Storia dell’urbanistica. Il mondo romano
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978-88-420-8044-2

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Pierre Gros Mario Torelli

Storia dell'urbanistica Il mondo romano

-.Editori Laterm

© 1988, 2007, Gius. l.aterza & Figli www.laterza.it Prima edizione 1988 Nuova edizione riveduta e aggiornata 2007 Edizione 3

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Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019 L'Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Proprietà letteraria riservata Gius. l.aterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (ltaly) per conto della Gius. l.aterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8044-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuara, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Storia dell'urbanistica Il mondo romano

AVVERTENZA La Parte prima è di Mario Torelli; la Parte seconda è rato illustrativo delle rispettive parti.

di Pierre Gros. I due autori hanno curato l'appa­

Parte prima

L'età regia e repubblicana

Capitolo I

1. La questione storiografica delle origini del­ la città nell'Etruria e nel Lazio Il dibattito sui modi, i tempi e le cause dello sviluppo urbano nell'Italia antica e in particolare nell'Etruria e nel Lazio dura ormai da oltre mezzo secolo e, come è facile (e com­ prensibile) immaginare, è lungi dall'essere vi­ cino a una conclusione. Sono cambiati molti termini della questione soprattutto a causa delle mutate condizioni della discussione, per il semplice fatto che molte scoperte archeolo­ giche hanno recato numerose informazioni nuove, che, se non hanno trasformato radi­ calmente l'impostazione del dibattito, hanno precisato i contorni del problema: ciò che è particolarmente rilevante è che sono cambia­ te le prospettive storiografiche di fondo. Trent'anni fa, a causa del contesto storico-po­ litico dominante, in primo piano in quasi tut­ te le ricerche, sia pur con diverse sfumature, era il processo socio-economico; oggi, nelle mutate condizioni del contesto politico e ideologico nazionale e internazionale, gli inte­ ressi di gran parte degli specialisti sono mos­ si piuttosto da prospettive socio-antropologi­ che derivate dalle correnti tendenze di scuola anglosassone. Malgrado ciò, i punti fonda­ mentali della discussione sono rimasti gli stes­ si e riguardano aspetti cronologici e aspetti interpretativi delle dinamiche profonde della società protostorica. Se oggi non è più passi-

Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

bile, come avveniva negli anni Sessanta e Set­ tanta del secolo scorso, sostenere cronologie molto basse dell'intero sviluppo della proto­ storia della penisola, nel mondo degli specia­ listi di preistoria è largamente diffusa una ten­ denza che, sulla base di dendrocronologie al­ pine di contestata applicabilità al contesto ita­ liano, vorrebbe collocare l'inizio dell'età del Ferro già nel X secolo a.C. L'ipotesi è certa­ mente possibile sul piano teorico, ma obbliga ad immaginare un'enorme dilatazione delle prime fasi dell'età del Ferro, sensibilmente povere di attestazioni, e di conseguenza degli inizi del processo di formazione urbana, in forte contrasto con la relativa velocità dei processi di destrutturazione delle società di villaggio, che si è obbligati a ricostruire una volta iniziato il percorso verso la civiltà urba­ na. Non meno fuorviante continua ad essere il lessico di fondo usato per definire il perio­ do iniziale della vita urbana dei centri dell'E­ truria e del Lazio dagli studiosi di protostoria, già stigmatizzato al momento della prima edi: zione di questo libro, un lessico basato sul concetto, che allora definivo poco limpido, di «protourbano». Già allora avevo sottolineato che quello della nascita della città in area etrusco-latina è un fenomeno di lunga durata e di natura formativa e non puntuale; se ciò è ormai largamente accettato dagli storici, è an­ che vero che nella lunga storia della città del mondo classico, in Grecia come in Italia, le

6 città presentano caratteristiche spesso molto diverse nel tempo e che, se è illusorio pensar­ le sempre uguali a se stesse, non meno illuso­ rio è immaginare una fase in cui la città è ta­ le, anche se in forma molto embrionale, sen­ za precisare quali siano le caratteristiche di fondo di una società urbana. In altre parole, è possibile parlare di città solo in presenza di alcuni pochi requisiti elementari, destinati co­ munque a permanere fintantoché di città si parla. Ho parlato di un processo, - e per sua na­ tura un processo non è un evento puntuale. Ma, in ogni caso, è evidente che la società ur­ bana presuppone un superamento dei rap­ porti parentelari in termini di relazioni socia­ li di produzione e di conseguente esercizio del potere: una realtà urbana, dunque, esiste solo se i rapporti di parentela non sono più struttura esclusiva e formante dell'economia e della politica, che caratterizza invece le so­ cietà preistoriche basate su aggregazioni di villaggio. Tale superamento delle relazioni elementari di produzione naturalmente non significa la distruzione di quelle antiche soli­ darietà che la nuova organizzazione ampia­ mente recupera, come retaggio residuale di forme economiche precedenti: tutte le forma­ zioni economiche delle società fino ad· oggi hanno sempre fatto largo uso dei residui di precedenti economie un tempo dominanti e la più antica società urbana dell'Italia non ha fatto eccezione, sfruttando e inglobando pez­ zi a volte assai grandi della precedente so­ cietà, utili ai propri fini produttivi. In altre parole, ciò con cui l'archeologo della proto­ storia dell'Etruria e del Lazio alla ricerca del­ le più antiche fasi urbane in quelle terre si de­ ve confrontare è il riconoscimento, nel con­ creto della realtà archeologica, del momento nel quale è possibile affermare che il supera­ mento dell'economia di villaggio rappresenta ormai una realtà. Sul piano teorico l'impresa è di per sé assai ardua, dal momento che la

Parte I. L'età regia e repubblicana

documentazione archeologica non è affatto suscettibile di lettura univoca: nei dati ar­ cheologici domina il ruolo dell'ideologia, che, essendo spesso relitto di epoche più antiche ed elaborata a fini perlopiù consolatorii, ap­ pare per sua natura ingannevole. Pur nella sua difficoltà e nell'imperfezione dei metodi di indagine, la sola strategia possibile è quel­ la che combini il decrittamento dei dati rela­ tivi all'ideologia, siano essi tratti dalla tradi­ zione letteraria e attinenti alla religione, alle istituzioni e alle usanze, o invece ricavati dal­ !'analisi della documentazione archeologica di necropoli e di abitato, con le conclusioni de­ rivate dall'esclusiva indagine archeologica, nel­ la quale certamente un ruolo di grande im­ portanza è attribuito sia alla ricostruzione del­ le dinamiche insediative e della struttura so­ ciale ricavabile dalle necropoli sia agli aspetti concreti della produzione e della circolazione dei manufatti. Naturalmente tutto ciò è lungi dall'essere semplice e ogni operazione all'interno di que­ sta strategia può essere, e talora è, suscettibi­ le di critica, con risultati talvolta contraddit­ tori e comunque fondati su sole basi probabi­ listiche, con tutte le incertezze del caso. Per scendere nel concreto, dobbiamo partire dal fatto che le fasi primordiali della vita urbana delle zone economicamente e socialmente più avanzate dell'Italia antica, che coincidono con !'Etruria centro-meridionale e con il Latium antiquum (la porzione cioè del Lazio ai piedi dei Colli Albani tra il mare e il corso del Te­ vere), ci appaiono come un continuum pro­ cessuale abbastanza lungo, il cui punto di ar­ rivo si colloca attorno alla metà dell'VIII se­ colo a.C., quando, come vedremo, molti dei segni della città, sia materiali sia ideali, sono presenti e soprattutto è evidente la natura co­ sciente dei fenomeni che accompagnano lo sviluppo della forma urbana: tutto questo ci appare come un processo lungo e complesso, che va analizzato in profondità, per ricono-

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scerne le varie tappe e per osservare, attra­ verso il complesso intrecciarsi di fattori eco­ nomici, politici, sociali e religiosi, l'emergere delle diverse istituzioni e strutture destinate ad essere distintive della città arcaica. Natu­ ralmente l'aver enucleato il carattere di for­ mazione e di processo della genesi della for­ ma urbana etrusco-latina non significa averne definito in maniera chiara le cause e neanche le modalità: le radici della nascita della città in questa area (e così anche le stesse strutture della città e della morfologia urbanistica) so­ no fortemente insediate in un intreccio di fat­ tori socio-economici e politico-ideologici non riducibile né a un solo evento né a una sola causa, come è owio per un fenomeno storico di portata assai vasta, quale è quello della co­ stituzione di una ben precisa morfologia ur­ bana. In altre parole, se è praticamente im­ possibile indicare un momento storico preci­ so in cui, ad esempio, Tarquinia e Roma sono passate dalla fase preurbana a una fase urba­ na, così è errato pensare che un aspetto par­ ticolare, tipicamente o concettualmente tangi­ bile, l'esistenza di un muro di cinta o la pre­ senza di particolari manufatti, sia condizione necessaria e sufficiente perché si possa parla­ re dell'esistenza di una città: condizione ne­ cessaria e sufficiente per l'esistenza stessa del­ la città, come abbiamo veduto, è il supera­ mento dei rapporti di parentela come ele­ mento determinante delle relazioni sociali e politiche. Se questa condizione non è soddi­ sfatta, la città non esiste, ma al tempo stesso il soddisfacimento di questa condizione non ci dice quale tipo di città sia quella in costru­ zione davanti ai nostri occhi, mentre è la mol­ teplicità dei fattori in giuoco, pur in una pre­ cisa gerarchia di importanza e di significato di ciascuna di questi, che concorre a delineare il particolare carattere che la forma urbana as­ sume nel momento storico dato, o, se si vuo­ le, perché la città che abbiamo davanti è una città dell'area tirrenica di epoca arcaica e non

7 una del mondo greco o del Vicino Oriente antico. Parlare, come fanno le correnti anglosas­ soni, di società complesse è un modo per elu­ dere la sostanza dei problemi, rinviando a una non meglio definita «complessità» di elemen­ ti presenti in una determinata società. Il con­ cetto di complessità non è infatti sufficiente a descrivere la società etrusco-latina più arcaica e a qualificarla «protourbana», come fanno molti preistorici italiani, partendo da più o meno espliciti assunti neo-archeologici. Più in generale, la discussione tra specialisti delle ci­ viltà arcaiche italiane, a onta dell'ampiezza e dei diversi approcci, si è spesso fermata alla superficie dei problemi o ne ha sviluppato aspetti molto particolari owero anche soltan­ to filologici, eludendo in genere la sostanza della questione, rappresentata appunto dalla processualità del fenomeno e dalla grande ar­ ticolazione socio-economica del fenomeno ur­ bano; per questo motivo, il profilo sintetico contenuto nelle pagine che seguono risente di questa lacuna, nella misura in cui lo stesso an­ damento del dibattito ha finito per influenza­ re la ricerca, sia storica sia archeologica, la­ sciando in ombra aspetti che potrebbero riu­ scire decisivi - una volta integrati con il già noto - per la configurazione generale del pro­ cesso formativo della città. Analogamente, in termini di formazione della città· sembra di poter dire che tra quanto awiene nel Lazio e quanto awiene in Etruria centro-meridionale esistono somiglianze strutturali assai profon­ de, ma anche divergenze: al di là della con­ temporaneità dell'occupazione dei centri ur­ bani nelle due zone, alcuni segnali di natura archeologica e ideologica ci dicono infatti che le due realtà, pur presentando fortissime so­ miglianze nello sviluppo, hanno avuto percor­ si strutturali differenti. Si è cercato in propo­ sito di caratterizzare le differenze tra le due realtà, quella etrusca e quella latina, in termi­ ni di strutture direttamente concorrenti alla

8 definizione delle forme urbane: tale differen­ za consisterebbe nel fatto che, mentre il mon­ do latino fin dall'età del Ferro conosce l'esi­ stenza di notevoli fortificazioni ad aggere (ad esempio a Ficana o a Castel di Decima), nel­ la stessa fase l'area sud-etrusca sarebbe sprov­ vista di simili apprestamenti, dimostrando co­ sì una sorta di superiorità militare sul vicino territorio popolato dai Latini. A parte ogni considerazione sulla congruenza di questo eventuale fatto con quanto ricaviamo dalla documentazione funeraria etrusca di IX e VIII secolo a.C. relativamente all'importanza socio-politica delle strutture militari, scavi re­ centissimi a Veio e a Vulci hanno dimostrato l'esistenza di fortificazioni sia ad aggere sia costruite di VIII secolo a.C., mentre la stessa configurazione fisica di quasi tutti gli insedia­ menti «minori» dell'Etruria meridionale ci obbliga a supporre l'esistenza di simili aggeri, in qualche caso - come a Monte S. Angelo o a Norchia - persino individuati dallo scavo. Analogamente, a Roma esistevano mura e ag­ geri: gli scavi di A. Carandini hanno infatti messo in luce un poderoso muro nato nella valle del Foro nell'VIII secolo a.C. per la di­ fesa dell'abitato posto sul Palatino, mentre l'esistenza di un vero e proprio aggere sul col­ le dell'Esquilino, proprio di fronte al Palati­ no, è postulata in virtù della tradizione relati­ va a un murus terreus Carinarum, del quale però, come è ovvio, ogni traccia è andata per­ duta. Per la soluzione del problema storico del­ la formazione della città non si può né si de­ ve parlare di autosufficienza delle discipline, e in particolare dell'archeologia. Come si è appena detto, sul piano teorico è chiaro che nessun indicatore, all'infuori di quello socio­ economico qui più volte ricordato, del supe­ ramento delle forme parentelari nella società è di per sé sufficiente ad affermare che dove ciò si verifica la realtà urbana inizia a pren­ dere corpo; al tempo stesso è anche chiaro

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che tale superamento di per sé nulla ci dice in merito alla particolare forma urbana che si andrà in tempi più o meno brevi costituendo e che è il frutto dell'intrecciarsi di infiniti fat­ tori, economici, sociali e ideali, prodottisi in quel particolare contesto e con quelle specifi­ che modalità. Di qui la necessità di proporre i termini concreti di quell'intreccio e i vari passaggi attraverso i quali l'evoluzione della primitiva struttura di città nell'Etruria e nel Lazio si è venuta costituendo, facendo appel­ lo a tutti i possibili ingredienti di quell'arti­ colato processo. Nelle pagine che seguono, per raggiungere un quadro d'insieme dei fe­ nomeni urbanistici, l'intera sequenza dei dati archeologici verrà accostata al sistema rico­ struito dagli storici delle varie specialità del­ l'antichistica per quel remoto passato, del quale fenomeni religiosi, pratiche sociali e istituti sociali e politici, preservati spesso in maniera mirabile dal caratteristico conservati­ vismo romano, ci parlano in forme senz'altro frammentarie, ma anche molto vivide. Occor­ re dunque comparare in maniera sistemica e non contaminatoria dati archeologici e dati storico-istituzionali, il solo modo corretto per integrare una documentazione storica scarsa e lacunosa, che, elaborata a distanza di pa­ recchi secoli dagli storici antichi con interes­ sati intenti politici, tende costantemente a confondersi con quella mitica: di qui la ne­ cessità di evitare la sostituzione delle mitolo­ gie antiche con quelle, ben più colpevoli, dei moderni. 2. Il lungo processo di definizione delle forme urbane nell'Etruria e nel Lazio Il fenomeno di lunga durata della nascita della città in Etruria e nel Lazio ha senza dub­ bio origini remote. Il primo passo verso una embrionale definizione d'habitat stanziale si può senz'altro riconoscere nella fissazione del-

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l'insediamento della penisola nella fase del Bronzo Finale, tra l'XI e il X secolo a.C.: la fine delle stazioni in grotta, ancora note nel Bronzo Tardo a scopo insediativo, e la creazione di abi­ tati, in prevalenza (ma non esclusivamente) di altura, talora muniti di fortificazioni con fossa­ ti, aggeri o muri di cinta a rozzi blocchi, rap­ presentano il segnale di una profonda trasfor­ mazione dell'economia con un presumibile ac­ crescersi dell'importanza dell'agricoltura come forma di accumulazione, ai danni dei patrimo­ ni armentizi, risorse primarie e centro dell'ac­ cumulazione della ricchezza nelle precedenti fasi dell'età del Bronzo. La segmentazione delle unità tribali primi­ tive è ormai un fatto, anche se nei secoli suc­ cessivi la coscienza collettiva di queste unità, sancita da antichissime realtà religiose e lin­ guistiche, continuerà ad essere sentita e addi­ rittura ad essere rifunzionalizzata in senso po­ litico, con leghe di tipo etnico, attorno a pra­ tiche cultuali e a grandi santuari; la realtà pro­ duttiva si organizza progressivamente attorno a nuclei familiari allargati e comunità di vil­ laggio, con un preciso fondamento nel diffon­ dersi del fenomeno della privatizzazione del mezzo di produzione fondamentale, la terra. La distribuzione del popolamento dimostra che siamo in presenza di un'occupazione ca­ pillare delle terre migliori e più facilmente coltivabili o comunque in prossimità di risor­ se primarie rilevanti come le acque interne; i villaggi si compongono di nuclei di poche ca­ panne, a volte - come si è visto - sommaria­ mente fortificati con apprestamenti artificiali o in ogni caso protetti dalla stessa collocazio­ ne naturale, e distano tra loro pochi chilome­ tri, di norma, nelle zone più favorite sul pia­ no agricolo, tra i cinque e i quindici; la ricer­ ca attuale si è opportunamente indirizzata verso il riconoscimento di veri e propri «ba­ cini abitativi», nei quali si riscontrino omoge­ neità di risorse, di sistemi produttivi, di cir­ colazione di prodotti metallurgici o anche po-

9 tenzialità di integrazione economica, secondo processi che lasciano intravedere resistenza di solidarietà socio-economiche non dissimili da quelle alla base dell'integrazione urbana, nel­ le quali però il vecchio modo di organizzare la produzione secondo le strutture della pa­ rentela è vivo e talvolta ancora dominante. Nei gruppi di poche capanne che costitui­ scono i villaggi del Bronzo Finale dunque dobbiamo vedere attiva una realtà sociale che li collega piuttosto ai villaggi del Bronzo Me­ dio e Tardo, un periodo di oltre tre secoli oc­ cupato non a caso da unafacies culturale det­ ta appenninica, tanto fortemente omogenea per l'intera estensione della penisola italiana, quanto poco articolata sul piano sociale. Il declino di questa cultura coincide con le tur­ bolenze e i sommovimenti sociali ed etnici dai quali emergerà nella prima età del Ferro la realtà urbana primitiva nell'Italia centrale tir­ renica. In linea di massima, però, la prima delle due /acies del periodo, quella subappen­ ninica, corrispondente ai secoli XII e XI a.C., presenta diffusione peninsulare simile a quel­ la della precedente fase appenninica e un cli­ ma di omogeneità culturale relativamente va­ sta, che sembra venir meno nella successiva fase dello stesso Bronzo Finale, definita pro­ tovillanoviana (secoli XI-X a.C.) per le sue af­ finità con la cultura villanoviana, propria del­ l'Etruria dell'età del Ferro, non più caratte­ rizzata da diffusione peninsulare, ma da affio­ ramenti locali su di un'area vastissima, dal delta padano alla Sicilia (fig. 1). Con la fase più avanzata del Bronzo Finale inizia W1 pro­ cesso di enucleazione di culture locali dai ca­ ratteri molto peculiari, che avrà termine tra VI e V secolo con la definizione di culture as­ sai ben individuate corrispondenti sostanzial­ mente ai gruppi etnici dislocati nelle loro se­ di storiche. Il processo ha inizio proprio dal Lazio, che nel Bronzo Finale avar:izato (XI se­ colo a.C.) crea una cultura propria dai forti tratti militari: un dato, questo, molto rilevan-

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Fig. 1. La diffusione della cultura villanoviana (da Pallottino).

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I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

te, che assieme ad altri dati di carattere lin­ guistico e religioso concorre a dimostrare non solo la precocità del processo di strutturazio­ ne etnica dei Latini, ma anche la loro proba­ bile superiorità su gruppi territorialmente vi­ cini in questa fase storica antichissima. Nella fase storica successiva, coincidente con la pri­ ma età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.), sarà la volta degli Etruschi, i quali raggiungeranno uno stadio dello sviluppo economico, sociale e politico analogo a quello dei Latini, elabo­ rando una cultura molto forte, quella villano­ viana, che già agli inizi di questa fase copre l'intera area occupata in epoca storica dagli Etruschi. Ancora in un nebuloso limbo for­ mativo e forse subalterno ai Latini nella fase precedente del Bronzo Finale, questo popolo non solo appare ora costituito come ethnos, ma è visibilmente destinato addirittura ad esercitare per lunghi secoli una forte egemo­ nia sull'Italia antica prima dell'espansione di Roma mediorepubblicana, mentre contempo­ raneamente si delinea un primo rudimentale abbozzo di quella netta separazione tra svi­ luppo e sottosviluppo su scala regionale che in epoca storica sin dall'arcaismo contrap­ porrà le aree dominate dalle opulente società delle città ai territori dove si collocano le me­ no ricche e subalterne società non urbanizza­ te (fig. 2). Nel progressivo prevalere economico e de­ mografico di sedi collinari o montane su inse­ diamenti meno difesi in aree pianeggianti, che contraddistingue il Bronzo Finale, riusciamo forse meglio a inquadrare molti fenomeni di natura «politica», culturale e religiosa, che ri­ scontriamo nella realtà stessa del Bronzo Fi­ nale e nella sopravvivenza, nella cultura e nel­ le tradizioni cittadine di età storica, di retaggi molto antichi, ben inquadrabili nel contesto preurbano e nella dimensione cronologica qui in esame: penso qui all'istituto romano delle Curiae, struttura di origini e funzioni certa­ mente preurbane, di cui si dirà più avanti,

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riassorbita nei contesti politico-religiosi citta­ dini, esistita però in forme analoghe in città etrusche (a Cerveteri è attestata epigrafica­ mente una Curia Asernia, CIL XI, 3593, e for­ se a Tarquinia lo è anche archeologicamente con l'edificio scavato dall'Università di Mila­ no nel cuore dell'abitato storico); ma penso anche alle tradizioni mitiche sulle origini di Roma, nelle quali la stessa leggenda romulea e culti antichissimi, come quello di Iuppiter Latiaris sul Monte Albano (oggi Monte Ca­ vo), sottolineano la preminenza di Alba Lon­ ga e dei Colli Albani sul resto del Lazio anti­ co. Questa serie di importantissimi retaggi, mai obliterati dalle successive vicende stori­ che, trova un riscontro nella già citata realtà archeologica: in area etrusca, di fronte alle grandi città storiche, povere in genere (ma forse per difetto di ricerca) di tracce protovil­ lanoviane, si collocano massicci collinari ric­ chi di documenti del Bronzo Finale, il Sasso di Furbara rispetto a Cerveteri, i Monti della Tolfa rispetto a Tarquinia, le colline dell'alta Valle del Fiora rispetto a Vulci, il Monte di Cetona rispetto a Chiusi e così via. Non me­ no significativo per il riconoscimento delle differenze di struttura sociale dominante è la diversa tipologia delle capanne della piena età del Bronzo rispetto a quelle della prima età del Ferro. Se nella tecnica costruttiva i due ti­ pi di capanne si assomigliano, costruite come sono in legname con frequenti inserzioni di primitive murature a secco e coperte da pa­ glia e fascine, riconoscibili sul terreno per i fori dei pali di sostegno, quelle dell'età del Bronzo, in genere a pianta rettangolare (fig. 3), possono talora avere eccezionale lunghez­ za, fino a 40 metri, mentre le capanne dell'età del Ferro, vissute fino a tutta la prima metà del VII secolo a.C., rotonde, ellittiche o absi­ date, sono di dimensioni assai più contenute, mai superiori ai 15 metri (fig. 4): queste ulti­ me rivelano l'emergere dell'importanza della famiglia nucleare, parallela ali' affermarsi della

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conduzione privata della terra, laddove le ca­ panne dell'età del Bronzo esprimono bene il predominio di grandi lignaggi, dall'estensione a volte equivalente all'intero insediamento, che gestiscono terre e greggi di proprietà co­ mune. Alla luce di quanto detto fino ad ora, il co­ stituirsi delle nuove forme di produzione e po­ polamento, pur senza avere dietro delle vere e proprie città, ne può essere considerato il di-

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retto e necessario antecedente; in questo tipo di insediamento il futuro centro urbano può esse­ re rappresentato da una piccola e forse secon­ daria comunità di villaggio, che tuttavia nelle ancor oscure vicende della prima età del Ferro ha gradualmente conquistato una superiorità economica, sociale e militare, strappandola presumibilmente con la forza - agli insedia­ menti un tempo egemoni e sostituendosi a que­ sti come centro di sviluppo economico e poi di

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I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana Fig. 2 (a fronte). Diacronia del­ la diffusione della forma urba­ na: 1. Etruria meridionale, La­ zio, Campania (VIII secolo a.C.); 2. Colonie greche (VIII­ VII secolo a.C.); 3. Etruria cen­ trale e settentrionale (VII-VI secolo a.C.); 4. Area umbra e picena (V-IV secolo a.C.); 5. Apulia (IV secolo a.C.); 6. San­ nio, Lucania, territorio dei Brutti (11-1 secolo a.C.) (da To­ relli, Tota Italia). Fig. 3. Sorgenti della Nova, villaggio del Bronzo finale (da Banoloni). Fig. 4. Tarquinia, capanne vil­ lanoviane dei Monterozzi (da Rasenna).

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coagulo sinecistico. L'avvio di questa evoluzio­ ne sinecistica si legge bene negli eventi archeo­ logicamente documentabili del IX secolo a.C., quando vediamo per la prima volta definirsi nello spazio i contorni, ancora impalpabili e im­ perfettamente delineati, di futuri centri urbani nelle aree più fertili e pianeggianti dell'Etruria, del Lazio e della Campania non greca: tutte le metropoli etrusche di epoca storica mostrano di avere avuto una fase villanoviana coinciden-

te con la nascita dell'abitato, avvenuta in un momento ora più, ora meno precoce. Alle spal­ le del fenomeno va senza dubbio collocato un poderoso movimento di carattere colonizzato­ rio, i cui epicentri sono da ravvisare nell'Etru­ ria meridionale, e segnatamente a Tarquinia e a Veio: questa imponente colonizzazione coinci­ de con la diffusione della cultura villanoviana in tutta l'Etruria propria, nella Valle Padana e nella Campania interna a nord intorno a Capua

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e a sud lungo la Valle del Tanagro e sulle coste del Salernitano. Gli obiettivi della colonizza­ zione sono di tipo nettamente agrario, anche se con tali obiettivi convivono evidenti motivazio­ ni collaterali di natura commerciale, in direzio­ ne tanto delle risorse minerarie della stessa Etruria e della vicina Sardegna, quanto degli approdi di frequentazioni orientali, fenicie e greche; lo stesso carattere militare della colo­ nizzazione, reso così palese dalla forte coloritu­ ra guerriera dell'ideologia villanoviana, sottoli­ nea l'intento di conquista dei nuovi spazi per ben precise finalità agrarie. Dopo la precocità dimostrata nello sviluppo culturale nel Bronzo Finale, l'area latina segue il modello etrusco della colonizzazione a scopi agrari, che tuttavia avviene entro i soli spazi occupati in preceden­ za e perdipiù in un momento più tardo rispetto a quello villanoviano, e cioè tra la fine del IX e gli inizi dell'VIII secolo a.C., quando accanto ai centri già esistenti fra X e IX secolo a.C. (Colli Albani, Roma, Lavinio, Ardea) ne sorgono nu­ merosi altri, in primis quelli di Castel di Deci­ ma, Ficana, Osteria dell'Osa, Laurentina e La Rustica, tutti però di dimensioni abbastanza li­ mitate e tutti destinati a soccombere nel corso del VII secolo a.C., con la sola, vistosa eccezio­ ne di Osteria dell'Osa-'Gabii'; questo ritardo latino, che potrebbe rappresentare il contrac­ colpo di gravi crisi «politiche» adombrate dal mitico dominio sul Lazio del re-tiranno di Cer­ veteri Mezenzio, si iscrive bene nel quadro del1'egemonia economica e culturale esercitata nel corso della prima metà del IX secolo a.C. dal­ l'Etruria meridionale e dai centri maggiori di questa su di una vasta area contermine, egemo­ nia di cui la leggendaria colonizzazione della Campania interna è un preciso ricordo a livello della tradizione mitistorica. Con il IX secolo a.C., dunque, le future città sud-etrusche e latine presentano tracce di una massiccia ed estesa occupazione che va configurando l'assetto urbano dei secoli suc­ cessivi. Lo stesso fatto che su di un medesimo

Parte I. L'età regia e repubblicana

altopiano convivano più villaggi, espressione di antiche solidarietà parentelari relitto della precedente fase del Bronzo Medio e Tardo, dimostra che dovevano essere in atto mecca­ nismi di solidarietà e di cooperazione sovrafa­ miliare, che rappresentano l'elemento-base della vita delle società urbane. La stessa morfologia del terreno prescelto fin da prin­ cipio dalle città arcaiche etrusche e latine pre­ suppone necessariamente il fatto che abbia avuto inizio il loro processo formativo, al ter­ mine del quale, nella seconda metà dell'VIII secolo, sono invece attive tutte le principali caratteristiche ideologiche, sacrali e istituzio­ nali, che ne contraddistinguono la vita in epo­ ca arcaica. Ma che si tratti ancora di un as­ setto embrionale, suscettibile di sviluppi lun­ go itinerari storici diversi, è dimostrato dalle storie urbane delle due città che abbiamo poc'anzi ricordato come centri principali del movimento colonizzatorio villanoviano, Tar­ quinia e Veio, storie di cui sarà qui utile rie­ pilogare le linee fondamentali. A Tarquinia e nelle sue immediate vicinanze si conoscono oggi un importante luogo di culto protovilla­ noviano posto al centro del vasto colle della Civita, nel quale ho creduto di ravvisare una arcaicissima Curia, e alcune probabili tombe pure protovillanoviane, che dimostrano come nell'area della futura città fossero presenti im­ portanti coaguli fin dal Bronzo Finale. Nella prima età del Ferro, tra il IX e la metà dell' VIII secolo a.C., vediamo fiorire una pluralità di villaggi, indiziati soprattutto dalle numero­ se necropoli ad essi pertinenti (fig. 5). Un pri­ mo gruppo di villaggi, cui si riferiscono le ne­ cropoli della Civitucola, di Poggio dell'I mpic­ cato, di Poggio Selciatello, di Poggio Selcia­ tello di Sopra, di Poggio Gallinaro, di Poggio Quarto degli Archi, di Fosso San Savino e di Villa Falgari, gravita più o meno direttamen­ te intorno alla zona della futura città. Altri an­ cora, pur se contigui, ne appaiono nettamen­ te separati, posti come sono nel raggio di uno o due chilometri, come è il caso di almeno tre

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Fig. 5. Insediamenti e necropoli nell'area di Tarquinia in età villanoviana. Insediamenti (in nero): 1. Calvario; 2. Cometo; 3. Macchia della Turchina; 4. Corneto (?); 5. Pian della Civita; 6. Saline; 7. Pian della Sorgente. Necro­ poli (in bianco): 1. Civitucola; 2. Poggio dell'Impiccato; 3. Poggio Selciatello; 4. Poggio Selciatello di Sopra; 5. Pog­ gio Quarto degli Archi; 6. Fosso San Savino; 7. Arcatelle; 8. Le Rose; 9. Villa Falgari; 10. Poggio Gallinaro (dis. M. Monella).

abitati a SO della città antica, collegati più o meno direttamente al colle dei Monterozzi: l'abitato del Calvario, unico insediamento scavato della Tarquinia presinecistica, esteso all'incirca due ettari e popolato da una trenti­ na di capanne con la relativa necropoli delle Arcatelle, l'abitato che sorgeva sul sito della Corneto medioevale, ossia dell'attuale Tarqui­ nia, riconoscibile attraverso la relativa necro­ poli delle Rose; l'abitato all'Infernaccio indi-

ziato dalla necropoli di Villa Falgari. A questi insediamenti se ne aggiungono altri più lonta­ ni, come quelli di Macchia della Turchina, di Pian della Sorgente e delle Saline, il cui con­ corso al processo sinecistico è quantomeno incerto. In sostanza, fra insediamenti indivi­ duati direttamente sul terreno o indiretta­ mente presso le necropoli, contiamo nel rag­ gio di cinque chilometri almeno una dozzina di villaggi, di cui più della metà gravitanti in

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Fig. 6. Abitato unitario (Civita) e necropoli unitaria (Monterozzi) di Tarquinia in età orientalizzante. I circoli indicano i grandi tumuli: 1. Poggio Gallinaro; 2. Infernaccio (tre tumuli); 3. Doganaccia (due tumuli); 4. Poggio del Forno (dis. M. Monella).

maniera più o meno chiara intorno al perime­ tro dell'area dell'antica Tarquinia, e tre gravi­ tanti invece in maniera incontestabile attorno al vasto colle dei Monterozzi, futura necropo­ li di epoca storica. A metà circa dell'VIII se­ colo a.C., e comunque prima dello scadere del secolo, la situazione appare radicalmente rivoluzionata (fig. 6). Gli abitati sul colle dei Monterozzi (Corneto, Infernaccio, Calvario) vengono abbandonati, mentre contempora­ neamente scompaiono le necropoli gravitanti attorno al colle della Civita da O-NO (Civi-

rucola, Poggio Gallinaro) ed E (Poggio Sel­ ciatello, Selciatello di Sopra, Impiccato): qua­ si come per un paradosso, mentre l'area degli abitati «vincenti» sembra perdere le sue ne­ cropoli, gli abitati «perdenti» vedono valoriz­ zati i propri cimiteri. Manca ancora una valu­ tazione complessiva e al tempo stesso analiti­ ca sulla contemporaneità o meno di tale radi­ cale rivolgimento, che potrebbe dirci molto sul concreto attuarsi di questo sinecismo, in che misura cioè esso sia stato un fenomeno sincronico o non piuttosto - come si è porta-

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

ti naturalmente a pensare - il prodotto di un periodo sufficientemente lungo di conflitti tra villaggi o di crescita di alcuni con il conse­ guente declino di altri; ma la radicale inver­ sione tra abitati e necropoli e il costituirsi di una necropoli «generale» sul colle dei Monte­ rozzi dimostrano che, indipendentemente dalla dinamica del sinecismo, il risultato, alla fine dell'VIII secolo a.C., ha tutti i connotati di un processo governato, almeno alla fine, in maniera unitaria. Della cosa si ha in qualche misura una sorta di conferma nel fatto che sul luogo di tutte le necropoli virtualmente ab­ bandonate nella prima metà dell'VIII secolo a.C. sorsero grandiose tombe monumentali a tumulo: così i tumuli di Poggio Gallinaro e dell'Infernaccio poggiano sul luogo delle omonime necropoli e quelli della Doganaccia in prossimità dell'antica necropoli delle Arca­ telle, quasi a recar memoria delle antiche aree di sepoltura abbandonate sotto la spinta sine­ cistica e a riaffermare le autonomie dei prìn­ cipi, pur nell'ambito della città unificata. Ve­ dremo presto quale realtà sociale la spinta unificatrice sottenda. Diversa ci appare invece la situazione del processo di strutturazione della città di Veio. Come è documentato anche a Tarquinia, l'a­ rea della futura città storica presenta tracce di occupazione già nel Bronzo Finale, attestata dalla tomba protovillanoviana n. 838 della ne­ cropoli di Casale del Fosso, fino ad ora isola­ ta. L'«esplosione» dell'insediamento villano­ viano si verifica su di un medesimo, vastissi­ mo altopiano (fig. 7), con l'emergere di più villaggi, individuati in vari punti della vasta estensione di quell'altopiano coincidente con l'estensione dell'abitato di età storica: a que­ sti numerosi villaggi corrispondono due gran­ di necropoli a N e a E, nelle località di Quat­ tro Fontanili e di Grotta Gramiccia. L'occu­ pazione dell'area tuttavia non si limita al solo altopiano unitario, sede della città storica, dal momento che uno spezzone di abitato è stato individuato anche al di fuori dell'altopiano, in

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Fig. 7. Insediamenti e necropoli nell'area di Veio in età villanoviana. Insediamenti (in bianco): 1. Piazza d'Armi; 2/23. Rinvenimenti sull'altopiano. Necropoli (in nero): 1. Grotta Gramiccia; 2. Quattro Fontanili; 3. Valle La Fata (dis. M. Monella).

Piazza d'Armi, la cui necropoli va forse rico­ nosciuta nel non grande sepolcreto collocato nella sottostante Valle La Fata, un abitato de­ stinato a sopravvivere fino al VI secolo a.C., e dunque non cancellato dal processo sinecisti­ co verificatosi nel corso dell'VIII secolo a.C. Una necropoli «generale» simile a quella di Tarquinia, quindi, a Veio non è riconoscibile sul terreno. Al contrario, i sepolcreti tendono ad estendersi nelle aree contigue a quelle del­ le grandi necropoli villanoviane, delle quali, malgrado un lieve scarto di collocazione to­ pografica, sono di fatto una continuazione: la necropoli di Quattro Fontanili si estende nel­ la vicina Picazzano, mentre quella di Grotta Gramiccia prosegue, senza visibile soluzione di continuità, prima nell'attigua località di Casale del Fosso, poi, nel VII e VI secolo a.C., nella vicina altura di Riserva del Bagno. Tumuli come quelli di Monte Campanile,

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Fig. 8. Veio in età orientalizzante (le mura, indicate a tratto spesso se conservate e a tratteggio se di ricostru­ zione, sono di epoca arcaica). I nomi delle località delle necropoli sono indicate per esteso; i circoli indicano i grandi tumuli: 1. Monte Campanile; 2. Monte Oliveto; 3. Vaccareccia; fuori dei limiti della cartina, i tumuli di Monte Aguzzo e di Quaranta Rubbie (dis. M. Monella).

Monte Oliveto e Vaccareccia, al pari dei tu­ muli di Tarquinia or ora menzionati, sembra­ no voler ricordare il luogo di un'antica ne­ cropoli pertinente a un insediamento ingloba­ to nella città unificata, mentre allo spezzone di abitato, non integrato nel sistema urbano, di Piazza d'Armi potrebbe riferirsi la necro­ poli di VII-VI secolo a.C. sita nella località di Macchia della Comunità. I l sinecismo veiente si direbbe aver caratteri meno bruschi e coe­ renti di quello tarquiniese; ma ciò, se non è solo il prodotto della ricerca (ma non sono in­ cline a crederlo), può derivare dal carattere più compatto e meno frazionato della realtà di villaggio preurbano, frutto a sua volta di una diversa configurazione del suolo ovvero come appare più verosimile sul piano storico - di una fase di «colonizzazione» a carattere più ristretto e di una meno sensibile conco-

mirante preesistenza, nell'area della città e nel suo territorio, di fermenti protovillanoviani. Certo è che, come a Tarquinia, la nuova fase orientalizzante della prima metà del VII seco­ lo a.C., con il lievissimo spostamento del sito delle necropoli principali ed il declino di quelle minori, segna in maniera visibile il sal­ to di qualità di fresco avvenuto nel processo di costituzione dell'unità urbana. I due esempi di Tarquinia e di Veio ap­ paiono paradigmatici per delineare forme e tendenze dei processi sinecistici, che in area etrusco-latina prendono forma incontestabile a metà dell'VIII secolo a.C. Ambedue i casi mostrano che i primi fermenti si collocano nell'età del Bronzo Finale, più marcati si di­ rebbe a Tarquinia e meno a Veio. Il vero, pri­ mo salto di qualità è rappresentato dalla fase colonizzatoria della prima età del Ferro, lar­ gamente coincidente con il IX secolo a.C., quando nuclei di villaggi vanno a coagularsi in aree ben definite, dai caratteri morfologici sostanzialmente unitari: si tratta di alture mol­ to estese, lambite da corsi d'acqua, in genere tendenti a circondare l'insediamento, e so­ prattutto collocate in prossimità di terre ferti­ li, che hanno la fisionomia di altopiani facil­ mente difendibili su tutti o quasi tutti i lati. A Veio, il contorno dell'altopiano tufaceo è ben fissato fin dall'inizio della frequentazione: si tratta di una vastissima estensione di terra dalla superficie mossa, ma tendenzialmente pianeggiante, dai bordi scoscesi, incisi da profonde gole a E e a O, nelle quali corrono il Cremera e il suo affluente Fosso della Mo­ la. Adiacente a S a questo altopiano così ben difeso naturalmente e alla confluenza dei tor­ renti appena ricordati, ve ne è un altro, di ri­ dotte dimensioni, la collina di Piazza d'Armi, abitato sin dall'età villanoviana, che ricevette attorno alla metà del VI secolo a.C. un pro­ prio sistema difensivo, prima di essere abban­ donato verso la fine dello stesso secolo; un al­ tro possibile, ma discusso insediamento villa­ noviano, quello collegato a Monte Campani-

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Fig. 9. Tarquinia, l'abitato di epoca più antica (da Rasenna).

le, sarebbe stato abbandonato già nell'VIII secolo a.C. In definitiva, il perimetro della città storica di Veio può essere letto «in fili­ grana» fin dalla prima età del Ferro, anche se lo spezzone non integrato di Piazza d'Armi è sopravvissuto alla fase sinecistica di VIII se­ colo a.C. per altri due secoli. A Tarquinia invece il processo di unifica­ zione mostra segni più marcati, per la mag­ gior dispersione dei villaggi sorti nella prima età del Ferro (essa stessa prodotta forse da una più vivace fase protovillanoviana); l'alto­ piano prescelto dal sinecismo è quello della Civita, in luogo dell'altro, dalle caratteristiche non dissimili, ma di dimensioni assai più ri­ dotte, che forse proprio per questa sua mino­ re estensione fu scartato come sede dell'inse­ diamento sinecistico. In una prima fase, l'abi­ tato sembra limitato all'estremità occidentale

del colle della Civita, ben definito a N e a S dalle valli percorse dal Fosso S. Savino e dal Fosso degli Albucci e ad E da una strozzatu­ ra naturale, nella quale forse si riscontrano tracce di un sistema difensivo arcaico e di un primitivo fossato (fig. 9). L'impianto urbani­ stico della città di epoca classica ed ellenisti­ ca, rintracciato dalle prospezioni magnetiche della Fondazione Lerici, mostra esattamente in quel punto una vistosa cesura e, nella par­ te occidentale della Civita, un'organizzazione di tipo quasi regolare, impostata su di una grande strada centrale E-0, che corre sulla dorsale del colle e sulla quale si articola, con una lieve declinazione NNE-SSO, un sistema di strade perpendicolari alla precedente e fra loro parallele. Vedremo più avanti il significa­ to e la cronologia dell'impianto: per ora sarà sufficiente notare che oiù di un indizio con-

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Fig. 10. Pianta di Vulci (da La romanizzazione dell'E­ truria).

corre a dimostrare che il sinecismo con ogni probabilità ebbe luogo in questo settore occi­ dentale del colle, delineando un abitato colli­ nare a forma di ampia lingua di terreno dife­ so per tre lati naturalmente e per un quarto da un possibile aggere o muro con relativo fossato, in tutto simile a decine di abitati del­ l'Etruria e del Lazio. I due casi di Tarquinia e di Veio, meglio conosciuti fra tutti quelli alle origini delle metropoli storiche d'Etruria, ap­ paiono emblematici per tutti i sinecismi o gli sviluppi urbani etrusco-latini. Il caso di Tar­ quinia è molto simile a quello di Roma, come vedremo; il caso di Veio è ripetuto da altri centri, da Vulci (fig. 10) a Narce (fig. 11) e a Falerii. Naturalmente possiamo parlare con una certa sicurezza di sinecismo e di processi di unificazione solo nel caso delle città mag­ giori; accanto a queste, infatti, dobbiamo col­ locare una notevole quantità di insediamenti minori, sviluppatisi da villaggi isolati, che vis-

Parte I. L'età regia e repubblicana

sero con alterne fortune, tra IX e VI secolo a.e., finché allo scadere del VI secolo furono conquistati, distrutti, e successivamente tutti o in parte ricostruiti sotto forma di oppida, vi­ ci e castel/a, parti di un sistema di gestione e di difesa dell'ager, del territorio dipendente dalla metropoli. Sempre per citare un caso meglio noto fra tutti, quello di Roma e del La­ zio, molti di questi centri minori coincidono con quei 53 oppida in età imperiale ricordati (Plinio, Naturalis Historia V, III, 70) come centri che interiere sine vestigiis, scomparsi cioè senza lasciar traccia, ma importanti in età regia, quali Cabum, Caenina, Politorium o Tel­ lenae, per ricordarne solo alcuni fra i tanti. Da tutte queste considerazioni emerge chiaramente il carattere processuale della de­ finizione della specifica morfologia della città etrusca e latina, cui si è fatto cenno sopra. Questi processi possono essere lenti e non se­ gnalati - per quanto ci è dato di sapere - da eventi vistosi, come è il caso di Veio, o vice­ versa accompagnati da profonde innovazioni nelle forme dell'insediamento, come è il caso di Tarquinia (anche se questo può essere il frutto di una documentazione più abbondan­ te); in tutti i casi, la nascita della specifica for­ ma urbana etrusca e latina fu comunque un fenomeno di lungo periodo, di cui possiamo individuare alcune parti salienti. La premessa è costituita dalla creazione, prima nel Lazio e poi nell'Etruria, di vasti sistemi insediativi composti da una pluralità di villaggi di pro­ porzioni limitate nell'età del Bronzo Finale, tra XI e X secolo a.C., e dall'emergere di for­ me marcate di proprietà privata della terra; la prima tappa va invece riconosciuta nella colo­ nizzazione villanoviana (e, poco più tardi, protolatina) di IX secolo a.e., quando i siste­ mi insediativi si orientano in modo marcato in direzione di terre pianeggianti e fertili, ricche di risorse primarie, e quando si delinea la net­ ta importanza di gruppi di villaggi concentra­ ti in altopiani o in bassi sistemi collinari omo-

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Fig. 11. Pianta degli abitati di Narce con gli spezzoni di insediamento muniti di proprie cinte difensive (da Potter).

genei e facilmente difendibili, aree cioè delle future strutture urbane. Il passo decisivo si registra nell'VIII secolo a.C. con una marcata unificazione dei villaggi inseriti entro un uni­ co altopiano o gravitanti attorno ad un siste­ ma di alture vicine, chiaramente indiziata dal­ la creazione di una o due necropoli unitarie; il successivo secolo VII a.e. vede la crescita del centro unificato ed il rafforzamento delle strutture unitarie e del peso demografico a spese anche di insediamenti minori dislocati in un territorio sempre più vasto attorno al nucleo della città. Agli inizi del VI secolo a.e.

la città è definitivamente costituita e si fanno ulteriormente visibili i segni materiali e ideo­ logici della realtà urbana ormai pienamente funzionante in senso istituzionale e politico, con fortificazioni ed edifici monumentali sacri o destinati a riunioni collettive. Descrivere questo processo come una linea di sviluppo unitaria e costante è senza dubbio fallace, ed i meglio noti casi di Tarquinia e Roma ce lo insegnano: è forse più veritiero parlare di una serie di salti di qualità non uguali e non con­ temporanei ovunque, che tuttavia si iscrivono in una linea di tendenza generale omogenea

22 nella vasta area tra Etruria meridionale e Campania, salti di qualità di cui è opportuno sottolineare le matrici socio-economiche e ideologiche. La società del IX secolo a.C., come quella precedente dell'età del Bronzo Finale, tende a rappresentarsi come omogenea ed «egualita­ ria», a giudicare dai corredi funerari caratte­ rizzati da pochi materiali egualmente distri­ buiti nelle tombe, che sottolineano funzioni produttive in relazione al sesso, agricoltori e guerrieri i maschi, produttrici di lane e tessu­ ti le donne: non siamo in grado di affermare, sulla base della documentazione archeologica in nostro possesso, se questa «uguaglianza» fra nuclei familiari fosse reale o semplicemen­ te imposta dalle particolari regole del cerimo­ niale funerario; e anche altri elementi di do­ cumentazione archeologica, nel caso specifico le capanne, abbastanza omogenee per dimen­ sioni e forme, sembrano indirizzarci verso una conferma dell'ipotesi di una sostanziale uguaglianza economico-sociale tra i membri della comunità. Tutto ciò sembra cozzare con il rapido mutamento nella distribuzione delle ricchezze nelle tombe della prima metà dell' VIII secolo a.C., che presuppone una fase precedente tutt'altro che breve, in cui ha avu­ to luogo un ben preciso processo di accumu­ lazione; analogamente, per quel che riguarda le capanne, nei pochi casi in cui non ne è sta­ to scavato un esemplare singolo, ma un grup­ po, si è notato non solo che se ne distingue spesso una per collocazione, enfatica o cen­ trale, ma anche che più in generale il fatto stesso che tendano a formare gruppo lascia presupporre che le singole famiglie nucleari fossero collocate una per capanna. Per questo motivo, mi sembra più coerente parlare di due fasi ben distinte: nella prima si colloca la costituzione di queste disuguaglianze, in virtù della stessa diseguale realtà rappresentata dal possesso privato della terra (ma ancora conte­ nuta entro vincoli ideologici di sostanziale

Parte I. I: età regia e repubblicana

eguaglianza sociale e forse tuttora incapace di uscire da quegli involucri ideologici) coinci­ dente con il X-IX secolo a.C.; nella seconda fase si può parlare di raggiunta coscienza del­ le differenze sociali e di un conseguente al­ lentamento delle forme cerimoniali di con­ trollo sociale, coincidente con l'VIII secolo a.C. In siffatte tensioni e nel parallelo conflit­ to certamente scatenatosi nei gruppi e nelle comunità di villaggio per il dominio sulla ter­ ra, si va delineando in nuce un nuovo sistema sociale destinato a durare per secoli: sia nel Lazio sia nell'Etruria la forma di dominio più adeguata per rispondere ai conflitti, verosi­ milmente continui e feroci, generati all'inter­ no dei villaggi e poi tra villaggi diversi dal bi­ sogno di controllare terre sempre più estese e ricchezze sempre più grandi, viene fissata nel gruppo gentilizio, detto latinamente gens, do­ minato da principes, i «primi», e composto da individui consanguinei e non, questi ultimi as­ similati ai consanguinei sul piano ideologico (ma non certo su quello politico-economico e militare), vista la unicità formale e sostanziale del potere economico-sociale incarnato dalla figura del pater e del controllo religioso al­ l'interno dei sacra gentilicia, per l'intero grup­ po, indipendente dal grado di consanguineità. Questo sistema sociale era destinato a re­ stare in funzione a Roma per quattro lunghi secoli, fino alla riforma istituzionale, sociale e politica di epoca medio-repubblicana intro­ dotta dalle leggi Licinie-Sestie (367 a.C.), e in Etruria forse anche più a lungo, soprattutto in quella settentrionale, meno sviluppata sul pia­ no socio-economico, fino al III e talora al II secolo a.C. Esso prevedeva che il capo del gruppo assumesse le funzioni, mutuate da quelle del pater/amilias, di capo indiscusso, garante dei rapporti interni ed esterni del gruppo, e che i membri non consanguinei del gruppo medesimo, detti nel lessico socio-po­ litico romano arcaico clientes, e in quello etrusco, conservatoci nella «traduzione» lati-

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

na, servi, godessero di libertà civili e formali, pur se limitate dall'assenso del capo, restando però sostanzialmente non liberi nei concreti rapporti economico-sociali. È nella costituzio­ ne di siffatti rapporti di produzione che dob­ biamo vedere una delle caratteristiche princi­ pali della città arcaica etrusco-latina, ma non la sola. Infatti, se da un lato i principes di que­ sti gruppi dovevano avere interesse ad istitui­ re forme di cooperazione con altri loro pari, ad allargare le proprie clientele con sinecismi forzati, derivati dalla distruzione di insedia­ menti rivali e dall'assoggettamento delle rela­ tive popolazioni, e perciò ad entrare nelle compagini urbane in sviluppo, è pur vero che accanto a queste spinte centripete non pote­ vano non sussistere altrettante tendenze cen­ trifughe, che sollecitavano queste medesime aristocrazie a crearsi domini totalmente auto­ nomi, sospingendo i principes nella campa­ gna: non dimentichiamo al riguardo che sede tradizionale delle oligarchie antiche non fu la città, ma la campagna, come testimonia ad esempio Teofrasto (Characteres XXVI, 6). La costituzione delle aristocrazie gentilizie è per­ ciò un fenomeno che vide la luce quando e dove già esistevano delle prime ed embriona­ li solidarietà intrecciate tra famiglie e villaggi vicini; entro tali solidarietà dovette avvenire quel processo di formazione, in seno ai grup­ pi aristocratici, di una autocoscienza della propria egemonia, che abbiamo collocato tra la metà dell'VIII e gli inizi del VI secolo a.e., cuore del pieno sviluppo urbano in Etruria come nel Lazio. Tutto ciò peraltro corrispon­ de assai bene a quanto detto sui due primi salti di qualità all'interno del processo di for­ mazione urbana: il secondo salto di qualità, l'atto di nascita delle aristocrazie, sorge all'in­ terno del primo, la colonizzazione di nuove terre portata avanti in Etruria nella prima fa­ se villanoviana (IX secolo a.e.) e nel Lazio al­ la fine del IX-inizi dell'VIII secolo a.e. È ca­ ratteristico che là dove le aristocrazie non

23 emersero con la stessa prepotenza di quelle etrusco-meridionali, la città non nacque, co­ me è ad esempio il caso dei villaggi della Bo­ logna villanoviana, o al contrario, là dove non vi fu una pluralità di villaggi villanoviani, non si ebbe una vera città di epoca storica, ma op­ pida dominati da reguli o da principes, come avviene in tutti gli insediamenti minori del­ l'Etruria, da Acquarossa a Murlo, e destinati a sparire o ad essere centri satelliti delle gran­ di metropoli arcaiche. Ai fini dello sviluppo urbano, i due salti di qualità sono dunque collegati fra loro. Accan­ to ad essi però dobbiamo collocare anche al­ tri fattori di sostanziale importanza: il primo è rappresentato dall'affiorare precoce, nel corso dell'VIII secolo a.e., di strati di popo­ lazione, collegati ai bisogni di prestigio dell'a­ ristocrazia egemone e al parallelo manifestar­ si di un vasto fenomeno di divisione del lavo­ ro, che fa nascere in primo luogo artigiani e mercanti di origine locale o straniera, che l'a­ ristocrazia tenderà sempre ad assorbire all'in­ terno del proprio gruppo; il secondo fattore è dato dalla probabile sopravvivenza di piccoli contadini liberi, l'importanza e il numero dei quali devono essere andati progressivamente scemando nei secoli VII e VI, ma che ancora nella fase protostorica dovettero svolgere un ruolo attivo nella produzione, pur nella cre­ scente loro subordinazione economica e so­ ciale ai protagonisti dell'ascesa sociale aristo­ cratica. L'intreccio dei tre distinti, ma connes­ si fenomeni - costituzione del rapporto socia­ le di produzione dominante della servitus­ clientela, articolazione crescente dei ceti so­ ciali per la progressiva divisione del lavoro e per il diffondersi dello scambio, e sopravvi­ venza, ma sempre più limitata e difficile, di produttori liberi - va considerato il terreno di coltura della città arcaica e al tempo stesso della formazione di ceti urbani non soggetti al vincolo di dipendenza clientelare o semi-ser­ vile, dai quali deriverà la tensione sociale sol-

24 levata nel corso del V e del IV secolo a.C. dal­ la plebe. La rilevanza economica e demogra­ fica dei ceti artigiani e mercantili è un feno­ meno che si colloca tra VII e VI secolo a.C. e rappresenta W1 fattore importante di crescita urbana nella fase finale della nascita della città. Al contrario, l'entità numerica e, perciò stesso, il peso economico dei piccoli proprie­ tari, quali è possibile giudicare dai corredi delle tombe, sono un fattore di relativa im­ portanza nella fase più antica della genesi ur­ bana. Comunque, tra questi due estremi cro­ nologici del processo di definizione della so­ cietà e dell'economia della città etrusca e lati­ na, tra la metà dell'VIII e la fine del VII se­ colo a.C., si staglia prepotente l'ascesa politi­ co-sociale dell'aristocrazia, alla quale va attri­ buita la responsabilità della particolare forma urbana assunta dalle città dell'Etruria meri­ dionale e del Lazio e che condizionerà poi, con le sue esigenze economiche e i suoi mo­ delli culturali, gli sviluppi successivi di quelle città e, più in generale, della città etrusca e italica fino al IV secolo a.C.

