Storia minima d’Europa : dal Neolitico a oggi 9788815257345, 8815257349

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Storia minima d’Europa : dal Neolitico a oggi
 9788815257345, 8815257349

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Andrea Zannini

Storia minima d'Europa Dal Neolitico a oggi

il Mulino Le vie della civiltà

Che cos’è l’Europa? Un’entità geografica, un patrimonio storico, una costruzione ideologica? Tutto questo insieme: una cosa dai tratti imprecisi ma concreti, che si è venuta formando nel corso dei millenni. A partire dal termine stesso e dalla definizione dell’ambito spaziale, il libro illustra gli snodi, i processi e le trasformazioni principali che hanno condotto all’Europa di oggi: dall’eredità del mondo greco-romano alla diffusione del cristianesimo, allo sviluppo delle città e degli stati, dall’espansione coloniale alle rivoluzioni e ai nazionalismi, dai totalitarismi novecenteschi all’Unione europea. Andrea Zannini insegna Storia moderna neU’Università di Udine. Tra le sue ultime pubblicazioni, «Venezia città aperta. Gli stranieri e la Serenissima XIV-XVIII sec.» (2009); per il Mulino ha co-curato «La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli» (2013).

€ 26,00

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.muIino.it

Andrea Zannini

Storia minima d’Europa Dal Neolitico a oggi

Società editrice il Mulino

ISBN

978-88-15-25734-5

Copyright © 2015 by Società editrice il Mulino, Bologna.

Indice

Prefazione

p.

9

I.

È possibile una storia d’Europa?

15

IL

Le radici prime dell’Europa

31

III.

Libertà e impero nel mondoantico

45

IV.

La formazione dell’Europa cristiana

59

V.

Maometto e Carlomagno

73

VI.

L’Europa dei castelli

89

VII.

L’Europa delle città

105

V ili.

L’Europa fuori d’Europa

123

IX.

L’età delle religioni armate

139

X.

Le metamorfosi dello stato

155

XI.

Il miracolo europeo

171

XII.

L’età delle rivoluzioni

189

XIII. L’Europa dei diritti

205

XIV. L’Europa delle nazioni

221

XV.

237

La perdita del primato

6

INDICE

XVI.

L’Europa nel baratro

XVII.

Il Nuovo Ordine europeo

p.

253 269

XVIII. Un’Europa ricca e divisa

285

XIX.

301

La costruzione dell’Europa unita

Conclusioni

317

Bibliografia

323

Indice dei nomi

335

Indice dei luoghi

343

La storia europea è tutto quello che gli storici vo­ gliono che sia. E un compendio di fatti e di idee di ogni tipo: politico, religioso, militare, pacifico, serio, romantico, vicino, lontano, tragico, comico, significativo o irrilevante; insomma, basta scegliere. C’è un’unica limitazione, Deve aver luogo o deri­ vare da quell’area che noi chiamiamo Europa. Ma dato che non sono sicuro di che cosa si intenda esattamente per Europa, sono piuttosto confuso a proposito di tutto il resto. Alan John Percivale Taylor (intervista in «History Today», gennaio 1986)

Prefazione

Distendo sul tavolo davanti a me una banconota da cento euro. Riporta sul fronte il disegno di un portale e sul retro la silhouette di un ponte. Non li riconosco, certamente per mia ignoranza. Mi sembra di ricordare che venne fatto a suo tempo un concorso per scegliere il disegno delle bancono­ te dell’euro, allora mi collego a Internet e ci perdo un po’ di tempo. Il concorso venne bandito nel 1996 dall’Istituto monetario europeo; nel bando era previsto che le banconote dovessero essere immediatamente riconoscibili come europee e «incarnare un messaggio culturale e politico facilmente ac­ cettabile dai cittadini europei». Per far ciò dovevano ritrarre «età e stili d’Europa». Leggo anche che la banconota da cento euro rappresenta il barocco e il rococò: c’ero arrivato da solo, ma di quale portale e di quale ponte si tratti mi resta ignoto, Appoggio vicino ai cento euro una banconota da cento dollari. Riconosco facilmente lo sguardo arguto del personaggio che campeggia in primo piano, il cui nome è peraltro visibi­ lissimo: Benjamin Franklin. Ricordo anche altri tagli: George Washington su quello da un dollaro, Abraham Lincoln su quello da cinque, se non mi sbaglio. Il dollaro è una banconota molto più vecchia, per concezione e disegno, e come spesso accade alle cose vecchie ha un che di familiare, casalingo, Mi viene un pensiero, apro Wikipedia e cerco le banconote cinesi: non avevo dubbi, su tutte si staglia il faccione inconfondibile del presidente Mao. L’Unione europea, fortunatamente, non ha combattuto alcuna guerra d ’indipendenza né alcuna guerra civile per nascere; non c’è stato bisogno di formare nessun esercito rivoluzionario, né di compiere alcuna lunga marcia. Questo, certamente, ci permette di non sentirci in imbarazzo come ci sentiremmo se dovessimo, per esempio, acquistare un cappotto

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PREFAZIONE

di Prada a suon di ritratti di un presidente comunista. Ma la domanda rimane; come cittadini europei ci riconosciamo solo nella splendida, eterna nostra tradizione artistica? L’unica storia comune che riusciamo a mettere in campo è quella, evidentemente poco insidiosa, della nostra cultura? E quale messaggio storico ci proviene dalle infalsificabili, asettiche, morte banconote dell’euro? Siamo solo qualcosa o siamo anche qualcuno? Molti libri sulla storia d’Europa nascono come raccolte di conferenze o appunti di corsi universitari. Per esempio quelli di Lucien Febvre o di Federico Chabod, citati in bibliografia. Anche questo libro, per quanto assolutamente non paragonabile alle opere di quei grandissimi storici, nasce così. Ciò deve di­ pendere dal fatto che porsi come argomento di ricerca un tema così ampio rasenta l’incoscienza; quando invece si è lavorato per anni, si è raccolto materiale e si sono focalizzati alcuni temi, l’impresa appare (erroneamente) più a portata di mano. Agli inizi degli anni Duemila, invece del consueto corso di Storia moderna che tenevo, proposi alla facoltà di Lingue e letterature straniere della mia università di tenere un corso di Storia dell’Europa: erano infatti gli anni euforici in cui l’euro stava per essere introdotto e, dopo l’implosione dell’Unione So­ vietica, molti paesi chiedevano di entrare nell’Unione europea. Mi sembrava che invece di insegnare una storia a dimensione europea fosse più onesto, a quel punto, insegnare direttamente Storia dell’Europa. Per fare ciò, la periodizzazione «moderna», cioè, secondo l’uso italiano, da Colombo a Napoleone, mi sembrò allora quasi inutile: per provare a capire cosa avevamo sotto gli occhi bisognava aprire lo sguardo a un’inquadratura molto più ampia, senza timore. Le obiezioni a un simile programma di insegnamento erano opposte e speculari. Da un lato, quella dell’eccessiva semplifi­ cazione: come si può argomentare in due ore il lascito che la civiltà classica greca e romana ha affidato all’Europa? E perché dedicare all’epopea sette, otto e novecentesca della nazione una sola lezione? Dall’altro, il pericolo era quello dell’eurocentri­ smo. Erano quelli gli anni in cui (almeno in Italia) esplodeva la cosiddetta world history e dunque focalizzare l’osservazione sul solo, piccolo continente europeo poteva apparire riduttivo, se non disdicevole. Insegni la storia d’Europa, mi veniva rimprove­

PREFAZIONE

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rato da qualche collega o da qualche studente, per riaffermarne implicitamente la supremazia? E non ti rendi conto che solo all’interno di una storia delle relazioni globali, ormai, una storia d’Europa è possibile? Si trattava di obiezioni non banali, alle quali è dedicato in parte il primo capitolo, che però ebbero l’effetto di rafforzare l’intenzione di scrivere questo libro. Qualsiasi partizione infe­ riore alla «storia universale» ha senso, a patto che il soggetto di studio non venga estrapolato dal contesto, isolato e, in defini­ tiva, stravolto. Ogni argomento storico deve essere considerato nelle interrelazioni più ampie che da esso si dipartono, che si tratti di un continente, di uno stato, di una città o di un villaggio. Ma non è la scala dell’osservazione che rende angusto o limitato un argomento, come hanno insegnato gli storici della microstoria: si può fare una storia localistica studiando una grande metropoli e si può fare una storia globale studiando una piccola comunità rurale. Quanto al pericolo della semplificazione eccessiva, esso è naturalmente insito in un’opera come questa, che non è quasi mai il risultato di ricerche di prima mano ma si appoggia sugli studi di altri storici e sulla discussione che ne è seguita. Si è tentato, per ogni argomento affrontato, di fornire un quadro quanto più possibile esaustivo delle ricerche compiute e dei risultati raggiunti, tenendo conto del dibattito storiografico più recente. Mi scuso, a tale proposito, per la sbrigatività con cui molte tesi e molti autori sono trattati. Il progetto che sta dietro a questo libro, ciò che si vuole proporre (immodestamente, ma apertamente), è una visione complessiva ma mìnima, cioè per quanto possibile sintetica, del percorso storico compiuto dall’Europa, individuando e provando a descrivere gli snodi, i processi e le trasformazioni principali che hanno condotto all’Europa di oggi. Dopo un capitolo introduttivo, il libro si sviluppa dunque in diciotto capitoli che mettono a fuoco periodi storici sempre più ri­ stretti: al X X secolo sono dedicati quattro capitoli, quasi una pagina ad anno. Tutti i capitoli hanno più o meno la stessa lunghezza: si è cercato in questo modo di evitare il primo dei due maggiori pericoli che si presentano agli autori di una sto­ ria d’Europa, e cioè la tentazione alla digressione. Per l’altro, e cioè il rischio di trasformare la trattazione in uno sfoggio di erudizione, ci si era predisposti da tempo coltivando con

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PREFAZIONE

passione non poche lacune. Il filo rosso che unisce i capitoli è di ordine cronologico, per cui il primo capitolo inizia con le trasformazioni di diecimila anni fa e l’ultimo finisce con la costruzione dell’Unione europea, ma vari capitoli analizzano temi che si dilatano su più secoli, per esempio l’affermazione della città europea o la lunga vicenda dello stato moderno. Naturalmente, un simile impianto presuppone scelte e opi­ nioni assolutamente soggettive: se alcune tesi o alcuni argomenti sono assenti è, salvo errori, perché sono stati considerati meno o per nulla importanti. L’obiettivo non è in alcun caso quello di scrivere la parola fine su questioni e problemi storiografici che, il più delle volte, sono per loro stessa natura irrisolvibili, quanto piuttosto quello di stimolare ulteriori approfondimenti, di indicare delle possibili vie per nuove letture o ricerche. A tale scopo si è scelto di non presentare una bibliografia dettagliata (che avrebbe occupato uno spazio eccessivo) quanto una sele­ zione che può servire come traccia per simili approfondimenti. Naturalmente si può comporre una storia dell’Europa da infiniti punti di vista, privilegiando le più disparate prospettive di analisi. Questo libro si è soffermato soprattutto sui temi offerti dalla storia politica, da quella economica, dalla storia militare, dalla storia sociale e dalla storia religiosa. Questi filoni principali sono stati incrociati quanto più frequentemente possibile con temi e problemi di storia demografica, di storia di genere, di storia delle mentalità. Si è trattato di una scelta programmatica e completamente opinabile, come sono altamente opinabili e discutibili l’esistenza e il perimetro delle definizioni appena avanzate, ma di una scelta indispensabile: provare a seguire tutte le prospettive, oltre a essere un obiettivo dispersivo e ir­ raggiungibile, avrebbe ridotto la compilazione a una trattazione a carattere para-enciclopedico e dunque manualistico.

Dal presuntuoso elenco che si è poco sopra avanzato manca, si nota al primo colpo d ’occhio, la storia della cultura. Questa assenza, deliberata, va spiegata. Non è in alcun modo dovuta a una concezione caudataria della cultura come so­ vrastruttura dei fatti economici o magari politici. Il problema è un altro: il pericolo era quello di partire dalla stesura di una storia d ’Europa e finire per redigere invece una «storia dell’idea di Europa», oggetto di studio interessantissimo che ha fruttato opere di grande utilità ma che esorbitava dai fini

PREFAZIONE

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molto più stringenti, o se si vuole banali, che ci si era posti. Questo, come si vedrà, non ha impedito che ogni qual volta possibile, e dunque assai frequentemente, gli elementi culturali che hanno incrociato i. fatti sociali, economici, politici siano stati presi in considerazione e analizzati. Non si troverà però un capitolo dedicato specificamente all’Illuminismo o, prima di esso, uno centrato sul pensiero classico: la cultura non è stata considerata come l’asse principale lungo il quale allineare le trasformazioni dell’Europa nelle sue diverse componenti. Il vero limite di un’operazione come quella tentata in questo libro è la difficoltà di controllare una bibliografia che cresce annualmente di centinaia di titoli e che è prodotta in tutte le lingue europee. Leggendo solo alcune lingue dell’Europa cen­ trale, occidentale e mediterranea non ho potuto seguire come avrei voluto alcune storiografie nazionali se non attraverso traduzioni o per lo spazio a esse dedicato in opere a carattere generale. Difficilmente avrei poi potuto scrivere questo libro senza Google, Wikipedia, le molte enciclopedie e dizionari biografici disponibili online (penso all’italiana Treccani) e senza la possibilità di avere a disposizione con un semplice click i testi originali di centinaia di opere di storia e letteratura. La stesura di questo libro avrebbe richiesto vari anni in più, con la conseguenza di dover aggiornare argomenti già trattati, generando quell’effetto a spirale perversa che gli studiosi che lavorano per tutta la vita a un libro che non riescono a portare a termine conoscono bene. Infine, i ringraziamenti. Non posso purtroppo ringraziare, come sogliono fare molti miei illustri colleghi, decine di fondazioni scientifiche e istituzioni culturali per il loro supporto alla mia ricerca, La situazione dell’ateneo in cui insegno e in generale dell’università italiana mi ha impedito di usufruire di periodi prolungati di studio e di ricerca, salvo qualche fugace spedizione, magari a margine di qualche convegno, in qualche biblioteca italiana o estera. Ringrazio dunque solamente, e in spirito per tutti i loro colleghi, il personale della Biblioteca umanisti­ ca e della formazione dell’Università degli Studi di Udine (di cui mi onoro di essere stato in passato il direttore), per avermi sostenuto nelle ricerche di centinaia di volumi, rispondendo sempre cortesemente e con efficienza alle mie, spesso nevrotiche o lacunose, richieste. Non posso egualmente citare uno per uno le decine di colleghi di ogni disciplina a cui ho rivolto domande spesso bizzarre o senza senso.

