Storia della letteratura greca [3 ed.]
 8858105648, 9788858105641

Citation preview

Biblioteca Storica Laterza

Luciano Canfora

Storia della letteratura greca

Editori Laterza

© 2001, 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it In «Storia e Società» Prima edizione 2001 Nella «Biblioteca Storica Laterza» Prima edizione 2008 Nuova edizione ampliata febbraio 2013

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Edizione 5 6

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0564-1

1

2

3

4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione SULLA LETTERATURA GRECA E SULLE SUE SORTI Ci sono i nomi dei re, dentro i libri Bertolt Brecht Domande di un lettore operaio

1. Nozione di letteratura greca e suoi limiti Una metrica raffinata e matura, quale quella che regola la poesia epica, ci fa capire in modo diretto e inequivoco che abbiamo a che fare, al cospetto dei poemi omerici e di Esiodo, con artisti dalla scaltrita tecnica. Solo una fantasia romanticheggiante poté immaginarli come ingenui, primitivi, e spontanei creatori. Del resto l’esperienza di varie civiltà dimostra che si conservano solo i prodotti delle età colte, o meglio delle epoche che i moderni intendono assumere come proprio antecedente. La metrica dei superstiti poemi epici greci «arcaici» è dunque un indizio della elevata civiltà letteraria del tempo in cui quelle opere sorsero. Allo stesso modo, le più remote strutture architettoniche testimoniano di una capacità matematica già avanzata. Metrica e matematica, quali ci appaiono nella loro concreta esplicazione (poesia esametrica e architettura), sono i due principali indicatori della civiltà greca nelle sue prime manifestazioni a noi note. Resta nondimeno la difficoltà che incontrano i moderni nel definire l’oggetto stesso di una storia letteraria greca. È la stessa nozione di «letteratura» che si rivela, all’analisi, piuttosto imprecisa. Già sul piano geografico. La nostra ricostruzione infatti finisce col presentare come oggettivo sviluppo storico, come una sorta di «marcia dello spirito» dalla Ionia ad Atene ad Alessandria, quello

VI

Introduzione

che in realtà è il risultato di un lungo processo di selezione compiutosi in un tempo lunghissimo, costruendo l’illusione ottica di tale «marcia». Nella «letteratura greca» rientrano, in verità, una pluralità di letterature di diversi ambiti geografici, note a noi in disuguale misura. Una pluralità di letterature di età fra loro differenti ed in cui mutano via via radicalmente i criteri di individuazione e i meccanismi di selezione di ciò che talvolta i moderni denominano «fatto letterario». Elemento comune è l’uso di una lingua letteraria greca, ma questa, a sua volta, non è rimasta sempre la stessa, anzi è giunta ad una certa unità soltanto a partire dall’epoca di Alessandro Magno ed ha poi attraversato, arricchendosi via via e trasformandosi, diverse civiltà letterarie, da Roma a Baghdad, per ricordare solo gli intrecci più vistosi. I testi epici raccolgono l’intero sapere dei «secoli oscuri» successivi al crollo dei palazzi micenei; l’organizzazione teatrale ateniese opera come meccanismo di selezione rispetto ad una produzione incessante e destinata al consumo immediato; la produzione letteraria delle capitali ellenistiche è destinata alla fruizione da parte di altri letterati in un quadro di distacco tra alta cultura e mediocre alfabetismo di massa; la letteratura tardo-antica e poi medievale fa perno sulla nuova capitale voluta da Costantino, sulla corte e sulle esigenze della burocrazia e della Chiesa; e infine la produzione di età umanistica non s’interrompe del tutto nemmeno con la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II, al cui servizio è infatti, ad esempio, lo storico bizantino Michele Critobulo, autore di Storie in perfetto stile tucidideo sulle gesta del conquistatore di Costantinopoli. Sono queste, in realtà, altrettante «letterature greche». Quello che muta, da un’età all’altra, è innanzi tutto la nozione di «fatto letterario»: da una fase in cui risulta tale ciò che approda ad una redazione scritta, ad una fase successiva nella quale la produzione scritta si moltiplica (si democratizza l’uso della scrittura) ed entrano in funzione meccanismi selettivi. Meccanismi che, a loro volta, mutano di epoca in epoca: ben poco, ad esempio, hanno in comune quelli di tipo etico-politico vigenti nel teatro attico, e quelli raffinatamente artistici e formali praticati dall’élite colta di Alessandria sotto i Tolomei o di Roma nell’età di Cicerone e di Augusto. Ma restiamo ancora per un momento all’età più arcaica e all’epica. È difficile fissare contorni precisi – trattandosi di una produ-

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

VII

zione di cui non ci è noto il contesto –, ma è lecito riconoscervi una prassi tendente a convogliare in grandi e complesse raccolte tutto il sapere (che è dominato, in quella fase storica, dal mito). Il libro o ‘enciclopedia’ «in cui c’è tutto» – da questo punto di vista l’epica greca arcaica è assimilabile all’Antico Testamento nel mondo ebraico – è dunque il risultato non già di una selezione nell’ambito di una produzione più ampia e varia, ma piuttosto il frutto dell’accorpamento di tutto quanto la tradizione aveva accumulato e messo per iscritto. 2. Letterati e pubblico Quando incomincia a praticarsi una selezione? Per lungo tempo la produzione «letteraria» in lingua greca, assolvendo appunto a quella funzione di serbatoio del sapere di cui si è ora detto, ha svolto compiti e corrisposto a tipologie che sono lontani dalla moderna nozione di «letteratura». Per secoli essa è consistita nella rielaborazione di quel bagaglio fondamentale. Con lo sviluppo del teatro ‘emanazione’ della polis, quale si afferma in Attica nel V secolo a.C., la situazione appare profondamente modificata. È proprio la macchina a tempo pieno del teatro attico che determina una massa tale di prodotti «letterari» da imporre – come nella contemporanea produzione figurativa – la distinzione tra artista e artigiano sulla base di giudizi di valore. Nella frequenza e spregiudicatezza con cui Aristofane si esprime intorno alla produzione teatrale contemporanea cogliamo appunto il riflesso di questa nuova situazione. È all’incirca in quell’epoca, al passaggio dal V al IV secolo, che incomincia ad avere un senso la distinzione tra ciò che è «letteratura» (prodotto elaborato e apprezzato da intenditori che ‘fanno lo stesso mestiere’) e ciò che non lo è o lo è in minor grado (ma ugualmente ha corso nella fruizione collettiva). La selezione preliminare che stabilisce cosa può essere rappresentato sulla scena e cosa non, e, dopo la rappresentazione, cosa vada premiato (seria ipoteca sulla futura conservazione dei testi teatrali) non è dovuta ad un comitato di intenditori, bensì alle inclinazioni del pubblico ed al giudizio di «funzionari» preoccupati di assecondare le preferenze del pubblico e, al tempo stesso, di influenzarlo politicamente. Incomincia così a prodursi quella insofferenza degli ‘esperti’ rispetto al giudizio pur decisivo degli ‘altri’, che

VIII

Introduzione

instaura il tradizionale dissenso dei ‘letterati’ rispetto alla comunità. Essi si sentono (anche se non sempre lo proclamano) più capaci di giudizio ed anche inadeguatamente apprezzati: donde le vere e proprie polemiche col pubblico su problemi di valutazione letteraria, di opere proprie e altrui, che Aristofane conduce, in varie sue commedie, specie se ferito da sconfitte che a lui paiono immeritate. Si sviluppa così una moderna, ma ancora imbrigliata da meccanismi etico-politici che la trascendono, nozione di «fatto letterario» legato essenzialmente alla padronanza di una consumata arte (tèchne). 3. La tradizione: da Atene ad Alessandria La svolta che si determina con l’età ellenistica è caratterizzata dal sorgere della coscienza di una tradizione e del ruolo, che i «moderni» hanno, di tramite di tale tradizione. È da allora che si incomincia sistematicamente a pensare il passato in termini di «tradizione» da serbare: un modo del tutto ‘moderno’, analogo al nostro, di considerare il passato, sentito ormai appunto come un’altra e diversa età, sotto ogni rispetto conclusa. La sopravvivenza stessa della letteratura greca di età classica è dovuta al costituirsi di questo modo di pensare ed al suo concretarsi in conformi comportamenti (ricerca, edizione, catalogazione dei testi) nei nuovi centri mondiali della politica e della cultura (Alessandria, Pergamo, Roma). Ma una tale operazione non avrebbe potuto aver luogo senza la «centralità» di Atene sviluppatasi nei due secoli precedenti. È infatti ad Atene che gli Alessandrini – sia i sovrani che gli studiosi – si sono innanzi tutto rivolti come alla fonte primaria cui attingere (onde nella tradizione si configura un vero e proprio legame personale tra Atene e Alessandria nella figura di dotti che hanno ‘portato’ ad Alessandria l’esperienza ateniese); ed è in Atene che si erano venute affermando esigenze di conservazione dei testi analoghe, anche se realizzate su scala ridotta, a quelle che saranno praticate in grande stile nella capitale tolemaica. Di questi due fenomeni è opportuno brevemente discorrere prima di procedere. Gli studiosi alessandrini dunque, spinti e sorretti dai loro sovrani (i primi tre Tolomei, il cui regno occupa complessivamente un secolo, dal 322 al 221), si rivolsero innanzi tutto ad Atene per acquisire i testi: talora con procedure disinvolte come il vero e proprio «furto» in virtù del quale il III Tolomeo, l’Evergete,

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

IX

si impossessò – a quel che narra Galeno – della copia ‘ufficiale’ ateniese dei tre grandi tragici. In realtà in nessun altro sito del mondo greco, probabilmente, avrebbe trovato una tale ricchezza di testi: ciò non significa, ovviamente, che nelle altre poleis e comunità greche (nella penisola, in Asia Minore, in Sicilia) non vi fosse ricchezza di testi degni della ‘caccia’ dei dotti alessandrini; significa che la elevata qualità della produzione ‘letteraria’ (scritta) accumulatasi ad Atene era, per loro, fuori discussione. Naturalmente essi cercarono anche altrove: e infatti le purtroppo scarse e scarne tradizioni che parlano di questa opera di raccolta si riferiscono ad una ricerca estesa «a tutto il mondo». D’altra parte, proprio per la sua straordinaria ricchezza (e consapevolezza di tale ricchezza) il mondo ateniese aveva cominciato da tempo a produrre forme di conservazione della propria produzione letteraria scritta. E ciò sia in relazione ai ‘bisogni’ di un pubblico non esiguo in grado di leggere e desideroso di leggere; sia come effetto dell’affermarsi di cerchie più o meno influenti, veri epicentri, nelle varie epoche della storia di Atene, della produzione letteraria. Sono, queste cerchie, gli ambienti intorno a cui si ‘addensa’ buona parte degli autori ed ai quali si deve una prima, preziosa, tutela e conservazione dei loro prodotti. Basti pensare ad alcuni esempi rilevanti: l’entourage di Pericle, nel cui ambito hanno operato Anassagora, Erodoto, Ippodamo di Mileto, Protagora, forse anche Tucidide; i «Socratici» (da Crizia, a Platone, a Senofonte); Platone e l’Accademia; Isocrate e la sua scuola; Demostene ed il suo mondo di scolari, collaboratori, seguaci ed eredi politici; Aristotele infine, promotore di una organizzazione (il Peripato) di cui una consistente biblioteca era parte essenziale, vero iniziatore del lavoro condotto su scala assai più vasta dagli Alessandrini. Tali cerchie non sono state affatto ‘incomunicanti’, si può anzi indicare un filo che le collega quasi ininterrottamente, il che ha rinsaldato la loro complessiva funzione di punto di forza nella tutela della tradizione. Tutto ciò significa anche – ma il tema può essere qui solo accennato – che, in una società come quella ateniese di tardo V e IV secolo, c’è stato un pubblico interessato alla lettura forse non amplissimo ma certo non irrilevante: lettura da intendersi non come modernistica fruizione solitaria. La conservazione della letteratura ateniese di età classica insomma non può essersi fondata, come pretenderebbe una visione troppo primitivistica, esclusivamente su una serie di esemplari unici fortunosamente conservatisi presso i di-

X

Introduzione

scendenti degli autori. Il che spiega, tra l’altro, la conservazione di tanti ‘effimeri’ discorsi dopo l’immediata fruizione assembleare o giudiziaria, e di intere collezioni di opere teatrali, o addirittura di più d’una versione dello stesso dramma.

4. Le prime fasi editoriali Ma in quali condizioni quel materiale approdò ad Alessandria? I guasti irreparabili si erano probabilmente già prodotti: causati, piuttosto spesso, dalla struttura oltremodo instabile dei manoscritti d’autore, di cui abbiamo un’idea concreta nel Fedro platonico, là dove Socrate descrive «il poeta» e «l’oratore» all’opera: «passano ore a rivoltare di su e di giù il loro scritto, incollando alcuni pezzi e tagliandone altri» (278DE). D’altra parte molte delle loro energie gli Alessandrini dovettero impiegarle nel risolvere difficili (spesso insolubili) problemi di attribuzione, dinanzi a migliaia di rotoli di opere oratorie, teatrali, epiche ecc., forniti spesso delle più arbitrarie o volutamente false indicazioni d’autore. Basti pensare allo sforzo classificatorio codificato nei 120 libri dei Pínakev di Callimaco ed alle numerose contestazioni delle sue scelte proprio nel campo delle attribuzioni che si trovano negli opuscoli di Dionigi di Alicarnasso sugli oratori attici. È opportuna, poi, una considerazione, la quale attenua l’entusiasmo con cui consuetamente si pensa all’efficacia del lavoro degli Alessandrini (e più in generale dei grandi centri di cultura di epoca ellenistico-romana). Essi hanno offerto un punto di riferimento solido, un «modello» di testo seriamente curato: in un contesto però che non necessariamente si lasciava regolare dall’esistenza di questi esemplari autorevoli. È erronea l’analogia che più o meno consapevolmente si istituisce con la situazione moderna: con l’efficacia, cioè, di una edizione, riconosciuta come autorevole, in un’epoca di comunicazione rapida e di riproduzione immediata in molte copie di un medesimo testo, qual è appunto l’epoca moderna. Il flusso delle copie – private e non – indifferenti all’‘autorità’ degli esemplari alessandrini proseguì senza soste in una realtà libraria ‘frantumata’ dalla natura stessa del sistema di copia, e inoltre caratterizzata da una forte separazione tra élites culturali e masse più o meno alfabetizzate. Semmai sono proprio i grandi centri di cultura a

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

XI

correre, di tanto in tanto, pericoli tali da mettere in crisi o annullare la loro influenza. È sintomatico ad esempio il quadro sconvolgente del modo di circolazione delle proprie opere fornito da Galeno (129-199 d.C.), il quale pure era vissuto – in un’epoca particolarmente colta e relativamente tranquilla come quella antonina – tra due grandi centri di cultura come Pergamo (dove era nato) e Roma (dove era stato vicinissimo al vertice politico e culturale dell’impero: fu medico personale di Marco Aurelio). Le manipolazioni di cui i suoi libri furono oggetto, vivo e operante l’autore, hanno indotto Galeno a comporre cataloghi ragionati dei propri scritti (I miei libri, Sull’ordinamento dei miei libri), il cui fine è di porre un freno all’inquietante fenomeno. Nella premessa al primo dei due opuscoli, Galeno descrive episodi di cui è stato direttamente testimone: «Ho visto nel Sandaliario, dove si trova la maggior parte delle librerie di Roma, alcune persone che discutevano se il libro che era in vendita fosse mio o di qualcun altro. L’intestazione era ‘Galeno il medico’. Uno, credendolo mio, lo voleva comprare, ma un letterato, colpito dalla stranezza dell’intestazione, volle analizzarlo più approfonditamente; appena lette le prime due righe gettò via il libro esclamando: ‘Questo non è stile di Galeno: questo libro ha una intestazione falsa’».

Né il fenomeno si limita alla capitale: i suoi libri – avverte Galeno – «ricevono svariate offese da parte di molti», «chi in un paese chi in un altro ne danno lettura come se fossero loro propri, facendo tagli, aggiunte e cambiamenti». Galeno stesso fornisce la spiegazione di un tale inconsulto arrembaggio: tutto dipende dal modo in cui, all’origine, i suoi scritti sono stati diffusi: «Erano stati dati ad amici e discepoli, senza intestazione, non erano destinati alla pubblicazione ma ad uso di quelli che li avevano richiesti come promemoria delle lezioni ascoltate. Alcune di queste persone sono morte, e coloro che sono venuti in possesso dei libri ne hanno dato lettura come se fossero loro [...] Col tempo questi individui sono stati smascherati e molti di quelli che in seguito acquistarono i libri vi misero sopra l’intestazione col mio nome e, trovando che discordavano dagli esemplari posseduti da altri, li portarono da me invitandomi a correggerli!».

XII

Introduzione

Piuttosto sconcertante è la notizia che Galeno fornisce subito dopo: di alcuni di questi corsi di lezioni Galeno non aveva più copia. Questa ricca testimonianza di uno dei maggiori autori del II secolo d.C. si può adattare benissimo alla circolazione libraria e alla ‘tutela’ della proprietà letteraria nell’Atene del V e IV secolo a.C. Basti pensare alla sorveglianza esercitata da Isocrate sulla circolazione dei propri opuscoli, all’elevato numero di orazioni attiche su cui già al tempo di Callimaco non vi era alcun accordo tra gli studiosi intorno all’attribuzione, nonché alla prudente decisione di Aristotele di non far uscire dall’ambito della scuola gli scritti più importanti (anche nel caso di Aristotele, come in quello di Galeno, si trattava di «appunti» dalle lezioni). 5. Inaridimento della cultura e trasformazione del libro Mentre Galeno era alle prese con il non facile problema di salvaguardare una collezione genuina delle sue opere, nuovi fattori – e di efficacia durevole – entravano in azione nel campo della conservazione dei testi ed il cambiamento investiva addirittura la forma materiale del libro. Si capisce che si tratta di processi molto lunghi. Da un lato l’inaridimento della cultura e della scienza – di cui l’atticismo ed il ripiegamento classicistico della «Seconda Sofistica» sono un aspetto –, dall’altro l’esigenza scolastica di selezionare nell’ambito di un patrimonio vastissimo. Nell’età severiana, al principio del secolo III d.C. per tanti versi distruttivo, questa tendenza si manifesterà in modo massiccio attraverso il pullulare di compendi, antologie, opere miscellanee (Ateneo, Clemente di Alessandria ecc.), che certo non hanno ancora la forma alquanto asfittica della grande Antologia di Stobeo (V sec. d.C.) ma ne rappresentano una premessa. Parallelamente all’affermarsi di questa spinta alla selezione viene mutando la forma stessa del libro. Al rotolo di papiro, che era la forma di gran lunga prevalente nel mondo greco, viene man mano ad affiancarsi il codice: il manoscritto modernamente costituito di fogli piegati e raccolti insieme, che sin dal primo momento si afferma incontrastato nella cultura cristiana (probabilmente per ragioni pratiche e per una volontà di differenziazione rispetto al libro non-cristiano). Le statistiche sono eloquenti, anche se vanno continuamente rifatte per le frequenti nuove scoperte. È stato calcolato da Skeat

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

XIII

e Roberts che su 172 frammenti di testi biblici, ben 158 provengono da codici e solo 14 da rotoli (alcuni dei quali sono rotoli riutilizzati sul verso). Invece nell’ambito dei testi cristiani non biblici il rapporto è già diverso: su 118 frammenti (14 di pergamena e 104 di papiro) ben 35 provengono da rotoli1. Sembra legittimo dedurre che non soltanto il codice è la forma del libro preferita dalla cultura cristiana ma anche che esso è strettamente collegato al canone dei libri «sacri». Il progressivo affermarsi del codice (a Roma già nel I secolo bene affermato) anche nella cultura non cristiana è dunque un aspetto dello scontro tra tradizionalismo e innovazione; ma sarebbe errato concepire questo scontro in forme troppo schematiche, per esempio come un conflitto tra «ceti», oltre che tra culture, ognuno col suo proprio ‘libro’: i ceti ‘umili’ legati al codice, le élites al rotolo. È del tutto comprensibile che il progressivo prevalere della cultura cristiana abbia comportato anche la progressiva prevalenza del codice; così come è comprensibile la resistenza che il tradizionalistico rotolo ha opposto soprattutto negli ambienti più legati alla vecchia cultura e più refrattari all’influenza cristiana (ad esempio nell’entourage senatorio di Simmaco e dei suoi amici, negli ultimi anni del IV secolo). Il ‘prestigio’ del rotolo dura così a lungo che ancora Agostino, il vescovo di Ippona, in un’epoca in cui il codice era ormai decisamente prevalente, si giustifica se adopera una lettera in forma di codice (Epistola 171). Una così lenta, e decisiva, trasformazione ha conseguenze profonde nella storia dei testi. L’innovazione (il nuovo libro) permea di sé mano a mano tutta la società. Ma, proprio perciò, quello che resta fuori è destinato a scomparire. I testi che per una qualche ragione (poco interesse, consapevole rifiuto, carenza di esemplari da assumere come modelli ecc.) non furono copiati su codice certo ebbero poche chances di sopravvivere (tranne quella, del tutto aleatoria, di ‘sopravvivere’ sepolti sotto le sabbie egiziane). 6. Riorganizzazione tardo-antica e tradizione bizantina Trascorsa la bufera del III secolo, riorganizzato l’impero su basi nuove – burocratiche e cristiane –, nella seconda metà del IV secolo d.C. è ormai solidamente attrezzata una nuova istituzione, la Biblioteca imperiale di Costantinopoli, nuova capitale dell’impero: molto delle sorti dell’antica letteratura è affidato a tale istituzione.

