Storia di π (pi greco)
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Pietro Greco

Storia di rr

Carocci editore

@ Quality Paperbacks

2' edizione,

aprile 2018 "Sfere'', 2016 ©copyright 2018 by Carocci editore S.p.A., Roma

1' edizione

Finito di stampare nell'aprile 2018 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

ISBN 978-88-430-9143-0

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge :z.:z. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

9

I.

Prima di Archimede

II

2..

Archimede di Siracusa

23

3.

La matematica (e 7r) nella Grecia classica

27

4.

La scienza ellenistica

43

5.

Dopo Archimede

57

6.

Anche l'Europa, finalmente, scopre 7r

77

7.

Oltre Archimede, François Viète

91

8.

Il calcolo differenziale

99

9.

7r

diventa 7r

I09

IO.

La natura di 7r

115

II.

7r

superstar

119

Conclusioni

123

Bibliografia

125

Indice dei nomi

127

Premessa

C'è un numero che da anni mi perseguita. È una persecuzione dolce, che mi rende complice felice più che vittima indifesa, eppure quella presenza è continua, incombente, assillante. Chissà perché, ma è da quando andavo alle elementari che tutti mi associano a un rapporto, Cld, tra la circonferenza e il suo diametro; a un simbolo, n; e a una cifra: 3,14. È da allora, da quando avevo 6 anni e i calzoni corti, che studenti e docenti, amici e conoscenti, colleghi e perfetti sconosciuti mi chiamano pi greco. I più bravi in matematica, tre e quattordici. Ed è da allora, da quando avevo 6 anni e i calzoni corti, che ho deciso di seguire le vicende di questo numero fondamentale: per la mia vita, ma anche per la scienza, se è vero, come è vero, che decine di grandi matematici nel corso di almeno cinque millenni hanno speso e continuano a spendere una parte consistente del loro tempo per cogliere il valore, la natura e il senso di pi greco. Scoprendo che ... Scoprendo che tutte le grandi civiltà antiche in tutto il mondo hanno compreso molto presto che il rapporto tra la circonferenza, C, e il diametro, d, di ogni e qualsiasi cerchio è uguale a una costante. C'

d'

C

-

d

C'

= -

d'

= costante

Anche se è solo nel XVIII secolo che a quella costante verrà dato il nome, per me fatidico, e il simbolo della lettera greca n.

IO

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Scoperta non banale, quella dei nostri antichi progenitori. Perché quel rapporto Cld, fisso e universale, da quattro o cinquemila anni sta lì a indicare a tutti che c'è un ordine sotteso al mondo, e che quest'ordine è geometrico. Il che prova che la geometria è uno strumento davvero potente a disposizione della ragione umana per indagare quello che i Greci chiameranno ic6o-p.oç (cosmo): il tutto armoniosamente ordinato. L'aura filosofica che appare circondare la natura appena svelata del rapporto tra circonferenza e diametro fa assurgere immediatamente la costante a parametro fondamentale dell'universo e dell'indagine razionale della realtà. E costringe a porsi una serie di domande: qual è la natura di questo numero? C'è davvero qualcosa di profondo in questa costante? Domande astratte, direte voi, di scarsa utilità pratica. Errore. Anzi, doppio errore. Primo: nella cultura umana le domande astratte, che sembrano non avere un'utilità immediata, si sono rivelate, nel tempo, il grande motore dell'evoluzione culturale e, quindi, tecnologica e, quindi, economica e sociale. Sono stati scritti molti libri preziosi sull"'utilità dell'inutile": sarebbe inutile parlarne ancora se non fosse che le domande sulla natura di TC corroborano in maniera significativa questa tesi. Dunque, ci ritorneremo. Secondo: queste domande fondamentali non hanno impedito e tuttora non impediscono affatto ai contadini, ai maestri costruttori, agli informatici di utilizzare quel numero, nelle pratiche necessità della vita. E poiché le pratiche necessità della vita esigono una certa precisione, ecco che nasce un nuovo ordine (anche) pratico di problemi: quanto vale davvero n? Qual è il valore esatto del rapporto costante C!d? Queste due tipologie di domande, quelle (in apparenza) astratte sulla "naturà' di TC, e quelle concrete sul "valore" di TC, ricorrono da mille e mille e mille e mille e mille anni, talvolta incrociandosi, altre volte no, e in ogni caso da almeno cinque millenni sono una componente sempre presente e sempre importante nella storia della matematica e, dunque, della nostra storia tout court. Ah, dimenticavo. Quelle domande sono, almeno in parte, ancora aperte. TC ancora ci interroga.

I

Prima di Archimede

In Mesopotamia I Babilonesi conoscevano il valore di 7r o, meglio, tra tutti i popoli dell' antichità sono quelli che hanno calcolato il valore più preciso di 7r, prima che in Sicilia arrivasse un certo Archimede (287 ca.-212 a.C. 1). Eccolo:

Un valore davvero non molto diverso da quello che conosciamo oggi, se lo approssimiamo alla terza cifra decimale:

Ma c'è di più. I Babilonesi possedevano anche una regola per calcolare 7r. Un vero e proprio metodo che, in prima approssimazione, possiamo considerare analogo a quello del grande Archimede, anche se il Siracusano lo avrebbe reso molto più sofisticato: inscrivere un poligono in un cerchio.

r. La data di nascita di Archimede non è conosciuta con precisione. Le date di nascita e/ o di morte di molti dei personaggi che citeremo non lo sono. Non lo indicheremo ogni volta, per non appesantire la lettura. In questo contesto ciò che è importante è avere un'idea del periodo in cui avvengono i fatti e agiscono i personaggi citati.

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Tutto questo è scritto nella tavoletta 7302 della Yale Babylonian Collection rinvenuta a Susa, una città 300 chilometri a sud-est di Babilonia che è tra i nuclei urbani più antichi del mondo (è abitata da circa 7.000 anni) ed è stata a lungo capitale del regno di Elam. Oggi la città si chiama Shush, conta 54.000 abitanti ed è il capoluogo di un'omonima provincia nell'Iran occidentale. La tavoletta 7302, che ha 4.000 anni di età, è stata ritrovata solo nel 1936 e ha modificato piuttosto profondamente quello che si sapeva sulle capacità matematiche degli antichi abitanti della Mezzaluna Fertile. A proposito di approssimazioni, abbiamo parlato di Babilonesi per indicare le popolazioni che, in età storica, hanno abitato la Mesopotamia, la terra tra i due fiumi: il Tigri e l'Eufrate. In realtà queste popolazioni, nel corso di alcuni millenni, sono state moltissime e di diverse origini: alcune di ceppo indoeuropeo, altre no. Si tratta di Sumeri, Akkadi, Ammoriti, Cassiti, Elamiti, Ittiti, Assiri, Medi, Persiani e altri ancora. Chiamiamoli, dunque, complessivamente Mesopotami. Anche a costo di far trasalire gli storici. Ma l'approssimazione non è del tutto azzardata, perché tra i Sumeri e i successori c'è stata una notevole continuità in fatto di cultura. E che cultura. I Mesopotami (o, se volete, i popoli della Mesopotamia) hanno inaugurato, almeno in queste regioni più occidentali dell'Eurasia, la civiltà urbana, fondando non solo Babilonia e Susa, ma tante altre città indipendenti tra cui Eridu, Ur, Nippur, Larsa, Assur, Uruk, Lagash, Kish. I Mesopotami hanno inventato la scrittura. Provetti astronomi, sono stati i primi a studiare con sistematicità i cieli. E infine, ma non di secondaria importanza, hanno sviluppato una matematica piuttosto sofisticata. La matematica è uno degli elementi di continuità più significativi che hanno caratterizzato le civiltà mesopotamiche. Proprio perché erano civiltà urbane, anche se fortemente legate all'economia agricola resa florida dalle inondazioni, irregolari ma benefiche, dei due fiumi. I primi matematici sono stati i Sumeri, una popolazione che non era né indoeuropea né semitica. Intorno al 4000 a.C. i Sumeri si sono insediati nella parte meridionale della Mesopotamia e hanno fondato un regno che aveva per capitale la città di Ur, uno dei più antichi insediamenti urbani del mondo. L' agricoltura non fu una loro invenzione, perché nella terra tra i due fiumi l'arte di coltivare le piante era praticata da almeno tre millenni (dal 7000 a.C. o giù

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di lì). Hanno realizzato, però, un autentico salto di qualità nella tecnica della coltivazione, grazie a una serie di innovazioni: dall'aratro trainato da animali ai nuovi e più avanzati sistemi di irrigazione e di costruzione di canali. I Sumeri hanno invece fondato in Mesopotamia la civiltà urbana: città con case, templi, edifici pubblici; uno Stato e la sua amministrazione; un'economia molto complessa, costituita anche da commerci e botteghe di artigiani. Ora si dà il caso che la civiltà urbana richieda, proprio come il complesso sistema di irrigazione in campagna, ingegneri e geometri - oltre a una serie di altre figure professionali, dai mercanti agli agenti delle tasse - capaci di utilizzare i numeri. Si badi bene: a chi contribuisce a fondare una città o, addirittura, una civiltà urbana non si richiede semplicemente di far di conto, perché a contare, ci dicono gli psicobiologi, son capaci anche i pulcini. Chi costruisce case, templi e reti di canali di irrigazione, chi produce e vende beni e servizi, ha bisogno di utilizzare i numeri e le forme in maniera molto più sofisticata. Insomma ha bisogno di una matematica e di una geometria piuttosto avanzate. Superiori a quella dei pulcini. Anche far vivere (e convivere) esseri umani in una città è più complesso che far vivere e convivere pulcini in un pollaio. Ed è anche più complicato che far vivere sapiens cacciatori e raccoglitori in una savana o in una foresta. Vivere in città - anzi, far funzionare una città - richiede tra l'altro un metodo per registrare e ricordare quanto vi accade. Richiede, in altri termini, la scrittura. Insomma con l'inaugurazione della vita in città emerge un'esigenza sociale ed economica importante e insopprimibile: esprimere in maniera esatta e condivisa lunghezze e pesi; scambiare denaro e manufatti; dividere le eredità e i campi; distribuire le quote dei raccolti tra contadini, religiosi e Stato; calcolare le tasse da pagare; calcolare interessi e anche gli interessi composti. Non sorprende, dunque, che i Sumeri per registrare tutto questo e altro ancora si servano dei pittogrammi, il prototipo della scrittura cuneiforme, e per far di conto utilizzino un sistema matematico complesso che va ben oltre l'uso di numeri elementari: un sistema a base sessagesimale, con una numerazione posizionale. Insomma, i Sumeri inventano e la scrittura e la matematica. Non si tratta né di una scrittura né di una matematica banali. La domanda sociale di rigore ed esattezza nella prima civiltà urbana realizzata

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dai Sumeri è tale che i loro matematici imparano ad abbozzare qualcosa di simile ai moderni teoremi: elaborano cioè proposizioni che, con un ragionamento rigoroso, di tipo deduttivo, da alcune premesse portano a conclusioni necessarie. Certo, la capacità di creare teoremi appartiene a una cerchia ristretta di esperti. Ma che non siano solo sparute élite, bensì la popolazione sumerica nel suo complesso ad avere una cultura matematica piuttosto sviluppata lo prova il fatto che persino nei mosaici delle case e dei templi delle città mesopotamiche spicca una serie di esatte forme geometriche. I Mesopotami tutti hanno una certa consuetudine con i numeri e con le forme geometriche. Ma la matematica introduce ordine e precisione nel caos della vita. L'ordine e la precisione sono desiderabili e, quindi, esprimono qualcosa che potremmo identificare come "la bellezza del mondo", una bellezza degna di essere riconosciuta e rappresentata. Ecco dunque che nelle forme geometriche di mosaici di case e templi i Sumeri intendono cogliere e rappresentare la bellezza (matematica) del mondo. Intorno al 2500 a.C., l'antico e colto popolo dei Sumeri viene vinto e sottomesso da genti di origine semitica, gli Akkadi, guidati da un re chiamato Sargon (2235-2279 a.C.). Come spesso accadrà nella storia successiva dell'umanità, la raffinata civiltà sumerica sopravvive alla forza bruta delle armi e alla conquista militare. E, anzi, tocca il suo apice culturale intorno al 2250 a.C. e inizia a tramontare solo qualche secolo dopo, sotto la pressione di un'altra popolazione semitica, gli Amorrei, fondatori di una nuova civiltà, quella propriamente detta babilonese, perché ha nella città di Babilonia il suo cuore. E tuttavia questo cambiamento, a cavallo del 2000 a.C., genera un nuovo processo di sviluppo politico, economico e culturale che raggiunge un massimo - un massimo altissimo - intorno al 1750 a.C. con Hammurabi (1810-1750 a.C.), sesto re della prima dinastia babilonese, autore della famosa raccolta di 280 leggi che va sotto il nome, per l'appunto, di "codice di Hammurabi". Risale proprio a questo periodo di cambiamento e di sviluppo la tavoletta 7302, con il calcolo di n. Le tavolette usate dai Mesopotami per scrivere altro non sono che piccole piattaforme di morbida argilla su cui, con uno stilo, vengono tracciati i simboli della scrittura cuneiforme, evoluzione della pittografia sumerica. Una volta incise, le tavolette vengono cotte, al sole o in forno. In questo modo si trasformano in fogli, magari un po' pesanti ma certamente capaci

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di resistere all'usura del tempo: quattro millenni sono passati tra il giorno in cui uno scrittore ha inciso (in lingua akkadica) e quello in cui un esploratore ha ritrovato la tavoletta 7302. La 7302 non è certo l'unica tavoletta che documenta l'antica civiltà mesopotamica. È solo una delle centinaia trovate a Susa e tutte risalenti alla fine del terzo millennio a.C. E quelle di Susa, a loro volta, sono solo alcune tra le tavolette che documentano tutto l'arco della civiltà mesopotamica. Su questi fogli di argilla troviamo scritto di tutto: leggi e leggende, lezioni scolastiche e lettere person~i, documenti e calcoli matematici. Le tavolette di Susa si distinguono dalle altre perché ne contengono molta, di matematica. Si tratta di vere e proprie schede per la soluzione di problemi, in genere di natura algebrica. Un po' meno di natura geometrica. Tanto da aver fatto sospettare per lungo tempo che i Mesopotami non amassero molto e non sapessero tanto di geometria. L'idea a lungo prevalente tra gli storici è stata che essi padroneggiassero il calcolo e le operazioni aritmetiche, dalle frazioni alle potenze; sapessero estrarre una radice quadrata - si sa che avevano ben calcolato (con buona approssimazione) il valore di {i. - e anche una radice cubica; che conoscessero l'algebra e sapessero risolvere le equazioni di secondo grado e che si cimentassero persino con quelle di terzo; che sapessero risolvere sistemi algebrici di cinque equazioni con cinque incognite. Insomma, che con i numeri ci sapessero fare. Ma di geometria sembrava proprio che ne sapessero poco. Da tutte le tavolette trovate fino al 1936, per esempio, risultava comunque chiaro che i Mesopotami sapessero benissimo che il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio è una costante. Ma il valore, 3, che attribuivano alla costante era una rozza approssimazione. Inspiegabile, nella sua grossolanità, viste le loro notevoli competenze matematiche. Di qui la domanda: com'è possibile che sapessero calcolare con ottima precisione il valore di {i. e non sapessero calcolare con una precisione accettabile il valore di n? La risposta sembrava scontata: amavano la matematica, ma avevano in uggia la geometria. Ma era una risposta sbagliata. Perché, scoprendo una tavoletta dopo l 'altra, abbiamo capito che - dal teorema di Pitagora alla definizione dei triangoli simili - i Mesopotami la geometria la conoscevano bene e non l'avevano affatto in uggia. Anzi, erano geometri non meno bravi che algebristi. E, infine, ecco che nel 1936 viene scoperta la tavoletta 7302, da cui abbiamo appreso che i Mesopotami non solo conoscevano con buon approssimazione il valore di 7r, ma che quel valore è rimasto per quasi due millenni la migliore

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approssimazione conosciuta in tutto il mondo. Di più. Quella tavoletta dimostra che i Mesopotami avevano un metodo per calcolare n. Il metodo è, più o meno, questo. Prendiamo in considerazione un esagono regolare inscritto in un cerchio. Una buona procedura per dividere il cerchio in 6 e poi in 60 parti uguali, conferendo così alla geometria la stessa base sessagesimale applicata alla matematica. Per inciso, la divisione del cerchio e degli angoli in 360 parti uguali è utilizzata ancora oggi. Quelle 360 parti individuate dai Mesopotami noi le chiamiamo gradi. Ma torniamo alle nostre due figure. Basta inscrivere in un cerchio un esagono i cui lati sono la metà esatta del diametro del cerchio: l = dh.

È evidente che il lato, l, dell'esagono è uguale al raggio, r, del cerchio, perché il diametro, d, del cerchio è il doppio del raggio, r. I Mesopotami sanno che il rapporto tra la circonferenza, C, e il diametro, d, del cerchio è uguale a una costante (che noi chiamiamo TC): Dunque sanno che:

e

-

d

e

= -

= costante =

7r

2r

A questo punto possono calcolare il rapporto tra la circonferenza ( C =2 n r) e il perimetro dell'esagono (E= 6 r): E 6r 3 -=-=-

e

27rr

7r

I Mesopotami sanno anche calcolare il rapporto approssimato tra il lato dell'esagono e la corda che quel lato definisce sul cerchio. Secondo questi calcoli approssimati, il rapporto E/C è uguale a:

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E

-

e

17

57 36 = - + - - = 0,96

60

(60),

Dunque

Quindi:

Ecco, quindi, che 4.000 anni fa i matematici mesopotami hanno trovato il valore - un valore abbastanza preciso - di 7!'. Ma gli ingegneri e gli artisti e i geometri e i mercanti e gli agenti delle tasse tra il Tigri e l'Eufrate usano questo valore preciso o il più semplice valore 3 nelle loro pratiche applicazioni? Non lo sappiamo. Certo è che la civiltà mesopotamica continua a lungo dopo il 2000 e viene a termine solo nel 538 a.C., quando la Mezzaluna Fertile viene conquistata da Ciro il Persiano. In questo millennio e mezzo non sono mancati certo i cambiamenti sulle rive dei due fiumi. Intorno al 1000 a.C., per esempio, ce n'è uno piuttosto importante, conseguente all'introduzione della nuova tecnologia del ferro. E intorno all' 800 a.C. arrivano gli Assiri, che si stabiliscono nelle terre superiori del Tigri. Passa ancora un secolo ed ecco arrivare i Caldei e i Medi, che sono vicini ai Persiani. Nel 538 a.C., infine, arrivano proprio loro, i Persiani. Ebbene, in tutto questo tempo e attraverso tutti questi mutamenti, la cultura mesopotamica non cambia. Non nella sua sostanza, almeno. E non cambia neppure la matematica. Se non che, a un certo punto, essa viene applicata allo studio dei cieli e diventa parte integrante dell'astronomia. La matematica associata all'astronomia diventa il fondamento anche di un'altra scienza, quella del calcolo del tempo, che mette in grado i Mesopotami di redigere calendari piuttosto precisi. Infine, ecco giungere nelle terre tra i due fiumi e farle proprie Alessandro il Macedone (356-323 a.C.). Alla sua morte, sopraggiunta nel 323 a.C., la Mesopotamia viene affidata alla cura della dinastia dei Seleucidi. Ma ormai siamo in una nuova e straordinaria stagione culturale. La matematica

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mesopotamica cede il passo a quella ellenistica. Anche se non tramonta del tutto: se ne conserva testimonianza viva in Siria, almeno fino alla conquista romana.

Gli Egizi La storia è bella perché non si ripete mai uguale a se stessa. Neppure quella di n. Il problema so del papiro rinvenuto nei resti dell'antica Tebe dallo scozzese Henry Rhind (1833-1863) nel 1858 sostiene che l'area, A, di un cerchio con un diametro di 9 unità (d = 9) è pari a quella di un quadrato con un lato, l, di 8 unità (l = 8). A

= _!_ 7r J2 = /2 4

Poiché d = 9 e l = 8, si ricava che: I

A= -

7r92=82

4

Con un minimo di passaggi elementari si ha il valore di n: 7r

=4

X -

8

2

92

=4

64

X 81

= 3,160

Un valore che, come nota Petr Beckmann (1924-1993), uno dei migliori biografi di TC, è solo un po' peggiore di quello ottenuto dai Babilonesi. L'errore del papiro di Tebe rispetto al valore di TC che conosciamo oggi è, infatti, del 5,7 per mille; mentre quello della tavoletta di Susa è del 4,8 per mille. Ma come e quando, in riva al Nilo, è stato ottenuto questo valore? Il papiro di Rhind risale al 1700 a.C.: è dunque un po' posteriore alla tavoletta di Susa. Tuttavia la data 1700 a.C. rappresenta un limite inferiore: ci dice che gli Egizi sapevano calcolare TC almeno 3.700 anni fa. Ma non ci fornisce un'indicazione del limite superiore. Quando, dunque, gli Egizi hanno davvero imparato a calcolarlo: un secolo, tre secoli, un millennio prima? Non lo sappiamo. E, dunque, non sappiamo se un anonimo egizio sia arrivato a questo valore prima o dopo l'anonimo matematico che ha ispirato (o scritto) la tavoletta di Susa.

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In realtà non sappiamo neppure quando sia nata la civiltà egizia. Tutto quello che possiamo dire è che la valle bagnata e regolarmente inondata dal Nilo, nella sua parte superiore che corrisponde all'odierno Egitto, era abitata e coltivata già prima di 6.ooo anni fa. Probabilmente è di poco posteriore alla civiltà nata tra i due fiumi, il Tigri e l'Eufrate. Non è davvero un caso che le due prime, grandi civiltà nel Medio Oriente e nell'Africa settentrionale siano nate intorno a fiumi generosi di acque e di limo. Tuttavia c'è una differenza tra il Nilo e il Tigri e l'Eufrate. Le inondazioni del fiume africano avvengono con cronometrica regolarità. E chissà se questa regolarità ha avuto una qualche influenza sulla stabilità politica dell'Egitto, che a differenza della Mesopotamia ha conosciuto, ritengono gli storici, due sole fasi e un'unica invasione esterna. La prima fase della civiltà egizia è quella che si chiude intorno al 3500 a.C. e che contempla due grandi regni: quello del Basso e quello dell'Alto Egitto. Questo periodo è chiuso dal faraone Narmer, noto anche come Menes (?-3125 a. C.), che unifica i due regni e inaugura quella che noi chiamiamo la prima dinastia. Mille anni dopo, con la terza dinastia, l'Egitto raggiunge l'apice del suo splendore. È l'epoca di Cheope (?-2580 a.C.) e degli altri faraoni che erigono le piramidi: gli splendidi monumenti che hanno superato pressoché indenni l'usura del tempo e che ancora oggi si lasciano ammirare. Per costruirle, quelle piramidi, gli Egizi avevano bisogno di raffinati architetti e, dunque, di una matematica abbastanza avanzata. E poiché in quelle piramidi venivano sepolti gli stessi faraoni e una serie di altri corpi che, imbalsamati, dovevano a loro volta sfidare l'usura del tempo, è chiaro che gli Egizi dovevano avere una chimica (o, se volete, un'alchimia) e una medicina non meno sofisticate. La civiltà degli Egizi supera l'unico grande momento di difficoltà con l'invasione degli Hyksos tra il 1700 e 1600 a.C. e si arrende solo ad Alessandro il Macedone, nel 332 a.C. La conquista da parte di Alessandro è di quelle che dividono le epoche storiche. C'è un prima e c'è un dopo Alessandro. E i due periodi sono molto diversi tra loro. Con l'arrivo del Macedone sul delta del Nilo nasce infatti una nuova, straordinaria civiltà - la civiltà ellenistica - frutto della contaminazione con la civiltà greca, che partorisce la scienza intesa in senso moderno, come ha ben spiegato il matematico italiano Lucio Russo (1944-) nel suo prezioso libroLa rivoluzione dimenticata. In breve. Alessandro fonda una città, Alessandria d'Egitto. E Alessandria d'Egitto sarà, per almeno 700 anni, la capitale mondiale di unari-

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STORIA DI II

cerca che non esitiamo a definire scientifica. Ma di questo parleremo più avanti. Ora torniamo agli antichi Egizi. Come i Mesopotami, anche loro inventano la scrittura. E anche per loro la prima scrittura è pittografica: quella dei celeberrimi geroglifici. È probabile che questa coincidenza non sia il frutto di una doppia generazione indipendente, ma di un processo di diffusione culturale. È probabile che l'idea di scrivere sia nata dal nulla (o quasi) una e una sola volta nella storia dell'umanità dispersa nei tre continenti connessi (Africa, Asia, Europa) e poi si sia diffusa. Dove l'idea sia maturata per prima non è dato, al momento, sapere: in Mesopotamia, in Egitto, altrove? Certo è tuttavia che gli Egizi scrivono e che, proprio a partire dal l500 a.C., il loro modo di scrivere con geroglifici evolve nella scrittura ieratica: in cui a essere rappresentata con un simbolo non è più una parola, ma una sillaba. Gli Egizi scrivevano sui papiri, invece che sulle tavolette, cosicché la gran parte delle loro opere è andata perduta. Ci restano le scritte scolpite sulla pietra e pochissimi papiri. Molto nota è la stele di Rosetta, rinvenuta nel corso della campagna napoleonica d'Egitto, durante una spedizione nel 1799. Si tratta di un pezzo di granito su cui è inciso in tre diverse grafie - geroglifico, demotico e greco - un medesimo testo, risalente al II secolo a.C. La stele di Rosetta è stata decisiva per la nostra comprensione dei geroglifici. Ed è tornata molto utile quando sono stati rinvenuti i due principali "papiri matematici': quello cosiddetto di Mosca (perché conservato nella capitale russa) e quello di Rhind, noto anche come papiro di Ahmes. Scritti in grafia ieratica, risalgono entrambi al XVIII secolo a.C. ed entrambi propongono un bel cumulo di problemi di natura matematica: lS il papiro di Mosca e ben 85 il papiro di Rhind. Da questi papiri si ricava che gli Egizi sapevano molto bene che il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio è costante. E il problema n. so del papiro di Rhind ci fornisce un buon valore di questa costante: 3,16 o 49. Come ci sono arrivati? Beh, una soluzione ce la fornisce il problema n. 48. Non entriamo nei dettagli. Diciamo solo che la tecnica è quella di inscrivere un ottagono in un cerchio il cui diametro misura 9 unità. Gli Egizi calcolano larea dell'ottagono e poiché conoscono la proporzione tra uno degli 8 lati dell'ottagono inscritto nel cerchio e il lato, l, del quadrato in cui il cerchio è a sua volta inscritto, giungono a calcolare il valore di TI con un'accettabile approssimazione. Egizi e Mesopotami, dunque, utilizzano un metodo analogo - ma non omologo - per calcolare TI: un metodo fondato sulla comparazione tra

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figure geometriche. Il che è reso possibile dalla conoscenza dei principi elementari della geometria, compreso il calcolo di perimetri e aree. Entrambi i popoli giungono a un valore di 7r molto vicino a quello "vero". Ed entrambi sanno che è un valore approssimato: quindi non è quello "vero". Ecco, dunque, che n distilla goccia a goccia il suo valore, ma nasconde la sua natura. A entrambi i popoli 7r appare fondamentale e insieme sfuggente: è una costante universale, è un rapporto tra enti geometrici elementari, la circonferenza e il diametro della figura più simmetrica, il cerchio, eppure non si riesce a esprimerlo con un valore numerico definito. Questa difficoltà nasconde qualcosa di profondo?

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Archimede di Siracusa

Non c'è, in tutta la storia di n, figura più rilevante di Archimede. Figura peraltro cui sono fin da bambino personalmente legato, poiché il grande matematico e fisico è nato e vissuto in Sicilia, non molto lontano da casa mia, che è sull'isola d'Ischia, in Campania. Non è solo un problema di vicinanza fisica. Il fatto è che Ischia è stata la prima colonia greca del Mediterraneo occidentale, abitata da gruppi di Ioni e di Achei già a partire dal 780 a.C. Nella mia isola è stata rinvenuta una coppa importata da Creta, la "coppa di Nestore': risalente proprio all'vrn secolo a.C., dove è inciso quello che a tutt'oggi è il più antico esempio di scrittura alfabetica. E, infine, la mia isola fu a lungo siracusana, prima di diventare romana, e dunque prima che a Siracusa nascesse Archimede. Capirete che il rapporto tra il nome che ho la ventura di portare, pi greco, e Archimede di Siracusa è qualcosa di più che il frutto di una vaga e ardita suggestione. Ma veniamo ai fatti che legano il Siracusano non a P. Greco, ma a n.

Il metodo di esaustione Archimede, nato e vissuto a Siracusa tra il 287 e il 212 a.C., è il primo a proporre un "metodo scientifico" per il calcolo di n. Una novità che costituisce un autentico salto di qualità nella storia non solo del nostro numero, ma del pensiero matematico tout court. Noto come "metodo di esaustione", il metodo di Archimede è considerato un'anticipazione di quel concetto di limite e di quel calcolo differenziale che metteranno a punto Isaac Newton (1642-1727) e Gottfried Leibniz (1646-1716) solo duemila anni dopo. L'idea di Archimede è semplice, come tutte le idee davvero geniali. Riprende in qualche modo la tecnica di comparazione tra figure geometriche di Mesopotami ed Egizi, ma le fa compiere un salto di qualità incom-

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mensurabile, sublimandola in un ragionamento astratto che può essere considerato un prototipo della matematica moderna. Il ragionamento, semplificato, di Archimede è questo: se io inscrivo un esagono in un cerchio sono certo che il perimetro E, dell'esagono è inferiore alla circonferenza C del cerchio. Se faccio il contrario, circoscrivo il cerchio con un esagono, sono certo che il perimetro dell'esagono E è superiore alla circonferenza e del cerchio. 2

Di conseguenza la lunghezza della circonferenza C è compresa tra E, e E 2 • Poiché il perimetro di un poligono è facilmente misurabile, Archimede conosce perfettamente il valore di E, e di E 2 e, dunque, conosce i limiti massimo e minimo entro cui è contenuta la lunghezza della circonferenza

D'altra parte Archimede conosce il rapporto tra ne la circonferenza (d, come sempre, è il diametro della circonferenza): C=nd

e

7'=-

d

Dunque può facilmente dedurre che:

Ma non è tutto. Se io raddoppio i lati del poligono e ne prendo in considerazione uno con 12 lati (il dodecagono D) invece che con 6, avrò un'approssimazione migliore.

ARCHIMEDE DI SIRACUSA

Archimede procede con questo metodo e calcola il valore di 7r sulla base di un poligono di 96 lati (P 96 ,) che è inscritto in un cerchio e di un altro di egual numero di lati (P96 b) che circoscrive il cerchio. Giunge così a calcolare con grande precisione il valore di n:

Innumeri:

In realtà, sulla base di un documento attribuito a Erone di Alessandria (10-70), scritto nel 60, ma scoperto in Europa solo nel 1896, sembra che Archimede si sia spinto oltre, giungendo a questo valore limite di n:

Archimede non solo ottiene una misura molto più precisa del nostro numero, ma inizia a dirci qualcosa sulla natura di quel valore e, dunque, sulla natura di 7r. Il valore di 7r è un limite. Il limite tra il rapporto perimetro/ diametro di un poligono regolare di un numero grande, tendenzialmente infinito, di lati inscritto in un cerchio e il perimetro/ diametro di un poligono regolare di un numero uguale di lati in cui il cerchio è inscritto. Archimede, insomma, in un colpo solo ci dà un valore più preciso di 7t', un metodo scientifico per continuare e migliorare il calcolo e ci fornisce una prima indicazione sulla natura di questo numero.

