risulta però che il Consiglio dei ministri tornò ad occuparsi della questione il 6 febbraio, senza nulla decidere se non di inviare Zupelli al fronte, perché esponesse a Cadorna il suo piano. Zupelli partì, e tornò tutto soddisfatto dicendo che Cadorna aveva accolto i concetti del memoriale diversamente da come ci si poteva aspettare. 252

«Cadorna» scrisse il ministro Riccio «non ha respinto il progetto in forma sdegnosa, come Zupelli temeva, ma ha detto che lo avrebbe studiato, esaminato. A me par che sia un metodo canzonatorio per non tener conto della proposta. Se il progetto doveva eseguirsi adesso, che valore hanno queste assicurazioni che si sarebbe visto, che si sarebbe studiato? Ma Zupelli è aux anges!» 27 Come si svolse in realtà il colloquio tra il ministro della Guerra e il capo di stato maggiore? Zupelli era solito comportarsi con molta timidezza in presenza di Cadorna. Era abituato a ricevere comunicazioni redatte da quest’ultimo «in forma autoritaria ed aspra» senza replicare. Alla riunione tenuta a Roma il 22 gennaio sulla questione albanese, il ministro della Guerra non aveva neppure osato prendere la parola. 28 I dissensi tra il ministro e il capo di stato maggiore duravano da lunga data ed erano noti a molti, ma – come annotò il ministro Riccio – il curioso era che quando poi Zupelli e Cadorna stavano insieme, il primo assumeva un contegno così dimesso verso il secondo che non pareva che dissensi vi fossero. 29 Col passare del tempo i concetti del «memoriale Zupelli» cominciarono a sembrare fantastici ed assurdi agli stessi ministri. 30 Il re non li aveva approvati, e le settimane trascorsero facendo sì che – come scrisse il Martini – il «piano» del ministro della Guerra cominciasse a squagliarsi insieme con la neve dei monti al sole primaverile. 31 4. Cadorna sapeva benissimo di avere molti avversari: le discussioni sulla spedizione in Albania gliene avevano già fornito una prova; 32 l’esistenza di un piano di guerra opposto al suo gli era stata resa nota da colui che ne era stato l’autore; le voci di una sua sostituzione con il gen. Di Robilant erano state messe in 253

circolazione a Udine dal ministro Orlando. 33 Cadorna decise di contrattaccare i «nemici» di Roma. Il 2 febbraio il col. Bencivenga, capo della segreteria del comandante supremo, convocò Ugo Ojetti: «Cadorna» gli disse «sente solo adesso la sorda guerra che gli fanno a Roma, anzi nel ministero. E vuole, con dignità, correre ai ripari». Ojetti poteva essere di grande aiuto per le molte conoscenze che aveva nel mondo giornalistico e politico. Il gen. Cadorna in persona l’attendeva a colloquio per l’indomani. 34 «Il capo» scrisse Ojetti «m’ha tenuto dalle 10 alle 11 ¼. Gli ho svesciato tutto. E lui idem. Meraviglioso. Veramente un altro uomo così non lo si trova in Italia. Calore, sincerità, fede, chiarezza. M’ha descritto un Consiglio dei ministri cui ha partecipato: parole sue e degli altri: un teatro, ma commovente. È ammirato dal mio lavoro di questi venti giorni. 35 L’aveva lì sul tavolone. E adesso mi chiede di fare alcune cose perché non s’infatuino i nazionalisti sull’Albania; – perché si finisca di criticare questo suo “attacco frontale” che non può essere altro e che non è un suo capriccio, – perché il ministro della Guerra lo assecondi ecc. Io gli ho ben spiegato che molto si può fare con la stampa, ma non tutto. Intanto lo faremo intervistare in piena campagna, in un posto avanzato. Ha accettato, ridendo. Mi son scritto tutto, appena uscito. Poi nel pomeriggio ho preparato la lettera sull’Albania – sulla traccia datami da lui, – e l’ho portata alle 4 dal colonnello Bencivenga per alcuni dati più precisi: e stasera la mando a Monicelli, – non da pubblicare ma come norma. 36 L’«Idea Nazionale» – della quale Monicelli era redattore – 254

pubblicò immediatamente un articolo che rese Cadorna «contento come un ragazzo». 37 Ojetti si mise al lavoro con entusiasmo e – come si vide – anche con profitto, ma questo non gl’impedì di provare una sensazione di disagio: «Preparo» scrisse «la difesa di Cadorna e del Comando nella stampa, con buone trovate e con prudenza. Ma talvolta mi assalgono dei dubbi, tanto il problema è grave: se la mia ammirazione per l’uomo mi facesse travedere, per quanto riguarda il capo, il generalissimo. Mi consolo pensando che val più un errore nelle mani d’un uomo di fede e d’energia, che una buona idea nelle mani d’un debole e d’un dubbioso». 38 Nel mese di febbraio apparvero sulla stampa italiana numerosi articoli laudativi dell’opera di Cadorna. Questi, il 29 febbraio, volle espressamente ringraziare Ojetti: «So» disse «che [di] tutti questi articoli di elogio a me, moltissimi li devo a lei. E voglio ringraziarla non per quel che riguarda la mia persona che non conta niente, ma il Comando che io rappresento e che deve essere al di sopra delle critiche degl’ignoranti e degli sfaccendati». 39 Con queste parole il generale alludeva – tra l’altro – al presidente del Consiglio ed ai principali ministri. Salandra raccolse quegli articoli in un fascicolo del suo archivio, che molto significativamente intitolò: «Alcuni documenti della campagna giornalistica del Comando supremo contro il ministro della Guerra (febbraio-marzo 1916) – Apoteosi di Cadorna nei giornali». 40 5. Mentre la campagna giornalistica di esaltazione di Cadorna era in pieno svolgimento, le truppe italiane furono precipitosamente costrette ad abbandonare Durazzo. Il prestigio del generale crebbe perché le operazioni militari in Albania non erano mai state di sua competenza, e perché le sue fosche previsioni si erano viceversa avverate. I ministri Zupelli e 255

Sonnino, considerati i maggiori responsabili della spedizione albanese, subirono in tal modo un assai grave smacco, e il 27 febbraio Cadorna poté finalmente dar sfogo al proprio crescente risentimento verso Zupelli cercando di imporre a Salandra l’allontanamento immediato del ministro: o via lui, scrisse, o via io. 41 Il presidente del Consiglio rispose di non poter subire imposizioni: «Io non posso ammettere» scrisse Salandra a Vittorio Emanuele il 29 febbraio «che in un documento ufficiale il capo di stato maggiore intimi, con l’alternativa delle proprie dimissioni, al presidente del Consiglio il licenziamento di un ministro». 42 E in un telegramma in pari data indirizzato a Udine, il presidente del Consiglio impartì a Cadorna una lezione di diritto costituzionale: «Secondo lo Statuto fondamentale del Regno» disse «al re solo spetta la nomina e la revoca dei suoi ministri, e, secondo la consuetudine che è ormai norma del nostro diritto costituzionale, spetta unicamente al presidente del Consiglio la proposta e quindi la responsabilità di tali atti di governo. Non posso adunque al riguardo di alcuno di essi entrare in discussione per invito o suggerimento di qualsiasi altra autorità civile o militare per quanto elevato ne sia il grado». 43 Due giorni dopo Cadorna replicò al presidente presentando le dimissioni. Vittorio Emanuele, trovatosi in mezzo ai due contendenti, cercò di non drammatizzare: 256

«Non avrei mai creduto» scrisse a Salandra «che il gen. Cadorna le avesse scritto una lettera ufficiale sul noto argomento. Se permette, Le dirò che ho trovato la di Lei risposta molto ben concepita. Questa sera il gen. Cadorna mi ha comunicato il telegramma [con le dimissioni] che Le aveva già spedito. Ma è mia impressione che non si tratti di proposito irrevocabile». 44 Salandra, invece, drammatizzò, e rimise l’intera questione nelle mani del sovrano, precisando che il linguaggio del capo di stato maggiore gli impediva di licenziare in quel momento lo Zupelli senza scapito della sua dignità di presidente. «Con perfetta tranquillità di spirito ritengo però» disse «che in questo momento sia nell’interesse del Paese minor danno cambiare il Ministro che non cambiare il capo di stato maggiore. Perciò rassegno le mie dimissioni e resto in attesa degli ordini di Vostra Maestà.» 45 Il re si preoccupò di quanto stava accadendo e spiegò a Cadorna che la richiesta di allontanare lo Zupelli non era costituzionalmente corretta. Cadorna rinunciò sia alla sua richiesta sia al proposito di dimettersi. Anche Salandra non parlò più di lasciare il governo. Nei giorni seguenti il carteggio tra il re ed il presidente del Consiglio proseguì intensissimo, ma se nella questione di forma il presidente l’ebbe vinta, nella sostanza fu Cadorna a prevalere. Il 9 marzo, infatti, Zupelli, assumendo come motivo la campagna giornalistica in corso, decise di dimettersi. «Ritengo» scrisse Salandra al re «che egli veda nella campagna giornalistica contro di lui la ispirazione dello stato maggiore e ritengo che non abbia torto.» 46 Alla carica di ministro della Guerra fu nominato il gen. Morrone, in base ad una scelta fatta

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non da Salandra, ma da Cadorna. 47 Il governo di Udine, insomma, dimostrò di contare molto più che non quello di Roma. 6. Il ministro Riccio scrisse che il Morrone era in seno al Consiglio dei ministri la longa manus di Cadorna, i cui ordini eseguiva «con poco ingegno e molta scrupolosità». 48 Il Consiglio dei ministri si adattò al nuovo modus vivendi e per due mesi e mezzo non pose più in discussione l’operato del Comando supremo. Il fatto è che le operazioni militari, in quei due mesi e mezzo, attraversarono un periodo di relativa calma. Il 15 maggio, improvvisamente, gli austriaci iniziarono nel Trentino una poderosa offensiva: la strafexpedition, la spedizione punitiva contro l’ex alleato traditore. Negli ultimi giorni di marzo i comandi italiani avevano cominciato ad avvertire gli allarmanti sintomi di una preparazione austriaca; ma fino all’ultimo Cadorna non aveva creduto che il nemico volesse veramente impegnarsi nel Trentino. 49 A maggior ragione neppure i dirigenti politici avevano immaginato che si stesse addensando la tempesta. L’11 maggio, a Milano, il ministro Riccio fu informato dal sen. Albertini della improvvisa destituzione di Brusati, il generale che comandava l’armata del Trentino, e seppe che quella destituzione poteva essere messa in relazione con le voci di una prossima offensiva nemica. Forse il nemico stava davvero per attaccare; forse si trattava di voci diffuse ad arte dallo stesso nemico perché gli italiani distraessero forze dall’Isonzo. «Ma è doloroso» constatò Riccio nel suo diario «che adesso si pensi più alla probabilità di un’invasione austriaca che non ai progressi della nostra offensiva.» 50 Il 15 maggio, dopo una riunione di Consiglio, molti ministri rimasero a discorrere della guerra nelle sale di palazzo Braschi. Gli austriaci avevano già sfondato le linee italiane, ma i ministri 258

non lo sapevano ancora, al punto che la preoccupazione di tutti, e in particolare quella di Sonnino, era che dal punto di vista militare l’Italia stesse facendo troppo poco. 51 Nei giorni seguenti giunsero le prime gravissime notizie dal fronte e il presidente del Consiglio fu preso dallo sgomento. La sera del 21 maggio convocò a casa sua i direttori di tre quotidiani romani allo scopo di illustrare gli ultimi avvenimenti. All’uscita, però, il direttore del «Giornale d’Italia», Bergamini, disse ai suoi colleghi: «Volete sapere perché ci ha chiamati? Per farci sapere che la colpa è di Cadorna, col quale è in rotta, e prepararne la caduta». 52 Il 24 maggio i ministri si radunarono in uno stato d’animo ben poco adatto a celebrare il primo anniversario della dichiarazione di guerra. «Non si è perduta la fede,» scrisse il Martini «ma le preoccupazioni sono tali che quando questa mattina dal Gabinetto del presidente mi si è telefonato che d’urgenza il Consiglio dei ministri doveva riunirsi alle 9 1 /2 ho avuto un tuffo, come si dice, una stretta al cuore. Lo stesso è avvenuto per loro stessa confessione ai miei colleghi.» 53 Tutti i presenti sapevano, infatti, che al fronte la situazione si faceva di ora in ora più critica. Salandra li aveva convocati per dar loro alcune gravissime comunicazioni pervenute dal Comando supremo: 1) anche il fronte dell’Isonzo minacciato da tergo era in pericolo; 2) Cadorna chiedeva di togliere un’altra divisione dall’Albania e una dalla Libia; 3) dimostrava inoltre un «certo disinteressamento» per quanto stava accadendo. (Salandra intendeva dire che il generale si disinteressava delle gravissime ripercussioni politiche che la vicenda avrebbe potuto avere.) Fino ad allora l’opinione pubblica, i capi politici italiani ed anche quelli militari si erano abituati a considerare inviolabili le frontiere del regno. 54 La strafexpedition, invece, portava per la 259

prima volta la guerra in casa. Gli austriaci avanzavano in territorio italiano e non si sapeva ancora dove sarebbe stato possibile arrestarli. La riunione del Consiglio dei ministri, di conseguenza, fu agitatissima. Barzilai e Martini dichiararono che la fiducia in Cadorna era scossa, ma convennero per l’ennesima volta sull’impossibilità di procedere ad una sostituzione del capo di stato maggiore. Sonnino dichiarò di essere gravemente preoccupato che le sorti dell’Italia fossero affidate ad una sola persona, la quale, per giunta, neppure dava conto del suo operato. Propose la convocazione immediata di un convegno tra i generali Cadorna e Porro, i comandanti le armate, il presidente del Consiglio e cinque ministri. Dopo lunga discussione la proposta fu approvata. 55 Cadorna si rifiutò di aderire alla richiesta. Il 25 maggio comunicò telegraficamente a Salandra che nelle circostanze difficili, quando i minuti potevano essere preziosi, i consigli di guerra creavano incertezze, dividevano le responsabilità, inducevano a temporeggiare, e quindi servivano soltanto a compromettere maggiormente la situazione: finché aveva l’onore di godere della fiducia del re e del governo egli si assumeva tutte le responsabilità, altrimenti pregava di essere sostituito con la massima urgenza. Il generale accettava tuttavia una riunione con il presidente del Consiglio e con i cinque ministri (dunque senza la partecipazione di Porro e degli altri generali) per dare tutte le informazioni desiderate (e dunque non per subire un esame). 56 I ministri non seppero che cosa fare: «Insistere? Significa indurre forzatamente il Cadorna alle dimissioni. Recedere? Nuoce alla dignità e all’autorità del governo. Brutto dilemma, questione non agevole a risolvere degnamente». Il governo, difatti, non seppe risolverla. Rinunziò rapidamente al progettato

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consiglio di guerra, ed inviò in zona di guerra il solo gen. Morrone allo scopo di raccogliere informazioni. 57 Dopo quattro giorni Morrone tornò dal fronte, e Cadorna inviò al Consiglio dei ministri un rapporto brevissimo, di una sola paginetta! La lettura di questo rapporto provocò «… una vera insurrezione dei ministri presenti. Io ricordo» scrisse Barzilai «che quando fu data lettura di quel dispaccio, tutti si alzarono protestando. La protesta era diretta contro una frase che, nel comunicare la minacciata invasione austriaca dalla parte di Val Lagarina, faceva intendere che forse poteva diventare necessaria la nostra ritirata dall’Isonzo. Parve al Consiglio dei ministri che questa previsione fosse sproporzionata agli eventi e che il generale Cadorna non si rendesse conto dell’immensa ripercussione politica che un fatto simile avrebbe prodotto nel Paese». 58 Cadorna minacciava di ritirarsi sul Piave. Ma Orlando dichiarò subito che una ritirata al Piave avrebbe significato la capitolazione e la guerra perduta (certo non immaginava che qualche tempo dopo proprio lui sarebbe stato il presidente del Piave e della vittoria). Sonnino affermò che Cadorna aveva tradito il Paese e che bisognava porre il dilemma: «O lui, o noi». Anche Martini, Barzilai e Riccio parlarono della necessità di sostituire il capo di stato maggiore. Fu deliberato di esporre a Vittorio Emanuele il pensiero del Consiglio dei ministri. 59 L’indomani il Consiglio tornò a riunirsi, e il Martini ebbe l’impressione che si stesse «indietreggiando» rispetto alla deliberazione del giorno innanzi, che a lui sembrava chiarissima: sostituire Cadorna. Poiché il presidente partiva la sera stessa alla volta di Udine per esporre al sovrano il pensiero del governo, 261

Martini chiese se quel pensiero sarebbe stato presentato «come un opinamento o come una deliberazione». Gli fu risposto: «come un opinamento». Fu pertanto approvata e registrata a verbale l’autorizzazione al presidente del Consiglio di proporre al re la sostituzione del capo di stato maggiore e i conseguenti mutamenti negli alti comandi dell’esercito. 60 Salandra incontrò sia Cadorna sia il re. Quest’ultimo non sollevò obiezioni alla sostituzione del comandante supremo, ma dichiarò esplicitamente che l’iniziativa doveva essere assunta dal governo. 61 Tornato a Roma, Salandra radunò il Consiglio, ma cercò di non affrontare il problema. 62 Interrogato da alcuni ministri dovette spiegare quale fosse l’atteggiamento del sovrano ed aggiunse che, secondo il suo parere di presidente, conveniva in quel momento lasciare Cadorna al suo posto, cercando, tuttavia, di tener pronto un successore. Il Consiglio, unanime, deliberò in questo senso. Ancora una volta, dunque, tutto restò come prima. Fallì pure il tentativo di impegnare Cadorna a comunicare preventivamente al governo una eventuale ritirata dall’Isonzo. 63 In quei giorni il ministero Salandra era già virtualmente in crisi e stava per essere battuto alla Camera. L’impotenza da esso dimostrata in tutto ciò che riguardava la direzione delle cose militari contribuì ad affrettarne la caduta. 7. Salandra lasciò la direzione della cosa pubblica perché fallì il disegno di politica interna da lui concepito al momento dell’intervento. 64 Una guerra facile e breve avrebbe dovuto permettergli di dominare la Camera giolittiana. La guerra lunga e difficile, viceversa, finì col rendergli sempre più difficile l’esercizio del potere. Già nell’autunno del ’15 egli ebbe come avversari non soltanto i neutralisti, che non gli perdonavano di aver fatto la guerra, ma anche gli interventisti, che lo accusavano di averla fatta con troppo scarso impegno. Nel marzo del ’16 il 262

ministero riscosse «a destra una benevolenza diffidente, e a sinistra una benevolente ostilità». 65 Nel giugno non riuscì a superare la tempesta suscitata dalla strafexpedition. I rappresentanti dell’interventismo rimproverarono a Salandra di non aver dichiarato guerra alla Germania, di non aver raggiunto una completa intesa con gli alleati, di aver limitato e come immiserito la «nostra» guerra. Affermarono che il ministero si era estraniato dall’opinione pubblica e dai partiti, e indicarono gravi manchevolezze governative in materia di armamenti e di politica economica. Naturalmente anche la questione dei rapporti tra Comando e governo fu tenuta presente nelle polemiche di quei giorni, ma essa esercitò un’influenza complessa ed a volte contraddittoria. Nel periodo antecedente all’offensiva austriaca del Trentino quasi tutti gli interventisti, ed i loro giornali, avevano idoleggiato il comandante supremo. La figura di Cadorna – grazie anche alla campagna di stampa concertata con Ugo Ojetti – ne era risultata ingigantita, ed aveva acquistato quei caratteri «mitologici» che sono di solito attribuiti ai capi politici e militari nonostante una diversa e più modesta realtà. I partiti interventisti, d’altra parte, avevano trovato spesso conveniente contrapporre la figura del generale – l’«uomo forte» – a quella del governo debole. Come scrisse Albertini: «Eravamo dinanzi ad una figura completa che bisognava difendere per quel che rappresentava di forza, di volontà, di tenacia, di arditezza, in un ambiente che difettava di quelle qualità ed era tratto facilmente, se non a rimpiangere, a dubitare talvolta della saviezza della grande decisione che avevamo preso nella guerra europea». 66 Si vorrebbe sapere di più sui rapporti eventualmente intercorsi tra il Comando supremo e gli ambienti politici romani alla vigilia della crisi ministeriale. Tuttavia, secondo l’opinione del De Caprariis, il

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contrasto tra Salandra e Cadorna non ebbe un’importanza decisiva nel determinare la caduta del ministero, «anche se il tono critico usato dal presidente del Consiglio alla Camera nei confronti di Cadorna, rinfocolò l’avversione contro di lui di alcuni massimalisti dell’intervento che avevano fatto e continuarono a fare, alquanto rozzamente, di Cadorna il loro eroe ed il loro capo». 67 Bisogna dire del resto che proprio durante i giorni della strafexpedition Cadorna perse presso gli interventisti buona parte del suo prestigio. Il 6 giugno gli onorevoli Chiesa e Labriola tornarono dal fronte prevedendo irreparabili disastri se non si fosse immediatamente provveduto alla sostituzione del comandante supremo. 68 Numerosi deputati, che erano sempre stati ferventi ammiratori del generalissimo, cambiarono improvvisamente opinione durante le prime settimane dell’offensiva austriaca. 69 Né si deve dimenticare che in giugno molti interventisti invocarono da Salandra proprio quei provvedimenti che Cadorna non era assolutamente disposto ad accettare. Bissolati, infatti, propose una seduta parlamentare in comitato segreto o la costituzione di una speciale commissione che esaminasse i problemi militari. 70 Alla vigilia della crisi un certo numero di deputati si radunarono in casa dell’on. Pantano e decisero di chiedere anch’essi l’istituzione di una commissione parlamentare di controllo sulle materie militari; 71 una delegazione fu incaricata di trasmettere la richiesta al presidente del Consiglio. 72 Cadorna poteva forse guardare con favore ad alcuni ambienti politici, ma solamente se questi si adattavano ad accettare i suoi princìpi di rigida separazione tra potere militare e potere civile. Vedemmo a suo luogo come egli si fosse opposto fin dal primo momento a che gli interventisti, anche i nazionalisti, 264

esercitassero una qualunque opera di propaganda nell’esercito. 73 E già nell’estate del ’15 il comandante supremo aveva emanato una circolare in cui diceva sostanzialmente che i deputati appartenenti all’esercito erano degli intrusi, incapaci di essere veri militari, e preoccupati soltanto di farsi pubblicità; i comandi inferiori erano stati pertanto invitati a concedere loro generose licenze, al fine di tenerli lontani dalla zona di guerra. 74 Fin dalle prime settimane di guerra le autorità militari avevano avvertito il pericolo che i deputati potessero trasformarsi in controllori: «Conversando con Zupelli» scrisse il ministro Riccio il 4 luglio 1915 «mi dice della cattiva prova che stanno facendo alcuni deputati arruolatisi ufficiali. Nell’esercito non dimenticano di essere deputati, con una strana inversione delle funzioni e con danno della disciplina. Essi credono di essere ancora deputati e di poter controllare. Mi dice, per es., che Federzoni, che è presso il Gran Comando, ha fatto un rapporto (lui tenente o sottotenente!) contro un colonnello e che Cadorna, invece di punirlo, gli ha dato ascolto. In altri reggimenti i deputati parlano del servizio, lo discutono, lo criticano. Zupelli» concludeva Riccio «è risoluto di metter fine alla cosa ed ha ragione». 75 Non si creda però che fosse stato il solo Zupelli a decidere l’allontanamento dei parlamentari contro il parere di un Cadorna disposto, viceversa, ad ascoltare i suggerimenti dei colleghi di Federzoni. Il capo di stato maggiore fu molto esplicito al riguardo. «Ti assicuro» scrisse al figlio «che è una battaglia continua non solo davanti, ma anche dietro. Ora ci sono deputati e senatori che vorrebbero venire al fronte ed a cui ho opposto un 265

veto assoluto. Per fortuna ho il pieno appoggio di chi di ragione, altrimenti non ci starei nemmeno un momento perché, senza di ciò, si ritornerebbe diritti al ’66». 76 8. Nel giugno 1916, alla caduta di Salandra, la classe politica italiana non fu in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Venne costituito un ministero di unione nazionale, presieduto dall’ottantenne Boselli, e si trattò di una soluzione così poco convincente che neppure il vecchio presidente riuscì a credere in essa. Già alla fine del 1915 Boselli aveva dichiarato a Salandra che un ministero di unione nazionale sarebbe stato una «minchioneria». Rivedendo Salandra dopo aver composto un siffatto ministero, Boselli si ricordò di quelle parole e confessò: «Anch’oggi quell’idea del Ministero Nazionale mi pare una minchioneria: ma lo vogliono… che ci posso io fare?». 77 Boselli era un uomo politico di scarso rilievo, di ancor più scarsa autorità, venuto improvvisamente a trovarsi alla testa di una coalizione niente affatto omogenea. La guerra avrebbe avuto bisogno di uomini nuovi che fossero stati capaci di esprimere ed imporre idee nuove, ma il mondo politico italiano riuscì soltanto a consegnare il potere nelle mani del decano del parlamento. «Era il ministero della debolezza che simulava la forza» disse molto efficacemente Francesco Saverio Nitti. «[…] Ministero Nazionale, cioè di tutti i partiti, voleva dire incapacità e inefficienza, paralisi dell’azione. […] Ma si credeva allora che la miglior cosa fosse di riunire tutti gli uomini con le idee più diverse e anche senza idee e ciò per non aver nessuna critica. Rimanevano fuori del governo soltanto i socialisti, divisi fra di loro. Boselli era compiacente e benevolo con tutti e al termine non solo della sua carriera politica ma della 266

sua stessa vita. Era facile prevedere che non avrebbe mai osato con quella banda di ministri di tutti i colori che egli formò avere una orientazione decisa in alcun senso.» 78 Il sen. Albertini non era di parere diverso: Boselli era «uomo che nel discutere scivolava via senza che si riuscisse ad afferrarne il pensiero, perché non aveva un pensiero ben definito e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze». 79 Traendo norma, appunto, dall’ambiente e dalle circostanze, e vedendo come Cadorna stesse riconquistando i favori dell’opinione pubblica dopo l’arresto dell’offensiva nemica, Boselli ritenne opportuno inviare un telegrafico e fidente saluto «all’insigne capitano» che guidava «i soldati d’Italia alla vittoria». Delle parole di Boselli, tuttavia, rimasero scontenti sia Cadorna e i cadorniani sia gli anticadorniani. Gli uni perché giudicarono quelle parole troppo caute (e ancor più si adontarono nei giorni seguenti quando nessun altro encomio governativo raggiunse Udine nonostante gli ulteriori e maggiori successi). Gli altri perché rimproverarono al nuovo governo di aver in tal modo impegnato la propria libertà di giudizio sul problema ereditato dal Gabinetto precedente (l’eventuale esonero del comandante supremo) senza un preventivo ed approfondito esame. 80 Niente affatto felici furono fin dall’inizio le relazioni tra il nuovo presidente del Consiglio ed il capo di stato maggiore, dotati di caratteri tanto diversi se non addirittura opposti. Nei primi giorni, fra l’altro, Boselli chiese a Cadorna un ampio riassunto sulle ultime operazioni da leggersi in parlamento: «Lo ebbe, ma non se ne valse. Cadorna ne rimase ferito, tanto più che seppe allora che il presidente del Consiglio parlava male di lui». 81 Nel successivo mese di luglio Cadorna si adirò quando

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seppe che il presidente del Consiglio accusava il Comando supremo di non aver preso tutte le precauzioni per contrastare l’offensiva nemica; pensò che i generali silurati e i suoi nemici stessero tramando a suo danno; decise di mostrarsi risoluto con Boselli, di minacciare le dimissioni e di chiedere eventualmente una commissione d’inchiesta. 82 Il comandante supremo scrisse a sua madre: «Il Boselli, che è debolissimo di carattere e perciò una banderuola, secondo il vento che tira, si è fatto l’eco di quelli che vogliono giuocarmi un tiro e ha detto a persona che conosco, che non ha fiducia in me. Viceversa, due giorni dopo, mi ha mandato a dire da Morrone e da Bissolati, che ne ha molta. Ti lascio giudicare!». 83 E infatti pochi giorni dopo ebbe luogo un incontro, nella zona di guerra, tra Boselli e lo stesso Cadorna: «Vidi Boselli a Feltre. Mi schiacciò di elogi fino alla nausea, fino a dirmi che dopo la vittoria finale mi avrebbe condotto lui stesso in Campidoglio! Risposi che aspiravo solo a finire bene la guerra e ad eclissarmi poi. Non ci mancherebbe altro che la parodia di Scipione e di Mario! Ma in Italia, pur di fare della rettorica, sono capaci di tutto! Lo ringraziai degli elogi e soggiunsi che mi rassicuravano perché non avendomi neppure mandato un telegramma quando avevo salvato il Paese dall’invasione, avevo ragione di credere che il governo non fosse soddisfatto dell’opera mia. Allora egli nicchiò, menò il can per l’aia, mi disse che voleva trovare una 268

formula per la Camera, ma non vi riuscì, e simili sciocchezze! Infine ci siamo lasciati in ottimi rapporti e vedremo se i fatti smentiranno le parole». 84 In realtà il comandante supremo doveva aver subito capito che il nuovo presidente del Consiglio gli avrebbe creato minori inquietudini di Salandra. Le inquietudini, tutt’al più, sarebbero state determinate dalle attività di qualche ministro, ma la nuova compagine governativa era nata così debole da non destare al riguardo soverchie preoccupazioni. Lo stesso ministro degli Interni, Orlando, dichiarava pieno di sconforto, poco dopo la formulazione del nuovo governo, che il comandante supremo continuava come sempre ad essere arbitro di ogni cosa, mentre i ministri restavano completamente all’oscuro di quelli che erano i suoi propositi. Anche per l’avvenire, dunque, i due poteri avrebbero continuato ad operare ognuno per proprio conto. 85 9. Nel nuovo governo Leonida Bissolati fu nominato ministro senza portafoglio ed ebbe ufficiosamente l’incarico di creare un collegamento tra lo stesso governo e il Comando supremo. Bissolati, in quei giorni, si presentava come l’uomo nuovo dell’interventismo, come il dirigente di grande autorità e prestigio che avrebbe dovuto incarnare le speranze degli italiani. Ma l’incarico che gli fu affidato costituì un difficile banco di prova, e Bissolati non resse a quella prova. Lo scontro tra Bissolati e Cadorna fu durissimo, e vedremo nelle pagine seguenti le diverse fasi di esso; ma diremo fin da ora che il generale dimostrò di essere ben più energico del suo avversario. Bissolati era stato il primo direttore dell’«Avanti!», dalla fondazione di quel giornale (1896) fino al 1904. Espulso dal Partito socialista nel 1912, aveva fondato il Partito socialistariformista insieme con Bonomi e Cabrini. Durante il periodo della 269

neutralità era divenuto uno dei più accesi fautori dell’intervento. Coerente con le sue idee e nonostante i suoi cinquantotto anni era partito volontario, con il grado di sergente degli alpini. Ferito sul Monte Nero nel luglio, aveva ottenuto una prima medaglia d’argento; nel maggio del ’16, sugli altipiani, ne aveva ricevuta una seconda. Nel giugno 1916 Bissolati fece ritorno in zona di guerra in veste, questa volta, di ministro. Era atteso al Comando supremo con una certa diffidenza. Già all’atto della costituzione del ministero, Luigi Albertini si era preoccupato di far notare al gen. Porro che «il solo pericolo» della situazione risiedeva proprio «in quella specie d’ispettorato» conferito al nuovo ministro. 86 Giunto in zona di guerra Bissolati parlò con il re, con Cadorna e con Porro della necessità di far luce sui recenti avvenimenti del Trentino. Cercò di convincere Cadorna che sarebbe stato suo interesse promuovere un’inchiesta al fine di controbattere le accuse rivolte dai generali esonerati contro il Comando supremo. In realtà, fin dal suo primo incontro con Cadorna, il ministro riuscì a suscitare la diffidenza del generale: «Egli comprese» ammise infatti Bissolati «che io non abbandonavo di vista il Trentino [cioè gli avvenimenti relativi alla strafexpedition] e intuì che io ammettevo l’ipotesi (se non più) di una sua responsabilità. […] Mi cominciò a riguardare come il peggiore dei nemici». 87 Il 7 agosto, due giorni prima di entrare a Gorizia, Cadorna inviò una lettera molto secca al presidente del Consiglio dichiarando, in pratica, ch’egli più non riconosceva a Bissolati la funzione di intermediario poiché, disse, «in linea di massima», le relazioni tra Roma e Udine dovevano essere tenute soltanto dal ministro della Guerra, «unico rappresentante legittimo del Comando supremo 270

in seno al Governo». Ma Cadorna spiegò che doveva essere limitata la facoltà di indagine e di critica di tutti i ministri (non soltanto di Bissolati) allorché essi «onoravano» di loro visite i comandi e le truppe dell’esercito mobilitato: anche la più serena critica, infatti, se attuata in momenti e modi non adatti poteva turbare la serenità dell’ambiente e produrre grave danno all’esercito e al Paese: «Perché questo danno sia evitato, perché le esigenze superiori della compagine disciplinare siano salve, perché io possa veramente sostenere senza turbamenti quella responsabilità che mi spetta, invoco senza ambagi dall’illuminato patriottismo dell’E.V. che le accennate forme di intromissione estranee alla gerarchia militare siano soppresse, come intrinsecamente dannose e come probabilissima causa di funesti attriti. Chiedo cioè all’alto senno dell’E.V. che abbiano a cessare tutte le missioni governative in zona di guerra con compiti non esattamente delineati e notificati, o con ampiezza di funzione non bene delimitata, o con caratteri non bene definiti, per modo che il campo d’azione direttiva nello svolgimento della guerra abbia ad essere nettamente ripartito fra il Comando supremo ed il ministero della Guerra, nei modi che l’E.V. ben conosce, e cioè riservando al ministero tutto quanto concerne la somministrazione dei mezzi e la preparazione organica dei quadri e delle unità, e lasciando al Comando supremo tutto quanto interessa l’impiego di tali mezzi di guerra. Questa esclusione di inframmettenze esteriori e questa netta delimitazione di funzioni fra i due organi

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preposti all’esercito rappresentano nel complesso il solo mezzo promettitore di ordine, saldezza ed armonia. E poiché a me risale la responsabilità di tutto l’andamento delle operazioni, io debbo esplicitamente dichiarare – concludeva il generale – che non so e non posso in alcun modo prescindere dall’applicazione di tali princìpi». 88 Cadorna si espresse, insomma, in termini rudi, tralasciando perfino i cordiali saluti o una formula qualunque di commiato. Ma Boselli gli rispose subito per dichiarare il suo totale ed incondizionato accordo; fu una risposta che confermò il debole atteggiamento del vecchio presidente. La minuta della lettera è quasi indecifrabile, scritta con calligrafia tremolante, confusa, tormentata, piena di cancellature. Cadorna approfittò di quella risposta per inviare immediatamente all’esercito l’ordine con il quale vietava a qualunque ministro di entrare in zona di guerra senza il preventivo assenso del Comando supremo; nello stesso tempo protestò con Boselli perché il ministro Bianchi si era permesso di ispezionare alcuni ospedali nella zona del basso Isonzo. 89 Cadorna doveva avere già da tempo l’impressione che Bissolati volesse «silurarlo» e ritenne ad un certo punto che il ministro avesse già pronto un successore alla carica di comandante supremo: il gen. Capello. Il 9 agosto gli italiani entrarono a Gorizia e il gen. Capello, comandante del VI corpo d’armata, ebbe una parte preminente nella conquista della città. La stampa esaltò Capello, chiamandolo artefice della vittoria, e la campagna giornalistica sembrò corrispondere ad una precisa orchestrazione. 90 Tommaso Gallarati Scotti, confermando anni più tardi che per Bissolati il condottiero ideale era Capello,

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aggiunse di saper bene, «per sicure testimonianze», quali fossero «i legami settari» (massonici) che univano i due uomini. 91 Cadorna ebbe notizia di queste vere o pretese macchinazioni e decise di colpire subito tanto Capello quanto Bissolati. Fin dai primi di settembre tolse a Capello il comando del VI corpo, spiegando poi alla Commissione di inchiesta come le ragioni del provvedimento non fossero state per nulla «tecniche»: «Il suo [di Capello] quartier generale dove affluivano deputati soprattutto socialisti, il che non mi piaceva affatto,» disse Cadorna alla Commissione di inchiesta «era diventato un covo di maldicenze contro di me, e allora lo sbalzai sull’altipiano di Asiago dove lo lasciai quattro mesi e dopo lo mandai a comandare il V corpo allo sbocco della Vallarsa e sul Pasubio». 92 Quanto a Bissolati, che già aveva colpito non riconoscendogli più le funzioni di intermediario e limitandogli la libertà di movimento in zona di guerra, decise di adottare nei suoi confronti misure ancor più drastiche e definitive: stabilì che non potesse più in alcun modo entrare in zona di guerra, neppure chiedendo permesso. 93 10. «Il Bissolati dominerà dove vuoi,» scrisse Cadorna alla figlia il 12 settembre «ma non qui. È vero che l’ha tentato, ma evidentemente non mi conosceva. Ha fatto dire sui giornali che era partito per la zona di guerra per lasciar credere ciò ai suoi accoliti, ma in realtà non osa venire. Telegrafai a Roma per sapere dove si trova; è irreperibile. Voglio semplicemente, quando lo sappia qui, telegrafare a Boselli per sapere se ha una missione e quale e per dirgli che non lo voglio. Mi mandino via se e quando vogliono, ma finché son qui comando io.» 94 Col passare dei 273

giorni, insomma, l’ira di Cadorna crebbe sempre di più, e di tale crescita possiamo anche indicare la ragione: lo «scandalo Douhet», nel quale il ministro Bissolati si trovò coinvolto. Il col. Giulio Douhet, che apparteneva allo stato maggiore del gen. Lequio, era un feroce critico di Cadorna. Scriveva lettere e memoriali a ministri e parlamentari cercando di spiegare come i metodi del Comando supremo fossero completamente errati. Era entrato in relazione con varie personalità politiche, ed anche con il ministro Bissolati al quale era stato presentato dall’on. De Felice. 95 Verso la fine dell’agosto 1916 fu presentato dall’on. Gortani all’on. Gaetano Mosca, recatosi in zona di guerra per far visita a un figlio soldato. Douhet affidò a Mosca la copia di un memoriale anticadorniano inviato a Bissolati e Sonnino. L’on. Mosca infilò il compromettente plico in una tasca del soprabito, salì in treno per tornare a Roma e pose il soprabito su una reticella dello scompartimento. Quando poi scese dal treno si accorse che il plico era sparito. 96 Smarrito? Rubato? Fu impossibile stabilirlo. Fatto sta che il plico raggiunse lo scrittoio del generale Cadorna, che identificò l’autore del memoriale, lo fece arrestare e lo denunciò al tribunale militare per propalazione di notizie false, violazione del segreto di ufficio, e diffusione di notizie denigratorie sul conto del Comando supremo. Il processo ebbe luogo in ottobre e – più che contro il Douhet – fu diretto contro un certo ambiente politico e soprattutto contro il ministro Bissolati (interrogato dal giudice istruttore, ma mai apparso durante il processo). Risultarono manifesti i rapporti avuti dal ministro con l’autore del memoriale; tuttavia, molti ambienti politici e militari ebbero interesse ad esagerarne l’importanza. Alcuni anticadorniani sperarono che un acuto dissidio tra Bissolati e Cadorna potesse condurre rapidamente alla destituzione di quest’ultimo. I cadorniani cercarono di

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distruggere la reputazione del ministro. Molti interventisti si sentirono traditi dal loro rappresentante. Fra i neutralisti nacque invece l’idea di liberarsi con un colpo solo sia di Cadorna, sia di Bissolati. «La montatura contro di me» scrisse in seguito quest’ultimo «fu allora enorme. […] Ci fu un momento in cui io ebbi addosso tutto l’interventismo, il cui idolo era Cadorna; tutto il neutralismo e il Comando supremo. Io dovevo essere schiacciato come un imbecille che con le sue leggerezze compromette il funzionamento dell’esercito.» 97 Il processo si concluse con la condanna di Douhet a un anno di reclusione. L’on. Gortani, «reo di aver portato il memoriale all’on. Bissolati», ebbe tre mesi di fortezza. 98 Secondo Bissolati l’accusa non era riuscita a provare alcuna «congiura». 99 Ma l’opinione di Cadorna fu alquanto diversa. «Il processo Douhet» scrisse il generale alla figlia «è finito con la condanna ad un anno di reclusione. È risultato che Bissolati l’aveva istigato. Il governo ha censurato qualsiasi pubblicità, anche della sentenza. Ma il mondo politico è al corrente e più lo diventerà, e Bissolati è completamente screditato. Egli mi fece annunziare che sarebbe venuto qui il giorno prima del processo, ma io telegrafai a Boselli che non lo avrei ricevuto.» 100 Pertanto Boselli decise di andare egli stesso ad Udine. Il vecchio presidente portò con sé una lettera che Bissolati gli aveva indirizzata, e che doveva in realtà servire a placare il comandante supremo. Bissolati dichiarava in essa di non aver mai voluto creare imbarazzi, ordire insidie, o fomentare l’indisciplina contro il Comando supremo: affermava anzi di non aver mai esitato ad esprimere tutta la fiducia in Cadorna nei momenti critici; concludeva, infine, con la speranza che ogni equivoco potesse essere appianato. 101 Boselli fece appello al patriottismo di Cadorna e gli spiegò che 275

se Bissolati non fosse stato più ricevuto al Comando supremo tutto il ministero sarebbe stato costretto a dimettersi, lasciando così aperta la strada del potere ai tanto temuti giolittianineutralisti. Cadorna ribadì dapprima il suo rifiuto, ma poi, grazie anche all’intervento del re, acconsentì a ricevere Bissolati dopo 15 giorni. 102 L’indomani Boselli telegrafò a Orlando e Bissolati per informarli sull’esito dei colloqui. Con Orlando fu alquanto laconico: «Scopo mia venuta qui pienamente conseguito. Saluti». A Bissolati fornì invece più precisi ragguagli: «Confermai, commentai efficacemente tua lettera rimovendo dalla tua azione rivolta all’alto intento della vittoria ogni ombra di propositi avversi alla persona e dai tuoi atti qualsiasi intenzione sovvertitrice della disciplina militare. Ripetei con quale animo elevato tu senti, operi per la Patria. Densa nube di maligne informazioni era nella mente del generale. Io le combattei con sufficiente successo. Riconosce che come ministro tu hai autorità di percorrere ogni parte della zona di guerra, di assistere ad ogni operazione bellica, di apprezzare l’andamento della guerra; ma ritiene non compatibile col buon esito della guerra stessa qualunque seme che si getti di indisciplina o di contrari giudizi fra i combattenti e i malcontenti. – Assicurai che tale non è la tua intenzione, tale non sarà mai l’opera di un ministro, di un soldato quale è Leonida Bissolati. – Dopo che già eravamo d’accordo condussi il generale da S.M., e il re disse di te con vive parole di stima e fiducia. Il generale subito mi dichiarò che egli non intese mai chiudere a un ministro la zona di guerra o impedire che egli liberamente la percorra. Ma come personalmente offeso egli riteneva di non poterne ricevere la visita già altre 276

volte da te stesso omessa. Non ritenni fosse riserva da accettarsi e si concluse che mentre tu puoi venire quando ti piaccia e in zona di guerra, egli però ti accoglierà come si conviene lasciando passare qualche tempo affinché non si suscitino commenti spiacevoli per ambe le parti a troppo breve distanza dalla sentenza e dai relativi incidenti». 103 In realtà Cadorna continuò a porre limiti severissimi alle attività di Bissolati in zona di guerra. Non soltanto ribadì il divieto di interporsi tra Comando supremo e comandi inferiori, ma proibì al ministro di «permanere» presso i comandi mobilitati, di far radunare le truppe e pronunciare discorsi avanti ad esse, di trattare argomenti riservati in conversazioni con gli ufficiali dell’esercito, di svolgere una qualsiasi «speciale missione» per conto del governo: Bissolati, insomma, avrebbe potuto effettuare in zona di guerra soltanto visite molto generiche. 104 Il ministro prese atto delle condizioni impostegli. 105 Ebbe anche timore di far visita al generale Cadorna, così come pure era stato autorizzato a fare. «Bissolati» scrisse difatti Cadorna il 15 novembre «è arrivato qui e mi mandò una carta con deferenti ossequi. Io la restituii con: contraccambio ed ossequio. Vorrebbe venire e non osa.» 106 Col tempo, tuttavia, Cadorna e Bissolati si riconciliarono e divennero addirittura grandi amici. Già nel dicembre, il comandante supremo ringraziò Bissolati per le prudenti e accondiscendenti dichiarazioni fatte alla Camera in merito al caso Douhet (Bissolati dichiarò fra l’altro di non avere poteri diversi da quelli di un qualunque altro ministro, così come 277

Cadorna aveva preteso). 107 Durante l’inverno, poi, il ravvicinamento tra i due uomini fu favorito dalla coincidenza di opinioni esistente su alcuni grandi problemi della guerra. Cadorna, infatti, riteneva che sul fronte franco-tedesco gli Alleati avessero scarse possibilità di sfondare, mentre sul fronte italoaustriaco, con mezzi maggiori di quelli dei quali l’esercito italiano disponeva, dovevano ritenersi possibili risultati ben altrimenti soddisfacenti. Secondo Cadorna, insomma, era giusto che Francia, Gran Bretagna e Italia concentrassero maggiori forze sul fronte dell’Isonzo per colpire il nemico più debole, l’Austria. Bissolati, che propugnava la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, si dichiarava assolutamente d’accordo con le idee di Cadorna e le difendeva contro il ministro degli Esteri Sonnino. 108 Frattanto Albertini ed altri con lui, anche fra gli ufficiali addetti al Comando supremo, si adoperavano in vari modi per riavvicinare Cadorna a Bissolati. 109 Ai primi di marzo 1917, a quanto pare, Cadorna era ancora diffidente verso Bissolati: ne apprezzava il coraggio ed il patriottismo, diceva che era l’unico uomo politico italiano il quale sentisse veramente la guerra, ma deplorava che egli si facesse spesso suggestionare e prestasse orecchio alle «piccole corti» che sparlavano del Comando supremo. 110 Durante quello stesso mese di marzo, però, Cadorna si fece accompagnare da Bissolati durante le ispezioni compiute nel Trentino. 111 E ai primi di aprile Rino Alessi poté trionfalmente comunicare al suo direttore che il ministro ed il comandante supremo erano tornati amici. 112 Tutte le notizie su questa seconda fase dei rapporti tra Bissolati e Cadorna fanno però ritenere più che fondata l’affermazione contenuta nel diario di Angelo Gatti: «Nella piena sottomissione di Bissolati a Cadorna è il segreto del rappacificamento». 113 Un 278

concetto molto simile fu espresso del resto dall’on. Soleri alla Camera, nel dicembre 1917: in principio Bissolati aveva esercitato un controllo vigile, e «perciò molesto al Comando»; poi il ministro era uscito «vinto e soggiogato» dal processo Douhet. Bissolati – secondo il Soleri – aveva perso ogni libertà d’azione ed era stato posto nella condizione di non più adempiere al suo ufficio, facendo venir meno ogni controllo. 114 Cadorna, insomma, aveva dimostrato ancora una volta di possedere un’energia ben diversa da quella della maggioranza dei politici del suo tempo: di essere, in altre parole, l’«uomo forte» della situazione. Ma essere «ostinati» bastava forse per dominare le forze della guerra, per intenderne i significati nuovi?

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Note 1

CAMERA 1919.←

2

Cfr. G. FERRERO , Il militarismo, Milano 1898, pp. 334 sgg.←

3

Cfr. G. VOLPE , L’Impresa di Tripoli, Firenze 1946, p. 84. Cfr. anche P. MALTESE , La terra promessa. La guerra italo-turca e la conquista della Libia, 1911-12, Milano 1968.←

4

Cfr. G. ROCHAT , L’esercito italiano nell’estate 1914, in «Nuova rivista storica», maggio-agosto 1961, pp. 303-05.←

5

Cfr. A. LABRIOLA , Storia di dieci anni (1899-1909), Milano 1910, pp. 98-103, e G. CAROCCI , Giolitti e l’età giolittiana, Torino 1961, p. 84.←

6

Cfr. E. DE BONO , Nell’esercito nostro prima della guerra, Milano 1931, p. 189. Cfr. inoltre G. DE ROSSI , La vita di un ufficiale italiano sino alla guerra, cit., p. 266.←

7

Cfr. F. MARAZZI , Splendori ed ombre della nostra guerra, Milano 1920, p. 10.←

8

Cfr. E. DE BONO , Nell’esercito nostro prima della guerra, cit., p. 199.←

9

A. SALANDRA , La neutralità italiana, Milano 1928, p. 333.←

10

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, Milano 1960, pp. 58 e 200 (conversazioni con Giolitti alla data del 9 maggio 1915 e del 13 novembre 1917). Cfr. inoltre F. DE CHAURAND , Come l’esercito italiano entrò in guerra, Milano 1929, p. 133.←

11

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 199-200,

DEI DEPUTATI,

Discussioni, seduta del 12 settembre

280

(conversazione con Giolitti alla data del 13 novembre 1917).← 12

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 22. Cfr. inoltre l’intervento di G. Righi in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale, Atti del convegno di Spoleto, cit., p. 241, nonché E. MILES , Il generale Luigi Cadorna, in «La Lettura», aprile 1915, pp. 303-10.←

13

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 151. Secondo l’opinione di Cadorna, se nel 1917 vi fosse stato in Italia un governo «forte» come quello di Mussolini, il disastro di Caporetto non avrebbe avuto luogo. Si veda infatti la lettera di Cadorna del 30 settembre 1926 diretta al gen. Krafft von Dellmensingen, pubblicata in «Rassegna italiana», gennaio 1928, e per la quale cfr. anche P. PIERI , La leggenda di Caporetto, in «Il Ponte», novembre 1951, p. 1443. Gli altri giudizi di Cadorna sulla società italiana sono stati tratti da L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 30, 33 e 36. Cfr. anche P. GORGOLINI , Cadorna, Mussolini ed il fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 27 gennaio 1929.←

14

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., pp. 90-92 (lettera del 9 marzo 1908); G. ROCHAT , L’esercito italiano nell’estate, 1914 cit., p. 308. Sui rapporti tra Comando e governo in Italia e fuori d’Italia cfr. in generale P. PIERI , Les relations entre gouvernement et commandement en Italie en 1917 (ma riguarda anche il periodo precedente) in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», gennaio-marzo 1968, pp. 133 e sgg.; G. PEDRONCINI , Les rapports du Gouvernement et du HautCommandement en France en 1917, ibid., pp. 122 sgg. Sui poteri dei capi di stato maggiore nei diversi eserciti belligeranti durante la Prima guerra mondiale cfr. G. RITTER , I militari e la 281

politica nella Germania moderna, Torino 1967.← 15

Appunto del gen. L. Cadorna datato 26 agosto 1914, in Archivio Cadorna, 6.12, pubblicato in G. ROCHAT , L’esercito italiano nell’estate 1914, cit., p. 331.←

16

I documenti conservati in LUCERA , Carte Salandra, C.2.79, n. 4 (Comando dell’esercito in guerra) farebbero ritenere che il governo cominciò ad esaminare la questione dei poteri del capo di stato maggiore soltanto nella primavera del 1915. I ministri continuarono tuttavia ad ignorare l’effettiva estensione di quei poteri, come dimostrò l’episodio del gennaio 1916 da noi riferito qui di seguito a p. 175.←

17

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 596 (alla data del 10 dicembre 1915).←

18

Ibid., p. 602 (alla data del 24 dicembre 1915).←

19

Ibid., p. 604 (alla data del 5 gennaio 1916).←

20

Ibid., pp. 620-21 (alla data del 26 gennaio 1916).←

21

Copia del memoriale è conservata in LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 19. Notizie sullo stesso memoriale in F. MARTINI , Diario, cit., pp. 624-27 (alla data del 6 gennaio 1916).←

22

Sulla proposta di soppressione delle licenze cfr. quanto abbiamo già detto a p. 103.←

23

Già nel Consiglio dei ministri del 10 novembre si era parlato di agire sul Carso. Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 567.←

24

Cfr. ibid., pp. 620-21 (alla data del 26 gennaio 1916).←

25

Ibid., p. 627.←

282

26

LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 25, lettera di Salandra a Vittorio Emanuele III, del 30 gennaio 1916. La lettera proseguiva indicando l’impossibilità di convocare il Consiglio supremo di difesa in tempo di guerra, ma pregando il re di indire ugualmente una riunione di generali e ministri.←

27

ACS, Carte Riccio, Diario, p. 451 (alla data del 10 febbraio 1916). Cfr. inoltre F. MARTINI , Diario cit., pp. 630-31 e 633 (alle date del 6 e 10 febbraio 1916).←

28

Cfr. L. CADORNA , Altre pagine sulla Grande guerra, cit., pp. 15152.←

29

Cfr. ACS, Carte Riccio, Diario, p. 447 (alla data del 7 febbraio 1916).←

30

Cfr. ACS, Carte Riccio, Diario, pp. 442-43 (alla data del 6 febbraio 1916).←

31

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 631 e 641 (alle date del 6 e 22 febbraio 1916).←

32

Sulla questione balcanica cfr. quanto già è stato detto alle pp. 71-72, nonché la nota 41 alle pp. 168-69.←

33

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 632 (alla data del 9 febbraio 1916) e p. 751 (alla data del 5 luglio 1916). Che Cadorna fosse consapevole di avere molti avversari è dimostrato dalla lettera alla moglie del 2 febbraio 1916, dove si legge fra l’altro: «Come vedi i miei nemici capitali non sono gli austriaci». L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 138. Cfr. infine L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 164.←

34

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, Firenze 1964, p. 190 (lettera del 2 febbraio 1916). Cadorna, ormai «ai ferri corti col 283

ministero», aveva presentato quel giorno le dimissioni, cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 137 (lettera del 2 febbraio 1916).← 35

Fin dall’inizio dell’anno Cadorna aveva cominciato a preoccuparsi dell’opinione pubblica e il gen. Porro aveva affidato a Ojetti un incarico di press agent del Comando supremo. Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 185 (lettera del 10 gennaio 1916).←

36

Ibid., p. 194 (lettera del 4 febbraio 1916).←

37

Ibid., p. 197 (lettera del 9 febbraio 1916).←

38

Ibid., p. 196 (lettera del 5 febbraio 1916).←

39

Ibid., p. 226.←

40

LUCERA , Carte Salandra C.2.81, parte terza. Gli articoli conservati da Salandra erano i seguenti: 1. L. BARZINI , Cadorna, in «Corriere della Sera», 22 febbraio 1916; 2. (Anonimo), La responsabilità della guerra, in «Il Secolo», 24 febbraio 1916; 3. N. FANCELLO , A Cadorna il comando, in «Il Popolo d’Italia», 24 febbraio 1916; 4. E. CO R R A D I N I , Luigi Cadorna, in «L’idea nazionale», 2 marzo 1916; 5. (Anonimo), A Cadorna, articolo pubblicato in «L’azione socialista» e ripubblicato dal «Popolo d’Italia» del 26 febbraio 1916; 6. (Anonimo), Il convegno dei repubblicani a Roma, in «Il Secolo», 28 febbraio 1916.←

41

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 159 sgg. e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 163. Sulle responsabilità delle operazioni in Albania cfr. ACS, Carte Riccio, Diario, p. 487 (alla data del 24 febbraio 1916). Gli attriti tra Cadorna e Zupelli non erano affatto di data recente, perché già nel luglio 1915 i due uomini erano apparsi «ai ferri corti», e 284

nell’ottobre il ministro aveva rassegnato le dimissioni. (Cfr. ACS, Carte Riccio, Diario, p. 140 alla data del 15 luglio 1915.) Ma se in un primo tempo gli attriti erano nati soprattutto per questioni di bilancio (Zupelli era infatti costretto a lesinare sugli uomini e sui mezzi dovendo tener conto dei fondi concessi dal Tesoro), successivamente Cadorna si era indispettito anche per le «interferenze» del ministro in tema di direzione delle operazioni militari. Come già dicemmo a p. 71, Cadorna si era opposto ad una spedizione in Albania, ma era poi addivenuto ad un compromesso con il governo: la spedizione sarebbe stata compiuta soltanto da un contingente limitato di truppe, e il fronte veneto sarebbe rimasto in ogni caso il fronte principale. In conformità con tale principio, il 20 novembre 1915, Cadorna aveva già inviato le sue direttive al gen. Bertotti (comandante delle forze di occupazione in Albania) ritenendo che questo fosse alle sue dirette dipendenze per tutto quanto riguardava la parte militare dell’occupazione. Sennonché il 5 dicembre successivo Cadorna si vide recapitare un decreto luogotenenziale che poneva il corpo di spedizione in Albania alle esclusive dipendenze del ministro della Guerra. Cadorna telegrafò immediatamente al Bertotti per ritirare le direttive del 20 novembre ma, come si può ben immaginare, rimase profondamente contrariato dall’accaduto, sia per l’offesa recata al suo prestigio sia per il giustificato timore che la spedizione albanese, sfuggita al suo controllo, potesse assorbire sempre maggiori forze, sottraendole ai fronti, trentino ed isontino. Non staremo qui a narrare i particolari della vicenda, ampiamente descritta dallo stesso Cadorna nelle sue memorie. (Cfr. in particolare L. CADORNA , Altre pagine sulla Grande guerra, cit., pp. 101 sgg.) Basti qui dire che le previsioni 285

pessimistiche del generale si avverarono. Cadorna aveva messo in guardia il governo dall’estendere l’occupazione all’interno del territorio albanese, ma invano. Il 25-26 febbraio le truppe italiane furono costrette ad abbandonare Durazzo e rischiarono di essere catturate. Il governo posto di fronte all’insuccesso rinunziò alla direzione dell’operazione e il 28 febbraio emanò un decreto che restaurava nelle mani di Cadorna l’unità di comando dell’intero esercito, estendendolo anche alle forze operanti in Albania. Cadorna fu convinto, ancor più di prima, del danno che l’intervento dei politici arrecava alle operazioni militari.← 42

LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 31, lettera di Salandra a Vittorio Emanuele III, del 29 febbraio 1916.←

43

Ibid., n. 33, telegramma di Salandra a Cadorna, del 29 febbraio 1916.←

44

Ibid., n. 35, telegramma di Vittorio Emanuele III a Cadorna, in data 1° marzo 1916←

45

Ibid., n. 34bis, lettera di Salandra a Vittorio Emanuele III, in data 1° marzo 1916.←

46

Ibid., n. 43, telegramma di Salandra al re del 9 marzo 1916. Sull’argomento cfr. inoltre Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 12; L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 161; S. BARZILAI , Luci ed ombre del passato, Memorie di vita politica, Milano 1937, p. 177.←

47

LUCERA , Carte Salandra, C.2.81, n. 46, telegramma del re a Salandra in data 10 marzo 1916.←

48

ACS, Carte Riccio, Diario, p. 573 (alla data del 18 aprile 1916).← 286

49

Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 204.←

50

ACS, Carte Riccio, Diario, p. 597.←

51

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 695-96.←

52

53

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 89 (alla data del 21 maggio 1916).← F. MARTINI , Diario, cit., p. 702.←

54

Che tale fosse anche la convinzione di Cadorna emerse da un colloquio con Martini del 6 gennaio 1916. Cfr. Ibid., p. 605.←

55

Cfr. ibid., pp. 702-04. La decisione del Consiglio dei ministri fu telegrafata lo stesso giorno a Cadorna da Salandra. Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 227-28.←

56

Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 22829.←

57

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 705-06 (alla data del 25 maggio 1916).←

58

S. BARZILAI , Luci ed ombre del passato, cit., p. 169.←

59

Cfr. Ibid., p. 169 e F. MARTINI , Diario, cit., pp. 709-10 (alla data del 29 maggio 1916)←

60

F. MARTINI , Diario, cit., p. 710 (alla data del 30 maggio 1916). Cfr. inoltre A. GATTI , Caporetto, cit., p. 160.←

61

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 714-15 (alla data del 3 giugno 1916). Il Martini soggiunse anche che l’ambasciatore Barrère fece sapere confidenzialmente che le potenze alleate non avrebbero gradito la sostituzione di Cadorna.←

287

62

Cfr. S. BARZILAI , Luci ed ombre del passato, cit., p. 170.←

63

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 714-15 (alla data del 3 giugno 1916). Su tutta la vicenda cfr. anche L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., pp. 226 sgg. e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 222.←

64

Cfr. quanto già detto alle pp. 8-9, nonché gli appunti sulla crisi ministeriale del giugno 1916 in A. SALANDRA , Memorie politiche, 1916-1925, Milano 1951, pp. 1-11.←

65

F. MARTINI , Diario, cit., p. 650 (alla data dell’8 marzo 1916).←

66

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 168.←

67

V. DE CAPRARIIS , Partiti politici ed opinione pubblica durante la Grande guerra, in Atti del XLI congresso di Storia del Risorgimento italiano, cit., p. 127.←

68

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 718. Sulla impopolarità crescente di Cadorna cfr. anche ibid., p. 706 (alla data del 27 maggio 1916).←

69

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 167.←

70

Cfr. ibid., p. 238.←

71

CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 7 dicembre 1916, pp. 11336 sgg. (discorso dell’on. De Felice)←

72

F. MARTINI , Diario, cit., p. 720. Cfr. anche ibid., pp. 721 e 726 (alle date del 9 e 13 giugno 1916). Anche i deputati interventisti Canepa e Pirolini invocavano un controllo parlamentare permanente sulla guerra, cfr. CAMERA DEI 288

DEPUTATI ,

Discussioni, sedute del 6 giugno 1916 (interpellanza Canepa), 7 giugno (mozione Modigliani), 8 giugno (mozione Dello Sbarba e discorsi degli onorevoli Chiesa, Bissolati e Salandra), 10 giugno (discorso Pirolini). Anche il nuovo presidente del Consiglio, Boselli, fu contrario al controllo parlamentare; si veda infatti il suo discorso nella seduta del 1° luglio 1916. La richiesta di un controllo parlamentare, tuttavia, non fu originata soltanto dal «panico», ma anche dalle ripercussioni suscitate a Montecitorio dalle decisioni che la Camera francese aveva adottate in materia. Sull’argomento cfr. in particolare le opere di A. FERRY , La guerre vue d’en bas et d’en haut, Paris 1920 e Carnets secrets, Paris 1957. Il Ferry fu membro della commissione parlamentare per l’esercito. Sugli inconvenienti dovuti alle interferenze dei parlamentari francesi nelle questioni militari cfr. G. RITTER , I militari e la politica nella Germania moderna, cit., pp. 376-77 e 380.← 73 74

Cfr. pp. 22 sgg.← Cfr. C. BATTISTI , Epistolario, cit., vol. II, p. 163 (lettera del 16 settembre 1915), nonché U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 116-17 (lettera del 20 ottobre 1915). Un elenco dei deputati alle armi e varie altre notizie in R. GALLENGA , Il parlamento al fronte, in «La Lettura», giugno 1917, pp. 468-73. Sui deputati appartenenti all’esercito mobilitato cfr. R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, Milano 1958, pp. 288-89, nonché la circolare 25 settembre 1916, n. 24822 del Comando supremo, e la lettera del gen. Morrone al presidente Boselli (senza data, ma dei primi di ottobre), in ACS, Presidenza, b. 19.4.2 (88). Cadorna emanò nel settembre 1916 norme tassative affinché i deputati alle armi fossero in ogni caso allontanati dai comandi ed inviati ai reparti di truppa. Il gen. Morrone ottenne che fosse apportato 289

qualche temperamento a quelle rigide norme.← 75

ACS, Carte Riccio, Diario, p. 116.←

76

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 119 (lettera del 14 agosto 1915).←

77

F. MARTINI , Diario, cit., p. 744 (alla data del 28 giugno 1916)←

78

F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., pp. 488-89.←

79

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 245. Cfr. anche V.E. ORLANDO , Memorie, a cura di R. Mosca, Milano 1960, pp. 56-57 e A. VALORI , La condotta politica della guerra, cit., p. 176.←

80

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 248-49; Inchiesta Caporetto, cit., pp. 10-11.←

81

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 249.←

82

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 158 (lettera dell’11 luglio 1916).←

83

Ibid., p. 159 (lettera del 19 luglio 1916).←

84

Ibid., pp. 160-61 (lettera del 4 agosto 1916).←

85

F. MARTINI , Diario, cit., p. 757 (alla data del 21 luglio 1916).←

86

L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926 cit., pp. 610-11 (lettera di Albertini a Porro del 20 giugno 1916).←

87

Da un appunto di Bissolati citato in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., p. 288.←

88

ACS, Presidenza, B. 19.4.1 (lettera del gen. Cadorna al 290

presidente Boselli del 7 agosto 1916 prot. n. 2663).← 89

Cfr. ibid., circolare del Comando supremo dell’11 agosto 1916, n. 2681, e lettera di Cadorna a Boselli dello stesso giorno, n. 2684.←

90

Cfr. la prefazione di R. De Felice a L. CAPELLO , Caporetto perché?, Milano 1967, pp. XXI e XXIII. Anche Caviglia accenna ad un’intesa politica tra Bissolati, Pontremoli e Norsa per sostituire Cadorna e Porro con Capello e Badoglio. Cfr. E. CAVIGLIA , Diario, Roma 1952, p. 38. In quei giorni il gen. Capello telegrafò al sindaco socialista di Bologna, Zanardi, dicendogli che il VI corpo aveva scacciato gli austriaci da Gorizia per commemorare l’8 agosto bolognese. Cfr. N.S. ONOFRI , La Grande guerra nella città rossa, cit., p. 196.←

91

T. GALL AR ATI SCOTTI , Idee e orientamenti politici e religiosi nel Comando supremo: appunti e ricordi, in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale, cit., p. 512. Sulle esitazioni del governo in merito ad una sostituzione di Cadorna cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 371 e G. DOUHET , Diario critico di guerra, 2 voll., Torino 1922, vol. II, pp. 328-33 (lettera dell’on. De Felice all’on. Gortani in data 28 luglio 1916).←

92

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 288. Tuttavia nella primavera del 1917 Cadorna, apprezzando le qualità di Capello, richiamò questo generale sul fronte dell’Isonzo affidandogli il comando dapprima della «zona di Gorizia», e poi della II armata.←

93

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 165 (lettera del 21 agosto). Cadorna scrisse: «Bissolati ha detto con Della Noce, mio dipendente, che se io avessi lasciato mano libera al Duca d’Aosta saremmo entrati in Gorizia un anno prima! È 291

impossibile che non sappia ciò che tutti sanno che cioè se non siamo entrati è perché non avevamo i mezzi per entrarvi. Dunque più che ignoranza è malafede la sua. Scrivo a Boselli che non lo voglio più nella zona di guerra».← 94

Ibid., p. 169.←

95

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 7 dicembre 1916, p. 11346 e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 370.←

96

Sulla vicenda cfr. il lungo racconto fatto dal Mosca a Martini in F. MARTINI , Diario, cit., pp. 815-17 (alla data del 5 dicembre 1916) nonché le dichiarazioni del Mosca alla Camera dei deputati nella seduta del 7 dicembre 1916, CAMERA DEI DEPUTATI , Discussioni, p. 11345.←

97

Lettera di Bissolati a Cipriano Facchinetti in data 30 giugno 1919, citata in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., p. 292.←

98

Così dichiarò l’on. De Felice, nella seduta del 7 dicembre 1916, cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, p. 11344.←

99

Cfr. la lettera di Bissolati a C. Facchinetti cit. alla nota 97. Sulla carriera di Douhet nel dopoguerra cfr. G. ROCHAT , L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, 1919-1925, Bari 1967, ad indicem. Cfr. anche L. CADORNA , Pagine polemiche, p. 155 nota 1.←

100

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., pp. 172-73 (lettera del 18 ottobre 1916). Nel seguito della lettera Cadorna protestò contro la guerra fattagli da deputati e ministri. Sulla vicenda cfr. anche L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926, cit., pp. 650-51 (lettera di U. Ojetti ad Albertini del 16 ottobre 1916).← 292

101

Lettera di Bissolati a Boselli in data 18 ottobre 1916 citata in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., pp. 289-90.←

102

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 174 (lettera del 20 ottobre 1916).←

103

ACS, Carte Orlando, b. 2, fascicolo «Bissolati», copia del telegramma di Boselli a Bissolati datato Udine 20 ottobre 1916. Bissolati ringraziò il re per aver interceduto in suo favore, cfr. il biglietto di Bissolati al re, pubblicato in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., p. 290.←

104

Cfr. la lettera di Cadorna a Bissolati in data 4 novembre 1916 pubblicata in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., pp. 29091.←

105

Cfr. la risposta di Bissolati a Cadorna del 5 novembre 1916, ibid., p. 291.←

106 107

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 177.←

Cfr. CAMERA DEI 1916, p. 11346.←

DEPUTATI,

Discussioni, seduta del 7 dicembre

108

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 397.←

109

Ibid., p. 374. Cfr. anche L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926, cit., pp. 669-70 (lettera di U. Ojetti ad Albertini del 22 dicembre 1916) e pp. 1040-41 (lettera di Bissolati ad Ojetti del 14 dicembre 1916).←

110

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 41-42 (lettera del 3 marzo 1917).←

111

Cfr. ibid., p. 48 (lettera del 20 marzo 1917).← 293

112

Cfr. ibid., p. 52 (lettera del 13 aprile 1917).←

113

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 60 (alla data del 31 maggio 1917).←

114

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra (giugno-dicembre 1917), Roma 1967, p. 185, seduta del 17 dicembre 1917.←

294

IV

Soldati e ufficiali nella guerra «cronica»

1. Conseguenze della strafexpedition – 2. Decimazioni alla brigata Salerno e fra le truppe del Carso – 3. Insufficienze dei quadri militari – 4. Ufficiali di carriera e ufficiali di complemento – 5. La vittoria di Gorizia e le offensive autunnali – 6. Gli autolesionisti – 7. Le distrazioni dei soldati – 8. I sentimenti degli italiani verso gli avversari – 9. Le circolari sulla propaganda contraria alla guerra – 10. Diverse interpretazioni del «non aderire e non sabotare» – 11. Il «pericolo» socialista 1. Durante l’offensiva del Trentino, iniziata il 15 maggio 1916, gli austriaci penetrarono oltre le linee italiane per una profondità massima di circa venti chilometri, e minacciarono da tergo il fronte dell’Isonzo. L’emozione, sia nell’esercito, sia nel Paese, fu enorme, e già vedemmo – nel capitolo precedente – da quale angoscia furono colti i ministri, allorché appresero che il comandante supremo non escludeva di ritirarsi al Piave. 1 Gli austriaci furono però fermati ben lontano dal Piave e dovettero restituire agli italiani parte del territorio conquistato. L’esercito italiano si oppose validamente all’offensiva nemica e, nel corso dei sanguinosi combattimenti avvenuti tra maggio e giugno, 295

perse circa 113.000 uomini tra morti e feriti (su una forza media di circa 1.500.000 uomini). 2 Le truppe dimostrarono di combattere con valore e parve a molti che le condizioni morali di esse fossero notevolmente migliorate rispetto al critico inverno 1915-16. 3 Tuttavia, come spesso accadde nel corso della Grande guerra, anche durante la strafexpedition lo stato d’animo delle truppe variò considerevolmente a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, per cause a volte del tutto indecifrabili e irrazionali. Accanto alle gesta coraggiose ed audaci di tanti reparti, si dovettero rilevare casi di defezione e di indisciplina. Ci occuperemo in queste pagine di questi ultimi casi non perché essi fossero numericamente rilevanti, ma perché produssero a quel tempo grande impressione ed ebbero conseguenze notevolissime nel governo delle truppe. Il ministro della Guerra, gen. Morrone, tornato il 29 maggio dal fronte, riferì al Consiglio dei ministri le notizie fornitegli da Cadorna: le ali dello schieramento italiano si erano mantenute abbastanza salde, ma al centro le truppe avevano mollato poiché, non essendoci mai state nel corso della guerra grosse azioni da quel lato del fronte, le truppe si erano come «incarognite» per la lunga inattività. 4 «Un generale» riferì sempre Morrone «stese a terra freddandoli 8 soldati che fuggivano. E ordini sono dati di freddare, di fucilare d’ora in poi chiunque molli.» 5 In effetti alcuni gravi incidenti cominciarono a verificarsi già dai primissimi giorni dell’offensiva austriaca. Nella zona di Monte Maggio, per esempio, alcuni battaglioni della 35 a divisione ripiegarono fin dalle prime ore, ebbero serie difficoltà a mantenere i collegamenti con i comandi e, nella confusione del momento, non furono vettovagliati per tre giorni. Il gen. Petitti, proponendo il «siluramento» dell’ufficiale che comandava la 296

divisione, riferì che nel primo pomeriggio del terzo giorno di battaglia «una vera ondata di fuggenti» si era diretta lungo la strada di Val Cucca verso la sella di Porto di Toraro, ed egli aveva dovuto «farla arrestare dal fuoco di un drappello di carabinieri, affrontandola poi in persona onde farla sostare». 6 Il 21 maggio le difese sull’altopiano di Asiago furono sopraffatte. Lo sfondamento delle linee italiane ebbe cause essenzialmente militari, ma alcuni reparti furono colti dal panico, e fra i comandi si diffuse l’opinione che il rapido cedimento del fronte dipendesse dallo scarso valore delle truppe. 7 Cadorna dichiarò che alcuni reparti avevano abbandonato posizioni di capitale importanza senza nemmeno tentare di difenderle: «Il panico» scrisse «minacciava di propagarsi alle truppe sopravvenienti, nel qual caso sarebbe andato perduto tutto l’altopiano, con conseguenze di gravissima portata strategica». 8 Recatosi presso il comando delle truppe dell’altopiano, il comandante supremo gridò in presenza dei piantoni che bisognava fucilare «senza processo» e che egli se ne assumeva la responsabilità. 9 Il giorno 26 Cadorna lo ripeté in una lettera ufficiale che, a cura del Comando supremo, fu stampata e distribuita a tutti i comandi. 10 «L’E.V.» scrisse Cadorna a Lequio in quella lettera «prenda le più energiche ed estreme 11 misure: faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali a qualunque grado appartengano. Faccia appello altresì ai sentimenti di patriottismo e di onor militare delle truppe e dica loro che sull’altopiano di Asiago si salvano l’Italia e l’onore dell’esercito. L’altipiano di Asiago, forte per buonissime posizioni

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già organizzate a difesa, va mantenuto a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto.» Le esecuzioni sommarie ordinate da Cadorna ebbero immediatamente inizio. Il 28 maggio, infatti, un sottotenente, tre sergenti ed otto uomini di truppa appartenenti al 141° reggimento fanteria messo in fuga dagli austriaci, furono passati per le armi per ordine del comando di reggimento. Fu il primo caso di decimazione avvenuto nell’esercito italiano, e il gen. Cadorna, in un ordine del giorno dell’esercito, volle solennemente encomiare il colonnello comandante del 141° reggimento che si era assunta la responsabilità del provvedimento. Il col. Douhet constatò con indignazione nel suo diario che era quello il primo encomio solenne elargito da Cadorna ad un ufficiale dell’esercito da quando la guerra aveva avuto inizio: «Possibile»si chiese Douhet «che in un anno di guerra, e di guerra così sanguinosa, nessuna azione di più puro valore morale si sia verificata?». 12 I provvedimenti repressivi continuarono nei giorni seguenti e l’11 giugno il comandante del XIV corpo d’armata fu destituito con una motivazione significativa. Vi si lesse infatti che qualche giorno prima taluni reparti del XIV corpo «erano andati a rifascio in brevissimo tempo senza combattere», e che il loro comandante era destituito poiché non aveva sentito «il dovere di intervenire per l’adozione di mezzi subitanei di repressione», limitandosi «a deferire al tribunale di guerra alcuni ufficiali». 13 Si ribadiva pertanto l’ordine di fucilare sul posto sia i soldati sia gli ufficiali, evitando di riversare la responsabilità dei provvedimenti repressivi sui tribunali, notoriamente troppo restii a pronunciare condanne a morte. 14 2. Ai primi di luglio i fanti appartenenti all’89° reggimento 298

della brigata Salerno – combattente anch’essa nel Trentino – furono non soltanto decimati, ma bombardati con le artiglierie e mitragliati mentre si trovavano nella terra di nessuno, per ordine dei loro stessi comandi. L’allucinante episodio può essere ricostruito grazie a uno scambio di corrispondenze sull’argomento che ebbe luogo nell’ottobre-novembre 1916 tra l’on. Canepa, il ministro Bissolati, il gen. Vanzo (che scrisse a nome del duca d’Aosta), il presidente Boselli e il gen. Cadorna. 15 La brigata Salerno, composta dai reggimenti 89° e 90° fanteria, aveva trascorso i primi dieci mesi di guerra nella zona del Monte Nero-Merzly, uno dei settori più disagiati del fronte. Nella primavera del 1916 era stata trasferita nel più tranquillo settore trentino perché vi trascorresse un periodo di «riposo», ma era stata disgraziatamente sorpresa dalla strafexpedition ed i reparti, già stanchi e logorati, avevano dovuto partecipare ai combattimenti subendo una nuova ed assai sanguinosa prova. «Nei primi di luglio» scrisse l’on. Canepa «avvenne un fatto dolorosissimo. Dopo un combattimento, alcuni feriti dell’89° erano rimasti giacenti in località da cui non potevano tornare a noi perché sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Stettero due giorni e due notti sul terreno: finalmente, esangui, in uno stato psichico che può facilmente immaginarsi, si trascinarono verso il nemico arrendendosi prigionieri». 16 L’on. Canepa evitò di fornire altri particolari, ma sia la narrazione di un anonimo soldato, conservata nel carteggio citato, sia la lettera che il gen. Cadorna scrisse al presidente del Consiglio intorno a quell’episodio, confermarono che le truppe rimaste nella terra di nessuno erano venute a trovarsi in una situazione ben più drammatica. L’anonimo soldato ammise che 299

circa 250 uomini (una compagnia) erano rimasti isolati e senza soccorso fra le opposte trincee ed avevano tentato in parte di passare al nemico. In effetti dalla lettera dell’anonimo soldato sembra che per alcuni di quei militari si potesse configurare il reato di diserzione, ma per alcuni soltanto. Testimoni interrogati dalla Commissione di inchiesta per Caporetto dichiararono più tardi che proprio dalle linee italiane era stato consigliati ai feriti rimasti chiusi nella terra di nessuno di consegnarsi prigionieri agli austriaci. 17 Probabilmente non tutti erano feriti, anche se coloro che erano rimasti illesi dovevano essere duramente provati dalla mancanza di cibo e di acqua. Forse una parte dei soldati avrebbero potuto, sia pure a prezzo di grave rischio, far ritorno alle linee italiane. Quel che è certo è che i comandi superiori considerarono loro dovere ordinare alle artiglierie ed alle mitragliatrici di far fuoco contro chi stava per darsi prigioniero. Due giorni dopo, il comando del corpo d’armata ordinò la decimazione tra i militari dell’89° reggimento: tra coloro che avevano dato il consiglio di arrendersi o tra coloro i quali, dopo essersi trovati nella terra di nessuno, avevano poi fatto ritorno? La cosa non è chiara. È però incontestabile che soltanto uno degli otto militari condannati a morte fu dichiarato «reo». Tre dei condannati apparvero semplicemente «indiziati» e quattro furono estratti a sorte. Nondimeno, il gen. Cadorna si dichiarò convinto che la giustizia non avesse colpito ciecamente. «Il giorno 1° dello scorso mese di luglio» scrisse infatti Cadorna «in tre successive riprese, nuclei sempre più numerosi, appartenenti tutti al III battaglione dell’89° reggimento fanteria, passavano vilmente al nemico: su di essi si dirigeva, implacabile giustiziere, il fuoco delle nostre artiglierie e delle nostre mitragliatrici. Il doloroso episodio veniva divulgato dal bollettino 300

austriaco che, aggiungendo all’infamia il dileggio, scriveva: “Nella regione del M. Interrotto il tenente Kaiser con una pattuglia di sei soldati del 26° reggimento landwehr, ritornando da una riuscita spedizione contro mitragliatrici nemiche, riportò prigionieri 266 uomini di cui 4 ufficiali”. Il successivo giorno 2, in seguito al rinnovarsi nel medesimo terzo battaglione di tentativi di diserzione in massa, accompagnati da ripetute segnalazioni di resa al nemico, delineavasi una situazione di tale gravità da indurre il comandante della divisione a riferirne al comandante del corpo d’armata invocando immediati severissimi provvedimenti, fra questi la sostituzione della brigata che – anche in considerazione dei suoi precedenti non sempre onorevoli – non poteva essere conservata al posto di combattimento senza compromettere la stessa difesa dell’intero fronte affidato alla divisione. “È assolutamente indispensabile” scriveva “sostituire la brigata Salerno, sul contegno della quale declino ogni responsabilità.” Il comandante del corpo d’armata, espletata una rapida inchiesta, mentre disponeva per l’allontanamento dalla 1 a linea della brigata, decretava provvedimenti di estremo rigore, quali ineluttabilmente erano imposti dalla necessità di prontamente ristabilire l’imperio della disciplina in un reparto che, di fronte al nemico, aveva dato così gravi ed accertati sintomi di criminalità collettiva. Egli ordinava infatti – come gliene dava facoltà la nostra regolamentazione di guerra – che otto militari

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(due per ciascuna compagnia del battaglione infamato), scelti come i più gravemente indiziati del reato di tentata diserzione e resa, fossero con procedimento sommario passati per le armi. Degli otto condannati a morte uno fu dichiarato reo, tre indiziati e quattro sorteggiati nelle due compagnie nelle quali il reato aveva avuto manifestazioni collettive così gravi da escludere singole designazioni: talché si può affermare con certezza che la sorte non colpì ciecamente, ma contenne e guidò la giustizia nella sua esemplare e sicura azione punitiva. La sentenza fu eseguita davanti all’intera brigata schierata in armi, e già all’indomani notavansi nel contegno delle truppe i salutari effetti dell’inesorabile castigo. L’operato del comandante del corpo d’armata, che in 18 mesi di guerra, alcuni dei quali trascorsi in situazioni di estrema gravità, ha sempre dimostrato una nobile e adamantina tempra di soldato, ha incontrato la mia incondizionata approvazione, conscio come sono della necessità di una ferrea disciplina di guerra e dell’indeclinabile obbligo che a tutti incombe di mantenerla ad ogni costo e con ogni mezzo.» 18 Nel seguito della lettera Cadorna spiegò che in circostanze eccezionali dovevano essere applicate misure eccezionali, anche se non sancite dalla legge. I comandanti dovevano essere messi in condizione di reprimere fulmineamente l’indisciplina delle truppe, senza vincoli procedurali, anche perché i tribunali militari – obbligati al rispetto delle procedure – erano «affetti dallo stesso morboso sentimentalismo» che dominava il Paese, e si decidevano raramente a pronunziare sentenze capitali. 302

I fatti qui esposti erano riferiti dallo stesso Cadorna in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio ed erano perfettamente noti anche al ministro Bissolati, al duca d’Aosta nonché – come disse Canepa in parlamento – al sovrano. 19 Il comandante supremo agiva dunque senza ricorrere a sotterfugi e riceveva dal silenzio delle altre autorità una implicita autorizzazione a proseguire secondo i suoi intendimenti. Nel luglio 1917 il ministro Bissolati ebbe un colloquio con Cadorna a proposito delle decimazioni, e ritenne di aver riportato un gran successo per aver convinto il generale a far fucilare soltanto «i più indiziati». Prima di allora, infatti, l’estrazione a sorte dei condannati a morte era compiuta con criteri molto ampi (era sufficiente appartenente a un reparto in cui soltanto alcuni soldati avessero commesso un gesto di indisciplina collettiva per correre il rischio di essere estratti a sorte al momento della decimazione). Ma il ministro Bissolati non si rese conto, probabilmente, che anche in futuro un indizio sarebbe sempre rimasto un indizio, vale a dire una presunzione e non una dimostrazione di colpa. 20 Il gen. Cadorna affermò che la decimazione fu applicata in tutti gli eserciti che parteciparono alla Grande guerra. 21 Fu un’affermazione ardita, non risultandoci infatti che quella drastica misura sia mai stata ordinata, per esempio, nell’esercito francese. Ci risulta anzi che in quell’esercito furono stabilite precise garanzie in favore dei condannati, e che una disposizione del gennaio 1915 vietò addirittura all’autorità militare di eseguire sentenze capitali senza che il presidente della repubblica facesse conoscere la sua decisione in merito. 22 In Italia viceversa non soltanto accadde che il sovrano e l’autorità politica furono completamente esclusi dalle procedure penali militari, ma perfino il gen. Cadorna autorizzò i comandi inferiori a decretare 303

le decimazioni senza udire il parere del Comando supremo. Il generale aveva sempre incitato i suoi subordinati a punire con severità e in modo fulmineo, e mai aveva richiesto il rispetto di alcuna formalità. Solamente dopo che le fucilazioni erano state eseguite, ad esempio, egli ebbe notizia delle decimazioni ordinate nella III armata il 31 ottobre 1916, e se ne compiacque. Il 30 ottobre, infatti, gravi atti di insubordinazione avevano avuto luogo tra i fanti del 75° reggimento, ed alcune pietre erano state lanciate contro il comandante. Due soldati, estratti a sorte tra i più sospetti, erano stati fucilati il giorno seguente. Altri gravi fatti «analoghi», accaduti il 31 ottobre presso il 6° reggimento bersaglieri, si erano rapidamente conclusi con la fucilazione di sei militari. Il 1° novembre il duca d’Aosta si recò da Cadorna per comunicargli che le fucilazioni erano state eseguite «seduta stante e senza processo». 23 Quello stesso giorno Cadorna inviò una circolare telegrafica a tutti i comandi d’armata nella quale espresse «ampia e incondizionata lode» nei confronti del gen. Cigliana, comandante dell’XI corpo, che aveva ordinato quelle decimazioni, e lo additò come esempio da imitare. Il comandante supremo ricordò che non esisteva «altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli». Se l’accertamento delle responsabilità personali non fosse stato possibile, sarebbe pur sempre restato ai comandanti «il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte». Secondo Cadorna nessuno, che fosse conscio della necessità di una ferrea disciplina di guerra, poteva sottrarsi a un tale dovere, ed egli stesso ne faceva «obbligo assoluto e indeclinabile a tutti i comandanti». 24 L’indirizzo imposto da Cadorna alla giustizia militare nasceva da molteplici ragioni, alcune delle quali sono state già prese in

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considerazione nelle pagine precedenti. Il carattere fortemente autoritario del generalissimo, i canoni di comportamento da lui costantemente rispettati nei lunghi anni della carriera militare, il dispregio nel quale egli teneva il mondo politico italiano costituivano altrettante ragioni della preferenza accordata all’opera repressiva della giustizia, rispetto all’opera persuasiva della propaganda. Ma un’altra importante ragione era costituita dallo scetticismo con il quale egli guardava agli uomini irreggimentati nell’esercito da lui comandato, ed in tutti gli eserciti moderni. Riteneva infatti che questi eserciti fossero «un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi», che un comandante non aveva il tempo di rieducare. 25 I giudizi negativi del comandante supremo coinvolgevano anche coloro i quali avrebbero dovuto essere i naturali educatori di quelle masse, vale a dire gli ufficiali. Infatti: «Come sarebbe stato possibile sottoporre ad una cultura intensiva di educazione militare le enormi masse ineducate che provenivano dal Paese? E con quali educatori, poiché molti dei migliori ufficiali caddero nei primi mesi della guerra, e si dovettero improvvisare ufficiali a diecine di migliaia in breve tempo, e perciò necessariamente inesperti? In tale condizione non rimaneva che far intendere la necessità della disciplina mediante una relativa severità; la quale cosa è senza dubbio assai meno efficace della lenta educazione del tempo di pace, ma la sola possibile in quelle circostanze». 26 3. Le insufficienze dei quadri erano apparse drammatiche fin 305

dal 1914, e gli esperti avevano spiegato al presidente Salandra come quelle insufficienze potessero essere addirittura definite «disastrose»; lo stato maggiore aveva calcolato che per una mobilitazione completa mancavano ben 13.500 ufficiali, ma si doveva inoltre tener conto del fatto che una grande parte dei 15.000 ufficiali effettivi esistenti possedevano una preparazione alquanto scadente. 27 Secondo le parole dello stesso capo di stato maggiore, i quadri dell’esercito erano «abbastanza buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi, ed in alto – insieme con parecchi buoni ed ottimi – altri non pochi insufficienti». 28 Le necessità della guerra imposero provvedimenti di carattere straordinario. Corsi rapidissimi per l’addestramento degli ufficiali furono istituiti fin dai mesi della neutralità. Dopo l’intervento quei corsi assunsero un ritmo precipitoso. Basti dire che se nell’agosto 1914 l’esercito italiano contava 45.099 ufficiali (dei quali soltanto 15.858 in servizio attivo permanente), fra l’agosto del ’14 e il novembre 1918 furono molto rapidamente istituiti 160.191 nuovi ufficiali. 29 «È evidente» scrisse il gen. Capello «che l’improvvisazione di una così gran massa dovesse andare a scapito della qualità.» 30 Il corso allievi ufficiali durava normalmente solo tre mesi, ma furono istituiti anche i cosiddetti «corsi di corsa» di durata ancora più breve: «Quaranta giorni a Modena, venti alla Porretta; e in due mesi il più ignavo milite della meno balda specialità del Regio Esercito si trasformava in battagliero aspirante sottotenente di fanteria, che dopo un mese di licenza veniva mandato a comandare un reparto di linea». 31 Gli allievi avrebbero dovuto approfondire in pochi giorni: l’arte 306

della fortificazione, la topografia, l’ordine sparso, il tiro a segno, la scherma, i princìpi morali e altre materie. A metà corso erano ritenuti degni di essere «iniziati ai misteri» dell’attacco frontale. 32 Nel 1917 il Livi pubblicò i risultati di una indagine compiuta sopra un campione di 13.260 ufficiali di fanteria, vale a dire su coloro i quali avevano conseguito il grado di ufficiale nei cinque corsi accelerati svoltisi fra il giugno 1915 e il settembre 1916 alla scuola militare di Modena. Risultò che le regioni meridionali avevano dato il maggiore contributo di allievi e che la Sicilia, in particolare, aveva superato ogni altra regione italiana sia in cifre assolute, sia in proporzione alla popolazione residente ed alla popolazione scolastica. Quei dati dimostravano che circa la metà dei nuovi quadri della fanteria appartenevano alla piccola borghesia meridionale. Il Livi tentò anche di spiegarsi il fenomeno e, fra le altre cose, ricordò che il forte sviluppo industriale dell’Italia del nord aveva probabilmente favorito l’impiego dei diplomati e degli studenti settentrionali in armi diverse dalla fanteria, o aveva addirittura fatto sì che quei giovani fossero esonerati dal servizio militare. 33 Come insomma c’era stata una divisione tra fanti-contadini ed «operaiimboscati», così si sarebbe prodotta un’analoga divisione tra fanti-avvocati e «ingegneri-imboscati» (imboscati nell’artiglieria, nel genio, o nelle fabbriche). Ai corsi allievi ufficiali presero parte uomini maturi e giovani non ancora ventenni, laureati e studenti secondari. Molti lamentarono che gli ufficiali di fanteria fossero troppo giovani: «Siamo in mano alle criature» disse un fante al suo generale. 34 E uno di quei giovanissimi, il Muccini, confessò nel suo diario che in tempi normali il padre non gli avrebbe ancora consegnato la chiave del portone e la madre sarebbe andata tutte le sere a

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rimboccargli le coperte del letto; c’era invece la guerra ed egli era tenente in una trincea del Carso, al comando di uomini maturi che avevano moglie e figli. 35 Disse l’Omodeo che il più grave problema, per il giovane ufficiale di provenienza borghese, era quasi sempre costituito dal rapporto con il soldato proletario, spesso analfabeta, spesso più anziano e più maturo del suo tenente. 36 Senza mezzi termini il De Bono spiegò come fosse facile che i neo-ufficiali si trovassero in un primo tempo alla mercé degli inferiori. 37 4. Gli ufficiali dell’esercito non costituirono affatto una comunità omogenea e compatta, e una prima grande divisione separò gli ufficiali permanenti da quelli di complemento, quasi sempre distinti gli uni dagli altri per educazione, mentalità ed ambizioni. Nel 1914 la grande maggioranza degli ufficiali permanenti accolsero con sorpresa la notizia del conflitto europeo. Avevano finito per credere anch’essi ad un interminabile periodo di pace, durante il quale la loro carriera si sarebbe svolta con regolarità e senza molte emozioni, fra le grandi manovre ed il servizio di guarnigione. Il gen. Capello disse che lo scoppio del conflitto europeo costituì per parecchi – soprattutto fra i superiori – «una incomoda minaccia alla quieta vita tranquilla cui si erano abituati ed alla quale unicamente aspiravano». 38 Riteniamo tuttavia che l’idea di un conflitto di breve durata dovette convincere molti di quegli ufficiali a non considerare con troppa preoccupazione l’avvenire. Probabilmente furono indotti anche essi a fantasticare sulla grande avventura che cominciava e dalla quale sarebbero presto tornati con le medaglie sul petto e con il decreto di promozione in tasca. Nella grande maggioranza i quadri dell’esercito ritennero che l’Italia dovesse scendere in campo al fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria. I fedeli 308

della Triplice non erano pochi, soprattutto negli alti gradi: avevano assorbito i princìpi della scuola militare tedesca ed ammiravano profondamente la Germania. 39 (Ancora nel 1929, del resto, il gen. Caviglia scrisse che gli italiani avrebbero fatto bene a combattere dalla parte della Germania e dell’Austria!) 40 Allorché però, dopo la proclamazione della neutralità, si cominciò a parlare di un intervento a fianco di Francia e Gran Bretagna, gli ufficiali si disinteressarono dello schieramento a favore del quale la guerra sarebbe stata combattuta: ben pochi furono coloro i quali patteggiarono «per gli uni piuttostoché per gli altri, pochissimi poi coloro che tirassero fuori l’obbligo per l’Italia di mantenere gli impegni verso gli alleati di ieri». 41 Gli ufficiali effettivi, insomma, si prepararono alla guerra per la guerra, in attesa degli ordini che sarebbero stati loro impartiti dal sovrano. Combattere, del resto, era il loro mestiere. Fra gli ufficiali di complemento vi fu probabilmente una maggiore sensibilità verso i reali o pretesi valori politici del conflitto, ed una minore indifferenza per quanto riguardava lo schieramento nel quale collocare l’Italia. Non vorremmo però sopravvalutare l’importanza di questi diversi stati d’animo, sia perché – come già dicemmo all’inizio di questo volume – anche buona parte dell’opinione pubblica borghese fu assente dal dibattito sull’intervento, sia perché dopo il 24 maggio tutti gli ufficiali si sentirono egualmente vincolati dalla decisione del sovrano. La contrapposizione tra ufficiali effettivi e di complemento nacque da altre cause. Gli ufficiali di complemento erano uomini i quali appartenevano alla vita borghese – ecco ciò che veramente contava –, non avevano scelto il mestiere delle armi e consideravano la guerra come una parentesi, come una esperienza estranea ai propri interessi di lavoro e di carriera. Gli

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ufficiali permanenti, viceversa, consideravano quella stessa esperienza da un punto di vista alquanto diverso: l’esercito rappresentava l’«impresa», l’«azienda» in seno alla quale avevano scelto di operare e di aver successo, e la guerra – come riconobbe anche la Commissione di inchiesta per Caporetto – costituiva l’occasione di un «successo» davvero inconsueto. Grazie alla guerra, difatti, le carriere poterono svolgersi «rapidissime», cagionando «lieto animo» nei beneficiati, «sia per il prestigio che conferivano i gradi in giovane età conseguiti, sia per i maggiori assegni che assicuravano, sia per la meno povera pensione che alle famiglie, in caso di morte, garantivano». 42 Durante e dopo la guerra gli ufficiali di complemento criticarono piuttosto duramente il «carrierismo» dei loro colleghi appartenenti all’esercito permanente, arrivando ad affermare che questi ultimi, in talune occasioni, avevano dato ordine ai reparti di compiere azioni inutili e dispendiose di vite umane, sol perché quelle azioni avrebbero fatto buona impressione ai superiori, e sarebbero state quindi vantaggiose per conseguire il sospirato avanzamento di grado: «Per lo più» scrisse ad esempio Prezzolini «le offensive a spizzico erano volute da capi che se ne aspettavano una promozione, che null’altro curavano nella guerra che la propria carriera. Il soldato sapeva e capiva benissimo tutto questo e si batteva mal volentieri perché un colonnello diventasse brigadiere o un brigadiere comandante di divisione». 43 Accuse del tutto simili furono rivolte anche contro gli alti ufficiali dell’esercito francese. Abel Ferry scrisse che i generali di quell’esercito erano dei vecchi egoisti, i quali sacrificavano

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inutilmente migliaia di giovani vite, magari soltanto perché Tardieu dedicasse loro un articolo di giornale. 44 Il contrasto tra gli ufficiali effettivi e quelli di complemento era un contrasto tra diverse mentalità che trovavano motivo di urtarsi per ragioni molto gravi, così come per ragioni di poco conto. Ai complementi, per esempio, la «brutale, ma franca ed aperta libera concorrenza» borghese appariva infinitamente preferibile in confronto alle ipocrisie della disciplina militare e gerarchica e alla pedantesca burocrazia dell’esercito. 45 Nell’esercito, infatti, così come esso era stato forgiato dalla mentalità degli ufficiali permanenti, c’era – secondo il parere dell’on. De Andreis – una «totale mancanza di abitudini della vita viva, veramente industriale, della vita veloce, spedita, pratica». Il controllo era nullo quando si spendevano 200.000 lire, «minuto e pidocchioso» invece se se ne spendevano 50. 46 Ben più grave l’accusa di «imboscati» rivolta agli ufficiali effettivi. Si diceva che, grazie alla complicità dei superiori, essi riuscivano ad ottenere i posti più sicuri nel Paese ed al fronte. Proprio coloro, insomma, che avevano scelto il mestiere delle armi, sembravano timorosi di correrne i rischi e desiderosi di mandare avanti gli altri, per i quali invece la guerra avrebbe dovuto essere soltanto un incidente della vita. La ragione addotta per giustificare tale «imboscamento», vale a dire il possesso di maggiori conoscenze tecniche, non convinceva, poiché nella nuova guerra tutto era nuovo e da imparare e le vecchie tecniche possedute dagli effettivi a nulla servivano. 47 Il 5 settembre 1915 Cesare Battisti scriveva alla moglie dal fronte trentino: «Chi impera qui, stando a valle, senza conoscere né capir nulla dell’alta montagna (alla quale mai sono arrivati), è una combriccola di alti ufficiali inetti, vecchi,

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paurosi, che preferiscono far nulla per la paura che hanno di fare dei fiaschi, con danno della loro carriera». 48 Un anno più tardi Ferdinando Martini annotava nel suo diario le notizie poco liete riferitegli dal figlio Alessandro, reduce dal fronte: «Mi conferma ciò che ho udito tante volte e non ho mai voluto credere, che cioè gli ufficiali effettivi si imboscano negli uffici: chi avanza, combatte e… muore sono gli ufficiali di complemento». 49 Poco dopo l’entrata in guerra, a causa delle perdite e delle promozioni, gli ufficiali di carriera scomparvero dai quadri subalterni della fanteria. 50 Aspiranti, sottotenenti, tenenti e capitani della più provata delle armi furono dunque tutti ufficiali di complemento, ai quali sembrò di dover sostenere il peso maggiore della guerra. Sempre tesi nello sforzo di padroneggiare se stessi e il reparto che comandavano, trascorrevano lunghi turni di trincea in comunanza di vita e di pericoli con i fanti. Combattevano, mangiavano, dormivano, soffrivano nel fango con i loro subordinati, e nello stesso tempo dovevano cercare di mantenere l’autorità e il prestigio del grado. Conoscevano il nome, la storia e gli affetti degli uomini ai quali ordinavano di compiere un’azione che spesso conduceva alla morte. Si sentivano disperatamente presi tra «l’incudine dei poveri soldati», dai quali esigevano l’impossibile, «e il martello delle ambizioni di tutti i superiori»: «La verità» scrisse Omodeo nell’ottobre 1916 «è quella che prima mi pareva un’esagerazione: che la guerra la 312

sostengono e la reggono gli ufficialetti, i tenentini di complemento, e ora anche di territoriale: quelli che, lasciati a contatto con la massa, l’inquadrano, l’educano, ne traggono fuori lo spirito d’eroismo e di sacrificio, e a fin di guerra potranno ostentare come unico lucro le loro ferite e la loro rovina economica. Perché anche qui c’è chi guadagna dalla guerra: chi il nastrino, chi la promozione e la carriera sicura». 51 Gli ufficiali di complemento provavano rancore verso quelli di carriera, cioè verso gli ufficiali che costituivano l’ossatura dei comandi superiori, poiché sembrava loro che quei comandi si preoccupassero delle trincee e dei materiali, ma trascurassero completamente il problema «uomo» e creassero di continuo nuove e più gravi difficoltà a sottotenenti, tenenti e capitani nei loro rapporti con i fanti. 52 Gli ufficiali effettivi, a loro volta, avevano in generale scarsa stima degli ufficiali di complemento. Li giudicavano molto spesso incompetenti, privi di virtù militari, incapaci di esercitare con senso di responsabilità le funzioni di comando. La scarsa preparazione tecnica degli ufficiali di complemento era un fatto scontato. Tutti (e gli stessi complementi per primi) potevano rendersi conto che i due o tre mesi di corso servivano a poco o a nulla da un punto di vista tecnico. Anche l’Omodeo, uno di coloro che maggiormente contribuirono ad idealizzare la figura del giovane tenente o aspirante, ammise, in una lettera del settembre 1916, che la scarsa preparazione di questi ufficiali borghesi costituiva «il lato debole della nostra guerra». Gli sembrava, tuttavia, che «la buona volontà» fosse sufficiente per sostituire la preparazione, e che nella dura esperienza del fronte la borghesia italiana riuscisse a maturarsi. 53 Gli ufficiali effettivi pensavano spesso il contrario. Si 313

lagnavano dello scarso addestramento dei più giovani ufficiali; affermavano addirittura una inadeguatezza morale della gioventù borghese all’esercizio del comando. Si ricordino le durissime parole scritte da Angelo Gatti, colonnello di stato maggiore addetto al Comando supremo, a proposito degli aspiranti e dei sottotenenti: «Questi» disse Gatti «sono la vera piaga dell’esercito. Noi abbiamo dovuto prenderli da quella piccolissima borghesia, che non ha nessun ideale, se non il benessere materiale: figli di calzolai, di portinai, ecc. Questa gente è la più refrattaria ad ogni spirito di rifacimento morale». 54 Ardengo Soffici, ufficiale di complemento, constatava la mediocrità e l’insufficienza di molti colleghi, soprattutto dei giovanissimi aspiranti sottotenenti, appena ventenni. Li considerava incapaci di comprendere la gravità e la grandezza delle loro funzioni: «Tutti questi bravi figliuoli» scrisse «partecipano troppo dei difetti dell’ambiente dal quale provengono. Troppo digiuni di vera cultura, troppo borghesi egoisti, troppo poco animati di viva fede e di coscienza civile e nazionale». 55 E Giovanni Amendola, in una lettera del 1° agosto 1917 diretta a Bissolati, confermò che i giovani ufficiali erano «mediocremente colti, e poco preparati, dal lato morale e da quello professionale». 56 Nel 1930 scoppiò tra Gioacchino Volpe ed Adolfo Omodeo una vivacissima polemica sull’interpretazione di molti fenomeni della guerra, e, fra l’altro, sul giudizio che doveva essere dato intorno all’opera degli ufficiali di complemento, che Omodeo –