XIV

Introduzione

Il pericolo di gravi perdite nel patrimonio dell’antica letteratura è avvertito: nel momento in cui Costanzo II progetta l’impresa (357 d.C.), Temistio in un panegirico all’imperatore segnala il pericolo. La legge imperiale dell’8 maggio 372 dispone che la Biblioteca di Costantinopoli sia dotata di quattro scriptores greci e tre latini (Codex Theodosianus, XIV, 9,2): ciò significa tra l’altro che, per lo meno inizialmente, l’ambizione della nuova istituzione imperiale è stata di salvaguardare il patrimonio sia greco che latino. Non è casuale che all’incirca nello stesso periodo, secondo una notizia di Ammiano Marcellino, le biblioteche di Roma siano addirittura chiuse (XIV, 6,18). Da quest’epoca in poi le sorti della letteratura greca sono legate, per un millennio, a quelle dell’impero bizantino. Della lunga e tortuosa vicenda è opportuno ricordare alcuni caratteri ed alcune tappe. È fuori discussione il ruolo preponderante svolto dalla capitale, come sede dell’imperatore e del patriarcato, ma è da tener presente l’esistenza di biblioteche monastiche in varie regioni dell’impero, dalla Morea all’Asia Minore (a parte la vitalità di centri di copia di opere greche fuori dell’impero, ad esempio in Italia meridionale). In alcuni momenti – particolarmente al tempo della «quarta crociata» (1204) risoltasi anziché nella liberazione del Santo Sepolcro nella formazione di un impero «latino» a Costantinopoli – l’esistenza e la creazione di altri centri fuori della capitale si è rivelata preziosa. In secondo luogo è da considerare la natura tutta particolare dello iato costituito dai cosiddetti secoli «bui» (VII e VIII): dell’epoca cioè che va dalle lotte combattute da Eraclio contro Persiani, Avari, Arabi al dilaniante conflitto iconoclastico. La Biblioteca imperiale ha attraversato questa bufera, ha conosciuto l’abbandono e anche il vandalismo, inevitabile corollario della lotta tra fanatici: la sua ininterrotta esistenza – non è superfluo ricordarlo – non garantisce affatto la ininterrotta conservazione dei suoi tesori, messi a durissima prova in quei secoli di ferro e di fuoco. Fuoco in senso letterale, se si pensa che l’altra importante biblioteca di Costantinopoli, quella del patriarcato, fondata sotto il patriarca Sergio (610638 d.C.) secondo una notizia di Giorgio Piside (carme 46), dopo circa un secolo, nel 726, fu incendiata nel pieno delle lotte tra adoratori e odiatori delle immagini: un cronista di molti secoli dopo, Zonara, ricorda la perdita, in quell’incendio, di alcuni commenti di Giovanni Crisostomo alle sacre scritture (XV, 12,1). Va da sé che,

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

XV

successivamente, la Biblioteca patriarcale è risorta: in un esemplare di Platone copiato intorno all’anno 900 (è il manoscritto Vaticano greco 1) lo scoliasta avverte di aver riscontrato diverse lezioni «nell’esemplare del patriarcato». Dunque dopo l’incendio del 726 nuovi libri sono entrati a farne parte. Dopo siffatti traumi e interruzioni la tradizione ha un nuovo inizio anche quando l’istituzione (in questo caso la Biblioteca patriarcale) resta la medesima. Ma fenomeni distruttivi non vanno attribuiti esclusivamente a quei due terribili secoli: roghi di libri «pagani» ispirati dalla politica religiosa iper-ortodossa di Giustiniano si consumano a Costantinopoli già nell’anno 562 (Malala, p. 491 ed. Dindorf). Sintomo di un indirizzo poco favorevole alla conservazione dei classici, nel quale era maturata, trent’anni prima (529), la chiusura, sempre ad opera di Giustiniano, della «scuola» neoplatonica di Atene, punto d’incontro, nel IV secolo, di «studenti» d’eccezione di diverse «fedi» quali Imerio, Libanio o Gregorio di Nazianzo. 7. Dalla controversia iconoclastica alla rinascita foziana Proprio dalle lotte iconoclastiche nondimeno emersero elementi di ripresa culturale. Nell’anno 814 Giovanni il Grammatico, più tardi patriarca iconoclasta di Costantinopoli, venne incaricato dall’imperatore Leone V di cercare «dovunque gli antichi libri, conservati nei monasteri e nelle chiese», al fine, evidentemente, di accumulare testi da raccogliere in un florilegio iconoclasta, che infatti fu allestito per il Natale di quell’anno2. Che questa campagna abbia agevolato una prima «rinascita» si può ricavare dal fatto che proprio a quegli anni (813-820 circa) risalgono alcuni manoscritti, tuttora conservati: esemplari di Tolomeo e del commento di Teone e Pappo all’Almagesto di Tolomeo (Laurenziano 28.18). Dunque forse già con la «caccia» ai vecchi libri promossa da Giovanni il Grammatico si è rimesso in movimento il meccanismo di ricerca e conservazione dei «vecchi libri», che avrà il suo pieno sviluppo, sconfitti ormai gli iconoclasti, sotto l’impulso di uomini come Fozio (patriarca due volte tra l’858 e l’886), Areta (circa 850-944), Costantino VII (913-959). L’antica letteratura viene ora trascritta in nuovi esemplari, e nella ‘nuova’ scrittura, la minuscola, assurta ormai, definitivamente, alla dignità di scrittura libraria. Anche questa volta, come al tempo del passaggio su codi-

XVI

Introduzione

ce, tutto ciò che non viene trascritto nella forma moderna (cioè in minuscola) è destinato ad essere dimenticato ed a scomparire. Oltre ai preziosi manoscritti sui cui margini si riconosce la mano di Areta (Platone, Euclide, Luciano, Elio Aristide ecc.), due opere soprattutto rappresentano, in modo emblematico, quest’epoca vitale al pari della coeva fioritura di cultura greca nel califfato di Baghdad: la Biblioteca di Fozio – che dà conto delle letture del dottissimo patriarca e della sua cerchia, e gli Estratti promossi da Costantino VII (dei complessivi 53 volumi sono giunti a noi solo 4), preziosa selezione di testi storiografici all’epoca di Costantino VII ancora disponibili per intero (Polibio, Diodoro, Nicola Damasceno ecc.). Il quadro della letteratura che Fozio dichiara di aver «letto» è imponente. Nei 280 capitoli della sua raccolta, egli tratta 147 opere di argomento profano e 239 di ambito cristiano e anche ebraico: in buona parte opere non giunte a noi, ovvero giunte in parte. Fozio leggeva essenzialmente prosatori. Quasi tre secoli dopo di lui Giovanni Tzetzes (vissuto all’incirca tra il 1110 e il 1185) – il quale oltretutto non era, come Fozio, un beniamino dei potenti ma piuttosto un povero «grammatico» costretto a guadagnarsi da vivere – leggeva l’opera (per lo meno il I libro) di Ipponatte (il giambografo del VI secolo a.C. del quale noi abbiamo solo poche decine di versi sparse in varie citazioni) e attingeva ad erudizione di alto livello (per noi perduta) quando, ad esempio, componeva il trattato Sulla commedia. Peraltro in una lettera (Ep. 58), Tzetzes dichiara di cercare un libro introvabile, la Storia Scitica di Dexippo (III sec. d.C.), che invece Fozio (codice 82) dichiara di aver letto, e che evidentemente si era persa nel frattempo. 8. La fine. Linee direttive della conservazione dei testi greci La crisi deleteria venne con l’occupazione di Costantinopoli da parte dei «crociati» (1204) e con il loro effimero e incolto «impero latino» (1204-1261). Trasferita a Nicea la sede imperiale, i sovrani bizantini non mancarono di istituirvi varie biblioteche per la pubblica lettura (lo sappiamo dalle aggiunte di un cronista bizantino, Teodoro Scutariota, alla Cronaca di Giorgio Acropolita). Né mancarono sedi ‘periferiche’ nelle quali proseguire il lavoro erudito. Nel 1259, negli ultimi tempi dell’«impero latino», Guglielmo di Moer-

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

XVII

beke porta a termine, a Tebe, in Beozia, la traduzione del trattato aristotelico Ricerche sugli animali (lo dice lo stesso Guglielmo in una nota posta al termine della sua traduzione): non sarà stato un lavoro eccessivamente complesso, ma certo doveva comportare la presenza, nella perifericissima Beozia, di una qualche raccolta di autori classici. Tornati alfine nella capitale, vittoriosi contro gli odiati «Latini», i sovrani bizantini ressero in realtà uno Stato via via sempre più piccolo e sempre più vassallo del potente vicino Ottomano: finché Maometto II si risolse ad occupare senz’altro la splendente capitale dell’impero ormai scomparso. L’assedio di Bisanzio durò oltre due mesi (aprile-maggio del 1453): il sacco, promesso ai soldati ottomani quando il loro morale era basso dinanzi alla città imprendibile, durò tre giorni e tre notti e comportò la distruzione di opere d’arte e manoscritti preziosi che avevano sino ad allora potuto sfidare le ingiurie del tempo. Già prima di questa fine traumatica, dotti bizantini avevano portato in Occidente (Palermo, Messina, Napoli) copie di testi greci e dotti occidentali avevano commissionato o acquistato manoscritti greci a Costantinopoli (dalle lettere di Giovanni Aurispa apprendiamo che il dotto siciliano e professore di greco a Bologna portò in Italia, dopo vari viaggi nella capitale bizantina, ben 238 codici greci); altri testi passarono in Occidente, al seguito dei fuggiaschi, con la caduta di Bisanzio; verso la metà del Quattrocento la Biblioteca Vaticana possedeva già circa trecentocinquanta manoscritti greci. Così la conoscenza della letteratura greca faceva il suo ingresso nell’Umanesimo occidentale. Qualcosa era rimasto a Bisanzio nonostante la quasi completa distruzione delle Biblioteche nei giorni del sacco: ma l’ipotesi che nella Biblioteca del Serraglio di Istanbul siano rimasti avanzi della collezione di codici del patriarcato è scarsamente fondata. Ovviamente non tutto quello che si è perso è scomparso nel trauma finale. Così ad esempio difficilmente potremo accertare – come ha scritto Paul Maas – «quando e dove sia stato roso dai topi l’ultimo manoscritto di Saffo o di Menandro», sebbene – osservava argutamente – «di tali avvenimenti sia fatta la storia della perdita della letteratura greca». Ciò che invece possiamo fare è cercare di capire quali forze, o meglio quali indirizzi o ‘programmi’ abbiano favorito, pur nel generale progressivo deterioramento, il salvataggio di alcuni testi a preferenza di altri (una «selezione» profilatasi già prima del disa-

XVIII

Introduzione

stro del 1453). Una tale rassegna ci consentirà di renderci conto, sia pure attraverso un quadro sommario, di che cosa propriamente sia – in quali autori e raccolte consista – la superstite «letteratura greca». Ciò che in sostanza è stato ‘messo in salvo’ è una enciclopedia del sapere pensata in funzione dell’interesse dei «moderni». La massima attenzione è stata rivolta agli scrittori tecnici (medici, grammatici, tattici, geografi, retori ecc.), agli scienziati (matematici, astronomi), ai filosofi (compreso Plutarco ed il colossale corpus dei commentatori di Aristotele), agli storici (una catena quasi ininterrotta che giunge – inglobando la fiorentissima storia ecclesiastica – fino all’età ‘moderna’), agli oratori (dagli attici, all’ammiratissima seconda sofistica compreso Luciano), alle vaste collezioni quasi complete degli oratori sia pagani che cristiani del IV secolo, agli epistolografi, alle grandi opere di compendio, miscellanee (Ateneo, Eliano, Diogene Laerzio, Stobeo ecc.), alla straripante patristica. In tutti questi settori del sapere i testi dell’antica letteratura greca rappresentano in genere soltanto il principio, i primi tasselli, della raccolta superstite: e, quantitativamente, la minore o minima parte. E in genere vi è un criterio, nel processo di selezione e conservazione: di Teofrasto, ad esempio, si conservano le opere botaniche e mineralogiche, che ‘completano’ per così dire l’enciclopedia aristotelica, non già le opere che riesponevano, in sostanza, il pensiero di Aristotele. Allo stesso modo nell’enciclopedia scientifica Diofanto fornisce la teoria dei numeri, mentre la geometria piana e quella solida sono ‘coperte’ da Euclide, Archimede, Apollonio di Perga: di Euclide mancano le Coniche, ma ci sono i 4 libri di Conoidi di Apollonio di Perga (non tutti e 7, ma solo quelli che lo stesso Apollonio in prefazione definiva trattazione elementare). Uno spazio rilevantissimo lo occupano gli scrittori tecnici: dalla collezione dei «retori greci», ricostruibile attraverso una serie di splendidi manoscritti – nella quale antichi trattati (Ermogene, Tiberio retore ecc.) e produzione bizantina (Gregorio di Corinto ecc.) si susseguono in una quasi continua serie – ai 25 libri (sugli originari 70) di Oribasio, il medico di Giuliano l’«Apostata», dai grammatici ai geografi (Strabone, Tolomeo, i cosiddetti «geografi minori») ai tattici (la cui collezione – costituita dal codice Laurenziano 55.4 allestito con tutta probabilità per Costantino VII – include al solito, i ‘classici’ a partire da Enea Tattico, fiorito alla metà circa del IV secolo a.C., ma anche via via i moderni, fino ad Urbicio, il tattico del VII secolo d.C. coevo dell’imperatore Maurizio).

Sulla letteratura greca e sulle sue sorti

XIX

In questo quadro uno spazio assai ristretto è stato riservato alla poesia. Nella selezione superstite dei testi poetici il massimo spazio è riservato all’epica (Omero, Esiodo, Apollonio Rodio, Quinto Smirneo, Nonno), al teatro (i trentatré drammi dei tre tragici e le undici commedie di Aristofane), all’epigramma (i 16 libri dell’Antologia greca e i 7 di quella redatta nel 1299 da Massimo Planude, detta perciò Planudea, solo in parte collimante con l’altra3). Fuori di questi tre grandi generi abbiamo manoscritti contenenti Inni (quelli «omerici», i sei di Callimaco e pochi altri di «Orfeo» e di Proclo) e manoscritti contenenti i Bucolici (Teocrito, Bione, Mosco). Della lirica arcaica si salvarono gli Epinici di Pindaro e la silloge teognidea; della tragedia ellenistica l’Alessandra di Licofrone. Ci troviamo dunque di fronte ad una scelta ‘minima’; e possiamo anche rilevare che certe perdite debbono essere sopravvenute tardi: se Tzetzes leggeva ancora Ipponatte, Michele Coniate, uno scolaro di Eustazio che con l’arrivo dei «Latini» nel 1204 si rifugiò nell’isola di Ceo, poteva annoverare gli Aitia di Callimaco tra le proprie letture preferite. I Bizantini hanno insomma conservato, cioè continuato a copiare e a studiare, soprattutto quegli autori e quelle discipline che continuavano ad essere vitali nell’ambito della loro enciclopedia del sapere: il pensiero platonico e quello aristotelico furono il nutrimento e la base della loro filosofia (come accadrà del resto nell’Umanesimo occidentale), i «retori» furono per loro uno strumento di lavoro continuamente rielaborato in nuove trattazioni che si uniscono alle più antiche; la storiografia antica da un lato è fondamento per un sapere pratico (la diplomazia, la tattica, ecc.) e dall’altro modello di ogni successiva storiografia. E quanto alle scienze, infine, essi hanno ritenuto che fosse già appagante tutelare e conservare i risultati cui era pervenuto il pensiero antico. Note Th.C. Skeat, C. Roberts, The Birth of the codex, Oxford Univ. Press, 1985. Vita di Leone Armeno, in Patrologia Graeca, vol. CVIII, coll. 1025-1028. 3 In questi due grandi ricettacoli sono confluiti materiali provenienti da sillogi formatesi nelle epoche precedenti, da quella di Meleagro di Gadara a quella di Filippo di Tessalonica. 1 2

STORIA DELLA LETTERATURA GRECA

L’EPICA ARCAICA

I EPICA OMERICA 1. L’«Iliade» La cultura europea incomincia con l’Iliade e con l’Odissea1, i due poemi epici in ventiquattro canti ciascuno che la tradizione consolidatasi nel mondo greco attribuiva ad un autore chiamato Omero. E incomincia con la rissa per il possesso di una schiava. L’Iliade non narra né l’intera, decennale, guerra troiana né la conclusione di tale guerra. Ne racconta un episodio cruciale, che si svolge in una cinquantina di giorni non molto avanti la conclusione della guerra: l’ira di Achille, provocata da un torto inflittogli da Agamennone, le sue drammatiche conseguenze (ritiro dell’eroe dal combattimento e inatteso travolgente successo dei Troiani), la sua risoluzione. Muore in battaglia l’amico più caro di Achille, Patroclo, ritorna sterminatore Achille nella battaglia e uccide Ettore, il massimo eroe troiano, con i cui solenni e tragici funerali si chiude il poema. È difficile immaginare una più compatta, unitaria e originale selezione della materia rispetto a quella che l’autore dell’Iliade ha operato nella monumentale tradizione intorno alla guerra troiana. È la crisi dell’esercito invasore che viene colta nel momento della sua maggiore gravità. Crise, sacerdote di Apollo, si reca da Agamennone, munito di insegne sacre e di un immane riscatto, per riavere la propria figlia Criseide prigioniera di Agamennone, ma ne viene brutalmente scacciato. Questo esordio trova una perfetta rispondenza nell’ultimo libro, dove Achille – l’antagonista di Agamennone – accoglie Priamo venuto a riscattare il cadavere di Ettore. Dal maltrattamento inflitto a Crise deriva, immediata, la punizione che Apollo, divinità favorevole ai Troiani, infligge ai Greci: la peste. A placare il dio non bastano

4

L’epica arcaica

ecatombi: ci vuole, come spiega Calcante, l’indovino, dinanzi all’assemblea convocata su iniziativa di Achille, la restituzione di Criseide. Dalla furiosa contesa tra Achille, che protegge Calcante, e Agamennone, che lo aggredisce con «le viscere piene di furore e gli occhi lampeggianti di fuoco», scaturisce il colpo di scena da cui si sviluppa la successiva azione: Agamennone pretende, come risarcimento, la schiava più cara ad Achille, Briseide, e l’ottiene valendosi di un’autorità che evidentemente gli compete pur nei confronti di un eroe e «capo di popoli» come Achille (il quale peraltro ha la facoltà di convocare lui l’assemblea plenaria sotto l’incalzare della peste). Il ritiro sdegnato di Achille che abbandona per ripicca il combattimento segna di sé tutto lo sviluppo successivo degli avvenimenti: anche quando il racconto sembra disperdersi in rivoli particolari o in episodi marginali pesa su tutta la vicenda l’anomalia dell’assenza, dal campo di battaglia, del più forte eroe greco. Tale anomalia ha le più varie conseguenze fino a quella estrema: che cioè di quell’assenza resta vittima proprio il più caro amico di Achille (libro XVI). È lì la svolta (invano nel IX libro una ambasceria bene assortita di capi greci era venuta ad implorare Achille di tornare in battaglia): è solo la lacerazione irreparabile della morte dell’amico che scuote Achille, l’irremovibile. D’altronde sul piano narrativo non ci poteva essere altra ‘via d’uscita’ per indurre Achille ad un ripensamento, per smuoverlo dalla sua ‘guerra personale’ contro Agamennone. Sia pure con solenni volute (un intero libro, il XVIII, è dedicato alle nuove armi di Achille) la narrazione precipita ora verso la conclusione tragica della fine di Ettore (libro XXII): consapevole del suo destino di morte e, tratto all’ultimo duello, umanamente preso da terrore di fronte al suo fatale avversario: «Come lo vide, spavento prese Ettore, non seppe più attenderlo fermo, si lasciò dietro le porte e fuggì [...]. Tremò Ettore sotto il muro dei Teucri e moveva rapidamente i ginocchi» (XXII, 136-144). La conclusione del poema – che termina con il compianto per Ettore – sembra svelare un’ottica ‘di parte troiana’. Ed è una conclusione coerente con la singolare ‘profezia’ ex eventu (XX, 302308) che Posidone formula per Enea: «destino è per lui di salvarsi [...]. Già il Cronide ha preso ad odiare la stirpe di Priamo, ora la forza di Enea regnerà sui Troiani e i figli dei figli e quelli che dopo verranno». Profezia in tutto simile a quella dell’Inno ad Afrodite (vv. 196199, cfr. pp. 35 sg.) che ha indotto a pensare ad un poeta vissuto

I. Epica omerica

5

nella Troade, alla corte di una dinastia che si pretendeva discendente di Enea; ad un poeta che – come lo descrive Giambattista Vico distinguendolo dall’autore dell’Odissea – «cantò la guerra troiana fatta nel suo paese». 2. L’«Odissea» L’Odissea ha una struttura più ‘moderna’, che ne fa, per molti versi, il testo-capostipite del romanzo antico e moderno. È uno dei nòstoi, dei «ritorni» degli eroi achei da Troia, il ritorno di Odisseo ad Itaca. È anche l’ultimo e il più tormentoso ‘ritorno’: al principio del poema Odisseo è ancora ben lontano dalla meta, mentre – osserva il poeta in apertura del suo canto – «tutti gli altri, quanti evitarono l’abisso di morte, erano a casa, scampati dalla guerra e dal mare» (I, 11-12). Diversamente dall’Iliade, che isola un episodio – sia pure cruciale – e non chiarisce, né lascia intendere, quanto esso ‘disti’ dalla definitiva conclusione della guerra, l’Odissea porta a compimento l’intera vicenda, fino al ritorno dell’eroe ed alla sua vendetta. E la narra tutta per esteso, attraverso l’ingegnosa (e fortunata) escogitazione del racconto di Odisseo ai Feaci. E la iscrive chiaramente nella serie degli altri «ritorni». Ciò è chiaro dall’immediato riferimento al ritorno di «tutti gli altri, quanti evitarono l’abisso di morte»; ed anche dalla scena iniziale, nella quale gli dèi sono radunati a banchetto nella «sala di Zeus» e Zeus parla per primo e rievoca la tragica fine di Egisto (I, 28-43), e suggella sentenziosamente quella truce vicenda – che brevemente rievoca – osservando che i mortali fanno risalire agli dèi la causa dei loro mali «mentre invece per i loro folli delitti contro il dovuto hanno dolori». Ciò significa probabilmente che, nella successione contenutistica e forse anche recitativa, l’Odissea teneva dietro al nòstos di Agamennone. (Su questo punto torneremo, cfr. p. 31.) Ovviamente il richiamo esordiale ad Egisto ed alla fine tragica di Agamennone, ucciso dalla propria moglie Clitennestra e dal suo complice Egisto, fa risaltare la ben diversa vicenda che sta per essere narrata, quella di Odisseo e della fedele Penelope, invano assediata dai «pretendenti» (proci). È un motivo che viene ripreso anularmente alla conclusione del poema: nell’Ade l’ombra di Agamennone rievoca all’ombra di Achille la propria triste storia, poi sopraggiungono le anime dei «pretendenti», ormai uccisi da Odisseo,

6

L’epica arcaica

e quella di Anfimedonte narra l’accaduto ad Agamennone, il quale conclude la scena esaltando la felicità di Odisseo e la fedeltà di Penelope e le oppone alla propria tragedia (XXIV, 192-202). Anche qui, come nell’Iliade, inizio e chiusa si corrispondono. Così come si riecheggiano molto chiaramente il primo verso e le parole con cui – alla fine del poema – Odisseo parla a Penelope subito dopo il riconoscimento (XXIII, 267). Da quel concilio degli dèi si mette in moto l’azione, fino a quel momento bloccata. Odisseo è nell’isola di Ogigia, nella ‘prigione dorata’ della ninfa Calipso, che lo vorrebbe per sé; Itaca intanto, l’isola lontana dell’eroe, è in preda ai «pretendenti» di Penelope, sposa fedele di Odisseo. Posidone, odiatore di Odisseo, non c’è; è tra gli Etiopi a godersi un’ecatombe di buoi e di agnelli. E Atena ne approfitta per intercedere presso Zeus affinché Calipso liberi l’amato prigioniero; ottenutone l’assenso, appare, ad Itaca, a Telemaco, figlio di Odisseo, sotto le sembianze di Mente, re dei Tafi. Atena induce Telemaco a mettersi in mare alla ricerca di notizie su Odisseo presso Nestore e presso Menelao. Così si mettono in moto i due fili del racconto: si congiungeranno alla fine, con l’incontro tra Odisseo e suo figlio. A ‘liberare’ Odisseo da Calipso si reca Ermes. La ninfa è sola ad accogliere il messaggero divino, perché Odisseo «sulla spiaggia piangeva, seduto là dove sempre, [...] e al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime» (V, 82-84). Calipso «rabbrividisce» all’annunzio divino, ma vi si rassegna. Con l’aiuto della ninfa, Odisseo parte su di una zattera ben fornita. E quando è in vista dell’isola dei Feaci («dove gli è fato sfuggire al termine grande di pianto che lo minaccia»: V, 288), Posidone, rientrato dal paese degli Etiopi, gli suscita contro una tempesta che lo sospinge tuttavia, sia pure naufrago dall’orrido aspetto, nell’isola termine dei suoi mali (fine V libro). È qui, nella rasserenante e quasi utopica isola, che Odisseo – la cui vista affascina Nausicaa, figlia del re Alcinoo (libro VI) – narrerà l’intera sua peripezia (libri IX-XII). Questo racconto costituisce una enorme digressione, che informa su tutti i precedenti. È una tecnica narrativa che avrà molta fortuna. Ciconi, Lotofagi, Ciclopi, Lestrigoni, Circe, i Cimmeri, la discesa nell’Ade, le Sirene, i buoi del Sole divorati dagli incauti compagni, l’approdo solitario ad Ogigia: queste le tappe del celebre racconto. Dall’isola dei Feaci Odisseo riparte per Itaca, dove giunge parallelamente a Telemaco. Segue l’incontro tra i due e l’accordo per sterminare i «pretendenti» di Penelope installatisi nella reggia di

I. Epica omerica

7

Odisseo (XIII-XVI), l’arrivo in città di entrambi (XVII-XVIII), l’incontro con Penelope (XIX), la gara dell’arco, la strage, il riconoscimento dei due sposi (XX-XXIII). L’ultimo libro (XXIV) narra la lotta con le famiglie dei prìncipi massacrati da Odisseo e la riconciliazione sotto gli auspici di Atena. Questo finale ‘protratto’ completa il racconto oltre la già conclusiva strage dei «proci». Non solo viene narrato l’incontro fra Odisseo e Penelope, che si svolge mentre ancora nella sala dove è avvenuto l’eccidio giacciono i corpi dei «proci» trucidati, ma anche la discesa delle anime dei «proci» nell’Ade, e l’incontro di Odisseo con Laerte: e soprattutto la battaglia, breve e risolutiva, con cui il racconto finalmente si conclude. Un tale finale ‘protratto’ ha una necessaria funzione di ‘compimento’ del nòstos. È probabile che fosse tipico dello schema dei nòstoi un racconto che fornisse il quadro completo del ‘reinserimento’ dell’eroe nel suo mondo di partenza; o della sua tragica rovina, come era accaduto ad Agamennone. Se poi si considera che i racconti relativi ai nòstoi non riflettono soltanto le vicissitudini degli eroi scampati alla lunga guerra troiana, ma anche la crisi dei regni micenei dovuta a quella guerra ed al necessario indebolimento dell’autorità monarchica per la lunga assenza dei prìncipi, allora tanto più si comprende perché l’Odissea non narri soltanto il massacro dei «proci» ma anche la pericolosa crisi politica che tale massacro poteva produrre. Tale crisi costituisce l’estremo episodio ‘guerresco’ del poema: una piccola appendice guerresca che può mettere in serio pericolo la vita del protagonista, quando tutto sembrava invece ormai concluso. È un tipo di finale ‘protratto’ che avrà fortuna, e sarà modello per i successivi narratori. Un esempio insigne è il racconto erodoteo delle guerre persiane, che prosegue oltre la disfatta dell’armata di Serse. Analoga tecnica narrativa ritroveremo nell’Anabasi di Senofonte: anche qui, dopo un lungo, tortuoso e perigliosissimo «ritorno» che ha a modello l’Odissea. 3. Odisseo eroe moderno L’Odissea si sviluppa intorno a una scelta che il protagonista dichiara al suo primo apparire circa alla metà del V libro. Nel momento in cui lo lascia andare, ma con rimpianto, Calipso osserva: «qui rimanendo con me, la casa mia abiteresti e immortale, benché