STORIA DI II

Come è giunto, Archimede, a tanto? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare qualche passo indietro nel tempo e cercare di capire cos'era la matematica nella Grecia classica, come ha potuto evolvere nella matematica ellenistica, ambito entro il quale opera il Siracusano. Un tema importante, perché, come scrive Morris Kline (1908-1992), se «nella storia della civiltà i Greci occupano un posto preminente, nella storia della matematica sono l'evento supremo».

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La matematica (e 1C) nella Grecia classica

La scuola ionica La "civiltà grecà' è più recente di quella della Mesopotamia e di quella egizia, ma risale pur sempre a 3.000 o forse 3.200 anni a.C., e dunque proprio giovanissima non è. Si afferma nelle terre continentali e nelle isole che chiamiamo Grecia, oltre che lungo le coste dell'Asia Minore, portata da popolazioni provenienti dal Vicino Oriente e, più specificatamente, dall'Anatolia. Non entriamo nei dettagli di questa ennesima storia di migranti, perché il periodo che a noi interessa è molto più recente e circoscritto: va dal 600 al 300 a.C. Diciamo solo che quella iniziata nel IV millennio a.C. è la prima "civiltà avanzatà' in quella piccola appendice dell'Eurasia che oggi chiamiamo Europa. Che i protagonisti, i primi Greci, sapevano coltivare le piante, allevare gli animali e lavorare i metalli, compreso il ferro. Che erano in stretto contatto sia con i Mesopotami sia con gli Egizi. Che furono il primo popolo di lingua indoeuropea a scrivere. Che per scrivere, all'inizio del VIII secolo a.C., iniziarono ad adottare, con opportune modifiche, l'alfabeto dei Fenici, il popolo di navigatori che abitava lungo le coste del Libano. La "coppa di Nestore" nella villa Arbusto a Ischia è il primo esempio assoluto dell'acquisita scrittura alfabetica da parte dei Greci. E poiché l'iscrizione è in versi, costituisce anche il primo esempio noto di una poesia scritta con le lettere di un alfabeto. I versi alludono in maniera chiara alla coppa di Nestore descritta da Omero (vissuto probabilmente nel IX secolo a.C.) nell' Iliade. Ed è significativo che la coppa sia stata trovata lontano dalla madrepatria, nella prima colonia fondata dai Greci nel Tirreno e nell'intero Mediterraneo occidentale. Il fatto indica che i Greci hanno interessi culturali diffusi, grande dinamismo e grande capacità di innovazione. E infatti, non a caso, nel VII secolo iniziano a scrivere su un nuovo, comodo supporto importato dall'Egitto: il papiro.

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Questi sono, alla grossa, i presupposti che hanno fatto sì che, non molto tempo dopo, nel VI secolo a.C. per la precisione, sulle sponde dell'Egeo si pongano le solide fondamenta della matematica e della filosofia moderna. Ovvero della matematica e della filosofia che ancora oggi studiamo. E, anche se oggi (colpevolmente) consideriamo la matematica e la filosofia due discipline separate, in Grecia i primi matematici moderni sono anche i primi filosofi moderni. E viceversa: i primi filosofi sanno anche di matematica. Talete di Mileto ( 640-547 a.C.) nella Ionia, per esempio, è il primo nome che incontriamo sia nei testi di storia della filosofia quanto in quelli di storia della matematica. Questi primi filosofi e matematici greci sono persone di cultura eclettica e unitaria: non pensano, come molti oggi, che esistano due culture. Pensano, al contrario, che la cultura dell'uomo è una sola. Fondata sulla ragione. E che l'universo è un cosmo: un tutto armoniosamente ordinato. Anzi, un tutto armoniosamente ordinato comprensibile alla ragione dell'uomo. Matematica e filosofia - e, dunque, la ragione - sono, perciò, gli strumenti necessari e sufficienti per comprendere l'ordine cosmico. Ecco perché si dice che fu allora, tra il VI e il v secolo a.C., in Grecia, nella Ionia, a Mileto che l'umanità scopre "la potenza della ragione". In realtà una medesima brezza spira lungo tutta quella cintura che dalla Grecia porta all'Estremo Oriente. E, infatti, se Talete è vissuto all'incirca tra il 640 e il 546 a.C., in India il Gautama Buddha, il Buddha storico, è vissuto tra il 566 e il 486 a.C. È dunque quasi contemporaneo di quel Confucio, vissuto tra il 551 e il 479 a.C., che informa del suo pensiero la cultura e la storia della Cina. Insomma tra il x e il v secolo a.C. sono le grandi civiltà dei tre continenti connessi a scoprire, sia pure ciascuno a suo modo, "la potenza della ragione". A riprova che Asia, Africa ed Europa già in quei tempi non erano solo fisicamente, ma anche culturalmente collegati. Non stiamo uscendo fuori tema. Perché questa constatazione è, lo vedremo da qui a qualche pagina, davvero importante per la storia della matematica e, anche, per la storia di TI. Ma torniamo in Grecia, nella Ionia, a Mileto. Lì Talete inaugura quella che si rivelerà una costante nella storia della filosofia e della scienza dei Greci: la scuola. Come ricorda Morris Kline nella sua Storia del pensiero matematico, sono allievi diretti o indiretti di Talete e, dunque, si sono formati alla "scuola di Mileto': i filosofi Anassimandro ( 610-547 a.C.), Anassimene (550-480 a.C.) e Anassagora (500-428 a.C.). Probabilmente, studia matematica alla scuola di Talete anche Pitagora (585-497 a.C.), che

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a sua volta fonderà una propria originalissima scuola a Crotone, contribuendo a fare dell'Italia meridionale... la Magna Grecia. Talete è un gran viaggiatore e in questo suo peregrinare si ferma a lungo in Egitto, anche per studiare matematica e astronomia. È sulla base delle cognizioni matematiche acquisite sulle sponde del Nilo che, pare, riesce a prevedere un'eclisse di sole nel 585 a.C., suscitando stupore e ammirazione tra i suoi concittadini greci, ancora ignari dell'ordine dei moti celesti. Di Talete si dice che calcoli anche l'altezza delle piramidi, paragonando le loro ombre a quella prodotta da un bastone di altezza nota. E che, con il medesimo sistema, sia in grado di calcolare la distanza di una nave dalla spiaggia. Sappiamo inoltre che Talete conosce il metodo deduttivo e gli si attribuisce la formulazione e la dimostrazione di quattro teoremi matematici. In realtà quei teoremi Talete li comprende e li insegna, ma la paternità appartiene probabilmente a qualche (a noi) sconosciuto matematico egizio o babilonese. Non intendiamo con questo sminuire la figura del filosofo e matematico di Mileto. Talete è stato la membrana osmotica attraverso cui i saperi nati lungo il Nilo e/o tra il Tigri e l'Eufrate penetrano in Grecia, contaminando e fertilizzando la cultura di un popolo più che mai voglioso di capire il mondo. Questa voglia nasce, naturalmente, da una forte esigenza sociale. Nei secoli che precedono Talete e nei decenni che lo seguono i Greci danno vita alle poleis, le città-Stato non più governate da un moQarca, ma da una classe sociale emergente: l'aristocrazia. Lo sviluppo, demografico ed economico, dei Greci dà l'abbrivio sia alla nascita di nuove e ambiziose classi affiuenti - mercanti, artigiani e (anche) industriali - sia a quel fenomeno di espansione che li porta a colonizzare a Oriente la Tracia e le coste del Mar Nero e a Occidente le coste francesi, spagnole e soprattutto l'Italia meridionale.

Pitagora e lo scandalo logico di Ippaso Nella storia della matematica e anche nella nostra più limitata storia di n un posto speciale lo meritano Pitagora di Samo e la sua scuola, creata

proprio in una delle nuove colonie, a Crotone nella Magna Grecia. Pitagora ha studiato a Mileto e come Talete ha viaggiato sia in Egitto che in Mesopotamia. Si trasferisce poi a Crotone, città nuova e molto vivace,

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dove istituisce una scuola che ha un carattere non solo filosofico e matematico, ma anche religioso e politico. Ed è proprio a causa della politica che la scuola ben presto viene chiusa. Pitagora si è infatti alleato con gli aristocratici della città e di conseguenza si scontra con il partito democratico. Gli aristocratici hanno la peggio e il matematico-filosofo è costretto a rifugiarsi nella vicina Metaponto, dove è raggiunto dai suoi avversari e ucciso nel 497 a.C. La morte di Pitagora non segna affatto il tramonto del pitagorismo, ovvero del suo pensiero. La sua scuola viene fisicamente chiusa, ma non si disperde, piuttosto si diffonde in tutto il mondo greco. Per esempio, il suo più grande allievo, sia pure di seconda generazione, Archita di Taranto (428-360 a.C.) è il punto di riferimento di una scuola pitagorica che nasce nella Ionia. Ma in questa sede a noi interessano non tanto le vicende della scuola pitagorica quanto il pensiero matematico dei suoi membri, a iniziare da quello di Pitagora. Il filosofo di Samo merita un posto davvero speciale nella storia della scienza dei numeri, perché sgancia la matematica dalla realtà fisica e la colloca in una nuova dimensione: in una realtà astratta. Una realtà che Pitagora considera addirittura di ordine superiore rispetto a quella fisica. La matematica, nella visione del fondatore della scuola di Crotone, ha infatti una sua vita indipendente dal mondo fisico. Mentre il mondo fisico non ha una sua vita indipendente dalla matematica: se è vero, sottolinea Pitagora, che tutto nell'universo materiale è numero. L'ordine cosmico è un ordine matematico. I suoni, per esempio, sono consonanti e diventano musica quando sono esprimibili in termini di numeri interi semplici (1, 2, 3 e 4) o di rapporto tra questi numeri semplici. Questa regola, detta del tetrakys, costituirà il fondamento della teoria musicale occidentale per almeno due millenni. Fino a quando, nel XVI secolo, non sarà riformata da Gioseffo Zarlino (1517-1590) e infine contestata da Vincenzio Galilei (1520-1591), padre del più famoso Galileo Galilei (1564-1642). In realtà la separazione tra l'astratta matematica e la materia fisica non è sempre totale. Buona parte dei Pitagorici pensa che i numeri siano gli atomi di cui è costituita la realtà materiale, quindi a loro volta dotati di realtà fisica. Ma pare che Pitagora non la pensi affatto così. Per il matematico di Samo i numeri appartengono a una dimensione immateriale del tutto indipendente. E, infatti, lo storico Eudemo di Rodi (?-300 a.C.) lo considera il padre della matematica pura.

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Non possiamo addentrarci più di tanto nella ricostruzione della filosofia matematica di Pitagora e della sua scuola. Diciamo solo che, grazie soprattutto a Pitagora, i Greci inaugurano un nuovo approccio alla matematica, fondato sulla logica deduttiva, approccio che è alla base della moderna matematica. Dati pochi assiomi è possibile ricavare una serie praticamente infinita di risultati conseguenti per via, appunto, deduttiva. Aggiungiamo anche che Pitagora sa di geometria e che produce nuova conoscenza in questo ambito. Conosce il teorema che porta il suo nome, anche se la scoperta non è sua. E diciamo infine che a Crotone si pensa che tutto, compresa la geometria, compresa la musica, possa essere espresso o in termini di numeri interi o come rapporto, finito, tra numeri interi. Questo è il cosmo, il tutto armoniosamente ordinato, per Pitagora. Ipsedixit. Destino volle che proprio uno dei più brillanti allievi della sua raffinata scuola a un certo punto ponesse un problema che ha molto a che fare con la nostra storia. Prendiamo un quadrato, illustra Ippaso di Metaponto ( ?-500 a.C.) al suo maestro. Per semplicità lo prendiamo dilato unitario,s =1.

d

E ora cerchiamo di calcolare la diagonale, d, di questo quadrato. Essa non è che l'ipotenusa (i) di un triangolo rettangolo con i due lati uguali.

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Per un teorema ben noto, che noi oggi conosciamo come teorema di Pitagora, il quadrato costruito sull'ipotenusa è la somma dei quadrati costruiti sui lati: i> = 5 + 5 = 2

2

12

+1

2

=

2

Dunque, sostiene Ippaso davanti ai suoi colleghi e all'esterrefatto Pitagora: i= {i,

Ma la radice di 2 non è né un numero intero né un rapporto tra numeri interi. Ora, come riferisce Aristotele (384-322 a.C.), erano stati proprio Pitagora e i suoi a chiedersi quale fosse la vera natura della ...fi. e, con una dimostrazione per assurdo, a dimostrare che si tratta di un numero incommensurabile. Oggi diciamo che è un numero decimale illimitato non periodico.

E per questo, forse in omaggio alla visione del mondo di Pitagora, lo chiamiamo irrazionale. Per la verità Pitagora e i suoi non sanno che ...fi. è un numero decimale illimitato non periodico, tuttavia hanno chiaro che questo genere di numeri ha una natura affatto diversa rispetto a quella dei numeri commensurabili. La dimostrazione di incommensurabilità di ...fi. è contenuta nel Libro X degli Elementi scritto, come proposizione u7, da Euclide (367-283 a.C.) quasi due secoli dopo il problema sollevato da Ippaso. Ma si ritiene che essa non sia neppure di Euclide e sia stata aggiunta in un'epoca successiva. E infatti nelle versioni odierne degli Elementi viene omessa. Ma lasciamo agli storici di professione dirimere la questione e torniamo a Ippaso. La sua scoperta è triplice. Il giovane e brillante matematico, infatti, dimostra che: 1. esistono numeri incommensurabili che non sono né interi né rapporto tra numeri interi e che di conseguenza sembrano sfuggire alla ragione; 2. esiste qualcosa nel cosmo, addirittura un ente geometrico, che non può essere espresso in termini di numeri interi o di rapporto tra numeri interi; 3. c'è, dunque, un problema serio nei rapporti tra numeri e geometria. I numeri sono entità discrete. Le forme geometriche sono invece continue. Non è che il problema della diagonale del quadrato mette in luce questa stridente e profonda contraddizione?

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Tutti e ciascuno i rilievi di Ippaso minano alla base la filosofia matematica del maestro. Inaccettabile. La leggenda (perché di una leggenda si tratta) narra che Ippaso abbia posto il problema dell'incommensurabilità della diagonale di un quadrato mentre era su una nave al largo di Crotone. E che i suoi compagni, su ordine di Pitagora, subito dopo lo abbiano gettato in mare, sulla base di una sentenza immediata e inappellabile: Ippaso è colpevole di aver dimostrato che non tutto nell'universo è armoniosamente ordinato. O, almeno, che non tutto corrisponde all'idea di ordine armonioso che ne ha il maestro, Pitagora.

Atene e la scuola dei sofisti Vera o meno che sia la leggenda di Ippaso, certo è che la scuola di Pitagora sembra avere alcuni tratti mistici e altri tragici. Non tutte le scuole di matematica in Grecia hanno queste caratteristiche. E sì che ce ne sono tante e piuttosto importanti. Come ad esempio quella di filosofia e di matematica di Senofane (570-475 a.C.) che, nato a Colofone, nella Ionia, emigra in Sicilia e più precisamente a Zancle (l'odierna Messina), dove fonda, appunto, una scuola frequentata, tra gli altri, da Parmenide (515-450 a.C.) e Zenone (489-431 a.C.), entrambi nativi di Elea in Campania nei pressi dell'attuale Ascea, in provincia di Salerno. Senofane, Parmenide e Zenone si trasferiscono proprio a Elea per dar vita a quella che diverrà famosa come "la scuola eleaticà'. Ed è questa scuola che approfondisce il tema del rapporto tra continuo e discontinuo. Zenone proporrà quattro inquietanti paradossi - tra cui quello, celeberrimo, del piè veloce Achille che mai raggiunge la tartaruga; e quell'altro della freccia scagliata da un arco che sta per aria sempre ferma - cui solo molto tempo dopo sarà data una soluzione scientificamente accettabile. In particolare occorrerà attendere che Isaac Newton e Gottfried Leibniz elaborino il calcolo differenziale, cui però molto si è avvicinato con il metodo di esaustione Archimede di Siracusa. Le migrazioni degli intellettuali nella Grecia antica non sono a senso unico, dalla madre patria alla Magna Grecia. Ci si sposta anche in senso opposto. Presso Archita di Taranto, che, come abbiamo detto, è un allievo di seconda generazione di Pitagora, studia un giovane promettente, Eudosso (408-355 a.C.), che fonderà una sua scuola a Cizico, nell'AsiaMinore. Ma di lui e della sua scuola parleremo tra poco.

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Ora rivolgiamo la nostra attenzione alla città più famosa della Grecia, Atene. Perché è nell'Atene di Pericle (495-429 a.C.) che, probabilmente, sorgono le scuole di matematica e di filosofia più frequentate del v secolo a.C.: una è quella (a pagamento) dei sofisti - Protagora (486-4u a.C.), Gorgia (483-375 a.C.) e altri - attivi nella seconda metà del secolo; l'altra, destinata a diventare molto più famosa, è l'Accademia di Platone ( 428-348 a.C.), l'allievo di Socrate (470-399 a.C.). Qualcuno ha detto che la storia della filosofia altro non è che una serie di note a margine al pensiero di Platone e del suo allievo, Aristotele. E dunque non è esagerato dire che l'Accademia di Platone, con il Liceo poi aperto da Aristotele, sia stata la più grande scuola di filosofia dell'antichità. Ma, a differenza del Liceo di Aristotele, l'Accademia di Platone è una scuola grande in matematica quanto in filosofia. Tanto per esser chiari, sulla porta d'ingresso dell'Accademia è scritto: «Non entri chi non conosce la geometria». No, non è un caso. Nell'Atene di Pericle si respira aria e matematica (oltre che aria e filosofia o aria e arte). E non è un caso neppure che a cimentarsi direttamente con ne il suo valore sia Anassagora di Clazomene, che di Pericle è il maestro. La verità è che siamo, ormai, in un secolo - il V a.C. davvero cruciale per la storia del mondo occidentale: perché è in questo secolo che i Greci respingono definitivamente i tentativi di conquista dei Persiani. È in questo secolo che l'Atene di Pericle afferma la sua egemonia culturale. Ed è in questo secolo infine che Sparta impone la forza delle armi e sconfigge la colta rivale al termine di una lunga guerra. Ma dopo la vittoria definitiva sui Persiani (479 a.C.) e prima della sconfitta a opera di Sparta (405 a.C.), Atene diventa un centro economico molto importante e una "città creativà' che splende di luce assoluta per la sua arte, per la sua filosofia e per i suoi matematici. È infatti Atene, che potremmo definire la "città della ragione", che "inventà' il ragionamento astratto, e che contende alla Ionia e alla Magna Grecia il ruolo di centro più vivace per gli studi matematici. E di matematica si occupano entrambe le scuole cui abbiamo fatto cenno. I sofisti, infatti, affrontano i tre problemi cosiddetti di costruzione, che si risolvono avendo a disposizione solo riga e compasso: la quadratura del cerchio; dato un cubo, come individuare il lato di un secondo cubo che abbia un volume doppio rispetto al primo; come dividere in tre parti uguali (trisecare) una angolo.

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L'Atene del V secolo a.C. è considerata la patria della ragione e della democrazia. Eppure Anassagora di Clazomene, l'uomo che ha portato la filosofia in città, avrebbe potuto dissentire, visto che viene messo in carcere con l'accusa di empietà per aver sostenuto in pubblico che il Sole non è un dio, ma un pezzo di roccia incandescente grande almeno quanto l'intero Peloponneso. Anassagora inaugura, ahimè, la lunga stagione degli uomini perseguitati per le loro teorie scientifiche, proprio come Socrate inaugura quella degli uomini perseguitati per le proprie idee filosofiche. Ma Anassagora inaugura anche la stagione, non meno lunga, di coloro che cercano la "quadratura del cerchio", ovvero un metodo per costruire, dato un cerchio, un quadrato con la medesima area. Il problema, di natura teorica, appassionerà molti matematici fino al 1882, quando si dimostrerà irrisolvibile. Il tema è strettamente legato alla storia di n. Nel 1882, infatti, Ferdinand von Lindemann (1852-1939) pubblicherà un lavoro sulla "naturà' del nostro numero, dimostrando che è trascendente (abbiate un po' di pazienza e tra qualche pagina scoprirete di che si tratta). In precedenza Lindemann aveva dimostrato che se 7r fosse stato un numero trascendente, allora il primo problema dei sofisti, la quadratura del cerchio, sarebbe stato irrisolvibile. Aver posto e iniziato ad affrontare un problema per risolvere il quale sono occorsi più di duemila anni non è cosa da poco, per Anassagora e per i sofisti. Ma chi, nell'economia della nostra piccola storia, ci interessa di più in questo momento, perché anticipa Archimede, è il sofista Antifonte ( 48 0410 a.C.), il quale va insegnando che se prendo un cerchio e vi inscrivo un quadrato e poi il poligono regolare che ha il doppio dei suoi lati (l'ottagono) e poi ancora raddoppio il numero dei lati (poligono a l 6 lati) e ancora raddoppio (poligono a 32 lati) e continuo finché il cerchio non è esausto, il che significa in pratica all'infinito, otterrò un poligono con un perimetro che coincide con la circonferenza del cerchio. Poiché ogni buon geometra, prosegue Antifonte, è perfettamente in grado di ottenere dall'area di un qualsiasi poligono quella equivalente di un quadrato, allora la quadratura del cerchio è, in linea di principio, possibile. In quegli stessi anni Ippocrate di Chio (470-410 a.C.) - da non confondere con il medico, Ippocrate di Cos (460-377 a.C.), suo contemporaneo - scrive un'opera intitolata Elementi di geometria. È l'opera seminale di uno specialista. E non a caso Ippocrate è considerato il primo matematico specialista della storia, almeno di quella occidentale. Poiché lo studioso

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di Chio è anche il primo a dimostrare che è possibile calcolare l'area (A) sottesa a una curva, entra di diritto nella grande storia di n.

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È il famoso problema della quadratura delle lunule, affine a quello della quadratura del cerchio. Purtroppo gli Elementi e tutti gli scritti originali di Ippocrate sono andati perduti. Ma è probabile che la sua sia stata una dimostrazione per assurdo: la prima dimostrazione per reductio ad absurdum nella storia della matematica. La prova verrà ripresa da due grandissimi, Eudosso ed Euclide: personaggi che, abbiate ancora pazienza, incontreremo tra poco. Diciamo subito però che i risultati raggiunti da Antifonte e da Ippocrate saranno giudicati falsi da Aristotele. Un altro esponente della scuola sofista, Ippia di Elide (443-399 a.C.), è il primo invece a definire e a costruire con riga e compasso una nuova curva, diversa sia dalla linea retta sia dal cerchio. La curva è oggi nota come "trisettrice di Ippià' o anche "quadratrice". Non entriamo nei dettagli. Ma ricordiamo che la "trisettrice di Ippià' viene utilizzata anche per cercare di "quadrare il cerchio". E che, soprattutto, nell'Atene del V secolo a.C., la matematica inizia davvero a cambiare. I filosofi e i matematici si interessano di problemi teorici che vanno ben oltre i bisogni pratici immediati. E studiano sempre più a fondo il problema geometrico delle linee curve, compreso il cerchio. Tutti questi studi comportano una nuova e più profonda attenzione a n.

L'Accademia di Platone La leadership matematica dei sofisti, ad Atene, non dura a lungo. All'inizio del Ìv secolo si impone infatti la scuola di un filosofo che, come abbiamo detto, farà molto parlare di sé e segnerà per sempre la cultura occidentale: Platone.

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Su Platone esiste una sterminata letteratura. E dunque di lui non parleremo più di tanto. Se non per dire che è allievo di Socrate che, grande filosofo, sapeva poco di matematica. Mentre lui, Platone, la matematica la conosce benissimo. D'altra parte la sua filosofia è impregnata di pitagorismo e tra i suoi principali maestri, Socrate a parte, ci sono proprio due allievi di Pitagora: Teodoro di Cirene (46s-? a.C.) e il già menzionato Archita di Taranto. Figlio di Aristone, nel 387 a.C. Platone fonda nella sua città natale, Atene appunto, una nuova scuola, l'Accademia. Collocata in un palazzo - il palazzo della conoscenza - dove il filosofo e i suoi collaboratori impartiscono lezioni formali a nugoli di studenti. Se è impossibile sopravvalutare l'influenza che, sia nel corso di novecento anni di attività (sarà chiusa nel 529 dall'imperatore Giustiniano) sia dopo, la scuola di Platone ha nella storia della filosofia, è anche difficile esagerare l'influenza che ha avuto nella storia del pensiero matematico. Otre al già citato «Non entri chi non sa di geometria», Plutarco gli attribuisce un altro motto destinato a diventare famoso e, soprattutto, ad assumere un valore seminale: «Dio geometrizza sempre». Inoltre uno dei suoi maestri, Archita, ha il merito (presunto) di aver posto il quadrivio - il raggruppamento di aritmetica, geometria, musica e astronomia - alla base dell'insegnamento liberale. E un altro maestro, Teodoro di Cirene, ha proseguito gli studi di Ippaso e ha scoperto che anche f3, {s, f7 ... fino a {ii sono, proprio come {i., numeri incommensurabili. Mentre uno dei migliori allievi di Platone, Teeteto, continua gli studi su quei numeri, gli incommensurabili, che così profondamente avevano turbato Pitagora. Platone è dunque ben cosciente dei limiti della visione ingenuamente pitagorica. Ma non è solo per questo che il grande filosofo entra di diritto nella nostra breve storia di 7!". Il fatto è che né noi né soprattutto gli storici di professione possiamo prescindere da Platone e dalla sua Accademia: innanzitutto, perché, come ricorda Carl Boyer nella sua Storia della matematica, «sebbene Platone non abbia dato personalmente alcun notevole contributo specifico alla matematica dal punto di vista strettamente tecnico, fu nondimeno il centro dell'attività matematica di quel tempo e guidò e ispirò il suo sviluppo». Ed è particolarmente degno di importanza, scrive Morris Kline, «che quasi tutto il lavoro matematico importante del IV secolo sia stato fatto da amici e allievi di Platone». Insomma, il grande filosofo è un "creatore

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di matematici": tutti i grandi matematici del suo tempo appartengono alla sua scuola. In secondo luogo non possiamo prescindere da Platone anche e soprattutto perché lui e la sua scuola affinano le intuizioni di Pitagora e considerano i numeri e le figure geometriche enti astratti che nulla hanno a che fare con gli oggetti materiali del mondo fisico. Numeri e forme geometriche vivono in una dimensione propria e indipendente: in una realtà astratta e pura, l'unica dove è possibile raggiungere la verità assoluta. Questa idea per nulla scontata - idea metafisica che non a caso nasce in un contesto in cui i numeri e gli enti geometrici sono fatti oggetto di attenzione da parte di filosofi - avrà e ha tuttora una profondissima e per certi versi determinante influenza sullo sviluppo della matematica. Questo approccio ha degli svantaggi e, secondo alcuni, delle controindicazioni: allontana la matematica dalle cose pratiche e dalle concrete applicazioni. Ma ha il vantaggio inestimabile di dar vita in maniera sistematica sia al metodo analitico, fondato sul ragionamento assiomatico-deduttivo, sia al metodo della reductio ad absurdum, due approcci completamente astratti che, tuttavia, ancora oggi informano il nostro ragionamento matematico.

Il Liceo di Aristotele Uno dei grandi allievi della scuola di Platone è Aristotele di Stagira (ca. 384-322 a.C.). Che, come abbiamo detto, è considerato, insieme al suo maestro, il più grande filosofo di ogni tempo. In realtà, Aristotele è considerato anche il più grande logico di ogni tempo, in questo caso eguagliato, dicono in molti, solo nel xx secolo da Kurt Gode!. Sia come sia, tre fatti sono certi: lo Stagirita si allontana dal pensiero di Platone; ne elabora uno proprio e fonda una propria scuola di filosofia ad Atene, il Liceo. Certo, Aristotele non dà alcun contributo diretto alla matematica. Anche se si impegna a confutare la teoria degli indivisibili (ovvero delle grandezze infinitesimali) proposta dal collega Senocrate (396-314 a.C.), succeduto a Platone nella guida dell'Accademia; dà contributi fondamentali - diciamo pure fondativi - allo sviluppo della logica, anche se cita spesso, nei suoi libri, importanti teoremi matematici. Ma Aristotele entra, indirettamente, nella storia della matematica e più in gene-

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rale della scienza anche perché è uno degli insegnanti più influenti del giovane Alessandro il Macedone: personaggio a sua volta decisivo nella vicenda scientifica per una serie di motivi che chiariremo tra poco. Per tutto questo è giusto ricordare con il dovuto rilievo Aristotele anche in un libro che ha intenzione di ricostruire la storia matematica e, per così dire, sociale di n. In questa veloce carrellata vale la pena ricordare anche un tale di nome Autolico (360-290 a.C.), proveniente da Pitane, e autore di un piccolo trattato Sul moto della sfera. Non vi sono contributi né originali né particolarmente profondi in quest'opera. E tuttavia è la prima opera di matematica giunta sino a noi. Ed è in grado di dimostrare che, ai tempi di Platone e di Aristotele, i Greci hanno una cultura geometrica avanzata e sanno ormai organizzare i teoremi di geometria e dimostrarli in maniera chiara ed esaustiva. Che, insomma, hanno già inventato la geometria moderna.