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PREFAZIONE

Conoscendo l’argomento della mia ricerca molti hanno risposto con umana comprensione, talvolta venata di compassione, ma sempre con competenza e professionalità. Citarli uno a uno sarebbe impossibile, e oltretutto molto rischioso perché inevitabilmente ne dimenticherei qualcuno. Li ringrazio dunque collettivamente ricordando, com’è d’obbligo, che ogni errore o mancanza è solo responsabilità mia. Egualmente ringrazio i miei studenti, che hanno assistito per anni alle mie lezioni, consumando - in maniera che mi risulta ancora in­ spiegabile - milioni di fogli di appunti e migliaia di giga di file mp3. Grazie alle loro (poche) domande in classe e alle loro (molte) pagine scritte per l’esame finale del mio corso ho percepito il cambiamento del tempo: l’entusiasmo attorno alla parola Europa che si respirava una quindicina d’anni fa, l’aumentare dell’euroscetticismo, l’arrivo e il colpire della crisi economica, la mancanza di prospettive di lavoro e la sfiducia verso un’Europa lontana e «altra». Spero con le mie lezioni di aver dato loro qualche strumento in più per capire il mondo in cui vivono e per provare a cambiarlo. Questo libro è dedicato ad Anna, Giulia e Sara. Per ringraziare loro le parole mi mancano. Avvertenza Per i sovrani, i papi e i personaggi che si citano in quanto hanno ricoperto cariche ufficiali, le date tra parentesi si riferiscono al periodo di svolgimento della carica: «(1848-1916)» accanto al nome di Francesco Giuseppe I d’Austria sta così a indicare gli estremi del suo lunghis­ simo regno quale penultimo imperatore dell’impero austro-ungarico. Si è scelto di indicare la precisazione «a.C.» o «d.C.» dopo le date: quando è assente, e non è desumibile altrimenti dal contesto, si deve intendere sempre «d.C.». Per indicare, per esempio, gli anni Quaranta del XVI secolo si è usata la formula «anni 1540», mentre «gli anni Quaranta» stanno a indicare gli anni Quaranta del Novecento. I nomi sono stati scritti nella grafia più comune, eventualmente sintetica: il nome Iosif Vissarionovic Dzugasvili dice forse poco alla maggior parte delle persone, mentre Iosif Stalin suona certamente più familiare. È stato usato il nome latinizzato di personaggi famosi, quando questo è in uso: Mercatore, dunque, e non Gerhard Kremer per indicare il cartografo tedesco. Le opere a stampa sono citate nel testo con il titolo della tra­ duzione italiana, salvo quando questo differisca sostanzialmente dal titolo originario. Le date accanto a esse si riferiscono invece alla prima edizione originale.

Capitolo primo

È possibile una storia d’Europa?

Che cos’è l’Europa? Fino a non molto tempo fa sui banchi di scuola di molti paesi europei (certamente in quello di chi scrive) si insegnava che l’Europa è una delle cinque grandi aree di terra emerse del pianeta, un continente, uno dei cinque cerchi che si in­ trecciano sulla bandiera olimpica, quello blu per l’esattezza. In realtà però, come risulta evidente dando una semplice occhiata a qualsiasi rappresentazione del globo, il principio basilare della nozione di continente, cioè l’isolamento di una massa terrestre per una porzione consistente di mare, per l’Europa non regge (vedi carta 1), Negli ultimi decenni la tradizionale divisione pentapartita del globo ha lasciato il posto a vari modelli alternativi: a cinque, sei o sette continenti, a seconda dei punti di vista. Nei paesi anglosassoni è diffuso il modello a sette continenti, nell’America latina quello a sei che distingue tra America del nord e America del sud, in Russia quello a sei continenti che considera invece l’Europa un tutt’uno con l’Asia (Eurasia) e che consente di non spezzare in due il più grande stato della Terra. Il Comitato olimpico internazionale aveva peraltro già provveduto a smentire che il barone de Coubertin (1863-1937) intendesse originariamente simboleggiare nei cinque cerchi i continenti: in un suo famoso discorso il promotore dei giochi olimpici moderni aveva infatti citato non i cinque continenti ma un po’ di paesi europei, l’America, il Brasile, la Cina e il Giappone (dimenticandosi tutta l’Africa). La questione se l’Europa sia o meno un continente, e soprattutto perché sia stata a lungo considerata tale, in realtà è assai complessa e riguarda da vicino l’idea stessa d’Europa, così come si è venuta a creare dall’antichità a oggi.

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È POSSIBILE UNA STORIA D ’EUROPA?

Poco accordo tra gli studiosi vi è sull’etimologia della parola Europa: se si fa riferimento al greco, dove il termine eurus significa «ampio», esso potrebbe richiamare l’immagi­ ne di una donna dal volto largo e bello; se invece si accetta un’origine semitica (eref ), Europa starebbe a indicare la sera, quindi l’occidente. In questo caso si tratterebbe di una tra le prime di una lunga serie di importazioni orientali. I contesti in cui il termine iniziò a essere usato sono due, uno mitologico e uno etnogeografico, Europa compare in molte genealogie mitologiche come figlia di Oceano e Teti (Esiodo, Teogonia, ca. 700 a.C.) o come figlia di Fenice (Omero, Iliade, V ili se­ colo a.C,), Il racconto più famoso, tuttavia, è quello del ratto d’Europa. Europa era una principessa fenicia che fu rapita da Zeus nelle sembianze di un toro e portata a Creta: qui i due si unirono ed Europa generò vari figli, tra cui Minosse, il costruttore del famoso labirinto. Non meno labirintico appare lo sviluppo del concetto geografico di Europa, che venne precisandosi lentamente accompagnando la progressiva presa di consapevolezza degli spazi mediterranei. Nell’7««o ad Apollo (VII-VI secolo a.C.) si distingue tra l’Europa, il Peloponneso e «le isole circondate dal mare»: sembrerebbe dunque che con il termine Europa si intendesse la parte continentale della Grecia. Per il poeta Pindaro (518-438 a.C.) essa invece coincideva già con la costa settentrionale del Mediterraneo, fino a Gadeira (Cadice), poco oltre lo stretto di Gibilterra, che segnava il limite del mondo conosciuto. Una trattazione ormai sistematica ci viene invece dal grande storico e viaggiatore Erodoto di Alicarnasso (tra 490 e 480-424 a.C.), il quale riferisce che tra i suoi contemporanei era ormai in uso dividere il mondo tra Europa, Asia e Libia (cioè Africa), anche se non sapeva chi avesse scelto queste denominazioni e perché. I confini geografici dell’Europa gli erano ormai abbastanza chiari: il mare del Nord a settentrione (la Scandinavia essendo ignota al mondo greco), a oriente il fiume Don, il Bosforo e il mar d’Azov. La delimitazione geografica dell’Europa avvenne conte­ stualmente alla sua precisazione etnografica e politica. Erodoto contrapponeva l’Asia, popolata da «barbari» sotto il dominio di un re o di un despota, all’Europa e ai greci, descritti come padroni di sé e sottoposti al solo dominio delle leggi (vedi in proposito il cap. III). Significa che i greci si consideravano eu­

È POSSIBILE UNA STORIA D’EUROPA?

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ropei? Non sembra così. Un secolo dopo, Aristotele (384/383322 a.C.) distingueva infatti tre categorie: «i popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli d’Europa», coraggiosi ma poco intelligenti; i «popoli d’Asia» intelligenti ma poco coraggiosi e dunque poco avvezzi a vivere liberi; e infine i greci che, manco a dirlo, avevano intelligenza e coraggio e quindi vivevano liberi, Però una prima linea di demarcazione tra europei e greci da una parte e asiatici dall’altra era tracciata, Il concetto geografico di Europa continuò ad affinarsi in età romana, stemperando la sua valenza ideologica. La tripartizione continentale venne confermata dal più importante geografo dell’antichità, Tolomeo (II secolo a.C.), quindi da Strabone (prima 60 a.C. -20 d.C. ca.), che descriveva abbastanza dettagliatamente i confini europei (continuando a ignorare la Scandinavia), e infine soprattutto dall’Historia naturalis di Pli­ nio il Vecchio (23-79 d.C.). Le colonne d ’Èrcole scomparvero come ultimo limite conosciuto a ponente, mentre a levante l’Ellesponto (i Dardanelli) e il Ponto Eusino (il mar Nero) continuarono a marcare il margine sud-orientale del continente, All’autorità degli antichi si aggiunse nei secoli dell’era cristiana quella dei Padri della Chiesa, che giustificarono i tre continenti sulla base del racconto biblico del diluvio universale. Tutte le genti del mondo discendono infatti dai tre figli di Noè: Sem, Iafet e Cam. Il primo sarebbe stato all’origine degli ebrei (Asia), Iafet a quella dei greci (Europa), mentre il più giovane Cam sarebbe stato il padre dell’Africa. Un giorno, tuttavia, Noè (che non aveva avuto una vita facile e aveva già passato i seicento anni) si ubriacò, e Cam, a differenza dei fratelli, osò guardarlo nudo. Risvegliatosi, Noè lo maledisse, assieme alla sua discendenza, a essere per sempre servo: questo spiegava il motivo per cui gli africani si potevano trarre in schiavitù. Il nostro modo di vedere la Terra, dunque, risale almeno a venticinque secoli fa: le scoperte dell’America, dell’Australia e dell’Antartide hanno solamente aggiunto pezzi di mondo sconosciuto a un nucleo già organizzato a partire dall’Ellade. Geograficamente l’Europa non ha alcuna unicità: è la parte prominente verso ovest di una grande massa di terra emersa che comprende, senza soluzione naturale di continuità, sia l’Asia sia l’Africa. L’ultimo colpo all’idea che i continenti abbiano una propria naturale giustificazione è stato infetto un secolo fa dalla teoria della deriva dei continenti, secondo la quale le

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È POSSIBILE UNA STORIA D ’EUROPA?

terre emerse formavano in origine un unico supercontinente (chiamato Rodinia) per poi separarsi secondo i fenomeni stu­ diati dalla tettonica a placche. Nell’età medievale e moderna l’idea geografica di Europa ha inglobato nuove terre. Oltre alle isole britanniche, già con­ quistate dai romani, vi entrarono a far parte i paesi scandinavi, che all’inizio erano apparsi un’isola, le Fasr 0 e r e l’Islanda, che si trova giusto in corrispondenza della faglia tra placca nordamericana e placca eurasiatica. Cipro, Rodi e molte altre isole nel mar Egeo, che apparterrebbero invece secondo il criterio della prossimità geografica all’Asia, ne facevano parte già da tempo. Alla vigilia delle grandi scoperte geografiche i confini dell’Europa apparivano così sostanzialmente definiti: il Mediterraneo a sud, l’Atlantico a ovest, il mare Artico a nord. Si prenda per esempio il mappamondo di fra Mauro composto nel 1459: disegnato senza l’ausilio delle coordinate di latitudine e longitudine, rappresenta l’Europa in una maniera considerevolmente precisa e proporzionata. E a oriente? Per molti secoli il problema vero della defi­ nizione geografica ma anche culturale dell’Europa è consistito nel determinare i suoi confini orientali. L’umanista Enea Silvio Piccolomini, che fu papa con il nome di Pio II (1458-64), iniziava il suo De Europa (1458) con la descrizione della Transilvania e dell’Ungheria. Qualche tempo dopo, tanto Niccolò Machiavelli (1469-1527) quanto Erasmo (1466/69-1536) e Melantone (14971560) concordavano nell’indicare la Polonia come l’avamposto d’Europa contro le invasioni asiatiche. Con l’occidentalizzazione della Russia promossa dalla dinastia dei Romanov (XVII secolo) l’idea che anche il grande paese orientale dovesse essere incluso nello spazio europeo cominciò progressivamente a imporsi, ma la questione è ancora, agli inizi del XXI secolo, irrisolta. Immaginare un’Europa senza Tolstoj, Musorgskij e il museo dell’Ermitage è impensabile, e lo stesso leninismo era figlio di un’ideologia europea. Ma dove finisce, allora, l’Europa? Tra Sette e Ottocento, mentre la colonizzazione russa avan­ zava fino alla Kamchatka e al Pacifico, la soluzione che venne escogitata e che cominciò a entrare convenzionalmente in uso fu separare la Russia in una parte europea e una asiatica, sulla base di una linea immaginaria che dal mar di Kara segue il profilo degli Urali fino alle steppe kazake e quindi al Caucaso, Poco importa che gli Urali non rappresentino in alcun modo

È POSSIBILE U SA STORIA D'EUROPA?

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un confine, né orograficamente, in quanto non ritagliano alcuna evidente porzione di territorio, né etnicamente, linguisticamente o altro, Più che una barriera gli Urali paiono piuttosto «il pilastro di una porta» (L, Febvre), la grande porta delle pianure russe che si spalanca al loro margine meridionale, il varco attraverso cui sono entrati per millenni i popoli asiatici a rivitalizzare l’Europa. Questa Europa che va dagli Urali all’Atlantico e da Capo Nord a Creta è dunque, in definitiva, un concetto metageo­ grafico, un insieme di significati culturali e storici trasmessi attraverso lo sguardo apparentemente oggettivo della geografia. Una ripartizione arbitraria al pari di quelle usate dagli storici che ricorrono a grandi periodizzazioni inventate per sezionare il proprio oggetto di studio e analizzarlo meglio. Tale conce­ zione rientra in una organizzazione spaziale della Terra che si è diffusa sulla scia dell’imposizione della supremazia europea sul pianeta: così come oggi, in tutto il mondo, il calendario è sincronizzato sul calcolo europeo del tempo che parte dalla nascita di Cristo e il sistema dei fusi orari parte dal meridiano zero di Greenwich, stabilito nel 1884 ai tempi della massima espansione dell’impero britannico, così le enciclopedie, gli atlanti e le carte geografiche di tutto il mondo sono formulati a partire dalla nozione di continente che ha le sue radici nella Grecia classica. Come osservava parecchi anni fa Lucien Febvre, «la nozione geografica d’Europa non è altro che una nozione storica», e come tutti i soggetti storici l’Europa non può che avere confini mobili, continuamente risistemabili. La versione degli spazi terrestri imperniata sul ruolo centrale dell’Europa filtra continuamente, senza che ce ne accorgiamo. Si guardino i planisferi in uso, per esempio quello usato da Google Maps. E costruito, come gran parte delle carte di questo libro, secondo i crismi della proiezione cartografica più nota e diffusa, quella cosiddetta di Mercatore (1512-94) (dal nome del geografo tedesco che la realizzò per primo nel 1569). Questa proiezione, che era funzionale alla navigazione marittima di un tempo, distorce in maniera crescente, più ci si avvicina ai poli, la dimensione e la forma delle aree rappresentate, con il risultato di far apparire più grandi i paesi europei e l’America del nord e ridimensionare i paesi attorno all’equatore, guarda caso i più poveri sulla Terra: in realtà, per esempio, la Groen­ landia, che appare grande quanto l’Africa, è più piccola della

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f: w i s s i u i i .i : u n a s u ik ia d ' e u k o p a ?