8

L’epica arcaica

tanto bramoso di rivedere la sposa, che sempre invochi ogni giorno. Eppure, certo, di lei mi vanto migliore quanto a corpo e figura» (V, 209-211). Odisseo replica: «So anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non vale niente a vederla: è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza. Ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il giorno del ritorno» (V, 215-220). Queste sono di fatto le prime parole che Odisseo pronuncia, a parte l’iniziale sospettosa reazione alla notizia improvvisa della sospirata partenza. Odisseo è in una prigione dorata ma non si lascia prendere dalla lusinga dell’immortalità promessagli da Calipso: «la notte dormiva sempre per forza, nella cupa spelonca, nolente, accanto a lei desiderosa, ma di giorno seduto sopra le rocce sulla riva [...] al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime» (V, 154-158). Nella notte dell’addio, quando Calipso gli concede la partenza, «entrando sotto la grotta profonda l’amore godettero, stesi vicino» (vv. 226-227), ma al mattino è Calipso, rivestita di «un manto candido, sottile, grazioso», che collabora con Odisseo nel costruire la zattera, e «al quinto giorno lo fece partire dopo averlo lavato e vestito di vesti odorose» (vv. 263-264) «e un vento mandò propizio e piacevole» (v. 268). Sul tormentato cammino di Odisseo felicemente naufrago tra i Feaci, appare di lì a poco Nausicaa. Prima di scomparire dal racconto Nausicaa dirà in modo giovanilmente irruento ad Odisseo, che aveva sognato di sposare: «Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri non scordarti di me, perché a me per prima devi la vita» (VIII, 461-462) e Odisseo non saprà far altro che promettere: «Anche laggiù, come a un dio, a te farò voti sempre ogni giorno: tu mi hai fatto vivere, fanciulla». Alla fine del poema Odisseo stenta a farsi riconoscere da Penelope, che lo ha atteso perplessa («Lei non rifiuta le nozze odiose – aveva detto di lei Telemaco nel I libro [vv. 249-251] – e nemmeno ha coraggio di compierle; e intanto questi banchettando rovinano la mia casa»). La prova del letto, il racconto di come egli stesso lo avesse costruito, fuga ogni dubbio, e finalmente Penelope parla allo sposo ritrovato: ritrovato appunto – come si esprime – «alla soglia della vecchiaia» senza aver potuto «godere la giovinezza» (XXIII, 211-212). Ma a Penelope che già si rallegra, subito Odisseo annuncia che «ancora alla fine di tutte le prove non siamo giunti, ancora mi resta smisurata fatica, lunga, aspra, che tutta devo compiere» (vv. 248-

I. Epica omerica

9

250): dovrà rimettersi in mare finché non raggiungerà genti che non conoscono il mare, non mangiano cibi conditi col sale, non sanno di navi e «morte dal mare [gli] verrà», «molto dolce che deve uccidermi – precisa – vinto da serena vecchiezza» (vv. 269-283). È tornato solo per ripartire, e questa figurazione resterà potente nella seguente immaginazione poetica, e si caricherà di significati moderni, come moderno è Odisseo, l’eroe che «ha visto» le città di molti uomini, ma deve, insaziabile, continuare a «vedere». E sarà all’origine della leggenda dell’ultimo rovinoso viaggio: quello intrapreso quando lui e i suoi compagni erano «vecchi e tardi», ma intolleranti del focolare domestico. Questa complessità dell’analisi psicologico-affettiva caratteristica dell’Odissea, questa gamma di amori dolenti ed incompiuti sono un segno della distanza che vi è tra il mondo dell’Odissea e quello dell’Iliade: distanza che si coglie, tra l’altro, nella ben più frequente menzione del ferro, nell’Odissea, laddove l’Iliade mostra di conoscere quasi esclusivamente il bronzo. Distanza che è simbolicamente rappresentata dalla mitica tradizione accolta dall’autore del trattato Sul sublime (I secolo d.C.) secondo cui Omero avrebbe composto l’Iliade «nel fervore dell’ispirazione giovanile», mentre l’Odissea recherebbe i caratteri propri della vecchiaia (9,13). Giambattista Vico ‘tradusse’ con mente storica questa cronologia antropomorfica e ne fece uno dei cardini della Discoverta del vero Omero (libro III della seconda Scienza Nuova), inverando così la sua visione secondo cui «essi popoli greci furono quest’Omero»: «Così Omero compose giovine quest’Iliade, quando era giovinetta la Grecia e ’n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità: onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocità: a’ tempi d’Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili» (libro III, sez. II, cap. 1, § 5).

10

L’epica arcaica

4. Il «vero Omero»: Omero come fonte storica Con l’identificazione tra Omero ed «essi popoli greci» e con la motivazione storica della cronologia relativa dei due poemi, Vico impostava il problema di quale società – quale assetto sociale ma anche, alla maniera settecentesca, quali «costumi» – presupponga l’epica omerica. Il problema è, invero, più complesso. Non si tratta tanto di istituire un nesso immediato tra il mondo rappresentato in ciascuno dei due poemi e la loro epoca di composizione: quest’ultima può (e deve) essere distinta dalle epoche descritte in ciascuno dei due poemi. È chiaro, ad esempio, che l’Iliade mette in scena i prìncipi micenei nel momento del pieno controllo sui loro regni, mentre l’Odissea (come del resto gli altri nòstoi) ci parla della crisi di quei regni probabilmente dovuta anche all’impresa troiana. Vero è anche, come s’è detto prima, che l’Odissea nella rappresentazione dei rapporti umani e dei bisogni spirituali dei suoi protagonisti (a cominciare da Odisseo «eroe della sapienza», come lo chiama il Vico) sembra rispecchiare una fase più recente e più ‘matura’. Ma il problema è complicato dal fatto che, molto probabilmente, in Omero coesistono – per così dire – tre livelli: il mondo miceneo, l’età ‘oscura’ che seguì al crollo di quel mondo, l’età coeva dell’autore. È abbastanza evidente che il fine è quello di dare un’immagine del mondo miceneo ormai scomparso da secoli: ma è altrettanto chiaro che le vicissitudini successive, soprattutto la grande frattura storica costituita dal crollo di quel mondo, la conseguente ‘perdita’ (o rarefazione?) della scrittura, hanno reso molto difficile il recupero e la fedele riproduzione poetica di quel mondo. Le scoperte di Michael Ventris, la decifrazione, nel 1952, della scrittura lineare B sulle tavolette di Cnosso e di Pilo2, che hanno consentito una conoscenza piuttosto ampia della struttura sociale, burocratica e politica dei regni palaziali micenei, hanno anche mostrato le differenze notevoli rispetto alle ben più semplici strutture dei «palazzi» omerici. C’è anche da dire che è soprattutto l’Odissea, cioè il poema più ‘moderno’, ad informarci sulla struttura sociale del mondo omerico. Ed è comunque evidente che la «reggia» di Odisseo nonché il rapporto di Odisseo nei confronti dei propri ‘sudditi’ sono ben povera cosa rispetto ai regni palaziali che emergono dalla decifrazione della scrittura lineare B. Il mondo miceneo era stato soppiantato (più o meno violentemente) dai Dori: di questa grande trasformazione non vi è pratica-

I. Epica omerica

11

mente traccia nell’epica omerica. Essa cerca di evocare una società scomparsa, pur non disponendo di una vera e propria ‘documentazione’. «Nel complesso – ha scritto Moses Finley – egli [Omero] sapeva dov’era fiorita la civiltà micenea, e i suoi eroi vivono in grandi palazzi dell’età del bronzo, sconosciuti al tempo di Omero. E questo è praticamente tutto ciò che egli sapeva dei tempi micenei, mentre l’elenco dei suoi errori è molto lungo. Le sue armi somigliano alle armi del suo tempo, affatto diverse da quelle micenee, benché egli insista a sfoggiarle nel disusato bronzo, non in ferro [...]. Un particolare divertente è quello dei carri di battaglia. Omero ne aveva sentito parlare, ma non sapeva propriamente immaginare come fossero usati in una guerra. Così i suoi eroi, di regola, partono dalla tenda sul carro, dopo circa un chilometro hanno l’accortezza di smontare, e poi combattono a piedi» (Il mondo di Odisseo, pp. 50-52).

Queste considerazioni ci portano al punto delicato di che cosa propriamente sia il grande, decennale, conflitto intorno a cui si addensano i poemi epici, in primo luogo l’Iliade e l’Odissea (insieme con gli altri nòstoi). Si può oscillare tra due posizioni diametralmente opposte: l’una è quella della storiografia greca del V secolo a.C. (Erodoto e Tucidide innanzi tutto), che accetta la sostanziale storicità dei dati contenuti nei poemi omerici e al più ne discute alcuni; l’altra è quella, ad esempio, di uno storico moderno come Finley il quale diluisce, per così dire, il traumatico «grande conflitto» e preferisce dire che «in età micenea vi furono molte guerre di Troia». Finley esclude la possibilità stessa di una guerra durata anni, e indica un celebre ‘ricordo giovanile’ di Nestore – raccontato dal vecchissimo eroe nell’XI libro dell’Iliade – come prototipo di ciò che veramente dovette essere una guerra: una scorreria per fare bottino: «Come quando fra noi [a Pilo] e gli Elei sorse una lite per il bestiame [...] Allora dalla piana spingemmo infinito bottino, cinquanta mandrie di vacche, e tante greggi di pecore, tanti branchi di porci, tante greggi vaste di capre, e centocinquanta cavalle bionde, femmine tutte [...]. Neleo [padre di Nestore] gioì nel cuore che io avessi tanta fortuna, andato giovane in guerra» (XI, 671-684).

La guerra troiana si sarebbe insomma via via ‘gonfiata’ per opera dei cantori di quelle gesta, allo stesso modo che la modesta scara-

12

L’epica arcaica

muccia di Roncisvalle si era trasformata, nella Canzone di Orlando, in una disfatta rovinosa di un esercito saraceno di 400.000 uomini. Anche Tucidide sapeva che è tipico dei poeti epici «abbellire ingigantendo» (I, 10 e I, 21), ed anzi ogni volta che cita Omero soggiunge: «se può servire a cavarne delle deduzioni». Nondimeno ritiene di ricavarne un gruzzolo di informazioni sulla storia di quella guerra, e si richiama non solo al testo omerico ma anche a quelle che definisce «le più accreditate tradizioni orali tramandate nel Peloponneso» (I, 9). La guerra contro Troia raccontata nel ciclo epico fu «il conflitto più grande rispetto ai precedenti» (I, 10,3); la spedizione fu guidata da Agamennone perché evidentemente era il sovrano che disponeva del maggior numero di navi, il che incuteva paura agli altri (I, 9,3). Per farsi un’idea dell’entità della flotta di Agamennone, Tucidide non ricorre soltanto al Catalogo delle navi del II libro dell’Iliade, ma riflette su di una formula omerica (Il., II, 108), secondo cui Agamennone non regnava soltanto sull’Argolide ma anche «su molte isole»: se erano «molte» non si trattava dunque soltanto di quelle limitrofe (che sono ben poche) ma anche di altre più lontane; e questo comportava una flotta consistente. La campagna degli Achei a Troia gli si prospetta, più che come una violenta (e ‘rapida’) scorreria, come una guerra di ‘insediamento’. Sbarcati ed attestatisi in Troade, dovettero procedere alla sollecita costruzione di un muro difensivo, dopo di che una parte non trascurabile del corpo di spedizione dovette essere impegnata nella ricerca del sostentamento: «in parte si volsero a coltivare il Chersoneso e alla pirateria, per scarsezza di approvvigionamenti. Onde, tanto più facilmente, proprio per tale dispersione dei Greci, i Troiani poterono affrontarli in armi e resistere durante i famosi dieci anni, non trovandosi mai di fronte a forze preponderanti» (I, 11). Anche dei nòstoi Tucidide dava una lettura storica, quando proseguiva osservando che «il ritorno dei Greci da Ilio fu lento e tormentoso sul piano degli equilibri sociali (pollà eneócmwse): un po’ dovunque nelle città si produssero tensioni, in conseguenza delle quali gli esuli andavano a fondare nuove città» (I, 12). La migrazione dorica avrebbe avuto luogo ottant’anni dopo la presa di Troia (I, 13). È difficile rifiutare in modo radicale questa ricostruzione. Essa salva il nucleo dell’epica: coalizione dei prìncipi achei, durevole e arduo impegno nell’assedio di Troia (esso trova un riscontro nei riferimenti agli Ahhijawa [= Achei?] nei documenti ittiti), rovina dei regni così a lungo privati dei loro prìncipi; e al tempo stesso pone

I. Epica omerica

13

il problema che anche i moderni si pongono, e cioè la natura della società descritta nei poemi omerici. Tucidide sembra colpito dalla povertà di questa società, tanto che indica nell’a¬crhmatía, nella «mancanza di ricchezze», la causa della logorante tattica adottata dagli Achei costretti a combattere e coltivare al tempo stesso il Chersoneso. È un esempio concreto di come possa risultare insidiosa la compresenza di quei tre livelli o ‘strati’ di realtà storica di cui s’è detto prima. Giusta o errata che sia l’ipotesi tucididea sulla guerra troiana come guerra di ‘insediamento’, è evidente che una società come quella micenea (che forse incominciò a ‘suicidarsi’ proprio con l’impresa troiana) difficilmente può definirsi affetta da a¬crhmatía. Ma, appunto, quale assetto sociale lasciano intravedere i poemi omerici? E la sostanziale identità, nell’assetto politico-sociale, tra mondo acheo e mondo troiano – che emerge nei due poemi – dipende dal fatto del tutto comprensibile che chi compose quei poemi non concepiva, dopo la frattura dell’epoca ‘oscura’ fra XII e IX secolo a.C., altro genere di ordinamenti che quelli vigenti al tempo suo? 5. L’«enciclopedia tribale» Prima di rispondere a questi interrogativi, è bene rilevare un tratto peculiare dell’epica, che ha, proprio nei riguardi di tali interrogativi, un particolare rilievo: il suo carattere «enciclopedico» (di «enciclopedia tribale» per usare un’espressione di Eric Havelock), il fatto cioè che essa non si proponga di dare una immagine settoriale, «specialistica», del reale, ma si proponga come «deposito di tutti i contenuti culturali di una civiltà». Il poeta non allude né presuppone, ma riespone per intero. Così ad esempio Odisseo, che ha già raccontato ai Feaci in tre libri le proprie peripezie, le racconta daccapo a Penelope (XXIII, 310-341). Il poeta non si limita a dire, alla fine ormai del racconto, che «il divino Odisseo quante pene inflisse ai nemici e quante sventure dovette subire lui stesso, tutto narrava» (vv. 306-308), ma riespone per trenta versi per sommi capi il viaggio («Narrò come in principio vinse i Ciconi, poi come arrivò nella terra feconda dei mangiatori di Loto ecc.»). Mira a contenere dentro il proprio racconto la totalità del reale, e anche la totalità delle tecniche: l’‘arte del discorso’, sviluppata e variata attraverso una efficace caratteristica dei personaggi (Nestore parla in

14

L’epica arcaica

un modo suo proprio, diverso da quello di Achille o di Odisseo), i giochi, le conoscenze geografiche e cosmogoniche, le pratiche religiose, le pratiche guerresche, le pratiche civili e giudiziarie, l’educazione e così via. «Achille ne’ funerali di Patroclo – osserva il Vico – dà a vedere quasi tutte le spezie de’ giochi, che poi negli Olimpici celebrò la coltissima Grecia». Così nel libro XVIII dell’Iliade l’informazione non si limita alla notizia «fece per primo uno scudo grande e pesante» (XVIII, 478), ma si estende alla tecnica della costruzione (vv. 468-477) ed alla specifica fattura dello scudo con la minuziosa descrizione delle sue decorazioni. Queste, a loro volta, danno il quadro della vita ‘normale’: come vedremo, uno degli spaccati più completi della ‘società’ «omerica». Nei poemi presi nel loro insieme e probabilmente nel «ciclo» nel suo complesso vi è anche, in germe, una nozione del passato (e quindi del tempo) e della storia. Il racconto, pur così completo, non si concepisce affatto che debba coprire tutto il passato; l’idea di passato coincide con l’ambito fin dove si spinge il ricordo. È ciò che poi Erodoto e Tucidide definiranno con la formula e¬pì makrótaton skopeîn: «guardare quanto più possibile indietro». Ciò impone l’identificazione di un «inizio» del tempo. Non a caso l’Odissea incomincia con un «allora» (I, 11), che a sua volta rinvia all’iniziale (I, 2) «dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia», che finisce con l’essere una data assoluta. E si concentra sui fatti «degni di racconto»: in genere sulle «sofferenze degli uomini», secondo la visione affermata da Alcinoo, per cui gli dèi «filarono rovina agli uomini perché fosse materia di canto» (VIII, 579-580). È un’idea della storia che avrà molta fortuna. Il cantore epico è davvero il «portavoce» di un sapere collettivo. Un tale carattere dipende da vari fattori. Tra gli altri, è dovuto proprio alla natura ‘primaria’ di questi poemi: al loro essere un bilancio/memoria, una prima ripresa dopo un’epoca conclusa da tempo (l’età micenea) e in parte irrecuperabilmente offuscata da secoli di ‘medioevo’. Vi è poi il modo espositivo ‘arcaico’ – che è presente ancora in alcune parti dell’opera tucididea oltre che in certi trattati ippocratici – consistente nell’esprimere un sapere non in forma teorica ma attraverso un racconto. Ecco perché poemi siffatti divennero presto, e quasi naturalmente, il fondamento dell’istruzione primaria, i «libri di testo» basilari, come notava con molto disappunto Platone nel decimo libro della Repubblica (598-600C).

I. Epica omerica

15

6. La società «omerica» Ma, ed eccoci ritornati al quesito di partenza: quanto di questa «enciclopedia» si riferisce all’età micenea e quanto all’età omerica? L’Odissea dà un quadro più completo e armonico del reale, poiché non riguarda, come l’Iliade, soltanto e soprattutto la guerra. L’«enciclopedia» racchiusa nell’Iliade illumina in modo esauriente situazioni tipiche quali l’imbarco e lo sbarco, l’ambasciata, il sacrificio agli dèi, il vestirsi, l’armarsi, la divisione del bottino, ecc. E in tutto questo, probabilmente, il poeta «arcaizza». Ma vi è nell’Iliade un ‘vivaio’ di informazioni riguardanti altri aspetti della vita sociale, dei rapporti personali, del lavoro umano: è la serie importante delle similitudini. E vi è infine il grande affresco delle «opere della pace» nella sorprendente ricchezza di ‘quadri’ che si susseguono sullo scudo di Achille (XVIII, 483-607): le nozze, i tribunali, l’aratura, la mietitura nelle «terre del re» (témenov basiläïon), i cori misti di giovani e ragazze, gli acrobati, la festa. Si è pensato talvolta che proprio questo ‘vivaio’, soprattutto le similitudini, riflettano la realtà più recente, quella direttamente nota al poeta. Ecco perché – si è osservato – certe pratiche (l’equitazione, il bollire le carni) figurano solo nelle similitudini, mai nel racconto. Certo è che gli intrecci, l’intarsio, tra passato e presente sono talvolta inestricabili. Proprio la costruzione dello scudo è un esempio chiaro: Efesto fabbrica uno scudo intarsiato con vari metalli secondo una tecnica micenea ben nota, ma i suoi preparativi, coi mantici e le fornaci, sono tipici della più recente lavorazione del ferro. Così la scena forse più rilevante dello scudo – il processo per un reato di sangue – si riferisce chiaramente alla pratica più recente, in cui giudici sono gli «anziani» riuniti nell’agorà alla presenza del popolo (XVIII, 503-504), mentre nell’XI dell’Odissea è direttamente il sovrano che amministra la giustizia (Minosse tra i morti: vv. 568-571; Telemaco ad Itaca: vv. 185-186). D’altra parte i mietitori che lavorano il «terreno del re» sembrano rinviare ad una realtà ‘micenea’. Ci sono nondimeno alcuni dati discriminanti che denotano uno iato epocale tra i poemi nel loro complesso e la realtà del mondo miceneo quale emerge dai documenti in lineare B. Ad esempio la scomparsa della parola doero (= doûlov) indicante lo schiavo (anche se figura talvolta il suo derivato doúliov/doúleiov). Il modo in cui ci si procura gli schiavi è la rapina (pirateria o prigionieri di guerra): perciò nelle tavolette di Pilo numerose schiave hanno no-

16

L’epica arcaica

mi indicanti una origine etnica che si riferisce a località esterne al regno. Questo è ovviamente il modo tipico di incremento della popolazione servile anche nell’Iliade: la norma è che, di una città vinta, gli uomini vengano uccisi e le donne rese schiave (non sempre uguale il destino riservato ai fanciulli). Un racconto-tipo è quello che fa Odisseo al principio della lunga narrazione ai Feaci: sulla via del ritorno da Ilio il vento lo aveva sospinto verso Ismaro tra i Ciconi, «lì uccisi gli uomini, rapii le donne, e molte ricchezze, e le spartimmo» (IX, 39-43)3. Nell’Odissea questo tipo di eventi è per così dire ‘presupposto’: Eumeo, il porcaio di Odisseo, era stato rapito fanciullo da pirati fenici e venduto a Laerte (XV, 415-484). Ma il quadro d’insieme che emerge dall’Odissea è ormai quello di un òikos autarchico, che è in sostanza una unità economica di produzione e di consumo, nella quale gli schiavi (detti per lo più oi¬keîv, «gente di casa», ma anche dmos/dmoè, termini che solo di rado compariranno dopo Esiodo) non sono il livello più basso della scala sociale. Eumeo, ad esempio, ha potuto comprare suoi schiavi, e Achille nell’Ade accetterebbe la più bassa condizione sociale, pur di tornare vivo, e come tale non indica quella dello schiavo, ma quella del «teta» (jäv), del lavoratore salariato che lavora nei campi per conto di un povero «diseredato senza ricchezza»: «Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. Vorrei essere bifolco, servire un padrone (qhteuémen), un diseredato che non avesse ricchezza, piuttosto che dominare su tutte le ombre consunte» (XI, 488-491). È un quadro di rapporti sociali quale emerge dalle Opere di Esiodo, dove il misero contadino della Beozia non possiede che «una casa, una donna ed un bue» (v. 405), ai quali ad un certo punto aggiunge «un bifolco di quarant’anni» (v. 430), un «teta» appunto, nel quale Achille, il fierissimo Achille – disperato di essere un’ombra –, vorrebbe incarnarsi. Questi dmøev sono in una condizione giuridica non chiara, probabilmente diversa da quella del doero miceneo: di tale modificazione può essere un sintomo proprio il mutamento di terminologia, in particolare la scomparsa di doûlov. È lecito pensare che i rapporti sociali e l’ordinamento dell’òikos quali risultano dall’Odissea – che hanno indotto ancora di recente alla idealizzazione di un ipotizzato ordinamento «patriarcale» (Hermann Strasburger) – risentano delle novità prodottesi in Grecia con la fine dei palazzi micenei, l’arrivo dei Dori e l’affermarsi di nuove forme di dipendenza

I. Epica omerica

17

tra dominanti e dominati. Con il sovrapporsi dei Dori agli strati di popolazione preesistenti si vennero a formare rapporti di dipendenza che furono poi definiti di tipo «ilotico» a causa del più celebre esempio conosciuto, quello degli iloti di Sparta. Tale rapporto, sebbene presentasse, appunto a Sparta, aspetti di particolare efferatezza, era fondato su un nesso di «dipendenza» bilanciata dalla «protezione» e non conosceva la pratica della compravendita, tipica della schiavitù-merce (caratteristica, poi, delle zone economicamente più dinamiche del mondo greco). Il rapporto paternalistico vigente nell’òikos odissiaco, dove è visibile la partecipazione anche di oikèis ed amphìpoloi alla rete della «solidarietà» basilare del mondo aristocratico, parrebbe più vicino al modello «ilotico», e dunque ben distinto dal precedente ‘miceneo’ (nei limiti in cui ci si può fare un’idea attendibile della condizione giuridica e sociale del doero miceneo). Al contrario i «teti», totalmente privi di risorse e sottomessi ai nobili per ogni forma di prestazione, precipitano al livello più basso della scala sociale: Telemaco considera i «teti» di sua proprietà alla stregua degli schiavi veri e propri. Nel mondo dell’Odissea dunque, al di là del ricordo che ancora perdura delle grandi razzie umane dell’epoca della guerra, vi è ormai indistinzione tra la condizione libera dei ceti infimi e la condizione servile. Nell’unità autarchica dell’òikos dell’Odissea servi e padroni si sono di molto avvicinati. 7. La ‘questione’ omerica: le soluzioni degli antichi Ma poemi che rispecchiano e in sé recano traccia di una tale stratificazione non sono essi stessi frutto di una lunga stratificazione compositiva? È in fondo l’immagine che se ne faceva la tradizione antica, riecheggiata in un celebre passo dello storico ebreo di età flavia Giuseppe Flavio, nel polemico scritto Contro Apione: «Si ammette concordemente che, presso i Greci, della scrittura non vi è traccia prima dei poemi di Omero. Dicono anzi che neanche lui abbia lasciato la sua opera in forma scritta, ma che essa fosse tramandata e cantata a memoria e che solo in seguito da quei canti sia stata messa insieme una stesura scritta; e che questo spieghi le molte contraddizioni che vi si riscontrano» (I, 12).