Eudosso e il metodo di esaustione Quella di Platone ad Atene nel IV secolo a.C. è, a detta di Carl Boyer, la più importante scuola matematica oltre che filosofica del mondo. E il più grande matematico che frequenta la più grande scuola di matematica del mondo è certamente Eudosso. Nato a Cnido, giunto ad Atene ed entrato in Accademia, Eudosso definisce in termini rigorosi cosa significa mettere in rapporto due grandezze ed elabora una vera e propria teoria delle proporzioni, la prima nella storia della geometria. Nel fare questo risolve, almeno in parte, il problema delle grandezze incommensurabili. Un problema decisivo per chi cerca di affrontare il tema della natura di n: è, il nostro, un numero incommensurabile o no? Nel fare questo, sostiene Morris Kline, Eudosso separa la scienza dei numeri da quella delle forme; il discreto dal continuo; la matematica, dove si presenta il problema irrisolto degli incommensurabili, dalla geometria, dove il problema viene invece risolto, ponendo in rapporto alcune grandezze, come il lato e la diagonale di un quadrato. Ma non inoltriamoci più di tanto nella storia del pensiero di Eudosso. E ritorniamo al nostro n. Ebbene, Eudosso affronta anche il problema fondamentale in cui si imbatte chi vuole calcolare il valore di n: il problema del metodo. Archimede riconosce che è lui, Eudosso, a proporre per primo il metodo dell'esaustio-

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ne e dunque a inventare l'equivalente del concetto moderno di integrale: come calcolare l'area sottesa a una curva. Diciamo subito che il termine "esaustione" non è propriamente greco. Lo ha introdotto, nel 1647, Grégoire de Saint-Vincent (1584-166?). Tuttavia il metodo dell'esaustione, quello sì, è antico. Lo ha usato da par suo, come abbiamo detto, Archimede, ma lo ha inventato Eudosso. Si tratta di un metodo per verificare se due aree (quella di un cerchio e quella di un poligono regolare, per esempio) o due volumi (il volume di un cono e quello di un cilindro, per esempio) sono uguali. Per fare questo Eudosso inventa due concetti. Il primo oggi lo chiamiamo "piccolo a piacere": inscriviamo in un cerchio un poligono regolare con un lato "piccolo a piacere". Il secondo lo chiamiamo "passaggio al limite": via via che ne rendiamo piccoli a piacere i lati, il perimetro del poligono tende a uguagliare la circonferenza del cerchio in cui è inscritto. Oggi diremmo che la circonferenza del cerchio è il limite di un poligono regolare con un numero di lati infinitamente piccoli. Il metodo di esaustione prevede quel tipo di "dimostrazione per assurdo" molto usato presso l'Accademia di Platone. Utilizzando i concetti di "piccolo a piacere" e di "dimostrazione per assurdo", Eudosso dimostra che il volume di due sfere stanno in proporzione come il volume di due cubi, se i due cubi hanno per lato i rispettivi raggi delle due sfere. L'allievo di Platone dimostra anche che il volume di un cono è un terzo del volume di un cilindro con base e altezza uguali. Eudosso sarebbe, dunque, il padre del calcolo integrale e questo sarebbe, secondo Carl Boyer, il massimo contributo dato dall'Accademia di Platone alla matematica. Un contributo non da poco. E poiché Eudosso è anche il primo ad aver fornito una descrizione geometrica dei movimenti del Sole, della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti, è considerato anche il fondatore dell'astronomia scientifica. Con questa doppia paternità, Eudosso entra di diritto nel ristretto empireo degli uomini di scienza più grandi di ogni tempo. Il matematico di Cnido è il fondatore anche di una sua propria scuola, i cui discepoli più importanti sono i fratelli Menecmo (380-320 a.C.) e Dinostrato (390-320 a.C.). Il primo, Menecmo, scopre le curve che oggi chiamiamo ellisse, parabola e iperbole. Il secondo, Dinostrato, ottiene una formula per la quadratura del cerchio: partendo da quella curva che abbiamo chiamato "trisettrice di Ippià', il discepolo di Eudosso mette in una relazione precisa il lato del quadrato associato alla triset-

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trice e il raggio di un cerchio che la interseca con un angolo tra il raggio e il lato del quadrato che tende a zero. Il valore limite del rapporto r/l è uguale a 2/n. D

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Lo diciamo a beneficio degli appassionati. Per la quadratura del cerchio Dinostrato chiama in causa la teoria delle proporzioni del maestro Eudosso e dimostra che il segmento AB della "trisettrice di Ippià' in figura è il "medio proporzionale" tra l'arco BD e il segmento AT. Medio proporzionale significa che il rapporto tra BD e AB è uguale al rapporto tra AB e AT. Nella simbologia matematica: BD:AB = AB:AT. Poiché AB e AT sono segmenti rettilinei facilmente misurabili, ecco che posso ottenere la lunghezza dell'arco BD. Mal' arco BD è pari a un quarto di circonferenza. Ora è facile, con semplici operazioni geometriche, costruire un quadrato della stessa area di un cerchio di raggio AB.

4 La scienza ellenistica

Alessandria, città della cultura Scrive Morris Kline: «Quando nel periodo alessandrino (dal 300 a.C. fino al 600 d.C. circa) venne abbattuta la barriera tra classi colte e schiavi e gli uomini colti incominciarono a interessarsi degli affari pratici, l'attenzione si spostò verso la conoscenza quantitativa e verso lo sviluppo dell' aritmetica e dell'algebra». Lo storico americano coglie una grande novità - un autentico punto di svolta - negli anni segnati dalla vicenda, per molti versi incredibile, di un giovane macedone, Alessandro, figlio di Filippo (e, lo abbiamo già detto, allievo di Aristotele), che nel corso della sua breve vita, 33 anni appena, unifica la Grecia e costruisce un impero che dal Mediterraneo si spinge fino all'Oceano Indiano, comprendendo in sé tre grandi sistemi fluviali intorno a cui si addensano alcune tra le più grandi civiltà del passato e del presente: quella del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate, dell'Indo. Lungi da noi anche solo l'idea di tentare di ricostruire la grande impresa di Alessandro Magno. Diciamo solo che il Macedone non si limita a raccogliere e a contaminare tra loro le conoscenze di quelle svariate civiltà. E non si limita a organizzare delle vere e proprie campagne scientifiche per la produzione di nuove conoscenze, dando nuovo impulso alla ricerca e all'innovazione tecnologica. Alessandro e i suoi successori creano di fatto una nuova economia, sostanzialmente diversa da quella della Grecia classica, che mette in connessione stretta terre vastissime mediante scambi intensi e che si fonda non solo sull'agricoltura, ma anche su un tipo di produzione urbana di beni e manufatti che, con un minimo di azzardo, potremmo definire di tipo industriale. Ed è per questo che nella nuova società che si estende tra il Mediterraneo e l'Indo, scrive Kline, «gli uomini colti incominciano a interessarsi degli affari pratici» e che «l'interesse si sposta verso la conoscenza quantitativa».

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Questa trasformazione alimentata dalla contaminazione culturale comporta una transizione economica di tale portata da far nascere, di fatto, una nuova civiltà: la civiltà ellenistica. Un ruolo decisivo nello sviluppo della civiltà ellenistica, di un' economia (anche) manifatturiera e di una scienza con forti interessi per la conoscenza quantitativa lo gioca una città che il ventiquattrenne Alessandro fonda nel corso della sua spedizione in Egitto, tra il 332 e il 331 a.C. La città porta ancora oggi il suo nome: Alessandria. Quando il giovane condottiero muore, nel 323 a.C., l'impero, come è noto, viene diviso tra i suoi generali, i cosiddetti diadochi. In Egitto si afferma il generale Tolomeo di Sotere (367-283 a.C.), che diventare e capo di una nuova dinastia nella terra dei faraoni. È Tolomeo che fa di Alessandria un centro di cultura, fondando l'equivalente di una moderna università, che in onore delle Muse chiama Museo. Il diadoco di Alessandro vuole che il Museo sia non solo e non tanto una scuola di eccellenza, ma anche e soprattutto un centro - il più grande centro del mondo - di produzione di nuove conoscenze. Per questo chiama i maggiori esponenti della cultura ellenistica filosofica e scientifica. Sotto l'ala protettrice dei despoti illuminati della dinastia dei Tolomei, il Museo di Alessandria diventa effettivamente e in breve tempo il massimo centro culturale del mondo ellenistico. Un centro cosmopolita, con studiosi che vengono da ogni dove: ma che in prevalenza sono greci, egizi e in seguito ebrei. Tutti di grande, talora di grandissimo livello. Così Alessandria diventa, e lo sarà a lungo, la "capitale mondiale della scienzà'. Annessa al Museo e di fatto sua componente fondamentale, dal 305 a.C., è la Biblioteca, che arriverà a ospitare qualcosa come 750.000 volumi. Il terzo o quarto (a seconda delle fonti) direttore della Biblioteca è un matematico - anzi, un grande matematico - e astronomo e geografo: Eratostene di Cirene (273-192 a.C.), il quale, tra l'altro, riesce a calcolare la circonferenza della Terra con un errore non superiore all'1% rispetto a quella che conosciamo oggi, semplicemente misurando alla medesima ora le ombre generate dal Sole in due diverse città, la stessa Alessandria e Siene, poste all'incirca sul medesimo meridiano a una distanza che Eratostene calcola di 5.040 stadi (pari a 794 chilometri) e che oggi sappiamo essere di 5.330 stadi (pari a 846 chilometri). Con le sue tabelle trigonometriche, Eratostene calcola anche la distanza dalla Terra della Luna e del Sole, quest'ultima con notevole precisione. Il direttore della Biblioteca, infine, inventa il nome "geografià' per indicare

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lo studio della Terra e utilizza in maniera così sistematica e precisa le coordinate della sfera (latitudine e longitudine), da essere ancora oggi considerato il fondatore della geografia fisica o, se volete, della geografia scientifica. Eratostene è certamente una figura straordinaria, ma non è il solo ad Alessandria. Presso il Museo e la Biblioteca giunge infatti un'intera costellazione di matematici e astronomi e scienziati naturali, che realizzano una vera e propria rivoluzione culturale: le loro attività correlate producono in maniera rigorosa e sistematica quella rete inestricabile di teorie, osservazioni, scoperte e applicazioni tecnologiche che chiamiamo "scienzà'. Lucio Russo, nel suo La rivoluzione dimenticata, dimostra che è proprio in epoca ellenistica e in particolare ad Alessandria che è nata la scienza moderna, ovvero qualcosa che ha tutti i caratteri epistemologici che attribuiamo oggi a un certo tipo di attività di ricerca sulla matematica e sulla natura. Già, ma perché in epoca ellenistica e in particolare ad Alessandria nasce la scienza? Perché, sostiene Lucio Russo, è qui e ora, nella Alessandria dei Tolomei, che il pensiero razionale e la filosofia naturale dei Greci incontrano l'elevata tecnologia egizia. È questa contaminazione di ragion pura e tecnica, di ricerca per curiosità e di ricerca per necessità, che produce la scienza. Un'attività fondata, per dirla con Galileo, su "certe dimostrazioni" (le teorie, possibilmente matematizzate) in corrispondenza stretta con "sensate esperienze': realizzate mediante i nostri cinque sensi, ma anche mediante strumenti costruiti con perizia ad hoc. È questo combinato disposto che costituisce la parte essenziale e non divisibile dell'attività scientifica. Ed è sempre con questo combinato disposto che, per la prima volta, la scienza diventa "madre di sua madre", la tecnologia; diventa cioè un' attività, razionale, di indagine sulla natura in grado di rispondere a una precisa domanda sociale ed economica: quella dell'innovazione tecnologica sistematica. Questa domanda è presente nella società ellenistica: ad Alessandria d'Egitto in particolare, ma non solo.

La rivoluzione scientifica La scienza intesa in senso moderno nasce, come abbiamo detto e come sostiene Lucio Russo, tra il Mediterraneo e l'Indo, in un periodo molto preciso e limitato: dopo la conquista e l'unificazione da parte di Alessan-

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dro Magno degli antichi imperi. Eudosso è stato un antesignano, ma la scienza "esplode" solo nel III secolo a.C. e il suo centro più importante è senza dubbio Alessandria d'Egitto. Si fa però buona scienza anche in tante altre città, tra cui Siracusa, Rodi, Pergamo. La scienza è un'attività sociale complessa, che non si riduce a una successione di pochi fulmini brillantissimi e crepitanti in un cielo altrimenti buio e sereno. E tuttavia questi fulmini della conoscenza - i geni, che conferiscono al processo straordinarie accelerazioni - ci sono. Possiamo dunque sostenere che, oltre a Eratostene, protagonisti della "rivoluzione scientifica ellenisticà' sono alcuni geni assoluti, come i matematici Euclide (330-260 a.C.) e Archimede (287-212 a.C.), gli astronomi Aristarco (310-230 a.C.) e Ipparco (190-120 a.C.), i medici Erofilo (335-280 a.C.) ed Erasistrato (330-250 a.C.). Ma quella che si forma nella prima età ellenistica è una vera e propria ed estesa comunità scientifica, con un proprio sistema di comunicazione e con un sistema di valori condivisi, capace di scuotere la vita culturale ma anche sociale ed economica dell'Egitto, della Grecia, della Persia fino all'Indo. E che si fa sentire anche in India e in Cina. Quanto alla comunità scientifica ellenistica, il suo nucleo originario e la sua componente più rilevante si raduna intorno al Museo e alla Biblioteca voluti ad Alessandria da Tolomeo, il generale macedone che nel 306 a.C. assume il controllo dell'Egitto. Tra gli atti più significativi del diadoco proclamatosi re c'è, appunto, l'inizio dei lavori per dotare Alessandria di una Biblioteca e di un Museo intesi non (solo) come luoghi statici di conservazione di libri e di oggetti, ma come luoghi dinamici di formazione e di ricerca. Tolomeo chiama ad Alessandria i migliori intellettuali del Mediterraneo e del Medio Oriente, compresi matematici, astronomi, medici. Crea così il primo istituto pubblico di ricerca e il primo nucleo di una comunità scientifica di cui si abbia notizia. Una comunità autentica, non solo formale. Presso la Biblioteca e il Museo si svolge un'attività pienamente sociale: si lavora e si vive nel medesimo luogo, si condivide il cibo, si discute, ci si accorda sulle regole dialettiche. Un medico, per esempio Erofilo, e un matematico, per esempio Euclide, possono incontrarsi quotidianamente, e dai loro incontri nasce una naturale interdisciplinarità: non a caso la medicina di Erofilo è fortemente informata della logica matematica di Euclide. Alessandria è il principale, ma lo ripetiamo, non è l'unico centro rilevante. La comunità scientifica ellenistica è molto più vasta di quella pre-

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sente nella grande città africana. Questa comunità non è frammentata, ma costituisce una rete continua che si regge su un sistema di comunicazione fondato non solo sulle relazioni vis vis, ma anche e soprattutto sulla corrispondenza scritta e sul rotolo. Non è un caso se nessuno mai prima aveva visto una biblioteca come quella di Alessandria d'Egitto, che già all'epoca di Tolomeo II (308-246 a.C.) conta, come abbiamo già sottolineato, 400.000 volumi e nel 48 a.C., all'epoca del primo incendio distruttivo, ne possiederà ben 700.000. E non solo ristrette élite attingono a questo sapere; esso è, almeno tendenzialmente, per tutti: una sezione della Biblioteca, il Serapeo, è aperta al pubblico e già nel III secolo a.C. annovera ben 42.800 volumi. Tutto questo non è frutto del dispotismo illuminato dei Tolomei. Nessuno mai aveva organizzato così tanti dossografi, copisti amanuensi, biografi e cronografi come quelli che si ritrovano nel centro di ricerche, soprattutto filologiche, voluto da un altro generale di Alessandro, Attalo (269-197 a.C.), divenuto re a Pergamo, in Asia Minore. Qui nel 180 a.C. viene messo a punto un nuovo materiale su cui scrivere, la pergamena, in grado di sostituire il fragile e deteriorabile papiro. Anche Pergamo ha una grande biblioteca e una vivace attività scientifica, che rivaleggiano con quelle di Alessandria. È interessante notare che la pergamena viene realizzata per necessità, quando i Tolomei bloccano l'esportazione dei papiri dall'Egitto, e in Asia Minore scienziati e tecnici si disperano alla ricerca di un sistema per continuare a scrivere. Il testo scritto, lo si sarà capito, ha un ruolo davvero decisivo nel forgiare la cultura ellenistica, che non si frammenta in tante isole, le città-Stato, ma, per volontà dello stesso Alessandro Magno, ha una vocazione universalistica, in cui Grecia e Oriente, culture e popolazioni diverse, si fondono in un'unica, grande civiltà, che prescinde i confini politici. D'altra parte questa civiltà mediterranea e mediorientale unificata può contare su una lingua comune, che è sì il greco, ma un greco profondamente innervato di termini e di neologismi, soprattutto scientifici, egizi, fenici, persiani, indiani. La scienza è, dunque, uno dei fili principali dell'ordito della cultura ellenistica. Ma torniamo nella città di Alessandria, in Egitto. Nel Museo, accanto alla Biblioteca, vengono allestite varie sale anatomiche, un osservatorio astronomico, un orto botanico, un giardino zoologico: quasi a significare che testo scritto e osservazione scientifica della natura non possono essere separati.

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Tra i primi direttori della Biblioteca ad Alessandria c'è, come abbiamo detto, un grande matematico e astronomo, Eratostene di Cirene. Un intellettuale davvero versatile. Come matematico è tra i primi a sviluppare un sistema generale per elaborare la lista dei numeri primi ed è il primo a risolvere il problema della duplicazione del cubo. A questo proposito Eratostene fornisce un primo esempio di novità della scienza ellenistica: passa in rassegna tutti i tentativi precedenti di soluzione, offre la sua dimostrazione e mette a punto uno strumento tecnologico, il mesolabio (un antesignano del regolo calcolatore), in grado di risolvere in maniera molto semplice e agevole alcuni problemi pratici. Come astronomo, Eratostene dimostra l'obliquità dell'eclittica (cioè del piano in cui giace l'orbita terrestre rispetto alla sfera celeste); calcola le distanze relative tra Terra, Sole e Luna; cataloga quasi 700 stelle. E, soprattutto, fonda, come abbiamo già ricordato, la geografia scientifica, fornendo, tra l'altro, misure estremamente precise relative alla grandezza della Terra e dello stesso sistema solare. Ma la nascita esplosiva della scienza ellenistica produce risultati eccezionali come e più di quelli ottenuti da Eratostene: in matematica, per esempio, che proprio nel III secolo ad Alessandria ha il suo "periodo aureo". Uno dei protagonisti assoluti di questa età dell'oro matematica è Euclide, chiamato da Tolomeo ad Alessandria proprio per insegnare, studiare e creare matematica. Poiché, come nota Carl Boyer, il Museo di Alessandria non è poi così diverso da un moderno istituto superiore di insegnamento e di ricerca, ne consegue che ha ragione Peter Higgins, quando sostiene, in

Un mondo di matematica. Dalle piramidi egizie alle meraviglie dell'Alhambra, che Euclide è il primo direttore al mondo di un dipartimento di matematica. Di Euclide parleremo tra poco. E tra poco torneremo a parlare anche di Archimede. Intanto diciamo che un altro dei grandi matematici del periodo ellenistico è Apollonia di Perga (262-190 a.C.). Vive al tempo di Archimede e al Siracusano contende, non immeritatamente, la fama. L'opera principale di Apollonia riguarda le Sezioni coniche, enti geometrici di cui definisce le proprietà fondamentali, introducendo i termini e i concetti di ellisse, parabola e iperbole. Apollonia elabora anche un sistema per il calcolo dei grandi numeri, in buona sostanza equivalente a quello di Archimede. Purtroppo la gran parte dei suoi scritti è andata perduta. Ma ciò che resta e ciò che ci ha tramandato Pappo (attivo ad Alessandria mezzo millennio dopo, intorno al 320) è materiale sufficiente perché Carl Boyer,

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nella sua Storia della matematica, dedichi ad Apollonia un intero capitolo, proprio come ad Archimede e a Euclide. I tre sono di gran lunga i massimi esponenti della matematica ellenistica. Ma certo non ne esauriscono il quadro. In questo periodo, per esempio, si sviluppa anche la trigonometria, che non è attribuibile, specificamente, all'elaborazione di una singola persona. Più in generale possiamo ribadire che nel III secolo a.C. nel mondo ellenistico viene fondata e ampiamente sviluppata la scienza matematica. Ma a esplodere, nel III secolo a.C., non è solo la matematica. Abbiamo già accennato al fatto che Eratostene fonda la geografia scientifica e Archimede la scienza fisica moderna. La realtà è, tuttavia, che a svilupparsi è un insieme di conoscenze "esatte" non rigidamente delimitate in comparti disciplinari. Un ambito di studi importante è, per esempio, l'astronomia. Lo studio dei cieli nel III e nel n secolo riceve un'ulteriore e straordinaria accelerazione grazie, soprattutto, a due personaggi: Aristarco e Ipparco. Il primo propone, duemila anni prima di Copernico (1473-1543), la teoria eliocentrica. Il secondo vive e opera a Rodi, dove dirige un vero e proprio osservatorio, anche se ovviamente lo strumento ottico è l'occhio nudo, uno strumento che egli utilizza con la pazienza e che potenzia con la matematica. Ipparco sviluppa, infatti, la trigonometria e la applica all'astronomia ottenendo almeno tre risultati di notevole importanza: redige un catalogo che comprende 1.080 stelle collocate con precisione nella mappa del cielo e classificate in base alla luminosità; scopre la "precessione degli equinozi", ovvero lo spostamento ciclico (il ciclo dura 26.000 anni) dell'asse di rotazione della Terra rispetto al moto diurno delle stelle fisse; sviluppa una "teoria del moto dei pianeti" che è certamente geocentrica, ma fondata sugli eccentrici, invece che sugli epicicli, preferiti da Apollonia. Ipparco deve essere considerato anche il fondatore, insieme a Eratostene, della geografia scientifica. Se, infatti, Eratostene utilizza in maniera sistematica le coordinate sferiche (longitudine e latitudine) per realizzare mappe precise del mondo conosciuto, Ipparco studia le differenze delle maree nell'Oceano Indiano e nell'Oceano Atlantico, deducendo che deve esserci un continente a dividerli (oggi sappiamo che quel continente esiste, ed è l'America). Secondo la ricostruzione che Lucio Russo ha proposto in L'America dimenticata, Ipparco in realtà conosce l'esistenza di quel continente - che pare sia stato scoperto e regolar-

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mente frequentato dai Cartaginesi - e ha, con incredibile precisione, calcolato le giuste coordinate geografiche sia delle Piccole Antille sia della Groenlandia. Ma la rivoluzione scientifica non riguarda solo la matematica, la fisica (meccanica, ottica, idrostatica, pneumatica ed astronomia) e la geografia (dalla topografia alla geodesia): riguarda anche altri ambiti disciplinari. Dalla botanica - un nome per tutti, Teofrasto (371-287 a.C.), allievo di Aristotele e successore dello Stagirita alla direzione del Liceo di Atene alla chimica. E riguarda in particolare la medicina, dominata fino ad allora dalla figura di Ippocrate (460-377 a.C.) e dalla sua teoria degli umori. Erofilo di Calcedonia, considerato il fondatore della scuola medica di Alessandria, pratica la medicina clinica con un metodo che potremmo definire moderno, ma, soprattutto, inaugura sia l'anatomia umana scientifica, attraverso la dissezione dei cadaveri, sia l'anatomia comparata, mettendo a confronto organi e apparati di uomini e animali. L'attività di ricerca di Ero filo è affinata, sempre ad Alessandria, da Erasistrato, originario di Ceo, convinto assertore dell'approccio meccanicista alla fisiologia. I suoi studi di anatomia gli consentono di distinguere tra due diversi tipi di vasi che attraversano il corpo umano, le arterie e le vene, che assolvono a funzioni diverse. Al di là dei risultati ottenuti, la medicina ellenistica si distingue da quella ippocratica per la sua natura scientifica, che si concretizza in teorie generali e osservazioni dirette. La scienza ellenistica, dunque, è caratterizzata da una grande organicità ed è profondamente unitaria. Tutte le discipline sono tra loro interconnesse. La matematica e la fisica sono praticamente fuse. Le altre scienze esatte fanno riferimento alla matematica o comunque hanno la medesima impostazione epistemologica.

Alessandria, scienza e tecnologia Non sembri esagerata, in una storia dedicata a 'lt, l'attenzione che stiamo riservando alla scienza ellenistica e ad Alessandria. Ci serve per comprendere meglio Archimede, ovvero la figura dell'uomo che, nella storia di 'lt, ha avuto il ruolo maggiore. Sappiamo che Archimede è un grande teorico, fisico e matematico, anzi: fisico-matematico. A lui, infatti, più che a ogni altro dobbiamo l'idea che la conoscenza dell'universo fisico può arricchirsi attraverso l'uso della matematica. E a lui, forse più che a ogni altro, dob-

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biamo anche l'idea che la conoscenza dell'universo fisico può diventare molto profonda grazie alla tecnologia. La civiltà che genera la scienza moderna introietta lidea che bisogna mettere a punto nuovi strumenti tecnologici per ottenere nuove conoscenze sul mondo e per aumentare la possibilità di "interrogare la naturà'. Pare, per esempio, che sia stato proprio lui, Archimede, ad aver messo a punto un planetario meccanico - una sorta di primitivo computer - in grado di descrivere il moto dei pianeti nei cieli e anche di prevedere con estrema precisione le date delle eclissi. Ma il rapporto tra scienza e tecnologia è biunivoco. L'una è madre dell'altra. E l'una è figlia dell'altra. La conoscenza fisica, infatti, produce a sua volta nuova tecnologia. E nessuno più di Archimede lo dimostra praticamente: con l'invenzione e l'uso degli specchi ustori (specchio di Archimede); della coclea, la vite per il sollevamento dell'acqua (vite di Archimede); della carrucola mobile e del sistema esteso delle leve per il sollevamento di carichi pesanti; con l'invenzione della vite senza fine, usata nel varo di una grande nave voluta da Gerone II (308-215 a.C.). Archimede vive in un periodo cruciale della storia, non solo della Sicilia e del Mediterraneo ma, forse, del mondo intero: quello dell'espansione di Roma. In breve, è a Siracusa quando i soldati dell'Urbe, nel corso della seconda guerra punica, giungono a cingere d'assedio la città. Archimede partecipa in maniera attiva alla difesa di Siracusa. Le sue macchine belliche (soprattutto le catapulte) sono l'arma più importante a disposizione degli assediati, ma non riescono a ribaltare l'esito della battaglia: Siracusa è sconfitta e nell'anno 212 a.C. il più grande scienziato dell'antichità viene ucciso da un soldato romano che non lo ha riconosciuto. Quel soldato è un po' l'emblema di Roma, che non sa riconoscere il valore della scienza ellenistica e, di fatto, la dimentica. Pare che Cicerone (106-43 a.C.), un secolo e mezzo dopo la caduta di Siracusa, trovi la tomba di Archimede e la faccia restaurare. Carl Boyer nota, con marcata ironia, che questo può essere considerato il massimo contributo dato da Roma alla matematica. Ma fermiamoci qui, e concludiamo questo paragrafo sul rapporto tra scienza e tecnologia per riaffermare che nell'età ellenistica la conoscenza scientifica è strettamente legata alla società e che si propone come fonte primaria di innovazione tecnologica con effetti tangibili sull'economia. Torniamo ora alla matematica e alla storia di n.

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Euclide Tra i tanti geni che frequentano Alessandria, il più grande è certamente Euclide. Non tutto della sua vita ci è noto. Sappiamo che è vissuto a cavallo tra il IV e il III secolo, che nasce probabilmente nel 367 a.C., una dozzina di anni dopo la morte di Eudosso, e che muore nel 283 a.C., quando Archimede aveva appena 4 anni. Sappiamo che ha scritto numerose opere, di cui ce ne sono giunte solo cinque. Sappiamo che si interessa da par suo anche di ottica, a dimostrazione che la scienza ellenistica fin dall'inizio non tende a erigere mura tra le discipline e a dividersi in compartimenti stagni. Al contrario, gli scienziati ellenistici interrogano la natura nelle sue varie dimensioni, compresa quella immateriale dei numeri e delle forme geometriche, cercando di connettere e no~ di separare i vari campi dell'indagine. Ciò non toglie che molti di loro eccellano in settori specifici delle scienze, e che Euclide sia il più grande soprattutto nell'ambito della matematica e della geometria. Una delle cinque opere di Euclide giunte sino a noi si staglia su tutte le altre: gli Elementi di geometria. L'opera, in 13 libri, è destinata a informare di sé la matematica di tutti i secoli successivi: a quel testo ancora oggi ci riferiamo quando ci avviciniamo alla matematica e alla geometria. Scritti per fornire gli elementi di base, appunto, della teoria dei numeri e dell'algebra, oltre che della geometria, gli Elementi sono, dopo la Bibbia, l'opera più letta, studiata e tradotta di tutti i tempi. E a ragione, visto che con quel suo lavoro Euclide getta le fondamenta della geometria moderna e inaugura il metodo dimostrativo in matematica. Gli Elementi sono importanti non solo per i teoremi che contiene, molti dei quali già noti, ma soprattutto per il metodo. In pratica Euclide individua pochi assiomi (cinque), proposti come "verità" indimostrabili, e attraverso la rigorosa applicazione della logica ipotetico-deduttiva dimostra una serie di "verità'' conseguenti. Ancora oggi il metodo - applicato non solo alla geometria, ma all'intera matematica - consente, in linea di principio e di fatto, di ricavare da pochi assiomi autoevidenti una rete senza fine di teoremi. Di più: il metodo di Euclide, interpretato in maniera estesa, è all'origine anche delle scienze naturali esatte. È grazie a questo metodo che la matematica diventa scienza in senso moderno e che gli Elementi possono essere considerati la prima opera scientifica della storia. Certo è che mai nessun' opera in ambito scientifico ha avuto implicazioni così generali e profonde.

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E sì che per fondare la moderna geometria Euclide usa elementi molto semplici. In fondo la sua geometria, come ricorda Lucio Russo, è la teoria scientifica dei disegni eseguibili con una semplice riga e un semplice compasso. Come nasce il metodo euclideo? Ce ne parla, ancora una volta, Lucio Russo. Nella matematica della Grecia classica sono sorti tre tipi di problemi. Primo: certe affermazioni ovvie su alcune figure geometriche possono avere implicazioni logiche che ovvie non sono affatto. Ciò comporta la necessità di dare rilevanza prioritaria a un metodo dimostrativo rigoroso. C'è tuttavia un problema, rileva Aristotele: se tutto deve essere dimostrato, allora ogni e ciascuna dimostrazione rinvia almeno a un'altra e così all'infinito. Secondo: i paradossi e le aporie messi in luce dalla scuola di Pitagora e dalla scuola dei sofisti (Zenone) hanno dimostrato che bisogna organizzare in modo razionale concetti in apparenza ovvi come spazio, tempo, infinito, continuo, discreto. Terzo: occorre definire in maniera, appunto, rigorosa la corrispondenza tra enti matematici immateriali e oggetti del mondo reale. Euclide avvia a soluzione questi problemi. Il primo per esempio, che risolve costruendo l'intero corpo matematico su pochi enti fondamentali (il punto, la retta, il piano) e definendone con rigore gli altri (il cerchio, l'angolo retto, le rette parallele). Il grande geometra ellenistico sfugge alla necessità di dimostrazioni che si rimandano all'infinito proponendo di dedurre l'intera geometria a partire da soli cinque "postulati" relativi a questi enti. Cinque verità autoevidenti che non hanno bisogno di essere dimostrate. I postulati, descritti con parole di oggi, sono: è sempre possibile tracciare una retta tra due punti qualsiasi e, tra questi due punti, è possibile tracciare una e una sola retta; 1.

A------2..

B

la retta tra questi due punti può essere prolungata all'infinito; A B

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3. dato un punto e un segmento è sempre possibile ottenere un cerchio;

r

4. tutti gli angoli retti sono uguali;

5. se una retta (A) che interseca altre due rette (B, C) e forma dalla stessa parte angoli interni inferiori ad angoli retti, allora le rette B e C, se estese all'infinito, si incontrano da quella parte dove gli angoli sono inferiori a due angoli retti.

A

Come si vede, Euclide assegna un ruolo fondamentale nella sua geometria a due entità che molto hanno a che fare con il nostro n: la retta e la circonferenza. Il motivo è molto semplice: perché sono modelli matematici semplici di linee tracciabili, come abbiamo detto, solo con riga e compasso.