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come già dicemmo – esaltava e che Volpe, viceversa, considerava con occhio molto critico: «Se v’è una cosa di cui l’Italia si può vantare» scrisse Omodeo in polemica con Volpe «è dei suoi ufficiali di complemento: improvvisati, sì, cresciuti alieni dalla guerra, ma che nella loro grande massa seppero dar l’esempio, vissero col soldato in una comunione ignota negli altri eserciti, supplirono ai difetti di sottufficiali e graduati, che nel nostro esercito, per speciali condizioni sociali, venivano automaticamente assorbiti dalla truppa. E furono un tipo speciale di ufficiali, quello di cui c’era bisogno nel nostro esercito: senza durezza militare, affettuosi e forse sentimentali con i gregari, perché sentivano quanto sugli umili, che non avevano gl’ideali civili e le mire politiche degli uomini colti, doveva gravare la guerra. Ma furono ricchi di tanta umanità che ressero alla dura prova anche senza un’artificiosa pedagogia militare». 57 Il Volpe replicò ribadendo i concetti già espressi nel suo libro su Caporetto, dicendo cioè che i migliori ufficiali, il fiore dell’esercito e della nazione, erano caduti durante i primi combattimenti, e che: «Al loro posto, via via, in numero sempre maggiore, [erano subentrati] ufficiali fatti contro voglia, ufficiali snidati dagli uffici, ragazzi usciti appena dalla casa paterna, fabbricati in un mese a scuola e mandati su [al fronte] 24 o 12 ore prima delle offensive, senza esperienza di guerra e di uomini, senza abitudine e attitudine di comando, senza prestigio sui soldati. Entro 315

certi limiti, ciò deve essere avvenuto da per tutto: forse da noi più che altrove. Da noi la vita preparava meno alla guerra e il campo di reclutamento dell’ufficiale era più ristretto che in altri paesi belligeranti». 58 Le analisi di Volpe contenevano alcune incertezze e contraddizioni (fra l’altro non era facile portare a modello i quadri degli eserciti stranieri, colpiti anch’essi da gravissime crisi, né era giusto contrapporre gli ufficiali nuovi ed inesperti agli ufficiali caduti durante i primi combattimenti che nessuna esperienza avevano fatto in tempo a compiere). Ma i giudizi di Omodeo d’altra parte non erano accettabili se non con grandi riserve. Nella polemica con il Volpe e nei Momenti della vita di guerra, Omodeo aveva voluto troppo nettamente separare gli stati d’animo degli «umili» (così chiamò i fanti) da quelli degli ufficiali, sopra i quali ultimi – a suo dire – aveva continuato sempre ad aleggiare «un soffio tra garibaldino e mazziniano, che confortava ed animava». 59 Probabilmente Omodeo aveva, negli anni Trenta, un ricordo alquanto deformato delle esperienze che i combattenti e lui stesso avevano vissute. Ponendo infatti a confronto le lettere scritte dall’Omodeo-ufficiale fra il ’16 e il ’18, con le riflessioni dell’Omodeo-studioso pubblicate tra il ’29 e il ’33 ne avremmo una dimostrazione. La differenza tra lo stato d’animo delle lettere e quello delle successive riflessioni è un fenomeno facilmente spiegabile: a) perché un processo di deformazione dei ricordi dolorosi ha luogo in ognuno di noi ed in ogni epoca, ed è particolarmente avvertibile quando si tratti di ricordi legati a quel particolarissimo mondo psicologico determinato da una guerra; b) perché soltanto il tempo poté dare a Omodeo – e agli altri combattenti – il distacco necessario per riflettere in termini nuovi a problemi che un tempo erano stati addirittura «laceranti», come, ad esempio, al problema del Paese 316

che non sentiva il dramma della guerra e addirittura «si divertiva» (intorno a questo argomento Omodeo poté comporre nei Momenti una bella ed umanissima pagina che nel ’15-18 sarebbe stata impensabile); c) perché infine Omodeo scrisse le sue riflessioni degli anni Trenta in un determinato clima politico e con precisi intenti polemici più che storiografici. 60 Ma se dalla polemica degli anni Trenta torniamo alla realtà dei fatti, dobbiamo ancora una volta ripetere ciò che già cercammo di dimostrare nei primi due capitoli di questo volume, vale a dire che una grave crisi spirituale aveva travolto fin dall’inizio della guerra tutti i combattenti, i superiori come i subalterni, e forse i superiori più dei subalterni. Gli ufficiali di complemento, pertanto, lanciavano pesanti accuse contro quelli di carriera, e questi ultimi a loro volta rispondevano con altre feroci denunzie, trovando sia gli uni sia gli altri valide giustificazioni alle loro asserzioni. Fra gli ufficiali di complemento era diffusa la convinzione che gli insuccessi della guerra dipendessero in gran parte dalla inettitudine dei comandi superiori. Per il gen. Raffaele Cadorna, figlio del comandante supremo e lui stesso giovane ufficiale effettivo al tempo della Grande guerra, è vero il contrario: «L’insufficienza dell’inquadramento inferiore fu la causa principale di molti insuccessi e di logorio del nostro esercito». 61 Gli ufficiali di complemento rimasti a comandare i reparti delle trincee solevano ripetere che i comandi intermedi e superiori situati nelle retrovie erano costituiti da elementi inetti e svogliati. 62 Il colonnello Gatti era di parere assolutamente opposto: «Tutti i nostri ufficiali» scriveva nel suo diario «sono giovanissimi, non solo, ma dei giovanissimi, pur troppo, i migliori sono stati anche schiumati per andare nei comandi». E

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pertanto era mancato, fra le truppe, «l’ufficiale intelligente e pieno di vita»! 63 Le parole di Gatti ora citate, e numerose altre testimonianze reperibili negli scritti dei combattenti, inducono a tener conto della contrapposizione ufficiali di truppa-ufficiali dei comandi, oltre che della contrapposizione ufficiali di complementoufficiali di carriera, della quale abbiamo fin qui parlato. 64 Gli effettivi costituivano il nerbo dei comandi superiori ed intermedi. I complementi, viceversa, erano in prevalenza ufficiali di truppa, e la totalità degli aspiranti, dei sottotenenti, dei tenenti e capitani di fanteria provenivano dalle loro file. Ma non pochi erano impiegati presso i comandi superiori ed il Comando supremo. Volpe, Soffici e Amendola – i cui giudizi contrastarono con le tesi di Omodeo – parteciparono alle preoccupazioni dei grandi comandi, mentre Omodeo restò per tutta la durata della guerra al fianco di semplici artiglieri. Se dunque i quadri dell’esercito non costituivano una comunità omogenea perché vivaci polemiche opponevano gli effettivi ai complementi, neppure queste due categorie di ufficiali risultavano compatte al loro interno. A ben riflettere anche quegli ufficiali di carriera che appartenevano ai comandi intermedi si trovavano spesso così vicini alle truppe da considerare i problemi della guerra sotto un angolo visuale alquanto diverso dai superiori. Gli esoneri (o «siluramenti») accrescevano le inquietudini dei quadri. Molti alti ufficiali non nascondevano i loro sentimenti fortemente critici nei confronti dei metodi di guerra che erano stati imposti dall’alto. 65 Tali critiche erano nate già nel ’15, ma erano proseguite anche nell’anno successivo, e il caso del col. Douhet poteva essere considerato un caso limite soltanto perché aveva dato luogo ad un processo clamoroso, non per la sostanza dei giudizi formulati

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dall’imputato, che erano condivisi anche da altri ufficiali di carriera. Il gen. Emilio Sailer, che comandava la brigata Regina nella regione carsica, scriveva nel maggio al ministro Martini schernendo con amare parole le direttive del Comando supremo e la burocrazia dei comandi. Sarebbe stato necessario – dichiarava il generale – concentrare i mezzi disponibili su pochi obiettivi, ma il Comando non ne voleva sapere, ed impartiva l’assurda direttiva di «sbocconcellare», di «grattare» ugualmente su tutto il fronte: «Dall’alto si predica l’ardimento, a distanza di chilometri, e si studia l’annuario. Noi qui, tra i cadaveri, attacchiamo per conto nostro. Azioni slegate. Eroismi vani e poi dall’alto: critiche; rimproveri; diffidenza. E il buon sangue italiano se ne va e un esercito di prima linea è già stato quasi tutto divorato; che si è concluso? E, quando si torna al piano a riposare, la burocrazia dei comandi, seduti fermi a tavolino, che ti tormenta in trincea, ti afferra ancor più noiosamente spietata, e la vita di caserma ti insegue nei baraccamenti. Quanto alla fede incrollabile nella vittoria, mi permetta Eccellenza, e non se ne offenda, ch’io le dica che posso aprirne rivendita qui sul Carso. Moltissimi in alto, ai fianchi, e specialmente in basso, dubitano». 66 Ma era difficile esprimere liberamente quei dubbi e quelle critiche, perché le relazioni tra comandi inferiori e superiori risultavano viziate dalla scarsa sincerità. Il Comando supremo, collocato sulla cima della scala gerarchica, si trovava nella condizione di maggiore isolamento. Cadorna non conosceva i comandanti di divisione e deliberatamente affermava di volersi 319

occupare soltanto dei pochissimi che avevano la responsabilità delle armate e dei corpi di armata. 67 Neppure con quei pochissimi, tuttavia, egli era sempre in grado di instaurare rapporti di franca e reciproca fiducia. Il fatto stesso che i siluramenti si susseguissero con tanta frequenza stava a significare che a Cadorna riusciva più facile esonerare che farsi obbedire. 68 5. L’offensiva austriaca del maggio 1916 aveva profondamente turbato gli italiani; la tanto agognata conquista di Gorizia, sopravvenuta l’8 agosto successivo, li rianimò. In verità la conquista della città giuliana non ebbe un grande valore militare, ma l’opinione pubblica stentò a rendersene conto e la guerra parve per un momento «adeguarsi al sogno del maggio», come disse Omodeo. 69 Egli stesso, scrivendo alla moglie il giorno successivo alla presa di Gorizia, confessò di sentire finalmente l’anima sollevata «dal malessere e dai dubbi suscitati dai guai del Trentino che avevano in qualche momento fatto dubitare che noi sapessimo fare la guerra». 70 I giornali magnificarono il successo conseguito, e, secondo «Il Mattino» di Napoli, la vittoria di Gorizia dimostrava che quella italiana era ormai una «razza in via ascensionale». 71 Si diffuse ovunque la convinzione che il conflitto volgesse ormai al termine, e tutta l’Italia fu in festa. 72 Gli entusiasmi fecero presto a spegnersi, almeno fra i combattenti. Pochi, fra loro, poterono valutare in termini strategici i risultati della battaglia; ma molti, tutti anzi, si avvidero rapidamente che la loro guerra quotidiana continuava a svolgersi nelle forme divenute ormai consuete. Di conseguenza anche gli stati d’animo espressi nelle lettere e nei diari dei combattenti durante la seconda metà del 1916 continuarono ad essere quelli consueti. Lo stesso Omodeo rinunciò – come un 320

qualunque fante contadino – a capire il corso degli eventi e cercò di dar pace al suo animo rifugiandosi nell’espletamento delle mansioni quotidiane: «Nel tumulto dell’azione» scrisse a Giovanni Gentile il 27 agosto «non arrivo a penetrar bene il corso della storia in questi anni turbolenti: mi par d’essere come travolto da una marea. Assorto nello sforzo d’affermare il diritto d’Italia in questo conflitto di popoli, non arrivo a raggiungere un punto di vista storico che mi soddisfi. Insoddisfatto delle spiegazioni della guerra che danno le parti in conflitto, non ne trovo neppur io una che mi soddisfi. Sento più che non mi spieghi il diritto d’Italia per cui si combatte. Ad altri giorni questa più serena speculazione sulla nostra guerra: ora devo montare gli obici nella nuova posizione». 73 Sembrava che il trascorrere del tempo rendesse sempre più oscure le ragioni della vita che si conduceva. Sembrava che proprio a nulla servissero gli sforzi compiuti per avere un esercito più potente. Nel luglio 1916 gli uomini alle armi erano diventati 2.350.000 rispetto al milione e mezzo di dodici mesi prima. Il solo esercito di operazioni, che durante il 1915 si era mantenuto attorno al milione, aveva raggiunto il milione e mezzo di uomini nel luglio 1916. Tutto questo enorme sforzo organizzativo, che all’inizio del conflitto sarebbe apparso come una sicura garanzia di vittoria, lasciava invece, nel 1916, incerti ed inquieti sui futuri destini della guerra. Anche la stampa, nonostante la censura, non nascondeva la sua preoccupazione. «Da due anni si combatte» scriveva con franchezza Piero Giacosa nella «Lettura» del settembre «e non vediamo ancora disegnarsi un vantaggio deciso per uno degli avversari, né crearsi quelle 321

condizioni che per il passato spingevano le parti ad un armistizio, primo passo ad una pace decisiva. Ciò che avviene è il rovescio di quanto s’era preveduto.» 74 Nel settembre 1916 il Comando supremo si illuse di rovesciare la situazione con l’impiego di un nuovo tipo di artiglieria da trincea, la bombarda, il cui tiro – si disse – avrebbe immancabilmente e finalmente distrutto i reticolati nemici. Cadorna concentrò 600 di tali bombarde sul Carso, sperando di sorprendere gli austriaci ed incalzarli «con la spada alle reni». Aveva «alquanta fiducia di piantare lo stendardo tricolore sulla torre di S. Giusto prima dell’inverno!». Ma la nebbia e l’umidità – queste furono le giustificazioni addotte dal generale – dovevano impedire ai nuovi e decantatissimi mezzi di raggiungere i voluti effetti. I reticolati austriaci erano stati distrutti soltanto in parte e la «povera fanteria» aveva incontrato «difficoltà molto maggiori da superare e perdite in conseguenza». 75 Cadorna non si diede per vinto e, fra l’ottobre ed il novembre, aspettando magari uno sprazzo di sole autunnale, ordinò che sul Carso avessero luogo altre due brevi ma costosissime offensive. Gli italiani catturarono al nemico 21.000 prigionieri, ma, nonostante l’ingente impiego di uomini e di mezzi, ottennero risultati territoriali assai scarsi e logorarono gravemente le loro stesse forze. Dal settembre al novembre l’esercito perse 125.000 uomini tra morti e feriti. Il 1° novembre – come sappiamo – il duca d’Aosta si recò da Cadorna per annunciargli che alcuni reggimenti si erano ribellati e che erano già state ordinate le decimazioni. 76 L’indomani il generalissimo decise di far cessare l’offensiva e di sospendere le operazioni militari fino alla primavera del ’17. Il bilancio di fine anno fu doloroso: 404.500 morti e feriti, contro i 246.500 del 1915. 77 6.

Diserzione

ed

autolesionismo 322

furono

i

reati

più

frequentemente commessi dai militari per sottrarsi ai rischi della guerra. Il fenomeno delle diserzioni si manifestò in tutta la sua drammaticità nel corso del 1917, e ci occuperemo di esso nel prossimo capitolo. I casi di autolesionismo, viceversa, raggiunsero il più elevato indice di frequenza proprio nel 1916. Infatti – secondo i dati del Mortara – le condanne per mutilazione volontaria o per lesioni ed infermità procurate al fine di menomare l’idoneità al servizio furono 1.403 nel primo anno di guerra, 4.133 nel secondo, 3.620 nel terzo, e 705 nel quarto. In totale circa 10.000 condanne. 78 Le condanne per autolesionismo diminuirono alla fine del 1916 perché nell’ottobre di quell’anno un decreto luogotenenziale introdusse un diverso regime punitivo. Fino a quell’epoca, difatti, gli autolesionisti, anche se si erano procurati un malanno passeggero, erano sempre riusciti a restare lontani dal fronte per lungo tempo dovendo scontare la reclusione ordinaria prevista dal codice militare. Il decreto dell’ottobre, viceversa, stabilì che gli autolesionisti in grado di combattere, anche se condannati alla reclusione, dovessero essere inviati in linea. 79 Cadde dunque uno degli incentivi al reato, dato che non molti furono disposti a procurare a se stessi il danno certo di una inabilità permanente per evitare il danno incerto della ferita o della morte in combattimento. Ma la diminuzione delle condanne dipese anche dal fatto che, a partire dal dicembre 1916, i tribunali militari interpretarono la norma del codice considerando gli atti autolesionistici compiuti «in faccia al nemico» come reati di «codardia con atti» (punibili con la pena capitale) e non più reati di mutilazione o autolesione volontaria. 80 In alcuni scritti di combattenti, e soprattutto nelle riviste mediche e giuridiche pubblicate durante la guerra può essere

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reperita una abbondantissima documentazione sulle forme di autolesione più di frequente praticate dai soldati italiani. Il prof. Attilio Ascarelli, per esempio, direttore dell’ospedale militare principale di Roma, dedicò lunghi ed interessanti saggi all’argomento. 81 Descrisse la personalità «antropo-psicologica» dell’autolesionista ed ammise che quasi mai era possibile riscontrare alcunché di anormale negli antecedenti di costui, il quale anzi risultava talora essere stato un buon soldato, ligio al dovere ed ai superiori. Le cause del fatto autolesionistico non dovevano dunque essere cercate tanto nella personalità (anche se c’erano casi di isterici e psicotici) quanto piuttosto nelle occasionali cause esterne. L’Ascarelli poneva in relazione tali cause sia ai fattori etnici (il reato si verificava con frequenza maggiore in certe regioni, province e paesi), sia ai fattori politici (mentre alcuni paesi erano «infetti», altri, vicinissimi, erano indenni o quasi, e se si prendeva in considerazione il sentimento politico prevalente nell’uno o nell’altro paese lo si trovava ben diverso). La condizione sociale degli autolesionisti sembrava non aver esercitato influenza notevole sui casi osservati; viceversa la condizione familiare risultava avere avuto notevole importanza: «Talora» scriveva l’Ascarelli «è autolesionista un padre di numerosi figli, talora un militare che ha avuto un fratello morto in guerra, talora disgraziate condizioni economiche della famiglia inducono a cercare il mezzo fraudolento per sottrarsi al servizio militare; talora il desiderio nostalgico della famiglia; tutti questi, sono fattori che evidentemente hanno una grande importanza occasionale». Anche l’età favoriva in qualche modo il reato, dato che questo era più frequente fra gli uomini maturi. I casi di autolesionismo, 324

inoltre, si verificavano soprattutto in certi periodi della vita militare, come, ad esempio, nei giorni immediatamente successivi alla chiamata alle armi, fra le reclute. Il fenomeno appariva comprensibile all’Ascarelli perché l’uomo chiamato alle armi poteva essere vinto in un primo momento dalla paura dell’ignoto e soltanto in un secondo tempo, poco alla volta, assumeva l’«adattamento professionale». Il reato tornava pertanto a presentarsi con frequenza nei periodi delle licenze, quando il soldato perdeva quell’adattamento, faticosamente conquistato. Anche una sorta di contagio psicologico poteva essere incluso fra le cause del reato o le caratteristiche: «Al fronte» scriveva infatti l’Ascarelli «ciascuna forma [di autolesionismo o di simulazione] assume un aspetto epidemico, direi anzi di contagio, sicché si assiste all’esplosione di una determinata sindrome, il più spesso di autolesione, in un reparto di truppe operanti; esplosione che si determina dapprima con la constatazione di pochi casi (che spesso non si appalesano subito e non vengono riconosciuti), poi con il rapido moltiplicarsi di casi simili e con il loro improvviso cessare, fin tanto che la simultaneità e l’abbondanza degli esempi non rende manifesta la frode o per lo meno non ne fa nascere il fondato sospetto. Nel Paese, invece, non si ha l’epidemia, ma si ha l’endemia; casi che si manifestano qua e là più numerosi, e che talora assumono una forma, talora un’altra». Quali erano le forme più diffuse al fronte e nel Paese? L’Ascarelli le elencava e le illustrava con molti particolari: a) flemmoni e ascessi provocati da iniezioni di petrolio, trementina, benzina, cloruro di calce in soluzione di benzina, ecc. (il decorso 325

era benigno e rapido nella maggioranza dei casi, ma talune complicazioni potevano a volte far ritardare la guarigione); b) ascessi da iniezioni di sostanze fecali, disciolte in acqua, petrolio o benzina (si potevano avere degenze di parecchi mesi e la diagnosi era spesso difficile); c) noduli sclerotici sottocutanei, ottenuti con iniezioni di olio di vasellina (potevano durare alcuni mesi prima di riassorbirsi); d) causticazioni chimiche, con liscivia di soda o di potassa, acido solforico, acqua ragia, ecc.; e) causticazioni termiche con acqua o liscivia bollenti; f) edemi duri autocontusivi, determinati da piccoli e successivi colpi ripetuti per più tempo e per più giorni di seguito su una determinata parte del corpo e spesso su precedenti reali ferite (a volte sorgevano complicazioni e il soggetto restava parzialmente, ma permanentemente invalido); g) edemi da stasi, ottenibili legando con fazzoletti, elastici o spaghi per molte ore – magari solo di notte – e per più giorni, una caviglia, o un polso, o altri segmenti di arti al fine di impedire la circolazione (il decorso era lunghissimo negli edemi inveterati e l’arto poteva anche non tornare mai più normale); h) otiti provocate immettendo nell’orecchio sostanze caustiche (trementina, succhi vegetali irritanti, calce ecc.), o applicando piccoli ferri arroventati, olio bollente, cilindri di tela o di carta impregnati di sostanze grasse che venivano fatti ardere 82 (le complicazioni erano frequenti e gravissime, potendo portare alla distruzione del condotto uditivo, a paralisi facciali e perfino alla morte, come in due casi era accaduto); i) congiuntiviti provocate con semi di ricino, infusi di tabacco, granuli di sabbia, ecc.; 83 l) dermatiti provocate con applicazione di sostanze vegetali, liquide o in polvere; 84 m) mutilazioni o ferite volontarie con arma da fuoco, che si verificavano quasi esclusivamente in zona di guerra e che si ottenevano sparandosi (o incaricando un collega di sparare) con

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il fucile su un piede o su una mano, sovrapponendo alla regione da colpire una pagnotta di pane, affinché il medico militare non constatasse che il colpo era stato sparato a bruciapelo. 85 Ma esistevano anche metodi più spicci e sicuri per «autolesionarsi», come ad esempio quello di tenere esposta una mano fuori dalla trincea in attesa che il nemico si decidesse a spedire una pallottola… amica. 86 7. Una notevole inquietudine si diffuse nell’esercito verso la fine del 1916, alla vigilia del secondo lungo inverno di guerra. Molti ufficiali avvertirono l’urgente necessità di risollevare in qualche modo lo spirito delle truppe, ed un generale dichiarò giustamente che ai soldati avrebbe fatto «più bene un’ora di divertimento, che cento grammi di pane in più». 87 I soldati, viceversa, non soltanto non ebbero quell’ora di divertimento, ma persero anche una parte del lor pane. La razione giornaliera fu ridotta da 750 a 600 grammi giornalieri e il regime di austerità che proibiva i divertimenti fu reso ancor più rigido che nel passato. 88 Il 19 novembre il gen. Cadorna emanò una circolare sul «contegno dei militari in pubblico», che impose ad ufficiali e soldati di comportarsi «in modo più conforme alle esigenze dello stato di guerra». Era fatto divieto a tutti i militari residenti o di passaggio negli abitati «di trattenersi nei caffè, bars, birrerie e simili pubblici esercizi dalle 15 alle 18 e di soffermarsi nella parte dei predetti locali – in qualunque modo in vista del pubblico – in qualsiasi ora della giornata». Le autorità militari, d’accordo con quelle politiche, dovevano – secondo Cadorna – limitare quanto più era possibile gli spettacoli teatrali nelle località della zona di guerra e proibire comunque ad ogni militare di prendervi parte come esecutore (molti famosi artisti si trovavano sotto le armi) o come organizzatore, anche se lo spettacolo si presentava «sotto la 327

lustra della carità mondana». Inoltre doveva essere «rigorosamente osservato il divieto di mostrarsi per via o nei pubblici ritrovi in facili compagnie», e Cadorna anzi dava espresso mandato all’arma dei carabinieri reali di condurre in questi casi le «necessarie investigazioni». (Già riferimmo 89 che secondo Malaparte non furono rari i casi di ufficiali e soldati puniti per essere usciti in compagnia delle loro fidanzate.) Il gen. Cadorna dichiarò che tali restrizioni non valevano nel «territorio delle operazioni» ove la vita era già di per sé «attiva ed austera», ma dovevano essere rigidamente applicate in tutte le regioni della cosiddetta «zona di guerra», per evitare che ufficiali e soldati residenti o di passaggio in quella zona seguissero «un tenore di vita» in contrasto troppo stridente con quello delle truppe in trincea e con l’austerità di contegno che gli sembrava «doverosa nel momento attuale». 90 Forse Cadorna voleva evitare che il Paese criticasse il contegno dei militari (come in effetti egli scrisse nella circolare); forse si preoccupava che i soldati delle trincee non ricevessero un’impressione negativa delle retrovie; in ogni caso non tenne conto del fatto che molti di coloro i quali risiedevano o transitavano nelle retrovie o erano militari in attesa di raggiungere le linee, o erano addirittura combattenti di prima linea, momentaneamente sfuggiti alla tetraggine della zona di operazioni grazie ad una licenza o a un permesso, che cercavano giustamente di svagarsi. Le massime autorità militari sembrarono voler fare di tutto perché questo non accadesse. Nel novembre del ’16, per esempio, il prof. Alberto Tonelli rettore dell’Università di Roma, l’on. Giorgio Guglielmi e il giornalista Luigi Lodi si recarono dal presidente Boselli per esporgli – a nome del «Comitato per l’assistenza morale del soldato» – un programma di iniziative educative e ricreative destinate alle truppe. Boselli ne parlò al

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gen. Morrone, ma questi fece subito sapere che le proposte del Comitato erano inattuabili ed allegò a giustificazione le citate circolari di Cadorna e sua. Disse che né conferenze patriottiche né spettacoli di alcun genere potevano essere consentiti durante le ore di servizio; i militari dovevano infatti dedicare tutto il loro tempo all’addestramento e non c’era da preoccuparsi d’altra parte per la loro educazione morale, già così curata dall’opera assidua degli ufficiali. Nulla ostava a che i militari intervenissero a conferenze e spettacoli eventualmente organizzati dal Comitato durante le due ore della libera uscita. Tuttavia il ministero non poteva assolutamente permettere che i militari richiesti dal Comitato, vale a dire i famosi cantanti Nazzareno De Angelis, Carlo Galeffi e Bernardo De Muro potessero partecipare a quegli spettacoli in qualità di esecutori; le citate circolari lo vietavano in modo assoluto. 91 Le distrazioni autorizzate, anzi addirittura «istituzionalizzate» a favore della gran massa dei soldati, furono principalmente due: l’alcool e le case di tolleranza. La prostituzione fu esercitata sotto il controllo delle autorità militari nella zona di guerra ed anche nelle immediate retrovie del fronte. Le «case» più confortevoli furono aperte a Udine, dove maggiore era il viavai degli ufficiali, mentre i semplici soldati si accontentarono spesso di essere ospitati in locali miseri e provvisori. 92 I soldati avevano scarse occasioni di fare incontri diversi e meno squallidi, soprattutto perché i paesi situati in prossimità del fronte erano quasi interamente spopolati. Non sembra invece che i sentimenti anti-italiani di buona parte delle popolazioni residenti in quei paesi costituissero un ostacolo allo stabilirsi di amichevoli rapporti con le giovani donne, anche se i mariti di molte di esse erano arruolati nell’esercito austriaco. Scrisse infatti Ojetti, già nel febbraio 1916, che il problema delle giovani

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mogli dei soldati austriaci rese incinte dai soldati e marinai italiani si sarebbe fatto presto grave: l’autorità militare e civile pensava «di farle sgravare di nascosto nel regno». 93 Ma l’immagine più singolare del desiderio che i soldati avevano di ricreare in qualche modo rapporti umani semplici e spontanei al di fuori della disciplina e dell’ambiente militare era offerto da quei nuclei familiari sui generis di cui parlò Luigi Bartolini: «Vidi donnette – nei paesi delle retrovie –, che facevano vita in comune, ciascuna con due, tre ed anche più soldati. Esempio: un soldato portava la farina per fare la polenta; un altro portava il lardo e il formaggio; un altro, se era marchigiano [Bartolini era appunto tale], recava la nostra bella lonza o la salsiccia di carne di fegato che allappa il palato. La donna lasciava fare la polenta ai soldati e, nudo aveva il petto, una mammella di fuori, il capezzolo che pendeva sulla boccuccia del lattante, addormentato in fasce. Bambino dei soldati. Erano, eppure, morale a parte, delle belle scene dal lato della poesia; cose che si guardavano volentieri! e si discopriva in esse, il senso del primitivo, ossia dei tempi cari, quando gli uomini erano vagabondi e pugnaci e combattevano per loro gusto. In queste scene dei buoni soldati si palesava, ripeto, nulla di male e soltanto l’istinto d’avere casa e donna e famiglia, istinto che si manifestava lassù in quell’unico modo che poteva. Avresti veduto qualcuno, dei soldati, che ninnava il bambino per addormentarlo, e lo ballonzolava onde ninnarlo meglio, portarlo in giro sulle braccia, cantando una nenia paesana meridionale, intorno alla cucina friulana, con la cappa nel centro e l’alare basso. Intanto, 330

altri soldati fumavano narrando gran fatti, fattoni di guerra». 94 Non molti, però, erano i fortunati ai quali riuscisse di creare nei periodi di riposo l’atmosfera distensiva descritta da Bartolini. La maggior parte degli ufficiali e dei soldati si lamentavano, invece, che il riposo non potesse mai diventare tale proprio perché non dava occasione di incontrare esseri umani o animali che non fossero i soliti uomini in grigioverde o i soliti muli. Per distrarsi e dimenticare restavano a disposizione – come già accennammo – le bevande alcooliche che facevano parte integrante della razione quotidiana del soldato. In tutte le stagioni, e non soltanto d’inverno, al riposo come nelle trincee, i soldati bevvero molto vino, grappa e rum, e l’alcool in generale ebbe una funzione importantissima durante tutta la guerra. Alla vigilia delle azioni più rischiose abbondanti quantitativi di liquori erano distribuiti ai reparti italiani, come del resto anche a quelli austriaci. Lo stesso Cadorna dichiarò che il soldato italiano era migliore nell’offensiva che nella difensiva, perché nell’offensiva si ubriacava e si stordiva. 95 «L’anima del combattente di questa guerra» affermò un colonnello «è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina.» 96 Anche il Caccia-Dominioni osservò nel suo diario che la vera essenza della guerra era il fiasco: «Il fiasco dà la rassegnazione al poveraccio che non comanda un cavolo, che è appena uscito dalla settima azione e già vede delinearsi l’ottava». 97 Infine una distrazione consentita, ma scarsamente incoraggiata e soprattutto mal coordinata, fu quella della lettura. Numerosi comitati laici o religiosi promossero, fin dal 1915, la raccolta di libri da spedire alla truppa, ma si trattò spesso di

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pubblicazioni assai poco adatte ad un esercito combattente. Raccontò Mussolini che il suo cappellano distribuiva copie di un opuscolo di Giorgio del Vecchio, «Le ragioni morali della nostra guerra», che conteneva lunghe citazioni in latino e francese e parlava di trascendenza e contingenza: buono per il pubblico delle università, dunque, ma non per soldati i quali, nella migliore delle ipotesi, scrivevano stentatamente alle loro famiglie. 98 Le indagini statistiche condotte sulle varie classi di leva indicarono una percentuale di analfabeti variabile dal 39,66 della classe 1872 al 23,0 della classe 1900, ma in tali percentuali non si tenne conto dei semi-analfabeti per i quali la lettura di un libro o di un giornale costituì un’impossibile impresa. 99 Conosciamo tuttavia lunghi elenchi di opere possedute dalle biblioteche delle case del soldato, e don Minozzi precisò anche quali erano – secondo le sue rilevazioni – gli scrittori prediletti dai lettori. «Autori preferiti dalla massa erano decisamente: il Manzoni de I promessi sposi; il Pellico de Le mie prigioni; il Grossi del Marco Visconti; il D’Azeglio della Disfida di Barletta, dell’Ettore Fieramosca, di Niccolò de’ Lapi e dei Ricordi; il Cantù di Margherita Pusterla; il Carcano di Angiola Maria» e numerosi altri che per brevità non riferiamo. «Narratori facili, da popolino, andavano molto Verne e Salgari, tra i primi, poi Mioni, Matteucci, Beltrami e tutti quelli della Libreria Editrice Internazionale di Torino, della Queriniana di Brescia e della Pro Famiglia di Milano.» Fra i poeti dialettali Trilussa era il più amato. «Tra gli stranieri moderni, tradotti, primeggiavano netti, il Tolstoj con le opere varie; il Dostoevskij con Delitto e castigo e I fratelli Karamazov», e poi Shakespeare, Schiller, Cervantes, Dumas. «A ruba tutti i libri di Tagore.» 100 Infine, come già si è accennato, fogli ed opuscoli di propaganda cattolica ebbero grandissima diffusione. 101 Le continue proteste contro la stampa pornografica fanno 332

tuttavia ritenere che quest’ultima riuscì a conseguire presso le truppe un successo davvero eccezionale. Vedemmo a suo luogo come gli ambienti cattolici, il Comando supremo, la Camera dei deputati e il presidente Salandra si fossero interessati al fenomeno tra la fine del ’15 e i primi mesi del ’16; nel novembre 1915 il Comando supremo emanò severe disposizioni perché «una simile bruttura» avesse termine. Un anno più tardi fu costretto a rinnovare lamentele e minacce riconoscendo implicitamente l’insuccesso delle precedenti disposizioni. 102 Un ufficiale, il Lentini, precisò, nei suoi ricordi di guerra, come i militari si raccontassero storielle «tutte» a doppio senso, e leggessero addirittura con voluttà i libri «sfrontati e licenziosi». Quell’ufficiale non sapeva spiegare a se stesso perché mai gli uomini in guerra fossero portati «a una materializzazione così prosaica della vita» e rivolgessero «costantemente» il loro pensiero alla donna. 103 Vedremo del resto che gli austriaci, nel 1918, per sollecitare l’attenzione degli italiani, pubblicarono licenziose immagini femminili nei loro foglietti di propaganda lanciati oltre le linee. 104 Gli intellettuali si dedicarono talvolta a severe letture, ed alcuni ebbero il vezzo di ricordare nei loro diari come i classici latini e greci fossero stati fedeli compagni durante le lunghe pause tra un combattimento e l’altro. Se volessimo però indicare quale scrittore, fra tutti, ottenesse il più universale consenso nel mondo degli ufficiali e dei soldati istruiti, non diremmo né Manzoni, certamente, né Tolstoj, e neppure – contrariamente a quello che molti potrebbero aspettarsi – D’Annunzio. Parleremmo invece di uno scrittore oggi trascurato, ma che in quegli anni conobbe uno strepitoso successo: Guido da Verona. Scrisse don Minozzi che D’Annunzio non era quasi per nulla letto, mentre i libri di da Verona «si erano intrufolati da per tutto». 105 333

Nel 1916 era stato pubblicato un nuovo romanzo di da Verona, Mimì Bluette, fiore del mio giardino, la vicenda di una ballerina la quale «aveva camminato fra il vizio ed era il vizio», ma che nel suo cuore era rimasta per sempre pura; rinnovata da un grande amore, Mimì Bluette finiva col suicidarsi proprio quando era giunta al massimo del suo fulgore. Questa vicenda «piacque molto» a Giovanni Amendola, uomo di grande sensibilità e cultura. «Leggo da Verona e penso con vera disperazione a Gorizia», scrisse egli stesso dalla prima linea, mentre era ufficiale di artiglieria. 106 Altre testimonianze sul successo di Mimì Bluette possono essere trovate nei diari del Bini Cima, per esempio, o in quello del Muccini. 107 Ma perfino un anziano e serio filologo come Cesare De Lollis lesse al fronte Torna l’amore, altro romanzo di da Verona, e si limitò a trovarlo «inorganico». 108 Ben a ragione Adriano Tilgher scrisse che la letteratura di da Verona aveva un valore artistico assai scarso, ma un valore sociale grandissimo: «È attraverso quest’arte di scarto» disse Tilgher «che la concezione dannunziana della vita, impoverita schematizzata brutalizzata, ha permeato di sé il pubblico italiano. Semplificando le cose, si potrebbe dire che D’Annunzio ha conquistato veramente l’Italia solo attraverso Guido da Verona». 109 Per la prima volta, proprio con Mimì Bluette, un libro moderno italiano superò le centomila copie, e non fu certamente un caso che ciò accadesse durante la guerra, mentre la società si stava sommuovendo e un nuovo pubblico stava nascendo, mentre anche gli intellettuali subivano un processo di «massificazione», e l’atmosfera della stessa guerra favoriva il consumo di una letteratura sensuale ed artificiale. 8. L’analfabetismo o il semi-analfabetismo di tanta parte dell’esercito contribuì a far sì che la grande maggioranza dei soldati percepissero i problemi della guerra e della loro stessa 334

condizione di combattenti in forme assai immediate ed elementari. Come nel 1915 ben pochi conobbero e capirono le ragioni degli interventisti e dei neutralisti, così nel 1916 anche il dibattito sulla opportunità di dichiarare guerra alla Germania rimase ignorato dalla grande massa, 110 e quando finalmente, il 24 agosto 1916, il governo italiano presentò quella dichiarazione di guerra, la notizia lasciò indifferenti i fanti. 111 Gli austriaci, infatti, e non i germanici, erano stati i tradizionali nemici degli italiani, e nel corso degli anni il risentimento contro i primi si era anche molto efficacemente personalizzato grazie alla popolare figura del vecchio imperatore degli Asburgo, salito e rimasto al trono fin dal lontano 1848: quel «Cecco Beppe» contro il quale erano state combattute tutte le guerre del Risorgimento e contro il quale veniva adesso combattuta la Guerra mondiale. La distinzione tra austriaci e tedeschi, inoltre, non era molto chiara per molti italiani. Nel linguaggio popolare gli austriaci, i boemi, gli ungheresi, i croati erano tutti chiamati «tedeschi», ed è probabile che molti fanti, nell’agosto del ’16, si stupissero nell’apprendere che soltanto in quel momento i tedeschi erano diventati davvero nemici dell’Italia. 112 Poco alla volta, però, anche la guerra alla Germania ebbe le sue ripercussioni sul sentimento popolare degli italiani. Non è facile stabilire per quali cause ed in quale momento quel sentimento popolare cominciasse a mutare, ma sembra che nel novembre 1916, quando Cecco Beppe morì, quella ostilità, che era stata sempre tradizionalmente rivolta contro di lui, non poté essere altrettanto efficacemente indirizzata verso il nuovo imperatore, Carlo d’Asburgo, e la sua consorte Zita di Borbone-Parma che per giunta era di origine italiana: «per la giovane coppia vi fu scherno e compassione, non odio», e i sentimenti ostili degli italiani

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cominciarono ad essere rivolti forse più contro la Germania che contro l’Austria. 113 È stato spesso scritto che gli italiani, durante la Grande guerra, furono incapaci di odiare il nemico, o, quanto meno, di odiarlo abbastanza, ed è stato anche aggiunto che questo fatto fu una causa per nulla secondaria dello scarso spirito combattivo dimostrato in più occasioni dalle truppe. 114 Ci sembra viceversa che un esame attento e spassionato delle testimonianze in nostro possesso debba indurre a conclusioni alquanto differenti. Sicuramente vi furono soldati incapaci di odiare, ed è probabile che l’esercito italiano fosse meno feroce di altri eserciti, ma si deve pure affermare che, mentre la propaganda rimase a lungo trascurata, e il governo delle truppe presentò le grandi manchevolezze di cui si è discorso, proprio il naturale, istintivo, inevitabile odio contro il nemico costituì per gli italiani uno dei principali stimoli dello spirito combattivo. Quell’odio nacque nell’estate del 1915 in conseguenza della guerra, in conseguenza, cioè, delle spietate leggi della guerra che opponevano un esercito all’altro e determinavano l’inevitabile ed incontrollato scatenarsi delle passioni in tutti i soldati per il solo fatto di trovarsi in trincea, sottoposti alla reciproca minaccia delle armi. Sentimenti ostili contro gli austriaci esistevano fra gli italiani già da prima del ’15 e datavano dall’epoca risorgimentale, ma trentatré anni di Triplice alleanza avevano contribuito a soffocarli. Abbiamo già visto, inoltre, come Vittorio Emanuele III, il 24 maggio, avesse ordinato alle sue truppe di marciare oltre il confine senza eccitare in esse il disprezzo per l’avversario, e come l’esercito italiano si fosse avviato a combattere credendo in una guerra di vecchio tipo per quel che concerneva non soltanto la strategia o le armi, ma anche lo spirito degli uomini: nessuno immaginava ancora che la guerra totale sarebbe stata degna di

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questo attributo anche perché avrebbe violentato le coscienze di tutti gli uomini, distruggendo gli ultimi barlumi di quella funzione «culturale» che in qualche misura, fino ad allora, la guerra aveva potuto conservare. Ma bastarono pochi giorni, poche settimane, perché ogni illusione cadesse. 115 La guerra alimentò se stessa e trasformò gli individui. Si veda il caso di Giosuè Borsi, un giovane letterato, profondamente rispettoso della famiglia e della religione, incapace di far male ad alcuno, la cui personalità, una volta al fronte, subì una radicale trasformazione: «Ti spedirò alcune teste di austriaci come campione senza valore» scrisse ad un amico nell’ottobre 1915. 116 Disse che i colpi dei cannoni austriaci sembravano «starnuti o colpi di tosse» mentre l’artiglieria italiana faceva meraviglie: «Quanti austriaci si vedono volare per aria come fuscelli!». 117 Nella terra di nessuno giacevano cadaveri italiani e austriaci ma non si poteva andare a seppellirli, perché gli austriaci lo impedivano: «Quei furfanti non ci permettono neppure di compiere questa triste opera di misericordia […] Credi, mamma, che combattiamo contro la razzaccia più iniqua e barbara del mondo, e nessuna guerra potrebbe essere più santa di quella che abbiamo intrapresa per abbatterla per sempre e senza pietà». 118 Ma intanto come facevano i soldati italiani? Consentivano forse agli austriaci di andare nella terra di nessuno in loro vece? «Mamma adorata,» scrisse il Borsi l’indomani «i nostri soldati, tanto per passare il tempo, si divertono a raccogliere il materiale di guerra abbandonato dagli Austriaci nella loro fuga precipitosa: zappette, caricatori, 337

fucili, baionette. Ripuliscono i loro fucili, che non sono neppure in buono stato, e poi tirano sui nemici con quelli, perché sembra loro supremamente simpatico di spedirli all’altro mondo con le loro stesse armi. Ho un mio soldato che si chiama Fiaschi, il quale se la gira tutto superbo di casa in casa, con un bel moschettone austriaco in pugno, e, appena trova un punto propizio, piglia di mira le vedette appostate, non appena queste hanno l’imprudenza di cacciar fuori la testa. Poco fa ha ucciso così un soldato austriaco, ed è venuto a raccontarmelo soddisfattissimo. E non è un’eccezione. I nostri soldati, puoi dirlo a tutti, sono i migliori del mondo.» 119 Molto spesso non soltanto i morti, ma anche i feriti dopo i combattimenti, giacquero abbandonati nella terra di nessuno. Fu questa una norma quasi sempre rispettata durante la guerra, e già vedemmo il caso della brigata Salerno che aveva dato luogo a una decimazione. 120 Normalmente si cercava durante la notte di recuperare i caduti, ma talvolta, molto di rado, per un improvviso impulso umanitario, i portaferiti italiani ed austriaci uscivano allo scoperto, anche di giorno. Durante la primavera del 1916, per esempio, il gen. Rocca venne a sapere che fra le cime 3 e 4 del San Michele – ove le trincee italiane distavano appena 10-50 metri da quelle austriache – i portaferiti delle opposte parti uscivano a raccogliere i resti umani rimasti nella terra di nessuno dopo aver sventolato le bandiere con la croce rossa. Il generale volle recarsi sul luogo per rendersi personalmente conto delle operazioni. Rimase turbato perché vide uscire dalle trincee avversarie un ufficiale giovane ed elegante che si dava tono di comando: avrebbe voluto contrapporgli uno dei suoi ufficiali ma si accorse che erano tutti sporchi e trasandati e che avrebbero 338

fatto brutta figura. Proibì che nei giorni seguenti si continuassero a raccogliere i caduti. 121 Raccogliere i feriti dopo gli scontri era un’usanza che mal si accordava con la guerra totale: i comandi temevano che le truppe delle due parti trovassero occasione di conoscersi ed eventualmente di fraternizzare, ma gli stessi soldati venivano sempre più travolti dalla spirale dell’odio che impediva l’attuazione di gesti umanitari. 122 I cosiddetti «cecchini» erano tiratori scelti che, dall’una e dall’altra parte del fronte, si impegnavano di continuo, quando i combattimenti non erano in corso, in una spietata caccia all’uomo. Un ufficiale italiano, il giornalista Michele Campana, fece per un anno, sul Pasubio, il mestiere del cecchino, e descrisse in un suo libro di ricordi il piacere che egli traeva nel dare la caccia all’austriaco con il fucile a cannocchiale. Quando una giornata di maltempo gli impediva di sparare egli dichiarava, deluso, di essere restato «senza cinematografo». Eppure ricordava di aver avuto prima della guerra una tale pietà per tutte le creature da non poter uccidere un insetto senza provare turbamento. Come mai era diventato d’improvviso così indifferente alla vita degli uomini? «Così era comandato,» fu la sua risposta «nell’obbedienza sta la forza.» 123 E un altro ufficiale, il giornalista Arturo Rossato, raccontò che d’inverno, fra le nevi, i suoi uomini diedero per lungo tempo la caccia a un giovane cadetto austriaco, con lo stesso spirito con il quale di solito si dà la caccia a una lepre. Un giorno, finalmente, gli italiani colpirono la preda, e la trassero agonizzante nella loro trincea: nessuno aveva segni di commozione sul volto: «I soldati» scrisse Rossato «non compiangono mai il morto. Peggio per lui. C’è soltanto in tutti la curiosità di vedere una pallottola messa a posto bene, ed un uomo che dà spettacolo della sua morte». 124 La spiegazione di un tale comportamento deve essere ricercata 339

in quello «estraniamento» dalla propria personalità che costituiva una condizione tipica dei combattenti, i quali dimenticavano leggi, valori ed abitudini della loro passata esistenza. Poiché consideravano ormai se stessi come oggetti di poco conto, a maggior ragione negavano ai nemici una dignità umana. Si legga il racconto di Emilio Lussu, il quale, una notte dell’estate 1916, uscì dalle linee italiane, di pattuglia, e poté scorgere alle prime luci dell’alba i movimenti dei nemici in trincea. Vide gli austriaci bere il caffè e rimase sconvolto. Possibile, pensò, che i nemici compissero gesti così semplici e naturali come quelli di tutti gli altri uomini? Benché si trovasse al fronte da lungo tempo egli aveva sempre immaginato le trincee nemiche, «come case lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili», ed in quel momento, invece, per la prima volta, si rendeva conto che erano abitate da uomini i quali si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo dietro di lui ed in quell’ora stessa i suoi compagni: «Un’idea simile» confessò Lussu «non mi era mai venuta alla mente». 125 Più di una volta, in verità, accadde che italiani ed austriaci non si trattassero da nemici. Già negli anni della guerra e nonostante la censura, padre Gemelli poté scrivere che i soldati, per ingannare la lunga ed uggiosa vita della trincea, ragionavano di tutto e quindi anche del nemico, e più di una volta riuscivano a «stabilire conversazioni con lui, conversazioni a volo, frasi staccate». 126 A volte riuscivano anche a barattare qualcosa, pane con tabacco, per esempio. 127 In certe località, come a Plava, le opposte trincee distavano, in un punto, appena tre metri, e in località Zagòra una medesima catapecchia serviva a due comandi di reparto, uno austriaco e l’altro italiano, che se la dividevano metà per uno. 128 I contatti erano facilitati dal fatto che non 340

pochi soldati dell’esercito austriaco parlavano l’italiano, 129 ma spesso era la musica a comunicare quei sentimenti che la diversità dei linguaggi avrebbe altrimenti lasciati inespressi: una volta era un motivo della Vedova allegra suonato da un grammofono nelle trincee austriache che induceva i soldati italiani a rispondere con il Cielo e mar di Ponchielli. Un’altra volta era un capitano italiano, che presso ai reticolati austriaci cantava Le campane di San Giusto e la sera dopo gli austriaci rispondevano suonando con le ocarine Torna a Surriento. 130 Il 25 dicembre 1915 gli episodi di «fraternizzazione» riguardarono più di un reparto: in vari settori del fronte ufficiali e soldati dei due opposti eserciti si incontrarono sulla terra di nessuno e brindarono insieme al Natale. 131 Le notizie in nostro possesso fanno ritenere piuttosto rari i casi di «fraternizzazione», mentre dobbiamo credere che locali tregue d’armi ebbero luogo con ben maggiore frequenza. La Commissione di inchiesta su Caporetto spiegò come «in alcune posizioni, nelle quali per la vicinanza dei due avversari le perdite erano maggiori e continue, si stabilisse da una parte e dall’altra una specie di modus vivendi: non si uccideva per non essere uccisi, per un accomodamento tacito, senza bisogno di alcuna intesa specifica». 132 Le tregue di fatto costituivano un fenomeno naturale, una conseguenza, cioè, di quel processo di adattamento alla vita di trincea che consentiva, in ultima analisi, la prosecuzione della guerra stessa. Sarebbe stato assurdo immaginare i reparti di prima linea perpetuamente impegnati a sparare contro ogni ombra o contro ogni testa di soldato nemico. L’adattamento dei fanti ai lunghi turni di trincea si manifestava anche nella tendenza a concentrare l’impegno combattivo in brevi e decisivi periodi, le cosiddette «azioni». Questo fatto contribuiva a rendere 341

più tollerabile la permanenza nella prima linea, garantendo una qualche libertà di movimento ed evitando che il sacrificio degli uomini avesse carattere episodico. Dalle narrazioni dei combattenti sembra si possa ricavare che gli stessi comandi inferiori, più vicini ai problemi delle truppe, si rendessero spesso conto della necessità e della utilità di certe tregue: un colpo di cannone, ed anche un colpo di fucile sparati a freddo, potevano, in determinate circostanze, provocare rabbiose reazioni a catena, ed in generale si preferiva suscitare quelle reazioni quando uomini e mezzi erano pronti a farvi fronte. Un mattino, sul Carso, il bersagliere Mussolini si affacciò al parapetto della trincea e vide che a poche decine di metri due austriaci conversavano tranquillamente, mentre un terzo faceva toilette: si levava la giubba, la camicia, i pidocchi. Mussolini si guardò bene dallo sparare e questo suo comportamento gli sembrò così naturale da non doversene in alcun modo giustificare con i lettori del «Popolo d’Italia», ai quali descrisse minutamente la scena. 133 Tali forme di convivenza con i nemici avevano tuttavia una natura ambigua, e molti comandi si preoccupavano soprattutto del fatto che esse potessero far scomparire lo spirito combattivo fra le truppe. Il soldato abruzzese Francesco Giuliani riferì nel suo diario le parole di un superiore venuto per incitare i soldati a non stare fermi durante le lunghe soste nelle trincee: «Appena vedete un nemico, – aveva detto – un colpo e freddatelo, sarà sempre uno di meno; non bisogna mai risparmiarli […] bisogna tenere alto l’odio e la volontà di accopparli, così sarà più breve la via della vittoria». 134 E il gen. Capello si recò un giorno in una postazione avanzata sul Podgora; una sentinella gli fece cenno di avvicinarsi in silenzio e lo invitò a guardare dalla feritoia: c’era un austriaco uscito fuori dalla trincea. Capello domandò alla sentinella di fare altrettanto: «Quello mi spara», rispose il soldato. «E allora»

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replicò il generale «perché tu non spari a lui?» La sentinella spianò il fucile ed abbatté l’austriaco. 135 Ma al momento dell’azione, quando si era eccitati dal bombardamento delle artiglierie e dall’alcool, quando si udivano sparare le mitragliatrici e si vedevano cadere i compagni, anche i reparti che erano stati «in tregua» col nemico ritrovavano la loro animosità. I soldati uccidevano per non essere uccisi. Il fatto che il nemico combattesse era una ragione sufficiente perché ognuno si sentisse a sua volta animato di spirito combattivo. C’è da ricordare, inoltre, che durante la guerra, ma particolarmente nel 1916, la descrizione delle efferatezze compiute dal nemico contribuì nell’esercito italiano ad accrescere quella animosità, che era già naturale ed istintiva. All’alba del 29 giugno 1916, infatti, i gas asfissianti furono per la prima volta impiegati in grande stile dagli austriaci, nella zona tra il San Michele e San Martino al Carso. Una nube di cloro e di fosgene scese lentamente verso l’Isonzo, colse di sorpresa gli italiani e ne mise fuori combattimento circa 8.000, dei quali circa 6.000 perirono. Molti italiani non possedevano la maschera antigas, ma chi la possedeva si salvò soltanto gettandola via: si trattava infatti di maschere assolutamente primitive, inefficaci contro il fosgene, e che anzi finirono per accelerare la soffocazione. Il gas provocò indicibili dolori alle mucose degli occhi, del naso, della gola, dei bronchi. Sbigottiti per quanto stava accadendo, in preda alle sofferenze e con una sensazione fortissima di soffocamento, molti riuscirono a fuggire, cercando di chiudere il naso e la bocca con fazzoletti bagnati nell’acqua o nel caffè. Molti accesero dei fuochi, con paglia, lettere, giornali, libri, oggetti di vestiario, e vi si gettarono sopra carponi, con la faccia quasi a contatto delle fiamme, e soltanto in questo modo riuscirono a respirare. Così che «ovunque, si vedevano questi

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fuochi accesi, con 4 o 5 soldati intorno, tutti intenti a respirar su, perché quelle vampate di fiamme rappresentavano la salvezza del momento». 136 Ciò che soprattutto suscitò l’ira degli italiani fu il sapere che, dopo aver lanciato il gas, i nemici erano venuti all’attacco servendosi di mazze ferrate per colpire i superstiti. Scrisse il Lustig che le poche truppe italiane rimaste illese si slanciarono al contrattacco, nel pomeriggio, inasprite alla vista dei morti e dei feriti straziati dal gas o dalle percosse, e catturarono militari e ufficiali nemici che impugnavano mazze. Un graduato colto sul fatto mentre colpiva con una mazza soldati inermi e storditi fu fatto prigioniero e passato per le armi immediatamente. Moltissime mazze ferrate furono rinvenute nelle trincee e nei camminamenti abbandonate sul terreno dagli austroungarici. 137 Le mazze erano di diverse fogge, e talune erano piene di punte acuminatissime. Allorché, nel gennaio 1917, Ferdinando Martini fu ricevuto dal re in zona di guerra, poté vederne alcune: «[Il re] ci mostra le famose mazze di ferro austriache: ne ha tre: due informi sono fatte con involucri di granate scoppiate, ma sono anche queste micidiali se colpiscono il cranio. Una terza è fusa. Strumenti di barbarie, terribili». 138 Il solo fatto di vedere questi strumenti suscitava tra i soldati uno sdegno maggiore di quello che avrebbe potuto essere provocato da una qualunque conferenza di propaganda patriottica. «Io» scrisse padre Gemelli «ho veduto a Gorizia dei soldati, degli antichi eroi della settimana rossa, nei quali si diceva che erano totalmente spente le ragioni ideali della guerra, ai quali

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è bastato il vedere le mazze insanguinate con le quali gli austriaci finivano i prigionieri, per risvegliare gli antichi spiriti.» 139 9. Nel 1916 la propaganda «sovversiva e disfattista» non suscitava ancora gli allarmi del Comando supremo, ed è infatti molto significativo che quel Comando decidesse di emanare la prima circolare contro la diffusione di pubblicazioni antimilitariste soltanto il 18 giugno 1916. In essa fu segnalata la circolazione di «giornali sovversivi e manifestini tricolori» incitanti alla diserzione, «diramati da anarchici» e distribuiti nella zona del fronte a mezzo di «emissari e operai addetti ai lavori». 140 L’8 dicembre seguente un’altra circolare impartì ulteriori disposizioni per impedire la diffusione di stampati «anarchici» fra le truppe. 141 Bisognò attendere il 4 gennaio 1917 perché una nuova circolare del Comando supremo mettesse in guardia i comandi subordinati contro forme più ampie di propaganda pacifista. 142 I limiti della propaganda pacifista nell’esercito durante la seconda metà del ’16 furono sostanzialmente confermati da tre circolari del ministero della Guerra, diramate tra l’agosto e il dicembre. Nella prima di queste circolari 143 il ministro specificò come gli risultasse che si era cercato «più volte» di far giungere alle truppe «qualche» opuscolo o «qualche» manifesto, «tendenti a deprimere il morale ed a fare opera contraria alle istituzioni ed alle aspirazioni nazionali». Risultava inoltre che «gli ambienti prescelti dai propagandisti» erano «i luoghi di cura», dove l’accesso era più facile e la sorveglianza minore, e dove si presumeva che le sofferenze rendessero «più accessibili nell’animo dei soldati degenti le insane teorie». Il ministro non faceva alcun cenno ad episodi di propaganda pacifista nei reparti operanti. Le pubblicazioni che «presumibilmente» circolavano tra le truppe erano – secondo il ministro – il manifesto di 345

Kienthal e… La paga del sabato, un volume di Giovanni Papini! Il 21 ottobre il ministro, facendo seguito alle precedenti raccomandazioni, segnalò altre due pubblicazioni «pericolose», e precisamente due opuscoli della Federazione giovanile socialista intitolati Il soldo al soldato e Coscritto, ascolta! Effettivamente un pacco contenente tali pubblicazioni era stato rinvenuto in un treno della linea Roma-Napoli, ma l’allarme dell’autorità militare era quanto mai eccessivo: quei due opuscoli, infatti, erano stati stampati prima della guerra, rispettivamente nel ’13 e nel ’14! Il fatto meritevole di segnalazione era proprio questo, semmai, che la Federazione giovanile, nel 1916, continuasse ad usare un materiale propagandistico così vecchio e superato. 144 Il 18 dicembre, infine, il ministro della Guerra tornò ad occuparsi della propaganda pacifista per segnalare che erano stati spediti per posta alcuni stampati non socialisti, ma anarchici, diretti «ai proletari, alle donne, ai militari» e firmati: «i senza patria inneggianti alla rivoluzione del regicidio». 145 Maggiore importanza ebbe invece la circolare che il ministro degli Interni Orlando inviò il 4 novembre ai prefetti, su invito (dobbiamo presumere) dell’autorità militare. 146 Neppure essa, tuttavia, fu in grado di indicare alcuna manifestazione specifica di propaganda contro la guerra. La circolare, piuttosto, segnalò la minaccia della propaganda che elementi «rivoluzionari», non meglio precisati, avrebbero potuto svolgere presso i soldati che cominciavano a giungere in licenza invernale. «Risulta a questo ministero» si lesse nella circolare «che i partiti sovversivi, che non lasciano intentato alcun mezzo per la criminosa propaganda contro la guerra e le istituzioni, intendono intensificarla anche nell’esercito, profittando, a tale scopo, della occasione delle iniziate licenze invernali ai militari. Pare che gli 346

elementi rivoluzionari si propongano, avvicinando i nostri soldati, di esplicare subdolamente l’opera loro sobillatrice, per deprimerne lo spirito, istillare nei loro animi l’avversione alla guerra ed al militarismo, e istigare alla diserzione ed alla rivolta. Ora, per quanto il nostro esercito abbia dato prove mirabili di disciplina, di valore, di patriottismo, certo non è da escludersi che tale propaganda possa produrre in qualche caso i suoi effetti perniciosi, per cui occorre che essa sia con ogni rigore prevenuta, impedita e combattuta. A tal fine il Comando supremo ha disposto che siano date severe norme disciplinari, e siano avvertiti i militari che se si manifestassero perturbazioni dell’ordine pubblico nel Paese, il governo farebbe sospendere immediatamente le licenze per le province nelle quali si verificassero tali disordini.» Le autorità di pubblica sicurezza, d’accordo con quelle militari, dovevano pertanto reprimere ogni forma di propaganda contro la guerra, vigilando «sia sui militari, sia sui perturbatori», e riferendo «di quando in quando» al ministero. Mentre alla fine del 1915, come già vedemmo, 147 le autorità politiche e militari erano state concordi nel riconoscere che i racconti dei militari in licenza avevano contribuito a deprimere ed allarmare il Paese, rimasto sostanzialmente indifferente alla guerra ed inconsapevole dei suoi aspetti più tragici, negli ultimi mesi del 1916, viceversa, si cominciò a temere per la prima volta che le influenze negative del Paese – o almeno di una parte di esso – potessero turbare lo stato d’animo delle truppe. 10. Le circolari dell’autorità militare sui pericoli della 347

propaganda contro la guerra si riferivano esplicitamente sia agli anarchici, sia ai socialisti. Ma fino a qual punto gli uni e gli altri rappresentavano a quel tempo un pericolo? Gli anarchici, innanzi tutto, costituivano un movimento che, se raggiungeva una sua consistenza in alcune zone della penisola, non era nell’insieme troppo numeroso. Per giunta, fra il ’14 e il ’15, anch’essi – come i socialisti – avevano subìto una grave crisi in conseguenza della guerra: alcuni autorevoli esponenti del movimento – fra i quali Maria Rygier, Libero Tancredi (Massimo Rocca) ed Oberdan Gigli – avevano abbandonato i loro compagni per abbracciare la causa dell’intervento. Potrà essere curioso ricordare che il Premuti – sempre così puntiglioso nel mettere all’indice i nemici della patria – dichiarò nel suo libro che del partito anarchico si era parlato poco durante la guerra, poiché, a parte coloro che erano passati all’interventismo, alcuni altri avevano preferito «mettersi alla finestra» e «i pochi, or sì or no» avevano riaffermato la fede nell’Internazionale, ma, salvo rarissime eccezioni, nessuno aveva fatto gran male alla resistenza interna col predicare la diserzione o col sabotare l’assistenza civile alle famiglie dei combattenti: se in qualche moto popolare – come a Torino – erano comparsi gli anarchici, certo non erano stati essi gli organizzatori della rivolta. 148 Quanto ai socialisti il discorso era alquanto complesso. Il loro partito, difatti, si presentava assai scarsamente omogeneo, poiché ospitava correnti ispirate da sentimenti ben diversi fra loro, se non addirittura divergenti. «Il Partito» scrisse Treves nell’ottobre 1916 «dà l’idea di tanti partitini racchiusi uno dentro l’altro, come certi giuocattoli cinesi. I Giovanili, i Comuni, le Sezioni, le Leghe, ecc., ognuno fa partito nel partito con programmi che variano… dall’ospitalità al nazionalismo alla negazione del dovere verso la patria…» 149 Ciò che tuttavia

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consentiva alle diverse correnti di convivere nella medesima organizzazione era una notevole incertezza sulle scelte da compiere a breve scadenza. L’idea dominante, sia tra i riformisti, sia tra i «sinistri», era che le scelte più impegnative potessero essere rinviate al dopoguerra. I riformisti prevalevano sia in seno al gruppo parlamentare, sia nella Confederazione del lavoro e nelle amministrazioni comunali delle grandi città; la sinistra, viceversa, controllava la direzione del partito e quella dell’«Avanti!». Mentre i riformisti ponevano l’accento sul «non sabotare», i loro compagni di partito lo ponevano sul «non aderire», ma gli uni e gli altri restavano legati a una formula (e grazie a una formula) che il trascorrere dei mesi rendeva sempre più equivoca. I riformisti non osarono condurre fino in fondo la loro battaglia e non riuscirono a chiarire neppure a se stessi i termini ultimi dei problemi posti dall’intervento dell’Italia in guerra: sentirono di essere condizionati dalla «patria», ma ebbero paura di pronunciare in pubblico questa parola; si accorsero di non avere nulla o quasi nulla in comune con buona parte della sinistra, ma accettarono fino all’ultimo di militare al fianco di essa. Il fatto era che in pratica anche la corrente di sinistra finiva per collocarsi su posizioni non molto diverse da quelle dei riformisti. I capi del partito, ha scritto infatti Gaetano Arfé, non avevano una loro linea da proporre: soltanto l’«Avanti!», nelle mani di Serrati, faceva «delle sortite sistematiche e ardite fuori della linea ufficiale», e tuttavia neppure nell’«Avanti!» di Serrati c’era «alcuna visione strategica» diretta a coordinare e indirizzare quelle sortite. 150 Nel luglio 1916 accadde addirittura che un esponente riformista come il sindaco di Milano Caldara si recasse dal presidente Boselli per chiedere facilitazioni alla diffusione

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dell’«Avanti!» in zona di guerra, e che lo stesso presidente del Consiglio, si facesse portavoce di tale richiesta presso il Comando supremo. Boselli domandò che l’«Avanti!» fosse introdotto almeno nelle province di Ferrara e di Mantova, e il gen. Porro rispose negativamente («Il divieto di diffusione del giornale “Avanti!”» scrisse «risponde ad una necessità che, anziché scemare, si fa ogni giorno più vivamente sentire, data la subdola e pertinace opera di denigrazione della nostra guerra che l’organo socialista va compiendo»). 151 Ma se le autorità militari facevano presto a mettere al bando l’«Avanti!», le massime autorità politiche, come abbiamo visto, consideravano quel giornale con ben altro rispetto e un altro documento di quel luglio 1916 ci informa delle premure che verso lo stesso giornale dimostravano certi ambienti economici. Il marchese Cassis, commissario alla prefettura di Milano, inviò il 23 luglio 1916 una lettera riservata al presidente del Consiglio sull’argomento: «Mezzi finanziari abbastanza ingenti ritrae il giornale «Avanti!» dagli avvisi di pubblicità e viene da più parti deplorato che tale fonte di guadagno sia alimentata da società che hanno rapporti col governo e preferiscono l’“Avanti!” ad altri giornali. Cito la Navigazione Generale Italiana, l’Italia, l’Atlantica Italiana, il Lloyd Sabaudo, la Società esercente le Regie e Nuove Terme di Montecatini, la Fiat ed altre del genere. Reputo mio dovere informare della cosa V.E. ricordando la continua incessante propaganda antinazionale condotta dall’“Avanti!”. Unisco, per visione, la réclame della Fiat apparsa nell’«Avanti!» del 16 corrente. Non credo che analoghi

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avvisi réclames la Fiat faccia inserire in altri giornali, almeno milanesi». 152 Il disegno politico dei socialisti non era in quel momento un disegno rivoluzionario. Le diverse correnti – come abbiamo già detto – preferivano attendere il maturarsi degli eventi. Per la sinistra – in altre parole – si trattava di rimandare la rivoluzione al dopoguerra. Per i riformisti si trattava invece di mantenersi «vergini, puri da compromessi», onde poter svolgere una funzione mediatrice tra borghesia e proletariato non appena fosse passata «l’ora della grande follia». 153 Alcuni vollero scorgere nell’attività dei più giovani – cioè della Federazione giovanile socialista – il segno di un diverso e più autonomo indirizzo, rivolto al conseguimento di obbiettivi immediati. Nel maggio, a Molinella, si levarono grida di «abbasso la guerra» dal treno in cui viaggiavano i coscritti della classe 1897; ne furono arrestati otto, tutti appartenenti al locale circolo socialista. Sempre nel maggio, ad Arezzo, altri undici coscritti furono arrestati per aver inneggiato alla pace ed alla rivoluzione socialista (e la sera stessa, alla stazione, varie grida pacifiste furono udite provenire dal treno che portava in zona di guerra un battaglione di fanteria). 154 Certamente tra i giovani socialisti se ne potevano trovare parecchi disposti alla protesta immediata (se non altro perché la loro età li esponeva direttamente ai rischi della guerra), ma gli episodi dei quali essi furono protagonisti restarono, tutto sommato, di ben modesta entità. Ci riferiamo, in particolare, a quel processo che, nella seconda metà del ’16, fu intentato contro alcuni dirigenti della Federazione giovanile, e che venne ampiamente sfruttato dalla stampa interventista, per far credere agli italiani che le forze più giovani del movimento operaio stessero insidiando la sicurezza nazionale. La forza pubblica era riuscita a sequestrare in una tipografia romana 351

soltanto 1.300 manifestini, stampati a cura di quella Federazione e non ancora distribuiti, ma nella sentenza che concluse il processo, svoltosi innanzi a un tribunale militare, si lesse addirittura che gli imputati avevano tentato di organizzare «la rivolta nel Paese». 155 In realtà l’intero Partito socialista si trovò esposto a due sollecitazioni contemporanee e contraddittorie: la patriottica e l’internazionalistica. Negli anni successivi alla guerra tanto i socialisti quanto i loro avversari ritennero utile far credere che la sollecitazione internazionalistica avesse senz’altro sopraffatto quella patriottica. Gli uni perché giudicarono conveniente presentarsi alle masse completamente affrancati dalle responsabilità della guerra, gli altri perché, all’opposto, considerarono opportuno presentare i socialisti sotto la luce di un anti-patriottismo che li screditava presso una parte – e non piccola parte – di quelle masse. Ma, a ben vedere, gli atteggiamenti del Partito socialista furono molto diversi da quel che interessate teorizzazioni vollero far credere. Non soltanto la formula ambigua del «non aderire e non sabotare», ma le stesse deliberazioni adottate dalle conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal lasciarono ai socialisti ampio margine per le più elastiche interpretazioni. 156 Una sostanziale collaborazione alla guerra si espresse anche nel 1916 grazie alle molteplici iniziative promosse dalle giunte comunali socialiste di Milano, Bologna ed altre città, per l’assistenza ai richiamati, ai disoccupati, alle loro famiglie. Sotto questo riguardo sembrò addirittura che le giunte socialiste dessero prova di comprendere i problemi del «fronte interno» più e meglio dello stesso governo. 157 Nel marzo 1916, alla Camera dei deputati, l’on. Dugoni lasciò intendere che i socialisti, con la loro attività di assistenza in favore delle classi più umili e più

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colpite dalla guerra, non soltanto non sabotavano la patria, ma addirittura l’aiutavano a vincere, giovando «automaticamente, involontariamente», al buon successo di quella causa che rifiutavano sul terreno politico. 158 L’on. Casalini, deputato socialista di Torino (la città più fieramente neutralista), proclamò in piena Camera che il suo partito sabotava non la guerra «ma la eventualità di movimenti impulsivi delle masse»! 159 Il motivo che veniva più facilmente addotto dai socialisti per giustificare molte forme di collaborazione alla causa nazionale era quello del pericolo di un’invasione straniera: «Noi siamo contrari ad ogni idea di guerra» disse l’on. Cugnolio, deputato di Vercelli «ma non potremmo certamente ammettere che il nemico venisse nel nostro Paese, e s’insediasse nelle nostre case». 160 E l’on. Turati, a sua volta, si faceva anche più ardito affermando che nessun cittadino, indipendentemente dalle sue opinioni politiche, doveva mai volere «il male della sua terra», né rifiutare «quell’eventuale meglio» che dalla guerra sarebbe potuto derivare al popolo italiano ed a tutti gli altri popoli. 161 Il 14 dicembre, in piena Camera, lo stesso Turati dichiarò, fra gli applausi della maggioranza, che l’Italia non avrebbe potuto fare la pace senza ottenere sia quel territorio che era veramente italiano, sia quelle garanzie strategiche che le spettavano di diritto. 162 Zibordi, nella «Critica Sociale», si compiacque del fatto che i militari socialisti fossero ottimi e valorosi combattenti, e ne giustificò il contegno spiegando che il partito – anche se ricercava un accordo internazionale per la pace – accettava d’altra parte «le necessità dell’ora e i doveri creati dalla necessità», collocandosi «di fatto, anche se non a parole, con la sua nazione». 163 Erano parole molto chiare, ma un articolo a firma «Numero», apparso 353

sulla stessa rivista nel settembre-ottobre, fu ancora più audace: i socialisti erano «buoni soldati» – si lesse – sia perché quello non era tempo di rivoluzioni, sia perché i socialisti stessi, in generale, erano uomini probi, retti, sani di spirito e di corpo, ricchi di qualità, insomma, che la guerra metteva in valore. L’articolista proseguiva col dire che la recluta socialista faceva tacere il suo pensiero, ma non il sentimento: e che cosa era mai il sentimento socialista, se non «capacità di maggior coraggio e di maggior sacrificio?». «Si potrà imporre, al sovversivo armato, di nascondere la medaglia del Fascio o di non leggere l’“Avanti!”; non gli si potrà impedire di essere fermo e probo, sereno e impavido, temprato al dolore e tenace alla fatica, amoroso verso i commilitoni e sprezzante verso la morte. Soltanto in questo senso la nostra “bontà”, provata da innumeri cronache di caserma e d’ospedale, di campo e di trincea, ci appare logica e necessaria. L’uomo sopravvive al socialista, il camerata appare appena una diversa denominazione del compagno. Ma l’elezione della specie è tuttora manifesta; ed ecco il “buon” soldato.» L’articolista arrivava perfino a dire che le forme della legge marziale non offendevano il combattente socialista, poiché questi proveniva «da una milizia e da una disciplina opposta, ma simile». 164 11. Non è difficile spiegarsi perché l’atteggiamento del Partito socialista apparisse agli interventisti più «pericoloso» di quanto non meritasse. Da una parte gli interventisti si preoccupavano che il prolungarsi indefinito della guerra favorisse il gioco dei 354

socialisti, nessuno dei quali aveva mai cessato di chiedere la pace, anche se di fatto collaborava alla guerra. In secondo luogo quegli interventisti scorgevano nel Paese sintomi sempre più inquietanti di una spontanea protesta popolare contro la guerra, e pensavano che i socialisti, e gli altri neutralisti, avrebbero potuto far leva su quella protesta per imporre la pace e far precipitare l’Italia nella sconfitta e nel caos. Le preoccupazioni degli interventisti si fondavano sul fatto che il secondo anno di guerra si concludeva con un bilancio piuttosto scoraggiante, nonostante Gorizia, anche perché era tutta la guerra europea, non soltanto quella italo-austriaca, che sembrava non poter giungere mai alla fine. Nel dicembre del ’16 i soldati tornavano alle loro case per la seconda licenza invernale dopo le logoranti e inconcludenti offensive autunnali. Manifestazioni di protesta contro la guerra – come meglio vedremo nel prossimo capitolo – erano state segnalate in varie province, soprattutto ad opera delle donne ed in particolare delle donne dei combattenti. Si temeva pertanto che durante le licenze le mogli inducessero alla protesta i mariti. Si temeva che il Partito socialista potesse agilmente manovrare in questo ambiente di scontento. L’«Avanti!» di Serrati usava un linguaggio più rigido e perfino il gruppo parlamentare, dominato dai riformisti, dava l’impressione di voler adottare un atteggiamento meno cauto. La frazione estremista sembrava più attiva e parecchi sintomi avvertibili nel Paese potevano far credere che tutto il partito avrebbe presto modificato il suo atteggiamento nei confronti della guerra. I timori degli interventisti erano resi più angosciosi dal fatto che essi stessi si sentivano incapaci di superare la loro crisi. Il 5 dicembre, quando la Camera dei deputati tornò a riunirsi, regnava nell’aula un’atmosfera di cupo pessimismo. In quei 355

giorni non soltanto i cosiddetti disfattisti, ma anche i membri del governo, in privato, dubitavano della vittoria. 165 Da ogni parte ci si domandava quali fossero diventati i reali obbiettivi di una guerra così tragicamente diversa dalle previsioni che erano state fatte all’inizio. Le idee erano confuse e contraddittorie e una parte dell’assemblea avrebbe voluto riunirsi in «comitato segreto» per discutere liberamente a porte chiuse. Il governo si opponeva al «comitato segreto», e faceva rinviare di sei mesi l’esame di una mozione socialista, che chiedeva la pace senza annessioni, la mediazione degli Stati Uniti e l’istituzione della lega delle nazioni. Gli interventisti cercavano di stringere le loro file, non tanto intorno a un programma comune, quanto piuttosto contro un nemico comune, e reclamavano misure di carattere eccezionale contro quel Partito socialista che si serviva anche del parlamento per insistere nella sua campagna di pace. Il ministro dell’Interno, Vittorio Emanuele Orlando, considerava viceversa con molta tranquillità la situazione del Paese e si rifiutava di adottare misure di carattere straordinario contro i socialisti; per tale ragione, in quei giorni, veniva vivacemente criticato da molti. In pubblico Orlando non poteva dir tutto ma, in private conversazioni, trovava validi argomenti per giustificare la sua prudente condotta: spiegava che «i capi socialisti di coscienza come Turati e Treves» stavano impedendo e frenando gli eccessi dei loro compagni più intransigenti, e che non avrebbero potuto viceversa proseguire quella loro attività moderatrice se il partito fosse stato colpito da provvedimenti eccezionali. Orlando si dichiarava «sicuro» del fatto che in Italia non ci sarebbe stato un movimento politico contro la guerra. L’ultimo giorno dell’anno, in un colloquio con l’inquieto Bissolati, precisava di aver pronti, ad ogni buon conto, i decreti per lo stato d’assedio, ma soggiungeva di non vedere la necessità di

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applicarli: il Paese era tranquillo e gli stessi deputati socialisti lo stavano aiutando «nell’opera di polizia». 166 Il Partito socialista non costituiva il pericolo temuto dagli interventisti sia per la moderazione di tanti suoi dirigenti, sia perché sussistevano condizioni obbiettive tali da indurre il partito alla riflessione indipendentemente dalle inclinazioni dei capi. Questa nostra affermazione risulterà più chiara quando, nel prossimo capitolo, si vedrà quale profonda spaccatura si fosse determinata, a causa della guerra, tra fanti-contadini ed «operaiimboscati». Era questo un primo dato di fatto che impediva al partito di portare la sua protesta fino alle ultime conseguenze. Ma esisteva anche un secondo dato di fatto di carattere ideale, e non per questo meno obbiettivo e concreto, che impediva ai socialisti di spingere oltre a un certo limite la loro lotta per la pace: l’idea della patria che condizionava gran parte della nazione, ma che – come abbiamo visto – condizionava, in forme ora più manifeste, ora più sottili e profonde, pure grandissima parte del movimento operaio. La guerra totale pretendeva soluzioni totali e non soluzioni di compromesso. Le proposte di mediazione o di negoziato (come appunto quelle che i socialisti facevano) erano in partenza destinate a fallire perché ciascuna delle due parti contendenti, accecata dall’odio e dallo spirito di rivincita per le enormi perdite già sofferte, considerava come un cedimento inammissibile quelle condizioni di pace che l’altra parte sarebbe stata disposta ad offrire. L’alternativa veniva in pratica a porsi tra la sconfitta e la vittoria totale. Ma mentre era in certo qual modo facile continuare a promettere la vittoria, non era affatto semplice fare accettare ad una nazione che la pace venisse barattata con la «sua» sconfitta. E soprattutto era impossibile far accettare quel baratto fintantoché un rovescio militare non si fosse già da sé

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delineato. Nel caso dell’Italia, durante il 1916, la nazione non pensava ancora di aver perso la partita poiché vedeva anzi quasi tutta la prima linea del suo esercito schierata oltre il vecchio confine, in territorio austriaco. La frazione estremista del Partito socialista non era neppur essa disposta ad assumersi fino in fondo le responsabilità di una disfatta. Riusciva ad esprimere soltanto confusamente i fermenti presenti in una parte del proletariato, si lasciava condizionare da essi e non arrivava a guidarli. I cosiddetti «intransigenti» restavano isolati nel loro stesso partito. Non ne dominavano gli organi neanche a Torino, città in cui pur erano molto numerosi: furono battuti dai moderati nell’ottobre 1916 ed esclusi dalla Commissione esecutiva eletta nel marzo dell’anno seguente. 167

358

Note 1

Cfr. p. 187.←

2

Cfr. i dati contenuti in Inchiesta Caporetto, vol. II, tav. 33.←

3

Cfr. L. CAPELLO , Note di guerra,, cit., vol. I, p. 278, e le dichiarazioni di Cadorna in A. GATTI , Uomini e folle in guerra, Milano 1921, pp. 183-84; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 250.←

4

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 710.←

5

Ibid., p. 708.←

6

ACS, Primo aiutante, b. 25, Carteggio guerra 1915-18, Rapporti personali. Provvedimenti disciplinari, Comando della 35a divisione fanteria, Rapporto del 24 maggio 1916. Potrà essere interessante ricordare che, per reagire alla crisi morale in corso fra le truppe, i comandi ricorsero per la prima volta al lancio di volantini propagandistici. Il Pettorelli-Lalatta, infatti, capo del servizio informazioni dell’armata travolta dall’offensiva, si recò il 18 maggio dal sottocapo di stato maggiore, gen. Porro, per proporgli di diffondere manifestini tra i soldati. La proposta, che pareva allo stesso Pettorelli «un po’ strana, al di fuori delle solite consuetudini», fu nondimeno accolta e nel giro di poche ore una squadriglia di aerei partì con i manifestini. In essi l’incitamento alla resistenza fu lanciato a nome delle madri, delle mogli e dei figli: «Nessun austriaco può valere più di un italiano: se essi hanno un po’ più di artiglieria» era stato scritto con qualche ingenuità «le nostre baionette sono migliori. Gli austriaci temono il fuoco sterminatore e gli assalti alla baionetta degli italiani […] Guai a chi si lascia prendere! Gli austriaci maltrattano i prigionieri». 359

Cfr. C. PETTORELLI- LALATTA , ITO (Informazioni Truppe Operanti), cit., pp. 97-98 e 170. Cfr. inoltre le osservazioni di G. DOUHET , Diario critico di guerra, cit., pp. 246 e 267.← 7

Cfr. R. BENCIVENGA , La campagna del 1916. La sorpresa di Asiago e quella di Gorizia, Roma 1935, p. 132.←

8

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 93. Il Mortara fece notare che da un punto di vista statistico i casi di resa o sbandamento toccarono il culmine nel secondo anno di guerra per l’offensiva del Trentino. Cfr. [G. MORTARA ], MINISTERO DELLA GUERRA , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella Prima guerra mondiale. Dati sulla giustizia e disciplina militare, Roma 1927, p. 18. Il volume fu pubblicato in un numero limitato di copie numerate e non destinato alla libera circolazione; una copia è a disposizione degli studiosi nella biblioteca dell’Archivio Centrale dello Stato. Sul panico tra le truppe e lo sbandamento nelle prime linee cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 216 e 226.←

9

G. DOUHET , Diario critico di guerra, cit., vol. II, p. 229 (alla data del 6 giugno 1919). Douhet riferì un racconto fattogli dal gen. Lequio.←

10

Riproduciamo il testo allegato alla lettera di Cadorna a Boselli del 20 novembre 1916 conservato, in ACS, Carte Bissolati, scatola 3, fascicolo 3.←

11

Nel testo della medesima lettera pubblicata in L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 93, la parola «estreme» risulta modificata in «severe».←

12

Sull’intero episodio cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 81-83, 448 e 497-98; G. DOUHET , Diario 360

critico di guerra, cit., vol. II, pp. 272-73 (alla data del 24 giugno 1916); A. FRESCURA , Diario di un imboscato, cit., p. 54 (alla data dell’11 giugno 1916); U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 30809.← 13

ACS, Primo aiutante, b. 25, Carteggio guerra 1915-18, Rapporti personali. Provvedimenti disciplinari. Rapporto del Comando truppe dell’altipiano, dell’11 giugno 1916.←

14

Nell’esercito e nel paese si diffuse la leggenda che fossero stati fucilati sommariamente persino dei generali; cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 193.←

15

L’intero carteggio è conservato in ACS, Carte Bissolati, scatola 3, fascicolo 3. La lettera di Bissolati a Boselli del 10 novembre 1916 è stata già pubblicata da F. MANZOTTI , Bissolati, Salandra, Sonnino, in «Nuova Antologia», maggio 1963, p. 75.←

16

Lettera di Canepa a Bissolati del 21 ottobre 1916 in ACS, Carte Bissolati, cit. alla nota precedente.←

17

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 359.←

18

Lettera di Cadorna a Boselli del 20 novembre 1916 in ACS, Carte Bissolati, cit. alla nota 15.←

19

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 142-43, intervento dell’on. Canepa alla seduta del 14 dicembre 1917. Un resoconto dello stesso intervento si trova in F.L. PULLÈ- G. CELESIA DI VEGLIASCO , Memorie del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale, cit., p. 111.←

20

Cfr. L. BISSOLATI , Diario di guerra, cit., p. 86 (alla data dell’11 luglio 1917).←

21

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 95.← 361

22

Questa garanzia fu soppressa per poco più di un mese fra il giugno e il luglio 1917, e soltanto per 7 condanne capitali il gen. Pétain non udì il parere del presidente della repubblica. Sul regime penale militare dell’esercito francese cfr. il resoconto della relazione di G. Pedroncini all’Académie des sciences morales et politiques in «Le Monde» del 20 novembre 1968, p. 17 e G. PEDRONCINI , Les mutineries de 1917, cit., pp. 1320 e 205-11.←

23

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 174 (lettera del 1° novembre 1916). Su altri gravi incidenti verificatisi in reparti di alpini tra l’ottobre e il novembre 1916, cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 113, 116 e 119.←

24

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 94. Sulla rivolta del 125° reggimento fanteria cfr. A. MARPICATI , La proletaria, cit., pp. 3041.←

25

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 96.←

26

Ibid., pp. 82-83.←

27

Cfr. A. SALANDRA , La neutralità italiana, cit., p. 292.←

28

L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 4.←

29

Cfr. MINISTERO DELLA GUERRA , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, La forza dell’esercito, cit., p. XVIII←

30

L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. II, p. 34.←

31

F. TROIANI , La coda di Minosse, cit., p. 39.←

32

Ibid., cit., pp. 39-42. Un buon contingente degli ufficiali della milizia territoriale ed anche di complemento ottennero il 362

grado per titoli senza neppure aver frequentato un corso, cfr. quanto si legge alle pp. XVI-XVII della pubblicazione citata alla nota 29, e in E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 125.← 33

Cfr. L. LIVI , Il contributo regionale di ufficiali di fanteria durante la guerra (Cenni statistici sugli allievi della Scuola Militare di Modena) in «Giornale degli economisti e rivista di statistica», gennaio 1917, pp. 1-22. Si veda inoltre la recensione di F. Chessa all’articolo del Livi in «Rivista italiana di sociologia», gennaio-febbraio 1917, pp. 126-129 e la risposta del Livi pubblicata in questa stessa rivista, dicembre 1917, pp. 517-18.←

34

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 23 nota 1, ma cfr. anche ibid. le pp. 23-25.←

35

Cfr. M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 169.←

36

Cfr. A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 17.←

37

Cfr. E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 125.←

38

L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, p. 88. Cfr. inoltre le considerazioni svolte in A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., pp. 119-20.←

39

Cfr. E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., pp. 22-23 e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 168-69.←

40 41

Cfr. E. CAVIGLIA , Diario, cit., p. 64.← Cfr. E. DE BONO , Nell’esercito nostro prima della guerra, cit., p. 394.← 363

42

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 319.←

43

G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., p. 16.←

44

Cfr. A. FERRY , Carnets secrets, cit., pp. 65-66.←

45

Cfr. A. OMODEO , Lettere, cit., p. 177 (lettera alla moglie del 20 febbraio 1917).←

46

Cfr. la lettera di Luigi De Andreis a Ergisto Bezzi del 7 maggio 1916 in E. BEZZI , Irredentismo e interventismo (1903-1920), a cura di T. Grandi e B. Rizzi, Trento 1963, pp. 207-11.←

47

Cfr. G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., pp. 18-20.←

48

C. BATTISTI , Epistolario, cit., vol. II, p. 141.←

49

F. MARTINI , Diario, cit., p. 778 (alla data del 13 settembre 1916). In data 5 novembre 1915 lo stesso Martini aveva scritto: «Ufficiali di carriera raccomandati sono finora rimasti tranquilli in pacifici uffici mentre ufficiali di complemento hanno esposto la vita in continui combattimenti» (ibid., p. 561).←

50

Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 13, nota 1.←

51

A. OMODEO , Lettere, cit., p. 148.←

52

Cfr. L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, p. 215.←

53

A. OMODEO , Lettere, cit., p. 144 (lettera alla moglie del 29 settembre 1916).←

54

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 376 (alla data del 12 novembre 1917).←

364

55

A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, in Opere, cit., vol. III, p. 242.←

56

La lettera è pubblicata in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., p. 295. Anche Vittorio Emanuele III disse al convegno di Peschiera, nel novembre 1917, che i giovani ufficiali italiani «non erano abbastanza istruiti». Cfr. L. ALDROVANDI MARESCOTTI , Guerra diplomatica, Milano 1937, p. 178 (alla data dell’8 novembre 1917).←

57

Recensione di A. Omodeo a G. VOLPE , Ottobre 1917, Milano 1930, in «La Nuova Italia» del 20 luglio 1930, ripubblicata in A. OMODEO , Libertà e storia, Torino 1960, p. 49.←

58

Risposta di G. Volpe a A. Omodeo in «La Nuova Italia» del 20 novembre 1930, n. 475. Cfr. inoltre G. VOLPE , Caporetto, [Ottobre 1917], Roma 1966, pp. 35-36.←

59

Cfr. A. OMODEO , Libertà e storia, cit., recensione citata, p. 50.←

60

Cfr. l’introduzione di A. Galante Garrone a A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, Torino 1968, e A. GAROSCI , Adolfo Omodeo III, Guida morale e guida politica, in «Rivista storica italiana», marzo 1966, pp. 144-49. Le impressioni di Omodeo sui sentimenti del paese sono in A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, Bari 1934, p. 321 (da noi già riportate a p. 104 del cap. II). Del resto le stesse lettere degli ufficiali caduti in guerra utilizzate nel citato volume si presterebbero spesso a interpretazioni diverse da quelle date dall’Omodeo.←

61

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 38. Dopo aver ricordato che gli ufficiali di complemento «difettavano spesso di autorità dinanzi ai soldati anziani», il generale Raffaele Cadorna soggiunge che la gioventù austriaca era atta al comando molto più di quella italiana. Nelle strade di 365

Innsbruck si potevano veder marciare per strada gli studenti universitari: «pezzi di giovanottoni dall’aspetto grave, talvolta sinistro per le guance spesso deformate dalle cicatrici dei duelli studenteschi, ma in compenso «uomini nati per comandare». Come non fare un confronto con la «nostra gioventù goliardica, gioconda, scanzonata, tumultuosa, il cappello alla don Basilio in testa», e dunque così diversa e così poco dotata di virtù militari?← 62

Cfr. A. OMODEO , Lettere, cit., p. 168 (lettera alla moglie del 12 gennaio 1917).←

63

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 377 (alla data del 12 novembre 1917). Per altri giudizi sugli ufficiali di complemento cfr. tra l’altro L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, p. 89 e F. MARAZZI , Splendori ed ombre della nostra guerra, Milano 1920, pp. 4041.←

64

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 322-24.←

65

Cfr. pp. 63 sgg.←

66

F. MARTINI , Diario, cit., p. 712 (alla data del 31 maggio 1916). L’8 agosto il gen. Sailer scrisse al Martini una nuova lettera che «al solito» rivelava «il suo malcontento». Ibid., p. 764 (alla data del 13 agosto 1916).←

67

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 403.←

68

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 379.←

69

Cfr. A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 276.←

70

Cfr. A. OMODEO , Lettere, cit., p. 134 (lettera alla moglie del 9 agosto 1916).←

366

71

Cfr. «Il Mattino» del 13-14 agosto 1916, p. 1 (Dopo la vittoria).←

72

Cfr. A. OMODEO , Lettere, cit., p. 138 (lettera alla moglie del 30 agosto 1916); G. PINI-D. SUSMEL , Mussolini l’uomo e l’opera, cit., vol. I, p. 315; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 254.←

73

A. OMODEO , Lettere, cit., p. 137.←

74

P. GIACOSA , I servizi di vettovagliamento e la guerra, in «La Lettura», settembre 1916, pp. 777-85.←

75

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., pp. 168 e 170 (lettere del 31 agosto 1916 e del 17 settembre 1916).←

76

Cfr. quanto dicemmo al par. 2 di questo stesso capitolo. Su vari problemi delle truppe nell’ottobre cfr. inoltre la lettera di Mussolini a F. Paoloni, del 1° ottobre 1916, in R. DE FELICE , Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 701-03.←

77

Poiché nel 1915 gli italiani avevano cominciato a combattere soltanto il 24 maggio e in quell’anno disponevano di un esercito meno numeroso, le perdite del 1915 risultarono proporzionalmente più gravi che non nel 1916 e negli anni successivi. Il rapporto tra le perdite e la forza media operante variò come dalla seguente tabella: 1915

1916

1917

1918

(maggio-nov.)

(maggio-nov.)

(maggio-nov.)

(maggio-nov.)