sola Algeria, e la Finlandia, che appare estesa quasi quanto l’India, è di fatto considerevolmente inferiore. Varie proiezioni alternative sono state avanzate nel tempo, senza giungere a una soluzione condivisa. Negli anni Settanta, in un clima di crescente terzomondismo, ha avuto per esem­ pio un considerevole seguito la cosiddetta «proiezione GallPeters», che è stata adottata dall’Unesco e promossa per la diffusione nelle scuole di tutto il mondo. L’Europa vi appare riproporzionata rispetto all’Africa o all’America meridionale, dimostrando visivamente come una parte veramente piccola del mondo sia riuscita a controllarne vastità immense. La proiezione di Mercatore è stata accusata di imperialismo car­ tografico e di trasmettere una visione del globo eurocentrica. Anche la proiezione Gall-Peters presenta tuttavia inevitabili distorsioni e la questione non sembra risolvibile perché in realtà è impossibile trasformare la superficie del globo in una superficie piana senza sacrificare alcuni elementi di verità. Dell’Europa, di questa regione storica di dieci milioni di chilometri quadrati, qualche basilare elemento fisico va indi­ viduato. Per esempio l’estrema pervasività degli spazi marini che penetrano a fondo lungo l’asse mare del Nord-m ar Bal­ tico a settentrione e contornano il continente a meridione, e che fanno si che in buona parte del continente nessun punto interno disti dalla costa più di settecento chilometri (molto meno nelle penisole). Solo nell’Europa orientale e russa questa distanza aumenta, Se si aggiunge che il rapporto tra lunghezza delle coste e superficie continentale è doppio rispetto a quello asiatico, che moltissimi fiumi risultano navigabili e che il cli­ ma, per la generale vicinanza dei mari e per gli influssi della corrente del Golfo, ha caratteri particolarmente temperati, compatibilmente con la latitudine, se ne può concludere che l’Europa si è rivelata nel tempo un habitat eccezionalmente favorevole alla vita della specie umana. Al pari della sua nozione geografica, anche l’idea di Europa come unità culturale e storica può essere ricostruita nelle sue linee evolutive generali. Il meccanismo che ha maggiormente contribuito alla sua formazione è la contrapposizione etnogra­ fica. L’archetipo è quello greco della dicotomia tra le libertà deH’Ellade e il dispotismo dei barbari, a cui sarebbe seguita, durante i secoli dell’espansione romana, l’opposizione tra ro­

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mani e barbari (vedi capp. Ili e IV). È tuttavia assai difficile considerare le grandi civiltà classiche come civiltà europee: nonostante la Grecia abbia inventato l’Europa, e Roma abbia dato vita a un enorme impero che aveva la sua capitale in Europa, né il mondo greco né quello romano erano mondi europei. La loro natura era prettamente mediterranea. E piuttosto il lungo arco di tempo che nella periodizzazione tipicamente europea è stato chiamato Medioevo a essere considerato, da molti storici, l’epoca in cui si fa strada l’idea di Europa, Le opinioni sulla tempistica di tale avvenimento divergono, e nascita dell’Europa come entità storico-culturale e nascita dell’Europa come realizzazione politica tendono a con­ fondersi. Per il grande storico francese Marc Bloch (1886-1944), per esempio, «l’Europa sorge quando l’impero romano crolla»; per altri studiosi l’evento decisivo fu l’espansione islamica tra VII e V ili secolo {vedi cap. IV), per altri il padre dell’Europa è stato Carlomagno, e il suo impero sarebbe stato «il lievito che ha fatto fermentare la pasta europea» (L. Febvre) (vedi cap. V); per altri ancora, infine, l’Europa moderna sarebbe nata attorno al Mille (vedi cap. VI). Alcuni elementi che si svilupparono nell’Europa medievale contribuirono in effetti a dare sostanza all’idea di un gruppo di popoli e territori con caratteristiche comuni. Per esempio l’uso esteso del latino come lingua liturgica e colta, oppure, dal XII secolo, la formazione di un circuito internazionale di università all’interno del quale si condividevano programmi di studio, testi scolastici, maestri e, per l’appunto, una stessa lingua veicolare. Altri fattori culturali contribuirono a tale processo: la diffusione a macchia d’olio di linguaggi estetici come il gotico, la persistente considerazione assegnata agli antichi e alla loro lezione, modelli culturali come la cavalleria o l’amor cortese, la vita del castello e quella della città, la paura della peste, la splendida fioritura artistica e culturale del Rinascimento (vedi capp. VI e VII). L’elemento che più di ogni altro contò per la formazione di una prima coscienza europea fu, tuttavia, il cristianesimo, la religione che si irradiò dal bacino del Mediterraneo fino alla Scandinavia e alle steppe russe {vedi cap. IV). A tal pun­ to che, a un certo punto della storia europea, christianitas ed Europa divennero termini interscambiabili per indicare il medesimo spazio sociale e politico: un mondo diviso fra

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p o s s n m .i : u n a s t o r i a d 'E u k o p a ?

cristiani e tutti gli altri, al cui centro vi era, almeno fino al Grande Scisma dell’X I secolo, una sola autorità spirituale, quella del papa di Roma. A lungo si è detto che le crociate sarebbero state un fondamentale momento di elaborazione dell’Europa cristiana: si trattò in realtà di fenomeni complessi, che solo retrospettivamente sono stati trasformati in episodisimbolo dello scontro di civilizzazione tra Europa e Islam. Negli stessi secoli, la presenza araba in Sicilia e in Spagna consentiva uno scambio culturale importantissimo. La lenta costruzione di un’idea condivisa d’Europa cri­ stiana si basò invece, piuttosto, sulla diffusione capillare di un insieme omogeneo di culti, come quello dei santi, e di riti che penetravano fin nei momenti più intimi della vita quotidiana, Si venne, certo, a formare anche come differenziazione e scontro rispetto a due soggetti diversi: l’«infedele» da una parte e l’e­ retico dall’altra, ma ciò avvenne soprattutto dopo la conquista ottomana di Costantinopoli (1453), quando gli stati europei si trovarono a confrontarsi con uno scomodo e potente vicino, insediato stabilmente nei Balcani (dunque nel cuore originario d’Europa) e che accarezzava ricorrentemente l’idea di issare la mezzaluna sulle torri delle capitali europee. Sia che si consideri l’impero ottomano un nemico che premeva insistentemente alle porte, sia che lo si veda, più riduttivamente, come un vicino scomodo con il quale alcune cose andavano di tanto in tanto messe in chiaro, per almeno tre secoli la presenza ottomana costituì una formidabile sfida che costrinse più volte vari stati europei a coalizzarsi sotto la comune bandiera della cristianità. L’altro nemico, quello interno, finì invece per sortire effetti opposti, di disgregazione e non di coesione. Le tendenze aH’autoriforma, cioè a riportare il cristianesimo a un’origina­ ria purezza, furono combattute nei secoli dal cattolicesimo romano attraverso lo strumento teologico dell’eresia. Agli inizi del XVI secolo si rivelarono incontenibili e spaccarono la cristianità (vedi cap. IX). La millenaria identificazione dell’Europa con il suo credo cristiano entrò allora in crisi, e i caratteri condivisibili dovettero necessariamente essere ricercati altrove. Sarebbe dunque stato il tramonto del sogno della respublica christiana l’atto di fondazione di una nuova, più matura consapevolezza dell’Europa: «in questo processo di dissolvimento del vecchio ideale [venne] fuori, più chiara e netta, l’idea di Europa» (F. Chabod).

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Nel frattempo, tuttavia, gli europei avevano sperimentato un incontro imprevisto, quello con le popolazioni del Nuovo mondo, la cui scoperta sconvolse un ordine del globo che pog­ giava da duemila anni sulle certezze bibliche (vedi cap. Vili). Da dove provenivano gli indios scoperti da Colombo? Perché la Bibbia non ne parlava? Sotto il profilo teologico ed esegetico si avanzò l’ipotesi che si trattasse delle tribù d’Israele di cui si era perduta notizia dopo la schiavitù babilonese, ma ciò che contò di più per la coscienza europea fu trovarsi di fronte un Altro profondamente diverso. Le reazioni degli europei all’impatto con Vinàio furono differenti, tutte però in qualche modo allineate sul registro della superiorità della razza bianca europea: sia che i nativi americani fossero considerati sub-uomini da schiavizzare alla pari dei neri d’Africa, sia che fossero visti come dei buoni e ingenui selvaggi da educare e portare sulla strada di Cristo, l’incontro con il continente inatteso si trasformò per l’Europa in una gigantesca conferma della propria missione civilizzatri­ ce, una prorompente iniezione di autostima. L’esito stesso del contatto, che si risolse in un genocidio, fu interpretato come un segnale della superiorità europea, e in parte, per esempio per quanto riguarda la tecnologia militare, lo era. Nella penetrazione in Asia l’espansionismo europeo ebbe caratteri e significati in parte diversi: la civiltà asiatica era considerata superiore, e la conquista dei mercanti indiani e del sudest asiatico, da parte di portoghesi, olandesi e infine inglesi, fu promossa e soste­ nuta come una vera e propria intrapresa commerciale. Anche in questo caso, seguì la missione evangelizzatrice, che tuttavia raccolse scarsi risultati (Filippine a parte). Persiani, germani, slavi, arabi, turchi, eretici, indios di varia origine e collocazione: fu, dunque, principalmente attraverso una contrapposizione ideologica rispetto a questi soggetti portatori di alterità che l’idea di cosa fosse l’Europa e di cosa fossero gli europei si è faticosamente e contraddittoriamente evoluta per quasi due millenni, fino all’età dei Lumi. Mentre tale lungo processo magmatico si realizzava, l’idea di un’Eu­ ropa unita aveva tuttavia ripercussioni assai ridotte nella vita collettiva degli stati e delle popolazioni. La storia effettuale d’Europa nell’età moderna, come si avrà modo di analizzare, può anzi essere descritta come un susseguirsi quasi ininter­ rotto di conflitti bellici infra-europei, ai quali non riuscì a

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porre alcun rimedio la nascita della diplomazia moderna (dal XV I secolo) e di una prima nozione di diritto interna­ zionale (dal XV II secolo) {vedi cap. X). Gli appelli alla pace continentale si moltiplicarono da parte di scrittori e studiosi, assieme all’immaginazione di mondi utopici dove la guerra non esisteva, ma cominciò comunque a formarsi un primo abbozzo di idea secondo cui solo l’unità degli stati europei avrebbe potuto garantire una concordia perpetua. Una grande spinta all’idea intellettuale d’Europa proven­ ne dall’Illuminismo (vedi cap. XIII). Ispirandosi a princìpi universali come l’eguaglianza naturale degli uomini, i grandi pensatori dei Lumi propagandarono un’idea ottimistica e at­ tiva dell’Europa come terra d’elezione della libertà politica ed economica, del governo delle leggi, della liberazione dall’intol­ leranza e dall’ignoranza, del progresso letterario e scientifico. Nel 1751 Voltaire descriveva l’Europa come una specie di grande repubblica divisa in molti stati, alcuni monarchici, altri misti [.,,] ma tutti simili fra loro. Hanno gli stessi fondamenti religiosi, anche se divisi in molte confessioni. Hanno gli stessi princìpi giuridici e politici, sconosciuti invece alle altre parti del mondo.

L’Europa degli illuministi rimaneva, tuttavia, soprattutto una «società degli spiriti» (Voltaire), cioè, nella migliore delle ipotesi, un alto e nobile ideale condiviso da menti superiori destinato a indicare a tutti la via per il futuro (nella peggiore, semplicemente un buon argomento di conversazione nei salotti borghesi e nelle corti aristocratiche). Il Settecento fu secolo di conflitti estenuanti tra le nazioni europee, al cui termine incominciò a riscuotere successo un nuovo valore, antitetico al cosmopoliti­ smo illuminista, per cui combattere e morire: la nazione. L’idea d’Europa, attorno alla quale peraltro si moltiplicavano sempre di più i trattati e le proposte pratiche di realizzazione, sarebbe allora entrata nel lungo tunnel destinato a terminare solo con la fine del secondo conflitto mondiale nel 1945 {vedi cap. XIX). Prima che il nazionalismo ottocentesco si trasformasse in competizione tra le nazioni {vedi cap, XIV), lo storico e uomo politico francese Francois Guizot (1787-1874) rilancia­ va, fissandolo nella sua celebre Storia della civiltà in Europa (1828-30), un paradigma destinato ad avere lunga fortuna: l’Europa è una civiltà, vale a dire un insieme complesso di

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costumi, vita intellettuale, avanzamento politico ed economico che può essere definito in termini di «progresso e sviluppo». Raccogliendo l’eredità della concezione illuministica di civiltà come processo (civilisation), Guizot ricostruiva la storia euro­ pea dall’età romana fino all’ottocentesca Europa delle nazioni attraverso varie tappe, tutte funzionali al principio finalistico deU’incivilimento. Il punto d’avanzamento massimo della civiltà europea era dato, a suo avviso, dalla società inglese, ma era stata storicamente la Francia «il centro, il focolare della civiltà dell’Europa»: alla superiorità della civiltà europea nel mondo corrispondeva, dunque, quella francese all’interno dell’Europa. Questa concezione della funzione planetaria della civiltà europea, ispirata all’idea di una superiorità autoevidente, aveva radici lontane, che come si è visto affondavano nel patrimonio culturale classico e si erano irrobustite nell’espansione colo­ niale europea della prima età moderna. Sfocerà nel sottofondo ideologico utilizzato dalle potenze europee per giustificare il colonialismo ottocentesco: il principio cosiddetto del «fardello dell’uomo bianco», l’idea che la missione storica spettante ai grandi paesi europei fosse quella di consentire al resto del mondo di raggiungere il grado di sviluppo e progresso che essi avevano attinto (vedi cap. XV). Dal primo Ottocento il termine civiltà (oppure quello te­ desco Kultur, il cui campo semantico in parte coincideva) ha mantenuto, più o meno velatamente, tale valenza gerarchica, anche in storici ideologicamente contrari a ogni forma di impe­ rialismo. Alcuni vi si sono opposti. Il tedesco Oswald Spengler (1880-1936) in 11 tramonto dell’Occidente (1918) rigettò per esempio lo schema della centralità europea proponendo invece una ricostruzione policentrica della storia universale basata su otto civiltà, autonome e indipendenti l’una dall’altra. L’inglese Arnold J, Toynbee (1889-1975) nella sua storia universale (A Study o/History, 1934-61) descriveva quindi il percorso di ben ventisei civiltà nel corso della storia umana, sostenendo che vi erano state almeno tre civiltà europee: una «civiltà greco­ romana», una «civiltà occidentale» e una «civiltà ortodossa». Recentemente, alla prospettiva secondo cui la storia e il mondo attuale non possono essere compresi se non a partire dall’eccezionaiità dell’esperienza europea e occidentale è stato dato il nome di eurocentrismo, un termine che implica l’ac­ cusa di imperialismo culturale. Eurocentrica sarebbe dunque