Che il processo di ‘codificazione’ e fissazione per iscritto dei poe-

18

L’epica arcaica

mi omerici fosse avvenuto in Atene, nel VI secolo, per opera di Pisistrato, era opinione diffusa nella erudizione antica. La formulazione più antica sembra quella di Cicerone, che di Pisistrato dice, senza manifestare alcuna incertezza: «qui primus Homeri libros, confusos antea, sic disposuisse dicitur ut nunc habemus» (De oratore, III, 137). E la notizia è ripetuta in varie forme da Pausania, da Eliano, da Libanio, dagli scoliasti, i quali a loro volta serbano traccia rilevante dell’erudizione di età alessandrina. La notizia viene anche variamente arricchita in modo più o meno fantasioso: c’era chi immaginava un Omero che va componendo pezzo per pezzo, itinerando da una città all’altra, i suoi poemi (così il lessico bizantino Suda, che parla senz’altro di un Omero che «scrive»); c’era chi immaginava un «incendio» o un «sisma» o un «diluvio» che avrebbero in tempi assai remoti distrutto i poemi omerici, i cui pezzi rintracciati da Pisistrato attraverso un bando «in tutta la Grecia», sarebbero stati, dall’illuminato tiranno di Atene, fatti ricomporre a cura di una vera e propria commissione di grammatici (così un commentatore della Grammatica di Dionigi il Trace); altri infine parlavano del rischio che l’epica omerica andasse perduta: «infatti, allora, non era affidata alla scrittura ma all’insegnamento e alla conservazione mnemonica» (Anonimo negli Anecdota Graeca del Villoison, II, p. 182). Insomma anche per l’erudizione antica il punto di partenza erano le contraddizioni logiche e cronologiche presenti nel grande corpo dei due poemi; nonché il fatto che prima di Omero, per quanto si puntasse lo sguardo all’indietro nel passato, non si trovava nulla. Non poteva non disturbare il fatto che il re dei Paflagoni, Pilemene, ucciso da Menelao nel quinto dell’Iliade (v. 576), riappaia vivo nel libro tredicesimo (vv. 643-658) e pianga il figlio morto in battaglia. E infatti alcuni dotti antichi, le cui riflessioni sono condensate nella notevole raccolta degli scolî ad Omero, tentavano varie strade per eliminare l’incongruenza: sospettavano dell’autenticità dell’episodio narrato nel libro XIII (per esempio facevano notare che non è consueta la procedura, lì citata, di riportarsi il cadavere del guerriero morto su di un carro); o anche ritenevano inautentici i versi in cui si fa cenno al padre che piange il figlio morto, ovvero pensavano ad un omonimo (che stranamente sarebbe stato anche lui, come l’altro Pilemene, re dei Paflagoni). Un caso più impegnativo era, nel suo insieme, il libro X dell’Iliade, la cosiddetta Dolonia, il canto della ferina impresa notturna di Odisseo e Diomede che catturano e massacrano, appostandosi, una spia troiana, Dolo-

I. Epica omerica

19

ne. Un canto la cui assenza non disturberebbe affatto il flusso del racconto, e che semmai suscita difficoltà imbarazzanti: non ultima la prosecuzione quasi innaturale della notte, con un secondo consiglio notturno dopo quello che ha deciso l’invio di una ambasceria ad Achille (l’ambasceria occupa il libro IX, al termine del quale tutti vanno a dormire, ma si mettono nottetempo a deliberare al principio del X). In una notte così lunga Odisseo finiva col cenare tre volte (IX, 90; IX, 221; X, 578). Qui la critica antica aveva elaborato una teoria più complessa: «c’è chi dice che questo canto è stato composto a parte (i¬díaı) da Omero, che non fosse parte dell’Iliade, ma ve lo avesse inserito Pisistrato» (così uno scolio). Si sono dunque venute affermando già nella critica antica le teorie principali miranti a dar conto dell’origine dell’epos omerico, più volte riprese e rielaborate nelle età successive. Innanzi tutto i due atteggiamenti principali: quello «analitico» (dai cwrízontev, che attribuivano Iliade e Odissea a due poeti diversi, ai critici che dichiaravano estranea all’Iliade la «Dolonia») e quello «unitario», che cerca di liberarsi delle contraddizioni lavorando di forbici e proclamando inautentico ora questo ora quel verso per la sola ragione che «non quadra» con dati presenti altrove. Ma anche i due poli tra cui oscilla la discussione moderna, e che si racchiudono nelle formule «oralità» e «scrittura», sono già presenti tra le soluzioni che gli antichi tentavano di dare al problema omerico. La visione rispecchiata ad esempio da Giuseppe Flavio – assertore di una nascita molto recente della scrittura in Grecia e che discorre della formazione dell’epica proprio nel contesto di una discussione sull’origine della scrittura –, è appunto quella di una composizione orale dei poemi e di una loro tradizione a lungo affidata alla «memoria», infine di una loro redazione scritta molto tarda, basata appunto sui «canti» oralmente tramandati. Inversamente le varie teorie sui poemi dispersi da una catastrofe naturale e «ripescati» in frammenti dopo una tale frattura storica, ovvero «scritti» via via da Omero durante le sue peregrinazioni di cantore, presuppongono appunto una originaria redazione scritta dei due poemi. 8. La ‘questione’ omerica: da Vico alla ventata oralistica Il primo vero teorico moderno dell’ipotesi detta «oralista» fu il Vico (1730). In lui è già chiaro l’intreccio dei vari concetti che por-

20

L’epica arcaica

tano a formulare una tale ipotesi: l’idea di una tardiva affermazione della scrittura in Grecia e di una ‘accumulazione’ dell’esperienza di intere epoche raccolta in quei ‘depositi storici’ che sono i poemi omerici, l’inesistenza di un Omero-persona dissolto non senza incertezze nell’Omero-idea, la intuizione che la forma esametrica fosse particolarmente propizia alla composizione orale ed alla memorizzazione: «Che per necessità di natura – così scrive nella XXIII Pruova filosofica per la discoverta del vero Omero – le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvidenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancora truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare più facilmente le loro storie famigliari e civili».

E nella IX «pruova» motiva ulteriormente questa sua visione rigorosamente «primitivistica» osservando «che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da’ comuni dei popoli [...] che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò – ripete – non senza divino provvedimento: poiché infin ai tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare». Per Vico, anzi, questa dev’essere stata una caratteristica comune ai «popoli barbari», «come furono i Germani antichi e gli Americani», i quali – osserva – «furono ritruovati conservar in versi i princìpi delle loro storie» (Pruova filologica, II). L’esperimento di Milman Parry, che ricorse all’epica orale jugoslava per comprendere la genesi e la struttura dell’epos omerico, partiva da premesse non molto lontane da queste. Vico dimostra una certa oscillazione tra la totale negazione dell’individualità di un poeta di nome Omero («essi popoli Greci furono questo Omero») e la ammissione di una sua parziale storicità («ma tali e tante difficultà, e insiememente i poemi di lui pervenutici sembrano farci cotal forza d’affermarlo per la metà»). Si può forse dire che Vico si è venuto progressivamente liberando, nel corso della sua «discoverta», dalla nozione di un Omero-persona. Ciò dimostra, fra l’altro, la indipendenza della sua riflessione rispetto a quella, di quindici anni precedente, delle Conjectures académiques ou dissertation sur l’Iliade di François Hédelin d’Aubignac, al quale si suole ascrive-

I. Epica omerica

21

re la ‘dissoluzione’ di Omero-persona e la fondazione della «questione omerica». Vico rimase praticamente sconosciuto e inutilizzato: tra i pochi a capirne la grandezza ci fu il Wilamowitz. Friedrich August Wolf coi suoi Prolegomena ad Homerum (1795) diede l’avvio alla riflessione «analitica» ottocentesca. Per Wolf all’origine degli attuali poemi vi sono canti separati, brevi unità minori, di età e di autori diversi, concepiti prima della diffusione della scrittura e cantati dai rapsodi. Herder, il grande teorico della filosofia della storia, reagì alla teoria redazionale di Wolf e volle ribadire che i due poemi non potevano considerarsi mera raccolta redazionale, poiché sono – nella loro attuale forma – opera poetica. «In realtà – come è stato osservato – si era aperto un problema serio: era difficile dissolvere l’unità dei poemi e continuare a riconoscere in essi grandi opere di poesia»4. Nei decenni seguenti la riflessione si concentrò soprattutto sul dilemma unità ovvero molteplicità (e quindi stratificazione). Si affermarono via via nuove teorie: quella di Gottfried Hermann, il quale tentò di identificare una Iliade primordiale (Ur-Ilias), di fatto una «Achilleide» intorno alla quale si sarebbe agglutinato il più ampio poema, e tentò anche, senza molto successo, di identificare tale nucleo originario; quella di Karl Lachmann, fortemente influenzato dalle proprie ipotesi «analitiche» intorno al poema dei Nibelunghi, il quale decompose in modo altrettanto frantumato l’Iliade; quella di Kirchhoff il quale riconosceva nell’Odissea l’opera, relativamente tarda, di un redattore. Intanto, a partire dal 1870 circa, sopraggiunsero le scoperte archeologiche: di Schliemann, che identificava i vari strati, le varie distruzioni e riedificazioni di Troia nei siti appunto nominati da Omero; e di Evans, che ritrovava a Creta le tracce concrete di una civiltà materiale elevata e molto simile a quella degli «Achei» di Omero. Aveva dunque visto giusto il Vico quando aveva più e più volte ribadito che, sia pure offuscata, era storia – null’altro che storia – quella narrata nei poemi. Secondo il Vico, in realtà, prima dell’epica omerica c’era stata una fase di vere e proprie storie «che tratto tratto s’alterarono e così corrotte finalmente ad Omero pervennero»; «tutte le storie gentilesche – egli notava – hanno favolosi princìpi» e, mettendo a frutto un passo dello storico e geografo augusteo Strabone, conchiudeva: «lo che gravemente appruova ciò che Strabone in un luogo d’oro [= I, p. 18] afferma: prima di Erodoto, anzi prima di Ecateo Milesio, tutta la storia de’ popoli della Grecia

22

L’epica arcaica

essere stata scritta da’ lor poeti» (Pruove filologiche, VIII). Strabone notava una sostanziale continuità tra l’epica ed Ecateo, il quale avrebbe soltanto «eliminato il verso». La discussione tra «analitici» e «unitari» si protraeva risentendo del coevo clima spirituale: in epoca di imperante positivismo prevaleva la frantumazione analitica; in clima di ritornante idealismo5 tornava ad accreditarsi la tendenza unitaria, paga troppo spesso di soluzioni semplicistiche. Le due posizioni – quella «analitica» e quella «unitaria» – erano e rimanevano sostanzialmente incomunicanti. Sembrò sbloccare la questione – e polarizzò sempre più l’interesse – l’entrata in scena dello studioso americano Milman Parry. Egli poneva daccapo in primo piano la questione della «genesi orale» dell’epica e della «composizione orale». L’elemento da cui era partito Parry era quello della preponderante formularità del linguaggio epico: il sistema delle formule – egli osservava – costituisce una ‘grammatica’ sui generis, la cui unità di base non è la parola isolata, ma appunto la formula (sia essa di un verso o parte di un verso). Queste formule ritornano sempre uguali in un numero assai elevato di situazioni tipiche. Gli schemi si ripetono e variamente si combinano. Ecco come il cantore epico (prototipi gli aedi Femio e Demodoco che figurano all’interno stesso dei poemi) costruisce, elabora, memorizza e volta a volta recita – in una parola «compone» – la sua materia. Il supporto empirico di questa teoria fu, nel 1934, la recitazione, che Parry registrò, da parte di un cantore serbo analfabeta, a Novi Pazar, di un poema ampio circa quanto l’Odissea e sufficientemente complesso ed elaborato. Questo ‘esperimento’ parve memorabile. Esso però non presentava caratteri di particolare novità. Oltre un secolo prima, nel 1826, Jacob Grimm, il grande linguista tedesco e studioso della novellistica popolare, aveva studiato gli oltre 18.000 versi di canti popolari serbi, di recente pubblicati, e aveva rilevato che il carattere tipico di quei canti era appunto la formularità: «la ripetizione di epiteti epici, di versi e di intere frasi». Le deduzioni che Parry e i suoi seguaci hanno tratto dalle registrazioni svoltesi a Novi Pazar, rispetto all’epica omerica si fondano sul presupposto comparativistico (teorizzato da Tucidide nel V secolo a.C.) secondo cui le aree arretrate conservano «fossili» indicativi di una realtà cronologicamente assai remota e, a suo tempo, generalizzata. Non è un criterio di validità universale, ed è da chiedersi

I. Epica omerica

23

quanto in questo caso sia davvero probante. Va anche detto che, in questa ottica, resta in ombra il problema più delicato: il nesso, cioè, che in qualche modo collegò la remota e sommersa realtà dei regni micenei ed i poemi omerici, che di quei regni serbano la memoria e cantano l’epopea. Il cantore jugoslavo analfabeta non serba forse una altrettale eco di un’altissima civiltà scomparsa. Certo è verosimile che per almeno un paio di secoli – i secoli del medioevo ellenico –, i rapsodi che hanno tramandato i poemi omerici abbiano fatto ricorso alle tecniche compositive e mnemoniche tipiche della tradizione orale. Ma che alle loro spalle ci fosse stata un’epica scritta sembra potersi arguire, dopo che il linguista americano Calvert Watkins ha decifrato, in una tavoletta in linguaggio luviano (un dialetto ittito) risalente al XIII secolo a.C., un verso che sembra appartenere ad un contesto epico («quando essi tornavano dall’erta Wilusa»: «erta», ai¬púv, è epiteto omerico della città di Ilio; «Wilusa» è, a quel che pare, il nome appunto di Ilio). Una suggestione che appare plausibile, se si considera che anche per la Teogonia di Esiodo sono stati riscontrati sorprendenti paralleli con testi accadici e ittiti quali il poema del II millennio Enûma Elisˇ (ed anche in questo caso la mediazione sarebbe avvenuta attraverso Creta). 9. L’unità arcaica dei poemi omerici Quando, e per opera di chi, trovò l’attuale sistemazione la materia tradizionale, tramandatasi anche quando nessuna registrazione scritta era più praticata? Ed una tale sistemazione può considerarsi indipendente, svincolata da una fissazione per iscritto dei testi omerici? Non basta certo osservare che la recitazione dinanzi ad un pubblico di ascoltatori continuasse ad essere il modo normale della comunicazione (lo era ancora al tempo di Erodoto) per escludere che, ad un certo momento – ben prima di Pisistrato –, il testo dei poemi omerici sia stato fissato per iscritto e ‘depositato’, ad esempio in un luogo accessibile alla corporazione degli aedi. Il pilastro delle teorie «oralistiche» più radicali è la evidente presenza della formularità nei due poemi. Ma questa nozione di formularità può dilatarsi in modo indefinito, ben oltre i limiti in cui la intese il Parry: fino ad ipotizzare che siano formulari anche nessi eventualmente presenti una volta sola «purché ci sia sufficiente evidenza che siano stati usati dai predecessori di Omero» (Hoekstra).

24

L’epica arcaica

Una tale estensione indefinita restringe, di riflesso, l’ambito della peculiare originalità o creatività degli autori. Si può riproporre così per altra via, nei confronti di una visione pan-formulare dei poemi, l’obiezione sollevata da Herder contro Wolf: che cioè, nonostante il debito nei confronti della produzione «popolare», i poemi omerici erano da considerarsi in primo luogo opere di un grande artista, non una mera raccolta redazionale (nell’attuale temperie si dovrebbe dire: non una mera tessitura di formule). Questi due poemi hanno una complessa e sapiente struttura, volute rispondenze a distanza; hanno un centro da cui si irradiano i motivi e i fili della narrazione; hanno un carattere o tono dominante che un critico antico (l’autore del Sublime) sintetizzava nel carattere «drammatico» dell’Iliade e «narrativo» dell’Odissea; hanno infine una loro unità. Unità, beninteso, da intendere secondo un metro caratteristico del mondo arcaico e non separabile dalla pratica concreta della pubblica recitazione. Per comprendere questa nozione di unità, che non è in contrasto con la ‘molteplicità’, bisogna pensare alla compattezza e, al tempo stesso, duttilità strutturale dei lògoi che costituiscono l’opera erodotea. Come vedremo meglio a suo tempo, questi lògoi, un po’ come i canti omerici, sono saldati dentro una ben chiara struttura ma hanno avuto una loro autonoma concezione, elaborazione, fruizione. Inoltre, presi singolarmente, alcuni di essi possono essere considerati a rigore ‘superflui’: i lògoi sull’Egitto, ad esempio, rispetto al filo narrativo della conquista dell’Egitto da parte di Cambise. Allo stesso modo possono essere visti i libri IX e X dell’Iliade – la ambasceria ad Achille e la «Dolonia» – rispetto al corpo complessivo del racconto: non solo sono per così dire superflui (l’intero episodio dell’ambasceria è ignorato da Achille nel libro XVI, 72-84, dove parla come se Agamennone non gli avesse mai formulato alcuna proposta conciliatrice), ma sono probabilmente tra loro ‘alternativi’ (uno dei due è recitabile nel contesto del racconto, l’uno dopo l’altro danno ovvio disagio e perciò l’antica erudizione parlava di una composizione «a sé», i¬díaı). La recitazione degli aedi dovette essere una tecnica duttile, capace di adattarsi alle esigenze del pubblico. Non a caso nell’Odissea, nei due casi in cui assistiamo ad una recitazione dei fatti di Troia da parte di rapsodi – ad Itaca nel palazzo di Odisseo ed alla corte di Alcinoo –, i cantori vengono interrotti da un intervento autorevole: nel primo caso è Penelope (I, 337-346), nel secondo caso è il

I. Epica omerica

25

pianto di Odisseo percepito dal solo Alcinoo (VIII, 82-96). Anche Erodoto mostra di aver tenuto conto di interventi del pubblico prodottisi durante sue recitazioni. Anche Erodoto ha confezionato parti ‘fungibili’, ma non necessariamente da recitarsi in ogni occasione (ad esempio, il finale del IX libro). E comunque non sempre la recitazione sarà stata totale. L’«unità» arcaica è lassa: così appare nella grande costruzione dell’epos e nella nascente storiografia, così appare nel più limitato ambito dell’ode pindarica dai trapassi logici non stringenti. 10. Epica e mito Una costante della letteratura greca è il suo carattere «laico»: non dominato cioè da una casta di scribi (gli aedi non sono propriamente una casta, tipica invece delle civiltà orientali e probabilmente dei palazzi micenei), e «popolare»: diffuso cioè in una pluralità di centri, la cui molteplicità è agli antipodi rispetto al monocentrismo della capitale, caratteristico dei regni orientali. «Decapitato», per così dire, con il crollo dei palazzi micenei, il mondo greco riorganizzatosi dopo la migrazione dorica è stato caratterizzato infatti da una diffusa e numericamente assai estesa «aristocrazia»: «Se in ogni minuscola comunità greca tra il IX e il VII secolo – ha osservato Angelo Brelich – vi erano famiglie ‘aristocratiche’, l’aristocrazia stessa può essere definita, paradossalmente, un fenomeno di massa». Tale carattere aperto, per nulla esclusivo né castale, ha avuto un effetto decisivo, sin dalle fasi più remote, sulla produzione letteraria. Come in ogni altra società pre-moderna, infatti, anche nel mondo greco la produzione letteraria ha avuto, all’atto stesso della sua nascita, come oggetto privilegiato, se non unico, il «mito»: ma, appunto, esso viene trattato con una libertà e una ricchezza di varianti che denota l’assenza di un opprimente e unificante ‘filtro’ da parte di una casta detentrice del ‘sapere’. Valgano come esempio le versioni contraddittorie che gli autori più arcaici presentano su capisaldi del mito: la coppia primordiale da cui discende l’umanità intera è, nella Teogonia esiodea, costituita da Gea e Urano, ma al poeta dell’Iliade risulta costituita da «Oceano principio dei numi» e dalla «madre Teti» (XIV, 201). Si può dire insomma che per una lunga fase storica il mito è stato l’unico oggetto della composizione letteraria, ma che per converso non vi è mai stata in Grecia – di-

26

L’epica arcaica

versamente che in altre fiorenti tradizioni (ebraica, vedica, egizia) – un’unica e dominante versione del mito tutelata da una casta ‘sacerdotale’, e perciò neanche un determinato genere di testi destinato, a preferenza di altri, a trattare del mito. Non vi è, se non assai tardi e come forma di erudizione, una letteratura specialisticamente mitologica; piuttosto, il sapere mitologico è presente, sin dall’inizio, nei più vari generi letterari. In che misura una così rigogliosa tradizione era espressione di un originario, via via obliteratosi, «pensiero collettivo»? È il problema che domina la mente di Vico («le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe») nei Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (17443) e che alimenta la riflessione di Karl Otfried Müller nei Prolegomena, del 1825, «ad una mitologia scientifica». È evidentemente merito dello storicismo aver reso possibile e aver praticato una tale lettura del mito e del suo significato ‘storico’ – di deposito appunto della più antica storia delle stirpi greche –: una visione che, com’è ovvio, non ha nulla in comune con l’interpretazione allegorica del mito, che tanta fortuna aveva avuto nel corso dell’età classica. Ma il patrimonio mitologico greco non poteva essere inteso isolatamente; al contrario tanto più poteva emergere la sua ‘sostanza’ storica in quanto lo si fosse comparato con il patrimonio mitologico di altri popoli, con altre tradizioni. Questo è già evidente nella indagine vichiana sulla «comune natura delle nazioni», ma nella storia degli studi sul mondo greco prende corpo e dà risultati durevoli nell’opera di Hermann Usener: Götternamen 1896; Sintfluthsagen 1899 (l’indagine sulle varie tradizioni intorno al diluvio universale si spinge oltre i confini indo-europei); Dreiheit 1903; Mythologie 1904. Rispetto all’impostazione di studi di tipo comparativistico, operante anche in un altro importante libro (quasi coevo), Psyche di Erwin Rohde (1890-1894), non mancò di manifestarsi una reazione, anche rozza, da parte di alcuni tra gli esponenti più prestigiosi della filologia classica. «Confesso tranquillamente – scrisse Eduard Meyer in polemica con Rohde, in un articolo sull’origine del mito di Odisseo («Hermes», 1895, p. 281) – come una delle molte manchevolezze della mia formazione storica il fatto di non avere trovato sinora il tempo per occuparmi più diffusamente delle concezioni dei selvaggi americani, africani, australiani». Nella seconda edizione di Psyche (1897), Rohde replicherà «ad un recensore che vorrebbe veder gettata a mare quella che a lui pare superfluità inutile»: «Purtroppo non gli ho potuto fare questo piacere».

I. Epica omerica

27

È un atteggiamento – quello da cui Rohde si discosta – che pretendeva polemicamente di prescindere dalla feconda compenetrazione tra studi di antropologia e di antichità classica in atto proprio alla svolta tra i due secoli, e legata al lavoro di classicisti profondamente influenzati dagli studi di antropologia nonché di antropologi-classicisti quali ad es. Jane Harrison e William Ridgeway, che pose su nuove basi lo studio dell’origine della tragedia, ovvero L.R. Myres (il grande indagatore di Erodoto) ed R.R. Marett, e soprattutto Frazer, studioso di Pausania, ma anche del totemismo e dell’endogamia, nonché del folklore nel Vecchio Testamento, influente ben oltre la cerchia degli studiosi di antropologia o di storia comparata delle religioni (i suoi libri furono letti e meditati da Freud, da Eliot, da Joyce). A Heidelberg usciva nel 1910 in traduzione tedesca il volume miscellaneo, curato da Marett, Anthropology and the Classics, comprendente alcuni studi emblematici come quelli di Myres su Erodoto, di Murray sull’epica arcaica, di Evans sull’origine della scrittura. Tutto un clima intellettuale che non è separabile dal contatto con altri mondi dovuto all’espansione coloniale europea. Della consapevole chiusura verso le nuove fonti di conoscenza dischiuse dalla ricerca etnologica sono indicative uscite come quella, ben nota, di Wilamowitz Glaube der Hellenen (1931) – «Io non ho mai saputo cosa significhino parole come tabu e totem ecc.» – o quella, di pochi anni successiva, di Lesky (1938) in cui esprime – contro Ridgeway – la «repugnanza» a «mettere comunque in relazione una delle più nobili realizzazioni della civiltà greca con le danze dei selvaggi esotici» (Griechische Tragödie, Berlin 1938, pp. 2-3; 19582, pp. 46-47). Inutile aggiungere che il problema storico-etnologico-folkloristico della nascita della tragedia viene eluso da Lesky in termini idealistici con la sentenza secondo cui «l’evoluzione quale noi la intendiamo è determinata assai più dall’atto creativo delle grandi individualità che non da inafferrabili forze motrici che sono un dato di natura». Rispetto ad un panorama così ricco di tensioni, ed in cui sono presenti componenti così diverse e contrastanti, non è dunque propriamente esatto – come talora si tende a fare – attribuire al fiorire di studi di «psicologia storica» nella cultura francese contemporanea il ruolo di rifondazione delle ricerche sul mito greco. Tali studi sono radicati negli orientamenti della cultura francese contemporanea, e perciò risentono sia dell’influsso dell’indirizzo strutturalistico sia dell’orientamento storiografico delle «Annales» (anche se ben poco questa rivista si è cimentata con la ricerca sul mondo antico). Ed è comprensibile che risentano oggi del declino della moda strutturalistica6.