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Tuttavia Euclide entra a pieno titolo nella storia di 7r non solo perché è

il più grande geometra di ogni tempo, ma anche perché riprende il metodo di esaustione di Antifonte e poi di Eudosso, per sostenere che la differenza tra l'area di un cerchio e l'area occupata da un poligono regolare che vi è inscritto può essere ridotta a piacere. Una formulazione corretta, che prelude al concetto di limite. E, dunque, ad Archimede.

Tornando ad Archimede Se il più grande geometra dell'antichità e di tutti i tempi è, di certo, Euclide, il più grande matematico e il primo fisico matematico in assoluto è altrettanto certamente Archimede, che vive e lavora a Siracusa, anche se frequenta Alessandria. Nella città africana studia da giovane, probabilmente con gli allievi di prima generazione di Euclide, forse vi ritorna più volte in età adulta e, in ogni caso, resta in contatto, attraverso una fitta corrispondenza, con la comunità della Biblioteca e in particolare con Eratostene, di cui è amico. Archimede può, a giusta ragione, essere considerato il fondatore della meccanica. Non perché sia il primo a parlare dei suoi fenomeni, ma perché è il primo a parlarne in termini scientifici, matematizzati, formalmente ben impostati. E, infatti, nel famoso Sull'equilibrio dei piani, in cui tratta, anche, delle leve, affronta i temi della fisica proprio come in precedenza Euclide aveva affrontato i temi della geometria. Da due insiemi di semplici postulati Archimede deduce una serie di proposizioni fisiche: «stabilendo così - scrive Carl Boyer - quella stretta relazione tra la matematica e la meccanica che doveva diventare così importante sia per la fisica sia per la matematica». Col medesimo metodo il Siracusano fonda l'idrostatica. Parte da un postulato e ottiene una serie di considerazioni, sempre quantitative, che vanno dal principio di galleggiamento dei corpi alla densità specifica dei materiali. L'opera di riferimento, in questo caso, è Sul galleggiamento dei corpi. In campo matematico, Archimede propone, nell'.Arenario, un sistema per l'uso facile e il calcolo dei grandi numeri, con un metodo posizionale ed equivalente alla nostra notazione esponenziale. Utilizza questo metodo, tra I' altro, per esprimere il risultato dei suoi calcoli sul numero di granelli di sabbia necessari a riempire l'universo. Nel suo trattato Sulla misurazio-

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ne del cerchio propone, con il metodo dell'esaustione, il tema della quadratura del cerchio e, di fatto, introduce quell'idea di limite che oggi è alla base dell'analisi matematica. Con lo stesso metodo di esaustione propone la Quadratura della parabola.Nell'opera Della .ifèra e del cilindro dimostra, tra l'altro, che il volume di una sfera è pari ai 2/ 3 del volume di un cilindro in cui è inscritta. Risultato notevole, di cui, pare, va particolarmente fiero, tanto da chiedere che sia raffigurato a mo' di epitaffio sulla sua tomba. Nel trattato sulle Spirali, la sua opera forse più difficile, non solo calcola l'area del giro di una spirale, ma anticipa un metodo che sarà poi alla base, un paio di millenni dopo, della geometria differenziale. A proposito di metodologia, solo nel 1906 è stato riscoperto il Metodo, una lunga lettera indirizzata a Eratostene, in cui Archimede spiega in dettaglio le due metodologie principali per giungere ai risultati esposti nei suoi libri. È dunque in questa cornice di interesse personale e di clima culturale che Archimede si interessa di 7!", fa tesoro dei risultati ottenuti da Eudosso ed Euclide, ottiene il valore più preciso del rapporto tra circonferenza e diametro di un cerchio e getta le basi di quel calcolo infinitesimale che, millenovecento anni dopo, renderà ancor più famosi Isaac Newton e Gottfried Leibniz. Che 7l" abbia un ruolo di primo piano nella nascente matematica scientifica lo dimostra il fatto che, oltre Euclide e Archimede, anche Apollonia se ne interessi. Il matematico di Perga utilizza il metodo di Archimede e giunge a calcolare un valore più preciso di quello del Siracusano:

s Dopo Archimede

Roma, manca la matematica «La morte di Archimede per mano di un soldato romano può essere stata accidentale, ma fu veramente premonitrice. Lungo l'arco della sua lunga storia, Roma antica diede scarsi contributi alla scienza e alla filosofia, e ancor meno ne diede alla matematica». Per fornire un riscontro del rapporto mai sbocciato tra Roma e la matematica - anzi, tra Roma e la scienza - così impietosamente rilevato da Cari Boyer, basta ricordare che gli Elementi di Euclide non verranno tradotti in latino, se non sei secoli e mezzo dopo la caduta dell'Impero romano d' Occidente, nel n20, direttamente dall'arabo e a opera di un inglese, Abelardo di Bath (w80-n52). Con la presa di Siracusa (212 a.C.) e soprattutto dopo la distruzione di Corinto e di Cartagine (146 a.C.), insomma a partire dal II secolo a.C., Roma conquista il mondo greco. Ma è conquistata dalla cultura dei Greci. Tutti gli uomini colti della emergente potenza latina imparano il greco e sono influenzati dall'arte e anche dalla filosofia greca. Eppure, nel corso di tutta la millenaria storia di Roma non nasce un solo scienziato latino. Certo molti intellettuali romani parlano di scienza - da Varrone (n6-27 a.C.) a Vitruvio ( 80-23 a.C.), da Seneca (3 a.C.-65) a Plutarco ( 46-127) -, altri ne parlano e mostrano persino una certa curiosità scientifica, come Plinio il Vecchio (23-79); altri ancora si fermano, mirabilmente, a riflettere sui suoi correlati filosofici e poetici, come Lucrezio (98-55 a.C.). Ma non c'è nessuno, tra i latini, che compia studi scientifici ottenendo apprezzabili risultati originali. Ha ragione Cari Boyer: Roma non incontra la scienza. Dopo Archimede, occorrerà attendere millecinquecento anni prima che in Europa nasca e operi un matematico creativo, il pisano Leonardo

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Fibonacci (II75-1235). Intanto Roma ha fatto in tempo a edificare e a vedere dissolto il suo impero senza scienza. Tra le cause del declino di Roma c'è, probabilmente, anche la scarsa capacità di innovazione tecnologica. Tale mancanza di innovazione, tanto in epoca repubblicana quanto durante l'impero, è determinata da un'economia che si regge sulla spada e sull'aratro, su un esercito molto ben organizzato e un'agricoltura schiavista, invece che sulla scienza e la fabbrica. Mal' analisi sulle cause della caduta dell'Impero romano esula decisamente dallo scopo di questo libro. Restiamo, dunque, ai fatti. E i fatti dicono che a Roma di matematica se ne mastica poca e di scienze naturali se ne praticano pochissime. Ciò non significa che in area mediterranea, dopo il 146 a.C., ogni attività di ricerca in matematica e nelle scienze naturali cessi. Al contrario, Alessandria resta per oltre mezzo millennio il centro scientifico del mondo. La sua parabola si concluderà solo nel 415, con l'assassinio a opera di fanatici cristiani di Ipazia (355-415), figlia di un grande matematico, Teone (335-405), e a sua volta grande filosofa, matematica e donna di scienza. La scienza ellenistica può essere divisa, a grana grossa, in tre fasi. Quella definita d'oro, di Euclide, di Archimede e di Apollonia (1v e III secolo a.C.); quella finale o del tramonto, di Teone e Ipazia (1v e v secolo); e in una seconda fase, la fase definita da alcuni d'argento e da altri di crepuscolo, che si sviluppa tra il 1 e III secolo d.C. È la fase in cui, in ambito medico, spicca su tutte la figura di Galeno, nato a Pergamo nel 129 e morto a Roma nel 199; mentre in matematica e astronomia e geografia campeggia Claudio Tolomeo, nato a Pelusio, sul delta del Nilo, intorno all'anno 100 e morto ad Alessandria d'Egitto dopo il 170. Nei suoi lavori di matematico, astronomo e geografo, Tolomeo si imbatte spesso in n. Tuttavia non apporta novità intorno a questo numero o al metodo per calcolarlo. Si limita a utilizzare il valore già calcolato da Apollonia di Perga:

In realtà, in questa fase argentea o crepuscolare della scienza ellenistica sono presenti, ad Alessandria e non solo, molti altri matematici di notevole valore e importanza, come Erone (10-70 ), autore di un pregevole commento agli Elementi di Euclide, matematico creativo e straordinario costruttore

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di automi. Più tardi, nel periodo cosiddetto tardo-ellenistico, quello del tramonto della scienza ellenistica, sempre ad Alessandria, opereranno matematici del calibro di Diofanto (rn secolo) e Pappo (Iv secolo). Certo nessuno di loro eguaglia Apollonia, Euclide o Archimede. Ma si tratta pur sempre di matematici creativi e di spessore. Diofanto, per esempio, viene considerato il "padre dell'algebrà'. Ebbene, nessuno tra i matematici della fase argentea e del periodo del tramonto della scienza ellenistica - né Tolomeo, né Erone, né Diofanto e Pappo, né Teone e Ipazia - si interessa in maniera specifica a 7!'. Lo usano, ma, per così dire, non lo interrogano. Per secoli nel bacino del Mediterraneo la ricerca più avanzata su n resta quella del grande Archimede.

Nel resto del mondo Per quanto grande (nel senso geografico e culturale) sia l'universo ellenistico, il mondo non si esaurisce certo tra Alessandria e Pergamo, o tra Rodi e Siracusa. La matematica si pratica anche in altre aree del pianeta e in altre civiltà. Tutte le più avanzate (qualsiasi cosa possiamo intendere con questo aggettivo) si imbattono in circonferenze e diametri. Tutte riconoscono che il rapporto tra queste due entità è costante. E quindi tutte conoscono e "pesano" quel numero che noi chiamiamo n. Per esempio, lo troviamo nella Bibbia. Segno che è conosciuto dagli ebrei in tempi remoti. Più precisamente, nel Libro dei Re del Vecchio Testamento, composto intorno al 550 a.C., gli si attribuisce sbrigativamente il valore di 3. Gli ebrei non sono certo una popolazione isolata e la loro civiltà non è immune da profonde contaminazioni, anche con quella greca. In altri termini, nei secoli successivi alla stesura del Libro dei Re conosceranno la scienza ellenistica e il valore di n calcolato da Archimede e da Apollonia. Ne abbiamo la prova provata. Nel II secolo, mentre ad Alessandria opera Claudio Tolomeo, in Palestina il rabbino e matematico Nehemiah (vissuto nel II secolo) discute in punta di teologia quale sia il valore da accettare, se quello di 3 scritto nel Libro o se quello di 3,1412 calcolato da Archimede. E si arrampica un po' sugli specchi per cercare di dimostrare sia che il valore "vero" di 7!' è quello del Siracusano sia che la Bibbia non sbaglia. Anche i Maya, da tutt'altra parte del pianeta, hanno cognizione dell'esistenza del rapporto costante tra circonferenza e diametro di un cerchio e ne calcolano il valore numerico con una precisione che, a detta

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di alcuni studiosi, è superiore a quella degli Egizi. Qualcuno sostiene che i Maya sarebbero riusciti a calcolare n fino alla ottava cifra decimale. Purtroppo queste affermazioni non sono corroborate da prove certe. Tutti i documenti della scienza dei Maya sono andati infatti perduti, mandati al rogo dai conquistatori europei. Peccato! Un peccato commesso nel 1560 dall'Inquisizione e, in particolare, dal vescovo Diego de Landa (1524-1579).

In India Anche la gran parte dei documenti della scienza indiana è andata perduta, sia pure per altre ragioni. I più antichi testi di cui disponiamo sono i Siddhanta, pubblicati intorno al 400 (si intende dopo Cristo). Parlano di filosofia, astronomia e matematica. Per quanto riguarda la scienza dei numeri, i Siddhanta propongono, in genere, problemi e soluzioni non dimostrate. Eppure quei problemi e quelle soluzioni sono indicatori di una matematica molto avanzata. L'India è la cerniera tra le comunità stanziali dell'Est, del Centro e dell'Ovest dell'Eurasia. E la cultura delle popolazioni che la abitano ne risente, anche quella scientifica. La scienza indiana è infatti contaminata tanto dalle culture scientifiche occidentali quanto da quelle orientali e ha due punti di forza: l'astronomia e, soprattutto, la matematica. L'astronomia degli Indiani è, come sostiene Johan L. E. Dreyer (18521926) nella sua Storia dell'astronomia da Talete a Keplero, una ramificazione dell'astronomia alessandrina. Fino alla contaminazione ellenistica, in India c'è, per così dire, un'astronomia elementare. Solo dopo il III secolo si affermano sia conoscenze accurate dei moti dei pianeti sia una visione cosmologica piuttosto sofisticata: nei Siddhanta, per esempio, è ben spiegato come la Terra sia una sfera sospesa nello spazio. Ma è la matematica hindu a raggiungere valori assoluti. Tanto che, intorno alla metà del primo millennio dell'era cristiana, mentre l'Impero romano d'Occidente si sgretola, l'India diventa la punta più avanzata della cultura matematica mondiale. La conoscenza dei numeri e dell'arte di manipolarli, in realtà, era relativamente sviluppata già nell'vm secolo a.C., anche se la sua origine data da molto prima e la sua evoluzione avviene in contemporanea con quella della matematica mesopotamica, egizia e cinese. La domanda di nuove conoscenze matematiche è favorita

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dalla necessità di formalizzare la costruzione di templi e altari, e dunque non sorprende se anche in India, come in Grecia, la scienza dei numeri ha un'origine geometrica. Questa conoscenza è raccolta nel libro degli Sulvasutra, o "regole della cordà', la cui prima versione risale appunto all'vrn secolo a.C. In quest'epoca gli Indiani conoscono già il "teorema di Pitagorà', probabilmente appreso dai Babilonesi. D'altra parte la reciproca influenza tra la matematica babilonese e quella indiana è ben documentata. È opinione diffusa tra gli storici che durante tutto il periodo degli Sulvasutra, ovvero fino al II secolo d.C., gli Indiani producano solo matematica elementare o addirittura primitiva, applicandola tanto al commercio che all'astronomia. Ma è una percezione che, probabilmente, va rivista. Negli Sulvasutra si trovano, infatti, problemi analoghi a quelli affrontati da Euclide ad Alessandria. Certo, è difficile dire se gli Indiani si siano cimentati con questi problemi prima o dopo il matematico ellenistico; ma è altrettanto vero che non si tratta di problemi banali o, addirittura, primitivi. In ogni caso il periodo degli Sulvasutra si conclude nel II secolo d.C. Poi inizia una nuova fase - un intero millennio, dal 200 al 1200 - in cui la matematica indiana conosce una fase di grande sviluppo. E diventa la prima in assoluto al mondo. Il nuovo periodo trova espressione proprio nei Siddhanta, scritti tra la fine del IV secolo e l'inizio del v. L'ascesa al potere nel 240 del re Sri-Gupta (?-280), infatti, segna non solo I' inizio di una nuova dinastia in India, ma anche l'inizio di una sorta di "età dell'oro": culturale, oltre che economica e civile. È una fase che si avvia in contemporanea al rinascimento della scienza ellenistica nel Mediterraneo e della scienza cinese dell'epoca Han. Il riferimento non è né casuale né forzato. Perché, come sostiene Morris Kline, gli studiosi indiani dimostrano una creatività scientifica ricca e significativa solo dopo che sono venuti a stretto contatto con la matematica ellenistica. Il debito verso Alessandria d'Egitto è notevole ed è riconosciuto dagli stessi Indiani. Come scrive l'astronomo Varahamihira (505-587), citato da Kline: «I Greci, sebbene impuri, devono essere onorati perché essi sono stati educati nelle scienze e in esse eccellono su tutti gli altri. Che cosa diremo allora di un bramino se esso combinerà la sua purezza con I' altezza della scienza?». Ciò nonostante la matematica hindu si sviluppa con una sua marcata originalità. In primo luogo perché non risente solo delle influenze elleni-

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stiche, ma anche di quelle persiane e cinesi. E così, se la geometria indiana è con certezza tutta o quasi greca, l'algebra è mutuata tanto dai Greci ellenistici quanto dai Persiani e contiene tracce evidenti della cultura algebrica cinese. È su questa conoscenza di base di derivazione plurima che si radica e si sviluppa l'originalità creativa dei matematici indiani. A differenza di quella greca, infatti, la matematica hindu è completamente indipendente dalla geometria. Per questo in alcuni settori di punta, come la teoria e la concreta gestione dei numeri irrazionali (compreso n), i matematici indiani ottengono risultati superiori persino ai grandi matematici ellenistici. E le loro operazioni aritmetiche sono in pratica del tutto simili alle nostre. Nei Siddhiinta è contenuta la gran parte di questa matematica avanzata. L'opera, in realtà, è conosciuta in cinque diverse versioni. A noi è pervenuta solo l'ultima, il Romaka Siddhiinta, scritto intorno al 400. Contiene anche le principali dottrine astronomiche indiane, che sono di evidente origine greca, anche se rivisitate alla luce delle credenze locali. Un'altra versione, il Paulisa Siddhiinta, scritto nel 38 o, viene riassunto quasi due secoli dopo dal matematico Varahamihira e sarà ampiamente citato dall'arabo al-BlrfrnI (973-1048 ), che suggerisce l'ipotesi di un'influenza ellenistica sulle conoscenze che contiene. I grandi studiosi di questi secoli, che molti ancora si ostinano a ritenere bui, hanno dunque chiara percezione non solo dell'esistenza, ma della reciproca influenza delle grandi culture dei continenti connessi. Arabi, Indiani e Cinesi non solo si conoscono, ma sono ben consapevoli sia delle profonde e reciproche influenze, sia del debito comune nei riguardi degli antichi scienziati ellenistici. Gli Indiani del periodo aureo sono in stretto contatto con i Cinesi e apprendono (e sanno di apprendere) la geometria e la trigonometria da fonti ellenistiche. Ma, soprattutto, producono nuova conoscenza. È con loro che, per evoluzione dalla base ellenistica, nascono, per esempio, le funzioni e i concetti di seno e di coseno in trigonometria. Il fatto poi che il primo dei grandi matematici indiani, Aryabhaça (476-550) - autore dell'Aryabhatija, un breve volumetto in versi in cui sono condensate le conoscenze astronomiche e matematiche del suo tempo - nasca nella seconda parte del v secolo, sessant'anni dopo la morte di Ipazia ad Alessandria, assurge a simbolo di un passaggio ideale di testimone dalla matematica ellenistica a quella indiana. Quasi a significare che se nel Mediterraneo, soprattutto nella sua parte occidentale, iniziano per

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davvero i "secoli bui" del medioevo, in India inizia il periodo di massimo splendore, il periodo dei "secoli d'oro". La progressione è chiara. Nel suo Aryabhatiya, Aryabhaça tratta di matematica molto avanzata, al livello di quella ellenistica. Certo, non c'è una sistemazione teorica e logica di portata analoga a quella proposta dai matematici mediterranei. Vi si trova, però, un elemento innovativo destinato a lasciare traccia permanente nella storia della matematica e della cultura mondiale: la numerazione posizionale decimale. Con nove cifre, dimostra Aryabhaça, è possibile scrivere qualsiasi numero in maniera economica. Sebbene abbiano attinto con una certa sistematicità alla cultura scientifica ellenistica, i matematici indiani non sono interessati alla geometria astratta. Sono invece molto interessati alla teoria dei numeri. In India addizione e moltiplicazione sono operazioni effettuate proprio come le eseguiamo noi oggi. Il più grande matematico indiano è probabilmente Brahmagupta (598-668): il primo in assoluto, che si sappia, ad aver usato i numeri negativi e ad aver svolto operazioni aritmetiche con i numeri negativi. «Di fatto - scrive Carl Boyer - la sua opera presenta il primo esempio di aritmetica sistematica comprendente i numeri negativi e lo zero». Brahmagupta scrisse tra le altre un'opera, il Brahmasphuta Siddhanta, in cui viene proposta un'algebra davvero molto avanzata, che prevede soluzione generali alle equazioni di secondo grado. Brahmagupta sviluppa l'analisi indeterminata di Diofanto e trova soluzioni generali ad alcune delle equazioni diofantee, andando oltre il matematico alessandrino. È dunque un grande matematico creativo che, particolare non secondario nella vicenda scientifica, ama la matematica in sé e non solo in funzione della sua utilità: perché nessun ingegnere per questioni pratiche avrebbe mai sollevato i problemi astratti che egli affronta. Con Brahmagupta nel VII secolo la matematica indiana tocca il suo apice, ma ciò non significa che, dopo di lui, in India non ci sia altra grande matematica e non ci siano altri grandi matematici - come, ad esempio, Mahavira (vissuto nel IX secolo) e Bhaskara (xn secolo). Attraversata, sia pure a volo d'uccello, la storia della matematica indiana, veniamo al loro rapporto con n. In uno dei Siddhanta più antichi, quello del 380, ne viene proposto un valore molto preciso:

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Il testo non dice come sia stato ricavato. Oltre un secolo dopo, nel 499, Aryabhaça si incarica di rivelare l'arcano: per ottenerlo bisogna aggiungere 4a100, moltiplicare per 8 e aggiungere ancora 62.000. Questa è un'ottima approssimazione di una circonferenza con un diametro di 20.000 unità. Per cui TC

=

(4 + roo) x 8 + 62.000 20.000

= 3.1416

Più tardi Bhaskara, nato nel n14, ribadisce che questo è il valore esatto di n, mentre è sbagliato quello che si ottiene sommando 3 a 1/7 (3,1429 ). Da notare che il valore calcolato da Aryabhaça è esattamente quello che noi oggi attribuiamo alla costante quando la approssimiamo alla quarta cifra decimale. Ma bisogna anche dire che Aryabhaça scrive molti secoli dopo Archimede. E che gli Indiani potrebbero aver appreso il valore di n e il metodo per calcolarlo proprio dai testi degli scienziati ellenistici. Ed è probabilmente proprio con il metodo dei poligoni regolari inscritti in un cerchio che Brahmagupta, nato nel 598, propone che:

Questo valore è meno preciso di quello proposto in precedenza nei Siddhdnta, ma testimonia del fatto che i matematici indiani continuano a fare ricerca sul rapporto tra circonferenza e diametro di un cerchio.

In Cina A metà del primo millennio gli Indiani sono i matematici più bravi al mondo. E tuttavia sono i Cinesi a conseguire, proprio nel v secolo, un' accuratezza nella misura di n, precisa fino alla settima cifra decimale, che in Europa e nel resto del mondo sarà raggiunta solo mille anni dopo, nel XVI secolo. In realtà i Cinesi fanno molto di più. Propongono o forse semplicemente ripropongono un metodo universale per calcolare n con il livello di accuratezza desiderato. Un metodo che trova il suo unico limite nell' abilità computazionale e nella perseveranza: il metodo che aveva elaborato otto secoli prima Archimede di Siracusa. Come è stato possibile che i Cinesi abbiano reinventato il metodo di Archimede?

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Non possiamo ricostruire qui la storia della civiltà e della scienza cinese. Tuttavia dobbiamo smentire una tesi che per troppo tempo ha avuto fortuna: quella secondo la quale quella cinese sia una realtà politica e culturale chiusa in sé, pressoché impermeabile a ciò che accade fuori dai suoi confini. Ebbene, questo isolamento è più un mito che una realtà. Nel corso dei millenni la Cina è sempre stata in continuo e stretto contatto con le altre civiltà. E non solo quelle geograficamente più vicine. La verità è che le due grandi popolazioni stanziali ai capi dell'Eurasia, quella mediterranea e quella cinese, si influenzano sempre reciprocamente. E non solo in conseguenza della pressione delle popolazioni nomadi. Non è un caso, per esempio, che Confucio (551-479 a.C.) compaia in Cina più o meno negli stessi decenni in cui in Grecia appaiono i primi filosofi e in India Buddha (566-486 a.C.). Né può essere puro caso il fatto che durante i secoli della dinastia Han (dal 206 a.C. al no d.C.) la cultura cinese subisca un grande sviluppo, soprattutto nella letteratura, nella scienza (meglio dire nella conoscenza della natura) e nella tecnica, che nei tempi e nel percorso sembra ricalcare quello della civiltà ellenistica. Tra il III e il II secolo a.C., infatti, gli Han promuovono una cultura scientifica che va oltre gli argomenti di carattere pratico e si interessa, sia pure conservando un sano pragmatismo, ad aspetti più profondi. Gli imperatori della dinastia Han creano una classe ufficiale di letterati, dotano il palazzo imperiale di una grande biblioteca e promuovono una scuola di studi superiori (Tai Xue). L'analogia con i Tolomei di Alessandria e, più in generale, con le altre dinastie ellenistiche è davvero notevole. D'altra parte, come in buona parte nel bacino del Mediterraneo soprattutto orientale, la cultura in Cina è cultura diffusa. Anche in provincia esistono, di norma, scuole di Stato. Ma sono in particolare la scienza e la tecnica ad avere grande sviluppo: è in questo periodo, per esempio, che viene inventata la carta (n secolo a.C.). Come a Pergamo, un numero crescente di persone che leggono e scrivono determina il bisogno impellente di un supporto più comodo della seta e delle aste di bambù. Con la carta si diffonde l'uso del pennello per scrivere. E gli ideogrammi cinesi assumono la loro forma definitiva. Durante la dinastia Han si sviluppano la matematica e alcune scienze naturali, come l'astronomia, la botanica e la zoologia, ma soprattutto si afferma una filosofia scettica e razionalistica che trova la sua massima espressione nel filosofo (e filosofo naturale) Wang Chong ( 2 7-100 ).

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In Cina nasce persino una comunità scientifica che è riconosciuta e che si auto-riconosce. L'imperatore Wang Mang (45 a.C.-23), che tra il 9 e il 23 dell'era cristiana giunge a interrompere la lunga dinastia Han, convoca, per esempio, quella che potremmo definire la prima assemblea scientifica della storia cinese. Da ogni parte dell'immenso paese rispondono all'appello astronomi, matematici, botanici, oltre che storici e filologi. Sono tutti autorizzati ad aggiungere un secondo cavallo al loro cocchio. Giungono nella capitale in più di mille. La scienza cinese registra uno sviluppo notevole, dunque, tra il I e il II secolo d.C., alcuni secoli dopo l'epoca aurea della scienza ellenistica. E, a differenza di quest'ultima, è soprattutto "scienza applicatà', priva di quelle teorie astratte che caratterizzano la scienza ellenistica. Gli scienziati cinesi non elaborano modelli generali fondati sulla geometria e sulla matematica. Così, se i matematici ellenistici cercano il rigore assoluto, i cinesi si concentrano sulle applicazioni pratiche. In altri termini: l'universo matematico greco ed ellenistico è, in linea di principio, indipendente dagli uomini, oggettivo, certo; quello dei cinesi è un insieme coeso, risonante con l'uomo, unitario. Ma lasciamo che siano gli specialisti a discutere sui caratteri della scienza cinese. Marchiamo solo qualche fatto oggettivo. Tra questi c'è la presenza nel II secolo di due tra i più grandi scienziati cinesi di ogni tempo. Uno è Zhang Heng (78-139 ), astronomo e matematico, che, tra l'altro, realizza: il primo sismografo al mondo (in grado di indicare la direzione dell'epicentro, anche se non l'intensità del sisma); una mappa del cielo che, con 2.500 stelle catalogate, è addirittura più dettagliata di quella di Ipparco (di cui Zhang non è a conoscenza); e soprattutto, per la storia che stiamo narrando, il calcolo molto preciso del valore di 7t'. L'altro grande scienziato è ZhangZhongjing (152-219), un medico che scrive quello Shang han lun (Trattato sulle febbri) che ancora oggi è alla base della medicina cinese. Zhang ha un'influenza sulla medicina in Cina paragonabile a quella che il coevo Galeno ha sulla medicina nelle terre intorno al Mediterraneo. Dopo un periodo di declino, anche culturale, nel VII secolo la Cina conosce, con la dinastia Tang una sorta di Rinascimento. Questo periodo coincide con una ripresa dei contatti con l'Occidente e segnatamente con gli Arabi. I Tang riprendono la tradizione razionalista della cultura confuciana. In particolare la dinastia Tang è attenta a riformare e a poten-

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ziare l'università, che intorno al 650 già conta 5.000 studenti. L'interesse dei Tang è per le arti e per la medicina. Ma nel periodo in cui regnano non mancano uomini di scienza di grande valore, come il monaco I-Hsing (681-727 ), capace di calcolare con una certa precisione l'anno siderale: ovvero il tempo impiegato dal Sole per ritornare nella medesima posizione nel cielo rispetto alla rete delle stelle fisse. La fioritura nel primo Rinascimento cinese consiste anche di una riacquisita capacità di innovazione tecnologica: è in questo periodo che si affermano l'uso dell'ago magnetico e della stampa, che si producono nuove tecniche nella lavorazione della porcellana e nell'ingegneria idraulica. La cartografia assume una precisione e capillarità inedite. È indubbio che intorno all'vrn secolo la Cina esprime un potenziale creativo superiore non solo a quello dei territori più occidentali dell'Eurasia, ma anche rispetto a quello islamico, e offre al resto del mondo più di quanto riceva. Nel primo millennio d.C. la scienza cinese ha due momenti di grande creatività, che coincidono con i momenti di maggior contatto con l'Occidente: con i Romani e i Persiani tra il I e il II secolo, con gli Arabi intorno all'vrn. Si è discusso e si discute ancora se lo sviluppo quasi sincrono della scienza nel bacino del Mediterraneo e in Cina sia parallelo e indipendente (teoria policentrica), oppure se sia il frutto della diffusione, più o meno casuale e frammentata, del sapere ellenistico nelle aree più orientali dell'Eurasia (teoria della diffusione a partire da un unico centro originario). Si è discusso e si discute ancora se la scienza sia un "accidente" avvenuto una e una sola volta (in epoca ellenistica), o se, invece, sia nata più volte in maniera indipendente in più luoghi. Joseph Needham (1900-1995), l'inglese che ha "riscoperto" l'antica scienza cinese, propende per questa seconda ipotesi. La scienza cinese sarebbe nata tutta in Cina e sarebbe largamente indipendente dalla scienza ellenistica. Tuttavia anche Needham in Scienza e civilta in Cina riconosce che «la scienza moderna, nata a seguito di una concatenazione straordinaria di eventi, [dilagaJ in tutto il mondo come un incendio boschivo. Tutte le nazioni ne fanno uso e in varia misura vi contribuiscono». Altro che impero chiuso in sé! La Cina è uno dei motori dello sviluppo delle civiltà nei tre continenti connessi. L'impressione di molti, tuttavia, è che la scienza così come l'abbiamo definita nasce nel mondo ellenistico e, come un incendio boschivo, si diffonde in tutto il mondo connesso (tranne che nell'Europa occidenta-

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le). Tutte le nazioni - la Persia, l'India, la Cina, il mondo islamico - ne fanno uso e contribuiscono, in vario modo, a svilupparla. Ma l'origine, molto probabilmente, è unica. E il suo centro originario è Alessandria d'Egitto. In ogni caso, due fatti sono certi. Primo: la complessità epistemica della scienza ellenistica non viene raggiunta né dalla scienza cinese né dalla scienza indiana. Segno che la diffusione della scienza nel mondo antico è tanto reale quanto frammentata. Manca di sufficiente organicità. Tranne, probabilmente, nel caso dell'Islam, che può accedere in maniera diretta e sistematica alle fonti ellenistiche. Secondo: mentre in Europa il medioevo coincide, per molti secoli, con il "periodo buio", in Cina, sia pure con molte fluttuazioni, coincide con uno sviluppo civile e culturale brillantissimo. Ed è probabilmente a causa di questa osmosi che il grande testo Hou Han Shu nell'anno 130 dell'era cristiana riporta un valore di 1! molto preciso, pari a:

E che Liu Hui (220-280), con un metodo leggermente differente rispetto a quello di Archimede, usando prima un poligono con 192 lati calcola che:

Da segnalare che i matematici cinesi sono i primi a usare i decimali. E dunque questo modo di rappresentare 1! è molto simile a quello originale. Ma Liu Hui va oltre. E riesce - lo diciamo con grande ammirazione per la pazienza dei Cinesi! - a calcolare un valore ancora più preciso del nostro numero utilizzando un poligono regolare con 3.072 lati. Il valore è:

Nel v secolo, infine, come riporta Petr Beckmann, altri due matematici, Tsu Chung-Chih (429-500) e suo figlio, Tsu Keng-Chih (vissuto tra V e VI secolo), ottengono un valore

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La cui precisione sarà superata in Europa e nel mondo solo mille e cento anni dopo, nel XVI secolo.