3. Sviluppo urbano e ideologia nella città ar­ caica Tutti i processi di sviluppo urbano dell'I­ talia antica si accompagnano a una formaliz­ zazione di istituti religiosi, che, originari della fase preurbana, vengono tuttavia pienamente recuperati nel nuovo schema di vita collettiva, ora riplasmati a seconda delle esigenze impo­ ste dall'organismo urbano, ora addirittura as­ sunti quali elementi condizionanti la forma stessa della città. Ciò naturalmente è coeren­ te con le forme mentali di società arcaiche, che, nell'atto stesso di dar vita a strutture so­ ciali e abitative diverse da quelle proprie del­ le comunità di villaggio pre-protostoriche e di queste di gran lunga più complesse, purtutta­ via continuano a «pensare» (e in qualche mo-

Parte I. L'età regia e repubblicana

do a vivere) la nuova realtà nelle stesse coor­ dinate ideologiche della società precedente; e ciò senza contare che in queste società arcai­ che il fattore ideologico più rilevante e in cer­ ta misura capace di orientare i processi, quel­ lo religioso, è una struttura di forte conserva­ zione, che innerva e scandisce tutti gli atti fondamentali della vita associata, fino a dare alla stessa forma urbana una veste religiosa in funzione più o meno diretta dell'assetto poli­ tico e istituzionale. Senza la religione e senza la ritualità, che caratterizza in maniera deter­ minante la religione romana e in genere tutte quelle dell'Italia antica, non è possibile com­ prendere gran parte delle forme assunte dalla città nella Penisola. In questo contesto, la dottrina augurale, quale è a noi nota dai testi romani, ma anche dal grande rituale umbro delle Tavole di Gubbio o da documenti epigrafici e archeo­ logici etruschi, latini o italici, costituisce una formidabile gabbia normativa, la cui influen­ za trascende il semplice atto divinatorio ese­ guito in funzione dell'investitura dell'impe­ rium, ossia della capacità di comando milita­ re e civile del rex prima, dei consoli e dei pre­ tori poi. L'auspicio, infatti, nel momento in cui prevede l'atto preliminare di prospectum in urbem agrumque capere (Livio I, 18), di prendere possesso della «vista», detta anche spectio (necessaria all'atto dell'auspicio vero e proprio), in direzione della città e della cam­ pagna, dall'Arx, la «rocca» della città (dalle fonti addirittura definita come identica all'au­ guraculum: Pesto, p. 176 L), prevede una di­ stinzione - basata, come caposaldi, sugli albe­ ri - degli spazi abitati dalla campagna e, al­ l'interno dell'abitato, degli spazi in rapporto alle funzioni, sacralizzando tali distinzioni e relative funzioni: ricordiamo infatti che agli auguri spettava la definizione (e l'eventuale allargamento) della linea del pomerium, di quella linea cioè pone (arcaico per post) mu­ rum (donde pomerium) che segnava il limite

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

tra urbs e ager, e che ancora una volta gli au­ guri curavano che la spectio, il campo visivo per l'osservazione del volo degli uccelli, fosse sempre preservata, al punto di ordinare de­ molizioni di edifici che con quella spectio in­ terferivano, come è il caso della troppo eleva­ ta casa di Ti. Claudio Centumalo sul Celio, o anche la modifica di progetti, come accadde per gli stessi motivi con il tempio di Honos e Virtus voluto da C. Mario. La centralità delle procedure dell'auspicio in quanto matrici del potere, e la minuziosa ritualità nell'indicazione e nella misura degli spazi del cielo e delle proiezioni di questi spa­ zi sul terreno (i tempia inaugurata) fecero sì che in epoca arcaica la dottrina degli auguri venisse di fatto a coincidere con il sapere tec­ nico nel campo della misurazione delle super­ fici sia della città sia della campagna: ancora in epoca tarda, gli scritti di agrimensura a noi pervenuti in un corpus di vari autori detti Cromatici pullulano di disciplina augurale, che costituì, anche dopo la «laicizzazione» del sapere tecnico in età ellenistica, il fondamen­ to di ogni sistematica nel campo delle divisio­ ni dei terreni per deduzioni coloniali e nella pratica agrimensoria in generale. Le modalità teoriche di base che presiedono alle tecniche di divisione agraria romana riprendono infat­ ti linguaggio e forme del diritto augurale, dal1'orientamento all'individuazione delle strut­ ture geometriche fondamentali per il catasto, il cardo o linea antica, asse elementare N-S, il decumanus o linea postica, asse ortogonale al cardo con andamento E-0, la decussis, punto di incrocio fra le due lineae precedenti, i cip­ pi o termini, segnali in pietra disposti a mar­ care limites o /ines dell'augurium (e nelle pra­ tiche agrimensorie i punti base della limitatio agrorum); e la lista potrebbe continuare. La delimitazione dei grandi spazi si accompagna alla delimitazione dei piccoli spazi destinati alla vita collettiva, ogni passo della quale in epoca arcaica è definito in termini religiosi

25 mediante l'intervento degli auguri, incaricati di e/fari Oett. *ex-fari, «dire fuori»), di «libe­ rare dagli spiriti», le porzioni di suolo neces­ sarie allo svolgimento di tali funzioni politico­ sociali. Compito degli auguri è difatti quello di e/fari tempia, di delimitare e purificare le superfici di recinti ed edifici per cerimonie collettive politico-religiose: secondo l'etimo puro della parola, templum è prima di tutto uno spazio «tagliato» del cielo (di qui per si­ neddoche, il cielo tutto) o della terra, proie­ zione immaginaria di quella porzione celeste, spazio entro il quale deve sedere l'auspicante, ossia l'individuo titolare dell'auspicio, perché designato a compiti politici (e sacerdotali giacché nella mentalità arcaica non c'è distin­ zione tra sacro e politico), assistito dall'augu­ re grazie a una sorta di contratto, i cui termi­ ni sono a noi noti nel testo del grande rituale umbro delle Tavole di Gubbio. Di questi tem­ pia auguralia sono pervenuti a noi, oltre a scarne descrizioni nella letteratura antiquaria romana, alcuni esempi, il principale dei quali è il templum di Bantia, cittadina lucana pres­ so l'odierna Banzi in Basilicata (fig. 12). Co­ struito per ottenere l'agognato statuto di città di diritto romano agli inizi del I secolo a.C., il templum bantino si presenta come uno spazio rettangolare perfettamente orientato, delimi­ tato da cippi con le indicazioni abbreviate della natura dell' augurium proveniente da cia­ scuna direzione o spazio celeste, e originaria­ mente recinto da pali congiunti da tavole li­ gnee o bende di lino, che misurava 9,20x7,60/ 8,80 compresi i cippi, a comporre forse un quadrato di 30 piedi di lato all'interno dei cippi. Un altro esempio, ma pertinente alla vi­ ta del centro indigeno di Forentum (fig. 13), la moderna Lavello, non troppo distante da Bantia, risale al V secolo a.C. e presenta una successione di tre tempia, di cui due in legno e uno in muratura, tutti dalle misure molto si­ mili: il più antico misurava ca. m 6,60x4,50, il secondo ca. m 7,00x4,70 e il terzo, dalle mi-

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Fig. 12. Il templum augurale di Bantia (da Torelli, RAL 1969).

Fig. 13. Il templum augurale di Lavello (da Torelli, Tota

Italia).

sure del tutto certe, m 6,90x4,80, un dato questo che ci induce a ritenere che i tre tem­ pia avevano identiche dimensioni, pari a 24x16 piedi, con un rapporto di 3 a 2. Infine, un terzo esempio di pieno VI secolo a.C., è noto in un santuario extraurbano della città venetica di Este in località Meggiaro (fig. 14), ed è un semplice spazio rettangolare, di m 5x 7,50, lungo i bordi del quale sono profon­ damente infissi otto cippi tondeggianti di tra­ chite. Un altro esempio, ma assai meno certo di quelli finora discussi, è il presunto tem­ plum di Cosa, colonia latina fondata nel 273 a.C. presso l'attuale Ansedonia, che lo scava­ tore F.E. Brown ha collegato con la fondazio­ ne della città: si tratta di una fossa rettangola­ re ritagliata nella roccia, di proporzioni non dissimili (m 7,40x7,40, pari a 25 piedi e con un perimetro dunque di 100 piedi) da quelle del templum di Bantia, ma a differenza di questo e degli altri di Lavello ed Este non presenta segni della sacrale limitatio con cip­ pi o con pali (né, in alternativa, i pozzetti per l'alloggiamento di questi). Tutti questi tempia, che rappresentano una preziosa verifica di quanto i testi, non sempre perspicui, descrivono in materia di auspicio e di augurio, sono di straordinaria importanza, non solo perché dimostrano che il rituale augurale è panitalico, noto ai Latini, agli Etruschi, agli Umbri, alle molte stirpi san­ nitiche, ma anche perché rappresentano gli incunaboli della mentalità religiosa e delle formulazioni tecniche dell'attività degli augu­ ri, in relazione sia alla costituzione di tutti gli altri tempia sia alla limitatio degli spazi pub­ blici. È chiaro ad esempio che la linea fonda­ mentale per la costruzione del templum è quella E-O, come dimostra il fatto che nei cippi di Bantia questa linea, attraversante il centro del templum, è marcata da nomi di di­ vinità, a E Iuppiter, e dunque Giove somma divinità celeste, al centro Sol, ossia l'astro gui­ da dell'intera attività augurale, a O Flusa, no-

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me sannitico di Flora, dea degli inferi e del1'occaso: come tramandano le fonti, il primo gesto dell'augure, con il suo bastone ricurvo sacro, il lituus, era quello di tracciare una li­ nea nel cielo (e poi la sua proiezione sulla ter­ ra) ab oriente ad occasum, linea del decumanus che costituirà poi l'asse fondamentale dell'or­ ganizzazione tanto del catasto urbano per le fondazioni coloniali, quanto del catasto agra­ rio per le divisioni delle terre nelle centuria­ zioni. Questo dettaglio ci consente di scartare da un lato alcune interpretazioni della pratica urbanistica romana troppo impregnate di teo­ sofia augurale (non sono mancate letture, del tutto infondate, della città romana come tem­ plum), dall'altro l'enfasi esclusivamente mili­ tare nell'attività di fondazioni coloniali e di divisioni agrarie: la città, pur essendo interes-

sata dal rito dell'auspicio, perché è per essa che il cerimoniale augurale viene messo in at­ to, non viene mai descritta con i termini con i quali si parla di tempia augurali; per altro verso la cerimonia del sulcus primigenius e della conseguente definizione del pomerium, rito essenziale nella fondazione· di una città, e quindi di una colonia, è guidata dagli auguri, anche se il popolamento e l'organizzazione iniziale della colonia seguono logiche assolu­ tamente militari. Come si è detto, la tecnica dell'auspicio è stato il primo e fondamentale approccio che si è avuto nella preistoria della Penisola al problema dello spazio e gli auguri sono stati a lungo gli unici depositari del sapere tecnico della geometria e dell'agrimensura. Applicato prima all'augurium, questo sapere venne poi

Fig. 14. Il templum augurale di Este, disegno ricostruttivo (da EJte preromana).

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• Fig. 15. Il templum augurale e (in nero) il sito del tempio di luppiter sull'Arx di Cosa (da Brown).

usato per la costituzione di tutti i tempia, fra i quali spiccano i luoghi per le assemblee pub­ bliche, le Curiae per le riunioni delle cellule sociali urbane e per l'assemblea del senato, e i comitia per le riunioni del popolo nelle varie successioni di forme aggregative, dai comitia curiata della città arcaica, ai comitia centuria­ ta della città timocratica da Servio Tullio in poi, e infine ai comitia tributa della città pa­ trizio-plebea. Analogamente, per lo stesso fat-

to di essere la cerimonia alla base dell'investi­ tura dell'imperium, la tecnica della limitatio degli auguri divenne strumento dell'organiz­ zazione del castrum, sede della legio (ossia del popolo in armi) della colonia romana e del1' ager, diviso fra i coloni, in quanto terra oc­ cupata da cittadini romani. Fu, in altre paro­ le, l'estensione progressiva di una tecnica ori­ ginariamente sacrale nel terreno civile, e non, come ritiene certa cattiva letteratura moder-

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na, l'ossessiva sacralizzazione di procedure ci­ vili, che finì con il condizionare gli sviluppi e le complesse applicazioni della limitatio, an­ che se, fino all'epoca imperiale, non venne mai meno il nesso originario tra diritto (e tec­ nica) degli auguri e formulazione concreta della delimitazione degli spazi, come prova l'intervento del collegio degli auguri nella fis­ sazione dei cippi del pomerio avvenuta anco­ ra all'epoca di Adriano (CIL VI, 1235) o, dal­ l'altro verso, la tradizione antiquaria (Tacito, Anna/es XII, 24), che voleva che gli angoli del pomerio più antico della città, attribuito a Ro­ molo, coincidessero tutti con luoghi inaugu­ rati, l'Ara Massima di Ercole nel Foro Boario presso la riva del Tevere, l'Ara di Conso all'e­ stremità nord-orientale del Circo Massimo, le Curiae veteres presso l'arco di Costantino e il sacello di Larunda nel cuore del Foro Roma­ no, probabilmente presso lo sbocco del Vicus Tuscus (fig. 16). Il rapporto tra augurium e forma urbana primitiva è senza dubbio stret­ tissimo e le complesse formule del rituale um­ bro delle Tavole di Gubbio, al di là delle dif­ ficoltà presenti nella identificazione esatta dei luoghi menzionati nel testo, lo confermano. Un'ulteriore conferma proviene dalla scoper­ ta, agli incroci della città etrusca di Marza­ botto, di cippi recanti sulla sommità la croce della decussis per l'orientamento delle strade di questa città fondata dagli Etruschi nella Valle Padana con precise procedure rituali nel corso del VI secolo a.C., un vero e proprio se­ gno progenitore della decussis che compare nei cippi delle divisioni agrarie tardo-repub­ blicane, come quelli, notissimi, delle limita­ tiones graccane presenti in diverse aree dell'I­ talia. D'altro canto, si ritiene che il templum augurale di Cosa, se come tale dobbiamo identificarlo, è stato pensato e realizzato in funzione dell'intero impianto urbanistico del­ la città fondata ex novo come colonia latina nel 273 a.C.: se l'ipotesi di Brown corrispon­ de a verità, ciò dimostrerebbe come ancora in

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Fig. 16. Il pomerium Ramuli, definizione di natura sa­ crale dell'abitato palatino di Roma protostorica (dis. M. Monella).

piena età ellenistica il modello urbano fosse sentito come qualcosa di strettamente legato alle norme del diritto augurale. Gli indirizzi fondamentali dello sviluppo urbano sono dunque plasmati in maniera molto articolata dalle dottrine arcaiche del­ l'augurio, che intervengono fin dalle origini, per le ricordate esigenze magico-religiose, a «segnalare» la forma urbana in generale, dal­ la localizzazione all'aspetto dei luoghi del sa­ cro e del politico, e ciò fino a comprendervi nuclei cruciali dell'impianto urbanistico, ov­ vero i collegamenti tra questi luoghi, come in­ segna il caso della Sacra via di Roma. Analo­ gamente, nel processo di formazione della città arcaica, i centri cruciali della vita religio­ sa e associata preurbana vengono a condizio­ nare aspetti particolari dell'impianto urbano, riassorbiti e spesso anche rivalorizzati nel nuovo contesto cittadino. Gli antichissimi luoghi di culto vengono, dove possibile, rein­ seriti nella forma urbana sin dai primordi e l'esempio di Roma dimostra l'entità dello sforzo fatto dai gruppi sacerdotali (e dunque dalla classe dominante), perché santuari dei villaggi preurbani, santuari collettivi di origi-

30 ne tribale o intercomunitaria, e perfino san­ tuari gentilizi prestigiosi potessero entrare nella realtà urbana: la misura di questo gran­ de sforzo teorico-pratico può leggersi nella straordinaria elaborazione del calendario ar­ caico di Roma, un'operazione realizzata nelle grandi linee nel VI secolo a.C., in cui misura del tempo e misura dello spazio si compene­ trano profondamente, attraverso rituali e fe­ ste, nella costruzione di un paradigma simbo­ lico del ciclo biotico dell'uomo e della natura lungo l'arco dell'anno, penetrato in luoghi si­ gnificativi dalla forma urbana. Un elemento religioso di particolare im­ portanza nella costituzione della struttura ur­ bana è la separazione fra «città dei vivi» e «città dei morti», separazione netta osservata da tutte le culture protostoriche della Peniso­ la, con l'eccezione di quelle dell'area apula, ove i morti, sepolti attorno alle capanne pri­ ma e alle case poi, virtualmente convivono con i vivi, evidentemente in ossequio di spe­ cifiche finalità e forme del culto gentilizio e familiare degli antenati, che dobbiamo sup­ porre fosse un collante particolarmente forte per quella società. Ma tranne questa vistosa eccezione, le necropoli dei villaggi e le necro­ poli delle città si dislocano in aree nettamen­ te e fisicamente separate dagli abitati e, come abbiamo visto, la vicenda della «nascita» del­ la città trova nella topografia delle necropoli una delle più significative «cartine di tornaso­ le» per la individuazione dei processi di svi­ luppo urbano. Ma anche una serie di rituali iniziatici, basati sulla segregazione di indivi­ dui organizzati per sesso e per classi di età, rappresenta un forte condizionamento per la genesi e lo sviluppo della città arcaica. Con­ servati in maniera frammentaria nella piena età storica e spesso non più intesi, questi ri­ tuali, che presuppongono un «dentro» e un «fuori» rispetto agli spazi del sociale e del po­ litico, oltre che del sacro, marcano punti ne­ vralgici nella struttura urbana. Ancora una

Parte I. L'età regia e repubblicana

volta gli esempi di Roma, gli unici a noi noti in maniera sufficientemente completa grazie alla conservazione delle tradizioni letterarie e alla sopravvivenza in epoca storica degli isti­ tuti, possono illustrare il fenomeno. Possiamo partire da uno degli istituti fondamentali per la vita sociale della collettività, le iniziazioni giovanili. Il momento della maturazione pu­ berale dei giovani maschi e delle fanciulle è accompagnato da rituali collettivi di tipo pe­ dagogico-simbolico che attraversano la realtà urbana e i suoi punti di maggiore carica ideo­ logica. I giovani maschi vengono simbolica­ mente ammessi nella comunità civile attraver­ so il rituale del duplice collegio dei Salii: ar­ mati con panoplie in uso nell'VIII secolo a.C. (indizio, questo della cronologia, non dell'isti­ tuto, ma del «congelamento» del rito avvenu­ to in concomitanza con la prima organizza­ zione urbana), 12 giovani del collegio dei Sa­ lii Palatini, simbolo della primitiva comunità di villaggio del Palatino, ed altrettanti giovani del collegio dei Salii Collini, incarnanti la co­ munità «rivale» del Quirinale, nei primi gior­ ni di marzo, inizio dell'anno agrario e del ci­ clo della guerra, danzano per le vie della città e nello spazio del Comizio, sia per mimare il leggendario scontro tra Latini e Sabini alla base della nascita dell'urbs sia per dar prova simbolica delle proprie capacità guerriere, e cioè delle proprie attitudini ad assolvere il compito principale del cittadino, quello della guerra. Il percorso della simbolica danza ci è ignoto, ma sicuramente comprendeva alcune tappe all'interno della città: le Curiae Salio­ rum, ovvero i luoghi di riunione dei collegi, la regia, la residenza del rex, nella quale erano conservati gli ancilia, gli arcaicissimi scudi a forma di otto forgiati, secondo la leggenda, dal bronzista veiente Mamurio Veturio sul modello di un mitico prototipo fatto cadere dal cielo da Marte; punto di arrivo della pro­ cessione danzata doveva essere il Comizio, se­ de del rito della deductio in Forum dei giova-

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ni maschi puberi, letteralmente la «presenta­ zione nel Foro», da parte dei padri per il ri­ conoscimento da parte della città nel luogo a ciò deputato, la sede dell'assemblea popolare, luogo nel quale assistono alla performance dei giovani i tribuni celerum, gli ufficiali della ca­ valleria arcaica, evidentemente per «certifica­ re» le capacità guerriere dei giovani. Viste le localizzazioni delle tappe conosciute, è pro­ babile che la danza si snodasse sulla Via Sa­ cra, percorso in origine extraurbano e asse re­ ligioso fondamentale della primitiva città. Ma è anche possibile che il corteo iniziasse attra­ versando il tigillum sororium, porta urbica li­ gnea (tigillum, da tignum, «legno») della città dell'VIII secolo a.C., sede di una leggenda esplicativa del nome (sororium) connessa con l'assassinio, per mano del fratello, di una so­ rella degli Horatii: questa infatti avrebbe ri­ fiutato il bacio di saluto al fratello macchiato­ si dell'uccisione del suo promesso sposo, uno dei tre Curiatii, avvenuta nella mitica tenzone tra i tre Horatii, campioni di Roma, e i tre Cu­ rz'atii, campioni di Alba Longa. La leggenda, dall'indubbia funzione esplicativa, forse non risale ad epoca molto antica, ma cerca di ren­ dere ragione di una pluralità di memorie mi­ tistoriche e rituali di epoca e significati diver­ si in una cornice «romantica»; tuttavia alla base del rito vi è lo stretto collegamento tra il tigillum sororium e una coppia di altari, uno dedicato a Ianus Curz'atius, ossia la divinità degli «inizi» (Ianus) delle Curiae (Curiatius), organismi politico-religiosi delle singole co­ munità di villaggio inglobate nella struttura urbana arcaica, e l'altro a luno Sororia, dea che presiede al sororiari, alla tumescenza cioè dei capezzoli e dunque a uno dei segnali del­ la maturazione puberale femminile. Il tigillum sororium perciò è con tutta probabilità il var­ co attraverso il quale fanciulli e fanciulle era­ no ammessi all'interno della città, dopo un periodo di segregazione e di «prove» capaci di dimostrare la raggiunta maturità, ossia l'at-

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tività guerriera dei maschi e la capacità gene­ rativa delle femmine. Di questa segregazione maschile è memoria solo mitica nella ricorda­ ta sfida tra Horatii e Curiatii al limite del ter­ ritorio della città, ma di quella femminile ab­ biamo il ricordo dell'uso rituale della verifica delle prime regole femminili, effettuata anco­ ra in epoca storica con un bagno rituale ef­ fettuato a una fonte all'interno nel bosco sa­ cro di Anna Perenna, un santuario extraurba­ no al primo miglio della Via Flaminia, che un fortunato scavo di pochi anni fa ha messo in luce presso la moderna Piazza Euclide nel quartiere Parioli, assieme ad abbondante do­ cumentazione di frequentazione religiosa fino ad epoca tardo-imperiale, comprendente an­ che documenti di carattere magico, come bambole di cera trafitte da spilli e maledizio­ ni su piombo. L'altro grande rito di passaggio, quello delle nozze, era anch'esso collocato in un'area di «margine» della città, il Circo Mas­ simo, dove non a caso viene ambientata la leg­ genda archetipica del matrimonio arcaico per rapimento, il mito del ratto delle Sabine. At­ traverso la spina del Circo passava la linea del pomerium primitivo attribuito a Romolo e le due pendici della Valle, in cui si svolgevano le processioni e i giuochi, quella dell'Aventino e quella del Palatino, venivano ad essere rispet­ tivamente all'esterno e all'interno della città; il ratto, ossia il modello simbolico del rito nu­ ziale più antico, si immaginava avvenuto dun­ que sul margine della città e l'integrazione delle spose, miticamente «fuori» della comu­ nità che esercita il ratto, si immaginava avve­ nuta «all'interno» della realtà urbana e socia­ le autrice del rapimento, in una perfetta sim­ metria con i riti di passaggio giovanili. Tutti questi fatti provano che è esistita una precisa autocoscienza, espressa in termini religiosi, mitistorici e rituali, della realtà comunitaria e sociale preistorica e dei suoi spazi, autoco­ scienza posseduta dalle strutture preurbane e poi dilatata dalla dimensione urbana, che in-

32 dividua nell'area abitata il luogo della comu­ nità civile e nei segnali - le porte urbiche, il pomerio - che marcano il passaggio tra urbs e ager, tra città e non-città, la linea magica ca­ pace di separare coloro i quali hanno statuto civile e politico, i cives adulti, da quanti quel­ lo statuto non posseggono, siano essi giovani, spose o defunti. La grande forza del modello, impregnato di tutte le possibili valenze mitico-religiose in quanto forme normative di statuti e di com­ portamenti, appare chiara anche in altre ceri­ monie religiose che celebrano ulteriori mo­ menti collettivi, nei quali la comunità civile si riconosce, si autorappresenta e si torna a de­ finire in termini sociali e spaziali. Uno dei mo­ menti più significativi della celebrazione co­ munitaria è quello del trionfo. Come è stato visto da tempo, questa antichissima cerimonia si compone di vari momenti e copre più di un significato; in primo luogo il trionfo è un rito di purificazione dell'esercito cittadino dopo lo spargimento del sangue nemico e in quanto tale è un doppio rituale, di passaggio, nella forma dell'attraversamento sacralizzato della porta trionfale, e di purificazione, nella forma di una circumambulazione attorno al perime­ tro della città primitiva; ma il trionfo, celebra­ to alla fine della campagna militare di autun­ no con il trionfo arcaico, miticamente marca­ to nella forma di trionfo di Romolo, era anche un rito di rinnovamento collegato con la con­ fezione del vino - la parola latina triumphus deriva dal termine dionisiaco greco thriambos -, come mostra anche la data, in origine fissa del 15 di ottobre, coincidente con la festa del1'Equus October. Il trionfo era anche una sor­ ta di pretesto per la solenne celebrazione del­ la regalità sotto forma di apoteosi del re (che sfilava sul carro coronato e con il volto dipin­ to di minio, come Giove): conseguentemente il punto di arrivo era al tempio di Giove Ca­ pitolino, dove il trionfo si concludeva con un sacrificio e con l'uccisione rituale dei prigio-

Parte I. L'età regia e repubblicana

nieri di guerra, che più tardi sarà limitata ai soli capi dei vinti, accompagnata dalla vendi­ ta come schiavi dei nemici superstiti. Nella complessità della cerimonia i segni e l'esten­ sione stessa degli spazi urbani rappresentano una dominante, i cui elementi costitutivi re­ steranno a lungo nell'immaginario collettivo e influenzeranno sviluppi urbanistici millenari: basti pensare alla porta trionfale, sita alle pen­ dici del Campidoglio all'ingresso della città verso NO presso il Vicus Iugarius e rimasta sullo stesso luogo per secoli come protagoni­ sta di centinaia di cerimonie, o alla reduplica­ zione della porta stessa sotto forma delle de­ cine di archi trionfali eretti lungo tutto il com­ plesso percorso del trionfo, o ancora alla crea­ zione dell'ideologia tutta romana del trionfo, che ispirerà soluzioni architettoniche e urba­ nistiche le più svariate sia nella capitale sia nelle città dell'Impero, dalla porta trionfale aperta nella curva del Circo Massimo al Foro di Augusto e alle «copie» di questo dissemi­ nate nell'Occidente romano, da Arezzo a Tar­ ragona, da Arles ad Avenches. Ma è interes­ sante anche notare che, grazie al conservativi­ smo proprio di ogni cerimonia religiosa, il trionfo con il suo percorso non solo marca nettamente un «fuori», luogo della guerra, ri­ spetto a un «dentro», sede della convivenza pacifica dei cittadini, ma delimita anche lo spazio della «città palatina» in maniera accu­ ratissima, fino al punto di segnalare con una curva tanto singolare quanto apparentemente irrazionale l'area dove si estendeva in epoca preistorica l'antica palude del Velabro: nell'a­ rea di partenza del trionfo, all'interno dello spazio collettivo delle terre sequestrate ai Tar­ quini dopo la cacciata del 509 a.C. e della vil­ la publica, sede del trionfatore in attesa dell'«ingresso» nell' urbs, sorgeranno tutti i grandi monumenti dei viri triumphales della tarda Repubblica e del primo Impero. Un'altra cerimonia interessante è quella degli Argei. La festa, che tuttavia riflette uno

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stadio più avanzato dello sviluppo urbano or­ mai giunto a includere i «Sette Colli», era una processione lustrale di primavera, celebrata tra il 16 e il 17 marzo e poi di nuovo il 15 maggio dalle vergini vestali e da tutto il po­ polo, che consisteva in un amburbium, dall'e­ laborato percorso all'interno della città, co­ stellato di almeno ventisette «stazioni» dette appunto Argei, e che si concludeva con il lan­ cio di altrettanti pupazzi di paglia nel Tevere dal Ponte Sublicio (fig. 17). Al pari della mi­ steriosa e forse concettualmente parallela fe­ sta del Septimontium, il rito è nella forma e nella sostanza alquanto oscuro e va forse col­ legato con tradizioni universalmente note di purificazione incarnata da getti simbolici di simulacri, incarnanti la cacciata o l'uccisione del «vecchio», ben conosciuto dalla stessa tra­ dizione romana grazie ad altri esempi. Uno di questi è il rito dei Mamuralia, celebrato il 14 febbraio come purificazione alla vigilia del nuovo anno agrario, che mimerebbe la «cac­ ciata», nei fatti la bastonatura e la distruzione rituale di un fantoccio, incarnante Mamurio Veturio, il mitico fabbro veiente chiamato da Numa Pompilio per fabbricare gli ancilia, le copie dello scudo di foggia protostorica pio­ vuto dal cielo, che i Salii recavano nella pro­ cessione appena ricordata. Un'altra espressio­ ne della medesima mentalità, che nel caso specifico però si presenta a noi come tradi­ zione scaduta a livello folklorico, è da ricono­ scere nel motto sexagenarios de ponte, «i ses­ santenni giù dal ponte», ossia l'eliminazione degli anziani, una crudele usanza che sembra sia stata praticata nel mondo mediterraneo di età classica da alcune società di tipo pre-pro­ tostorico, come quella dei Sardi, e ricordata da un noto passo di Strabone. Ancora un'al­ tra cerimonia ci conferma come nella menta­ lità arcaica romana lo spazio, sia privato sia pubblico, dovesse essere «liberato» da tutto ciò che non rientrava nei parametri della «normalità» di una comunità primitiva di

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produttori: nelle feste dette Vestalia, celebra­ te dalle Vestali il 9 giugno, al centro di un ci­ clo tra il 7 e il 15 giugno, e culminanti con la pulizia del penus, il penetrale della capanna (e del tempio di Vesta), dove si conservava il grano, veniva ripulito da tutte le immondizie, raccolte ritualmente per essere poi gettate fuori della città da una porta nelle mura del Campidoglio, detta significativamente porta Stercoraria. Se dunque può non essere del tut­ to perspicuo il significato profondo della ce­ rimonia degli Argei, incarnato dall'eliminazio­ ne dei pupazzi gettati nel Tevere, non ci sfug­ ge però il carattere di cerimonia di «unifica­ zione» della città posseduto da quell'arcaicis­ simo rito che prevede un percorso destinato a coprire tutto lo spazio della città unificata, lo stesso carattere in qualche modo celato dalla festa eminentemente agraria del Septimon­ tium dell'll dicembre. La comunità del vil­ laggio (il trionfo), e poi dei villaggi collegati dal processo sinecistico (Argei, Septimon­ tium), come più tardi ancora farà con altri ri­ tuali (i comizi del Campo Marzio, l'arena o il circo) il populus della città storica, si ricono­ sce ritualmente nello spazio abitato, immagi­ nato come sede della collettività degli adulti, lasciando ai margini, all'esterno, ciò che non è ancora integrato nella dimensione sociale nota, i giovani e le fanciulle future spose, e ciò che non è più integrabile, i morti. In questo primitivo ma efficace immagi­ nario della collettività, le cellule elementari sono le curiae, ossia le *coviriae (da *co-, «in­ sieme, con», e vir-, «uomo»), i luoghi di riu­ nione di carattere politico-religioso, ma dalle evidenti finalità militari, dei maschi adulti del gruppo, non necessariamente consanguinei: la società della Roma pre-serviana si autorap­ presenta come una «federazione» di trenta curiae, che ancora in epoca storica erano le protagoniste della concessione del potere, at­ tribuito prima al re, poi ai consoli nei comi­ tia curiata, ossia nella loro assemblea, dove

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

ogni curia era rappresentata da un littore, portatore dell'ascia simbolo del sacrificio e del potere preistorico dei capi delle comunità di villaggio. La stessa matrice di queste cu­ riae, che riflette con tutta evidenza forme di vicinato e di convivenza di villaggio, è pro­ babilmente da riconoscere nelle necropoli della protostoria più antica, sia villanoviana sia laziale, troppo grandi per un gruppo fa­ miliare anche se pertinente a una famiglia al­ largata, ma al tempo stesso distinte sul piano territoriale, prima della unificazione resa ne­ cessaria dal processo di sinecismo e di strut­ turazione politica della comunità urbana. Coerentemente con tutto questo, Roma ar­ caica conosce una pluralità di curiae, nelle quali venivano celebrati alcuni riti agrari, co­ me i Fordicidia, l'uccisione di una vacca pre­ gna il 15 aprile, o i Fornacalia, festa mobile per la torrefazione del farro. La struttura po­ litico-militare delle curiae fa tutt'uno con i lo­ ro luoghi di riunione, chiamati anch'essi cu­ riae, del cui aspetto le fonti nulla ci dicono, ma che dovevano essere spazi ritualizzati mu­ niti di uno o più sacelli e altari per assemblee o anche sale (come sembrerebbe essere la Cu­ ria Accoleia nel Foro Romano, se è vera la sua identificazione con l'edificio medio-imperiale trasformato nel medioevo nell'Oratorio dei Quaranta Martiri). Di qui il facile passaggio per designare con il nome di Curiae le aule specializzate per le riunioni delle varie con­ gregazioni sacerdotali, come quelle dei Salii, e, nella raggiunta dimensione urbana, la Cu­ ria senatus, curia per eccellenza degli anziani della città, dei senes, «i vecchi», «i padri». Altra importante memoria della realtà preur­ bana è il tempio di Vesta, focolare collettivo della comunità, accudito dalle vergini vestali, sacerdotesse specializzate del culto, che il di­ ritto pontificale, come a ribadire l'equazione casa-villaggio-città, assimilava giuridicamente alle figlie del pontefice massimo: non a caso in epoca storica la domus Virginum Vesta-

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lium, la «casa delle Vestali», era adiacente al tempio di Vesta da loro accudito e alla domus publica, casa del pontefice massimo. I vari santuari punteggiano lo spazio urba­ no ed extraurbano e su di essi o fra di essi si in­ trecciano i riti e i miti che scandiscono i mo­ menti fondamentali della vita dei singoli, del gruppo e della natura in un elaborato gioco di simmetrie tra cultura e natura. In tale contesto e nell'ottica dello sviluppo progressivo delle forme urbane, trovano una precisa collocazio­ ne i luoghi sacri e i riti non solo delle comunità preurbane, ma anche dei gruppi gentilizi, so­ prattutto di quelle famiglie patrizie che nell'ul­ timo periodo della monarchia e nei primi due secoli della Repubblica hanno dominato la sce­ na politica. Il caso significativo per i suoi rifles­ si nella realtà urbanistica è quello offerto dalla festa del 15 febbraio, detta Lupercalia. Questo rito, collegato con la leggenda stessa delle ori­ gini di Roma e con la grotta sede del mitico al­ lattamento dei gemelli da parte della lupa, con­ tiene molte e complesse valenze, dalla profilas­ si delle greggi dall'attacco dei lupi alla purifica­ zione collettiva al centro del mese finale del vecchio anno agrario e preparatorio del nuovo anno, dedicato anche nel nome (Februarius, da /ebruare, «purificare») alle purificazioni, alla magia della fecondità femminile, valenze che non è qui il caso neanche di tentare di illustra­ re per ragioni di brevità. Più importante ai no­ stri fini è il carattere di purificazione attraverso il già descrittò rito dell' amburbium, ossia attra­ verso un percorso compiuto correndo (a quan­ to pare) attorno ai piedi del Palatino dai prota­ gonisti del rito, alcuni giovani di due sodalitates o collegi, i Luperci, distinti in Quinctiales e Fa­ biani. Ritorna qui, sia pure con un percorso a noi noto e con modalità meno definite, la stes­ sa mentalità primitiva della purificazione com­ piuta mediante una circumambulazione attor­ no allo spazio urbano che abbiamo visto nella cerimonia trionfale: ciò che distingue l'un rito dall'altro è il visibile carattere gentilizio delle

36 due sodalitates, l'una facente capo alla gens Quinctia e l'altra alla gens Fabia, entrambe po­ tentissime nel V secolo a.C., e che potrebbero in qualche modo riprodurre la struttura gemi­ nata dei proturbani collegi dei Salii, soprattut­ to se, come sembra risultare da alcune fonti, i Fabii avevano i propri santuari gentilizi sul col­ le Quirinale; in tal caso sarebbe allettante poter attribuire al gruppo dei Luperci, controllato da quest'ultima gens, una sede sul Quirinale, cui facevano riferimento anche i Salii Collini (Col­ lis era il nome usuale del Quirinale), e una pa­ latina all'altro sodalizio controllato dal gruppo gentilizio dei Quinctii. Non sappiamo se questa «paternità» gentilizia del rito sia originaria o piuttosto non risalga - come le fortune delle due famiglie lasciano intendere - al V secolo a.C., come una sovrapposizione a una più anti­ ca cerimonia, anche essa eventualmente di ca­ rattere gentilizio. La forte ritualizzazione degli spazi della vita sociale, conseguenza di una religiosità che tocca ogni aspetto dell'esistenza individuale e collettiva, investe così la realtà urbana, assor­ bendo aspetti preurbani e forme di potere gentilizio, secondo una linea evolutiva che comprende tutto l'arcaismo fino al IV secolo a.C. La stessa logica di polarizzazione tra in­ terno ed esterno della città appare ancora in funzione alla fine del VII secolo a.C., quando la società urbana, ormai costituita e funzio­ nante, si pone il problema di un'altra figura sociale marginale e non integrabile, quella del mercante; fino a quel momento tale figura non era apparsa nello scenario sociale, poiché la sua presenza nella comunità era mediata dalla persona (e dal ruolo) del re, al quale il mercante doveva rivolgersi direttamente co­ me detentore del potere politico e della redi­ stribuzione in seno alla comunità. Ma anche il mercante (o lo straniero), come già gli impu­ beri o i morti, non è integrabile nel contesto urbano: ed è perciò che la sua figura, intrin­ secamente marginale sul piano sociale e poli-

Parte I. I.:età regia e repubblicana

tico, non può non trovare una collocazione al «margine» della città. Ecco che allora a Ro­ ma, sulle sponde del portus Tiberinus formato dalla vasta palude del Velabro, antichissima sede di riti funerari gestiti dal flamen Quiri­ nalis, nascono santuari di natura mercantile: sul lato settentrionale il tempio di Fortuna e Mater Matuta, significativamente coincidente con il luogo della porta trionfale, e, sul lato opposto a non molta distanza, il santuario di Ercole nel Foro Boario, nato attorno all'Ara Maxima Herculis, connesso forse con le più antiche frequentazioni fenicie, certo con l'ar­ caicissimo scambio di bestiame adombrato dalla leggenda di fondazione del culto che ha protagonista Ercole con i suoi armenti e il la­ drone Caco. I due luoghi, come è tipico delle culture arcaiche, sono sede di mercature di­ stinte: il santuario di Fortuna e Mater Matuta, dee di natura erotica e riproduttiva, rappre­ senta il luogo della mercatura degli aromi, mentre l'Ara Maxima Herculis, punto di arri­ vo delle transumanze appenniniche, è il luogo destinato allo scambio del sale. In quanto luo­ ghi deputati per lo scambio e per il deposito delle decime delle transazioni, con la presen­ za e la protezione degli dei titolari, questi san­ tuari garantiscono tutti i contraenti, tanto i cittadini quanto i mercanti: non è il caso di dimenticare che il latino non meno del greco usa una stessa radice per definire lo straniero­ ospite, hospes, e il nemico, hostis. In quanto luoghi per ricevere lo straniero, i due santua­ ri occupano una posizione liminale, esatta­ mente sulla linea del pomerio, ripetendo con siffatta collocazione la stessa ambiguità di sta­ tuto che abbiamo rilevato per il Circo Massi­ mo, sede archetipica della più arcaica forma dello scambio, quello matrimoniale. La fortu­ na di questa soluzione è dimostrata dal fatto che tra i due santuari, lungo le sponde della palude del Velabro, sorse anche, forse nel VI secolo a.C., un fondaco etrusco, dove si formò e risiedette a lungo anche la comunità

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

mercantile e artigiana della città, il vicus Tu­ scus, con il proprio simbolo religioso rappre­ sentato dal signum Vortumni, la statua di Velthumna- Vortumnus, dio etrusco del grande santuario etnico presso Volsinii, l'attuale Or­ vieto, aperto sulla media valle del Tevere: la cosa va fra l'altro confrontata con quanto av­ viene nelle città etrusche, che, come avremo modo di vedere più avanti, nei loro porti svi­ lupparono analoghe strutture cultuali e forse anche analoghi fondaci. Contemporaneamente alla nascita dei san­ tuari emporici, alla fine del VII secolo a.C., in piena sintonia con l'emergere di strutture po­ litico-sociali più complesse di cui diremo ap­ presso, abbiamo la prima costituzione del Co­ mitium, luogo di raduno dei cittadini pensa­ to naturalmente come templum inaugurato quadrangolare, delimitato da pozzi sacri e contenente lo spazio - prima rettangolare, poi circolare - dell'assemblea. Il Comizio, po­ sto dinanzi alla Curia senatus, venne ulterior­ mente caricato di valori ideologici e religiosi attraverso la creazione di alcuni luoghi di cul­ to, sistemati lungo il perimetro del templum. Tra questi particolare significato per l'ideolo­ gia della città hanno il Volcanal, santuario di Vulcano e sede della tomba del mitico fonda­ tore della città, e la ficus Ruminalis, il leggen­ dario albero di fico della grotta del Lupercal dianzi ricordata, che secondo la leggenda l'augure Atto Navio avrebbe miracolosamen­ te traslato nel Comizio all'epoca di Tarquinio Prisco: sia il Volcanal sia la/icus Ruminalis, in quanto collegati con la nascita e la morte di Romolo, posseggono l'indubbio carattere di simboli magici e religiosi della realtà urbana e non è casuale che siano stati collocati nel centro politico-religioso della città unificata arcaica. Per completare infine il quadro della fun­ zione formante che le tradizioni e le usanze re­ ligiose posseggono per le strutture urbanisti­ che, è utile fare un accenno alla definizione re-

37 ligiosa del territorio. Come esiste il rito lustrale dell'amburbium, così la purificazione dei cam­ pi è fatta con una festa di circumambulazione delle campagne, gli Ambarvalia, festa che tutta­ via non ha la rilevanza «politica» degli ambur­ bia; sempre con la delimitazione e la purifica­ zione dei campi è collegata anche l'altra festi­ vità arcaica dei Terminalia. Più importante è la localizzazione, ai margini dell'ager Romanus antiquus, di una serie di santuari: luoghi prima di tutto dell'identità della popolazione delle campagne, ma gestiti dalla città, questi santua­ ri, anche se non hanno esplicite funzioni sacra­ li e politiche di «segnali» di confine, che molta critica moderna ha voluto attribuire loro, con­ sentono di ricostruire l'estensione dell'ager pri­ mitivo della città arcaica, presumibilmente di VII secolo a.C., intra quintum lapidem, ossia entro il quinto miglio dalla città, descrivendo un territorio di circa 125 chilometri quadrati (fig. 18). Fin qui si è parlato di Roma. Nel caso delle altre città di area etrusco-latina le no­ stre scarsissime informazioni letterarie e ar­ cheologiche non consentono di ricostruire in maniera altrettanto precisa contesti cli carat­ tere religioso, con le relative proiezioni to­ pografiche simili a quelle di Roma, dai qua­ li traspaia la profonda interconnessione tra ideologia religiosa e definizione degli spazi sia della città arcaica sia della dipendente campagna. Ciononostante, da un lato l'e­ sempio di Roma e dall'altro l'importanza che la religione occupa nella mentalità e nella cultura delle popolazioni dell'Italia antica e in primo luogo dell'Etruria ci garantiscono del fatto che il processo di sviluppo più an­ tico delle altre città latine, di quelle etrusche e più tardi di quelle italiche, si è svolto al­ l'interno di un analogo quadro di riferimen­ to religioso e rituale; l'esistenza di tale ana­ logia è ulteriormente suffragata dal fatto che tra le genti etrusche, latine ed italiche in epoca preistorica i rapporti materiali e idea-

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Fig. 18. I.:ager Romanus antiquus (da Alfoldi).

li sono particolarmente stretti e di lunga du­ rata e che conseguentemente tra questi vari gruppi etnici si è verificato un intenso scam­ bio di istituti religiosi, di rituali, di miti e fi­ nanche di divinità, come mostrano i nume­ rosi imprestiti religiosi latini e umbro-sabel­ lici in ambito etrusco e viceversa.