100

88

79

23

Si sono presi in considerazione soltanto i mesi dal maggio al novembre sia per porre a confronto periodi omogenei fra loro,

367

sia perché nei mesi da dicembre ad aprile, di fatto, le operazioni militari subirono sempre una stasi. I dati utilizzati per stabilire la precedente tabella sono stati i seguenti: 1915

1916

1917

1918

231.860

357.400

461.240

119.720

190

214

214

195

1.220

1.670

2.155

14

Anno Perdite totali (morti e feriti) (maggio-nov.) Giorni di guerra presi in considerazione Perdite medie giornaliere (morti e feriti) Forza media operante

984.000 1.539.000 2.197.000 2.194.000

Le predette cifre sono tratte da Inchiesta Caporetto, vol. II, tavola 33, e da MINISTERO DELLA GUERRA , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, La forza dell’esercito, cit., pp. 183-86. Spesso viene affermato che i morti fra gli ufficiali furono proporzionalmente superiori ai morti fra le truppe, ma sembra in realtà che si tratti di un’affermazione inesatta. Infatti, secondo i dati riferiti alla p. XIX della sopraccitata pubblicazione del ministero della Guerra, i morti fra gli ufficiali sarebbero stati 16.824. Considerando un totale complessivo di morti nell’esercito pari a 571.000 uomini, e facendo le proporzioni sia con il movimento degli ufficiali durante la guerra (205.290) sia con quello delle truppe (5.552.987), gli ufficiali sarebbero caduti nella misura dell’8,19% e le truppe in quella del 9,97%. Altri calcoli, condotti tenendo conto della forza media alle armi presente nelle varie epoche, confermerebbero tale differenza.←

368

78

79

Cfr. [G. MORTARA ] MINISTERO DELLA GUERRA , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella Prima guerra mondiale, Dati sulla giustizia e disciplina militare, cit., pp. 1617.← Ibid., p. 17.←

80

Cfr. Massimario di giurisprudenza dei tribunali militari, in «La giustizia penale», anno 1917, pp. 480-82.←

81

Cfr. A. ASCARELLI , Le autolesioni nella vita militare, in «Il Policlinico», Sezione pratica, anno 1917, pp. 697-701 e 725-34 e Una nuova forma di autolesione, ibid., pp. 1407-10, dai quali articoli son tratte la maggior parte delle notizie qui di seguito riportate.←

82

Su questa forma di autolesione cfr. G. GRADENIGO , Malattie dell’orecchio, naso, faringe e laringe nei militari, in «Giornale di medicina militare», dicembre 1916, pp. 888-900.←

83

In E. FORCELLA- A. MORTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 205208, è pubblicato il testo di una sentenza che condannava 19 militari siciliani, i quali si erano procurati una congiuntivite con applicazioni di pus blenorragico (tre degli imputati avevano perso completamente la vista, due erano rimasti ciechi ad un occhio, mentre i rimanenti quattordici imputati erano guariti). Su altri casi di autolesionismo cfr. ibid., pp. 1014 e 27-30.←

84

Cfr. M. CARRUCCIO , Dermatite da causa irritante esterna, in «Giornale di medicina militare», anno 1916, pp. 868-69. Il Carruccio riferiva di aver avuto modo di osservare numerosi casi di dermatosi acuta presentatisi in modo quasi identico in oltre cento soldati nell’autunno-inverno 1915-16.← 369

85

Sulle autolesioni provocate da arma da fuoco cfr. anche E. HEMINGWAY , Di là dal fiume e tra gli alberi, Milano 1965, pp. 6768.←

86

Questa ed altre interessanti notizie in A. FRESCURA , Diario di un imboscato, cit., pp. 167-76 (alla data del 1° maggio 1917). Sull’autolesionismo cfr. inoltre A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 186; E. LORENZINI , La guerra e i preti soldati, cit., pp. 8486; R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 209-10; A. SOFFICI , Errore di coincidenza, in Opere, cit., vol. III, pp. 70-71; A. OMODEO , Lettere, cit., pp. 157-58 (lettera alla moglie del 6 dicembre 1916). Accadeva anche che qualche soldato si suicidasse al momento di andare all’assalto, cfr. E. LUSSU , Un anno sull’altipiano, Roma 1945, p. 101.←

87

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, pp. 112 e 144.←

88

Sulle razioni cfr. quanto diremo a p. 290 sgg.←

89

Cfr. p. 104.←

90

Cfr. la circolare del Comando supremo del 19 novembre 1916, n. 25397 e la circolare del ministero della Guerra del 29 novembre 1916, n. 21245 in ACS, Presidenza, b. 19.7.2, fascicolo 16.←

91

Cfr. la lettera di A. Tonelli a Boselli, s.d., e la lettera del ministro Morrone allo stesso Boselli in data 9 dicembre 1916, ibid.←

92

Negli scritti dei combattenti possono trovarsi molte testimonianze sulle «esperienze» da essi compiute in tali case. Cfr. tra l’altro L. BARTOLINI , Il ritorno sul Carso, cit., pp. 52-53 e 190-91; F. TROIANI , La coda di Minosse, cit., p. 46 e A. FRESCURA ,

370

Diario di un imboscato, cit., pp. 159-60 (alla data dell’8 aprile 1917), nonché «Il prete al campo», 1° aprile 1917 (Per il bene dell’esercito).← 93

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 212 (lettera del 20 febbraio 1916).←

94

L. BARTOLINI , Il ritorno sul Carso, cit., pp. 150-51.←

95

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni sulla guerra, cit., p. 221 (conversazione con Cadorna del 23 novembre 1917).←

96

Cfr. E. LUSSU , Un anno sull’altipiano, cit., p. 30; sull’importanza delle bevande alcooliche il volume di Lussu reca numerosissime altre testimonianze, cfr. infatti le pp. 38, 6869, 72-73, 76-78, 168-71, 200-05, 210-11, 213-15. Sull’argomento cfr. anche B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, in Opera Omnia, cit., vol. XXXIV, pp. 37, 55, 60 e 75-76 (alle date 23 gennaio 1915; 22 febbraio, 2 marzo e 28 aprile 1916) e G. BOUTHOUL , Le guerre, cit., pp. 410-11.←

97

P. CACCIA- DOMINIONI , 1915-1919, Milano 1965, pp. 78-79.←

98

B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, in Opera Omnia, cit., vol. XXXIV, p. 79.←

99

Cfr. L. DE BERARDINIS , Statistica militare, in Trattato elementare di statistica, diretto da Corrado Gini, vol. VI, Statistica sociale, Milano 1936. Estratto, p. 12 e M. SILVESTRI , Isonzo 1917, Torino 1965, pp. 94-96, il quale ultimo calcola che esistesse un 50% circa di analfabeti nell’esercito ed una percentuale ancora maggiore nella fanteria.←

100

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, pp. 289-94 e vol. II, pp. 41-48.← 371

101

Cfr. pp. 136-137 e 142-143.←

102

Cfr. Circolari Comando supremo, circolare dell’11 novembre 1916, n. 24655, p. 80.←

103

Cfr. V. LENTINI , Pezzo, fuoco!, cit., p. 62.←

104

Cfr. pp. 446-447.←

105

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, pp. 285-91.←

106

Cfr. E. AMENDOL A KÜHN , Vita con Giovanni Amendola, cit., p. 398 (lettera a Ojetti del 16 novembre 1915 e nota 1).←

107

Cfr. G. BINI CIMA , La mia guerra, cit., pp. 113-14; M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 237. Nel 1915 Guido da Verona fu sottotenente di cavalleria addetto alla censura a Udine, cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 100 (lettera del 16 settembre 1916).←

108

Cfr. C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, Firenze 1955, p. 15.←

109

A. TILGHER , Anime morte, in «La Stampa» del 18 luglio 1920, ripubblicato in La crisi mondiale e saggi critici di marxismo e socialismo, Bologna 1921, pp. 129-40.←

110

Il governo Salandra si era sempre opposto a quella dichiarazione, mentre quasi tutti gli interventisti l’avevano richiesta, attribuendo ad essa un grande valore ideale. Anche Cadorna era stato favorevole a dichiarar guerra alla Germania, ed aveva osservato che l’Italia combattendo contro la sola Austria, non soltanto non si era resa amica la Germania, ma aveva suscitato i sospetti dei suoi stessi alleati. Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 125 (lettera del 30 settembre 1915).←

111

Cfr. M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 117.← 372

112

Cfr. anche quanto diremo a p. 482.←

113

Cfr. G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., pp. 13031.←

114

Cfr. tra l’altro le osservazioni di A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 65; C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 64 e passim; Inchiesta Caporetto, cit., vol. II, pp. 439-40.←

115

Sulla pietà verso il nemico nei primi giorni di guerra cfr. Lettere di soldati. Eroismo e generosità, in «Il Resto del Carlino», 6 agosto 1915, p. 3, ove si esalta la vicenda di un caporale italiano il quale risparmiò un soldato austriaco, tornò a cercarlo dopo il combattimento e lo condusse all’infermeria caricandoselo sulle spalle.←

116

Cfr. G. BORSI , Lettere dal fronte, cit., p. 168 (lettera del 14 ottobre 1915).←

117

Ibid., pp. 101-03.←

118

Ibid., pp. 125-26.←

119

Ibid., pp. 126-27. Raccontò De Lollis nel suo diario che un comandante d’armata aveva dichiarato davanti ad altri ufficiali: «Io odio talmente gli austriaci, che trovando un loro cadavere, ci sputerei addosso». Il commento di De Lollis fu di piena approvazione: «È così. Bisogna ispirare odio al soldato, perché il soldato non può far la guerra bene che odiando». C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 84 (alla data del 24 giugno 1918). Altri numerosi esempi di odio contro il nemico possono essere trovati in A. OMODEO , Lettere, cit., pp. 158, 161, 272, e in particolare p. 275 (lettera del 1° marzo 1918, nella quale l’O. si lamenta della scarsa potenza della sua batteria, ma si compiace che i pezzi siano sufficienti per «acciaccare qualcuno di quegli 373

animali»); p. 332 (lettera del 28 ottobre 1918; la guerra stava finendo, ma l’O. non era contento delle conquiste territoriali: «Mi pare che occupare e rioccupare il nostro [territorio] non basti, ma sterminare il nemico distruggendone l’esercito, questo ristorerebbe, e vorrei poterlo fare io: questo solo potrebbe saziare la smania di chi ha vissuto l’atroce ritirata dell’anno scorso… C’è in me qualcosa d’implacato e d’implacabile da allora in poi, e non m’è bastata la scorsa battaglia del Piave, in cui coi miei cannoni ho contribuito a sterminare il fiore dell’Ungheria, non mi soddisfano ancora i successi di questi giorni; quel che ho patito allora è così terribile che ancora adesso non ho finito di gustarne l’amarezza»).← 120

Cfr. pp. 196 sgg.←

121

Cfr. F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., pp. 151-52.←

122

Accadeva, tra l’altro, che i feriti fossero depredati di orologi, portafogli, ecc. Cfr. C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 88 (alla data del 21 luglio 1918).←

123

M. CAMPANA , Perché ho ucciso?, Firenze s.d., pp. 64-66.←

124

A. ROSSATO , L’elmo di Scipio, cit., p. 85.←

125

E. LUSSU , Un anno sull’altipiano, cit., p. 134.←

126

Cfr. A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 54.←

127

Cfr. [F. GIULIANI ], Diario della Grande guerra scritto da un pastore, a cura di A. Rossi, in «Il Contemporaneo», settembre 1961, p. 92.←

128

Cfr. R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 119-20 il quale riferisce anche alcuni episodi di fraternizzazione.← 374

129

Cfr. L. BARTOLINI , Il ritorno sul Carso, cit., p. 142.←

130

Cfr. M. QUAGLIA , La guerra del fante, cit., pp. 84-87 e L. GASPAROTTO , Diario di un fante, Milano 1919, vol. I, p. 134.←

131

Cfr. O. CIPRIANI , La propaganda dell’insidia, in «La Lettura», luglio 1918, p. 510. I comandi ostacolarono ogni forma di contatto amichevole col nemico. Già nel maggio 1916 il Comando supremo ribadì che il divieto di comunicare con le opposte linee doveva essere mantenuto rigorosamente e nel giugno successivo fu vietato l’invio di parlamentari salvo casi eccezionali, nei quali era obbligatorio rispettare le prescrizioni del regolamento del servizio di guerra e le norme della Convenzione dell’Aja. Cfr. Circolari Comando supremo, circolare del 19 maggio 1916, n. 7065 e circolare del 27 giugno 1916, n. 916, p. 89.←

132

Cfr. Inchiesta Caporetto, cit., vol. II, p. 439.←

133

Cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 102 (alla data del 27 dicembre 1916). Il Caccia-Dominioni narra che nel dicembre 1917 si era recato a visitare il fratello in prima linea: vide alcune vedette austriache e avrebbe voluto sparare ma il fratello glielo impedì per non turbare la tranquillità regnante fra le due linee. Cfr. P. CACCIA- DOMINIONI , 1915-1919, cit., p. 285.←

134

[F. GIULIANI ], Diario della Grande guerra scritto da un pastore, cit., p. 92.←

135

Cfr. L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., p. 336.←

136

Cfr. G. GALLO , Osservazioni cliniche su ottantadue casi di intossicazione da gas asfissianti in guerra, in «Giornale di

375

medicina militare», anno 1916, pp. 772 sgg. Ma cfr. anche A. LUSTIG , Fisiopatologia e clinica dei gas da combattimento, Milano 1931; A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., pp. 230 sgg.; G. ANDANTI , Gas asfissianti e maschere di protezione, in «La Lettura», luglio 1917, pp. 583-84. Sull’impiego e gli effetti del gas durante l’attacco austriaco al San Michele cfr. anche F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., pp. 146-50; G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., pp. 97-98; V. LENTINI , Pezzo, fuoco!, cit., p. 101; E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 106. Nel corso della guerra anche gli italiani usarono i gas asfissianti contro gli austriaci (cloro, fosgene e nitrocloroformio), cfr. A. LUSTIG , Fisiopatologia, cit., p. 28.← 137

A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 230.←

138

F. MARTINI , Diario, cit., p. 850 (alla data del 1° gennaio 1917).←

139

A. GEMELLI , Il nostro soldato, cit., p. 53.←

140

Cfr. Circolari Comando supremo, circolare del 18 giugno 1916, n. 13298, p. 84.←

141

Cfr. ibid., circolare dell’8 dicembre 1916, n. 26980, p. 85.←

142

Cfr. pp. 335-337.←

143

Cfr. ACS, Conflagrazione europea, anno 1917, b. 20, circolare del ministero della Guerra, Segretariato generale, in data 6 agosto 1916, n. 13262.←

144

Cfr. ibid., circolare del ministero della Guerra, Segretariato generale, in data 21 ottobre 1916, n. 18492.←

145

Cfr. ibid., circolare del ministero della Guerra, Segretariato

376

generale, in data 18 dicembre 1916, n. 23414.← 146

Cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Direz. gen. Pubblica Sicurezza, Div. AGR, Atti diversi 1898-1943, b. 2, f. 18, circolare del ministero dell’Interno in data 4 novembre 1916, n. 37327, R.←

147

Cfr. pp. 57 sgg.←

148

Cfr. C. PREMUTI , Eroismo al fronte, cit., p. 365. Cfr. inoltre P.C. MASINI , Gli anarchici italiani tra «interventismo» e «disfattismo rivoluzionario», in «Rivista storica del socialismo», gennaiomarzo 1959, pp. 208-11, e C. COSTANTINI , Gli anarchici in Liguria durante la Prima guerra mondiale, in «Il movimento operaio e socialista in Liguria», gennaio-marzo 1961, pp. 99122.←

149

C. TREVES , Dopo il Convegno socialista di Bologna, in «Critica Sociale», 16 settembre-15 ottobre 1916, p. 244.←

150

Cfr. G. ARFÈ , Storia del socialismo italiano (1892-1926), Torino 1965, p. 219.←

151

Cfr. ACS, Presidenza, b. 19.7.2, f. 4 («Avanti!»), lettera del gen. Porro a Boselli in data 18 luglio 1916. Nel fascicolo è conservata inoltre una lettera del 14 luglio di Boselli a Porro, ed un’altra lettera del luglio, di Boselli all’on. Giovanni Merloni, aventi per oggetto la diffusione dell’«Avanti!» in zona di guerra, nonché un biglietto dell’amministratore dell’«Avanti!», Bertini, con l’elenco delle province della zona di guerra nelle quali l’«Avanti!» non poteva essere distribuito.←

152

Ibid., lettera del commissario civile alla R. prefettura di Milano, Cassis, a Boselli in data 23 luglio 1916.←

153

Cfr. CAMERA

DEI DEPUTATI,

Discussioni, seduta del 19 marzo 377

1916.← 154

Cfr. ACS, Conflagrazione europea, b. 45 B, lettera della prefettura di Bologna, gabinetto, in data 19 maggio 1916, e lettera della prefettura di Arezzo, div. PS, del 2 giugno 1916.←

155

Le notizie contenute in ACS, Conflagrazione europea, anno 1917, b. 20 (lettera della prefettura di Roma e di Napoli in data 24 luglio e 4 agosto 1916) fanno ritenere che le indagini contro i giovani socialisti presero le mosse dopo che nel treno della Roma-Napoli erano state rinvenute alcune copie degli opuscoli Coscritto, ascolta! e Il soldo al soldato, di cui ci siamo già occupati, poiché detti opuscoli risultavano stampati nella tipografia romana di Luigi Morara, giovane dirigente socialista. Il 10 settembre la forza pubblica fece irruzione nella tipografia del Morara e sequestrò 1.300 copie di un manifestino contenente un appello del Comitato internazionale socialista di Berna, che il Morara, in quel momento, stava stampando. Oltre al Morara furono arrestati e processati Federico Marinozzi, facente funzione di segretario nazionale dopo la morte del Catanesi, Italo Toscani, direttore dell’«Avanguardia», e Giuseppe Sandelli, sindacalista. Le condanne variarono dai 5 ai 6 anni di reclusione; il Marinozzi, in cattive condizioni di salute, morì durante la detenzione. Sull’intera vicenda del processo cfr. I. TOSCANI , Socialista!, Luigi Morara nella storia del socialismo romano, 1892-1960, Roma 1966, pp. 59-100; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 363, e C. TREVES, Dopo il convegno socialista di Bologna, in «Critica Sociale», 16-30 settembre, 1-15 ottobre 1916.← Editing 2017: nick2nick www.italiashare.info

156

I delegati del Partito socialista italiano, nel settembre 1915, 378

presero parte alla Conferenza internazionale di Zimmerwald, in Svizzera (alla quale parteciparono anche Lenin e Trockij), e la loro presenza testimoniò il diverso orientamento del partito italiano rispetto ai partiti socialisti di Francia e di Germania. Ma un attento esame della Conferenza di Zimmerwald permette di accertare in qual modo certe deformazioni della verità si produssero su scala non solo italiana, ma internazionale. In realtà la maggioranza dei quaranta delegati al convegno di Zimmerwald furono dei «pacifisti», i quali vollero unicamente fare una affermazione di fede, senza troppo impegnarsi sul piano pratico e respinsero risolutamente le proposte di Lenin, il quale chiedeva di adottare un atteggiamento disfattistico verso tutti i governi, trasformando la guerra imperialistica in guerra civile. Il manifesto finale della conferenza, redatto da Trockij, fu appassionato nel tono, ma assai moderato nelle conclusioni: si limitò a domandare una pace senza annessioni e senza indennità (anche Benedetto XV avrebbe presentato la stessa richiesta nel 1917), la quale fosse fondata sul principio dell’autodecisione dei popoli (ed anche il capo del più potente stato capitalistico, il presidente Wilson, avrebbe affermato di lì a poco lo stesso principio). Il manifesto di Zimmerwald fu votato all’unanimità, ma Lenin fece porre a verbale le sue riserve. Il manifesto finale della Conferenza internazionale di Kienthal (aprile 1916) confermò in sostanza le deliberazioni adottate a Zimmerwald pochi mesi prima.← 157

Cfr. L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, Milano 1961, p. 100.←

158

Cfr. CAMERA 1916.←

DEI DEPUTATI,

Discussioni, seduta del 14 marzo

379

159

Cfr. ibid., seduta del 15 marzo 1916.←

160

Cfr. ibid., seduta del 19 marzo 1916.←

161

Cfr. L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., p. 122.←

162

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 379-80.←

163

G. ZIBORDI , In tema di «dovere» e di soldati socialisti, in «Critica Sociale», 1-15 febbraio 1916, pp. 38-39. L’«Avanti!» del 23 febbraio replicò polemicamente, e lo Zibordi rispose nella «Critica Sociale» del 1-15 marzo 1916, pp. 67-69 (Discussioni amichevoli in sordina).←

164

Cfr. Socialisti armati, in «Critica Sociale», 16 settembre-15 ottobre 1916, pp. 249-50.←

165

Cfr. infatti A. SALANDRA , Diario agosto-novembre 1916, a cura di G. Gifuni, in «L’osservatore politico letterario», maggio 1965, p. 111 (alla data del 19 ottobre 1916).←

166

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 94-95 e 101 (alle date 18 dicembre 1916 e 5 gennaio 1917), nonché gli appunti di Bissolati in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., p. 243.←

167

Cfr. P. SPRIANO , Torino operaia nella Grande guerra, cit., pp. 175 e 212. Si vedano inoltre le osservazioni di V. DE CAPRARIIS , Partiti politici ed opinione pubblica durante la Grande guerra, cit., pp. 135-36.←

380

V

Il 1917 prima di Caporetto

1. Considerazioni preliminari: la crisi del nemico e quella dell’alleato – 2. Stato d’animo dell’esercito dal gennaio al maggio – 3. Stato d’animo dell’esercito dal giugno al settembre – 4. Indisciplina e ammutinamenti – 5. La rivolta della brigata Catanzaro – 6. I disertori – 7. I renitenti residenti all’estero – 8. L’immagine che si aveva all’estero dell’Italia in guerra – 9. Trattamento materiale dei combattenti – 10. I giornali e la guerra – 11. L’odio per gli imboscati – 12. La protesta popolare contro la guerra – 13. La partecipazione femminile al movimento di protesta – 14. I fatti di Torino – 15. Interventisti e Comando supremo – 16. Le voci di un colpo di stato militare – 17. Rapporti tra Cadorna e il governo – 18. I socialisti e la protesta popolare – 19. I salari degli operai industriali – 20. I socialisti e la propaganda fra le truppe – 21. I cappellani e l’«inutile strage» 1. Il 1917 fu l’anno critico della guerra. Nel marzo cadde il regime zarista e il 6 aprile gli Stati Uniti d’America intervennero nel conflitto: due eventi che segnarono l’inizio di una nuova epoca storica. Il dramma dell’Europa si rivelò con intensità 381

maggiore che nei tre precedenti anni di guerra, e il pontefice Benedetto XV chiese ai paesi in lotta di porre fine alla «inutile strage». In autunno i bolscevichi conquistarono il potere proprio nei giorni in cui il regno d’Italia visse il momento più difficile della propria storia: Caporetto. È inevitabile che il 1917, così ricco di sconvolgenti avvenimenti, interessi memorialisti e studiosi più di ogni altro anno della lunga guerra. Ed è anche inevitabile che la battaglia di Caporetto continui ad attrarre l’attenzione degli italiani, desiderosi di capire il perché della grande rotta. In Italia si è badato molto a Caporetto e relativamente poco, invece, alla guerra nel suo complesso. Gli studiosi di storia politica, in particolare, si sono occupati intensamente dei mesi che precedettero l’intervento nonché dell’immediato dopoguerra, ma hanno alquanto trascurato i 41 mesi di guerra, con la sola e vistosa eccezione delle vicende che riguardarono la battaglia dell’ottobre 1917. Il risultato è stato molto spesso quello di isolare eccessivamente tali vicende dal contesto più ampio nel quale sarebbe stato giusto collocarle, giungendo quindi a due conclusioni sostanzialmente inesatte: 1) che la crisi degli italiani nascesse nel 1917, e 2) che essa fosse tale da paragonare le condizioni dell’Italia più a quelle della Russia che non a quelle delle altre potenze europee impegnate nella lotta. Quanto al primo punto le pagine precedenti dovrebbero aver dimostrato che la depressione degli spiriti, gli atti di indisciplina, i contrasti tra potere politico e potere militare, le insufficienze dei metodi di combattimento, non attesero affatto il 1917 per manifestarsi in forme già molto aspre. Quanto al secondo punto ci basti qui riferire soltanto alcune informazioni, senza pretendere di esaurire un argomento che, per la sua complessità ed ampiezza, può essere in queste pagine appena accennato. L’esercito austro-ungarico, innanzi tutto, si trovava, già prima 382

del 1917, in condizioni molto difficili; anzi – come lo stesso Cadorna obbiettava a chi gli parlava della precaria situazione italiana – quell’esercito non era mai riuscito a battersi meglio dell’italiano. 1 Il 25 maggio 1917 Angelo Gatti scrisse addirittura: «Gli austriaci hanno un esercito che si va sfasciando. Il tempo ha agito per noi. Gli austriaci sono stanchissimi: un colonnello, comandante di reggimento, preso ieri dopo essere rimasto con 200 soldati soli, diceva a noi: “Ma come fate ad avere ancora voglia di combattere? Noi non ne possiamo più”.» 2 L’esercito austro-ungarico, composto da elementi appartenenti a varie nazionalità, risultava non soltanto assai meno omogeneo di quello italiano, ma anche profondamente minato dalla indisciplina. Durante l’estate del ’17, a Carzano, nel Trentino, alcuni ufficiali sloveni si accordarono con gli italiani per consentire a questi di passare oltre le linee, con grandi forze, in un giorno convenuto: una notte di settembre l’operazione ebbe inizio ma fu male organizzata, e, se fallì, non fu certo colpa degli sloveni. Come scrisse infatti il Pettorelli-Lalatta, uno dei protagonisti della vicenda, si trattò di una «occasione perduta» che avrebbe potuto aprire agli italiani la via di Trento. 3 Vedremo inoltre nelle prossime pagine che alla vigilia di Caporetto ufficiali romeni e cechi disertarono dal loro esercito per trasmettere agli italiani preziose notizie sull’offensiva che stava per iniziare. 4 Nell’agosto del ’17 il Comando supremo austro-ungarico invitò gli ufficiali a frenare il desiderio di pace che era in loro ed in tutte le truppe, ed il Comando dell’XI armata ordinò che fossero cancellate dai baraccamenti delle truppe le scritte inneggianti

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alla pace. 5 Sempre nell’estate del ’17 una compagnia boema si arrese, sul Carso, al canto dell’Internazionale. 6 Ma anche in Germania, durante quella estate, la crisi si manifestò in forme molto gravi. I rapporti tra potere politico e potere militare diedero luogo a gravi contrasti. Il malcontento delle popolazioni si indirizzò con particolare veemenza verso la casta militare, che grazie alla guerra aveva conquistato un potere sempre più grande. Il problema del cibo esasperò i soldati, i quali protestarono perché gli ufficiali ricevevano un trattamento diverso e ingiustamente privilegiato. Gli equipaggi di molte navi da guerra elessero le cosiddette «commissioni per il rancio», che si collegarono rapidamente fra loro, con conseguenze molto gravi per la disciplina. Incontri segreti ebbero luogo tra rappresentanti dei marinai e deputati contrari alla guerra, numerosi equipaggi si ammutinarono e più tardi accolsero con giubilo le notizie della rivoluzione russa. Scriveva il Rosenberg che durante l’estate 1917 il potere politico e quello militare persero la fiducia delle masse tedesche e che tutti gli strati della popolazione, dai lavoratori socialdemocratici a quelli cristiani, dai contadini al ceto medio, furono «afferrati» dal desiderio che fossero iniziate trattative di pace. 7 Sul fronte francese, fra l’aprile e l’ottobre 1917, circa 40.000 soldati si ammutinarono, compirono gesti di indisciplina, e manifestarono al canto dell’Internazionale. A Parigi soldati e scioperanti fraternizzarono inneggiando alla rivoluzione, alla pace, alla Russia. 8 A maggio il gen. Pétain dichiarò che le cause degli atti di indisciplina dovevano essere ricercate nella campagna condotta contro i capi, nelle critiche di continuo rivolte agli ufficiali, nella esaltazione della rivoluzione russa. Era dall’interno che, secondo Pétain, si minava il morale delle truppe: gli agenti provocatori pullulavano attorno alle stazioni, le filles 384

diffondevano il disfattismo insieme con… le malattie, e manifestini contrari alla guerra venivano distribuiti fra le truppe. 9 In luglio lo stesso Pétain confessò al gen. Pershing che la situazione francese era così grave che, se governo e popolo non si fossero decisi a fiancheggiare l’esercito, anziché minare lo spirito con critiche fuori posto, ne sarebbe derivato «qualche cosa di molto simile a una rivoluzione». 10 L’idea di un colpo di stato militare, del resto, circolava insistentemente anche in Francia. 11 La Francia era esausta per i sacrifici patiti fin dall’agosto 1914 e, il 23 ottobre 1917, esattamente il giorno prima che cominciasse la battaglia di Caporetto, l’ambasciatore francese a Roma, Barrère, dichiarò a Martini che lo spirito degli italiani, stanchi della guerra, non lo meravigliava affatto: «In Francia» disse «si è nelle condizioni medesime». 12 E può darsi che le condizioni interne dell’Italia fossero addirittura migliori che negli altri paesi, più disciplinate e più salde, come qualcuno volle appunto sostenere dinanzi alla Commissione di inchiesta per Caporetto. 13 2. Prima di Caporetto nessun organismo militare o civile si preoccupò di condurre approfondite indagini sullo spirito delle truppe. Il Marchetti, responsabile dell’Ufficio informazioni del Comando supremo, scrisse che quel Comando si limitava a chiedere burocraticamente qualche notizia ai comandi delle grandi unità, i quali facevano altrettanto con i comandi dipendenti: le risposte erano «sempre improntate a sicuro ottimismo, forse per convinzione, ma anche per il timore, purtroppo non infondato, che potesse essere imputata a colpa del comandante una situazione denunziata incerta o peggio». 14 Anche il gen. Capello confermò innanzi alla Commissione di inchiesta che i comandi avevano paura di comunicare le informazioni spiacevoli, perché ai tempi di Cadorna:

385

«Se un comandante qualsiasi avesse dichiarato che le proprie truppe non erano in efficienza, sia perché scosse moralmente, sia perché stanche, e che quindi non sembrava a lui opportuno per il momento lanciarle all’attacco, si diceva che egli “non aveva fede” nelle sue truppe ed era immediatamente esonerato.» 15 Pertanto, in mancanza di una documentazione ampia ed obbiettiva sulle condizioni morali dei soldati nel 1917, non resta che utilizzare in qualche modo le numerosissime, anche se spesso troppo personali testimonianze lasciateci da militari, politici e giornalisti del tempo. Si tratta talvolta di ricordi deformati dal senno del poi, di giudizi approssimati e soggettivi. Inoltre ogni testimonianza merita di essere esaminata con la massima prudenza per il fatto stesso che le condizioni morali di un esercito sono il risultato di una somma di situazioni psicologiche assai mutevoli e difficilmente definibili. L’esame della documentazione esistente permette tuttavia di stabilire che, nel complesso, anche durante il terzo anno di guerra, i combattenti continuarono a dare prova di straordinaria adattabilità e pazienza, tanto che, in alcuni momenti, si poté addirittura parlare di spirito elevatissimo. Nessuna operazione di rilievo ebbe luogo sul fronte italiano dall’inizio del novembre 1916 fino alla metà del maggio 1917. La lunga pausa delle operazioni militari, durata dunque sei mesi e mezzo, fu una vera e propria tregua che permise ai soldati di ritemprare non poco le forze. Alla fine di gennaio Cadorna dichiarò che, grazie alle esemplari fucilazioni ordinate nel ’16, la disciplina dell’esercito era ormai migliorata. 16 In febbraio le giovani reclute del ’97 portarono al fronte «un’ondata di freschezza», e fu ancora possibile ritrovare in esse taluni segni di quell’esaltante eccitazione che durante i 386

primi combattimenti del 1915 aveva animato tutto l’esercito. 17 Il 12 marzo scoppiò la rivoluzione a Pietrogrado, ma Rino Alessi scrisse al suo direttore che gli avvenimenti di Russia non avevano «nessuna ripercussione» al fronte e che l’esercito rimaneva «calmissimo». 18 Anche Cadorna, del resto, reduce da un lungo giro di ispezione nel settore trentino, dichiarò compiaciuto che i soldati si erano radunati sulle strade per salutarlo con interesse e rispetto: «Si respira un’aria marziale che ispira un gran senso di fiducia. Ovunque io trovo molto ordine e disciplina. [I nemici] vengano pure: siamo pronti alle grandi e storiche giornate». 19 In marzo i comandi superiori ordinarono agli ufficiali di spiegare ai soldati che gli avvenimenti russi dovevano essere considerati come una vera fortuna per l’Intesa, dato che il nuovo governo rivoluzionario avrebbe dato maggiore impulso alla guerra contro gli Imperi centrali. La rivoluzione russa diventò uno dei principali argomenti di conversazione tra soldati ed ufficiali e, a dispetto dell’«ottimismo» iniziale, nacquero immediatamente gravi dubbi sulle conseguenze che essa avrebbe avute effettivamente. 20 Una certa inquietudine ed una attesa di fatti nuovi ed imprevedibili si diffusero rapidamente nell’esercito, ma Rino Alessi poté scrivere ancora una volta che lo spirito delle truppe si manteneva in complesso buono, «nonostante gli avvenimenti internazionali e le molte leggende correnti sul conto della Russia». 21 Il 6 aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra e, benché il loro potenziale apporto militare allo schieramento alleato fosse allora sottovalutato, molti intuirono che la guerra stava subendo una svolta decisiva. «Non so» scrisse Omodeo a sua moglie «perché di

387

questi giorni mi si è schiuso il cuore alla speranza che si cominci ad essere al principio della fine. È noto che un po’ tutti condividono questa speranza. Che vuoi? Di questi giorni si è visto crollare uno dei troni più potenti, il resto del mondo gettarsi nella fornace della guerra, gli eventi incalzare gli eventi; mi vien fatto di attendere un episodio finale, una improvvisa dissoluzione della resistenza nemica [17 aprile]. Oggi i giornali pare che confermino i miei presentimenti, di cui ti parlavo ieri, circa le condizioni interne della Germania. E costa fatica il frenare il tumulto delle speranze che vorrebbero prendere il galoppo sfrenato [18 aprile]. Non so, ma ho sempre l’impressione d’un’accelerazione verso la fine [22 aprile]. Sento dentro di me che la guerra non potrà ancora durare a lungo [23 aprile].» 22 L’idea di una pace imminente fu davvero condivisa da moltissimi se, il 9 maggio, anche il capo della segreteria di Cadorna, il col. Roberto Bencivenga, dichiarò: «C’è la sensazione che qualche cosa scricchiola e, nonostante tutte le parvenze, la fine della guerra sia vicina». 23 Allorché, in maggio, diedero inizio all’offensiva sull’Isonzo, gli italiani erano in fermento per i recenti avvenimenti internazionali e questo fermento non si traduceva in una demoralizzazione ma nella speranza di una imminente fine della guerra. Ciò che invece provocò la crisi del loro «morale» fu come al solito un avvenimento militare: il fallimento, questa volta, della decima battaglia dell’Isonzo. Essa urtò contro le consuete difficoltà consentendo guadagni modestissimi a prezzo di enormi perdite: nel mese di maggio l’esercito perse 127.840 388

uomini tra morti e feriti, un totale che gli italiani non uguagliarono mai durante alcun altro mese. 24 Bisogna inoltre tenere conto del fatto che la maggior parte di quegli uomini caddero in un breve tratto di fronte e in un brevissimo spazio di tempo: in soli sette giorni (dal 20 al 26 maggio) il 26° reggimento fanteria perse il 74% dei suoi uomini tra morti, feriti e dispersi, ed altri dodici reggimenti subirono perdite di poco inferiori. Il Mortara calcolò che 41 reggimenti persero in media e in sole due settimane (dal 13 al 27 maggio) il 50,7% della forza combattente. 25 Tanto Vittorio Emanuele Orlando, quanto Rino Alessi espressero giudizi assai elogiativi sul coraggio e sullo slancio dimostrati dalle truppe fino al termine dell’offensiva. 26 Durante le ultime ore della battaglia i fanti si avviavano al combattimento senza lamentarsi, con rassegnazione: «ma piangevano». 27 3. Tra la fine di maggio e i primi di giugno gli austriaci passarono al contrattacco e gli italiani persero quasi tutto il territorio conquistato durante l’offensiva. L’improduttivo massacro esasperò le truppe. Il 2 giugno Rino Alessi ed altri due noti giornalisti – Giovanni Miceli ed Ermanno Amicucci – attraversarono a bordo della loro automobile l’abitato di S. Maria La Longa, nelle immediate retrovie: le insegne dello stato maggiore, ben visibili su quell’automobile, irritarono le truppe colà accampate, che accolsero i giornalisti con fischi, urla e lancio di immondizie. Alessi ritrovò nell’auto perfino un elmetto. 28 Pochi giorni più tardi comunicò al suo direttore che «gli spiriti» apparivano «depressi oltre misura». 29 In quei primi giorni di giugno lo scontento delle truppe cominciò ad esprimersi in forme inconsuete, così che quando – il 5 giugno – fu erroneamente riferito al Comando supremo che tre reggimenti di siciliani erano passati al nemico senza combattere, 389

Cadorna prestò subito fede alla notizia e prese carta e penna per scrivere al presidente Boselli: nel giro di una settimana spedì ben tre delle quattro famose lettere – pubblicate dalla Commissione di inchiesta su Caporetto – con le quali cercò di riversare sul potere politico e sulla propaganda «disfattista» l’intera responsabilità della crisi morale attraversata dall’esercito. 30 Egli, frattanto, intendeva mantenere quell’esercito sotto pressione. In altra parte del fronte, tra la Valsugana ed Asiago, 300.000 italiani furono impegnati nell’offensiva dell’Ortigara (10-25 giugno). Un’operazione che era stata preparata da molti mesi ed alla quale il gen. Cadorna attribuiva grandissima importanza, ma che si concluse anch’essa con un insuccesso, nonostante le prove di eroismo e le spaventose perdite subìte da numerosi reparti. La cima dell’Ortigara, conquistata dagli italiani dopo aspri combattimenti, fu riconquistata dagli austriaci qualche giorno dopo. Come la decima battaglia dell’Isonzo, anche la battaglia dell’Ortigara produsse negative conseguenze sullo spirito delle truppe, rendendo più esteso e profondo quel processo di demoralizzazione che era in corso dagli ultimi giorni di maggio. Alla fine di giugno i giudizi sulle condizioni delle truppe furono concordemente pessimistici. Gasparotto si recò a Roma e riferì notizie allarmanti: c’erano «fermenti insani nell’aria». 31 Il col. Gatti individuò nello «sfasciamento morale del soldato» una delle cause dei recenti insuccessi. 32 Il 14 giugno il col. De Negri, comandante della brigata Mantova, confessò che le truppe combattevano ormai soltanto perché esisteva la fucilazione. 33 Ai primi di luglio il Vescovo di campo, mons. Bartolomasi, ritenne suo dovere recarsi a Roma dal presidente Boselli, per informarlo della gravità della situazione. 34 Il Comando supremo concesse alle sue truppe una tregua 390

perché, per circa due mesi, dette ordine che fossero sospesi i combattimenti. Ma non ritenne affatto che le truppe avessero esaurito il loro spirito combattivo. Quella tregua ebbe infatti lo scopo di predisporre gli uomini e le armi ad affrontare un’offensiva più impegnativa di tutte le precedenti offensive dell’Isonzo: la battaglia della Bainsizza. La preparazione materiale di essa sembrò senz’altro «gigantesca»; la preparazione «morale» rese dubbiosi molti osservatori. 35 Il 1° agosto, dal fronte, Giovanni Amendola inviò all’amico e ministro Bissolati una drammatica lettera sull’argomento, scongiurando che si rinunziasse alla progettata battaglia, per non sottoporre le truppe ad una nuova e logorante prova. La questione principale, secondo Amendola, era ormai quella di mantenere inalterata l’efficienza morale ed organica dell’esercito fino al 1918, sembrando ormai chiaro che la guerra non si sarebbe conclusa prima di quell’anno: una nuova battaglia avrebbe logorato ed esasperato l’esercito e minacciato la disciplina senza assicurare, d’altra parte, sostanziali vantaggi: «avremo» disse Amendola «qualche giorno di ebbrezza con le solite fanfare della retorica giornalistica: ma poi?». 36 Nonostante ogni opposizione la decisione di iniziare l’offensiva fu mantenuta e, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, i grandiosi preparativi della battaglia ebbero ripercussioni molto positive sullo stato d’animo delle truppe. «Lo spirito dei nostri artiglieri» scrisse Alessi in quei giorni «è ottimo: quello delle fanterie buono ma non sempre omogeneo». 37 Il 16 agosto lo spirito delle fanterie parve allo stesso Alessi «alquanto elevato», anche se non «altissimo». 38 Nacque una grande eccitazione, poiché molti sperarono che si trattasse quella volta davvero dell’ultimo grande sacrificio da compiere prima di arrivare alla pace entro la fine dell’anno. La 391

stessa nota pontificia ai capi degli Stati belligeranti, nella quale si invocava la fine della «inutile strage», contribuì a confortare quella speranza. 39 Mai, dunque, come alla Bainsizza si diffuse l’illusione dell’ultimo sforzo. «Lo spirito dei soldati?» domandò l’on. Gasparotto ad un giovanissimo ufficiale, sul Carso. «È buono,» rispose l’ufficiale «ma tutti sperano prossima la pace, e ritengono che l’imminente offensiva sarà l’ultima.» 40 Il 25 agosto il col. Gatti annotò nel suo diario che lo spirito delle truppe era diventato «meraviglioso»: «Prima dell’azione il malcontento era generale. Nessuno voleva combattere. Anche quelli più obbedienti, che non dicevano no, avevano in fondo all’animo la ribellione.» 41 Adesso invece: «Brigate che avrebbero dovuto essere sostituite non vogliono essere sostituite: altre, che sono in riserva, come la brigata Regina, chiedono di essere impiegate. È una marcia in avanti, piena d’entusiasmo.» 42 L’andamento delle operazioni fu tale, all’inizio, da incoraggiare quell’entusiasmo. Passati pochi giorni, però, l’offensiva fallì sia presso Tolmino, sia sul Carso, sia sull’altopiano della Bainsizza, che gli italiani riuscirono a conquistare soltanto in parte. Numerose brigate si dissanguarono inutilmente sul San Michele durante la fase finale della battaglia, e il 4 settembre una «spallata» austriaca ricacciò gli italiani dalle pendici dell’Hermada. I risultati territoriali dell’offensiva furono sostanzialmente modesti (nella zona della Bainsizza le truppe 392

avanzarono di otto chilometri) e i risultati strategici addirittura negativi, dato che la nuova prima linea italiana risultò più vulnerabile della precedente. 43 D’altra parte l’esercito, in pochi giorni, perse circa 100.000 uomini, un settimo della forza impegnata dalle due armate dell’Isonzo. 44 Uno spiegabile scoramento fece seguito, fra le truppe, all’eccitazione della vigilia e dei primi giorni di combattimenti. 45 «Ci dicevano» scrisse il prete-soldato Lorenzini «che il nemico era in rotta e che i nostri sarebbero andati a Trieste; e nutrivamo la speranza che questa volta fosse, chissà, il colpo decisivo. Invece ad azione compiuta le cose sono ritornate come prima, ed abbiamo ripreso la solita vita stupida e monotona.» 46 Don Giovanni Minozzi, in quegli stessi giorni, ascoltò amareggiato gli sfoghi di molti comandanti. Il generale Sailer, comandante del XIII corpo d’armata, gli disse tutto infiammato che l’Italia andava alla rovina: «Inutile predicare il sacrifizio: non l’intende nessuno. L’animo è a terra, in tutti. Veda lei di parlar alto e forte: o si corre ai ripari presto, governo e Comando supremo, o tutto è perduto». 47 In pochi giorni, insomma, lo spirito delle truppe aveva subìto un nuovo tracollo, ed ancora una volta per ragioni di indole militare: la Bainsizza, infatti, aveva offerto la più chiara dimostrazione del fatto che la guerra «di logoramento», per ingenti che potessero essere i mezzi impiegati in battaglia, estenuava tutte e due le parti contendenti, consentiva al massimo dei risultati locali, ma non conduceva a quella soluzione finale che da due anni ormai era attesa invano. 4. Lo scadimento disciplinare dell’esercito italiano nel 1917 fu 393

chiaramente indicato dal moltiplicarsi di numerosi reati. Il reparto disciplina e giustizia constatò «un doloroso sensibile aumento della delinquenza militare» nel mese di maggio, vale a dire in coincidenza con la ripresa dell’attività offensiva dopo la stasi invernale. 48 I tribunali militari cominciarono a lavorare con ritmo più intenso: 82.366 condanne complessive dal maggio 1917 al maggio 1918, contro le 48.296 condanne dei dodici mesi precedenti e le 23.016 dei primi dodici mesi di guerra. 49 Aumentò il numero dei processi per reati di indisciplina, insubordinazione e diserzione. Diminuirono invece i processi per mutilazione volontaria: ma soltanto dopo il maggio, perché in quel mese, quando appunto ebbe inizio la fase offensiva, i militari giudicati per autolesionismo furono 671 contro i 360 del precedente mese di aprile. Un autolesionista, anzi, ed un soldato che aveva simulato una infermità furono fucilati dopo giudizio sommario, affinché fosse subito dato un ammonimento ad altri eventuali imitatori. 50 Nel 1917 il sintomo forse più rivelatore della tensione esistente fra le truppe fu costituito dal frequente ripetersi dei reati collettivi. Venivano segnalati casi di indisciplina e talvolta di ribellione fra i militari in viaggio verso il fronte. Si lesse nella relazione della Commissione d’inchiesta per Caporetto che spesso i soldati «sparavano dai treni, insultavano borghesi, operai e ferrovieri quali imboscati, compievano danneggiamenti ed altri atti di protesta, al punto che si dovettero adottare severissime disposizioni per la loro traslocazione». Il comando generale dell’arma dei carabinieri dichiarò che «talvolta truppe viaggianti in ferrovia sparavano fucilate all’impazzata, contro il personale delle ferrovie ed i carabinieri in servizio nelle stazioni. Più spesso lanciavano dai treni in moto sassi od altro, rompendo vetri e danneggiando impianti telegrafici». 51 Le autorità militari 394

emanarono ordini molto rigorosi per disciplinare i viaggi delle truppe, ma senza troppo successo, dato che alle «severissime» norme della circolare 28 marzo 1917 52 fecero seguito le rigide disposizioni delle circolari 5 giugno e 16 luglio 1917; nel gennaio 1918 fu addirittura ordinato che i reparti viaggianti in ferrovia per essere trasferiti in zona di guerra fossero disarmati durante il viaggio. 53 Spesso i soldati accompagnavano i loro gesti di indisciplina con grida pacifiste. La sera del 21 aprile 1917, a Fano, più di 400 complementi avviati al fronte gridarono in coro: «Non vogliamo partire, abbasso la guerra, vogliamo la pace». 54 Il 19 giugno un battaglione del 54° fanteria lasciò Domodossola per il fronte: dal treno in corsa si levarono grida di «Abbasso la guerra, abbasso i guerrafondai, evviva la Russia e la rivoluzione». 55 Il 27 agosto, in Carnia, da un treno che trasportava un battaglione di bersaglieri, furono lanciate pietre che colpirono alcuni ufficiali di un comando di stazione, un capostazione e un manovratore: fu arrestato e condannato un bersagliere di Pescara, analfabeta, che poco prima della partenza del treno aveva istigato i compagni a lanciare le pietre e ad inneggiare alla rivoluzione russa. 56 Non in tutte quelle manifestazioni fu possibile individuare una intonazione politica precisa. I soldati, infatti, erano in gran parte giovani di vent’anni, la cui insofferenza verso l’opprimente disciplina del tempo non rappresentò necessariamente una consapevole protesta contro la guerra. Il viaggio di trasferimento – si ricordi – costituiva una fonte di emozioni che cercavano in qualche modo di scaricarsi: d’altra parte il fatto di trovarsi su un treno o su un camion in corsa sembrava garantire ai militari una certa «immunità», ed offrire anzi l’occasione attesa da molti per vendicarsi impunemente dell’opprimente disciplina del tempo. Un giorno un camion di arditi correva velocemente verso le 395

prime linee; avendo scorto a distanza una pattuglia di carabinieri, quattro arditi si misero d’accordo e, nel passare davanti alla pattuglia, due di essi puntarono il moschetto in direzione della stessa, ed altri due, non visti, spararono in aria. «La beffa» scrisse Mario Carli «riuscì così bene, che i carabinieri, vedendosi mirati e sentendo i due colpi, rotolarono a terra con la convinzione di essere feriti.» Non sappiamo se la vicenda si svolse esattamente nei termini qui esposti, ma è certo che: «Da quel momento, carabiniere e ardito furono antagonisti, e ci furono persecuzioni e rappresaglie da una parte e dall’altra. Ma quanti fanti,» scrisse lo stesso Carli «maltrattati e umiliati dai potentissimi caproni, non ci hanno ringraziati?». 57 I carabinieri che, come sappiamo, costituivano il corpo di polizia militare, venivano chiamati per dileggio «caproni» e «aeroplani», per i loro imponenti cappelli, anche se erano in maggioranza contadini – come i fanti – ai quali repugnava magari di essere strumento dei comandi superiori nell’applicazione della dura disciplina di guerra. Anche il Trevelyan, nei suoi ricordi di guerra, fece cenno alle continue contese tra carabinieri ed arditi, narrando l’episodio di un carabiniere trovato legato e con un cartello sul quale stava scritto: «Aeroplano nemico abbattuto dagli arditi». 58 Il gen. Porro dichiarò che nel semestre antecedente l’offensiva di Caporetto si contarono circa sessanta processi per ammutinamento con rivolta. 59 In talune occasioni si trattò di ammutinamenti svoltisi in forme piuttosto gravi, in altre, viceversa, furono i comandi superiori ad ingigantire l’importanza di manifestazioni di malcontento che avrebbero potuto essere circoscritte e sedate senza dure repressioni. Tale fu il caso della brigata Ravenna, secondo quanto risulta dal particolareggiato e drammatico racconto lasciatoci

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dall’aiutante di campo del generale che comandava la stessa brigata. 60 Nel marzo 1917, quando gli incidenti ebbero luogo, la Ravenna attraversava un periodo di gravi sofferenze materiali e morali per la lunga permanenza sul fronte del Carso, e per di più le licenze erano state sospese suscitando lo scontento dei soldati. Un pomeriggio, mentre uno dei due reggimenti che componevano la brigata stava mettendosi in marcia per tornare in linea, i soldati cominciarono a protestare: fra l’altro, in vista della partenza, avevano bevuto più del solito. Il generale comandante la brigata ed il suo aiutante di campo si recarono immediatamente sul posto. «Trovammo i soldati» disse l’aiutante «in un atteggiamento un po’ seccato, stanchi, in condizioni fisiche deplorevolissime quasi tutti, ufficiali compresi. Il generale ed io ci gettammo in mezzo ai soldati cercando con buone parole di mettere la calma; i soldati si mostravano ben disposti, ed interrogati facevano capire le ragioni del malcontento.» Si avvicinava la sera. Dalle truppe partì qualche colpo di fucile sparato in aria. Ma l’opera di persuasione compiuta dal generale e da altri ufficiali ebbe infine effetto. Le truppe, rassegnate, cominciarono ad avviarsi verso le prime linee, e alle dieci di sera più nessun soldato era rimasto. Piovigginava e il generale con il suo stato maggiore avrebbe potuto anche andar via. Sennonché, prima che le cose fossero state sistemate, l’aiutante di campo aveva telefonicamente informato il comando superiore di quel che stava accadendo, e il generale che comandava la divisione aveva annunziato il suo arrivo. «Il generale» dichiarò l’aiutante di campo alla Commissione di inchiesta «arrivò evidentemente dopo aver pranzato, noi non avevamo mangiato ancora; ricordo che arrivò fumando. Giunta l’automobile sul 397

posto, era scuro ed il generale comandante di divisione chiamò ad alta voce il mio generale (tutti e due di pari grado, uno comandante di divisione, l’altro comandante di brigata). “Comandi generale.” – “Cosa è successo?” – “Niente, tutto è in ordine e la truppa è già partita.” – “Quanti ne ha fucilati?” Il mio generale era un po’ sordo, ed alla domanda: «Quanti fucilati?» capì quante fucilate fossero state sparate e quindi disse: “Poche, poche”. – “Ma quanti?” insistette il comandante la divisione. – “Veramente il numero non lo so.” – “Ma dove sono i cadaveri?” Fu allora che il mio generale capì di aver mal compreso e disse: “Non ne ho fucilato nessuno, io parlavo di fucilate sparate in aria”. – “Male, malissimo!” esclamò il comandante della divisione, presenti tutti quanti noi.» Nel frattempo i carabinieri trovarono due soldati che non erano partiti coi loro reparti perché si erano addormentati. «Non sappiamo nulla,» dissero «nessuno ci ha svegliati.» Appena il generale di divisione lo seppe ordinò: «Ebbene, siano legati ad un muricciuolo, e fucilati sul posto». «Tale ordine sorprese tutti ed io confesso che, per quanto avvezzo al fuoco ed a tutti i combattimenti, riportai una grave impressione e mi sentii gelare. All’ordine di fucilazione sul posto uno di quei due soldati, che io ricordo alla poca luce della sera, dai baffi grossi, anziano, forse della classe 78-79, ebbe gridi di smania, di dolore. Esclamò: “Ma perché, cosa ho fatto che mi volete fucilare? Ho sette figli”. Queste grida, queste smanie turbarono i carabinieri stessi che lo

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accompagnavano, per cui ci fu un momento di perplessità. Il generale di divisione in questo momento di perplessità disse: “Avete sentito, carabinieri, fate finire questo cicaleccio (testuale): siano fucilati e subito: gli ordini sono ordini”. Partirono allora dei colpi all’impazzata contro questi due soldati. Questi colpi erano seguiti da grida di dolore atrocissime e, date le condizioni morali, destarono in noi una impressione funesta. Fatta la fucilazione, il generale montò in automobile e partì; noi tutti ci ritirammo.» L’indomani il generale di brigata fu «silurato» per essersi dimostrato troppo debole, e chi lo sostituì ricevette l’ordine di procedere a nuove esecuzioni sommarie. La notizia degli incidenti, difatti, era pervenuta al comando del corpo d’armata e questo aveva ritenuto insufficiente la repressione fino ad allora attuata. L’ordine fu di recarsi alla trincea dove si trovava l’8 a compagnia del reggimento in questione, estrarre a sorte venti soldati, e fra questi venti estrarne a sorte ancora cinque e fucilarli sul posto, in trincea. «Io ho già eseguito l’ordine,» disse il nuovo comandante della brigata «ho dovuto fare almeno sei scariche perché i soldati che dovevano tirare tremavano commossi dalle grida assordanti di questa gente estratta a sorte.» Allorché il reggimento portò a termine il turno di trincea e fece ritorno nelle retrovie, un tribunale straordinario processò sette soldati «indiziati» per gli incidenti di quindici giorni prima. Un fonogramma cifrato del comando di corpo d’armata ordinò ai giudici di dare «un esempio salutare». Anche l’aiutante di campo – autore della testimonianza resa alla Commissione d’inchiesta – fu giudice in quel tribunale straordinario: dichiarò alla Commissione che durante il processo non fu possibile accertare 399

assolutamente nulla a carico degli imputati e che nondimeno quattro di essi vennero condannati a morte e fucilati. Dal giorno degli incidenti erano state ormai ordinate in totale undici esecuzioni sommarie; ma il comando di corpo d’armata non si reputò soddisfatto. Esso dispose pertanto che tutte le condanne a morte pronunciate in quei giorni per «ritardato» ritorno dalla licenza, fossero senz’altro eseguite: in poco più di due settimane altri 18 militari furono fucilati. La brigata Ravenna, sia prima, sia dopo questi episodi, si comportò con valore: «Ma non bisogna dirlo troppo forte» commentò Valentino Coda «perché le Loro Eccellenze sono convinte che la prodezza dei soldati sia in ragione della ferocia con cui vengono trattati». 61 In nessun processo, durante l’intero corso della guerra, risultò che le proteste fossero dovute ad organizzazioni clandestinamente operanti nell’esercito. Gli atti di indisciplina, infatti, nascevano spontaneamente, si svolgevano in forma disordinata, terminavano rapidamente dopo l’intervento dei comandi, prima che le repressioni fossero poste in atto. Le manifestazioni di protesta avevano luogo molto spesso al momento di tornare in linea 62 ed erano originate per lo più dalla mancata concessione di licenze o dal mancato rispetto dei turni di riposo. 63 In teoria i turni avrebbero dovuto essere i seguenti: 5 giorni nelle trincee, 5 nella linea dei rincalzi, 10 in quella delle riserve immediate, e 20 negli alloggiamenti di riposo. «In pratica» scrisse il gen. Capello «non si poté mai ottenere tale regolarità di rotazione.» 64 A volte accadde che proprio i migliori reparti subissero il peggiore trattamento, perché il loro maggior valore fece sì che essi fossero impiegati più a lungo e là dove i compiti erano più 400

difficili. L’esser valorosi equivaleva spesso a una condanna senza scampo. 65 A volte, viceversa, per punire una brigata (magari una solida e sperimentata brigata) di non aver potuto – più che voluto o saputo – conquistare una posizione, la si lasciava in linea oltre ogni ragione di opportunità e di equità, «quasi che questa punizione non si risolvesse in una diminuzione gravissima della efficienza bellica della grande unità e dell’esercito e in un danno spesso irreparabile per l’ordine morale e pei buoni propositi della truppa». 66 In molti casi, infine, quando finalmente giungeva il sospirato cambio, i reparti dovevano sottostare alla fatica di lunghe ed estenuanti esercitazioni. Era invalsa l’abitudine di prelevare proprio dai reparti che riposavano gli elementi necessari ai servizi. 67 5. Soltanto in un caso si disse che la protesta delle truppe aveva corrisposto a un piano preordinato: fu nel luglio 1917, a S. Maria La Longa allorché una rivolta di eccezionale gravità ebbe luogo fra le truppe della brigata Catanzaro (141° e 142° fanteria). 68 Un mese e mezzo prima della rivolta, mentre il 142° reggimento si accingeva a ritornare in linea, si erano udite scariche di fucileria e grida di protesta, sedate dopo pochi minuti per l’intervento degli ufficiali. Un soldato, processato e condannato a morte in seguito a quegli incidenti, aveva dato alcune indicazioni sui responsabili degli stessi, ed ottenuto in cambio la sospensione della pena. Alcuni carabinieri travestiti da fanti erano stati trasferiti nei reparti per controllare le dichiarazioni del soldato. Il 14 luglio l’ufficiale che comandava i carabinieri travestiti comunicò che i fanti si erano accorti dello stratagemma e consigliò di far ritirare i suoi uomini, provvedimento che fu 401

adottato la sera stessa. I carabinieri, tuttavia, ritennero di avere già individuato in nove militari i possibili istigatori di nuove proteste da mettere in atto in futuro, qualora se ne fosse presentata l’occasione. Dato che il reggimento stava per partire alla volta del fronte, il comando di brigata decise di arrestare tutti e nove quei militari l’indomani stesso, di concentrare reparti di carabinieri presso la sede del comando, di tener pronti reparti di cavalleria, di dar lettura delle norme sulle decimazioni. Non occorse altro per accendere gli animi. La sera del 15 luglio, verso le 22,45, le manifestazioni di rivolta cominciarono quasi contemporaneamente nei due reggimenti della brigata, con spari di fucile e «grida sediziose». Nuclei di rivoltosi armati – un numero imprecisato, ma certamente «non pochi» – cercarono di ottenere il concorso degli incerti e minacciarono coloro che, trattenuti dagli ufficiali, restavano nelle baracche; tentarono poi di invadere il paese di S. Maria La Longa, impiegando bombe a mano e mitragliatrici. «Anche dai reparti sorvegliati dagli ufficiali, partirono fucilate in aria, e grida, senza che fosse possibile rintracciare gli autori e per l’oscurità, e per la connivenza dei vicini.» Durante gli scontri di quella notte restarono uccisi 2 ufficiali e 9 soldati. Altri 2 ufficiali e 25 soldati furono feriti. Tutta la 6ª compagnia del 142° si ammutinò, e ordinò «all’ufficiale di cedere il comando e di allontanarsi se non voleva essere freddato». I comandi ebbero il dubbio che le truppe volessero marciare su Udine; 69 chiesero l’intervento dell’artiglieria, e disposero che carabinieri, cavalleria e autoblindo, insieme con i reparti rimasti fedeli, circondassero le truppe in rivolta. Durante la notte tutte queste forze non intervennero perché non c’era una separazione netta tra i ribelli e gli altri militari e perché il buio impediva in ogni caso di agire. All’alba la rivolta cessò da sola: «Prima che

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tornasse giorno chiaro, i nuclei dei rivoltosi si sciolsero ed i loro componenti in gran parte raggiunsero alla spicciolata i loro reparti, protetti anche in questo dal favore delle tenebre e dalla complice connivenza dei compagni». Nelle prime ore del mattino furono fucilati 28 soldati. Sedici di essi perché arrestati «con le armi cariche, le canne ancora scottanti»; gli altri dodici, invece, in seguito a decimazione perché appartenenti alla 6ª compagnia. Dopo le esecuzioni, verso le 11 del mattino, la brigata Catanzaro iniziò il trasferimento a Villa Vicentina «senza incidenti, all’infuori di qualche grido e richieste di camions, tosto sedati». La repressione, tuttavia, proseguì nei giorni seguenti e furono fucilati almeno altri 4 soldati. 70 Ben 135 militari (di cui 123 della 6ª compagnia del 142°) furono sottoposti a processo; 463 soldati sospetti e 33 ufficiali e sottufficiali colpevoli di aver mancato «di energia e di ascendente sugli inferiori» vennero allontanati dalla brigata. I comandanti della brigata e dei due reggimenti che la componevano furono sostituiti, e il comandante della 6ª compagnia deferito al tribunale militare. Il duca d’Aosta, nella sua qualità di comandante la terza armata alla quale la brigata apparteneva, riferì al gen. Cadorna come e perché gli incidenti della Catanzaro avessero caratteristiche diverse da quelli precedentemente accaduti in altri reparti dell’esercito. I motivi indicati nel rapporto del duca furono tre: 1) per la prima volta vi sarebbe stato «un vero e proprio sanguinoso tentativo di imporre la volontà dei gregari a quella dei capi»; 2) mentre negli altri casi di ammutinamenti e rivolte era stata sempre esclusa l’esistenza di un piano di azione preordinato, questa volta invece sarebbe apparsa manifesta «la linea direttiva concertata e mantenuta dai capi della rivolta», iniziata da gruppi abbastanza numerosi, e proseguita dalla

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maggioranza delle truppe, se non addirittura da tutti coloro che non erano materialmente impediti; 3) infine: «Mentre altra volta,» come disse il duca «cessato il parossismo criminoso, si ebbero segni manifesti di resipiscenza e di reazione da parte degli elementi sani, nella brigata Catanzaro si poté notare, dopo il ritorno all’ordine, il sordo rancore e l’ostile sottomissione dei vinti. In conclusione,» aggiunse sempre il duca d’Aosta «il caso è stato molto più grave di tutti i precedenti, non solo nelle sue manifestazioni esterne e nelle dolorose conseguenze, ma specialmente nelle cause profonde, e per lo stato d’animo che rivela». Sulle cause della rivolta, tuttavia, si manifestò una disparità di opinioni tra il duca e il gen. Tettoni, comandante del VII corpo, del quale la brigata Catanzaro faceva parte. Il gen. Tettoni, difatti, facendo suoi i concetti esposti da Cadorna nelle lettere al governo (lettere che negli ambienti militari erano sostanzialmente note), scrisse che le cause della rivolta dovevano essere «soprattutto ricercate nell’indegna e insistente propaganda sovversiva nell’interno del Paese» (si noti: del Paese e non dell’esercito) e «nella malaugurata diffusione dei giornali portanti notizie sugli avvenimenti della Russia e sulla loro ripercussione sulla disciplina dell’esercito». Fra le cause secondarie il Tettoni indicava le seguenti: 1) la sospensione delle licenze ai siciliani, che nella brigata si contavano «in buon numero»; 2) la convinzione che spettasse ad altra brigata, prima della Catanzaro, di trasferirsi in prima linea; 3) la lunga permanenza sul fronte carsico e il desiderio non raggiunto di essere trasferiti su un fronte meno sfibrante; 4) il recente arrivo dei complementi privi ancora di spirito di corpo. Ma si trattava davvero di cause secondarie? Il duca d’Aosta non fu di questo parere: a suo avviso «la causa principale della grave rivolta [era] il malcontento formatosi nella massa della truppa, 404

per la falsa credenza di un trattamento non giusto rispetto ad altre brigate», soprattutto per la lunga permanenza sul fronte del Carso che, «non a torto», era considerato il più difficile. Solamente dopo aver indicato tale «causa principale», il duca d’Aosta si occupava della propaganda disfattista per dire che essa, «malgrado tutto», riusciva «ad infiltrarsi e ad agire sulle masse incolte» che costituivano gran parte delle fanterie, profittando appunto del malcontento, e suscitando «il desiderio di sottrarsi al gravoso dovere e l’illusione di poter fare prevalere la volontà delle masse su quella dei capi». Le notizie della rivoluzione di febbraio e del caos che essa aveva creato fra le truppe russe avevano alimentato questa illusione e «prodotto sulle menti semplici dei soldati un effetto disastroso». Ma il duca non fece in proposito alcuno specifico addebito alla propaganda «disfattista», aggiungendo anzi che quelle notizie erano «liberamente pubblicate da tutti i giornali, compresi i più devoti alle istituzioni». Il «complotto» che avrebbe suscitato la rivolta era attribuito ad «elementi facinorosi» non meglio identificati, ma che né il duca né il Tettoni ponevano in relazione con una qualunque organizzazione politica. Entrambi facevano notare piuttosto che gli ufficiali della brigata avevano assistito per lungo tempo alla progressiva demoralizzazione delle truppe senza svolgere una adeguata opera educativa. 71 6. Il reato più diffuso nell’esercito italiano fu quello della diserzione: scrisse il Mortara che i tribunali militari pronunciarono durante la guerra 101.665 condanne, e dichiararono altri 26.862 militari esenti da pena per essere spontaneamente rientrati nelle file dell’esercito. In totale, dunque, 128.527 casi di diserzione. 72 Degno di nota risultò il progressivo aumento delle condanne: 405

10.272 nel primo anno di guerra; 27.817 nel secondo anno; 55.034 nel terzo. 73 Il 6 giugno 1917, nella prima delle quattro lettere al presidente del Consiglio, Cadorna scrisse che la Sicilia era ridotta «a un covo pericoloso di renitenti e di disertori, i quali, secondo le segnalazioni del ministero della Guerra, superavano i 20.000». 74 Il ministro Orlando, siciliano, si sentì colpito nell’orgoglio isolano e negò che l’informazione fosse veritiera. Scrisse al presidente Boselli che la cifra effettiva dei disertori e dei renitenti nell’isola non superava le 2.400 unità. 75 Affermò, alla Camera, che la media dei disertori delle province siciliane non era superiore alla media delle altre province d’Italia. Ma fu smentito pochi minuti dopo, in quella stessa aula, dal ministro della Guerra gen. Giardino, il quale disse che in effetti la Sicilia aveva un numero medio di disertori doppio rispetto a quello delle altre province. 76 Il 3 novembre 1917 Cadorna scrisse a Boselli che alla vigilia di Caporetto, «più di centomila disertori» vagavano per l’Italia, «infestando le campagne, seminando ribellione nelle città e dovunque propagando lo sconforto». Secondo Cadorna, infatti, circolavano circa 22.000 disertori dell’esercito mobilitato, circa 34.000 disertori dell’esercito non mobilitato, ed infine altri 48.000 renitenti non presentatisi alla chiamata. 77 È difficile, per non dire impossibile, data l’inaccessibilità degli archivi militari, controllare l’esattezza delle statistiche utilizzate da Cadorna per determinare queste cifre. Riteniamo tuttavia che esse vadano considerate con grande prudenza. Tutti i dati sulle diserzioni durante la guerra, anzi, anche quelli di Mortara, meritano a nostro avviso di essere vagliati ed interpretati alla luce di varie considerazioni, che ci limiteremo ad indicare molto brevemente. 406

La maggioranza di coloro che venivano considerati disertori dalle statistiche dell’amministrazione militare tornavano in trincea, e talvolta morivano in combattimento: soltanto il 2% dei disertori passava al nemico; il rimanente 98% era in buona parte costituito da uomini che non avevano avuto mai alcuna intenzione di abbandonare il reparto e che si erano assentati arbitrariamente per un brevissimo periodo oppure erano tornati in ritardo dalla licenza. Dopo l’aprile 1918 fu sufficiente un ritardo di 24 ore perché i tribunali processassero, condannassero, e poi rispedissero in linea. 78 In numerosi altri casi il disertore era un militare pentitosi del suo gesto che aveva fatto ritorno spontaneamente al reparto; era stato anch’egli processato e rispedito in trincea. Altrettanto accadeva di solito a coloro i quali invece di tornare spontaneamente erano arrestati dalla forza pubblica. Su 101.665 condanne per diserzione soltanto 370 furono condanne a morte; le altre furono condanne alla reclusione che nella quasi totalità dei casi non impedirono ai condannati di tornare subito in linea; si voleva impedire, infatti, che la diserzione diventasse un mezzo per «imboscarsi» nelle prigioni. Esistevano insomma «disertori-latitanti» e «disertoricombattenti». Al 1° ottobre 1917 – secondo i dati dello stesso Cadorna – l’esercito operante in zona di guerra aveva 29.500 disertori-combattenti e 25.500 disertori-latitanti (22.000 nel regno, 3.000 prigionieri del nemico e 500 rifugiati in paese neutrale o amico) che in gran parte sarebbero stati recuperati nei mesi successivi e rinviati ai reparti. 79 Le statistiche, inoltre, non tenevano conto dei recidivi. Alle 128.547 condanne per diserzione indicate dal Mortara corrispose insomma non soltanto una realtà di fatto diversa, molto spesso, da quella che il termine «diserzione» poteva far supporre, ma anche un numero inferiore di «disertori». Non sappiamo quanti

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furono i recidivi, ma a titolo puramente indicativo, ricorderemo che nel gennaio 1918 i reparti del genio del V corpo d’armata ebbero in totale otto disertori e che tre di essi erano recidivi. 80 È possibile, inoltre, che nella raccolta delle notizie sulle diserzioni gli organi dell’amministrazione militare incorressero in una certa confusione tra disertori in senso stretto (che, dopo essere entrati a far parte di un reparto, lo avevano abbandonato), e disertori per mancanza alla chiamata (distinti a loro volta in renitenti alla leva e in militari i quali, dopo aver compiuto servizio di leva prima della guerra, non avevano poi risposto al successivo richiamo). Altre confusioni ed inesattezze potevano facilmente prodursi al momento della determinazione della residenza del renitente o del disertore, considerando che tanta parte della popolazione rurale era analfabeta ed era anche emigrata in paesi lontani. 81 Numerosi renitenti e disertori emigrati furono probabilmente ritenuti ancora residenti nel regno se avevano lasciato in Italia tutta o parte della loro famiglia. Cadorna parlava nella sua lettera del 3 novembre di 100.000 e più disertori e renitenti «latitanti» nel regno; ma circa 78.000 di essi sarebbero stati o disertori dell’esercito non mobilitato o renitenti alla chiamata e quindi mai mobilitati, per cui su un totale di oltre 2 milioni di uomini che componevano l’esercito combattente i disertori-latitanti sarebbero stati 22.000 circa. Questa cifra, che è quella di cui maggiormente poteva dirsi sicuro Cadorna, si dimostra a sua volta suscettibile di un ridimensionamento se si tien conto che in essa erano compresi anche i ritardatari dalla licenza. È particolarmente degno di rilievo, infatti, che nel 1917, per la prima volta dall’inizio della guerra, una parte dell’esercito andò in licenza primaverile o estiva per i lavori agricoli. Pertanto,

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mentre dall’aprile all’ottobre del 1916 l’esercito operante aveva avuto una media giornaliera di 2-3.000 militari di truppa assenti per licenza, dall’aprile all’ottobre del 1917 quella media salì a 8090.000. 82 Il maggior numero di denunzie per diserzione fu in gran parte una conseguenza di quelle licenze primaverili ed estive. Tornare a casa, lo abbiamo già detto, costituiva sempre per il soldato un trauma psicologico. Tornare nella buona stagione per riprendere il lavoro dei campi fu nel ’17, per il fante contadino, un avvenimento capace di determinare un profondo turbamento. Alcuni fanti desiderarono trattenersi sui campi, al paese e con le donne oltre i termini scritti sul foglio del comando. Altri avvertirono i fermenti che nel ’17 agitavano il mondo contadino, sentirono sulle loro spalle il peso di due anni di trincea; e la macchia era lì, a portata di mano, a due passi dal fondo o dal podere. In ogni caso nemmeno Cadorna volle indicare nella citata sua lettera una qualunque influenza esercitata sul fenomeno delle diserzioni o delle renitenze dalla propaganda socialista o neutralista. I dati in suo possesso precisavano, tra l’altro, che circa il 61% dei renitenti latitanti nel regno appartenevano ad una sola regione, la Sicilia; un altro 19% alla Toscana, e il rimanente 20% si sbriciolava in piccole cifre, nelle altre regioni. Il Piemonte neutralista figurava con un modesto 0,4%. 83 7. Allo scoppio della Grande guerra circa 6 milioni di italiani vivevano all’estero. Soltanto una parte di coloro che avevano obblighi di leva fecero ritorno in patria, e la grande maggioranza rimpatriarono durante i primi mesi di guerra, quando erano ancora vive le illusioni di una rapida vittoria. Infatti, secondo le indagini compiute dal commissariato generale dell’emigrazione, i militari rimpatriati dal 24 maggio 1915 al 31 dicembre 1918 ammontarono a 303.919, così ripartiti: 84 409

191.835 nel 1915 51.812 nel 1916 25.457 nel 1917 34.815 nel 1918 essi provenivano: 155.387 128.570 19.529 385 48

dall’America dall’Europa dal bacino del Mediterraneo (Egitto, Algeria, Tunisia, Marocco) dall’Asia e dall’Australia dall’Africa.

Nel gennaio 1918 il presidente Orlando dichiarò che nelle Americhe si trovavano ancora mezzo milione di renitenti. Francesco Coletti, in polemica con Orlando, scrisse sul «Corriere della Sera» che quei renitenti ammontavano ad 800.000; la forza militare in tal modo perduta – tenendo conto della percentuale di inabili al servizio – sarebbe stata molto superiore ai 550.000. 85 I motivi per i quali una così gran massa di emigrati non risposero alla chiamata furono in gran parte di ordine pratico e facilmente intuibili: molti emigrati vivevano ormai stabilmente in paesi lontani; nessuna autorità li costringeva a partire; la famiglia, la casa, gli interessi li allontanavano materialmente e spiritualmente dalla patria. La decisione di tornare costituiva quasi sempre una dimostrazione di grande disinteresse e di vero e proprio amor patrio. Proprio in base a queste considerazioni quei 300.000 che tornarono furono giudicati da molti come dei veri e propri «volontari». 86 Forse ne sarebbero tornati ben più di 300.000 se le autorità civili e militari non avessero dimostrato una assoluta 410

incomprensione nei confronti degli specifici problemi degli emigrati. La condizione nella quale vennero a trovarsi fu spesso difficile e talvolta addirittura tragica. Pur avendo famiglia all’estero ricevettero un trattamento identico a quello di coloro che avevano famiglia in patria. Molti, scrisse il Coletti, erano poverissimi e senza aiuto di parenti che risiedessero in Italia. Accadde perfino che taluni rinunciassero alla licenza, perché non avevano mezzi e non sapevano neppure da chi andare. 87 Era vietato varcare il confine per rivedere la moglie o i figli, e i sussidi disposti dal governo a favore delle famiglie disagiate, se erano miseri in Italia, risultavano addirittura ridicoli negli Stati Uniti o in Argentina, sia per effetto del cambio, sia per il diverso costo della vita. Questione economica a parte, era proprio la lunga separazione dalle famiglie a far soffrire molti rimpatriati e a indurre tanti altri emigrati a non presentarsi: «Risolvere il problema delle licenze» scrisse un militare venuto dall’Argentina «è decidere la venuta di centinaia di migliaia di renitenti». 88 Numerosi renitenti avrebbero voluto, nonostante tutto, mettersi in regola con la legge ed arruolarsi. Ma li trattenne la minaccia, anzi la certezza del procedimento penale. All’inizio del 1918 il presidente Orlando promise un provvedimento di amnistia, che sarebbe stato condizionato – s’intende – all’immediato rientro in patria dei renitenti. Il Coletti calcolò che in tal caso almeno 100.000 uomini avrebbero fatto ritorno dall’America latina. 89 L’amnistia fu concessa soltanto a guerra finita e l’effetto – disse il Coletti – fu contrario a quello che sarebbe stato ottenuto durante la guerra, «quando il ritorno in patria avrebbe significato ammenda di se stessi». 90 Riteniamo infine che numerosi emigrati esitarono a ritornare anche perché all’estero il governo italiano non seppe fare opera di propaganda. Sono note le conseguenze che quella mancanza di 411

informazione e di propaganda produsse nell’opinione pubblica dei paesi alleati, ma è certo che il silenzio creatosi all’estero intorno alla guerra dell’Isonzo e del Piave (solo la battaglia di Caporetto diventò famosa) produsse negativi effetti anche tra gli emigrati che avevano obblighi militari. 8. Sonnino non credette mai all’utilità della propaganda. Essendo rimasto al ministero degli Esteri per tutta la durata della guerra, contribuì con il suo scetticismo a paralizzare ben tre governi: nulla fu fatto ai tempi del governo Salandra; poco o nulla ai tempi di Boselli; qualcosa di più, e neppur sempre bene, ai tempi di Orlando. 91 Boselli si giustificò adducendo la mancanza di fondi adeguati, ma dichiarò di essere favorevole in linea di principio alla propaganda, e conferì al ministro Scialoia un generico incarico. 92 Le iniziative in proposito continuarono nondimeno a sembrare scarse e inidonee «per deficienza quantitativa e qualitativa di mezzi, per grettezza, per assenza di organizzazione e di metodo, per incapacità di persone». 93 Secondo altri, viceversa, il vero ostacolo non stava né nei mezzi né negli uomini, ma nello scarso valore che in Italia si soleva dare alla pubblicità, per qualunque fine essa avesse operato. 94 E così la guerra italiana non diventò mai popolare neppure nella repubblica francese, nonostante la solidarietà d’armi e la vicinanza geografica. A Parigi molti pensavano che l’esercito italiano fosse modestamente impegnato in una «piccola» guerra condotta con mentalità difensiva. Nell’aprile 1917, per esempio, la stampa parigina fremeva vedendo gli italiani prolungare il riposo invernale proprio quando inglesi e francesi combattevano duramente allo Chemin des Dames e nell’Artois. In quei giorni, alla Sorbona, fu indetta una riunione patriottica con la partecipazione del presidente Poincaré e di varie autorità, tra le 412

quali l’ambasciatore italiano Salvago Raggi. Furono pronunciati vari discorsi e quando gli oratori nominarono re Alberto del Belgio, re Giorgio d’Inghilterra o re Pietro di Serbia, immediatamente l’intera assemblea, compreso il presidente della repubblica, si levò in piedi fra applausi scroscianti. Quando invece fu nominato il re d’Italia nella sala non si sentì volare una mosca e si ebbe quasi l’impressione che tutti temessero un fischio. 95 Lo sforzo militare italiano non fu adeguatamente apprezzato neanche negli Stati Uniti, e all’opinione pubblica americana dispiacquero in particolar modo le aspirazioni territoriali dell’Italia, giudicate «immorali» ed «imperialistiche». 96 L’ambasciatore a Washington, Macchi di Cellere, richiese invano al governo di Roma stanziamenti sufficienti per condurre una efficace opera di propaganda o, per meglio dire, di contropropaganda. Soltanto nel 1918 gli italiani cominciarono oltreoceano a promuovere iniziative di una qualche consistenza, con effetti molto limitati, tuttavia, dato che i giornalisti americani recatisi nel ’19 a Milano ed a Roma per accompagnare Wilson, espressero «il più strano stupore» nel vedere che dal punto di vista militare, civile ed industriale l’Italia era tanto diversa da come l’avevano immaginata. 97 Dopo questi brevi cenni si potrà forse meglio comprendere perché l’immagine assai poco esaltante ed eroica offerta all’estero dall’Italia in guerra contribuì – come dicemmo – a far diminuire il numero degli italiani rimpatriati. Ma quanto segue dimostrerà ancor meglio quale importanza avesse, ai fini di una mobilitazione, una politica efficiente nei confronti degli emigrati (e di tutti i cittadini in generale). Proprio gli Stati Uniti, difatti, seppero condurre un’azione efficacissima nei confronti della

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grande massa di italiani ivi residenti, traendo da essi un forte contingente di truppe. Fu calcolato che più di 300.000 italo-americani prestarono servizio durante la guerra nell’esercito degli Stati Uniti: molti di essi erano nati negli Stati Uniti, oppure vi avevano famiglia, e potevano quindi essere definiti a pieno diritto italo-americani, ma altri appartenevano ancora alla cosiddetta emigrazione temporanea. Circa 90.000 erano nati in Italia, e quasi tutti inviarono il sussidio governativo alle famiglie rimaste nella penisola. 98 La maggior parte di questi 90.000 appartenevano alla Sicilia ed agli Abruzzi: alla provincia di Teramo con la più alta percentuale, e poi via via alle province di Agrigento, Trapani, Palermo, Reggio Calabria, Cosenza, Messina, Chieti. Ma tutte le regioni italiane potevano dirsi rappresentate. Il contributo degli italiani alla guerra degli Stati Uniti fu superiore a quanto sarebbe stato prevedibile in base alle statistiche demografiche. Infatti, mentre gli italiani rappresentavano il 4% circa dell’intera popolazione, la lista delle vittime di guerra indicò che il 10% di esse portava nome italiano. 99 Molti valorosi combattenti erano considerati in Italia «disertori alla chiamata», e il governo di Washington chiese a quello di Roma di stipulare una convenzione per dichiararli non più perseguibili. 100 Lo slancio con il quale, a quanto pare, tanti italiani d’America parteciparono alla Grande guerra dipese da numerosi elementi. In parte contò la politica assai abile che gli Stati Uniti condussero nei confronti delle masse da mobilitare. Infatti, mentre in Italia, così come in Francia e in Germania, lo spirito patriottico era un dato di fatto spontaneo e naturale, negli Stati Uniti esso doveva essere in gran parte «creato»: occorreva amalgamare la grande massa dei cosiddetti hyphenated (letteralmente: «uniti da una

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lineetta», come ad esempio gli italo-americani, i tedescoamericani, e così via), individui i quali potevano in vario modo avvertire la loro appartenenza a due patrie. Durante la Prima (e la Seconda) guerra mondiale il governo degli Stati Uniti ebbe anzi il compito di convincere i tedesco-americani a combattere contro la loro patria di origine. Fu questa una delle ragioni per cui nella Prima (come nella Seconda) guerra mondiale quel governo si preoccupò di attribuire finalità sopranazionali al conflitto in corso. Quei tedesco-americani che nel 1914 si erano apertamente ed entusiasticamente schierati a favore della Germania, partirono nel 1917 per combattere contro la stessa Germania animati dal «messianismo democratico» che un’abile propaganda aveva saputo ispirare, infervorati dall’idea di portare con la guerra, fra i loro connazionali europei, la vera democrazia. 101 La partecipazione degli italo-americani alla stessa guerra fu resa ancora più facile dall’alleanza esistente tra Italia e Stati Uniti. Un combattente emigrato da Ariano delle Puglie scrisse alla famiglia prima di raggiungere il fronte francese e di morirvi in combattimento: «Quando io sarò sul campo di battaglia raddoppierò le mie forze, pensando che difendo due patrie». 102 Grandissima importanza ebbe inoltre il fatto che l’esercito degli Stati Uniti assicurasse ai suoi soldati un trattamento materiale ed economico notevolmente superiore a quello degli altri eserciti europei. È probabile, anzi, che numerosi italiani d’America conquistassero per la prima volta un senso di sicurezza e di dignità sociale proprio grazie al loro arruolamento. Il vitto, il vestiario, il riposo furono particolarmente curati. La paga venne stabilita nella misura di un dollaro al giorno, con la possibilità inoltre di destinare una modesta frazione di quel dollaro al pagamento di una polizza di assicurazione che

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garantiva la liquidazione di una notevole somma alle famiglie in caso di morte. Il Palmieri, funzionario dell’ufficio assicurazioni appositamente creato dal governo di Washington, ritenne che lo slancio e la serenità con i quali i soldati italo-americani affrontavano il pericolo fosse una conseguenza diretta delle misure decise in favore delle famiglie. «Carissima diletta moglie,» scrisse un contadino abruzzese «ti annunzio che ho preso un’assicurazione di 50.000 lire. Se io muoio sarai ricca. Ti raccomando però di non andare subito secondo il tuo brutto vizio a dirlo a tutte le comari.» In moltissime lettere venivano ripetute più o meno le stesse parole: se morremo sarete ricchi. Frattanto, secondo i dati forniti dal Palmieri, più di 30.000 assegni, per un valore complessivo superiore ai 500.000 dollari, partivano mensilmente alla volta dell’Italia con i sussidi alle famiglie. 103 9. I fanti italiani ricevevano un trattamento economico di gran lunga inferiore a quello dei loro compatrioti arruolati nell’esercito americano: 50 centesimi invece del dollaro giornaliero (pari, nel gennaio 1918, a otto lire e 50 centesimi). Invece delle 50.000 lire di assicurazione, la vecchia madre italiana che avesse perso sull’Isonzo l’unico figlio percepiva dopo infinite lungaggini burocratiche la pensione giornaliera di lire una e centesimi 72. Erano inoltre previste pensioni di lire 3,45 in favore dei soldati che fossero tornati dalla guerra ciechi o amputati agli arti, e di lire 2,58 per chi avesse perduto la mano destra. 104 Il costo della vita, nel 1917, era aumentato di circa il 90% rispetto al 1915, ma fino al maggio 1917 i modesti sussidi alle famiglie dei richiamati restarono invariati e dopo il maggio subirono aumenti irrisori: il sussidio giornaliero alla moglie passò da 60 a 75 centesimi; quello in favore dei figli minori di 12 anni aumentò da 30 a 40 centesimi. 105 Crebbe viceversa il 416

numero dei soldati con famiglia a carico, dato che nel gennaio del ’17 furono richiamati alle armi perfino i nati nel 1874: fanticontadini di quarant’anni spesso già vecchi e logorati dal lavoro, con cinque, sette, dieci figli ciascuno. Si verificò il caso di una compagnia di 230 soldati che avevano lasciato a casa un totale di 952 figli. 106 Dal dicembre 1916 la razione alimentare del soldato diminuì: il pane passò da 750 a 600 grammi giornalieri; la carne da 375 a 250 grammi, sostituibili, due volte alla settimana, con il baccalà. 107 Il provvedimento fu determinato non soltanto dalle difficoltà negli approvvigionamenti, ma anche dai consigli di alcuni fisiologi, convinti che la razione distribuita nell’esercito italiano fosse esageratamente ricca di proteine e, nel complesso, troppo «lussuosa». 108 La razione diminuì da circa 4.000 a circa 3.000 calorie, (contro le 3.400 della razione francese e le 4.400 della razione britannica) e il Volpe fece osservare con ironia che gli esperti si preoccupavano di mettere nel conto anche le calorie di «un pugno di castagne secche». 109 Prezzolini affermò che durante l’estate-autunno del ’17 nella maggioranza dei reparti «si pativa la fame», perché «gli uomini di truppa mangiavano abbastanza soltanto se i loro ufficiali si quotavano per migliorare il rancio». 110 Lo stesso Cadorna ammise «il grave malcontento» suscitato fra le truppe dalla diminuzione delle razioni. 111 E in effetti, indipendentemente dal fatto che 600 grammi di pane e 250 di carne o di baccalà fossero sufficienti o insufficienti, per i soldati era già un grave torto che fosse stata loro imposta una diminuzione di consumi, quando invece il Paese, che non subiva i disagi delle trincee, continuava ad acquistare liberamente i generi alimentari senza che fosse stata ancora introdotta alcuna forma di razionamento. 112 417

Il governo aveva fino ad allora evitato quel provvedimento sia perché ne temeva le possibili ripercussioni politiche, sia perché ne scorgeva le complesse difficoltà di attuazione. Per dimostrare ai soldati che anche i cittadini avrebbero compiuto qualche rinuncia, fu tuttavia emanata, tra la fine del ’16 e gli inizi del ’17, una serie di decreti che limitarono il consumo delle sostanze alimentari nei pubblici esercizi, imposero la chiusura dei ristoranti, caffè e teatri alle ore 10,30 della sera, e vietarono la produzione di alcuni dolciumi in pezzature superiori ai 50 grammi. Invece di un solo dolce grande, insomma, bastò acquistare un vassoio pieno di dolci più piccoli. 113 E al soldato importò poco di sapere che gli «imboscati» rimasti nel Paese dovessero uscire dai ristoranti alle 10,30 della sera, quando egli era viceversa inchiodato in trincea o avvilito in un «riposo» ozioso e tetro. Fu solamente nel luglio 1917 che negli ambienti vicini al Comando supremo ci si cominciò a preoccupare delle attività ricreative delle truppe. Barzini preparò sull’argomento una relazione da inviare ad Albertini. 114 Alessi ne scrisse al suo direttore: «Se si deve fare un altro inverno in trincea» disse «bisogna che gli uomini, quando sono in posizione di riposo, si divertano, mangino bene, abbiano canti, musiche ecc. Come si potrebbe trovare il mezzo per dire al Comando supremo queste cose?» 115 Il 20 luglio Cadorna emanò una circolare nella quale poterono trovarsi alcuni accenti nuovi. Dopo aver alluso alla rivolta della brigata Catanzaro verificatasi in quei giorni, il comandante supremo disse infatti che non bastava «sopprimere i colpevoli per mantenere sana e salva la compagine dell’esercito»: 418

occorreva anche prevenire e stare «a continuo contatto con l’animo delle truppe per comprenderne le aspirazioni, i bisogni». Ammise che l’esercito poteva anche concedersi delle distrazioni; parlò di ginnastica, gioco, divertimento. Concluse insistendo sul fatto che la disciplina dovesse essere inflessibile e retta da un «pugno di ferro»; ma – per la prima volta dall’inizio della guerra – dichiarò anche che bisognava trattare il soldato «con comprensione umana». 116 Si trattò di direttive generiche che ebbero conseguenze pratiche ben scarse. Renato Simoni e Tito Ricordi ricevettero l’incarico di organizzare qualche decina di spettacoli teatrali nelle retrovie del fronte. 117 I tribunali militari continuarono a condannare come prima, ed anzi un po’ più di prima: 25 esecuzioni in luglio, 36 in agosto, 26 in settembre. 118 10. I corrispondenti di guerra dei giornali italiani conoscevano abbastanza bene la realtà del fronte. Inviavano notizie circostanziate ai direttori dei loro giornali, ma tacevano con il pubblico dei lettori, pubblicando articoli che nascondevano una gran parte della verità, o addirittura la falsificavano. La mancanza di certe informazioni dipendeva – come è facile intuire – dalla censura sulla stampa. Ma la deformazione della verità dipendeva in parte dai suggerimenti delle autorità, desiderose di presentare al pubblico un quadro ottimistico della situazione, e in parte dallo stesso pubblico, ansioso di leggere sul giornale le notizie buone e non quelle cattive. Alla fine del 1915 Papini già poteva scrivere che la gente si limitava a guardare i titoli ed i comunicati ufficiali e che presto, forse, non avrebbe letto nemmeno più quelli. 119 Sembrava che i lettori, pur avendo la vaga sensazione di essere ingannati, cercassero nei giornali solo la conferma delle loro illusioni e l’assicurazione «che la guerra si era ormai immobilizzata nella 419

fatale divisione del Paese nelle due uniche classi» dei combattenti e degli imboscati. 120 I genitori e le spose cercavano di scacciare dalla mente immagini troppo angosciose, e coloro i quali avevano avuto la fortuna di sfuggire agli orrori della guerra preferivano non vederli descritti nel giornale del mattino, prima di mettersi a tavola, o in quello della sera, prima di addormentarsi. Non soltanto in Italia, ma anche in Francia i giornali pubblicavano «panzane» sulla vita di trincea, e i borghesi di Parigi o della provincia desideravano leggere proprio quel genere di panzane per continuare indisturbati la loro vita di sempre. 121 Pochi giorni dopo Caporetto il col. Gatti ebbe una lunga conversazione con alcuni corrispondenti di guerra: «Si è parlato dell’errore,» disse «del seguito di errori, anzi, per cui tutta questa guerra è stata un cumulo di menzogne. Si è sempre detto, per essa, cose che erano diverse dalla verità. Tutto era piantato sullo stesso sistema: tutto, a cominciare dalle dichiarazioni dei ministri, per finire agli sproloqui di D’Annunzio.» 122 In effetti la stampa aveva usato un linguaggio «goffamente encomiastico» verso Cadorna; aveva scioccamente denigrato il nemico; aveva fornito un’immagine della forza militare italiana assai lontana dalla realtà, e ridotto la lotta di milioni di uomini a puro spettacolo. 123 E se in tal modo essa era riuscita a garantire il proprio successo presso il pubblico delle città, si era invece attirate molte critiche presso il pubblico delle trincee. Ciò che inasprì i combattenti fu soprattutto «la falsificazione della loro psicologia, come di gente che in guerra si divertisse e ci pigliasse gusto, né più né meno che ad uno sport». 124 Talvolta quei combattenti si preoccuparono di riconoscere i meriti di alcuni giornalisti. Il capitano Frescura, ad esempio, 420

dopo essersi scagliato contro la prosa retorica del «Corriere della Sera», trovò equilibrate le corrispondenze di Achille Benedetti nel «Giornale d’Italia», di Luigi Ambrosini nella «Stampa» di Torino, e di Giuseppe De Mori nel «Corriere Vicentino». 125 Ma il più delle volte, negli scritti degli ufficiali e dei soldati, si trovarono giudizi amari e sprezzanti, indirizzati genericamente contro tutta la stampa. Barzini era, a quell’epoca, il giornalista più famoso di tutti, e i soldati – come ricordò Corrado Alvaro – inventarono una celebre parola d’ordine: «Se trovo Barzino, gli sparo». 126 Eppure, verso i giornali e i giornalisti, i combattenti ebbero sentimenti ambivalenti: gettavano via con disprezzo il giornale quando descriveva in modo falso ed oleografico le imprese di questo o quel reggimento, ma lo conservavano gelosamente quando si trattava del «loro» reggimento. Aldo Valori, redattore del «Resto del Carlino», ricordava innumerevoli lettere di combattenti che si lagnavano perché il giornale non aveva parlato del loro reparto, o non ne aveva parlato con enfasi. 127 Prezzolini, a sua volta, restò «atterrito» nel vedere come la retorica fosse così profondamente penetrata nelle vene della nazione, da far sì che perfino nelle lettere dei veri combattenti si ritrovassero «gli accenti d’accatto e le posizioni teatrali e false dell’eroe da commedia e da farsa»; il soldato, insomma, detestava il giornalista, ma «lo ricopiava inconsciamente». 128 E il tenente Lentini raccontò che un giorno ricevette l’ordine di accompagnare nelle retrovie del fronte un giornalista del «Corriere della Sera». La notizia si sparse in un baleno e molti, soldati ed ufficiali, s’aggrapparono all’automobile: «Ciascuno diceva il proprio cognome e reparto, tutti volevano farsi sentire, volevano parlare e soprattutto farsi ricordare sul giornale. A tutti promesse, auguri, addii». 129 421

11. L’opposizione tra esercito e Paese, tra combattenti ed imboscati non fu mai così avvertibile come nel 1917. Soldati ed ufficiali si adiravano pensando che alle loro spalle esisteva una nazione rimasta sostanzialmente estranea alla guerra e capace, anzi, di approfittarne. Parlavano di un’Italia in cui ci si divertiva «a rotta di collo», piena di «caffè, teatri, balli, tabarins, vergini in fregola, bagasce, ruffiani, pescicani, imboscati». 130 Dicevano che i negozi di lusso non avevano mai guadagnato tanto come durante i tre anni della guerra, che le fabbriche di automobili non sapevano più come soddisfare le esigenze dei privati, che i gioiellieri lavoravano ad ornare di brillanti e di perle quelle signore che avevano dato «l’oro alla Patria». 131 Sempre più spesso i giornali pubblicavano notizie di illeciti guadagni e di frodi nelle forniture militari. 132 Chi combatteva dichiarava pertanto di aver motivi di odio «dinanzi e dietro di sé». 133 L’inefficienza della classe politica al governo ridava nuovo vigore alla tradizionale invettiva contro Roma, capitale corrotta. 134 Soldati ed ufficiali erano ossessionati dal fatto che l’Italia fosse piena di imboscati. La fanteria, in special modo, «strapazzata e pidocchiosa», provava odio per tutti. Odiava le altre armi, perché le sapeva molto meno esposte ai pericoli; odiava a maggior titolo quegli italiani ai quali era riuscito di sfuggire completamente ai rischi della guerra. 135 I fanti erano in grandissima parte contadini. L’opposizione tra fanti ed imboscati diventò dunque opposizione tra contadini e borghesi, tra contadini e proletariato urbano. I fanti dicevano che i contadini non avevano nessuna strada per imboscarsi, mentre borghesi ed operai ne avevano cento. Ai fanti-contadini non sfuggiva tuttavia che una parte molto significativa della borghesia stava partecipando ai sacrifici della guerra, e che gli ufficiali di fanteria erano tutti di provenienza 422

piccolo o medio borghese. Quanto all’antagonismo con il proletariato urbano, anch’esso risultava mitigato dalla partecipazione alla guerra di un considerevole numero di modesti artigiani ed operai. Ma, come ammetteva lo Zibordi sulle colonne dell’«Avanti!», si tratta di operai poveri, di muratori, braccianti, manovali. 136 Gli operai delle industrie, invece, la parte più qualificata della classe operaia, gli addetti alle imprese siderurgiche, meccaniche, estrattive, agli stabilimenti chimici o a quelli che confezionavano indumenti e scarpe per l’esercito ottenevano piuttosto facilmente l’esonero e costituivano la massa più vistosa di «imboscati», contro la quale l’ostilità dei fanti-contadini si indirizzava con la più grande veemenza. Che i «signori» fossero ricchi e privilegiati era un’ingiustizia antica alla quale ci si era in certo qual modo adattati; ma che gli operai scampassero alla guerra e guadagnassero «dieci lire al giorno» era un’ingiustizia nuova che sembrava tanto più grande dell’antica. Essendosi verificati gravi conflitti tra soldati ed esonerati, 137 il Comando supremo decise il 12 aprile 1917 di emanare una circolare «in cui si cercava con bella forma e convincenti argomenti di dimostrare alla truppa le esigenze imprescindibili della produzione bellica». 138 Ma le belle parole, se mai giungevano alle orecchie dei fanti-contadini, non potevano persuaderli. Neppure l’argomento che le industrie non avrebbero mai potuto rinunciare alla mano d’opera qualificata riusciva pienamente a convincerli: non era forse vero, infatti, che tanti operai esonerati erano stati zappatori, manovali, bifolchi, fino a pochi giorni prima di entrare in fabbrica e garantirsi l’esonero? E irritava, in secondo luogo, che si pensasse comunque, sempre e soltanto alle esigenze delle industrie e non anche a quelle delle campagne. Anche queste ultime avevano bisogno di braccia,

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specialmente dopo che per due anni tanti uomini se ne erano allontanati. Nel 1915 non erano stati concessi né esoneri né licenze straordinarie per lavori agricoli. Nel ’16 erano state concesse alcune brevi licenze e appena 2.438 esoneri. Agli inizi del ’17 gli organismi ministeriali precisarono che le necessità della agricoltura avrebbero imposto 140.000 esoneri e 90.000 licenze temporanee di trenta giorni. Passarono i mesi senza che fosse presa una decisione, e si cercò di rimediare autorizzando licenze temporanee di 30 o di 40 giorni in numero superiore che nel passato. Ma si trattò di palliativi che non giovarono all’agricoltura ed aumentarono lo scontento dei soldati e delle loro famiglie. Le licenze previste per agevolare determinati lavori stagionali furono concesse spesso con ritardo, quando quei lavori si erano ormai conclusi. Migliaia di domande furono respinte senza giustificato motivo. 139 Gli organi che dovevano decidere in merito erano diretti non da militari, ma da «borghesi», da autorità locali, verso le quali venivano esercitate varie forme di pressione. Come scrisse il Serpieri: «Grande e terribile era la loro autorità; essi potevano decidere non solo di un prezioso aiuto al contadino affaticato, ma anche, forse, della vita o della morte di un figlio, di un fratello, di un parente»; le domande presentate furono molto più numerose delle licenze che potevano essere concesse, e una scelta obiettiva delle stesse fu resa difficile, per non dire impossibile, dalle pressioni di cui dicevamo. Si verificarono veri e propri abusi e le complicazioni della burocrazia, a loro volta, accrebbero il danno. 140 Nel 1917 la commissione della provincia di Roma poteva assegnare 5.500 licenze di trenta giorni. Le domande presentate furono 20.000, e la commissione scelse a suo criterio le 5.500 da

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trasmettere ad altra autorità competente. Questa, a sua volta, ne respinse ben 3.500 perché mancavano di qualche requisito. Su 20.000 domande, insomma, ne furono accolte soltanto 2.000, e la commissione fu perseguitata da lettere, telegrammi e interrogazioni per conto di 18.000 famiglie deluse. 141 Un decreto del 25 agosto 1917 stabilì che, oltre a 50.000 licenze di 40 giorni, fossero finalmente concessi 120.000 esoneri per le necessità dell’agricoltura. Ma l’applicazione del decreto richiedeva tempo e fu presto sconvolta dagli avvenimenti di Caporetto. Nel settembre 1917 gli esoneri effettivamente concessi superavano di poco le 23.000 unità. 142 12. Numerosissime agitazioni contro la guerra ebbero luogo in Italia nel 1916, e più ancora nel 1917. I «fatti di Torino» dell’agosto 1917 costituirono l’episodio più grave e più conosciuto, ma altre centinaia di violente manifestazioni ebbero luogo quasi in ogni provincia d’Italia. L’ampia ed attiva partecipazione delle donne fu l’elemento caratterizzante di questa ondata di agitazioni. Già nel gennaio-marzo 1916, a Firenze, «le donne del contado» cercarono di inscenare manifestazioni pacifiste. Nell’aprile successivo, a Mantova, altri gruppi di donne dimostrarono contro la guerra. Verso la fine dell’anno le agitazioni si moltiplicarono in misura impressionante. 143 Quasi ogni lunedì – dato che il lunedì era il giorno in cui venivano distribuiti i sussidi – venivano segnalate dimostrazioni spontanee di donne che reclamavano il ritorno dei congiunti, l’aumento dei sussidi. 144 La direzione generale di Pubblica Sicurezza calcolò che in quattro mesi e mezzo, dal 1° dicembre 1916 al 15 aprile 1917, ebbero luogo circa 500 manifestazioni, alle quali parteciparono decine e decine di migliaia di donne. 145 Ma le manifestazioni proseguirono oltre l’aprile, per tutto il corso del 1917. 425

Nella sola Campania, per esempio, dal 1° maggio al 9 novembre si contarono almeno 22 manifestazioni, alle quali parteciparono circa diecimila persone, in grandissima parte donne. Le dimostrazioni assunsero spesso carattere di violenza e ben cinque municipi furono invasi o minacciati di invasione. Il 15 giugno la popolazione di S. Gregorio Magno, in provincia di Caserta, chiese al parroco di organizzare una processione in onore di S. Vito del quale in quel giorno si celebrava il nome. Il parroco si rifiutò, spiegando che le processioni erano state vietate dal decreto del 23 maggio 1915; ma una folla di circa 2.000 persone, in gran parte donne, strapparono al sagrestano le chiavi della chiesa, si impossessarono della statua del santo, e la portarono in processione invocando la pace e gettando pietre contro i carabinieri, due dei quali rimasero feriti. 146 Il 23 luglio, a Sora (Caserta), duecento contadine che riscuotevano il sussidio – era un lunedì – reclamarono la pace ed il ritorno dei mariti; invasero la sottoprefettura e colpirono con un sasso il sottoprefetto. 147 Il 27 agosto, a Monte S. Biagio, sempre di lunedì e sempre in provincia di Caserta, duecento donne manifestarono contro la guerra e cercarono di invadere il municipio: una giovane di vent’anni fu uccisa dalla forza pubblica. 148 Il 23 settembre ad Orsara di Puglia (allora in provincia di Avellino) la popolazione protestò per la mancanza di carbone, occultato, si disse, dai negozianti. Circa mille donne, munite di accette e bastoni, scesero per le vie, interruppero la linea telegrafica, lanciarono sassi contro negozi e case private, compresa quella del commissario di Pubblica Sicurezza. 149 L’importanza assunta dai «fatti di Torino» ha fatto credere a molti che il proletariato delle grandi città industriali si trovasse all’avanguardia della protesta contro la guerra, ma la documentazione di cui oggi disponiamo dimostra invece che la 426

protesta nacque e si diffuse soprattutto nei piccoli comuni, nelle campagne, e ad opera principalmente delle donne. La società contadina era una società composita. Di essa facevano parte coltivatori diretti, fittavoli, mezzadri, coloni e un grandissimo numero di salariati. In totale circa dieci milioni di persone le cui condizioni economiche e il cui stato giuridico erano molto differenti fra loro. I rivolgimenti economici dovuti alla guerra produssero a loro volta effetti differenti secondo le regioni e secondo i ceti. Volendo dare tuttavia un giudizio complessivo, il Serpieri scrisse che la maggior parte dei contadini poté godere durante la guerra «di redditi reali diminuiti in limitata misura o non affatto; spesso poté goderne di maggiori» e che il dislivello economico tra proprietari e contadini si attenuò, perché quasi sempre i redditi dei primi diminuirono mentre quelli dei secondi o restarono fermi o aumentarono. 150 Ciò premesso e ricollegandoci ad altre osservazioni già fatte, riteniamo che le grandi inquietudini del mondo contadino, durante la guerra, fossero determinate principalmente dalle tre seguenti ragioni; a) Le classi agricole davano i loro uomini alle fanterie in proporzioni maggiori delle altre classi sociali, e sopportavano pertanto, sotto molti punti di vista, i sacrifici più dolorosi. b) Le ripercussioni economiche della guerra erano quasi sempre negative nelle famiglie degli uomini chiamati alle armi, poiché, data l’assenza di questi uomini, e data la modestia dei sussidi governativi, le stesse famiglie erano in grado di eguagliare il reddito reale prebellico solo grazie ad un maggior lavoro dei membri rimasti, delle donne – in particolare – e dei ragazzi. In determinate regioni – come ad esempio il Lazio, le Puglie, la Sicilia e la Sardegna –, nelle quali la donna veniva

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solitamente tenuta lontana dai campi, non era possibile ricreare il reddito prebellico neppure a prezzo di un maggior lavoro. c) I mutamenti economico-sociali repentinamente intervenuti, sia quelli negativi, sia quelli positivi (e forse ancor più questi di quelli), davano una violenta scossa alla società contadina, mettevano in movimento forze ferme da secoli, creavano un ambiente spirituale nuovo, aspirazioni nuove, che contribuivano ad approfondire il solco tra città e campagna. Lo stesso aumento di potenzialità economica raggiunto da vasti ceti rurali, sospingeva questi ceti verso «maggiori pretese» e «maggiori ardimenti». La formula della «terra ai contadini» dava a questi ultimi – come scrisse il Serpieri – la sensazione della possibilità, prima insospettata, di diventare «i padroni», e induceva a concentrare i sentimenti ostili contro il secolare nemico interno, la borghesia, piuttosto che contro il nemico esterno. 151 A Firenze, come vedemmo, erano state le donne del contado a dare il via alle manifestazioni contro la guerra. A Parma, Reggio Emilia e Bologna le agitazioni erano consistite soprattutto in manifestazioni di donne per la insufficienza dei sussidi e il mancato ritorno dei mariti per i lavori agricoli. Anche nel Ferrarese le agitazioni avevano riguardato le campagne. 152 I gravi incidenti avvenuti a Milano, nei primi giorni del maggio 1917, furono anch’essi dovuti alle donne venute dalla campagna. Quelle donne percorsero le vie di circonvallazione, scagliarono sassi contro gli stabilimenti addetti alle produzioni di guerra, fecero uscire gli operai e continuarono a «scorrazzare» per i quartieri industriali di Porta Ticinese e Porta Magenta reclamando la chiusura di altri stabilimenti. Filippo Turati scrisse ad Anna Kuliscioff che tutto quanto era accaduto aveva avuto sapore di jacquerie 153 con la differenza che questa volta erano scese in piazza solo le donne, le «furie», che chiedevano a