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tutta la visione della storia europea che ignora le interazioni dell’Europa con gli altri continenti e ne ricostruisce il percor­ so storico solo attraverso una serie di precocità e successi: la filosofia greca, lo stato romano, lo spirito del cristianesimo, lo splendore del Rinascimento, la rivoluzione scientifica, quella industriale ecc., ignorando o sottovalutando le altre esperienze non europee che hanno avuto un’evoluzione diversa in quanto implicitamente inferiori. È, quella di eurocentrismo, un’accusa che brucia e ha sti­ molato negli ultimi anni una prospettiva più aperta negli studi e una maggiore cautela nelle definizioni, Nell’introduzione comune ai volumi della collana «Fare l’Europa», pubblicata negli anni Novanta contemporaneamente in Germania, Inghilterra, Spagna, Italia e Francia e tradotta praticamente in tutte le lingue euro­ pee, il grande medievista Jacques Le G off (1924-2014) si è per esempio guardato bene dal definire cosa si debba intendere per Europa, limitandosi a dire che essa «esiste infatti da un tempo lunghissimo, disegnata dalla geografia, modellata dalla storia, fin da quando i Greci le hanno dato il suo nome». Una delle prospettive più politicamente corrette e seguite è, così, negli ultimi anni, quella che sottolinea la poliedricità dell’esperienza storica europea, che non è esemplificabile dalla vicenda di un unico popolo o di un solo paese ma è piuttosto una polifonia composta da linee melodiche e ritmiche diverse. La caratteristica peculiare della storia europea sarebbe dunque, a differenza di altre civiltà, la sua diversità interna, l’essere il risultato di vari popoli e delle relative tradizioni storiche e culturali: «L’unità dell’Europa si realizza nella pluralità dei suoi popoli», scriveva già nell’Ottocento un altro grande storico, Leopold von Ranke (1795-1886). Il principio riecheggia nella frase adottata nell’anno 2000 come motto dall’Unione euro­ pea, dopo un concorso che ha coinvolto ottantamila studenti europei: «Uniti nella diversità». Per enfatizzare l’unità, più che la diversità, non sarebbe stato male adottarlo nella sua forma originale, «In varietate concordia», espressa nella prima e finora unica lingua transnazionale europea, il latino, anziché tradurlo nella babele delle lingue dell’Unione. Nulla meglio della storia linguistica d’Europa testimonia la ricchezza e al contempo la diversità interna del percorso storico europeo. Le lingue dell’Europa di oggi sono in grande maggioranza di origine indoeuropea (lingue romanze, germa­

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niche, slave, celtiche, baltiche, il greco, l’albanese e l’indoario rappresentato dalle varie parlate zingare), ma esistono anche gruppi linguistici e lingue isolate non-indoeuropei; il basco, le cui origini restano ignote, le lingue ugro-finniche, il samoiedo parlato nella Russia settentrionale, alcune lingue della famiglia turca, una lingua della famiglia mongola cioè il calmucco parlato nella regione del Volga, e una lingua semitica, il maltese, Que­ sto straordinario mosaico è il frutto dell’apertura dell’Europa, sin dalle epoche cosiddette «preistoriche», alle migrazioni di popolazioni provenienti da altri continenti. Il latino medievale e il greco bizantino dominarono, come lingue di cultura, l’età altomedievale: a esse si affiancò in se­ guito lo slavo ecclesiastico, prima tra genti slave e poi anche neolatine. A partire dal VII-VIII secolo appaiono in tutta Europa le testimonianze scritte di numerose lingue: quelle di derivazione latina, dette «volgari romanze», come la lingua d’oi'l, o il volgare campano, da cui si fanno discendere il francese e l’italiano moderno; l’anglosassone, il basso francone e altre in area germanica, da cui, attraverso un lungo percorso di molti secoli, si formeranno l’inglese e il tedesco moderno; l’antico irlandese in ambiente celtico; il russo antico, lo sloveno, il ceco e il polacco in area slava: l’ungherese in area ugro-finnica e così via. Anche sotto il profilo linguistico i secoli attorno al Mille rappresentarono un punto di svolta. L’intreccio tra fenomeni culturali e vicende storico-politiche influenzò in modo determinante la trasformazione incessante delle lingue europee: le crociate per la conversione dei popoli baltici agli inizi del Duecento contribuirono alla germanizzazio­ ne delle parlate locali, mentre la penetrazione franco-normanna in Gran Bretagna dopo la battaglia di Hastings (1066) determinò una romanizzazione della cultura e della lingua anglo-sassone. L’adozione del francese da parte di Francesco I Valois (1515-47) come lingua amministrativa ufficiale, la lotta portata avanti da Enrico V ili Tudor (1509-47) per l’inglese contro il gallese e l’irlandese e la diffusione di un tedesco standard a seguito della traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero (1483-1546) sono solo alcuni aspetti dell’uniformazione linguistica operata dalle nascenti monarchie nazionali e dalle nuove confessioni religiose riformate: i prodromi di una relazione che si farà nei secoli sempre più stretta fra territorio, lingua e nazione e che avrà nel X IX secolo il suo punto culminante.

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In tale processo di precisazione (o discriminazione) linguisti­ ca la letteratura e la scienza giocarono, naturalmente, un ruolo fondamentale. Basti pensare al «siglo de oro» della letteratura spagnola oppure alla battaglia degli scrittori del movimento dello Sturm und Drang per affermare il tedesco come lingua di cultura. Una delle cose più scandalose e indisponenti del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), con il quale lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642) pro­ muoveva l’eliocentrismo facendo finta di combatterlo, era che fosse scritto in italiano, e dunque comprensibile da una platea vasta di persone. Il Novecento ha visto la formalizzazione di molte lingue regionali e il loro riconoscimento tramite l’insegnamento scolastico, senza che la trasformazione delle lingue cosiddette «nazionali» s’interrompesse. Nel 1976, alla proclamazione della nuova Repubblica greca la lingua popolare (dimotikì) fu pro­ clamata lingua ufficiale dello stato, risolvendo una lunghissima diatriba a sfavore della lingua pura (katharèvousa); negli anni Novanta, dopo la disintegrazione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, il serbo-croato si è scisso in due lingue sorelle ma diverse, il serbo e il croato; nel 2006 è stata decisa una riforma ortografica del tedesco, vale a dire della lingua naturale parlata dal maggior numero di persone nell’Unione europea, che non sarebbe probabilmente stata possibile senza l’unificazione della Germania. Come tutti gli altri continenti anche l’Europa linguistica rimane, in sintesi, un cantiere aperto. Nell’età dell’inglese come lingua globale (lingua franca o lingua imperialista, a seconda dei punti di vista), l’Unione europea ha ventiquattro lingue ufficiali in rappresentanza dei ventotto stati membri (bulga­ ro, ceco, croato, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese), ma riconosce circa sessanta lingue regionali o minoritarie. Non meno variegata e ricca è l’Europa che non fa parte dell’Unione europea. In conclusione: è dunque possibile scrivere la storia sintetica di un soggetto impreciso, arbitrario, tautologico, pretenzioso, ideologico come l’Europa? Tutto sommato crediamo di sì, anche se il rischio è quello di scrivere una storia che tratti solo dei suoi protagonisti più noti trascurando tutti gli altri,

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oppure quello di selezionare gli argomenti da trattare sulla base di quello che si vuole dimostrare o, ancora, di apportare solo gli elementi a favore delle proprie tesi ignorando quelli contrari. Insomma: i rischi consueti che si corrono scrivendo qualsiasi libro di storia. Certo, si tratterà di una storia d’Europa che non potrà essere accusata di eurocentrismo solo perché si concentra sul proprio oggetto di studio. Ma che cercherà, per quanto pos­ sibile, di considerare tutte le relazioni che nei suoi millenni di storia il continente europeo ha intessuto con i suoi vicini, quelli più prossimi e quelli più lontani. Non si periterà di elencare i record, veri e presunti, della civiltà europea, perché i grandi cambiamenti nella storia dell’umanità non nascono mai dal nulla, hanno sempre cause molteplici e padri diversi, molti dei quali, a distanza di secoli, ormai difficili da rintracciare. Né si ordinerà lo scorrere delle vicende secondo le tradizionali periodizzazioni (età antica, Medioevo, età moderna ecc.) che saranno utilizzate solo in senso generico. Insomma, per quanto possibile, una storia a più dimensioni, che non considera l’Europa come l’ombelico del mondo ma come il luogo dove si è svolta un’affascinante, anche se spesso tragica, esperienza umana. Questa storia è utile o addirittura indispensabile per formare una coscienza europea? Può servire a dirci, come europei, chi siamo e dove andiamo? Domande difficili, alle quali uno storico si sottrae volentieri: prima è importante provare a capire da dove siamo venuti.

Capitolo secondo

Le radici prime dell’Europa

Il quadro delle conoscenze che abbiamo sulla storia prima dell’Europa è un mosaico poco leggibile di cui ignoriamo sog­ getto, forma nonché numero delle tessere, molte delle quali sono probabilmente andate perdute per sempre. Se in passato hanno lavorato alla sua ricostruzione quasi esclusivamente gli archeologi e i linguisti, negli ultimi decenni se ne è interessata una lunga serie di scienze e discipline diverse: dalla genetica delle popolazioni alla biogeografia, dall’antropologia alla so­ ciologia, all’epidemiologia, all’ecologia ecc. Tutte queste disci­ pline accademiche sono soggette a una velocissima evoluzione, dovuta anche allo sviluppo incessante di nuove metodologie scientifiche; i loro risultati sono quindi continuamente ridiscussi e rivisti. Squarci improvvisi di luce rischiarano d’improvviso questioni rimaste nell’oscurità per secoli, mentre conoscenze ritenute assodate vengono di colpo rimesse in discussione. La storia delle radici prime dell’Europa è, insomma, un gigantesco, affascinante enigma. Ricerche recenti, incrociando analisi sul Dna mitocondriale di individui di tutti i continenti ed evidenze paleoantropolo­ giche, sono giunte alla conclusione che tutti gli esseri umani provengono da un numero relativamente ridotto di antenati, vissuti nell’Africa subsahariana tra 200 e 150 mila anni fa. Secondo questa teoria (nota come Recent African Origin o Out of Africa), una popolazione di qualche decina di migliaia di individui cominciò a espandersi 80-70 mila anni fa dall’Africa in Asia e quindi negli altri continenti, sostituendo vari gruppi di ominidi autoctoni. I tempi e le modalità di tale espansione (o delle varie ondate di espansione che si sarebbero succedute) sono oggetto di ampia discussione. Secondo un’ipotesi recente, un piccolo gruppo dotato di abilità superiori di linguaggio, tecnologie sviluppate, e capace di costruire mezzi nautici

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avrebbe raggiunto la penisola arabica attraversando il mar Rosso e da qui avrebbe dato vita alla progressiva diffusione deìl’Homo sapiens sapiens in Asia e in Europa, grossomodo 40 mila anni fa. Se consideriamo dunque solo la nostra sottospecie, i pro­ genitori degli attuali europei sarebbero provenuti dall’Africa e, attraverso un lunghissimo processo durato diverse migliaia di anni, avrebbero popolato la propaggine occidentale del blocco continentale eurasiatico, l’Europa, I cinque scheletri rinvenuti nel 1868 presso la falesia di Cro-Magnon e il villag­ gio di Les Eyzies-de-Tayac-Sireuil, nel sud della Francia, che danno il nome ai primi esseri umani «moderni» scoperti nel nostro continente, sono stati datati a 28 mila anni fa. Altri ri­ trovamenti fanno risalire la presenza europea di Homo sapiens sapiens fino a 43 mila anni fa: non è azzardato pensare che il popolamento dell’uomo moderno in Europa abbia avuto luogo entro questa forbice cronologica. Prima di costoro, tuttavia, l’Europa era abitata da un’altra sottospecie del nostro genere, YHomo sapiens neanderthalensis, così chiamato per i resti rinvenuti in una valle pochi chilome­ tri a est di Dusseldorf nel 1856. Nonostante tra i primi nomi avanzati per indicare questa classe di umani vi fosse quella di Homo stupidus, l’uomo di Neanderthal aveva in realtà una scatola cranica più grande della nostra. Varie teorie sono state avanzate da un secolo a questa parte per la sua estinzione, che ebbe luogo nello stesso arco temporale durante il quale si diffuse in Europa l’uomo di Cro-Magnon: il semplice mesco­ lamento delle due specie (,interbreeding) che avrebbe portato alla scomparsa della più vecchia, le conseguenze di un’eruzione vulcanica (che non si capisce come avrebbe risparmiato invece i soli sapiens sapiens), e infine l’ipotesi più accreditata, quella di una serie di conflitti anche violenti tra le due specie, dai quali sarebbe sopravvissuta quella tecnologicamente più progredita. L’uomo di Neanderthal avrebbe avuto la meglio perché aveva a disposizione un kit evolutivo più efficiente: strumenti più sofisticati (armi da taglio in pietra, forse proiettili in pietra), un migliore sistema di comunicazione grazie a una maggiore abilità di linguaggio e soprattutto un sistema sociale che dava vita a gruppi più estesi (presumibilmente fino a cinquecento individui), mentre i Cro-Magnon avevano relazioni meno am­ pie (centocinquanta individui al massimo). Questa struttura

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sociale estesa sarebbe stata resa possibile e rinforzata dall’arte, da riti e cerimonie. Purtroppo, però, nessun Neanderthal si è preoccupato di farci sapere come siano andate veramente le cose, quindi è probabile che ci sarà ancora molto da fare prima di arrivare a conclusioni condivise. Il lungo periodo che intercorre tra l’affermazione deìYHomo sapiens sapiens e il Neolitico è una delle fasi più affascinanti ma oscure della storia d’Europa. I reperti antropologici e archeologici provenienti da centinaia di siti diversi consentono di rico­ struire per grandi linee le diverse fasi di sviluppo delle società di cacciatori-raccoglitori che abitarono il continente, compresi i grandi spostamenti legati all’ultima glaciazione (25-13 mila anni fa). Le straordinarie pitture rupestri di Chauvet e Lascaux (Francia) o di Altamira (Spagna), databili fin oltre 30 mila anni fa, fanno intuire qualcosa del pensiero e dell’arte di questi popoli primitivi: le scene di animali e di caccia dipinte sulle loro pareti testimoniano una dimensione di comunione intima con la natura che doveva costituire l’elemento fondamentale della vita di questi gruppi umani. La «Venere di Hohle Fels», un amuleto a forma di donna intagliato nell’avorio della zanna di un mammut, ritrovata nel 2008 a Schelkingen in Germania e databile tra i 35 e i 40 mila anni fa, costituisce il più anti­ co esempio di scultura, se non addirittura di arte figurativa, nota. Ci sarà modo di ritornare sulla diffusa presenza nell’arte preistorica della figura della donna. Circa 10 mila anni fa si aprì, anche in Europa, un capitolo nuovo per l’umanità, la cosiddetta «transizione neolitica». Il passaggio da un’economia e da una società basate sulla raccolta di piante e dei loro frutti e su caccia e pesca a un sistema basato invece sull’addomesticamento delle piante e degli animali è consi­ derato il primo dei due più importanti processi di trasformazione nella vita della nostra specie. Poiché in alcune zone remote del globo esistono ancora gruppi di cacciatori-raccoglitori, si può dire che si tratti di una trasformazione ancora in corso, dopo diverse migliaia di anni. Molto più recente - è iniziato appena 250 anni fa ed è ancora sotto i nostri occhi, ma molto più veloce nella sua capacità di conquistare il pianeta - è invece il secondo fondamentale passaggio che ha coinvolto tutta la specie umana, e cioè la rivoluzione industriale. La coltivazione dei cereali, il prodotto agricolo più impor­ tante per la dieta dell’uomo, si sviluppò separatamente, per