4. La definizione monumentale delle struttu­ re urbane della città arcaica All'inizio di questo capitolo abbiamo vi­ sto le radici sociali del fenomeno urbano nel1' area più avanzata della penisola, coinciden­ te con !'Etruria meridionale ed il Lazio, e l'a-

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scesa, in quel contesto, della classe domi­ nante aristocratica. Dalla metà del VII seco­ lo a.e. giungono in Etruria e nel Lazio dal mondo greco, spesso tramite attivo e intelli­ gente di lontani modelli anatolici o vicino­ orientali, tecniche edilizie e tipi architettoni­ ci nuovi molto complessi, capaci di soddi­ sfare la cultura e i bisogni sociali di quella élite dalle smisurate esigenze di lusso per l'e­ sibizione del proprio prestigio e per lo svol­ gimento dei ruoli sociali, religiosi e politici conquistati nella travolgente avanzata com­ piuta nell'arco di un secolo in seno alla so­ cietà protostorica. Le nuove tecniche edilizie comprendono strutture su fondazioni di pie­ tre, che nei casi più lussuosi sono composte di blocchi di pietra squadrata, e soprattutto i tetti pesanti, coperti di tegole, inventate in Grecia a metà circa del VII secolo a.e., ul­ teriormente abbellite dei rivestimenti fittili delle travi esterne, dipinti o a rilievo, e del­ le terminazioni dei tetti con elementi plasti­ ci. I nuovi tipi edilizi invece sono relativi al­ le residenze dei vivi e dei morti: la casa a pianta complessa e la tomba monumentale. Veramente esigue sono le vestigia di abi­ tazioni «normali» databili alla seconda metà del VII secolo a.e. Un recentissimo scavo nell'abitato di Cerveteri ha messo in luce ca­ panne databili ancora ai decenni centrali del­ la prima metà del VII secolo a.C.: ciò che sembra distinguerle dagli esemplari simili del secolo precedente, oltre alla qualità del va­ sellame circolante, è l'intonaco che le rive­ ste, sia all'interno sia all'esterno, dipinto in ocra, giallo e nero, con motivi lineari e cir­ colari su fondo bianco. Questa fase più an­ tica della prima metà del VII secolo a.C., nella quale la capanna viene sentita ancora come l'edificio abitativo tipico, è chiaramen­ te riflessa dalle tombe ceretane, non solo di quelle direttamente ispirate dalle strutture delle capanne rettangolari (Tomba della Ca­ panna, 680 a.e.: fig. 19), ma anche di quel-

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Fig. 19. Cerveteri, Tomba della Capanna, interno (da Bianchi Bandinelli-Torelli).

le, tipiche dell'Orientalizzante Medio (660630 a.C.), nelle quali la camera sepolcrale rettangolare è preceduta da un vano a pian­ ta circolare, verosimilmente il luogo destina­ to al culto funerario, capace con la sua for­ ma di evocare quella della capanna, che agli occhi degli uomini di questa tumultuosa fa­ se evidentemente doveva ancora incarnare la casa per eccellenza e che resterà a lungo nel più conservativo settentrione, nella forma monumentale della tholos (fig. 20). Nell'O­ rientalizzante Recente (630-570 a.C), il re­ taggio delle capanne di tradizione preistori­ ca, almeno formalmente egualitaristico, ap­ pare in via di superamento. Le case tendono ad assumere una pianta articolata su più va­ ni, spesso con cortile centrale, anche se non mancano esempi di case decorate con terre­ cotte architettoniche, ma legate alle vecchie planimetrie semplici su base rettangolare (Acquarossa, casa della zona G: fig. 21): a giudicare dai rari resti rinvenuti, ma soprat­ tutto dalla tipologia degli interni delle tom­ be monumentali di Cerveteri (Tomba dei Capitelli, 620-600 a.C.: fig. 22), alla fine del VII secolo a.e. sempre dal mondo greco fa

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Parte I. I.:età regia e repubblicana

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il suo ingresso in Etruria e nel Lazio la ca­ sa detta «a pastàs», ossia con un portico con relativa corte posto dinanzi ai vani di abita­ zione. Questo evento offre l'estro per l'ela­ borazione di piante multiformi, di cui subi­ to si impadroniscono i gruppi gentilizi per le loro grandi residenze, abbellite da terrecotte architettoniche dipinte e poi a stampo, che finiscono con l'assumere l'aspetto di veri e propri «palazzi», dalle planimetrie i cui mo­ delli più lontani vanno ricercati nel Vicino Oriente. Questi «palazzi» sono ben esempli­ ficati dalle regiae di VI secolo a.C., scoper­ te in due centri periferici etruschi, uno nel­ l'Etruria centrale, a Murlo presso Siena, e l'altro nell'Etruria meridionale, ad Acquaros­ sa presso Viterbo (fig. 23 ). I due edifici, di grandi dimensioni (quello di Murlo ha una superficie di 3600 mq), sono basati su di una vasta corte centrale porticata per lo svolgimento delle cerimonie gentilizie, dal culto degli antenati ai banchetti e agli ago-

Fig. 20. Quinto Fiorentino, Tomba della Montagnola (da Rasenna). Fig. 21. La casa della zona G stenberg).

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Fig. 22. Cerveteri, Tomba dei Capitelli (da Bianchi Bandinelli-Torelli).

ni, di cui abbiamo un preciso riflesso nelle figurazioni delle terrecotte architettoniche adornanti i tetti dell'edificio; lungo le ali del­ la corte, oltre ai locali di servizio, come i magazzini, le stalle e forse gli alloggi dei ser­ vi, si dispongono i quartieri residenziali, con enfasi particolare per le sale da banchetto, mentre un lato era dedicato al culto gentili­ zio e forse ali'«epifania» del principe, arche­ tipo del tablino romano di età storica, in as­ se con il quale, nel cortile, si collocava un grande altare recintato. Anche le tombe, già negli anni finali dell'­ VIII secolo a.C., abbandonano i grandi se­ polcreti collettivi sovrafamiliari dell'età del Ferro per assumere l'aspetto di piccole came­ re ipogeiche per la deposizione di una fami­ glia, segnale incontrovertibile che le vecchie solidarietà di villaggio non esistono più, supe­ rate come sono dall'emergere della gens; la gens rappresenta il gruppo sociale dominato

da una farniglia di sangue, che è in possesso del controllo economico, politico e giuridico di estesi gruppi di non consanguinei dallo sta­ tuto particolare di semiliberi, ma con diversi gradi di libertà e di assoggettamento a secon­ da dei luoghi, che in area latina sono chiama­ ti clientes e in area etrusca servi, legati alla gens attraverso vincoli giuridici governati dal­ le regole religiose della fides, il nesso fiducia­ rio tra il princeps, il capo del gruppo, e i clien­ tes o i servi. Le tombe, soprattutto in Etruria, dove l'enorme ricchezza e il potere dei grup­ pi gentilizi appaiono senza confronti rispetto al resto della penisola, hanno ormai la forma di grandiosi ipogei, con una riproduzione simbolica e talora, come a Cerveteri, addirit­ tura realistica degli interni delle abitazioni e ricevono maestose coperture a tumulo, in qualche caso del diametro di 90 m, ed appre­ stamenti e ornamenti esterni per il culto fu­ nerario, come altari monumentali e spazi con

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gradinate per lo svolgimento delle cerimonie e dei giuochi funebri. Anche se l'impatto urbanistico dei nuovi tipi architettonici fu senza dubbio grande, il ricordo dei vecchi villaggi dovette essere du­ ro a morire, con una sorta di sovrapposizione tra il nuovo della società gentilizia e il vecchio della società di villaggio: il nuovo delle gentes infatti si esprime soprattutto attraverso il ten­ tativo di riunire attorno a sé tutta la struttura sociale, generando attorno alle residenze gen­ tilizie quell'addensarsi di abitazioni di ceti su­ balterni, con un effetto complessivo che evo­ ca in qualche modo l'antico villaggio. Nasce ora il «paesaggio delle necropoli», rispetto ai modesti tumuli e segnacoli funerari che carat­ terizzavano le aree cimiteriali protostoriche, paesaggio «quasi urbano» nel quale le colos­ sali sepolture gentilizie sotto tumuli monu­ mentali si dispongono lungo le vie di accesso alla città, un vero e proprio preannuncio del dominio delle aristocrazie sulla realtà urbana

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(fig. 24): formalmente, tuttavia, siamo ancora lontani dal «paesaggio delle necropoli» tardo­ repubblicano e imperiale romano con la ca­ ratteristica sequenza delle tombe dei ceti emergenti allineate in bella mostra lungo i bordi delle strade extraurbane e, in perfetta omologia con la forte stratificazione sociale, poste quasi a schermo dei campi sepulturae dei tenuiores estesi alle spalle dei monumenti funerari illustri (fig. 25). Malgrado ciò la di­ sposizione «casuale» dei tumuli più rilevanti delle gentes dominanti, posti a destra e a sini­ stra delle strade e per lo più circondati da grappoli di tumuli minori, non solo riprodu­ ce bene la gerarchia sociale, con poche gentes eminenti contornate da estese clientele con­ traddistinte da livelli di dipendenza assai vari, ma lascia anche intravedere quale potesse es­ sere l'aspetto più antico delle città etrusco­ meridionali e latine: è facile infatti immagina­ re come nel processo sinecistico dei villaggi preurbani, attorno alle regiae, ai «palazzi» ari-

Fig. 23 (a fronte, in alto). I.:anaktoron di Murlo (da Philips); (a fronte, in basso). I.:anaktoron di Acquarossa (ad O); ad E una grande casa e a S un probabile tempio (da Oestenberg). Fig. 24. Cerveteri, necropoli della Banditaccia (da Rasenna).

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Fig. 25. Ostia, necropoli dell'Isola Sacra (da Baldassarre).

stocratici che dovevano dominare dal tardo VII secolo a.e. le diverse parti dell'area urba­ na, si venissero addensando le abitazioni più modeste dei clienti e dei dipendenti a vario ti­ tolo delle gentes aristocratiche. In ogni caso, la struttura urbana più arcaica delle città è per noi assai poco conosciuta. Gli stessi esem­ pi di «palazzi» noti in maniera apprezzabile si collocano in aree periferiche o in siti minori, così che è per noi difficile ricostruire l'aspet­ to primitivo delle grandi città dell'Etruria me­ ridionale e del Lazio, a parte l'immagine or ora proposta, ricavata dalle coeve necropoli, la cui verosimiglianza è in primo luogo con­ cettuale ed eventualmente sociologica. A Mur­ lo, infatti, il «palazzo», databile ai primi de­ cenni del VI secolo a.e., domina, virtualmen­ te isolato, la collina di Poggio eivitate, in per­ fetta coerenza con l'area in cui sorge Murlo, !'Etruria centrale interna, ove il modello ur­ bano si afferma molto più tardi rispetto all'E­ truria meridionale marittima. Ad Acquarossa, le esplorazioni effettuate su aree campione non ci garantiscono un disegno completo del­ la morfologia urbana, anche se è possibile af­ fermare che il «palazzo» della seconda metà del VI secolo a.e., collocato presso uno degli accessi all'abitato, non è isolato, ma coesiste, nella stessa area urbana, con gruppi di edifici

di abitazione meno lussuosi, ma di aspetto an­ ch'esso in qualche modo monumentale, sepa­ rati fra loro da larghi spazi non costruiti. Ma proprio da Acquarossa i pochi dati disponibi­ li disegnano una storia assai meno lineare di quello che sembra di poter individuare. Una casa di pieno VII secolo a.e., la casa della zo­ na G, ornata - come lo sarà il «palazzo» del­ la zona F nel secolo successivo - di terrecot­ te architettoniche, ripete il tipo più arcaico e semplice di abitazione in materiale non depe­ ribile; altre case, quelle delle zone A, B, e, D, che riproducono le forme tripartite delle case tipiche del pieno VI secolo a.e., si presenta­ no significativamente prive di decorazione fit­ tile architettonica, ormai appannaggio delle regiae e dei templi, mentre in alcuni casi (ca­ se della zona B: fig. 26) i gruppi di abitazioni sembrano fotografare il modo di abitare di una famiglia patriarcale, con la casa del pater­ /amilias circondata dalle abitazioni dei /ilitfa­ milias e dalle stalle. Tuttavia, i dati di trova­ mento di terrecotte architettoniche a Roma ci fanno intendere che le grandi città latine e so­ prattutto etrusche dovevano conoscere una pluralità di «palazzi»: sul Palatino, ad esem­ pio, nell'area dove sono note le capanne di IX-VIII secolo a.e., dovevano sorgere forse due grandi edifici, a giudicare dalle due di-

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verse serie di terrecotte di rivestimento figu­ rate colà venute alla luce, sicuramente perti­ nenti a una serie di strutture murarie di VII­ VI secolo a.C., pure scoperte nella zona, che però non riescono a disegnare per noi realtà architettoniche ben definite. La progressiva crescita degli apparati mo­ numentali sia delle tombe sia delle architetture domestiche costituisce la caratteristica domi­ nante della città a partire dalla seconda metà del VII secolo a.C. Le ricerche recenti hanno colmato le lacune del passato relativamente al­ le fortificazioni, un tempo meglio documenta­ te nei centri minori del Lazio; oggi, oltre al già ricordato muro alle radici del Palatino, per !'VIII secolo a.C. conosciamo ampi tratti delle primitive fortificazioni di Veio e di Vulci realiz­ zate con grandi aggeri di terra, che nel caso di Veio si arricchiscono addirittura di un para­ mento di piccoli blocchi irregolari, mentre al VII secolo a.C. si datano le mura di Roselle, rea­ lizzate nella tecnica a mattoni crudi, che avrà particolare fortuna in Grecia e nelle colonie d'Occidente, ma, a quanto è dato di conoscere, assai rara in Etruria e nel Lazio. Quanto alle al­ tre primitive infrastrutture urbane la docu­ mentazione è molto scarsa e raramente anterio­ re al tardo VII secolo a.C., quando possiamo datare i più antichi esempi di strada battuta a noi noti: il più antico di tutti, ancora dell'VIII secolo a.C., è il tratto della via che passa al di sotto della porta identificata da A. Carandini con la Porta Mugonia, che si apre nella sezione delle mura palatine di Roma più volte ricorda­ te, mentre tra i meglio documentati è il tratto di tardo VII secolo a.C., scavato sempre a Roma da C. Panella non lontano dall'arco di Costan­ tino, sul tracciato della via diretta dal Colosseo all'arco di Tito, mentre per !'Etruria particola­ re importanza ha la strada di VII secolo a.C. che corre lungo il santuario arcaico rinvenuto sotto la pavimentazione romana del Foro di Roselle, che presuppone l'esistenza di una sistemazione urbana munita di un centro politico già nel VII

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Fig. 26. Acquarossa, case della zona B (da Rasenna).

secolo a.C. Un documento di straordinaria im­ portanza proprio per la primitiva organizzazio­ ne urbana è costituito dal più volte ricordato nucleo abitativo di Veio, sorto sul colle di Piaz­ za d'Armi in epoca villanoviana e abbandonato alla fine dell'età arcaica per non essere più ri­ costruito (fig. 27). A giudicare dall'ampia di­ spersione dei materiali dell'età del Ferro e dai resti di capanne rinvenuti, il primo abitato ca­ pannicolo sembra essere esteso sull'intera area dell'altopiano. Nella seconda metà del VII se­ colo a.C. le capanne vengono sostituite da case con fondazioni a blocchi di tufo, organizzate sulla base di sistema di strade sostanzialmente ortogonali fra loro, che tuttavia non disegnano «isolati» regolari: l'asse fondamentale è una strada con andamento NO-SE, sulla quale van­ no a terminare almeno sei strade perpendicola­ ri e che quasi nel mezzo del pianoro va a costi­ tuire il lato sud-occidentale di una vasta piazza organizzata attorno a una colossale cisterna centrale costruita a blocchi squadrati, destina­ ta a fungere da conserva d'acqua per l'intero abitato. Tutto l'abitato, agli inizi del VI secolo a.C., venne recinto da un muro difensivo rea-

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Parte I. I:età regia e repubblicana

•�---� Fig. 27. L'abitato cli Piazza d'Armi a Veio (da Colonna).

lizzato in blocchi regolari con una tecnica edi­ lizia «a casematte», che presenta un'unica por­ ta a doppio ingresso, un vero e proprio dipylon. A poca distanza dalla piazza centrale sorge un edificio a pianta rettangolare, decorato da fregi fittili e antefisse datati tra la fine del VII e gli ini­ zi del VI secolo a.C., di fronte al quale, in una sorta di piccolo piazzale, sono stati rinvenuti al­ tari con resti di sacrifici: gli specialisti non sono concordi nell'interpretazione del complesso, se identificarlo come la parte cultuale dei tipici «palazzi» principeschi dell'epoca o non piutto­ sto come un piccolo tempio indipendente da un'eventuale residenza gentilizia. Quale che ne sia la spiegazione, il carattere gentilizio del san­ tuario sembra comunque confermato dal fatto che, dopo l'abbandono dell'abitato, non si è provveduto a continuare la vita del luogo di culto, evidentemente perché «privato» (ossia di una gens e non della città) e come tale non «riconosciuto» dalla collettività veiente, autri­ ce della soppressione dell'abitato e dell'even­ tuale trasferimento in massa della popolazione,

che poteva ascendere - se, come sembra assai probabile l'abitato si estendeva su tutto l'alto­ piano - a diverse centinaia di persone. Forse ancor più significativa, per la defini­ zione di questa prima fase di urbanizzazione sud-etrusca e latina, è la rarità delle installa­ zioni per il culto, che, quando accertate con un grado più o meno grande di sicurezza, si rivelano di dimensioni o di impianto architet­ tonico molto modesti. L'esempio di maggior rilievo e di più alto significato, sia ideologico sia urbanistico, è quello, di recentissima sco­ perta, del piccolo santuario-Curia nel cuore dell'abitato di Tarquinia (fig. 28), al quale si è fatto cenno nelle pagine precedenti. La fre­ quentazione a scopo religioso dell'area di questo futuro santuario di età storica risale al1'età del Bronzo Finale (X secolo a.C.), quan­ do attorno a una cavità naturale - in cui si ri­ conosceva evidentemente un luogo di comu­ nicazione tra mondo infero e mondo dei vivi - si addensano documenti cultuali, resti di sa­ crifici di animali e, a quanto sembra, di in-

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I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

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Fig. 28. Il santuario-Curia di Tarquinia: al centro la strada di età classica che passa sul luogo della cavità naturale cen­ tro del culto protostorico; ad E l'ambiente rettangolare e, sotto, lo spazio con altare; ad O il recinto trapezoidale (da

Gli Etruschi di Tarquinia).

48 fanti, assieme a corna di cervo segate, forse simboli aniconici, betilici, della divinità. Ad età villanoviana (IX-VIII secolo a.C.) si riferi­ scono pochi resti di strutture, oltre a testimo­ nianze della continuità dello stesso culto; agli inizi del VII secolo a.C. abbiamo invece la realizzazione di un complesso di strutture, comprendente un ambiente rettangolare af­ fiancato da uno spazio con altare (fig. 29) presso la cavità naturale e un recinto trape­ zoidale separato dal precedente ambiente me­ diante uno spazio, che agli inizi del V secolo a.C. diviene una sede stradale pavimentata ve­ ra e propria. Tutto lascia pensare che questo arcaicissimo luogo di culto abbia avuto una notevole centralità nel primitivo assetto socio­ politico della città. L'interpretazione come Curia si appoggia sulla distinzione tra edifici sacri veri e propri, l'ambiente e l'altare, ed edifici verosimilmente per riunioni, quale de-

Parte I. I:età regia e repubblicana

ve essere il recinto trapezoidale, e sulle forme di culto ivi praticato, che trova confronti con quello della latina luno Covella, ossia Giuno­ ne della *coviria-Curia. Il santuario doveva forse essere anche sede del culto di una divi­ nità identica al romano luppiter Feretrius, a giudicare dalla deposizione al suo interno di uno scudo e di un'ascia cerimoniali della pri­ ma metà del VII secolo a.C., che ricorda mol­ to da vicino l'uso delle spolia opima, ossia del­ le armi sottratte in duello da un re a un nemi­ co suo pari. Ricordiamo che a Roma luno Co­ velia e luppiter Feretrius erano venerati rispet­ tivamente all'interno e vicino alla Curia Cala­ bra sul Campidoglio. Ma l'elemento urbanisti­ co più significativo è lo spazio lasciato libero tra le due strutture fin dalla fine dell'VIII-ini­ zi del VII secolo a.C.: in esso è da riconosce­ re con tutta verosimiglianza un primitivo trac­ ciato stradale, pienamente integrato nell'orga-

Fig. 29. Tarquinia, santuario-Curia nd VII secolo a.C., ricostruzione (da Roma, Romolo, Remo).

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

nizzazione urbanistica di Tarquinia, ricono­ sciuta negli ultimi anni attraverso una vastis­ sima campagna di prospezioni geofisiche, e del quale si è fatto poc'anzi cenno. È troppo presto, come si è detto, per va­ lutare tutti gli aspetti urbanistici (e storico-so­ ciali) di questo impianto, ma fin d'ora un da­ to appare evidente dalle conseguenze degli scavi del santuario-Curia, e cioè che se l'im­ pianto urbanistico fu realizzato in un solo momento, almeno nell'area occidentale della Civita, esso fu concepito secondo un piano unitario del sistema stradale agli inizi del VII secolo a.C., con la prima, grande trasforma­ zione monumentale del santuario-Curia. La coincidenza tra questa monumentalizzazione e il primitivo impianto urbano della «piccola Tarquinia» (e forse anche della «grande», rac­ chiusa dalle mura di età classica) rappresenta un dato pienamente coerente con l'evoluzio­ ne politico-sociale del momento, nel quale l'organizzazione gentilizia appare sulla via di una formidabile affermazione economica, ma non ha ancora conquistato un dominio com­ piuto sulla società: le aristocrazie si muovono ancora sul terreno delle strutture «politiche» più arcaiche, rappresentate dalle curie, orga­ nismi militari comunitari di genera hominum, nei quali non è in origine rappresentata la dif­ ferenziazione fra le classi, ma solo quella di gerarchie sacrali e classi d'età funzionali al­ l'attività guerriera. L'esempio di Roma ancora una volta è illuminante: la tradizione infatti attesta che insieme a sette curie «antiche» (Curiae veteres) dal nome non gentilizio esi­ stevano altre curie «nuove» (Curiae novae), caratterizzate invece da un nome gentilizio, almeno a giudicare dai pochissimi nomi a noi noti, create da Tullo Ostilio con l'immissione nella compagine urbana degli abitanti delle città latine conquistate. Affiorano in questa serie di notizie ragioni e tempi della crescita della città avvenuta attraverso conquiste e sot­ tomissioni, di particolare intensità al passag-

49 gio tra VIII e VII secolo a.C., età più o meno corrispondente al semileggendario regno di Tullo Ostilio, con una ben precisa contrappo­ sizione tra il passato, rappresentato da curie «antiche» corrispondenti a realtà territoriali, e il presente, incarnato da curie «nuove» domi­ nate dall'aristocrazia gentilizia. Nel caso ro­ mano, la creazione delle curie «nuove» cela anch'essa un intervento di grande respiro nel contesto dell'impianto urbano primitivo, dal momento che tale creazione è avvenuta, se­ condo la tradizione, accorpando tutte le curie «nuove» in un unico luogo presso il compitum Fabricium (Festo, p. 180 L) sul Celio, colle aggiunto, sembra secondo la tradizione, dallo stesso Tullo Ostilio all'aggregato urbano «ro­ muleo». A Roma come a Tarquinia, il nuovo secolo, succeduto a quello in cui si è materia­ lizzato il grande salto di qualità della «fonda­ zione» e del sinecismo, si apre con una rior­ ganizzazione dell'impianto urbano e delle sue più antiche istituzioni sacrali e militari, dimo­ strando in maniera chiara il nesso tra i due fe­ nomeni e l'intreccio tra questi e la prima af­ fermazione delle aristocrazie gentilizie. Regiae e tombe principesche si collegano dunque al recupero delle forme «politiche» e sacrali della cultura protostorica, il tutto nel quadro di una fervida ristrutturazione urbani­ stica, resa necessaria dopo lunghi decenni di sinecismi e inurbamenti dalle campagne e da­ gli abitati contermini. In questa fase di feb­ brile crescita urbana, tuttavia, le forme reli­ giose e politiche sono ancora divise tra «pa­ lazzi», in cui gelosamente si custodiscono i gentilicia sacra, i culti aristocratici di dèi e an­ tenati, strumenti di controllo sociale e politi­ co, e curie, sedi tradizionali della religione protostorica e dell'organizzazione militare: ciononostante nel complesso scenario di una società urbana in rapido sviluppo non tarda­ no ad apparire templi e luoghi di assemblea e di decisione. Alla fine del VII secolo a.C., in­ fatti, abbiamo i primi documenti sicuri di

50 un'attività edilizia mirante a istituzionalizzare centri sacrali collettivi diversi dalle antiche curie e dalle dimore gentilizie. A Roma, i san­ tuari più antichi, che comunque non risultano anteriori all'inizio del VII secolo a.C., sono testimoniati da modestissime stipi votive (Campidoglio, forse santuario di Terminus o di Iuppiter Feretrius; Quirinale, forse santua­ rio di Quirinus). Intorno al 600 a.C. abbiamo la nascita quasi contemporanea del Comitium, del primo pavimento del Foro e del santuario di Fortuna e Mater Matuta al Foro Boario. In Etruria, a Roselle, la fase è preceduta, intorno al 650 a.C., da un edificio composto da un re­ cinto bipartito e da un ambiente a pianta cir­ colare posto entro il recinto, di assai probabi­ le destinazione sacrale, ma forse ancora ideo­ logicamente e planimetricamente ispirato a culti prepolitici (come dimostra un'iscrizione ivi rinvenuta che menziona in maniera generi­ ca gli aiser, gli «dèi»); più tardi, tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., le testimo­ nianze si fanno più chiare e dirette, con esem­ pi di architetture sacre monumentali, di cui l'esempio meglio noto è quello del santuario di Portonaccio a Veio. Per l'Etruria, a causa delle nostre scarsis­ sime informazioni sugli abitati, mancano ele­ menti di giudizio chiari sull'esistenza di strut­ ture urbanistico-architettoniche a carattere politico. A tutt'oggi non conosciamo una sola agorà o foro di città etrusca, non solo dell'e­ poca arcaica ma per l'intera fase dell'indipen­ denza, e i pochissimi fori di età romana esplo­ rati, tutti o in parte, in siti etruschi (Roselle, Arezzo) hanno fornito indizi scarsi e poco chiari sull'assetto della fase arcaica. Anche la città di Marzabotto, fondazione etrusca colo­ niale nella Valle Padana (fig. 30), unica scava­ ta in maniera sufficientemente estesa, di cui parleremo più estesamente avanti, non ha fi­ nora rivelato l'esistenza di una piazza forense o di edifici pubblici destinati alle attività po­ litiche. La circostanza è probabilmente fortui-

Parte I. L'età regia e repubblicana

ta, dal momento che una parte importante della città padana resta ancora sconosciuta, mentre ancora un'altra porzione non meno importante dell'abitato è andata per sempre perduta per il mutamento di letto del fiume Reno: è utile ricordare che solo molto di re­ cente, a smentire una consolidata opinione che voleva gli edifici di culto localizzati sol­ tanto sull'acropoli, si è avuta la scoperta di un grande edificio templare formale all'interno dell'abitato. Alla luce di ciò, non è mancato chi ha voluto sostenere che l'Etruria avesse un'organizzazione politica tutta particolare (anche se in fondo non si dice quale), diversa da quella della città greca e romana: ma la re­ cente scoperta di un'area centrale a carattere forense nella colonia tarquiniese di IV secolo a.C., Musarna, l'esistenza in epoca classica di magistrature, eponime e non, delle singole città etrusche e accenni delle fonti a /ora del­ le poleis dell'Etruria (Livio VII, 19, 3, ad esempio, parla di un/orum per la città di Tar­ quinia) stanno a dimostrare che le città etru­ sche ebbero, almeno dalla fase repubblicano­ oligarchica del V secolo a.C., delle agorai e delle strutture di governo tali da presupporre un assetto urbanistico non diverso da quello di Roma e delle città greche. Se per l'Etruria i dati non consentono di ar­ gomentare sugli effetti urbanistici di questa nuova fase di consolidamento delle strutture politiche e di monumentalizzazione della città collocata nell'Orientalizzante Recente (630570 a.C.), per Roma fonti ed archeologia sono sufficientemente concordi nel sottolineare che la stessa fase corrisponde a un altro fondamen­ tale salto di qualità nella storia urbanistica del1' area più sviluppata dell'Italia non greca, con l'introduzione di grandi architetture templari e di tecniche edilizie basate sull'opera quadrata, capaci di realizzare edifici anche colossali e strutture collettive imponenti, sostruzioni, ca­ nalizzazioni, cisterne, portici, propilei. Al pri­ mo re della dinastia etrusca, Tarquinio Prisco,

l. Città e organi:aa1.ione del territorio nell'Italia preromana

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Fig. 30. Marzabotto, pianta (da Sassatelli,

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la tradizione attribuisce grandi opere pubbli­ che, non a caso tutte direttamente o indiretta­ mente etichettate con l'aggettivo maximus, «grandissimo»: la Cloaca Massima, il Circo Massimo e la fondazione del tempio di Giove Ottimo Massimo, il colossale santuario poliadi­ co del Capitolium, dedicato a Giove, Giunone

e Minerva; il secondo re «etrusco», Servio Tul­ lio, cui non a caso la tradizione attribuiva anche l'introduzione del primitivo strumento mone­ tario dell'aes signatum, avrebbe operato una grande riforma politico-costituzionale con l'i­ stituzione dei comizi centuriati su base censita­ ria, i cui riflessi urbanistici sono di enorme por-

52 tata, dalla creazione della prima cinta muraria alla divisione della città in quattro regioni e al­ trettante tribù urbane, fino all'istituzione degli importanti culti, formalmente o materialmente extraurbani, di Diana Aventina e di Fortuna nel Foro Boario, connessi con la plebe, con le fre­ quentazioni mercantili e con la legittimazione divina del potere del re-tyrannos. Tutti questi dati, che, come vedremo nel prossimo capitolo, hanno trovato quasi costantemente riscontro nella documentazione archeologica di Roma, provano che a partire dall'Orientalizzante Re­ cente le città di area tirrenica, rispondendo ai contraccolpi economico-sociali di oltre un se­ colo di funzionamento delle primitive strutture urbane, cercano un nuovo assetto politico e ur­ banistico, che supera e riassorbe l'arcaico mo­ dello basato sulle Curiae e sull'esaltazione del prestigio gentilizio finora descritto.

5. I:apogeo della città arcaica I «segni» della città arcaica sono moltepli­ ci e soprattutto caratterizzati dalla scala mo­ numentale o comunque da strutture in mate­ riale non deperibile. A partire dagli ultimi de­ cenni del VII secolo a.C. le abitazioni urbane hanno ormai forme architettoniche definite, con impianti rettangolari su fondazioni in pie­ tra e alzato in mattoni crudi, tenuto da orditi di travi orizzontali e verticali o obliqui di le­ gno, una tecnica destinata a permanere (opus craticium) fino all'età imperiale romana; se gli impianti di tipo «palaziale» sopra descritti re­ stano fino a tutto il VI secolo a.C. appannag­ gio dell'altissima aristocrazia, di reges e di principes, le abitazioni urbane degli altri stra­ ti sociali di epoca arcaica, di cui abbiamo il chiaro riflesso nelle coeve tombe ceretane, sviluppano quanto già emerso sullo scorcio del VII secolo a.C., articolandosi su di una ti­ pologia fissa basata su di una tripartizione nel senso della lunghezza della struttura di base

Parte I. L:età regia e repubblicana

rettangolare, un vano centrale con focolare e due laterali destinati presumibilmente l'uno alle attività maschili e l'altro a quelle femmi­ nili, il tutto preceduto da un cortile per gli animali domestici e attività agricole sussidia­ rie (fig. 31). È implicito, in questo assetto del­ le case più antiche, il successivo sviluppo del­ la casa tardo-arcaica e di V secolo a.C. basata sull'atrio centrale e gli ambienti disposti al­ l'intorno (a sua volta origine della classica ca­ sa romana), attestata a Marzabotto e forse an­ che nelle case recentemente scavate a Roma. Anche le strade assumono il carattere di strutture artificiali, costruite con spesse mas­ sicciate di pietrame e terra pressati, con cu­ nette laterali o centrali per lo scolo delle ac­ que, sia quelle piovane sia quelle provenienti dagli stillicidi degli edifici o dall'interno dei medesimi e canalizzati con canalette terragne o fittili: vengono così pavimentati ampi spiaz­ zi per scopi collettivi, come è il caso della pri­ ma pavimentazione del Foro di Roma, datata attorno al 600 a.C. Come le strade, monu­ mentali si fanno anche le difese. Le grandi cinte di mura dell'Etruria meridionale da po­ co note, come abbiamo visto, risalgono addi­ rittura alla tarda età del Ferro; al VI secolo a.C. si datano molte delle altre mura cono­ sciute delle città etrusche, di Tarquinia, di Volterra, di Populonia; quella di Roma, tradi­ zionalmente attribuita a Servio Tullio, data al­ la metà circa del VI secolo a.C. e si presenta in forme alquanto complesse, a blocchi squa­ drati di cappellaccio e, nei punti del percorso meno difesi naturalmente, come la parte pia­ neggiante tra Quirinale ed Esquilino, con un agger, un terrapieno preceduto da un fossato e rinforzato dal muro di cinta vero e proprio, lungo oltre un chilometro. La controversa cronologia della cinta serviana di Roma (che alcuni volevano riportare addirittura al V se­ colo a.C.) ha trovato un valido punto fermo nella datazione al pieno VI secolo a.C. delle mura di Lavinio, che dimostrano come anche

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I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

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Fig. 31. Cerveteri, Tomba dei Vasi Greci.

la maggior parte delle città latine abbiano provveduto alle proprie difese nel corso del VI secolo a.e., più o meno contemporanea­ mente alle analoghe operazioni messe in atto dalle città etrusche. Altro elemento di grande rilevanza è la mo­ numentalizzazione dell'edilizia sacrale. Tutti i principali santuari urbani ed extraurbani del­ l'Etruria meridionale e del Lazio hanno resti­ tuito una fase di VI secolo a.e., attestata da strutture o da decorazioni architettoniche o da

entrambi; ciò è sicura prova del particolare fer­ vore costruttivo dell'epoca arcaica, favorito - si è detto - dall'attività politica di re-tyrannoi e dal concentrarsi delle risorse verso l'edilizia pubblica, più marcato in area latina che in quel­ la etrusca, in cui il consumo privato, soprattut­ to a fini funerari, conserva e continuerà a con­ servare a lungo un ruolo economico e ideologi­ co di primo piano. I templi e le aree sacre assu­ mono ora un risalto urbanistico destinato a condizionare ogni futuro sviluppo; ancora una

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volta la documentazione romana disegna per noi un quadro organico di queste emergenze, impossibile da rintracciare nei disiecta membra delle aree urbane etrusche. Alcuni punti focali nella collocazione dei santuari intra moenia so­ no rappresentati dalle preesistenze della fase più antica: la memoria storica della città arcai­ ca, riassunta dalla documentazione antiquaria di I secolo a.C., è fortemente ancorata alle de­ cine di sacelli sparsi su tutta l'area urbana, al­ cuni funzionali alla realtà degli insediamenti preurbani, altri, come i numerosi santuari di Fortuna attribuiti dalla tradizione a Servio Tul­ lio, sorti o valorizzati nel cuore dell'arcaismo per tutti i nuovi bisogni della complessa strati­ ficazione sociale della tarda epoca regia. Ma ac­ canto a queste minori emergenze sacre, la città ora annovera santuari nuovi e di grande rilievo sia monumentale sia ideologico: il colle capito­ lino vede sorgere il grande tempio poliadico della triade di Giove, Giunone e Minerva, ela­ borata creazione - come vedremo nel capitolo su Roma - dei Tarquini, che riassume l'ideolo­ gia religiosa dell'epoca e che nasce, con la sua mole e la sua collocazione sul più elevato colle cittadino, per gareggiare con l'antichissimo santuario panlatino di luppiter Latiaris sul Monte A lbano; sempre a culti panlatini fa rife­ rimento il santuario di Diana sul colle «plebeo» dell'Aventino voluto da Servio Tullio a imita­ zione del nemus di Diana di Ariccia, a sottoli­ neare il rilievo politico che viene ad assumere lo spezzone di «città non-città» costituito dall'ex­ trapomeriale Aventino; l'assetto monumentale dei templi di Fortuna e Mater Matuta nel Foro Boario sottolinea ulteriormente il peso econo­ mico e sociale che nel cuore del VI secolo a.C. le attività mercantili rivestono nel cruciale cen­ tro del portus Tiberinus. E così, alla fine dell'età regia, tra 499 e 484 a.C., la drammaticità dello scontro politico tra patrizi e plebei viene an­ nunciata dal gravitare verso il Foro dei monu­ mentali santuari voluti dalla classe dirigente pa­ trizia, il tempio di Saturno sede dell'aerarium

Parte I. I.:età regia e repubblicana

(la cassa comune della neonata Repubblica) e il tempio dei Castori, nuovo ellenizzante simbo­ lo dell'aristocrazia; sorgono invece sull'Aventi­ no, a testimoniare il ruolo della plebe, i grandi santuari di Mercurio e di Cerere, Libero e Li­ bera. A confronto con la situazione romana, tutto quanto è emerso dagli scavi nei santuari urbani ed extraurbani delle città etrusche, an­ che se qualitativamente e quantitativamente ri­ levante, per la grande esiguità delle fonti lette­ rarie non riesce a restituirci un quadro altret­ tanto vivido e articolato delle tensioni socio­ politiche e dei riflessi di queste nelle strutture urbanistiche; ciononostante, è possibile vedere che nelle principali città dell'Etruria, soprat­ tutto di quella meridionale, l'edilizia sacra mo­ numentale, particolarmente nei decenni finali del VI e in quelli iniziali del V secolo a.C., ha avuto indirizzi non troppo diversi da quelli re­ gistrati a Roma. Il caso più significativo è quello del porto di Caere, Pyrgi, e del suo grandioso santuario emporico di Uni, i cui caratteri sacrali ripeto­ no quello romano di Fortuna e Mater Matuta, anche se su scala ancor più monumentale (fig. 32). Edificata - almeno in parte - dal tyran­ nos The/arie Velianas, la vastissima area sacra comprendeva nella prima metà del V secolo a.C. due templi monumentali e una serie di ambienti sul lato meridionale del tèmenos per l'esercizio della sacra prostituzione, un tratto orientale del culto ribadito dalla medesima dedica in lingua fenicia del tyrannos incisa su di una delle celebri lamine di Pyrgi e dal con­ tenuto stesso dell'iscrizione menzionante il ri­ to fenicio del «seppellimento della divinità». L'area sacra, essenziale con le sue cerimonie per la vita del frequentatissimo porto di Cae­ re, è il perno della struttura urbanistica del centro di Pyrgi, d'impianto apparentemente ortogonale; la strada monumentale che colle­ ga Pyrgi a Caere, una hamaxitòs (o via car­ reggiabile) di dodici chilometri, viene a ter­ minare proprio nel propileo del santuario.

I. Città e organiz.zazione del tem·torio nell'Italia preromana

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Fig. 32. a. Pyrgi, planimetria parziale della città antica (da Colonna, Italia ante Romanum Imperium); b. Pyrgi, le due aree sacre; a sinistra il santuario settentrionale (da Colonna, Italia ante Romanum lmperium).

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Parte I. J;età regia e repubblicana

Anche l'area sacra extraurbana di Portonac­ cio a Veio (fig. 33) attorno al 500 a.C. è l'o­ pera pubblica più notevole della città arcaica, anteriore forse di qualche decennio alle stes­ se mura a blocchi di tufo che recingono il va­ sto altopiano urbano, lasciando fuori il vici­ nissimo insediamento di Piazza d'Armi, mu­ nito di proprie mura più antiche di quasi un secolo di quelle della città e organizzato con un accenno di urbanistica regolare attorno ad un edificio, nel quale preferisco di riconosce­ re una regia, piuttosto che un tempio (fig. 27). Che già nel cuore del VI secolo a.C. le forti pressioni sociali, derivanti da un intenso pro­ cesso di urbanesimo intervenuto da oltre un se­ colo nelle città sud-etrusche e latine, agissero in senso isonomico, sia pur nel quadro di una «eguaglianza tra pari» e perciò stesso in dire-

Fig. 33. Veio, santuario in località Portonaccio (da Colonna,

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zione di una normativa urbanistica valida per tutti, è dimostrato da diversi segnali in tale di­ rezione, rilevati in alcune necropoli e segnata­ mente in quelle di Caere e di Orvieto-Volsinii. A Caere, fra i colossali tumuli del secolo prece­ dente con le loro corone di piccoli tumuli mi­ nori che si dispongono senza ordine sugli alto­ piani sedi delle necropoli, vediamo insinuarsi brandelli di urbanistica regolare, tratti di vie se­ polcrali minori, come la «via dei Vasi Attici» o la «via dei Monti della Tolfa», caratterizzate da incroci ortogonali con le vie sepolcrali princi­ pali e soprattutto da tombe a dado costruite in forme modulari (fig. 34). Lo stesso si verifica e con maggior coerenza in larghe zone delle ne­ cropoli orvietane (fig. 35), dove appaiono le prime vere esperienze di urbanistica ortogona­ le, più complessa di quella di Cerveteri. A tor-

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I. Città e organiv.at.ione del territorio nell'Italia preromana

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Fig. 34. Cervete­ ri, necropoli del­ la Banditaccia, via dei Monti della Tolfa (da Rasenna).

to interpretati come espressione di una reale egemonia di parti democratiche, impensabili in quest'epoca e in questo contesto socio-politico, sia questo caso di Orvieto sia quello ceretano ci lasciano invece intravedere l'esistenza, più che di una vera e propria dottrina urbanistica «ip­ podamea», di spinte isonomiche di gruppi per­ venuti a un elevato grado di agiatezza, funzio­ nali all'integrazione di questi stessi gruppi nel1' ambito della classe dominante e al tempo stes­ so tendenti a moderare alcune espressioni este­ riori del lusso in funzione di controllo sia del1' antico strapotere delle aristocrazie gentilizie sia di eventuali spinte tiranniche, a quest'epoca particolarmente forti. Non troppo diversamente da quanto acca­ de nel mondo greco, le realizzazioni urbani­ stiche più significative di ambiente etrusco tuttavia non ci provengono dalle «vecchie città», che si sviluppano attraverso una com­ plessa e secolare storia, ma dalle fondazioni coloniali, che !'Etruria realizza nell'ultimo de­ cennio del VI secolo a.C. in Val Padana e agli inizi del V secolo a.C. in Campania, per rinforzare antichi insediamenti in pericolo di

fronte alle forti turbolenze internazionali pro­ vocate dagli scontri con altre genti, latine, ita­ liche e celtiche. Questa seconda colonizzazio­ ne seguiva dopo oltre tre secoli quella villa­ noviana; ma, a differenza di quella, che era stata concepita su forme preurbane, la nuova colonizzazione recava con sé la precisa nozio­ ne della struttura urbana. La ricolonizzazione della Campania aveva come obiettivo, se non unico, certo principale, la grande metropoli di Capua; i dati, purtroppo molto parziali e poco noti, sembrano indicare che l'insedia­ mento precedente, caratterizzato da alcuni nuclei abitativi sparsi, venne riunito in un so­ lo aggregato urbano cinto di mura e organiz­ zato in forme ortogonali. Molto più chiaro è il modello adottato in Val Padana che com­ portò sia ricompattamenti di abitati a nuclei sparsi, un po' come a Capua, nei vecchi cen­ tri villanoviani di Bologna e di Verucchio, sia vere e proprie ktiseis, fondazioni ex novo, di cui gli esempi più cospicui sono quelli di Marzabotto e di Spina. Marzabotto, di cui ignoriamo il nome an­ tico, prese forma organica intorno al 500 a.C.

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Parte I. I.:età regia e repubblicana

da insediamenti nati già nel VI secolo a.C. per controllare uno degli sbocchi naturali delle valli appenniniche essenziali per le comunica­ zioni tra !'Etruria e la Pianura Padana, in rap­ porto sia a un guado del fiume Reno sia allo sfruttamento di una piana coltivabile partico­ larmente grande (fig. 30). Una bassa altura, a NO dell'abitato, elevantesi di soli 12 m dalla pianura, fu prescelta come acropoli e sede dei santuari collettivi e in primis dell' auguracu­ lum: quest'ultimo, al pari degli altri edifici sa-

cri orientato N-S, è servito di grama, e cioè di base per lo strumento usato per realizzare la limitatio dell'intero abitato, secondo l'antica dottrina augurale etrusca, indubbiamente ana­ loga a quella romana, confermata dalla pre­ senza della decussis su pietre sepolte nella massicciata stradale agli incroci principali fra le grandi arterie della rete regolare (fig. 31). In posizione appena meno enfatica dell' augu­ raculum, posto a quota 21 m, si dispongono su di una piattaforma naturale (quota 17 m)

Fig. 35. Orvieto, necropoli di Crocifisso del Tufo (da Bianchi Bandinelli-Torelli).

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Fig. 36. L'acropoli della città etrusca presso Marzabotto (da Colonna).

due templi su podio, uno maggiore (tempio C: m 26 circa per 18,20), di impianto tradi­ zionale tuscanico a tre celle, e uno minore (tempio A: m 14x12 circa), e due strutture quadrate (B e D), anch'esse su podio, una (B) da identificare con il mundus, sede di riti cto­ nii di fertilità (come il mundus di Roma ospi­ ta un profondissimo pozzo, luogo di comuni­ cazione simbolica con il mondo infero), e l'al­ tra (D) probabilmente interpretabile come re­ cinto sacro scoperto. Queste costruzioni e un tempio nella parte bassa dell'abitato, organiz­ zata secondo i princìpi dell'urbanistica a pian­ ta ortogonale, sono i soli edifici sacri noti en­ tro il perimetro urbano: extra moenia erano due piccoli santuari connessi con sorgenti, l'uno a NE e l'altro a N dell'abitato. A SE dell'acropoli e difeso da un aggere, per circa 25 ettari si estende l'abitato, esplorato solo in parte, ma il cui impianto regolare è ben rico­ struibile. Perno della struttura urbanistica è un asse stradale N-S di 15 m di larghezza, di

cui cinque destinati alla sede carreggiabile e cinque per ciascuno dei lati con funzioni di marciapiede; ortogonale a questo asse e a di­ stanza regolare di 165 m sono tre strade E-0, pure di 15 m di larghezza e strutturate come l'asse N-S in tre parti equivalenti, una per la sede stradale vera e propria e due per i mar­ ciapiedi. Ne risultano 8 regiones, suddivise a loro volta in isolati quasi tutti di due actus, pari a m 35 di larghezza (fa vistosa eccezione il secondo isolato da O delle regiones I, III, V, VII, ritagliato a circa metà misura), mediante vie parallele minori N-S di 5 m di larghezza e prive dei marciapiedi. Il piede adoperato è quello attico di metri 0,296 e gli isolati risul­ tano di forma assai allungata (m 35x65: forse 2x10 actus, comprendendo le sedi stradali in un rapporto di 1:5), con un sistema conven­ zionalmente definito per strigas, ricco di con­ fronti nella pratica urbanistica greca arcaica: i comparanda più stringenti sono, tutt'altro che castµÌmente, con impianti delle colonie gre-

60 che d'Occidente, con Selinunte e soprattutto con Metaponto. Regolare infine fu anche l'impianto di Spina, rilevato in parte dalla fo­ tografia e in parte da recenti scavi di uno de­ gli isolati. La natura lagunare del luogo ha fortemente condizionato l'omogeneità e la re­ golarità dell'assetto urbano: tuttavia la sco­ perta, nello scavo dell'isolato, di cippi con de­ cussis analoghi a quelli di Marzabotto testi­ monia che anche in questa più complessa si­ tuazione corografica l'opera di fondazione ur­ bana seguì linee regolari e pratiche di natura tecnico-sacrale del tipo ora descritto. Possiamo quindi concludere che, dopo le esperienze molto embrionali di VII secolo a.C., come a Piazza d'Armi di Veio, la vera conquista della forma urbana pienamente espressa in veri e propri termini urbanistici in Etruria e nel Lazio è un fenomeno largamen­ te ascrivibile al VI secolo a.C. e, in particola­ re, ai primi decenni del secolo; tuttavia, la dialettica tra città e campagna trova un suo definitivo equilibrio alla fine del secolo, quan­ do i principali centri urbani, anche del meno precoce Settentrione, completano la sottomis­ sione dei superstiti oppida e castel/a indipen­ denti, in gran parte distrutti e abbandonati, come Acquarossa o Murlo, più di rado at­ trezzati come phrouria, quali San Giovenale e Luni sul Mignone. Intorno al 500 a.C. le po­ leis etrusche e latine, enormemente ingrandi­ te, appaiono virtualmente isolate, con i loro centri portuali e qualche raro castellum di­ pendente, al centro di territori vastissimi se­ mi-spopolati; è significativo che queste poleis siano tutte quelle note dalle vicende storiche dei secoli tra V e III a.C. quando entrano di volta in volta in conflitto con Roma e poi dal 280 a.C. nell'orbita romana come sociae. Come mostra l'aspetto monumentale delle «vecchie città» e, ancor più, delle colonie, la forma urbana cui queste città tendono coinci­ de esteriormente con quella delle poleis gre­ che coeve, ripetendo anche in una tangibile

Parte I. I:età regia e repubblicana

espressione urbanistica quel gran processo di ellenizzazione che contraddistingue tutta la cultura arcaica etrusca e latina, sia religiosa sia materiale, sia politica sia artistica. Ma co­ me nella cultura figurativa o in tanti altri aspetti dell'ideologia, l'ellenizzazione voluta dall'aristocrazia dominante è non solo seletti­ va, funzionale ai bisogni delle élites al potere, ma possiede anche una forza strutturante del­ la realtà socio-politica e culturale locale: l'e­ sempio di Marzabotto, con la sua enfasi sulla sacralità concentrata nell'Arx e, si direbbe, dissociata dalla dimensione politica, la dice lunga su come il modello formale greco (mo­ numentalizzazione dell'edilizia collettiva, en­ fasi esclusiva su grandi santuari con particola­ re significato politico-religioso, impianto per strigas di tipo coloniale greco) è stato recepi­ to e trasformato per assicurare una più com­ pleta riproduzione della società aristocratica. Nello stesso tempo l'adozione del modello av­ viene attraverso canali privilegiati di mentalità e tecniche religiose arcaicissime: l'indubbio impiego delle procedure augurali nella pro­ gettazione e nella realizzazione dei principali elementi che contribuiscono a definire sia la morfologia urbana arcaica nelle «vecchie città» (cioè le architetture templari), sia l'in­ tero impianto urbanistico delle fondazioni co­ loniali, è la prova che il filtro dei modelli el­ lenici assunti è stato quello che risultava ga­ rantito da un rituale antichissimo, preistorico, saldamente nelle mani della classe dominante, la sola in possesso dell'auspicium, strumento unico di legittimazione sacrale del potere.