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gran voce e «subito» la pace e il ritorno dei mariti. Turati forniva alla Kuliscioff altri preziosi elementi per interpretare ciò che era accaduto. La rivolta delle donne era stata una rivolta della campagna contro la città: «Ce l’hanno con Milano,» disse Turati «che volle la guerra e che ora porta via loro tutto, grano, lardo, riso – riso soprattutto, che in campagna non si trova più e costa 1,70 al chilo». Le contadine non avevano fatto alcuna distinzione tra borghesi e socialisti: «Vogliono» disse sempre Turati «far la pelle ai signori, fra i quali – beninteso – siamo anche noi [socialisti], tanto che si sospettava di una dimostrazione rurale contro il Municipio [retto da un’amministrazione socialista]». Né era stato per un sentimento di solidarietà che le manifestanti avevano fatto uscire gli operai dagli stabilimenti addetti alle produzioni di guerra: quelle donne erano «furibonde» contro gli operai che portavano il bracciale tricolore, indicazione dell’esonero dal servizio militare. 154 Le contadine erano state «sobillate» da qualcuno? Non certo dai socialisti, che avevano rischiato di restare travolti dalla protesta popolare. Turati vide dietro alle manifestazioni «lo zampino dei preti», e la stessa opinione fu condivisa dal senatore Albertini e dalle autorità di pubblica sicurezza. Fu compiuto un passo presso il cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano, perché dicesse ai suoi subordinati di star tranquilli. 155 13. L’ostilità delle donne alla guerra apparteneva in un certo senso all’ordine naturale delle cose, poteva essere considerata come un fatto istintivo della sposa, della madre, costretta improvvisamente a separarsi dal marito, dal figlio. Ma altri elementi, oltre all’istinto, influirono durante il 1917 sul comportamento delle masse femminili. Quanto avvenne dopo l’intervento accelerò difatti enormemente il processo di emancipazione delle donne, conferì ad esse maggiori 429

responsabilità familiari e sociali, segnò per il mondo femminile un momento di transizione tra due epoche. Potrebbero essere trovate non poche analogie con quanto dicemmo poco fa riguardo al mondo contadino: anche per il mondo femminile la guerra significò creazione di un ambiente spirituale e sociale profondamente nuovo, crisi di comportamenti e di ideali a volte rimasti immutati da secoli. Fra il 1915 e il 1918 centinaia di migliaia di donne presero il posto di tanti uomini chiamati alle armi. Il 1° novembre 1918 le donne occupate nelle sole industrie di guerra furono 196.000, vale a dire il 22% sul totale degli addetti. 156 Un’inchiesta compiuta fra 1.757 ditte industriali di Milano dimostrò che le donne in esse occupate erano passate dalle 27.106 unità del 1914 alle 42.937 degli inizi del 1918, con un amento del 58%. 157 Nelle campagne, come dicemmo, la maggior parte delle famiglie dei richiamati poterono eguagliare i redditi prebellici solo ricorrendo al maggior lavoro dei membri rimasti e, in particolar modo, delle donne. In un articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 30 aprile 1917 – e dunque alla vigilia dei moti milanesi – si lesse che oramai una vera fiumana di donne era penetrata nei luoghi di lavoro degli uomini. Campi, fabbriche, uffici, ospedali, stazioni, tranvie, banche, botteghe pullulavano ormai di impiegate, operaie, commesse: «Oggi lavorano pel bene di tutti tante donne quante mai ne avevamo vedute, anzi pensate, in lavori da uomini. E il problema della cosiddetta emancipazione s’è per la guerra capovolto: prima le donne chiedevano di essere emancipate in diritto per avere il modo, dicevano, di lavorare con la libertà e magari coi salari degli uomini; oggi le donne lavorano, spesso con alti salari, e a molti

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che s’opponevano alla loro emancipazione, questa sembra ormai logica e magari utile.» La guerra – proseguiva il giornale – aveva dato a decine di migliaia di donne lavoro continuo, salari insperati e spesso un’agiatezza che inebbriava e faceva, ad alcune, dimenticare le virtù del risparmio; presto sarebbero stati concessi anche nuovi diritti, per bilanciare i nuovi doveri e il mondo femminile, insomma, avrebbe finito per trarre i maggiori vantaggi dalla guerra. «Eppure» constatava il «Corriere» «tante donne sono contro la guerra. Non s’ha da dire: perché? Io credo che s’abbia da dire prima di tutto perché è la verità, e non solo in Italia; e poi perché la colpa, soprattutto in Italia, è di noi uomini.» L’articolista intendeva dire che il mondo politico italiano era colpevole di non aver saputo tramutare in passione politica le ragioni della guerra, e si trattava, invero, di una significativa ammissione. 158 Era troppo semplicistico, tuttavia, vedere nella protesta femminile soltanto una conseguenza del disagio politico generale, e credere che la più intensa partecipazione al lavoro dei campi, delle fabbriche e degli uffici assicurasse alle donne soltanto vantaggi. Il lavoro delle donne, infatti, dipendeva nella maggioranza dei casi non da una libera scelta, ma da una necessità, dato che i sussidii governativi alle famiglie dei richiamati si dimostravano sempre più sproporzionati all’aumentato costo della vita. D’altra parte le retribuzioni percepite conducevano di rado alla «agiatezza inebriante» di cui parlava il «Corriere», ed erano quasi sempre inferiori a quelle degli uomini (nell’aprile del ’17 ebbe luogo a Reggio Emilia un convegno femminile socialista per affermare il principio «a parità di lavoro, parità di salario»). 159 Il passaggio delle donne ad occupazioni fino ad allora riservate agli uomini comportava 431

inoltre numerose ed intuibili difficoltà di adattamento: basti pensare alle condizioni nelle quali si lavorava allora in molti stabilimenti industriali. E si consideri che il tempo speso nel lavoro esterno era sottratto alla famiglia, in un periodo in cui l’amministrazione della casa risultava più complessa per le difficoltà degli approvvigionamenti, e l’educazione dei figli più difficile per l’assenza dei mariti. 160 Le donne, infine, avevano il coraggio di esporre se stesse nelle pubbliche proteste contro la guerra molto più degli uomini. Questi temevano di essere presi e mandati al fronte. 161 Le donne, invece, non avevano di queste preoccupazioni, si sentivano più libere, più aggressive. Bastavano pochi cenni di intesa perché scendessero nelle vie. Lo diceva anche Turati: erano «furie». 14. Le manifestazioni contro la guerra non si traducevano in una grave minaccia per le istituzioni perché si svolgevano in forme disorganiche. Da un capo all’altro della penisola era «un continuo serpeggiare di piccoli incendi», che si accendevano spontaneamente, restavano senza guida, e si concludevano di solito in poche ore. Oltre che nelle campagne, anche nelle città e negli stabilimenti industriali, avevano luogo agitazioni e scioperi di carattere economico-politico: denotavano la profonda inquietudine delle masse popolari, ma nascevano e si spegnevano senza lasciare vistose tracce. 162 Tre mesi prima dei fatti dell’agosto, tuttavia, al ministero dell’Interno già ci si rendeva conto che a Torino sarebbero stati possibili incidenti molto più gravi che altrove. Il Corradini, capo di gabinetto del ministro Orlando, e il Vigliani, direttore della polizia, dichiaravano esplicitamente che la situazione interna era «non buona» e che «il punto peggiore» restava Torino, con i suoi «125.000 operai, in stato di effervescenza compressa, e fra essi 432

alcuni nuclei pronti a tutto». 163 Fra i grandi centri italiani, tuttavia, Torino sembrava rappresentare l’eccezione, non la regola. Il neutralismo del proletariato trovava una singolare corrispondenza nel neutralismo di gran parte della borghesia e due anni prima, dopo la decisione dell’intervento, la città piemontese era stata l’unica a protestare in massa, con un vasto sciopero, tumulti e barricate. La mancanza di pane fu la scintilla che nell’agosto 1917 diede il via ai drammatici avvenimenti torinesi. La farina aveva cominciato a scarseggiare fin dai primi del mese, e per parecchi giorni, nelle «code» formatesi davanti ai forni, avevano avuto luogo incidenti: «La folla in generale» scrisse un anonimo cronista «era più violenta verso il mezzogiorno poiché in quell’ora era formata quasi esclusivamente di donne operaie, di donne cioè che avevano già fatto la coda al mattino, prima di recarsi al lavoro, che avevano lavorato a stomaco digiuno, e molte rifacevano inutilmente la coda a mezzogiorno. Erano esse che rientrando al lavoro portavano nella fabbrica il fermento e l’esasperazione da cui erano invase.» 164 Improvvisamente, il 21 agosto, ottanta panetterie furono costrette a chiudere. Alcune donne si avviarono nelle vicine campagne in cerca di pane, ma numerose altre, con i ragazzi, si recarono sotto al municipio e alla prefettura per protestare. Le autorità si preoccuparono di far affluire farina in città e sembra che verso il mezzogiorno dell’indomani tutti o quasi tutti i forni avessero ripreso a panificare. Tuttavia, dopo l’intervallo del mezzogiorno, le maestranze di alcuni stabilimenti non tornarono al lavoro. Nel pomeriggio una folla di circa 4.000 operai si radunò 433

presso la Camera del lavoro. I dirigenti sindacali furono colti alla sprovvista e cercarono di placare gli animi. La situazione precipitò perché le autorità di Pubblica Sicurezza arrestarono «per misura preventiva» il segretario della Camera del lavoro – che si era recato al commissariato per chiedere l’autorizzazione di parlare alla folla – e, senza preavvisare il prefetto, chiusero la stessa Camera del lavoro – dove i sindacalisti, nonostante l’arresto del segretario, cercavano ancora di calmare gli animi e di far disperdere la folla. Bruno Buozzi, segretario dei metallurgici, si recò in prefettura e poté rendersi conto che «il questore aveva preso la mano al prefetto». 165 Alla sera lo stesso Buozzi si convinse che era ormai troppo tardi per calmare la folla: gli animi si erano accesi e gravi incidenti erano già accaduti. Dimostrazioni piuttosto violente avevano avuto luogo in via Garibaldi e in via Cernaia. La forza pubblica aveva sparato ed erano state erette barricate. Il 23 e soprattutto il 24 agosto si ebbero scontri tumultuosi e disordinati in varie parti della città. Il giorno 25 la rivolta si spense e al termine delle tragiche giornate la folla dei dimostranti – poco e male armati con rivoltelle, bombe a mano, e qualche fucile – contava 35 morti, di cui cinque donne; tra la forza pubblica ed i reparti militari che avevano partecipato alla repressione con mitragliatrici ed autoblindo, i morti erano stati tre. 166 I fatti di Torino offrirono la prova più evidente del malcontento diffuso nel proletariato delle grandi città, ma presentarono non poche analogie con le proteste che a quell’epoca avevano luogo nelle campagne. In particolare ci sembra debba essere notato che: a) ancora una volta, anche in una città operaia come Torino, furono le donne a promuovere la protesta;

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b) ancora una volta la protesta rimase senza una guida. Tanto i riformisti, quanto i rivoluzionari del Partito socialista, infatti, continuarono a restare, durante tutti quei giorni, incerti su ciò che doveva essere fatto e, nell’incertezza, lasciarono che il movimento procedesse spontaneamente. Soltanto alla Barriera Milano funzionò a quanto pare «un vero centro organizzatore della sommossa, diretto da un gruppo di anarchici»; in ogni caso esso riuscì ad operare soltanto in un limitato settore della rivolta; 167 c) la classe operaia, infine, partecipò alla protesta con molte esitazioni. Benché si fosse scatenata una rivolta senza precedenti, parte delle maestranze industriali continuarono a lavorare in fabbrica. 168 Già sappiamo che a Torino i socialisti «intransigenti» erano stati battuti dai moderati nell’ottobre 1916, ed esclusi dalla commissione esecutiva nel marzo seguente. 169 Barberis aveva dato le dimissioni dalla direzione del partito nel maggio ’17 ed inoltre, tra la primavera e l’estate, la stessa frazione intransigente si era divisa: Maria Giudice si era separata da Barberis e Rabezzana; alcuni intransigenti avevano tentato un accordo con i moderati. 170 Nel luglio – rinnovandosi la commissione esecutiva – gli intransigenti avevano votato scheda bianca: c’erano state in complesso 147 schede bianche, contro 266 suffragi raccolti dalla maggioranza. 171 Un rapporto prefettizio del 16 luglio precisava che la frazione «rigida» non costituiva «un organismo vero e proprio di consociati, ma una accozzaglia acefala dei più scalmanati contro la guerra, frammisti agli anarchici pure iscritti al PS [Partito socialista]» che crescevano o diminuivano di numero secondo gli argomenti discussi nelle assemblee, ma che restavano sempre una minoranza, «sebbene minoranza capace al momento opportuno di travolgere 435

un’assemblea e spingerla a deliberazioni gravi nei riflessi dell’ordine pubblico». 172 Questo, tuttavia, solo nel caso che una protesta popolare fosse scoppiata spontaneamente, dato che neppure i rigidi parlavano di provocare «agitazioni che avessero contenuto rivoluzionario». 173 Mario Montagnana, giovane operaio socialista intransigente, scrisse che, quando in agosto la folla scese nelle strade: «Nessuno, né i riformisti né i rivoluzionari (io compreso, naturalmente), sapeva che fare, quali parole d’ordine comunicare alla massa.» Trenta dirigenti politici e sindacali cittadini si riunirono, ma: «Le conclusioni cui giunse la riunione furono in sostanza queste: avvertire, mandando qualcuno a Milano, le direzioni del partito, dell’“Avanti!” e della Confederazione del Lavoro di quanto stava succedendo a Torino e intanto, nell’attesa di eventuali consigli dei nostri capi, lasciare che il movimento seguisse il suo corso spontaneo. Fino all’ultimo giorno dello sciopero fu quella, che io sappia, l’unica riunione dei vari dirigenti della città. Da Milano non ci giunse nessun consiglio, alcuna direttiva.» 174 I dirigenti socialisti locali, obiettivamente, svolsero opera di pacificazione, si mantennero in contatto con le autorità civili e militari della città, cercarono di «rimettere in carreggiata» i loro compagni, e da ultimo concordarono con il gen. Sartirana, comandante la piazza di Torino, il proclama da indirizzare ai lavoratori torinesi per farli tornare tutti al lavoro. 175

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15. Nel corso del 1917 gli interventisti più accesi reclamarono con insistenza sempre maggiore provvedimenti di carattere eccezionale contro tutti i neutralisti in generale e contro i socialisti in particolare; chiesero una politica interna «forte» ed una politica estera nuova e più audace; si agitarono inquieti vedendo che la guerra minacciava di concludersi con una pace «bianca» e una loro definitiva sconfitta politica; manovrarono dentro e fuori del parlamento contro Sonnino e soprattutto contro Orlando. Diedero vita a comitati e leghe di resistenza interna per mobilitare i loro seguaci e dar la caccia ai neutralisti. Un settimanale, «Il fronte interno», fu l’organo di questi comitati e diventò presto famoso per il suo tono esasperato e fazioso. 176 Il 15 maggio 1917 il comitato milanese di resistenza interna avvertì che se il governo avesse continuato a tollerare il «disfattismo», il popolo si sarebbe fatto giustizia da solo. 177 Il 24 maggio rappresentanze e labari di nazionalisti e massoni, di liberali e repubblicani, di garibaldini e giovani esploratori, si radunarono al Campidoglio per celebrare con amarezza il secondo anniversario dell’entrata in guerra: fu rivolto al governo un perentorio invito a non più favorire i nemici della vittoria, e due giorni più tardi l’on. Pirolini, a Milano, rese noto un memoriale redatto dall’attivissimo comitato milanese di difesa interna, nel quale il governo era accusato di restare neutrale tra «patrioti e disfattisti». 178 Bissolati, che riusciva ad essere nello stesso tempo il rappresentante dell’interventismo in seno al governo e del governo presso il Comando supremo, agiva perché Cadorna fosse solidale con gli interventisti e contribuiva ad esasperare l’avversione di Cadorna verso governo e parlamento. Divenuto un filo-cadorniano addirittura fanatico, Bissolati spiegava alla mensa del comandante supremo come e perché certi suoi

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colleghi di gabinetto dovessero essere giudicati «nemici interni». Quando il generale accusava di «viltà» il governo, il ministro si dichiarava d’accordo. 179 Le interferenze tra la politica di Cadorna e quella degli interventisti furono numerose e non ci sembra una coincidenza fortuita che il generale scrivesse la prima delle quattro lettere contro la politica interna del governo proprio il 6 giugno, vale a dire nel giorno in cui Bissolati, Bonomi e Comandini facevano pervenire a Boselli le loro lettere di dimissioni sperando di provocare una crisi che allontanasse Orlando dal ministero dell’Interno. 180 Cadorna, nei giorni seguenti, si rammaricò che Bissolati avesse «mollato» e la manovra non fosse riuscita. 181 Ma nel corso del 1917 l’idillio tra interventisti e Comando trovò numerosissime conferme. Il comitato interventista milanese, nel maggio, inviò un telegramma di solidarietà a Cadorna e questi subito rispose sottolineando l’urgenza di combattere i nemici interni oltre quelli esterni. 182 Il 13 settembre, nell’atmosfera di tensione creatasi dopo i gravi avvenimenti torinesi, gli interventisti milanesi tornarono a riunirsi: c’erano Mussolini e Pirelli, Pirolini ed Esterle; Albertini aveva inviato la sua adesione. Indirizzarono un nuovo messaggio a Cadorna, e questi rispose incitando classi e partiti amanti della patria ad unirsi contro al nemico «come nelle giornate del maggio 1915». 183 Il generalissimo fu perfettamente consapevole del fatto che tale scambio di messaggi costituiva un gesto politico di grande risonanza. «Avrai letto» scrisse difatti in settembre al figlio «il mio telegramma a Milano. Vi sono dentro molte sciabolate per chi le vuole intendere, e tutti le intendono.» 184 Gli interventisti facevano di Cadorna una loro bandiera e contrapponevano l’efficiente governo di Udine all’inetto governo 438

di Roma. Il 31 maggio il democratico «Secolo» di Milano criticò il parlamento e reclamò un’assemblea costituente, pronunciando severissimi giudizi contro Boselli ed esaltando Cadorna: «Onoriamo Cadorna» concluse. «E sopra le tristezze impotenti della politica parlamentare ricordiamo che a Udine esiste un governo a cui si obbedisce volentieri perché ha mostrato di meritare la fiducia della nazione.» 185 Parole molto gravi, nelle quali poteva essere trovato l’auspicio di una dittatura militare, e che sembravano oltre tutto costituire la prova di manovre già in atto, poiché erano ben noti gli stretti legami esistenti tra il giornale milanese e il ministro Bissolati. 186 Il giorno seguente alla pubblicazione di quell’articolo Cadorna giunse a Roma e si recò a visitare il presidente Boselli. Siamo informati di questo incontro dalle memorie del generalissimo: «Mi domandò» scrisse Cadorna di Boselli «se avevo letto l’articolo del “Secolo”, ed in quel mentre egli mi guardava con estrema diffidenza come per indagare se realmente io covassi aspirazioni dittatoriali ed avessi con tale scopo ispirato io l’articolo. È naturale caratteristica delle persone deboli di essere sospettose e io ebbi un bel daffare per dissipare i suoi timori, ad alimentare i quali proprio nulla avevo fatto, pur essendo convinto che un tale debolissimo governo era l’assoluta negazione di ciò che si richiedeva per condurre a buon fine la guerra.» 187 16. In realtà la diffidenza verso le «aspirazioni dittatoriali» di Cadorna non fu del solo Boselli, ma di molti altri con lui. Nell’estate del 1916 già si era detto che i nazionalisti volevano una dittatura del generale. 188 Nella primavera del 1917 le voci di un colpo di stato militare acquistarono maggiore consistenza. 439

Giolitti, in dicembre, dichiarò che nei mesi precedenti dappertutto si era detto e creduto che Sonnino e Cadorna volessero esautorare il parlamento e instaurare un governo militare: «Non dico e voglio credere che così fosse,» precisò «ma però lo si credeva in tutta Italia». 189 Nel marzo, dopo gli avvenimenti russi, gli esponenti interventisti si riunirono segretamente e agli informatori di polizia parve che i più accesi fra loro volessero compiere, anche in Italia, un atto di forza. 190 Quelle voci caddero presto, per poi riprendere con insistenza alla fine di maggio dopo il primo scambio di telegrammi fra Cadorna e il comitato milanese. L’articolo del «Secolo» avvalorò i primi sospetti e il 6 giugno (il giorno delle dimissioni di Bissolati, Bonomi e Comandini, e della prima lettera di Cadorna a Boselli) un informatore di polizia riferì che il comandante supremo, ritenendo che gli interventisti avrebbero probabilmente costituito il futuro governo, aveva stabilito a mezzo della figlia Carla rapporti cordiali con autorevoli esponenti del movimento: si facevano esplicitamente i nomi del Preziosi e del Pantaleoni. 191 Ottavio Dinale, redattore del «Popolo d’Italia» ed esponente dell’interventismo milanese, dichiarò, anni più tardi, che nell’estate del ’17 egli si recò «più volte» a Udine, in compagnia dell’on. Pirolini, per discutere il progetto di un colpo di stato da eseguirsi con la partecipazione dell’esercito. Anche Mussolini – convalescente per la ferita riportata al fronte – sarebbe stato al corrente di questi progetti, dovendo anzi assumere una parte di primo piano nella realizzazione degli stessi. Dopo aver discusso e precisato nei particolari il colpo di stato, Pirolini e Dinale in luglio avrebbero compiuto l’ultimo viaggio a Udine nella speranza di definire un accordo: «Ci si fece sapere» scrisse invece Dinale «che il generale [Cadorna], per motivi di salute e per altri particolari

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ragioni intime, pure riconoscendo la gravità della situazione e la necessità di porvi rimedio, non si sentiva più in grado di parteciparvi come aveva promesso e aveva sperato fosse possibile. Si venne a sapere molto più tardi che tale inatteso atteggiamento era stato determinato dagli scrupoli religiosi e monarchici infiltrati nell’animo del generale dall’abilità di padre Semeria, suo confessore». Da notare che Dinale non accennò mai a rapporti diretti con Cadorna, lasciando intendere viceversa che gli incontri avevano avuto luogo con il duca Gallarati Scotti, membro della segreteria del comandante supremo. 192 Il gen. Raffaele Cadorna ha recentemente definito «romanzesche» le voci di una congiura intesa ad instaurare una dittatura militare diffuse da Dinale, ma ha anche pubblicato una lettera scritta dal padre il 7 giugno, nella quale si legge: «Scotti [T. Gallarati Scotti] ha parlato con Pirolini: questi ha detto che vuol parlarmi, ma l’ho pregato di astenersene perché non si creda ad un complotto». 193 E nei resoconti parlamentari delle sedute tenute in comitato segreto si può leggere che, il 22 giugno, l’on. Pirolini fu costretto a giustificarsi per lo scambio di telegrammi tra gli interventisti milanesi e Cadorna, e a dichiarare «di non aver mai pensato ad una dittatura militare». 194 Quali furono le reali dimensioni della vicenda? Probabilmente alquanto limitate, ed inferiori al rumore che se ne fece, almeno alla luce dei documenti finora conosciuti. Innanzi tutto va sottolineata la scarsa consistenza dei gruppi interventisti più accesi, sui quali si sarebbe dovuta fondare l’azione di forza. In secondo luogo non dobbiamo dimenticare la «fragilità» di certi protagonisti della vicenda, e dell’on. Pirolini in particolare, considerato ai suoi tempi un credulone, un sognatore, un uomo piuttosto ingenuo dal punto di vista politico. 195 Infine dovrebbero essere tenute nel giusto conto le continue smentite 441

date da Cadorna nelle sue lettere ai familiari: «È la mia forza» scriveva ad esempio il 15 giugno 1917 «di restare fuori dalla politica» (ma la frase risulta purtroppo troncata dal curatore di quelle lettere: che cosa soggiungeva a quel punto il generale?). 196 «Durante una dimostrazione a Milano» scriveva il 2 luglio alla moglie «hanno gridato: “Viva Cadorna dittatore”. Non ci mancherebbe altro, ed il solo emettere di queste grida puoi pensare come mi mette in cattiva luce con quei signori [del governo e del parlamento]! Io non aspiro che ad eclissarmi il più presto possibile e sono veramente stufo di ogni cosa.» 197 Anche in settembre, dopo il secondo scambio di telegrammi con gli interventisti milanesi, Cadorna cercava di precisare i limiti del suo gesto: «Quel mio telegramma a Milano ha fatto furore e fu considerato come un proclama agli italiani. Deinde irae! specialmente nei socialisti che vogliono protestare contro l’invadenza del potere militare aspirante alla dittatura. Cosa ridicolissima perché chi mai può sognarsi la dittatura? E poi sfido chiunque a trovare in quel telegramma o in altri una parola sola che indichi una intromissione nella lotta dei partiti»: ma anche qui la frase è stata troncata dal curatore delle lettere. 198 In conclusione ci sembra che – almeno allo stato attuale della documentazione – debba essere smentita la partecipazione di Cadorna ad un complotto mirante a far di lui il dittatore. Non paiono viceversa smentibili i contatti clandestini tra gli esponenti interventisti e la segreteria di Cadorna, mentre numerosi documenti confermano i sentimenti di simpatia con i quali il comandante supremo guardò a quegli interventisti. Lo stesso generale, del resto, nel momento in cui dichiarava di non voler fare politica per suo conto, teneva a precisare di non potere disinteressarsi di «qualunque cosa» riguardasse il suo esercito, 199 ed è noto con quanta ansia egli desiderasse la fine di 442

un governo che, come egli diceva, era «presieduto da don Abbondio». 200 Una prova concreta dell’interessamento di Cadorna verso le faccende interne italiane fu offerta dal servizio di informazioni militari istituito durante la guerra ed avente sede nella capitale. Il col. Gatti, recatosi un giorno nel palazzo di via Nazionale 75 dove quegli uffici erano ospitati, descrisse un mondo pieno di mistero: il portone era sempre chiuso; si suonava ed uscivano due carabinieri; all’interno si affaccendava una quantità di gente in borghese, di marescialli e di ufficiali dei carabinieri; un viavai di persone silenziose che compivano un «lavoro immenso, segreto, profondo». Gli interessi dell’ufficio si erano sempre più allargati passando dalle informazioni strettamente militari a quelle politiche ed economiche. Capo del servizio informazioni era il gen. Garruccio, definito da Gatti: «una specie di Fouquier-Tinville della guerra», 201 «assai odiato e disprezzato da tutti», che apriva lettere e mandava rapporti su «tutti», anche sui più vicini collaboratori di Cadorna (su Gatti e su Gallarati Scotti per esempio). 202 Tramite l’ufficio informazioni, Cadorna era continuamente informato su quanto accadeva negli ambienti politici, sulle critiche pronunciate contro il suo operato di comandante supremo, sui pettegolezzi romani. 203 La convivenza di questa polizia militare con la polizia dipendente dal ministero dell’Interno fu difficilissima. 204 Orlando dichiarò che nelle attività dell’ufficio diretto dal gen. Garruccio poté configurarsi un vero e proprio eccesso di poteri. «Arrivai fino al punto di mancare forse al mio dovere, tollerando una cosa che non avrei dovuto assolutamente ammettere. Certo è che la polizia militare si impiantò con mezzi e con organi che non erano certamente

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inferiori ai mezzi e agli organi del governo civile. Si può dire che si creò una specie di polizia sovrapposta alla polizia ordinaria, che non mancava di mezzi economici perché aveva fondi larghissimi a disposizione; e che non mancava di personale perché l’esercito aveva a sua disposizione uomini di tutte le categorie […].» 205 Le voci di un possibile atto di forza dei militari continuarono ad aver credito fino a Caporetto. L’on. Soleri parlò esplicitamente alla Camera del fatto che il Comando supremo «perseguiva chimere di dittatura, intesseva reti politiche, manovrava offensive non contro l’austriaco»; disse che c’era stato il «tentativo di porre a capo del Governo un generale, ottimo, ma comandato da Cadorna», soggiunse che «il torbido disegno» era stato stroncato dalla tragedia di Caporetto. 206 G.A. Borgese affermò molti anni dopo che nel 1917 «il gen. Giardino si era trastullato, non troppo innocentemente, con l’idea di capeggiare la pattuglia armata che avrebbe dovuto arrestare Orlando e mettere al posto di un governo liberale una dittatura militare». 207 Vi fu infine chi sostenne che il 25 ottobre, mentre gli austro-tedeschi sfondavano il fronte di Caporetto, Cadorna fosse a Roma per intrigare circa la crisi del ministero. La notizia era falsa, ma indicativa dei sospetti che circondavano a quel tempo il comandante supremo. 208 17. Abbiamo già anticipato varie notizie sulle relazioni intercorse tra Comando e governo prima di Caporetto e delineato l’atmosfera di intrighi e di sospetti che fece da sfondo a quelle relazioni. Già sappiamo che tra il 6 e 13 giugno Cadorna inviò a Boselli tre lettere sulla politica interna: denunciò in esse il moltiplicarsi degli atti di indisciplina al fronte, sostenendo che la responsabilità di tali atti ricadeva non sul Comando, ma sul 444

governo, per la colpevole tolleranza dimostrata nel Paese verso la propaganda sovversiva. 209 Cadorna spiegò nelle sue memorie, meglio ancora che nelle lettere a Boselli, che cosa egli veramente avrebbe preteso: «Io non credo affatto che fosse necessario un regime di terrore, anzi l’avrei giudicato dannoso. Sarebbe stato sufficiente, io credo, arrestare qualche centinaio di caporioni e di propagandisti, liberarne il bel Paese trasportandoli sulle coste dell’Eritrea o della Somalia, e sopprimere i giornali e giornalucoli, avvelenatori dello spirito pubblico, che pullulavano e che il governo lasciava liberamente pullulare in ogni angolo d’Italia.» 210 Boselli comunicò il testo delle lettere di Cadorna al ministro Orlando. Questi fece subito sapere che gli argomenti del generale non lo avevano convinto: in primo luogo l’aumento della delinquenza militare aveva riguardato pure quei reati «individuali» (come l’autolesionismo) per i quali meno poteva supporsi avesse influito una organizzazione politica; in secondo luogo la defezione dei reggimenti siciliani – Orlando non sapeva che Cadorna aveva tratto spunto da una notizia falsa 211 – poteva essere definita riprovevole, ma era noto a tutti come in Sicilia il Partito socialista fosse assai scarsamente rappresentato. Perché dunque mettere in relazione quegli avvenimenti con la propaganda disfattista? Persuaso, dunque, che la sua politica verso i socialisti meritava di essere difesa, Orlando si dichiarava disposto a difenderla davanti a Cadorna. Trattandosi però di problema che non poteva essere «rimpicciolito nei limiti della competenza di un dato ministero», Orlando riteneva che dovesse essere indetta una riunione collettiva con la partecipazione oltre 445

che di Cadorna e sua, anche del presidente e di tutti o almeno di alcuni ministri. 212 Purtroppo non è chiaro cosa accadde a quel punto. L’unico dato certo è che un incontro tra il capo di stato maggiore ed i ministri ebbe luogo soltanto il 28 settembre e che nel corso di esso Cadorna si rifiutò di discutere di politica interna. Boselli disse di aver più volte e invano invitato Cadorna a Roma dopo il giugno. 213 Cadorna affermò viceversa di non aver mai ricevuto alcuna risposta alle sue lettere; ma forse intendeva parlare di risposta scritta non sembrandogli, per ragioni di principio, che gli inviti di Boselli meritassero considerazione. 214 Orlando, interrogato dalla Commissione di inchiesta per Caporetto, dichiarò di non avere più «il ricordo preciso» delle cause che avevano rimandato l’incontro fino al settembre, accennando tuttavia, senza dare spiegazioni, a «interferenze di carattere interno». 215 Probabilmente la verità fu una sola: che nessuno, cioè, ebbe interesse di giungere ad una chiarificazione. Cadorna, per cominciare, aveva scritto le sue lettere anche allo scopo di far cadere Orlando e quello scopo era fallito: il ministro, anzi, era uscito come un trionfatore dal comitato segreto del giugno, con un prestigio enormemente accresciuto che lo aveva candidato alla presidenza del futuro governo. Durante il comitato segreto, inoltre, proprio Cadorna era stato vivacemente criticato per la disciplina da lui imposta all’esercito e Modigliani aveva letto una circolare sulle decimazioni suscitando l’emozione dell’assemblea. Cadorna, il quale sapeva oltre tutto che la notizia sui reggimenti siciliani era risultata non vera, doveva rendersi conto, infine, che una difesa delle sue lettere sarebbe riuscita alquanto difficile in un confronto diretto con un interlocutore così abile e facondo come Orlando. 216 Boselli, a sua volta, dové temere che uno scontro tra Cadorna e 446

una parte dei suoi ministri potesse condurre rapidamente o ad una crisi nel Comando o a una crisi nel governo o ad entrambe le crisi. Orlando poté giudicare opportuno temporeggiare, dato che il tempo sembrava lavorare a suo favore. Una rottura aperta con Cadorna avrebbe potuto indebolire la sua posizione. Al di là delle preoccupazioni contingenti esisteva però una questione di fondo che nessuno sapeva risolvere e che quindi nessuno cercava di affrontare: la soluzione dei rapporti tra potere militare e potere civile. Cadorna, con le sue lettere al governo e con altri suoi gesti, si intrometteva chiaramente nella politica interna, dimostrando che la guerra non poteva più risolversi con mezzi puramente militari, ma nello stesso tempo si ostinava a pretendere che le responsabilità dei politici e dei militari continuassero a restare assolutamente separate fra loro; né proponeva una politica atta a mobilitare le masse, limitandosi a chiedere l’adozione di misure di polizia. Il governo, a sua volta, continuava ad essere diviso al suo interno e impacciato per tutto quanto concerneva i problemi militari. Lo stesso Orlando esitava ad affrontare i problemi con quell’ampiezza di vedute che sarebbe stata necessaria. Come infatti ha giustamente scritto Gabriele De Rosa, egli portava in sé un vizio che apparteneva a tutta la classe dirigente giolittiana: «personalizzava all’eccesso la politica, vedeva e sentiva gli scontenti del popolo, ma non superava, nell’azione di governo, il metodo della clientela e delle influenze personali». 217 Il dissidio tra Cadorna e Orlando non si tradusse in alcuna decisione pratica, e Boselli, nella seduta pubblica immediatamente seguìta al comitato segreto del giugno, affermò addirittura che i rapporti tra Comando e governo procedevano nel migliore dei modi. Dichiarò che durante le sedute segrete non era «uscito proposito alcuno che al di sopra di particolari

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apprezzamenti» potesse scuotere la fiducia nel generalissimo. 218 Molti deputati risero «sommessamente e pietosamente», Boselli si «impappinò», e Martini lamentò nel suo diario di vivere in un ambiente di menzogna. 219 Alla fine di settembre, come abbiamo già accennato, Cadorna si recò a Roma per partecipare ai lavori del Consiglio dei ministri. Per più di due ore il generale riferì al Consiglio sugli avvenimenti militari. Dopo di lui parlò Orlando, che replicò in sostanza alle quattro lettere del giugno e dell’agosto, rovesciando le tesi del generale: non era la propaganda disfattista che deprimeva i soldati, erano invece i soldati, stanchi e logorati dalla guerra che influenzavano negativamente il Paese. Cadorna, restando fedele al proposito di non intervenire in Consiglio sulle questioni di politica interna, tacque. Fu un dialogo fra sordi, e la commedia degli equivoci e delle contraddizioni continuò. La soluzione degli attriti tra politici e militari venne di fatto rinviata, perché tutti, politici e militari, ritennero erroneamente di andare incontro ad un autunno e un inverno assolutamente tranquilli dal punto di vista delle operazioni militari. 220 18. Il Partito socialista fu oggetto di polemiche e di odi perché restava, nonostante tutto, il partito che simboleggiava la pace, proprio mentre i partiti e i simboli della guerra avevano perso tutto il loro fascino. Gli atti da esso compiuti continuarono però ad essere prudenti e misurati. Nel febbraio 1917 i socialisti salutarono l’avvento dell’«anno rivoluzionario» con una solenne riconferma della loro tattica moderata. Nel febbraio, non potendo convocare il congresso del partito, organizzarono a Roma un grande convegno con la partecipazione dei membri della direzione, dei deputati, dei rappresentanti della CGL, e dei delegati di tutte le province e di molte sezioni. Dalle colonne della «Critica Sociale», Claudio 448

Treves salutò con vivissimo compiacimento i risultati del convegno. C’era stato il grave rischio – scrisse – che il movimento operaio, suggestionato dalle «dimostrazioni popolari» di quei mesi, si gettasse «nei torbidi torrenti di un insurrezionalismo equivoco e impotente». Il partito si era trovato insomma dinanzi ad «un bivio storico», ma aveva risolutamente scelto la via della moderazione: «Relegare, concordemente, dopo la guerra le nuove definizioni ideologiche e pragmatiste, le astrazioni illuminatrici dei periodi futuri del divenire socialista; ora, durante la guerra, mantenere con religiosa disciplina l’unità del combattimento sopra il reciproco rispetto delle particolari motivazioni di ogni ala del partito, finché tutte confluiscono alla triplice azione per la pace, per l’Internazionale, per il miglioramento contingente ed attuale delle condizioni del proletariato.» Treves si compiaceva che la direzione del partito avesse approvato l’operato del gruppo parlamentare – dominato dai riformisti – volgendosi, in tal modo, «contro la propria parte estrema, irreducibile nel suo furore incomposto di demolizione, espressione penosa ed appassionata delle esasperazioni delle folle». Costantino Lazzari aveva condannato «l’insurrezionalismo», riconfermando la formula del non aderire né sabotare, e Treves teneva a far notare come questa implicasse la «non indifferenza» al fatto che il padrone fosse italiano o austriaco. 221 Qualche settimana più tardi le notizie della rivoluzione russa parvero dare vigore alle tesi degli insurrezionalisti e spostarono a sinistra l’«Avanti!» e Serrati. In un convegno svoltosi a Milano l’8 maggio – poco dopo i moti avvenuti in quella città – Serrati 449

affermò che bisognava approfittare della crisi esistente in Italia per guidare i movimenti delle folle e imporre al governo una sollecita conclusione della pace. Ma prevalse l’opinione moderata, quella dell’on. Casalini, il quale dichiarò che non bisognava eccitare le masse e che i socialisti dovevano semplicemente limitarsi a guidarle in caso di movimenti disordinati e spontanei, affinché non ne ricevessero danni né il partito né la classe lavoratrice: si trattava, in altre parole, di evitare che le folle maltrattassero gli operai o devastassero i comuni socialisti, come infatti si era temuto a Milano. Barberis, torinese ed intransigente, si dimise per protesta dalla direzione del partito, ma la sua protesta rimase senza conseguenze perché, come già sappiamo, egli non riuscì a fare sì che la sua corrente, neppure durante i fatti dell’agosto, riuscisse in qualche modo a distinguersi dal resto del partito. 222 Perfino Cadorna, benché nelle sue lettere a Boselli chiedesse la messa al bando dei socialisti, recò, sia pure involontariamente, elementi atti a dimostrare la loro moderazione. Alla lettera dell’8 giugno, difatti, egli allegò il rapporto di un informatore il quale dichiarava di aver avuto di recente un colloquio con Scalarini, il disegnatore dell’«Avanti!»: «La direzione del partito» avrebbe detto Scalarini a quell’informatore «è scissa in due frazioni. 223 Alcuni avrebbero voluto – per il 1° maggio – promuovere un movimento rivoluzionario; altri – la maggioranza – si sono addimostrati e si addimostrano propensi ad attendere momenti più propizi, quando la guerra sarà finita e il governo non disporrà di un forte nerbo di truppe sotto le armi.» 224 Effettivamente la chiave di volta dell’intera questione si 450

trovava proprio nel fatto che il Partito socialista e, più in generale, la classe operaia italiana erano, durante la guerra, disarmati. Disarmati non soltanto perché la quasi totalità del proletariato industriale era esonerato dal servizio militare, ma perché tra esso e il resto del proletariato chiamato alle armi si era creata quella grande frattura alla quale abbiamo spesso accennato in queste pagine. Politici e militari si preoccupavano che il proletariato volesse «fare in Italia come in Russia»; ma in realtà una delle più notevoli differenze tra la situazione italiana e quella russa si trovò proprio nel fatto che in Italia, durante la guerra, la contrapposizione tra città e campagna non fu mai superata, e i «fanti-contadini» provarono anzi un odio crescente nei confronti degli «operai-imboscati». A Pietrogrado i tumulti del febbraio si trasformarono in «rivoluzione» quando la guarnigione si schierò dalla parte dei dimostranti. A Torino, viceversa, durante i moti dell’agosto, i soldati spararono contro i dimostranti: «I soldati siciliani, sardi e calabresi» avrebbe detto Scalarini tre mesi prima dei fatti torinesi «sono monarchici per la pelle; essi sparerebbero contro di noi socialisti con la medesima facilità e con la medesima voluttà con la quale sparano sugli austriaci, e noi dobbiamo fare quindi fra loro un’opera di persuasione e di propaganda, cercando di attirarli nella nostra orbita.» A Torino rudimentali manifestini invitarono i soldati a fraternizzare con i rivoltosi e a gettar via le armi, ma tutti gli inviti caddero nel vuoto. 225 Un socialista, testimone degli avvenimenti, scrisse che molti soldati spararono in aria, molti spararono sulla folla, ma nessuno passò dalla parte dei dimostranti. 226 Lo stesso Gramsci confermò che gli operai 451

torinesi attesero «invano» l’appoggio delle truppe, e soggiunse che queste furono tratte in inganno dalla voce che la rivolta era stata provocata dai tedeschi. 227 È probabile che voci del genere fossero state diffuse ad arte tra i soldati, ma questi ultimi parteciparono alla repressione per ragioni molto più complesse e profonde e – in ultima analisi – prestarono fede a quelle voci infondate perché erano già animati da sentimenti ostili nei confronti di una parte della popolazione torinese. Quindici giorni dopo i fatti di Torino, Olindo Malagodi chiese a Bissolati quale impressione essi avessero suscitato al fronte, tra i fanti: «Pessima ed ottima ad un tempo» rispose Bissolati. «I soldati che si sottomettono a tanti sacrifizi, e rimangono alle volte delle giornate senza rancio, erano furiosi a sentire che i fortunati che non corrono nessun pericolo e guadagnano salari enormi alle loro spalle, facessero una rivolta per un po’ di scarsità di pane. Se fossero condotti contro i rivoltosi ne farebbero macello. 228 19. Erano davvero «enormi» i salari degli operai industriali? Indipendentemente da ogni altra considerazione era già un fatto importantissimo che i soldati li credessero tali: i combattenti che ricevevano appena 50 centesimi al giorno rischiando la vita (o i territoriali che ricevevano 10 centesimi) non potevano non considerare eccessive tutte le paghe degli «imboscati». E volendo definire lo stato d’animo delle truppe potremmo anche arrestare il discorso a questa semplice premessa. Ma riteniamo che valga la pena verificare la fondatezza delle voci che circolavano fra i soldati sulle condizioni economiche degli operai, poiché da questa verifica potremo trarre nuovi elementi utili a chiarire l’effettiva portata del contrasto determinatosi tra l’esercito e il Paese, tra «i fanti» e il movimento operaio. 452

Nessun dubbio, innanzi tutto, sul fatto che i salari nominali degli operai industriali aumentassero durante la guerra. Secondo le rilevazioni del prof. Enrico Redenti la media generale dei salari degli operai maschi, uomini e ragazzi, compresi i cottimi, il caroviveri e ogni altra specie di retribuzione, passò da lire 3,90 al giorno dell’anteguerra a quasi 9 lire verso la fine del ’17; ma numerose categorie raggiunsero paghe oscillanti tra le 10 e le 20 lire. Altre rilevazioni riguardanti l’industria metallurgica precisano che la retribuzione media degli operai addetti a questa industria passò dalle lire 5,88 del 1913 alle 9,81 del 1917. 229 Tuttavia, tra il 1913 e il 1917 aumentò anche il costo della vita subendo le seguenti variazioni: 230 1913 = 100,0 1914 = 100,0 1915 = 107,0 1916 = 133,9 1917 = 189,4 In qual modo procedé il rapporto tra salari nominali e costo della vita? in quale misura, cioè, variarono i salari reali? La risposta non è facile: accettando i dati del Redenti si avrebbe un aumento del salario reale medio di circa il 20%, accettando viceversa i dati sopra citati sulle retribuzioni nelle industrie metallurgiche si avrebbe una diminuzione dello stesso salario reale medio di circa il 12%. Durante la guerra le rilevazioni statistiche, in Italia, erano compiute ancora in forme molto imperfette e parziali. Un Istituto centrale di statistica non esisteva e il Bachi, nel 1919, era costretto ad ammettere di non poter disporre di alcun dato complessivo sull’ascesa delle mercedi durante gli anni del conflitto. 231 453

Qualche anno più tardi, tuttavia, l’Istituto nazionale per le assicurazioni sul lavoro pubblicò una tabella da esso elaborata, secondo la quale i salari reali, in Italia, avrebbero subìto le seguenti e notevolissime diminuzioni: 1913 = 100,0 1914 = 99,7 1915 = 93,5 1916 = 85,0 1917 = 73,1 1918 = 64,6 Queste cifre hanno goduto – ingiustamente – di una grande autorità presso gli studiosi, ed hanno permesso a molti di essi di concludere che la condizione economica delle famiglie operaie, anche a Torino e a Milano, peggiorò progressivamente durante la guerra. Con due conclusioni implicitamente o esplicitamente poste: che le accuse rivolte agli operai dai fanti-contadini furono prive di fondamento, e che gli stessi operai ebbero anzi un forte incentivo economico alla protesta. Riteniamo di dover dissentire sia dalla premessa, sia dalle conclusioni. I dati dell’Istituto assicurazioni si prestano, infatti, ad alcune considerazioni: a) riguardano le retribuzioni medie giornaliere accertate in sede di definizione di infortunio, e si riferiscono pertanto ai soli infortunati, non alla generalità degli operai assicurati; b) in secondo luogo durante la guerra non esisteva ancora l’INAIL (istituto che oggi assicura obbligatoriamente «tutti» i settori dell’industria); ma la Cassa nazionale infortuni sul lavoro, dalla quale erano escluse fra l’altro: le industrie tessili, le metallurgiche, le minerarie e le marittime, ecc. facenti capo, infatti, ad enti assicurativi diversi; 232 454

c) il salario accertato in sede di definizione di infortunio era solitamente quello denunciato dai datori di lavoro, ai fini della determinazione del premio assicurativo; la stessa relazione della Cassa, pubblicando i dati, dichiarò che non tutti i datori di lavoro avevano incluso nelle denunce l’indennità caro-viveri di recente istituzione, di modo che – per alcuni anni – le medie indicate nella tabella erano risultate inferiori ai salari effettivamente percepiti dai lavoratori infortunati; 233 d) è probabile, inoltre, che i dati della Cassa non tenessero sufficientemente conto delle parti mobili delle retribuzioni (i cottimi, per esempio), così frequenti nel settore delle lavorazioni industriali; è certo che essi non tennero conto delle modificazioni contrattuali di carattere «normativo», le quali avevano conseguenze economiche profonde, ma difficilmente quantificabili (si pensi alla riduzione degli orari, alla introduzione di nuovi metodi di calcolo per cottimi e superminimi, alle maggiorazioni per le ore straordinarie, alle variazioni di ferie e di festività, alle nuove qualificazioni categoriali ecc.); e) infine i dati pubblicati dalla Cassa costituivano la media aritmetica delle rilevazioni operate tanto nelle regioni settentrionali (dove i salari erano più alti), quanto nelle regioni meridionali; tanto nelle grandi città, quanto nei borghi. I dati in base ai quali viene solitamente affermato che i salari reali diminuirono sensibilmente durante la guerra ci sembrano pertanto contestabili. La nostra tesi è quella di un aumento dei salari reali per una parte almeno del proletariato industriale e di una sostanziale stabilità per un’altra parte di esso, con periodici «aggiustamenti» al continuo elevarsi del costo della vita. Tale tesi ci sembra non soltanto direttamente confermata da alcune accurate rilevazioni statistiche, come ad esempio la prima da noi

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citata, quella del Redenti, ma indirettamente avvalorata anche da numerose considerazioni di carattere generale, che qui di seguito teniamo ad indicare: a) Gli anni della guerra furono, per l’industria italiana, anni particolarmente prosperi: per la prima volta, nel 1915, la produzione dell’acciaio superò il milione di tonnellate; il consumo di energia elettrica nel triennio 1916-18 superò di circa il 41% il consumo del triennio precedente; il tonnellaggio complessivo delle navi varate nel quinquennio 1915-1919 aumentò del 55% rispetto al quinquennio precedente; l’industria degli armamenti produsse circa 12.000 pezzi di artiglieria, 37.000 mitragliatrici e oltre 70 milioni di proiettili. Come ha ricordato il Romeo, i profitti siderurgici salirono dal 6,30 al 16,55%; quelli dell’industria automobilistica dall’8,20 al 30,51%; gli utili dei fabbricanti di pellami e calzature passarono dal 9,31 al 30,51%; quelli dei lanieri dal 5,10 al 18,74%; quelli dei cotonieri dal 0,94 al 12,77%; quelli dei chimici dall’8,02 al 15,39%; quelli dell’industria della gomma dall’8,57 al 14,95%. 234 b) Il vistoso aumento della produzione e dei profitti incitava gli operai ad insistere nelle loro rivendicazioni economiche, ma consigliava i datori di lavoro ad accoglierle per non compromettere la produzione. Questi ultimi sapevano fra l’altro, come ha ricordato l’Abrate, che «le amministrazioni militari [spesso i loro maggiori clienti] non discutevano sui prezzi delle forniture quando gli elementi di costo potevano, come nel caso di quello del lavoro, essere dimostrati». 235 c) La dinamica della mobilitazione industriale stimolava sia l’aumento della produzione, sia l’aumento delle retribuzioni. Il personale addetto agli stabilimenti «militarizzati» era assoggettato alla giurisdizione militare e ad una disciplina

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formalmente molto rigida che vietava, fra l’altro, di ricorrere allo sciopero. Ma di fatto sarebbe stato impossibile assicurare il buon andamento della produzione ricorrendo ad una applicazione continua delle misure coercitive. 236 Nella atmosfera di «finanza facile» determinatasi durante la guerra poté spesso accadere che gli stessi ufficiali preposti alla sorveglianza degli stabilimenti destinati alle produzioni di guerra svolgessero di fatto un’opera di mediazione tra gli operai ed i datori di lavoro, tra questi ultimi e le amministrazioni militari, facilitando aumenti di mercedi e di prezzi pur di evitare che negli stabilimenti a loro affidati scoppiassero incidenti suscettibili di far diminuire la produzione. Le controversie di carattere sindacale furono sottoposte alla decisione dei comitati regionali di mobilitazione industriale, dei quali fecero parte, con voto consultivo, i rappresentanti degli industriali e degli operai. Di quello piemontese, ad esempio, fecero parte sindacalisti socialisti come Bruno Buozzi, segretario nazionale della FIOM, e Mario Guarnieri. 237 La situazione sindacale piemontese fu così tranquilla che, durante il primo anno di guerra, il comitato non dovette emettere neppure un’ordinanza: anche negli stabilimenti non militarizzati, l’aumento dei salari avvenne quasi senza scioperi. 238 Indubbiamente la politica economica condotta dal governo e in particolare dal gen. Dallolio (sottosegretario e poi ministro per le Armi e Munizioni dal 9 luglio 1915 al 15 marzo 1918) condizionò la situazione interna italiana. L’obbiettivo del governo fu duplice: ottenere l’incremento della produzione bellica e, nello stesso tempo, mantenere tranquilla la classe operaia. Il gen. Dallolio fece al riguardo dichiarazioni molto significative: «Non deve tacersi» disse «che a guidare il governo nelle linee generali della sua condotta verso le 457

maestranze operaie non furono estranee preoccupazioni di natura anche politica. Qualche cosa è trapelato in Paese del tenace, intenso lavorìo fatto dai nemici, direttamente o indirettamente, presso le maestranze operaie; ebbene malgrado questo, le maestranze operaie italiane hanno mantenuto la più grande tranquillità, a differenza di quello che è accaduto in taluni paesi alleati. Ma è indubitato che le maestranze avrebbero tenuto un contegno ben diverso se il governo non avesse sempre cercato di eliminare tutte le ragioni giuste di agitazione: è stata appunto la convinzione, nelle masse, che il governo si era messo per questa via e che intendeva rimanervi, che ha potentemente contribuito a rendere sterili le manovre degli agitatori.» 239 La politica governativa, insomma, perseguì coscientemente l’aumento della produzione e la tranquillità delle masse operaie, due obbiettivi che erano strettamente legati tra loro. Quanto al terzo risultato di quella politica – la frattura tra fanti-contadini ed «operai-imboscati» – riteniamo che esso fosse raggiunto inconsapevolmente: finora, in ogni caso, non abbiamo trovato alcun documento atto a dimostrare che la classe politica italiana fosse in grado di concepire un disegno strategico così geniale. d) Il relativo benessere mantenuto o raggiunto da vasti strati popolari durante la guerra è indirettamente confermato dal fatto che i consumi privati non diminuirono ed anzi, in qualche misura, aumentarono rispetto al periodo prebellico. 240 I consumi privati pro-capite a prezzi 1938 variarono come dalla seguente tabella: 1914 = 2.136 [100] 458

1915 = 2.175 [102] 1916 = 2.217 [104] 1917 = 2.157 [101] 1918 = 2.252 [105] Tali dati risultano tanto più istruttivi se raffrontati con quelli della Seconda guerra mondiale, durante la quale i consumi privati pro-capite non soltanto diminuirono rispetto al livello prebellico ma diventarono presto inferiori, in cifre assolute, ai consumi dei cittadini italiani riscontrati durante la precedente guerra. Anche la seguente tabella è infatti calcolata a prezzi 1938: 1938 = 2.571 [100] 1939 = 2.583 [100] 1940 = 2.549 [99] 1941 = 2.375 [92] 1942 = 2.208 [86] 1943 = 1.874 [73] 1944 = 1.590 [62] 1945 = 1.401 [54] Durante la Seconda guerra mondiale la popolazione civile sopportò sacrifici economici e non economici (i bombardamenti aerei, per esempio, il passaggio del fronte attraverso la penisola, ecc.) che non trovarono paragone con i sacrifici assai minori sopportati durante la Prima guerra mondiale, nel corso della quale, pertanto, la diversità di condizioni tra il soldato e il cittadino fu assai più netta. e) I dati sopra riferiti relativi al periodo 1914-18 riguardano tuttavia il cittadino medio senza fare distinzioni tra le diverse classi sociali. Un esame più minuzioso del consumo medio procapite dimostra tuttavia un incremento dei consumi popolari, vale 459

a dire dei consumi primari e in particolar modo di quelli alimentari, come risulta dalla seguente tabella, calcolata a prezzi 1938: 241 CONSUMI PRIMARI

ANNI

CONSUMI CONSUMI SECONDARI TERZIARI

Alimentari

Altri

Totale

1914

1.383 (100)

457 (100)

1.840 (100)

103 (100)

193 (100)

1915

1.428 (103)

446 (98)

1.874 (102)

112 (109)

189 (98)

1916

1.456 (105)

489 (107)

1.945 (106)

96 (93)

176 (91)

1917

1.454 (105)

454 (99)

1.908 (104)

95 (92)

154 (80)

1918

1.563 (113)

453 (99)

2.016 (109)

80 (78)

156 (81)

Gli economisti hanno generalmente sottolineato l’impoverimento dei ceti medi borghesi verificatosi durante gli anni della guerra, e dovrebbe quindi essere attribuito complessivamente ad essi non un incremento, ma un decremento dei consumi. 242 I nuovi ricchi furono numericamente scarsi e non poterono influire in maniera sensibile sui consumi primari. Una parte dei contadini furono in grado di consumare più che nell’anteguerra, ma, secondo l’opinione del Serpieri, preferirono orientarsi verso maggiori risparmi, più che verso maggiori consumi. 243 Einaudi ritenne 460

viceversa che i ceti rurali partecipassero in certa misura all’incremento dei consumi, ma tenne a sottolineare che accanto ad essi «mantennero e crebbero i consumi le classi le quali nelle città o nelle zone industriali diedero più direttamente opera alla guerra: operai degli stabilimenti ausiliari od assimilati, artigiani mutatisi in piccoli industriali, e coloro che si erano improvvisati commercianti e mediatori». 244 f) Ci sembra inoltre assai sintomatico che l’unica rilevazione fino ad oggi conosciuta sui bilanci delle famiglie operaie negli anni della guerra avvalori in maniera molto precisa la nostra tesi di un aumento dei consumi del ceto operaio cittadino. Nel dopoguerra, infatti, la Società Umanitaria di Milano rese pubblici i risultati di una inchiesta compiuta da Angelo Pugliese sui bilanci di alcune famiglie operaie milanesi fra il 1913 e il 1917. Il Pugliese aveva esaminato i bilanci di 51 famiglie nel luglio 1913, di 28 famiglie nel marzo 1916, e infine di 47 famiglie nel febbraio 1917. I consumi di queste famiglie erano notevolmente cresciuti nel 1917 rispetto al 1914 ed al 1916. Il Somogyi, ripubblicando pochi anni or sono tali risultati, li giudicò «impressionanti», anche perché le famiglie sottoposte all’inchiesta non erano state scelte fra quelle particolarmente disagiate. Le differenze fra i tre periodi gli apparvero ancor più singolari dopo aver eseguito un confronto tra le famiglie di più ricca alimentazione: le famiglie che superavano le 3.000 calorie giornaliere per ogni individuo erano 13 su 51 nel 1913; 6 su 28 nel 1916, e 22 su 47 nel 1917. Erano passate insomma dal 25,5% al 21,4% del campione considerato per salire infine, proprio nel 1917, al 46,8%. 245 Il fenomeno delle migliorate condizioni economiche delle famiglie dipese anche da un aumento della occupazione; infatti grazie anche al maggior impiego della manodopera femminile

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accadde «spessissimo» che una famiglia operaia contasse due, tre, quattro unità lavoratrici. 246 20. È stato detto molto spesso che la propaganda «disfattista» compiuta dai socialisti nelle file dell’esercito fu una delle cause della disfatta di Caporetto: dopo quanto abbiamo esposto in queste pagine si potrà meglio intendere come e perché il Partito socialista non volesse e neppure potesse esercitare quella propaganda. Già prima di inviare le quattro e ben note lettere al presidente del Consiglio, il gen. Cadorna aveva messo in guardia i suoi comandi dalle mene dei «disfattisti». 247 Nella primavera furono impartite «energiche disposizioni ai carabinieri delle armate» per stroncare una pretesa cospirazione di circoli giovanili socialisti e di anarchici. 248 Molti elementi «indesiderabili» furono allontanati dalle province comprese nella zona di guerra. 249 Per tutto il 1917 continuarono ad essere segnalate voci di complotti insurrezionali fra le truppe e nel Paese. 250 Ma la Commissione di inchiesta per Caporetto smentì nella sua relazione finale che fra le truppe avesse operato una organizzazione in grado di coordinare le manifestazioni di malcontento: alla vigilia della ritirata dall’Isonzo al Piave, ed anche nel corso di quella ritirata vi erano state manifestazioni «di acceso sovversivismo», «di tolstoiana fratellanza», «di depressione contagiosa», «di abbandono delle armi», «di pecorile viltà e di sacrileghe imprecazioni contro la patria», ma in nessun modo si riusciva a «trovar la prova di un nesso coordinatore». 251 Canzonette contrarie alla guerra, manifestini, foglietti volanti erano stati sequestrati ai soldati prima di Caporetto: ma quei fogli dimostravano in quali forme rudimentali fossero compiuti i tentativi del proselitismo. 252 Molti comandanti riferirono alla Commissione di inchiesta di 462

aver avuto notizia di quei tentativi soltanto attraverso le circolari del Comando supremo: in ottemperanza ad esse avevano compiuto accurate indagini, anche a mezzo di elementi di fiducia frammisti alle truppe, ma senza alcun esito. 253 Vi erano stati ufficiali i quali, ricevuto l’ordine di perquisire i loro uomini, si erano rifiutati di obbedire per non offendere inutilmente i loro soldati. 254 Cadorna volle attribuire grandissima importanza ai processi che ebbero luogo nell’estate ’17 a Pradamano (Udine) innanzi ai tribunali del XXIV corpo d’armata. Vennero processati circa cinquanta socialisti, militari o civili, e secondo Cadorna fu dimostrata «l’esistenza di una vasta rete di propaganda sovversiva che da parecchi centri del Paese irradiava verso l’esercito». 255 La lettura delle sentenze dimostra invece quanto fossero grandi i limiti dell’attività svolta da quei socialisti. I due principali imputati, il caporalmaggiore Pietrobelli (un cameriere di Schio, che conosceva Serrati) e il caporale Pizzuto (un ragioniere della provincia di Messina), furono rispettivamente condannati a 15 e 12 anni di reclusione, mentre gli altri furono condannati a pene minori o addirittura assolti. I tribunali ebbero modo di accertare ben poco, e fecero carico ai due maggiori imputati di aver esercitato una generica propaganda… «tra compagni di fede», militari e non militari «ed anche con qualcuno [sic] di altro campo politico». 256 Una propaganda, oltre tutto, alquanto rozza ed ingenua se «i cospiratori» ricopiavano a macchina poesie di Gori e di Rapisardi per distribuirle ai compagni. 257 Nel corso del primo processo il tribunale volle inoltre riconoscere gli ottimi precedenti militari di ben otto sui diciannove socialisti imputati. 258 Allorché, poche settimane più tardi, ebbe luogo la grande ritirata dall’Isonzo al Piave, nessuno dei numerosissimi 463

testimoni parlò di una visibile presenza di socialisti, anarchici, o «sovversivi». Ed anzi anche le grida che si disse erano state lanciate dagli sbandati costituirono una ulteriore dimostrazione della scarsa presenza dei socialisti in seno all’esercito. Fra quanti narrarono i particolari della ritirata ad Olindo Malagodi, soltanto Bissolati accennò al fatto che gli sbandati furono uditi cantare anche l’«inno dei lavoratori». Amendola riferì invece che le grida più frequenti erano state quelle di «Viva la pace! Viva il Papa! Viva Giolitti!», e perfino Cadorna dichiarò che i fanti avevano inneggiato al papa e a Giolitti, senza fare menzione di altri evviva. 259 Dobbiamo ritenere, inoltre, che dopo il 1915-16 nell’esercito operante in zona di guerra dovettero restare ben pochi socialisti militanti, per non parlare dei dirigenti. Il Germanetto, nelle sue memorie, riferì che all’inizio della guerra alcuni fra i socialisti più noti furono mandati nelle prime linee, ma che più tardi l’autorità militare ebbe paura di essi e li «imboscò» nei comandi, per sorvegliarli meglio. 260 Nell’estate del ’17, circa 300 cittadini torinesi, già esonerati dal servizio militare, furono inviati per punizione sotto le armi ed in zona di guerra, perché «designati quali organizzatori dei moti dell’agosto». Contrariamente a quanto viene spesso affermato quei 300 torinesi non furono inquadrati in reparti combattenti, ma in tre centurie di lavoratori, per mantenerli sotto controllo e isolarli dalle altre truppe. 261 Gli stessi dirigenti socialisti, invece di andare in mezzo ai combattenti per comprenderne i problemi ed eventualmente cercare di dare un significato politico al malcontento dei fanticontadini, fecero di tutto per isolarsi e «imboscarsi». Lo fecero perché non capirono cosa stava accadendo attorno a loro, ed anche perché ebbero timore che i comandi li mandassero allo

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sbaraglio nelle cosiddette compagnie di punizione o «compagnie della morte», di cui allora si vociferava. Allorché Arturo Vella, membro della direzione del partito, fu richiamato alle armi e rifiutò le spalline di ufficiale, temé appunto di essere incorporato in una di quelle fantomatiche compagnie; nell’agosto del ’17 chiese aiuto a Treves e a Prampolini e questi si recarono subito a colloquio dal presidente Boselli. Il 17 agosto, dopo quel colloquio, Treves rassicurò l’amico e gli spiegò che qualche tempo prima un analogo intervento suo e di Turati in favore di Bordiga aveva conseguito pieno successo. 262 Vella, pur sapendo che il presidente del Consiglio si occupava di lui, non si sentì tranquillo: telegrafò preoccupato sia a Treves, 263 sia al segretario del partito, Costantino Lazzari. 264 Prampolini si recò a perorare la causa di Vella presso il capo di gabinetto di Orlando, Camillo Corradini, ma questi credette di «poter escludere in modo assoluto» che esistessero le cosiddette «compagnie della morte», aggiungendo che tempo addietro lo stesso Consiglio dei ministri si era occupato delle voci che circolavano in proposito: era stata esclusa non solo «la legalità, la giustizia, l’umanità ecc., ma la utilità» di tali strumenti di persecuzione. 265 Vella, in ogni caso, riuscì a non partire per il fronte e trascorse alcuni mesi in un carcere militare. Nel marzo 1918 un rapporto del servizio informazioni del Comando supremo segnalò vari casi di «disfattisti imboscati» a Firenze ed a Prato. A detta dell’anonimo informatore, anzi, il segretario della Camera del lavoro di Prato era stato nominato membro del comitato regionale toscano di mobilitazione industriale, con il consenso delle autorità, «appunto perché potesse essere legalmente esonerato». L’informatore riferì a questo proposito un particolare gustoso: proprio il prefetto di Firenze, Vittorelli, era corso più volte al comando di divisione a

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invocare che il sindacalista fosse «imboscato»: altrimenti chi lo aiutava a garantire l’ordine pubblico a Prato? 266 I socialisti, insomma, facevano di tutto per restare estranei alle esperienze dei combattenti, e magari collaboravano con le autorità per garantire l’ordine pubblico: quando perciò nell’ottobre, a Caporetto, i fanti si riversarono nelle strade del Friuli, liberandosi dalle armi ed inneggiando alla pace, non si trattò – come vedremo – di una rivolta, e neppure di uno sciopero: «Uno sciopero» disse giustamente Albertini «presuppone dei capi; e in questo caso i capi quali erano?». 267 Si fece gran chiasso, nelle polemiche su Caporetto, intorno alla frase pronunciata da Treves alla Camera il 12 luglio: «Il prossimo inverno non più in trincea!». Ma Treves, in realtà, non fece che ripetere ciò che da mesi tutti o quasi tutti stavano dicendo, e lo ripeté – come riconobbe la Commissione di inchiesta – «senza alcun proposito di deprimere il morale dell’esercito». 268 Nell’estate del ’17 gli stessi comandi militari diffusero fra le truppe l’idea di un ultimo e supremo sforzo e i soldati della Bainsizza riuscirono a trovare il necessario slancio proprio perché pensarono che non ci sarebbe più stato un inverno in trincea. Nessuna volontà di deprimere lo spirito delle truppe, dunque, nessuna intenzione di provocare una sconfitta militare e un’insurrezione nel Paese. Lo stesso colloquio tra l’informatore di Cadorna e Scalarini – citato nelle pagine precedenti – conteneva preziose ammissioni sugli obbiettivi di una propaganda tra i soldati. 269 È vero che tutte le informazioni anonime devono essere considerate con molta circospezione, ma ci sembra indicativo che l’ufficio informazioni ritenesse opportuno trasmettere a Cadorna il testo di un colloquio dal quale si evinceva a chiare lettere che i socialisti escludevano un’azione 466

immediata, nel corso della guerra, e pensavano viceversa a un’operazione politica, da attuarsi dopo la conclusione del conflitto, in alleanza con gli interventisti rivoluzionari e la media borghesia. 270 Il fatto era che durante l’estate del ’17 tutti – non soltanto i socialisti – ritenevano che la guerra non si sarebbe affatto conclusa con una vittoria dell’Intesa ma, nella migliore delle ipotesi, con una pace bianca senza vincitori né vinti. Gli uomini del governo pensavano, in agosto, di lasciare il potere ad uomini nuovi che potessero concludere la pace col nemico. 271 Il vice-capo di stato maggiore, gen. Porro, parlava in settembre di rinunciare a Trento, Trieste e la Dalmazia: il popolo italiano – egli diceva – sarebbe insorto, ma l’esercito avrebbe ristabilito l’ordine. 272 I socialisti avevano dunque molte buone ragioni per credere che il loro successo politico sarebbe stato assicurato da una catastrofe interna imputabile alle classi dirigenti, dimostratesi incapaci di condurre gli italiani alla vittoria promessa. Una tattica fondata invece sul sabotaggio della guerra sarebbe stata nell’estate del ’17 non soltanto di difficile realizzazione, per le ragioni già esposte in queste pagine, ma anche di scarsa convenienza politica, perché avrebbe reso impossibili preziose alleanze. Conveniva dunque attendere, senza troppo compromettersi, la «pace bianca» e l’ondata di proteste che essa avrebbe determinato. In verità, nell’aprile del ’17, era accaduto qualcosa che poteva far ritenere meno probabile una soluzione così negativa della guerra: ci riferiamo all’intervento degli Stati Uniti d’America. Ma in Italia – più che altrove, forse – si stentò a comprendere l’importanza di quell’evento. 273 L’altro grande avvenimento del ’17, la rivoluzione russa, sembrò invece, fin dal primo momento, foriero di grandi novità, ed ebbe immediate ripercussioni sullo spirito delle truppe: ma, ancora una volta, senza colpa – o senza merito – della propaganda 467

socialista, perché le notizie sull’indisciplina dell’esercito ex zarista furono lette dai fanti su «tutti i giornali, compresi i più devoti alle istituzioni», come fece notare il duca d’Aosta. 274 Quelle notizie, inoltre, agirono sulla realtà italiana in maniera alquanto complessa: da una parte fecero nascere fermenti nuovi, resero più viva l’attesa della pace, suscitarono speranze di rinnovamenti politico-sociali; dall’altra resero la classe dirigente italiana più attenta alle responsabilità e agli obblighi da essa assunti. 275 Socialisti bissolatiani, democratici-costituzionali, cattolici, giolittiani, repubblicani, monarchici preoccupati di dare un contenuto sociale alla guerra dei fanti-contadini proposero vari provvedimenti in favore delle classi rurali, parlarono di espropriare latifondi e di distribuire terre incolte agli ex combattenti. La formula della «terra ai contadini» riscosse grandi consensi perché, come annotò il Serpieri, era «sufficientemente elastica ed imprecisa». 276 Ma in quei giorni anche un conservatore come Ferdinando Martini si rendeva conto che i fatti avrebbero dovuto tener dietro alle parole: «Bisogna prepararsi» disse «a grandi e radicali riforme. Io veggo mutare, per lo meno, gli aspetti della proprietà. Il proletariato ha reso sui campi di battaglia grandi servigi. E i servigi si compensano coi servigi, diceva Bastiat: ossia si pagano. E bisogna che noi li paghiamo.» 277 In luglio un informatore di polizia riferì che nella sala della stampa estera, a Roma, un giornalista italiano reduce dal fronte aveva recato notizia del fermento esistente fra i soldati contadini «per la questione dei latifondi»:

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«La propaganda per la ripartizione delle terre fra i soldati contadini» avrebbe detto infatti quel giornalista «è attiva, continua, ed essa ha già conquistato intere divisioni. Si dice ancora che molti ufficiali – anche per accattivarsi sempre più la fiducia dei soldati e per ottenerne il massimo sforzo – si mostrano solidali con i soldati stessi ai quali dicono che ormai l’esercito al fronte rappresenta la nazione e il governo, e che se dopo la guerra esso non avrà le soddisfazioni materiali alle quali ha diritto, penserà a prendersele da sé, spazzando via gli ostacoli di qualsiasi natura essi siano.» 278 Non ci fu da meravigliarsi – come invece accadde a taluni – se al termine della guerra sembrò che i cittadini in generale, ed i reduci in particolare, avessero una fattura da presentare allo Stato per l’incasso. 279 Ma nel 1917 la suggestione esercitata dagli avvenimenti russi fu controbilanciata, più che dalle promesse, dal fatto che i fanti con il trascorrere del tempo ebbero modo di constatare che quegli stessi avvenimenti costituivano un vantaggio per il nemico e un danno gravissimo e immediato per loro stessi: l’esercito austriaco, difatti, sollevato dalle preoccupazioni del fronte orientale, era in grado di impiegare uomini e mezzi in quantità maggiore sul fronte italiano. C’era dunque il rischio che l’indebolirsi dell’esercito russo, anziché affrettare la pace, rendesse la guerra più lunga e dolorosa. Se v’erano fanti i quali inneggiavano alla rivoluzione di febbraio, altri invece, e forse erano i più, imprecavano contro il tradimento della Russia. 280 21. Anche i cattolici, il clero, i cappellani militari furono accusati nel 1917 di compiere opera disfattistica. Non è questo il luogo per esaminare la varietà dei comportamenti individuabili 469

nel vasto e complesso schieramento cattolico: a un estremo si collocavano i pacifisti irriducibili, all’altro estremo coloro che abbracciavano con entusiasmo la causa nazionale, 281 ma si può dire in generale che, tra il ’16 e il ’17, anche il mondo cattolico visse la crisi della guerra come tutta la società italiana, perdendo cioè molti dei primitivi entusiasmi. Le ragioni furono numerose, e dipesero in parte dal fatto che il clero e il movimento cattolico erano troppo vicini al mondo contadino per non subire i contraccolpi del malcontento esistente nelle campagne; in parte dal fatto che, in linea generale, la guerra si stava rivelando assai diversa da come era stata prevista. Poco dopo la rivoluzione russa di febbraio, l’«Avanti!» scrisse che il clero si trovava «nell’imbarazzo» poiché, dopo aver aderito in maggioranza alla guerra, cominciava a rendersi conto dei pericolosi e continui rivolgimenti provocati dalla guerra stessa. 282 C’era il rischio che le masse si staccassero dalle organizzazioni cattoliche, e queste, per evitare che il popolo si abbandonasse «a promesse, a miraggi ed a consigli di altri partiti, certo meno ispirati a princìpi di ordine e di dovere civile», cercarono di «adattarsi ai bisogni ed all’opportunità dei vari luoghi». 283 D’altra parte i cattolici non vollero neppure negare l’obbedienza alle leggi e l’esigenza di difendere i confini nazionali, finendo pertanto col destare sospetti e scontentare i più, esponendosi all’accusa di «pacifismo disfattista» da parte degli uni, di «interventismo» da parte degli altri. 284 Ma le accuse di pacifismo e di «austriacantismo» furono di gran lunga le più numerose e vivaci, tanto che la Santa Sede protestò con il governo italiano per la violenta campagna anticlericale promossa dagli ambienti interventisti e da esso tollerata. Indifferente a queste proteste, il ministro Bissolati, in 470

ottobre, giunse ad accusare pubblicamente il Vaticano di essere corresponsabile della morte di Cesare Battisti. 285 Ci interessano soprattutto le ripercussioni avute da tali vicende in seno all’esercito e, in particolare, sull’attività dei cappellani che tra la fine del ’16 e gli inizi del ’17 cominciarono ad essere sottoposti a controlli e divieti fino ad allora inconsueti. Il 19 dicembre 1916, per esempio, l’intendente generale dell’esercito dichiarò, in una circolare confidenziale, che in taluni ospedali le suore ed i cappellani compivano, sia pure involontariamente, propaganda pacifista, insegnando preghiere ed invocazioni atte a deprimere lo spirito guerresco degli assistiti. Il Comando supremo – si lesse in quella circolare – desiderava invece che l’opera di assistenza assumesse carattere più virile e consono alle ineluttabili necessità del momento. 286 Il 13 gennaio successivo lo stesso Comando supremo invitò i comandi in sottordine a vigilare sulle corrispondenze di carattere religioso, e di contenuto pacifista, che i soldati ricevevano dal Paese. 287 All’inizio del ’17 accaddero incidenti tra l’autorità militare ed i cappellani, allorché questi ultimi intrapresero la cosiddetta «consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù». 288 La consacrazione era stata proposta da padre Gemelli nell’estate del ’16, ed un apposito comitato fu costituito con la benedizione di Benedetto XV. Venne deciso che i soldati si sarebbero consacrati singolarmente o, «meglio ancora», in massa, durante le funzioni generali previste per il primo venerdì del 1917. 289 La partecipazione alle cerimonie doveva essere volontaria e l’immagine del Sacro Cuore, secondo le istruzioni date da padre Gemelli, doveva essere distribuita non come un semplice oggetto di devozione, ma come un preciso simbolo della avvenuta consacrazione e degli impegni da essa derivanti (i 471

soldati, fra l’altro, si obbligavano a consacrare anche le loro famiglie). Numerose manifestazioni ebbero luogo in varie unità dell’esercito all’inizio del ’ 17, ora in forma solenne, ora senza formalità: furono distribuiti ai soldati oltre 2 milioni di bandierine ed immagini del Sacro Cuore. 290 Il 15 gennaio, il giornale dei cappellani dichiarò che l’iniziativa della consacrazione era stata ovunque bene accolta: «Solo da una o due unità ci sono state segnalate delle difficoltà, e sapete la ragione? è semplicemente meravigliosa! Si è detto dunque che la propaganda per la devozione al S. Cuore di Gesù era niente altro che una propaganda pacifista. […] Gli omuncoli hanno sentenziato, e ancora una volta senza sapere, senza informarsi, senza comprendere.» 291 Ma le proteste furono probabilmente più ampie di quanto il giornale ammettesse. Alla fine di febbraio, infatti, il ministero della Guerra diramò una circolare dalla quale risultò non soltanto che esso non aveva autorizzato l’iniziativa di padre Gemelli, ma che la giudicava pericolosa per la disciplina, poiché essa, imponendo ai soldati consacrati di portare sulla giubba o sul berretto il simbolo del Sacro Cuore, determinava «una palese differenziazione fra i militari di una stessa fede». 292 Mons. Bartolomasi tentò un compromesso. Spiegò che distintivi e bandierine erano stati distribuiti per iniziativa privata e come semplici ricordi, senza significato speciale; aggiunse che da quel momento in poi essi sarebbero stati portati dai soldati in modo non visibile, al fine di evitare la temuta differenziazione. 293 Ma l’autorità militare non fu d’accordo, e lo stesso Bartolomasi dovette ordinare ai cappellani di desistere dall’iniziativa. 294 Il vescovo conobbe altre amarezze, ed infatti, essendo stata 472

vietata nell’esercito la preghiera scritta dal pontefice per la pace, egli stesso dovette compiere ispezioni e sopralluoghi per accertarsi che il divieto fosse rispettato. 295 Tra la fine del ’16 e l’inizio del ’17 lo stato d’animo dei cappellani mutò sensibilmente rispetto ai primi tempi della guerra, per ragioni in gran parte intuibili. Dopo mesi di sacrifici e di orrori anche cappellani e preti-soldati poterono attraversare crisi di sfiducia e di stanchezza come ogni altro uomo al fronte. Ma ai problemi dei cappellani in quanto uomini e soldati si aggiunsero le difficoltà specifiche in loro originate dalla condizione sacerdotale. All’inizio essi avevano considerato la guerra come una grande occasione di apostolato. Col tempo cominciarono ad accorgersi che la lunga permanenza al fronte presentava gravi pericoli per la loro stessa vocazione: «Dal fronte lontano» scrisse don Giulio De Rossi nel luglio 1916 «e più dalle varie unità di sanità residenti nei centri principali, giungono a volte anche delle amare notizie […] di fratelli nostri, come noi consacrati dal sangue di Cristo, e che non han saputo resistere all’onda travolgente della dissipazione… Per questi – che sono grazie a Dio eccezioni – la disciplina militare, anziché essere un freno è stato un invito alla licenza. L’abbandono dell’abito esteriore ha segnato anche l’abbandono della interiore disciplina dello spirito […]. E nelle ore di libera uscita questi poveri fratelli nostri, anziché affollare le chiese, sono corsi prima ai più tenui, poi a più avvelenati ritrovi mondani: molti vescovi si son trovati costretti ad emanare ordini severissimi, talvolta anche a decretare la sospensione a divinis […].» 296 Taluni sacerdoti erano frati di ordini mendicanti, abituati al 473

saio e alla povertà, avevano improvvisamente ottenuto divisa, grado, stipendio. Non furono rari i casi di preti-soldati e perfino di cappellani che, usciti dalla disciplina conventuale, immessi nella comunità militare, traumatizzati dagli avvenimenti ai quali assistevano, cominciarono a trascurare quei valori nel rispetto dei quali erano stati educati. Fu molto esplicita al riguardo una lettera scritta da don Pirro Scavizzi a don Giulio De Rossi, pubblicata nel «Prete al campo» del 1° febbraio 1917: «Se tu vedessi certi cappellani come cercano con ogni industria di far dimenticare o di nascondere la loro qualità di preti e il loro incarico di cappellani! La divisa da ufficiali è divenuta ormai così generale per parecchi cappellani delle seconde linee… e per alcuni anche delle decime linee, che a prima vista l’esercito italiano ti sembrerebbe un esercito senza cappellani. […] E tu li dovresti vedere alcuni di questi posatori assumere tutti gli atteggiamenti ufficialeschi, tanto più che la croce di stoffa rossa (che in taluni è diventata microscopica) al lato sinistro della giubba, si nasconde facilmente sotto il peloso pastrano o l’indulgente mantello grigioverde. Non ti dico poi del come stanno nelle conversazioni, cui prendono parte parlando di tutto…, di tutti…, e di tutte…, col pretesto del savoir vivre. E come sanno mangiare, bere e giuocare. So di uno che sta tempestando di telegrammi e di lettere l’“Onorevole” del suo Collegio, per ottenere la croce da cavaliere. So di un altro che, per una questioncella di lieve momento di disciplina militare, per poco mandava alla fucilazione un soldato.» 297 La coraggiosa lettera fu accolta da proteste, come si può ben 474

immaginare, ma anche da approvazioni, e don De Rossi prese le difese del suo collaboratore, precisando che i biasimi da questo espressi riguardavano soltanto una parte dei religiosi alle armi, dato che «nella grande maggioranza tutti compivano con zelo e abnegazione il loro dovere». 298 La guerra, tuttavia, iniziata con le imponenti manifestazioni di devozione collettiva che abbiamo altrove descritte, 299 riservò ai cappellani altre sorprese e delusioni. Si cominciò a constatare un notevole rilassamento nella religiosità e nella moralità dei soldati, un sintomatico assenteismo dalle funzioni sacre. 300 In occasione della prima Pasqua di guerra i cappellani di molti reggimenti avevano visto l’80, l’85 perfino il 95% dei soldati partecipare alle funzioni religiose. Per la Pasqua del 1917, prevedendo un nuovo grande afflusso di fedeli, i cappellani del 77° e 78° fanteria chiamarono il prete-soldato Lorenzini ad aiutarli nelle confessioni: «Quest’anno» scrisse Lorenzini «fiasco completo! Abbiamo atteso invano per diverse sere, ma pochissimi si sono presentati; forse il quattro per cento, di cui la maggior parte seminaristi. Perché questa diserzione? Sono stanchi? Sono sfiduciati? Chissà? Molti hanno risposto che a guerra finita ritorneranno ai sacramenti, ma ora non se la sentono.» 301 Il Lorenzini ritenne che una delle ragioni per le quali la devozione dei soldati era diminuita stesse nel fatto che tante cerimonie religiose si risolvevano in pura esteriorità: «I diversi oratori, in tonaca o senza, terminata la loro concione, saltano sull’automobile e vanno via; noi invece restiamo ad ascoltare i commenti che i soldati e gli 475

ufficiali tengono dietro ai discorsi dei sullodati oratori; e questi commenti non depongono certamente a favore di questa oratoria di guerra. In queste cerimonie, sia strettamente militari, sia militari e religiose insieme, c’è sempre il vizio capitale: la retorica.» 302 In un convegno di cappellani, indetto dal vescovo Bartolomasi, uno degli intervenuti confessò che, ormai, il sacrificio di se stessi era l’unico modo efficace di esercitare la propria missione. Ognuno si rendeva conto che le belle parole avevano perso il loro fascino: le truppe avevano accolto con fischi e rumori i discorsi patriottici di padre Semeria e dello stesso vescovo. 303 Un cappellano riferì che i suoi soldati protestavano quando egli faceva loro ascoltare il disco con «la canzone di Trento e Trieste». 304 La lettura del «Prete al campo» fa ritenere che il tono delle prediche dei cappellani mutò non poco nel corso del 1917. Già nel 1916 il giornale aveva sospeso la pubblicazione di quei consigli sulla predicazione del Vangelo che potevano indurre ad una certa confusione tra valori religiosi e valori patriottici. Più tardi, nel luglio del ’17, don De Rossi esaminò apertamente il problema del «Che cosa dobbiamo predicare?». Un cappellano, difatti, si era rivolto al giornale: «Il mio colonnello» aveva scritto «desidera che in tutti i miei discorsi io sospinga i soldati al sacrifizio completo di sé per le superiori idealità della patria… I miei soldati, mi pare di intuirlo da tanti piccoli segni rivelatori, darebbero in tal caso alla mia parola l’identico valore che danno a certi discorsi di ufficiali superiori, quello cioè di discorsi ufficiali. Come debbo regolarmi?» 305

476

Era già molto significativo che il «Prete al campo» dedicasse la sua prima pagina a questi interrogativi: più significativa ancora apparve la risposta. Don De Rossi, infatti, in termini piuttosto secchi, invitò il sacerdote a predicare ed a parlare «soltanto» di Gesù Cristo: la rinascita delle virtù patriottiche dei soldati sarebbe stata la conseguenza indiretta di quella predicazione: se qualcuno non voleva capirlo, «peggio per lui!». 306 Nell’agosto fu pubblicata la nota diplomatica di Benedetto XV alle potenze belligeranti. Lo stile involuto del documento pontificio non era certo fatto per invogliare alla lettura i fanticontadini, ma una frase in esso contenuta avrebbe profondamente colpito l’immaginazione di tutti: il papa aveva definito la guerra «inutile strage». 307 Durante la preparazione della nota, la segreteria di Stato aveva consigliato al pontefice di sopprimere quelle parole giudicandole pericolose; ma il pontefice non aveva voluto, assumendo l’intera responsabilità del suo rifiuto. 308 L’«inutile strage» rimase, e sollevò una tempesta. A Udine, negli ambienti del Comando supremo, la nota papale fu malissimo accolta. Vi furono generali che pronunciarono parole roventi e minacce giacobine: dissero che bisognava «impiccare» il papa. 309 Cadorna, «colpito di sorpresa nella situazione difficilissima di quel momento, taceva e soffriva, quasi ruggente». 310 Si ebbe paura che le parole del pontefice potessero demoralizzare le truppe, impegnate proprio in quelle ore nella battaglia della Bainsizza. I comandi deliberarono di non far arrivare al fronte i giornali, ma non poterono mantenere il provvedimento: fra le truppe, infatti, il mancato arrivo dei giornali fece sorgere il sospetto di gravi sommosse scoppiate nel Paese. 311 I quotidiani furono distribuiti e la notizia della nota papale «si diffuse in un baleno, invase d’impeto, a gran festa, l’intera fronte». 312 477

Contrariamente ai timori dei comandi le parole del pontefice accrebbero lo spirito aggressivo dei soldati impegnati sull’altopiano della Bainsizza, poiché ad essi fu detto: «Il papa vuole la pace: è giusto, è bene, ma noi la pace l’avremo, dando un buon colpo al nemico. Vedete, questo è proprio l’ultimo sforzo: diamoci dunque addosso». 313 Le parole di Benedetto XV acquistarono una ben diversa risonanza dopo la battaglia, dopo la constatazione, cioè, che essa non aveva costituito ancora l’ultimo sforzo. Anche don Minozzi ammise che quella definizione di «inutile strage», strappata dal suo contesto ed artatamente travisata dalle fazioni interessate, rimbalzò «sulla massa agitata come fiammifero acceso su un cumulo enorme di materiali infiammabili». 314 Le speranze di pace create dalle parole di Benedetto XV furono ben più vaste che non quelle suscitate dalle pur famose parole dell’on. Treves, perché superiore era l’autorità di chi le aveva pronunciate e perché davvero grande era il prestigio di cui la Chiesa cattolica godeva presso la grande massa dei fanti-contadini. Già sappiamo che fin dai primi tempi del suo pontificato Benedetto XV aveva condannato la guerra con frasi incisive. 315 Soltanto la definizione di «inutile strage» ottenne vastissima eco, perché nel ’17, quando essa fu pronunciata, più numerosi erano gli uomini disposti ad ascoltare l’ammonimento papale, quasi nessuno credeva più che il conflitto potesse risolversi con una vittoria militare, ed ovunque si parlava di trattative di pace e di rinunzia ai primitivi disegni di conquista. Alla Commissione di inchiesta per Caporetto fu inoltre riferito che alcuni cappellani, abituati «ad una troppo ligia sottomissione all’autorità del Capo della Chiesa», fecero conoscere alle truppe le parole pontificie «piuttosto esagerandone che attenuandone i pericolosi effetti». 316 Altri cappellani, invece, parvero 478

imbarazzati, «riservati, ma dolenti», incapaci di venir meno al loro dovere verso l’esercito, 317 e don Giulio De Rossi, nel «Prete al campo», dedicò un lungo articolo alla nota pontificia, abbondantemente tagliato dalla censura, nel quale cercò di spiegare che Benedetto XV, non volendo sovvertire l’ordine costituito, aveva indirizzato la sua nota ai governi, non ai popoli, affinché questi ultimi continuassero frattanto a combattere. 318

479

Note 1

Cfr. L. CADORNA , Pagine Polemiche, cit., p. XXIII.←

2

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 33 (alla data del 25 maggio 1917).←

3

Cfr. C. PETTORELLI- LALATTA , ITO (Informazioni truppe operanti), cit., pp. 145-62, nonché dello stesso autore L’occasione perduta. Carzano 1917, Milano 1967.←

4

Cfr. pp. 364-365.←

5

Cfr. C. PETTORELLI- LALATTA , ITO (Informazioni truppe operanti), cit., pp. 154-56.←

6

Cfr. G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 25.←

7

Cfr. A. ROSENBERG , Origini della Repubblica tedesca (1871-1918), Roma 1947, pp. 90-93, 158, 182-87 e passim.←

8

Cfr. G. PEDRONCINI , Les mutineries de 1917, cit., pp. 93-94, 10179 e 308.←

9

Cfr. F. HERBILLON , Souvenir d’un officier de liaison, Paris 1930, 2 voll., vol. II, p. 97.←

10

Cfr. J.J. PERSHING , Le mie esperienze della Grande guerra, cit., p. 71.←

11

Ibid., p. 144; A. FERRY , Carnets secrets, cit., p. 105.←

12

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 1020 (alla data del 23 ottobre 1917).←

13

Cfr. Inchiesta Caporetto, cit., vol. II, p. 461. Nella relazione non è precisato chi rese tale dichiarazione.←

14

Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano 480

nella Grande guerra, cit., p. 166. Cadorna dichiarò alla Commissione d’inchiesta che l’Ufficio informazioni teneva periodicamente al corrente i ministeri della Guerra e dell’Interno circa lo spirito delle truppe, poiché inviava a quei ministeri un notiziario «con dati desunti dalle corrispondenze censurate e dalle informazioni dei propri agenti». Cfr. Inchiesta Caporetto, cit., vol. II, p. 368. Ma si trattava in realtà di informazioni su casi specifici di «disfattismo» per i quali l’Ufficio chiedeva alle autorità residenti nel Paese di eseguire indagini supplementari.← 15

L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., p. 320.←

16

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., vol. I, p. 106 (conversazione con Cadorna del 23 gennaio 1917).←

17

Cfr. A. OMODEO , Lettere, cit., pp. 171 e 174 (lettere alla moglie del febbraio 1917).←

18

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 48 (lettera del 17 marzo 1917).←

19

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 194 (lettera del 17 marzo 1917).←

20

Cfr. ibid., p. 194 (lettera del 20 marzo 1917), nonché M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 217.←

21

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 51.←

22

A. OMODEO , Lettere, cit., pp. 187-90.←

23

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 6. In gennaio del resto lo stesso Cadorna aveva immaginato che lo sforzo supremo della guerra sarebbe stato compiuto in primavera, cfr. F. MARTINI , Diario,

481

cit., p. 858 (alla data del 9 gennaio 1917).← 24

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, tavola 33.←

25

Cfr. G. MORTARA , La salute pubblica in Italia, durante e dopo la guerra, cit., pp. 39-41. Quel 50,7% di perdite era composto quasi completamente da morti e da feriti e solo per un 10-16% da prigionieri non feriti.←

26

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 216 (intervento di Orlando alla seduta del 18 dicembre 1917); R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 61, 63 e 66.←

27

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 60-61 (alla data del 2 giugno 1917).←

28

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 68 (lettera del giugno 1917).←

29 30

31 32

33

Cfr. ibid., p. 70 (lettera del 6 giugno 1917).← Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 506-14. Quanto alla notizia della resa dei tre reggimenti siciliani lo stesso Cadorna riconobbe nelle lettere ai suoi familiari che essa era stata «esagerata» da alcuni comandi per coprire le proprie responsabilità, cfr. infatti L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., pp. 202-03 e 206 (alle date del 7, 10 e 15 giugno 1917) e la nota del curatore.← L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 163.← Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 154 (alla data del 30 giugno 1917).← Cfr. ibid., p. 107 (alla data del 14 giugno 1917).← 482

34

ARCHIVIO DELL’ORDINARIATO MILITARE PER L’ITALIA , Roma, Dattiloscritto del padre gesuita Alfonso Montabone, sulla storia dei cappellani militari, p. 76. (Nelle pagine seguenti indicheremo quest’opera come: A. MONTABONE , Dattiloscritto.) A proposito di questo studio cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 7.←

35

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 81 (lettera del 23 luglio 1917). Scrisse infatti l’Alessi: «I preparativi per la prossima offensiva sono giganteschi; ma, purtroppo, lo stato d’animo delle truppe non è più quello del mese di aprile».←

36

Lettera di Amendola a Bissolati pubblicata in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., pp. 294-95.←

37

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 91 (lettera senza data)←

38

Ibid., p. 95.←

39

Cfr. quanto scrisse Carlo Galli il 19 agosto a Mario Lago in C. GALLI , Diarii e lettere, Firenze 1951, p. 275. Cfr. inoltre M. SILVESTRI , Isonzo 1917, cit., pp. 319-20, nonché A. SOFFICI , Kobilek, in Opere, cit., p. 113 (alla data del 17 agosto 1917)←

40

L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., pp. 149-50 (alla data del 28 agosto 1917).←

41

A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 186-87.←

42

Ibid., p. 187.←

43

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 317.←

44

Cfr. ibid., p. 314.←

45

Ancora il 2 settembre l’Alessi dichiarava che le condizioni 483

morali delle truppe erano eccellenti (cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 108), ma già dal 29 agosto il gen. Cadorna spiegava ai suoi familiari che l’offensiva stava fallendo proprio per lo scarso slancio dimostrato dalle truppe che una propaganda avversa alla guerra aveva contaminate (cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 217). Sull’argomento cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., pp. 309-18.← 46

E. LORENZINI , La guerra e i preti soldati, cit., p. 86.←

47

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 256.←

48

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, tomo 3°, pp. 658-60.←

49

Cfr. [G. MORTAR A] MINISTERO DELLA GUERR A, UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, Dati sulla giustizia e disciplina militare, cit., p. 25.←

50

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, tomo 3°, p. 659.←

51

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 491-92.←

52

Cfr. ibid., p. 505.←

53

Circolare del ministero della Guerra datata 5 gennaio 1918, n. 28913, in ACS, Conflagrazione europea, b. 45b. Cfr. inoltre la testimonianza resa dal gen. Capello alla Commissione d’inchiesta in L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., p. 353.←

54

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 162 sgg.←

55

Cfr. il telegramma del prefetto di Novara al ministero dell’Interno in data 22 giugno 1917 in ACS, Conflagrazione europea, b. 45b.←

56

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., p. 484

284; per un caso analogo accaduto alla fine di agosto cfr. ibid., pp. 285-89.← 57

M. CARLI , Noi arditi, Milano 1919, p. 61. Sugli arditi cfr. anche M. PALIERI , Gli arditi (Gloria e sacrifici degli assaltatori), Milano s.d.; R. GIULIANI , Gli arditi. Breve storia dei reparti d’assalto della terza armata, cit. Si veda inoltre il volume di Ferdinando Còrdova, dal titolo: Arditi e legionari dannunziani. Crisi ed evoluzione del combattentismo nella lotta politica del primo dopoguerra.←

58

Cfr. G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., p. 103. Secondo Malaparte, invece, le persecuzioni contro i carabinieri avrebbero costituito un fenomeno ben più vasto e sarebbero stati numerosi i casi di carabinieri assassinati in trincea e impiccati o pugnalati nelle retrovie. Cfr. C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 98.←

59

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 368.←

60

Cfr. ibid., pp. 359-65.←

61

V. CODA , Dalla Bainsizza al Piave, Milano 1919, p. 128; per altre notizie sull’episodio e altri giudizi sulla brigata Ravenna cfr. ibid. pp. 121-28. Notizie di ammutinamenti e rivolte accaduti nella primavera del ’17 potranno essere trovati fra l’altro in R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 135-36 (ammutinamento di una compagnia nella brigata Avellino in aprile); in A. GATTI , Caporetto, cit., p. 14 (ammutinamento di un battaglione del 4° bersaglieri in maggio) e in E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 195-99 e 203-04 (ammutinamento di 25 graduati e soldati del 3° alpini nel giugno e tentativi di istigazione all’ammutinamento nel 49° fanteria nello stesso

485

giugno).← 62

Nel settembre 1917, in un corso di istruzione per ufficiali, fu detto: «È purtroppo frequente il caso di rivolte al momento dei ritorni in trincea, manifestazione consueta ne è lo sparo di fucilate; occorre pronta repressione per arrestare queste manifestazioni all’inizio». Cfr. F. ROCCA , Vicende di guerra, cit., pp. 187-88.←

63

I soldati avevano diritto ad una licenza di quindici giorni l’anno (mentre i francesi avevano diritto a tre licenze di dieci giorni ciascuna). Inoltre se i soldati addetti ai servizi usufruivano regolarmente delle licenze, proprio i combattenti ne erano talvolta privati. Bastava infatti che iniziasse un’operazione perché i comandi ordinassero la sospensione delle licenze, senza che – per l’impossibilità di aumentare il numero delle tradotte – si potesse successivamente compensare tale sospensione: alcuni non tornarono a casa per più di due anni. Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 382; nonché N. PAPAFAVA , Appunti Militari (1919-1921), p. 30.←

64

L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. I, pp. 208-09.←

65

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 257.←

66

67 68

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 375-76. Sull’argomento cfr. inoltre E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista e combattuta io, cit., p. 120.← Cfr. L. CAPELLO , Note di guerra, cit., pp. 207 e 209.← I dati e le notizie relative alla brigata Catanzaro sono desunti da ACS, Presidenza, b. 19.4.8, f. 50 e in particolare dalla relazione del comandante del VII corpo d’armata, gen. Tettoni, al comando della III armata in data 3 agosto 1917, n. 187, e 486

dalla relazione del comandante della III armata, Emanuele Filiberto di Savoia, al Comando supremo in data 8 agosto 1917, n. 26503.← 69

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 149.←

70

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 236-38.←

71

Né il duca né il Tettoni indicarono fra i motivi della protesta anche gli arresti operati il giorno 15 e le altre misure «precauzionali». Sulla rivolta della Catanzaro cfr. anche Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 367, 444 e 513; L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 40; L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 210 e M. SILVESTRI , Isonzo 1917, cit., p. 29.←

72

Cfr. [ G. MORTAR A] MINISTERO DELLA GUERR A, UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, Dati sulla giustizia e disciplina militare, cit., p. 14, da cui sono tratte tutte le cifre relative ai disertori riportate in questo paragrafo, salvo diversa indicazione. L’esenzione dalla pena per quei disertori che si fossero presentati spontaneamente prima del 29 dicembre 1917 fu stabilita dal D.L. 19 dicembre 1917, n. 1952.←

73

Vale a dire una condanna ogni 100 militari durante il primo anno; 1,6 nel secondo; 2,6 nel terzo. Per primo anno di guerra ci si riferisce qui al periodo maggio 1915-maggio 1916; analogamente per gli anni successivi.←

74

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 507.←

75

Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 60.←

487

76

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 49-50 (seduta del 26 giugno 1917). L’on. De Felice, anch’egli siciliano, dichiarò che nella sua isola i disertori erano 1.319. Lo stesso Orlando riconobbe, due anni più tardi, che il fenomeno delle diserzioni in Sicilia era stato «rilevantissimo» soprattutto in provincia di Trapani. Cfr. la deposizione di Orlando dinanzi alla Commissione di inchiesta su Caporetto in V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 521. Si veda inoltre l’Elenco numerico dei latitanti, disertori e renitenti della giurisdizione della Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Palermo del 30 settembre 1916 in ACS, MINISTERO DELL’INTERNO, DIREZIONE GENERALE PUBBLICA SICUREZZA, DI V. AGR, Atti diversi 1898-1943, b. 2, f. 18, sottosez. «Varia», che qui riproduciamo: Latitanti

Disertori

Renitenti

Totali

Presenti Emigrati Presenti Emigrati Presenti Emigrati nel Regno all’estero nel Regno all’estero nel Regno all’estero

PALERMO

268

677

182

2.227

285

24.104

TRAPANI

135

279

320

770

1.712

3.871

GIRGENTI

79

262

57

428

282

9.531

CALTANISSETTA

62

247

63

151

347

4.842

CATANIA

68

161

43

182

414

5.695

SIRACUSA

17

79

11

241

250

3.480

MESSINA

9

96

12

709

37

9.673

Presenti

638

Emigrati

688 1.801

3.327 4.708

4.653 61.196 67.705 72.358

Tot. generale

Riteniamo che per latitanti si intendano in questo caso i latitanti per reati comuni. Per quanto riguarda le diserzioni in Sicilia si 488

potrebbe anche pensare che esse costituissero una forma di protesta indiretta contro alcuni provvedimenti disciplinari adottati nel 1917 proprio nei confronti dei reparti composti da soldati siciliani. Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 32-33 (seduta del 22 giugno 1917); Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 368 e A. GATTI , Caporetto, cit., p. 87 (alla data del 7 giugno 1917).← 77