L'Islam Nel IX secolo a Baghdad, Abu Ja' far Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi, più conosciuto come al-Khwarizmi (780-850 circa), il direttore della Bayt al-Bikma, la grande biblioteca nota in Occidente come Casa delle Sapienza o anche Casa della Saggezza, pubblica una serie di scritti in cui propone tre diversi valori di 'Tt, scritti con le cifre indiane, quelle che oggi usiamo tutti in tutto il mondo: 'IT

I ~ 62.832 = 3 + - ; 'IT =V IO; 'IT = - - - = 3,1416

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20.000

Al-Khwarizmi è un grande matematico. Forse il più grande del mondo islamico di ogni tempo. Ma, come le cifre in cui li esprime, quei tre valori non sono frutto di sue ricerche originali. Li ha ricavati il primo da testi greci e gli altri due da testi indiani. Ancora una volta la storia di 7t ci fornisce uno spaccato dell'intera storia matematica e, per certi versi, della storia tout court. Maometto, come si sa, muore a Medina l' 8 giugno 63i.. E la sua morte, invece di frenare il movimento dei popoli del deserto che seguono le sue predicazioni, segna l'inizio di quella che è stata definita !"'avventura internazionale dell'Islam", che in un tempo incredibilmente breve porta gli Arabi a creare un impero che va dallo Stretto di Gibilterra fino all'Indo e una civiltà che brilla quanto e più di quella bizantina, quella indiana e quella cinese con cui pure ha un confronto osmotico. Ancora una volta, non abbiamo lo spazio per richiamare la storia dell' Islam. Diciamo solo che nei primi secoli l'impero è governato da due dinastie, prima da quella degli Omayyadi che governano da Damasco fino al 750 e poi, a partire da quell'anno, dalla dinastia degli Ab basidi che governano da Baghdad. Diciamo anche che molti definiscono i primi due secoli della dinastia abbaside - proprio il periodo in cui opera al-Khwarizmi - i secoli del "rinascimento islamico": perché per i musulmani è un'epoca di grande sviluppo economico, civile e culturale di cui è parte non marginale la scienza. Tanto che molti considerano la scienza prodotta nel corso di questi secoli

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come una sorta di ripartenza - un rinascimento, appunto - della stessa scienza ellenistica. Insomma, il legame dell'Islam con il mondo ellenistico e prima ancora greco non sarà esclusivo, ma è forte, sistematico e decisivo: un vero e proprio flusso ininterrotto di conoscenze che vengono assorbite e metabolizzate. La trasmissione del sapere greco ed ellenistico avviene attraverso una doppia opera di traduzione dei classici: con un'accelerazione delle traduzioni dal greco in siriano, durante il periodo che va dal 750 all' 850, e poi dal siriano all'arabo tra 850 e 950. Questa immensa opera - tutto quanto è scritto in greco viene metodicamente tradotto - è realizzata dai cristiani nestoriani, in particolare da parte dei membri della famiglia dei BukhtYishu ("Gesù ha detto"). La definizione di "rinascimento islamico" della scienza è dunque intrigante, ma coglie solo una parte della realtà. L'Islam, infatti, non si limita a prendere il testimone della scienza ellenistica lasciato invece cadere dai Romani, mostra piuttosto una sua propria "creatività scientificà'. Il "rinascimento islamico" ha infatti molti caratteri originali, che vengono alla luce per la prima volta in un territorio tanto variegato che spesso, esteso com'è dalla penisola iberica all'Indo e al Gange, ha in comune solo l'uso della lingua araba. Inoltre questi caratteri originali si fondano sia su elementi della scienza ellenistica - in particolare quelli della prima fase della scienza ellenistica, la scienza degli Euclide e degli Archimede per intenderci, oltre che di Galeno per la medicina e di Claudio Tolomeo per l'astronomia e l'ottica - sia su e con elementi della scienza prodotta in altre regioni del mondo: in Cina, in India e, soprattutto, in Persia. Si fondano, dicevamo, e con essi si fondono. Più che un rinascimento, dunque, quella realizzata dai matematici, dagli astronomi, dai chimici, dai medici dell'Islam è una vera e propria rivoluzione. Un ramo importante di quel ricco cespuglio di rivoluzioni - mai del tutto indipendente, ma mai del tutto linearmente conseguenti - che caratterizzano la storia della scienza. La matematica islamica (compreso l'approccio degli islamici a n) contiene in sé tutti gli elementi di questa rivoluzione fondata sulla contaminazione. Qui occorre essere più precisi. Perché nella storia esistono, come rileva Carl Boyer, due livelli di cultura matematica. C'è quella pratica, che qualcuno ha definito la "matematica dell'abaco": nata in Mesopotamia e

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in Egitto, ma anche in India e in Cina, serve da alcuni millenni ad amministratori e agrimensori, artigiani e anche architetti, mercanti e marinai. La conoscono e, appunto, la praticano pressoché tutti i popoli stanziali nei tre continenti connessi, e continua a esistere nell'Eurasia occidentale anche dopo la caduta dell'Impero romano. Viceversa la matematica teorica - la scienza matematica - è più profonda, ma ha una vita più effimera. È quella che, come abbiamo visto, appare nella parte orientale del bacino mediterraneo con Pitagora, Archita ed Eudosso, si sviluppa con Euclide, Archimede e Apollonio, e sarà ricordata - ma non ulteriormente sviluppata - nel IV secolo da Pappo. Questa matematica, centrata sulla geometria e sul metodo assiomatico-deduttivo, non è mai davvero sbarcata in Occidente - gli Elementi di Euclide saranno tradotti in latino quattro secoli dopo essere stati tradotti in arabo - e comunque in Occidente tramonta dopo il IV secolo e viene dimenticata per quasi un millennio. Ebbene, queste due tradizioni - la cultura pratica e la cultura teorica - si incontrano nella matematica islamica, che, per ciascuno dei due livelli, attinge con un'intensità inedita da fonti di ogni parte dei tre continenti connessi, come dimostrano i tre valori di n assunti e riproposti da al-Khwarizmi. La scienza matematica islamica consiste infatti di quattro componenti importanti: 1. un'aritmetica di chiara derivazione indiana, compreso il principio posizionale; 2.. un'algebra di derivazione mista (indiana, persiana, greca) ma con profonde innovazioni originali; 3. una trigonometria di fondamento greco (per greco, sia chiaro, intendiamo il mondo ellenistico che utilizza il greco come lingua veicolare), ma innervata dalle concezioni indiane e da sviluppi originali; 4. una geometria di origine greca, cui gli islamici forniscono un contributo originale. Tutto è frutto delle incredibili capacità di relazione che l'Islam dimostra di possedere sia quando guarda a Occidente, sia quando guarda a Oriente. Gli Arabi, per esempio, entrano subito in contatto con la cultura indiana, già all'inizio della loro "avventura internazionale" sia direttamente, sia attraverso i Siriani e i Persiani. Per la matematica questi contatti hanno conseguenze davvero profonde. I popoli venuti dal de-

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serto, infatti, apprendono in breve che gli Indiani hanno un sistema di numerazione molto efficiente, il sistema posizionale, basato su sole nove cifre (più una, lo zero, che non è ancora considerato un numero a tutti gli effetti), che è molto efficace per far di conto. Ed è particolarmente utile ai mercanti. E così, anche se respingono l'uso dei numeri negativi già acquisito dagli Indiani, apprendono le tecniche matematiche ormai molto sviluppate tra l'Indo e il Gange, ma ancora sconosciute in Occidente. Il primo riferimento alle nove cifre indiane (più una) e alla numerazione posizionale decimale avviene già intorno al 662, a opera del vescovo siriano nestoriano Severo Sabokt (vissuto nel VII secolo). Dopo la chiusura dell'Accademia di Platone decretata nel 529 dall'imperatore bizantino Giustiniano (483-565), molti intellettuali lasciano Atene per sfuggire alla persecuzione ed emigrano in Siria e in Persia. Sono intellettuali di gran vaglia, cui non manca una certa dose di sussiego, convinti come sono di possedere l'unica vera cultura. Come rileva Carl Boyer, Severo Sabokt reagisce a quel disprezzo per le culture altre, così poco saggio, così poco colto. E ricorda, a coloro che parlano greco, che «vi sono anche altri popoli che hanno qualche conoscenza scientifica». In particolare gli Indiani, i quali hanno realizzato «Sottili scoperte astronomiche» e hanno messo a punto «preziosi metodi di calcolo che superano ogni descrizione [... ] Voglio soltanto dirvi che questi calcoli vengono effettuati per mezzo di nove segni». Insomma, in Medio Oriente la matematica indiana è nota e gode di buona fama. Tuttavia è solo nella seconda parte dell'vm secolo, nel 766 per la precisione, che giunge a Baghdad la copia di una delle versioni del Siddhanta, probabilmente del Brahmasphuta Siddhanta, con tanto di riferimento al sistema di numerazione e alla trigonometria indiani. L'opera viene ben studiata e nel 775 è integralmente tradotta in arabo: a disposizione di tutti, anche di coloro che non conoscono l'hindu. È bene sottolineare che la matematica e, più in generale, la scienza hindu arrivano nella nuova capitale dell'impero, Baghdad, addirittura prima - anche se non molto - della matematica e della scienza dei Greci. Nel 780 è in città, tradotto dal greco in arabo, anche il Tetrabiblos, l'opera astrologica di Tolomeo. E subito dopo vengono tradotti gli Elementi di Euclide e l'Almagesto di Tolomeo. Cosicché alla fine dell'vm secolo la cultura scientifica indiana e la cultura scientifica ellenistica iniziano praticamente in contemporanea a es-

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sere studiate, metabolizzate, fuse e rinnovate dai musulmani. Ha dunque ragione Carl Boyer quando afferma che il "miracolo arabo" non sta tanto nella rapidità con cui sorge l'impero, ma nella alacrità con cui i popoli del deserto assorbono il sapere dei vicini. In realtà più che di "miracolo arabo" occorre parlare di "miracolo islamico", perché ormai sono svariati le popolazioni e i gruppi (anche di religione differente) che vivono nel nuovo impero. E che si ritrovano, fianco a fianco, a Baghdad, contagiandosi. La matematica islamica è un esempio luminoso di questo contagio originale e creativo, foriero di nuova conoscenza. È traducendo dal sanscrito e dal greco (direttamente o attraverso il siriano) che gli islamici possono realizzare un'operazione davvero inedita: intrecciare le conoscenze geometriche occidentali con le conoscenze algebriche e aritmetiche orientali. La geometrica islamica è tutta di matrice ellenistica: fondata soprattutto sulle opere tradotte di Euclide, Archimede ed Erone. La trigonometria ha invece una matrice indiana e, proprio come quella hindu, ha un' impostazione aritmetica e non geometrica. I matematici islamici tuttavia la arricchiscono con contributi originali: introducendo, per esempio, il concetto di tangente, accanto a quelli di seno e coseno proposti dagli Indiani. Ma la creatività islamica nell'ambito della trigonometria non si limita all'introduzione del concetto di tangente, anzi tende a essere sistemica. Tanto che all'inizio del x secolo i matematici dell'impero non solo hanno definito tutte le sei funzioni classiche della trigonometria (seno, coseno, tangente, cotangente, secante e cosecante) e le loro relazioni, ma applicano regolarmente questo corpo di nuove conoscenze in vari settori delle scienze della natura, a iniziare dall'astronomia. Sia detto per inciso, la trigonometria giocherà un ruolo di primo piano nel futuro di TC. Ma il maggiore contributo arabo alla matematica si ha, probabilmente, in campo algebrico. Il primo grande matematico dell'Islam è proprio alKhwarizmi. Nato, probabilmente, nel Kharazm (l'odierno Uzbekistan), studia e vive a Baghdad, dove il califfo abbaside al-Ma'miin (?86-833) lo ha posto a capo della Bayt al-I:Iikma, la grande biblioteca. La Baghdad degli Ab basidi è una "città creativà' che molto somiglia alla Alessandria dei Tolomei. E la biblioteca, con i suoi 500.000 volumi, centro di lettura e di ricerca scientifica, è un aspetto significativo di questa straordinaria somiglianza. Gli interessi scientifici di al-Khwarizmi sono molteplici, ma la matematica vi ha sempre una posizione centrale. E lui stesso ha un ruolo centrale

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nella storia della matematica, non solo islamica: basti dire che dal titolo della sua opera più importante, Al-jabr wa 'l muqdbalah, viene il moderno termine di algebra (che significa "ristabilire"; e dunque, nel contesto matematico, "ristabilire l'equilibrio di un'equazione"). Certo, in quest'opera - che tira le fila delle conoscenze algebriche di tradizione ellenistica, persiana e indiana - al-Khwarizmi non usa simboli. Né affronta i problemi difficili dell'algebra indeterminata, cosicché quella che propone è meno avanzata sia rispetto all'algebra ellenistica di Diofanto sia rispetto all'algebra indiana di Brahmagupta. E tuttavia Al-jabr è il testo più simile a un manuale di algebra moderna che sia stato scritto nell'antichità: sia perché il termine algebra è utilizzato per intendere lo studio del calcolo e la ricerca del modo migliore di risolvere equazioni e problemi, dunque in maniera molto simile al modo in cui noi oggi l' intendiamo, sia perché affronta in maniera sistematica i problemi dell'algebra determinata, soprattutto quelli risolvibili con equazioni di secondo grado. Insomma quella di al-Khwarizmi è una grande opera di didattica algebrica. Tanto che, secondo alcuni, l'Al-jabr di al-Khwarizmi rappresenta per l'algebra ciò che gli Elementi di Euclide rappresentano per la geometria: la migliore opera elementare disponibile fino ai tempi moderni. In questo senso al-Khwarizmi può essere considerato "il padre dell'algebrà', proprio come Euclide è considerato il "padre della geometria''. Al-jabr è l'opera principale, ma non l'unica di al-Khwarizmi. Gli si attribuiscono più di una dozzina di opere, sia di matematica sia di astronomia. Per la gran parte fanno riferimento molto più alle conoscenze prodotte dalla scienza indiana che non a quella ellenistica o persiana. Il capo della grande biblioteca di Baghdad non pretende affatto una qualche originalità. Anzi, riconosce apertamente l'origine indiana della sua esposizione, inclusa quella relativa al sistema di numerazione posizionale. In definitiva: è solo una cattiva trasmissione del sapere che in Europa finirà per attribuirgli per lungo tempo ciò che lui stesso non ha mai preteso. Al-Khwarizmi non è certo il solo matematico nato nel mondo islamico. Nel IX secolo, per esempio, è al lavoro anche Thabit ibn-Qurra (826-901). Per lui, a maggior ragione, vale quanto detto per al-Khwarizmi: più che un matematico originale è un grande commentatore di matematica, un po' come Pappo. Gran traduttore, riscrive in arabo le opere di Euclide, Archimede, Apollonia e Tolomeo. E non si limita a coltivare la matematica: produce anche nuova conoscenza originale (per esempio nel campo dei numeri amicabili). È poi un innovatore in astronomia: è lui che riforma il

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sistema astronomico greco, aggiungendo una nona sfera alle otto del sistema aristotelico-tolemaico. Tra le tante opere tradotte da Thabit mancano quelle di Diofanto e dello stesso Pappo. Il primo diventa noto agli Arabi solo nel X secolo, tradotto daAbu'l-Wafa (940-997 ), ed è studiato a fondo da al-Karkhi (953-1029 ): a riprova che nel mondo islamico è conosciuta a fondo tutta la matematica ellenistica, oltre che quella indiana. Un altro matematico originale è Omar al-Khayyam (1048-1131), che diventerà noto in Europa soprattutto come poeta, ma in grado di apportare notevoli contributi allo sviluppo dell'analisi algebrica. Scrive, tra l'altro, un'opera intitolata Algebra e studia le equazioni di terzo grado, proponendo metodi generali di soluzione a carattere geometrico. Scopre - in contemporanea, peraltro, con i matematici cinesi, probabilmente grazie a una reciproca conoscenza e influenza - le regole per trovare le potenze di un binomio di ordine superiore al tre. Al di là dei singoli personaggi, comunque, è l'insieme della conoscenza matematica islamica che ci interessa. È vero che molti storici, come Charles Singer, sostengono che alKhwarizmi non sia affatto un matematico originale. E che in ogni caso il livello, pur elevato, che raggiunge la matematica islamica resti inferiore a quello raggiunto in geometria dagli ellenistici e in algebra dagli Indiani. Mentre gli islamici, compreso al-Khwarizmi, sarebbero davvero bravi nell'applicare la matematica alla fisica. Ma se questo è vero, sono vere anche altre due constatazioni. I matematici islamici sono molto bravi a mettere insieme la geometria ellenistica e l'algebra indiana, raggiungendo con questa fusione un inedito livello di conoscenza matematica. Tuttavia il contributo islamico allo sviluppo della matematica va ben oltre la mera assimilazione e fusione della matematica ellenistica e di quella indiana (opera che, da sola, sarebbe comunque eccezionale). L'Islam ha contribuito con un suo apporto originale allo sviluppo della matematica. E ha consentito all'Europa di scoprirla, a partire dal XIII secolo. A supporto di questa tesi, prendiamo il caso di Jamshid al-Kashi (1380-1429), autore nel 1424 di al-Risala al-muhitiyya, un trattato sul cerchio. Nato a Kashan, nell'odierno Iran, al-Kashi è un matematico originale, soprattutto nel campo della trigonometria: ancora oggi conosciamo, per esempio, il "teorema di al-Kashi''. È accreditato come colui che ha introdotto in Occidente le frazione decimali. Ebbene, al-Kashi

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applica il metodo di esaustione di Archimede e calcola il valore di 7t' (in realtà di 2 n) fino alla sedicesima cifra decimale (e alla nona cifra nel sistema sessagesimale). Non è originale nel metodo, ma dopo novecento anni supera (e di molto) la precisione ottenuta da Tsu Chung-Chih e da suo figlio, Tsu Keng-Chih, che si erano fermati (per così dire) alla settima cifra decimale. TABELLA l

Il valore di Tr in varie civiltà antiche (approssimato fino alla quarta cifra decimale) Anni dal presente

Valore di n

Mesopotamia

-4.000

3,125

Egitto

-4.000

3,1605

Palestina

- 2.500

3

Mondo ellenistico (Archimede)

- 2.300

3,1412

Cina

- r.900

3,1416

India

- l.600

3,1416

- 600

3,1415

o

3,1415

Mondo islamico Valore odierno

6

Anche l'Europa, finalmente, scopre 7!

Leonardo Pisano, detto il Fibonacci Archimede è nato e vissuto in Sicilia, ma appartiene alla cultura ellenistica; non lo possiamo considerare un esponente della cultura europea. Cosicché quella che noi oggi chiamiamo Europa è l'ultimo dei continenti connessi a scoprire n. Il motivo è quello cui abbiamo già accennato. Dopo la caduta di Cartagine, nel 146 a.C. il Mediterraneo diventa un "lago romano". Ma né la Roma repubblicana né quella imperiale hanno alcun interesse per la scienza. Dopo quella data nel mondo romano - con la parziale eccezione di Alessandria e delle terre ancora influenzate dalla cultura ellenistica non si produce nessuna significativa nuova conoscenza scientifica. E così in Europa la matematica come tutta la scienza viene ignorata e/ o dimenticata. E viene ignorato e/ o dimenticato anche n. Come abbiamo detto, le cause di questa rimozione sono probabilmente correlate all'economia di Roma: un'economia sostanzialmente rurale, in forma schiavistica, che non richiede innovazione tecnologica. Sta di fatto che per trovare un europeo capace di produrre nuova conoscenza matematica occorre attendere Leonardo Pisano detto il Fibonacci, che nel 1202 pubblica, a Pisa appunto, il Liber abaci e fa conoscere in Italia la numerazione posizionale degli Indiani ormai fatta propria dagli islamici, la sezione aurea, l'algebra più aggiornata. In realtà qualcuno potrebbe obiettare che, a rigore, Fibonacci non sia un rappresentante della cultura europea. Essendosi formato ed essendo diventato un matematico creativo nel Nord Africa, dove suo padre commerciava. Tuttavia è certo che, passati i 25 anni, Leonardo torna a Pisa e non si limita a trasferire in Italia e in Europa la conoscenza acquisita nel più avanzato mondo islamico, ma inizia a produrre nuova conoscenza matematica. È dunque il primo matematico creativo europeo che produce nuova conoscenza matematica in Europa.

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NelLiber abaci c'è buona parte di questa produzione inedita. Quando, poi, l'europeo Fibonacci nel 1220 pubblica un nuovo libro, Practica geometriae, ecco che finalmente lEuropa scopre n. Il Pisano apporta alla conoscenza su questo numero un proprio contributo originale, che consiste in un nuovo metodo per calcolarlo. Proprio come quello di Archimede, che il Pisano conosce a menadito, il metodo di calcolo di Fibonacci si fonda sull'approssimazione del perimetro di un poligono regolare di 96 lati inscritto e circoscritto a un cerchio, con la differenza che ora possono essere utilizzati i numeri decimali, sconosciuti ad Archimede. Fibonacci è meno preciso e rigoroso di Archimede, per la verità, ma ottiene una serie di valori, di cui quello medio risulta:

Un valore, dunque, un po' più vicino al valore attuale (che consideriamo vero) di quello ottenuto da Archimede. Bel colpo, anche se un po' fortunato, per essere un esordio ... Certo, qualcuno potrebbe obiettare che già prima dell'anno Mille Gerberto di Aurillac, futuro papa Silvestro 11, ha studiato la matematica araba in Spagna e si è imbattuto in 7r, di cui conosce il valore (3,1412), calcolato dal grande Archimede. Ma la sua è una conoscenza che non porta da nessuna parte. Intanto perché Gerberto non produce nuova conoscenza né intorno a 7r né intorno alla matematica - non è un creativo -, e poi perché, nonostante la sua autorevolezza e poi la sua autorità, non è in grado di diffondere quel suo sapere. Il punto è che nel x secolo l'Europa non è ancora pronta, mentre due secoli dopo, al tempo di Fibonacci, il continente è ormai un continente in fermento. Masse crescenti di persone si stanno trasferendo in città, dove nascono nuove industrie e nuove classi sociali che iniziano a chiedere innovazione. Insomma Gerberto potrebbe anche essere la persona giusta per portare la scienza e 7r in Europa, ma vive in un tempo sbagliato. Fibonacci è invece la persona giusta - ben più di Gerberto - che si trova a operare nel posto giusto (Pisa, vivace città marinara) e al momento giusto (il Duecento, nel corso di quello che è stato definito "il primo rinascimento europeo") . Nel corso di quel XIII secolo l'Europa "scopre" la scienza: proprio grazie a Fibonacci, ma grazie anche a una sterminata serie di classici ellenistici e islamici tradotti soprattutto a Toledo e a Palermo. Ora, finalmen-

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te, l'Europa la riconosce, mostra di apprezzarla, di volerla approfondire e di possedere anche un discreto potenziale creativo. Questo processo lo abbiamo ricostruito altrove (La scienza e l'Europa. Dalle origini al XIII secolo). Qui ricordiamo solo che nel l 346 a Parigi litaliano Domenico di Chivasso (?-1360) scrive a sua volta una Practica geometriae in cui mostra non solo di conoscere il valore di 7! calcolato da Archimede ma anche di sapere bene che si tratta di un'approssimazione. E che, come tale, può essere migliorata. Purtroppo la grande crisi economica e sanitaria del Trecento, con un' epidemia di peste che scoppia alla metà del secolo e uccide un terzo della popolazione del continente, soffoca in culla quella tensione creativa e fa segnare un periodo di nuova stagnazione. La ripartenza, anzi il Rinascimento, inizierà solo nei primi anni del xv secolo nelle botteghe degli artisti e degli ingegneri fiorentini (si veda il mio La scienza e l'Europa. Il Rinascimento).

Il Rinascimento Nel Quattrocento, dunque, lEuropa riscopre la scienza, a partire dalle botteghe degli artisti e degli ingegneri, anzi degli artisti-ingegneri di Firenze. I pionieri sono Filippo Brunelleschi (1377-1446), Masaccio (14011428), Donatello (1386-1466): personaggi straordinari che troviamo in tutti i manuali di arte. Si occupano di architettura, di pittura, di scultura. Hanno in comune il luogo dove operano, la città di Firenze, e la scoperta della prospettiva. Ovvero della geometria e più in generale della matematica. All'inizio del xv secolo molti artisti, a Firenze ma non solo, iniziano a esprimere una forte tensione naturalistica. Il loro problema è come rappresentare la realtà. E la risposta la trovano nelle opere dei grandi matematici ellenistici - Euclide, Archimede, Erone, Tolomeo - che gli umanisti stanno riscoprendo, traducendo e riproponendo. Il primo grande teorico della prospettiva e, per questo, «punto di partenza della scienza rinascimentale», come sostengono Lucio Russo ed Emanuela Santoni in Ingegni minuti (2010), una storia completa della scienza italiana, è Leon Battista Alberti (1404-1472), che nel 1435 a Firenze scrive il suo celebre De pictura, l'opera che sancisce la nuova alleanza tra matematica e arte.

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Per tutto il Quattrocento è l'Italia e, in particolare, Firenze il luogo in cui si sviluppa la "scienza visuale" del Rinascimento, favorita da una nuova ondata di traduzione dei classici ellenistici, questa volta direttamente dal greco. Questa fase ha per protagonisti artisti matematici come Piero della Francesca (1416-1492) e matematici come Luca Pacioli (1445-1517), ma coinvolge in pieno moltissimi altri artisti, soprattutto pittori, compresi i tre più grandi, quelli a cui Giorgio Vasari attribuisce la conquista della perfezione assoluta nella rappresentazione della realtà: Leonardo da Vinci (1452-1519 ), Raffaello Sanzio (1483-1520) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564).

Leonardo è certo il più eclettico dei tre e nelle sue opere fa riferimento esplicito almeno due volte ai metodi per la quadratura del cerchio. Uno è ripreso semplicemente dai classici greci, mal' altro è un tentativo originale: a riprova che, nel Rinascimento, è davvero difficile se non impossibile separare arte e scienza. E in questa intima contaminazione, Leonardo si imbatte più volte in TC. Tra la fine del xv e l'inizio del XVI secolo da Firenze e dall'Italia la scienza visuale si diffonde in tutta Europa, creando le premesse per quella "rivoluzione" del XVII secolo o, se volete, per quell'esplosione di creatività scientifica che avrà in Galileo e Newton i personaggi più emblematici. In questa congerie cambia, anzi subisce un'autentica svolta, anche la storia di TC. Se, infatti, tra il xv e la prima parte del XVI secolo i matematici europei iniziano a conoscerlo e ad approfondire il dibattito sul suo valore e sulla sua natura, alla fine del Cinquecento, milleottocento anni dopo Archimede, trovano un nuovo metodo originale per calcolarlo. Un segnale, questo, che i matematici e i filosofi naturali europei iniziano a guardare oltre i limiti, straordinari, della scienza ellenistica e a produrre con sistematicità e profondità nuove conoscenze. Conviene osservarle un po' più da vicino queste due fasi della matematica rinascimentale. Intanto tra il xv e il XVI secolo è il mondo che cambia. Costantinopoli, assediata dai Turchi, cade nel 1453, ponendo fine all'Impero romano d'Oriente mille anni dopo la dissoluzione dell'Impero romano d'Occidente. Due anni dopo, nel 1455, Johannes Gutenberg mette a punto un sistema di stampa a caratteri mobili, premessa non solo di una nuova industria (quella del libro), ma di nuove possibilità di comunicare e, quindi, di sviluppare la cultura, compresa la cultura scientifica e matematica. La stampa è il primo mass media, il primo mezzo di comunicazione di massa.

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Intanto gli Europei frequentano con le loro navi in maniera sempre più incessante non solo il "nuovo continente", l'America, ma anche l'India, la Cina, gli arcipelaghi distesi tra l'Oceano Indiano e l'Oceano Pacifico. Il mondo diventa più piccolo, almeno per gli Europei. Si modificano così man mano anche gli equilibri economici e culturali interni al continente, a svantaggio delle nazioni mediterranee e a vantaggio delle nazioni dell'Europa settentrionale. In tutti questi straordinari cambiamenti è coinvolta, a pieno titolo, la scienza, appena riscoperta. E poiché quella del Rinascimento è "scienza visuale", centrata sull'ottica geometrica, ecco che i territori in cui, fin dall' inizio del Quattrocento, artisti e matematici si incontrano e si fondono sono quelli dell'ottica e della geometria. Piero di Benedetto de' Franceschi, più noto come Piero della Francesca, è forse l'uomo che meglio esprime questo fecondo incontro, questa autentica fusione, tra matematica e scienza, perché grande pittore e, per dirla con Mortis Kline, «meglio geometra del suo tempo». È, infatti, un grande artista e, nel medesimo tempo, un teorico della matematica. Le due dimensioni in Piero della Francesca si conciliano perfettamente e non solo per via pratica: perché l'umanista toscano considera la prospettiva una vera e propria scienza della pittura e la sua ricerca consiste nel tentativo di correggere e di estendere con la matematica la conoscenza empirica delle arti figurative. Il buon pittore, sostiene, deve essere per necessità un buon matematico. E, infatti, oltre a una serie di opere pittoriche che lo rendono grande anche agli occhi dei moderni, Piero della Francesca si impegna da par suo nella ricerca matematica. Le sue opere scientifiche principali sono il De quinque corporibus regularibus, libro, dedicato al Duca di Montefeltro, in cui prende in esame la geometria euclidea e, in particolare, i cinque solidi platonici. In un'altra opera, la sua più famosa, il De prospectiva pingendi, scritta nel pieno della maturità, approfondisce appunto la teoria della prospettiva e ne espone in maniera pressoché completa i principi geometrici. In una terza opera, il Trattato d'abaco, Piero della Francesca non solo riprende i temi e la numerazione posizionale con le cifre indo-arabe di Leonardo Fibonacci, ma si cimenta anche con le equazioni di quinto grado. Piero della Francesca è grande sia come artista che come matematico, ma non rappresenta certo un'eccezione nell'Italia del Rinascimento. Ci sono altri umanisti che sono anche ottimi matematici. Per esempio, l' algebrista Luca Pacioli, che di Piero è non solo conterraneo - è nato anche lui a Borgo San Sepolcro - ma anche allievo.