6. La realtà urbana in Italia tra V e IV secolo a.C. La storia successiva dell'urbanistica nell'a­ rea etrusco-latina presenta due tappe fonda­ mentali, la prima coincidente con il V e la pri­ ma parte del IV secolo a.C., momento gene-

I. Città e organizzazione del territorio nell'Italia preromana

rale di trasformazione dell'intero panorama della penisola italiana, e la seconda iscrivibile tra i secoli dalla metà del IV alla metà del II a.C., durante i quali il progressivo, inarresta­ bile emergere della potenza di Roma (di cui si dirà negli altri capitoli) interviene a modifica­ re radicalmente l'assetto, che, per quanto in­ stabile e precario, era stato raggiunto nella fa­ se precedente. Vediamo per il momento la prima delle due fasi. Nel V secolo a.C. il quadro socio-politico determinatosi nei 150 anni precedenti viene gradualmente sovvertito da eventi complessi di indole interna e internazionale. Nelle grandi città etrusche e latine il conflitto sociale tra clas­ si dominanti e classi subalterne, sebbene gli sta­ tuti di queste ultime in Etruria e nel Lazio non siano univoci, mette a dura prova l'assetto rag­ giunto durante l'età arcaica e sanzionato da for­ me costituzionali repubblicane governate in maniera aristocratico-oligarchica; nelle aree in­ terne, italiche, della penisola, ove lo sviluppo economico dell'area costiera greco-coloniale, etrusca e latina aveva confinato il sottosviluppo e con esso il preistorico modello insediativo katà kòmas (o vicatim alla latina), l'attrazione esercitata dal benessere delle zone costiere do­ minate dalla forma urbana sposta forza-lavoro agricola e militare verso le città. Questo feno­ meno è certamente molto antico, come dimo­ strano il semimitico conflitto tra Latini e Sabi­ ni alle origini stesse di Roma e, più documenta­ tamente, l'alta percentuale di onomastica itali­ ca presente nella Volsinii di VI secolo a.C.; ma è certo che nel V secolo a.C. il processo si è ac­ centuato, come si evince dalla celebre emigra­ zione dei Claudii dalla Sabina nel 495 a.C. e dal coevo arrivo dei Volsci nel Lazio meridionale o, più tardi, dall'infiltrazione dei Campani nelle compagini cittadine etrusche e greche della Campania, che giungeranno a conquistare qua­ si tutte quelle città nell'ultimo quarto del V se­ colo a.C. E al movimento delle tribù italiche delle montagne va ulteriormente aggiunto

61 quello delle tribù celtiche in Italia settentriona­ le, che, iniziato nel 600 a.C., va forse annovera­ to tra le cause della «ricolonizzazione» etrusca della Valle Padana alla fine dello stesso secolo, per concludersi in maniera altamente dramma­ tica con l'incendio di Roma nel 390 a C. e con la distruzione dei domini padani degli Etruschi nel corso del IV secolo a.C. Se a tutti i conflitti sociali del V secolo a.C., per noi incarnati soprattutto dalle descrizioni storiche dello scontro tra patrizi e plebei a Ro­ ma, se a queste e ad altre turbolenze interne della penisola aggiungiamo le difficoltà provo­ cate sul piano internazionale dalla fine della pax Persica nel Mediterraneo orientale nel 480 a.C. e dal contemporaneo emergere della potenza siracusana nel Mediterraneo centrale, possia­ mo ben comprendere come la risposta oligar­ chica alla crisi in area etrusca e latina abbia comportato una virtuale stasi nell'attività edili­ zia e nello sviluppo urbano, così intensi nel pe­ riodo a cavallo tra VI e V secolo a.C., e ciò non solo perché effetto delle contrazioni negli inve­ stimenti causate dalle difficoltà sopra elencate, ma anche perché parte integrante della menta­ lità e delle scelte economico-sociali oligarchi­ che. Ma se tale è l'impatto del difficile V secolo a.C. sulle città etrusche e latine, non possiamo dire che l'epoca passi sul resto dell'Italia senza lasciar tracce nel campo dell'evoluzione urba­ na. Già i riflessi del forte sviluppo economico sull'entroterra più vicino ai territori urbani ave­ va dato avvio, nel corso del VII e VI secolo a.C., ad una serie di coaguli di ricchezza, per noi evi­ denti archeologicamente soprattutto grazie a tombe principesche note in molte aree non ur­ banizzate, dalla Puglia alla Lucania, dalla Sabi­ na Tiberina all'Umbria e al Piceno: grandi se­ polcri contenenti materiali preziosi di importa­ zione greci ed etruschi, come quelli - per cita­ re solo alcuni esempi tra i molti - di Armento in Lucania, di Colle del Forno in Sabina, di Mon­ teleone di Spoleto in Umbria, di Sirolo-Numa­ na e di Pitino di S. Severino nel Piceno, testi-

62 moniano l'esistenza di reguli e principes alla te­ sta di comunità di villaggio e in possesso di straordinario potere economico e di conse­ guente controllo sociale. L'assetto di queste società italiche di più re­ cente sviluppo va modellandosi progressiva­ mente in evidenti forme di dipendenza del vec­ chio tipo sviluppato nell'età precedente nelle aree caratterizzate da strutture urbane, ben at­ testato da più di una necropoli: pur nella diver­ sità delle modalità di accumulazione e degli aspetti esteriori dei comportamenti «culturali» delle varie zone italiche, queste forme di di­ pendenza, che superano le arcaiche strutture parentelari ereditate da quelle società dall'epo­ ca preistorica, non a caso assumono talora ca­ ratteri sostanzialmente omogenei a quelli pro­ pri delle formazioni economiche delle società urbane aristocratiche dell'età arcaica. Non fa perciò meraviglia che in questi stessi contesti affiorino in queste zone anaktora simili a quelli dell'Etruria e del Lazio di VII e VI secolo a.C., noti a Murlo e ad Acquarossa: tale è il caso de­ gli edifici riccamente decorati alla maniera di quelli sacri greci, con terrecotte architettoniche o addirittura con partiti architettonici in pietra, come quelli di Lavello e di Serra di Vaglio in Lucania, o a Cavallino in Messapia. Accanto a questi anaktora, come i due noti a Lavello, che si presentano con una pianta sostanzialmente identica, centrata su di un ampio cortile, sede di cerimonie del gruppo, preceduto da un por­ tico (fig. 37), taluni insediamenti crescono in misura notevole fino ad assumere una fisiono­ mia quasi-urbana: così a Serra di Vaglio tra VI e V secolo a.C. la vasta area occupata dall'abi­ tato, con un embrione di organizzazione rego­ lare (fig. 38), si popola di grandi case della lo­ cale aristocrazia, decorate anch'esse con terre­ cotte architettoniche d'ispirazione greca, men­ tre a Cavallino una poderosa cinta di mura, sempre derivante da modelli greci, abbraccia il vasto insediamento, attraversato da strade di terra battuta e con un rudimento di organizza-

Parte I. I:età regia e repubblicana

Fig. 37. Lavello, anaktoron di contrada Casino (da To­ relli, Tota Italia).

zione urbanistica; gran parte dei principali cen­ tri dell'Apulia, da Arpi a Monte Sannace, si struttura in maniera analoga, con il singolare tratto non urbano costituito dal fatto che in es­ si perdura tenace l'uso delle sepolture attorno alle abitazioni. La dimensione sacra collettiva affiora assai di rado, mostrando caratteristiche molto arcaiche di tipo etnico-tribale, come ac­ cade a Garaguso in Lucania e ad Oria o nelle grotte di area salentina in Messapia. Ma nei centri meglio esplorati dell'Apulia e della Basi­ licata, grandi e piccoli, in nessun caso siamo in grado di cogliere una netta distinzione tra le ca­ tegorie del sacro e del privato, per non parlare di quelle del politico; come nell'Etruria e nel Lazio dell'alto arcaismo, la realtà gentilizia per­ mea di sé tutto, assorbendo nella dimensione privata, all'interno dei propri anaktora, religio­ ne, politica, forme sociali organizzate. Il risul­ tato è che in queste aree si vanno così creando strutture cittadine molto particolari, quasi pseudourbane, prive di segni del politico e, fi­ no ad epoca relativamente tarda, del sacro col­ lettivo, e dunque ben diverse dalle vere e pro­ prie città: ciò non impedisce alle fonti antiche

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a.e., da quando cioè fanno la loro apparizio­ ne delle tombe omogenee appena ricordate e i santuari cittadini ricevono una forma archi­ tettonica in tutto simile a quella dei templi delle vicine città etrusche. Non è casuale che, accanto a questi fenomeni archeologicamente ben documentati, la comunità tuderte forni­ sca un'altra importante testimonianza di sé e della propria composizione etnica e sociale nel grande santuario extraurbano di Monte Santo, della fine del V secolo a.C., con l'ecce­ zionale donario bronzeo del Marte di Todi, consacrato da un celta umbrizzato. Per riassumere, possiamo dire che nel V secolo a.e., mentre le «vecchie» città etrusche e latine sono travagliate da profondi conflitti interni ed esterni, nelle aree italiche più ric­ che (e cioè meno montagnose e perlopiù a di­ retto contatto con i territori urbanizzati, gre­ ci, etruschi e latini) viene delineandosi un fe­ nomeno di concentrazione di ricchezza e di spinta in direzione delle strutture urbane, che nel successivo IV secolo a.C. darà origine a città, la cui forma urbana sarà tanto più com­ piuta quanto più articolato sarà il quadro so­ cio-economico o, se si vuole, quanto meno ri-

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sivo superamento del modello degli oppzda in direzione della città, sia pur bruscamente interrotto dalla conquista romana del secon­ do e terzo decennio del III secolo a.e. (fig. 39): e infatti a Roccagloriosa l'iniziale inse­ diamento sul versante montano più elevato, fortificato in maniera poderosa al momento della conquista alla fine del V secolo a.e. e sede di un ristretto numero di gruppi gen­ tilizi, nella seconda metà del IV secolo a.e. si estende ben presto fuori della cinta mu­ raria con altre abitazioni, che sembrano di­ sporsi negli altopiani sottostanti in maniera regolare. L'evoluzione appare conclusa con l'instaurazione di vere e proprie forme poli­ tiche nel corso del IV secolo a.e., quando si data un'iscrizione su bronzo con il testo di una legge contenente appunto la menzio­ ne di un senato locale. Poco più distante, sulla stessa fascia tirrenica, la Laos lucana (fig. 40), coeva agli insediamenti di altura ora ricordati, viene organizzata nello stesso

gido sarà il dominio dei rapporti sociali basa­ ti sulla dipendenza semi-servile, caratteristici dell'arcaismo e della prima età classica. In questo senso, è interessante prendere in con­ siderazione una serie di fatti documentati in diverse regioni della penisola, che aiutano a chiarire il fenomeno in tutta la sua portata. Se prendiamo in considerazione il caso dei Lucani, potremo notare che, mentre nel cuore della regione nel corso del IV secolo a.e. finisce con il prevalere il modello ar­ caico degli oppida, proprio dei centri di al­ tura poderosamente fortificati, come Monte­ coppolo, Cersosimo, Satriano, Serra di Va­ glio, ma con scarsi segni di organizzazione urbana interna (quasi con un regresso ri­ spetto a quanto documentato nel secolo pre­ cedente nella stessa Serra di Vaglio), nell'a­ rea più vicina al Tirreno la situazione risul­ ta assai più variegata. Qui infatti centri di altura, come Roccagloriosa (forse la Pixunte lucana), sembrano awiati verso un progresFig. 39. Roccagloriosa, pianta (da Roccagloriosa 2).

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Fig. 48. Territorio della tribù dei Vestini: i numeri indicano gli oppida preromani, i nomi i municipi romani (dis. M. Monella).

re politiche e magistratuali, i magistri per i vi­ ci e gli aedi/es per i pagi: in apparenza, non siamo in grado di distinguere, da un punto di vista meramente esteriore, un vicus da un pa­ gus, poiché i testi epigrafici definiscono con entrambi i termini entità insediative di esten­ sione e dalle caratteristiche formali simili. In realtà, la distinzione giuridica è chiara, dal momento che il vicus è l'unità insediativa ele­ mentare, che le fonti (Pesto, p. 502 L) per questi territori assimilano all'entità della villa, rappresentando teoricamente la forma orga­ nizzativa della campagna riconosciuta dalla legge (e come tale, a differenza del pagus,

compare nelle formulazioni di prowedimenti giuridici come la !ex Rubria di età cesariana), laddove il pagus è una articolazione territoria­ le teoricamente astratta, comprendente uno o più vici la cui origine è determinata da preci­ se realtà geo-antropiche: il pagus, infatti, se­ condo Pesto (p. 247 L) è costituito da quanti eadem aqua utuntur, da quanti «usano la stes­ sa acqua», un'indicazione preziosa sulle for­ me di aggregazione politico-religiosa di que­ ste aree. A questo riguardo, particolare importanza rivestono i santuari di area sabellica connessi con sorgenti e polle d'acqua, che costituiscono

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Fig. 49. Pianta del santuario sannitico di Pietrabbondante (da La Regina).

non a caso la stragrande maggioranza dei luo­ ghi sacri di campagna noti tra il IV e il I secolo a.C. nei territori montani di tutta l'Italia centro­ meridionale segnata dai tratturi della transu­ manza, e che conseguentemente ospitano mer­ cati e fiere periodiche, frequentate dalle popo­ lazioni stanziate nella zona e dai pastori transu­ manti. Alcuni di questi santuari resteranno di interesse esclusivamente locale, come quelli di Furfo nel territorio vestino o di Vastogirardi in territorio pentro, altri invece assumeranno tra III e II secolo a.C. rilievo ben più grande del­ l'ambito paganico, fino a toccare l'importanza di centri politico-sacrali di livello «tribale» o et­ nico alla vigilia della guerra sociale, come è il

caso del santuario di Mefite a Rossano di Vaglio per i Lucani o quello di Pietrabbondante per i Sanniti Pentri (fig. 49). Di fatto perciò, i territori di queste tribù sono articolati in aree paganiche - per analo­ gia ricordiamo che, secondo Cesare (Bellum Gallicum I, 12, 4-5), gli Helvetzi erano suddi­ visi in quattro pagi -, nelle quali gravitano più vici, le cui arces sono da identificare con le cinte fortificate, e uno o più santuari gestiti tanto da uno o più vici quanto da uno o più pagi: per i territori dei Vestini conosciamo in­ fatti leggi, come quella del santuario di Furfo (CIL 12, 1804), dove intervengono più vici, o dediche a santuari interpaganici, come quello

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di luppiter Victor Decem Pagorum (CIL 12, 3269) nel territorio di Pinna. Il pagus dunque vive e «funziona» come una città, il santuario principale del pagus ne costituisce in buona sostanza il forum, con tempio e mercato, sia pur periodico o stagionale, mentre gli oppzda sulle vette montane fungono da rocche per le necessità di difesa.

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7. L'urbanistica italica ali'epoca della conqui­ sta romana Attorno alla metà del IV secolo a.C., quando inizia l'irresistibile marcia delle legio­ ni romane attraverso la penisola, la fase di tra­ sformazione economica, sociale e politica del­ l'Italia antica, awiata all'inizio del V secolo a.C., può dirsi conclusa e la fisionomia degli insediamenti ha assunto la forma delineata nel paragrafo precedente. L'area di antica urbanizzazione, !'Etruria, il Lazio e la Campania, raggiunge un equili­ brio economico-sociale, con la progressiva risoluzione dei conflitti di classe mediante la cooptazione di parti delle antiche classi su­ balterne entro i ceti dominanti, più precoce­ mente ed estesamente tra Etruria meridiona­ le, Lazio e Campania (metà del IV secolo a.C.), in maniera più tardiva e selettiva nel­ l'Etruria centro-settentrionale (III-II secolo a.C.). Questo processo di integrazione socia­ le ha profondi effetti sulla realtà urbana e territoriale, generando estese colonizzazioni interne, che redistribuiscono fra i nuovi gruppi, associati in varia forma e a vario li­ vello al potere, terre rimaste per oltre un se­ colo e mezzo semideserte o gestite con col­ tivazioni estensive, e creano attorno alla me­ tropoli una corona di vere e proprie piccole città, di oppida, di castel/a, di piccoli centri e cli gruppi di casolari. Tra i molti esempi possibili scegliamo il territorio di Tarquinia, dove l'assetto raggiunto alla fine dell'areai-

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Fig. 50. Il territorio tarquiniese nel IV secolo a.C. con i relativi oppida (dis. M. Monella).

smo, con la concentrazione della popolazio­ ne nella metropoli e nel suo porto di Gra­ visca, viene modificato grazie alla nascita di molti centri urbani, di varie dimensioni, de­ stinati a innervare e a colonizzare con asset­ to proprietario piccolo e medio l'esteso ter­ ritorio posto a oriente della città (fig. 50). Vediamo così emergere una costellazione dei centri muniti, sorti talora sulle ceneri di abi­ tati abbandonati in epoca arcaica o in pros­ simità di essi, come è il caso di Tuscania, Blera, Perento, S. Giuliano e S. Giovenale, talora ancora con fondazioni ex novo, come è il caso di Sorrina, Norchia, Castel d'Asso e Musarna: tutti questi centri, nati in base a un vero e proprio programma di deduzioni coloniali, non troppo diverso da quello per­ seguito da Roma tra V e IV secolo a.C., ven­ gono a costituire una forte cintura difensiva delle fertili pianure in possesso di Tarquinia, tra il Lago di Bolsena, la Valle del Marta e i Monti Cimini, contro possibili aggressioni

76 provenienti dai contermini territori di Vulci, eaere, Falerii e Volsinii. La recentissima (e ancora inedita) scoperta in una collezione privata di Vetralla di un oggetto provenien­ te con tutta probabilità da uno di questi centri, una copia in scala ridotta della cele­ berrima lastra di rivestimento della fronte del tempio poliadico di Tarquinia detto dell'«Ara della Regina» con la raffigurazione di una coppia di cavalli alati, prova in ma­ niera incontrovertibile che il programma di ricolonizzazione del territorio è avvenuto sulla base di un'iniziativa ufficiale della città di Tarquinia, coinvolgendo fra l'altro rami cadetti di alcune delle grandi famiglie del­ l'aristocrazia locale. Un fortunato scavo fran­ cese nella città dal nome sconosciuto sorta nella località di Musarna ha dimostrato che la fondazione del piccolo centro non data ad epoca anteriore alla seconda metà del IV se­ colo a.C. La città (fig. 51), che, come è con­ sueto in Etruria meridionale, sorge su di un altopiano di tufo (m 175 s.l.m.) dalle pareti scoscese, lungo m 450 e largo al massimo m 150, è difesa da una fortificazione a blocchi cavati in situ, rinforzata da un aggere, da un proteichisma, o fortificazione avanzata sul la­ to meridionale, e da un grande e profondo fossato sul lato orientale, con due porte alle estremità settentrionale e meridionale e una o forse più postierle; una strada centrale lar­ ga m 6,70 univa le due porte ed era inter­ secata da almeno cinque vie minori perpen­ dicolari larghe m 4,10, mentre al centro at­ traversava una piazza lunga e stretta, misurante m 81,40x19,40, nella quale va ri­ conosciuto il luogo dell'agorà o foro della cittadina (fig. 52). Il lato orientale della piaz­ za forense, l'isolato F, è l'unico in gran par­ te esplorato e presenta sull'angolo meridio­ nale un tempietto di Ercole e nella parte centrale un complesso definito dagli scava­ tori «mercato», sede sin dalla fondazione di attività commerciali e artigianali, abbellito al-

Parte I. I.:età regia e repubblicana

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II. Le città dell'Italia in età imperiale

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Fig. 143. Minturnae. La zona del foro.

di horrea coperti, si moltiplicano nell'Italia del I secolo d.C. Il macellum di Pozzuoli rap­ presenta la redazione più compiuta di questo tipo di edificio: esso costituisce una vera e propria agorà marittima nelle immediate vici­ nanze del porto. A Ostia, mentre viene co­ struito un foro dominato dal suddetto tempio di Roma e Augusto, il celebre «Piazzale delle Corporazioni», concepito in età augustea in connessione organica con il teatro di cui co­ stituiva una sorta di porticus post scaenam, viene progressivamente dotato di portici peri­ ferici; i lavori proseguiranno tra l'età claudia e quella domizianea e questo enorme spiaz­ zo, le cui finalità commerciali non ne intacca­ no minimamente la monumentalità, alla fine del I secolo verrà dotato anche di un tempio centrale. Il teatro di Ostia, secondo un'iscrizione opera di Agrippa, è senza dubbio uno dei primi edifici di questo genere dell'Italia im­ periale. Per il solo I secolo dell' èra volgare sono stati censiti quasi 50 teatri, concentrati prevalentemente nell'Italia centrale e setten­ trionale. Come per le basiliche, e in modo ancora più chiaro, l'indice di frequenza nel-

le diverse zone definisce una tendenza chia­ rissima del periodo e che va ben oltre i rea­ li bisogni dell'attrezzatura monumentale. Non c'è dubbio che la messa a punto della formula del teatro di Marcello a Roma fa­ vorisca la ripetizione di quello che si affer­ ma immediatamente come un modello. Ma le soluzioni più antiche, come i teatri con cripte di Fiesole e Cassino, le caveae ad am­ bulacro esterno come a Sepino ed Ercolano, il parziale addossarsi al pendio naturale del terreno, come a Suessa Aurunca e a Verona, continuano ad esistere. Per la verità, in un'età in cui, malgrado gli sforzi che Augu­ sto aspettava dai poeti contemporanei, la drammaturgia romana aveva ormai finito da tempo di rivolgersi alle masse, questo fiorire di edifici scenici si spiega soprattutto con l'importanza accordata al teatro nella scala dei valori dell' urbanitas. Se si pensa al ritar­ do - e alla diffidenza - con cui la Roma re­ pubblicana si era dotata di un theatrum la­ pideum, e al posto che invece questo edifi­ cio ebbe nella letteratura dell'inizio dell'Impero (ad esempio il prologo della III Georgica e la descrizione di Cartagine nel I

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Parte II. L'età imperiale

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Fig. 144. Brescia. Pianta schematica del Campidoglio e del teatro, con evidenziazione delle strutture intermedie ( «sala dei pilastri»).

canto dell'Eneide) si valuterà il cambiamen­ to ideologico che nel giro di pochi decenni si era affermato in quel campo. Per convin­ cersene è, del resto, sufficiente considerare l'impegno con cui i principi vassalli, come Erode o Giuba II, dotarono le rispettive ca­ pitali, Gerusalemme e Cesarea di Maurita­ nia, di questo elemento ritenuto indispensa­ bile per la vita urbana. La ricchezza orna­ mentale ed il valore simbolico della scaenae /rons del teatro di Caere mostrano, inoltre, l'importanza assunta da questo edificio nel centro dell'antica metropoli etrusca che, co­ me si è già detto, fu rinnovata per volontà di Augusto e Claudio. I teatri non occupavano sempre la stessa posizione nell'ambito delle città, anzi, tutti i casi possibili sono più o meno rappresentati: dalle città in cui l'edificio scenico si trova nel­ le immediate vicinanze del Foro (come a Min­ tumae, Brixia, Augusta Bagiennorum), fino a quelle in cui sorgeva all'esterno della cinta ur­ bica (come a Peltuinum). Tuttavia va rilevata la ricorrente preoccupazione di far partecipa­ re, per quanto possibile, il teatro ad una se-

quenza monumentale dominante: il caso di Verona è esemplare poiché il teatro, aperto sull'altra sponda dell'Adige lungo le pendici della collina di S. Pietro, chiude la prospettiva assiale I del decumanus che costeggia lo spiazzo del Capitolium,; quest'ultimo è stato identificp:o d}. G. Ca/alieri Manasse sul lato corto/settentrionale Bel Foro e non, come si riteneva prima sulla base di indizi erronea­ mente interpretati, sul suo lato lungo occi­ dentale; in tal modo, anche se relativamente eccentrico, il teatro di Verona si integra per­ fettamente nell'abitato (vedi fig. 150). Nella città imperiale il teatro rappresenta uno dei luoghi privilegiati in cui la comunità, riunita davanti alle immagini degli imperatori e dei notabili locali durante i ludi scaenici (la periodicità dei quali sembra ormai in parte ritmata dalle feste dinastiche), esprime il pro­ prio consensus e la propria fedeltà. Il perfe­ zionamento delle liturgie del culto imperiale, con il temporaneo trasferimento delle dorate effigi dei divi dal tempio loro dedicato fino al­ la scena del teatro - dove, secondo il rituale definito dall'iscrizione greca di Gythion, si procedeva a sacrifici di incenso e vino - a par­ tire dall'età tiberiana impone un inevitabile legame spaziale con il centro religioso della città. Se nei teatri di questo periodo non so­ no stati ancora identificati degli annessi cul­ tuali sicuri, come il santuario situato alle spal­ le del muro della scena del teatro di Augusta Emerita (Mérida, in Spagna), tuttavia un'at­ tenta analisi di alcune vestigia permetterebbe certamente di formulare delle ipotesi precise: ad esempio, le statue di Tiberio e Livia rinve­ nute sulla sommità della cavea del teatro di Ercolano attribuiscono alle edicole distile che le ospitavano la funzione di un autentico sa­ cellum; lo stesso vale per le tre esedre della terrazza in summa cavea del teatro di Volter­ ra, davanti alle quali è stata trovata una statua colossale di Augusto. E, per finire, la chiarifi­ cazione dei rapporti cronologici e strutturali

II. Le città dell'Italia in età imperiale

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Fig. 146. Pianta di Pozzuoli romana (da P. Sommella).

tra il Capitolium, la sala detta dei pilastri ed il teatro di Brescia apporterebbe sicuramente informazioni preziose su questo punto. Gli anfiteatri, rispondenti ai bisogni e ai gusti più popolari, risultano anch'essi molto numerosi nel I secolo; per tutta l'età alto-im­ periale le disponibilità delle città e dei loro evergeti vengono in gran parte assorbite dalla manutenzione e dall'ingrandimento di questi edifici. Soltanto verso la fine dell'età repub­ blicana gli anfiteatri avevano fatto la loro

comparsa in Italia e soltanto nelle regioni me­ ridionali. Alcuni di essi - edifici particolar­ mente grandi e costosi - in un primo tempo erano stati costruiti in legno, come quelli di Fidene, Piacenza, Bologna, Cremona e sicura­ mente Modena. Disseminati su tutta la peni­ sola da Aosta a Venosa, gli anfiteatri, aggiun­ ti tardi alla panoplia urbana, hanno creato spesso insormontabili problemi di integrazio­ ne. In molti casi si preferì costruire fuori del­ la cinta repubblicana o augustea, come a Ve-

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II. Le città dell'Italia in età imperiale

Fig. 147. Pompei. L'espandersi del foro e la specializzazione degli spazi pubblici.

rona, Luni, Milano, Augusta Bagiennorum, Urbs Salvia; ma va notato che a Verona l'edi­ ficio è orientato sugli assi della rete viaria, an­ che se si trova a circa 80 m dalle mura. Spes­ so però questi edifici hanno trovato posto nel­ la città, talvolta guadagnando spazio con enormi lavori in una zona non occupata: è il caso di Alba Fucens dove l'anfiteatro, in gran parte scavato nella roccia ai piedi della colli­ na di S. Pietro, è rigorosamente in asse con i decumani. In altri casi veniva loro riservato

uno spazio fin dalla fondazione, come sembra sia accaduto ad Aosta, dove l'anfiteatro si tro­ va nell'angolo N-E della cinta, in un'area cor­ rispondente a due insulae. Può accadere an­ che, come a Carsulae, che l'anfiteatro si iscri­ va nello stesso centro monumentale, all'inter­ no del quale rappresenta, insieme al teatro, un settore specializzato, poco distante dal Fo­ ro e dai suoi annessi religiosi. Il caso di Poz­ zuoli è particolarmente degno di nota poiché questa città, dotata di un anfiteatro fin dalla

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Parte II. L'età imperiale

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Fig. 149. Pianta generale di Peltuinum; da notare la localizzazione dd teatro e dell'anfiteatro (da B. di Marco).

metà del I secolo a.C., sentì il bisogno di co­ struirne un altro in età flavia; le indagini di P. Sommella hanno rivelato che questo nuovo edificio - il terzo per dimensioni dopo il Co­ losseo e l'anfiteatro di Capua - era stato co­ struito nella zona in cui convergevano le stra­ de provenienti dal retroterra, quella che sale dal porto e l'asse che arriva direttamente nel Foro. In ciò si ravvisa chiaramente la volontà di fare dell'anfiteatro uno dei punti focali del­ la topografia urbana: sono rari i casi in cui lo spostamento dei luoghi di riunione della col­ lettività coloniale o municipale dalle aree po­ litiche ed amministrative verso gli edifici di spettacolo risulta così evidente. Il fenomeno,

che inizia nella seconda metà del I secolo, si precisa, come avremo modo di vedere, in età antonina. Le terme - il termine appare per la prima volta in una iscrizione di Como dell'età di Ve­ spasiano (CIL V, 5279: in thermis), mentre nel I secolo ricorrono più frequentemente bali­ neum o balneum - hanno un grande sviluppo, soprattutto all'inizio dell'Impero, nell'Italia centrale. Gli impianti termali più importanti sono quelli di Baia che per la verità fanno par­ te della proprietà imperiale, quelli di Ercolano e quelli di Terracina, oltre a quelli situati pres­ so i teatri di Arezzo e Perento. Il grande fiorire di terme nelle città italiane si registra però nel

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Fig. 150. Planimetria di Verona nella prima età imperiale (da G. Cavalieri Manasse).

Parte II. L'età imperiale

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Fig. 151. Pianta del centro monumentale di Augusta Bagiennorum (da J.B. Ward Perkins).

II secolo. Esse sono considerate così importan­ ti per l'attrezzatura di base dei centri urbani che Adriano fa ricostruire a Tarquinia un bali­ neum in rovina, ciò che non impedirà la costru­ zione di un nuovo stabilimento ad opera del ni­ pote di L. Dasumius Tullius Tuscus all'inizio del regno di Marco Aurelio. Non è fuor di luo­ go ricordare che la somma più alta menzionata in un'iscrizione dell'Italia - più di 2.000.000 di sesterzi - riguarda le terme di Nettuno ad Ostia, costruite e decorate grazie alla donazio­ ne di Antonino Pio, a seguito di un impegno contratto dal suo predecessore. Va però sotto­ lineato che anche in questa urbanistica italica del II secolo nessun impianto termale raggiun­ gerà, per complessità planimetrica e dimensio­ ni, le terme di molte città dell'Asia Minore (Mi­ leto, Efeso) o dell'Africa (Cartagine, Leptis Magna): le più grandi terme di Ostia, quelle del Foro, coprono solo 9000 m2 • Questo graduale emergere dei diversi edifi­ ci e i mutamenti che esso presuppone nella sca-

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Fig. 152. Pianta generale di Carsulae.

Parte II L'età imperiale

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• -�•-�•-�1;;--------7,Ioo IL--+-• --+M so . Fig. 153. Pompei. Il quartiere dei teatri.

II. Le città dell'Italia in età imperiale

la dei bisogni e dei valori che in ogni periodo de­ finiscono la nozione di urbanitas, acquistano un significato solo se ricollocati nel loro contesto globale. Per l'Italia dell'Alto Impero disponia­ mo solo di sporadici esempi che, con una lettu­ ra immediata e diretta, ci consentono di ap­ prezzare appieno l'ampiezza di questi muta­ menti. Tuttavia esistono due casi privilegiati in cui è possibile effettuare una sorta di «taglio orizzontale» in una data precisa: si tratta innan­ zitutto di Pompei, tra il terremoto del 62 e l'e­ ruzione del Vesuvio del 79, e in secondo luogo di Ostia, dopo l'applicazione del programma adrianeo. Sappiamo bene che si tratta di casi ec­ cezionali che impediscono di riferire automati­ camente alle altre città quanto è dato osservare in esse; tuttavia il loro esempio è comunque uti­ le per individuare un tipo di evoluzione del qua­ le aiutano a scorgere le tendenze generali. In seguito al terremoto che sconvolse Pom­ pei 17 anni prima della sua definitiva distruzio­ ne, l'entità dei danni riscontrati sui monumen­ ti pubblici era così grave che i responsabili del­ la ricostruzione dovettero necessariamente ef­ fettuare delle scelte per gli interventi di restau­ ro; grazie a queste scelte noi oggi siamo in gra­ do di valutare quali fossero le componenti del­ la vita urbana che agli occhi di un cittadino del­ la fine del regno di Nerone apparivano come importanti o indispensabili. Nel 79, e grazie al finanziamento di privati, solo il tempio di Iside e l'anfiteatro erano stati completamente restau­ rati. Nella stessa data gli edifici indispensabili al funzionamento delle istituzioni municipali, la Curia e la sala degli archivi a S del Foro, erano stati sommariamente riparati, ma il loro restau­ ro era lungi dall'essere ultimato. Nessuna delle statue onorarie del Foro era stata riparata o ri­ collocata sul suo piedistallo; nessuna colonna del macellum era stata rimontata sullo stiloba­ te. Quanto all'edificio di Eumachia, nel quale i lavori erano stati appena intrapresi, soltanto la facciata rivolta verso il Foro era stata intera­ mente ricostruita in mattoni. I templi di Vene-

265 re, della Fortuna Augusta, di Giove e di Apol­ lo al momento dell'eruzione risultavano abba­ stanza fatiscenti. Tuttavia, dopo il 70, i Pom­ peiani trovarono tempo e denaro per costruire un tempio in onore di Vespasiano. E per finire, tra gli edifici termali, se le terme del Foro era­ no state rimesse in uso, nonostante i profondi disagi provocati dal sisma per la distribuzione dell'acqua, fu costruito ex novo un secondo sta­ bilimento, le Terme Centrali. La situazione del­ la città alla vigilia della sua scomparsa dalla sto­ ria rivela una gerarchia dei problemi che lascia qualche perplessità. Si constata in primo luogo che gli spazi o i monumenti considerati in ge­ nere essenziali dagli storici moderni - il Foro, ma anche i santuari delle divinità poliadi - pas­ sano in secondo piano, dopo i complessi desti­ nati ai giochi gladiatori e agli ozi termali. Que­ st'impressione viene confermata dall'analisi dei restauri che interessarono il settore dell'abitato privato; sembra che due poli in particolare ab­ biano ripreso rapidamente vita: la Regio VI, a N del Foro, che diventa il vero quartiere residen­ ziale, e via dell'Abbondanza con le vie vicine che, pullulanti di botteghe e officine, diventa­ no il cuore commerciale della città. A quanto pare il terremoto non ha fatto altro che accele­ rare un'evoluzione topografica e sociale inizia­ ta molto prima del 62. Anche considerando che certi mutamenti furono causati dal terremoto (come la fuga di alcune ricche famiglie e l'af­ flusso di operai edili), la chiusura sistematica di molte case, che furono affittate o come alloggi abitativi o come botteghe, è il segno della cre­ scita numerica e politica dei nuovi strati socia­ li, più umili ma più attivi, all'interno dei quali i liberti svolgono un ruolo di primo piano. Accanto a queste ricostruzioni spontanee ed anarchiche, la città di Ostia, interamente ricostruita dagli architetti di Adriano, ci offre un altro tema di riflessione, circa 50 anni do­ po il terremoto di Pompei. Il sensibile aumento demografico dovuto ai porti costruiti da Claudio e Traiano e al

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II. Le città dell'Italia in età imperiale

monopolio pressoché totale acquisito da Ostia nell'approvvigionamento della capitale stimolò, tra l'inizio e la fine del regno di Adriano, la realizzazione di un nuovo piano regolatore della città, approvato, se non diret­ tamente ispirato, dal potere centrale. Se nes­ sun quartiere fu risparmiato, gli effetti furono particolarmente vistosi in tre settori particola­ ri: intorno al 119-120 il quartiere a N del Fo­ ro venne interamente ricostruito in opus mix­ tum; organizzato su entrambi i lati del cardo maximus, esso è costituito per lo più da de­ positi e magazzini posti in prossimità del fiu­ me. Qualche anno più tardi, nel 128, il setto­ re S-0 dello spazio urbano, diventato un quartiere residenziale, viene in gran parte oc­ cupato dal complesso detto delle Case a Giar­ dino, che risolve in modo abbastanza soddi­ sfacente il duplice problema di economizzare gli spazi in una città sovraffollata e di isolare dal traffico le abitazioni di lusso. Infine, negli ultimi anni di regno di Adriano, fu costruito nella Regio II, già rimaneggiata in età domi­ zianea, un grande quartiere con servizi di pubblica utilità: le grandi terme di Nettuno e la caserma dei vigili ne costituivano il centro. Ciò che caratterizza il paesaggio urbano di Ostia è la celebre unità pluriabitativa, l'insula (secondo una terminologia archeologica mo­ derna e alquanto arbitraria). Le conseguenze di questa rivoluzione edilizia sono fin troppo note e non vale la pena di spendere altre pa­ role: le principali strade di Ostia sono fian­ cheggiate da immobili a più piani con faccia­ te in mattoni animate da un portico e da bal­ coni su mensole. All'inizio ogni unità com­ porta un cortile interno che, nonostante la frequente presenza di colonne tutt'intorno, non ha più niente a che vedere con il peristi­ lio tradizionale: la sua funzione è essenzial­ mente quella di pozzo di luce per gli alloggi che si aprono su di esso. Va ricordata anche l'evoluzione sociale di cui questi edifici reca­ no il segno: la vecchia aristocrazia cittadina

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Fig. 155. Ostia. Ricostruzione di un'insula del II secolo (da I. Gismondi).

che a Ostia, come altrove, fino all'ultimo tren­ tennio del I secolo d.C., aveva detenuto il mo­ nopolio della vita pubblica, risulta ormai sop­ piantata definitivamente dagli elementi nuovi più direttamente legati al commercio. Il feno­ meno che manifestava i suoi primi effetti nel­ l'ultima fase edilizia di Pompei, raggiunge l'a­ pice nella Ostia di II secolo. L'intera attività si organizza attorno al controllo dell'approvvi­ gionamento dell'Annona, mentre la vita so­ ciale si articola in collegia o corpora, associa­ zioni di imprenditori, di artigiani, di bottegai, che conservano una dimensione religiosa, an­ che se il loro obiettivo principale è di pro­ muovere gli interessi delle categorie rappre­ sentate. In un contesto simile non sorpren­ derà che gli antichi loci celeberrimi, il Foro, il tempio di Roma e Augusto ecc., risultassero in qualche modo in un certo stato di abban­ dono, anche se la devozione per l'imperatore regnante e per i suoi predecessori divinizzati non si era spenta, tenuta viva com'era dai se­ viri augusta/es, reclutati per lo più tra i liber­ ti; la superficie occupata dai più importanti impianti termali della città (le terme del Foro, quelle di Nettuno, del Nuotatore e di Porta Marina) è molto più grande di quella del fo-

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Parte II. L'età imperiale

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ro propriamente detto, anche considerando le opere traianee, quali la basilica e la supposta curia. Anche in questo caso e per ragioni si­ mili - anche se la specificità di Ostia vieta qualsiasi frettolosa generalizzazione - i tradi­ zionali luoghi di riunione collettiva risultano radicalmente cambiati nel giro di meno di un secolo e mezzo. A conclusione di questo itinerario attra­ verso le città italiche dell'Alto Impero, è le­ cito domandarsi che cosa era sopravvissuto in età antonina delle imprese urbanistiche dei Giulio-Claudi per promuovere il consensus attorno agli edifici dinastici e designare i fo­ ra riordinati, gli augustea ed i teatri come i vertici dell' urbanitas. La progressiva deca­ denza dei vecchi notabili, che avevano parte­ cipato all'elaborazione di questi schemi, ed il carattere sempre più demagogico delle siste­ mazioni urbane di II secolo d.C. non favori­ rono certo lo sviluppo di questo primo pae­ saggio ideologico, messo in opera con gran­ di spese in molte città della penisola, a partire dall'inizio del Principato: il fatto che dopo i regni di Claudio e Nerone non si tro­ vino più ritratti di imperatori nelle basiliche non può stupirci. E se nel II secolo si parla ancora di caesarea è soltanto per ricordare il restauro di un edificio vetustate conlapsum, come a Volcei; e ciò dimostra che fino ad al­ lora l'edificio non era stato oggetto di gran­ de cura. Non per questo però bisogna trarre affrettate conclusioni sulla scomparsa delle forme dinastiche dall'urbanistica: sono molti i templi noti dedicati agli imperatori diviniz­ zati della dinastia flavia, di quella antonina e di quella severiana. Sicuramente sotto Anto­ nino Pio fu costruito ad Ostia un santuario per i divi Vespasiano, Tito, Nerva, Traiano e Adriano; a Pozzuoli, a Gabii, a Bovillae e a Ulubrae, sempre nel corso del II secolo, ven­ gono costruiti edifici simili. Mentre i templi delle divinità orientali si moltiplicano in tut-

II. Le città dell'Italia in età imperiale

Fig. 157. Ostia. I «grandi horrea» e la sede degli Augustali, da una parte e dall'altra del decumanus maximus.

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270 ta la penisola, queste costruzioni, patrocinate dall'ordo municipale e dagli evergeti privati, oltre che dal potere centrale, attestano la vi­ talità del culto imperiale. Se le forme este­ riori del culto non sono più le stesse rispet­ to all'inizio dell'età imperiale, esso risulta or­ mai radicato nelle abitudini mentali e comportamentali dei cittadini. Il culto impe­ riale è diventato ormai un elemento struttu­ rale della società urbana: i collegia di Ostia e le scholae, che sono le loro sedi, nella secon­ da metà del II secolo conoscono un impulso

Parte II. I:età imperiale

senza precedenti: poste sotto la protezione degli imperatori, come la schola dei carpen­ tieri navali detta di Traiano o l'edificio degli augusta/es, sfarzosamente decorato sotto il re­ gno di Marco Aurelio, queste fondazioni ma­ nifestano, nel fitto tessuto dei quartieri più popolari, la presenza e la protezione della do­ mus divina. Restaurate nuovamente nel IV secolo, per molto tempo esse rappresente­ ranno la più fervida testimonianza del paga­ nesimo, e dell'ampio consenso che questo ri­ scosse in tutti gli strati sociali.

Capitolo III

1. Urbanistica e urbanizzazione L'urbanizzazione del bacino del Mediter­ raneo occidentale e dell'Europa nord-occi­ dentale costituisce la più durevole acquisizio­ ne della conquista romana. I Greci, i Fenici e in misura minore anche gli Etruschi avevano fondato città al di fuori del proprio territorio d'origine, ma la loro «colonizzazione» non andò mai al di là delle aree costiere, né mirò mai all'organizzazione di ampi territori attra­ verso la creazione di una fitta e coerente rete di città. Storici ed archeologi moderni hanno siste­ maticamente sopravvalutato questo fenome­ no, peraltro esaltato da un'ampia tradizione letteraria, da Virgilio a Rutilio Namaziano. La città romana, infatti, appariva come il centro incontestato di tutti i valori propri del nuovo ordinamento affermatosi con la conquista: te­ stimonianza della pace e della prosperità che Roma avrebbe saputo creare nel corso dei se­ coli, segno tangibile della funzione civilizza­ trice della conquista in aree altrimenti votate ai disordini e al nomadismo. L'imponenza delle vestigia archeologiche e la persistenza degli antichi reticoli urbani in Germania, Gal­ lia, nella Penisola iberica o in Africa, hanno contribuito a creare un'immagine estrema­ mente positiva di questo processo. In seguito si è venuta però affermando una tendenza in­ versa, che vede nella città romana il luogo e il

Le province occidentali. Problemi generali

mezzo per lo sfruttamento dei territori con­ trollati da Roma. La città, pertanto, spogliata della sua aura tradizionale e sentita come un parassita economico, viene vista come un pu­ ro e semplice strumento di oppressione, in una prospettiva «coloniale» nella moderna ac­ cezione del termine, fortemente influenzata dalle esperienze di molti paesi europei. Qualsiasi tentativo di ricostruzione della forma e della funzione degli insediamenti ur­ bani nelle province occidentali dell'Impero deve avere come presupposto il superamento di queste posizioni aprioristiche; bisogna ana­ lizzare in che modo, a partire da Augusto, fu avviato il sistema di organizzazione di questi immensi territori, non dimenticando che nel­ l'ambito di questo sistema l'urbanizzazione costituisce soltanto uno degli aspetti. Una volta spezzate le ultime resistenze «nazionali» alla presenza romana, grazie all'a­ zione degli imperatores degli ultimi anni della Repubblica, e abbandonata quella politica di espansione «preventiva» applicata dall'inizio del II secolo a.C., la prima preoccupazione di Augusto e Tiberio fu l'organizzazione delle province. Nelle regioni occidentali la conqui­ sta implicava l'esistenza di interlocutori regio­ nali - da creare ex novo se necessario - in gra­ do di diffondere e far rispettare le leggi ro­ mane. La struttura amministrativa adottata in Occidente, la civitas, non sempre coincideva con una realtà urbana propriamente detta, a

272 differenza di quanto, dal III secolo in poi, si era verificato nell'Italia centrale e settentrio­ nale, dove la creazione di colonie aveva per­ messo un'efficace divisione del territorio, e dove la «municipalizzazione» posteriore alla Guerra sociale, nel corso del I secolo a.C., aveva portato a compimento il processo di as­ similazione culturale e giuridica. Per quanto riguarda la civitas - come per la polis del mondo greco -, sia gli autori antichi che gli storici moderni talvolta confondono le nozio­ ni di unità territoriale e di città. Va ricordato che la civitas è in primo luogo una divisione territoriale, dotata di relativa autonomia e corrispondente, nei limiti del possibile, ad un'unità etnica. La natura e l'estensione della civitas variano, infatti, a seconda del sostrato indigeno e delle vicende storiche che hanno interessato quella determinata divisione terri­ toriale. Non è possibile confrontare province come la Tarraconense o la Gallia Transalpina, in cui la presenza greca risale all'età arcaica e in cui Roma creò città a partire dal II secolo a.C., con regioni come la Pannonia o la Dal­ mazia in cui la città era una realtà pressoché sconosciuta. Nelle prime le civitates compor­ tano un consistente numero di importanti città, oltre al capoluogo; nelle seconde lo stes­ so capoluogo della civitas non sempre assume l'aspetto di una vera e propria città. Va inol­ tre constatato, senza voler con questo genera­ lizzare il fenomeno, che spesso l'estensione di una civitas è inversamente proporzionale alla ricchezza del suo territorio e alla densità del1' abitato: le civitates della media valle del Ro­ dano, ad esempio, sono molto più piccole di quelle delle Tre Gallie. Il modello che sembra aver ispirato Augu­ sto e i suoi consiglieri in questa divisione ter­ ritoriale, ove il ruolo più importante è inizial­ mente rivestito dalle città, è quello applicato da Pompeo per la creazione della Provincia di Bitinia e Ponto nel 65 a.C. Pompeo, infatti, nel definire 11 circoscrizioni amministrative

Parte II. I;età imperiale

(politeiai) le aveva attribuite ad altrettante città, antiche o recenti. Tuttavia questo mo­ dello, concepito per una regione in cui la tra­ dizione ellenistica era molto viva, non poteva essere applicato indiscriminatamente nei ter­ ritori occidentali, dove esistevano ancora zo­ ne in cui gli abitanti non erano pronti alla se­ dentarizzazione. Detto ciò, emerge chiaramente che non è possibile tracciare un quadro politico e morfologico valido per l'Occidente romano nel suo complesso. L'applicazione dello sche­ ma della civitas a tutti i territori, ivi compresi quelli che per la loro stessa struttura non era­ no in grado di approdare all'urbanizzazione, ha finito con il determinare un gran numero di varianti regionali più o meno temporanee. I Romani, alla ricerca di soluzioni efficaci e durature, hanno adottato formule molto ela­ stiche e variabili nel tempo. Un caso limite, ma significativo, è rappresentato dal Norico, ove in un primo tempo la struttura politica e sociale di base rimarrà invariata, con procu­ ratori e prefetti dell'amministrazione equestre impiantata da Roma che si limiteranno a svol­ gere le funzioni degli antichi re; soltanto con Claudio, consolidata ormai la situazione e abituatasi la popolazione al nuovo modo di vita, il Norico fu diviso in 9 civitates alle qua­ li fu sottomessa la maggior parte della pro­ vincia. Un altro caso è rappresentato invece dalla Gallia Narbonense, dove sembra che in seguito alla riforma augustea il territorio sia stato diviso in 22 civitates, dipendenti ciascu­ na da un'importante città investita di potere politico e di responsabilità amministrative. Non è comunque nostra intenzione analizza­ re in questa sede tutte le svariate forme di or­ ganizzazione territoriale, bensì di cercare di capire il ruolo svolto dalle fondazioni urbane in ambienti così diversi. Un testo giustamente celebre e spesso ci­ tato è il passo in cui Tacito descrive l'attività di Agricola nella Britannia insulare nel corso

III. Le province occidentali. Problemi generalt'

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Fig. 158. Rilievo dell'arco di Glanum {lato occidentale, rilievo nord): un «Gallo-romano» urbanizzato ed W1 soldato gallo prigioniero.