78

Cfr. la lettera di Cadorna al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Guerra in data 3 novembre 1917, n. 71534 in ACS, Presidenza, b. 102, f. 40.← Cfr. infatti il decreto 24 aprile 1918, n. 536.←

79

Dati ricavati dalla lettera di Cadorna citata alla nota 77. Fra i disertori riparati all’estero, in paese neutrale o alleato dell’Italia (poche centinaia in tutto), alcuni appartenevano a movimenti anarchici e socialisti. Molti di essi, che si trovavano in Svizzera, chiesero dopo Caporetto di tornare a combattere e non furono respinti. Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni, cit., pp. 201-04. Cfr. inoltre ACS, UCI, b. 41, f. 827 (Diserzioni di soldati italiani e renitenti); Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 492; O. CIMA , Milano durante la guerra, cit., p. 238; L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., p. 164.←

80

Cfr. Carte Lombardo-Radice (rapporto dell’ufficiale di collegamento [G. Lombardo-Radice] al Comandante del Genio del V corpo d’armata in data 30 gennaio 1918).←

81

Si noti fra l’altro che il rapporto dei carabinieri da noi già citato alla nota 76 indicava ben 4.708 «disertori emigrati all’estero». La cifra piuttosto elevata fa sorgere il dubbio che essa si riferisse a militari emigrati prima della «diserzione», che riguardasse cioè coloro i quali, dopo aver compiuto il 489

servizio di leva prima della guerra, avevano emigrato senza rispondere al successivo richiamo.← 82

Cfr. MINISTERO DELLA GUERRA, UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, La forza dell’esercito, cit., pp. 184-85.←

83

Cfr. ACS, Tribunale Supremo, Atti diversi, b. Q (Comando supremo, Censimento dei disertori latitanti al 1° ottobre 1917). Ringraziamo l’amico Alberto Monticone per averci cortesemente segnalato questo documento.←

84

Dati tratti da MINISTERO DELLA GU E R R A , UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, La forza dell’esercito, cit., pp. XXII-XXIII.←

85

F. COLETTI , I renitenti italiani in America, in «Corriere della Sera» 24 gennaio 1918, ripubblicato in F. COLETTI , Studi sulla popolazione italiana in pace e in guerra, Bari 1923, pp. 70 sgg. Si vedano le osservazioni, in merito alla questione dei mancati ritorni dagli Stati Uniti, fatte dall’on. Monti Guarnieri alla Camera dei deputati nella seduta del 18 marzo 1916, nonché E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. XVIIXVIII.←

86

Risulta inoltre che l’ambasciatore italiano a Washington autorizzò gli operai italiani aventi obblighi di leva e che lavoravano nelle industrie belliche degli Stati Uniti a non far ritorno in patria. Cfr. JUSTUS [D. MACCHI DI CELLERE] , Macchi di Cellere all’ambasciata di Washington, Memorie e testimonianze, Firenze 1920, pp. 51-52.←

87

Cfr. F. COLETTI , Studi sulla popolazione italiana in pace e in guerra, cit., p. 79 sgg.← 490

88

Ibid., p. 81.←

89

Ibid., p. 96.←

90

Ibid., p. 97.←

91

92

L’antisonniniano «Corriere della Sera» condusse alcune campagne di stampa in favore della propaganda all’estero, che tuttavia non diedero molto frutto. Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 511 sgg. Allorché, nell’aprile 1916, Ugo Ojetti, all’ufficio stampa del Comando supremo, si avvide della inescusabile negligenza del governo, scrisse che bisognava «impiccare una dozzina di persone» poiché il non far conoscere all’estero lo sforzo compiuto dall’Italia era un delitto di lesa patria. Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 257-58, e pp. 264-68, 270-72, 280-81 e 288.← Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 674, 754, 905 e 1062-63.←

93

O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., p. 167. Cfr. inoltre JUSTUS [D. MA C C H I DI CELLERE] , Macchi di Cellere all’ambasciata di Washington, cit., pp. 91-93; CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 14 e 22-25 nonché la relazione R. Gallenga Stuart sulla propaganda all’estero al presidente del Consiglio in ACS, Carte Gallenga Stuart, b. 1, f. 7. Altre notizie in CAMERA DEI DEPUTATI , Legislatura XXVI, Documento XXI, Relazione della Commissione parlamentare per le spese di guerra, vol. I, pp. 5190.←

94

Cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., p. 176 e in generale pp. 174-86.←

95

Cfr. N. BRANCACCIO , In Francia durante la guerra, Milano 1926, 491

pp. 86 sgg. e 163. Sull’atteggiamento dell’opinione pubblica francese, cfr. la lunga relazione di G.A. Borgese del marzoaprile 1917 in ACS, Carte Salandra, b. 8, f. 70; la lettera dell’ambasciatore italiano a Parigi, G. Salvago Raggi, al ministro Scialoja in data 12 febbraio 1917 in ACS, Presidenza, b. 19.11.10, f. 26 e la lettera dello stesso Salvago Raggi a Sonnino del 23 aprile 1917, ibid., b. 19.3.7, f. 72.← 96

Cfr. JUSTUS [D. MA C C H I DI CELLERE] , Macchi di Cellere alla ambasciata di Washington, cit., pp. 63 e 177-78 e F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., pp. 479 sgg.←

97

A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., p. 179. Sull’argomento cfr. inoltre O. BARIÈ , L’opinione interventista negli Stati Uniti, 1914-1917, Milano-Varese 1960, pp. 123 sgg.←

98

Cfr. A. PALMIERI , Gli italiani nell’esercito degli Stati Uniti e l’Ufficio di assicurazione contro i rischi di guerra, in «La vita italiana», 15 dicembre 1919, pp. 479-94 e G. SCHIAVO , Four Centuries of Italian-American History, New York 1954, p. 327.←

99

Cfr. G. CREEL , Our aliens, in «Everybody’s Magazine», marzo 1919, citato in A. PALMIERI , Gli italiani nell’esercito degli Stati Uniti e l’ufficio di assicurazione contro i rischi di guerra, cit., p. 481.←

100

Cfr. ACS, Presidenza, b. 19.4.1, f. 30 (Sulla questione dei richiamati americani).←

101

Cfr. R. MICHELS , Prolegomena sul patriottismo, Firenze 1933, pp. 44-49 e passim.←

102

Cfr. A. PALMIERI , Gli italiani nell’esercito degli Stati Uniti e

492

l’ufficio di assicurazione contro i rischi di guerra, cit., pp. 48384.← 103

Cfr. ibid., pp. 482 e 488. Cfr. inoltre W.F. GEPHART , Effects of the war upon insurance, with special reference to the substitution of insurance for pension, New York 1918.←

104

A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., p. 109; M. SILVESTRI , Isonzo 1917, cit., p. 57; F. MARTINI , Diario, cit., p. 866 (alla data del 26 gennaio 1917).←

105

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., p. 122.←

106

Cfr. A. FRESCURA , Diario di un imboscato, Vicenza 1919, p. 110 (alla data del 24 giugno 1916); il brano risulta soppresso nella terza edizione, Bologna 1921, alla quale abbiamo fonora fatto riferimento.←

107

Cfr. F. ZUGARO- R. RATIGLIA , Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, I servizi logistici, Roma 1929, 2 voll., vol. I, pp. 83-93.←

108

Cfr. ibid., p. 86; G. LIUZZI , I servizi logistici nella guerra, Milano 1934, pp. 122-23.←

109

Cfr. G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 185. Per i dati sulle calorie cfr. Commission sanitaire des pays alliés, Extrait des procés-verbaux des séances de la délegation permanente, Séance du 8 novembre 1917 - Alimentation des troupes, Paris 1917. Una copia è conservata in ACS, Presidenza, b. 19.4.1, f. 18 (Lagnanze sul trattamento fatto alle truppe non combattenti. Alimentazione delle truppe). Cfr. inoltre F. ZUGARO- R. RATIGLIA , Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, I servizi logistici,

493

cit., vol. I, p. 86.← 110

G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., p. 28. Subito dopo Caporetto il ministro della Guerra, gen. Alfieri, dichiarò viceversa che la deficienza di vitto era stata «una leggenda». Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI , Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 115 (seduta del 13 dicembre 1917). Inoltre nella relazione della Commissione sanitaria interalleata, citata alla nota 109, si legge che in Italia la diminuzione delle razioni aveva dato risultati addirittura «eccellenti».←

111

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 29.←

112

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 380. Secondo alcune testimonianze i soldati si lamentavano benché il vitto fosse sufficiente; cfr. infatti F. TROIANI , La coda di Minosse, cit., p. 49. Sul razionamento del pane cfr. L. EINAUDI , La condotta economica e gli effetti sociali della guerra, Bari 1933, pp. 18990.←

113

Sull’argomento cfr. V. GIUFFRIDA- G. PIETRA , Provital, Approvvigionamenti alimentari d’Italia durante la guerra 19141918, cit., pp. 164-65.←

114

Cfr. la nota 82 a p. 104.←

115

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 78 (lettera del luglio 1917).←

116

Il testo della circolare, a data 20 luglio 1917, n. 3224, è pubblicato in L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 86-87.←

117

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 171-72 (alla data del 20 agosto 1917).←

494

118

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, tav. 29.←

119

G. PAPINI , La guerra come abitudine, in «Il Resto del Carlino», 5 dicembre 1915.←

120

A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., p. 102; cfr. inoltre A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 374.←

121

Cfr. G. BONNET, L’âme du soldat, cit., p. 87.←

122

A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 413-14 (alla data del 29 novembre 1917).←

123

Così ammise il Valori. Cfr. A. VALORI , La guerra italoaustriaca, cit., pp. 371-72.←

124

A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 8.←

125

Cfr. A. FRESCURA , Diario di un imboscato, Vicenza 1919, pp. 76, 123, 236-39, 333-34 e 345-48; i brani qui citati risultano modificati nella terza edizione, Bologna 1921, alla quale facciamo di solito riferimento in queste note. A proposito di Giuseppe De Mori cfr. inoltre Q.L. BORIN , Giuseppe De Mori, corrispondente di guerra, in ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO, COMITATO DI VENEZIA , Atti del convegno regionale veneto sulla I guerra mondiale, Venezia 1968, pp. 4147.←

126

Cfr. C. ALVARO , Luigi Albertini, Roma 1925, pp. 34-35 e G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., p. 59; cfr. anche C. BATTISTI , Epistolario, cit., vol. II, p. 128.←

127

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 374.←

128

G. PREZZOLINI , Caporetto, cit., p. 59. Cfr. inoltre G. BONNET , L’âme du soldat, cit., p. 87.← 495

129

V. LENTINI , Pezzo, fuoco!, cit., p. 156.←

130

M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 206.←

131

A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., p. 108.←

132

Cfr. A. VALORI , La condotta politica della guerra, cit., pp. 197 sgg.; Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 420-21.←

133

Cfr. A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 127.←

134

Cfr. G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 56 e F. MARTINI , Diario, cit., p. 882 (alla data del 25 marzo 1917).←

135

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 65-66 (alla data del 3 giugno 1917). In Inchiesta Caporetto, vol. II, tav. 30, sono pubblicati i seguenti dati relativi all’intera durata della guerra: Morti

Feriti

Totale

314.000

896.000

1.210.000

ARTIGLIERIA

9.200

28.000

37.200

GENIO

3.900

14.600

18.500

SERVIZI

1.600

4.100

5.700

CAVALLERIA

1.000

3.400

4.400

FANTERIA

In percentuale la proporzione media annuale delle perdite, rispetto agli appartenenti a ciascun’arma, fu la seguente: Morti

Feriti

Totale

10,3

29,5

39,8

ARTIGLIERIA

1,0

3,1

4,1

GENIO

0,9

3,3

4,2

SERVIZI

0,1

0,2

0,3

FANTERIA

496

0,8

CAVALLERIA

2,7

3,5

← 136

Cfr. G. ZIBORDI , Il bosco, fenomeno di classe, in «Avanti!», 14 aprile 1917. Cfr. inoltre le statistiche riportate in MINISTERO D E L L A GU E R R A , DIREZIONE GENERALE DI SANITÀ MILITARE, Dati statistici su 30.770 invalidi di guerra, estratto dal «Giornale di medicina militare», gennaio 1920, da cui risulta che sul totale di 30.770 invalidi, 9.922 erano agricoltori, 4.233 appartenevano ad una serie di categorie comprendenti muratori, cocchieri, manovali, fabbri, meccanici ecc., e soltanto 532 erano studenti, impiegati o professionisti (tuttavia per 10.613 invalidi non veniva indicata la professione).←

137

Così si legge in Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 421.←

138

Ibid.←

139

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 61 sgg.←

140

Ibid., pp. 65-66.←

141

Cfr. U. RICCI , Il fallimento della politica annonaria, Bari 1939, p. 226.←

142

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 6364←

143

Cfr. R. DE FELICE , Ordine pubblico e orientamenti delle masse popolari italiane nella prima metà del 1917, in «Rivista storica del socialismo», settembre-dicembre 1963, pp. 480 e 488. Per il numero 32 della stessa rivista è annunciato uno studio di 497

Natalia De Stefano sull’opinione pubblica e i moti popolari in Emilia, Romagna e Toscana nel 1915-18.← 144

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 498. Nel maggio, tuttavia, quando i sussidi furono aumentati, molte donne si rifiutarono di riscuoterli, essendosi diffusa la voce che gli aumenti comportassero la continuazione della guerra per altri due anni. Cfr. R. DE FELICE , Ordine pubblico, cit., p. 483 e 491 e Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 492.←

145

Cfr. R. DE FELICE , Ordine pubblico, cit., pp. 488 sgg.←

146

Cfr. ACS, Conflagrazione europea, b. 31A. Le notizie sulle agitazioni in Campania sono state tratte da M.P. CORTI , La Grande guerra e l’opinione pubblica in Campania, tesi in storia moderna sostenuta col prof. R. De Felice, Fac. di Lettere, Università di Roma, anno accademico 1966-67.←

147

Ibid., b. 17A.←

148

Ibid., b. 17A.←

149

Ibid., b. 73A.←

150

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 94155 e passim.←

151

Cfr. ibid., pp. 40 e 155. Cfr. anche ciò che scrisse Einaudi sulle proroghe dei contratti agrari di colonia parziaria, di salariato fisso e di piccolo affitto le quali diedero ai contadini la sensazione di essere praticamente inamovibili e dunque «comproprietari» dei fondi. Cfr. L. EINAUDI , La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., pp. 19899.←

152

Cfr. R. DE FELICE , Ordine pubblico, cit., pp. 483 e 485.← 498

153

Anche Giolitti, nel novembre 1917, dichiarava che, in ogni caso, in Italia non ci sarebbe stata rivoluzione, ma «jacqueries». Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 201 (conversazione con Giolitti del 13 novembre 1917). [Jacquerie: nome dato alla rivolta dei contadini dell’Île-de-France, i cosiddetti jacques, scoppiata nel XIV secolo].←

154

La lettera di Turati alla Kuliscioff è pubblicata in R. DE FELICE , Ordine pubblico, cit., p. 472. Notizie sulle manifestazioni di quei giorni a Milano, a Sesto, nel Gallaratese e nel circondario di Monza, anche in L. ALBERTINI , Epistolario, cit., vol. II, pp. 71517.←

155

Cfr. R. DE FELICE , Ordine pubblico, cit., pp. 502-04; G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 219 e O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 124-25 (conversazione con Corradini e Vigliani del 18 maggio 1917). Sull’attività svolta dai socialisti per dissuadere le donne dal manifestare in favore della pace si vedano le parole dell’on. Dugoni riferite in F. MARTINI , Diario, cit., p. 986 (alla data del 18 settembre 1917).←

156

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 408.←

157

Cfr. i dati raccolti dall’Ufficio municipale del lavoro di Milano riportati in R. BACHI , L’Italia economica nel 1918, Città di Castello 1919, pp. 183-84.←

158

«Corriere della Sera», 30 aprile 1917, pp. 1-2 (Le donne e la guerra, a firma «Salio»).←

159

Cfr. R. DE FELICE , Ordine pubblico, cit., p. 487. Parteciparono al convegno vari deputati socialisti, tra cui Lazzari e Argentina Altobelli←

499

160

Sul massiccio ingresso delle donne nel mondo della produzione cfr. P. SPRIANO , Torino operaia nella Grande guerra, cit., pp. 202-03.←

161

Su questo argomento e sulla situazione esistente nel 1917 cfr. anche G. GERMANETTO , Memorie di un barbiere, Mosca 1943.←

162

Molte notizie sulle agitazioni operaie nel ’17 si trovano in ACS, Presidenza, b. 19.6.5 (120), f. 24 (Dimostrazioni contro la guerra e Agitazioni operaie). Fra l’altro vi è in parte conservato il «Bollettino settimanale delle agitazioni operaie» pubblicato a cura del ministero per le Armi e Munizioni.←

163

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 124 (conversazione con Corradini e Vigliani del 18 maggio 1917).←

164

Cfr. Cronaca dei fatti d’agosto, in «Lo Stato operaio», agosto 1927, p. 656. Una notevole eccitazione regnava a Torino sin dal 13 agosto, giorno in cui una delegazione socialdemocratica russa era stata acclamata al grido di «Viva Lenin» da molte migliaia di torinesi riuniti di fronte alla Camera del Lavoro.←

165

Cfr. P. SPRIANO , Torino operaia nella Grande guerra, cit., p. 237.←

166

Cfr. A. MONTICONE , Il socialismo torinese ed i fatti dell’agosto 1917 in «Rassegna storica del Risorgimento», gennaio-marzo 1958, p. 86.←

167

Cfr. P. SPRIANO , Torino operaia, cit., pp. 240-41.←

168

Cfr. ibid., p. 239.←

169

Cfr. p. 254.← 500

170

Cfr. P. SPRIANO , Torino operaia, cit., p. 216.←

171

Cfr. ibid., p. 217.←

172

Ibid., p. 220, ove è pubblicato il rapporto del prefetto di Torino del 16 luglio 1917, conservato in ACS, Conflagrazione europea, b. 31.←

173

Ibid., p. 224.←

174

M. MONTAGNANA , Ricordi di un operaio torinese, Roma 1949, 2 voll., vol. I, pp. 72-73.←

175

Cfr. P. SPRIANO , Torino operaia, cit., pp. 248-50; A. MONTICONE , Il socialismo torinese ed i fatti dell’agosto 1917, cit., pp. 95-96; A. GATTI , Caporetto, cit., p. 433; R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 131 sgg. (lettera del 13 ottobre 1917); L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., pp. 311-12; O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 167 (conversazione con Orlando del 18 settembre 1917).←

176

Cfr. R. DE FELICE , Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 338. Sull’atteggiamento degli interventisti cfr. anche G. PROCACCI , Italy: From Interventionism to Fascism, 1917-19, in «The Journal of Contemporary History», ottobre 1968, pp. 15376.←

177

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 914 (alla data del 15 maggio 1917).←

178

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, pp. 516-17.←

179

Cfr. la lettera di T. Gallarati Scotti a Bissolati del 29 novembre 1917, pubblicata in R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, 501

cit., pp. 298-99, nonché Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 14, e L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 201. Sui rapporti tra Cadorna e Bissolati all’inizio del 1917 cfr. R. COLAPIETRA , Leonida Bissolati, cit., pp. 250 e 296-97; A. GATTI , Caporetto, cit., p. 100 (alla data dell’11 giugno 1917) e R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 70 (lettera del 9 giugno 1917).← 180

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 920 sgg. e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 518.←

181

L. CADORNA , Lettere famigliari p. 205 (lettera del 12 giugno 1917 pubblicata solo parzialmente).←

182

Si veda il testo del telegramma di Cadorna in «Corriere della Sera», 27 maggio 1917, p. 2 (Un memoriale al governo del comitato milanese per la resistenza interna).←

183

Cfr. ibid., 14 settembre 1917, p. 3 (La situazione politica interna discussa da senatori, deputati e rappresentanti interventisti), e 16 settembre 1917, p. 4 (Un vibrato telegramma di Cadorna a Milano).←

184

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 221 (lettera del 17 settembre 1917 pubblicata solo parzialmente dal curatore del volume).←

185

«Il Secolo», 31 maggio 1917 (Il Governo della guerra), ripubblicato in L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 64-66.←

186

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 8.←

187

L. CADORNA , Pagine polemiche, pp. 63-64. Nel settembre Cadorna ebbe parole di vivo elogio per il «Il Secolo» ritenendo che quel giornale, più di ogni altro, gli facilitasse moralmente il grave compito del comando. Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al 502

Piave, cit., p. 119 (lettera del 17 settembre 1917).← 188

Cfr. G. SALVEMINI , Memorie e soliloqui, in Scritti sul fascismo, vol. II, Milano 1966, p. 214.←

189

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni sulla guerra, cit., p. 238 (colloquio con Giolitti del 20 dicembre 1917).←

190

Cfr. le informazioni riservate contenute in ACS, UCI, b. 31, ff. 635 e 649.←

191

Cfr. ibid.←

192

Cfr. O. DINALE , Quarant’anni di colloqui con lui, Milano 1953, pp. 84-85 e R. DE FELICE , Mussolini, il rivoluzionario, cit., pp. 348-49. Anche Treves in un discorso alla Camera dei deputati si riferì genericamente ai rapporti intercorsi tra gli interventisti e la segreteria del Comando supremo. Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, seduta del 12 luglio 1917.←

193

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., pp. 202-03.←

194

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 18 (seduta del 22 giugno 1917). Sull’argomento cfr. anche ibid., p. 26 (seduta del 23 giugno 1917).←

195

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1070-71, 1076 e 1079.←

196

Cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 206.←

197

Ibid., p. 208.←

198

Ibid., p. 223. Cfr. inoltre R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 162 (lettera del 9 novembre 1917).←

199

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 134 (conversazioni con Cadorna del 3 giugno 1917).← 503

200

L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 217 (lettera del 29 agosto 1917, pubblicata incompleta dal curatore del volume).←

201

Fouquier-Tinville era stato pubblico accusatore al tempo del Terrore.←

202

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 157-61. Il servizio informazioni aveva sedi secondarie a Milano, Udine e Berna. Sull’ordinamento del servizio informazioni cfr. ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (86), f. 10.←

203

Se ne trova conferma in L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 153.←

204

Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., p. 175.←

205

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 518 (deposizione alla Commissione d’inchiesta su Caporetto). A proposito della speciale polizia militare dipendente direttamente dal Comando supremo e dei suoi «eccessivi» interessamenti nei riguardi del mondo politico cfr. le dichiarazioni di Treves, Orlando e Grassi in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 38-40 e 58 (sedute dal 25 e 27 giugno 1917), nonché Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 515-16.←

206

Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 185-86 (seduta del 17 dicembre 1917).←

207

G.A. BORGESE , Golia, Milano 1946, p. 173.←

208

Su quelle voci cfr. L. AL D R O VA N D I MARESCOTTI , Guerra diplomatica, cit., p. 137.←

504

209

V. il testo delle lettere in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 50614.←

210

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 47.←

211

Cfr. p. 263.←

212

Lettera di Orlando a Boselli in data 18 giugno 1917, in V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 59-61. Sull’atteggiamento di Orlando cfr. anche la sua deposizione alla Commissione d’inchiesta per Caporetto, ibid., pp. 508-09 e il suo intervento in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, p. 214.←

213

Cfr. il discorso di Boselli alla seduta della Camera dei deputati del 12 settembre 1919.←

214

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 42-43.←

215

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 509-10.←

216

CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 86 (seduta del 29 giugno 1917).←

217

Cfr. G. DE ROSA , Venti anni di politica nelle carte di Camillo Corradini, in appendice a Giolitti e il fascismo, Roma 1957, p. 65.←

218

Cfr. il discorso di Boselli alla seduta della Camera dei deputati del 30 giugno 1917.←

219

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 942 (alla data del 30 giugno 1917).←

220

Sulla riunione del 28 settembre cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 63-67; CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla

505

condotta della guerra, cit., pp. 215-17 (seduta del 18 dicembre 1917); O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 220 (conversazione con Cadorna del 23 novembre 1917).← 221

Cfr. C. TREVES , Essere nella realtà, in «Critica Sociale», 1-15 marzo 1917, pp. 65-66. Sul convegno romano cfr. [F. PEDONE ], Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, Milano 1963, vol. II, pp. 267-76; A. MALATESTA , I socialisti italiani durante la Grande guerra, Milano 1926, p. 131 e L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., pp. 175 sgg. A proposito dell’atteggiamento dei riformisti durante la guerra cfr. F. MANZOTTI , Il socialismo riformista in Italia, Firenze 1965, pp. 107 sgg.←

222

Cfr. L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., pp. 197-98 e 202; A. MALATESTA , I socialisti italiani durante la Grande guerra, cit., pp. 143-44; P. SPRIANO , Torino operaia, cit., pp. 215-16.←

223

Della direzione del partito faceva parte, a quel tempo, anche l’«intransigente» Barberis.←

224

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, p. 656. La lettera è citata anche in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 508-09 (senza i nomi propri), e suscitò polemiche nell’agosto 1919, per le quali cfr. G. PINI- D. SUSMEL, Mussolini, l’uomo e l’opera, cit., vol. II, p. 25.←

225

Cfr. P. SPRIANO , Torino operaia, cit., pp. 244 e 248.←

226

Cfr. la cronaca censurata del «Grido del popolo» del 1° settembre 1917 in A. MONTICONE , Il socialismo torinese, cit., p. 85.←

227

Cfr. A. GRAMSCI , Il movimento operaio comunista torinese, in «Lo Stato operaio», agosto 1927, p. 644.← 506

228

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 165-66 (conversazione con Bissolati del 7 settembre 1917).←

229

Cfr. E. REDENTI , Studi e notizie sui salarii nelle industrie «mobilitate» in «Bollettino del comitato centrale di mobilitazione industriale», ottobre 1918, pp. 338-49. La cifra relativa al 1914 fu fornita al Redenti dall’ufficio storico del ministero per le Armi e Munizioni. Essa era stata elaborata su dati raccolti dal ministero stesso. La cifra relativa al 1917 fu invece elaborata dallo stesso Redenti su dati raccolti dal comitato centrale di mobilitazione industriale. In tale comitato il Redenti rivestiva la carica di capo del servizio trattamento economico, sociale e disciplinare delle maestranze. I dati sulle retribuzioni dei metallurgici sono in G. PRATO , Il Piemonte e gli effetti della guerra nella sua vita economica e sociale, Bari 1925, p. 132.←

230

Cfr. ISTITUTO CENTRALE DI STATISTICA, Sommario di statistiche storiche italiane (1861-1955), Roma 1958, p. 172.←

231

Cfr. R. BACHI , L’Italia economica nel 1918, cit., p. 186 nota.←

232

Cfr. G. TAGLIACARNE , Le variazioni dei salari reali negli ultimi anni, in «Rivista bancaria», agosto 1922, pp. 490-91.←

233

Cfr. ibid., p. 491. Numerose critiche ai dati della Cassa nazionale possono essere trovate nello studio di G. BALELLA , Salari, costo della vita e indennità caro-viveri, in «Rivista delle Società commerciali», 31 ottobre 1918, pp. 665-82.←

234

Cfr. R. ROMEO , Breve storia della grande industria in Italia, Bologna 1963, pp. 113-14, 225-26 e 232.←

235

Cfr. M. ABRATE , La lotta sindacale nella industrializzazione in

507

Italia (1906-1926), Milano 1967, p. 179.← 236

Sull’applicazione di quella disciplina cfr. COMITATO PER LA MOBILITAZIONE CIVILE [S. INTERLANDI ], La sorveglianza disciplinare sul personale degli stabilimenti produttori di materiale bellico durante la Grande guerra (1915-1918), Roma 1930. L’Interlandi era capo della segreteria del Comitato per la mobilitazione civile.←

237

Cfr. M. ABRATE , La lotta sindacale, cit., p. 163. Per il funzionamento dei comitati regionali cfr. anche L. EINAUDI , La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., pp. 100 sgg.←

238

Ha scritto l’Abrate che Gino Olivetti, il segretario della lega industriale piemontese, «spingeva gli imprenditori a concedere il possibile senza costringere gli operai a ricorrere all’arbitrato dei comitati di mobilitazione, e occorre dire che era ascoltato». Cfr. M. ABRATE , La lotta sindacale, cit., pp. 17778 e 193.←

239

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 412.←

240

Tutti i dati relativi ai consumi sono tratti da B. BARBERI , I consumi nel primo secolo dell’unità d’Italia (1861-1960), Milano 1961.←

241

Il Barberi ha inteso definire come consumi primari: i consumi alimentari (comprese le bevande e il tabacco), i generi di vestiario e le spese per l’abitazione in senso lato, compresi non solo gli affitti, ma anche le spese accessorie (combustibili, energia elettrica, acqua, articoli non durevoli di uso domestico); come consumi secondari: le spese per acquisto di mobili ed altri beni durevoli di uso domestico, per l’igiene e la 508

salute e per i servizi personali vari; come consumi terziari: le spese di carattere ricreativo e culturale, inclusi gli spettacoli, quelle per i trasporti e le comunicazioni, le spese per gli alberghi ed i pubblici esercizi, ed infine tutte le spese di carattere voluttuario in senso lato.← 242

Cfr. fra gli altri A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., p. 154; R. BACHI , L’Italia economica nel 1918, cit., p. IX; L. EINAUDI , La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., p. 182.←

243

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 146-52.←

244

Cfr. L. EINAUDI , La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, cit., p. 182.←

245

Cfr. S. SOMOGYI , Cento anni di bilanci familiari in Italia (18571956), in ISTITUTO GIANGIACOMO FELTRINELLI , Annali, anno II, Milano 1959.←

246

P. SPRIANO , Torino operaia, cit., p. 189.←

247

Cfr. Circolari Comando supremo, p. 85 (circolari del 4 gennaio 1917, n. 3, del 13 gennaio n. 25898 e del 10 febbraio 1917, n. 46).←

248

Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni ecc., cit., pp. 165166.←

249

Cfr. ibid., p. 167.←

250

Cfr. il discorso di Federzoni alla seduta del 16 dicembre 1917 e la risposta di Orlando in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 175 e 214; R. ALESSI ,

509

Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 85; ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, DIREZIONE GENERALE DELLA PU B B L IC A SICUREZZA, DIVISIONE AGR, anno 1917, b. 20, lettera del prefetto di Torino al ministro dell’Interno in data 21 ottobre 1917, n. 2996. Ojetti ricorda che per qualche tempo fu soppressa la distribuzione della corrispondenza, poiché era sembrato che insieme con essa pervenissero alle truppe anche manifestini «sovversivi». Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 372 (lettera dell’11 maggio 1917).← 251

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 520.←

252

Cfr. ibid., p. 478. Cfr. inoltre C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 88; G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 57. Nell’ottobre 1917 trenta giornali, «di tutti i partiti», non potevano entrare in zona di guerra; cfr. infatti L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 28. Poté accadere che i giornali proibiti giungessero ugualmente alle truppe, «talvolta in pacchi non censurati, ma il più spesso in copie isolate portate da salmieri, da automobilisti o da ferrovieri»; cfr. infatti Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 494 e CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, p. 175 e 217 (sedute del 16 e 18 dicembre 1917).←

253

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 499.←

254

Cfr. P. CACCIA-DOMINIONI , 1915-1919, cit., p. 261.←

255

Cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 28 e R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 81-82 (lettera del 23 luglio 1917).←

256

E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., p. 256; le due sentenze sono pubblicate alle pp. 243-75.← 510

257

Ibid., p. 257 e Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 478-81.←

258

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 259-62. Sul processo cfr. ibid., pp. 505-08 e 521, nonché la lettera di Pietrobelli, e la postilla di Serrati, in «Avanti!», 21 agosto 1919 (Il processo di Pradamano. Parla un condannato). Cfr. infine la lettera del servizio informazioni del Comando supremo al ministero dell’Interno in data 24 settembre 1917, n. 13005/93 in ACS, Conflagrazione europea, b. 66A.←

259

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 184, 193 e 214.←

260

G. GERMANETTO , Le memorie di un barbiere, cit., p. 46.←

261

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 468 e 494; non era dunque esatto quanto detto da Marazzi in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 137 (seduta del 14 dicembre 1917). È molto significativo che una recente antologia di testimonianze su Caporetto, quella di Mario Isnenghi, non rechi neppure una testimonianza di militari socialisti. Cfr. M. ISNENGHI , I vinti di Caporetto, Padova 1967.←

262

Cfr. Carte Vella, lettera di Treves a Vella del 17 agosto 1917.←

263

Cfr. ibid., minuta di telegramma senza data.←

264

Cfr. ibid., lettera di Lazzari a Vella del 22 agosto 1917.←

265

Cfr. ibid., lettera di Prampolini a Vella del 22 agosto 1917.←

266

Cfr. ACS, Carte Nitti, 2° vers., sc. 1; f. 1, sottof. 2 (Relazione del servizio informazioni del Comando supremo dell’8 marzo 1918). La relazione riferiva che altri due noti socialisti fiorentini, Gino Baldesi e Giulio Puliti, erano «imboscati» alle 511

officine «Galileo».← 267

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 167.←

268

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 471. Mussolini fin dall’aprile aveva dichiarato a Gasparotto che la guerra doveva assolutamente finire entro l’inverno, altrimenti non sarebbe stato possibile «contenere le masse». Gasparotto avvertì il ministro Orlando, e questi rispose di essere completamente d’accordo con Mussolini. Cfr. R. DE FELICE , Mussolini. Il rivoluzionario, cit., p. 346. E già nel mese di giugno il col. Gatti aveva annotato nel suo diario che per un’intesa stabilitasi tra nazione ed esercito, intesa «muta ma salda», la nazione aveva detto all’esercito: «Io ho fiducia in te, ti apro il più largo credito, per un grande sforzo ancora. Questo sforzo durerà se vuoi, anche tutta l’estate, anche l’autunno, ma dopo, basta». Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 81 (alla data del 6 giugno 1917).←

269

Lo Scalarini avrebbe detto: «Noi dobbiamo fare quindi fra loro [i soldati meridionali] un’opera di persuasione e di propaganda, cercando di attirarli nella nostra orbita. Intanto abbiamo cominciato col mandare dei propagandisti nel Mezzogiorno d’Italia; al fronte sono state diramate in gran copia circolari ad hoc agli organizzatori, i quali hanno il compito di istruire le nuove reclute del socialismo e di condurle alla nostra fede». Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3, p. 656.←

270

Lo Scalarini avrebbe infatti precisato: «Noi siamo convinti di avere con noi al momento opportuno tutti gli anarchici e i repubblicani sedicenti interventisti, perché se dissentiamo 512

nella scelta dei mezzi, le nostre idealità finali collimano perfettamente. Se i dirigenti, tipo De Ambris, Mussolini e Pirolini, non ci seguiranno, tanto meglio. I gregari sono stati nutriti di idee rivoluzionarie e li getteranno a mare per scendere in lizza al nostro fianco. Così dividerà la nostra idealità la borghesia media, che la guerra ha fortemente dissestata». Ibid.← 271

Questa era l’opinione anche di Orlando. Cfr. infatti F. MARTINI , Diario, cit., pp. 972 e 1025 (alle date del 17 giugno e 30 ottobre 1917).←

272

Cfr. la prefazione di A. MONTICONE in A. GATTI , Caporetto, cit., pp. XLIV-XLV, nonché quanto scrisse lo stesso Gatti, ibid., pp. 228 e 244 (alle date del 6 settembre e fine settembre 1917).←

273

Cfr. infatti «Avanti!» (ed. torinese) del 5 febbraio 1917, p. 1 (Ed ora?) e del 6 febbraio 1917, p. 1 (I tedeschi d’America). In quest’ultima nota si poté leggere fra l’altro: «Una delle principali ragioni che fanno ritenere poco probabile una guerra effettiva fra la Germania e gli Stati Uniti si è il fatto che nella grande repubblica stellata vivono parecchi milioni di tedeschi».←

274

Cfr. p. 277.←

275

Un dibattito sull’urgenza di una nuova legislazione sociale in favore del proletariato come conseguenza dell’apporto recato da esso alla guerra, nacque in Italia già prima della rivoluzione russa del febbraio. Cfr. infatti in «Avanti!» (ed. torinese), 5 gennaio 1917, p. 1 (Lusinghe). Sulla eco avuta in Italia dagli avvenimenti russi cfr. L. CORTESI , Note sulle correnti del PSI nel 1917 di fronte alla rivoluzione russa, in «Movimento operaio e socialista», luglio-dicembre 1968, pp. 139-218.← 513

276

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 8385; R. DE FELICE , Mussolini. Il rivoluzionario, cit., p. 348; L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., pp. 184-85.←

277

F. MARTINI , Diario, cit., p. 907 (alla data del 29 aprile 1917)←

278

ACS, UCI, b. 31, f. 649, 4 luglio 1917 (Notizie militari).←

279

Cfr. M. PANTALEONI , La fine provvisoria di un’epopea, Bari 1919, p. 92.←

280

Cfr. infatti R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 75 (lettera del 29 giugno 1917). Altre notizie sugli echi della rivoluzione russa in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 463-64 e 471 e E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., p. 284.←

281

Cfr. F. MEDA , I cattolici italiani nella guerra, Milano 1928, pp. 9-10.←

282

Cfr. «Avanti!» (ed. torinese), 28 aprile 1917, p. 1 (I preti nell’imbarazzo).←

283

Dalle dichiarazioni di «un autorevole rappresentante del partito cattolico». Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 501-02.←

284

Ibid. Cfr. inoltre A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., p. 7.←

285

Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO , Italia e Santa Sede dalla Grande guerra alla conciliazione, Bari 1966, pp. 24-33.←

286

Cfr. A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., pp. 71 sgg.←

287

Cfr. Circolari Comando supremo, p. 85, circolare n. 25898.←

288

Sull’argomento cfr. A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., pp. 7071 e F. FONTANA , Croce ed armi, cit., pp. 44-45; si vedano inoltre le numerose notizie pubblicate in «Il prete al campo» del 1916 514

e del 1917.← 289

F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 44.←

290

Ma sappiamo che una di queste immagini fu consegnata anche allo scettico e miscredente bersagliere Mussolini, cfr. B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 104 (alla data del 30 dicembre 1916 dove è anche riportato il testo della consacrazione).←

291

«Il prete al campo», 15 gennaio 1917, p. 27 (La consacrazione dei soldati al S. Cuore).←

292

A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., p. 72.←

293

Cfr. ibid., p. 73.←

294

Cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 45; A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit.,p. 74.←

295

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 387.←

296

G. DE ROSSI , Il rovescio della medaglia, in «Il prete al campo», 1° luglio 1916, p. 193.←

297

DON PIRRO [SCAVIZZI] , Una lettera per… molti, ibid., 1° febbraio 1917, p. 43.←

298

G. DE ROSSI , Molte lettere per… una, ibid., 15 febbraio 1917, p. 57.←

299

Cfr. pp. 136 sgg.←

300

Cfr. F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 47. Cfr. anche B. MUSSOLINI , Il mio diario di guerra, cit., p. 110 (alla data del 18 febbraio 1917).←

301

E. LORENZINI , La guerra e i preti soldati, cit., p. 68.← 515

302

Ibid., pp. 68-69.←

303

Cfr. A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., p. 75; G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, pp. 259-61. Nel maggio 1917 anche Federzoni fu fischiato dalle truppe. Cfr. L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., pp. 27 e 335.←

304

Cfr. A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., p. 75 e F. FONTANA , Croce ed armi, cit., p. 47.←

305

G. DE ROSSI , Che cosa dobbiamo predicare?, in «Il prete al campo», 15 luglio 1917, pp. 189-90.←

306

Ibid., p. 190.←

307

Cfr. L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 135.←

308

Cfr. G. DALLA TORRE, Memorie, Milano 1965, pp. 57-58.←

309

Cfr. T. GALLARATI SCOTTI, Idee e orientamenti politici e religiosi al Comando supremo, cit., p. 514.←

310

Ibid. Cfr. anche le dichiarazioni di Cadorna in Inchiesta Caporetto, vol. II, 464.←

311

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 95-96 (lettera del 18 agosto 1917); L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 134.←

312

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 263.←

313

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 205 (alla data del 31 agosto 1917).←

314

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. I, p. 263.←

315

Cfr. p. 127.←

516

316

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 467.←

317

L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 135.←

318

Cfr. G. DE ROSSI , La parola del papa, in «Il prete al campo», 1° luglio 1917, p. 227.←

517

VI

La battaglia di Caporetto: cause e svolgimento

1. Stato d’animo delle truppe e dei comandi italiani alla vigilia della battaglia – 2. La sorpresa – 3. La nuova tattica – 4. I successi dell’«infiltrazione» sui vari fronti – 5. Le esperienze di Rommel – 6. Lo smarrimento dei comandi: Badoglio e la Commissione di inchiesta – 7. Lo sbandamento delle truppe – 8. Le interpretazioni «moralistiche» di Caporetto – 9. Giustizia sommaria – 10. Il generale Graziani e il suo plotone di esecuzione – 11. L’impreparazione alla ritirata e i problemi del traffico – 12. L’esonero di Cadorna 1. Nel 1917 e nell’immediato dopoguerra gli interventisti e i neutralisti, i «cadorniani» e gli «anticadorniani», con motivazioni assai spesso contrastanti, si trovarono quasi sempre d’accordo nel dire che la causa principale della sconfitta di Caporetto doveva essere ricercata in un cedimento morale dei combattenti. In seguito, esaminando con maggiore serenità e ricchezza di documentazione gli avvenimenti del ’17, la storiografia ha rovesciato tale interpretazione affermando che la sconfitta fu determinata da cause essenzialmente militari. 1 Un’interpretazione, questa, secondo noi assai più corrispondente 518

alla realtà e che nuovi documenti e nuove riflessioni continuano a suffragare. Prima di esaminare le cause militari di Caporetto vorremmo inoltre sottolineare che, all’immediata vigilia di quei drammatici avvenimenti, lo stato d’animo delle truppe dava ai comandi preoccupazioni assai minori che non durante l’estate, alla vigilia della Bainsizza. Alcuni dati, molto significativi a questo proposito, possono essere tratti dalle memorie dello stesso generale Cadorna. E anzitutto che, dopo l’agosto, non si erano più verificati quei gravi atti di indisciplina collettiva per i quali il comandante supremo aveva ritenuto opportuno scrivere al presidente del Consiglio: alla vigilia della battaglia Cadorna conservava soltanto «l’amaro ricordo» dei gravi fatti accaduti tra il maggio e l’agosto. 2 Il generale precisò anzi, che le «penose impressioni», dalle quali era nata la sua protesta contro la politica interna del governo, «si erano in parte attenuate dopo di aver constatato il morale piuttosto elevato che aveva quasi ovunque animato le truppe durante l’offensiva dell’agosto sulla Bainsizza e sul Carso». 3 Il 19 ottobre, cinque giorni prima di Caporetto, il Comando supremo volle direttamente accertarsi dello spirito delle truppe presso i corpi d’armata contro i quali fu poi sferrato l’attacco nemico. I colonnelli Calcagno e Testa furono inviati presso i comandi del XXVII e IV corpo d’armata per assumere informazioni. Nel rapporto del col. Calcagno si lesse che il gen. Badoglio, comandante del XXVII corpo: «Era soddisfatto dello stato morale delle truppe. Nei soldati l’idea che avrebbero avuto di fronte i germanici, pareva avesse rianimato il loro spirito combattivo». 4 Nel rapporto del col. Testa si lesse che anche il gen. Cavaciocchi, comandante del IV corpo, aveva fiducia nei suoi soldati:

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«Condizioni morali: in linea di massima soddisfacenti; nessun grave avvenimento di carattere disciplinare; pochissime le diserzioni al nemico. Diserzioni all’interno in misura diversa, a seconda dei reparti e del reclutamento di essi; numero complessivo non allarmante, né sintomatico; molti casi ritenuti di diserzione, si venivano giustificando più tardi.» 5 Non ancora completamente soddisfatto di queste informazioni, Cadorna si recò personalmente il 22 e il 23 ottobre pressi i comandi dei due sopra citati corpi d’armata. Tanto il gen. Cavaciocchi, quanto il gen. Badoglio continuarono a fornire informazioni rassicuranti. 6 Le truppe, in generale, erano stanche e provate, per effetto della lunga permanenza nelle trincee e delle sanguinose battaglie fino ad allora combattute, ed erano angosciate all’idea di un nuovo anno di guerra. Amendola recava nel Paese notizie poco liete sullo spirito dei combattenti, e Soffici visitando i reparti della seconda armata ne trovava di avviliti e mal ridotti. 7 Ma i comandi, nel riferire sulle condizioni dei soldati, davano per scontati gli elementi negativi che erano ormai noti a tutti, dal comandante supremo all’ultimo degli ufficiali. Ognuno sapeva che le truppe erano stanche e provate, che i turni di trincea non si svolgevano regolarmente, che esistevano cento diverse ragioni di malcontento. Ma tutti sapevano che anche i soldati austriaci erano stanchi, affamati e scontenti come e probabilmente più degli italiani. Allorché, in quei giorni di ottobre, i comandi parlavano di «morale soddisfacente», di «fiducia nel comportamento delle truppe», si riferivano a quelle che erano le condizioni generali del 1917. Sembrava un sintomo già molto confortante che l’indisciplina delle truppe non creasse seri imbarazzi e che nel settembre i reati fossero diminuiti rispetto ai 520

mesi precedenti. 8 Lo stesso gen. Cavaciocchi, in una memoria scritta in epoca successiva alla battaglia, confermò che le buone informazioni da lui fornite il 19 ottobre erano state date «secondo coscienza», poiché egli stesso le aveva dedotte «dallo scarso numero delle gravi mancanze disciplinari, dalla regolarità del servizio, dalle sentenze del tribunale e specialmente dal fatto che il numero mensile delle diserzioni in tutto il corpo d’armata, la cui forza a metà di ottobre ascendeva ad oltre 82.000 uomini, non superava quello di un solo reggimento del Carso». 9 Nell’ottobre del ’17, infine, la relativa tranquillità delle truppe trovò una giustificazione (e forse la sua giustificazione principale) in un fatto che i comandi furono poi restii a ricordare: tutto l’esercito, da Cadorna all’ultimo dei fanti, era convinto infatti che sul fronte non sarebbe accaduto più nulla di importante fino alla primavera del 1918. Alla fine di ogni autunno – lo abbiamo già osservato – la guerra in certo qual modo si fermava, per poi ricominciare nella primavera con lo sciogliersi delle nevi. Nell’ottobre 1917 tutti credevano che la consueta pausa stagionale fosse già iniziata. Quindici giorni prima di Caporetto, Omodeo scriveva alla moglie parole che bene esprimevano lo stato d’animo di migliaia di altri combattenti: «La guerra comincia a risentire il languore invernale, prematuramente quest’anno. Ma, d’altro canto, un’azione isolata di noi italiani non conviene. Del resto, se siamo stanchi noi, gli austriaci lo son di più.» 10 Il sintomo più preciso della stasi delle operazioni era dato dalla partenza dei primi contingenti di truppe per la licenza invernale. Il 20 ottobre circa 120.000 militari dell’esercito mobilitato si trovavano in licenza e i comandi avevano voluto compiere anche un atto riparatore facendo partire per primi quei siciliani ai quali, 521

in passato, era stato negato di rivedere la famiglia per ragioni disciplinari. Le brigate Enna e Caltanissetta del IV corpo d’armata, che presidiava la zona del fronte attraverso la quale passarono gli austro-tedeschi, risultavano «depauperate numericamente in misura anormale», perché il Comando supremo aveva appunto ordinato di intensificare le partenze dei militari siciliani. 11 Ma il giorno della battaglia anche il 125° fanteria, appartenente a quella 19° divisione del XXVII che fu anch’essa travolta nelle prime ore, aveva circa 500 uomini in licenza. 12 Allorché, improvvisa, giunse l’offensiva nemica, gli italiani furono sorpresi in quella fase di «smobilitazione degli animi» che contrassegnava l’inizio di ogni inverno. 2. Viene detto di solito che l’offensiva austro-tedesca del 24 ottobre era attesa dai comandi italiani, ma si tratta di una affermazione sostanzialmente inesatta: fino all’ultimo momento quei comandi non vollero credere all’offensiva nemica ed in tale errore di previsione va ricercata la spiegazione di tutto quanto fu compiuto, o meglio non fu compiuto, nel periodo precedente la battaglia. Molti storici sostengono che fra il settembre e l’ottobre, in previsione dell’attacco nemico, i reparti della II armata si schierarono secondo il piano «controffensivo» del gen. Capello. La verità fu invece che tra l’agosto e l’ottobre le truppe della II armata rimasero più o meno ferme, secondo lo schieramento da esse raggiunto dopo l’operazione della Bainsizza e i contrattacchi austriaci. Per circa due mesi, nel settembre-ottobre, furono impartite direttive generiche, spostate talune unità, compiuti alcuni lavori. Ma non ci fu alcuna preparazione alla battaglia. Ha pertanto ragione il Faldella quando scrive che «Capello non organizzò la difesa ad oltranza e non organizzò la controffensiva. Parlò di controffensiva in tutte le riunioni dei comandanti di 522

corpo d’armata, ma non diede mai disposizioni esecutive. […] Il famoso dissidio Cadorna-Capello fu dunque esclusivamente concettuale. Non ebbe conseguenze, e perciò fu di importanza trascurabile». 13 Il 24 ottobre non esisteva un piano generale di difesa perché, nonostante tutto, i comandi italiani continuavano a credere che le voci di offensiva nemica facessero parte di un bluff. Vaghe voci di preparativi austriaci pervennero ai comandi italiani fin dai primi di settembre. Il giorno 14 quelle voci acquistarono maggior consistenza. 14 Il 18 settembre Cadorna ordinò all’esercito di porsi sulla difensiva, poiché era probabile «un serio attacco» del nemico. Il comandante supremo si era dunque reso conto della situazione? La relazione recentemente pubblicata dall’Ufficio storico del ministero della Difesa lo nega esplicitamente. Cadorna non credeva ad un serio attacco nemico, ma ordinava la difensiva al solo scopo di risparmiare le forze in previsione dell’offensiva che sarebbe stata sferrata dall’esercito italiano nella primavera 1918. 15 Quelle voci di preparativi nemici erano servite a Cadorna come pretesto per giustificare di fronte agli anglo-francesi l’inazione italiana. 16 Altre informazioni, nelle quali si parlava anche di partecipazione germanica all’offensiva nemica in preparazione, continuarono ad essere raccolte nella seconda quindicina di settembre, ma verso di esse il Comando supremo restava molto scettico, tanto è vero che il 4 ottobre Cadorna decideva di trasferirsi per alcune settimane alla Villa Camerini (Vicenza). Da Vicenza Cadorna si sarebbe mosso per ispezionare soltanto il fronte trentino e mai quello isontino: in pratica la sua residenza in villa costituiva la vacanza, la «licenza», del comandante supremo. 17 Il col. Gatti annotava fiducioso nel suo diario:

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«Il Capo è dunque in campagna, a Villa Camerini. 4 ottobre: la partita, per quest’anno, pare che debba essere finita. Almeno, queste sono le nostre previsioni. Mi dice il Capo: “Adesso sto una quindicina di giorni a Vicenza, verso il 20 tornerò. Vedremo che cosa farà il nemico; metteremo un po’ d’ordine alle cose, poi prenderemo i quartieri d’inverno. Allora, cominceremo a rivedere il lavoro della storia [Gatti era lo storico ufficiale del Comando supremo]. Passeremo così l’inverno”.» 18 Cadorna era erroneamente persuaso che i tedeschi non sarebbero mai intervenuti sul fronte italiano finché Trieste non fosse stata davvero minacciata: per questa ragione aveva deciso di attaccare in direzione di Trieste soltanto nella primavera del ’18, quando gli anglo-francesi e gli americani sarebbero stati in grado di tenere a bada l’intero esercito germanico. 19 Sentiva insomma di poter partire per la sua «vacanza» con la coscienza tranquilla. L’atmosfera di smobilitazione ad Udine era tale che anche Alessi chiedeva in quei giorni al suo direttore di essere mandato «in giro per il mondo», in Spagna per esempio, a fare qualche corrispondenza interessante. 20 L’11 ottobre lo stesso Alessi insisteva col precisare che l’intenzione del Comando italiano restava quella di «non muoversi per lungo tempo»: Capello prevedeva qualche colpo offensivo nemico limitato alla Bainsizza, ma altre notizie attestavano che gli austriaci avrebbero continuato la guerra soltanto «per legittima difesa»: «Ritengo» concludeva Alessi «che si debbano escludere offensive austriache in grande stile. Tutt’al più avremo dei colpi parziali, qua e là, fino alla primavera. Restar qui, senza far niente, o facendo cose di scarso 524

interesse, sarà una pena per me […]. Io penso ch’Ella potrebbe, durante l’inverno, mandarmi da qualche parte.» 21 Quello stesso giorno il gen. Cadorna, da Villa Camerini, scriveva una breve ma importantissima lettera al ministro Orlando, il quale gli aveva segnalato – con talune riserve – le voci di offensiva nemica pervenute anche a Roma: «Le sono molto grato» scrisse Cadorna a Orlando «per le notizie che mi ha favorito colla preg.ma sua del 9. Le notizie che io pure ho ricevute negli ultimi giorni, risultanti dagli interrogatori di prigionieri e da altre fonti, confermerebbero i propositi offensivi austriaci contro la II Armata, e pare siano giunte batterie ed anche truppe germaniche. Su queste ultime io ho però i miei riveriti dubbi. Malgrado tutto, io non sono alieno dal credere ad un bluff, nei quali i nostri nemici sono maestri, e vedo con piacere che anche Lei non lo esclude. Ciò non toglie che io non dovessi dare e non abbia dato tutti gli ordini per far fronte ad un attacco anche improvviso, prendendo le necessarie misure precauzionali anche sul fronte trentino, per quanto l’imminente stagione nevosa renda improbabile un attacco da questa parte.» 22 La lettera avrebbe potuto costituire un capo di accusa contro Cadorna al momento dell’inchiesta su Caporetto; ma, a quanto ci risulta, essa rimase sempre sepolta nell’archivio privato di Vittorio Emanuele Orlando, probabilmente perché dalle parole del generale risultava che lo stesso ministro si era dichiarato scettico circa l’offensiva nemica. 525

Pochi giorni più tardi, il 13 ottobre, un pro-memoria dell’Ufficio situazione del Comando supremo precisò finalmente che un’offensiva nemica nel settore Tolmino-Monte Santo dovesse considerarsi «molto probabile e prossima». 23 Ma Cadorna non se ne preoccupò e restò a Villa Camerini, perché sapeva che la seconda armata possedeva forze in abbondanza, e perché – come ha scritto Piero Pieri – egli interpretava «le notizie che via via gli giungevano attraverso la convinzione ormai radicata: l’offensiva autunnale era illogica, non doveva quindi rappresentare uno sforzo nemico davvero poderoso!». 24 Fra l’altro si sapeva poco o nulla sulla presenza di truppe tedesche. I comandi cominciavano a parlarne, ma per minimizzarne l’importanza. Già il 10 ottobre Badoglio aveva dichiarato ai comandanti delle sue divisioni: «Non è certo da truppe tedesche abituate alle ondulazioni delle Fiandre che dobbiamo temere grandi cose sullo Jeza; avremo dei “berretti fasciati di rosso” fra i prigionieri e null’altro.» 25 Il 14 e il 16 ottobre i generali Cavaciocchi e Capello facevano ai loro subordinati discorsi analoghi. «Il soldato tedesco è più stanco e più logoro del nostro» diceva Cavaciocchi. 26 «Pare che vogliano attaccarmi» soggiungeva Capello «ed io non domando di meglio. Vuol dire che prenderò anche dei tedeschi per la mia collezione di prigionieri, e cercheremo di pigliarne molti.» 27 Capello, tuttavia, responsabile dell’armata minacciata, cominciava ad essere inquieto e il 16 ottobre faceva pervenire a Cadorna un pro-memoria a mezzo del col. Cavallero, nel quale dichiarava che il nemico lo avrebbe attaccato probabilmente verso la fine del mese. 28 Anche Vittorio Emanuele III, il 15 ottobre, comunicava al Comando supremo di avere appreso «dal 526

consueto informatore» (non meglio indicato) che il 17 ottobre gli austriaci avrebbero attaccato a nord di Gorizia. 29 Il giorno 16 Rino Alessi spiegava tuttavia al suo direttore quanta incredulità regnasse ancora negli uffici di Udine: «Qui si parla di un’offensiva austriaca sull’altipiano di Bainsizza. Capello ci crede, il Comando supremo no». 30 Anche le truppe e i comandi che dipendevano dal gen. Capello restavano increduli. Il 17 ottobre, infatti, il generale inviava un ufficiale ad ispezionare quattro corpi d’armata e lo vedeva ritornare tutto sereno e fidente: «Ho trovato uno spirito elevatissimo,» riferiva l’ufficiale «tutti di buon umore, tutti tranquilli! […] Si dice che gli austriaci non penseranno nemmeno di attaccarci». 31 Il giorno seguente Capello convocava i generali a lui subordinati, tra i quali Badoglio e Cavaciocchi, per cominciare a spiegare loro che era più prudente non abbandonarsi ai facili ottimismi e comportarsi viceversa come se il nemico minacciasse «un’offensiva in grande stile». I tedeschi, insisteva col dire Capello, non valevano più degli austriaci e forse la loro presenza indicava che l’Austria era agli estremi: «È evidente» soggiungeva però «che la Germania non darebbe la sua collaborazione ad un’operazione mal preparata e che non si prefigga di raggiungere importanti obiettivi.» 32 Finalmente, ma era ormai il giorno 19, Cadorna decideva di lasciare Villa Camerini e di tornare a Udine. «Ha abbreviato la sua permanenza per le piogge» annotava Gatti nel diario, ripetendo ciò che veniva detto negli ambienti del Comando. 33 Cadorna convocò quel giorno stesso Capello. Questi era ammalato di nefrite e giunse a Udine febbricitante e senza forze. Cadorna si dimostrò cordialissimo, si interessò alla salute del suo 527

interlocutore e gli consegnò un’alta onorificenza. Parlarono delle misure da adottare: fino a quel momento Capello aveva lasciato la sua armata secondo lo schieramento raggiunto al termine della battaglia della Bainsizza, pretendendo che esso fosse uno schieramento atto alla «controffensiva». Cadorna ordinò a Capello di modificare quello schieramento in modo da renderlo atto alla «difensiva», e il comandante della II armata non fece obbiezioni. 34 Tutti e due i generali erano ben lontani dall’immaginare l’offensiva nemica così vicina e così poderosa come poi essa fu. Infatti: a) Capello, volendo farsi curare a Padova, si sarebbe assentato per alcuni giorni; ricevette da Cadorna il buon viaggio ed i più caldi auguri. L’intesa fu che egli sarebbe tornato al suo posto al primo accenno di inizio dell’offensiva nemica. L’indomani Capello partì per Padova. 35 b) Cadorna scrisse il 20 ottobre al predetto generale una lettera in cui partì dalla «ipotesi di una prossima offensiva nemica», passando poi a parlare di un eventuale «sforzo imponente degli Imperi Centrali» contro l’Italia «nel venturo anno»: dimostrando in tal modo di non credere che quello sforzo imponente fosse già in atto. 36 c) Il passaggio dallo schieramento in atto a quello difensivo richiedeva un consistente spostamento delle forze della II armata, per completare il quale erano necessarie molte giornate, se non addirittura alcune settimane. Il solo trasporto delle artiglierie pesanti e delle relative munizioni in linee più arretrate costituiva un’operazione molto complessa, che richiedeva lungo tempo per essere portata a termine (specialmente in un’epoca in cui la motorizzazione era assai scarsa, le strade risultavano poco praticabili, e molte operazioni dovevano essere compiute a braccia).

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Il 21 ottobre, quando mancavano ormai appena 72 ore all’inizio della battaglia, un ufficiale ed un soldato boemi e due ufficiali romeni disertarono dall’esercito austro-ungarico per recare agli italiani precise notizie sulla minaccia incombente. I due romeni, in particolare, erano al corrente del piano d’attacco per il settore del Vodil, riguardo al quale furono in grado di fornire preziose notizie: le dichiarazioni dei quattro suscitarono notevole impressione, ma sembrarono vanterie e non furono interamente credute. 37 Ciò che invece provocò la maggiore impressione tra i comandi e che per la prima volta diede ad essi la sensazione che qualcosa di assolutamente imprevisto stesse per accadere furono i tiri di inquadramento eseguiti, nella mattinata del 21, da alcune batterie nemiche. Ardengo Soffici, che si trovava a Cormons presso il comando della II armata, si turbò sentendo che quei colpi erano tanto diversi dai soliti: giungevano silenziosamente, come a tradimento, senza il consueto sibilo, e poi scoppiavano con un boato fino ad allora mai udito. Il Comando pensò – erroneamente – che l’indomani avrebbe avuto inizio il bombardamento che solitamente precedeva le offensive nemiche. 38 Al Comando supremo l’atmosfera improvvisamente mutò: Oggi,» scrisse Gatti «quasi inopinatamente per i più, anche di noi militari, si dà come assai probabile la venuta di truppe tedesche in gran copia alla nostra fronte. Voci del loro arrivo c’erano da tempo. Voci di una grande offensiva erano, più che corroborate da fatti, per alcuni corroborate da ragionamenti. […] Ma, per causa del maltempo generale, tutti i nostri 529

aviatori non hanno visto che moderato movimento nelle retrovie nemiche. Di tedeschi, poi, non si è visto altro che un annegato, pioniere, nell’Isonzo. Inoltre, il continuo spostarsi della voce di offensiva, che si diceva fissata per il 12 ottobre, poi per il 19 e non viene mai, aveva fatto dubitare, o sorridere della cosa. A tavola [cioè alla mensa del Comando supremo] scherzavamo, dicendoci: quando verrà quest’offensiva?» 39 L’indomani, 22 ottobre, Capello fu richiamato da Padova (e riprese il suo posto di comando soltanto alle 2,30 del mattino del 23 ottobre, 24 ore prima della battaglia). 40 In assenza di Capello, Cadorna si occupò dei preparativi di difesa. I disertori romeni avevano precisato con molta esattezza che l’attacco austrotedesco sarebbe stato condotto in direzione di Plezzo, presidiato dal IV corpo del gen. Cavaciocchi. Cadorna si recò sul luogo per accertarsi di ciò che stava accadendo, ma espresse il suo scetticismo: «Che il nemico voglia cacciarsi nella conca di Plezzo,» dichiarò a Cavaciocchi e ad altri ufficiali «io non credo. E poi, vengano pure! Li prenderemo prigionieri e io li manderò a passeggiare a Milano per farli vedere!» 41 Il 23 mattina Cadorna ebbe un colloquio con il gen. Bongiovanni (comandante del VII corpo) e con il gen. Badoglio. Domandò a quest’ultimo perché certe batterie non erano state ancora spostate: «Badoglio addusse come scusa il tempo necessario per tale spostamento con tutte le munizioni. “D’altra parte,” 530

disse “non mi pare probabile un imminente attacco nemico, perché non si è vista una notevole preparazione di tiro d’artiglieria” e si diffuse a dire le ragioni per cui non credeva che ci sarebbe stato l’attacco.» 42 Nel 1933 il gen. Caviglia rievocò quest’episodio in un colloquio con Vittorio Emanuele III. Ciò che il re e Caviglia si dissero costituisce una ulteriore e precisa testimonianza atta a convalidare la nostra tesi: «Quando gli dissi [al re] che Cadorna, attaccandosi all’asserzione di Badoglio che il nemico non aveva fatto con l’artiglieria nessuna preparazione che giustificasse il timore di un attacco, pareva aver ricevuto dell’ossigeno per provare che l’attacco non era probabile (era la mattina del 23 ottobre, la vigilia dell’attacco) il re disse: “Già, Cadorna era così. Vi erano degli ufficiali disonesti che lo sapevano e ne assecondavano le idee, invece di disingannarlo, per averne vantaggi o per evitare rimproveri o appunti”.» 43 Poi il re narrò a Caviglia che alla vigilia della battaglia egli si era reso conto che le batterie austriache stavano aggiustando il tiro e aveva segnalato tale fatto a Cadorna, ma questi aveva preferito non darvi importanza. 44 Vittorio Emanuele III fece un’altra rivelazione: narrò che al mattino del 24 ottobre, alle 10, egli si era recato a trovare il gen. Bongiovanni, e lo aveva trovato «con tutto il suo Comando, ignaro della battaglia, non solo, ma nello stato d’animo di chi è lontano dalla guerra, come fuori dalla zona di guerra». Su invito del re, Bongiovanni aveva telefonato a Badoglio e questi aveva dichiarato che fino ad allora «nulla di

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importante era accaduto»: a pochi chilometri gli austro-tedeschi avevano già sfondato le linee da alcune ore. 45 3. Gli austro-tedeschi sorpresero e poi travolsero gli italiani perché nella preparazione e nella conduzione della battaglia di Caporetto applicarono nuovi procedimenti tattici. Avevano già cominciato ad impiegarli con successo due mesi prima, a Riga, contro i russi. Li perfezionarono contro gli italiani, nell’ottobre 1917. Fino ad allora, infatti, tutti gli eserciti avevano tentato di fiaccare la resistenza nemica con battaglie di «logoramento» condotte normalmente su fronti molto ampi; a Caporetto gli austro-tedeschi fondarono la loro tattica sulla «sorpresa» e sull’«infiltrazione», concentrando il loro sforzo iniziale su brevissimi tratti di fronte. I procedimenti della nuova tattica possono essere così sommariamente indicati: a) Le truppe d’assalto vennero trasportate segretamente nelle zone loro assegnate, con movimenti compiuti soltanto di notte, oscurando gli alloggiamenti, occultando ogni indizio alle investigazioni aeree. Fra quelle truppe furono compresi anche i reparti di montagna del Württemberg, comandati dall’allora ventiseienne Erwin Rommel. In cinque giorni, dal 18 al 22 ottobre, Rommel ed i suoi uomini percorsero quasi sempre a piedi e di notte 63 miglia. Ogni tappa fu raggiunta prima dell’alba, «momento in cui tutti gli uomini e gli animali dovevano nascondersi nelle sistemazioni più scomode e inadeguate immaginabili». 46 Uomini e mezzi strisciarono di notte, «a poco a poco, in gruppi minuscoli, per così dire a gocce», verso le prime posizioni: di giorno il paesaggio presentò il suo solito aspetto pacifico. 47 b) I primi militari tedeschi cominciarono a giungere nella zona della battaglia un mese prima che questa avesse inizio. Quei 532

gruppi che dovettero compiere esplorazioni verso le prime linee indossarono la divisa austriaca. Reparti in divisa germanica furono avviati nel Trentino e nella zona costiera appunto per trarre in inganno i servizi d’informazione italiani. Fino all’ultimo istante Cadorna si ingannò quanto al luogo nel quale il nemico avrebbe sferrato l’attacco. 48 c) Le artiglierie austro-tedesche eseguirono prima della battaglia pochi tiri di «aggiustamento», o di «inquadramento» distribuiti in più giornate; o addirittura colpirono gli obbiettivi assegnati «senza preventivi aggiustamenti, mediante l’adozione di dati calcolati e corretti in base alle condizioni del momento (temperatura, pressione, vento, vivacità delle polveri, stato di logoramento delle bocche di fuoco)», applicando procedure introdotte a titolo sperimentale, qualche settimana prima, a Riga. 49 In tal modo suscitarono incertezza fra gli italiani circa le loro effettive intenzioni, e Badoglio anzi – come abbiamo già visto – poté rassicurare Cadorna la mattina del 23, facendogli notare che non c’era stata ancora una preparazione di artiglieria tale da giustificare il timore di un attacco. d) La preparazione di artiglieria fu breve e intensissima su una profondità di appena quattro-cinque chilometri con largo uso di proiettili a gas. Nella zona di Tolmino i tedeschi concentrarono un pezzo di artiglieria ogni 4,4 metri lineari, densità probabilmente mai raggiunta in nessuna precedente battaglia della Grande guerra. 50 Il fuoco durò soltanto cinque ore. Ebbe inizio alle 2 del mattino del 24 ottobre, calò di intensità fra le 4,30 e le 5,30 fin quasi a cessare; riprese poi violentissimo dalle 6,30 alle 8,30. 51 Mancò insomma la consueta preparazione di artiglieria, prolungata a volte per molti giorni, che dava tempo di adottare contromisure. e) Fin dall’inizio del bombardamento le artiglierie austro533

tedesche diressero il loro intensissimo fuoco non soltanto contro le prime posizioni, ma anche contro le batterie italiane. 52 Anche questo era un procedimento inconsueto sul fronte dell’Isonzo, dato che fino ad allora le artiglierie sia austriache, sia italiane avevano sempre avuto come principale bersaglio le fanterie. La sera del 23 ottobre un colonnello francese avvertì Angelo Gatti, al Comando supremo, che se sull’Isonzo ci fossero stati davvero i tedeschi, l’artiglieria italiana si sarebbe trovata per la prima volta in grave crisi: i tedeschi tiravano infatti «migliaia di colpi sulle batterie, per distruggerle», così come i francesi avevano avuto modo di imparare a loro spese. Fu soltanto nel pomeriggio del 24 che Gatti riferì questo avvertimento al gen. Cadorna e al col. Gabba: disse loro che bisognava informare di questa novità le batterie. «Cadorna e Gabba» scrisse Gatti «mi ascoltarono, poi dissero tutti e due: sì. È bene fare una circolare in questo senso.» Non sapevano ancora che da molte ore l’artiglieria italiana era stata già in gran parte perduta. 53 f) Gli austro-tedeschi impiegarono contro le batterie e le trincee italiane proiettili a gas, contro i quali non esisteva una efficace difesa. A Plezzo, dove Cadorna pensava che sarebbe stata follia per il nemico avventurarsi, un battaglione tedesco mise in funzione un migliaio di bombole contenenti fosgene. L’operazione non durò che trenta secondi, ma seicento italiani morirono in silenzio, con l’armamento intatto, il fucile al loro fianco; due telefonisti furono trovati al loro posto di lavoro con un blocco di fogli davanti, la matita in mano. 54 Il bombardamento, come già abbiamo detto, ebbe una pausa, dalle 4,30 alle 6,30, ed essa aveva lo scopo di annientare con l’azione dei gas le riserve italiane che si fossero portate sulle prime linee: «È l’inferno dopo una vertiginosa discesa nell’abisso,» scrisse il tenente Weber «è la morte sicura, per opera del 534

gas, di coloro che finora erano riusciti a sfuggirla. È la fine per quelli che stanno avanzando per turare le falle aperte nelle linee. La nebbia in mezzo alla quale essi corrono divora i loro polmoni. I disgraziati crollano a terra o sono costretti a fuggire.» 55 g) Gli austro-tedeschi, come già abbiamo accennato, non dispersero il loro sforzo lungo un vasto tratto di fronte, ma lo concentrarono su due brevissimi spazi di fondovalle a Plezzo e a Tolmino, distanti fra loro circa 25 chilometri. Plezzo e Tolmino non furono scelti a caso, ma in base a molto attente considerazioni di carattere strategico, tattico, logistico, e soprattutto perché costituivano due punti deboli dello schieramento italiano. Nell’ottobre 1917 i fondivalle erano scarsamente guarniti non solamente dalla parte italiana del fronte, ma anche da quella austriaca, perché la regola studiata sui banchi di tutte le accademie militari insegnava che fondamentale era il possesso delle cime: il possesso dei fondivalle sembrava una conseguenza automatica del dominio delle alture sovrastanti. A Caporetto questa regola fu sovvertita. 56 Cadorna, Vittorio Emanuele III e vari comandanti italiani nei primi giorni della battaglia non capirono affatto la novità della tattica avversaria: si interessarono soprattutto a ciò che stava accadendo sulle cime. 57 Rino Alessi il 25 ottobre, scrivendo da Udine e ripetendo i giudizi colà ricorrenti, dichiarò che il nemico «aveva commesso l’errore di non curarsi delle montagne». 58 Soltanto alla sera del 26 ottobre il gen. Porro fece osservare a Cadorna che probabilmente il nemico avanzava perché il fondo della valle non era difeso. 59 h) Il fuoco delle artiglierie ebbe lo scopo di aprire il varco alle fanterie: anche a queste ultime la nuova tattica assegnò compiti

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nuovi. In quegli anni, difatti, le fanterie di tutti gli eserciti solevano avanzare verso il nemico a ondate successive e su tratti di fronte relativamente ampi: se occupavano le prime linee avversarie, attendevano poi che alle loro spalle avanzassero le artiglierie e ai fianchi le altre fanterie. Erano lente nei movimenti e miravano a logorare l’avversario più che a sorprenderlo. Nell’ottobre 1917 gli austro-tedeschi passarono viceversa attraverso le due brecce di Plezzo e di Tolmino senza pretendere, in un primo momento, di far cadere ai loro fianchi lunghi tratti della linea nemica, e senza attendere l’avanzata delle artiglierie. i) I reparti di assalto austro-tedeschi erano stati addestrati ed armati con cura al fine di poter applicare la tattica dell’«infiltrazione». Mentre le fanterie italiane erano abituate soltanto alla guerra di trincea, armate e inquadrate solo per condurre attacchi frontali, condizionate da una gerarchia di comandi che le aveva private di ogni attitudine alla autonomia ed alla rapidità delle decisioni, viceversa i reparti scelti che passarono per primi attraverso i varchi di Plezzo e di Tolmino erano addestrati alla manovra, autonomi nell’armamento, e guidati da capi, anche nei gradi inferiori, istruiti per agire di propria iniziativa, essendo previsto che, dopo l’inizio della battaglia, per parecchio tempo essi non avrebbero potuto più ricevere ordini. l) Infine le riserve furono avviate non contro i punti nei quali gli italiani opponevano maggiore resistenza – come si sarebbe dovuto fare secondo le vecchie regole – ma proprio dove l’attacco progrediva e poteva essere agevolato. Colonne austro-tedesche irruppero pertanto attraverso le due brecce aperte, dilagarono oltre le prime linee, recisero le comunicazioni, colsero alle spalle i reparti italiani. 60 Una delle testimonianze più persuasive del successo riportato

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dalla tattica di infiltrazione austro-tedesca fu recata da un ufficiale italiano, e precisamente dal comandante del 155° fanteria. Dall’alto del Merzly quel comandante scorse alle sue spalle, sull’altra sponda dell’Isonzo, una colonna di parecchie centinaia di uomini che marciavano ordinatamente per quattro, senza misure di sicurezza: nessun colpo di artiglieria era diretto contro la colonna, nessun indizio di combattimento sul fondovalle. Al comandante del reggimento sembrò non potesse trattarsi di nemici, a quell’ora, in quel luogo, in quelle pacifiche condizioni. Scrutando con i binocoli attraverso la nebbia gli parve poi di intravvedere nella colonna alcuni militari con la mantellina, indumento non usato dagli austriaci, e concluse che doveva trattarsi di una colonna di prigionieri nemici, appena catturati, avviati verso le retrovie. Si ingannò. Erano le 8 del mattino del 24 ottobre, ma già grosse colonne nemiche potevano compiere indisturbate la loro manovra aggirante. 61 Alle 11 il comando del reggimento diramava l’ordine di ripiegare. Si accendevano aspri combattimenti. Una compagnia, persi gli ufficiali, si raccoglieva attorno a un aspirante sottotenente di 19 anni, Raffaele Vergombello, giunto al fronte da un giorno soltanto, e difendeva la posizione fino all’esaurimento delle munizioni e alla morte del giovane ufficiale. 62 Così cadeva il Merzly, la montagna mai interamente conquistata, che fin dal maggio 1915 aveva dato luogo a vicende tra le più tragiche, assurde ed emblematiche di tutta la guerra. 4. Poche settimane prima di Caporetto, come già sappiamo, i tedeschi avevano sbaragliato i russi a Riga, valendosi della tattica della «infiltrazione»: era stato facile attribuire la sconfitta dell’esercito russo alle precarie condizioni in cui – dopo la rivoluzione di febbraio – questo si trovava, senza sospettare l’importanza assunta nella battaglia dalla tattica avversaria. Non 537

accadde qualcosa di simile a proposito di Caporetto? Non si disse pure allora che l’esercito italiano cadeva vinto dal nemico «interno» e non da quello «esterno»? Anche i franco-britannici interpretarono Caporetto come sconfitta «morale» e restarono pertanto sorpresi e travolti quando l’esercito tedesco applicò anche contro di loro quei procedimenti tattici che aveva già impiegati con successo contro i russi e gli italiani. Soltanto nel dopoguerra il presidente del Consiglio francese, Painlevé, riconobbe che l’esercito italiano aveva conosciuto prima di quello francese e di quello inglese i perniciosi effetti dei nuovi metodi offensivi. 63 Il 21 marzo 1918 le truppe tedesche che scatenarono l’offensiva contro i britannici, in Piccardia, furono comandate non a caso dai generali von Hutier e von Below, vittoriosi rispettivamente a Riga ed a Caporetto. Le truppe della V armata britannica vennero sopraffatte, molti reparti travolti dal panico, la Somme abbandonata precipitosamente. Dopo quattro giorni di battaglia i francesi si apprestavano a difendere Parigi e il gen. Haig, comandante delle forze britanniche, pensava già che il suo compito principale fosse quello di mantenere il possesso dei porti sulla Manica. I britannici erano così abbattuti che, dopo aver rifiutato per anni di farsi comandare da un generale francese, decisero in poche ore di porsi agli ordini di Foch. Dopo due settimane di battaglia i tedeschi furono fermati, ma la V armata britannica si era ridotta da 200.000 a 20.000 uomini, aveva perso ingenti quantitativi di armi, munizioni e materiali, e si era ritirata per una profondità di circa 70 chilometri. Dopo una pausa di appena quattro giorni i tedeschi ripresero l’offensiva nelle Fiandre, in direzione del mare, tendendo ad occupare Calais e Boulogne: ancora una volta ricorsero ai procedimenti tattici che conosciamo, ed ancora una volta sorpresero l’avversario. I

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tedeschi non riuscirono a raggiungere Dunquerque, come si ripromettevano, ma inflissero un nuovo duro colpo ai britannici. Dal 21 marzo alla fine di maggio questi persero complessivamente 344.000 uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre a 1.000 cannoni e a parecchie migliaia di mitragliatrici. 64 Si poteva supporre che dopo questa dura esperienza i francobritannici avessero trovato il modo di replicare alla tattica avversaria. Ma non fu così. Il 27 maggio, infatti, i francesi – benché come gli italiani a Caporetto fossero stati informati da alcuni prigionieri nemici sui particolari dell’attacco imminente – furono colti di sorpresa e travolti dallo stesso panico che aveva già travolto i britannici due mesi prima. Senza quasi opporre resistenza persero in poche ore lo Chemin des Dames, considerato fino ad allora una inespugnabile fortezza. Il secondo giorno della battaglia Foch non volle far intervenire le riserve, ritenendo che la situazione non fosse pericolosa, e i tedeschi… si fermarono soltanto perché così stava scritto sul piano di battaglia. La sera del 28, considerato l’«inatteso» successo, decisero di proseguire l’avanzata e a gran velocità raggiunsero Chateau Thierry: in soli quattro giorni percorsero 55 chilometri. Si fermarono anche perché non disponevano più di sufficienti artiglierie e perché avevano impostato tutta la loro azione in vista di obbiettivi alquanto limitati. 65 Ai primi di giugno, sull’Oise, i tedeschi tentarono per la quarta volta la sorpresa, ruppero il fronte francese e compirono rapidi progressi verso Compiègne. Ma questa volta lo svolgimento della battaglia cominciò ad essere meno favorevole agli attaccanti: da una parte questi ultimi avevano dovuto trascurare quelle minuziose prescrizioni grazie alle quali erano sempre riusciti a dissimulare i loro preparativi di attacco; dall’altra le riserve

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francesi erano pronte ad intervenire e cominciavano ad essere ammaestrate sui nuovi procedimenti tattici. 66 Ma un vero rovesciamento della situazione ebbe luogo soltanto nel luglio allorché i francesi, appoggiati da sempre più numerosi contingenti americani, riuscirono a far fallire la quinta offensiva germanica. 67 5. In un libro pubblicato nel 1937, Erwin Rommel narrò le esperienze da lui compiute vent’anni prima, durante la battaglia di Caporetto. 68 La narrazione di Rommel è minuziosa, piena di dati e di notizie tecniche, ma riesce a fornire un’immagine assai netta della guerra; anche dei suoi aspetti avventurosi ed ambigui. Cosciente e compiaciuto delle sue doti di moderno guerriero, l’autore ci ha lasciato, in quella sua narrazione, la testimonianza più precisa di come un reparto ben addestrato e ben guidato potesse tradurre in pratica quei procedimenti tattici ai quali abbiamo accennato in queste pagine. Al mattino del 24 ottobre Rommel, che si trovava nella zona di Tolmino con un battaglione di montagna del Württemberg, fu tra i primi a muoversi all’attacco, con il compito di proteggere il fianco alle colonne in marcia sul fondovalle. Si diresse pertanto verso i reparti italiani che occupavano le alture sulla riva destra dell’Isonzo e fin dall’inizio egli ed i suoi uomini poterono dimostrare che la tattica fondata sulla sorpresa e sull’infiltrazione consentiva ottimi risultati anche in montagna. Il 25 ottobre il distaccamento Rommel si impadronì del Kolovrat e del Kuk dopo aver aggirato alle spalle le truppe che presidiavano quelle cime. Il battaglione italiano che occupava il Kolovrat, accortosi troppo tardi dell’inganno, si gettò al contrattacco quando era oramai già accerchiato e fu costretto alla resa. Gli ufficiali continuarono a difendersi fino all’ultimo

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sparando con le pistole e Rommel dovette intervenire per salvarli dalla furia vendicatrice dei suoi tedeschi. 69 Quello stesso 25 ottobre Rommel, con i suoi uomini, discese dalla cima del Kuk e raggiunse la strada Luico-Savogna, sul fondovalle, in un punto situato alle spalle delle prime linee italiane. Avrebbe dovuto risalire subito sull’opposto versante, ma si attardò sulla strada per distruggere le linee telefoniche, e mentre stava compiendo l’opera si accorse che soldati e veicoli italiani, alla spicciolata, continuavano a transitare lungo la strada senza nulla sospettare. Decise quindi di porre in agguato i suoi uomini dietro due curve e cominciò a catturare gli italiani che provenivano dalle due direzioni, radunandoli fuori della strada per non intralciare il traffico. Dopo circa un’ora le sentinelle annunciarono che stava arrivando un’intera colonna, e si trattava in effetti dei circa 2.000 bersaglieri della 4ª brigata che si ritiravano da Luico ormai occupata dal nemico. Rommel mandò un ufficiale, con la fascia bianca al braccio, a chiedere ai bersaglieri di arrendersi, ma costoro, per tutta risposta, disarmarono l’ufficiale e cominciarono a sparare. Gli uomini di Rommel, appostati sulle alture, tirarono sugli italiani con le mitragliatrici. I bersaglieri si difesero come poterono, con i soli moschetti, dal basso, allo scoperto, tutti ammassati sulla strada, in condizioni – come ammise lo stesso Rommel – di evidente inferiorità. Per due volte rifiutarono di cedere le armi, ma alla fine, decimati, furono costretti ad arrendersi. 70 Eccitati dal successo, i soldati del Württemberg salirono durante la notte sul monte Cragonza e lo conquistarono all’alba del 26 ottobre sorprendendo alle spalle la guarnigione italiana. Poi, nelle prime ore del mattino, si diressero verso il monte Matajur, presidiato dalla brigata Salerno.

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La brigata, la stessa che era stata decimata nel 1916, 71 si trovava in pessime condizioni fisiche e morali, poiché era stata fatta partire due giorni prima in fretta e furia da Bassano e soltanto da poche ore aveva raggiunto il Matajur, dopo una marcia estenuante e quando la battaglia era ormai iniziata. I due reggimenti che componevano la brigata non avevano fatto in tempo a riordinarsi che avevano già ricevuto l’ordine di ritornare indietro: non lo avevano ancora eseguito soltanto perché c’era stato un equivoco sull’ora della partenza. La confusione, la stanchezza, l’angoscia avevano finito per avvilire e stordire ufficiali e soldati. Rommel, che con i suoi uomini stava sopraggiungendo alle spalle della brigata, cominciò a scorgere, da notevole distanza, un bivacco di fanti apparentemente irresoluti e passivi, e decise pertanto di avvicinarsi lentamente ad essi, agitando un fazzoletto bianco. Gli italiani si alzarono in piedi guardando pietrificati il nemico arrivare dalla direzione opposta a quella prevista. Rommel, che aveva con sé appena un centinaio di uomini e sei mitragliatrici, esitò, ma poi si accorse che quasi tutti gli ufficiali stavano lontani dai fanti, su una forcella distante circa settecento metri, intenti ad osservare ciò che accadeva di fronte a loro e per nulla consapevoli del pericolo che sopraggiungeva alle spalle; rendendosi conto di dover tutto osare prima che quegli ufficiali fossero tornati, cominciò ad agitare il fazzoletto ed a gridare. D’improvviso una parte dei fanti presero a correre senza armi verso di lui, e chi avrebbe voluto sparare esitò, o fu travolto, mentre un ufficiale che non intendeva arrendersi venne colpito da una fucilata. I fanti circondarono Rommel gridando che la guerra era finita, lo portarono in trionfo e inneggiarono alla Germania. Rommel ordinò che i circa 1.500 prigionieri fossero condotti a Luico tenendo ben separate le

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truppe dagli ufficiali: soltanto allora questi ultimi, accorgendosi che il distaccamento tedesco era isolato e poco numeroso, cercarono di riprendere il controllo della situazione, senza tuttavia più riuscirvi. Gran parte di uno dei due reggimenti della brigata era stata in tal modo catturata, ma ad una certa distanza, coperto da alcune alture, si trovava accampato l’altro reggimento, già impegnato in combattimenti contro altri reparti austro-tedeschi. Rommel, con il suo distaccamento, aggirò di fianco quel secondo reggimento e cominciò a far sparare le sue mitragliatrici pesanti. Anche gli italiani aprirono il fuoco, ma subirono gravi perdite, così che Rommel, durante una pausa del combattimento, volle ricorrere ancora una volta al suo fazzoletto bianco. Gli italiani, sentendosi ormai accerchiati, cominciarono ad arrendersi ed i württemburghesi avanzarono lentamente finché, dietro un avvallamento, scoprirono quasi tutto il reggimento radunato, con le armi a terra; da una parte, in mezzo agli ufficiali, stava seduto il comandante, sconvolto e piangente. Rapidamente, prima che qualcuno facesse in tempo ad accorgersi della sua scarsa forza numerica, Rommel separò i 35 ufficiali dai 1.200 soldati, avviando soltanto questi ultimi verso Luico. Preferì tenere sotto diretto controllo gli ufficiali che gli apparvero «intrattabili e niente affatto disposti ad accettare la loro nuova condizione». Altri reparti, sulla cima del Matajur, continuarono invece fino all’ultimo ad opporre fiera resistenza e un’intera compagnia fu sorpresa mentre, completamente ignara di ciò che le accadeva alle spalle, stava combattendo contro le avanguardie nemiche in arrivo dal monte della Colonna. 72 Rommel affermò di aver catturato in sole 28 ore e con solo tre compagnie di württemburghesi ben 9.000 italiani (fra cui 150 ufficiali) e di aver lamentato da parte sua appena 6 morti (fra cui

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un ufficiale) e 30 feriti. Egli stesso, tuttavia, non poté fare a meno di osservare – almeno implicitamente – che il suo successo era stato in gran parte una conseguenza del panico, perché i reggimenti italiani, per nulla abituati alla tattica elastica, attaccati ai fianchi ed alle spalle, avevano ritenuto troppo presto che la loro situazione fosse senza via di uscita. 73 Il distaccamento Rommel inseguì gli italiani verso il Tagliamento, finché, ai primi di novembre, ricevette l’ordine di dirigersi a nord, su Longarone, per tagliare la strada alle truppe della IV armata in ritirata dal Cadore e dalla Carnia lungo la valle del Piave. Il 9 novembre il distaccamento si aprì, combattendo, la strada verso il Vajont. Le avanguardie, compreso Rommel, procedevano a cavallo; altri soldati avevano le biciclette. A Erto la valle cominciava a stringersi e la strada a scendere rapidissima verso il precipizio del Vajont. Cavalieri e ciclisti cominciarono a correre e superarono lungo il cammino gruppi di soldati italiani, finché giunsero ad affacciarsi sulla grande valle del Piave ed a scorgere ai piedi del Vajont l’abitato di Longarone. Rommel scrisse che lo spettacolo presentatosi davanti ai suoi occhi fu assolutamente eccezionale: migliaia di italiani si ritiravano in buon ordine nella strada di fondovalle, lungo il Piave, completamente ignari del pericolo che li minacciava dal fianco. I tedeschi scesero rapidamente verso il fondovalle e con il fuoco delle loro mitragliatrici interruppero la strada per Belluno costringendo i reparti italiani a tornare indietro verso Longarone. Furono ingaggiati aspri combattimenti durati tutto il giorno e la notte, ma al mattino del 10 i genieri italiani fecero saltare i ponti a sud di Longarone, tagliando alle truppe rimaste bloccate dall’intervento tedesco anche l’ultima speranza di raggiungere Belluno. I tedeschi catturarono circa 10.000

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prigionieri e Rommel narrò di aver udito ancora una volta gli italiani inneggiare alla Germania. 74 Quello di Longarone fu l’ultimo vistoso successo del distaccamento Rommel. Nei giorni seguenti, infatti, esso fu inviato nella zona del Grappa dove gli italiani, appoggiati dalle artiglierie, opponevano una tenace resistenza lungo un fronte saldo e continuo. I württemburghesi di Rommel non soltanto non riuscirono più a conseguire quei risultati che durante le precedenti giornate erano stati ottenuti grazie alla «sorpresa» ed al «panico», ma subirono essi stessi gravi perdite. Alla fine di dicembre, dopo essere stati decimati dalle artiglierie sul monte Tomba, e mitragliati dagli aerei italiani che volavano a bassa quota, furono ritirati definitivamente dal fronte italiano. Riattraversarono il Piave portando tristemente a spalla i caduti, e diedero un addio anche al loro comandante: perché era stato promosso. 75 6. La tattica degli austro-tedeschi fu la causa principale della disfatta di Caporetto, ma altre circostanze contribuirono a far sì che la ritirata della II armata assumesse i caratteri di una vera e propria rotta. Intendiamo riferirci fra l’altro al fatto che numerosi comandi italiani fin dalle prime ore della battaglia non controllarono più le loro truppe. Questo mancato controllo dipese in parte dal bombardamento e dalla penetrazione degli austro-tedeschi, che interruppero i collegamenti, e in parte fu conseguenza del panico che subito colse gli stessi comandi. Secondo Albertini «fu sensazione generale che tutti i comandi avessero perduto la testa» già il primo giorno della battaglia 76 e il generale austriaco Alfred Krauss dichiarò più volte che la sconfitta doveva essere attribuita essenzialmente alla crisi degli alti comandi italiani, i quali lasciarono le truppe senza guida. 77 La recente pubblicazione dell’Ufficio storico del ministero della 545

Difesa intorno agli avvenimenti di Caporetto, trattando di ciò che accadde il 24 ottobre sul fronte del XXVII corpo (Badoglio), ha brevemente accennato allo smarrimento dei capi: «Parve che tutti, a tutti i livelli di comando, pur nell’affannosa ricerca di porre riparo in qualche modo alla situazione, restassero imbrigliati nel non sapere cosa si dovesse e si potesse fare.» 78 Ma fra le carte del gen. Caviglia, è conservata una copia dattiloscritta, non datata e non firmata, riproducente il «Riassunto di quanto risulta all’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito circa le giornate di Caporetto», nella quale sono riferite notizie ben più gravi: si tratta presumibilmente della copia di una relazione ufficiosa compilata dall’Ufficio storico alcuni anni dopo l’avvento di Mussolini al potere, e mai resa pubblica. 79 «Lo sfondamento rapido oltre che a disorganizzarci, oltre ad obbligarci d’un colpo alla guerra di movimento alla quale non eravamo preparati ci fece apparire il nemico dotato di qualità superiori. Gli stessi comandi si persero d’animo. Molti anziché rimanere a guidare l’operazione più difficile d’un esercito, la ritirata, retrocedettero o per sfuggire alla prigionia o per recarsi a conferire col comando superiore o per preparare resistenze arretrate […]. Troppi comandanti si ritirarono prima delle truppe: ciò nei grandi e nei piccoli reparti. Si dovrebbe vietare a un comandante di separarsi dalla sua truppa: se crede che questa sia fatta prigioniera resti, salvo ordine superiore, sul posto e sia catturato egli stesso. A 546

prendere ordini, ad organizzare resistenze arretrate mandi ufficiali di sua fiducia, ma non manchi mai alle truppe il comandante. Anche se si dovrà cadere prigionieri lo si farà con un’altra dignità di quanto possa avvenire in reparti abbandonati.» 80 Il Valori, già nel 1920, scrisse che: «Gli ufficiali superiori e i generali, i quali per primi conobbero la situazione, disponendo di automobili si misero senz’altro in salvamento». 81 In realtà numerosi comandanti non abbandonarono mai le loro truppe, ed altri si trovarono separati da esse non per un atto di volontà, ma in conseguenza dell’immane caos esistente tra l’Isonzo e il Tagliamento. A volte le notizie di ufficiali in fuga furono frutto soltanto di grossolani equivoci. 82 E d’altra parte c’è anche da dire che chi restò con le proprie truppe fino all’ultimo compì un gesto coerente con il dovere e l’onore militari, ma non sempre riuscì a mantenere ordinati i reparti e quasi mai poté influire sul corso di una battaglia le cui sorti erano state decise fin dalle prime ore. Infatti una replica efficace all’offensiva austro-tedesca sarebbe stata possibile solo se gli italiani avessero posseduto reparti specificamente addestrati alla difesa contro l’infiltrazione e provveduto in tempo a schierarli in modo da consentire quella difesa: se si fossero resi conto ben prima della battaglia – in altre parole – della necessità di organizzarsi secondo schemi diversi da quelli della guerra di posizione. Le conseguenze della crisi dei comandi nelle prime ore della battaglia devono dunque essere valutate nei loro giusti limiti alla luce di tali considerazioni. Tuttavia il rimprovero rivolto dalla citata relazione ufficiosa a «molti comandi» non era senza fondamento, ed alludeva probabilmente al comportamento del gen. Badoglio, accusato fin dal 1917 di aver abbandonato le truppe a se stesse. Da una 547

minuziosa relazione del gen. Alessandro Sforza risulta che il gen. Badoglio, verso le 10 del mattino del 24 ottobre, si recò verso le prime linee, a Pusno, insieme con i suoi vicini collaboratori, fra i quali lo stesso Sforza, al fine di assumere dirette informazioni sulla battaglia che era in corso ormai da alcune ore. In quella località incontrò i primi fuggiaschi e cercò invano, con la pistola in mano, di fermarli. Molti di essi avevano l’aria minacciosa ed un soldato, «un romanaccio», gli gridò senza complimenti: «Va ’mmorì ammazzato!». Avendo compreso che i tedeschi si stavano avvicinando, Badoglio incominciò a correre insieme con quei fuggiaschi raggiungendo «a ruzzoloni» la sede del comando, a Kosi. Da lì, insieme con altri tre ufficiali, proseguì la fuga a bordo dell’auto del comando, una «trikappa», ma alla prima curva dovette fermarsi perché una granata nemica infranse i vetri e squarciò uno sportello della vettura. Nessuno si ferì, ma l’autista se la diede a gambe levate lasciando i superiori nei pasticci. «A piedi, con la lingua di fuori», Badoglio raggiunse Kambresco quando era già calata la sera e poi, in piena notte, proseguì fino a Liga, dove si fermò, in preda ad un collasso nervoso. 83 Fin dal 1917 il generale fu accusato da molti ambienti militari e politici di aver anche commesso gravissime negligenze nella preparazione della battaglia, ed in particolare di aver impartito ordini errati alle artiglierie impedendo a queste ultime di operare con efficacia. La questione non può essere qui esaminata nei particolari, tuttavia è nostra impressione che l’imprudenza di Badoglio fosse originata da quegli errori di previsione nei quali alla vigilia di Caporetto incorsero un po’ tutti i comandi. Prescrizioni molto poco chiare furono impartite alle artiglierie dell’intera II armata, non soltanto a quelle del XXVII corpo, così che la preoccupazione di risparmiare le munizioni paralizzò, ad esempio, l’attività delle batterie anche nel IV corpo d’armata,

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proprio nella zona di Plezzo, dove il nemico riuscì a passare. 84 D’altra parte il bombardamento avversario fu tale da produrre fin dal primo momento lo scompiglio in moltissime batterie dell’armata, centrate dai proiettili o rese inefficienti dai tiri a gas, mentre quei pezzi che restarono in grado di funzionare ebbero difficoltà ad orientarsi sia perché le comunicazioni furono messe in crisi, sia perché la nebbia impedì le osservazioni ottiche. Si aggiunga che all’alba del 24 ottobre numerose batterie del XXVII corpo non furono in grado di partecipare all’azione perché si trovavano in fase di trasferimento, sempre in seguito alla errata previsione sulla data di inizio di una eventuale battaglia. Benché molte responsabilità fossero dunque collettive e non del solo Badoglio, è stato sempre e soprattutto degli errori di Badoglio che si è parlato dal 1917 ad oggi, per la ragione molto semplice che di tutti i responsabili della sconfitta egli soltanto riuscì a cavarsela in maniera molto strana e fortunata, diventando addirittura sotto-capo di stato maggiore pochi giorni dopo Caporetto, ed assicurandosi la prosecuzione di una eccellente carriera. È in parte nota la vicenda delle tredici pagine, relative al gen. Badoglio, che furono «soppresse» dalla relazione finale della Commissione di inchiesta per Caporetto. Alcuni anni fa, difatti, l’on. Paratore rivelò che nel 1918 il presidente Orlando, essendo venuto a conoscenza che l’indagine eseguita dalla Commissione avrebbe indicato anche le responsabilità di Badoglio, lo pregò di intervenire presso un membro di quella Commissione, l’on. Raimondo, «per fermare la specifica inchiesta». In una sala di Montecitorio Paratore comunicò a Raimondo i desideri del presidente, e la Commissione si dimostrò comprensiva. 85 Fino ad oggi non era stata trovata una prova inoppugnabile delle conclusioni alle quali la Commissione di inchiesta era

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giunta nel corso delle sue indagini in merito alle responsabilità di Badoglio, ma siamo oggi in grado di recarla: il 3 giugno 1918, infatti, i sette membri della Commissione scrissero al presidente Orlando di non poter ancora esprimere un giudizio definitivo sull’operato dei generali Cadorna, Porro, Capello, Cavaciocchi, Bongiovanni e Badoglio, ma si dichiararono in grado di precisare che in rapporto ad essi non difettavano «indizi di responsabilità», così che poteva essere ritenuto giustificato «allo stato attuale dell’inchiesta» un provvedimento a loro carico. 86 L’indomani il ministro della Guerra, gen. Zupelli, ritenne che si dovesse considerare l’opportunità di collocare quei generali «in disponibilità», ma aggiunse: «Prima però di sottoporre al Consiglio dei ministri tale provvedimento mi sembra, per le ragioni che ho detto sopra, che bisognerebbe domandare alla Commissione se esso sarebbe adeguato alle responsabilità finora accertate dalla inchiesta, anche perché non mi nascondo che le conseguenze del provvedimento potrebbero essere gravi particolarmente nei riguardi del generale Badoglio che sarebbe tolto dalla carica di sottocapo di S.M. dell’esercito in un momento che può essere la vigilia di importanti azioni di guerra.» 87 Fu in quel momento, dobbiamo supporre, che l’on. Paratore svolse la sua delicata missione.