28

L’epica arcaica

Note 1 Le traduzioni qui di seguito adoperate, dall’Iliade e dall’Odissea, sono, salvo lievi modifiche, quelle di Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi 1950, più volte ristampate). Esse si giovarono dell’assidua collaborazione di Cesare Pavese, cui si deve la scelta di far corrispondere puntualmente i righi del testo a quelli della traduzione. 2 Sistema grafico usato in iscrizioni trovate a Pilo, Micene, Creta (seconda metà del II millennio a.C.). Procede secondo uno sviluppo lineare. I segni hanno valore di sillabe. È la più antica scrittura adoperata dai Greci. 3 È lo schema al quale si attengono gli evoluti Ateniesi circa sette secoli più tardi quando espugnano Melo, e – come racconta Tucidide in due parole – «fecero uccidere tutti i maschi adulti catturati, le donne e i bambini li resero schiavi» (V, 116). È una continuità caratteristica del sistema schiavistico: la schiava è più docile e può essere ugualmente adibita a molti lavori. 4 Codino, Introduzione a Omero, p. 39. 5 Con qualche punta irrazionalistica: è il caso di Wolfgang Schadewaldt. 6 Non andrebbe trascurata, in questo panorama, la tradizione che non risale molto indietro nel tempo – di studi comparativistici sul mito affermatasi in Italia per impulso di Raffaele Pettazzoni. Al Pettazzoni appunto si deve una delle più acute e critiche recensioni al libro del Wilamowitz sulla religione greca («Studi e materiali di storia delle religioni», 1932, pp. 255-7). Del maggiore esponente di questa che è stata chiamata la «scuola di Roma», Angelo Brelich, va ricordato il saggio Paides e Parthenoi (Ed. Ateneo, Roma 1969); ma anche i due saggi di metodo: Problemi di mitologia («Religioni e civiltà», N.S. di «Studi e materiali», 1, 1972, pp. 331-525) e La metodologia della scuola di Roma (in: Il mito greco, Ed. Ateneo, Roma 1977, pp. 3-29).

II IL CICLO E LA TRADIZIONE DELL’EPICA 1. Il «ciclo» epico Tutti conoscono l’ultimo verso dell’Iliade: «Così onorarono la sepoltura di Ettore domatore di cavalli» (XXIV, 804). Ma uno scolio ci fa sapere che vi erano esemplari in cui il finale era diverso: «Così essi onorarono la sepoltura di Ettore; e venne l’Amazzone figlia del magnanimo Ares, uccisore di uomini». Questo finale serviva a collegare l’Iliade ad un altro poema epico, l’Etiopide, che narrava la lotta sostenuta da Achille contro Pentesilea, regina delle Amazzoni venuta ad aiutare i Troiani dopo la morte di Ettore, nonché la morte sia di Achille che di Pentesilea. Così l’Iliade veniva iscritta in un «ciclo», il cosiddetto ciclo epico, la serie concatenata di poemi che narrano la vicenda umana dalle più remote origini alla distruzione di Troia ed ai nòstoi. Ed anche del principio, dei celebri primi nove versi dell’Iliade, abbiamo notizia, per merito del teorico musicale Aristosseno (IV secolo a.C.), che c’era un’altra e più breve versione che aveva il solo fine di costituire una formula di trapasso da un poema precedente, appunto, all’Iliade. Tutto questo patrimonio epico è andato perduto. È probabile che si sia formato dopo l’Iliade e l’Odissea, sia pure su tradizioni molto antiche. Dai dati disponibili pare che fossero tutti poemi molto più brevi dell’Iliade e dell’Odissea (comprendevano in genere dai 2 ai 5 libri, 11 i Canti Ciprii). Del segmento più remoto e meno conosciuto di questa catena si hanno poco più che dei titoli: una Titanomachia e inoltre dei titoli che si riferiscono alla saga tebana (Edipodia, Tebaide, Epigoni). A questa vicenda si fa cenno qua e là nei due poemi omerici. Non è facile dire quando se ne sia persa traccia: ancora Aristofane nella Pace (421 a.C.) cita l’inizio degli Epigo-

30

L’epica arcaica

ni, in un contesto in cui fa parodia di versi epici e attinge indifferentemente ad Omero ed al ciclo. Meglio informati siamo sul contesto dei poemi riguardanti le vicende troiane, per merito di un riassunto molto sintetico dei poemi del ciclo troiano che era contenuto in un’opera perduta del tardo neoplatonico Proclo (V sec. d.C.) – la Crestomazia –: questi riassunti sono stati ricopiati in alcuni manoscritti medievali dell’Iliade (ad esempio il Veneto A) ed in parte sono stati utilizzati dal patriarca bizantino Fozio in un capitolo della sua Biblioteca. I poemi di argomento troiano partivano dalle ‘premesse’ della guerra. Prima dell’Iliade c’erano i Canti Ciprii che trattavano delle nozze di Peleo e Teti, del giudizio di Paride, del ratto di Elena. Dopo l’Iliade si collocavano, dal punto di vista del contenuto, l’Etiopide (di cui s’è già detto), la Piccola Iliade (che narrava dell’inganno del cavallo: materia cui poi attinse Virgilio nel II libro dell’Eneide), la Distruzione di Ilio (qui si parlava della fuga di Enea, collocata – diversamente che in Virgilio – prima del sacco della città: Enea si ritirava sul monte Ida subito dopo la tragica morte di Laocoonte strozzato dai serpenti marini). È notevole come, pur trattando l’Iliade soltanto un breve episodio dell’ultimo anno della decennale guerra, nessun altro poema del «ciclo» abbia pensato di narrare la lunga vicenda precedente: i tre poemi di fatto ‘completano’ in modo più o meno prolisso il racconto dell’Iliade fino alla distruzione della città. Evidentemente la tradizione non sapeva come riempire quei dieci anni. La posizione dell’Odissea nel «ciclo» è determinata dal suo contenuto. Essa si apre lamentando che gli altri eroi sono già tutti ritornati: i Nòstoi precedevano l’Odissea. Invece la Telegonia, lo stravagante poema ‘edipico’ (in cui Telegono, il figlio di Circe e di Odisseo, sbarcato ad Itaca alla ricerca del proprio padre, lo uccide senza saperlo), era considerata la naturale continuazione dell’Odissea, il cui finale, secondo il grammatico alessandrino Aristarco, doveva ritenersi già parte della Telegonia. Naturalmente non mancavano nomi di autori più o meno plausibili cui attribuire questi poemi: per esempio un Arctino di Mileto, al quale si attribuivano, dubbiosamente, la Titanomachia e soprattutto l’Etiopide e la Distruzione di Ilio. Ma le attribuzioni erano oscillanti: per gli stessi poemi si facevano anche altri nomi come quello di Lesche e, ovviamente, dello stesso Omero. La tradizione più antica prendeva queste attribuzioni con cautela. Erodoto, ad esempio, sapeva che gli Epigoni erano attribuiti ad

II. Il ciclo e la tradizione dell’epica

31

Omero, ma dubitava della fondatezza di tale attribuzione (IV, 32) e, quanto ai Canti Ciprii, ne respingeva l’attribuzione ad Omero mostrando che sono in contraddizione con quanto si legge nel VI libro dell’Iliade (II, 117). 2. Gli agoni rapsodici Gli autori di questi poemi hanno probabilmente operato dopo l’Iliade e l’Odissea, ma ciò non toglie che la materia di cui essi trattano fosse già oggetto di canti presupposti dall’epica omerica. Ad esempio Femio nella casa di Odisseo (I, 326) cantava «il ritorno degli Achei» e Demodoco nella reggia dei Feaci (VIII, 500-520) cantava l’inganno del cavallo e la distruzione di Troia; e sempre nell’Odissea è Elena stessa che narra a Telemaco e a Menelao (IV, 241258) l’episodio dell’ingresso di Odisseo a Troia camuffato da mendicante, che ricorreva nella Piccola Iliade. Sebbene il «ciclo» costituisca un complemento a posteriori dell’Iliade e dell’Odissea, esso si fonda su di un principio – quello della «continuazione» – che è insito nella stessa composizione epica. Una scena emblematica in tal senso è nel IX libro dell’Iliade: Achille canta (v. 186), nel momento in cui giunge l’ambasceria guidata da Fenice smette, e Patroclo continua il suo canto. Nell’agone dei rapsodi è la genesi dell’epica omerica: una rapsodia tiene dietro alla precedente continuandola, riprendendone il filo. L’espressione tecnica che indica questo modo di procedere, a¬nabállesqai a¬eídein (= «incominciare a cantare») è nel corpo stesso dell’Odissea (I, 155). Il «ciclo» fa proprio questo modo di procedere, inerente, insieme, alla recitazione e alla composizione. All’inizio del VI secolo, Solone emanava una norma che addirittura prescriveva che la recitazione dei poemi epici avvenisse, alle Panatenee, secondo la prassi della «continuazione»: ogni rapsodo doveva collegarsi al canto di colui che lo aveva preceduto (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 57). La continuazione si afferma, così, come la forma canonica del narrare: riappare nel corpus esiodeo e si afferma sin dalle origini anche nella storiografia. Un tale procedimento è l’altra faccia di quella aspirazione alla totalità, al racconto completo che copre tutti gli aspetti del reale e tutti i momenti dell’azione, di cui si è parlato a proposito della natura «enciclopedica» dell’epica. La continuazione infatti assicura che non ci siano ‘vuoti’ tra un evento e l’altro. Non im-

32

L’epica arcaica

porta se questa totalità senza iati sia apparente. Il presupposto è che tralasciare, non raccontare, un evento significa consentire che esso si smarrisca nel ricordo, o, come diceva Pindaro, «muoia» (Fr. 121 Snell). La continuazione, infine, risolve nel modo più semplice e pratico il problema dell’inizio, di come iniziare, un nuovo racconto. 3. I rapsodi La figura-chiave di questa tradizione sono gli aedi, cantori e al tempo stesso compositori, o comunque rielaboratori della cospicua materia tradizionale. Gli aedi sono figure socialmente rilevanti. Quando Agamennone parte per Troia affida all’aedo il compito di sorvegliare Clitennestra: «E lei dapprima rifiutava l’orribile azione, Clitennestra gloriosa: aveva buon sentimento. E l’era vicino il cantore, a cui molto raccomandò, andando a Troia, l’Atride di sorvegliargli la sposa» (Od., III, 265-268). E quando Clitennestra, trascinata dalla Moira, si perde dietro Egisto il quale «lei volente, volendolo, si portò a casa sua», per prima cosa si libera dell’aedo: «allora condusse il cantore sopra uno scoglio deserto e l’abbandonò, che fosse preda e cibo d’uccelli» (III, 270271). È un episodio che mostra un lato degli aedi non sempre emergente, quello di depositari, nella corte micenea, di una funzione di «controllo sociale». Funzione non disgiunta da un prestigio che fa sì che – pur nel massacro dei «proci» e nella terrificante punizione che Odisseo infligge ai servi infedeli – Femio, che ha sempre dilettato i «proci» col suo canto, venga risparmiato, con l’argomento un po’ specioso che lui cantava «per necessità» (a¬nágkhı: XXII, 331). Dopo la scomparsa dei palazzi micenei, i rapsodi non solo sopravvivono come tutori della tradizione epica, cioè del sapere, ma si organizzano in corporazioni: ad esempio gli autorevolissimi «Omeridi» di Chio, di cui parla Pindaro nella Nemea II, i quali si pretendevano addirittura discendenti di Omero. Il loro prestigio dipendeva evidentemente dalle loro conoscenze (conoscevano il testo, l’epos, in cui, come sappiamo, per definizione «c’è tutto»): essi sono probabilmente depositari di una redazione scritta dei poemi, che è base delle loro recitazioni e rielaborazioni. Il ‘libro’ è nelle loro mani: intorno non vi è circolazione libraria. Erodoto racconta (V, 67) che intorno al 600 a.C. Clistene, tiranno di Sicione, nel quadro di una dura campagna contro l’influenza argivo-dorica, vietò, a Sicione, gli agoni

II. Il ciclo e la tradizione dell’epica

33

dei rapsodi che recitavano poemi omerici «perché in quei poemi sono spesso esaltati Argo e gli Argivi». È probabile che Clistene abbia voluto colpire non solo certi contenuti dell’epos ma anche la potente corporazione che li amministrava. Né va trascurata, come segno della reazione contro il «sapere» dei rapsodi, la celebre invettiva di Eraclito – circa un secolo dopo Clistene di Sicione –, secondo cui bisognava «scacciare via a frustate Omero dagli agoni». È questo il senso della minacciosa invettiva, che infatti Diogene Laerzio cita, al principio della vita di Eraclito (Vite dei filosofi, IX, 1), insieme con il duro giudizio sulla falsa scienza di coloro che «descrivono la terra» (periegeti), detta sprezzantemente polymathìe, così simile alla onnivora onniscienza dell’«enciclopedia» epica. Ovviamente col tempo questo ceto si trovò ad essere detentore di un sapere sempre più vecchio e degno più di derisione che di avversione: basti pensare alla ironia con cui Platone prende in giro Ione che, conoscendo a memoria tutto Omero, dovrebbe di conseguenza conoscere tutto lo scibile. Al tempo di Platone i rapsodi erano ormai sentiti come degli attori (Ione, 532D). Nonostante la disistima che, col tempo, finì per circondare il loro mestiere e la loro figura, essi continuarono a praticare la loro arte negli agoni e nelle feste almeno fino al III secolo d.C. Nei secoli che precedono la formazione di strutture culturali decisive (la scuola di Aristotele e la Biblioteca di Alessandria), il loro ruolo nella conservazione del testo omerico è stato rilevante. Ancora nei Memorabili di Senofonte, Socrate chiede ad Eutidemo, che ha comprato un Omero «completo», se «voglia fare il mestiere di rapsodo» (IV, 2,10). Ciò mostra che ancora nel IV secolo il possesso dei testi omerici era un’eccezione, riservata appunto ai rapsodi. 4. La tradizione dell’epica Quanto a lungo la cura e la conservazione del testo omerico restò prerogativa dei rapsodi? Il loro ruolo dovette essere in certo senso analogo a quello degli attori nei confronti delle opere dei grandi tragediografi del V secolo: quanto più quelle tragedie entravano in uno stabile repertorio di grande successo, tanto più erano esposte alle modifiche e agli adattamenti suggeriti dal gusto del pubblico. Così i rapsodi, ‘detentori’ del testo omerico, poterono introdurre rielaborazioni o elementi confacenti a determinate realtà ‘locali’.

34

L’epica arcaica

Un’altra forza importante che ha contribuito a conservare, ma al tempo stesso ad inquinare, i testi epici è stata la pratica scolastica: i maestri di scuola ai tempi in cui Alcibiade era un fanciullo, cioè a metà del V secolo, «emendavano» – attesta Plutarco – il testo omerico (Vita di Alcibiade, 7). I procedimenti ‘critici’ non saranno stati diversi da quelli cui ricorre Erodoto (II, 117): due luoghi sono in contraddizione, ergo uno dei due non è autentico. Criterio che sorregge tanta parte della riflessione dei ‘filologi’ alessandrini, la cui dottrina è confluita nelle superstiti raccolte di scoli. Atene ha avuto un ruolo non trascurabile nella tradizione dell’epica. Perciò ha preso corpo una tradizione secondo cui Pisistrato – tiranno di Atene dal 561 al 527 a.C. – avrebbe per primo dato ai poemi omerici l’attuale assetto (sic disposuisse ut nunc habemus, dice Cicerone: De oratore, III, 137). Né mancavano tradizioni che addirittura facevano risalire all’età di Pisistrato la prima stesura scritta. A parte qualche inserzione fatta per compiacere Atene, va osservato che sintomo chiaro della influenza ateniese sono alcune forme attiche (h™mérh con lo spirito aspro accanto alla normale forma epica h®mar). Gli storici del V secolo, Erodoto e Tucidide, utilizzano Omero come fonte, ne discutono singoli passi, ne soppesano la qualità dell’informazione. Platone ha col testo omerico un rapporto complesso, in cui alla avversione «filosofica» contro il falso sapere dell’epica si alternano folgoranti osservazioni come quella intorno al carattere eminentemente drammatico, dialogico, dell’epica: onde fa l’esperimento di riscrivere «senza mimesi», come si esprime, il principio dell’Iliade, privandolo cioè del dialogo e parafrasandolo in prosa (Repubblica, 393E-394A). Aristotele riflette assiduamente su Omero nel quadro della teoria poetica: Omero ed Erodoto come simboli di due modi diversi del narrare. «Anche se dessimo forma metrica all’opera di Erodoto – osserva – questa resterebbe nondimeno opera di storia» (Poetica, 1451b1-3): è – sia pure soltanto immaginato – l’esperimento inverso rispetto a quello compiuto da Platone sul principio dell’Iliade. Esso serve ad Aristotele a sostegno della tesi generale, che è a fondamento della Poetica, sulla sostanziale alterità tra poesia e storiografia. Su Omero Aristotele ragionava più minutamente nei Problemi omerici (o Difficoltà omeriche, come anche è tramandato questo titolo). Qui – come si capisce da alcuni frammenti confluiti nella ricca raccolta di scoli ad Omero – la constatazione di difficoltà logiche lo portava talvolta ad intervenire sul testo1.

II. Il ciclo e la tradizione dell’epica

35

Con Aristotele siamo alle soglie dell’età alessandrina. Col lavoro sistematico della sua scuola, Aristotele pone le basi per lo studio ‘scientifico’ – biografico, antiquario, critico-testuale, esegetico – delle grandi opere del passato. Gli Alessandrini, i celebrati grandi «grammatici» del III e del II secolo a.C., Zenodoto, Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, i quali curarono edizioni del testo omerico, non hanno fatto che proseguire in modo ancor più sistematico e settoriale questo lavoro. Come a suo tempo aveva fatto in modo estemporaneo Erodoto, come in modo sistematico fa Aristotele, essi misurano in sostanza la ‘tenuta’ logica del testo omerico alla luce del senso comune. La loro categoria principe è la contraddizione. A loro vantaggio giocava la circostanza molto importante di poter disporre di una base documentaria (esemplari di Omero e degli altri autori) ben più ampia di quella accessibile ad Aristotele: erano confluite nella grande Biblioteca di Alessandria non solo le edizioni omeriche che varie città avevano allestito, ma anche autorevoli edizioni di singoli (ad esempio quella di Antimaco di Colofone, epico ed erudito fiorito alla fine della guerra del Peloponneso). Anche se il lavoro degli Alessandrini (i quali per fortuna non sempre cassavano dal testo i versi di cui sospettavano) ha lasciato un’influenza duratura nel testo omerico quale si è venuto fissando dopo di loro, la loro influenza non va sopravvalutata. È stato calcolato che ci sono note 874 lezioni risalenti ad Aristarco (o da lui suggerite o da lui approvate), e che, però, di queste solo 80 si sono affermate in tutta la tradizione superstite, mentre moltissime (245) figurano – nella tradizione giunta a noi – come varianti isolate. Ciò significa che sul testo giunto a noi si è esercitata l’influenza anche della dottrina successiva. L’efficacia del lavoro degli Alessandrini si coglie soprattutto se si considerano i non molti frammenti papiracei risalenti ad un’epoca anteriore: il testo omerico ci appare da tali testimoni prealessandrini tutt’altro che stabile, caratterizzato dalla presenza di vari versi in più o in meno rispetto all’assetto attuale. Nel fissare il testo contro una tale condizione di fluidità l’opera degli Alessandrini ha avuto notevole efficacia. 5. «Omero minore» Sotto il nome di Omero ci sono giunti anche componimenti esametrici detti Inni o Proemi (perché cantati prima della recitazione

36

L’epica arcaica

epica) – 33 inni di varia estensione, alcuni dei quali, come l’VIII, sicuramente molto recenti –, nonché la frigida epopea comica che narra la guerra tra rane e topi, Batracomiomachia (su cui cfr. p. 582), in 303 esametri, che purtroppo piacquero al Leopardi, il quale li tradusse più volte costruendone anche un seguito moderno (Paralipomeni della Batracomiomachia). Infine alcuni frammenti di un poemetto comico intitolato Margite (cfr. p. 582). La grande maggioranza dei manoscritti, peraltro piuttosto tardi (XV secolo), che tramandano gli Inni, non comprende l’Iliade e l’Odissea, bensì – in genere – gli Inni di Orfeo, di Proclo, di Callimaco, talvolta anche altri componimenti. Ciò significa che – sebbene tramandati sotto il nome di Omero – essi hanno avuto una tradizione autonoma; l’idea di accorparli con i poemi omerici (per esempio nell’importante manoscritto M, smembrato fra Leida e Mosca) dev’essere dovuta all’iniziativa di qualche umanista. Rispetto ai problemi di autenticità che queste opere pseudoomeriche ponevano, gli Alessandrini non si devono essere particolarmente impegnati a sceverare l’autentico e lo spurio. Nel II secolo a.C., nel bassorilievo dell’«Apoteosi di Omero» a Priene, ai piedi del trono del poeta si scorge ancora effigiato un topo, la rana non è più riconoscibile. L’artista rispecchiava l’idea che anche il poemetto scherzoso-animalesco fosse di Omero. Note 1 Ad esempio si chiede perché nell’Odissea soltanto di Ino, di Calipso e di Circe sia detto «che emettono voce umana», au¬dhéssav (V, 334; X, 136): «anche le altre erano fornite di voce», obiettava, e perciò proponeva di cambiare il termine in au¬lhéssav («solitarie») ovvero in ou¬dhéssav («che sono sulla terra, terrestri»: Fr. 171 Rose). Questa proposta non rimase senza seguito nella tradizione.

III UN ‘TEOLOGO’ VENUTO DALL’ORIENTE: ESIODO

1. L’agone di Calcide e la guerra lelanzia Una lastra di piombo consumata dal tempo veniva mostrata ai visitatori del santuario delle Muse ai piedi del monte Elicona, in Beozia. Vi era inciso il testo delle Opere di Esiodo. Una tradizione locale sosteneva che quel poema fosse l’unico davvero esiodeo, e adduceva a riprova appunto quel pezzo di piombo. Se pretendeva di essere l’«originale», quella lastra non provava nulla: il piombo era il materiale prediletto dai falsari. E comunque Esiodo, intorno al 700 a.C., specie in una regione come la Beozia la cui unica ricchezza era la pastorizia, avrà scritto o fatto scrivere su pelli di animali: egli stesso si raffigura, al principio della Teogonia, intento a sorvegliare le sue bestie. Un’altra tradizione locale attribuiva invece ad Esiodo un’imponente massa di versi: il Catalogo delle donne, le Grandi Eoie, la Teogonia, i Precetti di Chirone, le Opere e i Giorni, la Melampodia. Nel recinto sacro alle Muse si conservava anche una serie di tripodi votivi; e si pretendeva che uno di essi fosse quello che Esiodo aveva vinto a Calcide in Eubea ed aveva poi dedicato, come egli stesso racconta, alle Muse. Tutto ciò lo riferisce, nell’età dell’imperatore Adriano (II secolo d.C.), il dotto Pausania, nella sua ricchissima «guida archeologica» della Grecia, nel libro dedicato alla Beozia (IX, 31,3-5). Ovviamente lo stesso Pausania è piuttosto prudente dinanzi a questa specie di ‘santuario’ esiodeo, sorto proprio nei luoghi dove il poeta aveva vissuto e operato. La vittoria poetica era stata il fatto capitale nella vita di Esiodo. Non si era trattato di un qualunque agone poetico. La gara si era svolta a Calcide – la grande potenza che fondava colonie dall’Italia (Cu-

38

L’epica arcaica

ma) alla Siria (Mina) – ed in un momento solenne e di grande richiamo, nell’ambito del più rilevante conflitto dell’età arcaica. Era la guerra lelanzia, combattuta appunto tra Calcide ed Eretria, le due maggiori città dell’Eubea, per il dominio della piana del fiume Lelanto e quindi dell’intera, ricchissima, isola. Fu questa, secondo Tucidide, la guerra terrestre più grande prima delle guerre persiane, l’unica che non si limitasse ad interessare soltanto comunità confinanti, ma che coinvolgesse l’intero mondo greco: «Soltanto nella guerra scoppiata un tempo tra Calcide ed Eretria accadde che tutto il resto del mondo greco si dividesse schierandosi in alleanza con uno dei due contendenti» (I, 15). Gli studiosi moderni limitano talvolta la portata di questa affermazione tucididea, qualcuno pensa che ci sia stato soltanto un intervento della cavalleria tessala. È difficile sovvertire radicalmente il dato tradizionale se si considera il peso delle città in lotta e la posta in gioco. Nel conflitto cadde combattendo per mare, se si deve prestare fede a Plutarco, Amfidamante, personaggio in vista di Calcide. Esiodo prese parte ai giochi funebri in suo onore, e probabilmente in quella occasione recitò la Teogonia, la più antica delle sue opere. Così narra l’episodio nelle Opere: «Mai mi sono messo per il vasto mare su di una nave, se non per salpare verso l’Eubea da Aulide, dove un tempo gli Achei, attesa la fine della bufera, raccolsero un grande esercito dalla sacra Grecia contro Troia dalle belle donne. Lì io mi imbarcai per Calcide, per i giochi in onore del valoroso Amfidamante. I premi in palio erano molti, offerti dai figli dell’eroe. Io dico che lì vinsi e mi portai come premio un tripode a due anse; l’ho dedicato alle Muse del monte Elicona, proprio là dove esse mi avviarono al canto armonioso. Altra esperienza non ho delle navi dai mille chiodi» (Opere, 650-660).