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Nel 1494 il frate Luca Pacioli manda alle stampe la sua opera forse maggiore: Summa de aritmetica, geometria, proporzioni et proporzionalita nella quale affronta quattro tecniche matematiche (contabilità, aritmetica, geometria e algebra), proponendo un compendio di quanto si insegna nelle università e nelle botteghe. Il ritorno della scienza delle equazioni in Europa è stata preparata dalla traduzione in italiano, dieci anni prima, dell'A~ebra di al-Khuwarizmi. Ma il libro di Luca Pacioli si guadagna non pochi primati: è il primo trattato di algebra mai stampato; è il trattato di algebra più importante del Quattrocento; ed è anche l'opera di algebra più diffusa all'inizio del Cinquecento. Nella sua Summa, oltre alla geometria di Euclide e all'aritmetica di Archimede, il frate matematico ripropone i lavori di Leonardo Fibonacci, compresi quelli sulla "partita doppià', con i non molti, ma significativi, aggiornamenti intervenuti negli ultimi tre secoli. Fra' Luca Pacioli "legge'', ovvero insegna, nel medesimo Studium, quello di Bologna, di Scipion Dal Ferro (1465-1526): e i due sono considerati i fondatori della nuova algebra che si impone nel Cinquecento. Firenze e l'Italia, si è detto, sono al centro della rinascita della scienza in Europa. Tuttavia, come scrive Umberto Bottazzini (1947-) nel primo dei volumi sulla Storia della scienza moderna e contemporanea, curati da Paolo Rossi (1923-2.012), «lungo le vie percorse dai mercanti, la cultura e le tecniche degli abacisti e dei matematici italiani si [diffondono] nelle città europee, particolarmente in Germania». In questo ha un ruolo preminente la scuola dei Rechenmeister: la variante tedesca delle "scuole d'abaco". Il Regiomontano, al secolo Johannes Miiller (1436-1476), è di certo la figura più rappresentativa della matematica, oltre che dell'astronomia e dell'umanesimo, del Quattrocento in terra tedesca. Ebbene, il Regiomontano non solo riscopre Diofanto, ma si dimostra anche un buon algebrista che sa come utilizzare i metodi geometrici per risolvere i problemi algebrici. Inoltre, studia e diffonde la trigonometria sviluppata dai matematici islamici. Nel De triangulis omnimodis (1464) e nelle Tabulae directionum, pubblicate dopo la sua morte, nel 1490, si occupa in maniera sistematica della trigonometria e forma, così, una serie di giovani matematici, tra cui Nikolaj Kopernik (1473-1543), più noto in Italia come Copernico, che ne fa ampio uso nei suoi lavori di astronomia. Il polacco pubblica nel 1542 il De lateribus et angulis triangolorum, frutto dei suoi studi di trigonometria, che di lì a un anno ingloba nel più celebre De revolutionibus.

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Intanto, proprio a metà del Quattrocento, il cardinale Niccolò Cusano va sostenendo di essere riuscito a quadrare il cerchio, trovando un valore di 7r pari a 3,1423. Il Regiomontano lo smonta, dimostrando che quel metodo per la quadratura del cerchio è scorretto. La parabola della trigonometria è un po' l'emblema della matematica del Rinascimento. Portata in Europa, come abbiamo detto, da Leonardo Fibonacci, inizia a essere utilizzata sul piano pratico, in agrimensura, solo nel 1450. Ma nel xv secolo le nuove domande poste dalla navigazione, dalla costruzione di calendari e dall'astronomia rinnovano l'interesse per questa branca della matematica. Tra i primi a frequentare la trigonometria, oltre al Regiomontano, figura l'austriaco Georgvon Peurbach (1423-1461). Egli è tra i primi nel Rinascimento a interessarsi in maniera attiva a n. Non produce nulla di nuovo intorno al nostro numero, ma dimostra diconoscerne per intero la storia. Nei suoi lavori, infatti cita non solo il valore (2217) e il metodo di Archimede, ma anche uno dei valori ottenuti degli Indiani (..frO) e quello calcolato da Tolomeo (377I120 ). Sempre nella Germania del Quattrocento un algebrista eminente è Johannes Widman (1460-1498). Mentre il geometraJohann Werner (14681528) riprende lo studio delle coniche, le curve su cui aveva lavorato Apollonio. Ma anche in Francia c'è chi si interessa di matematica, e di algebra in particolare: Nicolas Chuquet (1445-1488) da Lione, per esempio. Il suo Triparty en la science des nombres, pubblicato nel 1484, è un libro che non contiene grandi novità. E tuttavia Carl Boyer lo considera opera fondamentale per la matematica europea quanto quello di Fibonacci, perché ripropone e diffonde tutta la matematica conosciuta. È diviso in tre parti: nella prima sono proposte le operazioni aritmetiche razionali e la numerazione posizionale indo-araba; nella seconda vi sono soluzioni di equazioni; nella terza parte sviluppa l'algebra. Se il Quattrocento è il secolo della ripresa degli studi matematici, il Cinquecento è quello della loro definitiva esplosione. In questo secolo l'insegnamento della scienza dei numeri si diffonde, infatti, in quasi tutte le università europee e comprende anche astronomia e astrologia. A Oxford il preside del Merton College, Henry Savile (1549-1612), crea la cattedra di geometria e astronomia. Mentre a Padova ancora prima Ignazio Danti (1537-1586) rivendica alla matematica la dignità di scienza e include nei suoi affollati corsi anche la geografia, l'architettura e la meccanica.

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E tuttavia gli studi matematici fioriscono anche e forse soprattutto fuori dalle università. A Parigi presso il Collège Royal, fondato nel 1530 da Francesco I (1494-1547 ). A Londra, grazie a una donazione di un mercante, Thomas Gresham (1519-1579), nasce un circolo privato, il Gresham College, dove si insegna matematica a fini pratici. Mentre a Roma la scienza dei numeri si studia e si insegna al Collegio Romano, quello dei gesuiti. Insomma, quella dei matematici inizia a essere una professione relativamente diffusa. Eppure, nella storia di n, ancora nella prima parte del Cinquecento, è un artista che si distingue: Albrecht Diirer (1471-1528), straordinario incisore e autore di tavole naturalistiche di ineguagliata bellezza. Ebbene, Diirer è il primo artista tedesco a occuparsi in maniera approfondita della prospettiva e delle proporzioni del corpo umano. La sua prima pubblicazione, avvenuta venti anni dopo un incontro con Pacioli, nel 1525, riguarda le Istruzioni sulla maniera di misurare i piani e i volumi con il regolo e il compasso ed è, per l'appunto, uno dei primi libri di matematica pubblicati in Germania. Vi è descritta, tra l'altro, la costruzione di numerosi tipi di curve, tra cui la spirale di Archimede. Anche le altre sue due pubblicazioni - le Istruzioni sull'arte di fortificare le cittadelle, i castelli e i borghi del 1527 e i Quattro libri sulle proporzioni umane, uscito postumo nel 1528 - hanno un contenuto tecnico e matematico. Albrecht Diirer si imbatte più volte in n, esattamente come Luca Pacioli e Leonardo da Vinci, e per lo stesso motivo: tutti studiano il modo di inscrivere un poligono in un cerchio. E tutti cercano una soluzione per motivi squisitamente pratici: come costruire le migliori fortificazioni per la difesa militare delle città. A proposito di n, stranamente Diirer utilizza il valore dei Babilonesi: 3 + 1/8, ovvero 3,125. Naturalmente il grande incisore non è il solo in Germania a occuparsi di matematica. Nel 1503, per esempio, Gregor Reisch (?-1523) pubblica la Margarita philosophica. Grande diffusione hanno anche le opere di Adam Riese (1492-1559) sulla Rechnenkunst, l'arte di calcolare con le cifre arabe. Il libro contiene la notazione simbolica per le potenze. Grande influenza culturale ha Michel Stifel (1486-156?). Amico e sostenitore di Martin Luther (1483-1546), Stifel scrive e pubblica a Norimberga nel 1544, con una prefazione di Melantone (1497-1560 ), l'Arithmetica integra: un'opera senza sostanziali novità rispetto a quelle che circolano in

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Italia, ma dove vengono utilizzati per la prima volta in maniera sistematica i segni + e - per i numeri relativi. Il matematico protestante si interessa in particolare delle connessioni delle progressioni algebriche e geometriche e dell'algebra letterale. E affronta il tema, teorico, della realtà dei numeri irrazionali: un tema che coinvolge anche n, da tempo sospetto di essere un irrazionale. «Proprio come un numero infinito non è un numero, così un numero irrazionale non è un vero numero, ma giace nascosto in una specie di nuvola di infinito», sostiene Stifel, ribadendo come già Pitagora che i numeri "veri" sono solo o interi o frazionari. Per Stifel n è un "non numero" che vive sulle nuvole inafferrabili dell'infinito. Certo, per il tedesco anche i numeri negativi sono rappresentazioni dell'assurdo. E tuttavia ancora nel Cinquecento questo è il sentimento (un sentimento) diffuso sulla natura di 7r. La posizione ha il merito di indurre la ripresa della discussione sulla natura di certi numeri, una discussione cui partecipa anche Girolamo Cardano (1501-1576). Il pavese considera i numeri negativi meri simboli, che certo escono fuori dalle radici delle equazioni ma che non hanno alcun significato reale. Solo sul finire del XVI secolo ci sarà almeno un matematico, Thomas Harriot (1560-1621), che inizia ad accreditare i negativi come numeri "veri". Mentre prima di lui Rafael Bombelli (1526-1572) ne fornisce una chiara definizione. Bombelli opera in Italia. Ed è proprio in Italia che l'algebra nel Cinquecento ottiene i suoi risultati più significativi. Intanto perché i classici riscoperti dall'urbinate Federico Commandino (1509-1575) e dal messinese Francesco Maurolico (1494-1575) aprono la strada, ma anche perché continua la ricerca originale, con novità non da poco rispetto all'algebra di al-Khuwarizmi. Il grande matematico islamico proponeva la trattazione simbolica e quella geometrica dell'algebra in maniera separata. I matematici europei e in particolare gli italiani del xv e XVI secolo iniziano a fondere i due linguaggi. E infatti all'inizio del Cinquecento gli studi e le ricerche originali in algebra subiscono una notevole accelerazione. Ne sono testimonianza nuove importanti pubblicazioni. Nel 1521, per esempio, Francesco Ghaligai (?-1536) stampa a Firenze la Summa de aritmetica, seguita due anni dopo dalla ristampa della Summa di Luca Pacioli. L'algebra italiana deve poi molto a Scipion Dal Ferro che insegna matematica a Bologna nello stesso periodo di Pacioli e risolve quelle equazioni di terzo grado che il frate rite-

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neva impossibili. Scipion Dal Ferro non lascia nulla di scritto. Ma Nicolò Tartaglia (1499-1557), al secolo Niccolò Fontana, che pure giunge alle sue medesime conclusioni, nel 1535, gliene riconosce la paternità. Tartaglia coltiva la sua fama grazie alla conoscenza della soluzione delle equazioni di terzo grado, che conserva gelosamente segrete. Nel 1545, però, a Norimberga, Girolamo Cardano pubblica l'Ars Magna, un libro che ha grande successo anche perché propone i più recenti risultati teorici raggiunti dagli algebristi italiani. Cardano, che è medico molto noto, esperto di magia naturale e di astrologia, è anche un abile matematico e "lettore" di Euclide a Milano. Non desti meraviglia, dunque, se la suaArs Magna, come sostiene Umberto Bottazzini, «segna una svolta nella storia della matematica, il definitivo superamento dell'algebra medievale e l'inizio di una nuova epoca». Cardano rende noto il segreto sulla soluzione delle equazioni di terzo grado di Tartaglia ed entra in polemica - una polemica destinata a diventare celebre - con il connazionale. Accanito giocatore di dadi e abile spadaccino, è noto in Europa non solo per la sua genialità matematica, ma anche per non essere uno stinco di santo. Ama vivere in maniera trasgressiva e non si perita di ostentarlo. Nel suo Liber de ludo alae, che sarà pubblicato postumo solo nel 1663, applica a modo suo la matematica, fornendo consigli su come barare al gioco, attività che pratica personalmente e non per passione, ma semplicemente per fare soldi. La sua trasgressività lo porta spesso a esplorare luoghi pericolosi. Nel 1570, per esempio, fa l'oroscopo a Gesù e per questo conosce il carcere, accusato di eresia. Ma l'uomo è geniale e ben introdotto. Va a finire che il papa in persona lo assume come astrologo. Così, tra un'epica tenzone e l'altra, si consuma la prima grande stagione dell'algebra italiana, senza peraltro esaurirsi. Nel 1572, infatti, Rafael Bombelli pubblica l'Opera sull'algebra, che - nel solco tracciato da Scipion Dal Ferro ma grazie ai nuovi stimoli ricavati dal ritrovamento di un testo, l'Aritmetica, di Diofanto - si impone per oltre un secolo come il principale testo europeo di algebra superiore. Un testo in cui Bombelli continua la riflessione sulle equazioni di grado superiore al secondo e introduce nuovi numeri, gli immaginari. Cosa sono? Proviamo a dimostrarlo con un esempio. Consideriamo il numero negativo -9. E cerchiamo di estrarne la radice:

ANCHE L'EUROPA, FINALMENTE, SCOPRE Il

L'operazione non ha una soluzione, perché non conosciamo nessun numero che moltiplicato per se stesso dia un numero negativo. Posso tuttavia considerare che: -9 = (-r) 9

e dunque scrivere la mia radice come:

Il numero ~ non esiste nel mondo reale. Lo posso definire, perciò, un numero immaginario. Oggi lo indichiamo con la lettera i e diciamo che: i=~

Cosicché:

Ebbene, Bombelli dimostra che non è possibile trovare una regola generale per risolvere equazioni cubiche (le equazioni di terzo grado) senza ricorrere a questi numeri molto strani, diversi dai numeri reali, perché non sono né positivi né negativi: a numeri che sono, appunto, immaginari. Si rende conto che i numeri immaginari possono sembrare pure astrazioni, artefatti matematici. Ma, con notevole pragmatismo, prende atto che compaiono molto di frequente e così assume un atteggiamento "moderno': evita con cura di infilarsi in polemiche sulla "natura ultimà' di questi numeri e si limita a esporre direttamente le regole di calcolo in cui sono coinvolti. Bombelli riesce lì dove Cardano ha tentato e ha fallito. E il pavese reagisce: in questo modo, contesta a Bombelli, distruggi tutto Euclide perché i numeri immaginari non possono in alcun modo essere interpretati come grandezze geometriche. Il XVI secolo si avvia, così, alla sua conclusione con due novità. I matematici europei hanno portato l'algebra oltre le frontiere definite dagli ellenistici e dagli islamici. Hanno prodotto nuova conoscenza. E nel fare questo hanno proposto un'ulteriore estensione del sistema dei numeri: ali' inizio del secolo lo zero viene finalmente riconosciuto come membro a tutti gli effetti della famiglia dei numeri, famiglia di cui alla fine del secolo

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entrano a far parte i numeri negativi e infine gli immaginari. Ora i matematici europei conoscono e trattano più numeri di ogni altro loro collega del passato o del presente che abiti in un altro continente. Una novità altrettanto significativa in algebra è l'introduzione dei simboli. Se prima del XVI secolo solo Diofanto aveva cercato di rendere il ragionamento algebrico più compatto ed efficace, introducendo dei simboli, ora si assiste alla diffusione lenta ma costante dei simboli: una rivoluzione i cui effetti nella comunicazione della matematica si faranno sentire molto presto. Così come grande importanza riveste l'introduzione in Europa dei numeri decimali, che il fiammingo Simon Stevin (1548-1620) utilizza nel suo Disme, pubblicato nel 1585. La matematica europea del Cinquecento, tuttavia, non è solo algebra. Abbiamo già accennato alla trigonometria, riscoperta nel Quattrocento e applicata agli studi agronomici e astronomici. In questo campo nel XVI secolo si distingue in maniera particolare Georg Joachim von Lauschen, noto anche come Retico (1514-1576). Un'ulteriore grande novità, infine, è quella introdotta nel 1594 daJohn Napier (1550-1617): i logaritmi. Il logaritmo di un numero a è un altro numero, x, che oggi chiamiamo esponente, cui bisogna elevare un terzo numero, b, per ottenere il numero di partenza. Facciamo un esempio: il logaritmo di 8 è 3 se la base è :z..

perché: 23

=8

Allo stesso modo 3 è il logaritmo in base IO di l.ooo: log'° I.000 = 3

perché: I0 3 = I.000

Ci siamo soffermati sui logaritmi perché tra poco essi entreranno a far parte della storia di 7r.

ANCHE L'EUROPA, FINALMENTE, SCOPRE II

Ma torniamo alla storia generale della matematica del Cinquecento. Alla fine del secolo si distingue anche il gesuita tedesco Christoph Clau (1538-1612), noto in Italia come Cristoforo Clavio, principale autore della riforma del calendario. È soprattutto grazie a lui che la Compagnia di Gesù assume un ruolo di primo piano nella comunità matematica. Ci sono poi i "matematici umanisti", Federico Commandino (1509-1575) e Francesco Maurolico (1494-1575). C'è il gesuita napoletano Luca Valerio (15531618), che sviluppa le tecniche di Archimede per la costruzione dei centri di massa dei solidi cari alla geometria greca, argomento che a fine secolo affronta anche il giovane Galileo Galilei, prendendo a riferimento sempre il Siracusano. Sebbene Archimede sia stato tradotto in latino già da Guglielmo di Moerbeke (1215-1286) e il cardinale Giacomo da Cremona (1395-1454) lo ritraduca dal greco nel 1450, non è molto conosciuto nel Rinascimento. Non a fondo, almeno. È troppo difficile. Nel XIII secolo ben pochi lo leggono. E così anche nel xv e XVI secolo. Come scrive Morris Kline, gli studiosi rinascimentali colgono solo in parte le prospettive, i valori e gli obiettivi delle opere greche, così che anche i più bravi fanno fatica a comprendere Archimede. E tuttavia quei pochi che lo leggono e lo capiscono, aprono una strada, inedita, nella storia della scienza europea e di ogni tempo. E se molti negano che abbia prodotto molti risultati brillanti in fatto di matematica, occorre riconoscere al Rinascimento almeno due grandi meriti: ristabilisce, come era successo ad Alessandria d'Egitto, legami intimi tra la scienza dei numeri, le scienze naturali (in particolare l'astronomia) e la tecnologia; dona agli Europei la possibilità di costruirsi un'immagine matematica del mondo. Certo, all'inizio del Rinascimento la matematica costituisce ancora un insieme di tecniche utili a risolvere problemi pratici. I libri di Pacioli, di Tartaglia, di Stevin, per esempio, contengono un numero enorme di problemi di "aritmetica mercantile". E fino alla metà del XVI secolo i matematici riprendono l'algebra islamica e vi apportano tutt'al più qualche aggiunta. Ma alla metà del XVI secolo, lo sviluppo tecnologico e della navigazione richiede - anzi impone - un salto di qualità. Una pressione, questa, che viene avvertita anche da TC. Nel 1559 Johannes Buteo (1492-1572), per esempio, pubblica il De quadratura circuii, il primo libro a nostra conoscenza che contiene una storia completa di TC. Buteo passa in rassegna tutti i metodi antichi e moderni

STORIA DI II

di calcolo del nostro numero, mostrando di conoscere e di privilegiare il metodo di Archimede. Non si creda che la conoscenza di Peurbach e di Buteo siano alla portata di tutti, e neppure dei più colti, se è vero che, ancora nel 1594, un filologo dell'Università di Leida può pubblicare un libro, il Cyclometria elementa, in cui cerca di dimostrare (errore colossale) che non è possibile utilizzare poligoni con un elevato numero di lati per approssimare per difetto la circonferenza del cerchio in cui è inscritto perché, spiega il tedesco, già un poligono con 12 lati ha un perimetro superiore a quella circonferenza. È evidente che il filologo non ha alcuna competenza matematica. Ma, resistenze dei filologi a parte, verso la fine del Cinquecento emergono nuove possibilità di calcolare con sempre maggiore precisione 7t' grazie a nuovi strumenti, come le tavole trigonometriche rese più accurate dagli astronomi (tra loro Copernico e Keplero), l'invenzione delle frazioni decimali e anche grazie ai logaritmi, linvenzione del tutto nuova messa a punto nel 1594 - lo abbiamo già ricordato - dallo scozzese John Napier e poi, in maniera indipendente, dallo svizzero Joost Biirgi (1552-1632). Intanto è iniziata l'era di quelli che Petr Beckmann chiama i digit hunters, i cacciatori di cifre. Nel 1585 Adriaan Anthoniszoon (1541-1620 ), per esempio, trova un valore di n preciso fino alla sesta cifra decimale. Il valore è compreso tra 377

333

-I20 ro6

che, espresso in numeri decimali è:

Sei cifre decimali non sono poche. Tanto che Anthoniszoon pensa di aver battuto un record. Non sa che già da un secolo al-Kashi è giunto alla sedicesima cifra. Entrambi, lolandese e liraniano, hanno utilizzato il vecchio e sempre verde metodo di Archimede.

7 Oltre Archimede, François Viète

L'universo matematico Se c'è un tema che interessa e accende gli animi dei matematici europei del XVI secolo, questo è il rapporto tra algebra e geometria. Molti sono convinti, come scriverà nel Saggiatore Galileo Galilei di lì a qualche anno, che l'universo è scritto «in lingua matematica e i suoi caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche». Se l'universo è scritto nel linguaggio della geometria, i numeri, invenzione umana, assumono legittimità in quanto possono essere espressi in forma geometrica. Cosa significhi ciò, lo abbiamo visto a proposito dei numeri immaginari. Alcuni matematici sostengono che i numeri immaginari non sono "veri" proprio perché non possono essere espressi in forma geometrica. La discussione è accesa e diventa spesso di natura filosofica, per questo Bombelli con piglio pragmatico afferma: poco mi importa della loro natura, io intanto li calcolo. Tuttavia la discussione di natura filosofica ha un grande pregio: induce i matematici a riflettere sui fondamenti della loro disciplina. Figura centrale in questa riflessione è l'avvocato francese François Viète (1540-1603): un dilettante. Ma un dilettante così bravo da essere considerato il più grande matematico del XVI secolo. Allievo di Pierre de la Ramée (1515-1572), il lavoro principale di François Viète è la politica: deputato al Parlamento della Bretagna diventa consigliere sia di Enrico III (1551-1589) che di Enrico di Navarra (1553-1610). Ma è un politico appassionato della scienza dei numeri. La conosce bene ed è capace di ricerche originali. François Viète si interessa di teoria dei numeri. Pone virtualmente fine all'uso del sistema sessagesimale degli antichi e impone definitivamente luso di quello decimale. Si occupa molto di trigonometria e per trattarla introduce un metodo analitico generale noto come goniometria (scienza della mi-

STORIA DI I1

sura degli angoli). Il francese considera la trigonometria una disciplina a sé stante e soprattutto di grande rilievo, perché universale. «La trigonometria - sostiene - è la massima gloria dei matematici perché abilita a sottomettere a un calcolo meraviglioso cielo, terrae mare» (citato daMorris Kline). Mal' avvocato si impegna soprattutto nel tentativo di fondere geometria e algebra. Per questo dimostra che il concetto di equazione proposto da Diofanto altro non è che lidea di proporzione in geometria. E su questa base tenta di costruire un'algebra che tratti di problemi generali. Per i risultati raggiunti il francese può essere considerato il fondatore dell'algebra simbolica. Ebbene, questo matematico dilettante, questo avvocato e politico, è il primo a introdurre, intorno al 1593, un metodo nuovo e alternativo a quello di Archimede nel calcolo del valore di n: un metodo analitico e non geometrico. Viète è il primo ad andare oltre Archimede. In realtà il francese inizia a interessarsi a n fin da giovane. Tanto che nel 1559, usando il metodo classico del Siracusano, giunge a stabilirne con correttezza le prime nove cifre decimali, calcolando l'area di un poligono con 393.216 lati ottenuto raddoppiando 16 volte i lati dell'esagono originario. Ne ricava che:

È il risultato più preciso ottenuto finora in Europa. Ma Viète non si accontenta di calcolare. Cerca un nuovo metodo per farlo. Lo trova molti anni dopo, nel 1593, procedendo in questo modo: misura il rapporto tra l'area (A) di un poligono con n lati e l'area del cerchio in cui è inscritto. Poi procede usando l'area di un poligono con il doppio (2n) dei lati inscritto nel medesimo cerchio. Poi ancora con l'area di un poligono di 4n lati e così via, all'infinito. Col crescere del numero dei lati l'area del poligono approssima sempre più quella del cerchio. Con l'uso della trigonometria e con la nozione di limite che noi utilizziamo oggi, ma che Viète ancora non conosceva, potremmo dimostrare che:

La notazione indica un prodotto reiterato e lungo a piacere. Un prodotto da cui Viète ricava che: 2 2·--·

{;.

2

·h +Vi.

2 v'2

+ v'2 + V2

· .•. =7C

OLTRE ARCHIMEDE, FRANçms VIÈTE

93

Consigliamo al lettore di metterlo bene a fuoco, questo metodo analitico inventato da François Viète, per varie ragioni. Intanto perché, ripetiamo, è il primo metodo per calcolare Tr alternativo a quello di Archimede. E poi perché è il primo nella storia a utilizzare un'espressione analitica (una serie infinita di operazioni algebriche) per calcolare Tr. Perché, ancora, nel proporre questo nuovo metodo, Viète è il primo a usare il termine "analisi". Perché questa formula è la prima espressione nella storia della matematica di un prodotto infinito. E perché, infine, vi fa capolino un assaggio di calcolo infinitesimale. No, non è davvero un caso se tutto questo castello di novità sia costruito intorno al nostro numero, Tr. Con il suo nuovo metodo, Viète mostra di poter raggiungere risultati molto precisi, almeno in prima approssimazione. Ma la domanda è: la moltiplicazione di un numero infinito di termini converge realmente verso il "vero" valore di Tr? Il matematico politico non lo sa e non lo dimostra. La convergenza del prodotto di Viète sarà dimostrata solo tre secoli dopo.

Cacciatori di decimali Il valore del metodo inventato dal politico e matematico francese va ben oltre il fatto che consente di calcolare Tr con fatica (provate voi a calcolare a mano per un numero illimitato di volte le tante radici presenti nella formula del francese), ma con notevole precisione. E tuttavia ormai la partita di caccia dei digit hunters è iniziata. In quel medesimo anno, il 1593, l'olandese Adriaen van Rooman (1561-1615), applicando il vecchio metodo di Archimede a un poligono con 2 10 (un miliardo e passa) lati, calcola il valore di Tr fino alla 15• cifra decimale. Ma anche lui è battuto, appena tre anni dopo, da un altro olandese, Ludolph van Ceulen (1540-1610), che raggiunge la 20• cifra superando il persiano al-Kashi e stabilendo - se lo possiamo dire in termini sportivi - il primato mondiale assoluto. Un segno magari piccolo, ma non del tutto marginale che la matematica in Europa sta diventando superiore sia a quella degli antichi sia a quella di ogni altra civiltà al mondo. Certo è che da questo momento in poi è un crescendo di successi per i "cacciatori di decimali". Lo stesso Ludolph van Ceulen nel 1615 fornisce un valore di Tr preciso fino alla 32• cifra dopo la virgola.

94

STORIA DI II

La leggenda vuole che Ludolph van Ceulen abbia continuato amacinare calcoli su calcoli e che sulla pietra posta sulla sua tomba, nella chiesa di San Pietro a Leida, vi fosse inciso un valore di 7r con 35 cifre decimali. Purtroppo, la pietra è andata perduta e non c'è altra documentazione di questa ennesima performance. Ciò non toglie che ancora oggi in Germania 7r non sia noto come pi greco, bensì come die Ludolphsche Zahl: il numero di Ludolph. Ma la caccia non è affatto chiusa. Grazie al nuovo calcolo differenziale, all'inizio del Settecento l'astronomo Abraham Sharp (1653-1742) tocca quota 72 e poco dopo, nel 1706, raggiunge le 100 cifre decimali. Nel 1717 il francese Thomas Fantet de Lagny (1660-1734) lo supera e giunge al 127° decimale. Mentre nel 1794 lo sloveno Jurij Vega (1754-1802) non solo tocca quota 140, ma dimostra anche che de Lagny ha commesso un errore sulla n3•: ha messo un 7 al posto di un 8. Non c'è solo l'Europa. In Giappone, nel 1722, il matematico Takebe Katahiro (1664-1739 ), usando il metodo di Archimede e un poligono con i.024 lati, calcola un valore esatto di 7r con 40 cifre decimali. E il suo collega Matsunaga Yoshisuke (1692-1744), usando lo sviluppo in serie, giunge nel 1737 a 50 decimali. La caccia continua anche dopo il XVIII secolo, impegnando centinaia di matematici, a calcolare per mesi e mesi, talvolta per anni, riempiendo centinaia di pagine di somme, di prodotti, di radici, di appunti. Per brevità, diamo in tabella le tappe principali dell"'allungamento" di n. Quello raggiunto da Donald Fraser Ferguson (vissuto nel xx secolo) nel 1948 è il record assoluto prima dell'arrivo del computer. È interessante notare - come fa Petr Beckmann - che tutti questi digit hunters si concentrano su n. Nessuno si sogna di calcolare la 72', 440• o 8 o 8a cifra di {2 o di -{s. Ed è interessante notare che non c'è alcuna ragione matematica e men che meno pratica per calcolare 72, 440 o 808 decimali di n. A spingere a effettuare questi sforzi enormi con piglio sportivo è solo il fascino di un numero. Ma torniamo al Seicento. Alla fine del secolo il valore di 7r è ormai conosciuto fino alla 30• cifra decimale e oltre. E all'inizio del XVIII i decimali noti sono addirittura 72. Non si tratta solo di una mera crescita quantitativa: c'è qualcosa di più radicale. La ricerca del valore di 7r con un numero sempre maggiore di cifre decimali cessa di essere un problema pratico, che può aiutare nella costruzione di un edificio e inizia a diventare un problema matematico puro. Intanto, la precisione con cui si

OLTRE ARCHIMEDE, FRANço1s VIÈTE

95

TABELLA l

I decimali di 7r, prima del computer Anno II

millennio a.C.

III V

Nome

Cifre decimali

Anonimo babilonese

a.C.