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7. Durante la ritirata molti reparti continuarono a combattere con valore e il 30 ottobre, a Pozzuolo del Friuli, due reggimenti di 551

cavalleria furono massacrati dal nemico, dando luogo al più famoso episodio di resistenza, ma non certo all’unico. Basti ricordare che la II armata, in pochi giorni, ebbe 11.600 morti e 21.950 feriti. 88 È inevitabile, tuttavia, che la ritirata dall’Isonzo al Piave continui ad essere ricordata soprattutto per l’enorme fiumana di sbandati che invase le strade del Veneto, e il grandissimo numero di prigionieri lasciati nelle mani dell’avversario. Gli austrotedeschi catturarono dal 23 ottobre al 26 novembre 294.000 italiani, oltre a 3.136 cannoni di vario calibro, a 1.732 bombarde, e a gigantesche quantità di munizioni, materiali e viveri. 89 Durante la ritirata si sbandarono circa 300.000 soldati. 90 La confusione prodottasi nelle prime linee fin dall’inizio della battaglia impedì a molti comandi di ricevere le notizie ed impartire gli ordini, con la conseguenza che numerose truppe restarono disorientate e paralizzate. Il violentissimo bombardamento delle artiglierie austro-tedesche, i gas, le infiltrazioni delle colonne nemiche indussero i primi reparti a ripiegare «con l’idea di potersi fermare su una seconda linea, che doveva esistere, ma che nessun soldato sapeva dove fosse». 91 Nessuno immaginò che potesse crollare l’intero fronte: «Il loro settore era il solo che cedesse. Il resto avrebbe tenuto fermo e la controffensiva avrebbe pareggiato la partita». 92 Fece grande impressione a tutti i testimoni che grandissima parte degli sbandati fossero senza fucile, ma le spiegazioni del fatto furono numerose e non dipesero necessariamente da una volontà di «far la pace». Moltissimi di quei fuggiaschi, infatti, non portavano armi per il semplice fatto di appartenere ai servizi delle retrovie, e, secondo il gen. Cavaciocchi, nel solo IV corpo d’armata gli addetti ai servizi erano ben 35.000 su un totale di 82.000 uomini, vale a dire circa il 42% del totale. 93 Alcuni 552

soldati abbandonarono le armi perché furono colti dal panico, altri perché ricevettero l’ordine assurdo di abbandonarle, 94 ed altri, infine, se ne liberarono in alcuni luoghi dove i comandi crearono sbarramenti stradali al fine di separare gli uomini armati dai disarmati. Il 24 ottobre, per esempio, a Staro Selo (presso Caporetto) fu disposto uno di questi sbarramenti: mentre in un primo tempo fu possibile raccogliere un certo numero di armati, in seguito la percentuale di questi ultimi diminuì rapidamente, fin quasi a scomparire. I fanti difatti, vedendo da lontano quale selezione fosse operata ed intuendone lo scopo, gettavano i fucili prima di avvicinarsi. D’altra parte dové sembrare ingiusto che i comandi stessero «ricompensando» proprio i meno meritevoli, proprio i fuggiaschi senz’armi, proprio gli «imboscati» dei servizi, consentendo solo a questi ultimi di proseguire la fuga e di allontanarsi dai pericoli; e in secondo luogo in quei posti di blocco si tentava di organizzare una difesa alla disperata, con gruppi di soldati raccogliticci, privi spesso dei loro ufficiali o addirittura senza alcun ufficiale, con criteri di improvvisazione che non erano certo fatti per incoraggiare alla resistenza contro un nemico dimostratosi fin dal primo momento tanto potente ed organizzato. 95 La sensazione dello scampato pericolo, il fatto di poter superare impuniti i posti di blocco, la rottura dei vincoli disciplinari, la scoperta di essere in tanti furono tutti fattori che cominciarono ad animare i soldati e a dar loro un senso di festa e di liberazione da un grave incubo: la guerra era forse finita e si tornava tutti a casa. La sera del primo giorno della battaglia il colonnello dei carabinieri Carlo Araldi si recò con cinquanta uomini a cavallo verso le prime linee, e verso Brischis incontrò colonne di migliaia di sbandati, tutti disarmati, i quali si stavano dirigendo

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«allegramente» verso Cividale. 96 Il 26 ottobre il tenente colonnello Boccacini osservò tra Cividale e Udine gli sbandati divenuti ormai fiumana: «Era una marcia tranquilla di gente tranquilla. Non un viso su cui si leggesse la vergogna o il furore o la disperazione, non un occhio che non fosse sereno. Nessun indizio di indisciplina, di reazione, di rivolta; anzi, molti segni di rispetto verso di me che passavo.» 97 Sembra però che procedendo cominciassero a impensierirsi:

verso

Udine

i

soldati

«La città era già contornata dagli incendi dei magazzini di riserva, ma era sempre, nel loro concetto, la sede del Comando supremo, di tutta l’ufficialità superiore, di tutti i carabinieri: indubbiamente là sarebbero stati fermati, reinquadrati, respinti contro il nemico che sentivano alle loro calcagna. Un’idea pratica balenò a qualcuno e si diffuse per la massa dei fuggiaschi con una rapidità portentosa: occorreva nascondere la propria identità, tornare uomini, essere indifferenziabili. E in un attimo stellette e mostrine scomparvero dalle giubbe, i trofei dai berretti, mentre qualcuno vestì addirittura abiti borghesi o femminili trovati nelle case.» 98 Ma anche Udine, ormai, si stava svuotando, gli ufficiali del Comando erano già partiti o stavano apprestandosi a partire, mentre i carabinieri apparivano impotenti di fronte alla grande massa degli uomini in marcia. Diretti verso quale luogo? «Il soldato non pensa al Piave, né al Po, pensa alla pace» disse 554

addolorato Alessi nei giorni della rotta. 99 Ed anche De Lollis, viaggiando nelle retrovie, assisteva a spettacoli che lo angustiavano: «Treni carichi di soldati ebri di sconfitta desiderata!!! Ce n’è fin sui tamponi delle vetture. Quelli che non han trovato un posto, sfilano a piedi ai lati della gettata. Ce n’è dappertutto sui prati. Inermi, con un tozzo di pane o altro tra le mani. Odo perfino il grido: “Viva Giolitti Presidente della Repubblica!”. Voglion la pace, le canaglie, a qualunque costo.» 100 Vedemmo nelle pagine precedenti che Rommel fu accolto da reparti italiani al grido di «Viva la Germania» e portato in trionfo. Ma anche il gen. Krauss precisò che intere colonne di prigionieri gridarono «Viva l’Austria!», e «A Roma!», 101 mentre la stessa Commissione di inchiesta su Caporetto riferì vari episodi di prigionieri che subito dopo la cattura, o più tardi, alla stazione di Innsbruck ed al campo di concentramento di Mauthausen inneggiarono al nemico. 102 Felice Troiani, che fu fatto prigioniero durante la battaglia, spiegò quale fosse lo stato d’animo dei suoi commilitoni subito dopo la cattura, al momento di iniziare la marcia verso quei campi nei quali essi avrebbero tutti patito la fame e le malattie, e molti incontrato la morte in seguito agli stenti: «I nostri soldati, nella quasi totalità, non sentivano la vergogna che ci aveva sommersi; erano anzi contenti perché era finita la camorra. Erano ormai una massa di bruti, una valanga di esaltati che correva, che rotolava giù per la china, per viottoli, fra gli alberi, fra i cespugli, fra gli sterpi e i sassi. Fuggivano il campo di battaglia, 555

volevano arrivare al più presto, ma non sapevano dove.» 103 Ma le stesse, identiche parole avrebbero potuto essere state scritte per illustrare lo stato d’animo di coloro che si precipitarono di corsa giù per i pendii in direzione non già dell’Austria, ma dell’Italia, in viaggio anch’essi non si sapeva bene per dove, ma mossi invece dalla stessa spinta degli altri: dal desiderio di allontanarsi quanto più era possibile dalla trincea, dal fronte, dalla guerra. Il 28 ottobre, all’indirizzo della brigata Bologna che si apriva il passo entro la corrente degli sbandati per raggiungere la prima linea, furono lanciate grida di «traditori» e «crumiri», 104 ed anche la brigata Potenza ricevette l’invito a non più combattere: «Ormai è finito tutto! Che andate a fare?». 105 C’era chi si augurava che i nemici arrivassero fino a Roma e chi gridava: «Che vadano a Torino, a Milano, purché la guerra finisca». 106 Quei fanti che avevano cominciato a fuggire per un istinto primordiale di salvezza, dato che un nemico tanto più efficiente era riuscito a sorprendere i comandi, a neutralizzare imponenti difese, a sconvolgere quei collegamenti che avrebbero potuto consentire un tentativo di resistenza, quei fanti, dicevamo, cercarono di dare una giustificazione diversa al loro comportamento. Dissero di aver abbandonato le linee per punire l’Italia che si stava arricchendo alle loro spalle, per far capire agli «imboscati» che era venuta anche per essi l’ora di fare un turno di trincea. 107 Come disse il Ferrari: «Si delineò fra i fuggiaschi la leggenda di aver fatto ciò che avevano fatto deliberatamente “per insegnare a Cadorna ed al re che quando i soldati sono stanchi, sanno come fare per mettere ogni cosa a posto”. “Ci andassero il 556

re e Cadorna al loro posto e si sarebbe veduto che cosa sapevano fare meglio e più di loro! Ma già Cadorna si era suicidato e il re era scappato a Roma!”» 108 Si diffusero infatti, insieme con le diverse «razionalizzazioni» della fuga, le più fantastiche notizie: che la III armata fosse entrata a Trieste, che a Roma fosse scoppiata la rivoluzione, che Giolitti fosse andato al governo. 109 Lungo le strade e nelle campagne cominciarono i saccheggi, perché molte case erano state abbandonate dai proprietari ed il fare man bassa su tutto sembrò «non solo lecito ma consigliato dalla convenienza di fare il deserto davanti al nemico». I soldati furono inoltre lietissimi di vendicarsi contro la popolazione civile che li aveva ospitati fino ad allora, perché in molti paesi essi erano stati fino ad allora considerati come «le vacche da mungere»: contadini e commercianti, infatti, per rifarsi dei danni arrecati dalla guerra, si erano rivalsi sui soldati cedendo i loro prodotti a prezzi notevolmente superiori al normale. 110 Il capitano Tondi, riferendosi agli avvenimenti del 26-27 ottobre, dichiarò di aver visto gruppi di soldati che depredavano le case, si ubriacavano, lasciavano aperte le botti, riempivano di bottiglie i tascapani, acchiappavano polli ed anatre dove e quanti ne trovavano, e se ne facevano «collane» da appendere a bandoliera. 111 Il 1° novembre don Minzoni, cappellano del 255° fanteria, si ritirava verso il Tagliamento con il suo reggimento. I soldati erano sfiniti dalla lunga marcia ma, raggiunto un paese nei pressi del fiume, presero d’assalto una bottega: gli ultimi, non trovando più nulla, s’impossessarono di candele da chiesa, così che sembrava di essere «in una processione a lumi spenti». Altri fanti, nelle campagne, si appropriarono di vari animali.

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«Uno» scrisse don Minzoni «conduceva un bel vitello. Proibitogli dal comandante, finge di lasciarlo, poi lo prende, lo veste di cappotto ed elmetto e, conducendolo con la corda, lo tiene in riga fra i compagni.» 112 Il 7 novembre Ardengo Soffici si recava a Montebelluna, e vide in mezzo alle strade giacere alla rinfusa bottiglie, biciclette, panni: «Per le porte sfondate di botteghe e di case, entravano, a gruppi o soli, soldati, donne, vecchi, furtivamente; o ne uscivano con sospetto, le braccia, le tasche, i fagotti pieni di cose rubate». Fra l’altro doveva essere stato svaligiato un negozio di ombrelli. 113 Al ponte della Priula un generale ordinò ai carabinieri di guardia di sequestrare vini e liquori ai soldati che fossero passati di là: «Molti che sopraggiungevano hanno dovuto obbedire all’ordine. Ma erano appena spariti sulla via di Nervesa, che i carabinieri hanno sturato quelle bottiglie e si son messi a bere». 114 Durante la battaglia di Caporetto anche gli austriaci ed i tedeschi che inseguivano gli italiani saccheggiarono e si ubriacarono: poiché molti ritennero una inutile perdita di tempo levare la spina dalle botti, spararono direttamente contro di esse, fecero uscire il vino a fiotti, riempirono le borracce, lasciarono che il resto si sprecasse. Due soldati, che spararono contro troppe botti, affogarono miseramente in una cantina. «È assai difficile» commentò il tenente Weber riferendo tali episodi «trattenere gli uomini da simili orge. Guerra e saccheggio sono, da quando mondo è mondo, compagni inseparabili.» 115 Nel 1917, anzi, vi fu chi autorevolmente osservò che, trattandosi di italiani, la ritirata di Caporetto poté svolgersi senza gli orrori che di solito accompagnano analoghe tragedie presso

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altri popoli. Scrisse infatti il Trevelyan che durante la ritirata «la folla era mite e, benché molti fossero affamati e la disciplina fosse del tutto scomparsa, non si ebbero episodi di violenza, né vi fu paura della violenza». 116 Tra gli episodi più gravi vi è quello riferito da Malaparte, a proposito dei fanti senza fucile che, marci di vino e di fatica, si sarebbero gettati sulle dame della Croce Rossa, facendole discendere dal camion, denudandole, gettandole nella babelica confusione della moltitudine; anche le prostitute dei bordelli militari sarebbero state acclamate dai soldati e portate in trionfo «nude e sconce», insieme con qualche grosso e panciuto ufficiale superiore – «Bacco e le Arianne» – fra urla e canzoni oscene. 117 Ma dovette trattarsi di episodi isolati, nei quali, oltre tutto, intervenne un elemento orgiastico, più che di vera e propria violenza, e che furono forse un po’ esagerati da Malaparte. Decine e decine di testimoni confermarono infatti che i casi di violenza e di ribellione furono rarissimi, al punto che la ritirata, nel suo complesso, apparve come «un fenomeno grandioso, di apatia, quasi di tranquillità indifferente, di attesa di un destino inevitabile». 118 «L’impressione che questa fuga ha lasciato sui testimoni» disse Giovanni Amendola «è assai strana; come di gente che torna alfine a casa da un lungo lavoro, ridendo e chiacchierando, o di uno sciopero, festaiolo e bonario. Non c’è fra gli sbandati nessun segno di facinorosità o di rivolta; anzi mettono la coda fra le gambe appena vengono affrontati; una persona autorevole può fermarne mille.» 119 Il 30 ottobre il col. Gatti, insieme con Bissolati e Comandini, si recò ad osservare fra il Piave e il Tagliamento le condizioni delle 559

truppe: «Interrogati, gli sbandati rispondono rispettosamente: si mettono sull’attenti, ecc. Dicono tutti che sono venuti indietro perché hanno avuto l’ordine. Da chi? Non si sa: da quegli che era più vicino. Il 90% è del sentimento che tutto è finito, che adesso verrà la fine (quale? non ci pensano) della guerra. Il 10% (specialmente corpi speciali) sono mortificati o indignati di ciò che è successo.» 120 La dimostrazione che le truppe non fossero animate da uno spirito di rivolta fu data dal fatto che il 1° novembre, fra Treviso e il Piave, l’automobile su cui viaggiavano il re, il presidente Orlando, il gen. Brusati aiutante di campo del re, ed il ministro della real casa Mattioli Pasqualini, si trovò improvvisamente isolata in mezzo ad una ondata di sbandati: «Certo è» disse Orlando «che se quella gente fosse stata animata (ed anche in una sua minima parte) di spiriti sovversivi, lontanamente paragonabili a quelli che dominarono nell’esercito russo e, in certi momenti e in certi reparti, nello stesso esercito francese, mai migliore né più facile occasione si sarebbe potuta offrire di impadronirsi del capo dello stato e, nel tempo stesso, del capo del governo!» Invece i soldati passarono e lasciarono passare, alcuni di essi riconoscendo il sovrano e salutandolo molto rispettosamente. 121 Anche Cadorna ebbe un’esperienza analoga, allorché, il 6 novembre, viaggiava in auto da Treviso a Padova, accompagnato dal solo gen. Giardino e senza scorta: «Passammo» 560

disse «attraverso una lunghissima colonna di sbandati. Qual migliore occasione per ingiuriarmi impunemente e peggio! Ebbene, non una voce, men che rispettosa, partì da quella turba!». 122 8. Gli italiani, che avevano avuto il privilegio di combattere la loro guerra su un fronte schierato quasi ovunque al di là dei loro vecchi confini, furono costretti con la battaglia di Caporetto ad abbandonare al nemico una vasta e florida regione. Questa sola considerazione sarebbe stata sufficiente per determinare una grave crisi nell’opinione pubblica, ma nell’ottobre 1917 numerosi altri fattori resero più profonda quella crisi: l’inesplicabilità della disfatta, la disintegrazione di un’armata, la sensazione che non fosse più possibile arrivare ad una pace onorevole. L’inesplicabilità del rapido cedimento sull’Isonzo fece credere a molti che gli austro-tedeschi fossero riusciti a spezzare le difese solo perché l’esercito italiano si era rifiutato di combattere, e i comandi furono i primi ad avallare questa errata versione degli avvenimenti. La sorpresa tattica del nemico, infatti, fu tale da disorientare le autorità militari sia prima, sia dopo l’inizio della battaglia. La confusione determinatasi immediatamente nelle prime linee, lo scardinamento del sistema di comunicazione e l’abitudine a ragionare secondo i vecchi schemi impedirono a Cadorna e agli altri generali di sapere e capire che cosa stesse accadendo. Fin dalle prime ore del mattino del 24 ottobre gli austrotedeschi avevano sfondato le linee, ma alle ore 10 il gen. Capello inviava a Cadorna «un riassunto degli avvenimenti per nulla allarmante», e alle 10,35 Cadorna riteneva opportuno ordinargli di rinunciare ad «almeno» 200 pezzi di artiglieria per trasferirli alla III armata! e tutto ciò dopo aver raccomandato – un’ora 561

prima – «la più oculata parsimonia» in fatto di munizioni. 123 Alle 12,15 Cadorna telegrafava al duca d’Aosta insistendo ulteriormente sulla sua idea di un attacco nemico più contro la III armata che contro la II. 124 Alle ore 13, nel consueto bollettino, Cadorna fece scrivere che durante la notte «un violento bombardamento con largo impiego di proiettili a gas» aveva segnato «l’inizio dell’atteso attacco», ma che verso l’alba, dato il cattivo tempo, il fuoco nemico era scemato. Gli italiani, insomma, non dovevano preoccuparsi: «Il nemico ci trova saldi e ben preparati». 125 Tra le 18 e le 19 Gatti incontrò Cadorna in un salone del Comando supremo, e lo trovò «tranquillo, sorridente», ignaro di quanto stava accadendo ed ancora incerto sul fatto che il nemico intendesse attaccare «sul serio» a Tolmino, o limitarsi ad un semplice «bluff». 126 Tutto rinfrancato il col. Gatti andò a cena, trascorse un’oretta al cinematografo e dopo lo spettacolo, «per pura curiosità», volle dare un’occhiata alla sede del Comando. Scoprì che il vestibolo era illuminato e pieno di ufficiali: le prime tragiche notizie erano finalmente giunte. 127 Cadorna non capì le ragioni del successo nemico e si ostinò a dire molto semplicisticamente che «quando vi sono dei reticolati, […] non si passa». 128 Il «cedimento morale» dei combattenti gli parve l’unica spiegazione possibile, e infatti la mattina del 25 ottobre, incontrando Gatti, gli disse molto chiaramente: «L’esercito, inquinato dalla propaganda dall’interno, contro cui io ho sempre invano lottato, è sfasciato nell’anima. Tutto, pur di non combattere. Questo è il terribile di questa situazione.» 129 Ritornò insomma alle tesi già sostenute in giugno ed in agosto

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nelle lettere a Boselli, ed affermò ancora una volta che la colpa di tutto doveva essere attribuita alla propaganda disfattista: «Esercito non cade vinto da nemico esterno, ma da quello interno», telegrafò il 27 ottobre al presidente del Consiglio, 130 e l’indomani emanò il famoso comunicato nel quale si lesse: «La mancata resistenza di reparti della II armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare sul sacro suolo della Patria.» 131 Del resto, come abbiamo già detto, gli stessi sbandati «razionalizzarono» la loro fuga pretendendo di aver agito «deliberatamente» per punire «gli imboscati» o per altre analoghe ragioni. Essendo informato di quelle voci, avendo saputo che il nemico era riuscito inizialmente a sfondare solo su due brevi tratti del fronte, ricordando infine che a Carzano, due mesi prima, c’era stato un reparto cecoslovacco disposto a tradire, Cadorna concluse che questa volta, a Plezzo ed a Tolmino, erano stati alcuni reparti italiani a mettersi d’accordo col nemico. 132 Il generale continuò ad insistere sull’ipotesi del «tradimento» ancora in febbraio, allorché dichiarò: «Io non ero presente [a Plezzo e Tolmino] e non posso dire come le cose sono andate. Me le immagino così. Non ci può essere stato un tradimento esteso; ma ci deve essere stato qualche tradimento parziale, che ha aperto dei varchi.» 133

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In mancanza di spiegazioni più convincenti la tesi del tradimento fu accolta da moltissimi. Bissolati ritenne che il tradimento dovesse a ragione essere sospettato nella zona del Vodil. 134 A metà novembre, alla Camera, il ministro della Guerra gen. Alfieri affermò in un suo discorso che le voci di tradimento non erano fondate, ma il presidente Orlando, in un gruppo di amici, continuò ad ammettere che per spiegare Caporetto nulla poteva essere escluso, neanche il tradimento. 135 Fra gli stessi soldati in ritirata, impressionati dagli episodi apparentemente contraddittori ai quali avevano assistito, si diffuse la voce che Cadorna avesse fatto fucilare trenta generali, e nei corridoi di Montecitorio si raccontò che un deputato aveva scorto alla stazione di Bologna due generali in stato di arresto. 136 Soltanto in un secondo tempo Cadorna si rese conto che l’ipotesi del tradimento non poteva reggere e, interrogato dalla Commissione di inchiesta, preferì negarla recisamente. 137 La relazione della Commissione affermò che quella ipotesi non aveva alcun fondamento, e la documentazione portata alla luce dal 1919 ad oggi non ha fatto che confermare i giudizi della Commissione stessa. 138 Più dura a morire, viceversa, fu l’idea che a Caporetto i fanti avessero attuato uno «sciopero militare». Secondo l’opinione di molti, infatti, il 24 ottobre, sull’Isonzo, non ebbe luogo una vera e propria battaglia, perché la maggior parte della II armata «scioperò», si rifiutò cioè di combattere, invocando la pace e mettendosi in marcia verso le retrovie. L’ipotesi dello sciopero presentò il vantaggio sia di richiedere minori dimostrazioni che non quella del tradimento, sia di potersi agevolmente combinare con la stessa ipotesi del tradimento (soltanto alcuni reparti si erano «accordati» col nemico e il resto delle truppe aveva poi scioperato) e con quella delle vere e proprie cause militari (gli 564

austro-tedeschi avevano conseguito dei successi locali, ma il grosso della II armata si era rifiutata di contrattaccare, mettendosi in sciopero). In ognuno di questi casi, comunque, ci si rifiutava di riconoscere nelle qualità dell’avversario la prima ragione della sconfitta. Bissolati fu di questo parere, allorché affermò che dopo la Bainsizza si era diffuso tra gli italiani «uno spirito di negazione, di volerla fare finita, di scioperare», e precisò anzi che in tutta la vicenda di Caporetto era possibile ritrovare «la psicologia dello sciopero, perfino con le astuzie insegnate in tanti anni di pratica socialista». 139 Ma anche Capello non ebbe un’opinione molto diversa, quando definì Caporetto «una falla morale». 140 Ci fu addirittura chi immaginò che gli austro-tedeschi avessero fatto il vuoto davanti a loro perché, avanzando, «portavano seco grandi stendardi, col ritratto del Papa e gridavano: “Fratelli italiani, facciamo la pace!”». 141 L’interpretazione «moralistica» di Caporetto come sciopero militare nacque per ignoranza degli avvenimenti ma poté diffondersi perché molti ebbero interesse a non ricercare la verità: Cadorna e Capello, innanzi tutto, perché avrebbero dovuto riconoscere i loro errori; il nuovo Comando supremo perché avrebbe dovuto ammettere le colpe di Badoglio; molti interventisti perché avrebbero tolto un marchio di infamia ai neutralisti considerati, con la loro propaganda, i responsabili della disfatta; molti neutralisti perché ritenevano che quella interpretazione della disfatta costituisse la più evidente conferma della volontà di pace delle masse italiane. Molti studiosi preferirono non indagare a fondo perché avrebbero disturbato «i potenti», e ferito un malinteso orgoglio nazionale: affermare infatti che gli austro-tedeschi avevano sfondato le linee soltanto perché la propaganda «disfattista» o gli errori dei

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generali italiani avevano aperto le porte all’invasore, significava in sostanza togliere a quest’ultimo gran parte del merito. C’è da aggiungere inoltre che molti furono indotti ad attribuire importanza preminente alla crisi morale dell’esercito perché la rotta, il panico, il caos non sembravano ed in effetti non erano cause sufficienti a spiegare tutto ciò che accadde nelle file dell’esercito tra l’Isonzo e il Piave. L’immensa folla in grigioverde rovesciatasi d’improvviso nelle strade del Veneto non manifestò solamente la propria impotenza verso un avversario più agguerrito, ma cercò anche di esprimere la sfiducia verso un’impresa che sembrava diventare ogni giorno più insostenibile ed assurda. Agì infine un vero e proprio meccanismo di proiezione (come dicono gli psicologi), perché in quell’ottobre 1917 moltissimi erano stanchi, scontenti, sfiduciati, e trovarono quindi naturale proiettare la loro crisi sulle truppe, attribuendo ad un fatto «morale» la causa essenziale della sconfitta. Bissolati dichiarava a tutti di volere farsi «saltare le cervella» 142 e ammetteva il fallimento della sua politica: «È finita per noi. Noi dobbiamo scomparire. Noi siamo stati coloro che hanno fatto il sogno della più grande Italia. Abbiamo voluto creare un’Italia militare. Abbiamo errato. Costruivamo sul vuoto. Gli italiani non erano preparati. Noi ci facevamo illusioni: noi abbiamo con questo trascinato l’Italia a questo punto. Perciò dobbiamo ora pagare, e scomparire.» 143 Inviò un messaggero a Giolitti, con la notizia della rotta e l’invocazione di «fare qualcosa per sostenere lo spirito pubblico». 144 Telegrafò agli altri ministri prospettando l’eventualità di cedere il potere ai neutralisti. 145 Il presidente Orlando, preoccupato per l’ondata di polemiche 566

destata in Italia dagli avvenimenti, telegrafò ai prefetti ed agli uffici di censura per impedire le discussioni sulla guerra, specialmente – disse – se esse tendevano ad incolpare i partiti della situazione creatasi. 146 Ma di fronte al pericolo tutti i cittadini, anche i più indifferenti, presero a discutere con eccitazione: «le recriminazioni contro il governo e contro il Comando supremo furono violentissime». 147 C’era chi, ritenendo ormai sicura la sconfitta, si consolava immaginando che gli italiani avrebbero costituito la nazionalità più numerosa e più forte in seno all’impero asburgico. 148 A Milano «qualche signore la cui prudenza stava in ragione diretta dei danari disponibili, accusando le difficoltà del riscaldamento, prese il volo per la riviera». 149 Ma il senatore Franchetti, fraterno amico di Sonnino e sincero interventista, si uccise il 4 novembre, senza immaginare che esattamente un anno più tardi sarebbe stata celebrata la vittoria. In quei giorni anche Mussolini era «prostrato», e nei suoi discorsi «passava subitamente dall’espressione dell’ira e dai propositi di lotta a una tristezza mortale», dichiarando che gli sarebbe piaciuto morire. 150 Mancava quella serenità degli spiriti che sola poteva consentire di ritrovare il filo degli avvenimenti al di là delle ingannevoli apparenze, e non erano disponibili i dati, le informazioni precise, i documenti in base ai quali compiere un’analisi obbiettiva. Ai primi di dicembre, tuttavia, Bissolati, reduce dal fronte e da colloqui ed incontri con vari generali italiani, dimostrò che la verità avrebbe potuto farsi strada. In un colloquio con Malagodi, difatti, narrò che fra il 4 e il 6 dicembre erano stati persi il Sisemol e le Melette, circa 10.000 prigionieri e una sessantina di cannoni, ma riconobbe che le fanterie austrotedesche avevano potuto conseguire quel successo «per la loro superiorità tattica»: 567

«Indubbiamente» aggiunse il ministro «nella guerra gli austro-tedeschi vanno applicando sempre nuovi metodi, ai quali preparano accuratamente i loro soldati, specie i soldati scelti, arditi, anzi arditissimi […] essi hanno anche la specialità, che a noi manca, della azione di piccoli nuclei. Con questi nuclei, formati di plotoni di otto o dieci uomini, con mitragliatrici leggere, essi praticano il metodo della infiltrazione; vale a dire si insinuano qua e là, cercando di arrivare ai nostri fianchi e perfino a tergo, nascondendosi fra le rupi, i cespugli, profittando di ogni vantaggio del terreno.» Proprio ciò che era accaduto a Caporetto, dunque. Ed infatti, soggiunse Bissolati: «Io credo di essere riuscito a ricostruire la storia della nostra grande disfatta. Anche allora credo che l’abile tattica delle infiltrazioni abbia avuto la parte più importante dal punto di vista militare. Ci fu un bombardamento formidabile, spaventoso, durante il quale le truppe nemiche, in piccoli plotoni con mitragliatrici, si arrampicarono da tutte le parti nelle sinuosità del Colbricon, avvicinandosi più che potevano alle nostre posizioni; poi, cessato il bombardamento, si presentarono alle trincee ed alle bocche delle caverne e cominciarono così le rese e gli sbandamenti. Con questo metodo è soppresso, si può dire, lo spazio che interveniva fra il bombardamento e l’assalto delle fanterie, durante il quale le truppe che si erano riparate dal bombardamento potevano uscire dalle caverne, guarnire le trincee e prepararsi a ricevere gli assalitori. Si

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raggiunge così di nuovo l’elemento della sorpresa; ed il metodo è assai efficace… Naturalmente entrarono poi in gioco altri fattori per determinare una così grave débâcle. C’era la stanchezza della guerra, una sorda ribellione e volontà di piantar lì e di ritornare a casa. L’attacco produsse un panico, il quale rafforzò e mise in piena azione questo sentimento; le cose allora si aggravarono; il loro aggravamento estese il panico, finché avemmo la valanga.» 151 Alcuni giorni più tardi Bissolati ripeté a Malagodi che il suo primitivo giudizio sulle responsabilità del disastro era alquanto modificato, che le colpe del Comando erano forse maggiori che non apparissero da principio, sembrandogli fuor di dubbio che esso si fosse lasciato ingannare quanto al luogo dell’attacco. 152 Ed anche Amendola, il 16 febbraio, comunicò che precise informazioni accentuavano senz’altro la responsabilità del Comando, «attenuando assai quella dei soldati, specie al principio». 153 Nelle sue memorie il sen. Albertini ammise con molta franchezza che al «Corriere della Sera» ed a lui sfuggirono per molto tempo tutte le cause militari della catastrofe. 154 E la verità continuò anche in anni a noi più vicini a farsi strada con fatica, tanto che ancor oggi si pretende spesso di parlare delle «cause militari» di Caporetto riferendosi quasi esclusivamente ai dissidi fra i generali italiani, o al famoso silenzio delle artiglierie di Badoglio, senza precisare quali furono i metodi impiegati dal nemico. 9. All’inizio della battaglia Cadorna decise che la II armata resistesse ad oltranza, impartì severissime disposizioni per arrestare la ritirata delle truppe, ordinò a tutti i comandanti di essere «ferrei», di reprimere «senza pietà» ogni debolezza, di 569

«purificare col ferro e col fuoco» ogni vergogna: «Chiunque» disse «non senta che sulla linea fissata per la resistenza o si vince o si cede con onore, non è degno di vivere». 155 Fu costituito un «corpo d’armata speciale», agli ordini del gen. Di Giorgio e composto da due divisioni, con il compito di garantire il possesso dei ponti sul Tagliamento e di organizzare pattuglioni nelle immediate retrovie alla ricerca degli sbandati. Affinché le sue due divisioni non fossero contagiate dal panico, Di Giorgio emanò ordini rigorosi: la fucilazione immediata per i suoi soldati che avessero abbandonato il reparto e per i suoi ufficiali che avessero opposto resistenza passiva agli ordini: «Con gli sbandati senz’armi» aggiunse «non si esiti ad adoperare anche il bastone. Essi coll’aver gettata via l’arma che la patria aveva loro affidato per la sua difesa, si sono spogliati da sé della veste del soldato, si sono messi da sé fuori della legge.» 156 In realtà la grande massa degli sbandati poté ritirarsi oltre il Piave senza che contro di essa fossero impiegati né i bastoni né le armi, e ciò per ragioni molto evidenti: essi non erano pochi, infatti, ma migliaia e migliaia, ed apparivano stanchi, abbrutiti, quasi sempre rassegnati e tranquilli, privi di armi, inoltre, o separati dai loro commilitoni e dai loro ufficiali, ed inetti quindi ad una qualunque opera di resistenza. Si trattava pertanto di avviarli al più presto verso i campi di raccolta istituiti oltre il Piave, come appunto essi già spontaneamente facevano. Sembra che molti salirono sui treni per «andare a casa», e ne furono visti alle stazioni di Verona, Milano, Bologna, perfino di Firenze, Roma e Napoli, ma si lasciarono fermare dai carabinieri senza opporre alcuna resistenza e vennero tosto condotti anch’essi ai campi di raccolta. 157 570

Ma se la grande massa degli sbandati poté ritirarsi o vagare per l’Italia restando impunita, alcuni, viceversa, pagarono per tutti, dato che nella confusione generale anche «la giustizia» fu esercitata in modo sommario e casuale, con criteri che variarono spesso di ora in ora, di luogo in luogo. Riferì la Commissione di inchiesta che in alcune località i carabinieri andarono a caccia dei saccheggiatori, con l’ordine di passarli sommariamente per le armi, e che a mezzo di manifesti diffusi fra le truppe venne data larga pubblicità alle fucilazioni eseguite. 158 Raccontò Ardengo Soffici che il 31 ottobre, nella piazza di Spilinbergo (Udine), egli vide i carabinieri perquisire alcuni soldati e trovare nella sacca di uno di essi «tre o quattro camicie», nella sacca di un altro «parecchi pacchetti di sigarette e diversi sigari»: i due si divincolarono con violenza fra le mani dei carabinieri che volevano trascinarli via, per fucilarli: «M’è rimasto negli occhi il viso bianco e lo spavento pazzo di uno d’essi, poco più di un ragazzo, quando ha compreso la verità inumana. Con la giubba sbottonata, senza berretto, arruffato, guardando con le pupille esterrefatte e l’aspetto di un sonnambulo il milite che lo teneva per un braccio, si lasciava condurre verso il cancello di un orto, dove tutti sono spariti. Di lì a poco abbiamo udito rintronare in quell’orto i dieci o dodici colpi di moschetto che uccidevano quei due uomini.» 159 Lo stesso Soffici riferì che tre giorni più tardi si trovò a cena con il gen. Petitti di Roreto ed altri ufficiali alla sede del XXIII corpo d’armata. Terminata la cena il generale uscì e dopo qualche minuto gli ufficiali, avendo udito alcune fucilate, interruppero la 571

conversazione, indossarono in fretta e furia cappotti e pellicce, ed andarono fuori anch’essi per vedere che cosa fosse accaduto. Era buio, ma lungo la strada, vicino ad un cancello, scorsero alcuni carabinieri ed una sentinella fermi accanto a qualcosa che pareva un mucchio di cenci: «“Avete sentito quei colpi? Che cosa è stato?” Ci hanno mostrato il mucchio per terra: “Sua Eccellenza che ha fatto fucilare questo soldato…” Ci siamo chinati ed abbiamo osservato meglio. “Come soldato? Questa è una donna.” Infatti il corpo raggomitolato nel rigagnolo era vestito di poveri panni da contadina. “Era un soldato travestito da donna che cercava di fuggire. Sua Eccellenza è passato di qui, l’ha visto, e ci ha detto di fucilarlo subito. Adesso lo portiamo via.”» Ritornato al comando Soffici vide il generale acceso in volto, irritatissimo, che esclamava: «Ecco cosa ci costringono a fare! Miserabili, miserabili…». 160 Quel che accadde in quei giorni a Cesare De Lollis dimostrò fino a qual punto la sorte degli sbandati fosse legata al caso e alla fortuna. Partito da Roma il 28 ottobre, De Lollis raggiunse infatti la stazione di S. Vito al Tagliamento nella notte del 30 e cercò invano qualcuno disposto a portargli la cassetta fino alla sede dell’XI corpo d’armata, dove egli era diretto. Finalmente trovò due soldati: «un romano, De Franceschi Paolo, e un veneto, Sbaragli Giovanni, dell’80° regg.to di marcia», che se la caricarono sulle spalle legandola a un bastone improvvisato. Arrivato alla sede del comando De Lollis fu male accolto dai superiori: perché si era servito di due sbandati? Lo stesso capo di stato maggiore diede ordine di legare ad un albero i due 572

malcapitati e di fucilarli. Il romano, prima di essere incatenato, restituì a De Lollis un foglietto che questi gli aveva dato perché i carabinieri non lo fermassero lungo la strada: «Forse sperava che io li aiutassi. Ma lo potevo io fare? Forse eran veramente dei colpevoli». Agitato da questi pensieri, stanco dal viaggio, De Lollis andò a dormire in un fienile. 161 10. Il 2 novembre il gen. Andrea Graziani fu nominato «ispettore generale del movimento di sgombro» diventando presto famoso per i criteri con i quali esercitò i suoi poteri disciplinari. Ma aveva già acquistato notorietà durante l’offensiva di maggio allorché, comandando la 33ª divisione, l’aveva praticamente lasciata senza guida per alcune ore preferendo recarsi di persona in prima linea e dar la caccia, con il moschetto, a coloro che tornavano indietro. 162 Nel novembre, coadiuvato da un gruppo di ufficiali, da carabinieri e da reparti di cavalleria, intraprese, come egli stesso scrisse, «una vera lotta di aggressione morale e fisica contro le orde degli sbandati». 163 Per più giorni, spostandosi rapidamente in automobile da un punto all’altro delle retrovie, cercò di dar ordine ai reparti, emanò bandi e minacciò di pena capitale i saccheggiatori, «represse con la morte anche piccoli atti di insubordinazione», essendo persuaso «che ad estremi mali occorrevano estremi rimedi: che con esempi salutari si risparmiavano repressioni maggiori». 164 Per impedire ai fuggiaschi – soprattutto agli ufficiali – di servirsi dei mezzi di trasporto trovati o requisiti, «fece asportare una ruota – che poi veniva gittata nei fiumi o canali – a quanti veicoli incontrava per le strade» se adibiti al trasporto degli stessi fuggiaschi. E dato che numerosi sbandati, dopo essersi rifocillati nei campi di raccolta, ne uscivano disperdendosi nuovamente nelle campagne, fece emanare un bando che li minacciava di morte. 165 Sembra che in 573

complesso, durante quei primi giorni del novembre, egli fece eseguire 34 condanne alla fucilazione. 166 Nel 1919, quando fu resa pubblica la relazione della Commissione di inchiesta per Caporetto, Graziani fu accusato dall’«Avanti!» di aver fatto fucilare il 3 novembre 1917 un artigliere, un certo Ruffini, nella piazza di Noventa di Padova, solo perché questi era passato davanti a lui fumando la pipa, 167 e il gen. Graziani decise di replicare sui giornali con una lunga lettera, nella quale cercò di giustificare il suo gesto. Descrisse innanzi tutto l’atmosfera confusa ed agitata esistente nelle retrovie nei giorni della rotta, sottolineò la difficoltà e l’importanza del compito che gli era stato affidato e fornì poi la sua versione dell’episodio. Spiegò che nel pomeriggio del 3 novembre di due anni prima egli aveva effettivamente riportato l’ordine in una colonna di artiglieria e comandato che essa gli sfilasse davanti «al passo cadenzato regolamentare»: «Stavo in piedi sull’automobile e rispondevo salutando ogni capo plotone (sezione) man mano che egli dava il comando di attenti a sinistra. Lo sfilamento procedeva ordinato e silenzioso, improvvisamente sentii uomini della sezione che stava per giungere alla mia altezza pronunciare ripetutamente – rivolti ad un compagno – le parole: “Levati il sigaro, Levati il sigaro”. Guardai verso quel punto e scorsi un soldato che piantatosi un sigaro attraverso la bocca, con la faccia atteggiata a riso di scherno mi fissava in atto di sfida. Valutai tutta la gravità di quella sfida verso un generale che aveva il coraggio di imporre il ritorno al rispetto e alla disciplina. Valutai la necessità, secondo la mia coscienza, di dare 574

subito un esempio terribile, atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia, che li avrebbe piegati all’obbedienza. Saltando giù dall’automobile, di corsa, penetrato entro le file, ho bastonato nella schiena quel soldato. Fermato lo sfilamento, legato il soldato dai carabinieri della mia scorta, lo ho fatto immediatamente fucilare contro il muro della casa vicina. Tutto ciò si è svolto nel tempo di quattro o cinque minuti. Indi fu ripreso ed ultimato lo sfilamento.» 168 Il «Resto del Carlino», pubblicando questa lettera, criticò il generale, dato che la sua reazione appariva nettamente sproporzionata alla causa, e qualche giorno dopo il ministro Albricci deplorò, alla Camera, l’atto del Graziani, comunicando di aver interessato l’autorità giudiziaria. 169 Anche il padre del soldato ucciso sporse denunzia. 170 Negli anni seguenti il gen. Graziani divenne un fervido sostenitore del regime fascista e fu anche nominato luogotenente generale della milizia con funzioni ispettive. Ma nel febbraio 1931 fu trovato morto in una scarpata nei pressi di una linea ferroviaria. Era caduto dal treno per disgrazia o era stato ucciso? Sui giornali dell’epoca si poté leggere che l’esame necroscopico aveva confermato la disgrazia, ma l’autorità giudiziaria riscontrò alcuni particolari sospetti. 171 11. La ritirata dell’esercito italiano dall’Isonzo al Piave si svolse in un grande caos, che contribuì ad accrescere le perdite di uomini e di mezzi e a disintegrare numerose unità che avevano cominciato a marciare ordinatamente. Di solito viene detto che la presenza di migliaia di sbandati fu la principale o addirittura 575

l’unica ragione di quel caos; ma ciò non sembra accettabile per le seguenti considerazioni: a) Numerosi comandi italiani continuarono durante la ritirata ad ispirarsi erroneamente ai princìpi della guerra di posizione, così che invece di far indietreggiare rapidamente il grosso delle truppe, cercarono di frenarne la marcia. Cadorna ordinò da principio la resistenza a oltranza, attese il 27 ottobre per deliberare la ritirata al Tagliamento e perse altre ore preziose prima di decidere di attestarsi sul Piave; 172 il gen. Di Robilant, comandante della IV armata, tardò ad eseguire l’ordine di ripiegamento ricevuto da Cadorna; il contegno di vari comandi subordinati – infine – rese più lenta e quindi più «costosa» la ritirata dell’intero esercito. Gli stati maggiori – disabituati alla guerra di movimento – stentarono a capire come fosse possibile che, dopo aver consumato tante vite umane e tanti mezzi per conquistare pochi lembi di terra sull’Isonzo e sul Carso, dovesse d’improvviso costituire una decisione «conveniente» quella di cedere all’avversario addirittura tutto il Cadore e tutto il Friuli. Non tutti si resero subito conto che, essendo entrato in crisi lo schieramento dell’Isonzo, l’esercito italiano non aveva altra alternativa valida se non quella di ritirarsi al Piave; che le riserve mancavano e non esisteva quindi neppure una remota possibilità di tamponare le falle o di imbottigliare il nemico; che le artiglierie pesanti, i materiali, i magazzini non avrebbero mai potuto essere salvati in poche ore o in pochi giorni. Quella massa di uomini in grigioverde che si avviarono «verso casa», e dunque verso il Piave, presero, senza rendersene conto, la più razionale delle decisioni, perché si sottrassero alla cattura e, ponendo in salvo se stessi, contribuirono a porre in salvo l’esercito di domani: un esercito, infatti, che sull’Isonzo avesse resistito a oltranza contro un nemico tanto più agile ed efficiente, avrebbe rischiato di

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essere annientato in tante sacche. Allorché, il 31 ottobre, la brigata Bologna obbedì all’ordine del Comando supremo di restare sulla riva sinistra del Tagliamento, nonostante un’eroica resistenza, fu accerchiata e sacrificata inutilmente al nemico. 173 b) Nell’ottobre del ’17 mancò un piano organico di ritirata e, da un punto di vista più generale, tutto l’esercito si trovò privo di istruzioni adeguate e di un vero e proprio «addestramento» alla ritirata. Lo stesso accadde ai britannici che nella primavera del ’18, come sappiamo, ebbero un’esperienza simile per molti versi a quella avuta dagli italiani a Caporetto. E il gen. Edmonds, nella storia della Grande guerra, pubblicata sotto la direzione del Committee of Imperial Defence, riconobbe che pure le truppe britanniche erano prive di quell’addestramento, e ne trasse un ammonimento: «È stato autorevolmente sostenuto che è pericoloso addestrare le truppe alla ritirata, perché ciò le disporrebbe a ritirarsi. Sarebbe tempo di riconoscere invece che il ripiegamento è un mezzo idoneo per condurre il nemico in una trappola.» 174 Lo stesso generale esaminò il comportamento dei comandi britannici durante la ritirata, ed espresse giudizi che avrebbero potuto valere anche per numerosi comandi italiani; riconobbe infatti che i generali e gli stati maggiori del suo esercito, abituati a condurre una guerra «sedentaria», furono per lo più incapaci di esercitare una efficace azione di comando durante quella ritirata, soggiungendo che «le più alte autorità» militari britanniche, avvezze a dirigere le truppe da grandi distanze, non riuscirono quasi mai a rendersi conto in tempo di quel che accadde, ed emanarono pertanto direttive che non tenevano conto del rapido mutarsi della situazione. 175 577

c) Sulle poche strade che conducevano al Tagliamento si ammassarono in brevissimo tempo circa un milione di militari e 400.000 profughi civili, con carri, masserizie ed animali. 176 Ciascuno tentò di farsi strada sopravanzando gli altri, ed in molti punti il traffico si congestionò paurosamente, immobilizzando per ore ed ore, soprattutto di notte, colonne di automezzi, quadrupedi e carri. 177 Uno straordinario ingorgo si produsse in corrispondenza dei ponti sul Tagliamento, e centinaia di cannoni, automezzi e carri furono abbandonati lungo le strade e rovesciati nei fossati; migliaia di quadrupedi vennero sventrati perché le loro carni, cucinate presso improvvisati falò, servissero di nutrimento ai fuggiaschi. Quanto accadde sulle strade del Friuli dipese in parte dal fatto che la massa di uomini e mezzi era enorme, ma in parte anche dalla assoluta incapacità degli italiani di regolare in qualche modo il traffico. In quei tempi, come già dicemmo, circolavano in tutt’Italia appena 20.000 autovetture, e ci si affidava, in tema di circolazione stradale, ad una notevole improvvisazione. Nel settembre del ’15, ad esempio, un bando dell’autorità militare prescrisse che i veicoli tenessero la destra… salvo che nelle città in cui fosse stabilito di tenere la sinistra. 178 In condizioni normali i guidatori riuscivano a cavarsela grazie ad una certa destrezza, ma durante la ritirata di Caporetto la destrezza non servì a nulla e produsse anzi conseguenze catastrofiche. Il Trevelyan, che prese parte alla ritirata con le autoambulanze britanniche, narrò che in prossimità del Tagliamento la sua colonna avanzava ogni tanto di qualche metro nel caos più assoluto, e valutò che la totale mancanza di un controllo avesse raddoppiato il numero dei cannoni, dei camion e dei carri che caddero in mano al nemico. 179 Anche il Tondi, rimasto bloccato nei pressi di San Daniele, s’indignò al vedere che nessuno aveva pensato a stabilire una 578

qualsiasi disciplina, mentre «sarebbe bastato qualche ufficiale, qualche pattuglia di Carabinieri lungo la strada, per mettere ordine al movimento [così che] in poche ore sarebbero passati tutti e si sarebbe salvato tanto materiale per centinaia di milioni!». 180 Nella calca immane Ardengo Soffici riuscì finalmente ad arrivare al ponte di Pinzano, ma rimase bloccato proprio nel mezzo del ponte, fra le urla degli uomini e i pianti delle donne. Qual era l’ostacolo che impediva di procedere oltre? Quando Soffici, a forza di spinte e bestemmie, poté farsi avanti, ebbe la sorpresa di accorgersi che «non c’era nulla, se non un maggiore inviperito, ritto in mezzo alla strada, con la rivoltella in pugno, il quale, per fare sfoggio della sua autorità, impediva a chiunque di passare finché non piacesse a lui». Sapendo che alle sue spalle restava ancora una metà dell’esercito in attesa di transitare, Soffici si rese improvvisamente conto dell’importanza che il problema del traffico assumeva in una ritirata e rimpianse «di non aver l’autorità necessaria per eliminare tanta asinità, fosse anche a revolverate». 181 Fra il Tagliamento e il Piave si ripeterono le medesime scene ed a Susegana, secondo il Tondi, presso il sottopassaggio della ferrovia fu «l’inferno», perché colonne interminabili tentarono di sopraffarsi per passare prime in quell’angusta apertura, e tutti sembrarono «impazziti», tanto che gli ufficiali si affrontarono con la pistola in pugno per far passare le loro truppe. 182 Il bello fu che molto spesso, a breve distanza, si trovavano strade, passaggi e ponti interamente sgombri, come poterono constatare con i loro stessi occhi il re e il presidente Orlando. 183 Quando il gen. Caviglia, disobbedendo agli ordini ricevuti, ordinò alle sue truppe di passare il Tagliamento a Latisana, anziché a Codroipo

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(dove non si riusciva a transitare), scoprì con sua sorpresa che laggiù la strada era completamente libera. 184 Per fortuna degli italiani anche gli austro-tedeschi, durante la battaglia, commisero molti errori, perché riuscirono solo in parte ad approfittare delle condizioni di vantaggio nelle quali vennero a trovarsi e troppo tardi decisero di puntare verso sud per tagliare la strada alla III armata, così che quest’ultima poté salvarsi facendosi proteggere da «stremenzite retroguardie». 185 Ma anche la II e la IV armata riuscirono a compiere la ritirata senza subire una forte pressione nemica. 186 Come lo stesso gen. Diaz riconobbe un anno più tardi, gli austro-tedeschi non erano preparati a sfruttare il loro successo: «Se lo fossero stati» disse il generale «il nostro disastro sarebbe stato irreparabile; l’intero esercito sarebbe stato distrutto». 187 E difatti, se il ritirare un esercito dall’Isonzo al Piave poneva enormi problemi organizzativi, anche la corrispondente avanzata dell’altro esercito ne poneva di giganteschi. Arrivati al piano e poi al Tagliamento gli austro-tedeschi batterono il passo per la scarsa mobilità delle artiglierie e dei servizi, la mancanza di cavallerie e l’assenza di materiali da ponte. 188 Allorché, ai primi di novembre, le armate di von Below e di Boroevic raggiunsero il Piave non furono «più in grado, anche e soprattutto per ragioni logistiche, di svolgere una nuova offensiva». 189 12. Allorché il 2 novembre gli austro-tedeschi attraversarono il Tagliamento, il Comando supremo italiano giudicò la situazione estremamente seria e Bissolati, il giorno seguente, fece pervenire dal fronte al nuovo presidente del Consiglio un telegramma assai drammatico: «Situazione aggravasi rapidamente col forzamento alto Tagliamento per parte nemico. Si tenterà resistenza 580

sul Piave con poche speranze. Parmi necessario esporre situazione chiaramente agli alleati. Se credono loro interesse resistere devono mandare altre quindici divisioni sul Mincio. Altrimenti nostro Paese trovasi mercé nemico nel qual caso credo governo attuale non adatto patteggiare resa. Devono venire governo autentici rappresentanti di chi preparò disfacimento morale nostro esercito.» 190 Bissolati spedì quel giorno, a quanto risulta, anche un altro allarmante messaggio, nel quale, alle pessimistiche previsioni in merito alla resistenza sul Piave, fece seguire una «fosca» descrizione del disordine e della confusione esistenti nel Comando supremo. 191 Il Consiglio dei ministri deliberò di inviare subito al fronte il ministro della Guerra, gen. Alfieri, munito di pieni poteri, e nel corso della riunione tenuta l’indomani, 4 novembre, prese in esame l’eventualità di affidare il Comando supremo al duca d’Aosta, coadiuvato dei generali Diaz e Giardino. 192 Alla sera, salendo sul treno che doveva condurlo a Rapallo, per la conferenza interalleata con Lloyd George e Painlevé, il presidente Orlando ricevette dalle mani del colonnello Gatti una lettera di Cadorna. 193 Nel leggerla il presidente dovette provare preoccupazione e dispetto. Preoccupazione: perché Cadorna descriveva una situazione assai critica, perfino esageratamente critica, dato che – mentre venti giorni prima aveva creduto a un bluff – adesso prestava fede alle notizie di una inesistente minaccia dal Trentino. 194 Dispetto: perché lo stesso Cadorna scaricava sul governo l’intera responsabilità degli scacchi già subiti e magari anche di quelli ancora da venire. Il comandante supremo, infatti, attribuiva Caporetto alla propaganda disfattista

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(e quindi alla politica interna di Orlando), ed avvertiva nello stesso tempo che sarebbe stata possibile una catastrofe sul Piave ma lasciava al governo la responsabilità di decidere in merito ad una pace separata. 195 Allorché Orlando arrivò a Rapallo per il convegno interalleato la mattina del 5 novembre, subito dopo aver letto quella lettera, si trovava insomma in una condizione di spirito non molto favorevole al gen. Cadorna, ed è questo un dato di fatto da tener presente per capire come e perché nel pomeriggio dell’indomani fu deciso, o quanto meno fu «definitivamente» deciso, l’esonero del comandante supremo. Orlando, nelle sue memorie, ha sostenuto che la decisione di sostituire Cadorna con Diaz fu da lui presa insieme con il re fin dal 28 ottobre, al momento di assumere la carica di presidente del Consiglio. 196 Ma altri hanno viceversa sempre affermato che quella risoluzione fu imposta dai franco-britannici durante i colloqui di Rapallo. In realtà non tutto è chiaro ancora in merito alla decisione del 6 novembre, e la lettura dei verbali del convegno di Rapallo farebbe concludere che, al mattino del 6, Orlando ancora esitasse ad esonerare il generalissimo. Probabilmente il 28 ottobre egli aveva già chiesto ed ottenuto dal re l’autorizzazione di esonerare Cadorna; probabilmente, all’inizio del convegno di Rapallo, egli riteneva ancora che il problema sarebbe stato esaminato da lui e dai ministri qualche tempo dopo, quando la situazione militare si fosse normalizzata. 197 Di certo, la mattina del 6 novembre Lloyd George e Painlevé dichiararono senza cerimonie di non aver fiducia in Cadorna. Come disse infatti il premier britannico: «Da indagini fatte, io non credo che il Comando italiano sia tale da potergli affidare divisioni inglesi e francesi […] Secondo le mie informazioni il Comando

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supremo [durante i recenti avvenimenti] fu preso dal panico come i soldati.» 198 Di certo il presidente Orlando rispose: «Il governo italiano ha già considerato necessaria la riorganizzazione dello stato maggiore. Ciò è stato deliberato nell’ultimo Consiglio dei ministri, che ha dato pieni poteri a me e a Sonnino, d’accordo col ministro della Guerra. Noi non abbiamo esitazioni: ma è indispensabile considerare la difficoltà di fare tali mutamenti in momenti difficili. Riconfermo però che la riorganizzazione è stata decisa ed è in corso. Essa sarà risolta con grande rapidità. […] Vi sono questioni tecniche per le quali è necessario procedere d’accordo ed esaminarle insieme ai militari.» 199 Orlando, in sostanza, cercava di guadagnare tempo ed evitava di assumere impegni, pur lasciando intendere che qualcosa bolliva in pentola. Lloyd George si dichiarò «lieto», ma «non ancora interamente soddisfatto», ed aggiunse, parlando a nome dei francesi, che se Cadorna, Porro ed il loro stato maggiore fossero restati in carica, gli alleati non avrebbero avuto fiducia nel Comando italiano: «Dovremmo sempre temere» spiegò «che le truppe italiane alla destra e alla sinistra delle nostre divisioni possano lasciarci nell’imbarazzo. Non per difetto di valore,» si affrettò a precisare «che non contestiamo, ma soltanto perché dal loro Comando furono poste in condizioni insostenibili». 200 Dopo queste preoccupanti parole la seduta fu sospesa ed i delegati andarono a pranzo. Orlando pensava di avere urgente bisogno dell’aiuto alleato, ma forse avrebbe preferito rimandare ancora la soluzione della 583

questione Cadorna. Avvertiva che il generalissimo sarebbe stato un personaggio scomodo anche per il suo governo, ma probabilmente aveva un certo timore sia dell’uomo, sia dei problemi che la di lui sostituzione avrebbe sollevati. Che fare? A quanto pare la soluzione fu suggerita dopo colazione da uno dei più abili politici e diplomatici della Gran Bretagna: sir Maurice Hankey, venuto a Rapallo al seguito di Lloyd George. Passeggiando con il conte Aldrovandi-Marescotti, capo gabinetto di Sonnino, prima che iniziasse la seduta pomeridiana, Hankey accennò al nuovo organismo militare in via di costituzione (il Consiglio superiore interalleato) e, a proposito delle esitazioni di Orlando, osservò: «Non vi offrirebbe questo organo l’opportunità di destinarvi Cadorna?». L’Aldrovandi si recò subito a parlarne con Orlando, che a sua volta ne parlò a Sonnino. Alle 14,45, in apertura di seduta, Orlando dichiarò che riteneva di aver trovato la soluzione: era quella proposta da Hankey. 201 Porro e Gatti partirono per recare la notizia a Cadorna. Erano angosciati. Giunsero a Padova l’indomani sera e Porro si recò subito a conferire con il comandante supremo: questi non si aspettava l’esonero e dichiarò che non avrebbe mai accettato il nuovo incarico. «Sono le 19,30: è l’ora di pranzo. Cadorna esce dalla stanza con Porro. Ha lo stesso passo di quando ci è venuto incontro, e pare abbia la stessa impassibilità; ma la testa gli è rientrata un po’ più fra le spalle, che sono sempre state un po’ alte. Si siede a tavola e dice: “Non mi abbatteranno mai: se mi credono uguale a loro sbagliano di molto”.» 202 Ebbe inizio un «tragico» pranzo. Tutti pensavano che la uscita di scena del vecchio generale stesse segnando la fine di un’epoca. 584

Nessuno sapeva ancora che in quello stesso momento – era infatti la sera del 7 novembre – i bolscevichi occupavano a Pietroburgo il Palazzo d’Inverno.

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Note 1

Sulla battaglia di Caporetto esiste una letteratura vastissima, della quale si potrà trovare un’ampia ed accurata rassegna in A. MONTICONE , La battaglia di Caporetto, Roma 1955, pp. 11-40. Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi scritti e documenti intorno alla battaglia, oltre alla attesissima relazione dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, ampiamente utilizzata nelle pagine che seguono. Desideriamo segnalare al lettore fra l’altro il bel volume di M. SILVESTRI , Isonzo 1917, cit.; A. GATTI , Caporetto, cit.; L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit.; R. SETH , Caporetto, Milano 1966. Sulla tattica impiegata dagli austro-tedeschi durante la battaglia si veda il saggio di G. VASILE , L’infiltrazione (Genesi - Evoluzione Considerazioni), in «Rivista militare», novembre 1968, pp. 1366-81.←

2

Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 464.←

3

Ibid., p. 465.←

4

Ibid., p. 469.←

5

Ibid., pp. 467-68.←

6

Ibid., pp. 469-70.←

7

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 168 (conversazione con Amendola del 15 ottobre 1917) e A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, in Opere, cit., pp. 241-45.←

8

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 369.←

9

A. CAVACIOCCHI , Il IV corpo d’armata alla battaglia di Caporetto, 24-25 ottobre 1917 [dattiloscritto], p. 98, in MILANO ,

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Risorgimento, b. 8.← 10

A. OMODEO , Lettere, cit., p. 229 (lettera dell’8 ottobre 1917).←

11

Cfr. A. CAVACIOCCHI , Il IV corpo d’armata alla battaglia di Caporetto, cit., pp. 97-98.←

12 13

14 15

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Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 383.← E. FALDELLA , Caporetto, le vere cause di una tragedia, Bologna, 1967, pp. 23-24.← Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, p. 87.← Ibid., pp. 46-47, 88-89 e 98. Si veda anche quanto rivelò Gallarati Scotti: il 18 settembre Cadorna perse ogni speranza sulla resistenza dei russi e «in mezz’ora» diede ordine di sospendere ogni progetto offensivo. Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 271 (alla data del 26 ottobre 1917).← Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 422.←

17

Sullo scetticismo con il quale vennero accolte le informazioni pervenute nella seconda quindicina di settembre, cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, p. 91. Sulla residenza di Cadorna a Villa Camerini cfr. la lettera di R. Cadorna pubblicata in «Domenica del Corriere» del 6 dicembre 1964, p. 4 dove si legge che il comandante supremo si recò nella villa per ispezionare i lavori di difesa sul fronte trentino in previsione di un attacco nemico «in primavera».←

18

A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 250-51 (alla data del 4 ottobre 1917).←

19

Cfr. ibid., p. 211 (alla data del 1° settembre 1917).←

20

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 127-28 (lettera del 7 587

ottobre 1917).← 21 22

Ibid., pp. 128-29 (lettera dell’11 ottobre 1917).← ACS, Carte Orlando, b. 2, fasc. 85 (Cadorna). La lettera proseguiva accennando brevemente all’attività disfattista dell’ex prefetto Panizzardi. Si veda il testo completo della lettera in P. MELOGRANI , Le cause di Caporetto nelle lettere di Rino Alessi (e in una lettera del Generale Cadorna), in «Il nuovo osservatore», novembre-dicembre 1966, pp. 990-93.←

23

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 93-94.←

24

P. PIERI , L’Italia nella Prima guerra mondiale, cit., p. 147.←

25

Relazione ufficiale Caporetto, t. 3° bis, p. 119.←

26

Relazione ufficiale Caporetto, t. 3° bis, p. 103.←

27

Cfr. A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., p. 231.←

28

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 109-11.←

29

Cfr. ibid., pp. 110-11.←

30

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 135 (lettera del 16 ottobre 1917).←

31

Deposizione di Capello alla Commissione d’inchiesta su Caporetto, in L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., pp. 351-52.←

32

Relazione ufficiale Caporetto, t. 3° bis, p. 74.←

33

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 252 (alla data del 19 ottobre 1917).←

34

Sul colloquio tra Cadorna e Capello cfr. tra l’altro L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 73-74 e Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, 588

pp. 114-15. Cadorna non ebbe mai interesse a far notare che Capello – suo subordinato – non aveva mai disposto la II armata secondo un vero e proprio schieramento «controffensivo»; se lo avesse fatto notare avrebbe dovuto anche ammettere la propria corresponsabilità.← 35

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 293.←

36

Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 114-15. Cfr. inoltre le osservazioni pubblicate in A. CABIATI , La battaglia dell’ottobre 1917, Milano 1945, pp. 224-25. Per meglio determinare le previsioni compiute da Cadorna tra l’11 e il 21 ottobre non ci sono purtroppo di alcun aiuto le sue Lettere famigliari, dato che nessuna lettera da lui scritta in quei giorni è stata pubblicata nella raccolta.←

37

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3° bis, pp. 38-45; cfr. inoltre i giudizi di Cadorna ed Amendola in O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 212 e 222 (conversazioni con Cadorna e con Amendola del 23 e 26 novembre 1917). Anche in una lettera del 22 ottobre, pubblicata non integralmente, Cadorna dava l’impressione di considerare vanterie le notizie recate dai due romeni e, soprattutto, dimostrava di non aver inteso il valore dell’elemento «sorpresa», come risulterà chiaro da quanto diremo nelle pagine successive, cfr. L. CADORNA , Lettere famigliari, cit., p. 226.←

38 39

40

A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., pp. 248 sgg.← A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 253-54 (alla data del 21 ottobre 1917).← Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 293.← 589

41

A. CAVACIOCCHI , Un anno al comando del IV corpo d’armata, cit., p. 146. Cfr. inoltre MILANO , Risorgimento, cart. 159, b. 4, allegato P (Sunto delle conferenze tenute il 22 ottobre 1917 in Cormons e in Creda). Sulle incertezze di Cadorna ancora il giorno 22, cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 102.←

42

E. CAVIGLIA , Diario, cit., p. 111 (alla data del 31 marzo 1933). Si trattava di notizie riferite a Caviglia dal gen. Bongiovanni.←

43

Ibid., p. 114 (alla data del 17 aprile 1933).←

44

Ibid., pp. 111 e 114.←

45

Ibid.←

46

E. ROMMEL , Infanterie Greift an: Erleibnisse und Erfahrungen, Potsdam 1937, p. 230.←

47

Cfr. le dichiarazioni del gen. Krafft von Dellmensingen a Luciano Magrini in L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 9-10.←

48

Ibid., pp. 9-10 e 102-03 e A. CABIATI , La battaglia dell’ottobre 1917, cit., p. 34.←

49

Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, p. 232.←

50

Cfr. A. CABIATI , La battaglia dell’ottobre 1917, cit., p. 115.←

51

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 224-27.←

52

Cfr. ibid., pp. 224-29.←

53

A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 259-60 (alla data del 24 ottobre 1917).←

590

54

55 56

Cfr. A. LUSTIG , Fisiopatologia e clinica dei gas da combattimento, cit., p. 10; F. WEBER , Tappe della disfatta, cit., pp. 147 e 16364.← Ibid., p. 159.← La sera del 23 ottobre il ten. Weber, quando conobbe il piano di operazioni e seppe che i suoi commilitoni avrebbero dovuto procedere lungo i fondivalle rimase interdetto e preoccupato. Cfr. ibid., pp. 155-56.←

57

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 261 sgg.←

58

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 140.←

59

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 267.←

60

Cfr. F. FOCH , Memorie, Milano 1931, p. 345.←

61

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 114.←

62

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 257 sgg.←

63

Cfr. P. PAINLEVÉ , Comment j’ai nommé Foch et Pétain, Paris 1923, p. 259.←

64

Sulle offensive tedesche del marzo-maggio 1918 cfr. F. FOCH , Memorie, cit., pp. 343 sgg.; J.E. EDMONDS , History of the Great War, based on official documents by direction of the Historical Section of the Committee of Imperial Defence, Military Operations, France and Belgium, 1918, 3 voll., London 1935-39; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 279 sgg., nonché R. BENCIVENGA , La sorpresa strategica di Caporetto, Roma 1932, p. 63.←

65

Cfr. F. FOCH , Memorie, cit., pp. 352 e 422 sgg.← 591

66

Cfr. ibid., pp. 438 e 443-47.←

67

Cfr. ibid., pp. 449 sgg.←

68

E. ROMMEL , Infanterie Greift an, cit., pp. 228 sgg. Sulle operazioni effettuate dalle truppe di Rommel cfr. F. BANDINI , La lezione di Rommel, in «La Domenica del Corriere», 14 novembre 1967, pp. 10 sgg. nonché, dello stesso autore, Il Piave mormorava, Milano 1965, pp. 106-07 e 115.←

69

E. ROMMEL , Infanterie Greift an, cit., pp. 259-60.←

70

Ibid., pp. 272-77.←

71

Cfr. pp. 196 sgg.←

72

73 74

75

E. ROMMEL , Infanterie Greift an, cit., pp. 294-306; Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 149-50; E. CAVIGLIA , La dodicesima battaglia (Caporetto), Milano 1965, pp. 267-69 e Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, ad indicem ma in particolare alla p. 372 ove si legge che 28 ufficiali e 787 uomini della brigata si sottrassero alla cattura.← E. ROMMEL , Infanterie Greift an, cit., pp. 303-04.← Ibid., pp. 307-51. Il racconto di Rommel è molto particolareggiato ed in questa sede ci siamo limitati a riferire soltanto le notizie essenziali.← Ibid., pp. 351-57.←

76

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 169.←

77

Cfr. ibid., p. 170 (dichiarazione fatta dal gen. Krauss a Luciano Magrini).←

592

78

Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, p. 309. La Commissione d’inchiesta su Caporetto, ritenendosi priva di «completi sicuri elementi di giudizio» preferì non «convalidare» le gravi accuse rivolte a numerosi comandi di aver abbandonato le truppe a se stesse. Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 311-12. Cadorna cercò di riversare gran parte delle responsabilità sugli ufficiali di grado più basso, affermando che essi erano fuggiti per primi. Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 218 e 288-89 (conversazioni con Cadorna del 23 novembre 1917 e del 25 febbraio 1918).←

79

Cfr. MILANO , Risorgimento, cart. 159, b. 8.←

80

Ibid., pp. 29 e 31.←

81

A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 365.←

82

Cfr. infatti C. GALLI , Diarii e lettere, cit., p. 292. Il Galli ed altri funzionari civili del Comando supremo viaggiarono da Udine a Treviso nelle automobili militari; furono erroneamente ritenuti ufficiali in borghese e, come tali, fischiati dalle truppe.←

83

A. SFORZA , Badoglio a Caporetto, in «L’Astrolabio», 25 dicembre 1964, p. 35.←

84

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, p. 225. Sugli ordini notevolmente confusi impartiti alle artiglierie della II armata cfr. ibid., pp. 224-35. In merito alle accuse lanciate contro Badoglio cfr., fra l’altro, L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 123-42.←

85

Cfr. la nota a firma G.P. [Giuseppe Paratore] in «Nuova Antologia», agosto 1960, p. 478, nonché A. SPINOSA , L’inchiesta su Caporetto - Tredici pagine «sottratte» per coprire Badoglio, in 593

«Il Giorno», 12 marzo 1966. Si veda anche quanto è scritto in L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 142; V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 214-23; A. LUMBROSO , Cinque capi nella tormenta, Milano 1932, p. 208; R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 273-74 (lettera del 30 agosto 1918).← 86

La Commissione scrisse infatti: «Pur dovendo ancora procedere a svariate indagini sul complesso delle cause degli avvenimenti, e specialmente sul contegno e la resistenza delle masse combattenti, la Commissione, con ogni riserva di giudizio, ritiene ad unanimità giustificata, allo stato dell’inchiesta, la preoccupazione del governo di regolare in modo diverso dall’attuale la eccezionale posizione di stato dei generali in questione, in quanto, in rapporto ad essi, non difettano indizi di responsabilità». Cfr. ACS, Presidenza, b. 19.4.1, f. 68 (risposta della Commissione d’inchiesta su Caporetto, in data 3 giugno 1918, alla lettera 12 maggio 1918 del ministro della Guerra).←

87

Ibid. (lettera del ministro della Guerra gen. Zupelli al presidente del Consiglio, in data 4 giugno 1918).←

88

Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 54-55. Sugli episodi di resistenza durante la ritirata di Caporetto molte notizie in C. TOMASELLI , Gli ultimi di Caporetto, Milano 1931.←

89

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 192, 217 e 257-59. Solo l’1,4% dei prigionieri erano feriti.←

90 91

Cfr. pp. 440 sgg.← G.C. FERRARI , Il disastro di Caporetto e la battaglia di Vittorio Veneto. Psicologia della guerra di movimento, in «Rivista di 594

psicologia», maggio-agosto 1919, p. 155.← 92

Ibid.←

93

A. CAVACIOCCHI , Un anno al comando del IV corpo d’armata, cit., p. 540. Cfr. inoltre V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 231.←

94

Il 1° novembre 1917, a Gleris (frazione di S. Vito al Tagliamento), si svolse un processo contro numerosi soldati ritiratisi senza armi; ma risultò che essi erano stati disarmati da un maggiore dei carabinieri subito dopo aver traversato il ponte del Tagliamento. Il maggiore, infatti, ordinava ai soldati di depositare i fucili, dicendo che sarebbero stati necessari di lì a poco, per la difesa del fiume. L’episodio è stato narrato, la sera del 13 novembre 1968, durante una trasmissione della Televisione italiana, da un soldato che fu processato a Gleris. Ma se ne può trovare una conferma in C. DE LOLLIS, Taccuino di guerra, cit., p. 48←

95

Cfr. L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., pp. 299-300.←

96

Cfr. L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. II, p. 386.←

97

Ibid.←

98

G.C. FERRARI , Il disastro di Caporetto, cit., p. 159. Sugli ufficiali che si disarmarono durante la ritirata, levandosi inoltre distintivi e fregi, cfr. L. CAPELLO , Per la verità, cit., p. 16, e Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 105.←

99

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 154 (lettera del 7 novembre 1917).←

100

C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., pp. 45-46 (alla data del 28 ottobre 1917).←

595

101

A. KRAUSS , Das Wunder von Karfreit, München 1926, p. 65 e K. KRAFFT VON DELLMENSINGEN , Der Durchbruch am Isonzo, Berlin 1925, 2 voll., vol. I, p. 57.←

102

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 484-87 e 531-32.←

103

F. TROIANI , La coda di Minosse, cit., p. 61.←

104

Cfr. l’intervento dell’on. Di Giorgio in CAMERA DEI DEPUTATI, Discussioni, p. 21071 (seduta del 12 settembre 1919).←

105

Cfr. la relazione conclusiva del prof. A.M. Ghisalberti in ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO, Atti del XLI congresso ecc., cit., p. 497. Cfr. inoltre Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 483 e C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., pp. 116-17.←

106

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 483. Cfr. inoltre C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., p. 97 e E. LUSSU , Un anno sull’altipiano, cit., pp. 182 e 185. Nell’agosto del 1918 pure i soldati tedeschi, in fuga sul fronte francese, gridarono «crumiri» all’indirizzo dei loro commilitoni in marcia verso le prime linee. Cfr. E. LUDENDORFF , I miei ricordi di guerra, 19141918, Milano 1920, 2 voll., vol. II, p. 204.←

107

Cfr. R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 264-65.←

108

G.C. FERRARI , Il disastro di Caporetto, cit., pp. 161-62.←

109

Cfr. la relazione del prof. Ghisalberti già citata alla nota 105, nonché A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., pp. 361-62.←

110

Cfr. G.C. FERRARI , Il disastro di Caporetto, cit., p. 158.←

111

R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., p. 263.←

596

112

G. MINZONI , Diario, cit., p. 140 (alla data del 1° novembre 1917.←

113

A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., p. 359.←

114

Ibid., p. 360. In Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 104, si legge inoltre che la cavalleria, a Palmanova, caricò torme di saccheggiatori ubriachi.←

115

F. WEBER , Tappe della disfatta, cit., p. 177.←

116

G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., p. 192.←

117

C. MALAPARTE , La rivolta dei santi maledetti, cit., pp. 108 e 113.←

118

L. CAPELLO , Note di guerra, cit., vol. II, p. 213.←

119

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 184 (conversazione con G. Amendola del 6 novembre 1917).←

120

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 278 (alla data del 30 ottobre 1917).←

121

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 231. Cfr. inoltre O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 179.←

122

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 110.←

123

L’ordine era stato dato da Cadorna in previsione di uno sforzo prolungato e «senza perdere di vista necessità assicurare forte accumulo di munizioni per operare ventura primavera». Cfr. Relazione ufficiale Caporetto, t. 3°, pp. 32022.←

124

Ibid., p. 323.←

597

125

Inchiesta Caporetto, vol. I, p. 132.←

126

A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 257-60 (alla data del 24 ottobre 1917).←

127

Ibid., pp. 260-62.←

128

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 285.←

129

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 264 (alla data del 25 ottobre 1917).←

130

L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 180.←

131

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 545. A Roma il governo decise immediatamente di non rendere pubblico tale testo, e modificò il primo periodo nel modo seguente: «La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni reparti della II armata hanno permesso alle forze austro-tedesche…» (ibid.). Ma il comunicato originale era già stato diffuso all’estero dal Comando supremo attraverso una sua stazione radiotelegrafica. Sull’argomento cfr. L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., p. 254 e L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 144-45. Il telegramma di Orlando all’ambasciatore italiano a Parigi è in ACS, Min. Interno, Gabinetto, Uff. Cifra, Telegrammi in partenza, anno 1917, n. 26955. Il 29 ottobre gli austriaci lanciarono sulle truppe italiane migliaia di manifestini, nei quali si poté fra l’altro leggere: «In questo momento, così critico per la vostra nazione, il vostro generalissimo, che insieme a Sonnino è uno dei più colpevoli autori di questa guerra inutile, ricorre ad uno strano espediente per scusare lo sfacelo. Egli ha l’audacia di accusare il vostro esercito, il fiore della vostra gioventù, di viltà, quello stesso esercito che tante volte si è slanciato per ordine suo ad 598

inutili e disperati attacchi! Questa è la ricompensa del vostro valore! Avete sparso il vostro sangue in tanti combattimenti, il nemico stesso mai vi negò la stima di avversari valorosi. E il vostro generalissimo vi disonora, vi insulta per discolpare se stesso!». Inchiesta Caporetto, vol. I, p. 232. Sull’indignazione suscitata in Italia dal comunicato di Cadorna, cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 171 (conversazione con Orlando del 29-30 ottobre 1917). Osservazioni in proposito si possono leggere anche in Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 54748.← 132

Lo riferì Luigi Albertini il 2 novembre, dopo una visita al Comando supremo, cfr. infatti O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 175.←

133

Ibid., p. 285 (conversazione con Cadorna del 25 febbraio 1918), ma cfr. anche ibid. pp. 211-12 (conversazione con Cadorna del novembre 1917) e F. MARTINI , Diario, cit., p. 1053 (alla data del 19 novembre 1917).←

134

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 191 (conversazione con Bissolati del 13 novembre 1917) e p. 184 (conversazione con Amendola del 6 novembre 1917).←

135

Cfr. l’intervento di Alfieri alla seduta del 13 dicembre 1917 in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 114, nonché F. MARTINI , Diario, cit., p. 1050 (alla data del 16 novembre 1917).←

136

Cfr. A. STANGHELLINI , Introduzione alla vita mediocre, Milano 1924, p. 149; R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 144 (lettera del 25 ottobre 1917); A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 383; F. MARTINI , Diario, cit., p. 1050 (alla data del 16

599

novembre 1917).← 137

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 532.←

138

Ibid., pp. 530-33.←

139

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 191 (conversazione con Bissolati del 13 novembre 1917). Cfr. anche Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 484.←

140

Cfr. L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., p. 347.←

141

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 177 (conversazione con Tedeschi del 2 novembre 1917).←

142

Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 269 ma anche A. GATTI , Caporetto, cit., p. 285 (alla data del 31 ottobre 1917).←

143

Ibid., p. 295 (alla data del 1° novembre 1917).←

144

G. GIOLITTI , Memorie della mia vita, cit., p. 545.←

145

Cfr. il telegramma citato a p. 415.←

146

Cfr. ACS, Min. Interno, Gabinetto, Uff. Cifra, Telegrammi in partenza, anno 1917, n. 26940.←

147

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 363.←

148

Cfr. C. GALLI , Diarii, cit., p. 288.←

149

O. CIMA , Milano durante la guerra, cit., p. 147.←

150

E. MUSSOLINI , Mio fratello Benito, Firenze 1957, p. 81.←

151

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., pp. 228-29 (conversazione con Bissolati dell’8 dicembre 1917).←

152

Cfr. ibid., p. 248 (conversazione con Bissolati del 3 gennaio 600

1918).← 153

Ibid., p. 279 (conversazione con Amendola del 16 febbraio 1918).←

154

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 181.←

155

Circolare del Comando supremo datata 26 ottobre 1917 pubblicata in F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1036-37.←

156

Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 233.←

157

Cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 390 e G.C. FERRARI , Il disastro di Caporetto, cit., p. 162.←

158

Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 234-35.←

159

A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., p. 331.←

160

Ibid., p. 344.←

161

C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 47 (alla data del 30 ottobre 1917).←

162

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., p. 106 (alla data del 14 giugno 1917).←

163

Così scrisse nella lettera citata alla nota 168.←

164

Cfr. G. VOLPE , Caporetto, cit., pp. 139-40.←

165

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 234.←

166

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. IL, 445-46 e 449. Alcuni accenni all’opera del Graziani in L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 96-97 e in U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 424.← 601

167

Cfr. «Avanti!», 28 luglio 1919. L’on. Mazzoni, socialista, presentò un’interrogazione in parlamento. Cfr. «Il Resto del Carlino», 1° agosto 1919. Sul caso del gen. Graziani cfr. anche [B. VIGEZZI ], 1919-1925. Dopoguerra e fascismo, politica e stampa in Italia, Bari 1965, pp. 384, 630-31 e 634.←

168

La lettera del gen. Graziani fu pubblicata da «Il Resto del Carlino», 6 agosto 1919, p. 3 e, in sostanza, la versione del generale non differì da quella dell’«Avanti!» tranne che per alcuni particolari e per il fatto che il generale negò di aver occultato la fucilazione del Ruffini ai comandi superiori. Nella cronaca data dall’«Avanti!» si lesse fra l’altro: «Il generale lo redarguisce e, riscaldandosi, inveisce e lo bastona. Il soldato non si muove. Molte donne e parecchi borghesi sono presenti. Un borghese interviene e osserva al generale che quello non è il modo di trattare i nostri soldati. Il generale, infuriato, risponde: Dei soldati io faccio quello che mi piace, e per provarlo fa buttare contro un muricciolo il Ruffini e lo fa fucilare immediatamente tra le urla delle povere donne inorridite».←

169

Cfr. CAMERA 1919.←

DEI DEPUTATI,

Discussioni, seduta del 10 agosto

170

Cfr. «Il Resto del Carlino», 10 agosto 1919, p. 2 (La procedura del processo contro Graziani).←

171

Cfr. le notizie pubblicate dalla «Nazione» e dal «Resto del Carlino» fra il 28 febbraio e il 4 marzo 1931. Il gen. Graziani comandò nel 1918 la divisione cecoslovacca schierata sul fronte italiano e fece fucilare senza processo, per diserzione, otto militari appartenenti a quella divisione. Cfr. infatti E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone di esecuzione, cit., p. 449. Il generale, tuttavia, lasciò fra i cecoslovacchi un buon ricordo di 602

sé, a quanto risulta sia da E. EGOLI , I legionari cecoslovacchi in Italia, 1915-1918, Roma 1968, p. 37 e passim, sia dai numerosi telegrammi di cordoglio pervenuti dalla Cecoslovacchia nel febbraio-marzo 1931 e pubblicati nella stampa dell’epoca.← Editing 2017: nick2nick www.italiashare.info 172

Cfr. P. PIERI , L’Italia nella Prima guerra mondiale, cit., pp. 15257.←

173

Cfr. ibid., p. 155.←

174

J.E. EDMONDS , History of the Great War, cit., vol. II, p. 481.←

175

Ibid., p. 482.←

176

Cfr. L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 510; Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 541.←

177

Cfr., tra l’altro, R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 272 sgg.←

178

Cfr. MINISTERO DELLA GU E R R A , COMANDO DEL CORPO DI STATO MAGGIORE , Bandi, ordinanze e proclami, cit., vol. I, p. 139 (bando datato 18 settembre 1915 del comandante del corpo d’armata di Verona).←

179

G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., p. 191. Anche prima di Caporetto i militari britannici presenti sul fronte italiano si meravigliarono per la confusione esistente nelle strade. Cfr. infatti ibid., pp. 70 e 80-81, nonché H.C. GOLDSMID , Diary of a liaison officer in Italy 1918, London 1920, pp. 6263.←

180

R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., p. 273.←

181

A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., pp. 307-08. Sull’intasamento nelle strade del Veneto cfr. Inchiesta 603

Caporetto, vol. II, pp. 230-39.← 182

R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 279-80 (alla data del 5 novembre 1917).←

183

Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 231.←

184

Cfr. E. CAVIGLIA , La dodicesima battaglia, cit., p. 202.←

185

Ibid., pp. 170 e 192-93. Cfr. anche A. CABIATI , La battaglia dell’ottobre 1917, cit., pp. 245 e 285.←

186

Cfr. i comunicati di Cadorna in Inchiesta Caporetto, vol. I, pp. 107 sgg., nonché P. PIERI , L’Italia nella Prima guerra mondiale, cit., pp. 156-57, dove si legge che il grande successo austrotedesco nei confronti della IV armata si ridusse alla cattura di tre divisioni in Carnia e della retroguardia a Longarone, potendosi pertanto concludere che «la mentalità annientatrice» mancò non soltanto ai comandi italiani ma anche a quelli avversari.←

187

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 447 (conversazione con Diaz del 16 novembre 1918).←

188

Cfr. A. CABIATI , La battaglia dell’ottobre 1917, cit., p. 289 e G. VOLPE , Caporetto, cit., pp. 126-27.←

189

A. CABIATI , La battaglia dell’ottobre 1917, cit., pp. 385-86.←

190

ACS, Carte Orlando, b. 2, f. Bissolati.←

191

Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 238-40 e 504.←

192

Cfr. ibid., pp. 504-05.←

193

Cfr. A. GATTI , Caporetto, cit., pp. 306-09.←

604

194

Cadorna continuava ad essere attaccato alla sua vecchia idea: sull’Isonzo gli austro-tedeschi avevano compiuto una piccola azione, un bluff, e si erano quindi assicurati grandi risultati soltanto perché le truppe italiane avevano «tradito» o «scioperato»: una «vera» offensiva austro-tedesca doveva pertanto ancora cominciare.←

195

Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 295 sgg., 501-03 e 57578, nonché E. CAVIGLIA , La dodicesima battaglia, cit., p. 233 e R. CADORNA , La fine di un’altra leggenda. Cadorna e la pace separata, in «Rassegna italiana», novembre 1934, pp. 77582.←

196

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 227 sgg.←

197

Questo fu anche il parere espresso dal GATTI in Caporetto, cit., p. 324 (alla data del 6 novembre 1917).←

198

L. ALDROVANDI- MARESCOTTI , Guerra diplomatica, cit., p. 143.←

199

Ibid., pp. 144-45.←

200

Ibid., p. 146.←

201

Ibid., pp. 147-48.←

202

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 332.←

605

VII

L’ultimo anno di guerra

1. La crisi dopo Caporetto – 2. Trattative per una pace separata – 3. Ripercussioni di Caporetto negli ambienti politici – 4. Ripercussioni nell’opinione pubblica – 5. Stato d’animo delle truppe nel novembre-dicembre 1917 – 6. La riorganizzazione degli sbandati – 7. Voci di pace e di ammutinamenti a Natale – 8. La propaganda «disfattista» dopo Caporetto – 9. Stato d’animo delle truppe all’inizio del 1918 – 10. Atteggiamento verso i franco-britannici – 11. Stato d’animo delle truppe tra il febbraio e il maggio – 12. Migliore trattamento del soldato – 13. Prime iniziative propagandistiche nell’esercito – 14. I giornali di trincea – 15. Lo sviluppo della propaganda e l’istituzione del servizio P. – 16. Gli ufficiali P. «commissari politici»? – 17. La propaganda sul nemico – 18. Crescente prestigio degli Stati Uniti in Italia – 19. Limiti all’attività dei cappellani – 20. Il Partito socialista tra Lenin e Wilson – 21. Il gen. Diaz e il governo – 22. Amministrazione della giustizia militare nel 1918 – 23. La battaglia del Piave – 24. La battaglia di Vittorio Veneto

606

1. La sconfitta di Caporetto ebbe notevoli conseguenze sullo spirito dell’esercito e sulla pubblica opinione: Paese ed esercito, infatti, cominciarono ad avvertire il vincolo di una maggiore solidarietà; la lunga separazione tra potere politico e militare terminò con l’esonero di Cadorna; infine – essendo il nemico profondamente penetrato al di qua dei confini – la guerra degli italiani assunse per la prima volta un carattere difensivo. Fatto, questo, denso anch’esso di significati perché – come abbiamo già accennato – i grandi eserciti moderni accettano tanto più facilmente la guerra quanto più il quadro offerto ai loro occhi è quello di una guerra «difensiva». Durante il primo conflitto mondiale tutti i belligeranti riuscirono a presentarsi come vittime di un’aggressione: i francesi, che fin dall’agosto 1914 ebbero i nemici in casa, non dubitarono mai di condurre una guerra di difesa; i britannici furono persuasi di combattere contro una Germania che li assaliva per assicurarsi il dominio del mondo; ai tedeschi fu insegnato che la loro guerra costituiva una difesa più che legittima contro l’aggressione dei russo-francobritannici; gli austriaci provarono un vero furore vendicativo contro gli italiani che avevano osato «stracciare i patti». Probabilmente, fino all’ottobre 1917, soltanto gli italiani faticarono a dipingere come «difensiva» la loro guerra: Caporetto modificò d’improvviso i termini della questione e fece nascere anche in loro uno spirito di rivincita. Parve a molti che la disfatta avesse operato un vero e proprio «miracolo» sia fra le truppe, sia nell’opinione pubblica. Indubbiamente nel novembre 1917 ebbe inizio in Italia un cambiamento degli stati d’animo, ma esso fu più complesso, più circoscritto e soprattutto più lento di quel che di solito si afferma. Bisognò attendere la primavera del 1918 perché lo spirito dell’esercito e del Paese risultasse davvero radicalmente mutato rispetto al 1917, e frattanto, nel corso di molti mesi, le più nere 607

previsioni continuarono a tormentare l’animo dei dirigenti italiani. Il presidente Orlando dichiarò che all’inizio soltanto «pochissimi» credettero alla possibilità di fermare il nemico sul Piave e che quasi tutti, viceversa, giudicarono opportuno ritirarsi fino al Mincio. La questione fu discussa il 15 novembre in un consiglio di guerra, durante il quale Diaz insisté sulla convenienza di restare schierati lungo il Piave e Orlando si disse d’accordo, conservando probabilmente molte incertezze. 1 Quel giorno stesso Giolitti dichiarò a Malagodi che a suo giudizio sarebbe stato meglio raccogliere l’esercito «dietro il Mincio e magari dietro il Po», 2 e nei giorni seguenti le più gravi perplessità continuarono a turbare sia gli ambienti politici sia quelli militari. 3 Il 21 novembre, riferendo ciò che si diceva negli ambienti del Comando supremo, Ojetti spiegò che le divisioni e le brigate speravano di resistere, ma soggiunse: «Chi dispera è più su, e ti parla, in un orecchio, del Mincio come d’un paradiso». 4 C’era, al fondo, il timore di non poter resistere né sul Piave, né sul Mincio, né altrove, e si affacciava con insistenza sempre maggiore l’idea di concludere la pace con il nemico. Fra il 7 e il 10 dicembre, rendendosi conto di quanto fosse grave e profonda la crisi di sfiducia, Albertini pubblicò sul «Corriere della Sera» quattro lunghi articoli per spiegare agli italiani come e perché essi non dovessero ritirarsi dalla lotta. 5 Fin dal 10 novembre, del resto, Luigi Einaudi aveva dimostrato con argomentazioni di carattere economico che sarebbe stato oltretutto impossibile concludere una pace separata, poiché l’Italia dipendeva dai suoi alleati per le derrate, le materie prime, i crediti, 6 e il 28 novembre il ministro Nitti aveva ripetuto concetti analoghi, confermando che gli italiani non avrebbero potuto sopravvivere neppure un mese senza l’aiuto amichevole degli alleati. 7 Ma non 608

erano argomenti, questi, che potessero condurre all’ottimismo, e l’11 dicembre, infatti, l’ex presidente Salandra continuava a dire che non c’era più speranza di sconfiggere con le armi l’Austria e la Germania, 8 mentre pochi giorni più tardi l’ex presidente Boselli, incontrando un amico neutralista, si lasciava sfuggire: «Quanto avevi ragione quando dicevi che non si doveva fare la guerra!». 9 Agli inizi del 1918 Abel Ferry si recò in Italia insieme con il gen. Foch e conobbe numerosi autorevoli personaggi: «La politica interventista in Italia» fu la sua impressione «si è consolidata solo transitoriamente. Ogni italiano rimpiange di essere entrato in guerra.» Ma altrove, in Gran Bretagna e nella stessa Francia, la situazione non era poi molto diversa, e sull’intera Europa gravava un’atmosfera di cupo pessimismo. 10 Tutti gli anni, approssimandosi la primavera, molti avevano creduto che si trattasse di compiere «l’ultimo sforzo» per raggiungere finalmente la pace, ma all’inizio del 1918, dopo tante delusioni, quasi nessuno osava più abbandonarsi a questa speranza. Nel febbraio, a Versailles, Orlando, Sonnino, Cadorna, Alfieri e numerosi ufficiali si riunirono a cena nella villa della missione italiana presso il Comando supremo interalleato. Ad un tratto, «con la testa un po’ china» e un lieve sorriso che «affiorava appena all’angolo della bocca», il ministro Sonnino disse: «Ho letto che questa guerra mondiale deriva dal passaggio dell’ultima cometa presso alla terra. La cometa ha avvelenato la terra. Qualche volta ho pensato a questa 609

spiegazione. Qualche cosa che travolga le nostre volontà ci deve essere in questi anni nel mondo. Siamo diventati tutti pazzi. La follia sola, sterminata, è padrona degli uomini. Allora, come pretendere di guidare il destino?» Ognuno dei commensali ammutolì e, nel fondo della propria coscienza, sentì «la disperata inutilità dell’affaticarsi umano». 11 2. Era stato detto che l’Italia si trovava nella impossibilità di concludere una pace separata perché economicamente dipendente dai suoi alleati. Ma se gli stessi alleati fossero stati d’accordo? In realtà, tra la fine del ’17 e l’inizio del ’18, tanto Lloyd George quanto il presidente Wilson, sopravvalutando probabilmente le conseguenze del crollo russo e della disfatta italiana, cercarono di trovare il modo di separare la Germania dall’Austria e di fare uscire quest’ultima dal conflitto. Washington e Vienna trattarono segretamente attraverso Madrid. Il gen. Smuts, membro del gabinetto di guerra britannico, fu inviato nel dicembre 1917 a Ginevra, per incontrarsi di nascosto con un emissario del governo austriaco. Anche tra i francesi e gli austriaci ebbero luogo, all’inizio del ’18, alcuni colloqui. 12 Gli italiani non restarono inattivi e cercarono di comunicare con Vienna attraverso il Vaticano. Durante l’inverno 1917-18 il ministro Nitti ed il cardinale Gasparri si incontrarono piuttosto di frequente a Roma, nel convento dei santi Giovanni e Paolo, sul monte Celio. La Santa Sede si dichiarò molto lieta di accogliere la richiesta rivoltale dal governo italiano per una mediazione di pace, e l’intesa fu che la Segreteria di stato si sarebbe limitata a trasmettere le condizioni formulate dal governo di Roma patrocinandone l’accettazione da parte di quello viennese. Il 30 marzo Nitti comunicò a Gasparri le condizioni per un accordo con Vienna: l’Italia avrebbe offerto la 610

Somalia con il Benadir, oppure la Tripolitania con il Fezzan (compresa la zona sirtica), ed in compenso avrebbe chiesto: a) alcune rettifiche della vecchia frontiera (lasciando all’Austria: Merano, Bolzano, Bressanone, Brunico, Sesto, Gorizia e Zara); b) Valona; c) qualcuna delle isole curzolane lungo la costa dalmata; d) Trieste, che sarebbe diventata «porto libero a tutti i fini commerciali e porto neutrale in caso di guerra con conveniente Hinterland». L’Italia si dichiarava in partenza già disposta a non insistere troppo sulle ultime due richieste, accontentandosi che Trieste fosse proclamata «città-stato indipendente e neutrale, con conveniente Hinterland». Qualche giorno più tardi, però, il presidente Orlando fece sapere al cardinale Gasparri che egli riteneva premature le trattative, a causa dell’offensiva austro-tedesca scatenata in quei giorni sul fronte occidentale e che lo stesso Lloyd George, «interrogato da lui in proposito», si era dichiarato di eguale avviso. In effetti, nella nuova situazione determinata dallo smacco subìto dai britannici, poteva sembrare poco conveniente negoziare con il nemico; d’altra parte, proprio nello stesso momento in cui sul fronte occidentale gli anglo-francesi si trovavano in gravi difficoltà, gli italiani cominciavano a considerare con qualche ottimismo i loro problemi militari. Il fatto certo è che la mediazione della Santa Sede ebbe termine. 13 3. «Si dovrebbe credere» scrisse Martini nei giorni di Caporetto «che siamo tutti d’accordo e che l’Unione sacra è composta e saldata. Ma ciò non è.» 14 L’invasione nemica, difatti, non portò la concordia fra gli italiani e proprio la costituzione del nuovo ministero presieduto da Orlando diede origine alle più 611

infiammate polemiche. Alla fine del 1917, sotto lo choc della sconfitta di Caporetto, molti interventisti deprecarono che il potere fosse stato affidato a colui che, per la sua politica interna «floscia, irresoluta, snervata», veniva da essi indicato come uno dei maggiori responsabili di quanto avvenuto. 15 L’on. Comandini – acceso interventista al punto di essere considerato, insieme con Pirolini, il fondatore di una «carboneria» segreta – radunò alcuni amici influenti, fra cui Federzoni, De Ambris e Martini, per proclamare che non si doveva avere alcuna fiducia nel nuovo ministero. 16 Luigi Albertini scrisse nelle sue memorie che il governo Orlando era il prodotto di una torbida atmosfera parlamentare e il risultato di una combinazione che poteva essere giudicata con favore solamente da giolittiani e socialisti; soggiunse che il primo ministro aveva ottenuto la fiducia della Camera dopo aver pronunciato un discorso che gabellava «per libertà la licenza» e che anche a distanza di anni non poteva essere riletto senza provare un senso di «pena». 17 Le sedute della Camera in comitato segreto, nel dicembre 1917, accrebbero il malumore degli interventisti, perché la maggioranza dei deputati, che appunto interventisti non erano, approfittarono delle riunioni a porte chiuse per parlare della guerra con libertà e spregiudicatezza e per rivolgere acerbe critiche a Cadorna. Al fine di combattere ciò che essi chiamavano «il disfattismo parlamentare», un centinaio di deputati e senatori, fra i quali Albertini, Bonomi, Federzoni, Gasparotto, Martini e Salandra, si costituirono in «fascio di difesa nazionale». 18 All’interno del movimento interventista prevalse la linea politica della destra e perfino una parte dei democratici e dei rivoluzionari si schierarono – come ha scritto Renzo De Felice – su «posizioni estremiste, terroriste e nazionalistiche». 19 In tutto il Paese si moltiplicarono quei gruppi e comitati di 612

azione, già sorti prima di Caporetto, che avevano lo scopo di mobilitare i cittadini contro i disfattisti, i traditori e le spie. Queste organizzazioni, quasi sempre dominate da elementi faziosi, furono indotte a veder nemici da per tutto, anche dove non ne esistevano affatto. 20 Si trattò di un fenomeno in parte spiegabile, specie pensando che il recente disastro militare era stato da tutti ricondotto a precise cause politiche. Perfino Modigliani, alla Camera, ammise che le responsabilità appartenevano un po’ a tutti, «non esclusi i rappresentanti del Partito socialista». 21 E il ministro Nitti dichiarò che sarebbe stato ingiusto riversare ogni colpa su Cadorna, dato che il comandante supremo aveva soltanto «un decimo» delle responsabilità; un altro decimo toccava infatti ai «disfattisti»; e i rimanenti otto decimi spettavano all’intera nazione, poiché costituivano «l’effetto della mancata educazione civile del popolo». 22 L’idea di Caporetto come fenomeno rivelatore di storiche responsabilità collettive continuò del resto ad essere accolto nel dopoguerra dai personaggi più disparati. Da Cadorna, beninteso, allorché disse che in Caporetto poteva trovarsi «il riflesso di tutte le debolezze e di tutte le passioni» conosciute dalla nazione italiana durante gli ultimi cinquant’anni della sua storia. 23 Da Antonio Gramsci, che, con intendimenti ben diversi da quelli del generale, parlò di responsabilità delle classi dirigenti. 24 Ed anche da Luigi Albertini, allorché nelle sue memorie scrisse: «Della crisi morale su Caporetto porta tutta la responsabilità la classe dirigente italiana, quella classe che prima fu con Giolitti, con Orlando e con Nitti e giudicò abilità somma i loro metodi di licenza; poi si

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schierò con Mussolini, appoggiando, approvando ogni maggior manomissione dei nostri diritti statutari.» 25 Nel novembre 1917 un gruppo di intellettuali fondò il «Comitato per l’esame nazionale» allo scopo di riscrivere tutta la storia d’Italia, dal Rinascimento alla Grande guerra, alla luce della disfatta di Caporetto. Quel Comitato, del quale fecero parte Mario Ferrara, Agostino Lanzillo, Felice Momigliano, Romolo Murri, Vincenzo Torraca ed Umberto Zanotti Bianco, rivolse un accorato appello «agli studiosi ed agli uomini di azione», perché fosse presto iniziata una grande opera di revisione critica della storia italiana, secondo un piano di lavoro collettivo che prevedeva la pubblicazione di molti volumi. L’ambizioso progetto non ebbe modo di attuarsi e dieci anni più tardi Gioacchino Volpe volle scherzare a proposito di quegli intellettuali che «la pigliavano di lontano e rivangavano tutta la storia d’Italia quasi come teleologicamente orientata verso Caporetto». 26 Ma tra la fine del ’17 e i primi del ’18 le intenzioni del Comitato parvero molto serie, tanto che i due maggiori filosofi italiani inviarono la loro adesione: Benedetto Croce lodò «l’ottimo proposito di promuovere un esame di coscienza della vita nazionale» e fece sapere di non poter partecipare all’opera comune solo perché le sue abitudini di lavoro gli impedivano «in cose scientifiche e letterarie, la collaborazione ad opere collettive»; 27 Giovanni Gentile scrisse a sua volta che l’opera da intraprendere sarebbe stata «di grandissimo interesse scientifico» e di vitale interesse per il Paese. 28 Allorché, insomma, nei giorni stessi della sconfitta il nome di «Caporetto» diede occasione alle più accese polemiche tra gli italiani, ciò non dipese necessariamente da meschini interessi politici, ma ben spesso da una sincera passione civile, perché a