«Amfidamante era morto in battaglia navale contro quelli di Eretria – scrive Plutarco –, nella lotta per la piana del fiume Lelanto» (Commento ad Esiodo, Fr. 26 Dübner). È difficile immaginare concretamente questa battaglia «navale» nella contesa per il possesso di una pianura: oltre tutto Tucidide sembra classificare chiaramente la guerra lelanzia tra le guerre combattute sulla terraferma, non sulle navi. Comunque, i dati di Plutarco meritano attenzione: egli aveva studiato Esiodo, suo ‘conterraneo’ e massima gloria poetica della Beozia, con spirito simpatetico e dottrina antiquaria. Una fonte recente e poco fededegna, la Gara tra Ome-

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

39

ro ed Esiodo, ritiene di sapere che Amfidamante fosse addirittura «re della Beozia» e che ai giochi in suo onore partecipassero appunto, gareggiando, Omero ed Esiodo. Quanto ad Esiodo, egli riserva ad Amfidamante epiteti di eroi omerici: dafifrwn, che nell’Iliade vuol dire «bellicoso» e nell’Odissea «prudente», megalätwr, «coraggioso». Ciò fa solo capire che Amfidamante doveva essere un personaggio di alto rango, com’è chiaro del resto dai giochi funebri e dalla gara poetica. Se il sincronismo tra Esiodo e la guerra lelanzia è certo, incerta è la data di quella guerra, che gli studiosi moderni collocano, con qualche oscillazione, tra la fine dell’VIII e la metà del VII secolo. Un dato importante è quello noto ad Aristotele: Eretriesi e Calcidesi avevano combattuto con la cavalleria, arma tipica dell’aristocrazia (Politica, 1289b36-39). Non si è forse molto lontani dal vero ponendo quella guerra, e quindi anche il principale ‘evento’ noto della vita di Esiodo, intorno al 720-700 a.C., dal momento che al tempo di Archiloco, al principio del secolo successivo, si combatteva ormai con plebee fionde (Fr. 3 West). 2. Esiodo da Cuma d’Asia ad Ascra In Beozia, ad Ascra, selvatico paesucolo di pastori ai piedi del monte Elicona, Esiodo ci era venuto da ragazzo, al seguito del padre, o addirittura ci era nato. Le notizie sulla propria origine che ci dà, nelle Opere, nello stesso contesto sulla navigazione in cui parla del suo memorabile viaggio a Calcide, fanno di lui una persona concreta, storica. Il suo racconto è scarno ma preciso: «Allora è il momento di mettere in mare la nave rapida, è il momento di preparare la merce e gli attrezzi, se vuoi portare a casa un guadagno. Come il padre mio e tuo, stupidissimo Perse [è il fratello di Esiodo, destinatario degli insegnamenti contenuti nel poema]: soleva mettersi in mare con le sue navi, cercando prospera vita. Lui venne qui, un tempo, traversando gran tratto di mare, lasciando Cuma di Eolia, su di una nave nera: non fuggiva la ricchezza o il lusso, ma la mala povertà, che Zeus infligge agli uomini. E si stabilì presso il monte Elicona, in un villaggio misero, Ascra: tremenda d’inverno, penosa d’estate, mai piacevole» (Opere, 631-640).

Quest’uomo che, senza molto successo, praticava il commercio marittimo era anche un nobile, come si ricava dall’epiteto «stirpe

40

L’epica arcaica

di Zeus» che Esiodo rivolge al fratello (v. 299). E non sarà un caso che abbia dato al figlio, Perse, il nome di una divinità (Teogonia, 377). Anche il fratello di Saffo, Carasso, si recava in Egitto, a Naucrati, a fare commercio di vino (Strabone, XVII, 808) ed Erodoto (II, 135) conosceva anche le sue appassionate vicende con la cortigiana Rodopi, che tanto indignarono la sorella poetessa. Ma il padre di Esiodo, «fuggendo la mala povertà», si trasferì in Beozia. È parsa quasi una stranezza, comunque un gesto disperato. «Avrà viaggiato – ha scritto Martin L. West, il maggior studioso di Esiodo – finché non ha trovato terra promettente da lavorare». Certo quel viaggio è stato una svolta: il nobile-mercante attivo nella grande e progredita città della costa asiatica si è trasferito in un borgo oscuro, tetro, poverissimo. Evidentemente si proponeva altro. Ed ha forse ragione Jean Bérard quando, nel suo classico libro sulla colonizzazione greca, mette in relazione la partenza da Cuma eolica ed il trasferimento in Beozia del padre di Esiodo con la fondazione, da parte di Calcide, di Cuma in Campania. È probabile infatti che nella fondazione di Cuma in Campania siano stati coinvolti coloni provenienti da Cuma eolica, e che il padre di Esiodo si sia deciso al gran passo in concomitanza con questo movimento. (Si può anche pensare che vi fosse direttamente interessato.) Sta di fatto che un legame della famiglia con Calcide – promotrice della fondazione di Cuma in Campania – deve essere rimasto, se il figlio, Esiodo, è stato chiamato, con tanto successo, a Calcide alle solenni onoranze di Amfidamante. Insomma lo spostamento dall’Asia alla Beozia, alla odiata Beozia, della famiglia di Esiodo sembra da collegarsi al movimento migratorio di cui l’altra Cuma, la Cuma di Campania, fu il frutto. Il vecchio dovette avere una formazione culturale piuttosto singolare, ma ciò riesce comprensibile se si tien conto del suo mestiere e del suo ceto. Conoscenze geografiche gli saranno venute dalla navigazione. Ha chiamato un figlio Perse. È una scelta notevole. Perse infatti è il nome di una divinità che Esiodo definisce dotata di grande «sapienza» (Teogonia, 377), padre di Ecate (Teogonia, 411), la divinità asiatica di cui Esiodo, e certo già suo padre, è un appassionato adoratore (Teogonia, 414-452). È uno scoppio di entusiasmo quello di Esiodo per Ecate, che per un po’ interrompe il flusso genetico descritto nella Teogonia: «Sta accanto a chi vuole proteggere e molto lo aiuta: nel giudizio sie-

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

41

de presso ai re venerabili; nell’assemblea eccelle tra il popolo chi lei vuole; e quando nella guerra massacratrice si armano gli uomini, qui la dea sta appresso a colui cui vuole benevolmente concedere vittoria e arrecare fama, ecc.» (Teogonia, 429-433). Ecate è divinità passata dalla Caria in Grecia; le più antiche documentazioni archeologiche che la riguardano sono in Asia minore. Il suo culto, estraneo all’Olimpo omerico, è rimasto privato, piuttosto che pubblico, anche quando è passata ad Egina, Selinunte, Atene, dove se ne serba traccia ma dove ha via via cambiato natura e caratteri. Dunque, lungi dall’essere un’aggiunta di un rapsodo cario (come pensava il Wilamowitz), questa fervida esaltazione di Ecate è – da parte di Esiodo – una straordinaria rivelazione delle proprie matrici.

Il padre, che chiamò Perse l’altro figlio, era certo un devoto della dea; ed è a lui, alla sua ricca esperienza più asiatica che greca, che Esiodo deve molto del sapere che fieramente ostenta. Nulla esclude del resto che proprio il nome Perse indichi anche un formale rapporto col culto di Ecate o una pretesa (genealogicamente argomentata da Esiodo nelle Eoie?) di discendenza dalla dea: onde la pretenziosa definizione «stirpe di Zeus», che Esiodo adopera quando apostrofa il fratello Perse. 3. La «Teogonia» Nella Teogonia Esiodo prospetta una visione dominata dal fenomeno della riproduzione. Il racconto descrive un flusso genetico scandito dai sempre ricorrenti e¢tikten, e¢teken, (e¬)geínato («generò», «partorì»). Il filo conduttore è la successione Urano-Crono-Zeus. Il loro succedersi come potenze reggitrici dell’Universo è frutto di violenze, la più recente delle quali si consuma nella lotta tremenda di Zeus contro i Titani. Dopo tale vittoria, Zeus conquista il dominio per tutto il tempo a venire. La prima ribellione è quella di Crono contro Urano. Gea, la Terra, amata da Urano, genera figli, che Urano subito odia e ricaccia nel corpo di Gea, nel suo «antro» (v. 158). L’ambiguità della figurazione esiodea – a metà strada tra la descrizione di processi naturali e la resa di tali processi in forma antropomorfica – risulta ben chiara da questa immagine dei figli ricacciati nel corpo di Gea, nel suo «antro» (keuqmån), nella sua cavità nascosta, che alcuni interpreti intendono come «seno», altri co-

42

L’epica arcaica

me «baratri della terra». Gea soffre «stipata di dentro»; per liberarsi ricorre all’astuzia: «Subito, creato il pallido acciaio, costruì una grande falce e si rivolse ai cari figli. A loro parlò destando coraggio, sebbene afflitta nel caro cuore: “Figli miei e di un padre scellerato, se volete udirmi potremo ora vendicare la mala ingiuria di vostro padre. Ché lui per primo escogitò opere nefande”. Così disse. Tutti allora furono presi dal terrore e nessuno di loro parlò. Solo, con coraggio, il grande Crono, dal tortuoso pensiero, rispose alla nobile madre dicendo: “Madre, io ti prometto di compiere l’opera, poiché del nostro padre esecrabile non m’importa. Fu lui primo a compiere opere nefande”. Così disse e gioì molto dentro di sé la grande Gea. E lo nascose in agguato; in mano gli pose la falce dentata; e ordì tutto l’inganno. E venne, recando la notte, il grande Urano: desideroso di amare, intorno a Gea si pose e si stese su di lei tutto quanto. Allora il figlio dall’agguato si sporse. Si avventò con la mano sinistra, con la destra ghermì la falce tremenda, grande coi denti aguzzi, e tagliò d’un colpo i genitali del caro padre, e li gettò via dietro di sé, perché scomparissero» (Teogonia, 161-182).

Questa scena cruenta ha un chiaro modello nell’epica teogonica mesopotamica: la separazione dell’unità originaria costituita dalla coppia primigenia cielo-terra (Urano-Gea). Questa unità si ricompone nella notte, quando appunto Urano si unisce a Gea; la loro separazione violenta dà origine al nuovo regno, all’ordine rappresentato da Crono. Le gocce del sangue di Urano inseminano ugualmente Gea, che, «volgendosi gli anni, generò le Erinni potenti ed i Grandi Giganti, splendenti nelle armi». Il membro di Urano trascinato a lungo dalle acque del mare emette «dall’immortale carne una bianca schiuma, e in essa una fanciulla era nutrita», Afrodite (vv. 183-191). Il quadro di questa prima generazione si conclude con la lunga e circostanziata esaltazione di Ecate (vv. 404-452, cfr. pp. 40 sg.). Seguono i figli di Crono. Se Urano stipava i figli nel corpo di Gea, Crono inghiotte i figli che Rea genera, non appena uscivano dal «sacro utero» (v. 460). Crono sa infatti, da Urano e da Gea, «che per lui – per quanto forte – era destino di essere vinto da un figlio, per il volere di Zeus grande» (vv. 464-465). Già i lettori antichi protestavano contro questo verso. Uno scolio si chiede: «come poteva Zeus ispirare Crono, se non era ancora nato?». Ma nella visione di Esiodo il tempo non ha ancora assunto quella funzione direttiva che è tipica del pensiero logico successivo. Tranquilla-

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

43

mente si intrecciano, per lui, l’eterno presente dell’ordine attuale, in cui tutto è regolato da Zeus, con la faticosa ed approssimativa diacronia degli eventi – codificati da tradizioni assai remote giunte sino a lui – che precedono e preparano l’avvento di Zeus. Anche questa volta è l’intelligenza della madre che interrompe lo scempio. Rea, che è anch’essa, come Crono suo sposo, figlia di Urano e di Gea (in questo flusso genetico primordiale l’incesto è la norma), prega Gea ed Urano di darle un consiglio (mñtin). Essi la mandano a Creta a partorire, dove Gea fa da levatrice alla figlia. Zeus neonato viene nascosto in una profondissima e selvosa caverna, ed a Crono viene propinata da Rea una grande pietra, che Crono inghiotte credendo d’inghiottire il figlio. Come Crono venga domato da Zeus non è narrato per esteso: se ne vedono gli effetti. Crono è indotto «dalle arti e dalla forza del figlio» (v. 496) a risputare i suoi figlioli, a cominciare dalla pietra, che aveva inghiottita per ultima, e Zeus la fissa saldamente nel terreno, a Delfi, come eterno ricordo. Il nuovo ordine instaurato da Zeus è turbato dalla gigantesca lotta che deve sostenere contro i figli di Urano, i Titani, che si scontrano con selvaggia violenza contro i figli di Crono; ma l’ultima insidia è rappresentata dalla nascita del mostruoso e fortissimo Tifeo dalle cento teste, orribile drago dalle sopracciglia di fuoco. È col fulmine che Zeus stroncherà la tremenda minaccia: «quel giorno sarebbe avvenuto un evento tremendo, Tifeo sarebbe divenuto signore dei mortali e degli immortali» (vv. 836-837). Il regno di Zeus consiste, per Esiodo, nella serie delle sue unioni e nel quadro della sua discendenza. Qui il poema s’interrompe con due versi che annunciano un canto riguardante «la stirpe delle donne» (vv. 10211022): raccordo, come vedremo, con le perdute Eoie (cfr. p. 54). 4. ‘Fonti’ della «Teogonia»: l’«Enûma Elisˇ» Quando indica gli esponenti del falso sapere, Eraclito fa due coppie di esempi: da un lato Esiodo e Pitagora, dall’altro Ecateo e Senofane. Non a caso: se accomuna Senofane ad Ecateo, ciò sarà in ragione della loro critica degli aspetti «ridicoli» del mito, ispirata tutto sommato al buon senso; se accomuna Esiodo a Pitagora, ciò sarà dipeso dal fatto che entrambi gli dovevano apparire come impregnati di una oscura «sapienza» ancestrale (in Pitagora il retaggio orfico, in Esiodo la teogonia di matrice orientale) particolar-

44

L’epica arcaica

mente urtante per il suo razionalismo ionico. Eraclito rifiutava sia i portatori della tradizione che i critici ‘empirici’ di essa. Eraclito coglieva probabilmente il carattere essenziale della Teogonia esiodea: la sua derivazione da una remotissima tradizione cosmogonica, da quella «epica della creazione» che è per noi documentata dall’epos mesopotamico e ittito nonché dal libro antico-testamentario del Genesi. Le analogie tra la Teogonia ed il poema accadico, della metà circa del II millennio a.C., Enûma Elisˇ, sono molteplici e riguardano gli eventi capitali: non solo la separazione della coppia primigenia – di cui s’è già detto – nella scena della drammatica rottura cielo/terra (Urano/Gea), ma anche il fatto davvero straordinario che i figli della dea sono «stipati dentro» di lei, e infine la castrazione del dio. «Non era Esiodo a fare quelle affermazioni – ha scritto George Thomson –, ma le ricavava a sua volta dai predecessori; il suo racconto è infatti alquanto confuso e non è difficile scoprirne la ragione. Nella narrazione esiodea, il cielo e la terra sono presentati antropomorficamente come esseri umani [...]. Questo quadro è palesemente incompatibile con l’idea che essi fossero originariamente un unicum» (I primi filosofi, p. 152).

Nell’Enûma Elisˇ è Marduk che alla fine dei vari conflitti viene proclamato dagli dèi riuniti in assemblea, e dopo un banchetto, loro sovrano. Ma anche Marduk ha dovuto superare un conflitto terribile, contro Kingu ed il suo esercito di mostri marini, così come Zeus ha dovuto superare lo scontro con Crono ed i Titani. Naturalmente non è possibile indicare in modo certo come questa tradizione, o meglio queste tradizioni, siano giunte sino ad Esiodo: attraverso quali mediazioni e trasformazioni; in che misura Esiodo stesso fosse consapevole di innovare o rielaborare un bagaglio già codificato. Si può pensare, come ha suggerito F.M. Cornford (l’autore dell’importante saggio, cui si ispira Thomson, The Unwritten Philosophy), che mediatrice sia stata la Creta minoica. Quello che colpisce è comunque la diffusione di queste tradizioni cosmogoniche nell’area mesopotamica e ittita: tutto ciò fa pensare che davvero questo «sapere» giungesse ad Esiodo dal suo retroterra microasiatico, simboleggiato in certo senso dalla figura del padre, nobile mercante/viaggiatore, adoratore di Ecate. Quando perciò Esiodo ha esibito questo suo sapere nella gara

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

45

di Calcide, egli ha vinto – come trionfalmente ricorda nelle Opere – anche per la prorompente novità di questo bagaglio. Del carattere di novità dei contenuti della Teogonia e della natura ‘sistematica’ di questo sapere parla, del resto, chiaramente Erodoto nella sua diffusa e circostanziata testimonianza su Esiodo e su Omero, nel II libro delle Storie, quello dedicato all’Egitto: «Da chi sia nato ciascuno degli dèi, o se tutti fossero eterni, e quale fosse il loro aspetto, non si sapeva fino a poco fa: fino a ieri, per così dire. Io penso infatti che Esiodo ed Omero siano vissuti quattrocento anni prima di me, non di più: e sono loro che hanno composto per i Greci una Teogonia, hanno dato il nome alle divinità, suddiviso tra di loro onori e competenze, e tratteggiato il loro aspetto. I poeti che si dice siano stati prima di costoro [si tratta di Lino, Orfeo, Museo], secondo me vennero dopo. Ciò che ho detto prima, è quanto riferiscono le sacerdotesse di Dodona. Quello che ho detto a proposito di Esiodo e di Omero sono affermazioni mie» (II, 53).

È di grande interesse l’intero contesto: Erodoto fa ancor più risaltare la novità dell’apporto esiodeo ed omerico perché lo inserisce nella descrizione di quanto fosse recente, rispetto al mondo egizio, la ‘nozione delle divinità’ da parte dei Greci, i cui antenati Pelasgi, infatti, continuarono a lungo a parlare genericamente di «divinità» senza distinguere né caratterizzare ciascuna di esse. C’è anche da dire che Erodoto sembra aver presente soprattutto Esiodo là dove parla di «dare i nomi» e «suddividere tra loro onori e competenze»: l’espressione che adopera, timáv te kaì técnav dielóntev, è ripresa direttamente dalla Teogonia, e precisamente dalla apostrofe conclusiva dell’inno proemiale, dove Esiodo invita le Muse a cantare da chi nacquero gli dèi «e come si spartirono gli onori (kaì w™v timàv diélonto)» (vv. 108-112). Era la Teogonia il grande testo che aveva sistemato, per il mondo parlante greco, questa materia: probabilmente Erodoto chiama in causa Omero intendendo dire che Omero ha per primo «fatto agire» quel mondo divino di cui Esiodo aveva fissato i connotati. I contenuti cui fa riferimento sono appunto quelli del poema esiodeo: esso è «sapienza» in metro eroico, non già «letteratura». Esiodo è stato dunque il portatore di un ‘pantheon’ complesso e articolato (è da chiedersi fino a che punto lo padroneggiasse) in un mondo arretrato,

46

L’epica arcaica

e perciò da lui disprezzato (nel celebre passo in cui descrive Ascra: Opere, 640), dove si è imposto con l’exploit di Calcide. 5. Esiodo ‘veggente’ Che quel successo fosse dovuto appunto alla recitazione della Teogonia lo fa capire Esiodo stesso nelle Opere quando dice (vv. 658-659) di aver dedicato alle Muse Eliconie il tripode vinto nella gara di Calcide, e di averlo collocato «proprio là dove esse mi avviarono al canto armonioso»: è esattamente la scena descritta nell’inno proemiale premesso alla Teogonia, le cui prime parole sono appunto «Muse Eliconie», e la cui scena iniziale descrive l’apparizione delle Muse ad Esiodo sull’Elicona e l’incitamento che esse gli rivolsero (v. 22: «esse una volta ad Esiodo insegnarono un bel canto»; vv. 31-32: «mi ispirarono il canto divino [...] e mi ordinarono di cantare le stirpi dei beati»). Si può anche ipotizzare che l’inno proemiale premesso alla Teogonia (vv. 1-104) sia la celebrazione delle Muse composta in occasione della dedica del tripode avvenuta proprio nel luogo di cui si parla al principio dell’inno. È comunque chiaro che il canto per le Muse è un pezzo del tutto distinto dal poema (diversissima ne è l’intonazione): è un inno al pari di quelli correnti sotto il nome di Omero (cfr. p. 35), detti anche «proemi» perché recitati, nelle esibizioni degli aedi, prima della vera e propria recitazione epica. È stato osservato da Martin L. West che le parole conclusive dell’inno alle Muse paiono riferirsi proprio al «lutto recente» dei figli di Amfidamante: il che confermerebbe ulteriormente che fu appunto la Teogonia il poema recitato in quei giochi funebri: «Beato colui che le Muse amano; dolce dalla sua bocca scorre la voce; se qualcuno dissecca nel dolore il suo cuore, perché ha un affanno nell’animo recente di lutto, e un aedo allora, servitore delle Muse, canterà le gloriose gesta dei primi uomini e gli dèi che abitano l’Olimpo, subito quello dimentica i dolori né si ricorda più degli affanni: subito lo distolgono i doni delle dee» (vv. 96-103).