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motivi ancora in larga parte ignoti, in varie parti del globo non prima di 10-12 mila anni fa. L’addomesticamento del farro, dell’Einkom, l’antenato del frumento, e dell’orzo - i cereali che sarebbero diventati predominanti in Europa - ebbe luogo tra 7000 e 9000 anni fa nell’area che va dall’Anatolia alla pe­ nisola arabica, la famosa Mezzaluna fertile, dove cominciarono a essere coltivati anche i legumi. Qui, probabilmente, in una fase di poco successiva, iniziarono a essere addomesticate la pecora e la capra, La datazione al radiocarbonio dei reperti europei ha consentito di stabilire che da quest’area origina­ ria la cerealicoltura ha attraversato il Bosforo e conquistato l’Europa tra gli 8500 e i 6000 anni fa. E probabile che si sia trattato contemporaneamente di una diffusione demica, cioè dello spostamento degli agricoltori, e di una diffusione cul­ turale, cioè della trasmissione di tecnologie senza movimenti di individui: più probabile la prima nell’Europa del sud, la seconda in quella del nord. I vantaggi di un’economia basata sull’agricoltura e sull’al­ levamento rispetto a un’economia basata sulla caccia, sulla pesca e sulla raccolta non dipendono solo dalla sua maggiore produttività, a parità di risorse impiegate, in termini di calorie: i cacciatori-raccoglitori nomadi o seminomadi necessitano di intervalli più lunghi tra una nascita e l’altra (altrimenti i neonati muoiono negli spostamenti continui); non hanno la possibilità di immagazzinare scorte alimentari; non dispongono di potenti mezzi di trasporto come i grandi animali allevati. Tuttavia ciò non significa che l’avanzata dell’agricoltura, o dei popoli agricoli, sia stata una marcia trionfale, né che il passaggio fu sempre netto o definitivo: agricoltura, allevamento, caccia e raccolta di prodotti spontanei della campagna e del bosco convissero a lungo e convivono per certi versi ancora, come dimostra bene la cucina europea, Nel sudest dell’Europa l’adozione delle novità orientali fu probabilmente repentina, mentre in molte aree dell’Europa centrale impiegò diverse generazioni, Nel complesso, la velocità media di penetrazione del nuovo sistema di vita è stata stimata in poco più di un chilometro all’anno: la neolitizzazione di ciò che oggi chiamiamo Europa avvenne quindi in un lungo arco di tempo, 2500 anni. Trattandosi di circa ottanta generazioni umane, non si assistette dunque ad alcuna rivoluzione veloce e sconvolgente, quanto piuttosto a un lento cambiamento

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quasi impercettibile dal punto di vista del singolo individuo, una transizione, appunto. Anche una terza grande novità, dopo l’arrivo dell’Homo sapiens sapiens 40 mila anni fa e dopo la penetrazione dell’a­ gricoltura e/o degli agricoltori 8500-6000 anni fa, giunse in Europa dall’est. In un periodo e con modalità ancora oggetto di discussione, una nuova lingua e un nuovo popolo, l’indoeu­ ropeo, avrebbe conquistato il continente europeo cambiandone assieme al linguaggio anche i costumi, la struttura sociale, le credenze religiose. Per comprendere cosa si intende per «indoeuropeo» bisogna fare un salto a un’epoca che a questo punto sembra molto vicina a noi, la fine del Settecento, e bisogna spostarsi a Calcutta, in India. Qui, nel 1783 sbarcò un inglese, sir William Jones (1743-94), che era stato nominato giudice presso il tribunale di quella città. La vera passione di Jones era però lo studio delle lingue, per il quale aveva una straordinaria predisposizione: prima di arrivare in India conosceva già l’ebraico, l’arabo, il persiano e in parte il cinese; senza contare il greco e il latino, naturalmente. A Calcutta Jones fondò una società scientifica, la Royal Asiatic Society of Bengala, dove, nel 1786, nel suo discorso annuale in qualità di presidente, espose il frutto delle sue ricerche: il sanscrito, vi sostenne, presenta una tale affinità nelle radici dei verbi e nelle forme grammaticali con il greco e il latino che è impossibile non ipotizzare che tutte e tre queste lingue siano nate da «una fonte comune che, probabilmente, è ormai estinta». In realtà, l’idea che le lingue europee antiche e le lingue parlate dal Caucaso al Bengala derivassero da un’unica, antica e scomparsa classe di lingue circolava in quello scorcio di secolo tra diversi studiosi. Dopo qualche anno questa lingua cominciò a essere indicata con il termine indoeuropeo, dando vita a una vera e propria disciplina di studi, l’indoeuropeistica, che si pose subito una serie di domande sulle quali cominciarono a lavorare gli esperti di linguistica e di archeologia: se in qualche momento della storia umana è esistita una lingua comune alle lingue europee, iraniche e indiane, quale popolo la parlava? Dove aveva vissuto? In quale epoca? Come viveva? Come non raramente accade, non passò molto tempo prima che il concetto di indoeuropeo fosse travisato e piegato a fini extrascientifici. A partire dalla metà dell’Ottocento, infatti, gli

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scienziati europei cominciarono a lavorare attorno al concetto di «razza». Ci si ricordò, allora, che gli storici latini e greci usavano sottolineare che i celti e i germani erano biondi e con gli occhi azzurri; questo, unito al fatto che gli scavi archeologici di tombe celtiche o germaniche restituivano crani dolicocefali (cioè allun­ gati), come nella tradizione mediorientale, indusse qualcuno ad avanzare l’ipotesi che esistessero dei caratteri somatici originari degli indoeuropei e che questi fossero proprio i capelli biondi e gli occhi azzurri. Furono un diplomatico francese, Joseph Arthur de Gobineau (1816-82), e uno scrittore inglese di nascita ma na­ turalizzato tedesco, Houston Stewart Chamberlain (1855-1927), a compiere un ulteriore e arbitrario collegamento che portò a una delle teorie più nefaste per la storia d’Europa: essi sostennero che i discendenti più puri di tale stirpe erano i tedeschi biondi e con gli occhi azzurri, chiamati «ariani» dalla parola che alcuni popoli iranici usavano per autodenominarsi (Arya). Per la sua naturale purezza e superiorità fisica, concludeva Chamberlain, la razza ariana era dunque destinata a dominare gli altri popoli, un’affermazione, questa, che venne utilizzata da Adolf Hitler (1889-1945) come paravento ideologico per il suo progetto di conquista dell’Europa. Finita la seconda guerra mondiale, la ricerca dell’originario popolo indoeuropeo riprese scevra da strumentalizzazioni. Un’archeologa lituana di nascita, tedesca di formazione e statunitense di adozione, Matija Gimbutas (1921-94), diede compiutezza nei suoi libri a una teoria in grado di spiegare sia l’origine dell’indoeuropeo sia i meccanismi e le conseguenze della sua diffusione in Europa. Gimbutas identificò gli indoeuropei con la popolazione che sarebbe vissuta prima del V millennio a.C. nelle steppe tra mar Nero e Caucaso (steppe ponto-caspiche), in un’area oggi compresa tra l’Ucraina, la Russia e il Kazakistan. Questa popolazione sarebbe stata portatrice di una cultura chia­ mata «Kurgan», dal nome dei tumuli sepolcrali rotondi che la contraddistinguono, e che sovrastavano tombe particolarmente elaborate, spesso contenenti armi. L’ipotesi che l’archeologa lituana formulò è nota appunto come «ipotesi Kurgan»: forse a causa di un inaridimento delle steppe le tribù mobili e pastorali che le abitavano avrebbero cercato nuovi pascoli e nuovi territori spingendosi verso sudovest, sovrapponendosi in tre successive ondate migratorie alle popolazioni neolitiche che abitavano l’Europa orientale

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c balcanica e diffondendo progressivamente in tutta la peni­ sola eurasiatica una nuova lingua, detta «protoindoeuropeo». Anche in questo caso si sarebbe trattato di una sostituzione relativamente lenta, nel senso che la nuova cultura avrebbe impiegato circa due millenni per raggiungere le propaggini meridionali e occidentali, cioè le penisole mediterranee e le isole britanniche (vedi carta 2). I Kurgan erano pastori nomadi o seminomadi, che prati­ cavano un’agricoltura rudimentale e avevano addomesticato il cavallo; nella loro società, che aveva un carattere patrilineare c patriarcale, la guerra e la conquista rivestivano un ruolo fondamentale di gerarchizzazione dei ruoli sociali e sessuali, come si evince dalla localizzazione dei loro siti abitati e dal grado avanzato di evoluzione delle loro armi in ferro. La loro era una cultura totalmente diversa rispetto a quella con cui entrarono in contatto, soprattutto nel corso della prima on­ data quando giunsero tra le pianure europee centro-orientali, la valle del Danubio e i Balcani, l’area che Gimbutas chiama «Europa antica» {Old Europe). Gli studi di Marija Gimbutas e della sua scuola hanno dato una vivida rappresentazione della vita degli abitanti dell’Eu­ ropa antica tra il VII e il V millennio a.C. al momento del contatto con la società guerriera Kurgan, Vi sarebbe esistita una civiltà pacifica a base agricola che viveva in villaggi senza particolari sistemi difensivi (palizzate o simili), che non aveva tombe sontuose di capi tribù o capi militari, non produceva rappresentazioni di nobili guerrieri o scene di combattimento. Le donne vi rivestivano ruoli di grande importanza: era una società matriarcale e paritaria. Il suo sviluppo costante per circa venti secoli si sarebbe accompagnato a un livello con­ siderevole di creazioni artistiche, conquiste estetiche, libertà sociali e individuali. In questo contesto si sarebbe sviluppata una scrittura lineare, di cui sono state rinvenute varie testi­ monianze, databile a duemila anni prima delle prime testimo­ nianze equivalenti sumere (Mesopotamia), Nel V millennio si sarebbero raggiunti considerevoli livelli tecnici soprattutto in due ambiti: il megalitismo e la metallurgia del bronzo. Questa impostazione renderebbe conto di una delle più dif­ fuse e inequivocabili evidenze archeologiche dell’età neolitica, cioè l’estrema frequenza di rappresentazioni di figure di donna dai caratteri sessuali femminili accentuati. Tratto caratteristico

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di questa civiltà di agricoltori sarebbe stato infatti l’adorazione di una divinità femminile, una Grande Dea che rappresentava la natura e la fertilità, riprodotta in infinite forme mentre parto­ risce, sotto forma di dea-uccello o dea-serpente, o simbolizzata da segni che richiamano l’acqua, labirinti, eliche, vulve, seni. Questa sorta di età edenica sarebbe sprofondata in una fase di caos con l’arrivo dei primi invasori indoeuropei: come ha scritto un’antropologa che ha raccolto e rilanciato la teoria di Gimbutas, Riane Eisler, si sarebbe trattato dello scontro tra il mondo del calice, cioè dell’accoglienza femminile, e il mondo della spada, cioè della forza e della potenza maschile. Il culto della Grande Dea avrebbe lasciato progressivamente spazio alle divinità maschili indoeuropee generando quella me­ scolanza tipica dei pantheon di divinità delle società classiche mediterranee: la compresenza, individuata dai sociologi delle religioni e dagli studiosi di mitologia, di divinità femminili e di divinità maschili sarebbe dunque l’esito sincretistico di due culture che vennero a mescolarsi. Si pensi alle dodici divinità greche che vivevano sull’Olimpo: sei dèi maschili celesti come il dio del cielo (Zeus) e della guerra (Ares), e sei divinità femminili terrestri come Hera (consorte di Zeus), Demetra, la dea della fertilità e dei raccolti, Artemide, dea della caccia, dei boschi e della verginità ecc. Da questo scontro tra due mondi sarebbe dunque nata l’Europa arcaica e classica, che avrebbe conservato fin nelle sue forme più profonde del pensiero questa contrapposizione fondamentale. Una simile, affascinante ricostruzione disegna un quadro della prima Europa assai diverso da quello dipinto dalle prime forme di letteratura nota, che parlano di popoli guerrieri e di una società maschile fortemente stratificata, Più in generale, solleva il problema del ruolo della guerra nello sviluppo della civiltà umana. Gli scenari descritti da Gimbutas ed Eisler sono stati avanzati in un’epoca - gli anni Cinquanta-Settanta del Novecento - in cui aveva ripreso forza l’idea rousseauiana secondo cui le società umane, originariamente pacifiche, avrebbero aumentato la loro aggressività e la loro predisposi­ zione alla guerra come conseguenza della loro evoluzione in società complesse. Studi più recenti hanno invece sostenuto una prospettiva inversa: in termini relativi, cioè consideran­ do il rapporto tra morti in scontri e conflitti e il totale della popolazione, più si risale all’indietro nel tempo, maggiore è

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la mortalità per la guerra, mentre più le società diventano complesse e «moderne», minore è al contrario il ruolo che vi gioca il conflitto armato. I casi estremi dell’Unione Sovietica tra il 1939 e il 1945 e della Francia e della Germania tra il 1914 e il 1918, quando morì circa il 15% della popolazione, rimangono ben al di sotto dei casi noti di popolazioni «agriculturiste primitive», come potrebbero essere considerate quelle neolitiche europee, tra le quali il tasso di mortalità (maschile) per i conflitti oscillerebbe tra il 25 e il 60%. La tesi di Marija Gimbutas è stata sottoposta a una serie articolata di osservazioni critiche, E stato per esempio messo in dubbio che al tempo delle migrazioni kurganiche il cavallo fosse addomesticato per la montatura e non a fini alimentari, quindi uno degli elementi su cui si basa la teoria di una mi­ grazione «nomade, pastorale, guerriera» verrebbe a cadere. Non poche sono poi le voci scettiche anche sul fatto che una noia famiglia linguistica, l’indoeuropeo, abbia potuto produrre un’assimilazione quasi completa delle lingue precedenti in un territorio così ampio da risparmiare soltanto pochissime lingue preindoeuropee, come l’etrusco o il basco. Negli anni Ottanta è stata avanzata una contro-ipotesi al modello Kurgan. Gli studi congiunti di un archeologo della preistoria, Albert J. Ammermann, e di un genetista, Luigi Luca Cavalli Sforza, hanno prima di tutto prodotto una descrizione molto più chiara del lungo processo che ha consentito alla prima agricoltura di diffondersi dall’Egeo alla Scandinavia nel volgere di oltre due millenni. Il suo motore fondamentale fu il surplus di popolazione consentito dalla maggiore disponibilità di risorse alimentari. Secondo l’archeologo Colin Renfrew, quindi, tale espansione di popoli e di nuove conoscenze non avrebbe avuto luogo prima dell’indoeuropeizzazione del con­ tinente europeo, come nell’«ipotesi Kurgan» della Gimbutas, ma sarebbe stata essa stessa il veicolo della penetrazione della lingua indoeuropea in Europa a partire dal VII millennio a.C. Secondo questa «ipotesi anatolica», dunque, gli indoeuropei non sarebbero stati originari delle pianure a nord del Caucaso, bensì dell’Anatolia centrale (l’odierna Turchia), come compro­ verebbero gli scavi della città di Gatalhòyuk e di altri siti vicini. I presupposti per questa teoria erano in realtà stati gettati agli inizi del Novecento. Nel 1915 vennero infatti decifrate le lingue anatoliche e si scoprì che appartenevano in maggioranza alla