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tutti parve che gli avvenimenti dell’Isonzo ponessero in questione non soltanto i princìpi della tattica e della strategia militari, ma la storia, le ideologie, l’educazione e il carattere dell’intero popolo italiano. Neppure oggi, del resto, potremmo accontentarci di definire Caporetto come un puro e semplice disastro militare, sia perché la rotta, il panico e il caos non furono cause sufficienti a determinare tutto quello che accadde, sia perché la battaglia di Caporetto fu vissuta ed interpretata dai contemporanei come sconfitta «morale», e dunque diventò tale, poiché ogni evento vale non soltanto per ciò che esso oggettivamente è, ma anche per il modo in cui è vissuto ed interpretato dai suoi contemporanei. 29 4. È sempre molto difficile definire gli atteggiamenti dell’opinione pubblica, ma è difficilissimo farlo quando – come è il caso del 1917 – la stampa è sottoposta alla censura e non è in grado di esporre con una certa libertà né gli avvenimenti concernenti la guerra né l’opinione che di essi si sono fatta i lettori. Ogni indagine al riguardo, poi, diventa ancor più complessa se si pretende di definire l’opinione pubblica nel senso più ampio e ricercare quali furono gli atteggiamenti non soltanto del pubblico colto e politicizzato, ma anche delle più grandi masse, o, come al principio del secolo si preferiva dire, delle «folle». 30 Tuttavia le informazioni che possediamo confermerebbero il giudizio pronunciato all’inizio di questo capitolo, vale a dire che la trasformazione dell’opinione pubblica dopo Caporetto costituì un fenomeno molto più lento e circoscritto di quel che appare secondo certe interpretazioni «miracolistiche». Nelle città e nelle campagne esistevano individui e classi che per educazione e condizione politico-sociale avevano dimostrato una notevole o quanto meno discreta sensibilità ai valori patriottici, 615

indipendentemente dalle ideologie, anche prima di Caporetto. Quanto alle grandi masse politicamente amorfe e socialmente estranee all’«Italia ufficiale», sarebbe stato molto strano che una guerra iniziata per volontà di una minoranza avesse trovato il modo di diventare popolare proprio nel momento in cui la classe dirigente era assillata da mille ripensamenti e non escludeva l’idea di una pace separata. Un’indagine sugli orientamenti dell’opinione pubblica, intesa nel senso più ampio che sopra dicevamo, deve ancora essere compiuta, e ci limiteremo in questa sede ad offrire soltanto alcune testimonianze sull’estraneità agli ideali patriottici dimostrata, anche dopo Caporetto, da alcune popolazioni rurali e da certo «popolino» delle città. Raccontò ad esempio il Martini che in Valdinievole i contadini gridavano perfino «Viva i tedeschi!», e soggiungevano: «Vengano, vengano e noi porteremo il tino sull’aia e beveremo con loro alla loro salute». Erano «saltati addosso» ad una signorina del luogo che aveva osato rimproverarli ed era mancato poco che non l’avessero «strangolata». 31 Bissolati confessò a Malagodi che i contadini della Marche erano «esultanti» per l’avvenuta disfatta, credendo e sperando che essa avrebbe significato la pace. 32 L’on. De Ambris riferì sullo stato d’animo del popolo minuto di alcune città, che gli era apparso ottimo a Sampierdarena, Genova e Milano, discreto a Bologna, migliorato nella neutralista Firenze, «irriducibile» invece nella sola Torino. Ma il giornalista Umberto Notari contraddisse De Ambris precisando che il popolino di Milano cominciava ad augurarsi la venuta dei tedeschi. 33 Il direttore generale della Pubblica Sicurezza rassicurò il Martini con notizie confortanti sullo spirito pubblico e sul «rinsavimento grande» nel popolo. 34 Ma di lì a due giorni lo stesso Martini ebbe la sorpresa di 616

constatare che i vetri della sua casa, a Monsummano, erano stati infranti per protesta contro l’«interventismo» del proprietario. 35 Il 15 dicembre Benedetto Croce scrisse una lettera al presidente Orlando per avvertirlo che presso il «popolino» napoletano serpeggiavano «propositi di rivolta». «Ne è cagione» scrisse il filosofo «soprattutto la lunga e spesso vana attesa presso le botteghe dei panettieri e dei pastai. Ma ciò che mi sembra più grave è che in questi attruppamenti si odono formare voti per il pronto arrivo dei Tedeschi – “coi quali almeno si avrà il pane” – e ripetere che a Udine “le popolazioni sono trattate benissimo”. Giorni sono, uscendo da casa di buon mattino, udii io stesso queste parole, e intervenni con ammonizioni e chiarimenti in dialetto, che produssero un effetto momentaneo. Ma non si potrebbe (mentre si cerca di migliorare la distribuzione dei generi di necessità) spargere tra quella gente attruppata persone del popolo che dicano a quei sofferenti e impazienti, che le blandizie dei Tedeschi sono fallaci e che la loro venuta sarebbe l’affamamento più completo? Si sono fatte e si fanno tante conferenze a scolari e a gente colta, per persuadere i persuasi, e perdere tempo in chiacchiere deprimenti; e come mai, tra prefetto e sindaco, non si riesce a organizzare un po’ di seria propaganda popolare, come pur la faceva nel ’48 don Michele Vincenzi? Naturalmente, non consiglierei di somministrare al popolino bugie e frasi rettoriche, perché le percepirebbe subito come tali; ma semplici verità, di quelle che si possono dire e che operano beneficamente.» 36 Il giorno prima che Croce scrivesse questa lettera, l’on. 617

Sandulli aveva dichiarato alla Camera riunita in comitato segreto, che Napoli si trovava «alla vigilia della sommossa». 37 Il comando del 3° gruppo legioni carabinieri (con sede a Roma) compilò un rapporto sulle condizioni dell’ordine e dello spirito pubblico in Toscana, Umbria, Lazio e Sardegna dal 1° settembre al 31 dicembre 1917. Un miglioramento dello spirito pubblico – dopo Caporetto – fu segnalato per due sole province su dodici, vale a dire per Roma e per Pisa. Nella provincia di Firenze, invece, le condizioni continuavano a risultare «anormali», per l’insufficienza dei generi di prima necessità e per la propaganda dei «sovversivi». Nella provincia di Lucca, ci si lamentava «per il prolungarsi della guerra, specie dopo l’invasione nemica». Ad Arezzo, Massa, Livorno, Grosseto e rispettive province, il «malcontento generale» era motivato soprattutto dalla difficoltà negli approvvigionamenti, ed a Siena si aggiungeva la preoccupazione «per l’incerta sorte dei soldati al fronte». 38 Dopo Caporetto neppure le popolazioni rurali delle province di Verona, Mantova e Padova, benché si trovassero sotto la diretta minaccia dell’invasione nemica, furono animate da sentimenti patriottici. Lo scrisse il gen. Diaz al presidente Orlando in una lettera del 24 novembre: «Da informazioni avute da varie fonti e da quanto hanno potuto accertare anche ufficiali di questo Comando, si è potuto constatare come il contegno delle popolazioni rurali nel Veronese, nel Mantovano e nel Padovano sia ostile alla guerra. Sono specialmente le donne quelle che più apertamente manifestano i propri sentimenti, mentre gli uomini tengono un contegno di più prudente riserbo. Generalmente esse affermano che non desiderano altro che l’occupazione austriaca, perché così la guerra 618

sarebbe finita e perché «sanno» che gli austriaci trattano bene le popolazioni, specialmente i contadini, cosicché eventualmente [gli austriaci] si vendicherebbero solo sui signori, che della guerra sono gli unici responsabili e che spesso riescono a sottrarsi alle sue dure necessità. Anche qualche vecchio, che ricorda ancora i tempi precedenti al ’66, credendo o fingendo di credere che da allora le condizioni generali non siano cambiate, afferma che sotto l’Austria si stava benissimo e che tutto costava molto meno.» La lettera proseguiva precisando che quelle popolazioni odiavano i franco-britannici 39 e che lo stato d’animo di esse minacciava di ripercuotersi dannosamente sull’esercito. Sarebbe stato pertanto necessario promuovere un’opera di propaganda che ponesse gli austro-tedeschi sotto una luce meno favorevole, ma in tal caso, faceva notare sempre Diaz, si sarebbe verificata anche una «aperta contraddizione col proposito di persuadere le popolazioni fra Piave e Mincio-Adige a rimanere sul posto nel deprecato caso di una invasione ulteriore del nemico». (Il Comando ed il governo si preoccupavano infatti che durante una nuova eventuale ritirata i profughi civili non ostacolassero i movimenti delle truppe, così come era accaduto durante la ritirata di Caporetto.) Niente propaganda, dunque, e tuttavia, concludeva Diaz, «un provvedimento» era della massima urgenza, tanto più che numerosi ufficiali francesi ed inglesi percorrevano in lungo ed in largo le predette regioni e non avrebbero mancato di riferire ai rispettivi governi sulle disposizioni d’animo di quelle popolazioni. 40 Ma non era affatto facile provvedere, tant’è vero che quasi un mese più tardi il gen. Diaz tornava a riferire, ed in termini ancora

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più drammatici, sui sentimenti antipatriottici delle popolazioni residenti nelle immediate retrovie dell’esercito operante: «Viene riferito» scriveva Diaz ad Orlando in data 16 dicembre «che fra queste popolazioni rurali si intensifica una irritazione decisa contro la guerra, irritazione che si concreta in affermazioni stereotipate del genere seguente: “la guerra è voluta dai signori e dai generali; è fatta invece col sangue dei contadini, mentre i signori e i comandi ingrassano ed i fornitori si arricchiscono; sarebbe finita se non fossero venuti francesi ed inglesi in aiuto; della sconfitta sono colpevoli gli ufficiali (per scuotere la disciplina dei soldati); si fa la guerra per gli inglesi, col sangue nostro; nulla importa se vengono gli austriaci, che trattano bene i paesi occupati; ecc. ecc.”. E in tutto questo, la solita voce che per il 25 si farà la pace o se no la faranno i soldati, e la Russia insegna. Non potrei dire quanta parte della popolazione sia così inquinata, e certo vi sono anche sentimenti patriottici: è difficile avere una idea precisa in proposito, perché si usa una certa prudenza, specie dagli uomini che lasciano a donne e ragazzi le manifestazioni sopradette. Notevole, però, che tali sentimenti si manifestino qua e là, in modi vari, con atti o parole di significato evidentemente ostile contro ufficiali o contro reparti e, purtroppo, anche verso reparti alleati; o verso automobili con ufficiali, ecc. Giorni sono, tornando di sera da Vicenza a Padova, l’automobile del generale Fayolle [il comandante delle truppe francesi in Italia] fu colpita da un proiettile ai vetri dopo che un fischio era stato sentito dai viaggiatori: le indagini non hanno condotto finora a alcuna scoperta, e può trattarsi di semplice teppismo o di 620

coincidenza. Ma, in sostanza, è un insieme di piccoli fatti che delinea un ambiente meritevole di attenzione. Finora, all’infuori di qualche espressione di stanchezza, nessun indizio si ha che tale situazione agisca nelle truppe combattenti; ma i militari delle retrovie non possono essere insensibili all’ambiente e troppe comunicazioni debbono avere con quelli del fronte perché il pericolo non si presenti grave.» Questa volta il gen. Diaz concludeva chiedendo che il governo – oltre che promuovere opera di propaganda – impartisse severe disposizioni agli agenti di polizia giudiziaria e ai procuratori del re, affinché procedessero ad arresti ed a processi esemplari. 41 Il presidente Orlando rispose telegraficamente, concordando sul fatto che la repressione dovesse essere esemplare: «In certi casi» scrisse «dovrebbe perfino arrivarsi ad ordinare lo sgombro delle popolazioni». 42 Diaz, il giorno 19, replicò precisando che, almeno per il momento, non sembrava necessario procedere a «sgombri» di popolazioni civili. Riteneva però opportuno che il ministero degli Interni inviasse immediatamente in zona di guerra almeno duecento fra funzionari ed agenti, insieme con «mezzi di travestimento ecc.», i quali, in collaborazione con i carabinieri, potessero effettuare le opportune indagini tra i civili ed i militari. 43

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5. Molti italiani, che avevano spiegato Caporetto con il «cattivo morale» delle truppe, credettero che l’arresto del nemico al Piave 622

dipendesse da una riscossa spirituale delle truppe stesse. Come la prima, così anche la seconda ipotesi era sostanzialmente inesatta, perché nell’uno e nell’altro caso le vicende militari erano state determinate essenzialmente da fattori militari e i fattori morali avevano assunto una parte secondaria. Certamente, nel novembre ’17, dopo Caporetto, si notarono sintomi di ripresa fra le truppe, soprattutto nei primi giorni della resistenza al Piave, e molti reparti si difesero coraggiosamente contro gli assalti nemici. Ma numerose testimonianze coeve confermano che nel complesso lo spirito dell’esercito italiano continuò a destare non poche apprensioni. Fu un alternarsi di buone e cattive notizie. Il 9 novembre, per esempio, Rino Alessi scrisse dal fronte al suo direttore: «Si avvertono qua e là i sintomi di una benefica reazione morale. Però obiettivamente devo dirle che le notizie raccolte sullo stato d’animo “generale” delle truppe non mutano in modo sensibile il giudizio contenuto nelle mie lettere precedenti.» 44 Il giorno seguente, tuttavia, Alessi precisò che gli spiriti «si rianimavano». 45 Il 12 novembre lo spirito delle truppe, che non avevano più contatto con gli sbandati gli risultò «proprio confortevole». 46 Ma quello stesso giorno il col. Gatti fu assai più prudente al riguardo: «C’è, sicuramente, un piccolissimo, lievissimo miglioramento, ma solo perché il nemico non preme più tanto. Non credo che si debba scambiare questa calma con un raffermimento di animi. Per dire questo bisognerà che assistiamo ad un primo urto.» 47

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Due giorni più tardi anche Alessi dubitava, non riuscendo a spiegarsi la facile avanzata del nemico alle foci del Piave: «Vuol dire» scrisse «che la resistenza non c’è, e che il morale fra i combattenti si mantiene depresso. […] Si confidava in una ripresa patriottica dei soldati; sugli altipiani, infatti, si sono avuti episodi splendidi, ma sparsi e slegati. Manca la volontà collettiva di vincere.» 48 Il 17 novembre Alessi tornò ad essere ottimista. Per due giorni aveva percorso il fronte, e lo spirito di combattività delle truppe gli era apparso «semplicemente ammirevole». Ovunque si raccoglievano notizie di stupendi atti di ardimento; la crisi morale di Caporetto sembrava conclusa, e tutto faceva ritenere che, anche nella peggiore delle ipotesi, non si sarebbe più ripetuta. 49 La seconda metà di novembre vide nuovi violenti attacchi degli austro-tedeschi sull’altopiano di Asiago e sul Grappa. Gli italiani si difesero egregiamente. «Da ogni parte» scrisse compiaciuto Ugo Ojetti il 24 novembre «giungono notizie della volontà dei soldati, proprio dei soldati, di resistere dove sono.» 50 Ma l’8 dicembre, dopo la perdita delle Melette e del Sisemol, lo stesso Ojetti, in una lettera alla moglie, descrisse la situazione in termini alquanto diversi: «Abbiamo perduto anche la cima del Sisemol. Certo, quel nostro sistema difensivo ha scricchiolato e s’è piegato se non s’è spezzato. Ma quel che più mi duole è che qui [Ojetti si trovava a Padova, sede del Comando supremo] corre la parola d’ordine di esaltare l’eroismo delle truppe ad ogni costo per fare il contraltare al 624

comunicato Cadorna che tu sai e hai. Così ora da buona fonte Lustig ha saputo che il quarto e il sesto bersaglieri, certo dopo aver combattuto, si sono arresi; e gli austriaci annunciano parecchie migliaia di prigionieri. Ora il metodo ottimista, certo, ha il suo valore, ma non bisogna esagerare. Tra la brutale sincerità di Cadorna e la pietosa bugia (ma per gli alpini è stata pura verità) di Diaz, ci sarebbe la via di mezzo; tacere, per non illudere.» 51 In quei giorni anche Alessi era tornato ad essere pessimista: «Non sempre le truppe “tengono” nel senso dei bollettini. Ci sono dei nuclei che purtroppo non riescono a liberarsi dal panico. […] I veneti, quasi tutti alpini, […] si battono proprio da leoni. Ma nella nostra resistenza ci sono dei tratti slegati, quelli, purtroppo, che vengono occupati dai reparti ex sbandati; i quali sono moralmente senza consistenza.» 52 6. Subito dopo il passaggio del Piave gli sbandati furono inviati alla rinfusa in campi di concentramento. «Si trattava di individui» scrisse il gen. Diaz «che avevano rotto ogni vincolo organico, che mancavano di vestiario, d’armamento e di oggetti di servizio generale che consentissero un regolare vettovagliamento. In tali condizioni, e stante la deficiente qualità dei quadri inferiori, la disciplina dei campi di concentramento lasciò certo da principio alquanto a desiderare.» 53 In un secondo momento furono adottate le misure necessarie per ricondurre l’ordine e gli sbandati vennero suddivisi secondo 625

l’arma alla quale appartenevano: 200.000 fanti furono raccolti a Castelfranco Emilia (Modena), 80.000 artiglieri a Mirandola (Modena), 13.000 genieri a Guastalla (Reggio Emilia) e il carreggio a Copparo (Ferrara). I militari, dopo essere stati così suddivisi, cominciarono ad essere inquadrati in reparti organici e riforniti di viveri, di vestiario e di armi. I reparti a mano a mano rimessi in efficienza lasciarono i campi e fecero ritorno al fronte, tanto che verso la metà di dicembre Castelfranco ospitava solo 77.000 fanti, il campo di Guastalla stava per essere chiuso, e si prevedeva che per la fine dell’anno ben poche truppe sarebbero rimaste da riorganizzare altrove. 54 Fu detto da molti che fra i circa 300.000 sbandati raccolti nei campi poterono riscontrarsi sorprendenti sintomi di resurrezione morale e che il ristabilimento della disciplina risultò insperatamente facile. Fece inoltre grande impressione che dalla grande massa dei fuggiaschi potessero essere in breve tempo ricostituiti reparti di prim’ordine, utilizzabili al fronte con piena fiducia. 55 La riorganizzazione degli sbandati, tuttavia, diede luogo a qualche inconveniente. 56 Diversi prefetti segnalarono casi di sbandati i quali, dopo essersi spontaneamente presentati alle autorità, si diedero nuovamente alla macchia, e destò inquietudine il fatto che i campi di raccolta fossero ubicati in regioni nelle quali «l’elemento sovversivo» preponderava. 57 Inoltre nei campi furono radunati, insieme con gli sbandati, anche alcune migliaia di disertori che apparvero al gen. Diaz per la maggior parte «imbevuti» di idee pacifiste ed antimilitariste. 58 La sera del 14 novembre uno scaglione di 3.500 disertori partirono dalla caserma del Macao, a Roma, e, benché fossero scortati dai carabinieri e da militari armati, durante tutto il percorso nelle vie cittadine cantarono l’Inno dei lavoratori e 626

l’Internazionale, e gridarono: «Abbasso Sonnino! Noi non vogliamo la guerra». Un informatore di polizia riferì che già durante la giornata, all’interno della caserma, i disertori avevano cercato di ribellarsi e l’ordine era stato ristabilito grazie ad «una buona carica di cavalleria». 59 7. In dicembre tanto il governo, quanto il Comando supremo ed il re si allarmarono apprendendo come fra le truppe si fosse improvvisamente diffusa la convinzione che per Natale dovesse essere conclusa la pace. Orlando ne fu informato la prima volta il 3 dicembre, mentre si trovava a Parigi. Telegrafò immediatamente all’on. Bonicelli, sottosegretario agli Interni: «Apprendo da telegramma di S.M. il Re, che fra truppe al fronte venga distribuito manifesto con cui si avvertono soldati che per 25 dicembre pace dovrà essere conclusa. Occorre che la nostra polizia si svegli una buona volta e rintracci autori di tali delitti. È assai più probabile trattisi di traditori, anziché di iniziative politiche. Telegrafo Comando supremo perché da parte polizia militare sia prestato necessario concorso. Qualche bravo funzionario, capace di investigare, dovrebbe recarsi al fronte per prendere accordi in proposito.» 60 Un commissario di Pubblica Sicurezza ed un maggiore dei carabinieri partirono alla volta di Padova, per concordare con il Comando supremo un’indagine volta ad accertare chi diffondesse quei manifesti pacifisti. Ma dopo qualche giorno i due funzionari tornarono a Roma comunicando al presidente del Consiglio di non aver trovato alcuna traccia non soltanto di eventuali congiurati ma neppure dei sopraccitati manifesti: 627

confermarono tuttavia che nella zona del fronte si era effettivamente sparsa la voce della pace per il 25 dicembre. 61 A metà dicembre il gen. Diaz segnalò che la diffusione di voci di pace a Natale coincideva con altri inquietanti fenomeni. Il generale scrisse infatti che «da alcuni giorni» il nemico aveva «enormemente intensificato» lungo tutto il fronte una propaganda demoralizzatrice e pacifista, con lancio di manifestini dagli aerei e dalle trincee, e con il tentativo di stabilire comunicazioni fra le trincee contrapposte. A tale propaganda sul fronte corrispondeva – e vi corrispondeva «con preoccupante rispondenza di tempo e di fini» – l’atteggiamento antipatriottico delle popolazioni rurali nelle immediate retrovie. 62 «Est evidente» telegrafò Diaz ai comandi «che nemico non avendo potuto avere colle armi ragione della nostra resistenza mira con ogni altro mezzo a distruggere nostra compagine morale et che se desidera concludere pace vorrebbe farla a totali nostre spese.» Il Comando supremo impartì l’ordine di intensificare la vigilanza sulle truppe dipendenti, di promuovere un’azione di contropropaganda patriottica, e di spegnere «con massima prontezza e spietata energia» ogni focolaio di propaganda pacifista. 63 Il 21 dicembre anche una fonte vaticana informò il ministro Nitti del pericolo di uno sciopero militare a Natale, e Nitti ne diede subito comunicazione al gen. Diaz. 64 L’indomani Orlando telegrafò al comandante supremo: «Ulteriori notizie anche di fonte ecclesiastica confermano tentativo nemico di provocare defezioni 628

militari fra Natale e Capo d’anno. Credo quindi necessario intensificare vigilanza […] permettendomi solo di suggerire che una particolare attenzione sia portata nelle parti del fronte dove meno ferve il combattimento e dove quindi è più probabile che eccitamenti e tentazioni siano pervenuti dalle opposte trincee.» 65 Mancavano ormai poche ore a Natale. Gioacchino Volpe, che fu testimone, al fronte, della eccitazione destata dalle segnalazioni del governo e del Comando supremo, scrisse che in esse c’era «qualcosa di vero», sebbene i comandi d’armata facessero sapere che a loro nulla risultava. In quelle ore, comunque, furono adottate tutte le precauzioni del caso. Nuclei speciali di carabinieri furono appositamente costituiti o rinforzati. Reparti fidati, «pronti ad ogni evenienza interna», e raggruppamenti di mitragliatrici e di autoblindo furono collocati «in luoghi acconci». 66 Gli austro-tedeschi, probabilmente informati delle preoccupazioni esistenti nei comandi italiani, decisero di impegnare al massimo le loro truppe: «L’estremo disperato sforzo per superare la nostra resistenza» scrisse il Maravigna «fu tentato negli ultimi giorni di dicembre; anzi più precisamente alla vigilia di Natale. Forse il nemico sperava di festeggiarlo a Bassano». 67 Gli italiani, viceversa, resistettero, frustrando le speranze dei tedeschi. Gli alpini di Rommel – come già si disse – furono decimati proprio durante quella battaglia. 68 Carabinieri, autoblindo e mitragliatrici, appostati per domare la temuta rivolta, vennero ritirati in buon ordine, e il Natale del 1917 fu sì ricordato dagli italiani, ma soltanto come un «Natale eroico». 69 8. Le voci di «scioperi militari» al fronte e di complotti 629

socialisti nel Paese indussero il nuovo Comando supremo a riproporre l’argomento della propaganda «disfattista» e a richiedere – come già aveva fatto Cadorna – che il governo adottasse energici provvedimenti per stroncarla. 70 Tuttavia la politica interna non tornò più a costituire la causa di gravi discordie tra Comando e governo, come invece era accaduto in passato. Diaz, innanzi tutto, si rivolgeva al presidente del Consiglio in termini molto meno aspri e perentori di quelli adoperati dal suo predecessore. Le relazioni tra il potere politico e quello militare erano inoltre sufficientemente franche e cordiali perché un diretto confronto di opinioni aiutasse ad evitare malintesi e ripicchi. Orlando, infine, poteva difendere la condotta del governo con maggiore autorità e con più validi argomenti rispetto al passato. Fra l’altro, già prima di formare il nuovo ministero, egli aveva in parte modificato le linee direttrici della politica interna, accogliendo alcune richieste degli oppositori. Aveva sacrificato il suo capo di gabinetto, Corradini, e il capo della polizia, Vigliani, che erano avversati dagli interventisti con particolare accanimento. Aveva accettato che una nuova legge (il cosiddetto decreto Sacchi, emanato il 4 ottobre) punisse chiunque commetteva o istigava a commettere un qualsiasi fatto capace di «deprimere lo spirito pubblico», secondo una formula eccezionalmente ampia. Il decreto, che conferiva dunque carattere di reato ad una quantità di atti fino ad allora considerati leciti, ebbe larghissima applicazione da parte dei tribunali dopo che Orlando diventò presidente, permettendo di arrestare il segretario nazionale del Partito socialista, Costantino Lazzari, ed il vicesegretario, Nicola Bombacci, e permettendo altresì di

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condannare a pene severe individui che avevano commesso infrazioni di lieve entità. 71 Nel Paese, insomma, il governo aveva preso le sue misure. E in zona di guerra? A questo proposito Orlando si permise di far osservare al gen. Diaz che, se esisteva una propaganda disfattista fra le truppe, il dovere di esercitare la repressione spettava non alle autorità civili dipendenti dal governo, ma alle autorità militari dipendenti dal Comando, 72 accusò anzi il Comando supremo di non saper intelligentemente impiegare i propri servizi di polizia. In quei giorni, per esempio, era giunta notizia di un gruppo di militari che avevano disertato passando al nemico: perché il Comando non aveva dato ordine di indagare sui precedenti personali, familiari e politici di quei militari al fine di stabilire eventuali loro relazioni con elementi residenti nel Paese? Orlando si «meravigliava» che non ci si fosse pensato, e soggiungeva: «Da molti indizi sembrami, e non da ora, che il Comando supremo, nella fase della guerra precedente al recente disastro, non abbia curato la polizia militare con tutta quella cura ed attenzione che l’argomento importantissimo merita. Sono ben lungi dal farne carico all’attuale eminente uomo cui è affidato il supremo comando. Egli non può di punto in bianco rinnovare tradizioni né improvvisare organi deficienti.» 73 Ancora nella primavera del 1918 sarebbe continuata qualche schermaglia tra il Comando e il governo a proposito della propaganda pacifista nel Paese: ma Diaz avrebbe significativamente ammesso che l’attività dei «disfattisti» era «grandemente diminuita in zona di guerra». 74 In realtà, dopo Caporetto, l’esercito fu continuamente pressato 631

dalla propaganda «disfattista» degli austriaci, non da quella dei neutralisti italiani. Dai giorni della ritirata, fino all’ottobre 1918, aerei e razzi austriaci lanciarono sulle armate del Piave ingenti quantità di manifestini e di materiale propagandistico, al punto che – secondo Rino Alessi – l’esercito stava «affondando in un mare di cartellini stampati» che piovevano ogni giorno a decine di migliaia sulle retrovie del fronte. 75 Tale propaganda era eseguita con larghezza di mezzi e secondo un piano meditato e organico che, soprattutto nel febbraio 1918, permise agli austriaci di conseguire notevole successo, sia fra i soldati, sia fra gli ufficiali italiani. Gli austriaci organizzarono anche gruppi speciali di militari capaci di parlare italiano che furono inviati sulle prime linee e cercarono di mettersi in comunicazione con le opposte trincee per fare propaganda e nello stesso tempo per assumere informazioni. 76 Le astuzie poste in atto a tal fine furono numerose e, secondo il Tondi, gli austriaci giunsero perfino a truccare da contadina veneta «qualche ignobile soggettaccio», che verso il crepuscolo apparve sulle rive del Piave ad invocare la pace. 77 Manifestini, opuscoli e giornali di propaganda lanciati dagli austriaci sono conservati in gran copia presso gli archivi italiani e da essi risulta che gli argomenti utilizzati per avvilire lo spirito guerresco dei fanti furono quanto mai vari e spregiudicati. 78 Ci limiteremo ad indicarne i principali: – gli avvenimenti russi, innanzi tutto (per cui si fece grande propaganda alla pace conclusa con i sovietici, alle «fraternizzazioni» tra soldati austriaci e russi, ai proclami di Lenin e di Trockij in favore della pace, all’Ucraina raffigurata come granaio dell’Austria, ecc.); – le vittorie conseguite dai tedeschi sul fronte occidentale, ed i 632

successi della guerra sottomarina; – gli alleati dell’Italia (la Gran Bretagna, in primo luogo, ma anche gli Stati Uniti, furono definiti «potenze imperialistiche» che speculavano sulla guerra e intendevano asservire il resto del mondo; si disse inoltre che la Gran Bretagna era in crisi per la rivolta degli irlandesi, che le truppe americane non sarebbero mai arrivate in Europa, e che i franco-britannici schierati sul Piave avevano scelto i settori più tranquilli, per lasciare agli italiani i maggiori rischi); – la corruzione del mondo politico italiano (Sonnino, Orlando ed altri personaggi – fra cui D’Annunzio, definito «il divo Rapagnetta» – furono descritti come profittatori sempre pronti a banchettare); – i discorsi dei neutralisti nel Paese (fu data pertanto ampia pubblicità a taluni documenti del Partito socialista e dei movimenti cattolici, e furono pubblicati estratti di discorsi di critica alla guerra pronunciati a Montecitorio); – i movimenti in favore della pace operanti nei paesi alleati dell’Italia (si parlò di Bertrand Russell e di vari uomini politici e sindacalisti britannici e venne inoltre data notizia delle manifestazioni contrarie alla guerra avvenute in Francia); – gli imboscati (si insisté sul fatto che le spose e le fidanzate tradivano i combattenti proprio con gli imboscati, e per sollecitare l’interesse dei lettori furono pubblicati disegni abbastanza «audaci» – dati i tempi – sull’infedeltà coniugale); – le terre «irredente» (con l’ausilio di cartine geografiche fu spiegato che il Tirolo e l’Istria non erano terre abitate da italiani); – la forza degli Imperi centrali e la debolezza dell’Italia (furono divulgate le cifre delle perdite italiane a Caporetto e numerose fotografie del Veneto invaso; si fece notare che mentre i giornali austriaci pubblicavano i comunicati di Diaz, i giornali italiani, invece, non osavano fare altrettanto con i comunicati austro633

tedeschi, si descrisse un’Italia prossima alla rovina economica, dalle condizioni interne disastrose, e si assicurò che lo stato d’assedio stava per essere proclamato nelle regioni meridionali). 9. La sera del 3 gennaio 1918 il gen. Pennella, comandante dell’XI corpo d’armata, inviò ai comandi subordinati ordini severissimi perché fosse mantenuta fra le truppe una «disciplina ferrea». Quando Cesare De Lollis lesse quegli ordini volle trascriverli nel suo taccuino: «I mezzi più violenti devono prontamente essere attuati da tutti i capi per assicurare obbedienza e slancio nella lotta. Contro i trepidi, gl’incerti, i vili devono entrare in azione: le armi degli ufficiali, occorrendo, le mitragliatrici e perfino il cannone.» 79 De Lollis era un uomo di studio, un ex neutralista, ma nel 1918 vestiva la divisa di ufficiale e rispettava soltanto le dure leggi della guerra; quando pertanto conobbe le risoluzioni del suo superiore si dichiarò d’accordo con esse: «Credo anch’io sia l’unico mezzo» disse. «C’eravamo abituati un po’ alla buona.» 80 Già abbiamo detto che, iniziata la resistenza al Piave, si erano riscontrati sintomi di ripresa spirituale soprattutto nei primi giorni, ma che poi era stato un susseguirsi di buone e di cattive notizie finché, a Natale, i comandi avevano addirittura temuto uno «sciopero militare». Se lo sciopero non si era verificato, era però rimasta la sensazione di una crisi spirituale delle truppe, e la certezza, inoltre, che il nemico stesse cercando di aggravare quella crisi mediante un’opera assai attiva di propaganda. I fanti cominciarono ad apparire sempre più turbati, e sembrò che soltanto allora essi avvertissero le profonde conseguenze del colpo ricevuto a Caporetto. «Dal dicembre al marzo» scrisse il 634

magg. Tondi «dominò una incertezza fosca, su cui incombeva un problema più fosco ancora: si sarebbe potuto resistere?» 81 Giuseppe Lombardo-Radice disse che in quell’epoca, sul Piave, «si resisteva», ma che c’era diffidenza da parte dei soldati verso la propaganda patriottica, e permaneva negli animi «una esagerata idea della potenza del nemico ed un sordo scetticismo per tutto ciò che si diceva circa la nostra capacità di risorgere e di vincere». Né i comandanti si trovavano in uno stato d’animo molto diverso da quello delle truppe, poiché infatti: «La massima aspirazione patriottica nella media dei giovani ufficiali era questa: affermarsi con una efficace resistenza, per potere riavere le province invase, alle trattative di pace». 82 Essi chiedevano insomma quel che Nitti ed Orlando cercavano di ottenere attraverso la mediazione vaticana. 83 In alcune lettere del gennaio-febbraio 1918 Rino Alessi fu molto esplicito: esistevano brigate stanche, si riudivano le canzoni di scherno per la guerra, e lo scetticismo si diffondeva fra soldati e ufficiali; alle mense di questi ultimi, anzi, si udivano talvolta «discorsi anarchici»: «Il massimalismo russo “piace”. Lenin e Trockij sono considerati come i precursori di una rivoluzione generale europea! Han voglia i socialisti a protestare che la loro azione non è disfattista. Stando qui si vedono molto chiaramente i rapporti che esistono fra le loro difese del massimalismo e il morale delle truppe combattenti.» 84 Alessi, che era interventista, cercava insomma di addossare tutte le responsabilità al Partito socialista, ma in una successiva lettera dimostrò quale parte importante stesse assumendo la

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propaganda austriaca in merito alla diffusione delle idee «bolsceviche». «Fino a poco tempo fa» disse infatti «detta propaganda si svolgeva con argomenti generici (l’imperialismo inglese, la superiorità militare austrotedesca, ecc.); adesso, invece, si trovano dei manifestini redatti in stile bolscevico; sono i soldati austriaci che si rivolgono direttamente ai nostri e dicono: “Noi siamo stanchi della guerra al pari di voi; seguiamo l’esempio del fronte russo; ribellatevi ai vostri ufficiali; passate di qua e abbracciamoci come fratelli; è giunto il momento in cui i popoli debbono ribellarsi a chi li ha portati al macello per i propri interessi ecc. ecc.”.» Tali argomenti «facevano presa» ed il fatto più singolare osservato da Alessi era che gli ufficiali parlassero «come sovversivi, contro tutto e tutti». 85 Ed in effetti il ragionamento di molti militari, ridotto ai suoi termini essenziali, era il seguente: poiché dopo Caporetto il sogno di conquistare Trento e Trieste era svanito, e poiché d’altra parte l’Austria avrebbe certamente restituito all’Italia i territori invasi, per chi e per che cosa si continuava a combattere? Si continuava a combattere – era la risposta – non più per gli interessi dell’Italia, ma per quelli della Gran Bretagna e della Francia. 86 10. Alcune divisioni britanniche e francesi giunsero in Italia fin dai primi giorni del novembre, mentre la rotta di Caporetto era ancora in corso, e si fermarono tra Mantova, Verona e Brescia, senza prendere parte ai combattimenti. La loro presenza nelle retrovie suscitò reazioni ostili sia da parte della popolazione civile – come già abbiamo riferito 87 – sia da parte dei soldati 636

italiani. Già il 7 novembre il ten. Caccia-Dominioni annotò nel suo taccuino che le truppe francesi da lui incontrate quel giorno non gli erano piaciute affatto: «Molta boria» disse «e grand’aria di sicurezza». 88 Le ragioni dell’ostilità degli italiani verso le truppe alleate furono numerose ed innanzi tutto non fece buona impressione che esse fossero rimaste nelle retrovie. Prima Cadorna e poi Diaz chiesero che almeno in parte fossero subito impiegate contro il nemico, ma i comandi alleati si opposero e consentirono ai primi contingenti di schierarsi in linea solamente il 5 dicembre, quando la linea del Piave era ormai saldamente tenuta dagli italiani. 89 Molti fanti ebbero la sensazione che gli anglo-francesi fossero discesi nella penisola non come alleati, ma come sorveglianti, e che si fossero collocati a tergo delle prime linee al solo scopo di reprimere atti di defezione tipo Caporetto. Tale sensazione, del resto, non fu priva di fondamento, poiché lo stesso gen. Fayolle, comandante delle truppe francesi, dichiarò di aver condotto le sue truppe nella pianura veneta «non per salvare l’Italia, ma per mantenerla nell’alleanza». 90 La voce che le divisioni alleate fossero venute in Italia allo scopo di compiere un’opera di polizia cominciò a perdere consistenza dopo che esse andarono in trincea a fianco degli italiani, ma le diffidenze ed i contrasti non cessarono. Molti ufficiali e soldati, infatti, continuarono a considerare il concorso militare alleato «non tanto come una efficace e fraterna cooperazione; ma come un intervento diretto ad esercitarvi una supremazia». 91 Ci si sdegnò per l’aria di superiorità e per le «esigenze senza limiti» dei comandi alleati. 92 Don Minzoni, ad esempio, si indispettì moltissimo al vedere in qual modo gli ufficiali britannici ispezionassero e «criticassero» lo

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schieramento adottato dal reggimento di fanteria del quale egli era cappellano: «Mi sembra che con la ragione del fronte unico i bravi inglesi esplichino una politica militare di dominio degli alleati. Sono i Romani di oggi che tentano d’impadronirsi dell’Europa. Fanno la guerra alla Germania non tanto col sangue proprio ma con quello latino che dimostra così d’essere schiavo, e poi, a guerra finita, vinta la rivale, terranno in servaggio pure noi.» 93 Sentimenti ostili verso la Gran Bretagna erano presenti fra gli italiani già prima di Caporetto, e nel marzo 1916 Filippo Turati aveva dichiarato in parlamento che i britannici erano interessatissimi a prolungare la guerra, dato che grazie ad essa riuscivano a concludere «eccellenti affari». 94 Nella primavera di quello stesso 1916 il Trevelyan aveva avuto, sul Sabotino, un interessante scambio di idee con un sergente italiano a proposito della guerra: «Voialtri inglesi la fate durare,» aveva detto il sergente nonostante i dinieghi di Trevelyan «la guerra è fra voialtri inglesi e i tedeschi; voi inglesi volete chiudere il mare a tutti gli altri», e l’italiano aveva insistito riferendo un argomento che sarebbe stato sfruttato dalla propaganda fascista durante la Seconda guerra mondiale: che a Gibilterra, cioè, le navi italiane erano costrette a pagare un ingiusto pedaggio. 95 Già abbiamo accennato a come, dopo Caporetto, la propaganda austriaca si fosse preoccupata di porre in cattiva luce gli alleati agli occhi degli italiani. Fin dal 1° novembre, mentre la ritirata era in corso, gli aerei di Vienna gettarono migliaia di manifestini per incitare gli italiani a staccarsi finalmente «dalla tirannia inglese», che, dopo averli sfruttati per due anni e mezzo, li stava conducendo a sicura rovina. 96 Nelle settimane e nei mesi 638

successivi una quantità enorme di manifesti e giornaletti antibritannici continuarono ad essere lanciati dagli austriaci, e la Gran Bretagna, definita «Giuda d’Europa», fu additata al disprezzo dei fanti-contadini come potenza imperialistica molto più pericolosa della Francia o degli Stati Uniti. 97 Il risentimento verso i britannici superò di gran lunga quello verso i francesi, eppure, dopo Caporetto, non dalla Gran Bretagna, ma dalla Francia giunse un uomo politico intenzionato ad assicurare il predominio militare del suo paese sull’esercito di Diaz. Nel dicembre 1917, infatti, Abel Ferry fu inviato in Italia dal parlamento francese per indagare sulle cause di Caporetto e sui problemi più urgenti dell’esercito italiano. Ferry parlò con Diaz, il re, il duca d’Aosta e compilò una lunga relazione nella quale si lesse che le cause di Caporetto erano state politiche e morali. Molte critiche furono rivolte dal deputato francese ai quadri dell’esercito italiano: lo stato maggiore era di origine aristocratica ed aveva introdotto una disciplina di tipo germanico; gli ufficiali di truppa restavano distanti dai soldati, «non par nature, mais par ordre»; la qualità degli stessi ufficiali lasciava molto a desiderare, anche perché i gradi erano stati assegnati non ai meritevoli ma ai piccolo e medio borghesi, secondo un criterio sociale; i soldati invece erano buoni, capaci di resistere alla fame e al freddo più dei francesi, e di combattere con slancio. Ferry riferì che, secondo l’opinione unanime degli ufficiali francesi, l’esercito italiano era eccellente dal punto di vista umano, ma scadente dal punto di vista tecnico. Per rimetterlo in sesto toccava dunque ai francesi di intervenire, e Ferry propose che 200-300 ufficiali istruttori fossero immediatamente inviati in Italia, specificando che per non ferire l’orgoglio dell’alleato sarebbe stato opportuno far apparire tale invio come uno scambio e invitare perciò altrettanti ufficiali

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italiani… a educarsi presso l’esercito francese: «En fait» scrisse Ferry «une organisation de cette nature ferait du Général en Chef de l’armée française le chef indirect de l’armée italienne»; né ci sarebbe stato alcunché di straordinario in tutto questo perché come la Germania già dirigeva lo stato maggiore austriaco, così spettava alla Francia di dirigere quello italiano. 98 Se già prima di Caporetto gli italiani erano stati scarsamente stimati dai francesi, con la ritirata avevano perso di colpo tutto il prestigio militare faticosamente conquistato durante due anni di dure battaglie. 99 «Sono nostri alleati ma ci odiano», scrisse nel maggio 1918 un soldato italiano dalla Francia. 100 Circa 80.000 italiani furono inviati nel 1918 a lavorare nelle retrovie del fronte francese, ma non si sentirono circondati da un’atmosfera cordiale e spesso asserirono di aver trovato come unici amici… i prigionieri tedeschi. 101 La Grande guerra che, secondo le intenzioni di alcuni idealisti, avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre ed affratellare i popoli, stentava insomma da affratellare gli stessi alleati. Come sul Piave i fanti italiani credevano di essere costretti a combattere per difendere non gli interessi del loro Paese, ma quelli della Gran Bretagna e della Francia, così i soldati francesi, sull’Aisne, dichiaravano di essere stufi di continuare a combattere per salvare dalla rovina gli italiani e gli inglesi. 102 Nell’esercito italiano, poi, l’animosità che gli spontanei antagonismi nazionalistici erano già sufficienti a produrre, poté raggiungere importanza grandissima per una ragione molto concreta: che gli italiani erano poveri, mal vestiti, nutriti senza eccessiva larghezza, mentre i soldati francesi e soprattutto i britannici giunti nel Veneto risultavano al confronto ricchi e privilegiati. 103 «L’inglese» scrisse il Monti «come dominava per la

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statura il nostro piccolo fante, così lo superava nell’eleganza del vestire, nei danari di cui poteva disporre, nella inverosimile quantità di scatole di roba in conserva, contenenti anche delle ghiottonerie, con le quali migliorava il proprio rancio; in complesso poteva dirsi che per ogni inglese combattente ce ne fossero due che gli lustravano le scarpe, cioè che lo servissero.» L’italiano viceversa viveva in una condizione ben differente, essendo egli ad un tempo «combattente ed uomo di fatica». 104 Il fatto che le truppe alleate ricevessero un trattamento migliore diventò causa di profondo scontento per tutti gli italiani, anche per gli ufficiali. A Treviso questi ultimi si sentirono maltrattati perché «tutte le ville, a cominciare dalla Tiepolo, [erano] per gl’inglesi». 105 Alessi chiese un aumento di stipendio al direttore del suo giornale perché, dove passavano gli inglesi, i prezzi triplicavano a vista d’occhio. 106 Le truppe dissero che i reparti alleati erano trattati con maggiore giustizia, avevano turni di trincea più brevi, ricevevano il rancio sempre caldo, erano meglio alloggiati durante i riposi, riscuotevano una paga più alta e così via. Le varie considerazioni fin qui esposte potrebbero far concludere che la venuta delle truppe alleate producesse conseguenze soltanto o soprattutto negative sullo spirito dell’esercito italiano, ma si tratterebbe di una conclusione infondata. Molti testimoni fecero infatti notare, e con ragione, che la presenza di quelle truppe fu, nel complesso, di «forte stimolo morale» per gli italiani, e tale da infondere ad essi nuovo coraggio e nuovo spirito di emulazione. 107 I sentimenti suscitati dalla presenza alleata operarono infatti in due direzioni contrarie. Da una parte destarono le inquietudini di cui abbiamo

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parlato, ma dall’altra promossero confronti e ripensamenti che posero in crisi molte norme di comportamento superate ed errate. L’avere al proprio fianco critici stranieri indusse i comandi a meditare sulle proprie deficienze e, almeno in parte, a correggerle. Il fatto che i soldati britannici e francesi ricevessero un trattamento migliore di quello dei soldati italiani fu una delle principali ragioni che spinsero il governo ed il Comando supremo a prendere provvedimenti in favore delle truppe. Infine la presenza di soldati che parlavano altra lingua e portavano altra bandiera fece sì che molti fanti avvertissero per la prima volta che la guerra da essi combattuta faceva parte di una più grande guerra. 11. Tra il febbraio e il marzo la crisi dell’esercito non era ancora risolta e le preoccupanti notizie sullo stato d’animo dei fanti costituirono un vero e proprio incubo per il presidente Orlando. Uomini politici e rappresentanze collettive di partito riferirono che alla prossima occasione i soldati non soltanto avrebbero rifiutato di battersi, come a Caporetto, ma avrebbero usato le armi per tentare una rivolta. 108 Il 15 febbraio lo stesso Orlando confessò a Malagodi che mentre la situazione interna poteva essere giudicata abbastanza buona, proprio l’esercito, invece, faceva sorgere «qualche inquietudine»; gli sembrava infatti che gli interventisti, con tutti i loro falsi discorsi sulla ritirata di Caporetto intesa come «sciopero» o «rivolta» politico-militare, avessero finito con l’«insinuare» nei soldati l’idea di porre in atto ciò che a Caporetto essi non avevano nemmeno pensato di fare. 109 Per controllare il fondamento di quelle voci di allarme il ministero dell’Interno invitò i prefetti, verso la fine di gennaio, a raccogliere notizie sullo spirito delle truppe interrogando i soldati che si trovavano in licenza invernale. Quasi tutti i prefetti 642

risposero negli ultimi giorni di febbraio, riferendo le notizie raccolte in circa settanta fra province e circondari, ed offrendo un’informazione complessiva di singolare interesse, che non giustificava né i giudizi pessimistici allora riferiti al presidente del Consiglio, né i giudizi ottimistici di chi immaginava un esercito trasformato dalla resistenza sul Piave. Molti prefetti dichiararono esplicitamente che lo stato d’animo delle truppe era migliorato rispetto all’inverno precedente, e lo definirono ottimo, buono o soddisfacente in senso assoluto; ma nello stesso tempo sottolinearono quasi sempre la presenza di quei preoccupanti segni di stanchezza e di malcontento che, come vedemmo nelle pagine precedenti, non erano sfuggiti a molti osservatori. Informazioni per nulla tranquillizzanti provennero dalle prefetture di Cremona, Mantova, Ravenna, Reggio Emilia, Torino, Arezzo e Lucca. 110 Il fatto che soltanto una parte delle informazioni fossero improntate a pessimismo costituì una indicazione molto importante, ed invero proprio in quei giorni furono osservati anche al fronte i primi sintomi di una modificazione dello stato d’animo delle truppe: «Già nel marzo» scrisse a questo proposito Giuseppe Lombardo-Radice «incominciava in molti a manifestarsi il bisogno dell’azione nostra. I soldati si sentivano riordinati e nuovamente forti. Cominciavano a pensare di essere più forti degli austriaci. […] L’idea che la sconfitta di Caporetto era il prodotto di vaste cause molto complesse [e non di «tradimenti»] si faceva strada in tutti i cervelli. Chi non arrivava a questa idea, semplificava dando tutta la colpa ai Russi: la Russia era maledetta come cagione di ogni rovina.» 111

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Il 9 marzo, al Comando supremo, fu indetta una riunione alla quale parteciparono il presidente Orlando, i ministri Bissolati e Nitti, il gen. Diaz, il duca d’Aosta, e gli altri comandanti delle varie armate. Argomento della riunione, scrisse Bissolati, fu «il morale delle truppe – discreto, ma poco offensivo». 112 Qualche giorno dopo Nitti fornì a Malagodi notizie rasserenanti su ciò che era stato detto in quel convegno: i comandanti delle armate avevano dichiarato concordi che v’era stato un grande cambiamento dall’ottobre in poi, che il morale delle truppe era «buono», che l’esercito era ormai ricostituito in piena forza, che la posizione strategica sul Piave, infine, risultava «incomparabilmente migliore» rispetto a quella sull’Isonzo. 113 Ma probabilmente il ministro riferì soltanto una parte delle notizie da lui udite; lo stato delle truppe, infatti, continuava a lasciare dubbiosi numerosi comandanti e, tra questi, come vedremo, lo stesso comandante supremo. Il 21 marzo, giunsero d’improvviso tragiche notizie dal fronte occidentale: i tedeschi avevano sfondato quel fronte minacciando direttamente Parigi e Calais. Alcune divisioni alleate di stanza in Italia ricevettero l’ordine precipitoso di partire alla volta della Francia e i comandi italiani ebbero il timore di dover presto rinunciare interamente all’appoggio anglo-francese e di doversi presto trovare soli di fronte all’esercito nemico. 114 Il Comando supremo si aspettava da un giorno all’altro una grande offensiva austro-tedesca a nord del Grappa, e, secondo la testimonianza del Trevelyan, il momento peggiore per il «morale» degli italiani venne appunto tra la fine di marzo e il principio di aprile, quando le notizie del disastro britannico in Francia fecero «tremare le ginocchia ai deboli». 115 L’on. Comandini, commissario generale per l’assistenza civile e la propaganda interna, compilò una relazione sullo spirito delle 644

truppe e delle popolazioni civili servendosi dei dati comunicatigli dai commissari dipendenti dalla sua organizzazione, e che si riferivano presumibilmente a situazioni dell’aprile, se non del marzo. 116 È piuttosto significativo che tra le circa duecento risposte da lui riassunte almeno 120 riferissero che le condizioni di spirito erano buone o quanto meno discrete. Le informazioni maggiormente improntate a pessimismo provenivano dal Veneto, dalla Lombardia e dal Piemonte, ma è da notare che per Firenze ed Arezzo i giudizi dei commissari furono assai meno negativi che non quelli dei prefetti. 117 In aprile le angosce disparvero: l’offensiva tedesca sul fronte occidentale era stata arrestata; un corpo d’armata francese ed uno britannico sarebbero restati in ogni caso in Italia (e un corpo d’armata italiano sarebbe partito il 18 aprile per la Francia); ma soprattutto non c’era più «la barba, anzi il chiodo di un tedesco su tutto il fronte, all’infuori di qualche squadriglia di aviazione», così che gli austriaci erano dunque restati soli, sul Piave, e senza mezzi per condurre un attacco a fondo: l’offensiva nemica, fino ad allora considerata imminente, non avrebbe avuto più luogo, almeno per tutto il mese di aprile. 118 Orlando, recatosi in zona di guerra, e reso più tranquillo da quelle notizie, si dichiarò ottimista sullo spirito combattivo delle truppe. 119 Il Comando supremo, tuttavia, continuò ad essere pieno di dubbi al riguardo. Ai primi di aprile infatti uno dei capi del Comando (il gen. Badoglio?) affermò che mentre l’esercito poteva ritenersi materialmente ricostituito, il vero problema restava il soldato. Il col. Marchetti, responsabile dell’ufficio informazioni, contestò quella affermazione: era necessario aver fiducia nel soldato – disse – sia perché questa fiducia appariva più che giustificata dalle notizie raccolte dal suo ufficio, sia perché occorreva infine dissipare quel clima di sospetto che avrebbe 645

potuto rivelarsi pernicioso al momento del pericolo. Il Marchetti volle trattare l’argomento direttamente con Diaz. L’incontro ebbe luogo il 12 aprile e – secondo il racconto del colonnello – diede luogo a un colloquio piuttosto vivace, che ebbe anche «un momento di potenza drammatica», ma che finì «col trionfo della realtà». Il gen. Diaz, finalmente persuaso, accettò le conclusioni del suo ufficiale, al quale raccomandò tuttavia di tenere gli occhi bene aperti. In seguito a ciò le denunzie anonime sui fermenti esistenti fra le truppe vennero gettate nel cestino e i latori delle stesse (dal presidente Orlando a numerosi deputati) furono pregati di non più raccoglierle. 120 Di certo l’ambiente del Comando cominciò a rasserenarsi, e l’11 maggio i capi degli uffici informazioni riferirono che il morale era «buono» mentre il 18 maggio giunsero addirittura a qualificarlo «ottimo». 121 12. Le ragioni che determinarono una modificazione nello stato d’animo dei soldati furono numerose, e tra di esse ebbero grande importanza quei provvedimenti che miglioravano le loro condizioni di vita. Caporetto insomma poté essere interpretato come «uno sciopero vittorioso» compiuto dai fanti per assicurarsi un trattamento migliore. 122 Innanzi tutto, nei mesi successivi a Caporetto, fu aumentato il vitto. Infatti, nonostante le difficoltà degli approvvigionamenti, i soldati ricevettero più pane e più carne, e, nel complesso, la razione di guerra passò dalle 3.067 calorie del novembre 1917 alle 3.580 del giugno 1918. 123 Furono creati nei vari reparti spacci cooperativi, che fornirono a buon mercato viveri, bevande e oggetti di prima necessità. 124 Un altro provvedimento accolto con soddisfazione fu quello che dispose l’assegnazione di una seconda licenza annuale di 10 giorni oltre a quella invernale di 15 giorni. 125 Furono inoltre concessi esoneri per lavori agricoli in numero sempre più considerevole. 126 La paga del soldato restò invariata, e così 646

restarono invariati anche i sussidi alle famiglie dei richiamati, ma – per iniziativa del ministro Nitti – due decreti del dicembre 1917 ordinarono l’emissione di polizze gratuite di assicurazione per 500 e per 1.000 lire, a favore dei militari e dei graduati. 127 Funzionari dell’Istituto Nazionale Assicurazioni compirono viaggi fra le truppe per spiegare con conferenze e manifesti i vantaggi della polizza gratuita. 128 Il 1° novembre 1917 fu istituito un nuovo ministero per l’Assistenza militare e le pensioni di guerra. Nel dicembre – ed anche questa volta per iniziativa di Nitti – fu creata l’Opera Nazionale Combattenti, destinata ad assistere i militari dopo la smobilitazione e, soprattutto, a creare nelle campagne un ceto di produttori associati, costituito da fanti-contadini. 129 Il timore che potesse ripetersi una nuova Caporetto indusse numerosi uomini politici a chiedere con insistenza, sia al governo, sia al Comando che si cercasse in tutti i modi di venire incontro alle esigenze delle truppe. Anche il presidente Orlando nel gennaio ’18 si rese interprete di queste pressanti sollecitazioni, segnalando a Diaz che, secondo talune voci, le truppe manifestavano un persistente malumore per il diseguale avvicendamento dei reparti in prima linea. 130 Il capo di stato maggiore lasciò intendere di essere infastidito per le continue e spesso ingiustificate lagnanze, per i rilievi già a lui ben noti e magari inesatti, per i suggerimenti concepiti senza una reale conoscenza dei problemi. Oltre che infastidito, il capo di stato maggiore si dichiarò preoccupato per l’avvenire: «Si è che, specialmente dopo il contatto ed i confronti cogli Alleati, le eccessive testimonianze di premura e di interessamento, e le indagini e gli interrogatori che da ogni parte, e senza cautele, si fanno intorno alle truppe

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minacciano seriamente la disciplina, perché stanno talmente acuendo e sbrigliando i desideri che non vi saranno più provvedimenti né risorse che bastino; non solo, ma quanto si farà non sarà dagli stessi beneficianti attribuito a premura del governo, ma a pressione di questo o quel protettore – cosa che mi pare di estrema portata per la guerra ed anche per il dopoguerra.» 131 13. Le ragioni che di solito spingono i pacifici cittadini a impugnare le armi possono genericamente e schematicamente dividersi in alcuni gruppi fondamentali: a) la difesa della patria, della famiglia, della casa contro l’invasore straniero; b) il sentimento del dovere, reso più forte delle sanzioni penali e morali; c) lo spirito di corpo, che stabilisce vincoli di solidarietà tra gli uomini dello stesso reparto e, per estensione, dello stesso esercito; d) i compensi materiali che la condizione di soldato o di reduce comporta o comporterà; e) la propaganda che esalta gli ideali perseguiti dall’esercito al quale il soldato appartiene e svilisce quelli del nemico. Fu soltanto nella primavera del 1918 che questi cinque fattori poterono operare simultaneamente sull’esercito italiano. Abbiamo già detto, infatti, che la guerra italiana assunse carattere chiaramente difensivo soltanto dopo Caporetto. In secondo luogo l’ultimo anno di guerra vide un certo inasprimento delle sanzioni penali, e nello stesso tempo una più accorta applicazione della giustizia, di modo che la minaccia delle repressioni agì sui soldati con maggiore efficacia che per il passato. 132 Lo spirito di corpo fu reso più saldo da alcune misure decise dal nuovo Comando supremo per garantire la coesione organica dei reparti. 133 Il trattamento materiale, come già sappiamo, migliorò e pose il soldato italiano in condizione di superiorità rispetto all’austriaco. Ma anche le promesse di future 648

ricompense per i reduci, a guerra finita, valsero per il momento a rendere gli italiani più combattivi. Infine, ed è questo il punto che qui ci interessa, per la prima volta fu dato in Italia grande impulso alla propaganda. Prima di Caporetto ben poco era stato tentato al riguardo. Ancora nella primavera-estate del ’17 i comandi si erano limitati ad organizzare «conferenze patriottiche», che solitamente avevano avuto l’effetto di indispettire i soldati sia per la loro retorica, sia perché pronunciate da «conferenzieriimboscati». 134 Verso la metà dell’ottobre 1917 il gen. Capello aveva incaricato Ardengo Soffici di creare una vera e propria rete di propagandisti nella II armata, ma mancavano pochi giorni, anzi poche ore a Caporetto, e Soffici non ebbe il tempo di organizzare praticamente nulla. 135 Dopo la ritirata passò parecchio tempo prima che le autorità politiche e militari si rendessero conto che era opportuno uscire una volta per sempre dall’improvvisazione ed impiegare molti uomini e molti mezzi nella propaganda. Da principio, infatti, essa era rimasta affidata alle iniziative più o meno spontanee di ufficiali e deputati che si trovavano nella zona del fronte e che con la loro parola incitarono i soldati alla resistenza. 136 In sostanza si era continuato a far affidamento soprattutto sulle «conferenze patriottiche», e ci si era preoccupati soltanto di organizzare una «legione» di mutilati-conferenzieri per evitare che gli oratori potessero essere definiti imboscati. 137 Uno dei primi tentativi di dar vita ad una propaganda diversa, attuata con idee e strumenti nuovi, fu compiuto da Giuseppe Lombardo-Radice presso il comando dell’arma del genio del V corpo d’armata; un tentativo, si deve peraltro aggiungere, che ebbe notevole successo, tanto che da esso trasse più tardi

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ispirazione l’organizzazione propagandistica dell’intero esercito italiano. 138 Furono istituiti innanzi tutto gli «ufficiali di collegamento con le prime linee», incaricati di indagare periodicamente sullo spirito delle truppe, di elencare gli elementi sospetti, di assistere ed incoraggiare gli elementi migliori di ogni reparto, scegliendo fra di essi, e con molta cautela, i propri fiduciari. Gli ufficiali di collegamento dovevano essere sempre al corrente delle vicende politiche e compiere un’azione di propaganda «diretta», distribuendo materiale propagandistico. Ma particolare importanza veniva attribuita alla propaganda «indiretta»; in un pro-memoria dovuto probabilmente al Lombardo-Radice si può leggere in che cosa essa consisteva: «Si fa diramando a tutti gli ufficiali subalterni degli Spunti di conversazione coi soldati. Lo scopo precipuo che il Comando si propone è quello di far circolare fra tutte le truppe dipendenti lo stesso gruppo di idee, che siano come i nuclei vitali del pensiero che deve animare i soldati. Spostandosi un reparto e venendo i suoi soldati a contatto con quelli di un altro, hanno così occasione di sentire da superiori e da compagni di altri corpi ed armi le stesse idee. Unità di pensiero a tutta la grande unità, che, come ha un capo militare nel suo generale, deve avere un’anima sola.» 139 Gli ufficiali dovevano intrattenere i soldati in conversazioni che non avessero «alcuna apparenza di cosa solenne e preparata», ma che utilizzassero accortamente gli spunti predisposti dal Comando. Ve ne erano che avevano per argomento i nemici, gli alleati, la pace, la disciplina, il dopoguerra. In uno di essi – scritto tra la fine di novembre e i primi di dicembre del ’17 – si legge che 650

Lenin, il capo della «dissoluzione» più che della «rivoluzione» russa, voleva consegnare la sua patria ai tedeschi. La Germania imperiale, pertanto, amava le rivoluzioni, ma solo… in casa degli altri, ed era difatti alleata con le potenze più reazionarie, Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia, mentre l’Italia, al contrario, aveva al suo fianco Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, vale a dire le moderne democrazie. «La vera rivoluzione» concludeva il documento «noi non abbiamo da cercarla; la vera rivoluzione noi la stiamo facendo, figliuoli. La grande rivoluzione, più grande di quante mai la storia ne vide è “questa guerra”. Essa ci libererà dalle pazze voglie di Impero degli Stati illiberali, di cui è simbolo Guglielmo il massacratore; essa ci libererà dalle guerre future, se noi riusciremo, come è nostro dovere, a mozzare i velenosi denti del serpe insidioso: “la Germania”.» 140 Dopo la rivoluzione russa l’altro grande argomento di discussioni fra i soldati erano gli alleati, quegli inglesi e quei francesi, cioè, giunti in Italia per scopi che non apparivano troppo chiari e che la propaganda austriaca dipingeva nel peggiore dei modi. Lombardo-Radice spiegò invece quanto fosse prezioso il concorso delle truppe franco-britanniche, e soggiunse che se esse erano venute in Italia per difendere gli interessi delle loro nazioni, era pur vero che gli interessi dell’Italia coincidevano con quelli dei suoi alleati: «D’altronde» si legge in uno «spunto» del dicembre ’17 «non c’è solo un’anima italiana o francese o inglese; c’è anche una anima europea. Noi entrammo in guerra come europei la cui anima era stata offesa dall’aggressione 651

degli Imperi centrali, oltre che come italiani; e combattiamo sinceramente per il fine di realizzare una migliore Europa, oltre che per liberare l’Italia dal giogo tedesco.» 141 Anche il gen. Capello, passato al comando di un’armata costituita in gran parte con gli sbandati di Caporetto, aveva istituito fin dal novembre un ufficio di propaganda, con il compito di organizzare conferenze, inchieste, spettacoli fra le truppe. 142 Ma bisognò attendere il 1° febbraio perché il Comando supremo prescrivesse – sull’esempio di quanto era stato spontaneamente compiuto dai comandi di cui si è fatto cenno – che tutte le armate designassero «un ufficiale» con l’esclusivo incarico della propaganda fra le truppe. 143 Se si tien conto che le armate erano sette e gli uomini alle armi circa due milioni, si comprende quante difficoltà incontrasse ancora il metodo della «persuasione» negli ambienti del Comando supremo. 144 14. Tra la fine di febbraio ed i primi di marzo, quasi d’improvviso, il governo e il Comando supremo cominciarono a capire finalmente la grande importanza di un’opera attiva di propaganda fra le truppe. In effetti tutto un insieme di circostanze la rendevano necessaria e non più procrastinabile: a) gli austriaci riempivano le trincee e le retrovie italiane con ogni sorta di manifestini, ed appariva indispensabile condurre un’adeguata azione di contropropaganda; b) gli statunitensi impiegavano metodi nuovi per diffondere le idee sulla guerra e – come vedremo – si preoccupavano di mobilitare in loro favore l’opinione pubblica italiana; c) tutto il campo alleato decideva di organizzarsi per esercitare una forte pressione propagandistica sul nemico, il che 652

contribuiva a determinare fra gli italiani una maggiore confidenza con i metodi propagandistici e una maggiore coscienza dei risultati che da essi potevano essere ottenuti; d) la guerra, dopo l’intervento degli Stati Uniti e la rivoluzione russa, stava effettivamente rivelando un nuovo volto per cui si rendeva opportuno «nobilitarla» agli occhi delle masse. Uno dei sintomi più evidenti della svolta fu costituito dalla nascita di un grandissimo numero di giornali per i soldati, o, come allora si diceva, di «giornali di trincea». Prima di Caporetto si pubblicava a Roma un quindicinale, «Il soldato», e a Milano un settimanale, «Il giornale del soldato», ma si trattava di fogli diffusi soprattutto nelle caserme e nei depositi, nulla che assomigliasse al «Bulletin des armées», distribuito gratis e in un grandissimo numero di copie ai combattenti francesi. 145 Qua e là, in zona di guerra, era stampato qualche foglio, spesso ciclostilato e sempre di limitata diffusione, che serviva al battaglione, alla batteria, e talvolta alla sola compagnia, o interessava solo i graduati, anzi gli ufficiali di un ristrettissimo gruppo di reparti. 146 Anche i primi mesi dopo la disfatta erano trascorsi senza che fossero prese importanti iniziative «giornalistiche» per i soldati. Poi, d’improvviso, anziché un solo grande giornale come alcuni pretendevano, furono fondati numerosi periodici, organi di armate, di corpi d’armata o di modesti reparti. Nel gennaio 1918 apparve «La trincea», settimanale dei soldati del Grappa. 147 A partire dal febbraio Piero Jahier pubblicò «L’Astico», giornale delle truppe schierate lungo la Val d’Astico, divenuto più tardi organo dell’intera I armata, ma stampato – per volontà di Jahier – in un limitato numero di copie. 148 Il primo giornale a grande tiratura, pubblicato con ricchezza di mezzi tipografici, fu «La tradotta», settimanale della III armata, apparso 653

il 21 marzo. 149 Nello stesso mese il servizio informazioni dell’esercito diede vita a un altro settimanale, «La Giberna». 150 Poi fu la volta di «La Ghirba», organo della V armata, diretto da Ardengo Soffici (dal marzo al novembre pubblicò 29 numeri, di circa 40.000 copie ciascuno), e di «Il razzo», organo della VII armata. 151 La VI armata ebbe il suo foglio soltanto dopo la battaglia del giugno; si chiamò «Signor Sì», e vi collaborarono inglesi, francesi e cecoslovacchi, poiché l’armata detta «degli altipiani» era, per l’appunto, interalleata. 152 Altri giornali di trincea furono «Il Montello», «La voce del Piave», «San Marco», «Dalla trincea», «Savoia!». Alla metà di giugno circa cinquanta periodici venivano complessivamente stampati per le truppe mobilitate. 153 Dopo Caporetto anche i giornali quotidiani pubblicati nel Paese furono distribuiti in zona di guerra in quantità nettamente superiore che nel passato, ma fu necessario per questo che i comandi superassero alcune esitazioni. C’era stato il timore, infatti, che una regolare diffusione dei quotidiani, pieni, tanto spesso, di informazioni sul «disfattismo», potesse deprimere lo spirito combattivo delle truppe combattenti. Ci si rese però conto che le misure miranti ad impedire la diffusione della stampa erano inefficaci e nocive. Inefficaci, poiché accadeva che notizie di gravi avvenimenti interni si spargessero in zona di guerra prima dell’arrivo dei giornali o prima ancora che lo stesso Comando fosse informato da Roma. Nocive, perché la mancanza dei giornali induceva a «fantasticare» con risultati peggiori che non quelli determinati dalla lettura dei giornali medesimi, dato che questi ultimi, almeno, contenevano «il contraddittorio o il commento risanatore». 154 Non soltanto fu data via libera alla diffusione dei quotidiani, ma le autorità militari strinsero con essi speciali accordi secondo 654

i quali i giornali avrebbero pubblicato articoli adatti alla propaganda fra le truppe, ed i comandi, in compenso, acquistavano varie migliaia di copie al prezzo dei rivenditori, sette centesimi e mezzo. Gli stessi comandi rivendevano poi quelle copie al prezzo di mercato – dieci centesimi – perché il regalarle avrebbe indotto i soldati a «non credere». 155 Tra i giornali che beneficiarono di tali accordi ricorderemo: «Il Corriere della Sera», «Il Popolo d’Italia», «Il Resto del Carlino», «Il Secolo» di Milano, «L’Arena» di Verona. 156 15. Quasi nessuno, in Italia, possedeva molta esperienza in materia di propaganda di massa: si trattava di un’arma nuova, le cui possibilità restavano sconosciute, vagamente intuite, ma che improvvisamente, nella primavera del 1918, cominciò ad essere adoperata con ricchezza di mezzi e, nello stesso tempo, con ingenuità ed empirismo. Anche con questi limiti la propaganda si rivelò subito uno strumento efficace per raggiungere lo scopo al quale era stata destinata: ridare slancio ai combattenti. Cartoline, opuscoli, libri furono diffusi a centinaia di migliaia di copie. I muri delle città e dei paesi, le pareti esterne e interne delle baracche e delle case del soldato vennero tappezzati di cartelloni multicolori raffiguranti il bersagliere in atto di lanciarsi all’attacco, la popolana scarmigliata e furibonda che chiedeva vendetta, i militari italiani e quelli alleati che schiacciavano l’Austria e la Germania. I reali carabinieri incollarono sulle case della campagna veneta manifesti che esaltavano i rivoluzionari di ieri: Filippo Corridoni, Benito Mussolini, Amilcare Cipriani. 157 Il materiale propagandistico fu stampato sia dagli uffici militari, sia da enti pubblici e privati. Leghe, comitati, associazioni distribuirono fra i soldati manifestini e bollettini in milioni di copie. Gli ufficiali furono messi in condizione di distribuire sussidi ai militari poveri, per importi complessivi assai 655

rilevanti. 158 Fu dato ordine che le decorazioni al valore fossero assegnate in maggior numero a soldati e sottufficiali. 159 Luigi Albertini, che dopo la guerra di Libia era stato contrario ad estendere il diritto di voto a coloro i quali avevano partecipato a tale guerra, giudicò più che opportuna, nell’aprile 1918, la proposta di Salandra per l’estensione del diritto elettorale a tutti i cittadini mobilitati, anche al di sotto del 21° anno di età. 160 Anche le attività ricreative furono finalmente incoraggiate: «Il nostro esercito» scrisse Alessi nel maggio «ha dimesso quell’abito di austerità claustrale e rassegnata così poco confacente alle esuberanti esigenze di tanta gioventù in armi. Nei campi di riposo è entrata un’onda di festività che rassoda gli animi e alleggerisce le pene della trincea». 161 Nel marzo 1918 le varie armate cominciarono a dare un assetto organizzativo ai servizi di propaganda. Gli ufficiali che vi furono addetti si chiamarono prima «ufficiali di collegamento con le prime linee», quindi ufficiali «consulenti», ufficiali «I.P.» (Informazioni e Propaganda), infine, più semplicemente, ufficiali «P.». 162 Il comando della II armata, ispirandosi ai princìpi già applicati dal Lombardo-Radice, emanò una lunga circolare contenente norme di carattere generale atte ad integrare ciò che era stato compiuto «per opera di singoli comandi, o, saltuariamente, per iniziativa di volenterosi». Gli ufficiali «consulenti» furono consigliati di tenere lezioni agli altri ufficiali e conversazioni alle truppe. Si disse che fra i compiti degli addetti alla propaganda c’era anche quello di eliminare le cause del malcontento, e dunque di curare il vitto, l’igiene, il vestiario; di aiutare i soldati a scrivere le lettere alla famiglia; di tenere vivo il buonumore e spronare al gioco; di impiantare campi sportivi e cinematografi; di distribuire pubblicazioni, carta da lettere. L’autolesionismo 656

doveva essere combattuto «in accordo con medici e cappellani». Occorreva censire gli elementi buoni, patriottici, fidati; sorvegliare i sospetti e premiare i buoni. Infine la lunga circolare suggeriva alcuni argomenti di conversazione con la truppa, raccomandando: «Nessuna retorica, sacrificare le belle frasi dotte; molta esemplificazione!», e venivano elencati sinteticamente circa quaranta argomenti di conversazione, il primo dei quali era stato scelto allo scopo di rafforzare l’odio contro il nemico, che assassinava donne, bambini, feriti e impiegava le famigerate «mazze ferrate». Altri argomenti concernevano i miglioramenti già concessi ai soldati (razione viveri, assicurazione gratuita, ecc.), lo spirito di corpo, la pace, la resistenza interna. Era fra l’altro proposto il seguente tema di conversazione: «Gli ingegneri e gli operai delle officine non sono imboscati». Oppure: «Le conseguenze in caso di pace prematura: tutti i morti invano. Officine chiuse, invasione di capitale e operai tedeschi; disoccupazione e fame dei nostri». Mentre invece la conseguenza della vittoria italiana sarebbe stata il benessere «collettivo ed individuale». 163 I temi polemici della più esasperata propaganda interventistica risultavano esclusi o, quanto meno, posti in secondo piano. La propaganda promossa dai comandi cercava di collocarsi al di sopra dei partiti, e poneva l’accento sulla speranza di un mondo migliore. Il mito della guerra rivoluzionaria, che dal ’15 al ’17 era stato praticamente dimenticato, diventò per la prima volta argomento di propaganda fra le masse in grigioverde. 164 Già vedemmo che Lombardo-Radice era tornato a parlare di guerra rivoluzionaria in uno degli spunti di conversazione predisposti alla fine del ’17. 165 Nel marzo del ’18 egli propose di nuovo quel tema, e con

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maggiore impegno, in una circolare diretta agli ufficiali del V corpo d’armata: «Si fa la guerra per il soldato: per il contadino, per l’operaio, per l’impiegato. Si combatte per tutti coloro che penano e stentano la vita, nelle campagne e nelle città, in Italia e fuori d’Italia. Si fa la guerra per i proletari: questa è la guerra dei proletari. Solo pochi pericolosi imbecilli possono parlare di imperialismo.» «L’Italia» proseguiva infatti il documento «è un Paese modesto, di gente modesta, che comincia appena a disporre di un gruzzolo suo, che varca appena le soglie del risparmio.» Nell’anteguerra l’Italia minacciava di restar soffocata «fra le strette di quella prepotente congrega di industriali e di commercianti che si chiamò poi Mitteleuropa, nell’ambito di un colossale trust di produttori, il quale mercé la guerra contava imporre definitivamente al mondo i suoi metodi, i suoi orari di lavoro, i suoi krumiri e le sue taglie». E dunque era stata necessaria la guerra, una guerra «non politica», ma soprattutto «economica», intesa a ripartire equamente ricchezza ed energie produttive fra le genti: «Noi non eravamo abbastanza grandi per starcene alla finestra, a fare da spettatori, e nemmeno abbastanza piccoli. La debolezza di oggi ci sarebbe costata il benessere di domani. Il nostro problema era quello di un’azienda appena sorta, sorpresa dallo scoppio di una concorrenza formidabile: o lavorare in perdita, finché sia necessario, o liquidare. Ancora una volta, si trattava di un grave affare: di un fondamentale interesse degli umili più che dei ricchi. 658

Si trattava di un affare del popolo, dei proletari: non dei “signori”. Bisogna dirlo e ripeterlo, poiché non lo si è ancora compreso. I ricchi erano quelli che meno erano in causa. Non sono i bilanci dei fornitori militari ciò che decide della ricchezza nazionale. L’economia dello Stato è l’economia delle masse, l’economia di coloro, che non sono ricchi. Assicurare il posto dello Stato fra gli altri Stati – il vero programma della guerra – garantire parità di mezzi e di proporzioni al libero processo del suo sviluppo, significa assicurare e garantire l’avvenire del popolo, non quello dei ricchi; il bilancio dei proletari e non quello dei signori. Significa fare, esattamente, gli interessi del soldato: del contadino, dell’operaio, dell’impiegato. Chi ha una ricchezza propria può, relativamente, fare a meno di quella di tutti. È chi non la possiede che non può farne a meno. Il ricco vale per sé: il povero non vale se non per quanto vale lo Stato di cui è parte. […] Combattiamo per trar fuori il nostro popolo dalla sua grigia fatica di eterno bracciante. Vogliamo che ogni italiano valga domani quanto ogni altro europeo, e non viva peggio di un tedesco, di un inglese, di un francese, di un belga. Ecco il nostro grande irredentismo economico e morale che riguarda tutte le nostre terre, non solo quelle che l’Austria deteneva! Redimerci. Emanciparci. Levarci in piedi. Non dobbiamo più essere nel mondo, i tollerati, i cinesi, le bestie da soma, coloro che penano di più e che si pagano di meno. Non dobbiamo tornare ad essere in nessun paese estero, i lustrascarpe, i barbieri, i menestrelli e i prosseneti degli altri. Non ci si deve più camminare sui piedi. Non ci si deve più fare l’elemosina. 659

Non dobbiamo più trascinare per le terze classi dell’orbe terraqueo i nostri fagotti, i nostri marmocchi, e le nostre lacrime.» Infine, in tutte maiuscole, il documento concludeva: «La guerra, per la Germania, è sopraffazione e conquista. Per noi la guerra è: Rivoluzione contro la Germania per garantire ai nostri popoli il pane quotidiano». 166 Frattanto i fanti-contadini pensavano a una diversa ripartizione di ricchezze ed energie produttive non soltanto fra le nazioni, ma anche fra loro stessi ed «i signori». La formula della terra ai contadini diventava infatti sempre più popolare, anche perché erano gli stessi «signori», ormai, a rassegnarsi e a confermare che la terra doveva trapassare da chi non la coltivava a chi la coltivava. Alessandro Schiavi, nella «Critica Sociale» del marzo 1918, notava compiaciuto che tale esigenza poteva dirsi «unanimemente riconosciuta», dato che perfino i conservatori parlavano apertamente di «nazionalizzazione del suolo», e scorgevano nella trasformazione sociale dovuta alla guerra l’occasione che avrebbe consentito di porre fine per sempre al latifondo meridionale. 167 16. Allorché nel maggio 1918 l’on. Comandini presentò un programma diretto a coordinare le svariate iniziative propagandistiche già attuate o ancora da attuare nell’esercito, il ministro della Guerra, gen. Zupelli, si rivolse al presidente Orlando per protestare contro quel programma che prevedeva l’intervento di elementi non appartenenti alle forze armate. Secondo il ministro i soldati dovevano essere educati soltanto dai loro ufficiali, e non «da professori, avvocati, ecc.», ai quali spesso mancava il prestigio di chi era invece stato sulla linea del fuoco; inoltre, un’opera di propaganda affidata ai soli ufficiali avrebbe 660

evitato sia «ogni pericolo di discussioni», sia il rischio che i soldati udissero voci discordi. Il ministro desiderava anzi «che la stessa azione dei mutilati fosse nel suo complesso alquanto arginata», dato che non pochi di quei mutilati conducevano «vita troppo pubblica, troppo rappresentativa, con eccessi talvolta riprovevoli». Egli precisava di non volere con ciò riferirsi alla Associazione nazionale mutilati, ma all’attività «alquanto tumultuaria ed esteriore di comitati d’azione [interventista]» che nulla avevano a che fare con l’Associazione stessa. Auspicava pertanto che il governo frenasse e disciplinasse l’attività di quei comitati, spesso lodevole nei fini, ma «trasmodante» nelle forme, con danno dei mutilati stessi e dell’esercito. Orlando si dichiarò sostanzialmente d’accordo, pur chiedendo che «i mutamenti di indirizzo» non avvenissero bruscamente. 168 Ma anche i propagandisti appartenenti alle forze armate suscitarono diffidenze e sospetti. Gli ufficiali P. infatti, erano stati scelti in gran parte fra i complementi, vale a dire tra i professori, gli avvocati, gli intellettuali che spesso, anche se non avevano un grado elevato nella società militare, erano personaggi piuttosto noti, con titoli e prestigio nella società civile, ed in rapporti amichevoli con ministri, parlamentari, comandanti superiori; per di più, grazie all’incarico ricevuto, potevano assumere informazioni ed ispezionare reparti con la più grande libertà di movimenti e, come se tutto ciò non fosse bastato per renderli sospetti agli occhi di molti, essi erano autorizzati a corrispondere direttamente con i comandi superiori senza che i comandi intermedi potessero interferire: «I comandi intermedi» scrisse il Tondi «avevano visione delle relazioni che l’ufficiale trasmetteva, ma nulla più. Non potevano né intercettarle, né modificarle. Potevano soltanto, se credevano, annotarle o 661

accompagnarle con altra relazione. Ma il comando dell’armata voleva sapere direttamente e sinceramente tutto, e aveva trovato la strada per riuscirvi.» 169 La facoltà di corrispondere ai vari livelli (esistevano infatti uffici P. di armata, di corpo d’armata, di divisione, di reggimento), senza rispettare le normali vie gerarchiche, era in contrasto – come fece notare Prezzolini – con la mentalità e le abitudini di molti ufficiali di carriera: «Tanto più, poi, che gli uffici P. per la natura del loro compito furono quasi sempre affidati ad ufficiali di complemento che vi avevano maggiore preparazione. Così accadeva per es. di un colonnello, che, per il solito spirito di carriera, assicurava che il reggimento suo era in grado di partecipare ad un’offensiva, ma la relazione dell’ufficiale P. rivelava che tre quarti del reggimento aveva la spagnola o era in condizioni di disastrosa stanchezza: e il reggimento, per fortuna, non si muoveva, e il colonnello prendeva un cicchetto. Gli ufficiali P. erano perciò degli osservatori ottimi per il Comando supremo: organi di collegamento morale, che rompevano la famosa crosta di ghiaccio solita a formarsi tra inferiori e superiori nella vita militare.» 170 Membri di una influente «corporazione» che si irradiava dai comandi più alti fino agli inferiori, gli ufficiali P. parvero assumere il ruolo di vere e proprie «eminenze grigie» (paragonabili, sotto certi aspetti, ai commissari politici istituiti nell’esercito russo). La loro presenza sembrò costituire una prova delle interferenze in atto tra sfera politica e sfera militare, in contrasto con quella tradizione di autonomia che era stata 662

gelosamente difesa da Cadorna e che corrispondeva alle idee dominanti nella casta militare. Si disse che perfino il ministro della Guerra fosse così mal disposto verso gli uffici P., da pretendere che non si parlasse di essi in sua presenza. 171 E nell’estate del 1918 furono emanate disposizioni affinché gli ufficiali P. rispettassero maggiormente l’ordine gerarchico ed evitassero di dare carattere «inquisitoriale» alla loro attività. 172 Il sospetto che gli uffici propaganda ed informazioni potessero effettivamente servire al potere civile per esercitare un esteso controllo sulle faccende militari non era troppo infondato. Alla fine del febbraio 1918, infatti, l’on. Gasparotto, addetto al comando della III armata, scrisse al presidente Orlando che il governo – per essere quotidianamente informato sullo spirito delle truppe e su ciò che accadeva al fronte – avrebbe fatto bene a nominare «ufficiosamente dei commissari o fiduciari per ciascuna delle tre armate operanti». 173 Il presidente del Consiglio fece immediatamente conoscere il suo pensiero all’amico deputato: «Ho non solo letto, ma riletto e meditato la interessante lettera che tu mi hai fatto pervenire alla Camera. Nel concetto fondamentale, io sono d’accordo teco, e sarei disposto a passare senz’altro nel campo dell’azione. Ma occorre, però, superare la seguente questione che ha carattere pregiudiziale, e cioè: secondo il tuo pensiero l’organizzazione cui tu alludi dovrebbe avere un carattere riservato, anzi segreto, in guisa da esser nota soltanto al capo del governo ed al di lui fiduciario, o s’intende, invece, che debba avere un carattere che, pur non essendo pubblico, né ufficiale,

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debba tuttavia essere a conoscenza, per lo meno del Comando supremo?» 174 Gasparotto rispose che, a suo giudizio, si poteva mirare a un programma massimo e ad un programma minimo. Il primo consisteva nel nominare un commissario, accreditato presso il Comando supremo, ma con un «suo campo d’azione lontano dal Comando stesso, e precisamente fra le truppe (in preferenza quelle di prima linea)». Il programma minimo, viceversa, consisteva nel «nominare uno o più commissari, o semplicemente fiduciari del governo, o, più semplicemente ancora, fiduciari del presidente del Consiglio». «Il mandato palese del fiduciario (o dei fiduciari) sarebbe quello di disciplinare il servizio di propaganda fra le truppe e come tale semplicemente potrebbe essere accreditato presso il Comando supremo, il quale non potrebbe frapporre difficoltà alcuna, visto che, a differenza del cessato Comando, l’attuale apre le porte a tutti coloro che vogliono portare la loro parola ai combattenti. L’ufficio sostanziale però del fiduciario o dei fiduciari sarebbe sempre quello di mantenere, nella forma più discreta, quotidiano e diretto collegamento fra il fronte di battaglia ed il governo, in modo che questo non possa essere sorpreso, come purtroppo è avvenuto altra volta, se non dagli avvenimenti militari, da vasti fenomeni di carattere morale.» Ma Gasparotto prevedeva che i commissari avrebbero dovuto trasmettere informazioni riservate su tutto ciò che riguardava l’esercito, anche su problemi di natura tecnica. 175 Non sappiamo in quali termini proseguì il dialogo tra il 664

presidente del Consiglio e Gasparotto, né se il governo reclutò tra gli ufficiali P. gli uomini di fiducia atti ad informarlo segretamente su quanto avveniva nell’esercito. Va però detto che nei giorni in cui Ojetti fu nominato commissario per la propaganda sul nemico, il presidente del Consiglio aveva in realtà in animo di fare di lui «l’ufficiale di collegamento» tra governo e Comando. 176 E potrebbe anche essere significativo ricordare che il gen. Diaz si mostrò assai preoccupato allorché seppe che Ojetti si sarebbe recato periodicamente dal presidente del Consiglio a riferire sulle sue attività. 177 17. Abbiamo già accennato al fatto che gli italiani acquistarono confidenza con le tecniche propagandistiche grazie anche al grande impulso dato, a partire dal marzo 1918, alla propaganda fra le truppe nemiche. Prima di allora, infatti, avevano tentato ben poco in questo campo anche perché una simile attività di propaganda era considerata un’arma sleale e contraria alle regole della guerra: allorché, ben prima di Caporetto, gli italiani avevano iniziato a lanciare manifestini fra le truppe austro-ungariche, il gen. Boroevic, a mezzo di parlamentari, aveva intimato di desistere dall’impresa, avvertendo che, in caso contrario, avrebbe fatto impiccare gli aviatori italiani eventualmente catturati nel corso dei lanci. L’ufficio informazioni del Comando supremo italiano avrebbe voluto continuare nell’opera intrapresa, ma il gen. Cadorna aveva deciso di sospenderla. 178 Nel 1918 il nuovo Comando cambiò opinione, sia perché proprio gli austro-ungarici avevano dato inizio ad una massiccia propaganda fra gli italiani, sia perché in Italia e nei paesi alleati erano cresciuti i consensi verso la cosiddetta «politica delle nazionalità», nella quale era facile intravedere un ottimo strumento di propaganda fra le truppe nemiche. Postulando lo 665

smembramento dell’Impero austro-ungarico e la autonomia delle varie nazionalità che lo componevano, essa poteva infatti servire a spezzare la coesione di un esercito quanto mai eterogeneo, composto da tedeschi, boemi, slovacchi, croati, sloveni, ecc. 179 Una parte dell’interventismo aveva affermato da tempo che lo smembramento dell’Austria-Ungheria doveva costituire uno degli obbiettivi di guerra; ma la maggioranza della classe politica non era stata dello stesso avviso, ed il ministro degli Esteri Sonnino, in particolare, aveva sempre sostenuto che la sopravvivenza dell’Impero austro-ungarico era indispensabile per garantire in futuro l’equilibrio fra le potenze. 180 All’inizio del 1918 la politica delle nazionalità trovò improvvisamente nuovi e più ampi consensi per numerose ragioni, ma soprattutto perché la guerra totale esigeva l’impiego di tutte le risorse disponibili e dunque anche dell’arma propagandistica offerta da quella politica. 181 Fu organizzato a Roma un congresso delle nazioni oppresse dall’Austria-Ungheria, e uno dei maggiori promotori di esso, il giornalista G.A. Borgese, ne rievocò l’atmosfera: «In fretta e furia gli ideali della democrazia, della pace con giustizia, della fratellanza internazionale furono riportati alla luce dal dimenticatoio in cui erano stati sepolti. Una nuova canzone, quella del Piave, divenne inno nazionale. Non parlava né di conquiste né di supremazia, non nominava neanche i monti e i fiumi dei territori promessi al di là delle frontiere.» 182 I più convinti fautori di uno smembramento dell’Impero austro-ungarico, indipendentemente da ogni considerazione strumentale ai fini propagandistici, furono in Italia: Salvemini, 666

Bissolati, Albertini; in Gran Bretagna: lo storico Robert Seton Watson e il giornalista Henry Wickham Steed. Nel febbraio 1918 proprio Steed convinse lord Northcliffe, responsabile della propaganda britannica verso i paesi nemici, che questa propaganda avrebbe conseguito un grandioso successo se fosse stata fondata sulla promessa della «libertà democratica alle varie razze austro-ungariche». Fu immediatamente organizzato un convegno interalleato a Parigi per dibattere l’argomento e verso la fine di marzo Steed e Seton Watson partirono in missione alla volta dell’Italia. 183 Il 29 marzo Orlando nominò Ugo Ojetti commissario alla propaganda sul nemico, 184 e quello stesso giorno Steed e Seton Watson raggiunsero la sede del Comando italiano. Incontrarono il gen. Diaz «che si mostrò molto comprensivo e ordinò al [vice] capo di stato maggiore, Badoglio, di convocare per il 30 un convegno generale degli ufficiali dei servizi informazione delle sei armate italiane». 185 Nel corso di quel convegno si stabilì che la propaganda avrebbe prodotto risultati immediati solo se fosse stata data pubblicità alla proclamazione di indipendenza dei popoli «asburgici», con l’autorizzazione dei governi alleati. Entro poche ore sia Londra, sia Parigi, sia – con riserva – Sonnino da Roma fecero pervenire la richiesta autorizzazione. Il gen. Badoglio impartì l’ordine di stampare i primi manifesti nelle varie lingue delle truppe nemiche. Fra il 7 e l’8 aprile i lanci ebbero inizio, e in pochi mesi, fino alla conclusione del conflitto, 51 milioni di copie di manifesti e più di 9 milioni di copie di un giornale settimanale furono lanciati a mezzo di aerei, dirigibili e razzi speciali. 186 I risultati della nuova propaganda furono giudicati molto buoni dal punto di vista militare, sia in occasione della battaglia del giugno, sia – soprattutto – durante gli ultimi giorni dei 667

combattimenti, alla battaglia di Vittorio Veneto. 187 Nella seconda metà del 1918 i soldati dell’esercito austro-ungarico avevano perso gran parte del loro spirito cameratesco, parlavano con molta circospezione e udivano sempre più frequenti voci di sospetti e di tradimenti: «tedeschi ed ungheresi [erano] considerati i popoli predominanti; gli altri, gli oppressi, i forzati». 188 La propaganda fondata sulla politica delle nazionalità ebbe inoltre effetti indiretti sull’esercito italiano perché fornì ad esso un’immagine completamente nuova dell’avversario. Fino agli inizi del 1918, infatti, comandi e truppe italiani ignorarono sostanzialmente le questioni interne dell’impero asburgico, e considerarono tutti i nemici come «tedeschi». 189 Allorché nell’aprile 1918 Wickham Steed si recò a visitare Lord Cavan nel suo quartier generale, scoprì che perfino il comandante in capo delle truppe britanniche in Italia non sapeva chi fossero i suoi nemici: Cavan li considerava tutti austro-ungarici, e confessava di non conoscere proprio un bel nulla né degli «jugoslovacchi», né dei «cecoslavi». 190 Poco alla volta, tutti appresero di trovarsi di fronte ad un nemico sempre più lacerato da interne contraddizioni ed acquistarono un senso di superiorità: l’avversario che non combatteva per la propria patria sembrò un essere inferiore, fu considerato peggio di un mercenario. Gli ufficiali addetti alla propaganda indussero i soldati italiani a riflettere sul fatto che, mentre i cecoslovacchi disertavano dall’esercito austriaco per arruolarsi in quello italiano, nessun italiano era fuggito dal suo paese per arruolarsi con gli austriaci: «Fuggirono sì molti generosi, durante la neutralità, ma per farsi Garibaldini in Francia, contro i Tedeschi, e Bruno e Costante Garibaldi vi trovarono una morte radiosa, che voi cantaste in una

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delle prime canzoni sorte per la nostra guerra. Sentite voi la differenza?». 191 Nel maggio 1918 circa 14.000 disertori e prigionieri «austriaci» costituirono in Italia la 6ª divisione cecoslovacca, e indossarono la divisa grigioverde degli alpini. Combatterono in giugno la battaglia del Piave e parteciparono in ottobre alla battaglia di Vittorio Veneto. Costituirono, agli occhi degli italiani, una delle prove più evidenti della disintegrazione dell’esercito nemico. 192 18. Molti italiani, dopo che gli Stati Uniti entrarono in guerra, si dichiararono scettici sul contributo che quella nazione avrebbe potuto dare alla lotta; sentenziarono che gli americani erano privi di qualità militari, che non sarebbero mai stati capaci di mettere in piedi un’armata e che comunque questa sarebbe affondata nell’oceano Atlantico per opera dei sottomarini tedeschi; quand’anche fossero sbarcati in Europa, gli americani si sarebbero mostrati inetti a superare le difficoltà di fronte alle quali, da anni ormai, i ben più esperti eserciti europei si erano arrestati. Scrisse Lasswell che le autorità di Washington, quando ebbero notizia di questo scetticismo, decisero di promuovere in Italia una intensa campagna propagandistica. Da New York furono scritti articoli per l’agenzia Stefani; migliaia di lettere circolari furono inviate ad altrettante personalità italiane; giornalisti di Roma e di Milano ricevettero l’invito di recarsi negli Stati Uniti; casse di libri, opuscoli, cartoline, nastri e persino «bottoni» di propaganda furono imbarcati sui piroscafi diretti a Napoli o a Genova. 193 Gli americani conquistarono rapidamente l’opinione pubblica italiana non soltanto perché possedevano il prestigio della grande potenza ed esaltavano gli ideali della democrazia, ma 669

anche perché impiegavano, per la prima volta nella storia della società italiana, le moderne tecniche della propaganda di massa. Disponevano di ingenti mezzi e di uomini adatti, molti dei quali erano di origine italiana e riuscivano dunque a presentarsi come «compatrioti»: per educazione e condizione sociale conoscevano inoltre l’arte di parlare con semplicità agli uomini. Il 3 febbraio, alla Scala di Milano, il «fascio parlamentare» indisse una pubblica assemblea nel corso della quale varie personalità politiche italiane pronunciarono i soliti discorsi solenni e retorici. Allorché prese la parola Fiorello La Guardia, deputato di New York di origine italiana, il pubblico fu affascinato e travolto. L’italiano di La Guardia non era perfetto, ma: «Mentre tutti gli oratori precedenti avevano parlato in toga, in pompa magna, egli parlò… in maniche di camicia. Non montò sui trampoli, non architettò la sua concione con squadra, compasso e piombino; ma disse cose che entravano direttamente, di colpo, nel cervello e nel cuore dell’uditorio.» 194 Anche il vecchio Ferdinando Martini lo udì e si entusiasmò, scrivendo nel suo diario: «Meraviglioso di efficacia il deputato americano La Guardia di origine pugliese. La parola concisa, la sostanza materiata di praticità, il gesto addirittura meridionale. Mimica atavistica.» 195 Per mezzo dei cardinali Gibbons, Farley ed O’Connel, il governo di Washington agì sull’opinione cattolica; per mezzo di delegazioni di uomini politici radicali e sindacalisti 670

dell’American Federation of Labour cercò di rendersi amici i sindacati e i partiti della sinistra italiana. Samuel Gompers, presidente di quella federazione, giunse in Italia nell’ottobre 1918 e si incontrò anche con Turati e Cabrini. 196 Numerose istituzioni statunitensi inviarono uomini e soprattutto copiosi mezzi in Italia, per soccorrere ed assistere non soltanto le popolazioni civili, ma anche l’esercito. La Croce Rossa Americana spedì aiuti molto generosi. 197 E un’associazione protestante, l’YMCA, creò un gran numero di «case del soldato» sul fronte del Piave e nelle retrovie; finanziò don Minozzi perché potenziasse la rete delle «case» da lui dipendenti; istituì posti di ristoro lungo le linee ferroviarie e in prossimità delle prime linee; organizzò spettacoli cinematografici, teatrali e musicali per migliaia di soldati. 198 Scrisse Lombardo-Radice che alla metà di maggio gli uffici propaganda consideravano cessate nell’esercito le diffidenze verso gli alleati e lo scetticismo sull’aiuto americano. 199 Alla metà di giugno don Minzoni tenne una conferenza alle truppe e precisò che l’apporto dato dall’America alla guerra sarebbe stato più morale che materiale (in Italia non si era ancora visto neppure un battaglione statunitense), ma quell’apporto morale gli sembrò enorme: «La vecchia Europa,» disse «madre della civiltà americana, riceverà da questa giovane e ricca figlia quella forza che da tempo ha perduto. A guerra finita vedremo che non solo case ed edifizi sono stati distrutti, ma saranno stati abbattuti pure i vecchi princìpi e pregiudizi. Una nuova corrente di libertà individuale e sociale sorgerà nell’animo martirizzato dell’umanità!