274 dell'inverno del 78-79. Questo passo costitui­ sce una rara e preziosa testimonianza antica sui fini e sui modi dell'urbanizzazione in un ambiente provinciale: «L'inverno successivo fu interamente impiegato per le cose più sa­ lutari: per abituare piacevolmente alla pace e alla tranquillità uomini dispersi, selvaggi e in quanto tali predisposti alla guerra, egli esor­ tava i singoli individui, aiutava le collettività a costruire templi, fori, case, lodando i solerti e biasimando i pigri: così lo spirito di emula­ zione nella ricerca di un elogio prendeva il posto del senso di costrizione. Egli fece inol­ tre istruire nelle arti liberali i figli dei capi, e preferiva le qualità naturali dei Britanni a quelle acquisite dei Galli, sicché ben presto quelli, che avevano disprezzato la lingua di Roma, rimasero affascinati dalla sua eloquen­ za. Arrivarono perfino ad apprezzare i nostri costumi e ad indossare spesso la toga; a poco a poco si lasciarono sedurre dai nostri vizi, dal gusto dei portici, delle terme e dei raffi­ nati conviti; con ingenuità essi chiamavano ci­ viltà ciò che in realtà contribuiva al loro as­ servimento». Nello spirito di un responsabile romano del terzo quarto del I secolo d.C. la sistema­ zione di una città non prevedeva dunque la sola creazione di un centro di potere e di con­ trollo, ma mirava anche, a lungo termine, ad una vera e propria conversione degli spiriti. Tacito non s'ingannava quando, con la sua lungimiranza venata di pessimismo, vedeva in questo genere di operazione il compimento della conquista nelle sue più insidiose forme. È ciò che noi oggi chiameremmo la manipo­ lazione dei notabili, sedotti da un genere di vita nuovo nel quale essi scorgono solo possi­ bilità vantaggiose: il sistema migliore per con­ trollare efficacemente la massa incolta. La traduzione plastica di questo passo di Tacito è rappresentata dall'arco di Glanum: su uno dei pilastri del monumento, posto al­ l'ingresso di questa piccola città del territorio

Parte II. I:età imperiale

di Arles, un «Gallo-romano», paludato nel suo sagum come in una toga, è fronteggiato da un Gallo tradizionale; quest'ultimo appa­ re come un rozzo gigante uscito dal passato; al contrario il suo compagno, che per statura, abbigliamento e atteggiamento si qualifica co­ me un personaggio imbevuto di humanitas e urbanitas, rappresenta il nuovo cittadino, l'uomo del futuro, più o meno «integrato», e in ogni caso acquisito ad un nuovo stile di vita. La potenza simbolica di questi documenti letterari o figurati non deve però trarci in in­ ganno e far dimenticare le difficoltà di un processo che non fu né rapido, né semplice, né irreversibile. Il brano di Tacito trasferisce sul piano meramente culturale una trasforma­ zione che, per durare nel tempo, doveva esse­ re innanzitutto socio-economica, e di cui l'ur­ banizzazione rappresenta soltanto un aspetto. Per inquadrare in una struttura cittadina po­ polazioni che ignoravano l'esistenza stessa della città, l'attrattiva esercitata dalle terme ri­ scaldate o dalle passeggiate coperte non è suf­ ficiente; l'uso di un foro presuppone l'acqui­ sizione completa di un'organizzazione politi­ ca e amministrativa senza la quale la piazza pubblica e tutti gli edifici ad essa connessi ri­ schiano di restare una cornice vuota. Per la verità, ciò che Tacito lascia intendere, e che costituisce una profonda riflessione storica, è che talvolta Roma ha anticipato i tempi ri­ spetto alle effettive trasformazioni sociali, fa­ vorendo la creazione di città in ambienti che non sempre erano pronti ad accoglierle. Lo storico lascia anche intravvedere possibili in­ successi: effettivamente in Britannia o in Ger­ mania, o in alcune regioni della Spagna o in Mauritania, almeno fino alla fine del I secolo d.C., l'inquadramento dei campi dei legionari e delle fondazioni coloniali sarà indispensabi­ le perché si formino degli agglomerati urbani che all'inizio resteranno drammaticamente isolati.

III. Le province occidentali. Problemi generali

Risultano dunque evidenti i limiti dello schema descritto da Tacito. D'altra parte esi­ stono altre fonti antiche che smentiscono il processo considerato per la Britannia; basti ri­ cordare la riflessione di Strabone sui Celtibe­ ri: «Le città non possono riuscire ad addolci­ re il modo di vita quando la maggior parte della popolazione continua a vivere nelle fo­ reste, a detrimento dei propri vicini». In realtà la città era considerata più come un punto d'arrivo che come un punto di par­ tenza, e Roma fu in genere molto cauta nelle fondazioni ex nihilo. Un bell'esempio di condotta prudente in territori in cui il fenomeno urbano era affatto estraneo è quello descritto da Dione Cassio per la Germania, tra le campagne militari di Druso ed il governo di Varo: in un primo tempo le legioni restarono sul posto e si limi­ tarono a controllare le principali vie di comu­ nicazione; soltanto in un secondo momento vennero organizzati «mercati» e «synodoi» (incontri pacifici), con l'obiettivo di instaura­ re nuovi rapporti sociali ed un nuovo tipo di scambio. A dispetto di questa graduale assi­ milazione, è interessante notare che il primo insediamento urbano in queste regioni è all'i­ nizio soltanto un luogo di raccolta, riservato ad una popolazione leale d'Oltre-Reno trasfe­ rita sulla sponda sinistra del fiume, sul sito della futura città di Colonia. La costruzione di un altare dedicato ad Augusto, l'ara Ubio­ rum, conferirà molto presto a questo agglo­ merato i caratteri di un centro amministrativo e culturale: l'oppidum, che con Claudio ac­ quisisce il titolo di colonia Claudia Ara Agrip­ pinensium, diventerà l'effettiva capitale della provincia; ma le modalità della fondazione e del successivo sviluppo, che più avanti esami­ neremo, rivelano il ruolo centrale rivestito dall'esercito e la cura con cui furono selezio­ nati gli elementi etnici. Allo stesso modo, e in un ambiente completamente diverso, Strabo­ ne ricorda a proposito di Cordova, città fon-

275 data da Marcello in un territorio fertilissimo, che come primi abitanti essa ebbe «Romani e indigeni accuratamente selezionati». L'organizzazione urbana delle Tre Gallie, attualmente abbastanza ben conosciuta, per­ mette di distinguere gli aspetti principali di questa politica in cui pragmatismo e rigore si fondono positivamente. Se confrontiamo la li­ sta degli stanziamenti urbani ricordati nel I secolo a.C. dalle fonti che dipendono da Po­ sidonio, o da Cesare nel De bello gallico, con quella dei capoluoghi di civitates alla fine del I secolo d.C. notiamo una nettissima spropor­ zione, poiché da 11 si passa a 60. Non per questo dobbiamo frettolosamente concludere che una cinquantina di capoluoghi furono creati per decisione imperiale in distretti che fino a quel momento non avevano nemmeno una città. Le ricerche hanno infatti dimostra­ to che l'occupazione romana non aveva pro­ dotto brusche cesure nella civiltà degli oppida: questi centri fortificati, che costituivano il cuore politico di ampie regioni, e che in qual­ che caso, come nel territorio degli Edui, era­ no già integrati in una fitta rete organizzativa, hanno spesso continuato a vivere, e in qual­ che caso addirittura fino al IV secolo d.C. D'altra parte conosciamo un gran numero di città gallo-romane anteriori alla conquista, an­ che se non è stata individuata nessuna strut­ tura, o nessun manufatto, anteriore al I seco­ lo: è il caso di Bourges (Avaricum), Ginevra (Genua), Orléans (Cenabum), Parigi (Lute­ tia), Poitiers (Limonum), molte delle quali so­ no poi diventate capitali di civitates. Senza vo­ ler negare che molti centri tradizionali furono effettivamente abbandonati, o perché difficil­ mente controllabili e quindi pericolosi, o per­ ché non inquadrabili in una rete stradale coe­ rente - come fu il caso di Autun (Augusto­ dunum), nata dal trasferimento di una parte notevole della popolazione dall' oppidum di Bibracte - non possiamo considerare la di­ stribuzione delle città in ambiente celtico una

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Fig. 159. La rete stradale concepita da Agrippa, rico­ struita sulla base di Strabone. L'asse Arles-Bordeaux è anteriore.

creazione nuova, successiva alla destruttura­ zione del sistema più antico. Le poche colonie fondate in questo periodo - soltanto tre so­ no documentate: Lione (Lugdunum), Augst (Augusta Rauricorum) e Nyon (Noviodunum) - provano che l'obiettivo principale era l'in­ tegrazione rapida dei notabili locali e non l'imposizione di un nuovo gruppo dirigente. Quanto al numero cospicuo di città che nel nome contengono quello di Julius, Caesar o Augustus, questo dimostra non tanto un pro­ grammatico sforzo di creare città ex novo quanto piuttosto un profondo interesse nei confronti di certi insediamenti, alcuni dei quali potevano anche essere anteriori alla conquista. Per la verità le scelte di Roma in questo campo furono dettate dalla volontà di puntel­ lare la rete stradale concepita dallo stesso Agrippa - stando almeno alle parole di Stra­ bone - e tenuta sempre in grande considera­ zione dagli imperatori; le piattaforme girevoli di questa rete erano Lione, Langres e Reims; e dal Rodano al Reno, dall'Atlantico alla Ma­ nica, proprio grazie alle città, si può seguire il

Parte II. I:età imperiale

cammino di questa sistemazione, che per la prima volta permetteva di collegare al mondo mediterraneo le regioni settentrionali ed occi­ dentali di quell'immenso territorio. Le stesse considerazioni potrebbero essere espresse a proposito del r Africa settentriona­ le, in cui il fenomeno della città si insinua len­ tamente verso l'interno; se si escludono le città costiere dell'Africa e le colonie augustee della Mauritania, bisognerà aspettare l'età fla­ via, con l'ampliamento della rete stradale di­ pendente dal trasferimento della III legione Augusta da Ammaedara a Tebessa e poi a Lambaesis, perché si creino le condizioni in­ dispensabili per un concreto sviluppo urbano verso l'Ovest, sviluppo che verrà portato a compimento in età antonina. Da quanto abbiamo detto risulta dunque evidente che il fenomeno dell'urbanistica del­ le province occidentali, così intimamente con­ nesso con le condizioni storiche di un enorme programma di urbanizzazione e portato a compimento nel corso di vari secoli, non può essere letto soltanto da un punto di vista for­ male. Un'analisi di uno spazio urbano che non tenesse conto delle circostanze dell'im­ pianto iniziale, dello statuto degli abitanti e dei ritmi dello sviluppo, finirebbe con l'esse­ re una descrizione fatta dall'esterno di un quadro amorfo ed insignificante. È pertanto opportuno individuare una se­ rie di problemi - che del resto ci consenti­ ranno di giustificare le nostre scelte monogra­ fiche - e per primo quello delle relazioni che, in una città romana, si possono creare tra la sua definizione giuridica e la sua morfologia. 2. Definizione giuridica e morfologia urbana La terminologia antica, solo apparente­ mente ricca e precisa, si rivela in sostanza molto ambigua, poiché si fonda su criteri la­ bili e di diversa origine. Le serie di cui dispo-

III. Le province occidentali. Problemi generali

niamo presuppongono diverse griglie e, quan­ tunque si notino frequenti interferenze, mol­ to di rado è possibile stabilire delle equiva­ lenze tra le loro componenti, valide per am­ biti diversi e per un ampio arco temporale. Va innanzitutto ricordato che in latino non esiste una parola che traduca ciò che noi oggi intendiamo per città, nel senso demogra­ fico ed economico del termine, ma un insie­ me di vocaboli che tendono a disporsi in un ordine gerarchico di natura essenzialmente, ma non esclusivamente, giuridica. Nelle definizioni romane della città, specie quando si tratta di definizioni negative, il fat­ tore più importante è l'esistenza di un'ammi­ nistrazione autonoma, garante di una rigoro­ sa organizzazione sociale: così Capua, privata di autonomia in seguito alla sua condotta an­ tiromana nel corso della guerra annibalica, è agli occhi dello storico Tito Livio una specie di mostro - prodigium -; anche se popolosa e imponente per i suoi monumenti, Capua non può essere annoverata tra le urbes. Quando più tardi Tacito affermerà che i Germani non hanno città poiché hanno insediamenti sparsi, egli mette in rapporto la nozione di urbs con la continuità e la concentrazione dell'area edi­ ficata; ma soprattutto egli esprime l'idea che il raggruppamento degli abitanti in un quadro organico è la condizione primaria perché si affermi il fenomeno urbano: ogni città è una res publica, e un agglomerato senza una strut­ tura organizzata, in cui i vari nuclei familiari restano isolati gli uni dagli altri, non è degno di questo nome. Al primo posto incontriamo dunque le ur­ bes: il termine, stando all'etimologia di Varro­ ne, si riferisce alle città fondate secondo il «ri­ to etrusco» e la cui cinta è stata tracciata con l'aratro; il perimetro consacrato (orbis) così definito si materializza nel pomerium, il limite all'interno del quale si possono prendere gli auspici urbani. All'inizio il titolo di urbs do­ veva essere riservato alla sola Roma e alle di-

277 rette emanazioni del populus Romanus, cioè le colonie di diritto romano. Ma già Varrone no­ tava che questa norma veniva osservata solo dagli autori più antichi, ed effettivamente es­ sa viene ignorata dalla letteratura imperiale che tratta dei territori provinciali: tutt'al più si può rilevare un uso più frequente ma non esclusivo di questo termine nei confronti di quelle città con vocazione direttiva e centra­ lizzatrice. Atene, ad esempio, è I'urbs attica, e anche per alcune capitali di civitates delle province occidentali viene usato il termine urbs: come per Tolosa nella Chorographia di Pomponio Mela. Svetonio, invece, riserva in­ differentemente il termine di urbs sia alle città federate che a quelle a cui Augusto concesse il diritto latino o romano. La nozione di oppidum, al secondo posto nella scala gerarchica, rimanda a realtà non necessariamente omogenee; in questo caso bi­ sogna operare una distinzione tra la pratica archeologica moderna e la tradizione antica. La prima indica generalmente con oppidum dei centri fortificati d'altura, anteriori alla ro­ manizzazione e spesso abbandonati in seguito alla conquista, tipici delle regioni illiriche, iberiche e della Gallia. Gli autori latini, inve­ ce, per il periodo che ci interessa, spesso con oppidum intendono degli agglomerati di se­ condaria importanza, non necessariamente posti in punti strategici: l'oppidum Ubiorum, fondazione di Agrippa nella media valle del Reno e antenato di Colonia, all'inizio è sol­ tanto una stazione di frontiera; ma gli oppida ignobilia delle liste di Plinio sono luoghi oscu­ ri, del nome dei quali si è perso il ricordo, o troppo poco importanti per essere citati. Gra­ zie alle testimonianze epigrafiche sappiamo che molti oppida della Gallia Narbonense so­ no colonie di diritto latino di origine cesaria­ na, ed alcuni, come Glanum, sembra che non abbiano mai avuto una cinta urbica. Quanto agli oppida libera dell'Africa di cui parla Pli­ nio nel V libro della Naturalis Historia, essi

278 evocano l'immagine di piccole città libere nei pressi di Cartagine, molte delle quali avranno fino all'inizio del II secolo d.C. una costitu­ zione di tradizione punica. A livello ancora più basso il vicus, talvolta tradotto arbitrariamente con il termine di «villaggio», è in realtà un agglomerato che, nonostante una vocazione più strettamente agricola, conserva una certa funzione ammini­ strativa, poiché lo ritroviamo al vertice di una suddivisione della civitas, il pagus. Se i nota­ bili di un vicus sono costretti a candidarsi nei municipi o nelle colonie dei dintorni per far carriera «municipale», all'occasione essi pos­ sono fare partecipe della loro ricchezza la lo­ ro «piccola patria». Riguardo ai /ora, di cui troviamo tracce dall'Olanda (es. Forum Hadriani, Arents­ burg) alla Svizzera (es. Forum Claudii Vallen­ sium, Martigny) e alla Francia meridionale (es. Forum Neronis, Carpentras e Lodève), possiamo dire che essi in origine designano un semplice luogo di fiera o mercato, assimi­ labile ai «sinodi» di cui parla Dione Cassio per la Germania; ma la fondazione di questi fora, come traspare dai loro nomi, spesso di­ pende direttamente da un'azione del potere centrale. Molti di essi risalgono alla fine della Repubblica e all'età giulio-claudia, e sono di­ sposti lungo importanti assi stradali. Fondati di preferenza in quelle regioni in cui era in corso il processo di romanizzazione - nella Gallia Transalpina molti sono della prima metà del I secolo a.C. (Forum Domitii, Mont­ bazin; Forum Voconii, Les Bla"is) -, i/ora pos­ sono essere sede di una «prefettura», cioè di una circoscrizione giudiziaria, ma all'inizio non dispongono di magistrati eletti, anche se hanno preso il posto di un agglomerato indi­ geno di un certo rilievo. L'importanza di al­ cuni di questi fora è confermata dal fatto che in un secondo tempo diventeranno sede di una colonia, come nel caso di Forum Iulii (Fréjus), intorno al 30 a.C.

Parte II. I.:età imperiale

Dall'esame di questa prima serie emerge quanto difficile sia collocare uno stanziamen­ to urbano in una gerarchia che è solo teorica, la cui terminologia può variare da un autore all'altro e rivestire delle realtà amministrative ed istituzionali soggette ad evoluzioni nel tempo. Queste indicazioni generiche, ove sia possibile, devono essere precisate dalla defi­ nizione giuridica dello statuto degli abitanti. Nel sistema complesso ed elastico a un tempo che i Romani misero a punto nel cor­ so degli ultimi secoli della Repubblica, le co­ lonie di diritto romano occupano sicuramen­ te il posto più alto: composte da cittadini in­ viati secondo la procedura della deductio, per fondare una città concepita e organizzata sul modello di Roma in un territorio provinciale, queste colonie furono all'inizio dei punti d'ap­ poggio del nuovo potere, e dei luoghi di rac­ colta per le vecchie clientele di Pompeo e Ce­ sare. Per usare un'espressione di Aulo Gellio, esse costituivano degli autentici propugnacula imperii in Lusitania, nella Betica, in Gallia, in Tracia, in Pannonia e nella Britannia insulare. Tuttavia, dall'inizio dell'età imperiale, a se­ conda degli ambienti in cui vengono impian­ tate, le colonie possono avere delle funzioni molto diverse e seguire linee di sviluppo tal­ volta imprevedibili. Bisogna innanzitutto ricordare che ogni fondazione coloniale, nel senso reale e non «onorario» del termine, comporta un'evacua­ zione delle popolazioni indigene: innanzitutto perché spesso la colonia non è una creazione ex novo, ma si sovrappone a uno stanziamen­ to più antico; gli abitanti di quest'ultimo, an­ che se si tratta di cittadini romani riuniti in un conventus, non partecipano alla fondazione coloniale, e devono lasciare le proprie case ai nuovi arrivati; a maggior ragione se si tratta di non romani: l'esempio della colonia Claudia di Camulodunum in Britannia, descritto da Tacito, dimostra che essi furono scacciati sen­ za alcun riguardo. Certo, Augusto nelle sue

III. Le province occidentali. Problemi generali

Res Gestae si vanta di essere stato il primo ad aver pagato un indennizzo a Italici e Provin­ ciali per questo genere di esproprio, ma a quanto pare i suoi successori non seguirono l'esempio. D'altra parte, la stessa colonia è so­ lo uno degli aspetti di un'appropriazione glo­ bale delle risorse di una regione, che si tradu­ ce nella centuriazione sistematica delle terre coltivabili e nella loro redistribuzione pro­ grammata d'autorità; i frammenti del catasto della colonia di Arausio (Orange), pur nel lo­ ro stile lapidario, sono molto eloquenti: lo spostamento degli antichi proprietari, il rele­ garli in zone incolte, l'ineguale imposizione del tributum sono tutti fattori che lasciano fil­ trare l'immagine di una situazione molto aspra e foriera di conflitti, quantunque l'in­ tento di questa sistemazione, caratteristico del periodo flavio, fosse quello di promuovere migliori rapporti con gli autoctoni. In queste condizioni la scelta del sito non è dettata soltanto da preoccupazioni di ordi­ ne strategico - anche se la maggior parte del­ le colonie era abitata da veterani delle legioni -, ma anche da motivi economici. Non si ca­ pirebbe altrimenti come mai una regione così profondamente romanizzata come la Gallia Narbonense - e da tempo ormai pacificata a partire dagli ultimi anni dell'età cesariana sia stata dotata di una fitta rete di colonie: 6 colonie di diritto romano (Narbona, Béziers, Arles, Fréjus, Orange e Valence) o addirittu­ ra 7 se si include il caso dubbio di Vienne, co­ stellano la provincia alla fine del regno di Au­ gusto. E non è un caso se in Spagna la valle dell'Ebro e l'Andalusia hanno avuto un nu­ mero molto alto di deduzioni. Viceversa do­ veva esistere una soglia di «remuneratività» al di sotto della quale non si reputava utile met­ tere in movimento quel complesso sistema del quale le colonie rappresentavano l'elemento principale: Strabone illustra molto bene que­ sto concetto quando ricorda i motivi che spinsero Augusto a rinunciare alla riscossione

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Fig. 160. Le antiche centuriazioni della bassa Valle dd Rodano; in puntinato i limiti delle diocesi medievali (da M. Guy).

del tributum nella Britannia insulare. Per la verità, l'urbanizzazione «coloniale» si effettua solo a pacificazione avvenuta, come dimostra la fondazione di Augusta Emerita (Mérida) nel 25 a.C. al termine della Guerra cantabrica: in sostanza si tratta di lasciare sul posto i ve­ terani di una delle legioni che hanno preso parte al conflitto, e di creare un centro per la diffusione dei costumi e delle istituzioni ro­ mane in una regione della quale si è avuto mo­ do di apprezzare la ricchezza. Ovviamente, ciò non toglie che alcune fondazioni, come No­ viodunum (Nyon) e Augusta Raurica (Augst), fondate in suolo svizzero subito dopo la con­ quista di Cesare, conservarono a lungo la fun­ zione di stazioni di controllo e difesa dei cor­ ridoi d'accesso alle nuove province; e in età claudia, la suddetta colonia di Camulodunum aveva il preciso compito di «sorvegliare i ri-

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Fig. 161. Un frammento del catasto di Orange: l'ansa del Rodano e la strada di Agrippa tra Orange e Vienne (da R. Amy e A. Piganiol).

belli ed inculcare nell'animo degli alleati il ri­ spetto delle leggi». Ma moltissime colonie au­ gustee - si pensi a Cartagine rifondata nel 29 a.C. e a molte altre colonie africane - fino al1'età traianea avranno una funzione essenzial­ mente economica, di popolamento e sfrutta­ mento dei territori. Quali che fossero gli antecedenti storici ed il sostrato etnico delle regioni interessate, queste fondazioni coloniali per molto tempo rappresentano i modelli e le molle dell'urba­ nizzazione, tanto più che in esse vengono

Parte II. L'età imperiale

concentrate le più alte istituzioni amministra­ tive e religiose - gli organi del capoluogo di una civitas, il centro provinciale o municipale del culto imperiale ecc. A seconda dei perio­ di, la natura eterogenea delle colonie, nel ca­ so di quelle situate in zone particolarmente vulnerabili, può offuscarsi o potenziarsi; in caso di rivolta, è innanzitutto contro le colo­ nie che si dirigono i ribelli, come accadde a Camulodunum nel 61 o a Colonia nel 69-70: simboli dell'oppressione romana, queste oasi di relativa ricchezza attirano l'ostilità popola­ re. Ma per molto tempo, e nella maggior par­ te delle province, il prestigio delle colonie di diritto romano sarà così alto che molte città cercheranno di acquisire il titolo e le istitu­ zioni di una colonia romana senza però subi­ re una «deduzione»; sono noti i casi dei mu­ nicipi di Italica in Spagna e di Utica in Africa verificatisi in età adrianea: i notabili di queste due città non esitarono a chiedere all'impera­ tore di cambiare il proprio statuto, anche se la concessione del titolo di colonia non avreb­ be apportato modifiche sostanziali alla condi­ zione degli abitanti, che erano già cittadini ro­ mani, e anzi avrebbe determinato un restrin­ gimento dell'autonomia interna. Molto diverse sono invece le colonie di di­ ritto latino; in primo luogo perché non com­ portano, in regola generale (ma ci sono anco­ ra eccezioni all'inizio dell'Impero), un trasfe­ rimento di popolazione e poi perché formano delle società «aperte». Considerate a lungo dagli storici come collettività di natura transi­ toria, solo adesso si comincia ad apprezzare la loro vera natura: città il cui statuto si può per­ petuare con estrema facilità dato che è stato pensato per l'integrazione dei notabili. A dif­ ferenza delle colonie romane, che si compon­ gono sempre di due nuclei ben distinti, quel­ lo dei cittadini e quello degli stranieri (inco­ lae, vernae), quelle di diritto latino garanti­ scono ai propri magistrati annuali l'accesso al­ la piena cittadinanza, valida per sé ed i propri

III. Le province occidentali. Problemi generali

discendenti. In ciò si ravvisa un elemento di grande fluidità sociale e quindi di dinamismo economico, del quale soltanto ora si comincia a comprendere il giusto valore. Queste città figurano tra le più vivaci dell'Occidente e molte diventeranno capitali di enormi civita­ tes. Proprio per il sistema di cui beneficiava­ no, e che per la prima volta svincola l'acqui­ sizione della cittadinanza da qualsiasi feno­ meno di clientelismo - politico o militare che sia -, il loro ordo decurionum non solo appa­ re come uno dei più affidabili, ma anche co­ me uno dei più inclini all'evergetismo. Il fat­ to che città come Nemausus (Nimes), Aventi­ cum (Avenches) e Vienna (Vienne) abbiano per qualche tempo goduto dello statuto di co­ lonie latine ha sicuramente agevolato il loro sviluppo; ma di questo si parlerà più avanti. Quanto ai municipi, di diritto romano o latino, essi risultano più liberi per quanto concerne le istituzioni, quantunque all'inizio per acquisire la dignità di municipio fosse in­ dispensabile la creazione di un collegio di ma­ gistrati annuali, composto da due o quattro membri (duoviri o quattuorviri iure dicundo); ma a partire da Claudio in questo campo si afferma un principio di maggiore libertà poli­ tica, e a Leptis Magna, diventata municipio intorno al 78 d.C., verranno mantenuti i ma­ gistrati punici, i suffeti, che scompariranno solo quando la città diverrà colonia. Non è nota con esattezza la prassi della «municipalizzazione» delle province occiden­ tali all'inizio dell'Impero; quel che è certo è che quest'ultima non poteva essere effettuata in modo così sistematico come nell'Italia cen­ tro-settentrionale all'indomani della Guerra sociale. Se la «deduzione» di colonie implica un atto insindacabile dell'imperatore, che al limite può anche ignorare le condizioni di spi­ rito delle popolazioni, l'innalzamento di città straniere al rango di municipi ha come pre­ supposto la collaborazione delle comunità in­ digene, desiderose di integrarsi nella romani-

281 tà. Per l'Africa conosciamo, ad esempio, il ca­ so degli abitanti di Volubilis, i quali inviarono ambasciatori a Claudio per chiedere il diritto municipale; gli abitanti di Gigthis faranno al­ trettanto con Antonino Pio ecc. L'innestarsi di questo processo nelle province occidentali dell'Impero non poteva avvenire facilmente, sia per la cautela nel procedere da parte del potere centrale, sia per la debole tradizione cittadina che caratterizzava quei territori. Il termine municipium è estraneo al vocabolario ufficiale delle Tre Gallie, e la civitas, nel sen­ so territoriale del termine, resta la comunità giuridico-politica di base: la realtà di quest'ul­ tima non si esprime nell'agglomerato urbano che forma il capoluogo - salvo il raro caso che si tratti di una colonia -, bensì nell'etnia che lo popola. Tuttavia, non bisogna dare un pe­ so eccessivo a dei problemi che talvolta ri­ guardano solo la terminologia ed esulano da­ gli statuti comunali: per fare un esempio, se nella Gallia Narbonense non conosciamo mu­ nicipi anteriori al II secolo d.C. è perché Ce­ sare, per motivi a noi oscuri, preferì dare il nome di colonie (di diritto latino) alle città della Transalpina (i futuri oppida delle liste di Plinio); eppure quelle città ebbero istituzioni in tutto simili a quelle dei centri che proprio nello stesso periodo nell'Italia transpadana furono trasformati in municipi: nonostante le diverse denominazioni, sia i municipi della Transpadana che le colonie della Gallia Tran­ salpina verranno amministrate da quattuorvi­ ri, godendo dei medesimi privilegi. Nelle province occidentali molte città re­ steranno «peregrine», cioè prive di uno statu­ to municipale o coloniale. Qualora si osservi che nelle Tre Gallie, tra l'età triumvirale (fon­ dazione di Lione nel 43 a.C.) e l'età traianea, furono create soltanto 8 colonie di diritto ro­ mano - Aranegua (Vieux) e Anicium (Le Puy) oltre tutto sono anche dubbie - si con­ staterà quanto numerose fossero le capitali di civitates - in tutto erano 64 - che almeno nel

282 nome avevano conservato la completa auto­ nomia. Anche qui le differenze che restavano si attenueranno rapidamente: innanzitutto la vecchia distinzione cesariana tra città «libere» e «federate» a partire dall'età imperiale sem­ bra svuotata di significato; in secondo luogo Svetonio e Tacito ricordano che furono sop­ presse le esenzioni fiscali di cui all'inizio be­ neficiavano le civitates liberae et immunes, ciò che nel 21 d.C. fu all'origine della rivolta det­ ta di Sacrovir; d'altro canto, a partire dalla prima metà del I secolo d.C. il diritto latino fu esteso alle città federate della Gallia e, pri­ ma della fine dello stesso secolo, forse sotto Vespasiano, a tutte le altre città, come al gruppo delle città iberiche. Nel corso dell'età imperiale anche molte città peregrine dell'Africa evolsero, sia pure in modo meno sistematico, verso statuti che finirono con l'integrarle alla comunità roma­ na e, in qualche caso, col farle salire al primo posto della scala gerarchica. Alcuni imperato­ ri del II secolo, come Traiano e Adriano, die­ dero un grande impulso a questa politica di romanizzazione giuridica, sia nelle zone peri­ feriche e in certe aree calde dell'Africa pro­ consolare che nelle regioni già da tempo ro­ manizzate; ma non è possibile definire il tipo di logica che regolava questa politica, peraltro continuata da Settimio Severo. Il problema che allora si pone è dunque quello di appurare quanto l'urbanistica e l'ar­ chitettura delle città siano state condizionate dallo status giuridico di ognuna di esse. È possibile ricavare da una definizione giuridica un ordine di grandezza dello spazio urbano, il tipo di organizzazione dello stesso ed una specifica parure monumentale? Natura e son­ tuosità delle infrastrutture collettive possono dipendere almeno parzialmente dai diritti e dai privilegi di cui godono le comunità? E, vi­ ceversa, le informazioni archeologiche in me­ rito alla grandezza e alla monumentalità di un centro urbano possono illuminarci riguardo

Parte Il. I.:età imperiale

alla sua collocazione gerarchica nell'ambito delle comunità occidentali? A domande di questo genere, poste in questi termini, non si può dare una risposta. Ma un tentativo è pos­ sibile; si tratta cioè di individuare delle co­ stanti e di fare qualche riflessione che ci con­ sentirà di ordinare meglio le singole mono­ grafie, non perdendo d'occhio, ovviamente, i cambiamenti nella titolatura e nell'ammini­ strazione che, nel corso dell'Alto Impero, hanno interessato molte importanti città. Per un osservatore moderno il problema della superficie, inscindibile da quello del po­ polamento, è uno dei più sconcertanti. Ci si accorge, infatti, immediatamente che nel pro­ gramma di urbanizzazione attuato da Roma le dimensioni di un centro non hanno nessuna importanza: ciò che conta è la sua funzione amministrativa e politica nonché lo statuto dei suoi abitanti. È fuor di dubbio che molte delle canabae, raggruppamenti di commer­ cianti e artigiani d'ogni specie, che si stanzia­ rono attorno ai campi militari del Reno e del Danubio, tra il II ed il III secolo d.C. finiro­ no con l'inglobare popolazioni molto nume­ rose, su superfici che potevano anche essere maggiori di quelle delle principali città di queste stesse regioni. Nel ricordare una di quelle canabae in prossimità del campo di Ve­ tera I (Xanten) in Renania, Tacito afferma che col tempo aveva assunto l'aspetto di un vero e proprio municipio. L'aspetto, può darsi poiché a Viminacium e a Carnuntum si cono­ scono dei raggruppamenti simili che almeno in un settore della loro superficie mostrano una rete viaria ortogonale -, ma certamente né la dignità né le prerogative. Non è un ca­ so se in siti di questo tipo non è stata finora trovata traccia alcuna di strutture assimilabili alla piazza del foro con tutti i suoi annessi amministrativi. Di fatto, pochi di questi inse­ diamenti assumeranno una fisionomia pro­ priamente urbana, nonostante la loro rilevan­ te funzione economica e logistica, essenziale

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III. Le province occidentali. Problemi generali

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Fig. 162. Pianta di Noviodunum (Nyon) (da Ph. Bride]).

per le legioni di guardia lungo il limes del­ l'Impero. Per contro, colonie come Noviodunum, all'estremità del territorio degli Elvezi, o Bar­ cino (Barcellona) nella Spagna Tarraconense, con superfici di circa 10 ettari ed uno spazio molto limitato per l'abitato, giocano un ruolo di primo piano nel sistema urbano di queste regioni, come dimostra il loro centro monu­ mentale sproporzionato rispetto alla superfi­ cie totale della città. È difficile definire una media delle super­ fici universalmente valida per tutte le catego­ rie di città e per tutte le regioni. In Gallia, ad esempio, le superfici racchiuse entro mura di città grosso modo contemporanee variano in un rapporto di 1 a 5: le colonie romane di Ar-

!es e di Fréjus non superano i 40 ettari; Au­ tun, Vienne, Nimes raggiungono o addirittu­ ra superano i 200 ettari. Nelle Tre Gallie le città aperte, che sono anche le più numerose e che soltanto in età tarda avranno una costi­ tuzione romana, hanno in genere una superfi­ cie di 50-80 ettari, con qualche significativa eccezione: Vaison-la-Romaine occupa circa 75 ettari; Reims, capitale della Gallia Belgica, stando almeno alla localizzazione delle necro­ poli, supera i 100 ettari; Bordeaux, sicura­ mente municipio a partire dall'età di Vespa­ siano, raggiunge i 125 ettari; Saintes, nel mo­ mento di maggiore espansione, che corri­ sponde al periodo in cui fu capitale dell'A­ quitania, occupava circa 100-125 ettari. Non è nota, invece, l'esatta estensione di Lione e

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Parte II. I:età imperiale

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Fig. 163. Pianta di Barcino (Barcellona): la cinta della colonia augustea racchiudeva una superficie perfettamente ret­ tangolare (in tratteggio); in nero la cinta della bassa età imperiale (da F. Pallarès).

Narbona, mentre Parigi, con il suo agglome­ rato sulla rive gauche, doveva occupare circa 53 ettari. In Germania la colonia claudia di Colonia coprirà più di 97 ettari. Nella Britannia insu­ lare la superficie dei centri, calcolata sulla ba­ se delle cinte murarie, risulta piuttosto consi­ stente: 96 ettari a Corinium (Cirencester); 81 a Verulamium; 68 a Viroconium (Wroxester); 40 a Calleva (Silchester), ecc. Sarebbe comunque sbagliato trarre da queste cifre delle conclusioni affrettate sul dato della popolazione di ognuno di questi siti. Innanzitutto perché le superfici compre­ se entro le mura molto di rado coincidono con le aree effettivamente abitate: o meglio, le mura, per motivi orografici e strategici, comprendono superfici non adatte su tutta la loro estensione all'occupazione; è il caso

di Nimes, in cui le mura seguono le curve di livello, ma in cui l'abitato si concentra ov­ viamente solo nei settori pianeggianti; è an­ che il caso di Avenches, ove la zona urba­ nizzata costituisce meno della metà della su­ perficie circondata da mura; ed è anche il caso di Treviri, in cui le mura del II secolo inglobano il santuario suburbano di Altba­ chtal, le sponde della Mosella che rischiano di essere inondate dal fiume ecc. Infine, ac­ cade spesso che la cinta urbica, specie quan­ do ha un rigoroso circuito geometrico, come nel caso di alcune colonie di veterani, risul­ ti poi troppo piccola: l'esempio più calzante è quello di Timgad in Africa, che dagli ini­ ziali 12 ettari intra muros passa a più di 50 ettari alla fine del II secolo; lo stesso dicasi di Gades (Cadice in Spagna), colonia cesa­ riana che in età imperiale raddoppia la su-

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III. Le province occidentali. Problemi generali

perficie iniziale raggiungendo così gli 80 et­ tari. D'altro canto bisogna anche tenere con­ to della lenta occupazione del suolo: le ri­ cerche sul sito di Cartagine hanno dimo­ strato che molti isolati periferici, finora considerati pertinenti alla fondazione augu­ stea, soltanto nei secoli III e IV d.C. hanno subito l'urbanizzazione. E questa osservazio­ ne vale certamente per molti altri siti, lo svi­ luppo dei quali, al di là del progetto inizia­ le, risulterebbe molto più diffuso e distri­ buito nel tempo se indagini archeologiche sistematiche permettessero di liberarne l'in­ tera superficie. Con questo vogliamo dire che qualsiasi stima della popolazione urbana si rivela ar­ bitraria. Pur ammettendo di conoscere esat­ tamente l'estensione della superficie abitata in un determinato periodo, resterebbe sem­ pre un problema irrisolvibile: quello della densità. E ciò spiega le differenti valutazio­ ni degli storici a proposito di una stessa città: St. Gsell attribuiva 100.000 abitanti al­ la Cesarea di Mauritania nel II secolo, men­ tre, secondo Ch. Courtois, questi ammonta­ vano al massimo a 30.000. Quest'ultima ci­ fra è senz'altro più vicina alla verità se teniamo conto sia dell'estensione della su­ perficie non edificata che della scarsa den­ sità - 140-150 abitanti per ettaro - giusta­ mente supposta da A. Lézine per una città residenziale di questo tipo. In linea genera­ le è sempre opportuno abbassare le cifre proposte dagli archeologi della fine dell'Ot­ tocento e degli inizi del Novecento; le riser­ ve espresse da F. Lot a proposito delle ipo­ tesi di C. Jullian sulle città della Gallia re­ stano sostanzialmente valide: non possiamo supporre una densità di 500 abitanti per et­ taro e attribuire alla Lione dell'Alto Impero una popolazione di 200.000 abitanti. Lo stesso vale per i calcoli di Gordon Home ri­ guardo alle città dell'Inghilterra. Oggi si ten­ de ad attribuire alla maggior parte delle città

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Fig. 164. Pianta di Thamugadi (Timgad) (da P.-A. Fé­ vrier).

dell'Occidente una popolazione oscillante tra i 5 ed i 20.000 abitanti. Sono poche quelle che in età alto-imperiale superano questo limite: Colonia, Londra, Narbona, Cesarea di Mauritania, Cirta di Numidia; nel IV secolo Treviri può aver raggiunto i 50.000 abitanti. Unica nel suo genere la co­ lonia augustea di Cartagine, tra la fine del II secolo e l'età dei Vandali, ha contato cen­ tinaia di migliaia di persone, in ciò assimila­ bile alla megalopoli di Alessandria, l'unica città che sotto questo punto di vista può aver rivaleggiato con Roma. A questo punto sopraggiunge un altro in­ terrogativo, e cioè se il problema di una clas­ sificazione si pone in termini più chiari ri­ guardo all'attrezzatura e alla morfologia di una città. La risposta a tutta prima sembra positiva, poiché le colonie fatte oggetto di una

286 «deduzione», almeno in un primo tempo, de­ vono distinguersi da quelle città in cui lo svi­ luppo non è stato regolato da precise norme: la regolarità dell'impianto non tradisce forse esigenze religiose, ma al tempo stesso militari e sociali, di un'urbanistica di fondazione lega­ ta ad una teorica distribuzione della terra in lotti uguali? Del resto, per quanto riguarda l'allestimento dei centri urbani, soltanto le co­ lonie ed i municipi, cioè le città dotate di una «costituzione romana», potevano disporre de­ gli organi amministrativi e cultuali indispen­ sabili per il funzionamento delle singole isti­ tuzioni, come la curia, la basilica, il Capito­ lium, per citare i più importanti. Sappiamo bene che la costruzione di questi monumenti non può prescindere dal rispetto di determi­ nate regole: assialità, gerarchia degli spazi e dei volumi ecc. Stando così le cose, non do­ vrebbe essere difficile individuare il carattere iniziale e le modalità dell'evoluzione giuridica di una città solo sulla base dell'impianto ur­ banistico generale; ma il problema non è così semplice. Il carattere empirico della pratica romana in questo campo determina, infatti, molte varianti che falsano gli schemi teorici, ammesso che siano realmente esistiti. E inol­ tre, lo stato delle ricerche in queste province occidentali, in cui la continuità d'insediamen­ to ha finito spesso con l'obliterare situazioni preesistenti, è tale da impedire tentativi di giudizi globali. A ciò si aggiunge il fatto che, eccezion fatta per l'Africa settentrionale e per la Gallia Narbonense, la scarsezza dei docu­ menti letterari ed epigrafici rende molto diffi­ cile la ricostruzione della posizione giuridica delle città nei confronti di Roma. Invita alla prudenza lo scarto, spesso registrato da ar­ cheologi e storici, tra le vestigia archeologiche e le notizie di cui possiamo disporre in mate­ ria di amministrazione ed istituzioni. Basti citare il caso di Augustodunum (Autun), una delle più grandi città gallo-romane di cui, per di più, si conservano suggestivi monumenti:

Parte II. J;età imperiale

della città sappiamo con certezza solo che fu capitale della civitas degli Edui, ma ignoria­ mo del tutto se fu federata o colonia di dirit­ to latino e, nel caso sia passata da una cate­ goria all'altra, se questo cambiamento si dati in età augustea, claudia o nel II secolo. E dai resti archeologici non possiamo trarre nessun indizio. Casi di questo genere, tutt'altro che isola­ ti, non sono imputabili solo alla casualità del­ le sopravvivenze; dipendono anche dalla ge­ nericità della morfologia urbana, contro un campionario giuridico abbastanza vasto che definisce situazioni di diritto, se non di fatto, molto diverse tra loro, almeno durante i pri­ mi due secoli dell'Impero. È vero che la situazione sarebbe diversa e lo status di colonia più facilmente riconosci­ bile in un periodo più antico e in ambiente italico: all'inizio le prime colonie di cittadini non possedevano nessun organo di autono­ mia interna, poiché costituivano delle dirette emanazioni di Roma; per questo motivo l'im­ pianto iniziale non prevedeva né la curia né il comizio, e ci sono buoni motivi per credere che Ostia non ebbe un foro, nel senso monu­ mentale e spaziale del termine prima dell'ini­ zio dell'Impero. Studi in merito alle città del­ l'Italia centrale hanno d'altra parte messo in evidenza delle linee di sviluppo diverse a se­ conda che la colonia fosse di diritto latino o romano: nel tracciato della rete stradale, nel percorso delle mura, nei rapporti che si ven­ gono a stabilire tra Foro e Arx sono state in­ dividuate delle costanti che non sempre di­ pendono dalle vicende storiche precedenti o da motivi geografici; l'osservazione di città come Ostia, Terracina e Minturno da un lato e di Cosa e Alba Fucens dall'altro permette di isolare una serie di norme, o almeno di prati­ che diverse, valide per i periodi medio e tar­ do-repubblicano, almeno parzialmente legate a precise situazioni di tipo giuridico ed am­ ministrativo.

III. Le province occidentali. Problemi generali

Ma per il periodo in cui in ambiente pro­ vinciale si registrano le prime fondazioni ro­ mane, distinzioni così precise sono p-iolto meno leggibili sul terreno. La diversit� delle istituzioni non compromette l'omogeneità di un'attrezzatura urbana tesa alla normalizza­ zione, in cui i componenti più importanti, Fo­ ro e suoi annessi, complessi termali, templi dinastici e capitolia, stanno ormai diventando canonici. Le differenze più sensibili sembrano dipendere dalle abitudini delle varie etnie, dai condizionamenti topografici, dalla disponibi­ lità finanziaria dei notabili e, più raramente, pure dalle esigenze religiose o dalla funzione economica, che può anche essere anteriore al­ la romanizzazione. Emergono così delle sor­ prendenti analogie tra Arles e Nimes, quan­ tunque la prima sia una colonia romana di ve­ terani e quindi fornita di diritto romano, e la seconda non abbia mai subito «deduzioni» né superato il livello del diritto latino. Viceversa, alcune colonie militari quasi contemporanee possono differire molto l'una dall'altra: ana­ lizzando le piante di Cuicul (Djemila) e di Timgad (Thamugadi) avremo modo di vedere che la parentela giuridica e cronologica di queste fondazioni non ha prodotto nessuna similitudine nel loro progetto urbanistico. Esistono anche dei casi limite in cui lo status giuridico non trova alcun riscontro nella realtà urbana alla quale si riferisce: ad esem­ pio in Pannonia il municipium Bassianae, cir­ condato da mura, conserva all'interno solo al­ cuni sporadici gruppi di case e qualche edifi­ cio (di carattere pubblico?) in legno e impa­ sto di argilla e fango; in Dalmazia sembra in­ vece che i municipi di Pelva e Salvium non abbiano mai assunto l'aspetto di una città, sia pure nelle sue forme più elementari; al con­ trario, semplici vici possono aver avuto dei centri monumentali completi: una gigantesca basilica (m 61x25), ad esempio, è stata iden­ tificata a Lousonna (Losanna). Come per le vicine Genua (Ginevra), Boutae (Fins d'An-

287 necy) e lzarnodurum (Izernore), la basilica rappresentava evidentemente la componente essenziale per la definizione «urbana» di que­ sti agglomerati. Del resto conosciamo alcuni vici gallo-romani dotati di un'attrezzatura mo­ numentale invidiabile per molte colonie: Ale­ sia, capoluogo del pagus Alisiensis, possedeva un teatro, un foro, una basilica, templi e stra­ de porticate. Nella Narbonense, il vicus Ebu­ romagus costruisce nel II secolo un teatro de­ dicato al numen imperiale e ad Apollo, men­ tre gli abitanti del vicus di Vendoeuvres par­ tecipano alla costruzione di un diribitorium, cioè di un edificio adibito allo spoglio dei vo­ ti. Quando poi vediamo che l'oppidum celtico di Conimbriga in Lusitania (Portogallo) co­ struisce in età augustea un edificio vicinissimo alla basilica vitruviana di Fano, ivi compresa una specie di aedes che per posizione e di­ mensioni è assimilabile ad una curia, è legitti­ mo domandarsi se queste attrezzature monu­ mentali fossero o no in rapporto diretto con gli organi amministrativi di cui questi centri potevano realmente disporre. Quest'ultimo esempio sembra suggerire che, dall'inizio del­ l'età imperiale, gli schemi urbanistici a cui si informava l'impianto dei centri cittadini delle città con costituzione romana abbiano costi­ tuito il modello per quegli agglomerati che non avevano ancora acquisito questo onore. Tre problemi meritano in particolare la nostra attenzione. Anche se non disponiamo ancora di una chiave di lettura che ci permet­ ta di risolverli del tutto, è però opportuno averli ben presenti prima di analizzare in det­ taglio l'urbanistica romana delle province oc­ cidentali. Il primo e più dibattuto di questi proble­ mi è quello della presenza e del significato di uno schema d'impianto basato su una rete di strade ortogonali, parallele a due «generatri­ ci» principali (che per comodità, ma arbitra­ riamente, chiamiamo cardo maximus e decu­ manus maximus), che compongono degli iso-

288 lati più o meno uguali. Senza entrare qui nel vivo di un dibattito di cui più avanti vedremo le implicazioni metodologiche e storiche, quel che conta è ricordare che le colonie di diritto romano devono, o dovrebbero, avere per de­ finizione un'organizzazione di questo tipo: la loro fondazione, legata alla centuriazione, e cioè alla divisione del territorio in lotti, impli­ ca di norma un'analoga divisione dello spazio edificato; il principio delle assegnazioni, viri­ tane o civili, determina, o per lo meno do­ vrebbe determinare, una rigoròsa divisione delle superfici abitate attorno a un foro in po­ sizione centrale. Una situazione del genere si può riscontrare nelle ultime colonie augustee dell'Italia settentrionale, quali Aosta e Torino. Ma nelle province, anche se la maggior parte delle colonie presenta un impianto piuttosto regolare, si notano molte varianti, sia nell'im­ pianto generale che nella divisione interna. La colonia di Augusta Raurica (Augst), costruita su un terreno vergine nel 43 a.C., presenta un tessuto urbano indubbiamente ortogonale che sembra riferibile all'età augustea; ma i moduli adottati variano tra la città alta e quel­ la bassa: i condizionamenti orografici e la vi­ cinanza del fiume sono la causa di questa di­ scontinuità. Bisogna poi tenere presente che moltissime colonie insistono su agglomerati preesistenti e che non hanno potuto fare ta­ bula rasa dello stanziamento precedente: sicu­ ramente è un po' anche per questo motivo che la città romana di Arles mostra un im­ pianto ortogonale solo nel settore monumen­ tale ad ovest del teatro; questa particolarità, che la rende simile ad un forum indigeno, co­ me Martigny in Svizzera, non sminuisce il ruolo che Arelate, come colonia, svolse nel­ l'ambito della romanizzazione della Narbo­ nense. Esistono anche delle colonie che fin dall'inizio hanno ubbidito a uno schema or­ togonale: Cartagine, ad esempio, in cui la vec­ chia acropoli punica fu interessata, negli anni successivi alla «deduzione» del 29 a.C., da

Parte II. J;età imperiale

enormi lavori di livellamento e riempimento per essere inserita nel tessuto ortogonale ge­ nerale, cosa che non accadeva con la Byrsa pu­ nica. Conosciamo del resto il caso di Timgad, dove nella fase iniziale traspaiono l'unitarietà e la coerenza di un autentico esercizio di scuo­ la, anche se, a quanto pare, questa rigorosa geometria non è stata applicata altrove. Come conclusione provvisoria ci limitere­ mo dunque ad affermare che le colonie, nel senso proprio e non soltanto onorifico del termine, sono delle città in cui, più che altro­ ve, si manifestano alcuni degli aspetti propri dell'urbanistica romana, senza che però si possa definire un «modello» universalmente valido per tutte le fondazioni di questo tipo. D'altra parte, la dimensione temporale, che non va mai persa di vista, contribuisce a crea­ re confusione, determinando spesso, ma non sempre, dei cambiamenti rispetto al program­ ma di partenza: se Cartagine e Augst segui­ ranno uno sviluppo ed una monumentalizza­ zione conformi al canovaccio dei fondatori, Timgad infrange lo schema iniziale e si svi­ luppa secondo altre direttrici. Va poi aggiun­ to che tessuti urbanistici analoghi si ritrovano in molti altri centri che, almeno all'inizio, non godevano del medesimo statuto: sembra in­ fatti che Aventicum (Avenches) e Augusta Treverorum (Treviri), ad esempio, siano state fondate secondo uno schema rigoroso, che re­ sterà un elemento costante, né modificato né perfezionato quando queste due città verran­ no elevate al rango di colonie. Il secondo problema, legato strettamente al primo, è quello della cinta urbica. Sappia­ mo che, almeno dall'età augustea, le mura non sono più concepite in termini esclusiva­ mente difensivi, ma costituiscono anche un elemento che definisce la città e le conferisce prestigio. Viene da chiedersi se la cinta, stru­ mento di difesa ma anche di dignitas, res sacra per eccellenza, venisse automaticamente asso­ ciata ad uno status giuridico. Per molto tem-