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medesima famiglia indoeuropea. Che cosa rappresenterebbe dunque la civiltà Kurgan? Essa stessa, secondo Renfrew, sa­ rebbe stata indoeuropeizzata dai contadini anatolici e, in un secondo momento, avrebbe originato un’onda di espansione verso la penisola indiana. Negli ultimi anni, anche l’ipotesi anatolica della dispersio­ ne parallela delle lingue e dell’agricoltura è stata oggetto di osservazioni, critiche, revisioni. Le ricerche che hanno avuto il maggiore sviluppo, quelle di genetica, hanno confermato che nel patrimonio genetico delle attuali popolazioni europee esistono tracce sia di popolazioni riferibili all’area ponto-caspica sia all’Anatolia, per cui tanto l’ipotesi Kurgan quanto quella anatolica rimangono in campo, Ma sussistono ancora notevoli divergenze sulla sequenza degli eventi, sulla loro cronologia e collocazione spaziale, complicate dal fatto che quasi tutti gli indizi a disposizione degli studiosi sono frutto di una selezione casuale che permette di riportare (letteralmente) alla luce certe testimonianze archeologiche e non altre. Le basi stesse del concetto di indoeuropeo sono oggetto di dibattito: si discute non solo se sia possibile accoppiare a un termine che ha una precisa valenza linguistica una specifica cultura, una religione caratteristica, un sistema di vita ben individuato, ma anche se sia in effetti esistita un’unica madrelingua arcaica dalla quale sarebbe disceso un così grande numero di lingue euroasiatiche. Molto recentemente, l’antropologo americano David W, Anthony ha riconsiderato tutte le teorie sulla indoeuropeizzazione del continente alla luce della gran massa di scoperte archeologiche prodotte dall’archeologia russa e orientale dopo la caduta della cortina di ferro. Le sue conclusioni confermano sia l’ipotesi che effettivamente la lingua che chiamiamo pro­ toindoeuropeo fosse parlata nelle steppe ponto-caspiche circa 6000 anni fa, sia che il collasso dell’Europa antica in quei secoli sia dovuto alle popolazioni che provenivano da quell’area. Ma non si sarebbe trattato di una conquista violenta da parte di pastori militaristi a scapito di agricoltori imbelli, quanto piutto­ sto di una sorta di lenta «operazione di franchising». Il nuovo sistema sociale ed economico dei pastori-allevatori parlanti la nuova lingua avrebbe conquistato le vecchie società poco per volta, gruppo per gruppo, grazie a un innovativo sistema di alleanze, obbligazioni, miti, rituali alternato a un uso mirato ma circoscritto della violenza.

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Tutta la ricchezza culturale e umana, tutte le contraddizioni storiche delle radici prime dell’Europa risaltano esemplarmente nel caso di Creta preistorica. Come si è detto, l’isola ha un particolare valore simbolico: in onore della madre del re di Creta Minosse, essi diedero il nome di Europa al continente che si trova a settentrione dell’isola mediterranea. Con gli scavi del palazzo di Cnosso iniziati nei primi anni del Novecento, al tramonto della dominazione ottomana, si è schiusa agli occhi del mondo una civiltà dai caratteri eccezionalmente sofisticati, capace di produrre già all’inizio del II millennio a.C. manufatti artistici e architettonici di eccezionale valore, dotata di grandi palazzi a più piani, ville, centri urbani ben organizzati, comunicazioni stradali, luoghi di culto, cimiteri, una metallurgia tecnologicamente avanzata, una fiorentissima economia mer­ cantile che la poneva in relazione con tutti i principali porti e civiltà del Mediterraneo orientale. Qualcosa di simile, e per certi versi anche «superiore», se generalizzazioni di questo tipo hanno senso, alle coeve culture dell’Egitto e della Mesopotamia/ Iraq. Le statuette, gli ornamenti e la gioielleria sopraffina, i molti affreschi portati alla luce e riferiti al periodo detto dei «primi e secondi palazzi» (1900-1480 a.C.) parlano di una società ricca, senza traccia di conflitti tra le diverse città-stato, dove sembra fosse diffusa una concezione della vita aperta e gioiosa. Dopo una scrittura pittografica, si sarebbe sviluppato a Creta nella prima metà del II millennio un sistema di scrittura noto come Lineare A (ancora indecifrato), che avrebbe contribuito alla formazione della civiltà micenea nella Grecia continentale, e quindi un sistema Lineare B (ormai largamente decifrato). Negli affreschi del palazzo di Cnosso, e in innumerevoli altre rappresentazioni anche su gioielli elaboratissimi, al centro della scena vi è una donna, spesso con la funzione magico-religiosa di accompagnare i defunti nell’Ade e come regina-sacerdotessa organizzatrice di cerimonie e danze. Uomini e donne paiono condividere i medesimi ruoli, come si evince per esempio nei dipinti celebri della taurokathapsia, l’esercizio rituale di salto del toro, nei quali si vedono maschi e femmine collaborare, Creta sarebbe dunque stata «una sacca della Vecchia Europa preindoeuropea» (F. Villar): «per l’ultima volta nella storia, sembra [che vi] domini uno spirito di armonia tra uomini e donne che partecipano alla vita gioiosamente e alla pari» (R. Eisler).

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L’analisi della struttura urbanistica e architettonica degli insediamenti ha in seguito suggerito che la società minoica era in realtà assai complessa e organizzata, con differenziazione delle funzioni e gerarchie sociali. Naturalmente vi era in uso la schiavitù, come in tutte le società coeve, Poco si sa invece sulle forme di governo e sulla gestione del potere, che viene collegata alla funzione assegnata ai grandi palazzi: erano solo templi per il culto o anche residenze di monarchi? Anche la teoria della pax Minoica, cioè di una società strutturalmente pacifica, è oggetto di disputa: la fabbricazione e la presenza di armi è attestata e la mancanza di fortificazioni non è di per sé indizio inequivocabile della mancanza di conflitti interni, Infine, i resti di sacrifici umani rinvenuti in vari siti cretesi gettano una luce fosca sull’immagine radiosa della religione cretese. Poiché alla fine del XV secolo a.C , probabilmente pochi decenni dopo le terribili conseguenze dell’eruzione del vulcano Thera che prostrò la civiltà minoica, i micenei invasero l’isola imponendo la loro cultura guerriera e patriarcale tipicamente indoeuropea, la storia di Creta è parsa una metafora della storia più antica d’Europa, o meglio ancora il luogo in cui si è realizzata in tempi più tardi e dunque vicini a noi la sua dialettica fondamentale, A questa macro-spiegazione delle radici della storia greca ed europea, che identifica nei movimenti dal nord il suo asse costitutivo fondamentale, se ne può tuttavia contrapporre un’altra, secondo la quale molti dei caratteri della civiltà mi­ noica avrebbero la loro origine non dalla direttrice balcanica bensì dall’Asia e dall’Africa, nel contatto e nello scambio con le contemporanee civiltà anatoliche, egiziane, fenicie, medio­ orientali, Non a caso, in fin dei conti, la principessa Europa fondatrice di Creta e rapita dal toro Zeus era la figlia del re di Tiro, in Libano, dunque in Asia, Dopo questa cavalcata per ere e millenni in groppa a cavalli e tori è giunto il momento di provare a trarre qualche conclu­ sione. La prima è che un’Europa originaria, autentica e pura non è mai esistita: lo spazio europeo è sempre stato un luogo di ibridazioni, interazioni, contrasti. D ’altronde non avrebbe potuto essere altrimenti, considerando come non esistano ri­ gidi confini fisici a delimitarlo. Non bisogna, tuttavia, pensare sempre che nella storia i cambiamenti provengono dal di fuori, come se le società umane fossero incapaci di evolversi senza

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clementi esogeni. La storia delle radici prime dell’Europa è un complesso intreccio di lente trasformazioni interne e di veloci fughe in avanti, di impercettibili modificazioni strutturali e di catastrofi improvvise. Tutti i tempi e i ritmi dell’avvicendarsi delle cose vi giocarono un qualche ruolo. Una tendenza recente è quella di avvicinare più di quanto non si sia fatto in passato l’Europa non solo all’Asia india­ na, sua cugina indoeuropea, ma anche al Vicino e al Medio Oriente, al mondo semitico, tracciando il profilo di una sorta di «Eurasia occidentale» che avrebbe condiviso il medesimo universo linguistico, mitologico e tecnologico. Le stesse tre religioni monoteistiche del Libro, che accomunano gran parte dei popoli indoeuropei (con l’esclusione delle popolazioni induiste) e provengono dal mondo semitico, sarebbero dunque in qualche modo l’esito ultimo di un sostrato comune. Infine, non conviene trascurare l’opinione di uno studioso delle prime società umane come Jared Diamond, secondo il quale l’Eurasia, il grande continente a cavallo tra Pacifico e Atlantico, grazie al suo maggiore popolamento e al suo posizionamento sull’asse est-ovest che consente la migrazione sulla stessa latitudi­ ne di piante, tecnologie e uomini, avrebbe costruito addirittura sin dal Paleolitico una sua predisposizione speciale all’invenzione tecnologica e alla sua diffusione. La precoce evoluzione della metallurgia europea ne sarebbe un esempio. Insomma tutto sarebbe nato in Europa prima che altrove anche per questioni fisiche. Tra le molte tesi sul «primato europeo» anche questa, che affonda le sue ragioni nelle lontanissime radici prime del continente, va tenuta in considerazione.

Capitolo terzo

Libertà e impero nel mondo antico

L’argomento di questo capitolo richiede qualche riga di introduzione. Vi si tratteranno, infatti, i circa tredici secoli che vanno dall’inizio del I millennio a.C. al IV secolo d.C., comprendendo dunque le due grandi civiltà europee dell’età classica o antica, la Grecia e Roma. A costo di essere ripetiti­ vi, è necessario premettere una volta di più che l’obiettivo di questo libro non è disegnare il profilo di una storia artistica, filosofica o scientifica dell’Europa: ciò che interessa è provare a individuare alcuni fondamentali elementi distintivi del suo percorso storico, La civiltà greca e quella romana sono considerate il pa­ trimonio genetico costitutivo dell’Europa, Su di esse si sono versati e si continuano a versare fiumi d’inchiostro anche perché si tratta delle vicende di storia antica meglio documentate e ricostruite dell’intero pianeta. La grande disponibilità di fonti documentarie, peraltro, è dovuta a uno dei fattori decisivi per il loro successo: l’invenzione in Grecia, circa 3000 anni fa, di un alfabeto di 25 segni. Per capire l’origine di questo software che consentì alla civiltà ellenica di svilupparsi secondo linee innovative bisogna tuttavia fare un passo indietro. La storia della civiltà che fiorì in Grecia inizia con un dramma e un mistero. Verso il 1200 a.C. crollò infatti tutto il sistema dei regni «avanzati» del Mediterraneo orientale, da quello hittita dell’Anatolia a quello egizio, ai regni micenei, alla civiltà minoica di Creta. Responsabile di tale catastrofe fu una miscela letale di agenti diversi di cui ancora non si sa molto: popoli indoeuropei provenienti dal continente come gli stessi micenei, i misteriosi «popoli del mare», epidemie, contrasti interni e sconvolgimenti naturali. Le sue conseguenze, che si propagarono con un effetto-domino fino alla penisola italica e a quella iberica, furono devastanti: nella propaggine

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meridionale della penisola balcanica, la regione che in seguito i suoi abitanti chiamarono Eliade, dilagarono la miseria e lo spopolamento, si abbandonarono raffinate pratiche artigianali perfezionate da secoli, si perse persino l’uso della scrittura utilizzata nell’amministrazione perché non c’era più nulla da amministrare. Questa antica scrittura, nota come Lineare B, constava di circa 80 segni sillabici ed era assai difficile da imparare: richiedeva un lungo addestramento che poteva essere riservato solo agli scribi, agli intellettuali e ai potenti. Quando, dopo il lungo periodo di confusione e assestamento che gli storici chiamano «secoli bui» (XII-VTII secolo), la società e l’econo­ mia deH’Ellade si ripresero, i greci utilizzavano un alfabeto di soli 25 segni, molto stilizzati rispetto a quelli delle scritture cuneiformi o geroglifiche; si trattava di segni acrofonici (dove cioè, per esempio, alla lettera «alpha» corrisponde il suono «a»), e facilmente memorizzabili in una sorta di filastrocca. I più antichi documenti noti scritti con questo alfabeto risalgono alla prima metà deH’VIII secolo a.C., mentre nella seconda metà dello stesso secolo si assistette a una vera esplosione di questo sistema di scrittura, che testimonia la sua facilità d’uso: poteva essere imparato da qualsiasi essere umano di intelligenza media in pochi mesi e si trasformò quindi in un potentissimo medium di sviluppo culturale, Questo alfabeto, che i greci chiamavano «fenicio» non attribuendosene la paternità, fu una straordinaria scoperta o meglio «una strana mescolanza di equivoci e genialità» (W. Burkert) che sottolinea una volta di più gli stretti legami tra la storia d’Europa e il Vicino Oriente. La sua origine è infatti indubbiamente semitica anche se non si sa dove tale fortu­ natissimo scambio culturale abbia avuto luogo, se in Fenicia (cioè tra il Libano e la Palestina attuali), a Cipro, o altrove. Venne adottato tanto dai popoli a oriente dell’Egeo che da quelli a occidente: gli etruschi, i veneti, gli iberi e naturalmente i latini. Con l’alfabeto latino sarebbero state scritte tutte le lingue moderne dell’Europa centrale e occidentale, e la sua importanza cruciale nella storia d’Europa è fuori discussione. Mentre dal punto di vista culturale i greci riconoscevano apertamente il loro debito verso l’Oriente, dal punto di vista dell’organizzazione della loro società essi rivendicavano orgo­ gliosamente l’originalità del loro sistema, la cui caratteristica

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fondamentale età, nella loro opinione, la libertà. Quando, dopo i secoli bui, si ricominciano ad avere informazioni sull’assetto politico e sociale della Grecia, il suo tratto caratteristico è in effetti l’assenza tanto di sistemi politici territoriali diffusi, quanto di regni centrati sulla figura di un monarca che viveva in un palazzo (come nell’età minoica e micenea). Nell’V ili secolo, nell’ampio spazio che andava dallo Ionio alle coste dell’Anatolia cominciò piuttosto a emergere una forma di organizzazione politica autonoma che a detta dei suoi creatori consentiva di vivere liberi: la pòlis (vedi carta 3). La parola pòlis, che in greco significava semplicemente «città», viene normalmente tradotta nelle principali lingue eu­ ropee attuali con l’espressione «città-stato», che può in parte confondere. Città autonome erano esistite infatti anche in pre­ cedenza, presso i sumeri addirittura dal IV millennio a.C., e ne esistevano altrove anche all’epoca di cui si tratta, per esempio lungo le coste popolate dai fenici. L’essenza delle póleis gre­ che, a differenza di questi esempi, non consisteva tuttavia né nel territorio che le costituiva, solitamente composto da un piccolo centro urbano e da un territorio agricolo attorno, né in una struttura per la loro gestione (uno stato) e neppure nella forma che assumeva tale organizzazione (un governo o potere). La pòlis era, piuttosto, un’unione di liberi cittadini tenuta insieme da un culto comune; non era cioè qualcosa di astratto, la città Atene, ma qualcosa di concreto, gli ateniesi. Se la pòlis era la città, chi erano dunque i suoi cittadini? Prima di rispondere a questa domanda conviene riflettere che si sta discutendo di concetti quali cittadinanza o politica, intesa come tutto ciò che riguarda la pòlis ed è dunque pubblico, che risalgono a qualcosa come ventinove secoli fa e che da allora non hanno cessato di costituire le basi di un discorso comune europeo. Se nella preistoria furono gettate le fondamenta della storia europea, in questa epoca si fabbricarono i mattoni che ne reggono l’edificio attuale, Bisogna tuttavia stare attenti e non guardare il passato con le lenti del presente: presso gli untichi greci questi concetti coprivano un campo semantico che solo in parte coincide con quello attuale. Chi erano dunque i cittadini liberi che si consideravano pòlis? Il concetto di libertà era relativo e sociale, esistevano cioè fasce sociali diverse e differenti gradi di libertà. La ric­ chezza si basava essenzialmente sulla proprietà fondiaria ma