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L’America […] sarà il faro vivo, una sorgente di energie e di idee profondamente giovani.» 200 In Italia si desiderava tuttavia che gli Stati Uniti si impegnassero militarmente sul fronte del Piave, ed a tal fine furono compiuti passi sia presso il governo di Washington, sia presso il gen. Pershing, comandante del corpo di spedizione in Europa. Ma gli americani ritennero opportuno inviare in Italia soltanto un modesto contingente di truppe, utile a «stimolare il morale degli italiani», ma tale da non scompaginare i piani che prevedevano un massiccio impiego di forze esclusivamente sul fronte occidentale. Gli Stati Uniti mobilitarono 3.800.000 uomini, ma ne inviarono in Italia, durante tutto il corso della guerra, soltanto 3.800. I primi reparti giunsero in luglio e furono esibiti in molti luoghi a scopo di propaganda, suscitando ovunque straordinario entusiasmo. Quando essi attraversarono Milano in una assolata domenica d’estate, non bastarono i fiori, gli applausi, gli evviva per esprimere l’emozione della cittadinanza. 201 Come non ricordare la ben diversa accoglienza riservata pochi mesi prima alle truppe franco-britanniche? La stampa quotidiana dedicava larghissimo spazio alle notizie dell’America. L’«Indipendence Day» e il «Columbus Day» erano celebrati a Roma con solennità pari a quella delle feste nazionali italiane. Tutto ciò che era «americano» veniva ammirato ed esaltato. Perfino i fanti-contadini delle Langhe o della Ciociaria imparavano a giocare a base-ball. Ulrico Arnaldi, scrittore, giornalista e sportivo, raccontò di aver visto un giorno cinque americani dell’YMCA insegnare quel gioco a 1.500 fanti, e capì quanto quell’insegnamento costituisse un efficace strumento di propaganda. 202 Ma in realtà nelle case della campagna italiana si era sempre pensato con simpatia alla «terra promessa»: parecchi avevano i 672

parenti emigrati negli Stati Uniti, molti avevano visto l’America con i loro stessi occhi, e tutti avevano sempre udito parlare di quel continente come di una terra favolosa. In tante modeste case brillavano i lumini dinanzi alle immagini del presidente Wilson, venerato non soltanto perché sembrava essere l’uomo della pace, ma anche perché dagli Stati Uniti arrivavano munifici sussidi alle famiglie degli emigrati arruolati nell’esercito di quella repubblica. Gli ideali wilsoniani fecero enorme breccia anche all’interno del movimento operaio: si disse che esisteva una «convergenza» tra quegli ideali ed i postulati di Zimmerwald. Il Partito socialista italiano si fece interprete della passione della folla che, «per un felice istinto di vita e di salvezza» come scrisse Treves, andava spontaneamente verso Wilson. 203 Contadini, operai e borghesi si sentirono affratellati da questa comune idolatria verso il presidente americano, considerato artefice massimo di pace e di salvezza. «In altri tempi,» osservò Gioacchino Volpe «solo un Papa, un grande Papa, avrebbe potuto sollevarsi così in alto.» 204 L’entusiasmo e la riconoscenza verso gli Stati Uniti furono così grandi che il 4 novembre, quando i romani scesero nelle piazze per festeggiare la vittoria, si recarono «all’altare della Patria», al Quirinale e, in grande massa, all’ambasciata americana: ma ignorarono le ambasciate di Francia e di Gran Bretagna. 205 19. L’organizzazione dei cappellani militari si mobilitò anch’essa dopo Caporetto per rinsaldare lo spirito dell’esercito, e don Minozzi, in particolare, diede nuovo e maggiore impulso all’organizzazione delle «case del soldato». In novembre, a causa della ritirata, erano rimaste in funzione soltanto una settantina di case, ma nel maggio, grazie alla collaborazione dei comandi ed all’aiuto di vari enti ed associazioni, operavano 380 case stabili e parecchie decine di case «volanti». In ottobre ne erano state 673

aperte ormai più di 500. 206 L’anno 1918, tuttavia, doveva riservare molte amarezze sia a don Minozzi, sia all’intera organizzazione dei cappellani. In molti ambienti militari e politici infatti il clero era considerato corresponsabile della crisi morale con la quale veniva solitamente spiegata la sconfitta di Caporetto: il papa era rimproverato per la frase sull’«inutile strage»; molti cappellani erano accusati di «disfattismo confessionale»; al vecchio Comando supremo si faceva carico di aver subìto la perniciosa influenza di ambienti clericali. 207 Subito dopo l’avvento di Diaz i cappellani si avvidero che l’atteggiamento delle più alte autorità militari nei loro confronti cominciava a mutare. L’atmosfera del nuovo Comando parve venarsi «a poco a poco d’un lieve anticlericalismo scettico, quasi d’un laicismo faceto, un umorismo ridicoleggiante abitudini pie, osservanze ritenute sin allora sacre ed utili, con un curioso, strano dileggio irriverente». 208 Col passare delle settimane la tendenza laicizzante si accentuò. Il vice-capo di stato maggiore, Badoglio, era certamente massone; Diaz aveva invece assicurato a don Minozzi di non esserlo e di non volerlo mai diventare. «Ma attorno a lui» scrisse il sacerdote «vicinissimo al suo seggio l’aria fu presto tutta avvelenata di massoneria. Egli era un debole, in fondo, e a resistere, reagire, non gliela faceva.» 209 Fin dal 23 novembre 1917 il nuovo Comando supremo aveva scritto al vescovo Bartolomasi lamentando che alcuni cappellani avessero contribuito a determinare l’indegno comportamento di taluni reparti durante la battaglia di Caporetto. Il vescovo replicò invitando il Comando a documentare le sue accuse e una commissione di inchiesta nominata dallo stesso Comando riuscì a provare soltanto che due cappellani, alcuni mesi prima di Caporetto, avevano commesso mancanze disciplinari di poco

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conto: ma l’episodio costituì un sintomo preciso della diffidenza con la quale si guardava ormai all’attività dei cappellani. 210 Nel maggio del ’18 si sparse la voce che le autorità militari avessero stabilito «una specie di servizio di spionaggio sulla condotta e sui sentimenti patriottici dei cappellani»; 211 difatti, ai primi di giugno, don Minozzi ricevette la conferma che esisteva una «enigmatica» circolare del Comando supremo, nella quale si accennava «anche» alle case del soldato, con la raccomandazione di sorvegliarle nel timore che vi si facesse del «disfattismo confessionale». Qualche giorno più tardi don Minozzi fu improvvisamente degradato da direttore a vice direttore delle case del soldato. Il suo posto fu occupato da un maggiore dei carabinieri. 212 In luglio una circolare riservata diretta ai comandi spiegò che l’opera dei cappellani doveva essere consentita entro giusti limiti e il bollettino dei cappellani protestò vivacemente: «Si è scoperto – scrisse ironicamente – che la niente religione fa malissimo e che la troppa religione fa male, e che per conseguenza ne occorre uno spizzico intermedio fra il niente e il troppo». 213 Nel settembre, infine, alcuni ufficiali svelarono ai cappellani l’esistenza di circolari riservate «che insinuavano sospetti di scarsa italianità bellica contro i Preti Soldati». 214 Nel 1918 l’attività dei cappellani assunse un valore diverso e più circoscritto rispetto agli anni precedenti, non soltanto in conseguenza delle disposizioni fin qui ricordate, ma anche per altre ragioni. Infatti, mentre fino a Caporetto i cappellani erano rimasti pressoché soli ad occuparsi dei problemi spirituali delle truppe, dopo Caporetto quei problemi diventarono la preoccupazione costante di tutti, dei militari come dei politici. Gli ufficiali P. assunsero la funzione di controllori dell’opera e dei discorsi dei cappellani. In vari casi essi vietarono la diffusione di 675

materiale propagandistico religioso, indicarono ai sacerdoti gli argomenti da trattare nei discorsi ai soldati, regolarono la partecipazione dei cappellani all’attività delle case del soldato. 215 Anche i rapporti tra i cappellani e l’YMCA furono abbastanza travagliati. In agosto «Il prete al campo» raccomandò ai suoi lettori di tenere gli occhi bene aperti, perché l’YMCA era «un’associazione americana di carattere nettamente confessionale protestante, e con forte odore massonico». Il giornale volle quindi spiegare quanto fosse necessario fare attenzione a che «l’idra funesta dai cento tentacoli… protestanti», anche se camuffata «sotto i colori smaglianti di una bandiera amica», non insozzasse la pura fede cattolica del popolo italiano. 216 Qualche tempo dopo, tuttavia, i cappellani si rassicurarono: un’inchiesta da essi compiuta aveva dimostrato che i protestanti americani non avevano neppure tentato di fare propaganda anticattolica fra i soldati. 217 I dissapori non impedirono ai cappellani di svolgere, con rinnovato ardore, quell’opera patriottica per la quale si erano già tanto prodigati in passato. Su «Il prete al campo», le «applicazioni» del Vangelo alla vita militare ribadirono che combattere valorosamente era un dovere cristiano, che la sottomissione alla legge divina favoriva l’obbedienza alle autorità costituite. Nei giorni della battaglia del Piave lo schema di predica suggeriva di rivolgere ai soldati queste parole: «Voi forse vi domandate come mai, di fronte alla severità di questi precetti divini, si possa combattere od uccidere in guerra. È nobile e bello quel vostro sentimento cristiano che si ribella di fronte all’eccidio e al sangue, e vi fa onore come italiani e come cristiani. Voi, o soldati, non dovete odiare, non potete odiare nemmeno i nemici. Ma se la vostra famiglia fosse in 676

pericolo, se la casa venisse manomessa, se un prepotente volesse schiacciare un innocente, non vi sentireste il dovere di opporvi a colui che osa ledere questi sacri diritti? E così è appunto nelle trincee, negli assalti, nella guerra giusta. Voi difendete le famiglie, le case, gli innocenti.» 218 Il vescovo Bartolomasi, nell’imminenza della Pasqua, raccomandò di non distribuire «immaginette» che, pur avendo l’approvazione ecclesiastica, non fossero «confacenti alle speciali condizioni psicologiche dei soldati», 219 e fu inoltre spiegato alle truppe che Benedetto XV desiderava una pace con giustizia, e non una pace «ad ogni costo», quale viceversa era quella pretesa dai socialisti. 220 Dopo la battaglia del Piave i cappellani rivendicarono a se stessi gran parte del merito della «preparazione morale alla lotta», e in ottobre, mentre si diffondevano le voci di una pace imminente, furono invitati a placare la «tempesta psicologica» in atto fra le truppe, ricordando ad esse che il dovere doveva essere compiuto fino all’ultimo. 221 20. Nell’ottobre 1917 gli austro-tedeschi, scatenando la grande offensiva sull’Isonzo, avevano perseguito anche uno scopo politico. Le notizie da essi ricevute sulle condizioni interne italiane e sul «disfattismo» del Partito socialista avevano fatto credere che un insuccesso militare italiano potesse con molta facilità provocare lo sfasciamento del fronte interno e forse la guerra civile. I comandi italiani, prima di Caporetto, raccolsero varie informazioni su tali speranze del nemico. 222 Ma il contegno del Partito socialista e della classe operaia italiana deluse le attese di Vienna. La stampa austriaca riferì con preoccupazione le notizie sulla «sacra unione» che si stabiliva fra gli italiani di tutte le tendenze. 223 677

Immediatamente dopo Caporetto si poterono notare sintomi di risveglio patriottico in una parte cospicua della classe operaia, fino ad allora rimasta contraria o indifferente alla guerra. Le maestranze di vari stabilimenti votarono ordini del giorno di incitamento alla resistenza; delegazioni di lavoratori si recarono dal presidente Orlando per confermare quei voti; sottoscrizioni furono aperte nelle fabbriche in favore dei soldati e dei profughi. 224 Perfino l’on. Pirolini, alla Camera, si compiacque del perfetto spirito patriottico che dominava le masse industriali in Lombardia e Liguria (non a Torino). 225 E già il 4 novembre, in un articolo sul «Popolo d’Italia» significativamente intitolato Onore agli operai, Mussolini aveva reso omaggio al patriottismo di questi ultimi. L’emozione provocata dalle prime notizie della disfatta indusse i riformisti del PSI, il gruppo parlamentare, le amministrazioni comunali, la Confederazione generale del lavoro, ad esprimere in forme più decise che nel passato la solidarietà con i valori nazionali. «Quando il nemico calpesta il suolo della patria» scrisse l’on. Rigola, segretario generale della CGL «abbiamo un solo dovere, quello di resistergli.» 226 Claudio Treves e Filippo Turati incitarono anch’essi alla resistenza contro lo straniero ed affermarono che il proletariato avrebbe salvato la patria senza rinnegare se stesso. 227 Ma anche dopo Caporetto fu possibile riscontrare all’interno del PSI una notevole varietà di comportamenti. Le misure repressive decise dal governo Orlando, l’arresto di alcuni dirigenti e dello stesso segretario del Partito, la fedeltà ai vecchi ideali internazionalisti e le speranze suscitate dagli ideali leninisti influirono in senso anti-patriottico su larghi settori dello schieramento socialista. Tuttavia sia la direzione del PSI, sia la frazione estremista non osarono distaccarsi dalla formula del 678

«non aderire né sabotare» e continuarono a fondare il loro disegno politico su una tattica attendista. Per di più esse furono ridotte al silenzio dai provvedimenti eccezionali, e consentirono di fatto ai riformisti del gruppo parlamentare di agire pertanto in sostituzione dell’intero Partito. 228 Dopo il primo momento di emozione in seguito alle notizie della disfatta, gli stessi riformisti parvero di nuovo indugiare in un atteggiamento irresoluto o addirittura equivoco, preoccupati di non rompere l’unità del Partito. Soltanto nella primavera del 1918, allorché una vera e propria svolta ebbe luogo nell’opinione pubblica, essi trovarono il coraggio di abbandonare molte reticenze e di proclamare in modo clamoroso la loro adesione alla guerra. Gli ideali wilsoniani, opposti agli ideali leninisti, costituirono l’elemento decisivo, che permise questa modificazione di atteggiamenti. «Wilson o Lenin»: fu questa una formula frequentemente ripetuta nel 1918. 229 Le masse italiane ed i riformisti scelsero Wilson. Nel marzo e nell’aprile, mentre erano in corso le offensive tedesche sul fronte occidentale, Claudio Treves dichiarò che il socialismo era con tutto il suo spirito dalla parte dei franco-britannici che difendevano la libertà ed il diritto. 230 E il 24 maggio, terzo anniversario dell’intervento, il sindaco socialista di Bologna, Zanardi, espose il gonfalone sul palazzo municipale e prese parte ad una manifestazione in onore dei caduti. Qualche giorno più tardi egli accolse a nome della cittadinanza Vittorio Emanuele III in visita a Bologna. Il sindaco offrì al sovrano un mazzo di fiori tricolori, e il sovrano ebbe parole di elogio per l’amministrazione socialista. 231 Il 16 giugno, alla Camera, mentre era in corso la battaglia del Piave, Turati pronunciò le parole più impegnative: dichiarò che le anime dei socialisti battevano all’unisono con quelle degli 679

uomini di tutti i partiti, protese anch’esse «nella trepidazione, nella speranza, nell’augurio». Il discorso di Turati fu accolto da un’imponente manifestazione patriottica dei deputati e Bissolati lasciò il banco del governo per abbracciare il leader riformista. 232 21. Quando Diaz fu nominato capo di stato maggiore era un generale non molto noto fra i tanti che componevano il grande esercito. In ogni caso l’opinione pubblica e gli ambienti militari non lo ponevano fra i possibili candidati al Comando supremo: «Tutti si sarebbero pensati, meno che lui» scrisse Gatti nel suo diario. 233 Non è ben chiaro come si giunse alla scelta di Diaz. Forse la sua candidatura fu proposta dai ministri Alfieri e Nitti; forse da Bissolati. Si disse che il governo lo aveva nominato con lo scopo molto preciso di avere a capo dell’esercito un uomo di secondo piano, che non ponesse ostacoli in caso di pace separata. E venne all’opposto sostenuto che la scelta di Diaz, come quella dei sottocapi Badoglio e Giardino, era stata compiuta in modo del tutto casuale e confusionario. Tuttavia già nel settembre qualcuno aveva parlato di Diaz come di un possibile sottocapo di stato maggiore al posto di Porro. 234 Fra i quadri dell’esercito si diffuse in un primo momento un certo disagio: Cadorna era rispettato da tutti e stimato da molti, Diaz era invece uno sconosciuto da accogliere, pertanto, con diffidenza. Si disse al contrario che fra le truppe l’esonero di Cadorna fu salutato subito con favore: «Per l’obiettività» scrisse Alessi al suo direttore «debbo dirle che se la crisi del Comando supremo non ha incontrato le simpatie di molti generali benemeriti per il loro passato, ha però fatto bene alle truppe.» 235

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Dopo qualche giorno anche i quadri dell’esercito si mostrarono rassicurati e soddisfatti. Gli stessi funzionari del Comando supremo, che erano legati da antica fedeltà al gen. Cadorna ed avevano accolto Diaz con ostilità, mutarono quasi subito atteggiamento: Cadorna era stato un comandante rigido, autoritario; Diaz dimostrava di possedere una personalità molto diversa da quella del suo predecessore, più modesta magari, ma anche più equilibrata ed affabile. Il col. Gatti che aveva venerato Cadorna e temuto Diaz cambiò opinione in soli dieci giorni: c’era nel Comando «qualcosa di più sciolto» rispetto a prima, e la calma, la fiducia erano rinate. 236 Dopo l’avvento di Orlando e di Diaz le tensioni e i disaccordi tra governo e Comando furono piuttosto rari. Tra i due poteri si stabilì un rapporto di collaborazione o, come più d’uno disse, di sostanziale subordinazione, nel senso che il potere militare fu sottomesso al potere civile. «Io non sono che il rappresentante militare del governo» dichiarò il generale fin dal primo giorno, rovesciando il concetto cadorniano secondo il quale il Comando supremo era sì responsabile di fronte al governo, ma rigorosamente autonomo nelle sue decisioni. 237 Il ministro degli Esteri Sonnino, che con Cadorna aveva condotto dure battaglie, finì per lamentarsi dell’arrendevolezza dimostrata dal nuovo capo: «Diaz» disse «è un uomo che ragiona e con cui si può ragionare; mentre con Cadorna non si ragionava affatto. Ma non vorrei che fossimo caduti da un eccesso all’altro, come succede spesso con noi italiani». 238 Il presidente Orlando, nelle sue memorie, contrappose la felice collaborazione realizzatasi con Diaz, alle gravi incomprensioni manifestatesi tra Cadorna e i governi precedenti. 239 Dichiarò anzi che il periodo Diaz era stato «il solo periodo in tutta la storia 681

della guerra, in tutti i paesi belligeranti», in cui fosse stata «perfetta l’armonia, e completa e leale la collaborazione, in tutti i sensi – tecnica compresa» fra il capo civile e quello militare. 240 Negò tuttavia di aver cercato in Diaz «un docile strumento». 241 In media il presidente e il nuovo capo di stato maggiore si incontravano tre o quattro volte al mese, al Comando supremo o a Roma: «Erano colloqui interminabili fra me e lui» raccontò il presidente, soggiungendo che nel corso di quei colloqui l’uno accettava spesso i consigli ed i suggerimenti dell’altro. 242 Inoltre, il 15 dicembre, era stato istituito un «comitato di guerra» per la decisione delle questioni di comune competenza. Il comitato era composto dal presidente del Consiglio e dai sei ministri; i capi di stato maggiore dell’esercito e della marina ne facevano parte con voto consultivo. 243 Anche durante il periodo Diaz, come già abbiamo accennato, si determinarono tensioni e disaccordi fra governo e Comando, e più di una volta, anzi, circolarono voci di una imminente sostituzione del capo di stato maggiore. 244 Ma si trattò sempre di contrasti che restarono ben lontani, nella forma e nella sostanza, dai contrasti che avevano opposto Cadorna ai precedenti governi. Non furono avvelenati, come allora, da questioni di principio, e diedero luogo non a fratture fra i militari da una parte e politici dall’altra, ma a dibattiti durante i quali alcuni ministri si schierarono con il generale, o, se si preferisce, il generale si schierò con alcuni ministri. Infatti, allorché nell’autunno del ’18 scoppiò un dissidio fra Orlando e Diaz sulla convenienza di promuovere una offensiva (propugnata da Orlando e contrastata da Diaz), Nitti e il comandante supremo furono di eguale parere. Una analoga divisione si produsse, sempre nel 1918, per la questione del Comando unico interalleato: da una parte Orlando favorevole all’istituzione di 682

quel Comando, dall’altra Diaz e Nitti, concordi nel negarne l’opportunità. 245 In ogni caso uno dei maggiori ostacoli all’attuazione della guerra totale – la netta divisione tra potere civile e militare – era stato abbattuto. 22. Durante la primavera del 1918, nonostante il generale miglioramento dello spirito dell’esercito, i soldati continuarono a disertare. «Vi fu un momento» disse Orlando «in cui diventò impressionante il fenomeno delle diserzioni, impressionante come non era mai stato, forse neanche sotto Cadorna. Ciò avvenne nel maggio 1918.» I rapporti di nuovo tipo instauratisi tra Comando e governo fecero sì che il fenomeno non diventasse occasione per uno scambio di reciproche accuse: Comando e governo – anzi – collaborarono insieme per esaminarne le cause ed applicare i rimedi. «In Sicilia» disse sempre Orlando «si fecero miracoli con l’organizzazione di un servizio speciale di ricerca e di repressione dei disertori, e si fece qualche cosa di simile sul Gargano dove la cosa era estremamente minacciosa. Ma si fece anche qualche cosa di più: si fecero degli specchi settimanali che determinavano la diserzione per distretto e nel distretto per comune, di modo che io ebbi una specie di barometro a massima e minima delle diserzioni. Nei punti ove il fenomeno maggiormente imperversava io mandavo funzionari o richiamavo l’attenzione dei prefetti.» 246 Nei primi giorni di giugno, a Torino, carabinieri e truppe circondarono interi quartieri popolari entrando in tutte le abitazioni. Non soltanto la Camera del lavoro, ma anche il prefetto e «Il Popolo d’Italia» protestarono vivacemente. Il 683

prefetto giudicò tale sistema di ricerca non necessario né opportuno: non necessario perché il numero dei disertori della città di Torino non era tale da suscitare preoccupazioni; non opportuno perché «la teatralità della forma» dava luogo a dicerie ed allarmi ingiustificati. «Il Popolo d’Italia», a sua volta, protestò perché gli operai torinesi, a causa di quei controlli, giungevano in fabbrica con gravi ritardi e perdevano parte del salario. In complesso l’operazione di polizia permise di arrestare 98 disertori, 53 renitenti e 6 favoreggiatori, mentre altri 11 disertori si costituirono spontaneamente. 247 In realtà le notizie che le autorità ricevevano a proposito delle diserzioni erano in parte non corrispondenti al vero. Nel maggio, per esempio, in una tabella riepilogativa inviata al presidente del Consiglio sui militari ritardatari o mancanti al ritorno dalle licenze si lesse che su 215.000 militari si erano contati 3.000 ritardatari e 4.000 mancanti: ma fra questi ultimi erano compresi anche coloro i quali alla partenza avevano trascurato di far vidimare il foglio di viaggio. 248 Purtroppo le statistiche del Mortara sulla giustizia penale non consentono un esatto confronto tra il periodo Diaz e quello Cadorna. 249 Ma riteniamo abbia ragione il Monticone quando scrive che nell’attività dei tribunali di guerra durante il 1918 non poté essere riscontrata «una vera e propria frattura o mutamento radicale rispetto agli anni precedenti». Al tempo di Diaz, anzi, ed in conseguenza di Caporetto, furono comminate per taluni reati, e in particolare per il reato di diserzione, sanzioni ancor più severe che nel passato (non risulta però che ai tempi di Diaz fossero ordinate decimazioni). 250 Quanto alle procedure potrà essere interessante ricordare il racconto fatto dal Frescura: «Oggi» scrisse nel suo diario, alla data del 5 luglio ’18 «sono stato giudice al tribunale di guerra. 684

Dalle nove alle tredici abbiamo giudicato quattordici imputati». Uno ogni 17 minuti, insomma, senza tener conto del tempo eventualmente perso per chiacchierare o prendere il caffè. L’interrogatorio durava pochi minuti, il difensore si limitava a raccomandare l’imputato alla clemenza del tribunale, e il verdetto era deciso dai giudici in un battibaleno. Tutti e quattordici gli imputati erano accusati dello stesso reato: ritardo nel rientrare dalla licenza. La maggioranza di essi aveva ritardato due o tre giorni, ma i giudici, in camera di consiglio, facevano il conto delle ore di quel ritardo per tramutarle in anni di galera. Risultato: l’ergastolo. Gli imputati erano tipi niente affatto interessanti, bravi ragazzi «senza luci e senza ombre», incappati in un processo senza rendersene ben conto. I giudici, abituati ormai alla cosa, non capivano proprio perché mai Frescura si stupisse che fossero comminate pene tanto severe per mancanze di scarsa importanza. 251 23. Nel giugno 1918 gli austro-ungarici scatenarono sul Piave una potente offensiva contro gli italiani, ma furono sconfitti. Ancora una volta, nonostante le apparenze, l’andamento di una battaglia fu deciso da cause tecnico-militari e non da cause «morali». Da febbraio a maggio l’esercito austriaco aveva patito la fame, e soltanto ai primi di giugno, pochi giorni prima della battaglia, erano state nuovamente distribuite razioni normali; ma i comandi avevano saputo approfittare proprio della fame e della miseria per convincere le truppe a combattere con maggiore ardore. Fu spiegato ad esse che gli italiani avevano magazzini rifornitissimi come già si era potuto constatare durante i saccheggi compiuti in autunno; vennero impartite istruzioni sul modo di procedere ai nuovi saccheggi delle città e delle campagne 685

italiane, al fine che nulla andasse sprecato. Interi parcheggi di carri – che nei piani della battaglia figurarono sotto il nome di «colonne di bottino» – furono predisposti nelle retrovie. Una speciale moneta di occupazione, emessa dalla «Cassa veneta dei prestiti», venne abbondantemente distribuita ai combattenti. 252 Questi ebbero inoltre la convinzione di essere molto più potentemente armati che non a Caporetto, come in effetti era, perché erano state ammassate truppe ed armi in quantità superiore: circa 680 battaglioni e 7.000 pezzi di artiglieria, contro i 574 battaglioni e i 5.255 pezzi dell’ottobre 1917. L’esercito austriaco, insomma, era animato da spirito combattivo e costituiva un poderoso strumento di guerra: tutti erano sicuri, inoltre, che gli italiani non fossero ancora riusciti a riprendersi dal colpo subìto pochi mesi prima. 253 Ma gli austro-ungarici, nel giugno 1918, erano rimasti senza l’appoggio delle truppe e dei generali tedeschi. Non seppero far tesoro degli ammaestramenti tattici di Caporetto, dispersero le forze su un fronte troppo lungo, non riuscirono a sfruttare l’elemento sorpresa e impiegarono le artiglierie con criteri diversi da quelli dell’ottobre ed assai meno efficaci. 254 Gli italiani, viceversa, curarono il servizio informazioni e riuscirono a conoscere preventivamente le mosse del nemico; non ebbero dubbi sull’importanza dell’attacco che stavano per ricevere; iniziarono con tempestività il tiro delle artiglierie; schierarono le truppe in profondità nell’eventualità che il nemico fosse riuscito – come del resto accadde – a passare il Piave. Dimostrarono, insomma, di aver appreso moltissimo dalla lezione di Caporetto. Lo spirito delle truppe italiane, inoltre, fu ben diverso da quello dell’autunno 1917. I soldati apparvero sereni e sicuri di vincere come raramente e forse mai era accaduto alla vigilia di una

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battaglia. 255 All’inizio dei combattimenti gli austriaci lanciarono circa 170.000 proiettili a gas, ma la difesa dell’esercito italiano era diventata efficiente ed il bombardamento non produsse gli effetti disastrosi che si erano avuti otto mesi prima. 256 Alcuni reparti manifestarono «tendenze pacifiste» o caddero in preda al panico; ma superarono la crisi e trovarono nuova volontà di resistenza. 257 Scrisse Alessi che tutti furono contenti perché «il fugone tipo Caporetto e tipo V armata inglese» non era avvenuto da nessuna parte. 258 L’efficienza dimostrata dalle truppe italiane fu il risultato dei numerosissimi fattori morali e materiali già indicati in queste pagine, e davvero straordinario apparve lo sforzo produttivo compiuto dalle industrie belliche per restituire all’esercito le armi e le scorte perdute durante la battaglia di pochi mesi prima. Ma notevole importanza ebbero anche alcuni provvedimenti di carattere «organico» decisi dal nuovo Comando supremo. Da tempo si era stabilito infatti che le brigate non potessero più essere trasferite da una divisione all’altra con quegli improvvisi mutamenti di comando e quegli inconvenienti logistici che provocavano confusione ed irritavano gli animi. Era stato inoltre disposto che i soldati temporaneamente allontanati dai reparti per ferite, malattie o altre cause, fossero sempre riassegnati ai reparti di origine, mentre in altri tempi era accaduto che un militare potesse essere trasferito da una unità all’altra fino a cambiare dieci volte le mostrine di brigata. In tal modo durante la battaglia di giugno, lo spirito di corpo apparve grandemente rafforzato; anche i rapporti tra l’ufficiale ed i suoi soldati erano stati resi più continui e più saldi. 259 Un’altra innovazione di notevole portata fu quella di far giungere in linea reggimenti composti esclusivamente da giovanissimi. Fino a Caporetto le nuove leve erano state sempre 687

sparpagliate nei vari reggimenti per colmare i vuoti: «A contatto col veterano, valoroso ma pessimista, spesso cinico, che si sentiva ormai sacro alla morte ed era disposto a irridere a tutto, l’entusiasmo giovanile si contraeva, si smarriva». 260 Nell’autunno-inverno 1917, per timore che i nuovi arrivati potessero essere contagiati dal «disfattismo» degli uomini che avevano partecipato alla ritirata, il Comando ordinò la costituzione di battaglioni complementari composti soltanto dalle reclute del ’99, e li inviò in linea fin dal novembre 1917. L’effetto psicologico di questa immissione di forze fresche fu grandissimo. Ma anche da un punto di vista «tecnico» quel provvedimento ebbe conseguenze rilevanti poiché, per la prima volta, ufficiali veterani della guerra poterono preparare e condurre al combattimento reparti composti interamente da giovani. 24. L’esito felice della battaglia del Piave ridette animo agli italiani e fece loro ritenere che la crisi di Caporetto fosse definitivamente conclusa. La popolazione civile apparve disposta ad affrontare nuovi disagi, 261 mentre nella psicologia dell’esercito – lo disse perfino Turati – sembrò essersi prodotto un mutamento «profondo ed universale» rispetto al 1917. 262 Nel corso di questo capitolo abbiamo già preso in considerazione le ragioni di tale mutamento psicologico, ma abbiamo tralasciato di occuparci di una di esse, divenuta importantissima soprattutto dopo la battaglia del giugno: intendiamo riferirci alla condotta assai prudente delle operazioni militari voluta dal Comando italiano ed alla conseguente diminuzione delle perdite. Circa 520.000 erano stati nel 1917 gli italiani morti o feriti in combattimento; nel 1918 quelle perdite scesero a 143.670 uomini. 263 Già vedemmo in altra parte di questo libro che confrontando periodi omogenei tra loro e 688

tenendo conto della crescente massa di uomini alle armi, le perdite in morti e feriti variarono secondo la seguente scala: 1915 = 100; 1916 = 88, 1917 = 79 e 1918 = 23. 264 La grandissima differenza fra le ultime due cifre fu resa possibile dal fatto che per un intero anno, da Caporetto fino alla vigilia di Vittorio Veneto, l’esercito si mantenne sempre sulla difensiva, diversamente da quanto era accaduto ai tempi di Cadorna. Vennero compiuti contrattacchi locali e colpi di mano, ma non fu intrapresa alcuna operazione in grande stile. La prudente condotta delle operazioni militari suscitò tuttavia polemiche molto aspre. Essa venne giustificata fino al giugno con la necessità di restaurare le forze dell’esercito dopo quanto era accaduto a Caporetto e di preparare le difese in previsione dell’offensiva austriaca. Ma quando quest’ultima ebbe luogo e si concluse con un fallimento parve a molti inspiegabile che l’esercito italiano continuasse a restare fermo sulla difensiva. Francesi, inglesi ed americani chiesero con insistenza crescente che Diaz lanciasse il suo esercito all’attacco, spinti a ciò dal desiderio che l’Italia, impegnando il maggior numero di forze nemiche, rendesse ad essi più facile il compito sul fronte occidentale. Anche il ministro degli Esteri Sonnino fu dello stesso parere degli alleati, ma per difendere un interesse nazionale, non straniero: egli ebbe timore, infatti, che l’Italia dovesse recarsi alla Conferenza della pace in condizioni di inferiorità, senza aver tentato di togliere all’Austria il territorio da questa conquistato nell’ottobre del 1917. Lo stesso timore fu condiviso da numerosi ambienti politici interventisti, angosciati dall’idea che una pace improvvisa impedisse all’Italia di riconquistare quel prestigio che Caporetto aveva fatto perdere e che la battaglia del giugno sembrava non aver ancora pienamente restaurato. Diaz, Badoglio e Nitti, viceversa, furono gli esponenti del

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partito contrario all’offensiva: dissero che la guerra non sarebbe terminata prima del 1919 e ritennero opportuno conservare intatte le energie dell’esercito per lo sforzo finale che sarebbe stato compiuto soltanto allora; intesero in secondo luogo esercitare una forma di pressione verso gli alleati condizionando l’offensiva all’invio di truppe americane. Il presidente Orlando si collocò a metà strada fra i partigiani dell’offensiva e quelli dell’attesa: dal luglio al settembre questi ultimi prevalsero. 265 Col passare delle settimane, però, i segni dell’indebolimento avversario si fecero sempre più netti; sul fronte occidentale i tedeschi subirono pesanti sconfitte; manifestazioni pacifiste ebbero luogo in Germania ed in Austria; i comandi militari e i governi di Berlino e di Vienna si mostrarono sempre più desiderosi di uscire dal conflitto. Preoccupato che potesse essere imminente una pace di compromesso, Orlando riconobbe la necessità di prendere al più presto un’iniziativa militare e, superando le resistenze di Nitti e di Diaz, riuscì a fare in modo che alla fine di settembre il Comando supremo impartisse i primi ordini per la preparazione di una battaglia sul Piave. 266 Tuttavia quando il governo e il Comando presero quella decisione pensavano ancora ad un’operazione di limitata importanza. Permanevano molti dubbi sul fatto che la guerra potesse davvero finire entro il 1918 e lo stesso Orlando, a metà ottobre, faceva sapere a Diaz che si sarebbe accontentato di un’offensiva «di parata», tale da salvare le apparenze. 267 La preparazione della battaglia di Vittorio Veneto fu accompagnata insomma da molte esitazioni e soltanto alla vigilia il piano di operazioni fu affrettatamente ampliato: solo all’ultimo, infatti, il Comando italiano si convinse che la guerra stava proprio volgendo al termine e fu colto dal panico all’idea che Vienna potesse accettare improvvisamente la pace.

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Anzi, nel timore che la piena del Piave impedisse alle armate di muoversi secondo i piani prestabiliti, Diaz, la sera del 19 ottobre, chiamò in tutta fretta il gen. Giardino comandante dell’armata del Grappa (non inclusa nella progettata offensiva) perché si muovesse al più presto per suo conto: se fosse improvvisamente «scoppiata» la pace, si sarebbe almeno potuto dire che gli italiani avevano condotto una battaglia sul Grappa. Nelle storie della Prima guerra mondiale si legge che la grande offensiva di Vittorio veneto ebbe inizio all’alba del 24 ottobre con l’attacco della IV armata comandata dal gen. Giardino: ma non è esatto. L’azione sul Grappa si svolse indipendentemente da quella sul Piave (iniziata il 26 ottobre) e fu il presidente Orlando che, per motivi politici, volle far credere all’opinione pubblica che le due azioni fossero interdipendenti. Ciò apparve evidente dal telegramma che lo stesso Orlando inviò il 29 ottobre a Diaz: «Insistendo nel concetto espresso nel mio telegramma di ieri, credo opportuno che ormai il ciclo della nostra attuale offensiva sia riportato al 24. Il legame mi sembra che possa facilmente riscontrarsi nella necessità di una forte pressione sul nemico nella zona montana, come necessaria preparazione all’azione sul Piave. La ragione per cui sinora è stato taciuto può attribuirsi facilmente a motivi di discrezione strategica e cioè per non fare avvertire al nemico la vera portata delle nostre intenzioni. Questo concetto potrebbe essere accennato nei comunicati supplementari del Comando, organizzando la diffusione di esso tra i corrispondenti, non solo italiani, ma soprattutto esteri. È inutile che spieghi l’importanza di tale retrodata della nostra offensiva in rapporto all’incalzare delle notizie di un prossimo armistizio.» 268 691

La battaglia di Vittorio Veneto fu esaltata da molti come la più abile e decisiva impresa compiuta dagli italiani durante l’intera guerra. Altri scrissero invece che a Vittorio Veneto non ci fu battaglia, perché gli austro-ungarici non si batterono. Albertini, dopo aver vagliato le opposte interpretazioni, ammise che gli italiani raccolsero, dopo i primi due o tre giorni di lotta, il frutto delle ribellioni che dissolvevano l’esercito austriaco. 269 In effetti le condizioni materiali e morali dell’esercito austroungarico alla vigilia e nel corso della battaglia risultarono quanto mai precarie e tali da facilitare enormemente la vittoria italiana. Lo spirito delle truppe austro-ungariche apparve in piena crisi e in molti reparti scoppiarono ammutinamenti e rivolte. In un rapporto «riservatissimo» del comando dell’VIII armata italiana (gen. Caviglia), scritto qualche giorno dopo la battaglia, furono indicate in proposito interessanti notizie: «Alla vigilia del nostro attacco […] la VI armata austro-ungarica viene a trovarsi in questa difficilissima situazione: di aver al fronte i reparti intatti e ancora saldi e fedeli, ma con la minaccia ineluttabile di vederseli disperdere di colpo non appena giunti anche loro a cognizione dei grandi rivolgimenti avvenuti nell’interno dei loro paesi; di avere nella zona delle riserve formazioni di marcia […] in aperta rivolta […], su cui non solamente non è possibile contare per colmare i vuoti dei reparti al fronte, ma di cui anzi è assolutamente necessario disfarsi al più presto se non si vuole che attacchino lo spirito rivoltoso anche a reparti mantenutisi fino allora fedeli.» 270 Nonostante tale caotica situazione gli austro-ungarici non rinunziarono alla lotta e, all’inizio, opposero una assai energica 692

resistenza. Ma dopo alcune ore, quando le prime linee furono travolte dall’attacco italiano, non ci fu quasi più battaglia e tutto il fronte cedette di schianto. «Vittorio Veneto» scrisse a questo proposito Giuseppe Prezzolini «è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso: non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani debbono lasciarsi dire.» 271 Il 9 novembre – quando la battaglia si era ormai conclusa ed anche l’armistizio tra l’Italia e l’Austria-Ungheria era stato firmato – il Comando supremo italiano predispose un comunicato sulle condizioni dell’esercito nemico la cui pubblicazione fu vietata dal presidente Orlando. Si leggeva in quel comunicato che i resti dell’esercito austro-ungarico si erano trovati durante la battaglia in una situazione assai tragica dato che i loro magazzini, posti in prossimità delle prime linee, erano presto caduti nelle mani degli italiani. In Alto Adige migliaia di soldati affamati avevano preso d’assalto treni ed autocarri per arrivare al più presto in Austria. Molti si erano arrampicati sui tetti dei vagoni o avevano viaggiato attaccati agli sportelli: «Centinaia di questi disgraziati, essendosi addormentati o avendo perso le forze, erano precipitati dai convogli in corsa. La sera del 5 novembre la ferrovia del Brennero era talmente ingombra di cadaveri che il Consiglio nazionale tedesco dell’Austria era stato costretto a sospendere il traffico ed a impartire speciali ordini per la sepoltura dei cadaveri.» 272 Orlando spiegò perché era contrario alla pubblicazione di tali notizie: «In primo luogo» disse «la stessa insistenza sugli 693

orrori della rotta mi sembra destinata a ravvivare la reazione contro la guerra. In secondo luogo l’insistere sugli eccessi delle truppe può alimentare dei movimenti anarchici che si delineano e, sebbene essi siano limitati ai paesi nemici, è sempre bene evitare i contagi. In terzo luogo finalmente il lettore di quel comunicato può facilmente scambiare l’elemento presente con l’elemento passato e attenuare quindi l’importanza della nostra vittoria contro un esercito che ora noi descriviamo in tali condizioni disastrose.» 273 Nelle parole del presidente erano ormai chiaramente individuabili le nuove preoccupazioni del tempo di pace: la paura di una «reazione contro la guerra», l’idea, cioè, che potesse nascere un moto di rivolta contro i veri o presunti responsabili dell’immane conflitto; «l’anarchia», in secondo luogo, il sospetto, cioè, che le masse armate ed abituate al quotidiano esercizio della violenza, fino ad allora tenute a freno dalla dura disciplina degli eserciti, potessero d’improvviso dimostrarsi non più governabili; il timore, infine, che il contributo italiano alla guerra potesse risultare sminuito agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e si ponessero in tal modo le condizioni di un mancato riconoscimento delle aspirazioni italiane: la vittoria «mutilata» era insomma nell’aria già prima di Versailles.

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Epilogo

Le vicende della guerra erano state drammatiche e dolorose, ma nel novembre 1918, nonostante tutto, gli italiani poterono compiacersi di aver superato la difficile prova: avevano infatti saputo schierare in campo – per la prima volta nella loro storia – un grande esercito e tenere testa ad un potente avversario. Non avrebbero mai creduto, nel 1915, di poter resistere ad una sconfitta come quella di Caporetto ed a 41 mesi di logoranti, giganteschi sforzi. Ora invece, dopo tanto soffrire, avevano vinto la guerra, conquistato Trento e Trieste, portato a dissoluzione l’Impero austro-ungarico. In quei giorni di novembre folle di cittadini discesero nelle piazze per inneggiare alla vittoria e alla pace. Gli italiani erano convinti che stesse per nascere una società nuova, governata dalla democrazia e dalla giustizia, nella quale non si sarebbero mai più ripetuti gli orrori di una grande guerra. «Usciamo da una notte spaventosa e ci illumina l’aurora di un’èra nuova per l’umanità», scrisse Luigi Albertini con molto ottimismo. 274 Molti pensavano che la carta fondamentale della futura comunità internazionale sarebbe stata costituita dai quattordici punti enunciati dal presidente Wilson: rinuncia alla diplomazia segreta, libertà di navigazione nei mari, soppressione delle barriere economiche, riduzione degli armamenti, applicazione 695

del principio di nazionalità, istituzione di una Società delle Nazioni. Le grandi speranze di quei primi giorni di pace non durarono a lungo e, nel volgere di pochi mesi, sopravvenne la più grave crisi attraversata dal giovane Stato italiano nel corso della sua esistenza. La crisi del dopoguerra, in Italia, fu determinata da cause tanto di ordine economico quanto di ordine politico, e queste ultime ebbero, all’inizio, maggiore importanza delle prime. La diminuzione di numerose produzioni già notata alla fine del 1918 e proseguita nel 1919, l’invecchiamento di molti impianti industriali e vari squilibri di carattere monetario non impedirono infatti all’Italia di uscire dal conflitto con un apparato economico «intatto negli organi e nelle funzioni più vitali» e più efficiente, nel suo complesso, rispetto al periodo prebellico. L’aspetto più preoccupante della situazione fu costituito dal deficit della bilancia dei pagamenti, ma lo stato delle risorse economiche apparve, nell’insieme, niente affatto disperato. 275 La conversione dell’economia di guerra a quella di pace, la smobilitazione dell’esercito e quella delle industrie furono peraltro attuate in modo assai graduale, così che vennero scongiurati «quei fenomeni di turbamento della vita economica e sociale che taluni ritenevano dovessero susseguire alla chiusura delle ostilità, col supposto immediato e tumultuario riversarsi nel paese di enormi masse di ex militari affannosamente ricercanti nuova occupazione». 276 I reduci erano in maggioranza «fanti-contadini» che fecero ritorno nelle campagne, dove la mancanza di braccia era particolarmente sentita e dove i salari raggiunsero retribuzioni crescenti. 277 Nel 1919 migliorarono anche le condizioni delle maestranze industriali. Il 20 febbraio un accordo firmato a Milano fra i

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rappresentanti delle industrie meccaniche e la FIOM concesse agli operai la giornata di otto ore, riconobbe le commissioni interne ed accordò aumenti salariali. 278 Fu solo in autunno che ebbe luogo un mutamento nelle relazioni fra imprenditori e maestranze, con la fine di quel clima piuttosto «euforico» che aveva fino ad allora contrassegnato i rapporti di lavoro. 279 Fu solo in autunno che i socialisti, riunendosi a congresso, cominciarono ad avvertire «le prime avvisaglie di crisi economica». 280 In sostanza, durante i primi dodici mesi di pace, le conseguenze più dirette della crisi si abbatterono sulla piccola e media borghesia, che aveva visto assottigliarsi molte sue fonti di reddito in seguito all’inflazione monetaria. 281 I grandi industriali, i grandi commercianti e finanzieri si erano arricchiti con la guerra; il proletariato era riuscito a strappare salari più alti ed a tutelare i suoi interessi attraverso l’organizzazione sindacale. Viceversa, «una feroce ironia della storia» aveva fatto sì che proprio le classi medie fossero rovinate da quella guerra che in esse aveva trovato i più entusiastici sostenitori. 282 Gli stessi socialisti furono costretti a confessare di non aver affatto previsto che dallo sforzo della guerra proprio «la borghesia sarebbe uscita sconciata per la fatica di un peso superiore alle sue forze». 283 I ceti medi avevano rappresentato fino ad allora l’ossatura dello Stato liberale: la loro decadenza costituì la premessa della crisi di quello Stato. Ma nel 1919 anche quegli strati sociali che non parteciparono al declino dei ceti medi espressero convulsamente la loro ansietà ed i loro fermenti. La guerra aveva infatti interrotto abitudini ed equilibri antichi, messo in movimento forze ideali nuove, conferito diritti a chi prima del 1915 era restato ai margini della vita politico-sociale. Il 697

proletariato industriale aveva portato innanzi quel processo di emancipazione che era stato reso ineluttabile dalla rivoluzione industriale. Ma anche gran parte del mondo contadino era sembrato trarre nuove energie dalle vicende di quegli anni per esprimere le sue inquietudini e le sue aspirazioni. I reduci ebbero, in questo agitato clima del dopoguerra, una loro parte da svolgere. Ad essi, soprattutto, erano state fatte dai governi le più grandiose promesse di compensi materiali. Ad essi, specialmente dopo Caporetto, era stato predicato che con la pace si sarebbe avverata anche una vera e propria palingenesi politicosociale. Nel 1915-17 la dominante psicologia del coscritto era stata la rassegnazione, ma più tardi – dopo gli incitamenti propagandistici del 1918 – la dominante psicologia del reduce divenne l’impazienza. Quei fanti che, poco alla volta, fecero ritorno alle loro case con l’ansia di veder sorgere una società nuova, non costituirono una «classe», ma furono abbastanza numerosi per stimolare le inquietudini di tutte le classi. Fallirono nel tentativo di restare uniti per esercitare in modo diretto e permanente un’opera politica (alle elezioni del 1919 le liste degli ex combattenti raccolsero in tutt’Italia appena due o trecentomila voti) ma continuarono ad esprimere, sia pure in forme confuse e disorganiche, la loro aspirazione ad un mutamento dell’ordine costituito. Non a caso Mussolini, nel ’2122, reclutò proprio fra i reduci buona parte della sua massa di manovra, mentre i socialisti – rimasti estranei alla realtà della guerra – si resero conto più tardi di aver commesso il primo e forse il più fatale dei loro errori svalutando e disprezzando il complesso fenomeno del «combattentismo». 284 Grande acceleratrice dei fenomeni sociali, la guerra aveva trasformato la realtà italiana più rapidamente e profondamente di quanto la classe politica fosse riuscita a trasformare se stessa.

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Già prima della Grande guerra, infatti, l’Italia aveva dato inizio al suo «decollo» economico, acquisendo i caratteri delle moderne società industriali. Ma quanto era accaduto fra il 1915 ed il 1918 aveva portato a maturazione il processo di trasformazione in corso, producendo una fondamentale conseguenza sul piano politico: che nessun gruppo dirigente avrebbe potuto stabilmente esercitare il potere senza istituire un legame con le grandi masse. I vecchi dirigenti liberali non possedevano un tale legame e si dimostrarono inadatti a crearlo. Erano stati educati in un ambiente nel quale un numero relativamente modesto di cittadini prendevano parte alla vita politica; temettero di decretare la propria fine dividendo le responsabilità del potere con le forze nuove. D’altra parte nemmeno i dirigenti socialisti riuscirono a stringere quelle alleanze che sarebbero state necessarie perché essi costituissero una reale alternativa di potere; mentre il partito cattolico – che si affacciava soltanto allora sulla scena politica – non possedeva a quei tempi autorità ed energia sufficienti per imporsi sulle varie parti contendenti. La crisi italiana del dopoguerra fu determinata da cause complesse, alcune prossime, altre remote, ma in realtà essa cominciò a precipitare dal momento in cui fu distrutto il prestigio di Wilson. Fra il ’18 e il ’19 era sembrato che nessun altro popolo europeo, come l’italiano, avesse riposto tanta fiducia nell’ideologia wilsoniana e, più in generale, nel mito dell’America. 285 Nel gennaio 1919 il presidente degli Stati Uniti era stato accolto, a Roma e a Milano, da una folla strabocchevole e delirante di proletari e di borghesi. Erano giorni, quelli, in cui Wilson otteneva grandissimo consenso anche sulle pagine dell’«Avanti!», 286 mentre la «Critica Sociale» esprimeva la sua

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incondizionata ammirazione verso «il cavaliere senza macchia e senza paura della libertà umana». 287 Poi, quasi d’improvviso, tutto l’entusiasmo era crollato, sia perché Wilson aveva contrastato le aspirazioni italiane di annettere Fiume e la Dalmazia, sia, e soprattutto, perché era miseramente fallito il suo disegno di dare ai popoli del mondo la pace e la giustizia.

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Note 1

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 244-57 e 311. Cfr. inoltre L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 57-66.←

2

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 202 (conversazione con Giolitti del 15 novembre 1917).←

3

Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 270.←

4

U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 424. Ancora il 7 dicembre l’on. Chiesa, commissario per l’aviazione, consigliava al Martini di non farsi troppe illusioni circa la difesa del Piave. Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 1063. Anche il gen. Di Giorgio insisteva sulla convenienza di ritirarsi al Mincio. Cfr. F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., p. 474.←

5

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 81-82.←

6

Cfr. L. EINAUDI , La realtà in cifre, in «Corriere della Sera», 10 novembre 1917, ripubblicato in L. EINAUDI , Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV (1914-1918), pp. 582-85.←

7

Cfr. «Corriere della Sera», 28 novembre 1917 (Le necessità dell’ora in Italia. Nostro colloquio col ministro Nitti); A. MONTICONE , Nitti e la Grande guerra, Milano 1961, pp. 157 sgg.; A. VALORI , La condotta politica della guerra, cit., pp. 350-52.←

8

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 1071 (alla data dell’11 dicembre 1917).←

9

Cfr. ibid., p. 1087 (alla data del 25 dicembre 1917). Cfr. inoltre 701

ibid., pp. 1092-93 (alla data dell’8 gennaio 1918).← 10

11

Cfr. A. FERRY , Carnets secrets, cit., pp. 215-16, 218 e 221 (alle date del 4 gennaio, 15 gennaio e 10 febbraio 1918).← Cfr. A. GATTI , Uomini e folle in guerra, cit., pp. 300-01.←

12

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 210-32 e H.W. STEED , Trent’anni di storia europea, 18921922, Milano 1962, pp. 464-67, 508 e passim.←

13

Le notizie sulla mediazione del Vaticano sono state tratte da A. MONTICONE , Nitti e la Grande guerra, cit., pp. 161, 255 sgg. e 393-97, nonché da F. MARGIOTTA- BROGLIO , Italia e Santa Sede dalla Grande guerra alla conciliazione, cit., pp. 45-48 e 34961.←

14

F. MARTINI , Diario, cit., p. 1033 (alla data del 6 novembre 1917).←

15

Cfr. C. PREMUTI , Eroismo al fronte - Bizantinismo all’interno, cit., p. 168 e G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 124.←

16

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1034-36 e 1041-42 (alle date del 6 e del 9 novembre 1917).←

17

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 591←

18

Cfr. ibid., pp. 86 sgg., nonché F.L. PULLÉ- G. CE L E S I A DI VEGLIASCO , Memorie del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale cit.; numerose notizie in F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1067 sgg.←

19

R. DE FELICE , Mussolini, il rivoluzionario, cit., pp. 334-35. Cfr. anche F. MANZOTTI , Il socialismo riformista in Italia, cit., pp. 131 sgg.← 702

20

G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 47. Col passar del tempo gli interventisti finirono per adattarsi al governo Orlando, sia perché videro in esso l’ultima barriera contro il ritorno di Giolitti al potere, sia perché si compiacquero di taluni provvedimenti repressivi da esso decisi. Cfr. tra l’altro F. MARTINI , Diario, cit., p. 1072 (alla data dell’11 dicembre 1917). Il 20 maggio 1918 un anonimo informatore della polizia riferì che il «fascio» era del tutto disorientato e subiva una situazione che non era più capace di guidare, almeno per il momento; esso conservava molte diffidenze nei riguardi di Orlando e di Nitti, ma avrebbe visto «assai male» una loro caduta, dato che non c’era da sperare «in una prossima successione Salandra». I dirigenti del «fascio» pertanto, secondo l’informatore, avevano deciso di indirizzare la loro attività «più nel paese che nel parlamento» in vista di obbiettivi a lunga scadenza, «sia rafforzando le organizzazioni interventiste già esistenti, sia cercando di attrarre a sé quanti più possono di elementi della burocrazia, di vecchie associazioni popolaresche e demagogiche (Carbonari ecc.) e soprattutto cercando di carpire l’appoggio del maggior numero possibile di reduci dalle trincee e mutilati». Il rapporto è conservato in ACS, UCI, b. 93, fasc. 2727 (Notizie riservatissime).←

21

Intervento di Modigliani durante la seduta del 15 dicembre 1917 in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 156.←

22

Cfr. O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 236 (conversazione con Nitti del 16 dicembre 1917).←

23

L. CADORNA , La guerra alla fronte italiana, cit., p. 579.← 703

24

A. GRAMSCI , Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino 1949, pp. 205-06. Sulle interpretazioni di Caporetto si vedano le interessanti notazioni di C. CASUCCI , Caporetto, in «Lo spettatore italiano», dicembre 1955, pp. 498 sgg.←

25

L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 173.←

26

G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 190.←

27

B. CROCE , L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari 1965, p. 234.←

28

Gentile pubblicò un articolo a proposito dell’iniziativa di cui ci occupiamo nel «Nuovo Giornale» del 10 marzo 1918, articolo che fu riprodotto nell’«Esame Nazionale» del 15 aprile successivo alle pp. 12-13. Sull’attività del Comitato per l’esame Nazionale e sulle «persecuzioni» da esso subite ad opera delle autorità militari cfr. i documenti conservati in ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 89. Alla iniziativa aderirono, oltre a Croce e Gentile, anche Ettore Ciccotti, Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, Edoardo Giretti, Alfredo Galletti, Gennaro Mondaini, Emanuele Sella, Niccolò e Francesco Fancello, Gaetano Salvemini, Sergio Panunzio, Giuseppe Prezzolini, Pietro Silva. Cfr. G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, Roma s.d., pp. 7-9 e G. ZIBORDI , Il disfattismo antisocialista, in «Critica Sociale», 1-15 aprile 1918, pp. 76-78.←

29

Si vedano le osservazioni di R. ROMEO , Caporetto: una crisi di uomini e di ideali, in «Corriere della Sera», 29 giugno 1965.←

30

Sull’opinione pubblica cfr. S. SIGHELE , L’intelligenza della folla, Torino 1931, pp. 46-91.← 704

31

F. MARTINI , Diario, cit., p. 1033 (alla data del 5 novembre 1917).←

32

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 196 (conversazione con Bissolati del 13 novembre 1917).←

33

Cfr. F. MARTINI , Diario, cit., p. 1048 (alla data del 15 novembre 1917). Su Milano cfr. ibid., p. 1102 (alla data del 27 gennaio 1918).←

34

Ibid., p. 1049 (alla data del 16 novembre 1917).←

35

Ibid., p. 1052 (alla data del 18 novembre 1917).←

36

ACS, Presidenza, b. 120, f. 24. La lettera è stata pubblicata in P. MELOGRANI , Le «Pagine sulla guerra» di Benedetto Croce (e una sua lettera a Vittorio Emanuele Orlando), in «Il nuovo osservatore», luglio-agosto 1966, pp. 643-47. Sulla propaganda spicciola cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1029, 1030 e 1032.←

37

Cfr. l’intervento dell’on. Sandulli alla seduta del 14 dicembre 1917 in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., p. 145.←

38

ACS, Carte Nitti, II versamento, sc. 1, f. 1, sottof. 4. Per le province di Perugia, Cagliari e Sassari le condizioni dello spirito pubblico rimasero sostanzialmente normali sia prima, sia dopo Caporetto.←

39

Sull’argomento cfr. le pp. 450 sgg.←

40

ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 50.←

41

Ibid., lettera del 16 dicembre 1917, n. 6662.←

42

Ibid., telegramma n. 34552 del 18 dicembre 1917.← 705

43

Telegramma di Diaz ad Orlando del 19 dicembre 1917, n. 36298, in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A.←

44

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 159. Indicando che il suo giudizio non era mutato rispetto alle «lettere precedenti», Alessi intendeva riferirsi ai giudizi da lui espressi nelle lettere scritte durante la rotta.←

45

Ibid., p. 164.←

46

Ibid., p. 172.←

47

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 378.←

48

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 175-76. Cfr. anche ibid. la lettera del 14 novembre a p. 176.←

49

Ibid., p. 180. Cfr. anche ibid., p. 185.←

50

U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 426.←

51

Ibid., p. 437.←

52

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 194.←

53

Lettera di Diaz ad Orlando del 13 dicembre 1917 n. 6564 in ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 51.←

54

Ibid. In un rapporto del Comando supremo (Ufficio ordinamento e mobilitazione) dell’8 marzo 1918, conservato in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 91 si legge che verso il 10 novembre 1917 erano riuniti nei campi: 7.000 ufficiali, 250.000 uomini di truppa, 20.000 quadrupedi e 3.000 carri.←

55

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 78-79.←

56

Cfr. il discorso del ministro Alfieri alla seduta del 13 dicembre 706

1917 in CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 119-20.← 57

Telegramma di Orlando a Diaz del 10 dicembre 1917; n. 33629, in ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 51.←

58

Lettera di Diaz a Orlando del 13 dicembre 1917 citata alla nota 53. La V armata fu costituita in quei giorni non soltanto con gli sbandati provenienti dai campi di raccolta, ma anche con migliaia di disertori, cfr. L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 15-16.←

59

Cfr. ACS, Conflagrazione europea, b. 45 B (rapporto informativo del 16 novembre 1917).←

60

Telegramma n. 49214 in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A.←

61

Cfr. il telegramma n. 34552 del 18 dicembre 1917 in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A. Alla fine di dicembre circa 150 uomini della Pubblica Sicurezza, fra agenti, commissari e vicecommissari, furono posti agli ordini del Comando supremo. Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., pp. 205-06.←

62

Cfr. la lettera di Diaz a Orlando del 16 dicembre 1917, n. 6662, in ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 50, cit., alle pp. 436437.←

63

Telegramma di Diaz del 15 dicembre 1917, n. 6630, ibid.←

64

Cfr. A. MONTICONE , Nitti e la Grande guerra, cit., p. 259 (nota).←

65

Telegramma di Orlando a Diaz del 22 dicembre 1917, n. 34922, in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A.← 707

66

G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 178←

67

P. MARAVIGNA , Guerra e vittoria, Torino 1938, p. 411.←

68

Cfr. p. 379.←

69

Risulta soltanto che la sera del 26 dicembre alcuni disordini scoppiarono in una batteria del 4° reggimento bombardieri nel momento in cui essa lasciava la zona del riposo per trasferirsi in prima linea; l’opera repressiva degli ufficiali fu giudicata debole e fiacca. Seguì un processo e il comandante del reggimento venne silurato. Cfr. il rapporto del comando della 58ª div. fanteria del 1° marzo 1918, n. 106, in ACS, Primo aiutante, b. 25.←

70

Si veda infatti la lettera di Diaz ad Orlando del 16 dicembre 1917 già citata alla nota 41 di questo capitolo, nonché la lettera del ministro Alfieri ad Orlando del 15 dicembre 1917 conservata anch’essa in ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 50. Cfr. inoltre A. BALDINI , Diaz, Firenze 1929, pp. 68-69, G. GIARDINO , Piccole faci nella bufera (1918-1923), Milano 1924, p. 48. Sul timore di una azione insurrezionale dei socialisti dopo Caporetto cfr. P. SPRIANO , Torino operaia nella Grande guerra, cit., p. 291.←

71

Cfr. L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., p. 270 e E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 361, 529 e passim.←

72

Cfr. il telegramma di Orlando a Diaz del 18 dicembre 1917, n. 34552, in ACS, Presidenza, b. 19.4.8 (102), f. 50.←

73

Lettera di Orlando ad Alfieri del 30 dicembre 1917, ibid.←

74

Cfr. la lettera di Orlando al direttore generale della Pubblica 708

Sicurezza del 15 aprile 1918, n. 1001, in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A.← 75

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 207 (lettera non datata). Manifesti austriaci erano stati lanciati sulle truppe italiane fin dal 1915. Cfr. F. MARAZZI , Splendori ed ombre della nostra guerra, cit., p. 211.←

76

Cfr. la nota del Servizio informazioni del Comando supremo alla presidenza del Consiglio in data 29 marzo 1918, n. 4782 A, in ACS, Presidenza, b. 19.6.5 (120), f. 2 A, nonché L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 265.←

77 78

R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 327-29 e 349.← Notizie e documenti sulla propaganda svolta dagli austriaci fra le truppe italiane in ACS, Presidenza, b. 19.11.1-4 (128) e ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A. Moltissimo materiale è conservato inoltre nella biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, del quale si veda il catalogo a stampa, pp. 213-14. Notizie e fotografie sulla propaganda austriaca in O. CIPRIANI , La propaganda dell’insidia, in «La Lettura», luglio 1918, pp. 510-14. Cfr. inoltre A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 143 sgg.←

79

C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 65.←

80

Ibid.←

81

R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., p. 330.←

82

83

Cfr. G. LOMBARDO- RADICE , La difesa morale del soldato dopo Caporetto, in «L’educazione nazionale», 15-30 maggio 1919, p. 7.← Cfr. pp. 424-425.← 709

84

85 86

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 206 (lettera senza data).← Ibid., pp. 211-12.← Cfr. ibid., p. 221 (lettera del 17 marzo 1918). In una relazione anonima conservata fra le carte di Nitti si legge che sulla nuova linea del Piave e specie verso il Grappa si stava ricreando la stessa pericolosa atmosfera della vigilia di Caporetto, e le ragioni del malcontento sarebbero state le seguenti: il ritardo con il quale, per il terzo anno consecutivo venivano distribuiti gli indumenti invernali; il confronto con il miglior trattamento ricevuto dalle truppe franco-britanniche presenti sul fronte italiano; l’imboscamento di molti, «specialmente degli ufficiali»; i turni di riposo poco frequenti, privi di conforti e con ranci ridotti; le vessazioni disciplinari. Cfr. ACS, Carte Nitti, II versamento, sc. 1, f. 1, sottof. 6.←

87

Cfr. p. 413.←

88

P. CACCIA- DOMINIONI , 1915-1919, cit., p. 247.←

89

90

Alla fine del ’17 erano giunti in Italia 130.000 francesi e 110.000 britannici; nella primavera-estate del ’18 queste forze si ridussero a 40.000 francesi e ad 80.000 britannici. Sull’argomento cfr. A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 396; G. VOLPE , Caporetto, cit., pp. 117 sgg.; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 73 sgg.; L. DE BERARDINIS , Statistica militare, in Trattato elementare di statistica, diretto da Corrado Gini, vol. VI, Statistica sociale, Milano 1936, Estratto, p. 51.← Cfr. A. FERRY , Carnets secrets, cit., p. 214.←

710

91

Rapporto a firma Ferrari in data 2 maggio 1918 (Impressioni dal fronte) in ACS, UCI, f. 1062.←

92

Cfr. G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 172.←

93

G. MINZONI , Diario, cit., p. 158.←

94

Cfr. l’intervento di Turati in CAMERA seduta del 19 marzo 1916.←

95

G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., pp. 49-50. Durante la primavera del 1917, inoltre, erano accaduti vari incidenti sul fronte dell’Isonzo tra i soldati italiani e gli artiglieri britannici. Cfr. A. FRESCURA , Diario di un imboscato, cit., p. 163; E. LORENZINI , La guerra e i preti soldati, cit., p. 76; M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 227. Il 15 dicembre, durante il comitato segreto, l’on. Alessio, radicale, vice-presidente della Camera dei deputati, dichiarò che la guerra si riduceva ormai alla lotta fra l’imperialismo tedesco e quello britannico, e che se quest’ultimo poteva avere tutto l’interesse a portare il conflitto fino alle ultime conseguenze, l’Italia rischiava invece di diventare uno stato tributario. Cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Comitati segreti sulla condotta della guerra, cit., pp. 151-52. Un resoconto dell’intervento dell’on. Alessio si trova anche in F.L. PULLÉ- G. CELESIA DI VEGLIASCO , Memorie del fascio parlamentare di difesa nazionale, cit., p. 113.←

96

DEI DEPUTATI,

Discussioni,

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. I, pp. 275-76.←

97

Cfr. MILANO , Risorgimento, b. 380, cartt. 50 e 51, nonché H.C. GOLDSMID , Diary of a liaison officer in Italy, cit., p. 120.←

98

A. FERRY , La guerre vue d’en bas et d’en haut, cit., pp. 216-26. Ma cfr. anche G. ROCHAT , La convenzione militare di Parigi, in «Il 711

Risorgimento», ottobre 1961, p. 137, dove si legge che i francesi tentarono di indurre gli italiani a lasciarsi guidare da essi nelle operazioni militari. Nei giorni in cui Ferry fu in Italia il gen. De Gondrecourt chiese consiglio ad Ojetti sul modo migliore di far accettare agli italiani gli «istruttori» francesi. Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 446-47. Il piano di Ferry incontrò l’opposizione del gen. Foch. Cfr. A. FERRY , Carnets secrets, cit., p. 220. Cfr. anche J.J. PERSHING , Le mie esperienze della Grande guerra, cit., pp. 159 e 183-84.← 99

Cfr. N. BRANCACCIO , In Francia durante la guerra, cit., p. 161.←

100

C. DE LO L L I S , Taccuino di guerra, cit., p. 77. Cfr. anche l’episodio riferito ibid. a p. 79.←

101

Cfr. N. BRANCACCIO , In Francia durante la guerra, cit., p. 246. Nel settembre 1918 la situazione era tuttavia migliorata. Cfr. ibid., p. 252.←

102

Cfr. A. FERRY , Carnets secrets, cit., p. 230.←

103

Cfr. quanto dicemmo circa le razioni alimentari a p. 291.←

104

A. MONTI , Combattenti e silurati, cit., p. 130. Cfr. anche M. FIORE , Diarii e ricordi, cit., p. 304.←

105

C. DE LOLLIS, Taccuino di guerra, cit., p. 50.←

106

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 195 (lettera del 22 dicembre 1917).←

107

Cfr. ibid., p. 201; G. VOLPE , Caporetto, cit., p. 172.←

108

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 509.←

109

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 278.← 712

110

Le risposte dei prefetti, conservate in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 A, saranno pubblicate nella «Rivista storica del socialismo», n. 32, in corso di stampa.←

111

G. LOMBARDO- RADICE , La difesa morale del soldato dopo Caporetto, cit., p. 7. Il 28 febbraio l’Ufficio centrale investigazioni comunicò notizie giuntegli direttamente dal fronte: non era vero che i soldati non volessero più saperne di far la guerra. Era vero invece che i soldati erano stanchi e «poco aiutati dai loro ufficiali», poiché pure questi ultimi attraversavano una crisi di stanchezza «e si lasciavano sfuggire talvolta frasi poco opportune». Si consigliava di rimediare organizzando una propaganda patriottica, migliorando il trattamento materiale, rendendo effettivo il cosiddetto riposo, facendo cessare «le piccole azioni dimostrative» che logoravano gli uomini e servivano a poco. Il testo del rapporto è conservato in ACS, UCI, b. 1602.←

112

Cfr. L. BISSOLATI , Diario di guerra, cit., pp. 103-04.←

113

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 293.←

114

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 226.←

115

G.M. TREVELYAN, Scene della guerra d’Italia, cit., p. 217.←

116

La relazione dell’on. Comandini è conservata in ACS, Conflagrazione europea, b. 66 (altra copia, sempre nello stesso archivio, in Carte Nitti, II versamento, sc. 1, f. 1, sottof. 6). Il testo della relazione sarà pubblicato nella «Rivista storica del socialismo», n. 32, in corso di stampa. Il commissariato nazionale contava circa 80 segretariati provinciali e 4.500 commissariati comunali o intercomunali. Sull’attività del commissariato cfr. CAMERA DEI DEPUTATI, Legislatura XXVI, 713

Documento XXI, Relazione della Commissione parlamentare per le spese di guerra, vol. I, pp. 33-50.← 117

Sulla posizione politica di Comandini nel 1917-18 cfr. F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1044-55, 1065, 1070 e passim.←

118

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 228 (lettera del 5 aprile 1918). Sullo stato d’animo della brigata Sassari e in generale delle truppe sarde, cfr. L. DE L PIANO , Attilio Deffenu e la rivista «Sardegna», Sassari 1963, pp. 18-22 e 50-51.←

119

Cfr. ibid., pp. 230-31 (lettera del 10 aprile 1918).←

120

O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., pp. 218-19.←

121

Ibid., p. 219.←

122

G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., p. 212.←

123

Cfr. F. ZUGARO- R. RATIGLIA , Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale. I servizi logistici, cit., vol. I, pp. 83-93; R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 317-18; Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 394; A. BALDINI , Diaz, cit., pp. 57-58; E. CAVIGLIA , Diario, cit., pp. 81-82 (alla data dell’8 febbraio 1930); V. GIUFFRIDA- G. PIETRA , Provital, cit., pp. 188-90.←

124

Cfr. G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, cit., p. 19.←

125

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 383.←

126

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 63 e sgg.←

127

Il D.L. 10 dicembre 1917 n. 1970 e il D.L. 30 dicembre 1917. Cfr. A. MONTICONE , Nitti e la Grande guerra, cit., pp. 152-53 e F.S. 714

NITTI , Rivelazioni, cit., p. 504. Sulle polizze di assicurazione gratuita cfr. anche i documenti conservati in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 63.← 128

Cfr. Le polizze gratuite ai combattenti, articolo a firma S.F., in «La Lettura», maggio 1918, pp. 369-70.←

129

Cfr. A. MONTICONE , Nitti e la Grande guerra, cit., pp. 153-54 e F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., pp. 504-05.←

130

Cfr. il telegramma di Orlando a Diaz del 18 gennaio 1918 in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 73.←

131

Lettera di Diaz a Orlando in data 23 gennaio 1918 in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 73. Il Papafava scrisse che durante l’ultimo anno di guerra la disciplina assunse carattere «persuasivo e contrattuale»; si invitava, insomma, il soldato a combattere in cambio di compensi che sarebbero stati distribuiti nel dopoguerra: tutto ciò era inevitabile ma «diede un profondo colpo al principio della disciplina». Cfr. N. PAPAFAVA , Appunti militari, cit., p. 146.←

132

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 508-12.←

133

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, pp. 427-30, nonché quanto diremo alle pp. 501-502.←

134

Cfr. ibid., pp. 386 sgg.; L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 19 sgg.; L. CAPELLO , Caporetto, perché?, cit., pp. 29, 257-58, 263 sgg., 322-23, 335 e 360; R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 333-34; G. BINI- CIMA , La mia guerra, cit., pp. 211-12; M. MUCCINI , Ed ora, andiamo!, cit., p. 229; M. SILVESTRI, Isonzo 1917, cit., p. 209.←

715

135

Cfr. A. SOFFICI , La ritirata del Friuli, cit., pp. 227 sgg.←

136

Cfr. L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., pp. 186-87; R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 172 (lettera del 12 novembre 1917); C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 53 (alla data del 21 novembre 1917); R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., pp. 299-300; G. LUME , I fuochi della vittoria, Roma s.d., pp. 85-86.←

137

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 165, 170 e 207; C. PREMUTI , Eroismo al fronte - Bizantinismo all’interno, cit., pp. 197-98.←

138

Sull’attività di G. Lombardo-Radice, cfr. M. SIMONETTI , Il servizio «P.» al fronte (1918), in «Riforma della scuola», agostosettembre 1968, pp. 24-34, nonché: G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, cit., p. 16; G. VOLPE , Fra storia e politica, Roma 1924, pp. 150-51.←

139

CO M A N D O V CORPO D’ARMATA, Pro-memoria dell’ufficiale di collegamento con le prime linee. Zona di guerra, Primavera 1918, p. 7, in Carte Lombardo-Radice.←

140

Circolare del comando del genio del V corpo d’armata n. 16347 del 24 novembre 1917 (supplemento IV), in Carte Lombardo-Radice.←

141

Ibid. (supplemento V).←

142

L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 24 sgg.←

143

Ibid., p. 24.←

144

Sempre in febbraio il ministro della Guerra emanò una circolare sulla «azione educativa e disciplinare e propaganda patriottica nell’esercito». Circolare del 7 febbraio 1918, in ACS, 716

Presidenza, b. 19.4.8 (102) f. 50. Verso la fine del mese la propaganda fra le truppe continuava ad essere attuata con mezzi molto modesti. Cfr. infatti R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 214 (alla data del 24 febbraio 1918). Il comando del XVIII corpo d’armata scrisse in marzo all’Ufficio stampa e propaganda del Comando supremo per chiedere un finanziamento; ma l’ufficio trasmise la richiesta alle Opere federate di assistenza, in Roma, non disponendo di fondi per la propaganda. Cfr. la nota dell’Ufficio stampa e propaganda del Comando supremo alla presidenza delle Opere federate di assistenza del 24 febbraio 1918 in ACS, Presidenza, b. 19.11.10 (136), f. 54.← Editing 2017: nick2nick www.italiashare.info 145

Cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 63 sgg. e 103; A. GATTI , Caporetto, cit., p. 148 (alla data del 27 giugno 1917). Sul «Giornale del soldato» cfr. F. MASCI , La stampa come mezzo di educazione militare, in «Rivista militare italiana», 16 dicembre 1914, pp. 3214-47.←

146

A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., p. 101. Unica eccezione, forse, «La vittoria». Cfr. anche L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 26-27, dove si legge che «Il tascapane» era stato stampato con i mezzi forniti dal gen. Capello.←

147

Cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., p. 107.←

148

Cfr. P. JAHIER , 1918, L’Astico, giornale della trincea. 1919, Il nuovo contadino, antologia a cura di M. Isnenghi, Padova 1964, p. 34 e A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 99-100.←

149

A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 104-07; L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 249; C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 74.← 717

150

Cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 117-19 e O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., p. 206.←

151

Cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 111-12 e L. CAPELLO , Per la verità, cit., p. 27.←

152

Cfr. C. PETTORELLI- LALATTA , ITO, cit., p. 246.←

153

Cfr. L. CAPELLO , Per la verità, cit., p. 27. Per una bibliografia su tali periodici cfr. A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., pp. 263-64. Un articolo sui giornali di trincea fu pubblicato inoltre nell’«Idea Nazionale» del 7 giugno 1918, p. 3.←

154

A. BALDINI , Diaz, cit., pp. 72-77 e F. MARTINI , Diario, cit., p. 1113.←

155

C. PETTORELLI- LALATTA , ITO, cit., p. 219, ma il Marchetti parla di distribuzioni gratuite o semigratuite. Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., p. 207.←

156

L’Ufficio informazioni della IV armata preferiva acquistare «Il Secolo» piuttosto che il «Corriere della Sera», poiché quest’ultimo – screditando il parlamento e le istituzioni liberali – costituiva «una semina di veleno per i combattenti». R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 245-46, ma cfr. anche p. 235. Cfr. inoltre L. ALBERTINI , Epistolario 1911-1926, cit., pp. 932-33 (lettera di Gaetano Giardino del 20 maggio 1918).←

157

Cfr. L. NASI , Da Caporetto alla vittoria, in «Rivista Militare Italiana», 16 maggio 1918; C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., p. 80 e L. CAPELLO , Per la verità, cit., p. 27.←

718

158

Cfr. L. CAPELLO , Per la verità, cit., pp. 27-28 e F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., p. 505.←

159

Cfr. F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., p. 505 e U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 495 e 497 (lettere del 5 e 7 marzo 1918).←

160

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte I, vol. II, pp. 62-63 e parte II, vol. III, pp. 341-42.←

161

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 318.←

162

Sulle decisioni che in merito alla organizzazione della propaganda furono prese dal Comando supremo il 28 febbraio 1918, cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., pp. 221-22.←

163

Cfr. la circolare dell’Ufficio informazioni del comando della II armata in data 22 marzo 1918, n. 736/P in Carte LombardoRadice.←

164

Sull’oblìo nel quale era caduto il mito della guerra rivoluzionaria cfr. E. CORRADINI , Guerra rivoluzionaria e non pacifista, in «L’Idea Nazionale», 17 aprile 1918, p. 1.←

165

Cfr. pp. 464-465.←

166

Circolare del 10 marzo 1918 n. 239 in Carte LombardoRadice. Gioacchino Volpe collaborò con Lombardo-Radice, nel 1918, al servizio propaganda dell’VIII armata, comandata dal gen. Caviglia. Di grande interesse sono i documenti al riguardo pubblicati in G. VOLPE , Fra storia e politica, cit., pp. 143-225.←

167

A. SCHIAVI , La terra a chi la lavora (Proposte, progetti e discussioni), in «Critica Sociale», 1-15 marzo 1918, pp. 56-58 e N.S. ONOFRI , La Grande guerra nella città rossa, cit., pp. 256-

719

59.← 168

Lettera di Zupelli a Orlando del 25 aprile 1918 n. 7667 in ACS, Presidenza, b. 19.11.10 (136), f. 54. Cfr. anche A. BALDINI , Diaz, cit., pp. 71-72.←

169

R. TONDI , Fanti di Avellino, cit., p. 335.←

170

G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, cit., p. 20.←

171

Cfr. L. CAPELLO , Per la verità, cit., p. 26.←

172

Cfr. la circolare del comando dell’VIII armata del 30 agosto 1918, n. 2381, in Carte Lombardo-Radice.←

173

Lettera di Gasparotto a Orlando s.d. in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 81.←

174

Lettera di Orlando a Gasparotto del 28 febbraio 1918, ibid.←

175

Lettera di Gasparotto a Orlando del 5 marzo 1918, ibid.←

176

Cfr. la lettera del capo di gabinetto di Orlando, Petrozziello, a Ojetti del 31 marzo 1918 in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87) f. 90.←

177

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 506 (lettera del 18 aprile 1918).←

178

Cfr. O. MARCHETTI , Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, cit., p. 93.←

179

Si calcolava che l’esercito austro-ungarico fosse il prodotto della mescolanza di quattro razze, dodici popoli parlanti altrettante lingue, e sei religioni. Cfr. uno degli spunti di conversazione con i soldati in Carte Lombardo-Radice (circolare del Comando del Genio del V corpo d’armata, del 24 novembre 720

1917, n. 16347, supplemento terzo) ove si legge che le quattro razze erano la slava, la tedesca, la latina e la «mongoloidemagiara»; i dodici popoli erano gli italiani, i romeni, i tedeschi, i boemo-slovacchi, gli sloveni, i croati, i serbi, i polacchi, i ruteni, i magiari, gli albanesi e gli zingari; le sei religioni, infine, erano la cattolica, l’ortodossa, la greco-scismatica, la musulmana, l’israelita, e la protestante← 180

Sulla politica delle nazionalità cfr. quanto riferito in A. TAMBORRA , L’idea di nazionalità e la guerra 1914-1918, in Atti del XLI congresso di storia del Risorgimento italiano, cit., pp. 177-291; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit.; H.W. STEED , Trent’anni di storia europea, cit.; L. VALIANI , La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, 1966; R. VIVARELLI , Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo (1918-1922), vol. I, Dalla fine della guerra all’impresa di Fiume, Napoli 1967.←

181

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 257, 351-52, 372-73 e passim.←

182

G.A. BORGESE , Golia, cit., p. 144, ma cfr. anche pp. 145-46. Anche Prezzolini spiegò che: «Il patto di Roma nacque come un’alleanza fra l’idealismo di pochi, la convinzione politica di parecchi, il machiavellismo di molti e il lasciar fare dei più. […] L’accordo fu firmato da parecchi con il segreto proposito di infrangerlo appena il pericolo fosse passato. Ed infatti così avvenne»; cfr. G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, cit., pp. 26-27.←

183

H.W. STEED, Trent’anni di storia europea, cit., pp. 491 sgg.←

184

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., p. 504 (lettera del 23 marzo 1918).←

185

H.W. STEED , Trent’anni di storia europea, cit., p. 503.← 721

186

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. II, p. 277 e H.W. STEED , Trent’anni di storia europea, cit., pp. 503-504. Sulle difficoltà politico-diplomatico-militari suscitate dalla propaganda sul nemico, cfr. fra l’altro U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., passim; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, passim; H.W. STEED , Trent’anni, cit., passim; C. PETTORELLI- LALATTA , ITO, cit., pp. 248-49 e 259; R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 285-86; A. VALORI , La condotta politica della guerra, cit., pp. 401-03; molte notizie nella documentazione ancora inedita conservata in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 90 e b. 19.11.10 (136), f. 61.←

187

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 541, 637 e passim. Secondo Steed nell’aprile del 1918 gli austriaci annullarono un’offensiva perché messi in crisi dalla propaganda nemica, cfr. H.W. STEED , Trent’anni di storia europea, cit., p. 504. Cfr. anche L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 452.←

188

F. WEBER , Tappe della disfatta, cit., pp. 248 e 261-62.←

189

Cfr. C. PETTORELLI- LALATTA, ITO, cit., p. 177.←

190

H.W. STEED , Trent’anni, cit., pp. 504-05.←

191

Circolare del Comando del genio del V corpo d’armata, del 24 novembre 1917, n. 16347 (supplemento III), in Carte Lombardo-Radice.←

192

Cfr. E. EGOLI , I legionari cecoslovacchi in Italia, cit.←

193

H.D. LASSWELL , Propaganda technique in the World War, London 1938, pp. 114-15. Cfr. anche A. LANCELLOTTI , Giornalismo eroico, cit., p. 201.← 722

194

O. CIMA , Milano durante la guerra, cit., pp. 165-67.←

195

F. MARTINI , Diario, cit., p. 1105 (alla data del 3 febbraio 1918).←

196

Cfr. H.D. LASSWELL , Propaganda technique in the World War, cit., pp. 123-24. Sul viaggio della delegazione dell’AFL cfr. i giornali dell’epoca alle date 7-11 ottobre 1918. Un breve cenno al viaggio in Italia di S. Gompers in V. PARETO , Fatti e teorie, Firenze 1920, p. 361.←

197

Cfr. A.M. GIANNELLA , La Croce Rossa Americana, in «La Lettura», giugno 1918, pp. 447-48.←

198

Cfr. O.D. WANNAMAKER , With Italy. Her Final War of Liberation. A Story of the «Y» on the Italian Front, New YorkChicago 1923, e G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. II, pp. 148, 167 e 171-72.←

199

G. LOMBARDO- RA D I C E , La difesa morale del soldato dopo Caporetto, in «L’educazione Nazionale», 15-30 maggio 1919, p. 7.←

200

G. MINZONI , Diario, cit., p. 207 (alla data del 12 giugno 1918).←

201

Cfr. H.D. LASSWELL , Propaganda technique in the World War, cit., p. 115; O. CIMA , Milano durante la guerra, cit., pp. 221-22; V. BRIZZOLESI , Gli americani-italiani alla guerra, Milano 1919, p. 67.←

202

U. ARNALDI , Il ritorno dei mariti, Roma 1919, pp. 203-05. Sulla propaganda fra i soldati in favore degli Stati Uniti cfr. anche G. VOLPE , Fra storia e politica, cit., pp. 144-45.←

723

203

Cfr. C. TREVES , Wilson e Il grande equivoco, in «Critica Sociale», 16-31 ottobre e 1-15 novembre 1918.←

204

G. VOLPE , Fra storia e politica, cit., p. 204.←

205

Cfr. «L’Idea Nazionale» del 2 e del 5 novembre 1918 (in cronaca).←

206

Cfr. G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. II, p. 26 e passim. Sulle case del soldato cfr. inoltre quanto abbiamo già detto nel paragrafo precedente a proposito dell’YMCA, nonché: E. SPANILANI , Le Case del Soldato alla fronte della III Armata, in «La Lettura», novembre 1918, pp. 827-29; G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, cit., p. 19; R. GIULIANI , Gli arditi, cit., pp. 230 sgg.←

207

Cfr. G. DE ROSSI , Una campagna sbagliata, in «Il prete al campo», 1° gennaio 1918. Sulla polemica scoppiata fra Guido Podrecca e i cappellani militari cfr. «Il prete al campo», vari numeri del maggio-giugno 1918, pp. 97-99, 115-17, 123-24 e 162-63.←

208

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. II, p. 29.←

209

Ibid., pp. 26 e 144. Sui rapporti tra massoneria ed esercito cfr. A. SALANDRA , La neutralità italiana, cit., p. 293; L. CADORNA , Pagine polemiche, cit., pp. 149-51; E. VIGANÒ , La nostra guerra, Firenze 1920, pp. 71-72; G. SEMERIA , Nuove memorie di guerra, Milano 1928, pp. 171-73 e 176; F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., pp. 411-43 e E. CAVIGLIA , Diario, cit., p. 57.←

210

Uno dei cappellani «incriminati» si era rifiutato di baciare il tricolore dopo averlo però benedetto, e l’altro, una domenica, aveva protestato con i superiori perché questi avevano proibito alle truppe di andare a messa. Cfr. F. FONTANA , Croce ed 724

armi, cit., pp. 47-48. Su episodi di anticlericalismo cfr. A. GARAVENTA , In guerra con gli alpini, Milano 1935, pp. 135-36.← 211

Cfr. «Il prete al campo», 16 maggio 1918, pp. 119-20 (Proposte, proteste e recriminazioni).←

212

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. II, pp. 137, 144 sgg.←

213

«Il prete al campo», 16 luglio 1918 (Un po’… sì. Ma non troppo!). Ai tempi di Cadorna non sarebbe certamente accaduto quel che accadde in agosto, allorché il presidente Orlando protestò con il Comando supremo perché un generale si era permesso di ricordare alle sue truppe che la libera uscita della domenica mattina era stata consentita al solo scopo di andare a messa. Sull’episodio cfr. i documenti conservati in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (87), f. 129.←

214

G. MINOZZI , Ricordi di guerra, cit., vol. II, p. 264. Cfr. inoltre P. SCAVIZZI , I preti soldati, in «Il prete al campo», 16 settembre 1918, pp. 205-06.←

215

Cfr. A. MONTABONE , Dattiloscritto, cit., pp. 88-89.←

216

Cfr. «Il prete al campo» del 1° e del 16 agosto 1918, pp. 175 e 185 (Occhi aperti e La propaganda protestante).←

217

Cfr. ibid., 1° novembre 1918, p. 250 (La fratellanza universale americana).←

218

Ibid., 16 giugno 1918, p. 137. Cfr. anche ibid., 1° agosto e 1° ottobre 1918, pp. 171 e 222.←

219

Cfr. ibid., 1° marzo 1918, p. 54.←

220

Cfr. ibid., 16 maggio 1918, pp. 109-11.←

221

Cfr. ibid., 16 luglio e 1° ottobre 1918, pp. 164 e 218-19, 725

nonché 1° novembre 1918, pp. 241-42.← 222

Cfr. Relazione Ufficiale Caporetto, t. 3° bis, pp. 18 e 39. Rino Alessi ne parlò al suo direttore; Luigi Barzini sul «Corriere della Sera» dedicò un lungo articolo all’argomento, spiegando tuttavia che l’Austria si era sempre sbagliata sul conto dell’Italia. Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 130 (lettera del 13 ottobre 1917) e L. BARZINI , Speranze austriache, in «Corriere della Sera», 19 ottobre 1917. Cfr. anche G. VOLPE , Caporetto, cit., pp. 13-21 e 82-83.←

223

Cfr. A. ARA , La battaglia di Caporetto nell’opinione pubblica austriaca, in «Il Risorgimento», febbraio 1969 (estratto), p. 9.←

224

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 34 e 87 e G. VOLPE , Caporetto, cit., pp. 167-68.←

225

DEI

226

Cfr. A. MALATESTA , I socialisti italiani, cit., p. 160.←

Cfr. l’intervento di Pirolini in CAMERA Discussioni, seduta del 20 dicembre 1917.←

DEPUTATI,

227

Cfr. «Critica Sociale», 1-15 novembre 1917, p. 265 (Proletariato e resistenza), 16-30 novembre 1917, pp. 277-79 e 284 (La resistenza socialista e La crisi del ministero nazionale e i problemi della pace). Cfr. anche A. VALORI , La condotta politica della guerra, cit., pp. 227 sgg.←

228

Cfr. F. PEDONE , Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, cit., vol. III, p. 21.←

229

Cfr. G. VOLPE , Fra storia e politica, cit., p. 152.←

230

Cfr. «Critica Sociale», 16-31 marzo 1918, p. 63 (Dall’egemonia europea alla difesa nazionale) e 1-15 marzo 1918, p. 73 (Mentre 726

arde l’olocausto).← 231

N.S. ONOFRI , La Grande guerra nella città rossa, cit., pp. 325-26 e 331-32. Vittorio Emanuele era già stato a Ravenna, dove aveva stretto la mano anche a Nullo Baldini, l’organizzatore delle cooperative rosse. Sull’argomento cfr. il rapporto dell’Ufficio speciale investigazioni della Direzione generale della Pubblica Sicurezza in data 18 maggio 1918, in ACS, Conflagrazione europea, b. 43 b.←

232

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 321. «Gran momento per tutti» annotò De Lollis nel suo taccuino. «Turati ha raggiunto Mussolini e Bissolati. Quod erat in votis, ed era anche da prevedersi.» C. DE LOLLIS , Taccuino di guerra, cit., pp. 83 e 84. Cfr. inoltre L. AMBROSOLI , Né aderire né sabotare, cit., pp. 289-91; «L’Idea Nazionale», 18 giugno 1918 (Il figliol prodigo); F. TURATI , Le vie maestre del socialismo, a cura di R. Mondolfo, Bologna 1921, pp. 258 e 259. Sugli atteggiamenti successivi alla battaglia di giugno, cfr. «Critica Sociale», 1-15 luglio 1918, p. 145 (Tra i due scogli) e 16-30 novembre 1918, pp. 253-55 (La pace rivoluzionaria), nonché l’opera di Albertini, già citata in questa nota, alla p. 348.←

233

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 330 (alla data del 7 novembre 1917).←

234

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 121 (lettera del 19 settembre 1917).←

235

Ibid., p. 171 (lettera dell’11 novembre 1917).←

236

A. GATTI , Caporetto, cit., p. 403 (alla data del 20 novembre 1917). Scrisse Ferry che Diaz aveva l’aria di un ministro borghese piuttosto che di un gran capo militare. Cfr. A. FERRY , 727

Carnets secrets, cit., p. 214. Orlando disse che Diaz fu ben lontano dal possedere il prestigio di Cadorna. Cfr. V.E. ORLANDO , Memorie, cit., pp. 287-88 e 308-16.← 237

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 165 (lettera del 10 novembre 1917) e A. GATTI , Caporetto, cit., p. 382 (lettera del 12 novembre 1917).←

238

O. MALAGODI , Conversazioni della guerra, cit., p. 405 (conversazione con Sonnino del 30 settembre 1918).←

239

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 163.←

240

Ibid., p. 320 e cfr. anche pp. 312-13←

241

Ibid., p. 254.←

242

Ibid., p. 508.←

243

D.L. 15 dicembre 1917, n. 1973. Lo schema del decreto, presentato da Nitti, si trova in ACS, Presidenza, b. 19.4.1 (86), f. 62.←

244

Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 464 e 493, nonché F. MARTINI , Diario, cit., pp. 1150-51 e 1163.←

245

Cfr. F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., pp. 35-36.←

246

V.E. ORLANDO , Memorie, cit., p. 517.←

247

Si veda il carteggio conservato in ACS, Presidenza, b. 19.4.8, f. 85.←

248

Cfr. lo «specchio riepilogativo» inviato dal ministero della Guerra al presidente del Consiglio il 27 giugno 1918, in ACS, Presidenza, n. 19.4.8, f. 88.←

249

Sia perché Mortara tenne conto dell’«anno» di guerra, così 728

che il terzo anno riunì gli ultimi cinque mesi del periodo Cadorna con i primi sette del periodo Diaz, sia perché i dati del quarto anno (in realtà i cinque mesi dal maggio all’ottobre 1918) risultarono falsati dall’amnistia così come lo stesso Mortara fece notare. Cfr. [G. MORTARA ] MINISTERO DELLA GUERRA, UFFICIO STATISTICO, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale, dati sulla giustizia e disciplina militare, cit., pp. 13-14.← 250

Cfr. E. FORCELLA- A. MONTICONE , Plotone d’esecuzione, cit., pp. 511-12 e passim.←

251

Cfr. A. FRESCURA , Diario di un imboscato, cit., pp. 282-85.←

252

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 304-05 e 319; A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., pp. 438-39; F. WEBER , Tappe della disfatta, cit., p. 195; E. LORENZINI , La guerra e i preti soldati, cit., p. 121. D’altra parte la propaganda promossa dagli italiani per l’indipendenza dei popoli oppressi aveva prodotto effetti ancora limitati. Cfr. U. OJETTI , Lettere alla moglie, cit., pp. 538, 541, 543 e 546.←

253

Cfr. F. WEBER , Tappe della disfatta, cit., p. 195; L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 308; Relazione ufficiale Caporetto, t. 3° bis, p. 228; M. CARACCIOLO , L’Italia nella guerra mondiale, cit., pp. 180 sgg.←

254

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, pp. 305-07 e A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 450.←

255

Cfr. R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 263 (lettera del 6 giugno 1918); L. GASPAROTTO , Rapsodie, cit., p. 274 (alla data del

729

1° giugno 1918); E. DE BONO , La guerra come e dove l’ho vista, cit., p. 276; A. VALORI , La guerra italo-austriaca, cit., p. 445. Cfr. inoltre il rapporto dell’Ufficio speciale investigazione della Direzione generale della Pubblica Sicurezza in data 27 giugno 1918 in ACS, UCI, b. 1602.← 256

Cfr. A. LUSTIG , Fisiopatologia e clinica dei gas da combattimento, cit., pp. 9-10 e A. VALORI , La guerra italoaustriaca, cit., p. 461.←

257

Cfr. C. GALLI , Diarii e lettere, cit., p. 302 e G.M. TREVELYAN , Scene della guerra d’Italia, cit., p. 221.←

258

R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., p. 266 (lettera del 17 giugno 1918).←

259

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, p. 427 e R. ALESSI , Dall’Isonzo al Piave, cit., pp. 314-16.←

260

A. OMODEO , Momenti della vita di guerra, cit., p. 132.←

261

Cfr. fra l’altro F. MARTINI , Diario, cit., p. 1219 (alla data del 2829 agosto 1918).←

262

F. TURATI , Le vie maestre del socialismo, cit., p. 254.←

263

Cfr. Inchiesta Caporetto, vol. II, tav. 33.←

264

Cfr. pp. 218-219.←

265

Cfr. fra l’altro F.S. NITTI , Rivelazioni, cit., pp. 37-39; A. MONTICONE , Nitti e la Grande guerra, cit., pp. 285 sgg.; P. PIERI , L’Italia nella Prima guerra mondiale, cit., p. 189.←

266

In quei giorni si parlò molto anche di un esonero del gen. Diaz, poco proclive a muoversi. Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di 730

vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 422.← 267

Cfr. ibid., pp. 429 e passim.←

268

Il telegramma è interamente riportato in altro telegramma di Orlando al suo capo di gabinetto, datato Torino 29 ottobre 1918, conservato in ACS, Presidenza, b. 19.4.9, f. 16.←

269

Cfr. L. ALBERTINI , Venti anni di vita politica, cit., parte II, vol. III, p. 451.←

270

MILANO , Risorgimento, b. 161, Comando dell’VIII armata, Stato maggiore, Ufficio informazioni, rapporto riservatissimo del 15 novembre 1918.←

271

G. PREZZOLINI , Vittorio Veneto, cit., pp. 34-35.←

272

Telegramma n. 35250 del 9 novembre 1918, in ACS, Presidenza, b. 19.22.1-4.←

273

Fonogramma di Orlando al Comando supremo del 9 novembre 1918, ibid.←

274

L. ALBERTINI , I doveri di quest’ora, in «Corriere della Sera», 14 novembre 1918.←

275

Cfr. A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 157-58.←

276

R. BACHI , L’Italia economica nel 1919, Città di Castello 1920, p. 196.←

277

Cfr. ibid., nonché A. SERPIERI , La guerra e le classi rurali italiane, cit., pp. 227-29. Sulla smobilitazione dell’esercito cfr. G. ROCHAT , L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, cit., pp. 13 sgg←

731

278

Cfr. M. ABRATE , La lotta sindacale nella industrializzazione in Italia, cit., p. 211.←

279

Ibid., p. 224. Cfr. anche R. BACHI , L’Italia economica nel 1919, cit., p. VIII, nonché G. SALVEMINI , Lezioni di Harvard: L’Italia dal 1919 al 1929, in Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, Milano 1961, vol. I, p. 436. Nel 1919 l’aumento del costo della vita fu compensato, per le masse operaie delle grandi città, dall’aumento dei salari; in proposito cfr. fra l’altro F. CHABOD , L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino 1961, p. 38.←

280

P. NENNI , Storia di quattro anni (1919-1922), Roma 1946, p. 41. In merito al favorevole andamento del processo produttivo nell’immediato dopoguerra cfr. F. CATALANO , Potere economico e fascismo. La crisi del dopoguerra, 1919-1921, Milano 1964, pp. 103-04 e passim.←

281

Cfr. infatti ciò che si legge in P. NENNI , Sei anni di guerra civile, Milano 1945, pp. 64-65.←

282

T. TILGHER , Piccoli borghesi al bivio, in «Tempo», 7 dicembre 1919, ripubblicato in La crisi mondiale e saggi critici di marxismo e socialismo, cit., p. 178.←

283

C. GORETTI , La guerra e la nuova coscienza critica del proletariato, in «Critica Sociale», 1-15 dicembre 1919, p. 320. A proposito del rapido proletarizzarsi della piccola e media borghesia cfr. inoltre N.M. FOVEL , Il fatale risveglio, ibid., 1-15 giugno 1919, p. 132.←

284

Cfr. P. NENNI , Storia di quattro anni, cit., pp. 7-8. A proposito di Mussolini cfr. invece le osservazioni di R. DE FELICE , Mussolini, il rivoluzionario, cit., p. 395.←

732

285

A. TILGHER , La terza Italia, in «Tempo», 26 dicembre 1919, ripubblicato in La crisi mondiale e saggi critici di marxismo e socialismo, cit., p. 196.←

286

Si veda in particolare l’«Avanti!» della prima quindicina del dicembre 1918. Cfr. A. GIOBBIO , l’«Avanti!» (1919-1926), in [B. VIGEZZI ], 1919-1925. Dopoguerra e fascismo, cit., Bari 1965, pp. 624-25. ←

287

A. LEVI , Le «masse silenziose» e Woodrow Wilson, in «Critica Sociale», 16-31 gennaio 1919, p. 14. ←

733

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Ebook ISBN 9788852052149 COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | PROGETTO GRAFICO: V. CANTONE / G. CAMUSSO | IL GENERALE CADORNA VISITA LE BATTERIE INGLESI © MONDADORI PORTFOLIO/MCRR || EDITING 2017: NICK2NICK ITALIASHARE.INFO

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Indice del volume Il libro L’autore

2 3

Storia politica della Grande Guerra Sommario Avvertenza Prefazione Premessa Elenco delle abbreviazioni Storia politica della Grande guerra 1915-1918 I. Dal radioso maggio al funereo autunno 1. Gli interventisti e i neutralisti dopo la decisione dell’intervento 2. L’indifferenza di larga parte dell’opinione pubblica 3. Lo spirito dei combattenti durante le prime giornate 4. I soldati socialisti 5. Le prime delusioni dei militari interventisti 6. Impreparazione dell’esercito alla nuova guerra 7. Il fallimento delle offensive sull’Isonzo 8. La demoralizzazione delle truppe in conseguenza delle operazioni militari 9. Ripercussione della crisi militare sul Paese 10. Le critiche al generale Cadorna 11. La crisi degli interventisti nell’autunno 1915

II. L’adattamento del soldato alla guerra 1. La «spersonalizzazione» del soldato 2. Influenza degli ideali patriottici 3. Condizioni morali degli ufficiali 4. Le prime licenze invernali 5. Gli imboscati 735

4 5 10 18 29 32 34 35 35 37 45 51 55 65 71 76 88 95 100

133 133 142 147 154 163

6. Trattamento materiale del soldato 7. La giustizia militare 8. L’istituzione dei cappellani militari 9. Orientamenti del clero di fronte alla guerra 10. Religione e superstizioni 11. La guerra come occasione di apostolato 12. Atteggiamenti patriottici dei cappellani 13. Le «case del soldato» ed altre iniziative dei cappellani 14. Assenteismo del Comando supremo in tema di attività propagandistiche e ricreative 15. Considerazioni di Mussolini sul morale dell’esercito 16. Conclusioni

III. I contrasti tra il governo e lo stato maggiore nel 1916 1. Separazione tra militari e politici nell’anteguerra 2. L’autorità del capo di stato maggiore 3. La crisi tra governo e Comando all’inizio del 1916. Il memoriale Zupelli 4. La campagna di stampa promossa da Cadorna 5. Le dimissioni del ministro Zupelli 6. La crisi durante la strafexpedition 7. La caduta del governo Salandra 8. La costituzione del ministero nazionale: Boselli e Cadorna 9. L’urto tra Cadorna e Bissolati 10. Lo scandalo Douhet e la rappacificazione tra Cadorna e Bissolati

IV. Soldati e ufficiali nella guerra «cronica» 1. Conseguenze della strafexpedition 2. Decimazioni alla brigata Salerno e fra le truppe del Carso 3. Insufficienze dei quadri militari 4. Ufficiali di carriera e ufficiali di complemento 5. La vittoria di Gorizia e le offensive autunnali 6. Gli autolesionisti 7. Le distrazioni dei soldati 736

171 174 180 183 185 192 194 199 203 205 208

241 241 245 247 253 255 258 262 266 269 273

295 295 298 305 308 320 322 327

8. I sentimenti degli italiani verso gli avversari 9. Le circolari sulla propaganda contraria alla guerra 10. Diverse interpretazioni del «non aderire e non sabotare» 11. Il «pericolo» socialista

V. Il 1917 prima di Caporetto

334 345 347 354

381

1. Considerazioni preliminari: la crisi del nemico e quella dell’alleato 2. Stato d’animo dell’esercito dal gennaio al maggio 3. Stato d’animo dell’esercito dal giugno al settembre 4. Indisciplina e ammutinamenti 5. La rivolta della brigata Catanzaro 6. I disertori 7. I renitenti residenti all’estero 8. L’immagine che si aveva all’estero dell’Italia in guerra 9. Trattamento materiale dei combattenti 10. I giornali e la guerra 11. L’odio per gli imboscati 12. La protesta popolare contro la guerra 13. La partecipazione femminile al movimento di protesta 14. I fatti di Torino 15. Interventisti e Comando supremo 16. Le voci di un colpo di stato militare 17. Rapporti tra Cadorna e il governo 18. I socialisti e la protesta popolare 19. I salari degli operai industriali 20. I socialisti e la propaganda fra le truppe 21. I cappellani e l’«inutile strage»

VI. La battaglia di Caporetto: cause e svolgimento 1. Stato d’animo delle truppe e dei comandi italiani alla vigilia della battaglia 2. La sorpresa 3. La nuova tattica 737

381 385 389 393 401 405 409 412 416 419 422 425 429 432 437 439 444 448 452 462 469

518 518 522 532

4. I successi dell’«infiltrazione» sui vari fronti 5. Le esperienze di Rommel 6. Lo smarrimento dei comandi: Badoglio e la Commissione di inchiesta 7. Lo sbandamento delle truppe 8. Le interpretazioni «moralistiche» di Caporetto 9. Giustizia sommaria 10. Il generale Graziani e il suo plotone di esecuzione 11. L’impreparazione alla ritirata e i problemi del traffico 12. L’esonero di Cadorna

VII. L’ultimo anno di guerra

537 540 545 551 561 569 573 575 580

606

1. La crisi dopo Caporetto 2. Trattative per una pace separata 3. Ripercussioni di Caporetto negli ambienti politici 4. Ripercussioni nell’opinione pubblica 5. Stato d’animo delle truppe nel novembre-dicembre 1917 6. La riorganizzazione degli sbandati 7. Voci di pace e di ammutinamenti a Natale 8. La propaganda «disfattista» dopo Caporetto 9. Stato d’animo delle truppe all’inizio del 1918 10. Atteggiamento verso i franco-britannici 11. Stato d’animo delle truppe tra il febbraio e il maggio 12. Migliore trattamento del soldato 13. Prime iniziative propagandistiche nell’esercito 14. I giornali di trincea 15. Lo sviluppo della propaganda e l’istituzione del servizio P. 16. Gli ufficiali P. «commissari politici»? 17. La propaganda sul nemico 18. Crescente prestigio degli Stati Uniti in Italia 19. Limiti all’attività dei cappellani 20. Il Partito socialista tra Lenin e Wilson 21. Il gen. Diaz e il governo 738

607 610 611 615 622 625 627 629 634 636 642 646 648 652 655 660 665 669 673 677 680

22. Amministrazione della giustizia militare nel 1918 23. La battaglia del Piave 24. La battaglia di Vittorio Veneto

Epilogo Note Copyright

683 685 688

695 109 734

739