III. Le province occidentali. Problemi generali

po si è creduto di poter rispondere affermati­ vamente, sulla base di una serie di testimo­ nianze: cioè i trattati di agrimensura e di cen­ turiazione, genericamente indicati come Cro­ matici Veteres i quali, sia nel testo che nelle il­ lustrazioni, associano la cinta muraria al tito­ lo di colonia. Lo stesso avviene nei testi, let­ terari o epigrafici, che ricordano la fondazio­ ne di una colonia: il rituale del sulcus primi­ genius, che consiste nella delimitazione dello spazio urbano con un aratro, è attestata nella legge di fondazione della colonia di Osuna in Spagna (colonia Genetiva Iulia); la conse­ guenza naturale di questo atto simbolico sem­ bra essere la costruzione delle mura, che ma­ terializzano il limite teorico del pomerium. Va constatato che nella maggior parte del­ le province occidentali le mura sono piuttosto rare prima delle invasioni del II secolo: nella Gallia romana solo 18 città sono provviste di cinte urbiche e, dalla Spagna alla Britannia in­ sulare, conosciamo un'infinità di città «aper­ te». Nell'Africa Proconsolare e in Numidia pare che i campi dei legionari e i forti sul li­ mes siano stati sufficienti a garantire la sicu­ rezza delle città, ed è notevole il fatto che an­ cora nel III secolo le menzioni epigrafiche re­ lative a lavori di difesa riguardino solo i pagi e i castel/a della Mauritania, agglomerati di se­ condaria importanza destinati a coloni che la­ voravano nelle proprietà imperiali. In queste condizioni, per il periodo dell'Alto Impero, si sarebbe tentati di riferire queste costose im­ prese di costruzione solo agli stanziamenti più importanti, tanto più che l'edificazione di mura comporta spesso un aiuto da parte del potere centrale (sotto forma di concorso alle spese o esenzione dalle imposte). Oggettiva­ mente, le uniche cinte costruite in Numidia nel II secolo sono quelle delle colonie di ve­ terani, Cuicul e Timgad: costruite al momen­ to della fondazione, le mura, che non ebbero mai una funzione strettamente difensiva in queste due città, furono scavalcate molto pre-

289 sto dai quartieri residenziali; da ciò si potreb­ be dedurre che in qualche modo facessero parte della dotazione statutaria delle colonie di diritto romano. Ma si è anche fatto notare che nella Gallia settentrionale non tutte le città provviste di mura erano colonie di citta­ dini. Del resto, se per molto tempo la cinta monumentale di Nimes, lunga più di 6 km, ha costituito un argomento importante per l'at­ tribuzione di questo statuto alla colonia Iulia Nemausus, oggi sappiamo che la città ebbe soltanto il diritto latino; l'iscrizione del 16/15 a.C., che ricorda che «l'imperatore Cesare Augusto regala alla colonia le porte e le mu­ ra», dimostra che quella costruzione dipese da un'autorizzazione preliminare da parte del princeps, confermando che, almeno in questo caso, l'attribuzione di un monumento del ge­ nere non poteva prescindere dal potere cen­ trale. Conosciamo una dedica di questo tipo - ma molto più lacunosa - anche per Vienne, ma essa non può rappresentare una prova del cambio di statuto di questa città in età augu­ stea: contrariamente a quanto ha scritto A. Pelletier, la costruzione delle mura e l'acqui­ sizione della cittadinanza romana sono due fatti del tutto indipendenti. Sappiamo, infine, che la terza grande cinta gallo-romana, quella di Autun, circondava un centro che non ha mai oltrepassato lo stadio dello ius latii e che forse, quando furono costruite le mura, era ancora una città peregrina. Viceversa, conosciamo moltissime colonie di veterani che per molto tempo, se non per sempre, sono state sprovviste di mura; la più importante delle fondazioni augustee, la colo­ nia Iulia Carthago, dal rigoroso impianto or­ togonale, è rimasta una città senza mura fino al 425 d.C.; in ciò sembra aver condiviso la sorte di Narbona che, al momento della se­ conda deductio nel 45 a.C., non sembra aver avuto una cinta muraria che sostituisse la for­ tificazione di terra e legno che sicuramente circondava la prima colonia del 118 a.C.; an-

290 che a Nyon (colonia Iulia Equestris) non è sta­ ta trovata traccia di mura. Tacito, del resto, ri­ corda che Camulodunum, quantunque rap­ presentasse l'esempio tipico di colonia co­ struita a scopo militare in una zona pericolo­ sa, al tempo della rivolta della regina Budica - più di 10 anni dopo la fondazione - non era ancora stata dotata di mura; infatti la città do­ vrà attendere ancora fino all'inizio del III se­ colo per avere i suoi moenia. In questo campo vanno dunque evitate af­ fermazioni perentorie; una sola regola sembra sicura: senza l'autorizzazione imperiale non si potevano costruire mura. Le iscrizioni ed i te­ sti giuridici lo dicono chiaramente, e del re­ sto non sembra strano che per un'impresa si­ mile fosse indispensabile il consenso del po­ tere centrale. In questi termini, la presenza delle mura rappresenta una sorta di privile­ gio. Ma, quantunque risulti che le fondazioni coloniali ricevettero questo privilegio più fre­ quentemente di altre città, non sembra che qualche obbligo istituzionale abbia regolato la sua attribuzione, per lo meno nell'età alto­ imperiale. Il terzo elemento che la tradizione storio­ grafica presenta come componente essenziale di ogni città romana delle province è il Capi­ tolium. Per il suo valore religioso, per il volu­ me architettonico, per gli assi che domina, questo tempio - almeno quando se ne indivi­ duano le vestigia - svolge sicuramente una funzione importantissima nell'organizzazione dei centri monumentali. Ma la prassi repub­ blicana, che faceva del santuario della triade capitolina il simbolo del legame tra Roma e le colonie dell'Italia, non si ripete nelle regioni occidentali dell'Impero: ciò che molto presto prende il posto del Capitolium è, all'inizio, il tempio dinastico (molto spesso dedicato a Roma e Augusto), e poi quello del culto im­ periale. Grazie ad una maggiore conoscenza dell'urbanistica provinciale, possiamo ora constatare che nel corso del I secolo dell'Im-

Parte II. I:età imperiale

pero nelle colonie galliche, iberiche o africa­ ne, furono costruiti pochissimi capitolia, men­ tre per contro abbondano i santuari dedicati agli imperatori. Questi santuari vengono co­ struiti ovunque, occupando i più svariati edi­ fici: luoghi di culto indigeni, basiliche, teatri ecc. e, almeno all'inizio, non assumono l'a­ spetto di un tempio tradizionale. Nella sua sintesi sui capitolia del mondo romano I.M. Berton fa notare quanto rare siano le vestigia riferibili ai santuari di Giove Capitolino nella Tarraconense e nella Betica. Per quanto ri­ guarda la Narbonense, solo il santuario di Narbona sembra essere sicuro. In effetti, an­ che per quest'ultimo esiste il dubbio che si tratti di un tempio giulio-claudio del culto imperiale. Quanto all'assunto che di tanto in tanto spinge gli studiosi a cercare un capito­ lium sulle alture, dobbiamo dire che ciò non ha dato risultati soddisfacenti né sul Mont Pi­ pet di Vienne, né sulla collina di Saint-Eutro­ pe di Orange; in proposito va precisato che sulla sommità del Mont Cavalier di Nimes non si erge il Capitolium, bensì una torre, in­ timamente connessa con il sottostante Augu­ steum del santuario detto della Fontana. Inol­ tre, conosciamo il sito dei complessi dinastici di queste stesse città: il tempio e il teatro di Orange, il tempio dei Caesares di Nimes, il tempio di Augusto e Livia a Vienne; ad Arles, colonia cesariana, il centro del Foro è occu­ pato in un primo momento da un altare, so­ stituito in età tiberiana da un tempio. È stato poi dimostrato che i «templi gemelli» di Gla­ num, che fanno parte del primo progetto del Foro, sono stati riconvertiti molto presto al culto della famiglia imperiale o di Roma e Au­ gusto. Anche le successive ricerche nei centri religiosi e civili delle città fondate o ricostrui­ te in età alto-imperiale nella Tarraconense, nella Betica e nella Lusitania, hanno dimo­ strato che i santuari dedicati al divus Augustus hanno svolto un ruolo di primo piano: a Bil­ bilis, Tarraco, Augusta Emerita ecc., la tipo-

III. Le province occidentali. Problemi generali

logia di questi edifici, la loro importanza mo­ numentale e soprattutto il loro rapporto con il Foro ed il teatro, attestano che spesso essi costituivano il cardine attorno a cui si artico­ lavano gli edifici pubblici. A partire dal I secolo d.C., dunque, nelle città occidentali il culto imperiale e le nuove sequenze monumentali che esso comporta tendono ad annullare quelle differenze che potevano ancora esistere tra i vari tipi di fon­ dazioni urbane. All'inizio del II secolo la situazione resta immutata, come dimostrano le città d'Africa: nel primo progetto urbanistico della colonia militare di Timgad viene previsto soltanto il tempio dedicato a Traiano, posto nelle imme­ diate vicinanze del Foro. E nel Foro della co­ lonia Iulia Valentia (Banasa, nella Mauritania Tingitana) è stato individuato un monumento del culto imperiale e non un capitolium. Tut­ tavia, in età antonina, queste stesse province conoscono una straordinaria fioritura di capi­ tolia: tra il 150 e il 170 nei municipi di Thu­ burbo Maius e di Sufetula, nella colonia di Timgad, nei pagi di Thugga e di Numluli ecc., vengono costruiti grandi templi dedicati alla triade capitolina. Ci si può chiedere come mai questo tipo di edificio compaia così tardi. Più che da un indebolimento del culto imperiale ci sembra che questo dipenda dalla totale e definitiva assimilazione degli imperatori divinizzati a Iuppiter Optimus Maximus, come attesta la rappresentazione di un'apoteosi (sicuramente quella di Antonino Pio) sul frontone del Ca­ pitolium di Thugga. Sia in Oriente che in Oc­ cidente sono del resto moltissime le confusio­ ni epigrafiche - spesso intenzionali - tra i templi di Augusto e quelli di Giove; quanto alla letteratura tarda, quella dei panegiristi galli o di Sidonio Apollinare, non distinguerà più per niente gli uni dagli altri; donde gli er­ rori di identificazione da parte di quegli ar-

291 cheologi che non hanno preso la misura esat­ ta del fenomeno. Anche se non possiamo istituire un rap­ porto troppo stretto tra organizzazione urba­ nistica e statuto giuridico di una città, tuttavia non va sottovalutato il fatto che in moltissimi casi si nota un salto, qualitativo e quantitati­ vo, nel momento in cui la comunità sale al gradino superiore. Non va trascurato il ruolo svolto dall'organizzazione dello spazio e del1' attrezzatura monumentale nella promozione di grado di cui potevano beneficiare le comu­ nità, e viceversa gli effetti di questi avanza­ menti di statuto sulla monumentalità di una città; in qualche caso fortunato siamo in gra­ do di distinguerli con chiarezza. Ancora nel IV secolo, quando il vicus frigio di Orcistus presenta all'imperatore Costantino la richiesta di essere integrato nel diritto di cittadinanza, gli abitanti, tra le altre cose, pongono l' accen­ to sul fatto che il vicus dispone di moltissimi impianti termali e di statue degli imperatori divise tra i vari edifici pubblici. Il livello del­ !'attrezzatura urbana era dunque ritenuto in­ dispensabile per l'avanzamento nella gerar­ chia istituzionale, poiché testimoniava il livel­ lo di «romanizzazione» raggiunto. Per gli stessi motivi ad ogni avanzamento giuridico corrispondeva un miglioramento del grado di romanizzazione; possiamo anche pensare che in molte città dell'Occidente fu questa la con­ dizione a cui dovettero sottostare i notabili lo­ cali affinché le loro richieste venissero soddi­ sfatte. In qualche caso questo fenomeno è chiarissimo: a Colonia, ad esempio, sotto Claudio furono costruiti il Capitolium e le mura; nello stesso periodo a Tipasa, in Numi­ dia, furono costruite le mura, proprio quando la città accedette al rango di municipio di di­ ritto latino, come ha dimostrato P.A. Février, a Thuburbo Maius la costruzione - nel 166/67 - di un capitolium in posizione domi­ nante rispetto al Foro senza dubbio pesò sul-

292 la decisione imperiale di trasformare questo stanziamento in municipio. Come sottolinea­ va J. Gascou, la costruzione di questo tempio rappresentò da un lato la conferma che la città era ormai pronta ad accogliere un rego­ lare statuto municipale e dall'altro la risposta concreta, da parte dei notabili locali, alla pro­ messa di un avanzamento di grado, con lo scopo di accelerare il processo, giocando d'anticipo, in qualche modo, sulla realtà giu­ ridica, attraverso un simbolismo architettoni­ co affatto trasparente. Questi fenomeni consentono di apprezza­ re l'importanza dei fattori politici nell'evolu­ zione delle città provinciali. Al di là delle mo­ dalità della fondazione e dei fattori storici contemporanei che possono aver influito sul­ la scelta della definizione giuridica, ciò che conta a lungo termine, e che condiziona mol­ tissimo non soltanto lo sviluppo urbanistico di queste città ma la loro stessa esistenza, è l'intrecciarsi di più fenomeni che cercheremo adesso di precisare.

3. Potere centrale, notabili e città Molte colonie cesariane o «triumvirali» so­ lo in età augustea o giulio-daudia acquistano importanza sul piano urbanistico e monu­ mentale e molte fondazioni augustee prendo­ no corpo definitivamente soltanto in età dau­ dia o flavia. Per vari decenni, e talvolta per quasi un secolo, il volto urbanistico di un si­ to che ha occupato uno stanziamento preesi­ stente può rimanere immutato, e parimenti, nel caso di fondazioni ex nihilo, possono tra­ scorrere anni senza che sul piano archeologi­ co si registrino costruzioni di organiche se­ quenze monumentali. Naturalmente bisogna tener conto delle difficoltà che si incontrano nell'esplorazione dei livelli più bassi e quindi più antichi, nonché delle inevitabili lacune di qualsiasi analisi archeologica, specialmente se

Parte II. I:età imperiale

effettuata in tempi relativamente lontani. Ma in Occidente il tipo di fenomeno che abbia­ mo sopra descritto è troppo frequente per es­ sere attribuito solo ai limiti e alle lacune del­ la ricerca scientifica. In realtà, una città romana non può pren­ dere corpo in tutta la sua pienezza solo per la volontà del potere centrale; allo stesso modo una «deduzione» coloniale può anche dare vi­ ta ad uno stanziamento molto modesto. Un progetto urbanistico resta un fatto teorico fin­ ché non si realizzano le condizioni per cui si fondono due fenomeni importantissimi: uno socio-culturale, che consiste nell'emergenza di una classe di notabili fortunati, quasi sem­ pre grossi proprietari terrieri, desiderosi di dare a Roma dimostrazioni di lealtà, pronti a rispondere a qualsiasi sollecitazione da parte del potere centrale e addirittura ad anticipar­ la; l'altro politico-amministrativo, che riguar­ da il sistema instaurato da Roma, grazie al quale i suddetti notabili possono godere di un certo potere e muoversi in vista della propria promozione personale soltanto nell ambito della città. Non c'è dubbio che in certe determinate circostanze il potere centrale esprime e mani­ festa un'enorme sollecitudine: Tacito ricorda che Agricola si preoccupò di fare in modo che le popolazioni della Britannia insulare co­ struissero per sé gli elementi essenziali di un paesaggio urbano «alla romana»: è probabile che egli mise a disposizione degli indigeni in­ gegneri e costruttori presi dalle legioni, affit­ tando loro anche manodopera ausiliaria. Sappiamo, inoltre, che i viaggi di Augusto Agrippa in Spagna o in Gallia, come più tar­ di quelli di Adriano in Africa, si tradussero in uno sviluppo edilizio al quale sicuramente contribuirono anche le larghezze degli impe­ ratori. Per di più, alle città potevano essere fatti dei doni come ricompensa ad un servizio reso o in seguito ad una «promozione»; è si­ curamente in questi termini che Augusto par-

III. Le province occidentali. Problemi generali

tecipò al finanziamento delle mura di Nimes. Terremoti ed altre gravi calamità naturali comportano ugualmente un intervento di Ro­ ma: Antonino Pio non restò indifferente di fronte agli incendi che distrussero Narbona e Cartagine negli anni 140 d.C., ecc. I governatori provinciali potevano anche prendere dei provvedimenti eccezionali nei confronti di una città della propria provincia impegnata in un'impresa edilizia ritenuta par­ ticolarmente meritoria; l'iscrizione di un arco dedicato a Tiberio nel 35/36 a Leptis Magna riferisce, ad esempio, dell'esenzione dalle im­ poste sulla terra da parte del proconsole e della pavimentazione delle strade ad opera dello stesso personaggio; è evidente che i due provvedimenti sono intimamente connessi, poiché il primo era indispensabile per il com­ pimento del secondo. Bisogna infine porre nel giusto rilievo la pratica così particolare del «patronato», che consiste nel rimettere gli interessi di tutta la comunità urbana nelle mani di un personag­ gio importante, capace di difenderli anche ai livelli più alti, cioè, se necessario, davanti al senato o all'imperatore. Questo tipo di rap­ porto personale tra la città ed il potere cen­ trale può avere un certo peso sull'organizza­ zione urbana della città stessa: nelle province in cui i notabili locali non sono ancora pron­ ti culturalmente e politicamente ad assumere questo incarico, i patronati sono talvolta rive­ stiti da membri della famiglia imperiale; que­ sti si traducono spesso in donazioni, aiuti o li­ cenze per le attrezzature pubbliche della città. Possediamo la prova epigrafica che il patro­ nato di G. Cesare, figlio adottivo di Augusto, valse alla città di Nimes la costruzione di uno xystus, cioè di un portico per il passeggio e gli esercizi ginnici; e possiamo supporre che il patronato di L. Cesare, fratello cadetto di Gaio, abbia avuto effetti simili a Lione. An­ che la riconoscenza manifestata dagli Arela­ tenses, i coloni di Arles, al loro influente pa-

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tronus, L. Cassius Longinus, console nel 39

d.C., marito di Drusilla figlia di Germanico, si può spiegare con motivazioni simili. Aiuti di questo tipo, però, per quanto con­ sistenti, rimangono un fatto non sistematico se non imprevedibile, e rappresentano co­ munque un episodio circoscritto. Nelle città provinciali che, salvo rarissime eccezioni, so­ no sottoposte alle imposte dirette e che per altro possono disporre solo di rendite collet­ tive molto modeste, i grandi lavori edilizi rap­ presentano in genere un'impresa troppo co­ stosa per il tesoro municipale. Anche se qual­ che città risulta in grado di costruire pecunia publica alcuni importanti edifici del quadro monumentale, il ruolo del finanziamento pubblico in campo edilizio resta relativamen­ te modesto. L'abitudine di riferire al finanzia­ mento pubblico edifici ed opere (teatri, ter­ me, acquedotti ecc.) per i quali non si dispo­ ne di iscrizioni dedicatorie, è quantomeno im­ prudente e non può essere eretta a sistema. In realtà, quando la documentazione epigrafica esiste, si rileva che sono i notabili locali i mag­ giori responsabili della costruzione di opere pubbliche. Il loro ruolo varia da regione a re­ gione e, nell'ambito della stessa, a seconda delle epoche: è stato notato, per esempio, che il bilancio delle città italiane si era progressi­ vamente ristretto tra il I e il II secolo. Per di più, i modi del finanziamento privato assu­ mono forme diverse a seconda delle norme amministrative vigenti e delle abitudini pro­ prie dei diversi gruppi etnici; nelle province africane in cui è attestato l'uso delle summae honorariae, cioè dei versamenti imposti in oc­ casione dell'accesso all'ordine dei decurioni, ad un sacerdozio o ad una magistratura, que­ sti contributi possono essere almeno in parte devoluti alla costruzione di opere pubbliche, ed in tal caso è difficilissimo distinguere il de­ naro privato da quello pubblico. Nella Gallia, in luogo della pratica delle summae honora­ riae, è attestato il fenomeno dell'evergetismo

294 coatto, legato all'accesso ad una carica muni­ cipale (ob honorem), ma esempi del genere sono attestati anche in Africa. In entrambi i casi, queste forme di partecipazione che po­ tremmo definire quasi statutarie, si rivelano comunque insufficienti, ed il ricorso all'ever­ getismo «spontaneo» rimane una costante nella realizzazione dei grandi progetti monu­ mentali. Accade spesso che la somma libera­ mente promessa al termine della procedura della pollicitatio deve essere ampiamente ar­ ricchita durante l'esecuzione dei lavori, come attestano le frequenti menzioni di ampliata o multiplicata pecunia che ricorrono nelle dedi­ che. Può succedere che il donatore non sia in grado, finché è in vita, di far fronte alla spe­ sa, e in tal caso i suoi eredi hanno l'obbligo di condurre a termine l'impresa. Questo everge­ tismo «spontaneo», alimentato dalla smania di ostentazione sociale e dalla rivalità tra i va­ ri gruppi sociali o politici, rappresentava un peso non indifferente per le grandi famiglie. Questi notabili sono nella maggior parte dei casi dei proprietari terrieri. Ma le rendite fondiarie non sono la loro unica fonte di ric­ chezza; alcuni di essi possono anche essere degli armatori, come nella bassa valle del Ro­ dano e in particolare nella colonia di Arles, o appaltatori di giacimenti minerari, come in Spagna, dove è stato studiato il caso di Car­ thago Nova (Cartagena); possono anche esse­ re esportatori di prodotti alimentari (grano, olio), come nell'Africa Proconsolare ecc.; pos­ sono appartenere alla più antica nobiltà indi­ gena o discendere da famiglie di cittadini di origine italica; essere «ingenui» o liberti arric­ chitisi negli affari; in una parola, per origini sociali ed etniche possono essere molto diver­ si, ma la loro funzione nel campo edilizio ri­ mane sempre la stessa nel corso dei tre secoli dell'Impero. Senza dubbio è questo uno degli aspetti più importanti della «romanizzazio­ ne»: quantunque il fenomeno dell'evergeti­ smo non esistesse prima delle conquiste -

Parte II. L'età imperiale

contrariamente a quanto succede nell'Oriente ellenistico - il sistema di integrazione delle élites nell'Africa Proconsolare, nelle province iberiche, nella Gallia Narbonense e anche nelle Tre Gallie, determina una partecipazio­ ne «spontanea» dei notabili all'arricchimento monumentale delle proprie città. In una società in cui gli investimenti, nel­ la moderna accezione del termine, erano piut­ tosto rari, l'elargizione di una parte più o me­ no cospicua del proprio patrimonio da parte dei grandi proprietari era il mezzo più sicuro per conquistare la fiducia dei cittadini ed in­ traprendere la carriera municipale, trampoli­ no indispensabile per eventuali promozioni nell'ordine equestre o senatorio. Alcuni pote­ vano anche essere sinceramente disinteressati; come afferma Ch. Goudineau, essi contribui­ vano a rafforzare il meccanismo conferendo ad esso una parvenza di equità. Il culto impe­ riale, inoltre, che garantiva funzioni e cariche adeguate ad ogni categoria sociale, dai «seviri augustali» ai sacerdoti provinciali o federali, permetteva ai più fortunati rappresentanti delle comunità locali di manifestare concreta­ mente la propria lealtà e la propria gratitudi­ ne; gli atti di liberalità che apparentemente avevano come oggetto la città, in realtà si ri­ volgevano all'imperatore, e questa sottile am­ biguità non ha mancato di creare innumere­ voli confusioni. Non è un caso se molti mo­ numenti pubblici sono stati costruiti da fla­ mines o sacerdotes ad aram o ad templum (Ro­ mae et) Augusti o Augustorum. Per un cittadino moderno una situazione simile è assolutamente inconcepibile, poiché è abituato a vedere che tutte le attrezzature pubbliche, dagli ospedali agli stadi di calcio, sono a carico della collettività che per questo paga le tasse. E, qualunque sia la ricchezza di un singolo o di una famiglia, è difficile im­ maginare un uomo che da solo possa fronteg­ giare spese di interesse pubblico così forti. L'epoca dei Rothschild e delle loro «fonda-

III. Le province occidentali. Problemi generali

zioni» è ormai finita, almeno nell'Europa oc­ cidentale. Dobbiamo invece riconoscere che nel mondo romano una parte cospicua delle ve­ stigia monumentali che costituiscono il pae­ saggio archeologico di tante città del Medi­ terraneo è stata realizzata a spese di uno o più mecenati. Nonostante la scarsezza delle epigrafi rinvenute in Occidente e la scom­ parsa della maggior parte delle dediche de­ gli edifici pubblici, questa realtà si impone con forza quando per un caso fortunato sia­ mo in grado di seguire una o più fasi dello sviluppo edilizio di una città. Citiamo qualche esempio. A Thugga, città peregrina dell'Africa Proconsolare, tre sole fa­ miglie hanno assicurato in circa 80 anni la co­ struzione del centro monumentale, tra l'altro uno dei più spettacolari che si conservi nell'A­ frica romana: i Gabinii, tra il regno di Adriano e quello di Alessandro Severo, pagano la co­ struzione di 4 dei templi più grandi della città e dei loro annessi; sempre a loro si deve la co­ struzione del portico attorno al Foro, che era stato lastricato in età tiberiana a spese di L. Po­ stumius Chius; dal canto loro i Marcii, nel giro di pochissimi anni, sotto il regno di M. Aurelio, finanziano i due più importanti monumenti della città, il teatro ed il Capitolium; e per fini­ re, sotto Commodo, i Pacuvii fanno costruire sua pecunia un complesso che in un certo senso raddoppia le attrezzature forensi, poiché si compone di un mercato pubblico, di un tempio di Mercurio e di uno spiazzo porticato (la piaz­ za detta Rosa dei Venti). Non bisogna dimenti­ care, inoltre, che altre opere riconducibili a questo gruppo particolarmente attivo ci sfug­ gono, poiché la maggior parte delle iscrizioni dedicatorie o onorifiche sono andate perdute; questa intensa attività in campo architettonico non impediva affatto agli stessi personaggi di offrire dei munera di altro tipo ai propri con­ cittadini (giochi, distribuzioni gratuite di vive­ ri, ecc.).

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Fig. 165. Il Foro di Thugga (Dougga) (da Cl. Poinssot).

A Leptis Magna, in un ambiente ancora poco romanizzato, in cui persistono intatte lingua e istituzioni neo-puniche, tra 1'8 a.C. e la fine del regno di Tiberio, alcune famiglie si sono rese responsabili del rinnovamento del1'architettura pubblica della città antica, creando attorno al Foro e al teatro dei com­ plessi monumentali in cui il posto occupato dagli edifici dinastici è veramente rilevante. Al di fuori dell'Africa, la documentazione epigrafica è molto più lacunosa, ma sappiamo che ad Italica, in Spagna, il nucleo essenziale del teatro è stato realizzato solo col danaro della gens Traiana, potente famiglia locale da cui uscirà l'imperatore Traiano. In Aquitania, nella capitale della civitas dei Sentoni, Medio­ lanum (Saintes), un C. Iulius Rufus, discen­ dente romanizzato di una dinastia locale, nel 19 d.C., donò alla città un arco dedicato a Druso e Germanico. Allo stesso personaggio, questa volta insieme al figlio, si deve la co­ struzione dell'anfiteatro di Lione, connesso al santuario federale delle Tre Gallie, che egli dedicò a Tiberio in qualità di sacerdote del culto imperiale. Più modestamente, ma altret­ tanto significativamente, i seviri augusta/es di Divodurum (Metz), cioè dei cittadini fortuna­ ti ma non al punto di accedere all'ardo decu-

296 rionum, o piuttosto dei liberti che per il pro­ prio statuto personale non potevano accedere alle magistrature, hanno pagato la «condotta dell'acqua fino alla città», e cioè l'acquedotto, nonché il ninfeo «con tutti i suoi ornamenti» costruito nel punto d'arrivo dell'acquedotto, ed il portico adiacente. È un peccato che per la Gallia Narbo­ nense non esistano informazioni così detta­ gliate; da un ritrovamento epigrafico del tut­ to casuale apprendiamo, ad esempio, che a Marigny-Saint-Marcel (Alta· Savoia), un membro dell'ordine equestre donò al suo vi­ cus un complesso termale e sportivo: un ba­ lineum, un campus e una porticus; a Vaison­ la-Romaine un altro notabile dello stesso rango paga il rivestimento della scena del teatro ecc. Ma non sappiamo niente del fi­ nanziamento del teatro di Orange, dei crip­ toportici e del Foro di Arles, dell'anfiteatro di Nimes ecc. Sappiamo comunque che in questa provincia appaiono molto presto de­ gli insignes iuvenes, per usare un'espressione dell'imperatore Claudio: questa aristocrazia urbana, ambiziosa e attiva, avida di assimila­ zione culturale e politica, grazie alla precoce concessione dello ius honorum alle città di diritto latino della Narbonense, arriverà mol­ to presto ad intraprendere l'ascesa alle cari­ che equestri e senatorie, che in qualche ca­ so saranno anche particolarmente brillanti; nel I secolo si conoscono 22 senatori origi­ nari della Narbonense (a titolo puramente comparativo, fino a Domiziano si conosce un solo senatore originario delle Tre Gallie), che sicuramente dovevano associare la loro città d'origine alla propria riuscita politica, in una forma che poteva essere (non neces­ sariamente, però) edilizia. Lo stesso vale per i titolari di carriere eque­ stri brillantissime, come quelle degli arelatensi P. Pompeius Paulinus e M. Mettius Rufus, che furono entrambi prefetti all'annona; il secondo fu anche viceré d'Egitto.

Parte 11. L'età imperiale

Fenomeni di questo tipo, le cui tracce si perdono a nord della linea Saintes-Ginevra, hanno larga incidenza sull'urbanistica. Gli aspetti finanziari ed architettonici di questo evergetismo dei notabili costituiscono un problema costante della moderna ricerca scientifica, che peraltro molto spesso trascu­ ra di afferrare il significato concreto di que­ sto evergetismo in relazione alla coerenza della monumentalità urbana. Innanzitutto questi atti individuali, necessariamente legati ad occasioni ben precise, difficilmente pos­ sono essere conciliabili con l'indispensabile continuità di un progetto urbanistico: talvol­ ta è stata anche attribuita a queste iniziative, apparentemente non concertate, la relativa dispersione di un centro monumentale come quello di T hugga. Questa prima impressione va però riconsiderata nell'ambito dei quadri formali e istituzionali all'interno dei quali si sviluppa l'evergetismo occidentale. I notabi­ li che partecipano alla sistemazione di una città romana non si accontentano di sceglie­ re un singolo elemento di una panoplia mo­ numentale, tenendo conto sia della propria disponibilità che dei gusti dei propri concit­ tadini; il livello di elaborazione raggiunto dai più importanti edifici dall'inizio dell'Impero non si capisce senza l'organizzazione dei complessi di cui fanno parte. L' evergete che dona una basilica, un mercato, che paga in­ teramente o in parte un teatro o un edificio termale sa che le proprie donazioni dovran­ no integrarsi a dei complessi organici già in parte esistenti e che non possono accoglier­ le a qualsiasi condizione. A questo punto interviene il concetto es­ senziale di programma. Il programma, lungi dall'essere una meccanica ripetizione di mo­ delli fissati una volta per tutte in qualche si­ stemazione ritenuta paradigmatica, determi­ na dei rapporti funzionali tra i componenti di uno stesso gruppo. È così che si spiega come mai, in Occidente, a partire dall'età

III. Le province occidentali. Problemi generali

giulio-claudia, tanti fora presentino delle se­ quenze monumentali che, pur non essendo mai sovrapponibili, risultano costituite da elementi analoghi distribuiti secondo le me­ desime esigenze di assialità e gerarchia. So­ no molti i fattori che hanno determinato questo processo di normalizzazione: innanzi­ tutto l'intervento del potere provinciale o centrale che, per quanto possibile, controlla le forme edilizie, e questo avviene sempre più frequentemente visto che gli edifici of­ ferti alla comunità dai cittadini ricchi sono spesso dedicati agli imperatori regnanti o di­ vinizzati; in secondo luogo l'aemulatio muni­ cipalis, una sorta di rivalità che si viene a creare tra città vicine di uguale importanza, ma con diverso statuto giuridico e che coin­ volge le comunità in imprese spesso molto costose. È evidente, ad esempio, che la co­ struzione dell'anfiteatro di Arles all'inizio dell'età flavia innestò a Nimes un processo che nel giro di 15 anni porterà alla costru­ zione di un edificio dello stesso tipo, conce­ pito più o meno allo stesso modo e con qualche perfezionamento tecnico dovuto al­ la maggiore esperienza. Per regioni periferi­ che come la Britannia insulare e la Maurita­ nia Tingitana bisogna poi considerare il ruo­ lo di modello svolto dai «Lagerfora» quartieri generali dei campi fissi dei legiona­ ri - nei confronti delle piazze pubbliche de­ gli insediamenti civili. Nelle fondazioni coloniali, inoltre, i pro­ getti urbanistici prevedono sempre degli spa­ zi vuoti che verranno via via riempiti dai vari monumenti: a Timgad, ad esempio, il teatro, quantunque costruito circa 50 anni dopo la fondazione della città, si iscrive perfettamen­ te in un isolato che evidentemente gli era sta­ to riservato fin dall'origine. Questa pianifica­ zione urbanistica non va però sopravvalutata, perché nella stessa Timgad il tessuto urbano mostra delle curiose «dimenticanze» di cui si avrà modo di riparlare. In molti casi, d'altra

297 parte, per motivi di convenienza, gli spazi scelti per gli edifici adibiti agli spettacoli, ed in particolar modo per gli anfiteatri, hanno un orientamento diverso dal resto della città. A ciò si aggiunge il fatto che la maggior parte degli edifici dovuti alla munificenza pri­ vata ha una funzione di rappresentanza e ra­ ramente risponde ai reali bisogni della collet­ tività (e ciò stupisce noi moderni, abituati al­ la razionalità delle infrastrutture collettive). Per questo motivo la «messa in scena» delle costruzioni degli evergeti è molto importante e la coerenza che in qualche caso privilegiato si osserva tra edifici di epoche diverse dipen­ de solo dal legittimo desiderio di valorizza. . z10ne reciproca. Contrariamente a quanto viene sostenuto in una sintesi sulle città gallo-romane (Ch. Goudineau, Histoire de la France urbaine, I, Paris 1980), i complessi urbani occidentali, quantunque meno monumentali di quelli orientali, riescono a combinare con armonia molti dei loro componenti, regolati da un'or­ ganizzazione che va ben al di là di «qualche isolato». Ma per apprezzare appieno questo fenomeno bisogna liberarsi di quell'elementa­ re sistema geometrico al quale ancora troppo spesso viene associato il nome di urbanistica, e ricostruire i ritmi interni e le finalità ultime di situazioni monumentali che spesso rispon­ dono a dei programmi ben precisi, la cui coe­ renza risulta evidente una volta che ne vengo­ no chiariti gli scopi. A conclusione di queste considerazioni preliminari bisogna definire un concreto si­ stema di esposizione. Due soluzioni sono pos­ sibili, ed effettivamente sono state adottate in molte opere precedenti. La più seducente, basata su un uso appa­ rentemente razionale della documentazione, consiste nel raggruppare per temi le compo­ nenti dell'urbanistica provinciale. Il prodotto che ne deriva risulta però arbitrario, perché

298 isola delle nozioni che nel sistema antico non risultavano concepite isolatamente. Dalle con­ siderazioni espresse in precedenza, ad esem­ pio, risulta infatti che non si potrebbe analiz­ zare la scansione interna di una città senza te­ ner conto della distribuzione delle funzioni nello spazio, che a sua volta presuppone un determinato livello delle attrezzature pubbli­ che ecc. Molti errori di valutazione sono de­ rivati da questa tendenza a parlare dei tessuti urbanistici indipendentemente dalla sistema­ zione monumentale, a considerare le planime­ trie indipendentemente dai volumi. L'altro sistema è quello dell' «esemplifica­ zione antologica», secondo il quale i casi esa­ minati possono essere classificati in funzione dei contesti geografici, giuridici, formali ecc. In tal modo si ha il vantaggio di trattar per ciascun sito tutti gli aspetti del problema, ma non si sfugge al rischio della dispersione, che può far perdere di vista certe costanti. Ma so­ prattutto non vengono evidenziati i caratteri propri di ciascun periodo. Nell'impossibilità di seguire un criterio cronologico nell'organizzazione dei capitoli che spezzerebbe l'analisi delle città più im­ portanti - la formula più soddisfacente ci è parsa questa: una scelta delle città che ci sem-

Parte II. I:età imperiale

brano riflettere un tipo di situazione signifi­ cativo (e le situazioni possono essere tipiche di una regione, di un periodo, di una politi­ ca). L'urbanistica romana viene così restituita, per quanto possibile, al suo contesto storico, e sentita ogni volta come una risposta a delle domande o a delle finalità ben precise. La di­ mensione temporale, essenziale per valutare un fenomeno che ha interessato più di tre se­ coli, viene reinserita in questa classificazione in due modi diversi: innanzitutto per il posto privilegiato che cerchiamo di dare allo studio dei ritmi della sistemazione degli spazi urbani in tutti i casi considerati; in secondo luogo grazie al modo in cui vengono presentati i si­ ti che, tenendo conto delle reali date di fon­ dazione o di impianto, fa risaltare la specifica evoluzione dei progetti in relazione ai periodi in cui furono concepiti. Detto questo, non possiamo nascondere l'arbitrarietà di certe nostre scelte; quali che siano le giustificazioni che possiamo addurre, esse restano comunque discutibili proprio per la varietà - ma anche per la discontinuità dei dati disponibili. Al di là delle esigenze me­ todologiche, più di una scelta sarà dettata dal­ lo stato della documentazione e dalla casua­ lità delle soprawivenze archeologiche.

Capitolo IV

Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

1. Ampurias e Glanum: la più antica urbani­ stica romana a contatto con gli stanziamen­ ti ellenistici d'Occidente Per un confronto tra l'attività edilizia di Roma tra la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero e l'urbanistica di tradizione greca affermatasi lungo le coste della Spagna e della Gallia a seguito delle antiche fondazioni focee disponiamo di pochissimi elementi. Cionono­ stante almeno in due siti possiamo seguire il modo di assorbimento o di obliterazione tota­ le di un preesistente insediamento ellenistico da parte di una città romana. Le formule di­ verse che vengono applicate in questi due ca­ si tendono allo stesso fine, e cioè alla distru­ zione dei centri di potere della città prece­ dente e all'annullamento di quest'ultima qua­ le entità amministrativa. Se sul terreno non si leggono tracce di violente distruzioni, ciò non vuol dire che il risultato, che è essenzialmen­ te di natura politica, non sia stato efficace. Le ricerche condotte sul sito di Ampurias hanno mostrato come la Neapolis, l'agglo­ merato greco del VI secolo a.C. sorto sul golfo di Rosas (cfr. E. Greco, M. Torelli, Sto­ ria dell'urbanistica. Il mondo greco, Roma-Ba­ ri 1983, p. 215), si sia sviluppata fino all'i­ nizio dell'età imperiale senza subire grandi distruzioni. Ma, d'altra parte, le indagini in­ traprese sul sito della città romana, costrui­ ta sulle alture sovrastanti la costa, sono at-

tualmente in uno stato tanto avanzato da permettere di capirne l'organizzazione nelle sue grandi linee: la città si è sviluppata sul luogo di un campo di legionari, sicuramente quello di M. Porcius Caro che nel 197 sedò una rivolta indigena (si conservano ancora le tracce di un praesidium). Lo schema rigida­ mente ortogonale è infatti quello proprio di un accampamento militare, con insulae ret­ tangolari di lx2 actus. Il centro monumen­ tale conserva un tempio, certamente un ca­ pitolium, circondato su tre lati da una porti­ cus con sottostante criptoportico, della fine del II o più probabilmente degli inizi del I secolo a.C. Il tempio domina una piazza quadrangolare, il foro, che verrà più tardi corredato dei suoi annessi canonici: basilica, botteghe ecc. La fondazione di questa città, il cui tessuto urbanistico è intimamente le­ gato alla centuriazione rurale, va messo in rapporto con l'organizzazione economica del territorio: sempre nello stesso periodo, infat­ ti, si afferma un nuovo tipo di sfruttamento agricolo, fondato sulle villae rusticae, secon­ do un processo che qualche decennio prima si era imposto, ad esempio, nell'Etruria me­ ridionale. L'unificazione giuridica del nucleo della città romana e della Neapolis risale con ogni probabilità al terzo quarto del I secolo a.C., e precisamente ad una data compresa tra il 45 a.C. e l'inizio del Principato; la città unificata

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Parte II. I:età imperiale

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Fig. 166. Ampurias. La Neapolis all'inizio dell'età imperiale (da J. Aguilue).

ricevette allora lo statuto municipale, ed il suo toponimo, stando alle fonti numismatiche, per qualche tempo fu al plurale, Emporiae, indicando in tal modo il suo duplice caratte­ re. Non è ancora chiaro in che modo venne­ ro raccordati i due sistemi viari, ma quel che è certo è che da questo momento in poi lo spazio occupato dalla città greca venne rapi­ damente privatizzato. La stessa agorà viene sommersa da case, botteghe e officine. L'anti­ ca piazza ellenistica perde la sua funzione am­ ministrativa e politica a tutto vantaggio del Foro; allo stesso modo il luogo del culto prin­ cipale non è più il Serapeo ma il Capitolium. In altre parole, la città greca diventa il quar­ tiere residenziale del lato della città romana rivolto verso il mare; in questo settore si svi­ luppano moltissime case a peristilio e ad atrio, secondo un tessuto meno serrato di quello del precedente abitato.

A Glanum, piccola città ellenizzata del re­ troterra di Marsiglia, nella Gallia Transalpina, furono impiegati sistemi diversi, che non por­ tarono ad una progressiva destrutturazione della città precedente, ma ad un vero e pro­ prio seppellimento: il centro monumentale di questo agglomerato, sviluppatosi attorno ad una sorgente salutare, all'inizio del I secolo a.C. si componeva di una piazza trapezoidale circondata da portici e di un bouleuterion quadrangolare - il più occidentale tra tutti i bouleuteria conosciuti. A partire dal 40 a.C., sicuramente in rapporto con l'ingresso di Glanum nella categoria delle «colonie» di di­ ritto latino del territorio di Arles, si assiste ad una lenta ma progressiva appropriazione de­ gli spazi pubblici: si comincia con la costru­ zione di un santuario composto di due templi corinzi, il cui peribolo finisce con l'invadere il bouleuterion. È poi la volta del Foro che vie-

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IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

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Fig. 167. Ampurias. Pianta della città romana con il suo foro.

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Fig. 168. Glanurn. Pianta generale (documenti IGN, J. Bigot, IRAA, Aix-en-Provence, CNRS).

ne costruito tra il 30 e il 20 a.e. lungo l'asse longitudinale del sito: la distruzione dell'agorà trapezoidale e del quartiere tardo-ellenistico posto sul lato settentrionale, seguita da un im­ ponente lavoro di livellamento, permette di compensare la naturale pendenza e di creare una piazza circondata da portici lungo i lati E e O; questa piazza, chiusa da una «basilica» a due navate sul suo lato corto settentrionale, viene dotata poco a poco dei suoi annessi mo­ numentali. Nei primi anni del I secolo d.C., fortemente estesa verso N, viene costruita un'ampia basilica con deambulatorio periferi­ co, la cui facciata si appoggia alle fondazioni del muro di fondo della vecchia porticus du­ plex; l'infrastruttura amministrativa viene completata da una curia absidata e da un ta­ bularium. Questi ultimi due edifici, poggianti su altissime sostruzioni a causa del dislivello del terreno, dominano dall'alto di più di 20 m la strada e le case vicine. Questo organico complesso, che verrà successivamente com­ pletato a S da una chiusura monumentale ad abside assiale, costituisce una delle più tra­ sparenti illustrazioni di sconvolgimento di un paesaggio urbano a seguito dell'introduzione delle istituzioni romane. Tale operazione vie­ ne affiancata da un'attività religiosa molto esplicita, che consiste nella «romanizzazione» dei santuari tradizionali: nei pressi della sor-

gente salutare Agrippa dedica un sacello alla Valetudo; i due templi corinzi costruiti in età proto-augustea vengono poco dopo consacra­ ti al culto dinastico (forse a Roma e Augusto), come attesta la serie di ritratti giulio-claudii rinvenuta tra i ruderi. Tali templi vengono co­ sì a concludere il complesso amministrativo a cui appartengono: con il loro peribolo, co­ struito nel secondo decennio a.e., essi deli­ mitano l'area religiosa del Foro; quest'ultima si apre lungo un asse perpendicolare alla piaz­ za stessa a causa dei condizionamenti imposti da una topografia irregolare. Ma, a parte questa massiccia operazione, non si registra nessun altro tentativo di rego­ larizzazione: il quartiere delle case ellenisti­ che, a N-O della basilica, disposto lungo un asse obliquo alla piazza, non subisce muta­ menti; soltanto le terme, nelle quali sono sta­ te individuate almeno due fasi, appartengono al progetto di risistemazione del centro. La lezione urbanistica fornita dalle due città di Glanum e Ampurias è in sostanza questa: la romanizzazione di insediamenti preesistenti non comporta necessariamente la realizzazione di un tessuto ortogonale. Il potere tardo-re­ pubblicano o imperiale non è ossessionato dal feticismo della scacchiera: l'interesse per la geometria nel campo urbanistico è limitato alla possibilità di poter definire delle gerarchie spa-

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

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Fig. 169. Pianta degli edifici d'età ellenistica di Glanum (J. Bigot, IRAA, Aix-en-Provence, CNRS).

ziali evidenti e di assicurare un'efficace distri­ buzione degli organismi della nuova ammini­ strazione. Nel resto della città, cioè nei quartie­ ri in cui si era sviluppato l'abitato privato, se il livello di razionalità appare sufficiente, non è necessario ricorrere ad una distruzione o ad una sistematica ristrutturazione. 2. Le «città di Augusto» nella Gallia Narbo­

nense e nella Tarraconense

La Gallia Transalpina è sicuramente la re­ gione occidentale più precocemente urbaniz­ zata. Questo fenomeno non dipende soltanto dalla fondazione di un certo numero di città a conquista avvenuta - Aquae Sextiae (Aix-en­ Provence) nel 122 e Narbo Martius (Narbona) nel 118 - ma anche dalla grande ricettività del­ l'ambiente socio-culturale, da tempo ormai el­ lenizzato, per lo meno nelle aree più vicine alla costa. È un dato di fatto che l'integrazione del­ le aristocrazie indigene avviene qui più rapida­ mente che altrove; il desiderio di assimilazione, alla fine dell'età repubblicana, si manifesta in infiniti modi, che vanno dall'adozione del lati­ no alla romanizzazione delle magistrature loca­ li, ma che assume un significato particolare con la comparsa della casa di tipo italico a partire dalla prima metà del I secolo a.e. (ad Enséru-

ne, Glanum e, dalla metà del secolo, a Vaison). Quando Strabone ricorda che i «più illustri» degli Allobrogi hanno trasformato Vienne da semplice villaggio in città, egli sottolinea, a ti­ tolo d'esempio, il ruolo svolto dalle ricche fa­ miglie locali nello sviluppo urbano. Ma l'ar­ cheologia ci informa anche della consistenza numerica e del ruolo sociale propri di una clas­ se media molto progredita e sensibile alle mo­ de provenienti dall'Italia: le tombe con fregio dorico di Narbona o le stele con viticci di Ni­ mes ne sono la prova, almeno a partire dalla fi­ ne dell'età cesariana. La Provincia Narbonense, costituita tra il 27 e il 22 a.e., è dunque pronta più di qualun­ que altra a rispondere agli stimoli del potere centrale in questo campo. Ma paradossalmen­ te, nonostante le imponenti vestigia ancora og­ gi visibili e che agli occhi di un viaggiatore at­ tento come Plinio il Vecchio facevano dell'at­ tuale Provenza un prolungamento dell'Italia, sono pochissime le città in cui si rileva un im­ pianto ortogonale. La pianta di Orange, resti­ tuita da R. Amy e presentata talvolta come il modello stesso della regolarità, risulta tale solo perché ricostruita in modo assolutamente teo­ rico. I nuovi scavi archeologici hanno smentito in più punti questa ipotetica ricostruzione. I si­ ti meglio noti, quali Vienne, Nimes, Tolosa, Ar­ les, Fréjus, Aix, per quanto ne sappiamo non

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Parte II. I..:età imperiale

Fig. 170. Le civitates della Gallia Narbonense.

presentano alcuna traccia di impianto ortogo­ nale. La conclusione a cui si è giunti è che quan­ tunque non si possa parlare di un'assenza tota­ le di pianificazione, i principali componenti monumentali venivano distribuiti empirica­ mente a seconda delle circostanze e in relazio­ ne ai condizionamenti topografici. Ma, in realtà, se si va un po' oltre una va­ lutazione meccanica dell'episodio urbano nel­ la Narbonense, e se si tenta di ricostruire la dinamica delle sistemazioni cittadine, è possi­ bile riconoscere il progetto che è alla base di molte città, nonostante le ancor gravi lacune

documentarie. Due città, in particolare, pos­ sono aiutarci ad afferrare l'importanza del1'età augustea per la definizione dei program­ mi urbanistici: la colonia romana di Arles e quella latina di Nimes. La colonia Iulia Areiate Sextanorum (Arles), fondata nel 46 a.C. da T. Claudius Nero per con­ to di Cesare, come indica la denominazione, venne popolata con i veterani della VI legione, e insediata sulla riva sinistra del Rodano dopo aver relegato i vecchi abitanti sull'altra sponda del fiume. Questa colonia di medie dimensioni all'inizio inglobava solo una quarantina di etta-

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Fig. 171. Pianta di Orange (daJ.-M. Mignon). 1. Tracciato del cardo; 2. Tracciato del decumanus (restituito); 3. Tracciato della cinta (tronconi conosciuti e restituiti); 4. Arco; 5. Capitolium; 6. Foro; 7. Teatro; 8. Tempio dell'Augusteum; 9. Anfiteatro; 10. Muro di «Guglielmo il Taci­ turno»; 11. Muro degli archi Pontillac; 12. Strada in direzione del Rodano; 13. Strada in direzione di Vaison-la-Ro­ maine; 14. Strada in direzione di Nimes e Avignone; 15. Strada in direzione di Vienne e Lione; 16. Corso Pourtoules; 17. RHI St.-Florent; 18. Piazza des Sept-Cantons; 19. Mas des T hennes; 20. La Tourre; 21. Colle Sant'Eutropia; 22. La Brunette.

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ri che non furono neppure occupati interamen­ te. La lunghezza delle mura, il percorso delle quali non è perfettamente ricostruibile a O e a S, era almeno la metà di quella di Nimes. Ma il tracciato delle vie della città bassa e la definizio­ ne degli spazi pubblici sicuran:iente risalgono agli anni posteriori alla deduzione. Anche se questo tipo di urbanistica viene applicato ad un'area a quanto pare limitata, è innegabile che alla base c'era un ben preciso intento di razionalizzazione degli spazi: per lo meno in tutto il settore occidentale della città vengono regolarizzati i percorsi tradizionali; la via proveniente da Marsiglia viene così tra­ sformata in decumanus e, anziché seguire la pendenza naturale in direzione del Rodano,

assume un andamento rettilineo in senso E0; vengono, inoltre, regolarizzati i livelli per la creazione della piazza del Foro: i cripto­ portici, a forma di II, recano il segno di que­ sto enorme lavoro di regolarizzazione. Il lasso di tempo che intercorre tra la fon­ dazione della colonia e la data in cui possia­ mo datare su base stilistica i più antichi mo­ numenti non è così lungo come potrebbe sembrare. Gli edifici più importanti, il Foro, il teatro e l'arco di trionfo, si datano infatti tra il 25 e il 10 a.C. Tenendo conto dell'entità dei lavori preliminari, è legittimo pensare che le operazioni siano iniziate tra il 40 e il 30 a.C., quando Ottaviano subentrò ad Antonio nel governo della Gallia.