Archimede

secolo

Tsu Chung-Chih

7

1424

al-Kashi

1615

Ludolph van Ceulen

32

1702

Abraham Sharp

72

1706

John Machin

IOO

1717

Thomas Fantet de Lagny

127

1794

Jurij Vega

1844

Johann Dase

1847

Thomas Clausen

1853

William Rutherford

440

1855

Richter

500

1873

William Shanks

707

1948

Donald F. Ferguson

808

200

calcola n diventa un indicatore della bontà di un metodo matematico. Questa capacità viene esaltata proprio nel corso del XVII secolo, quando lo sviluppo in serie la Vìete diventa un metodo sempre più raffinato e porta all'invenzione del calcolo differenziale da parte di Isaac Newton e di Gottfried Leibniz. Il numero sempre più grande di decimali serve anche a verificare se tra le cifre dopo la virgola di n ci sono sequenze periodiche. Il che significa cercare di stabilire la natura del numero: n è un numero decimale periodico ed è, quindi, rappresentabile come rapporto tra numeri interi? Ogni sforzo in questo senso risulta vano. Tra i decimali crescenti non si nota alcuna sequenza periodica. Il sospetto sempre più forte è che n sia un numero decimale illimitato non periodico. Un numero irrazionale. Un magnifico numero irrazionale.

a

STORIA DI II

Nuovi metodi Archimede sapeva che il perimetro di un esagono inscritto in un cerchio è inferiore alla circonferenza di quel cerchio. E che il perimetro di un esagono che circoscrive un cerchio è maggiore della circonferenza di quel cerchio. Sapeva, quindi, che la circonferenza di un cerchio ha una lunghezza compresa tra il perimetro di un poligono inscritto e il perimetro di un poligono che circoscrive il cerchio e che, se aumento il numero dei lati del poligono inscritto o circoscritto, la differenza tra circonferenza e perimetro tende a diminuire. Il metodo migliore per trovare un limite inferiore e superiore alla circonferenza del cerchio e, quindi, al valore numerico di TI è quello di calcolare il perimetro di poligoni con un numero sempre maggiore di lati. E poiché questo numero non ha limiti ed è dunque infinito, ecco che, in linea di principio, posso calcolare il valore numerico di TI con la precisione che desidero. Malgrado la novità della serie introdotta da Viète, il metodo di Archimede resta il migliore per misurare TI fino al XVIII secolo e alla scoperta del calcolo differenziale e allo sviluppo in serie che consente, nel 1748, a Eulero (1707-1783) di calcolare in meno di un'ora il valore del nostro numero fino alla ventesima cifra decimale. Un metodo, quello di Eulero, non solo preciso, ma straordinariamente rapido, che si fonda, come scrive Petr Beclanann, sullo sviluppo in serie geometriche del tipo: S = ao (q + q' + qi + q4 ... )

Dove a 0 è il numero formato dai primi d decimali e q = IO-d. Lo sviluppo di questa serie porta a una formula generale del tipo:

Tuttavia, anche prima di Eulero e dopo Viète, non manca chi cerca un metodo geometrico e non analitico alternativo a quello di Archimede. Dopo quasi due millenni ne trova uno il matematico e fisico olandese Willebrord Snellius (1580-1626), che nel 1621 pubblica un libro, il Cyclometricus, in cui ne propone uno basato sulla rettificazione dell'arco, che, tradotto dal gergo dei matematici, significa: come ti riduco un arco a una retta.

OLTRE ARCHIMEDE, FRANçms VIÈTE

97

L'arco in questione è quello descritto sulla circonferenza a uno dei lati del poligono inscritto. L'idea di Snellius sarà poi matematicamente provata nel 1654 da un altro (grande) olandese: Christiaan Huygens (1596-1687). Non è un caso che tanti matematici dei Paesi Bassi si affaccino nella storia di TC. Nel corso del XVII secolo l'asse economico e scientifico dell'Europa si è spostato dal Mediterraneo al Mare del Nord, dall'Italia alla Francia, all'Inghilterra e anche alle Provincie Unite, che non solo riescono a ottenere l'indipendenza dalla Spagna, ma si impongono come il paese europeo più ricco e dinamico. Lo sviluppo della scienza in Olanda è insieme un riflesso e un cofattore dei nuovi equilibri in Europa. Ma torniamo a Huygens, scienziato eclettico che si cimenta da par suo anche in matematica, dimostrando una serie di teoremi di geometria, grazie ai quali trova ben due nuovi metodi indipendenti per calcolare TC. E per calcolarlo con precisione fino alla decima cifra decimale. Col metodo di Archimede, fa notare l'olandese, sarebbe stato necessario calcolare il perimetro di un poligono regolare di 400.000 lati. Non scendiamo nei dettagli. I due nuovi metodi dimostrati da Huygens oggi hanno poco interesse, perché sono stati superati dall'irruzione nel mondo scientifico del calcolo differenziale.

8

Il calcolo differenziale

Limiti, derivate e integrali Scrive Morris Kline: «Immediatamente dopo l'adozione del concetto di funzione [vieneJ l'invenzione del calcolo infinitesimale che, dopo la geometria euclidea, è la più grande creazione di tutta la matematica». Il concetto di funzione è stato, di fatto, introdotto dall'italiano Galileo Galilei. Mentre autori della più grande creazione di tutta la matematica, dopo la geometria euclidea, sono l'inglese Isaac Newton e il tedesco Gottfried Leibniz. I due giungono al calcolo infinitesimale in maniera indipendente. E la rivendicazione di priorità sortisce in una delle polemiche più aspre e famose nella storia della scienza. La storia di n, da Eudosso e Archimede in poi, è qui a dimostrare che il calcolo differenziale non è un (doppio) fulmine scagliato a ciel sereno. Ma ciò nulla toglie al valore della creazione di Newton e Leibniz, che nasce da una precisa esigenza dei fisici del XVII secolo, alla ricerca delle leggi sul moto e di parametri difficili da calcolare come la velocità e l'accelerazione istantanee. Per capirci, se voglio calcolare la velocità (v) con cui una freccia percorre il tragitto dall'arco che l'ha scoccata al bersaglio non devo far altro che dividere lo spazio percorso (s) per il tempo impiegato (t): s

v=-

t

Ma per una serie di motivi, i fisici del Seicento sono interessati anche alla velocità istante per istante della freccia e alle sue variazioni. Come faccio a calcolare la velocità del dardo in un certo istante? Non posso dividere lo spazio percorso per il tempo, perché entrambi sono zero: e

100

STORIA DI II

o I o è un rapporto che non ha alcun significato matematico. E tuttavia è indubitabile che la freccia e ogni altro oggetto hanno, in ogni istante, una velocità. Come se ne viene a capo? È a questa domanda che rispondono Newton e Leibniz, inventando una "nuova matematica" - il calcolo infinitesimale - e portando a termine il discorso intrapreso duemila anni prima da Archimede sul concetto di limite. Possiamo trasformare il problema algebrico in un problema geometrico. Quanto abbiamo detto per la velocità istantanea della freccia vale anche per il problema di come trovare la tangente a una curva: un problema emergente in ottica. O, sempre a proposito di curve, di come calcolarne la lunghezza, il massimo e il minimo. Su questi rovelli, anche se non in maniera organica, si cimentano un po' tutti i grandi matematici e i grandi fisici del XVII secolo: da Bonaventura Cavalieri (1598-1647) a Gilles Personne de Roberval (1602-1675), da Evangelista Torricelli (1608-1647) a Pierre de Fermat (1601-1665), dal già citato Christiaan Huygens a Isaac Barrow (1630-1677), daJohn Wallis (16161703) aJames Gregory (1638-1675). Gli ultimi due, in particolare, utilizzano tutti i passi compiuti verso il calcolo infinitesimale, prima delle scoperte di Newton e Leibniz, e ne muovono di propri per determinare il valore di n. Wallis, per esempio, che è autore di Arithmetica infinitorum (1655), è molto interessato a trovare un metodo per calcolare l'area del quadrante di un cerchio.

E pensa che per ottenerne una buona approssimazione si possa calcolare la somma di tanti piccoli rettangoli di lunghezza scelta a piacere e con un' altezza che parte dalla base e tocca l'arco descritto dal cerchio. Se scelgo rettangoli di lunghezza sempre più piccola, pensa Wallis, ottengo un' approssimazione sempre migliore dell'area del quadrante.

IL CALCOLO DIFFERENZIALE

101

È facile dimostrare che, su questa base, Wallis è in grado di calcolare, proprio come Viète, il valore di 7t' quale sviluppo di una serie infinita e convergente di prodotti. Questa è davvero una pietra miliare nella storia di n, sostiene Petr Beckmann. E non ha tutti i torti, perché, a differenza di Viète che aveva fatto ricorso ai numeri irrazionali ({i.), Wallis è il primo a calcolare n con operazioni che coinvolgono tutti e solo numeri razionali e non prevedono affatto estrazioni di radici. I tempi per operazioni di questo genere sono davvero maturi. Non desti, dunque, meraviglia se un metodo analogo è messo a punto anche da un altro matematico inglese, William Brouncker (1620-1684): nella seconda parte del Seicento, in effetti, l'Inghilterra si va imponendo, insieme alla Francia, come il paese leader della scienza in generale e della matematica in particolare. John Wallis dimostra che il metodo di Brouncker è del tutto equivalente al suo. Ma poiché è stato ottenuto in maniera indipendente, è chiaro che n sta cercando di dire al mondo che i tempi sono maturi per il calcolo infinitesimale. Una riprova? Eccola. Anche lo scozzese James Gregory giunge a risultati simili, utilizzando come ente matematico l'arcotangente. Chi sa di trigonometria sa anche che l'arcotangente (indicata come arctan) è una funzione inversa della tangente e si sviluppa nell'intervallo compreso tra -nh e + nh. In termini geometrici possiamo dire che l'arcotangente dix è, in valore assoluto, l'angolo minore la cui tangente è x. Oggi sappiamo che nh è il limite cui tende l'arcotangente dix per x che tende a infinito: lim arctan (x) ~ 2

X-700

mentre -n/ 2 è il limite per x che tende a meno infinito.

102

STORIA DI II

James Gregory non scrive certo questa notazione. Per la verità non sappiamo neppure se col suo metodo abbia davvero determinato il valore di n. Sappiamo solo che calcola l'arcotangente come sviluppo di una serie infinita. E che questa serie infinita converge su n/ 2 piuttosto lentamente. Di certo la sua è un'ulteriore tappa di avvicinamento verso la definitiva creazione del calcolo differenziale e integrale di Newton e Leibniz. Cerchiamo, dunque, di ricostruire brevemente il processo che ha portato alla loro ideazione.

Isaac Newton Nato nel 1642, l'anno della morte di Galileo, a Woolsthorpe, un piccolo borgo della parrocchia civile di Colsterworth, nel Lincolnshire, nel 1661, a 19 anni Isaac Newton si iscrive al Trinity College, fondato a Cambridge da Enrico VIII (1491-1547) nel 1546. Non c'è certo, nella prospettiva del giovane, quella di diventare un matematico. Nel corso del primo anno al Trinity, tuttavia, Newton inizia ad approfondirla, la matematica: ma per conto suo, fuori dai programmi di studio. Compra e legge gli Elementi di Euclide. Si appassiona e vuole continuare. Così divora i testi del connazionale William Oughtred (1574-1660 ), dell'olandese Frans van Schooten (1615-1660 ), del tedesco Johannes Kepler (1571-1630 ), oltre che di Viète e poi ancora di Galileo, Huygens, Fermat. Ma resta particolarmente colpito dalla Géométrie del francese René Descartes (1596-1650) e influenzato dall'opera diJohn Wallis. Inoltre, a partire dal 1663, inizia a seguire i corsi di Isaac Barrow, il primo a salire sulla Lucasian Chair ofMathematics, che a sua volta è la prima cattedra di matematica a Cambridge, ufficialmente istituita da Carlo II (1630-1685) lanno dopo, nel 1664, grazie al lascito testamentario di Henry Lucas (1610-1663). Barrow è impegnato negli studi sul calcolo della tangente di una curva. Sono tre anni di studio intenso, cosicché, a 22 anni, Isaac Newton ha ormai acquisito la matematica più avanzata del suo tempo. Nei primi mesi del 1665, è pronto a dare il suo primo contributo originale per fare avanzare le conoscenze: trova un metodo generale per esprimere le funzioni in termini di serie infinite. Inoltre comincia a studiare quella che lui chiama "flussione': ovvero la velocità con cui variano le "fluenti", come battezza le grandezze matematiche (lunghezze, aree, volumi) o fisiche (distanza, temperatura, tempo). Si tratta delle "fluenti" che cambiano con continui-

IL CALCOLO DIFFERENZIALE

103

tà e che possono essere rappresentate, appunto, su un grafico come curve continue. Oggi chiamiamo derivata la velocità con cui variano le "fluenti". Ma la cosa importante è che, da questo momento in poi, Newton mette insieme i due problemi, lo sviluppo in serie e la velocità di variazione, unificandoli in quello che chiama "il mio metodo". Proprio quell'anno, il 1665, giunge a Londra la notizia di una nuova epidemia di peste che si sta diffondendo nel continente. In realtà nella capitale inglese non giunge solo la notizia, ma anche il terribile batterio Yersinia pestis che si accinge all'ennesima strage: la nuova ondata epidemica uccide un londinese su sei. Per evitare contagi anche il Trinity College chiude e Newton ritorna al suo paesino. Si chiude in una stanza e, per dirla con Carl Boyer, trasforma quei diciotto mesi nel «periodo più fecondo di scoperte di tutta la storia della matematica». E non solo. Perché è in quei mesi che Newton scopre la legge di gravitazione universale e porta avanti gli studi sulla natura della luce. Potremmo dire, per analogia, che il giovane trasforma quell'anno e mezzo in uno dei periodi più fecondi di scoperte di tutta la storia della fisica. Non è male, per un ragazzo. Ma fermiamoci alla matematica. Durante i diciotto mesi trascorsi nel paesello natio, Isaac Newton dimostra il teorema del binomio e, soprattutto, scopre il calcolo infinitesimale. Con la formula sul binomio il giovane dimostra che l'analisi basata su una serie infinita ha la medesima coerenza interna ed è regolata dalle medesime leggi dell'algebra che opera con quantità finite: che dunque !"'analisi comune" (l'algebra) e l'analisi mediante sviluppo in serie sono omologhe. E che entrambe fanno parte legittimamente dell'"arte analitica", ovvero dell'analisi matematica. Un passaggio concettuale non banale, considerato che anche i grandi matematici ellenistici avevano cercato di evitare di confrontarsi con l' infinito. Ebbene, Newton rende l'infinito un oggetto matematico controllabile ed estremamente utile. Il ragazzo non pubblica subito i suoi risultati. Rende nota per la prima volta la formula del binomio in una lettera inviata il 13 giugno 1676 al segretario della Royal Society, Henry Oldenburg (1615-1677 ), perché la faccia giungere a sua volta a Gottfried Leibniz. E solo nel 1669 pubblica il De analysi per aequationes numero terminorum in.finitas, in cui illustra il suo approccio all'analisi attraverso lo sviluppo in serie infinite. Nello stes-

STORIA DI II

so anno Newton succede a Barrow sulla cattedra lucasiana di matematica a Cambridge. Quanto al calcolo infinitesimale - che, lo ricordiamo ancora, è la creazione più importante nella storia della matematica dopo la geometria euclidea - Newton ne darà piena notizia solo nei Principia (o meglio, nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica) che pubblicherà addirittura nel 1687, benché già nel De analysi ne avesse offerto una prima esposizione sistematica. Questa prima esposizione sistematica riguarda la differenziazione, intesa come variazione di una funzione,/(x) per un incremento infinitesimo della variabile x. Prendiamo a esempio la funzione velocità (v), che è data dal rapporto tra spazio (s) e tempo (t). La velocità v è dunque una funzione della variabile tempo, t.

V

(t) = .!_ t

Ebbene, Newton verifica come varia la velocità v per un incremento infinitesimo, al limite nullo, della variabile tempo, t, in un certo punto dello spazio. Oggi scriveremmo: lim V (t) t->o

Ma Newton offre una spiegazione generale e sistematica anche dell'integrazione, intesa come procedimento inverso della differenziazione, che consente di calcolare l'area sottesa alla curva (nell'esempio precedente, alla curva disegnata dalla funzione velocità).

V

t

IL CALCOLO DIFFERENZIALE

105

In pratica, spiega Newton, l'integrazione è una somma: la somma degli infiniti rettangoli definiti dalla curva descritta da v(t) quando il tempo è scomposto in una serie infinita di dt, piccoli a piacere, ovvero quando i dt tendono ao. Più tardi Newton spiegherà che bisogna abbandonare l'idea di quantità infinitesime e considerare i dt (e i differenziali di qualsiasi variabile) come espressioni di un "moto continuo", una sorta di flusso senza interruzione del tempo (e di qualsiasi altra variabile). Questa nuova impostazione, sostiene, è in armonia con la geometria (del continuo) degli antichi. Importante nel calcolo differenziale di Newton è il concetto di limite, perché la velocità istantanea, per esempio, può essere considerata come lo spazio percorso da un oggetto tra il tempo zero (t e il tempo uno (t,) quando la differenza dt = t -t tende a zero, ovvero è piccola a piacere. Oggi noi chiamiamo derivata della velocità nel punto t 0 questa operazione. La derivata è, dal punto di vista geometrico, la tangente alla curva v(t) quanto t ha il valore t 0 • Non abbiamo scelto a caso l'esempio della velocità, perché col suo metodo, Newton risponde anche a quei filosofi naturali (e, dunque, anche a se stesso) che chiedono un sistema per calcolare la velocità istantanea di un oggetto che si muove nello spazio. Quella di Newton, lo abbiamo detto, non è una creazione ex nihilo. Il calcolo infinitesimale deve molto a molti, a iniziare da Eudosso e Archimede. E anche nel Seicento, come abbiamo visto, sono in molti a cimentarsi con i problemi del calcolo delle aree sottese a una curva e con il calcolo differenziale. Proprio il maestro di Newton, Isaac Barrow, nel 1670 pubblica un metodo di differenziazione analogo a quello dell'allievo. La possibilità di trovare l'area sottesa a una curva con un metodo inverso alla differenziazione era nota non solo a Barrow, ma anche a Gregory e in precedenza a Torricelli e Fermat. E tuttavia nel De analysi Newton offre il primo esempio concreto, nella storia, di calcolo di un'area con il metodo inverso alla differenziazione, ovvero con un'integrazione. Come scrive Carl Boyer, Isaac Newton deve essere considerato «l' inventore effettivo del calcolo infinitesimale per il fatto di essere stato capace di sfruttare la relazione inversa tra la pendenza e l'area di una curva mediante la sua nuova analisi infinita». Il giovane di Woolsthorpe non è il primo a effettuare né le differenziazioni né le integrazioni. La sua scoperta consiste, per citare ancora Boyer, nel coordinare queste operazioni 0 )

1

0

106

STORIA DI Il

e nell'elaborare «un algoritmo generale applicabile a tutte le funzioni, sia algebriche sia trascendenti». Nel 1676 Newton redige una nuova esposizione del suo calcolo infinitesimale pubblicando il De quadratura curvorum. Poi ecco, nel 1687, l'esposizione completa nei Principia, in cui riconosce che c'è in giro per l'Europa un altro matematico che possiede un metodo per il calcolo infinitesimale simile, anche se non omologo: Gottfried Leibniz.

Gottfried Leibniz Leibniz nasce a Lipsia, in Germania, nel 1646. Quindici anni dopo, nel 1661, lo troviamo iscritto alla locale università ed ecco che nel 1663 ha già

il diploma di baccalaureato. Studia diritto, teologia e matematica. Ottiene il dottorato in legge presso l'Università di Altdorf a Norimberga, discutendo nel 16 66 il De arte combinatoria, un'opera in cui propone quello che è stato definito un metodo generale di ragionamento. Si rifiuta però di insegnarlo, quel metodo, preferendo dedicarsi al lavoro diplomatico, prima presso l'elettore di Magonza, poi presso la famiglia dei Brunswick e infine con gli Hannover, al cui servizio resta per quarant'anni. Nel 1672 Leibniz è a Parigi, impegnato con una delegazione tedesca in negoziati con i rappresentanti di Luigi XIV (1638-1715) nel tentativo di impedire nuove annessioni di terre germaniche da parte della Francia. Con questo obiettivo, consiglia tra l'altro ai francesi di proiettare i loro appetiti di conquista verso l'Egitto - consiglio che sarà seguito da Napoleone (1769-1821) oltre un secolo dopo. A Parigi, Leibniz entra in contatto con Huygens che a sua volta gli suggerisce, per completare la sua preparazione matematica, di leggere anche Blaise Pascal (1623-1662). Nel 1673 il giovane tedesco è a Londra, sempre in missione diplomatica. Ma è già un matematico famoso, tanto da essere cooptato nella Royal Society. Nella capitale inglese studia Barrow ed è possibile che, proprio in questa occasione, legga il De analysi di Newton. Ma non è in grado di impadronirsene fino in fondo, perché la sua preparazione in analisi e geometria è ancora lacunosa. Ben altra è la sua cognizione quando, tre anni dopo, nel 1676, ritorna a Londra portando con sé: una macchina calcolatrice, che ha da poco messo a punto; tutta la sua nuova preparazione sulle serie infinite e un metodo generale quanto quello di Newton per il calcolo differenziale

IL CALCOLO DIFFERENZIALE

107

di qualsiasi funzione: razionale e irrazionale, algebrica o trascendente. Quest'ultimo termine è stato coniato proprio da Leibniz e sta a indicare tutte le funzioni non algebriche: ovvero le logaritmiche, le esponenziali e le trigonometriche. Leibniz propone anche un nuovo simbolismo. Indica con d una differenza infinitesimale e (più tardi) con Juna somma di grandezze infinitesimali. Le minime differenze possibili di una variabile, x per esempio, vengono così indicate con dx e gli integrali (ovvero le somme) con il simbolo J. Leibniz propone la prima esposizione completa del calcolo differenziale e integrale negli Acta eruditorum del 1684, dunque prima che, nel 1687, Newton pubblichi i Principia. È per questo che l'inglese riconosce che Leibniz è giunto a risultati analoghi ai suoi. Più tardi, per la verità, tra i due (ma, soprattutto, tra i fan dell'uno e dell'altro) inizierà una disputa - una delle dispute scientifiche più importanti di tutti i tempi - cui abbiamo già fatto cenno e che non è il caso di approfondire ulteriormente in questa sede. Diciamo solo che negli ultimi lustri del XVII secolo entrambi, Newton e Leibniz, si impegnano ad approfondire la "nuova matematicà'; che entrambi sono arrivati in maniera indipendente al calcolo differenziale - sebbene Newton lo abbia sviluppato dieci anni prima di Leibniz, mentre Leibniz ha preceduto Newton di tre anni nel pubblicarlo; e che in definitiva a entrambi, come spiega Morris Kline, «bisogna attribuire il merito di aver visto nel calcolo infinitesimale un nuovo metodo generale applicabile a molti tipi di funzioni. Dopo di loro, il calcolo infinitesimale non [sarà] mai più una semplice appendice o un'estensione della geometria greca, ma una scienza indipendente capace di affrontare una gamma molto estesa di problemi».

Newton en Diciamo la verità, mentre il giovane Newton, tra il 1665 e il 1666, in quei mesi passati nel suo paesello al riparo dalla peste, introduce il calcolo differenziale e definisce la teoria della gravitazione universale, non han in cima ai suoi pensieri. Ma è un genio e gli basta davvero poco per fare quello che ad altri non riesce in una vita intera. E così l'inglese pone una pietra miliare anche nella storia di n, benché al nostro numero non abbia dedicato davvero molta attenzione.

108

STORIA DI 11

Nel suo soggiorno a Woolsthorpe, dunque, il giovane Newton appronta un metodo generale per espandere una funzione, il suo integrale o la sua derivata in serie infinite. E, per quanto ci riguarda, trova una serie infinita anche per TI. Ma, direte voi, lo aveva già fatto Gregory. Certo, ma il metodo di Newton rende il calcolo veloce e preciso come mai prima. Il metodo di Gregory, fatto proprio e sviluppato da Leibniz, è molto meno efficace di quello di Archimede. Per dirla: non gli basta calcolare i primi 300 termini della serie per ottenere i primi due decimali di TI. Al contrario, il metodo di Newton costituisce un salto di qualità nella storia di TI. Il giovane, infatti, mette a punto un metodo per calcolare l' integrale di una funzione che gli consente di trovare rapidamente i primi 16 decimali di TI, commettendo un errore solo sull'ultima cifra. Grazie agli integrali, calcolare TI diventa un'impresa facile e veloce.

9 7r

diventa 7r

Il Settecento Isaac Newton muore il 20 marzo 1727, salutato con tutti gli onori dal popolo inglese. Ma è mentre è ancora in vita che n diventa n, ovvero che il rapporto tra circonferenza e diametro di un cerchio viene designato con la lettera 7r dell'alfabeto greco. Fino al XVIII secolo non esiste un qualche simbolo usato in maniera universale per indicare quel rapporto. Non esiste n. Dai matematici europei il numero viene indicato con una serie di cangianti locuzioni latine: quantitas, in quam cum multiplicetur diameter, provenient circumjèrentia. All'inizio del Settecento è ancora una volta un inglese, WilliamJones (1675-1749 ), ad apportare una novità e a utilizzare il simbolo che legherà per sempre il mio nome a un oggetto matematico. Lo fa in un libro, Synopsis Palmariorum Matheseos: or, a New Introduction to the Mathematics, pubblicato nel 1706. William Jones, tuttavia, non è Isaac Newton. Nel senso che non è un personaggio famoso, neppure nella piccola comunità di coloro che studiano i numeri. Cosicché n diventa davvero n solo quando a utilizzare il simbolo sarà, nel suo Vtzriae observationes circa serias infinites, pubblicato nel 1737, uno dei più grandi e famosi matematici del tempo: lo svizzero Leonhard Euler, noto dalle nostre parti con il nome di Eulero.

Eulero Non è facile seguire gli spostamenti per l'Europa di questo svizzero di Basilea. Ancora meno facile è leggere tutto quello che ha scritto e, soprattutto, rendere conto di ciò che ha fatto come matematico creativo. Diciamo solo che, dopo aver sdoganato il simbolo che caratterizzerà per sempre il

STORIA DI II

IIO

rapporto tra circonferenza e diametro di un cerchio, Eulero chiude la partita dei digit hunters e trova il modo più veloce per calcolare 7t, incastonando il nostro numero (e il mio nome) in quella che è considerata la formula matematica più bella di ogni tempo:

Innanzitutto la bravura di Eulero consiste nel trovare la formula di una serie infinita che converge in maniera molto rapida. Per la verità, già nel 1706 l'ennesimo matematico inglese,John Machin (1680-1751), aveva trovato il modo di rendere le serie infinite di Gregory rapidamente convergenti. Qualcosa del tipo:

Eulero utilizza una combinazione tra una formula dell'arcotangente che consiste in una serie che converge molto rapidamente e la formula, anch'essa rapidamente convergente, di Machin per arrivare a una serie che converge ancora più rapidamente. In breve dimostra che: re=

20

arctan

(~) + 8 arctan(;9)

e calcolando l'arcotangente di questi numeri con la sua serie, in meno di un'ora calcola i primi i.o decimali di n.

Teneteli bene in mente, Eulero e la sua formula. Perché molti, dopo di lui, troveranno nuovi metodi per calcolare n. Mai nessuno, però, ne troverà uno più veloce. Come abbiamo detto, Eulero è legato a 7t anche e, soprattutto, per la sua celebre identità, che è un caso speciale di quella che è conosciuta come "formula di Eulero". Una formula che mette in relazione profonda le funzioni trigonometriche e la funzione esponenziale complessa, dimostrando che per ogni numero reale x i" = cos x + i sen x

II DIVENTA II

III

Come se non bastasse, Eulero riporta all'attualità il tema sulla natura di 7!: che razza di numero è, razionale o irrazionale? Non lo sappiamo ancora, dice. Ma è giunta l'ora di stabilirlo una volta per tutte.

Il metodo Monte Carlo Prima di rispondere alla domanda che ci trasciniamo dietro, irrisolta, fin dall'inizio della nostra storia, conviene dire ancora qualcosa sui metodi più moderni per il calcolo di 7!. Intorno al 1777 il matematico francese Georges-Louis Ledere, conte di Buffon (1707-1788), propone un problema che ha poi abilmente risolto. Dato un ago come quello di una bussola di lunghezza l, libero di ruotare su un piano orizzontale attraversato da rette parallele poste a una distanza tra loro, d, maggiore di l, qual è la probabilìtà,p, che l'ago ne intersechi una? Non ne diamo la dimostrazione. Diciamo solo che Buffon trova che questa probabilità dipende da 7!, secondo questa formula: 2/

p=nd Nel 1812, il problema e la soluzione di Buffon vengono ripresi da un altro matematico francese, Pierre-Simon, marchese di Laplace (1749-1827), famoso per aver scritto i cinque libri sulla Mecanique céleste, l'opera di meccanica classica più importante dopo i Principia di Newton. Ma per i matematici non è meno importante il suo lavoro sulla Théorie analytique des probabilités in cui, appunto, riprende la formula di Buffon, che riscritta ci fornisce un valore di 7!: 7r= -

2/

pd

Questa formula spalanca a una possibilità, per così dire, sperimentale di trovare 7!. Perché se led sono noti, allora basta far ruotare a caso l'ago un numero elevato di volte per trovare la probabilità p che intersechi una parallela. Come riporta Petr Beckmann, pare che ci sia stato un ufficiale americano, il capitano Fox, che trascorreva molte ore a praticare questo gioco mentre, tra il 1861 e il 1865, infuriava la guerra civile tra sudisti e nordisti. Il metodo statistico di Buffon e di Laplace è stato sviluppato molto a metà del Novecento ed è noto come "metodo Monte Carlo".

STORIA DI II

II2.

Naturalmente non è necessario che il nuovo metodo, sperimentale, proposto da Laplace si fondi su un vero ago che ruota in un piano fisico. Basta prendere in considerazione un qualsiasi evento casuale e ripeterlo un numero sufficiente di volte. Posso infatti ottenere il decimale k di n ripetendo N volte l'evento. La faccenda non è però così banale. Come ricorda, ancora una volta, Petr Beckmann, se voglio calcolare il quinto decimale di ne faccio ruotare l'ago di Buffon 3.400 volte, ottengo una cifra che ha una probabilità di essere quella giusta di appena 1'1,5%. Certo, potrò sempre trovare persone molto pazienti, come il capitano Fax, capaci di spendere il loro tempo per far ruotare l'ago decine di migliaia di volte. Ma con un ago vero non si andrà mai molto lontano. Dunque non è difficile immaginare che il metodo Monte Carlo non abbia grande fortuna finché non arriva il computer. Il calcolatore elettronico cambia le carte in tavola. O, se volete, gli aghi sul piano. Basta programmarlo per bene e anche una macchina piuttosto lenta che fa girare un ago virtuale su un piano virtuale solo l.ooo volte al secondo, in un'ora produce 3,6 milioni di eventi: una quantità che comincia a essere interessante. Insomma, affidato al computer, il metodo Monte Carlo si rivela molto utile per calcolare un bel po' di cifre di n.