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non era sufficiente per essere considerati gli àristoi, i migliori (da cui «aristocrazia»). Per avere considerazione sociale biso­ gnava combattere con onore in guerra oppure, in tempo di pace, nelle gare atletiche di cui le olimpiadi sono l’esempio più noto; bisognava esibire e condividere la propria ricchezza in banchetti, essere intellettualmente brillanti, saper cantare e danzare, amministrare il culto in veste di sacerdoti. Il luogo dove principalmente si svolgeva la vita di questi aristocratici era l’óikos, la casa, dove viveva la famiglia (in cui erano com­ presi servi e schiavi) e che fungeva da centro di produzione e gestione delle risorse (non a caso la parola economia deriva proprio da óikos). Il mondo aristocratico greco era dunque un mondo aper­ to, nel quale le relazioni interfamiliari e interpersonali erano importantissime, in primo luogo l’amicizia ma anche i rap­ porti omosessuali, per esempio tra uomini di età diverse. Gli aristocratici non formarono tuttavia mai un ceto separato, né assegnarono al proprio status alcuna valenza giuridica, come sarà a Roma e nell’Europa medievale e moderna. Essi si tro­ vavano e si confrontavano (o scontravano) in uno spazio, che proprio nel V ili secolo a.C. cominciò a strutturarsi in molte città greche, l'agorà: il centro politico e religioso, che sarebbe in un secondo momento diventato anche il centro economico (mercato). Nei pressi delle agorài erano costruiti templi con altari per i sacrifici: religione e politica erano strettamente collegate anche se, a differenza di quanto accadeva e sarebbe accaduto altrove, al ceto sacerdotale non fu mai assegnato alcun potere particolare. Più tardi, accanto alle processioni e ai riti religiosi, vi sarebbero state rappresentate commedie e tragedie. Un’indiretta rappresentazione della vita dell’agorà si trova nell’Iliade, una narrazione epica consuetudinariamente attribuita a uno scrittore forse mai esistito, Omero, che era trasmessa da cantastorie e che venne fissata per iscritto nel nuovo alfabeto durante l’VIII secolo. L'Iliade narra la storia dell’assedio alla città di Troia degli achei (gli antichi micenei); anzi, in verità tratta di una parte assai ristretta della guerra durata dieci anni, un solo episodio, l’ira funesta dell’eroe greco Achille dovuta al fatto che il re Agamennone, capo della spedizione achea, gli aveva sottratto Briseide, una sacerdotessa troiana da lui catturata in battaglia. Tutta la narrazione ruota attorno alle dispute e alle discussioni tra una piccola cerchia di eroi greci

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che si contendono l’onore e la gloria: è «un episodio di politica interna che si svolge nell’esercito come se fosse una pòlis» (C. Meier) e che riproduce alcune delle dinamiche politiche di base della società greca aristocratica: il potere può essere condiviso o c’è necessità di un signore (un comandante)? Come trovare un equilibrio tra i cittadini (gli eroi) che vogliono rivaleggiare tra loro? Come evitare che il più valoroso (o magari il più ricco, il più potente, il più astuto) prevarichi a scapito di tutti gli altri? Nel corso del VII secolo la contesa tra gli aristocratici si acuì all’interno di molte póleis, senza che si riuscisse a trovare una mediazione tra le rivalità e le aspirazioni individuali. Le cose si complicarono anche dal punto di vista sociale. Nono­ stante il loro anelito alla libertà, le póleis erano frequentemente in guerra tra loro, a causa delle scorrerie e razzie perpetrate dagli aristocratici, o perché l’una voleva ingrandire il proprio territorio a scapito di un’altra. In questi conflitti i duelli indi­ viduali tipici del mondo aristocratico lasciarono poco per volta il posto a un nuovo tipo di combattimento: un certo numero di uomini armati, gli opliti, si univano formando un corpo unico protetto da scudi, detto «falange». La nuova tattica richiedeva una forte collaborazione di squadra e un maggior numero di soldati; vennero allora chiamati a prestare servizio anche i contadini benestanti che tuttavia, in cambio del loro nuovo ruolo, richiesero un maggiore spazio civile, anche politico, In un certo numero di póleis, e in numerose colonie greche che nel frattempo erano sorte nel Mediterraneo centro-orientale, queste nuove tensioni sfociarono in una forma di esercizio del potere che mise fine all’originaria eguaglianza degli aristocratici: la tirannide. Il caso più noto, o esemplare, è quello di Atene, dove un tiranno, Pisistrato (600 ca.-527/528 a.C.), riuscì a conquistare il potere, che trasmise ai figli. Sotto il loro dominio la città visse tuttavia una fase di grande sviluppo culturale ed economico fino a che, nel 510 a.C., gli ateniesi rovesciarono il regime tirannico e instaurarono un nuovo ordinamento, la democrazia. In cosa consisteva la democrazia di Atene, la più famosa delle póleis democratiche greche? Le riforme portate avanti da distene (565 ca. - 492 a.C.) che ebbero il loro apice nell’età di Pericle (495 ca. -429 a.C.) allargarono i diritti di partecipazione politica - precedentemente riservati agli aristocratici - a un ampio numero di abitanti della regione dominata da Atene,

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l’Attica. Sulla base di un complesso sistema di ripartizione essi avevano i propri rappresentanti in un consiglio composto da cinquecento membri che sostituì il vecchio areopago, il consi­ glio degli aristocratici. Chi lo componeva (oppure chi sedeva nelle altre istituzioni principali) vi veniva sorteggiato per un periodo breve e per non più di due volte nella vita. Solo a poche cariche particolari, come quella di stratega, cioè di capo militare, si veniva eletti, e si poteva esservi rieletti. Questo fa­ ceva sì che quasi tutti i cittadini contribuissero prima o dopo al governo della pòlis-, si reputava infatti che per tenere una carica non servissero particolari competenze. Naturalmente la specializzazione era assai scarsa, ma si considerava ciò un male minore rispetto ai possibili pericoli derivanti dall’accumulo dei poteri e dalla corruzione. Nell’assemblea popolare, infine, tutti potevano parlare e votare, e tutti i voti avevano lo stesso valore. La base di questo sistema consisteva in quel principio di libertà che era un’invenzione assolutamente originale della società ellenica e che costituì la base di tutta la cultura greca. Naturalmente, il principio dell’eguaglianza dei diritti politici va considerato alla luce di chi fossero nella pratica i detentori di tali diritti. Ogni società democratica, infatti, esautora alcune categorie dall’esercizio dei diritti politici: in quelle attuali euro­ pee, per esempio, vi sono esclusi i minori, oppure gli stranieri o coloro che si sono macchiati di delitti particolarmente gravi. In quella attica, che allo scoppio della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) si stima avesse 170 mila cittadini su un totale di 315 mila abitanti, solo 43 mila maschi maggiorenni avevano diritto al voto, non i 115 mila schiavi, né i 28 mila meteci, cioè gli stranieri, e neppure le donne cittadine. Costoro era­ no ritenute indegne, anche se rivestivano un molo sociale e avevano uno spazio pubblico: il solo pensiero che potessero governare, come rappresentato nelle commedie di Aristofane (445 ca,-385 ca. a.C.), generava però l’ilarità generale. Insomma, la democrazia ateniese era basata sull’esclusio­ ne, scontava cioè la mancanza di un fondamento che oggi è considerato essenziale per definire democratico un sistema di convivenza e che si sarebbe sviluppato (e con fatica) solo a partire dal XVIII secolo: l’idea di eguaglianza naturale di tutti gli esseri umani. E anche vero, d’altra parte, come ha sottolineato il premio Nobel Amartya Sen in un suo libro de­ dicato alla Democrazia degli altri, che nella storia vi sono stati

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dopo l’età d’oro greca molti momenti in cui la fiaccola della democrazia ha brillato in altri continenti e non in Europa. Un motivo in più, insomma, per evitare l’oziosa ed eurocentrica questione se la democrazia debba annoverarsi tra i primati dell’Occidente e per concentrarsi invece su una verità più ba­ nale ma non meno utile: con i suoi limiti storici, la democrazia ateniese - una straordinaria novità - fu Xhumus che diede vita u molti dei princìpi (e dei problemi) della democrazia moderna, l’alimento di cui si sarebbe nutrita da allora in poi la cultura politica europea. Se appare abbastanza immediato per chiunque collegare il concetto di libertà all’epoca d’oro ateniese (a patto naturalmente di non essere uno schiavo del tempo), più difficile è applicarlo all’altra grande pòlis greca, anzi a quella che per più lungo tempo esercitò una supremazia nel variegato mondo ellenico, Sparta, Retta da una monarchia e governata da una ristretta classe di proprietari terrieri, Sparta era uno stato militarizzato, qualcosa che appare ai nostri occhi come un’enorme caserma. Eppure, tanto Sparta quanto Atene concepivano che la fonte dell’autorità fosse insita nella legge, e nell’osservanza delle leggi - e non nella subordinazione a un sovrano onnipotente individuavano la radice della propria libertà. La consapevolezza di una diversità greca si rafforzò nel corso delle guerre persiane (490-479 a.C.), durante le quali le città greche unite respinsero due tentativi di invasione della penisola ellenica da parte del re Dario (522-486 ca. a.C.) e di suo figlio Serse (485-465 a.C,). La descrizione che Erodoto fece della vittoria greca come il trionfo sul dispotismo asia­ tico dei popoli ellenici che si reggevano sull’obbedienza alla legge testimonia come l’enfasi sulla libertà tipica della società ellenica si stesse trasformando nel senso di una superiorità etnica. E questo a dispetto del fatto che la storia della Grecia doveva molto tanto all’Asia quanto all’Africa, tanto che si è polemicamente parlato di un’«Atena nera» (M. Bernal). A calcare la mano ci pensò il teatro, che diffuse e precisò il concetto di «barbaro», una parola onomatopeica che stava a indicare colui che balbetta, cioè che parla in una lingua diversa. Il barbaro divenne un personaggio fisso del teatro greco del V secolo, e quando entrava in scena si tiravano in ballo le più orribili nefandezze: incesti, delitti, sacrifici umani, Insomma, divisi al loro interno (e spesso in guerra), i greci

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svilupparono attraverso questo meccanismo di contrapposizione con l’Altro non solo un senso di appartenenza a un universo culturale comune, ma anche una visione etnocentrica di sé e della propria libertà. Le guerre persiane aprirono la via alla temporanea supre­ mazia ateniese nel mondo ellenico e a un ulteriore allargamen­ to della base popolare della vita democratica nella capitale dell’Attica. Il V secolo a.C. e in particolare l’età di Pericle furono la culla di ciò che consideriamo l’arte classica greca: le tragedie di Eschilo (525 ca.-456-455 a.C.), Sofocle (forse 497-406 a.C.) ed Euripide (480-406 a.C.), le commedie di Aristofane, la scultura e l’architettura di Fidia (490 ca. - dopo il 432 a.C,), Mirone (V sec. a.C.) e Policleto (V sec, a.C.). E ancora: con Erodoto e Tucidide (460 ca.-395 ca. a.C.) si inventò la storiografia, visse e pose le sue scomode domande Socrate (470 ca.-399 a.C.), nacque il suo allievo Platone (428 ca.-348 ca. a.C.). In pochi luoghi e in pochi momenti della storia dell’uomo, anzi probabilmente in nessuno, delle menti così eccelse vissero fianco a fianco proiettando lo spirito dell’uomo oltre ogni limite precedente. Sospendiamo per ora lo sguardo sulla penisola ellenica per chiederci cosa succedeva nella stessa epoca, la cosiddetta «età del ferro», nel resto dell’Europa. Una serie di culture, seguendo l’espressione usata dagli archeologi, si avvicendarono nel I mil­ lennio a.C. nell’Europa centrale e occidentale, annientando o inglobando popolazioni indigene di cui sembra che i baschi siano gli unici superstiti e organizzandosi in società a base clanica o tribale al cui vertice vi era un capo militare (re). Non si trattava di un’unica popolazione, ma di molti popoli diversi che si è soliti denominare secondo la terminologia latina galli, britanni ecc., e che complessivamente si possono etichettare con l’espressione «celti». Le principali risultanze che abbiamo di questo insieme di popolazioni che abitavano un territorio ampissimo, grossomodo dalla Polonia all’Irlanda attuali, sono archeologiche: della cultura celtica, basata sull’oralità, rimangono infatti pochissime testimonianze scritte (qualche iscrizione), oltre a informazioni di parte greca o romana, a qualche mito discusso (come il ciclo di re Artù) e naturalmente alle lingue di matrice celtica parlate tuttora nelle isole britanniche e in Bretagna. Se la complessa e ricca eredità del mondo greco all’Euro­ pa moderna può essere ben compresa nel termine libertà, è

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più complesso riunire la lunga e diversificata esperienza della civiltà romana sotto un unico denominatore. Considerandola a ritroso, ciò che colpisce è l’estrema sofisticatezza del suo ordinamento politico, che pure variò significativamente nei tre grandi periodi in cui si suole dividere la sua storia: monarchia, repubblica, impero. Il concetto di «stato» sembrerebbe il più adatto a fotografare la grande novità costituita da Roma, eppure esso corre il rischio di trarre in inganno perché altre e non meno complesse formazioni statali esistettero prima che a Roma, per esempio tra l’Egitto e il Medio Oriente. Ciò che intendiamo noi oggi per «stato», poi, è qualcosa di assai diverso. Anche la parola diritto, come si vedrà, fotografa una delle grandi costruzioni che Roma portò in eredità all’Occi­ dente, assieme a una nuova dimensione dell’amministrazione, a un esercito mai visto prima e a varie altre innovazioni, ma non ne fotografa il senso complessivo. È piuttosto la parola impero che rinvia alla straordinaria e irripetibile esperienza di dominio mediterraneo della civiltà romana che rappresenta forse meglio il legato complessivo della storia di Roma, Prima di quello romano, l’impero per antono­ masia dell’antichità, se si escludono quelli asiatici, fu quello che il macedone Alessandro Magno (356-323 a.C.) riuscì a mettere insieme in una decina d’anni dal 334 al 323 a.C., dalla Grecia all’Indo, sull’onda di una stupefacente campagna militare. Si trattò tuttavia di una creatura fragile che non sopravvisse alla morte del suo eponimo, e che segna il tramonto del mondo delle póleis greche. Quando il trentaduenne Alessandro Magno moriva improvvisamente a Babilonia, peraltro, molte pagine del libro della storia romana erano già state scritte; a causa della filiazione culturale diretta del mondo romano rispetto a quello greco ci si dimentica infatti che buona parte dello sviluppo della società romana ebbe luogo contemporaneamente e non successivamente a quella greca classica. A dare ascolto alla narrazione mitologica, la fondazione di Roma avrebbe avuto luogo infatti nel 753 a.C., quando nell’I­ talia centro-occidentale esisteva già una civiltà ben delineata, quella degli etruschi, Si trattava di una popolazione di proba­ bile origine anatolica che parlava una lingua non indoeuropea scritta in un alfabeto di matrice greca. Gli etruschi erano in competizione con le colonie greche nell’Italia meridionale e con Cartagine ma non diedero mai vita a uno stato unitario.