Non ci sono ragioni fondate per pensare che Esiodo facesse il ‘mestiere’ di aedo. Da questo punto di vista la sua immagine è talmente oscura, che si sono prospettate ipotesi opposte: alcuni ne fan-

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

47

no un rapsodo professionale (Albin Lesky); altri un dilettante che deve, proprio perciò, fare ricorso alla scrittura, il che ha poi consentito che il suo canto, diversamente da quello di tanti altri rapsodi, si conservasse (Martin L. West). Se Esiodo dà una definizione di sé, lo fa – nell’importante proemio della Teogonia – ponendosi sullo stesso piano del veggente e dell’indovino. Il suo canto è voce ispirata dagli dèi (au¬dæn qéspin), il compito affidatogli dalle Muse (v. 32) è di cantare «il futuro ed il passato» (tá t’ e¬ssómena pró t’ e¬ónta) o, secondo la formula più completa del v. 38, dove il sapere di Esiodo viene identificato con quello delle Muse, «il presente, il futuro ed il passato» (tá t’ e¬ónta tá t’ e¬ssómena pró t’ e¬ónta): che è appunto la definizione del sapere dell’indovino Calcante nell’Iliade (I, 70). Al contrario di Esiodo, l’aedo del Catalogo delle navi (Iliade, II, 485-486) distingue tra «voi Muse», che «siete sempre presenti, tutto sapete», e «noi» (aedi) che «soltanto la fama (kléov) ascoltiamo, ma nulla vedemmo». Una tradizione raccolta da Pausania (IX, 31,5) durante il suo viaggio in Beozia assicurava che Esiodo avesse appreso l’arte della divinazione dagli Acarnani. Ovviamente Esiodo ha familiarità col mondo degli aedi. Sa, per esempio, che tra loro vige, come tra i vasai o i carpentieri, la «buona rivalità», la rivalità nel gareggiare, quella che spinge all’opera l’uomo indolente: «Ed il vasaio ce l’ha col vasaio, il carpentiere col carpentiere, lo straccione con lo straccione, l’aedo con l’aedo» (Opere, 2526). Ben singolare elenco di mestieri: ma Esiodo sa anche del loro prestigio e del loro potere presso gli altri uomini (Teogonia, 94-103). 6. Le «Opere» Se la Teogonia svolge una materia in certa misura conforme al repertorio tipico degli aedi (la lotta di Zeus contro i Titani è un episodio che era oggetto di uno dei poemi del «ciclo», cfr. p. 29 ), non può dirsi lo stesso delle Opere, la composizione esiodea successiva, in ordine di tempo, alla Teogonia. Qui siamo dinanzi ad un testo sapienziale di impianto precettistico strutturato secondo lo schema e con gli ingredienti tipici della letteratura sapienziale: un parlante principale (nelle Opere è l’autore in prima persona, altrove è un «saggio»), un destinatario (nelle Opere è il fratello Perse, altrove è il «re» se chi parla è il suo consigliere, o un figlio se chi parla è il padre), una precettistica pratica (in genere non molto rigorosamen-

48

L’epica arcaica

te ordinata). Anche per le Opere, come già per la Teogonia, ci si deve richiamare alla produzione orientale del III e del II millennio: a testi sumeri come le Istruzioni di Sˇuruppak (circa 2500 a.C.), scoperto nel 1974, o al poema accadico detto Consigli di Saggezza (risalente al 1500-1200 a.C.). Nel primo caso il saggio Sˇuruppak parla al figlio o al re (in una copia frammentaria l’apostrofe del parlante non è «figlio mio», ma «mio re»), nel secondo caso è il consigliere di un re che parla al proprio figlio. La saggezza pratica che questi testi propongono riguarda i temi più disparati: dall’acquisto di animali utili per il lavoro, alla raccomandazione di prudenza, dall’incitamento alla giustizia, al consiglio di evitare nozze degradanti (con schiave o prostitute), e così via. È evidente che i destinatari sono fittizi, e infatti non a caso talvolta mutano in varie redazioni dello stesso poema. Anche per le Opere esiodee, dove frequente ricorre l’apostrofe a Perse, fratello del poeta, è stata sollevata la questione della storicità o meno di questa figura, di questo personaggio al quale Esiodo rimprovera una grave infrazione della giustizia (aver corrotto i «re» per farsi attribuire la maggior parte dell’eredità), onde farne poi il destinatario dei reiterati consigli ad agire secondo giustizia. (È la stessa situazione del poema di Ah.iqar, dove il protagonista è stato vittima di un vicino.) Ci si è domandati – già da parte di qualche dotto antico, come si capisce dagli scoli – se questo Perse sia davvero mai esistito, o non sia uno strumento espositivo (come i vari «re» o «figli» nei poemi sapienziali dell’antico Oriente). Ciò che ha contribuito a rendere sospetta la storicità della figura di Perse è il fatto ben singolare che la sua immagine, i dati che lo riguardano, si modificano, per così dire, a seconda del precetto via via destinatogli: ora è colui che si è arricchito ingiustamente, ora è colui che è ridotto in miseria e perciò ammaestrato. (Inutile dire quante elucubrazioni abbiano costruito i moderni per collegare queste due ‘facce’ di Perse: arricchitosi ingiustamente era poi caduto in miseria, e perciò voleva intentare al fratello un secondo processo ecc.) Elucubrazioni ne provocava del resto lo stesso nome di Esiodo, che, non essendo attestato mai per nessun altro personaggio noto, parve a qualcuno un soprannome, peraltro di oscura interpretazione e di cui si cercava a tentoni la ‘chiave’ nel corpo stesso del poema. In realtà è abbastanza evidente che Esiodo è una personalità concreta con una notevole inclinazione autobiografica, che compie anche l’‘audacia’ stilistica di fare il proprio nome in principio del primo

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

49

dei due poemi (Teogonia, 22-24) e nel secondo fa riferimento in modo chiaro alla sua opera precedente. È dunque difficile immaginare che nelle Opere una persona concreta, non fittizia, Esiodo – che è anche il parlante principale –, dia consigli ad un fittizio fratello, Perse. Nei poemi sapienziali cui si è fatto cenno prima sono fittizi tanto i parlanti principali (padri o vizir che siano), quanto i loro destinatari. Liberamente adattate alla gamma dei precetti che Esiodo intende formulare saranno invece le vicende e i tratti peculiari di Perse, che bisogna rassegnarsi a veder trasformato – dal v. 298 in poi – da spergiuro in essenzialmente pigro. Ma è inutile pensare a brani composti in momenti differenti, o addirittura frantumare le Opere in vari autonomi «Canti a Perse», secondo una veccha ipotesi del Kirchhoff, che ha avuto una certa fortuna tra Otto e Novecento (la suggestione era quella delle elegie «a Cirno» di Teognide). 7. La ‘caduta’ originaria: il mito di Pandora Per quanto appaia contraddittoria, la figura di Perse costituisce comunque un filo che, per lo meno esteriormente, unifica una materia la cui compattezza e unità è piuttosto lassa e scricchiolante. Dopo un breve proemio di invocazione alle Muse, una distinzione tra la buona e la cattiva Eris («lotta», «rivalità»), ed una pressante apostrofe a Perse al quale viene immediatamente preannunziato (v. 10) che dovrà ascoltare «delle verità», il primo tema delle Opere è il mito di Pandora creata da Zeus per punire l’umanità dell’usurpazione del fuoco divino ad opera di Prometeo (vv. 42-105). Segue, con un legame del tutto esteriore («se vuoi ti narrerò in breve un altro lògos»), un nuovo canto, che narra il mito della successione delle varie età, o «razze»: da quella dell’oro, beata, che era «al tempo di Crono», a quella, appena estintasi, degli eroi morti in parte davanti a Tebe, in parte «oltre il mare, a Troia, dove erano andati a causa di Elena dalla bella chioma», alla generazione attuale, quella del ferro, tremenda, nella quale Esiodo è raccapricciato di dover vivere, in cui sarà distrutto il valore del giuramento e della giustizia (vv. 106-202). Una «favola» (àinos), quella dello sparviero che ghermisce l’usignolo e gli spiega la validità universale della legge del più forte, introduce una nuova sezione tutta dedicata alla prepotenza e alla giustizia, dove spesso ritorna l’apostrofe a Perse. L’ultimo ammonimento a lui rivolto (se vuole la ricchezza deve condurre una vita di lavo-

50

L’epica arcaica

ro: vv. 381-382) introduce i veri e propri e¢rga, da cui – non molto sensatamente – si suole intitolare l’intero poema: è l’ampia sezione sul lavoro dei campi (vv. 383-617) cui segue quella, più breve, sulla navigazione (vv. 618-694). Dopo un gruppo (vv. 695-764) di precetti e formule di divieto («mentre bevi non devi porre il mestolo sul cratere... se fabbrichi una casa non devi lasciarla incompleta, ecc.»), segue una settantina di versi contenenti una specie di calendario agricolo che generalmente si ritiene di altra provenienza. Dal punto di vista di una composizione di tipo arcaico – che può essere fruita anche attraverso parziali recitazioni delle singole parti, ben delimitate, senza perciò smarrire l’unità concettuale –, il tema dominante, quello che dà tono, senso e unità all’intera composizione, risulta, nelle Opere, per l’appunto il tema espresso in principio coi miti: il «peccato originale» di Prometeo, la conseguente progressiva caduta dal ‘paradiso’ dell’età aurea all’angoscioso presente dell’età del ferro. L’ingiustizia ed il doloroso lavoro – che è oggetto di una densa precettistica – costituiscono la condanna dell’umanità in conseguenza appunto di quegli eventi decisivi. È una visione profondamente affine a quella del terzo capitolo del Genesi: «Poiché hai ascoltato la voce della donna e hai mangiato da quell’albero dal quale solo ti avevo vietato di prendere frutti, sarà maledetta la terra nelle tue opere (e¬n toîv e¢rgoiv sou) [...], nel sudore della fronte mangerai il tuo pane finché ti convertirai in terra» (3,17). Così al principio del mito di Pandora e Prometeo, Esiodo avverte che se Prometeo non avesse violato il divieto di Zeus, rubandogli il fuoco, «senza sforzo tu oggi lavoreresti un solo giorno e raccoglieresti di che vivere per un intero anno senza lavorare» (Opere, 43-44). E invece la condanna è di e¢rgon e¬p’ e¢rgwı e¬rgázesqai (v. 382). La caduta di Adamo è dovuta all’ascolto prestato «alla voce della donna»; la punizione di Zeus è di creare e di mandare tra gli uomini una donna, Pandora. Questa figura è intrisa di erotismo, impudenza, abilità: Afrodite spande su di lei la grazia ed il «doloroso desiderio», Ermes le infonde «mente di cagna», Atena l’abilità. Essa diffonde tra gli uomini ogni sorta di mali e richiude il suo vaso in tempo per impedire alla sola Speranza di uscirne. Gli studiosi della religione greca hanno visto in questo mito il racconto della creazione della donna, la cui apparizione coinciderebbe dunque – come nell’Antico Testamento – con la fine del «paradiso terrestre». Pandora è in certo senso Eva.

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

51

8. Un mondo senza giustizia Altri, come Bruno Snell, hanno posto al centro di tutta l’opera esiodea, Teogonia ed Opere, il problema della giustizia: perché il regno di Zeus, che alla fine della Teogonia appare come il regno finalmente giusto dopo i terribili regni di Urano e Crono, è funestato dall’ingiustizia e dalla frode? Zeus resta giusto, anche se la vicenda del suo regno è, per l’umanità, la storia di una progressiva caduta. È, osserva Snell, il problema che domina Eschilo (anch’egli attratto dalla figura di Prometeo). Forse è eccessivo vedere – con Snell – nel magma dei due poemi esiodei il germe di concetti che avranno il loro sviluppo nel successivo pensiero filosofico-scientifico. Per esempio vedere nel dualismo «bene»/«male» della Teogonia esiodea (i «rampolli demoniaci della notte» non scompaiono neanche con l’avvento di Zeus) il nucleo di una consapevole visione dualistica del reale, che sfocerebbe, in Anassimandro, Eraclito, Empedocle, nella dottrina degli opposti. Quello che è chiaro è il posto di Zeus nell’universo come portatore di díkh agli uomini. Ma il mondo che circonda Esiodo è la negazione di díkh. Questo pensiero domina le Opere. Esso è soltanto il necessario presupposto ‘dialettico’ di qualunque poema di saggezza, o vi è nel mondo che circonda Esiodo un più concreto presupposto di tale visione sconsolata? Anche nel grande affresco delle opere della pace che Omero immagina istoriato sullo scudo di Achille vi sono lotte, contese giudiziarie: ma sembra ovvio che alla fine la giustizia trionfi. Gli anziani che lì amministrano la giustizia sono una figurazione rasserenante: l’esatto contrario dei «re divoratori di doni», corrotti e indisturbati, contro cui si scaglia ripetutamente Esiodo. Le Opere appaiono, in questo senso, come un capovolgimento dello «scudo di Achille». È un quadro ossessivo e pervaso di invettiva passionale, che non può essere fittizio (qualunque riserva si possa avere sulla storicità della figura di Perse). A fronte di questi «re mangiatori di doni» – figura arcaicissima questa dei «re di giustizia», tipica della società palaziale – ci sono i contadini, condannati ad una vita di lavoro, per i quali la miseria è una norma. Nella loro esistenza sordida, Esiodo si immedesima, sembra esserne partecipe quando raccomanda di rispettare il salario convenuto purché il lavoratore ingaggiato sia un amico (v. 370), di munirsi di testimoni anche quando si tratta con un fratello (v. 371), di tenere lontane le donne: «Che una donna non

52

L’epica arcaica

ti catturi la testa, con la sua veste modellata sulle natiche: fa la vezzosa e ti dice parole dolci perché vuole infilarsi nella tua dispensa» (vv. 373-374); di avere un solo figlio, così la proprietà non si deve dividere (vv. 376-378). Eppure è un mondo che odia e disprezza: Ascra è un posto orrendo (v. 640), i pastori sono esseri fatti di «solo ventre» (v. 26). Ma, nonostante questa immobilità schiacciata dalla miseria e dall’atavismo, sembra purtuttavia che qualcosa stia cambiando: la navigazione ha assunto una tale importanza che Esiodo, pur avversandola, ritiene di dovervi dedicare una trattazione a parte (vv. 618694) e proclamarsi conoscitore di quell’arte, che pure ostenta di non aver mai praticato. E Perse viene da lui raffigurato come un piccolo proprietario che possiede però anche una nave per il commercio (vv. 622, 631, 645, 665-666). Sta accadendo, insomma, che anche i nobili si diano al commercio «per sfuggire ai debiti e alla fame amara» (v. 646). Sovvertimento di valori e di rapporti sociali vanno di pari passo: la díkh di Zeus, osserva Esiodo, ha sempre meno seguaci. Non accade ancora che i lavoratori della terra vadano in città a perdere il proprio tempo all’assemblea o in tribunale («poca l’utilità dei tribunali e dell’agorà, per chi non possiede riserva di frutta e di grano»: vv. 30-32). Ci vanno solo i ribaldi, i devoti della cattiva Eris. Ma qualche decennio più tardi sarà la norma. E sarà il cruccio di Teognide (fiorito intorno al 540 a.C.) di vedere i contadini, che una volta non conoscevano né formule di diritto né leggi e portavano pelli di capra intorno ai fianchi, affluire in città e contare più degli stessi nobili, i quali «ora sono ridotti a dei miserabili» (vv. 53-58). «Chi può sopportare questo spettacolo?» chiederà Teognide al suo Cirno. Perfino la nobile figura del «re di giustizia» (che nell’inno proemiale della Teogonia è «nutrito da Zeus» ed è prediletto dalle Muse «che gli versano sulla lingua dolce rugiada, e dalla sua bocca scorrono dolci parole; e tutti guardano a lui, che amministra la giustizia con retti giudizi» [vv. 83-86]), nelle Opere è diventato il vorace e corrotto divoratore di doni. Qualcosa è cambiato, dall’uno all’altro poema, nel mondo che circonda Esiodo. 9. La priorità di Omero-Esiodo e il «corpus» esiodeo Nella scena giudiziaria dello scudo di Achille, Omero parla di «anziani» che compongono il consesso giudicante; Esiodo parla

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

53

sempre dei «re» che amministrano la giustizia. La terminologia esiodea parrebbe più arcaica, più vicina all’epoca nella quale è il sovrano il detentore del potere giudiziario. Nell’Odissea Alcinoo presiede un consesso di «re», ma questo consiglio sembra avere prerogative più larghe. Come sempre, in Omero sembrano coesistere realtà corrispondenti a differenti ‘strati’. Se dunque gli antichi studiosi tendevano ad ammettere la priorità di Esiodo rispetto ad Omero, anche per loro il giudizio dipendeva dall’analisi dei dati storico-antiquari contenuti nei poemi. Ad esempio Accio, il poeta ed erudito romano del II secolo a.C., nel primo libro dei Didascalica faceva notare che Esiodo scrive come se non avesse nulla prima, mentre Omero presuppone già delle conoscenze: «Al principio dell’Iliade – diceva – Omero chiama Achille figlio di Peleo ma non dice chi fosse Peleo: lo avrebbe certo detto se non lo avesse trovato già chiarito in Esiodo» (Gellio, Notti Attiche, III, 11, 5). Anzi per lungo tempo la successione Orfeo-Museo-Esiodo-Omero era stata quella universalmente accettata: ed anche chi, come Erodoto (II, 53), dichiarava Orfeo e Museo più recenti, manteneva ferma la successione Esiodo-Omero. Al tempo di Eforo – il quale, come cumano, parteggiava per la maggiore antichità del conterraneo Esiodo – la discussione era viva (Fr. 101 Jacoby). È sensato osservare, con Martin L. West, che a favore di Omero deve aver giocato «la propaganda» della corporazione aedica degli «Omeridi» e che invece Esiodo non poté contare su nulla di simile, se non, al più, sui locali custodi del santuario dell’Elicona le cui tesi contraddittorie sono ricordate da Pausania. Sta di fatto che la redazione ‘definitiva’ del complesso dei canti omerici conosce ormai la tattica oplitica (Il., XIII, 126; XVI, 211): e questo è un elemento recente rispetto ai combattimenti di soli cavalieri, come teorizza Aristotele (Politica, 1297b1528) e come è confermato dai ritrovamenti archeologici. Al contrario – e anche questo lo sappiamo dalla Politica di Aristotele (1289b3639) – la guerra lelanzia, nel cui contesto si iscrive l’opera di Esiodo, era stata combattuta con la cavalleria (cfr. pp. 38 sg.). A favore della maggiore arcaicità di Esiodo sembra deporre anche la composizione paratattica, ripetitiva e piuttosto slegata sia della Teogonia che delle Opere. Il che tanto più colpisce in componimenti brevi (la Teogonia, di 1022 versi, è estesa quanto una tragedia di Eschilo; le Opere, di 828 versi, equivalgono ad un singolo canto omerico): tanto più brevi dell’enorme impalcatura dell’Iliade e dell’Odissea, che rinviano entrambe ad una scaltrita mente costruttiva.

54

L’epica arcaica

Proprio una tale composizione paratattica rendeva agevole l’ulteriore ampliamento, la dilatazione con nuovi temi, dei poemi esiodei nella tradizione successiva. Così è accaduto che alla Teogonia sia stato collegato il Catalogo delle donne, detto anche Eoie dalla formula h¢ oiçh («o come ecc.») che introduceva la storia di ogni eroina. Il nesso è costituito da due versi di rinnovata invocazione alle Muse («Ed ora, Muse, cantiamo la stirpe delle donne ecc.») che sono tramandati alla fine della Teogonia (vv. 1021-1022) ma anche al principio del Catalogo: il Catalogo non è conservato, ma il brano iniziale, che s’inizia appunto con quei versi, si trova nel Papiro di Ossirinco 2354, reso noto nel 1956. Ma una paratassi elementare come quella che dà inizio con h¢ oiçh ad ogni nuovo episodio può avere sviluppi indefiniti. Così anche lo Scudo, un poemetto più tardo, però già noto a Stesicoro (fine VII secolo a.C.), si apre con una Eoia (vv. 1-56) che narra di Alcmena e della sua notte d’amore con Zeus, donde nacque Eracle, protagonista della vicenda narrata nel seguito (la lotta contro il mostruoso Cicno, figlio di Ares). Quei primi 56 versi erano anche tramandati con le altre Eoie: lo sappiamo per certo da due Papiri di Ossirinco, il 2355 ed il 2494A, che danno l’inizio dello Scudo di seguito ad altri versi delle Eoie. Questo sviluppo per progressiva germinazione è caratteristico della tradizione esiodea: null’altro che redazioni ampliate delle Eoie e delle Opere devono essere state le Grandi Eoie e le Grandi Opere di cui restano poco più che i titoli. Altri titoli noti alla tradizione antica erano i Precetti di Chirone, la Melampodia, le Nozze di Keyx, l’Ornitomanteia, che alcune edizioni antiche ponevano in appendice alle Opere già ampliate col supplemento, stabilmente incorporato, dei Giorni (vv. 765-828: sul carattere più o meno propizio «per gli abitanti della terra» di singoli giorni del mese). Contro l’autenticità dello Scudo sollevò dubbi Aristofane di Bisanzio, il grande erudito del III secolo a.C., ma il poemetto ebbe anche autorevoli difensori, come ad esempio Apollonio Rodio. Comunque si venne affermando un canone, divenuto definitivo in epoca romana, secondo cui le tre opere sicuramente esiodee erano la Teogonia, le Opere e i Giorni e lo Scudo: appunto le tre giunte per intero sino a noi. Che questo corpus si formasse già in età romana è documentato da due testi del IV secolo d.C.: dal papiro della collezione dell’arciduca Rainer (conservato a Vienna; inventario 19 815) contenente brani dei tre

III. Un ‘teologo’ venuto dall’Oriente: Esiodo

55

poemi, e ancor più chiaramente dalla etichetta (sìllybos) apposta al Papiro Achmîm nr. 3, conservato a Parigi. Questa indica che il papiro conteneva unicamente i tre poemi. Essi però nella tradizione medievale tendono ad avere destini separati: l’unico manoscritto di rilievo che comprenda tutti e tre i poemi è il Laurenziano 32.16, confezionato nella cerchia dell’umanista bizantino Massimo Planude, dove nondimeno la qualità del testo diventa meno pregevole nella parte contenente le Opere rispetto a quella che contiene la Teogonia e lo Scudo.

LA LIRICA ARCAICA

IV LA ROTTURA DELL’UNITÀ EPICA: LA FAVOLA E LA LIRICA 1. La lirica arcaica, produzione letteraria delle aristocrazie. Archiloco e Ipponatte La frattura della comunità, affiorante in alcune parti dell’opera esiodea, diviene scontro aperto nell’età della colonizzazione (750550 a.C.) e delle tirannidi (VII-VI secolo a.C.). Fenomeni tra loro collegati: la colonizzazione nasce dalla fame di terra ed una delle più pressanti esigenze da cui emerge il fenomeno della tirannide è appunto la più equa suddivisione della terra. È un periodo di crisi e di lotta frontale fra aristocrazie e nullatenenti, nonché fra le grandi famiglie aristocratiche, alcune delle quali, ponendosi alla testa dei «demi», instaurano «tirannidi». Questa forma di dominio non si realizza attraverso la creazione di nuovi strumenti istituzionali ma, per lo meno inizialmente, con l’occupazione delle cariche da parte del tiranno e dei suoi familiari. La prima attestazione della parola «tirannide» è in un frammento di Archiloco (Fr. 19 West), il giambografo ed elegiaco di Paro vissuto nell’età di Gige (re di Lidia dal 685 al 657). Il frammento ci è noto da una citazione di Aristotele nella Retorica (1418b23), il quale precisa che la celebre proclamazione racchiusa in quel frammento («Non m’importa dei tesori di Gige pieno d’oro [...] non bramo la grande tirannide: sono cose lontane dai miei occhi») era pronunciata da un falegname, di nome Carone. Archiloco è un aristocratico che rivendica innanzi tutto il suo posto nella comunità come guerriero e pone questo ruolo accanto alla propria «esperienza» del «dono delle Muse» (Fr. 1 West). Tra le immagini che evoca – espresse in prima persona, il che però non significa che siano notizie autobiografiche – ritorna insistente quel-

60

La lirica arcaica

la del ruvido combattente il cui pane è «nella lancia» (Fr. 2 West), che sa ridere della vigliaccheria propria (Fr. 101 West: «sette sono i caduti, mille siamo gli uccisori»), che ama il generale brutto e ben piantato e coraggioso e disprezza quello fiero dei suoi riccioli e rasato troppo bene (Fr. 114 West), che si consola per la perdita, evidentemente non troppo eroica, dello scudo (Fr. 5 West). In altri frammenti egli appare spregiatore del demo (Fr. 14 West) e di personaggi politici emergenti ed eloquenti (Fr. 115 West). Circa un secolo più tardi Ipponatte di Efeso, anche lui aristocratico di nascita – come è chiaro tra l’altro dal suo nome composto con ‡ánax (Masson, Degani) – è stato scacciato da Efeso dai tiranni Atenagora e Coma (Suda, alla voce «Ipponatte»). Immerso con virulenza nelle lotte contro i tiranni di Mitilene è, intorno al 600 a.C., Alceo che ha combattuto, insieme coi suoi fratelli, prima contro Mirsilo e poi contro Pittaco (che peraltro una tradizione autorevole inserisce tra i Sette Sapienti) e nelle alterne vicende di tale scontro ha dovuto lasciare Mitilene esule. Di quegli stessi conflitti è stata vittima, in un momento non bene precisato della sua vita, anche Saffo. E contro l’emergere di personalità aspiranti alla tirannide – gli antichi studiosi (Diodoro, IX, 20,2; Diogene Laerzio, I, 50) pensavano senz’altro a Pisistrato, ma potrebbe parimenti trattarsi di Damasia, aspirante alla tirannide nel 583/2 – ammonisce Solone (Fr. 9 West), mentre Teognide, a Megara, pronuncia una vera maledizione antitirannica (vv. 1203-1206: nega al tiranno il compianto funebre e ne rifiuta anticipatamente il compianto), dichiara apertamente che il tirannicidio non è reato punibile (vv. 1181-1182), e conosce anche lui molto bene le amarezze degli esiliati (vv. 209-210, 783-788, 12091210). Odio irriducibile per il tiranno e disprezzo rabbioso per il demo si cementano nell’invettiva politica di Teognide: «Calpesta il popolo stolto, colpiscilo con il pungolo [lo strumento che si adopera per le bestie], stringigli intorno al collo il giogo pesante» (vv. 847-848). La composizione lirica, nelle sue varie forme, destinate al simposio o comunque ad omogenee cerchie aristocratiche, è dunque la forma di espressione letteraria dell’aristocrazia. Non più soltanto recitazione agonale, a beneficio dell’intera comunità, del bagaglio epico, ma affermazione soggettiva di singole e storicamente definite personalità individuali, che esprimono le aspirazioni, la visione del mondo, i programmi immediati e gli affetti personali nella cornice, ben delimitata verso l’esterno, del simposio, della riunione di clan.