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IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

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Fig. 173. I criptoportici del Foro di Arles (da R Arny).

Il Foro, all'incrocio delle vie principali, nel­ la sua prima fase si componeva di una piazza di 5200 m2 circondata da portici poggianti su criptoportici; non è noto il sito dei principali annessi del Foro, e in primis della basilica. I frammenti rinvenuti nella galleria sotterranea fanno supporre che la piazza si articolasse at­ torno ad un piccolo santuario del Genius Au­ gusti, successivamente dedicato ai Lares uffi­ ciali, qui rappresentati nelle vesti dei figli adot­ tivi del princeps, G. e L. Cesare. Il teatro, rigo­ rosamente allineato su una via parallela al car­ do, dominava ad E gli spazi politici e ammini­ strativi della città bassa, con i quali era in diret­ ta comunicazione tramite un decumanus, posto sull'asse del Foro, che sfociava nell'ingresso

della sua parodos settentrionale. Il legame che si veniva a creare così è molto simile a quello che si può rilevare a Verona, ove il valore «sceno­ grafico» dell'edificio scenico rispetto al centro della città è stato spesso messo in evidenza; ma ad Arles la contiguità dei singoli componenti rende ancor più percepibile questo effetto, tan­ to più che la cavea del teatro è interamente co­ struita su sostruzioni artificiali. Il ciclo statua­ rio della scaenae /rons, costituito da altari «apollinei» e da statue di divinità al centro del­ le quali troneggiava quella di Augusto, confer­ mava l'omogeneità di questo programma, la cui realizzazione appare straordinariamente coe­ rente. L'ingresso in questa città - augustea per definizione - era enfatizzato dalla parte del fiu-

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Parte II. L'età imperiale

Fig. 174. Altare apollineo del teatro di Arles: i simboli delfici e l'Apollo citaredo (foto CCJ, CNRS, Aix-en-Provence).

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Fig. 194. Utica. Pianta schematica della grande piazza, della via porticata (platea) e dell'isolato che si apre a S di quest'ultima (da A. Lézine).

che questa strada non era rettilinea ma, come si vede nella restituzione proposta da A. Lé­ zine, cambiava orientamento più o meno a metà percorso ed inoltre non rispettava nep­ pure la quadrettatura, per lo meno nel suo percorso occidentale, poiché tagliava obliqua­ mente 3 o 4 isolati. Questa osservazione ci ri­ corda una realtà spesso dimenticata: la mag­ gior parte delle città occidentali presenta un impianto che, quantunque regolare, proprio

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Parte II. I:età imperiale

C) LEPTIS MAGNA

Fig. 195. Leptis Magna. Pianta del forum vetus (da J.B. Ward Perkins).

per la modestia e la monotonia del suo sche­ ma ortogonale poco si presta alla creazione di importanti sequenze monumentali; per que­ sto motivo l'urbanistica monumentale, alme­ no quella che cerca effetti prospettici e conti­ nuità processionale, viene a scontrarsi con i tessuti urbani iniziali. Di ciò ad Utica abbia­ mo un esempio chiarissimo. Se la cronologia fosse un po' più precisa, si potrebbe tentare di collegare certe sistema­ zioni monumentali con l'accesso di Utica al rango di colonia romana. Sappiamo, infatti, che approfittando del passaggio di Adriano nel 128, i notabili chiesero e ottennero, non senza esitazioni da parte dell'imperatore, un cambiamento di statuto. La menzione di un tempio a 3 celle in un'iscrizione conservata a Leida attesta la presenza di un capitolium; tut­ tavia per il momento non siamo in grado di collocare, e a fortiori di datare, questo tempio nell'ambito della colonia.

Il sito di Leptis Magna ha restituito una gran quantità di iscrizioni e di resti archeolo­ gici che consentono di analizzare le diverse fasi urbanistiche della città. Quelle più anti­ che, che risalgono all'età augustea, quando cioè la città era ancora peregrina, sono molto interessanti; la città punica, civitas foederata di Roma a partire dal II secolo a.e., soltanto nella seconda metà del I secolo d.e. (sicura­ mente dopo Vespasiano) divenne municipio; con Traiano acquisisce il titolo di colonia di diritto romano. Il fatto straordinario è dunque che a par­ tire dall'ultimo decennio del I secolo a.C. i notabili di Leptis sommariamente romanizza­ ti, quando ancora istituzioni, lingua ed ono­ mastica sono tutte di tradizione fenico-carta­ ginese, avviano un gigantesco processo di rin­ novamento dei propri centri civici e religiosi, mentre vengono costruiti nuovi quartieri, po­ polati di monumenti dinastici. Lo sforzo di integrazione compiuto da questi domi nobiles, a quanto pare molto ricchi, appare ancora più straordinario per il fatto che l'assimilazione culturale è ancora lungi dall'essere compiuta. Nel giro di circa 20 anni, tra 1'8 a.e. e il 12 d.e., vengono costruiti un macellum (mer­ cato alimentare), un teatro (questi due edifici vengono offerti dallo stesso personaggio), un chalcidicum (in questo caso più un centro commerciale che un edificio di natura ammi­ nistrativa o giudiziaria) dedicato al Numen Augusti, a S-E del teatro, con portici e strada adiacenti. Questi edifici rappresentano i pun­ ti di forza di un nuovo quartiere a O del fo­ rum vetus, le cui vie parallele, che delimitano degli isolati disposti per strigas da entrambi i lati di un asse mediano, vennero lastricate - e sicuramente tracciate definitivamente - sol­ tanto nel 35/36, stando almeno all'indicazio­ ne cronologica offerta dall'arco di Tiberio che segna il limite occidentale di questo primo

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

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Fig. 196. Pianta schematica della città di Leptis Magna (da D.E.L. Haynes).

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impianto urbanistico. Il fatto che il mercato e il teatro - non sia orientato come la rete stradale conferma l'anteriorità del complesso monumentale. Questa prassi apparentemente strana trova la sua spiegazione nel fatto che il potere centrale intervenne soltanto in un se­ condo tempo, regolarizzando uno sviluppo urbanistico che all'inizio si era manifestato so­ lo attraverso una pianificata occupazione del terreno in cui si disponevano i monumenti ri­ spondenti all'ideologia dominante. Il procon­ sole, sgravando dalle impòste fondiarie gli abitanti, incoraggerà la sistemazione del nuo­ vo quartiere, così come il suo predecessore, Cn. Calpurnius Piso, tra il 5 e il 2 a.C., aveva finanziato la pavimentazione in calcare del vecchio foro. La più antica sistemazione del foro, che appartiene ancora alla vecchia urbanistica pu­ nica, è stata al centro di un interessante di­ battito. A. Di Vita ha convincentemente di­ mostrato che essa risale all'inizio del I secolo a.C. e che in un primo momento i due templi, che a N-0 dominano la piazza in posizione enfatica rispetto allo spazio trapezoidale, era­ no dedicati a dei dii patrii di origine punica, nell'interpretatio romana del Liber Pater e di Ercole. Per costruire un tempio di Roma e Augusto, tra il 14 e il 19 d.C., fu sufficiente demolire il santuario erculeo che, ricostruito in marmo, avrebbe accolto le nuove divinità ufficiali; a titolo di risarcimento, fu costruito per la vecchia divinità il piccolo tempio set­ tentrionale, che effettivamente è più tardo, come risulta dalla sua posizione completa­ mente decentrata rispetto alla piazza. In ef­ fetti è difficile immaginare che il sito dell'ae­ des Romae et Augusti non sia stato occupato prima dell'inizio del regno di Tiberio. La sua posizione quasi assiale ben si adatta al Milk' Ashtart punico (Ercole) e del resto conviene perfettamente al santuario dinastico che lo so­ stituisce e che in tal modo, rispetto alla basi­ lica costruita all'altra estremità della piazza,

Parte II. J.;età imperiale

sullo scorcio del I secolo a.C., viene a trovar­ si nella stessa posizione del Capitolium nei /o­ ra italici repubblicani. Questa operazione rap­ presenta il simbolo dell'«aggiornamento» che interessò la città intera in quel periodo; me­ glio di ogni altra cosa essa traduce la dipen­ denza della locale classe dirigente dai nuovi valori proclamati dall'Impero, e rende ragio­ ne della benevolenza dei governatori dell'A­ frica Proconsolare, sedotti da queste garanzie di natura politico-religiosa. La serie dei ritrat­ ti, senza dubbio collocati nella doppia cella e davanti al tempio stesso, celebrava tutti i membri della famiglia imperiale dei primi an­ ni del regno di Tiberio; sono state trovate tut­ te le teste di questi aeroliti, tranne quelle di Agrippina e Livilla: con questi ritratti la par­ te occidentale del foro assumeva l'aspetto di un vero e proprio Augusteum consacrato al «culto allargato» del regnante, secondo l' e­ spressione di D. Fishwich. Questa attività precocemente avviata dalla politica municipale delle grandi famiglie, che anticipavano i tempi rispetto alle effettive esi­ genze del potere centrale, assecondata dai go­ vernatori provinciali, doveva spingere la città a svilupparsi verso O: alla fine del I secolo a.C., lungo l'asse definito dal teatro e dal chal­ cidicum, viene costruito un nuovo quartiere (regiones II e III), formato da insulae in tutto simili alle precedenti; l'articolazione del quar­ tiere segue l'andamento della valle dell'uadi, ma soprattutto tende a collegarsi con il I mi­ liario della via in Mediterraneum, la grande strada dell'interno che con i suoi 65 km ga­ rantiva il collegamento di Leptis con il retro­ terra: questo miliario, sistemato nel 14/17 d.C., è stato trovato in situ vicino all'arco di Settimio Severo che segna l'estremità della re­ gio II. Ciò vuol dire che dall'età giulio-claudia in poi erano già stati previsti tutti i punti del­ l'ulteriore estensione dello spazio cittadino. Il diverso orientamento di questa nuova fascia che non corrisponde ad un nuovo piano ur-

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

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Fig. 197. Leptis Magna. Il complesso severiano ed il suo rapporto con il tessuto urbanistico precedente. Si notino ai lati della basilica i due fora simmetrici, dei quali fu realizzato soltanto quello orientale (ipotesi di A. Di Vita).

banistico come talvolta è stato detto - è sot­ tolineato, nella via triumphalis, dall'arco di Traiano che, 40 metri più ad O, fa da con­ traltare a quello di Tiberio. L'impresa monu­ mentale più importante del II secolo è la co­ struzione delle terme di Adriano, che seguo­ no un orientamento N-S diverso da quello della quadrettatura. L'impianto è molto simi­ le a quello delle terme di Faustina a Mileto e denota le difficoltà incontrate dagli architetti nel liberare una superficie sufficiente per que­ sto enorme complesso: un problema simile si

pose per molte città occidentali riguardo alla costruzione degli anfiteatri. In uno spazio così affollato da coerenti sequenze monumentali non era facile trova­ re il posto per nuovi edifici di rappresen­ tanza. Così, quando Settimio Severo, come già Adriano per Italica, volle rendere parte­ cipe la sua città natale della sua gloria di im­ peratore, non ebbe altra scelta che la co­ struzione di una sorta di nova urbs nel set­ tore nord-orientale delle rive dello uadi Lebdah, ancora poco urbanizzato. Il giganti-

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Parte II. L'età imperiale

Fig. 198. Leptis Magna. Il tempio dinastico d'età severiana (restituzione di J.B. Ward Perkins).

smo e l'unità compositiva del programma di Settimio Severo trovano confronti solo nel programma antonino di Cartagine. Il pro­ gramma severiano prevedeva tutti gli ele­ menti che compongono il paesaggio monu­ mentale di una città: le terme (dette della Caccia), il porto, un'immensa via porticata (una platea rettilinea larga m 45 e lunga cir­ ca 450), un foro e la basilica. Il complesso si concludeva a O con una grande piazza sulla quale a S si affacciava un ninfeo. Il foro, che si compone di un quadriportico di 6000 m2 , dominato sul lato occidentale da un enorme tempio esastilo su imponente podio dedicato alla nuova dinastia, dipende chiaramente dai fora imperiali di Roma, tanto più che la ba­ silica giudiziaria che chiude il suo lato orien­ tale possiede due absidi alle estremità della navata centrale - larga 19 m - come la Ba­ silica Ulpia del Foro di Traiano. L'abilità del­ I 'architetto responsabile del progetto risiede nella continuità assoluta che è riuscito a mantenere tra le insulae della città vecchia, che da questa parte formano un angolo ot-

tuso, ed il nuovo sistema articolato sulla pla­ tea rettilinea; donde una serie di divergenze negli assi dei monumenti, che determinano a S e a E della grande piazza degli spazi an­ golari; tutti questi spazi vengono «recupera­ ti» ed inoltre, grazie a correzioni veramente efficaci - come ha dimostrato G. Ioppolo gli assi ottici vengono conservati: dal centro della navata centrale della basilica, attraverso un'esedra aperta nella superficie residua del portico orientale del foro, un visitatore ve­ deva la facciata del tempio come se si fosse trovato esattamente sull'asse longitudinale del quadriportico. Se le ricerche archeologi­ che confermassero l'ipotesi di A. Di Vita, se­ condo la quale una piazza altrettanto grande avrebbe dovuto aprirsi a E della basilica, senza però essere stata ultimata, allora avremmo a Leptis un progetto di fora sim­ metrici che si qualificherebbe come il più ambizioso concepito da una città provincia­ le. Va rilevato, però, che nonostante la gran­ dezza inusuale e la cura dei dettagli (i mar­ mi greci ed orientali usati nella basilica sono

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

preziosi e vari quanto quelli usati nel consi­ mile edificio sulla Byrsa di Cartagine), que­ sto programma non si discosta molto da quello del foro augusteo: con mezzi maggio­ ri e con la maggiore esperienza acquisita in due secoli di architettura di rappresentanza, l'équipe di Settimio Severo non ha fatto al­ tro che costruire un secondo centro civico e religioso dominato, come il precedente, da un santuario dinastico. L'urbanistica di Leptis, avviata da notabili particolarmente attivi, si conclude in questo modo così prestigioso, voluto e sicuramente finanziato dallo stesso imperatore. Dai tempi di Annobal Tapapius Ru/us, il donatore del macellum nel 2 a.C., la scala monumentale era cambiata, ma il cammino di Settimio Severo procedeva sempre nel solco della tradizione: trasposizione di modelli «romani», concentra­ zione dei simboli del potere, regolarizzazione degli assi reali o, al limite, di quelli ottici.

5. Le città della Gallia Belgica L'aspetto monumentale di questa enorme provincia era fino a qualche tempo fa poco noto, ma le scoperte archeologiche degli ulti­ mi anni hanno arricchito notevolmente la co­ noscenza delle principali città. Tra le regioni non mediterranee dell'Impero, la Gallia Bel­ gica è quella di cui cominciamo a conoscere meglio l'organizzazione generale ed è anche quella in cui le città, per lo meno le capitali di civitates, hanno restituito il maggior numero di indicazioni sulle loro origini. In tutti i siti ampiamente scavati risulta evidente che il processo di urbanizzazione ini­ ziò nell'ultimo ventennio del I secolo a.C. e che interessò un territorio, se non proprio vergine, per lo meno caratterizzato da un abi­ tato sparso che ha lasciato poche tracce visi­ bili. Cesare osservava che i Belgi vivevano in vicis et aedi/iciis e che non avevano oppida.

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Fatta eccezione di pochi resti individuati a Reims, Namur o Metz, e nonostante l'esisten­ za di una toponimia celtica molto diffusa (Di­ vodurum, Durocortorum, Bagacum), è un po' difficile postulare l'esistenza di insediamenti organizzati e a carattere permanente sul sito delle future città gallo-romane; sembra co­ munque che nessuna struttura celtica sia so­ pravvissuta all'inizio dell'età imperiale, come è avvenuto in altre regioni (si pensi ad esem­ pio ad Alesia). Solo alcuni complessi cultuali hanno dato origine a degli impianti duraturi, il cui orientamento, quantunque diverso da quello dei nuovi agglomerati urbani, doveva essere necessariamente conservato: un'ecce­ zionale esempio di sopravvivenza è a tutt'og­ gi rappresentato dal santuario di Grand, in seguito dedicato ad Apollo, e da quello di Altbachtal a Treviri. Nella maggior parte dei casi assistiamo, dunque, o a fondazioni ex mhilo o a fonda­ zioni che fanno tabula rasa delle installazioni anteriori. Quantunque nessuna di queste città sia stata oggetto di una fondazione coloniale e lo statuto della maggior parte degli abitanti sia restato a lungo, salvo eccezioni, quello di peregrini, l'analisi della loro forma e della lo­ ro evoluzione riveste un grandissimo interes­ se. In un contesto sociale in cui le élites loca­ li ebbero bisogno di un po' di tempo per ac­ quisire una mentalità «urbana» - poiché l'e­ vergetismo architettonico appare qui molto meno diffuso che nelle altre province della Gallia (per tutto l'Alto Impero si conoscono solo tre casi di evergetismo) - lo spirito di emulazione tra comunità poco avvezze, alme­ no nei primi tempi, alla vita cittadina, non de­ ve aver giocato un ruolo importante. L'inizia­ le organizzazione di questi stanziamenti di­ pende dunque dal rispetto di regole forse tra­ smesse dalle tecniche militari, il ruolo delle quali non va sottovalutato, mentre l'organiz­ zazione dello spazio e la sistemazione urbana restano legati direttamente ai bisogni e agli in-

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Parte II. L'età imperiale

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nel fondare città, ma soprattutto, ed è questa la cosa più difficile, nel creare le condizioni necessarie per la loro esistenza e per il loro sviluppo a lungo termine. Le rivolte che, tra il 50 e il 30 a.C., scan­ discono la storia di questa parte non del tut­ to pacificata della Gallia Chiomata, non favo­ riscono di certo un reale sviluppo urbano. Prima dell'età proto-augustea non si registra nessun fatto veramente significativo. L'orga­ nizzazione della provincia nel 27 a.C., poste-

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

riore alla repressione di un pronunciamento dei Morini e dei Treviri, determina a breve scadenza la divisione del territorio in civitates molto grandi, ma la creazione dei nuovi ag­ glomerati è sicuramente posteriore alla co­ struzione della rete stradale voluta da Agrip­ pa nel 19, al tempo del suo secondo governo. Questa rete, dettata da preoccupazioni di tipo militare, prevede due assi che, partendo da Langres, si dirigono rispettivamente verso la Manica, attraverso le future città di Reims, Soissons, Arras e Boulogne, e verso il Reno, attraverso Metz, Treviri e Colonia. Una strada interna li collega con Tongres, Bavay, Tournai e Cassel. Non è un caso se quasi tutti i capita civitatis sono distribuiti lungo queste strade. Nella scelta dei siti urbani le vie fluviali han­ no rappresentato un altro importante elemen­ to, tanto più che la convergenza di una strada e di un corso d'acqua navigabile costituiva spesso un notevole punto di forza strategico, tenendo conto delle condizioni dei trasporti proprie del tempo. Tuttavia questi centri, voluti dal potere centrale, non sono riusciti a trasformarsi in città nel giro di pochi decenni. Anche se nei primi tempi l'esercito è stato di grande aiuto - la sua stessa presenza costituiva uno stimo­ lo a creare degli insediamenti duraturi - sono pochi gli agglomerati che hanno restituito tracce di un impianto augusteo di una certa ampiezza. Disponiamo comunque di parec­ chie testimonianze che parlano a favore di una certa attività edilizia monumentale in al­ cuni siti: a Sens, a Reims e a Treviri sono sta­ te trovate dediche ai figli adottivi di Augusto, i Caesares, tutte posteriori al 2 e al 4 d.C., ma anteriori alla morte del princeps. Inoltre, un'i­ scrizione ricorda il passaggio di Tiberio a Ba­ vay prima del 14 d.C. La notevole grandezza di almeno due delle suddette iscrizioni (6,75 m per quella di Treviri e 9 m per quella di Reims) attesta la loro appartenenza ad edifici di grandi dimensioni (cenotafi o altari); la lo-

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Fig. 200. Pianta delle città della Gallia Bdgica in rela­ zione alle principali vie di comunicazione stradali e flu­ viali (da E.M. Wightmann).

ro presenza attesta altresì, anche se l'iniziati­ va fu più o meno promossa dal potere cen­ trale, una sensibile volontà di integrazione ed una precoce ambizione a partecipare alle ma­ nifestazioni religiose ufficiali. Non conoscia­ mo la localizzazione esatta di questi preziosi documenti epigrafici - tranne per quello di Bavay -, ma tutto fa pensare che provenisse­ ro dal foro di queste nuove città, in cui, quin­ di, molto presto avevano trovato posto le in­ signia imperii. Sotto questo punto di vista, dunque, la situazione di questi stanziamenti non differiva di molto nei suoi rapporti col potere centrale da quella di Arles o Thasos, dove nello stesso periodo troviamo lo stesso tipo di monumenti costruiti in onore di L. e G. Cesare. Si tratta di un elemento di grande

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Parte II. L'età imperiale

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Fig. 201. Bavay. Le due fasi urbanistiche (da J.L. Boucly).

importanza che viene spesso sottovalutato quando ci si attiene ai soli dati riscontrabili sul terreno. D'altra parte questi ultimi, per l'abbondanza dei materiali ceramici rinvenuti negli strati più bassi, dimostrano che l'attività di molti di questi siti era già molto intensa nei primi decenni dell'Impero. La politica augustea, continuata dai suc­ cessori, Tiberio e Caligola, e la serietà del per­ sonale incaricato dell'amministrazione della provincia hanno garantito alle città una prima attrezzatura urbana. Ma qualche centro ha forse accarezzato delle ambizioni che andava­ no oltre le proprie possibilità, come dimo­ strerebbe l'indebitamento in cui alcuni di questi incorsero a partire dal 20 d.C.: Tacito informa che uno dei motivi scatenanti della terribile rivolta detta di Sacrovir, nella quale

Treviri ebbe una posizione di primo piano e che non risparmiò neppure la parte occiden­ tale della provincia, dipese almeno in parte da questa situazione. Ma il periodo del regno di Claudio è certamente quello che per molte città segna un consistente sviluppo degli scambi e la cui importanza sarà decisiva per l'ulteriore progresso: nell'ambito dei prepara­ tivi per la conquista della Britannia, vengono potenziati gli assi stradali che da Lione rag­ giungevano la Manica ed il Mare del Nord, conferendo alle città poste lungo queste stra­ de un'importanza logistica e commerciale che non verrà intaccata dalla crisi del 69, nono­ stante quest'ultima avesse comportato gravi distruzioni per alcune di esse, come Metz. Più tardi, sotto il regno di Marco Aurelio, le in­ cursioni dei Chauchi nel settore centro-occi-

IV Le province ocddentali. Situazioni storiche, progetti e reali1.1.01.ioni

dentale della provincia resero necessario un nuovo ingente sforzo edilizio di cui si conser­ vano abbondanti vestigia. La prosperità di molti siti, garantita da una notevole infra­ struttura e dalla fertilità di un territorio che sulla base di prospezioni aeree risulta ricco di ville, rimarrà intatta fino alle invasioni germa­ niche del III secolo (259-275). La caratteristica principale dell'urbanistica di queste regioni consiste in una spiccata pre­ dilezione per gli impianti ortogonali. Anche se talvolta sono state espresse considerazioni puntuali sulla base di discutibili schemi teori­ ci - come è stato fatto per Metz - non va tra­ scurato che molti siti hanno restituito tracce di una quadrettatura riscontrabile, nonostan­ te le irregolarità e le distorsioni, nella maggior parte delle aree occupate dalle città dell'Alto Impero. Amiens, Metz, Treviri, Beauvais, Boulogne, Reims, Senlis, Tongres e T hérouan­ ne mostrano un'organizzazione dello spazio urbano che, quantunque non riducibile ad un unico modello, testimonia l'esistenza di un piano prestabilito per ciascun sito, in funzio­ ne del quale fu regolato lo sviluppo della città. Certi cambiamenti di orientamento e di modulo recano il segno di una sistemazione dello spazio avvenuta in tempi diversi: a Ba­ vay, ad esempio, il primo impianto consiste in una serie di isolati di m 110x60 per una su­ perficie totale di 8 ettari; alla fine del I seco­ lo d.C. vengono aggiunte 5 file di isolati pic­ coli, distribuite lungo un asse leggermente spostato verso E, che portano la superficie to­ tale a 40 ettari. Ma il mantenimento di uno schema geometrico, anche se non in rapporto diretto con quello risalente al momento della fondazione, traduce la volontà di dominare l'estensione della città e di conservare un aspetto regolare. Qualche altra modifica che si registra nella rete interna non sembra im­ putabile a fasi successive di occupazione del suolo: ad Amiens, Treviri e ad Avenches le in-

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sulae più vicine al foro hanno un modulo più piccolo delle altre e sono anche più regolari, ma questo può essere dipeso dal fatto che si voleva riservare ai quartieri più centrali un tracciato maggiormente fitto. Questa organizzazione relativamente rigo­ rosa dello spazio è ancora più interessante se si pensa, come abbiamo già detto, che si riferisce a comunità nient'affatto predisposte ad una di­ sciplina di questo tipo; d'altra parte, si vengo­ no a creare dei rapporti spesso sconvolgenti fra la trama urbana e le grandiose vie di comunica­ zione che attraversano queste città o che con­ vergono verso di loro, e ciò dimostra che gli as­ si da cui si origina la quadrettatura vanno cer­ cati in una concezione razionale che tiene con­ to della topografia ma che non si lascia sopraf­ fare dalle contingenze della viabilità, nonostan­ te l'effettiva importanza delle strade: se, ad esempio, le vie provenienti da Ne da O che at­ traversando Reims e Thérouanne si incontrano ad angolo retto al centro della città, meritando per questo il titolo di decumanus e di cardo, ad Amiens il grande asse viario che supera la Som­ me non è stato minimamente considerato nella costruzione della griglia degli isolati. In linea di massima le strade devono piegare il loro corso normale per entrare in città, come a Metz e a Tongres. Va da sé che questi insediamenti furo­ no favoriti dalla scelta di terreni poco acciden­ tati, poiché sorgevano in pianure alluvionali o pianori; nei rari casi in cui queste condizioni non poterono essere soddisfatte, come a Casse! o a Langres, non è stato rilevato nessuno sche­ ma di questo tipo. All'interno di queste trame il rigore che pre­ siede all'organizzazione generale è ulteriomen­ te accentuato dalla presenza di composizioni assiali: nei/ora di Bavay, Treviri e Amiens ap­ paiono allineati un tempio, la basilica e la piaz­ za centrale. Qualche volta abbiamo un foro e un edificio ludico uno accanto all'altro e sullo stesso asse (a Ribemont-sur-Ancre foro e tea­ tro, ad Amiens foro e anfiteatro).

342 Queste lunghe sequenze monumentali so­ no però tutte posteriori alla fine del I secolo d.C.: si datano per lo più nel II secolo, o me­ glio nella sua seconda metà. I pochi docu­ menti relativi allo statuto delle città della Gal­ lia Belgica e al tipo di magistrature non ci consentono di dire se questo scarto tra le fon­ dazioni urbane e le infrastrutture amministra­ tive siano imputabili a uno scarso interesse delle élites o piuttosto a situazioni giuridiche subalterne. Su 14 città della Belgica solo 3 hanno restituito testi in cui vengono menzio­ nati duumviri; questo silenzio epigrafico pres­ soché totale, tenendo conto anche della man­ canza di esplicite attestazioni di un munici­ pio, non può dipendere soltanto dalla casua­ lità dei ritrovamenti, ma sottintende evidente­ mente il basso grado di romanizzazione delle istituzioni locali. È pur vero, però, che con la progressiva estensione del diritto latino e con la lenta ma irreversibile assimilazione dei notabili locali, le capitali di civitates, anche se hanno ricevu­ to molto tardi lo statuto municipale o colo­ niale nel senso proprio del termine, nel corso dell'Alto Impero hanno finito con lo svilup­ pare un quadro amministrativo modellato su quello italico, con un ordo decurionum. La scoperta di un quattuorvir iure dicundo in un pagus della città degli Ambiani ha fatto na­ scere diverse ipotesi sulla promozione della sua capitale, Samarobriva (Amiens) al rango di municipio intorno alla fine del II secolo; ciò non è del tutto impossibile, ma non pos­ sediamo elementi che possano suffragare tale ipotesi. Bisogna anche tener conto dei fre­ quenti rifacimenti che hanno interessato que­ sti centri monumentali, nelle cui fasi iniziali, oggi difficilmente visibili, si faceva largo uso del legno. Ed infine, il ruolo di capitale pro­ vinciale assunto da Reims in una data incerta - ma che è da porre probabilmente ancora in età giulio-claudia - e la presenza a Treviri dei servizi imperiali dell'amministrazione finan-

Parte II. L'età imperiale

ziaria per la Gallia Belgica e per le due Ger­ manie, hanno determinato in queste due città la costruzione di complessi monumentali dei quali, almeno per Treviri, siamo in grado di apprezzare l'entità. Ma c'è un altro elemento che deve essere posto nel giusto rilievo: il culto imperiale, di ra­ do chiamato in causa per spiegare queste com­ binazioni assiali. Queste, pur non essendo ca­ ratteristiche della Gallia Belgica, acquistano qui un'ampiezza particolare. Anche se le testi­ monianze epigrafiche non sono numerose, non sarebbe prudente parlare di una debole religio­ ne ufficiale. Le iscrizioni dinastiche relative ai Caesares attestano una precoce ricettività poli­ tica; e la dedica del teatro di Bois-1' Abbé a Eu, che ricorda un sacerdos R(omae et Augusti) d'età severiana, conferma che la Belgica, al pa­ ri di altre province, era dotata di strutture gerar­ chizzate. Analizzando l'urbanistica di Amiens e Treviri cercheremo di misurare l'incidenza dei santuari ufficiali sull'organizzazione delle più grandi città della regione. La componente religiosa è ampiamente rappresentata, specialmente se aggiungiamo alle vestigia archeologiche le attestazioni epi­ grafiche, che testimoniano l'esistenza di un ventaglio di culti molto ampio, comprenden­ te anche le divinità orientali. Quanto agli edi­ fici termali, essi rappresentano una delle for­ me dell'ostentazione monumentale delle città della Gallia Belgica: alcune terme vanno an­ noverate fra le più grandi di tutto l'Impero ed i centri più importanti quali Grand, Treviri o Metz ne possedevano più d'una. Anche gli edifici per gli spettacoli sono attestati in que­ ste città; gli anfiteatri, in particolare, com­ paiono molto presto, a partire dalla fine del I secolo d.C., e nel corso del II secolo si mol­ tiplicano, assumendo forme sempre più mo­ numentali. Possono essere costruiti fuori dal­ le mura, come il grande teatro-anfiteatro di Grand, o possono essere inseriti al centro del­ la città o anche, come a Treviri, servire per la

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realiuazioni

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Fig. 202. Le vestigia di Grand (da J.-P. Bertaux e R. Billoret).

sostruzione delle mura. La varietà di soluzio­ ni possibili è, come si vede, ben illustrata nel­ la provincia. Non ci si sorprenderà, quindi, di trovare accanto a siti urbani, dei quali possiamo rico­ struire l'ampiezza e la divisione interna solo in linea teorica, delle città in cui, al contrario, si conservano imponenti vestigia della pano­ plia monumentale, strette fra gli edifici mo­ derni che ostacolano un'esatta comprensione dell'organizzazione spaziale. Un esempio di questo genere di situazione - che si potrebbe,

a prima vista, definire propria delle città me­ diterranee - ci è offerto da Grand, dove si co­ nosce una basilica giudiziaria provvista di una curia absidata, ma dove non conosciamo né la forma né l'estensione del foro. Il grande san­ tuario apollineo della città e i suoi portici per l'incubatio sono orientati obliquamente ri­ spetto alla basilica stessa; due edifici termali ed il suddetto anfiteatro-teatro extra muros ci appaiono isolati in un tessuto urbano del qua­ le ignoriamo quasi del tutto la rete stradale, orientata sulla via che va da Toul a Langres.

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Parte Il. L'età imperiale

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Fig. 203. Pianta di Amiens romana (da J.-L. Massy).

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I molti scavi archeologici che sono stati ef­ fettuati in questa città negli ultimi decenni ed i lavori di sintesi pubblicati da J .L. Massy ren­ dono possibile un approccio soddisfacente sulle origini della capitale degliAmbtani. La si­ stemazione urbanistica di questa media città della Gallia settentrionale ha avuto diverse fa-

si e, nonostante le incertezze che ancora per­ mangono sull'evoluzione giuridica di Amiens, siamo in grado di attribuire tutte le fasi del suo sviluppo ad un contesto storico abbastanza preciso. È probabile che la decisione di fondare Samarobriva sia stata presa negli anni imme­ diatamente successivi al soggiorno di Augusto in Gallia nel 27 a.C. e ai preparativi di un'i-

IV Le province occidentali. Situa1.ioni ston·che, progetti e realiua1.ioni

patetica spedizione in Britannia, ma l'orga­ nizzazione del sito non sembra anteriore al­ l'età tardo-augustea. Il primo reticolo non sembra legato all'esistenza di un campo legio­ nario, quantunque la presenza militare su questa piana alluvionale possa essere dipesa dalla costruzione della strada di Boulogne. Nella quadrettatura urbana dobbiamo di­ stinguere due settori: in primo luogo un nu­ cleo di circa 40 ettari, formato da isolati di m 125x105 in prossimità della riva sinistra della Somme, ma esterno alle paludi dei li­ velli più bassi; in secondo luogo un'area più ampia che ingloba questo nucleo primitivo e raggiunge la superficie di 160 ettari, con iso­ lati quadrati di 160 m di lato. La presenza di questi due settori ben di­ stinti ha giustificato a lungo l'idea che la città si fosse sviluppata in due momenti diversi; la ricerca attuale tende ad awicinare queste due fasi, attribuendo la prima alla fine del regno di Augusto o all'età tiberiana, e la seconda al­ la metà del I secolo d.C., il che, tutto som­ mato, implicherebbe una continuità presso­ ché assoluta con il momento del decisivo svi­ luppo fissato nel regno di Claudio ed il pe­ riodo di maggiore estensione posto alla fine del I secolo. L'ipotesi dell'adozione di una di­ versa unità di misura avanzata per spiegare i diversi moduli delle insulae (le prime avreb­ bero come unità di misura il poco noto pes drusianus) non è indispensabile, poiché vedia­ mo che il secondo gruppo di isolati si aggan­ cia perfettamente al primo. Finora sono stati individuati 10 cardines, il che non è poco per una città di questa regione; essi sono posti a distanze regolari di 162,80 m (misura presa da asse ad asse) ed incrociano ad angolo ret­ to i decumani attualmente identificati in nu­ mero di 9. Dall'analisi di questa scacchiera regolare che ha il raro pregio di essere stata ricostrui­ ta sulla base delle evidenze archeologiche e non dedotta da considerazioni teoriche - pos-

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siamo trarre delle indicazioni molto interes­ santi: innanzitutto non c'è traccia dei due as­ si maggiori, i fin troppo famosi cardo e decu­ manus maximi, che in genere vengono pre­ sentati in tutti i manuali di urbanistica roma­ na come i generatori della trama ortogonale. In secondo luogo, come abbiamo già detto, la «strada di Agrippa» non viene prolungata da nessuna strada della rete urbana, ma taglia 8 o 9 insulae con un orientamento molto vicino a quello del Nord geografico. Infine, una del­ le strade più importanti per la vita della città, cioè quella che collega le terme con l'anfitea­ tro, attraversa anch'essa 2 insulae senza ri­ spettare, a quanto pare, una divisione regola­ re; tuttavia, a parte questi casi, non si nota che qualche lieve divergenza d'orientamento. Questo tipo di divisione della città si configu­ ra, dunque, più come una razionale occupa­ zione del suolo che come un quadro dinami­ co articolato su assi orientati; in questo senso il carattere «ippodameo» (e misuriamo quin­ di l'anacronismo del termine, impiegato qui nella sua più stretta accezione tecnica) del tessuto urbanistico di Samarobriva risulta evidente, per lo meno nel primo periodo di vita della città. La sua natura relativamente uniforme garantisce in modo paradossale la flessibilità dell'impianto dei complessi monu­ mentali, poiché non attribuisce a nessun set­ tore della città un posto privilegiato, né defi­ nisce alcun «centro» nel senso geometrico o gerarchico del termine. Il foro viene, infatti, costruito tra il 60 e 1'80 d.C. su due insulae «miste», nel punto d'incontro tra i due sistemi, occupando così uno spazio lungo 320 m e largo 125. Gli ar­ cheologi hanno individuato molti rifacimenti dovuti ad incendi (uno, che distrusse tutta la città, di età domizianea, l'altro, che distrusse il foro, della seconda metà del II secolo); ma se il foro aveva già una struttura tripartita nel­ la sua prima fase, questa va considerata come

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Parte II. L'età imperiale

Fig. 204. Il foro e l'anfiteatro di Samarobriva (Amiens) (da J.-L. Massy).

uno degli esempi più precoci di uno schema che avrà ampia diffusione in Occidente: lun­ go un asse longitudinale, da O a E, si svilup­ pa una piazza porticata alle spalle della quale si aprono delle botteghe; al centro della piaz­ za sono i resti di un grande podio che senza dubbio appartiene ad un tempio; segue poi un'area intermedia poco conosciuta e infine, all'estremità orientale, un altro spiazzo fian­ cheggiato da costruzioni in cui vanno ricono­ sciuti magazzini. Condivido appieno l'inter­ pretazione che è stata data di questa sequen­ za monumentale come di un complesso reli­ gioso ed amministrativo al quale, a E, si ag­ giunge un macellum, simile per dimensioni a quello di Augst. Questa tendenza a raggrup­ pare lungo uno stesso asse tutti gli edifici pubblici legati all'attività cultuale, giudiziaria o economica, viene ulteriormente accentuata dalla costruzione pressoché contemporanea (sullo scorcio del I secolo o nella prima metà del II) di un anfiteatro contiguo al portico oc­ cidentale del foro. La sorprendente posizione di quest'edifi­ cio è veramente unica nel suo genere, poiché il confronto spesso istituito con Augst non è pertinente: vedremo, infatti, che il teatro-anfi­ teatro di quella città non è contiguo al com­ plesso del Foro e che il suo orientamento è dettato da altri fattori. Ciò che accomuna i

due complessi è il legame organico tra un san­ tuario ed un edificio legato ai munera o ai lu­ di; come ha dimostrato R. Etienne, questa di­ sposizione si può spiegare solo con problemi legati al culto imperiale; a dispetto delle com­ plicazioni che può creare una simile scelta to­ pografica, nel bel mezzo di un reticolo orto­ gonale, vengono costruiti edifici che, per for­ ma e volume, sconvolgono inevitabilmente il tessuto urbanistico. Ad Amiens viene modifi­ cato tutto il sistema di circolazione della par­ te sud-occidentale della città. Ma di fronte a questo inconveniente - a cui bisogna aggiun­ gere la distruzione della più antica zona abi­ tata, il prezzo degli espropri ecc. - gli urbani­ sti d'età tardo-flavia o traianea non si tiraro­ no indietro, anzi la loro principale preoccu­ pazione fu quella di creare un contatto diret­ to tra l'anfiteatro e il tempio occidentale del Foro: un vomitorio lungo 24 m e largo 2,5 at­ traversa in senso obliquo la cavea per collega­ re l'arena al peribolo e recuperare in tal mo­ do il leggero scarto che c'era tra gli assi dei due complessi. Se integriamo questi dati con quelli contenuti nella suddetta dedica di un teatro al confine del territorio degli Ambiani, costruito a spese di un sacerdote di Roma e Augusto e dedicato numinibus Augustorum, ne deduciamo che l'editor muneris, colui che offrì i combattimenti nell'anfiteatro di Amiens, po-

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

teva spesso essere anche il sacerdos Romae et Augusti. E ciò non soltanto perché questo personaggio doveva appartenere necessaria­ mente alla fascia più ricca dei notabili locali, ma anche in virtù della particolare liturgia le­ gata al culto imperiale. Le terme dette della Rue de Beauvais ap­ partengono alla stessa fase cronologica, se non proprio allo stesso programma edilizio. Que­ ste occuparono la metà settentrionale di un'in­ sula del quartiere S-0 e sono datate su base stratigrafica alla fine del I o agli inizi del II se­ colo. Questo primo edificio termale, che pre­ se il posto di abitazioni private e fu realizzato in materiali leggeri - come di norma avviene in quasi tutte le città del I secolo - per deco­ razione ed organizzazione degli ambienti è degno di essere annoverato tra i più grandi esempi dell'Occidente. Intorno alla fine del II secolo verrà sostituito da un edificio più im­ portante, che non si appoggia alle strutture precedenti e che risulta lievemente divergen­ te rispetto alla divisione ortogonale. Abbiamo dunque visto quali sono gli ele­ menti essenziali e riconoscibili dell'urbanistica di Amiens nell'Alto Impero. Sappiamo inoltre che le strade non erano così spoglie come si è spesso creduto, poiché, almeno lungo le vie più importanti che conducevano ai grandi edi­ fici o che mettevano in comunicazione l'inter­ no con l'esterno, sono state trovate delle basi poste a distanza regolare, che suggeriscono l'e­ sistenza di portici di legno. Per molto tempo l'abitato resterà a livelli modesti e soltanto dal1'età flavia in poi subirà un progressivo pro­ cesso di romanizzazione. Il rigore geometrico dell'impianto stradale si perde all'interno de­ gli ampi isolati, in cui gli ambitus, le vie inter­ medie regolate dal diritto privato, determina­ no degli spazi irregolari, e in cui le case sono distribuite con orientamenti spesso aberranti rispetto agli assi del reticolo ortogonale. Le conclusioni che possiamo trarre da que­ sto excursus sono di tre tipi: riguardo all'im-

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pianto generale va innanzitutto rilevato che lo scarto cronologico tra la sistemazione del reti­ colo ortogonale e la costruzione dei grandi monumenti è relativamente modesto. L'età fla­ via, che a quanto pare segna l'apogeo di Sa­ marobriva è anche l'età in cui viene conclusa la divisione del terreno e in cui prendono l'av­ vio gli ambiziosi progetti che per diversi seco­ li modelleranno i principali luoghi o edifici pubblici della città. Resta il problema del foro d'età giulio-claudia: esisteva? E dove si trova­ va? Allo stato attuale della documentazione è impossibile dare una risposta a questi interro­ gativi. Resta infine da sottolineare la vitalità della città che non viene meno per tutto il II secolo, quantunque si registri in età antonina una sensibile contrazione della zona occupata; gli edili, infatti, riescono sempre a far rico­ struire, ingrandire, abbellire il volto architet­ tonico, nonostante gli incendi devastatori. Ma, a parte queste zone monumentali, l'abitato non compie nessun salto di qualità né per tec­ niche e materiali di costruzione né per orga­ nizzazione dello spazio. Ma questo è un feno­ meno tipico delle province occidentali. Nel capitolo dedicato alla vita privata cercheremo di esaminare la sua incidenza sull'urbanistica. B)TREVIRI

Restano ancora avvolti nell'ombra e nel­ l'incertezza gli esordi di questa città che nel III-IV secolo sarebbe divenuta il più impor­ tante centro politico e commerciale della Gal­ lia settentrionale e che, per qualche decennio, sarebbe assurta al rango di capitale imperiale. Se l'accordo è unanime nel considerare la po­ sizione geografica della città - sulla piana al­ luvionale non inondabile della sponda destra della Mosella e nel punto d'incontro delle strade che da Lione e Metz portano alle città del Reno - come la carta vincente di Treviri, divergenze di opinione permangono riguardo alla ragione e ai modi di fondazione.

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Fig. 205. Pianta schematica di Treviri intorno alla metà del I secolo d.C. (da R. Schindler).

Una possibilità, non comprovata dall' ar­ cheologia perché non ci sono elementi per ri­ ferire all'età augustea una rete stradale coe­ rente sul sito della città stessa, è che Augusta Treverorum venne fondata dal princeps tra il 16 e il 13 a.C., come il nome stesso parrebbe suggerire. Esiste, è vero, qualche elemento che sembrerebbe indicare la presenza di un disegno politico, forse accantonato dal potere centrale quando finì con l'abbandonare il suo progetto di conquista al di là del Reno: in­ nanzitutto la costruzione di un ponte, datato da E. Hollstein al 17 a.C. su base dendrocro­ nologica; l'altro elemento è la presenza di un monumentum dedicato ai Caesares, ricordato in due frammenti d'iscrizione trovati a circa 500 metri di distanza l'uno dall'altro. Questa dedica, databile tra il 4 e il 14 d.C., al pari dell'ara Ubiorum sul sito della futura Colonia, attesta la presenza di un abitato formatosi at-

Parte II. L'età imperiale

torno ad un «Bezirk», cioè una piazza centra­ ta su un edificio dinastico che rimarrà per sempre il cuore della città. R. Schindler ha di­ mostrato che non esiste un agglomerato pre­ cedente; questo stanziamento fu dunque crea­ to in una zona vergine come esito di una vo­ lontà ben precisa: che si voglia o meno parla­ re di fondazione, questa prima Treviri, anco­ ra a livello embrionale, avrebbe preso rapida­ mente corpo. Nello sviluppo del tessuto urbanistico possiamo distinguere varie fasi. Tra il 20 e il 70 d.C., ma soprattutto a partire dal regno di Claudio (negli anni 50 d.C.), il reticolo urba­ no si articola su due assi che si incrociano ad angolo retto; entrambi sono costeggiati da due fasce di insulae strette e rettangolari, mentre gli altri isolati tendono alla forma qua­ drata. Questo impianto relativamente rigoro­ so tiene conto di problemi orografici ed idro­ grafici: la città cerca di non espandersi verso O, sulla fascia inondabile del letto della Mo­ sella, e ad E si ferma all'altezza delle prime pendici dell'Altbachtal. La via N-S Magonza­ Metz si confonde nel tratto urbano con due cardines contigui, mentre il decumanus assiale è legato direttamente al ponte di legno sul fiu­ me. In questa fase la città non supera gli 80 ettari. Non sappiamo quale fosse l'aspetto del centro monumentale e neppure se il foro, che occupa solo due insulae, possedesse degli an­ nessi di una certa importanza. Questa sistemazione è senza dubbio legata all'innalzamento di Treviri al rango di caput ci­ vitatis e all'acquisizione onorifica (senza dedu­ zione) del titolo di colonia Treverorum sotto Claudio o Vespasiano. Se il cambiamento di statuto fosse riferibile all'età claudia, la promo­ zione di Treviri sarebbe una specie di pendant alla creazione di una colonia a Colonia. Negli stessi anni viene costruito un nuovo ponte di legno sulla Mosella (più precisamen­ te nel 71 secondo l'ipotesi proposta da E. Hollstein), mentre sull'asse del decumanus

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e reali1.1.a1.ioni

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Fig. 206. Pianta di Treviri alla fine dell'età imperiale.

principale, ma al di fuori dello spazio urba­ nizzato, viene edificato un anfiteatro addossa­ to in gran parte alla collina. Rifacimenti mo­ numentali in pietra interessano due importan­ ti luoghi di culto tradizionali: uno è il santua­ rio di Altbachtal a S-E della città, l'altro è il tempio di Lenus-Mars sulla riva occidentale della Mosella. Al pari dell'anfiteatro, sono uti­ lizzati per le riunioni della comunità dei Tre­ viri e rappresentano gli annessi politico-reli­ giosi del capoluogo della civitas.