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Roma si sviluppò a sud dell’area etrusca, in una posizione strategica lungo il fiume Tevere, e secondo la tradizione il suo primo ordinamento ebbe forma monarchica. I primi secoli di vita della città rimangono tuttavia oscuri perché letteratura, storiografia e teatro ebbero origine a Roma solo molto tempo dopo, nella seconda metà del III secolo a.C. Alcuni aspetti sembrano tuttavia assodati: per esempio il fatto che quella dei latini fosse una società patriarcale, centrata sulla figura del pater a capo della familia, che comprendeva anche gli schiavi e i clientes, cioè coloro che si mettevano sotto la sua prote­ zione; l’esistenza di altri raggruppamenti di ordine superiore alla familia e alla gens (l’insieme delle famiglie che avevano un antenato comune), e cioè le «curie» e le «tribù»; il ruolo subalterno della donna anche nelle relazioni familiari. Per uno strano scherzo del destino, o più probabilmente per un’imitazione a posteriori che la dice lunga sulla deferenza che suscitava tra i romani la storia greca, la rivolta aristocratica che depose l’ultimo dei sette re di Roma avrebbe avuto luogo nello stesso anno, il 510 a.C,, in cui terminava il regime tirannico ad Atene e si inaugurava l’età d’oro della democrazia attica. Vera o no che sia questa coincidenza (in seguito molto apprezzata dagli studenti liceali), con l’inizio del V secolo a.C. terminava l’egemonia etrusca sul Lazio e si apriva la lunga stagione della repubblica romana, un ordinamento che avrebbe rappresentato per il discorso politico europeo dei successivi duemila anni un modello esemplare. In cosa consisteva? Come nella democrazia ateniese, in tempo di pace la ge­ stione della res publica, cioè in pratica dello stato, era affidata a un insieme di cariche politiche che venivano distribuite per un tempo limitato da alcune assemblee popolari e dal senato. Quest’ultimo era il perno della repubblica aristocratica: si trattava di un’assemblea che derivava dal vecchio consiglio regio, nel quale sedevano ex magistrati appartenenti alle fa­ miglie patrizie, cioè più importanti della città. A fronte della rotazione continua delle cariche, comprese quelle dei due consoli che reggevano la repubblica, il laticlavio senatoriale, la striscia di color porpora portata sulla tunica bianca, era assegnato a vita: proprio in questa continuità risiedeva dunque il potere del senato. Le cariche più importanti erano elette da un’assemblea popolare, i comizi centuriati, che nella prima età repubblicana

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riunivano con un complicato sistema di rappresentanza tutti i cittadini - cioè gli uomini - liberi, figli legittimi di padre cittadino. Il concetto di cittadinanza venne tuttavia da subito declinato in modo più aperto che in Grecia. Potevano diventare cittadini anche elementi provenienti da altre città latine o dalle regioni italiane su cui poco per volta Roma estendeva il pro­ prio dominio, così come gli schiavi che acquisivano la libertà: la dialettica fondamentale della Roma repubblicana, infatti, fu piuttosto tra l’élite politico-economica, i patrizi, e tutto il resto della cittadinanza, la plebe. Anche qui, come in Grecia, il nuovo sistema oplitico-falangico che consentì a Roma le sue grandi conquiste territoriali, e che era basato sul reclutamento popola­ re, aumentò le rivendicazioni della plebe. Vennero così istituiti dei magistrati, i tribuni della plebe, che come rappresentanti dell’autorità popolare assecondarono la crescita di potere di questa parte politica. Le continue conquiste militari dei latini e il loro progressivo dipendere dalla componente plebea diedero vita tra IV e III secolo a una nuova aristocrazia, una nobiltà nuova per il nuovo ruolo che Roma stava assumendo in Italia e nel Mediterraneo. Il processo che portò alla costituzione del grande impero romano non ebbe nulla di ineluttabile né di scontato. Men che meno fu il frutto di un disegno preordinato o di strategie coordinate: fu piuttosto l’esito di una serie di iniziative indivi­ duali, spesso originate dalla forte conflittualità interna al sistema politico romano, il quale tuttavia dimostrò una considerevole capacità plastica di adattamento alle congiunture e di innova­ zione interna. Con una lunga serie di guerre, dall’inizio pret­ tamente difensive, Roma giunse a controllare entro il 264 a.C. tutta l’Italia peninsulare. A questa prima fase seguì un secolo di scontri contro la grande potenza mediterranea cartaginese e contro le monarchie ellenistiche, i tre regni che tra l’Egitto, la Mesopotamia e la penisola ellenica avevano raccolto l’eredità dell’impero di Alessandro, Fino a che, in un altro anno fatidico, il 146 a.C., i romani raserò al suolo sia Cartagine sia Corinto, nel Peloponneso, annientando la grande potenza mediterranea e trasformando la Grecia in una provincia romana. Via via che sottomettevano questi sterminati territori, i romani dovettero sperimentare e introdurre forme di governo più stretto delle province, affidandosi alle capacità dei condot­ tieri dislocati sui vari quadranti di guerra. I ricchi bottini delle

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campagne alimentarono una crescita continua della metropoli, che giunse ad avere oltre un milione di abitanti, e cambiarono la natura e i problemi di gestione dello stato. La concessione ai veterani reduci dalle campagne militari di appezzamenti di terra e la creazione di un’economia nazionale finalizzata al rifornimento della capitale ridisegnarono i rapporti sociali nelle campagne, dove si affermò una tipologia del tutto singolare di grande azienda agricola a manodopera schiavile. Anche le inusitate dimensioni della capitale e dello stato richiesero nuove soluzioni: una rete di strade lastricate per consentire movimenti di truppe e di rifornimenti, un sistema postale per rendere possibile il fluire continuo delle informa­ zioni, una marineria commerciale in grado di spostare uomini e merci in tutto il Mediterraneo, un ceto di grandi mercanti capitalisti che gestisse tali commerci, una moneta unica a base intrinseca per dare funzionalità all’economia e sicurezza di paga all’esercito, regolari rifornimenti cerealicoli e idrici della capitale e molto altro ancora. Per supportare un simile sistema venne data vita a un apparato amministrativo smilzo ma efficiente, basato su pesi, misure, norme, consuetudini standardizzate che poco per volta Roma estese a buona parte dell’Europa attuale e a molti paesi del Mediterraneo. I nuovi problemi non riuscirono a essere metabolizzati nell’antico ordinamento repubblicano aristocratico, che dalla seconda metà del II secolo a.C. iniziò a essere lacerato da ten­ sioni crescenti. Le ormai evidenti disparità di trattamento tra cittadini romani e alleati italici (i sodi) portarono alla guerra sociale (91-88 a.C.) che si concluse con l’unificazione politica della penisola sotto le insegne del senato e del popolo romano. Per far fronte a tutti i fronti bellici aperti, interni, europei e asiatici, venne quindi abbandonato il tradizionale sistema di reclutamento militare, aprendo l’esercito ai nullatenenti che vi trovavano equipaggiamento e soldo. Queste grandi masse di nuovi soldati si legarono sempre di più al proprio comandante, combattendo per lui (e per i bottini che egli concedeva loro) più che per lo stato romano. Tra fazioni, congiure e ambizioni personali di grandi generali quali Siila (138-78 a.C.), Mario (157-86 a.C.), Pompeo (106-48 a.C.) o Cesare (102/100-44 a.C.), l’agonia della gestione collegiale e repubblicana dello stato aprì la strada al principato, che si suole far coincidere con la vittoria di Ottaviano (63 a.C. -14 d.C.) su Marco Antonio

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(83-30 a.C.) e la sua proclamazione da parte del senato quale «Augusto» (letteralmente «innalzato», dunque sacro; 27 a.C.). Iniziava l’età imperiale. Le vecchie strutture repubblicane furono di fatto esautorate da un nuovo equilibrio tra princeps, da un lato, e senato e po­ polo, dall’altro, mentre si concretizzava l’emergere di un nuovo soggetto politico, l’esercito. Si profilava quindi all’orizzonte un problema per il quale non c’erano precedenti e norme: dare regolarità alla successione del principe, affinché la morte dell’imperatore non sprofondasse l’impero nelle guerre civili. Sotto Traiano (53-117 d.C.) l’impero giunse alla sua massima estensione, dal mar Caspio alle isole britanniche, dal Danu­ bio al Marocco e all’Egitto; pur se continuamente in guerra in periferia (soprattutto in Asia e sulla frontiera germanica) la pax romana riuscì a garantire ai suoi cittadini due secoli di pace interna, un risultato eccezionale che non si sarebbe più ripetuto nella storia d’Europa (vedi carta 4). Nel tempo sono state avanzate varie spiegazioni per tale successo, I grandi storici romani come Tito Livio (59 a.C .17 d.C.) o Tacito (55-120 d.C.) esaltavano la scienza di governo romana, mentre oggi si tende a sottolineare come essa consistesse innanzitutto nella potenza militare, e come dipendesse essenzialmente dalle conquiste. In varie epoche si sono evidenziati il ruolo unificatore della moneta romana oppure i riflessi di una concezione inclusiva della cittadinanza come forme di civilizzazione. Certamente, poi, la capacità dei romani di appropriarsi della cultura ellenistica e di trasformarla in quello che fu il linguaggio di tutto l’impero costituisce uno degli eventi più significativi per la storia d’Europa: la cultura greco-romana ha funzionato per due millenni come un inesau­ ribile carburante e assieme al cristianesimo ha costituito una delle matrici originarie della cultura europea. Con altrettanta efficacia funzionò per secoli il diritto romano, codificato nel VI secolo dall’imperatore d ’Oriente Giustiniano (527-565) nel codice che porta il suo nome: è stata una «forma che ha invaso la modernità» (A. Schiavone), uno strumento assolutamente originale capace di organizzare la società e le relazioni degli individui su presupposti diversi da quelli della religione, dell’etica o della politica. Prima di esaminare (nel prossimo capitolo) i cambiamenti che investirono l’impero romano dall’inizio del IV secolo d.C.,

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e sui quali ebbe un peso rilevante una nuova religione nata in Asia, conviene riflettere se le esperienze imperiali dell’antichità, prima quella evanescente di Alessandro ma soprattutto quella romana, si possano considerare dei primi avvìi di un’Europa unita. La risposta appare a tutti gli effetti negativa. Esse furono, per la loro epoca, eccezionali superpotenze mediterranee alle quali tuttavia mancava un’idea attiva di Europa. L’impero di Alessandro fu la creazione straordinaria di un singolo individuo, mentre quello romano aveva come unica stella polare Roma e la sua grandezza. In conclusione, piuttosto che in termini di «radici» o «culla», «immagini evocative entrambe di una crescita lineare e organica» (H. Leppin), è più proficuo pensare al rapporto tra l’età classica greco-romana e il mondo di oggi in termini di eredità. In questo senso, non è possibile ignorare che accanto a molte delle tessere che hanno creato l’Europa attuale le grandi civiltà mediterranee ci hanno lasciato in eredità anche un forte senso di distinzione e superiorità. L’origine dell’eurocentrismo, insomma, sta da qualche parte a metà strada tra Atene e Roma.

Capitolo quarto

La formazione dell’Europa cristiana

L’uomo probabilmente più importante per la storia d’Eu­ ropa, Gesù, nacque in un angolo remoto dell’impero romano, la Palestina, al tempo del regno giudaico del re Erode (morto nel 4 d.C.) e fu crocifisso a Gerusalemme sotto il procura­ tore romano Ponzio Pilato (26-36 d,C.). Le notizie su di lui provengono da un corpus di opere composte non prima di un quarantennio dopo la sua morte da persone che non lo avevano conosciuto direttamente, In queste narrazioni, Gesù viene descritto come un rabbi, un maestro che impartiva a un gruppo di discepoli vari insegnamenti, in primo luogo l’amore verso il prossimo, proclamando l’imminenza dell’avvento del regno di Dio. Autodefinendosi il figlio di Dio e il Messia, cioè colui che, secondo la Bibbia, Dio aveva mandato in terra per salvare il popolo eletto, Gesù venne per questo processato c messo a morte, ma dopo pochi giorni la sua salma sparì: secondo il culto che nacque in suo nome egli sarebbe risorto, cioè salito al cielo dal padre. Gesù era un giudeo e la religione ebraica costituiva qualco­ sa di assolutamente originale nell’impero romano e nell’intero bacino mediterraneo. I culti che vi si praticavano, indirizzati a varie divinità, convivevano fianco a fianco e avevano ognuno una propria religio, cioè un insieme di pratiche di culto che non assumevano la forma di un sistema teologico rigoroso e vincolante di obblighi comportamentali. Alcuni di essi impe­ gnavano a venerare esclusivamente un solo dio (enoteismo). Il giudaismo ebbe invece un’evoluzione singolare: quando la Palestina venne conquistata dai babilonesi e i suoi abitanti furono deportati a Babilonia (fine del VII secolo a.C.), i giu­ dei svilupparono una religione basata su un testo scritto, che obbligava a comportamenti precisi (come la circoncisione o le prescrizioni alimentari) e, soprattutto, che si dichiarava valida

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LA FORMAZIONE DELL'EUROPA CRISTIANA

per tutti gli esseri umani, negando l’esistenza di altre divinità se non Jahvè (monoteismo). In seguito, all’interno dell’impero romano i giudei poterono godere di una considerevole auto­ nomia: Augusto consentì loro di riposare il sabato, di essere esonerati dal servizio militare e dai sacrifici agli dèi romani. Quanto Gesù si ritenesse giudeo e non piuttosto l’i­ niziatore di una nuova religione è questione che riguarda la teologia e l’esegesi biblica, non la storia. Qui interessa piuttosto comprendere come il suo culto si diffuse e come i suoi seguaci venissero considerati. Da Gerusalemme il culto di Gesù si diffuse nel I secolo d.C. in tutta l’Asia occiden­ tale, nelle grandi città dell’impero (Antiochia, Alessandria, Cartagine) e a Roma. Tra i suoi promotori spicca la figura di Paolo di Tarso, un ebreo ellenizzato che era stato uno zelante oppositore (e persecutore) della primitiva comunità locale cristiana. Convertitosi alla fede in Gesù Cristo (cioè «unto», prescelto), Paolo visitò molte delle prime comunità cristiane (