TI'

nell'era del computer

Donald Fraser Ferguson impiega un anno, presso il Royal Naval College in Inghilterra, per calcolare n fino al decimale 808, usando la formula:

2:.. 4

= 3 arctan (_:__Ì 4)

+ arctan (__!._) + arctan ( __!._ ) 20

1985

La sua fatica termina nel 1949· Ed è resa più lieve (si fa per dire) dall'uso di una primitiva calcolatrice da tavolo. Per questo l'inglese è considerato da alcuni l'ultimo dei "cacciatori di digitali" a mano, ma da altri il primo (o uno dei primi) "cacciatori di digitali" col computer. Una macchina calcolatrice da tavolo non è esattamente un computer, anche se costituisce uno strumento automatico piuttosto potente. Possiamo dunque mettere tutti d'accordo e dire che D. F. Ferguson è un classico personaggio di transizione. L'anello di congiunzione tra il calcolo di n a mano e il calcolo con il computer.

u3

II DIVENTA II

TABELLA I Cacciatori di digitali nell'era del computer Matematico

Data

Numero di decimali

Computer

Ferguson Ferguson, Wrench Smith, Wrench Reirwiesner et al. Nicholson, Jeenel Felron Genuys Felton Guilloud Shanks, Wrench Guilloud, Filliarre

Jan 1947 Sept 1947

7!0 808 II20

Desk calculator Desk calculator Desk calcularor ENIAC NORC PEGASUS

Guilloud, Dichampr Guilloud, Bouyer Miyoshi, Kanada Guilloud Tamura Tamura, Kanada Tamura, Kanada Kanada, Yoshino, Tamura Ushiro, Kanada Gosper Bailey Kanada, Tamura Kanada, Tamura Kanada, Tamura, Kubo Kanada, Tamura Cudnovskij D. e G. Cudnovskij D. e G. Kanada, Tamura

1967

Cudnovskij D. e G. Kanada, Tamura Cudnovskij D. e G. Cudnovskij D. e G. Kanada, Tamura Kanada Kanada Kanada, Takahashi Kanada, Takahashi

1949 1949 1954 1957 Jan 1958 May 1958 1959 1961 1966 1973 1981 1982 1982 1982 1982 1982 Ocr 1983 Ocr 1985 Jan 1986 Sepr1986 Ocr 1986 Jan 1987 Jan 1988 May 1989 June1989 July 1989 Aug1989 Nov1989 Aug1991 May 1994 June 1995 Aug1995 Ocr 1995 Aug1997 Sept1999

2037 3092 7480 !0000 !0021

IBM 704 PEGASUS

16167 I00265 250000 500000 !001250 2000036 2000050

IBM704 IBM 7090 IBM 7030 CDC 6600 CDC 7600 FACOMM-200

2097144 4194288 8388576 16777206

MELCOM 90011 HITACHI M-280H HITACHI M-280H HITACHI M-280H HITACHI s-8I0/2o SYMBOLICS 3670 CRAY-2

10013395 17526200 29360111 33554414 67108839 134217700 201326551 480000000

HITACHI S-8I0/2o HITACHI s-8I0/2o NEC SX-2 HITACHI S-820/80

525229270 536870898 1011196691 !073741799 2260000000 4044000000 3221225466 4294967286 6442450938 51539600000 206158430000

Fonte: http:/ /www-history.mcs.st-and.ac.uk/HistTopics/Pi_chronology.html

HITACHI SR2201 HITACHI SR8ooo

STORIA DI II

n4

La tabella l, proposta dal MacTutor History of Mathematics Archive, riassume l'evoluzione del calcolo di 7t' nell'era del computer. L'esordio del calcolatore elettronico tra i "cacciatori di digitali" è attribuito all'ENIAC (Electronic Numerica! Integrator and Computer) dei Ballistic Research Labs, un centro di ricerca dell'esercito degli Stati Uniti con base nel Maryland. L' ENIAC usa la formula di Machin: re= 16 arctan (; )- 4 arctan (

2 ~ 9)

e nel settembre 1949 impiega circa 70 ore per calcolare i primi 2.037 decimali di n, battendo di gran lunga il record appena raggiunto da Ferguson. Passano cinque anni e nel novembre 1954 un altro computer, il NORC (Naval Ordnance Research Calculator) a Dahlgren in Virginia impiega appena 13 minuti per calcolare i primi 3.089 decimali di 7!'. Poi è una progressione cui è difficile tener dietro, con formule matematiche le più diverse. Quota ro.ooo decimali viene raggiunta nel gennaio 1958, dall'rnM 704; quota roo.ooo viene superata nel 1961 dall'rnM 7090; quota mezzo milione nel 1667 dal cnc 6600; quota un milione nel 1973 dal cnc 7600. Alla fine del 1999 i decimali calcolati superano i wo miliardi. Nel mese di ottobre wro Nicholas Sze, di Yahoo!, ha annunciato di aver calcolato i primi 2 milioni di miliardi di decimali di 7t' lasciando lavorare l.ooo computer per 23 giorni. Con i record ci fermiamo qui. Non prima, però, di aver ricordato che: a) i computer funzionano bene perché prendono in considerazione anche i numeri irrazionali, pur se, per ovvie ragioni, in maniera approssimata; b) il valore di 7t' usato nei nostri computer non va oltre la 17• cifra decimale; dunque calcolare 2 milioni di miliardi di decimali del nostro numero non ha nessuna utilità pratica; e) anzi, no: una ce l'ha. Il calcolo esatto ed esteso di 7t' è diventato un test universale sull'affidabilità dei computer; d) chissà quanti altri computer oggi nel mondo stanno lavorando per calcolare i primi miliardi di miliardi di decimali di n; e) nessuno ha trovato finora in questa lunga scia di cifre una qualche regolarità. Oggi siamo in grado di dire che nessuno potrà mai trovarla. Perché ormai conosciamo la natura di n.

IO

La natura di n

A sciogliere o, almeno, a iniziare a sciogliere il mistero sulla reale natura del nostro numero è, nel 1767, il franceseJohann Heinrich Lambert (17281777 ). Alla domanda emersa, in maniera più o meno lucida, già ai tempi di Pitagora e Ippaso - che razza di numero è n? - Lambert può finalmente rispondere: proprio come {2, n non è un numero razionale. n è un numero irrazionale. Ovvero: un numero decimale illimitato non periodico. Il che significa che, proprio come la diagonale di un quadrato, il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio non può essere espresso né con un numero intero né come un rapporto tra numeri interi. Ma cerchiamo di ricostruire un po' più in dettaglio la storia della ricerca della natura di n e ritorniamo, per un momento, ad Archimede. Con il Siracusano il problema pratico di attribuire un valore preciso a n viene, almeno in linea di principio, risolto. Con il metodo dello scienziato ellenistico posso calcolare il rapporto tra la circonferenza e il diametro del cerchio fino al numero di cifre decimali che desidero, se ho voglia e tempo di impegnarmi in una maratona computazionale. Resta il problema teorico. Quante cifre decimali han? Ovvero, qual è la vera natura di questo numero? Per rispondere a queste domande dobbiamo fare ancora un passo indietro nel tempo, fino al VI secolo a.C., e trasferirci da Siracusa a Crotone (quanta parte della storia di n è legata alla Magna Grecia!). Qui, come abbiamo ricordato, troviamo il grande Pitagora da Samo, convinto che tutto in natura possa essere espresso in termini di numeri interi o di rapporto tra numeri interi. E troviamo anche il giovane Ippaso da Metaponto, il quale un bel dì dimostra che la convinzione cosmologica del maestro non si applica alla diagonale del quadrato. Il rapporto geometrico tra la diagonale e il lato di un quadrato è incommensurabile. Perché se cerco di tradurlo

rr6

STORIA DI II

in cifre, dà luogo a un numero con una serie di decimali che si succedono all'infinito senza alcuna periodicità. Un ente geometrico semplice e ben definito, come la diagonale di un quadrato, si ribella dunque alla legge di Pitagora e non si lascia esprimere né in termini di numeri interi né come rapporto tra numeri interi. La scoperta di questo numero incommensurabile, {i., costala vita al povero Ippaso, colpevole di aver scardinato i fondamenti dell'interpretazione razionale con cui il maestro Pitagora aveva creduto di spiegare l'armonia cosmica. E per questo i numeri ribelli come quello trovato da Ippaso verranno chiamati irrazionali. La domanda che attraversa l'era classica della storia greca e giunge fino all'epoca ellenistica è, dunque, questa: qual è la vera natura di n? Questa costante fondamentale del mondo geometrico risponde alla razionalità di Pitagora o è ribelle e irrazionale, come i numeri di Ippaso? La domanda non è irrilevante da un punto di vista filosofico, perché rimette in gioco la natura - stavamo per dire la qualità - del rapporto tra la realtà astratta della matematica e la realtà fisica del mondo. Ma è addirittura decisiva da un punto di vista matematico, perché è proprio ponendosi questa domanda che Eulero inaugura la stagione che porterà a sanare la ferita aperta da Ippaso e a elaborare la "teoria dei numeri irrazionali". Cosicché dopo Archimede possiamo dire che la storia di n si divide in due. Il problema pratico computazionale di calcolare la costante con un numero di cifre decimali sempre più grande e il problema teorico di scoprirne l'intima natura. Diciamo subito che il primo problema, quello pratico, non ammette una soluzione definitiva. Tanto che oggi il calcolo delle cifre decimali di n che, come abbiamo visto, sono ormai conosciute in termini di milioni di miliardi, costituisce uno stimolo e, insieme, un modo di valutare la bruta forza muscolare (leggi potenza computazionale) di un computer. Insomma, la parte decimale di n è il mare in cui può e potrà per sempre in futuro affondare anche la più inappagata pignoleria. Molto meno evanescente e, forse, molto più interessante è la soluzione trovata al secondo problema: quello dell'intima natura matematica di n. Torniamo dunque aJohann Heinrich Lambert, che nel 1767 dimostra in maniera chiara e definitiva quello che un po' tutti da tempo sospettavano: n è un numero del tipo di quelli di Ippaso. n è un irrazionale. Le sue cifre si succedono all'infinito dopo la virgola senza interrompersi mai e senza trovare il conforto di una qualche regolarità.

LA NATURA DI II

117

Non è finita qui. Più tardi, nel 1794, il parigino Adrien-Marie Legendre (1752-1833) dimostra non solo in modo più rigoroso che 7r è un numero irrazionale, ma dimostra che è irrazionale anche il suo quadrato. 7r' è irrazionale. Insomma, fossimo pitagorici ci strapperemmo le vesti e diremmo che il nostro numero è di una irrazionalità totale e irriducibile: perché, non è neppure la radice di un numero razionale. A differenza di {i., il cui quadrato, 2, è un numero intero e, dunque, razionale. ({i./= 2 =numero intero 7r2

= 9,869604401r. .. =illimitato non periodico

Tutto questo non fa certo vacillare né l'ordine cosmico né la ragione e neppure la ragione matematica; anzi, aiuta un altro grande matematico francese, Joseph Liouville (1809-1882), a dimostrare, nel 1844, l'esistenza di nuovi numeri: i numeri trascendenti. I trascendenti sono diversi, per natura, dai numeri algebrici. La differenza era stata introdotta proprio da Eulero, secondo cui sono algebrici tutti quei numeri che sono o possono essere radici di un'equazione algebrica. Tutti i numeri razionali e molti numeri irrazionali sono radici di equazioni e, dunque, sono algebrici. Tuttavia Eulero ipotizza l'esistenza di numeri irrazionali che non sono e non possono essere radici di equazioni algebriche e li chiama, appunto, trascendenti, perché «trascendono la potenza dei metodi algebrici» (citato in Kline). Ebbene, Joseph Liouville dimostra definitivamente che l'ipotesi di Eulero è fondata: i numeri trascendenti esistono. A questo punto avrete già intuito la domanda: il nostro numero, 7r, è un irrazionale algebrico o un irrazionale trascendente? La domanda resta senza risposta fino al 1882, quando il tedesco Ferdinand von Lindemann (1852-1939) prova al di là di ogni legittimo dubbio che 7r è un numero irrazionale trascendente. La dimostrazione non ha solo un valore tassonomico e, se volete, filosofico; ha anche un notevole valore matematico, perché ne consegue che il problema della quadratura del cerchio, posto nel v secolo a.C. da Anassagora di Clazomene e mai risolto, non ammette una soluzione. Non nell'ambito della geometria euclidea che governa questo nostro mondo, almeno. Quanto all'importanza dei numeri trascendenti, viene dimostrata in quegli anni da un altro matematico tedesco, Georg Cantor (1845-1918): il

II8

STORIA DI II

padre della teoria degli insiemi. Cantar sostiene che tutti i numeri razionali e tutti i numeri irrazionali algebrici formano insiemi "numerabili": ovvero insiemi infiniti che possono essere messi in corrispondenza biunivoca con l'insieme infinito dei numeri interi positivi, mentre i numeri trascendenti formano insiemi "non numerabili" e, quindi, non possono essere messi in corrispondenza biunivoca con l'insieme dei numeri interi positivi. Da ciò Cantar deduce che persino nel mondo degli infiniti c'è disuguaglianza: ci sono insiemi infiniti di diverso ordine. E che gli infiniti di diverso ordine possono essere descritti da nuovi numeri transfiniti, i numeri cardinali, i quali hanno una loro specifica e nuova aritmetica ... Insomma, oggi sappiamo che il mio amabile e insistente persecutore, n, ha una natura irrazionale e trascendente. E sappiamo che, anche in virtù di questa natura sua e dei suoi simili, gli irrazionali trascendenti, l'impresa che più di ogni altra dà sostanza alla potenza della ragione, la ricerca matematica, non avrà mai fine. Statene certi, la storia di n non è finita.

II

7r

superstar

La festa di n L'8 gennaio 2015 ricevo un' e-mail da Reggio Emilia. È di un professore di matematica: «Egregio dottor P. Greco - scrive - vorremmo invitarla presso il locale liceo scientifico intitolato aBlaise Pascal per festeggiare insieme a lei il "pi greco day". Sa, questo è un anno speciale, il giorno dedicato a TC cade il 14 marzo 2015, che in terra anglosassone si scrive 3.14.15, che suona molto come 3,1415: TC con i suoi quattro decimali. Non può mancare: la prossima occasione si presenterà solo tra cento anni (il 14 marzo 2II5)». «Perché avete pensato a me?», chiedo. E la mia domanda è ovviamente retorica. «Beh, per via del suo nome e cognome - mi risponde il professore - ma anche per un suo vecchio articolo sulla storia di TC che ho ripescato». Il fatto che qualcuno - un professore di matematica, addirittura - abbia conservato un articolo di P. Greco su TC un po' mi fa sorridere, divertito. Ma un po' mi commuove. E, soprattutto, mi stimola. Non solo accetto l'invito del "Blaise Pascal". Ma decido, seduta stante, che, editore permettendo, scriverò un libro sulla storia di TC. Non sarà il primo, ma certo non capita tutti i giorni di leggere in copertina: Pietro Greco

Storia di '1T Se state leggendo questo libro, è segno che l'editore ha accettato l'idea. Io intanto vado a Reggio Emilia e mi preparo. Cominciando a rispondere alla domanda: chi avrà mai avuto l'idea di festeggiare un numero il 14 marzo? Scopro che il geniale buontempone è un barbuto fisico americano, Larry Shaw, che, divertito dal fatto che il 14 marzo si può scrivere 3,14, propo-

120

STORIA DI II

ne all' Exploratorium di San Francisco di organizzare la festa. Corre l'anno 1988. Un'altra coincidenza. L'Exploratorium di San Francisco è il prototipo dei musei scientifici di nuova generazione. Quelli cosiddetti hands on, dove è "vietato non toccare" perché occorre "mettere le mani soprà' (hands on, appunto) gli oggetti esposti. Ebbene, proprio in quei mesi Vittorio Silvestrini (1935-) e un gruppo di suoi collaboratori a Napoli stanno maturando l'idea di un museo di questo genere, che presto sarà realizzato con il nome di Città della Scienza. Di questo museo napoletano ispirato dall'Exploratorium di San Francisco dove lavora Larry Shaw sono stato membro del Consiglio di amministrazione e sono tuttora socio fondatore. Ancora una volta la mia vita incrocia n. Come sia poi andata a finire, per la festa di n, è cosa nota. Nel 2009, in piena crisi economica, il presidente degli Stati Uniti d'America, Barack H. Obama (1961-), cerca un modo per incoraggiare i giovani a intraprendere lo studio della matematica, convinto che la scienza dei numeri e la scienza in generale siano il modo migliore per lo sviluppo e, diciamolo pure, per il progresso - della sua nazione. Uomo politico lungimirante, Obarna. Ebbene, quale strumento decide di utilizzare per incoraggiare i giovani a intraprendere lo studio della matematica? Ma è chiaro: ufficializzare la festa di n. Dedicare il 14 marzo, ogni 14 marzo, al più famoso dei numeri. La scelta è stata bene accolta e ha subito travalicato i confini, non certo angusti, degli Stati Uniti. Così anche noi in Italia, da qualche anno, festeggiamo 7r con il mio nome e nel giorno in cui è nato lo scienziato che ammiro di più (con Archimede): Albert Einstein (14 marzo 1879-18 aprile 1955).

La poesia di n La tua, direte, è una passione un po' infantile. Un numero è un numero, nulla di più. Gli dai tanta importanza solo perché, per puro caso, il tuo nome somiglia al modo in cui lo chiamano gli italiani. Ma in n non c'è nulla di profondo. Nulla che vada oltre il ruolo, certo non trascurabile, che ha avuto nella storia della matematica. Bene, se la pensate così ditemi allora perché la polacca Wislawa Szymborska (1923-2012), premio Nobel per la letteratura 1996, ha voluto dedicargli una poesia? Questa:

I1 SUPERSTAR

121

Sul Pi greco Degno di meraviglia è il numero Pi greco tre virgola uno quattro uno. Le sue cifre seguenti sono ancora tutte iniziali, cinque nove due, perché non ha mai fine. Non si fa abbracciare sei cinque tre cinque con lo sguardo, otto nove con il calcolo, sette nove con l'immaginazione, e neppure tre due tre otto per scherzo, o per paragone quattro sei con qualsiasi cosa due sei quattro tre al mondo. Il più lungo serpente terrestre dopo una dozzina di metri s'interrompe. Così pure, anche se un po' più tardi, fanno i serpenti delle favole. La fila delle cifre che compongono il numero Pi non si ferma al margine del foglio, riesce a proseguire sul tavolo, nell'aria, su per il muro, il ramo, il nido, le nuvole, diritto nel cielo, per tutto il cielo atmosferico e stratosferico. Oh come è corta, quasi quanto quella di un topo, la coda della cometa! Quanto è debole il raggio di una stella, che s'incurva nello spazio! Ed ecco invece due tre quindici trecentodiciannove il mio numero di telefono il tuo numero di camicia l'anno mille novecento settanta tre sesto piano numero di abitanti sessanta cinque centesimi gfro dei fianchi due dita una sciarada e una cifra, in cui vola vola e canta, mio usignolo e si prega di mantenere la calma, e così il cielo e la terra passeranno, ma il Pi greco no, quello no, lui sempre col suo bravo ancora cinque, un non qualsiasi otto, un non ultimo sette, stimolando, oh sì, stimolando la pigra eternità a durare.

La poesia è tratta dalla raccolta Grandi numeri (Wielka Liczba), del 1976, e quella che qui vi propongo è la versione tradotta da Alessandra Czeczott. A proposito, io non conoscevo questa poesia, finché non sono andato al liceo "Blaise Pascal" di Reggio Emilia e il famoso professore, mio ospite e ormai mio amico, non me l'ha regalata (eh, sì: regalare è il verbo giusto). 7r scalda il cuore di una grande poetessa, perché non dovrebbe scaldare il mio e il vostro?

Conclusioni

Avevo deciso di chiudere questo libro con la poesia di Wislawa Szymborska e con la domanda sul mio e sul vostro cuore, quando, del tutto ignara delle mie fatiche, mia figlia, Gaia, mi distrae: «Sai, papà, che sono capace di dirti a memoria le prime sedici cifre di 7t'? ». Gaia non sa che sto scrivendo un libro su n. Nella sua domanda non c'è intenzione alcuna. Ma si è inventata una filastrocca in cui, in maniera ordinata, ogni parola inizia con una lettera la cui posizione nell'alfabeto è quella indicata dalle cifre di n. Non ricordo la filastrocca di Gaia (non me l'ha voluta trascrivere), ma è qualcosa del genere:

Con Andrea D' Ambra E Isabella Buono

=> => => => => => =>

C=3 A= I D=4 A= I E=s l=9 B=2

Non è originale, certo. Molti ragazzi (e adulti) usano trucchi di questo genere per memorizzare tutte le cifre di n. Ma mi fa riflettere il fatto che oggi Gaia ne conosce di più, di queste cifre, di Archimede. E, soprattutto, che non le è venuto in mente di inventarsi una filastrocca per derivare le prime sedici cifre di ..J2 o f3 o {s. Le è venuto invece in mente n. Se Cantar conferma che la storia di n non è finita, mia figlia mi conferma che anche il fascino nel numero di cui ho la ventura di portare il nome continua.

Bibliografia

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Un mondo di matematica. Dalle piramidi egi,zie alle meraviglie dell:A.lhambra, Dedalo, Bari. KLINE M. (1996), Storia del pensiero matematico, Einaudi, Torino. NEEDHAM J. (1981), Scienza e civilta in Cina, vol. I, Einaudi, Torino. ROSSI P. (a cura di) (2000), Storia della scienza moderna e contemporanea, TEA, HIGGINS P. (2010),

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Indice dei nomi

Abbasidi (dinastia), 69, 73

Aryabhata, 62-4

Abelardo di Bach, 57 Abu'l-Wafa, 75

Attalo, re di Pergamo, 47

Alberti Leon Battista, 79 al-Biruni, 62 Alessandro III, re di Macedonia (Alessandro Magno), 17, 19, 39, 43-7 al-Karkhi, 75 al-KashiJamshid, 75, 90, 93, 95 al-Khayyam Omar, 75 al-Khwarizmi (Abu Ja'far Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi), 69, 71, 73-5 al-Ma'mum, califfo, 73 Anassagora, 28, 34-5, II? Anassimandro, 28 Anassimene, 28 Anonimo babilonese, 95 Anthoniszoon Adriaan, 90 Antifonte, 35-6, 55 Apollonio di Perga, 48-9, 56, 58-9, 71, 74, 83 Archimede, II e n, 23-6, 33, 35, 39-4o, 46, 48-52, 55-9, 64, 68, 70-1, 73-4, 76-80, 82-4, 89-90, 92-7, 99-IOo, I05, I08, II5-6,

Autolico di Pitane, 39

Bailey David H., II3 Barrow Isaac, IOO, I02, I04-6 Beckmann Petr, 18, 68, 90, 94, 96, IOI, m- 2 Bhaskara, 63-4 Bombelli Rafael, 85-7, 91 Bottazzini Umberto, 82, 86 Bouyer Martin, II3 Boyer Carl, 37, 39-40, 48, 51, 55, 57, 63, 70, 72-3, 83, I03, I05 Brahmagupta,63-4,74 Brouncker William, IOI Brunelleschi Filippo, 79 Brunswick (casata), I06 Buddha, 28, 65 Buffon, Georges-Louis Ledere, conte di, III-2 Bukht-Yishu (famiglia), 7° BiirgiJoost, 90 Buteo Johannes, 89-90

120, 123 Archita di Taranto, 30, 33, 37, 71

Cantor Georg, II?-8, 123

Aristarco, 46, 49

Cardano Girolamo, 85-7 Carlo II Stuart, re d'Inghilterra, di Sco-

Aristone, 37 Aristotele, 32, 34, 36, 38-9, 43, 50, 53

zia e d'Irlanda, I02

128

STORIA DI II

Cavalieri Bonaventura, roo

Erasistrato, 46, 50

Ceulen Ludolph van, 93-5 Cheope, faraone, 19

Eratostene, 44-6, 48-9, 55-6

Chuquet Nicolas, 83 Cicerone Marco Tullio, 51

Erone di Alessandria, 25, 58-9, 73, 79 Euclide, 32, 36, 46, 48-9, 52-9, 61, 70-4,

Ciro il Vecchio, re di Persia, 17 Clau Christoph (Clavio Cristoforo), 89 Clausen Thomas, 95 Commandino Federico, 85, 89 Confucio, 28, 65

Erofilo, 46, 50

79, 82, 86-7, !02

Eudemo di Rodi, 30 Eudosso, 33, 36, 39-41, 46, 52, 55-6, 71, 99, IOS

Eulero (Euler Leonhard), 96, ro9-u, u6-7

Copernico Nicola (Kopernik Nikolaj), 49, 82, 90

Cudnovskij David V., u3 Cudnovskij Grigorij V., u3 Cusano Niccolò, 83 Czeczott Alessandra, 121

Fantet de Lagny Thomas, 94-5 Felton George E., u3 Ferguson Donald Fraser, 94-5, u2-4 Fermat Pierre de, roo, ro2, ros Fibonacci, Leonardo Pisano, detto il, 578, 77-8, 81-3

Dal Ferro Scipion, 82, 85-6

Filippo 11, re di Macedonia, 43

Danti Ignazio, 83

Filliatre ]., u3 Fox (capitano), m-2

DaseJohann, 95 Descartes René (Cartesio Renato), ro2 Dichampt M., u3 Diego de Landa, vescovo, 60 Dinostrato, 40-1 Diofanto, 59, 63, 74-5, 82., 86, 88, 92 Domenico di Chivasso, 79 Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi), 79 Dreyer Johan L. E., 60 Diirer Albrecht, 84

Francesco I di Valois, re di Francia, 84

Galeno, 58, 66, 70 Galilei Galileo, 30, 45, So, 89, 91, 99, ro2 Galilei Vincenzio, 30 Genuys François, u3 Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), 78

Gerone II, tiranno di Siracusa, 51 Ghaligai Francesco, 85 Giacomo da Cremona, cardinale, 89

Einstein Albert, 120

Giustiniano, imperatore d'Oriente, 37, 72

Enrico

III

di Valois, re di Francia, 91

Godel Kurt, 38

Enrico

IV

di Borbone (Enrico il Gran-

Gorgia, 34

de), re di Francia e di Navarra, 91 Enrico VIII Tudor, re d'Inghilterra e d'Irlanda, ro2

Gosper Bill, u3 Grégoire de Saint-Vincent, 70 Gregory James, roo-2, 105, ro8, uo

INDICE DEI NOMI

129

Gresham Thomas, S4

Leibniz Gottfried, 23, 33, 56, 95, 99-100, 102-3, 106-S Leonardo da Vinci, So, S4

Guglielmo di Moerbeke, S9 GuilloudJean, 113 GutenbergJohannes, So

Hammurabi, re di Babilonia, 14 Han (dinastia), 61, 65-6 Hannover (casata), 106 Harriot Thomas, Ss Higgins Peter, 4S Huygens Christiaan, 97, 100, 102, 106

I-Hsing (monaco), 67 Ipazia, 5S-9, 62 Ipparco, 46, 49, 66 Ippaso di Metaponto, 31-3, 37, 115-6 Ippia di Elide, 36, 40-1 Ippocrate di Chio, 35-6 Ippocrate di Cos, 35, 50

Jeenel]., 113 Jones William, 109

Lindemann Ferdinand von, 35, II7 Liouville Joseph, u7 Liu Hui, 6S Lucas Henry, 102 Lucrezio Caro Tito, 57 Luigi XIV di Borbone, detto il Re Sole, re di Francia e di Navarra, 106 Luther Martin (Lutero Martino), S4

MachinJohn, 95, uo, u4 Mahavira, 63 Maometto, 69 Masaccio (Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai), 79 Maurolico Francesco, S5, S9 Melantone Filippo, S4 Menecmo,40 Michelangelo Buonarroti, So Miyoshi Kazunori, u3

Kanada Yasumasa, II3

Napier John, SS, 90 Napoleone I Bonaparte, imperatore, 106

Katahiro Tabeke, 94 KeplerJohannes (Keplero Giovanni), 90,

Needham Joseph, 67

102 Kline Morris, 26, 2S, 37, 39, 43, 61, Sr, S9,

Narmer (Nemes), faraone, 19 Nehemiah, 59 Newton Isaac, 23, 33, 56, So, 95, 99-100, 102-9, III

92, 99, 107, II7 Kubo Yoshinobu, 113

Nicholson S. C., u3

LambertJohann Heinrich, us-6

Obama Barack H., 120

Laplace Pierre-Simon de, m-2

Oldenburg Henry, 103

Lauschen Georg Joachim von, detto il Retico, SS

Omayyadi (dinastia), 69

Legendre Adrien-Marie, 117

Omero,27 Oughtred William, 102

STORIA DI II

Pacioli Luca, 80-2, 84-5, 89

Pericle, 34

Shanks Daniel, u3 Shanks William, 9 5 Sharp Abraham, 94-5 Shaw Larry, u9-20 Silvestrini Vittorio, 120

Peurbach Georgvon, 83, 90 Piero della Francesca (Piero Benedetto de' Franceschi), 80-1

Singer Charles, 75 Smith Levi R., u3 Snellius Willebrord, 96-7

Pitagora, 15, 28-33, 37-8, 53, 61, 71, 85, u5-6 Platone, 34, 36-40, 72 Plinio il Vecchio, 57

Socrate, 34-5, 37 SrI-Gupta, re indiano, 61 Stevin Simon (Simone di Bruges), 88-9

Plutarco, 37, 57 Protagora, 34

Stifel Michel, 84-5 Sze Nicholas, u4 Szymborska Wislawa, 120, 123

Pappo di Alessandria, 48, 59, 71, 74-5 Parmenide, 33 Pascal Blaise, ro 6, u9

Raffaello Sanzio, 80 Ramée Pierre de la (Petrus Ramus), 91 Regiomontano, pseud. diJohannes Miiller, 82-3 Reisch Gregor, 84 Reitwiesner George, u3 Rhind Henry, 18, 20 Richter, 95 Riese Adam, 84 Roberval Gilles Personne de, 100 Rooman Adriaen van, 93 Rossi Paolo, 82 Russo Lucio, 19, 45, 49, 53, 79 Rutherford William, 95

Takahashi Daisuke, u3 Talete di Mileto, 28-9 Tamura Yoshiaki, u3 Tang (dinastia), 66-7 Tartaglia Nicolò (Niccolò Fontana), 86, 89 Teeteto, 37 Teodoro di Cirene, 37 Teofrasto, 50 Teone, 58-9 Thabit ibn-Qurra, 74-5 Tolomei (dinastia), 44-5, 47, 65, 73 Tolomeo Claudio, 58-9, 70, 72, 74, 79, 83 Tolomeo I Sotere, re d'Egitto, 44, 46, 48 Tolomeo II Filadelfo, re d'Egitto, 47 Torricelli Evangelista, 100, 105

Sabokt Severo, 72 Santoni Emanuela, 79

Tsu Chung-Chih, 68, 76, 95 Tsu Keng-Chih, 68, 76

Sargon, re di Akkadii, 14 Savile Henry, 83 Schooten Frans van,

102

Ushiro Yasunori, u3

Seneca Lucio Anneo, 57 Senocrate, 38 Senofane, 33

Valerio Luca, 89 Varahamihira, 61-2

INDICE DEI NOMI

Varrone Marco Terenzio, 57 Vasari Giorgio, 80 VegaJurij, 94-5 Viète François, 91-3, 95-6, 101-2 Vitruvio Pollione Marco, 57

WidmanJohannes, 83 WrenchJohn, u3

Yoshino Sayaka, u3 Yoshisuke Matsunaga, 94

Wallis John, 100-2

Zarlino Gioseffo, 30

Wang Chong, 6 5 WangMang, 66 Werner Johann, 83

Zenone, 33, 53 Zhang Heng, 66 Zhang Zhongjing, 66