I grandi programmi edilizi sono però tutti databili nel II secolo e la loro coerenza rispet­ to all'impianto di I secolo è il segno di un pro­ getto urbanistico omogeneo, nonché della ri­ gidità del tessuto iniziale, a prescindere dalla sua reale estensione. La griglia degli isolati si allunga da E a S in modo che le necropoli del I secolo sono integrate nell'abitato; poi viene messa in opera, sull'asse del decumano, un'im­ ponente sequenza monumentale, con i singoli componenti solidali fra loro: un nuovo ponte

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Parte II. L'età imperiale

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in pietra sostituisce il precedente (la costru­ zione si data tra il 145 e il 160), orientato in modo tale che la strada che lo raggiunge, do­ po aver costeggiato il limite meridionale del foro, non crei degli angoli vistosi con il gene­ rale orientamento dei decumani. Le terme dette di Santa Barbara, che occupano 4 insu­ lae al confine occidentale del settore urbano, vengono progettate e realizzate nello stesso periodo o poco dopo, poiché la nuova strada segna il limite settentrionale della palestra ed i capitelli rinvenuti tra le rovine si datano su base stilistica intorno al 170. L'edificio terma­ le segue uno schema assiale mirabilmente adattato alle esigenze climatiche (assenza del­ la natatio scoperta, piscine coperte d'acqua calda distribuite su entrambi i lati secondo la successione canonica di /rigidarium, tepida­ rium, caldarium). In questo periodo, solo le

terme di Traiano a Roma risultano più grandi e monumentali. Non va trascurato il ruolo scenografico che assume questo complesso: la parete settentrionale del /rigidarium, trattata come un gigantesco ninfeo, forma la facciata dell'edificio sia per il visitatore che entra nel­ la palestra, che per chi, uscendo dal ponte, entra in città seguendo il decumano. La fac­ ciata meridionale del caldarium domina inve­ ce tutte le strutture che lo inquadrano e, per i passanti che procedono lungo uno dei cardi­ nes del quartiere nord-occidentale, forma una sorta di decorazione «teatrale», con edicole distribuite su vari livelli. Gli splendidi fram­ menti di statue rinvenuti tra le rovine (in par­ ticolare un torso di un'amazzone di un tipo descritto da Luciano e altre probabili copie di originali greci d'età classica) dovevano anima­ re queste composizioni monumentali, sicura­ mente concepite per offrire fin dall'ingresso una seducente immagine della città. Per am­ bizione e sfarzo queste terme sono la più tra­ sparente espressione dello sviluppo di Treviri in età antonina: la p roduzione e il commercio del vino e dei prodotti tessili sono probabil­ mente all'origine di questa fortuna, ben docu­ mentata dalle sontuose ville presenti nel terri­ torio, le cui vestigia sono state individuate tra l'altro a Nennig e a Otrang. È inoltre nota la grande rete commerciale intessuta dai mer­ canti Treviri implicati in fruttuose operazioni commerciali che vanno da Bordeaux a Mila­ no, dall'Atlantico al Reno e al Danubio. Il mercato più importante e stabile resta però quello dei legionari di stanza in Germania: è stato detto che la ricca strada che parte dalle terme di Santa Barbara fu finanziata indiretta­ mente dai soldati dislocati sul Reno. Tra la fine del I secolo e i primi decenni del II il foro, secondo uno schema molto si­ mile a quello di Bavay, viene completamente rimaneggiato; in tal modo esso arriva ad oc­ cupare 4 isolati. Tratteremo di questo foro nel capitolo dedicato alla tipologia dei centri mo-

IV Le province occidentali. Situazioni storiche, progetti e realizzazioni

numentali e alla natura e organizzazione dei loro componenti. Per il momento è sufficien­ te sottolineare che la nuova area, che raddop­ pia il foro iniziale, assicura un legame tra la piazza ed il «complesso palaziale», nel quale va riconosciuta la sede del procuratore dei servizi finanziari della Gallia Belgica delle due Germanie. Per la vicinanza di questi edifici ufficiali, la parte occidentale del foro acquista un'im­ portanza particolare: una porticus triplex, si­ curamente a due navate, sormontava l'ampio criptoportico a n che la chiude su tre lati. Come ha sostenuto J.-Ch. Balty, siamo qui in presenza di una zona religiosa in cui si cer­ cherebbe invano una basilica o la curia della colonia; di norma, infatti, una basilica si tro­ verebbe al limite orientale del complesso. Ma su questo punto avremo modo di ritornare. La funzione di questi portici è probabilmente quella di peribolo di un tempio che era forse sull'asse dell'altare dei Caesares sito al centro del primo spiazzo. Comunque sia, saremmo propensi a riconoscere qui un santuario del culto imperiale piuttosto che un capitolium; la posizione enfatica rispetto al foro trova infat­ ti abbondantissimi confronti e conferme in tutte le province occidentali da Conimbriga (Portogallo) a Bavay. L'ultima espressione di questa attività edi­ lizia è costituita dalle mura, lunghe 6418 m e comprendenti una superficie di 285 ettari. Furono costruite tra il 180 e la fine del II se­ colo; la puntata germanica del 195-197, con­ tenuta proprio grazie a queste mura, costitui­ sce il terminus ante quem per la loro costru­ zione anche se le modanature della «Porta Nigra» non erano state ancora ultimate - e mai lo saranno. Nonostante l'evidente funzio­ ne difensiva, immediatamente sperimentata, queste fortificazioni rivestivano per la città un innegabile ruolo di rappresentanza: prova ne siano la cura con cui fu realizzato il paramen­ to esterno e l'intenzionale coerenza con la re-

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te stradale; va soprattutto notato che le torri sono allineate con i cardines e i decumani, quantunque questi non arrivassero fino alle mura e fossero anzi molto lontani, nel settore orientale. Questa volontà di esprimere l'organizza­ zione dello spazio urbano attraverso il plasti­ co ritmo delle mura è la dimostrazione più esplicita della capacità di proiettare all'ester­ no l'immagine del paesaggio urbano, che si manifesta con maggior forza nella porta set­ tentrionale, la «Porta Nigra». Non condivi­ diamo il giudizio espresso da Ch. Goudineau, il quale parla di «fiasco clamoroso», dal mo­ mento che le due torri laterali hanno lo stes­ so partito decorativo della porta; affermare questo significa ignorare che la porta e le tor­ ri che l'affiancano costituiscono un monu­ mento coerente ed autonomo: gli ordini so­ vrapposti, che conferiscono a questo insieme l'aspetto di una facciata «teatrale», non ricor­ rono né sulle altre torri, molto più piccole, né sulle cortine di collegamento. È un modo di monumentalizzare l'ingresso e di conferirgli un aspetto simile a quello della grande «por­ ta» orientale, cioè l'anfiteatro. Questo, rico­ struito in pietra alla fine del I o all'inizio del II secolo, è stato inserito in modo molto ori­ ginale nelle mura che sfruttano la sua parodos meridionale come un ingresso fortificato; an­ che in questo caso una parete mossa dagli or­ dini architettonici accentua tra le due scarpe che contengono la cavea il rilievo architetto­ nico di una porta monumentale, espressione della potenza della città. La parentela struttu­ rale e plastica di questi due punti forti di una delle più imponenti cinte urbane dell'Occi­ dente (soltanto altre tre sono paragonabili per lunghezza: quelle di Autun, Vienne e Nimes; tuttavia la cinta di Treviri rimane la più mo­ numentale) era confermata, ad O, dai due pi­ lastri che inquadravano la porta, all'uscita del ponte, nell'angolo sud-occidentale delle ter­ me di Santa Barbara.

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Parte Il. L'età imperiale

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Fig. 266. L'agorà nel suo nuovo contesto monumentale nel II secolo d.C. (da J. Travlos).

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428 B) CORINTO

Come è noto, Corinto ha condiviso con Cartagine il medesimo destino: nel 146 a.C. la città scompare ufficialmente dalla storia dopo i saccheggi, le confische territoriali, il massa­ cro e la riduzione in schiavitù degli abitanti, seguiti alla terribile repressione di Lucio Mummio nei confronti della lega Achea. Nel 44 a.C. Corinto rinacque sotto forma di colo­ nia di diritto romano per volontà di Cesare. Impossibile dire se la colonia Laus Iulia Co­ rinthiensis, in cui affluirono veterani, schiavi affrancati ed esponenti italici e greci delle classi più povere, subì al tempo della fonda­ zione un'urbanistica così rigorosamente geo­ metrica come quella della grande città dell'A­ frica. Allo stato attuale delle ricerche, infatti, solo i settori pubblici della città sono stati og­ getto di scavi sistematici. Siamo comunque in grado di apprezzare in che modo il centro amministrativo e religioso di una città, il cui ruolo fu in seguito preponderante nella pro­ vincia senatoria d'Acaia, si impiantò su un si­ to che non era vergine, ma in cui restavano ancora ampie possibilità di scelta. Assurta al rango di capitale amministrativa della Provin­ cia d'Acaia - i dubbi espressi in proposito so­ no ingiustificati e urtano contro una serie di indizi probanti -, Corinto tornò ben presto ad essere un grande centro economico e fi­ nanziario, grazie ai suoi porti di Lechaion, sul golfo di Corinto, e di Cenchreae sul golfo Sa­ ronico. Cesare, inoltre, aveva accordato alla città la presidenza dei Giochi Istmici, grazie alla quale essa acquisì un ruolo religioso di primo piano, tanto più che il culto imperiale, con i Caesarea che si celebravano ogni 4 anni, conferiva a questi incontri panellenici un ca­ rattere ufficiale carico di significato politico. La nuova agorà della città bassa, che oc­ cupa un avvallamento ai piedi della collina su cui si erge il tempio arcaico di Apollo, a circa 1200 m a N dell'acropoli (l'Acrocorinto), è

Parte Il. L:età imperiale

una delle più grandi del mondo romano (160 m da E ad O e 95 da N a S). Questa agorà, scavata dalla missione americana che lavora sul sito da diversi anni, costituisce un campo di indagine privilegiato per lo studio dell'or­ ganizzazione spaziale e della distribuzione delle funzioni. L'ipotesi che i coloni si fossero limitati a rimaneggiare e ampliare la vecchia agorà di età ellenistica è stata smentita dalle esplora­ zioni archeologiche più recenti che hanno di­ mostrato come nei livelli più bassi della piaz­ za attuale non esistano testimonianze di mo­ numenti civili anteriori al 146 a.C. Secondo l'ipotesi di Ch.K. Williams, questa zona era occupata in età classica ed ellenistica da un ippodromo, mentre l'agorà propriamente det­ ta si trovava a N e ad E della collina del tem­ pio arcaico, nella zona in cui in età imperiale vennero costruiti due grandi macella (quadri­ portici circondati da botteghe che funziona­ vano come mercati alimentari). Questa consi­ derazione è determinante poiché consente di cogliere lo spirito con cui fu fondata la colo­ nia: come a Paestum o ad Arnpurias, si volle creare una rottura totale con i quadri urbani­ stici precedenti e pertanto venne modificata del tutto l'organizzazione del centro monu­ mentale, con una maggiore attenzione alla specializzazione degli spazi. Il sito scelto, tuttavia, non era completa­ mente libero dalle strutture anteriori che de­ finivano degli assi divergenti: a S un grande portico, costruito nell'ultimo quarto del III secolo a.C., costituiva un limite obbligato; l'ippodromo seguiva al centro il fondo di una depressione naturale, sul bordo della quale si ergeva la fontana Peirene; da N giungeva la grande strada del Lechaion. La persistenza di questi elementi spiega perché la piazza roma­ na non assunse mai un aspetto rigorosamente geometrico. Ma il sistema attuato spiega con chiarezza gli obiettivi politico-religiosi della prima urbanistica imperiale.

VI. Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana

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Fig. 267. Corinto: il sito dell'agorà all'inizio del II secolo a.C. (da Hemans).

La prima preoccupazione dei nuovi abi­ tanti fu la regolarizzazione del terreno che sfruttava il dislivello tra la frangia meridiona­ le della zona antistante al portico ellenistico e l'area settentrionale, molto più bassa. Fu per­ tanto costruita una fila di botteghe aperte, verso N, e che fungevano da sostegno verso S (verranno ultimate solo nel II secolo), recanti al centro una grande tribuna per arringare il popolo. Nelle vecchie tabernae della stoà elle­ nistica, completamente rimaneggiate, presero posto gli uffici ed i servizi della colonia - tra cui il bouleuterion - e degli agonoteti (gli or­ ganizzatori dei giochi); in tal modo la funzio­ ne amministrativa ed ufficiale dell'agorà supe­ riore risultava ancora più accentuata. All'ini­ zio dell'età augustea la lunga piazza così defi­ nita fu chiusa verso E da un edificio con fron­ te porticata che all'estremità della stoà meri-

dionale formava uno spigolo ad angolo retto: in questo edificio viene in genere riconosciu­ to un tabularium (archivio) che, trasformato in età tiberiana, conserverà sempre la sua fun. . z10ne ongmana. Per quanto riguarda l'agorà inferiore, la cosa più importante era delimitarne l'esten­ sione e fissate il centro focale della composi­ zione. Presso la fonte Peirene furono allora costruiti dei propilei che si concludevano a S con un arco a 3 fornici; in tal modo veniva en­ fatizzato l'ingresso della strada del Lechaion in quest'area ancora inorganica. Gli edifici più importanti per la delimitazione di questa zona furono le due basiliche giudiziarie: la più antica, contemporanea alla prima fase del ta­ bularium (ultimo quarto del I secolo a.C.), è molto simile a quella di Pompei; essa si af­ faccia sulla piazza con uno dei lati corti (il

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Parte II. L'età imperiale

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Fig. 268. L'agorà di Corinto intorno alla metà del I secolo d.C. (da Ch.K. Williams).

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Come ha dimostrato H. von Hesberg, prima della fine del regno di Augusto la sua faccia­ ta fu spostata in avanti, assicurando continui­ tà plastica tra il portico costruito a N-0 della piazza e l'arco d'ingresso alla strada: conce­ pita di già come le più tarde porte monu­ mentali delle agorai dell'Asia Minore di età antonina, questa facciata, priva di rapporto strutturale con il corpo di fabbrica, presenta­ va dei prigionieri barbari in luogo delle caria­ tidi; in questo motivo tipicamente attico sono stati riconosciuti a ragione i Parti: in effetti è probabile che nella capitale «romana» d'A­ caia si volle celebrare la «vittoria» diplomati­ ca del 20 a.C., che aveva garantito pace e si­ curezza all'Oriente greco. Distrutta da un ter­ remoto nella metà del II secolo, questa faccia­ ta verrà restaurata intorno alla fine dello stes-

so secolo, comunque dopo la visita di Pausa­ nia a Corinto. Una seconda basilica detta Giulia si apre all'estremità orientale dell'agorà inferiore, af­ facciandosi sulla piazza con il suo lato lungo; per organizzazione interna è molto vicina a quegli edifici che furono costruiti a Roma in età cesariana ed augustea lungo il vecchio Fo­ ro repubblicano; particolarmente stringente è il confronto con la Basilica Iulia, tranne per il fatto che t >edificio di Corinto possiede solo uno stretto portico d'entrata tetrastilo e che il muro di fondo è scandito da tre esedre qua­ drangolari. La datazione generalmente propo­ sta - fine dell'età giulio-claudia - è sicura­ mente troppo bassa, poiché nella basilica è stata rinvenuta una serie di ritratti, i più anti­ chi dei quali sono rappresentati da uno splen­ dido Augusto capite velato e dai suoi figli

\'I. Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana

adottivi, i Caesares, raffigurati in atteggiamen­ to «eroico». Il gruppo statuario, eseguito quando Augusto era ancora in vita, fornisce un argomento decisivo per datare prima del 14 d.C. l'edificio in cui era esposto. Questi ri­ tratti potevano essere stati concepiti solo per un «santuario» legato alla stessa basilica, se­ condo la formula dell'aedes Augusti adottata da Vitruvio nella sua basilica di Fano, o se­ condo quella che ancor oggi è dato di vedere nei cicli delle basiliche di Otricoli, Velleia, Aesis, Sabratha o di T hera. Un'ulteriore con­ ferma della datazione augustea dell'edificio di Corinto deriva dal fatto che la sua facciata è perfettamente parallela all'allineamento delle botteghe che, all'estremità opposta della piaz­ za, verso O, vennero inglobate nel grande quadriportico del tempio identificato da M. Torelli come un capitolium (Tempio E): que­ ste botteghe, a lungo attribuite ad un rifaci­ mento posteriore al terremoto del 77 d.C., so­ no state poi datate su base archeologica in età augustea. La coerenza di questi due elementi che fungono da chiusura monumentale dell'a• rea civica dimostra una volta di più la loro contemporaneità. Il programma augusteo dell'agorà di Co­ rinto appare dunque più coerente di quanto generalmente si ritiene. Il patronato di Agrip­ pa sulla città (20-15 a.C.) senza dubbio influì su questa sistemazione, che si awalse delle contemporanee esperienze urbanistiche con­ dotte sul vecchio Foro repubblicano di Roma. Se conoscessimo meglio i monumenti dell'area centrale della piazza inferiore, il si­ gnificato del complesso e la sua «modernità» risulterebbero ancora più chiari: su una grande crepidine in asse con il bema si er­ gevano delle statue di bronzo; gli archeologi americani pensano che tra queste figurasse anche l'Arena di cui parla Pausania, ma poi­ ché il monumento fu verosimilmente dedi­ cato dagli augusta/es, riteniamo più probabi­ le che la base fosse riservata ad un gruppo

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imperiale; poco lontano, verso O, si ergeva un altare con temenos delimitato da colon­ ne. Questa disposizione ricorda quella - si­ curamente contemporanea - del centro del Foro di Arles, con il suo santuario dei Cae­ sares, o dell'agorà di Thasos, con il suo «he­ roon» dedicato ai medesimi personaggi. La piccola composizione di Corinto, tipica del1'ambiente provinciale dei primi decenni del• l'Impero, è degna di nota perché risponde perfettamente al gruppo statuario della Basi­ lica Giulia. I successivi interventi edilizi nell'agorà contribuiranno ad accrescerne le potenzia­ lità: la costruzione di una terza basilica del­ lo stesso tipo di quella «Giulia» alle spalle del portico S, è la prova del volume dell'at­ tività giuridica ed amministrativa che aveva sede in questa città; il carattere italico del complesso è ancora molto evidente: nes­ sun' altra città delle province greche ed orientali avrà mai un'attrezzatura di questo tipo. Gli ingressi a questo centro civico ven­ gono monumentalizzati sotto il regno di Claudio, con la trasformazione dell'ultimo tratto della strada di Lechaion in un'auten­ tica plateia grazie all'aggiunta di portici late­ rali: al di fuori dell'Asia è questo uno degli esempi più antichi (se non il più antico) di questo tipo di struttura. La piazza inferiore verrà invece pavimentata solo dopo il terre­ moto del 77. È questo un fatto miscono­ sciuto, anche se frequentemente attestato, dell'urbanistica romana: la definizione degli spazi può precedere di gran lunga la loro definitiva sistemazione. Anche la chiusura di questa stessa piazza verso O verrà realizzata poco per volta con la costruzione di una se­ rie di tempietti: awiata da Augusto con la costruzione di un Pantheon (Tempio G), si protrarrà con rifacimenti e modifiche di va­ rio genere fino all'età di Commodo. In questo enorme complesso politico-reli­ gioso la specializzazione delle funzioni si af•

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Parte II. L'età imperiale

Fig. 269. I..:agorà di Corinto alla fine del II secolo d.C. (da Packard e Williams).

fermerà ulteriormente con la costruzione di un primo macellum, nella metà del I secolo, a N del tempio di Apollo, e di un secondo nel prolungamento della basilica settentrionale. Quest'ultima perderà allora il tribuna! ed il chalcidicum, e diventerà una grande sala con deambulatorio periferico. Questi interventi dimostrano che da questo momento in poi tutta l'area a N verrà riservata alle attività fi­ nanziarie e commerciali. Intorno alla fine del I secolo, e comunque dopo il terremoto del 77, si assiste alla costruzione di un grande te­ menos attorno al tempio E che in tal modo viene a formare un grandioso santuario, in­ dubbiamente dedicato a Giove e alla gens Iu­ lia. Questa piazza religiosa assorbirà le fun­ zioni dinastiche precedentemente svolte dal-

l'altare e dal gruppo statuario dell'agorà infe­ riore che, non a caso, scompaiono proprio quando quest'ultima viene pavimentata. Per finire, a N-0, la superficie tradizionalmente riservata agli edifici ludici viene progressiva­ mente popolata: all'antico teatro di V secolo a.C., ricostruito all'inizio della colonia roma­ na e poi rimaneggiato in età adrianea - con una splendida scaenae /rons - era stato annes­ so, alla fine del I secolo, un odeon relativa­ mente modesto, realizzato in poros. Distrutto da un incendio, fu ricostruito in marmo da Erode Attico, al quale si deve sicuramente an­ che il peristilio trapezoidale - ugualmente in marmo - che lo collega al teatro. Con ritardo, ma sontuosamente, Corinto entra a far parte di quelle poche città romane che potevano

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VI. Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana

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Fig. 270. Pianta del centro urbano di Afrodisia (da L. Bier).

Parte II. I:età imperiale

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Fig. 271. Parte centrale del monumento scenico del tea­ tro di Afrodisia (da D. Theodorescu).

vantare il complesso theatrum e theatrum tec­ tum: Pompei, Napoli, Vienne, Lione, Atene e, naturalmente, Roma con gli edifici del Cam­ po Marzio. 2.

I:urbanistica monumentale di prestigio in

Asia Minore

A) AFRODISIA

La città di Aphrodisias non figura certa­ mente tra le grandi metropoli della Provin­ cia d'Asia, ma è da essa che è opportuno co­ minciare l'analisi della prima urbanizzazione imperiale in questa regione, vista la predile­ zione che Ottaviano Augusto le ha manife­ stato sin dall'inizio degli anni 30 a.C. Il mo­ tivo addotto per tale esplicita preferenza, che porta il princeps a designare gli abitanti di questa città come suoi concittadini, è chiaramente la presenza del santuario, cele-

bre tra tutti, di un'antica divinità orientale assimilata ad Afrodite, rapidamente integra­ ta nel pantheon ufficiale come Venus Gene­ trix, la fondatrice della gens Julia; ma la cau­ sa profonda è probabilmente da ricercare nell'atteggiamento degli Afrodisiani nel cor­ so dell'ultima fase della guerra contro Anto­ nio, come pure, in secondo luogo, nell' azio­ ne personale di Iulius Zoilos, ex schiavo di Ottaviano che, divenuto un ricco liberto, ha fatto molto per la promozione della sua città. La ripartizione dell'abitato in insulae rettangolari data agli ultimi decenni prima della nostra era, e coincide con la costruzio­ ne dell'agorà settentrionale e il rifacimento del teatro, le due componenti essenziali di ogni città augustea. L'edificio di spettacolo, le cui prime fasi sono ellenistiche, viene al­ lora ristrutturato e, in particolare, prowisto di una scaenae /rons a due livelli dotata di tre porte, secondo la restituzione di D. Theodorescu, il che lo designa come un mo­ numento di tipo «occidentale», unico nel suo genere nella serie dei teatri dell'Asia Mi­ nore, che comportano tutti, senza eccezione, un monumento scenico a cinque porte. Ga­ rantendo l'unione tra l'agorà settentrionale e il teatro, l'agorà meridionale, probabilmente concepita in un primo momento come una palestra, secondo l'ipotesi di N. de Chaise­ martin, ne conserverà a lungo le caratteristi­ che, anche quando sarà divenuto uno degli annessi del centro politico-amministrativo della città; organizzato come un vero xystus, il «portico di Tiberio», così chiamato nell'e­ pigrafia locale, costituirà in seguito una dé­ pendance delle grandi terme costruite all'e­ poca di Adriano. La sistemazione della città, organizzata at­ torno al suo santuario, prosegue in epoca flavia con la realizzazione di una basilica giudiziaria nell'angolo sud-ovest dell'agorà meridionale e con la costruzione, in una vasta depressione si­ tuata alla periferia settentrionale, di uno stadio,

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VI. Le province orientali: Realtà e ideologia dell'urbanistica romana

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Parte II. I.:età imperiale

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Fig. 273. Pianta dell'agorà sud cli Afrodisia (da A. Lemaire e N. de Chaisemartin).

molto simile a quello di Laodicea del Lycos. Ma la struttura che testimonia più eloquentemente dell'integrazione culturale e di culto di quello spazio urbano largamente rimodellato è proba­ bilmente il famoso Sebasteion, di cui il com­ pianto K.T. Erim ha ritrovato la via processio­ nale, costruita durante i regni di Claudio e Ne­ rone: essa era delimitata da portici che si apri­ vano al pianterreno su delle botteghe, mentre i due piani superiori erano animati da pannelli scolpiti in cui i temi mitologici tradizionali - ai quali si aggiungevano i miti fondatori dell'Asia Minore, come quello pergameno di Telefo - si trovavano mescolati, in un sapiente gioco di corrispondenze, alle gesta di Romolo e alle bril­ lanti imprese degli imperatori giulio-claudi. Se si aggiunge che una serie di effigi etniche col nome del popolo che si ritiene dovessero rap­ presentare completava tale insieme - in cui si è voluto vedere, non senza ragione, una trasposi-

zione adattata all'Oriente greco del Foro di Au­ gusto a Roma - ci si rende conto dell'efficacia di una simile composizione. Essa si fondava parzialmente su modelli ellenistici oggi scom­ parsi, dei quali assimilava il prestigio architet­ tonico e plastico, sia pur in uno spirito global­ mente romanizzato perché orientato all'esalta­ zione del potere imperiale sacralizzato. Diffon­ deva inoltre, in una forma efficace perché ac­ cessibile a tutti, e senza attentare agli schemi mentali della popolazione, i valori del sistema ideologico e politico in seno al quale la «città di Augusto» aveva preso posto fin da allora. B) EFESO

Efeso è forse la città della Ionia per la qua­ le l'avvento del Principato fu più denso di conseguenze: designata nel 29 a.C. quale cen­ tro amministrativo della Provincia d'Asia, a

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\'I. Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana



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Fig. 298. Rete stradale di Bostra (da S. Cerulli).

Antiocheia ad Cragum. Tre città della Siria orientale e dell'Arabia consentono inoltre di seguire l'evoluzione della platea fino al suo li­ mite. Per quanto riguarda Gerasa (Jerash), la cui pianta è stata già analizzata nel volume della Storia del!'urbanistica relativo al mondo greco, ci limiteremo a far notare come la grande via N-S si integri perfettamente in quel program­ ma che, avviato nel I secolo d.C., ebbe un grande impulso dopo il 106, anno dell'annes­ sione della città alla nuova Provincia d'Arabia. Questa grande strada porticata, conclusa dal­ !'arco di Traiano (porta settentrionale della città) monumentalizza il tratto urbano della via che conduce a Pella ed alle città costiere. Agli incroci con i decumani principali sono 2 tetrapili, dei quali quello occidentale risulta particolarmente monumentale, essendo costi­ tuito da un arco quadrz/rons al centro di un'a­ rea circolare. Sull'asse del gigantesco temenos

di Artemide, che costituiva il cuore della città alta e che con la sua massa dominava il cardo, un grande ninfeo, dedicato nel 191, ricorda per fasto e dimensioni quello di Settimio Se­ vero a Leptis Magna. In stretto rapporto con i complessi monumentali, gli elementi plastici che scandiscono questa platea hanno ancora un valore strutturale. Composizioni molto simili le ritroviamo a Bostra, ma in questo caso risultano già inseri­ te in un contesto meno rigoroso: in età pre­ romana la via recta (con andamento E-0), an­ ch'essa legata alla strada costiera, aveva svol­ to un ruolo di primo piano nell'organizzazio­ ne della città, che attraversava tutta, dalla «porta dei venti» alla porta nabatea. Agli ini­ zi del II secolo, in seguito alla conquista, per motivi di ordine strategico ed amministrativo fu privilegiato l'asse N-S che collegava Bostra all'accampamento della III legione Cyrenaica sulla strada per Damasco. Questa via entra in

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Parte II. I:età imperiale

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Fig. 299. Pianta schematica della città

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di Palmira (da R. Saupin e Th. Fournet).

c1tta sotto forma di un semicardo, compor­ tando lo spostamento del centro verso la metà settentrionale dello spazio urbano e una sorta di compromesso tra la vecchia e la nuova di­ rettrice all'interno del reticolo stradale. Ciò risulta evidente nell'incrocio tra il cardo che proviene dalla porta settentrionale ed il de­ cumano principale, in cui una singolare «Ka­ lybé» (santuario a cielo aperto oggi scompar­ so, ma a suo tempo ricostruito da Butler) ed un ninfeo obliquo orientano la vista ed il cam­ mino di chi procede verso O. Questo tipo di organizzazione, che più che strutturare sugge­ risce, dimostra l'importanza accordata al cir­ cuito ad L che privilegiava la parte occiden­ tale dell'antico asse nabateo a scapito del set­ tore orientale. Il tetrapylon della piazza circo­ lare che, come a Gerasa, segna verso O l'in-

crocio con l'altro cardo, serve soprattutto a nascondere l'inclinazione di 3 ° verso N del­ l'asse del decumano: questa area rotonda dal diametro superiore ai 40 m, scandita da ese­ dre alternativamente semicircolari e quadran­ golari, dal lastricato inclinato di 45 ° rispetto alla direzione delle strade, lungi dal definire un incrocio ortogonale, contribuisce a diso­ rientare chi vi arriva, suscitando l'impressione di uno spazio chiuso in se stesso. All'estremità del decumano, presso la «porta dei venti», una piazza ovale dalla pianta simile a quella del foro di Gerasa, ma molto più piccola, fun. ge ancora una volta da cerniera destinata a nascondere una rottura dell'orientamento che, anche se poco sensibile, avrebbe potuto nuo­ cere al valore plastico del complesso. Per finire, nella prestigiosa città di Palmi-

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VI. Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana

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Fig. 300. Centro monumentale della città di Palmira (da Th. Fournet).

Fig. 301. Palmira. Pianta del grande arco severiano a tre

fornici (da J. Browning).

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ra, la cui urbanistica è stata studiata da E. Will e della quale si è già parlato nel volume precedentemente citato, si rileva che le gran­ di strade porticate hanno la funzione di rein­ trodurre un ordine fittizio in una organizza­ zione relativamente caotica, nella quale si pos­ sono riconoscere delle fasi non coerenti dello sviluppo della città. Il cuore iniziale dei quar­ tieri ellenistici che arrivavano fino alla riva S dello uadi si trovava sul sito del tempio di Bel. Questo, consacrato nel 38 d.C., assumerà le funzioni di acropoli storica e religiosa man mano che i centri vitali si sposteranno verso O. In questo contesto il «grande colonnato» e le vie porticate perpendicolari servono es­ senzialmente a dissimulare la discontinuità di un tessuto urbano che riflette le vicissitudini della storia della città. L'analisi del troncone centrale della platea

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Parte II. I.:età imperiale

Fig. 302. Palmira. Restituzione del lato meridionale dell'arco severiano nel suo punto di raccordo con il «grande co­ lonnato» (da J. Browning).

assiale è di per sé sufficiente per offrire un'i­ dea del ritmo sincopato della parte più mo­ numentale della città e dei geniali espedienti a cui si ricorse per darle una parvenza di unità. Va notato, innanzi tutto, che il tratto di strada che piega quasi perfettamente a S ver­ so il temenos di Bel è circa due volte più lar­ go di quello che poi si dirige ad O, sicura­ mente perché fa parte di un percorso liturgi­ co. Questa particolarità, congiunta al cambia­ mento di direzione, spiega la costruzione del1'arco monumentale a tre fornici nel punto in cui i due tratti di strada si incontrano: la sua forma triangolare, che fa sì che l'arco abbia una facciata perpendicolare ad entrambe le strade; la sapiente disposizione dei suoi pila­ stri, che integra efficacemente i due tipi di co-

lonnati laterali; l'organizzazione dello spazio interno, coperto da un arco verso S e da due verso N (il pilone centrale di quest'ultimo materializza, con il profilo della sua base, il cambio d'orientamento del circuito stradale). sono tutti elementi che designano questa rea­ lizzazione d'età severiana (posteriore al 212) come il prodotto urbano più raffinato lascia­ toci dalle province orientali. Gli effetti illu­ sionistici di questa decorazione teatrale ((alla Bibbiena» (per usare un'espressione di Lyttel­ ton) risultano ulteriormente accentuati dalla ricchezza dei motivi ornamentali tipicamente palmirena. Immediatamente ad O di questo pittoresco monumento, la grande platea taglia l'angolo N-E del santuario di Nebo, allinean­ dosi perfettamente con la scaenae /rons del

\'I. Le province orientali. Realtà e ideologia dell'urbanistica romana

teatro. È evidente che l'orientamento è stato imposto dal teatro, ignorando completamente i condizionamenti imposti dall'edificio reli­ gioso, la cui ultima fase si data intorno alla metà del II secolo. Tra questi due complessi, ed invadendo la carreggiata, si insinua il protyron delle terme di Diocleziano che spez­ za la prospettiva e, con l'arco a tre fornici, de­ finisce una sorta di spazio privilegiato che, vi­ sto sotto una certa angolazione, assume l'a­ spetto di un peristilio allungato. Va notato, inoltre, come la via laterale, che tra l'altro ser­ ve l'agorà quadrangolare ed i suoi annessi, si divide in due tratti per seguire la curva della cavea teatrale. Tutti questi espedienti, volti al­ l'integrazione dell'edificio scenico con la rete viaria, confermano l'importanza ad esso attri­ buita per la sistemazione del centro cittadino: evidentemente il teatro aveva soppiantato l'a­ gorà tradizionale. Un tetrapylon, concepito come quelli di Gerasa e Bostra, serve infine a

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nascondere la lieve inflessione della strada verso N. Una sequenza monumentale come quella di Palmira non verrà mai più realizzata. Su di una lunghezza di circa 370 m essa rac­ chiude una vera e propria antologia dei mo­ numenti generati dal tema della platea e le sue esigenze monumentali. Ciò che essa esprime è, da un lato, la capacità di questa ricca comunità di frontiera, in cui la «roma­ nizzazione» o l'«ellenizzazione» restano ad un livello abbastanza superficiale, a ritenere gli aspetti più esteriori della civiltà urbana; dall'altro manifesta il degradarsi di un tes­ suto urbanistico in cui il rigore distributivo e l'organizzazione funzionale lasciano il po­ sto ad una giustapposizione paratattica, al­ l'interno della quale la grande strada porti­ cata perde la sua funzione di direttrice e si limita ad assicurare una continuità «sceno­ grafica» più illusoria che reale.

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La bibliografia relativa alla Parte prima è a cura di Elisa Pellegrini; quella relativa alla Parte seconda di Pierre Gros.

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492 Sulle porte urbiche e le mura: P. Gros, Moenia. Aspects dé/ensi/s et aspects répre­ sentatzfs des /orti/ications, in Forti/icationes anti­ quae cit., 211-225. AA.VV., Mura delle città romane in Lombardia (Atti del Convegno), Como 1993.

Bibliografia feo Ponari di Cassino. Riflessioni su una moda decorativa di età tardo-repubblicana, ivi, 49-60. F. Zevi, Le élites municipali; Mario e l'architettura del tempo, in «Cah. Glotz», VII, 1996, 229-252. A. Gabrielli, La Meta Sudans. La più antica fonta­ na di Roma, Roma 2000.

Su Ascoli: U. Laffi, M. Pasquinucci, Ausculum, 1. Storia di Ascoli Piceno nell'età antica. Studio sull'urbani­ stica di Ascoli Piceno romana, Pisa 1975. G. Conta, Ausculum, 2. Il territorio di Asculum in età romana, 2 voli., Pisa 1982. Su Verona: G. Cavalieri Manasse, Verona (I secolo a.C.-1 seco­ lo d.C.), in G. Sena Chiesa, M.P. Lavizzari Pe­ drazzini (a cura di), Tesori della Postumia cit., 444-459. M. Bolla et al., Archeologia a Verona, Milano 2000. Sugli spazi industriali nelle città tardo-repubbli­ cane: F. Coarelli, «Fraegellae», «Arpinum», «Aquinum»: lana e «/ullonicae» nel Lazio meridionale, in M. Cébeillac-Gervasoni (a cura di), Les élites muni­ cipales cit., 199-205. Sui campi e le palestre tardo-repubblicane: F. Pesando, Edifici pubblici «antichi» nella Pompei augustea: il caso della Palestra Sannitica, in «RM», CVII, 2000, 155-175. F. Coarelli, Il Foro Triangolare: decorazione e /un­ zione, in P.G. Guzzo (a cura di), Pompei. Scien­ za e società, Milano 2001, 97-107. Sulle terme tardo-repubblicane:

I. Nielsen, «T hermae» and «Balnea», 2 voli.,

Aarhus 1990. F. Yegul, Baths and bathing in classica! antiquity, Cambridge (Mass.) 1992, 30-91. F. Coarelli, Il Foro Triangolare: decorazione e /un­ zione cit. Sulle fontane e sui ninfei:

F.M. Cifarelli, Q. Mutius architetto a Segni. Alcune nuove riflessioni (Atti del II Colloquio AI­ SCOM, Roma 5-7 dicembre 1994), Bordighera 1995, 39-48. M. Valenti, Il mosaico rustico a conchiglie ed il nin-

ROMA IMPERIALE Ci limitiamo a segnalare le pubblicazioni più recenti nelle quali il lettore potrà trovare agevol­ mente la bibliografia precedente. Molto utile è an­ che il Notiziario bibliografico di Roma e Suburbio 1961-1980, in «Bull. Comunale», 89, 2, 1984, pp. 305-476. Opere di carattere generale: E. Nash, Pictorial Dictionary of Ancient Rome, London 19682 (2 voli.); F. Castagnoli, Topografia e urbanistica di Ro­ ma antica, Bologna 1969; L. Homo, Rome impé­ riale et l'urbanisme dans l'antiquité, Paris 197!2 ; P. Gros, Aurea Tempia. Recherches sur l'architecture religieuse de Rome à l'époque d'Auguste, «BE­ FAR», 231, Roma 1976; l'opera fondamentale è F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche Laterza), Roma-Bari 1980, 2006'; P. Grimal, Les jardins ro­ mains, Paris 1984'; E.M. Steinby (a cura di), Lexi­ con Topographicum Urbis Romae, 6 voli., Roma 1993-2000 (fondamentale per tutti gli edifici e complessi monumentali di Roma); D. Favro, The Urban lmage o/ Augustan Rome, Cambridge 1996; P. Gros, J;architecture romaine, I. Les monuments publics, Paris 1996, 20022 (trad. it. ];architettura romana, Milano 2001); L. Haselberger (a cura di), Mapping Augustan Rome, in «Journal of Roman Archaeology», suppl. 50, 2002. Per le rappresentazioni antiche sull'urbanistica di Roma si vedano: C. Carettoni, A.M. Colini, L. Cozza, G. Gatti, La pianta marmorea di Roma an­ tica, Roma 1960; E. Rodriguez Almeida, Forma Urbis marmorea. Aggiornamento generale 1980, Roma 1980; F. Hinard, M. Royo (a cura di), Ra­ me. J;espace urbain et ses représentations, Paris 1991; E. Rodriguez Almeida, Topografia e vita ro­ mana da Augusto a Costantino, Roma 2001; Id., «Formae Urbis Antiquae». Le mappe marmoree di Roma tra la Repubblica e l'Impero, «Collection de l'Ecole Française de Rome», 305, Roma 2002. Monografie ed articoli che analizzano l'urbani­ stica di un quartiere, un complesso monumentale o un periodo: A.M. Colini, Storia e topografia del Ce­ lio nell'antichità, in «Mem. Font. Ace.», III, 7, 1944; F. Castagnoli, Il Campo Marzio nell'Antichità, in

Bibliografia «Mem. Ace. Lincei», VII, 1, 1946, pp. 93 ss.; G. Gatti, Dove erano situati il teatro di Balbo e il circo Flaminio?, in «Capitolium», XXXV, 7, 1960, pp. 3 ss.; G. Gatti, Caratteristiche edilizie di un quartiere di Roma nel II sec. d.C., in Saggi V Fasolo, «Qua­ derni dell'Istituto di Storia dell'Architettura», Ro­ ma 1961, pp. 49-66; A.M. Colini, Il Campidoglio nell'antichità, in «Capitolium», XL, 4, 1965, pp. 175 ss.; A. Garcia y Bellido, La Roma de los Cesares coma problema urbanistico, in «Estudios Clasicos», IX, 45, 1965, pp. 205-233; A. Balland, Nova Urbs et «Neapolis», remarques sur /es projets urbanistiques de Néron,in «MEFR», LXXVII, 1965, pp. 349-393; P. Zanker, Forum Augustum, Tiibingen 1968; Id., Das Trajans/orum als Monument imperialer selbst­ darstellung, in «Arch. Anz.», 1970, pp. 499 ss.; Id., Il Foro romano. La sistemazione da Augusto alla tar­ da antichità, Roma 1972; K. de Fine Licht, T he Ro­ tunda in Rome, Copenhagen 1968; H. Bauer, Il Fo­ ro Transitorio e il Tempio di Giano, in «Rend. Pont. Ace.», XLIX, 1976-77, pp. 117-150; Id., Kaiser/ora und ]anus Tempel, in «RM», LXXXIV, 1977, pp. 301-329; F. Coarelli, Il Campo Manio occidentale. Storia e topografia, in «MEFRA», LXXXIX, 1977, pp. 807 ss.; E.J. Philipps, Nero's New City, in «Riv. Fil.», CVI, 1978, pp. 300-307; D. Kienast, Zur Bau­ politik Hadrians in Rom, in «Chiron», X, 1980, pp. 391-412; F.P. Fiore, I.:impianto architettonico antico, in Il «tempio di Romolo» nel Foro romano, «Qua­ derni dell'Istituto di Storia dell'Architettura», Ro­ ma 1981, pp. 63-90; C.M. Amici, Foro di Traiano: Basilica Ulpia e biblioteche, Roma 1982; E. Buchner, Die Sonnenuhr des Augustus, Mainz 1982; P. Zanker, Der Apollontempel auf dem Palatin, in Città e architettura della Roma imperiale, «Analecta Ro­ mana Instituti Danici», X, Roma 1983, pp. 21-40; J.C. Anderson jr., T he Historical Topography o/the Imperia/ Fora, in «Latomus», CLXXXII, Bruxelles 1984; J.-M. Roddaz, Marcus Agrippa, «BEFAR», 253, Roma 1984, pp. 231-295; E. la Rocca, La Riva a Mezzaluna. Culti, agoni, monumenti funerari pres­ so il Tevere nel Campo Manio Occidentale, Roma 1984; F. Coarelli, Il Foro Romano II, periodo repub­ blicano e augusteo, Roma 1985; Cl. Krause, in Do­ mus Tiberiana. Nuove ricerche. Studi di lavoro, Ziiri­ ch 1985, pp. 73-136; Atti del Colloquio internazio­ nale EFR-CNRS, I.:Urbs. Espace urbain et histoire (/" s. av.]. Chr.-II/' s. apr.]. Chr.) (Roma, 8-12 maggio 1985), «Collection de l'Ecole Française de Rome», 98, Roma 1987; M. Taliaferro Boatwright, Hadrian and the City o/ Rome, Princeton 1987; M. Torelli, Topografia e iconologia. Arco di Portogallo, Ara Pacis, Ara Providentiae, Templum Solis, in «Ostraka», I, 1, 1992, pp. 105-131; R.H. Darwall­ Smith, Emperors and Architecture. A Study o/ Fla-

493 vian Rome, «Collection Latomus», 231, Bruxelles 1996; Cl. Panella (a cura di), Meta Sudans, I. Un'a­ rea sacra «in Palatio» e la valle del Colosseo prima e dopo Nerone, Roma 1996; D. Palombi, Tra Palatino ed Esquilino. Velia, Carinae, Fagutal. Storia urbana di tre quartieri di Roma antica, Roma 1997; C. Gia­ varini (a cura di), Il Palatino. Area sacra sud-ovest e Domus Tiberiana, Roma 1998; M. Royo, Domus Im­ peratoriae. Topographie, /ormation et imaginaire des palais impériaux du Palatin, in «BEFAR», 303, Ro­ ma 1999; F. Coarelli, The Column o/Trajan, Roma 2000, pp. 3-34; F. Villedieu (a cura di),Ilgiardino dei Cesari. Dai palazzi antichi alla Vigna Barberini, sul Monte Palatino, Roma 2001; E. La Rocca, La nuova immagine dei /ori imperiali. Appunti in margine agli scavi, in «RM», 108, 2001, pp. 174-210; R. Mene­ ghini, Il Foro di Traiano: ricostruzione architettonica e analisi strutturale, in «RM», 108, 2001, pp. 245263; R. Meneghini, Nuovi dati sulla funzione e le fasi costruttive delle «biblioteche» del Foro di Traiano,in «MEFRA», 114, 2002, pp. 655-692; Cl. Cecamore, Palatium. Topografia storica del Palatino tra III sec. a.C. e I sec. d.C., Roma 2002; AA.W., I Mercati di Traiano alla luce dei recenti restauri e delle indagini archeologiche, in «BCAR», 104, 2003, pp. 184-376.

LE CITTÀ DELL'ITALIA IN ETÀ IMPERIALE Gli Atti del Congresso internazionale di ar­ cheologia classica del 1993, La ciudad en el mun­ do romano, 2 voli., Tarragona 1994, contengono un gran numero di articoli o notizie relativi a mol­ tissimi siti urbani dell'Italia e delle province occi­ dentali e orientali, ai quali non possiamo riman­ dare nel dettaglio. Vogliamo soltanto menzionare qui l'esistenza di questa summa, ineguale ma spes­ so utile. La bibliografia recente sulle singole città del­ l'Italia antica è raccolta nella serie delle Guide ar­ cheologiche Latena, Roma-Bari 1980-84 (in tutto 14 volumi che coprono tutte le regioni italiane). In questa sede ci limiteremo ad aggiungere alcuni contributi più specificamente orientati sui proble­ mi dell'urbanistica e dell'architettura monumenta­ le. G. Mansuelli, Urbanistica e architettura della Cisalpina romana, Bruxelles 1971; Id., La città ro­ mana nei primi secoli dell'Impero. Tendenze del­ l'urbanistica, in «ANRW», II, 12, 1, 1982; R. Che­ vallier, La romanisation de la Celtique du Po, «BE­ FAR», 249, Roma 1983; P. Sommella, Città roma­ ne in Italia: tipologia e inquadramento cronologico, in Le città di fondazione (Atti del II Congresso in-

Bibliografia

494 temazionale di studi di urbanistica), Vicenza 1978; Id., Puteali. Studi di storia antica. II. Forma e urbanistica di Pozzuoli romana, Napoli 1980; Id., Italia antica. !.:urbanistica romana, Roma 1987; M.M. Marini Calvani, Urbanizzazione e programmi

urbanistici nel settore occidentale della Cispadana romana, in «Caesarodunum», XX, 1985, pp. 369373; S. Santoro Bianchi, Alcune riflessioni su scuo­ le e tipologie urbanistiche nell'Italia centro-setten­ trionale, ivi, pp. 375-392; H. Hanlein-Schiifer, Ve­ neratio Augusti. Eine Studie zu den Tempeln des ersten romischen Kaisers, Roma 1985; M. Fuchs, Untersuchungen zur Ausstattung romischer Thea­ ter, Mainz 1987; G. Cavalieri Manasse (a cura di), Il Veneto nel!'età romana, II. Note di urbanistica e di archeologia del territorio, Verona 1987; J.:Italie d'Auguste à Dioclétien, Collezione dell'Ecole

Française de Rome, 198, Roma 1994; G. Cavalie­ ri Manasse, E. Roffia (a cura di), Splendida civitas nostra. Studi in onore di Antonio Prova, Roma 1994; AA.VV., Milano in età imperiale. I-III seco­ lo, Milano 1996; H.M. Parkins (a cura di), Roman Urbanism. Beyond the Consumer City, London­ New York 1997; E. Fentress (a cura di), Romani­

zation and the City. Creation, Transformation and Failures, in « Journal of Roman Archaeology», suppl. 38, Portsmouth 2000; M. Conventi, Città romane di fondazione, Roma 2004; G. Cuscito, M. Verzar-Bass (a cura di), Aquileia dalle origini alla costituzione del ducato lombardo. Topografia - ur­ banistica - edilizia pubblica, in «Antichità Altoa­

driatiche», LIX , Trieste 2004. Si vedano anche gli Atti del Convegno di Le­ rici, Studi Lunensi e prospettive sull'Occidente ro­ mano, La Spezia 1987, e gli Atti del Convegno di Trieste, La città nell'Italia settentrionale in età ro­

mana. Morfologie, strutture e funzionamento dei centri urbani delle Regiones X e XI, Trieste-Roma 1990.

L'URBANISTICA DELLE PROVINCE L'unico libro recente in cui si ha un approccio globale all'urbanistica romana d'età imperiale è il II volume dell'Architecture of the Roman Empire: An Urban Appraisal di W.L. Mac Donald, New Haven-London 1986. L'intento dell'autore è lo studio della «ossatura urbana» e delle «architettu­ re di passaggio», con una analisi dei principali ele­ menti del paesaggio urbano. Eccellente per quan­ to riguarda l'apparato illustrativo, questo libro, che tratta solo degli aspetti formali dell' urbanisti-

ca, contiene delle suggestive intuizioni. Restano sempre fondamentali i capitoli riguardanti le pro­ vince di J.B. Ward Perkins, Roman Imperia! Ar­ chitecture, Harmondsworth 1981. Si veda anche P. Gros, L'architecture romaine, I, Paris 20022; trad. it. !.:architettura romana, Mi­ lano 2000.

LE PROVINCE OCCIDENTALI

1. Urbanistica e urbanizzazione a) Studi di carattere generale riguardanti le Tre Gallie e l'Occidente romano. Non esistono opere di sintesi su questo argo­ mento, ma soltanto degli studi in cui alcuni aspet­ ti del problema sono stati affrontati in modo più o meno sistematico. Di recente si sono svolti mol­ ti convegni e colloqui che hanno avuto il merito di porre importanti problemi. In mancanza di meglio resta sempre utile il Manuel d'archéologie gallo-ro­ maine di A. Grenier, malgrado uno stato della do­ cumentazione piuttosto invecchiato e soprattutto malgrado i difetti di impostazione storica; si veda­ no in particolare il volume I, Généralités. Travaux militaires, Paris 1931 (il migliore della serie, re­ datto sulla base dei documenti di J. Déchelette) e il volume III, 1, I.:architecture. Les Monuments, Paris 1958. Tra le opere o articoli recenti vanno ri­ cordati: J.B. Ward Perkins, From Republic to Em­

pire: Reflections on the early provincia/ architectu­ re of the Roman West, in «JRS», 1970, pp. 1-19; M. Clavel, P. Leveque, Villes et structures urbaines dans l'Occident romain, Paris 1971, (recentemente riedito); Thèmes de recherches sur !es villes anti­ ques d'Occident, Atti del Colloquio di Strasburgo

del 1971 a cura di P.-M. Duval e E. Frézouls, Pa­ ris 1977; S.S. Frere, Town Planning in the Western Provinces, in «Romisch-germanische Kommission des DAI», 58, 1977 (Mainz 1979), pp. 87-103; I.:archéologie du paysage urbain, Atti del Colloquio di Parigi del 1979, in «Caesarodunum», XV, 1980; Archéologie urbaine, Atti del Colloquio di Tours del 1980, Paris 1982 (opera dal titolo prometten­ te ma di scarso interesse scientifico per la man­ canza di qualsiasi riflessione storica e per il carat­ tere troppo circoscritto dei lavori presentati); Géo­

graphie historique des villes d'Europe occidentale,

Atti del Colloquio di Parigi del 1981, Paris 1984; P.-A. Février, M. Fixot, Ch. Goudineau, Histoire de la France urbaine, I, La ville antique, Paris 1980 (opera ineguale: profondamente innovativa per

495

Bibliografia quanto riguarda gli stanziamenti protostorici; più discutibile per quanto riguarda l'urbanistica ro­ mana); F. Kolb, Die Stadt im Altertum, Miinchen 1984 (pp. 141-260: Die Stadt in der romischen

Welt); Les débuts de l'urbanisation en Caule et dans les provinces voisines, Atti del Colloquio di

Parigi del 1984, in «Caesarodunum», XX, 1985; R. Bedon, R. Chevallier, P . Pinon, Architecture et urbanisme en Caule romaine, 1. I.:architecture et la ville, 2. I.:urbanisme, Paris 1988; H.J. Schalles, H. Von Hesberg, P. Zanker, Die Romische Stadt im 2. ]ahrhundert n. Chr., Kéiln-Bonn, 1992; M. Cava­ lieri, Auctoritas Aedz/iciorum. Sperimentazioni ur­

banistiche nei complessi forum-basilica durante i primi tre secoli dell'impero, Parma 2002. b) Monografie regionali e locali (in questa sede menzioneremo soltanto le opere non rubricate nel­ la bibliografia dei capitoli successivi). Lyonnaise (bibliografia generale ad opera di R. Chevallier, in «ANRW», II, 3, Berlin-New York 1975, pp. 8601060) e Aquitaine: P. Wuilleumier, Fouilles de Four­ vières à Lyon, suppi. n. 4 a «Gallia», Paris 1951; A. Audin, Lyon, miroir de Rome dans !es Caules, Paris 1959; P.-M . Duval, Paris antique, des origines au Illème s., Paris 1960; Id., L'urbanisme romain à Lutèce et ses conséquences, in «Bulletin de l'Acadé­ mie d'architecture», LIX, 1971, pp. 42-49; A. Lom­ bar