IV. La rottura dell’unità epica: la favola e la lirica

61

In questo senso è vero che la lirica rappresenta – come ha scritto Bruno Snell riprendendo la celebre definizione hegeliana della lirica come «l’esprimersi del soggetto» – «il primo rivelarsi della individualità»; a patto però che tale «rivelazione» la si consideri non già come una quasi metafisica emersione dell’io dall’universo indistinto e collettivo dell’età aedica, ma come affermazione soggettiva di un gruppo sociale egemone investito da uno scontro civile e sociale praticamente ininterrotto, e portato perciò a rafforzare, nella lotta, il peso ed il ruolo del clan aristocratico. I suoi componenti sono anche i detentori, oltre che della terra, di una elevata educazione musicale e artistica, nonché della scrittura. Archiloco, figlio di Telesicle, era nato a Paro. Si ritiene in genere che Telesicle avesse condotto a Taso alcuni coloni parii. C’è però chi ha prospettato l’ipotesi che Telesicle si fosse limitato a riferire ai suoi concittadini l’oracolo che suggeriva la fondazione della colonia. Un noto e discusso frammento di Crizia (Fr. 44 Diels-Kranz) fornisce il grosso delle notizie ‘biografiche’ su Archiloco; è riferito piuttosto fedelmente da Eliano (Varia Storia, X, 13): «Crizia – dice Eliano – attacca Archiloco sostenendo che ha parlato malissimo di sé. “Se – dice Crizia – Archiloco non avesse diffuso una tale opinione su di sé tra i Greci, noi non sapremmo né che era figlio della schiava Enipo, né che, abbandonata Paro per povertà e ristrettezze, si era recato a Taso, né che giuntovi era entrato in conflitto con gli abitanti del luogo né che sparlava ugualmente di amici e di nemici. E poi – soggiunge – non sapremmo che fu adultero, se non lo sapessimo, appunto, da lui, e che fu lussurioso e prepotente e ignoreremmo l’episodio ancor più degradante: che cioè gettò via lo scudo. Dunque Archiloco non è buon testimone su se medesimo dal momento che ha lasciato sul proprio conto siffatta nomea e così brutta fama”. Non sono io – precisa Eliano – che dico questo di Archiloco, ma è Crizia». La chiosa conclusiva di Eliano è fallace. Eliano non capisce pienamente il «rimprovero» di Crizia, il socratico oligarca assai versato egli stesso in vari generi di poesia, dall’elegia alla tragedia. Crizia non rimproverava ad Archiloco di aver praticato determinati comportamenti, lo rimproverava di aver ammesso di aver praticato quei comportamenti: perciò lo definiva «pessimo testimone su se medesimo». Eliano ha creduto invece, e con lui non pochi moderni, che Crizia rivolgesse una condanna ‘moralistica’ nei confronti di Archiloco. Crizia poneva il problema della opportunità o meno, per il poeta, per un poeta in generale, di un così brutalmente schietto autobiografismo. Non si poneva, certo, il problema che si è invece fatto strada nell’indagine moderna, se non vi siano in quella così gaglioffa autorappresentazione elementi di

62

La lirica arcaica

convenzionalità o anche di scherzo letterario: a cominciare dal nome della presunta madre-schiava, Enipo, che il Welcker, con intuizione precorritrice, al principio dell’Ottocento, mise in relazione con il verbo e¬níptein («biasimare»), nonché con il personaggio mitico cui si faceva risalire la poesia giambica, la schiava ’Iámbh. Di Archiloco Crizia citava una serie di componimenti, tra cui quello celebre ed imitatissimo sullo scudo di cui il poeta fa capire di essersi dovuto liberare, per salvare la pelle, nel corso di un combattimento con i Sai (Fr. 5 West), ed anche altri, che non risultano identificabili in modo altrettanto preciso, ma corrispondono a temi ampiamente trattati nei superstiti frammenti archilochei. Ad esempio gli attacchi contro i «nemici» vengono collegati alle dure invettive contro Licambe, il quale dai versi di Archiloco appare come il padre fedifrago (Fr. 173 West) della promessa Neobule. Una certa affinità di situazione con la vicenda dell’altro giambografo, Ipponatte (il cui antagonista si chiamava Bupalo), induce alla cautela per quel che riguarda la interpretazione immediatamente autobiografica di queste sfrenate polemiche. A questo genere di attacchi si collega il nuovo epodo detto «di Colonia» perché conservato presso quella Università. Pubblicato dal Merkelbach nel 1974, esso viene ormai generalmente attribuito ad Archiloco (non sono mancate voci di dissenso) non solo perché al v. 16 del nuovo frammento figura il nome di Neobule, ma anche perché nel medesimo papiro figura, di seguito a questo nuovo testo, l’inizio di un secondo epodo, già noto e certamente archilocheo. Il contenuto del nuovo testo è particolarmente insultante per Neobule. Esso denota anche una esplicita ruvidezza di linguaggio che già a molti autori antichi – da Pindaro (Pitica II, 52) a Crizia, all’imperatore Giuliano (Epist., 89b, BC) – apparve urtante. Essa riappare, se possibile ancor più accentuata, in Ipponatte. Non vi è ragione per porre in dubbio quanto su di lui riferisce la Suda, ma è altrettanto chiaro che il livello stilistico da lui scelto per i suoi componimenti ben poco ha in comune con l’ethos aristocratico. Quanto alla sua personale vicenda, si può solo constatare che le fonti antiche elucubravano in genere sui componimenti di Ipponatte e ne ricavavano apparenti ‘dati’. Celebre il vero e proprio racconto imbastito da Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 12), secondo cui le spietate caricature che Ipponatte destina a due scultori – Bupalo e Atenide (alla fine suicidi per disperazione, come il Licambe archilocheo) – non sarebbero state altro che la ‘risposta’ di Ipponatte alle raffigurazioni caricaturali che i due artisti avrebbero fatto del bruttissimo poeta («Hipponacti notabilis foeditas vultus erat»). Ma in realtà questa ‘bruttezza’, questo aspetto laido, altro non è che la proiezione della rattristante sconcezza dei suoi versi. È insomma un circolo vizioso fondato su arbitrarie invenzioni alla cui base sono gli scandalosi componimenti: a) è laido come i suoi versi, b)

IV. La rottura dell’unità epica: la favola e la lirica

63

perciò i due artisti lo raffiguravano in modo derisorio (ovvero – secondo una variante ricalcata sulla vicenda di Archiloco – «Bupali filiam nuptum petiit et pro deformitate contemptus est»), c) e di conseguenza lui si vendica con versi oltre ogni dire grevi ed insultanti. La natura fittizia di questa costruzione è stata ben individuata dal Fränkel, il quale ha messo in evidenza la voluta contrapposizione tra caricature abbozzate dal poeta e caricature fatte dagli scultori. I moderni biografi di Ipponatte avevano avuto un precursore in Ermippo di Smirne, il quale compose un’opera in più libri Perì ‘Ippånaktov (Fr. 93 Wehrli). Tutte queste mediocri vicende personali non rivestirebbero alcun interesse (e non meriterebbero di essere menzionate) se non vi fosse – alla base anche di queste livorose esplosioni – una sostanziale novità: l’esplicarsi e affermarsi, in modo anche provocatorio, di un nuovo atteggiamento mentale individualistico sconosciuto all’epica. La sua espressione più celebre forse, e più chiara, è nella ‘dissacrazione’ dello scudo (e di ciò che esso simboleggia nell’ethos guerresco dell’epica): «che m’importa di quello scudo? – chiede con iattanza Archiloco dopo averlo ingloriosamente dovuto abbandonare – Al diavolo! Me ne prenderò uno uguale!» (Fr. 5 West).

2. La favola animalesca, espressione delle culture subalterne. Esopo Il mondo subalterno ha invece dato vita ad una ampia e durevole tradizione orale: quella della favola. È anzi a rigore la favola l’unica tradizione che possa propriamente definirsi orale. Essa ha inizio, secondo una veduta che ha un nucleo accettabile, nel passaggio dal VII al VI secolo (circa nell’epoca in cui sono attivi Solone in Atene, Alceo a Mitilene, Tirteo a Sparta), ma consegue una forma scritta, per quel che si sappia, soltanto alla fine del IV secolo, per opera di Demetrio Falereo (Diogene Laerzio, V, 80-81), nell’ambito della scuola di Aristotele. Secondo Platone (Fedone, 61B), già Socrate in carcere, dunque nel 399, si era accinto all’impresa di mettere in poesia le favole di Esopo. Esopo è il personaggio al quale la tradizione legava la produzione di un corpus di favole. Ma solo molto più tardi – forse in età antonina – si è formata quella redazione di oltre trecento «favole esopiche» che ci è giunta in numerosi e piuttosto recenti manoscritti. Elaborazione collettiva, orale, anonima, dalla tradizione fluttuante, semplice e financo banale nell’espressione, la favola è anche sotto questo rispetto l’esatto contrario della lirica, prodotto indivi-

64

La lirica arcaica

duale e ‘difficile’ per eccellenza, destinato programmaticamente ad una cerchia definita ed omogenea. Parliamo, beninteso, delle rispettive forme storicamente determinatesi nel VII e VI secolo a.C. (quel poco che sappiamo di Esopo da fonti attendibili porta a datare anche lui a cavallo tra quei due secoli). Ma va da sé che le due forme – da un lato il canto per il banchetto o per la vittoria sportiva o il lamento funebre, dall’altro la favola – hanno radici ben più remote. Quanto alla lirica, in Omero appaiono come già noti sia la monodia che vari tipi di canti corali1. Quanto alla favola, è quasi superfluo osservare che essa ha radici remotissime e per così dire ancestrali, in particolare nella forma – poi caratteristica della favola esopica – della metafora (per lo più animalesca). Il punto di partenza di tale impianto metaforico è insito nel ‘naturale’ atteggiarsi analogico del pensare per comprendere: «tu rassomigli a...» (ei¬kázein). Dalla stessa radice deriva la «parabola»: ad esempio quella delle spighe, che il tiranno di Mileto, Trasibulo, esprime a gesti al messo di Periandro tiranno di Corinto (625 a.C.), quando strappando le spighe più alte di un campo di grano gli spiega che deve massacrare i nobili per mantenere il potere (Erodoto, V, 92); ma anche l’indovinello o enigma: ad esempio i quattro versi attribuiti tradizionalmente a Cleobulo di Lindo (VI secolo a.C.), dove il padre i cui figli, immortali, periscono è l’anno. ‘Struttura profonda’, la favola riappare in forme sostanzialmente affini in diverse civiltà. Così troviamo in testi egizi la favola delle membra e del corpo, che ci è nota da Livio come efficace veicolo di persuasione politica nella Roma arcaica; nel libro dei Giudici (9, 8-15), nell’Antico Testamento, Iothan narra la favola degli alberi e del rovo, una parabola del potere che ricorre identica nel corpus esopico (favola nr. 262 Perry); alcuni decenni fa in tavolette babilonesi è stata trovata una favola che ritroviamo anche in Babrio2. Ecco perché avevano corso, nel mondo greco, ipotesi sulla origine ora libica (Eschilo, Fr. 231 Mette), ora egizia (Platone, Fedro, 275B), ora lidia (Callimaco, Fr. 194,7 Pfeiffer) della favola. Ed è anche notevole che essa manchi in Omero mentre si presenta in forma già compiuta in Esiodo (Opere, 202-212) e che Archiloco negli epodi (Fr. 174 West) ne citi una celebre, quella della volpe e dell’aquila, introducendola con la formula ai®nov a¬nqråpwn. Tutto questo costituisce un presupposto della favola esopica. Essa è legata ad Esopo, un personaggio le cui fattezze ci sono note solo per alcuni tratti: schiavo di origine tracia, egli era stato compa-

IV. La rottura dell’unità epica: la favola e la lirica

65

gno di schiavitù di Rodopi, la cortigiana di cui il fratello di Saffo si era invaghito, con disapprovazione della famiglia (Erodoto, II, 134135). Rodopi era una cortigiana tracia; già questo elemento mette in relazione Esopo con la Tracia: anzi secondo Euagon di Samo3 Esopo era originario di Mesembria, località sulla costa tracia del Mar Nero (Fr. 4 Jacoby). In epoca successiva la tradizione dell’origine tracia di Esopo è accolta da Aristotele (Fr. 573 Rose), alla cui opera erudita si ispirava anche Demetrio Falereo, cui si deve – come si è detto – una sistemazione scritta del corpus esopico. Che questo favolista tracio si sia trovato a vivere nella condizione di schiavo – un evento atroce che ha impregnato di sé l’etica delle sue favole – non deve apparire come un dato quasi mitico. È invece una eventualità molto concreta ed un rischio incombente sulla vita di chiunque, quello di essere resi schiavi, come è ora comprovato da un documento del VI secolo a.C., proveniente da una zona non lontano da Mesembria, e cioè dall’isoletta di Berezan antistante la colonia milesia di Olbia in Crimea. È la cosiddetta «lettera di Berezan», una lamella di piombo trovata nel 1970 e pubblicata da Vinogradov nel 1971, oggetto di appassionati dibattiti negli anni successivi. La lettera, scritta da un certo Achillodoro al proprio figlio, di nome Protagora, lo informa della gravissima disavventura occorsa al padre: è stato catturato e privato delle sue merci da un certo Matasys il quale «lo sta facendo schiavo» (dôlôtai min) col pretesto di doversi rifare di beni rimasti presso un certo Anassagora per conto del quale Achillodoro svolge la sua attività. La ritorsione per debiti (presunti o reali) non saldati è dunque, addirittura attraverso un atto di giustizia individuale, l’asservimento del debitore: un asservimento che avviene con un colpo di forza, praticamente con un ratto (è notevole l’espressione dôlôtai proprio perché indica un conato individuale in fieri cui la vittima sta cercando di porre riparo). Non è inutile ricordare che proprio ad una così pericolosa prassi ha cercato di porre riparo Solone (arconte nel 594) in Attica al principio del VI secolo varando una legislazione che vietava la schiavitù per debiti e al tempo stesso definiva lo status schiavile. La Tracia pontica dev’essere stata una vera zona di ‘caccia’ per spregiudicati razziatori di schiavi, se si considera la normativa vigente, secondo Aristotele, a Calcedone (colonia megarese del VII sec. a.C.), dove, in epoca che Aristotele non precisa, un decreto ufficiale autorizzò il ratto e l’asservimento dei commercianti in transito per il Bosforo onde consentire alla città di pagare il soldo ai numerosi mercenari che ospitava (Economico, 1347b20-30).

Caduto in cattività, Esopo si è trovato ad essere conservo di una

66

La lirica arcaica

schiava, Rodopi, entrambi a Samo. Fu dunque probabilmente schiavo domestico, come si ricaverebbe anche dal celebre aneddoto delle nerbate toccategli per aver detto apertamente la verità sulla bruttezza della padrona (Fedro, Appendice, 17). Rodopi fu poi portata in Egitto e riscattata con una cifra immane da Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello di Saffo. Per quel che riguarda invece le vicende di Esopo la tradizione è ben più ricca e notoriamente romanzesca. La tradizione biografica su Esopo è a rigore essa stessa una lunghissima favola sulla vita di uno schiavo. E invero un tratto peculiare della favola esopica è che nella sua elaborazione «hanno parte importante schiavi che hanno coscienza di esprimere sentimenti di schiavi o di altri umili» (La Penna). È questo un elemento costitutivo della mentalità che sta alla base della favola esopica: essa è anche elementare nell’intreccio e nella espressione, schematica e adatta ad un pubblico di cultura modesta o anche nulla. Non è senza significato, del resto, la scelta della favola come mezzo espressivo, e in particolare di quella esopica come base di elaborazione, da parte di un exschiavo di età augustea come Fedro; nonché il ricorso alla favola animalesca come veicolo di esopica saggezza da parte di un autore come Orazio4, compiaciuto nel ricordare la propria discendenza servile. Nel superstite corpus esopico i frequenti riferimenti alla condizione dello schiavo sono impregnati di uno spirito di rassegnazione di fronte alla fatalità della condizione servile, che denota il ricorso a vari meccanismi di adattamento alla condizione durissima ma da non peggiorarsi con gesti inconsulti come la fuga (lo schiavo fuggitivo è per l’atto stesso della fuga considerato un criminale: i due termini che lo denotano sia in greco che in latino, drapéthv e fugitivus, lo connotano appunto come un malfattore da punire). Nella favola 131 Perry (La cornacchia fuggitiva), la fuga procura alla cornacchia, che ha voluto fuggire «la schiavitù presso gli uomini», guai molto peggiori e l’esplicita morale che ne viene tratta denuncia appunto il rischio insito negli sforzi di miglioramento della condizione umana. In Fedro è uno schiavo, non più un metafisico volatile, che, insofferente dei maltrattamenti, ha deciso di fuggire, ma Fedro lo gela con una osservazione paralizzante: «Ora che non hai fatto nulla di male patisci tutti i mali che mi hai detto. E che ti succederà quando avrai commesso il reato [di fuga]?» (Appendice, 20). Altrove è accettato il presupposto, architrave dell’ideologia schiavistica, secondo cui la condizione di schiavo comporta una «protezione» da parte del padrone nei confronti dello schiavo: il

IV. La rottura dell’unità epica: la favola e la lirica

67

mulo rimprovera all’asino «la sua condizione di schiavo», ma, al sopraggiungere di un leone, il mulo viene sbranato, l’asino resta indenne perché protetto dalla presenza dell’asinaio (411 Perry). Secondo Posidonio (Fr. 8 Jacoby), il filosofo e storico che più ha riflettuto, in età romana, sul fenomeno della schiavitù, ad Eraclea, sulla costa asiatica del Mar Nero, l’asservimento di una intera popolazione, i Mariandini, era avvenuto appunto sulla base di una reciproca convenienza delle parti (protezione in cambio dell’asservimento). Ma pur nell’accettazione vi è in queste favole completa lucidità intorno alla degradazione insita nell’asservimento: «Una colomba allevata in una piccionaia menava gran vanto per la sua fecondità. Uditala, la cornacchia disse: “Smettila di vantarti. Quanti più figli fai, tanto più pesante schiavitù piangerai”. Così anche fra gli schiavi, i più infelici sono quelli che generano figli in servitù» (202 Perry). E perciò l’asservimento non è più soltanto una condizione giuridica o un disagio materiale ma progressiva assimilazione di una mentalità servile (164 Perry). Note 1 Non a caso più d’una volta il riferimento a tali pratiche ricorre in quella specie di enciclopedia istoriata che è lo scudo di Achille. 2 Rielaboratore del II secolo d.C. di materiale esopico. 3 Un prosatore arcaico di cui Dionigi di Alicarnasso sapeva solo che era «vissuto prima della guerra peloponnesiaca» (Su Tucidide, 5). 4 Satire, II, 3,314-320; II, 6,79-117.

V L’ELEGIA POLITICA 1. Tirteo e l’asservimento dei Messeni La forma classica di asservimento, quella che si realizza attraverso la guerra, eccita la mente dell’elegiaco Tirteo, un capo militare spartano attivo alla metà del VII secolo a.C. Si tratta della sottomissione dei Messeni e della loro riduzione allo status di iloti. Per esprimere la loro sottomissione l’elegiaco li assimila agli asini sottomessi al basto; un’immagine, per indicare lo schiavo, che ricorre, come s’è visto, anche nella favola 411 di Esopo. «Come asini – canta Tirteo – affaticati da pesanti basti, costretti da una terribile necessità, essi consegnano ai padroni la metà di tutti i prodotti agricoli» (Fr. 5 Gentili-Prato). È la prima e più chiara attestazione sulla parte di prodotto estorto agli iloti: preziosa per l’epoca cui risale e la provenienza dal campo dei dominatori. Efficace strumento di soggiogamento psicologico sembra al poeta anche il fatto che gli iloti e le loro mogli siano costretti a partecipare debitamente piangenti e in lutto ai funerali dei padroni: «e piangono, con le mogli, i loro padroni, quando il funesto destino di morte colpisce uno di loro». Dobbiamo queste ed altre citazioni dalle elegie di Tirteo al quarto libro del periegeta Pausania (fiorito sotto l’imperatore Adriano), tutto dedicato alla Messenia. Pausania ha avuto l’ottima idea di utilizzare parallelamente, mettendoli a raffronto, le elegie di Tirteo ed il poema Messeniakà dell’ex-schiavo cretese Riano di Bene, vissuto intorno al 300 a.C. Come schiavo Riano era stato guardiano di palestre e nel suo poema manifestava autentico entusiasmo per Aristomene, il capo dei Messeni nella seconda guerra, quella appunto in cui a capo degli Spartani fu Tirteo. Questa storiografia in versi avrebbe ri-

V. L’elegia politica

69

schiato di essere dimenticata se al principio del I secolo d.C., un secolo prima che Pausania vi attingesse, non ci fosse stata una inattesa fortuna per la storia del testo di questo autore: l’imperatore Tiberio (14-37 d.C.) fu un vero maniaco dei suoi poemi e ne impose la presenza tra gli autori maggiori nelle biblioteche pubbliche, e impose anche che gli fossero innalzate statue (Svetonio, Tiberio, 70). Questo autorevole ed efficace rilancio ha certo contribuito ad orientare Pausania nella scelta delle fonti quando ha dovuto compilare il libro sulla Messenia. Nel IV secolo era riesploso l’interesse per le guerre messeniche dopo la liberazione di Messene (369 a.C.) ad opera di Epaminonda vincitore a Leuttra (371 a.C.). Alcidamante, sofista di ispirazione socratica, aveva composto un Messeniakòs per esaltare la liberazione di quegli schiavi languenti sotto il secolare dominio spartano ed aveva ancora una volta proclamato l’infondatezza, dal punto di vista della «natura», della schiavitù (Fr. 1 Baiter-Sauppe). Emergeva chiaramente da questi studi che la seconda guerra messenica, a metà del VII secolo, era stato l’episodio decisivo della storia greca arcaica: è infatti dopo la repressione di quella rivolta che Sparta conseguirà un predominio, poi rinsaldato dalla lotta vittoriosa, nel secolo seguente, contro le tirannidi. Ma dopo Leuttra vi è anche, in Atene, una reazione del tutto opposta a quella di Alcidamante: dell’orientamento filospartano che allora si manifesta è un segno l’Archidamo di Isocrate, ma, ancor più, la singolare trasformazione di Tirteo in un Tirteo «ateniese». Tirteo sarebbe stato un brutto e sciancato maestro di scuola ateniese inviato a Sparta nel momento della tremenda rivolta degli iloti e rivelatosi inaspettatamente capace di galvanizzare gli Spartani in difficoltà e portarli alla vittoria. Questa tradizione è presupposta da Platone (Leggi, 629A) e dalla più tradizionalista delle orazioni attiche conservate, la Leocratea di Licurgo (§ 106), quindi dilaga nelle fonti, non solo in quelle ateniesi. Il senso di questa manipolazione biografica dev’essere stato quello di raccomandare, nella nuova situazione dopo Leuttra, l’alleanza con Sparta (Eduard Schwartz). Una sorta di pendant dell’invio di Cimone a sostegno di Sparta durante la terza guerra messenica, alla metà del V secolo. Nella stessa temperie dev’essere avvenuta anche la mutazione dialettale di queste elegie – così come dei «canti guerreschi» (e¬mbatäria), di cui però non è rimasta traccia – dall’originario dialetto laconico in una veste ionica, salvo i casi in cui il metro non consentiva di sostituire la forma dorica (Gentili). È evidente, comunque,

70

La lirica arcaica

che l’autore è uno spartano, investito di alta autorità militare (Strabone, VIII, p. 362) e che solo in forza di tale sua posizione può impartire le drastiche ed efficaci direttive che si leggono nei 32 versi citati dall’oratore Licurgo o addirittura stabilire l’ordine di combattimento (Fr. 8). Quando dice «noi» (Fr. 6,14) o quando esalta «il nostro re Teopompo per merito del quale conquistammo la vasta Messene» (Fr. 2), parla come partecipe della comunità degli Spartiati. Appunto da questo costante uso del «noi» («lasciata Erineo venimmo nel Peloponneso»: Fr. 1a) Strabone ricavava – nel passo ora citato – la conclusione che Tirteo «si dichiara di origine spartana nell’elegia intitolata Eunomia». Il ruolo politico di Tirteo, fattosi mediatore – come Solone in Atene – in un momento in cui la comunità degli Spartiati era profondamente divisa, emerge da due convergenti testimonianze, entrambe riferibili al momento più critico della seconda guerra messenica: Aristotele (Politica, 1306b36) e Pausania (IV, 18,2). Aristotele inquadra la crisi in cui Tirteo intervenne in una trattazione riguardante le situazioni critiche che possono determinarsi nelle aristocrazie e le loro cause. L’esempio che più lo interessa è Sparta: ricorda la ‘congiura’ dei Partenî, allontanati, perché scoperti, da Sparta e inviati a fondare Taranto (l’episodio è molto controverso nelle fonti ma sembra trattarsi comunque di giovani, forse di origine bastarda, in età militare), quindi accenna alla congiura di Cinadone, il quale tentava di reagire alla emarginazione degli Spartiati meno ricchi, infine ricorda il contesto in cui operò Tirteo e lo classifica sotto il caso generale: «quando alcuni sono troppo indigenti, altri ricchi». È evidente da tutto il contesto che si tratta dell’impoverimento di una parte degli stessi Spartiati, quale è ad esempio Cinadone nominato subito prima1. Quindi esemplifica: «Questo avviene soprattutto durante le guerre; accadde per esempio a Sparta durante la guerra coi Messeni, come è chiaro dal poema di Tirteo intitolato Eunomia: alcuni infatti erano economicamente schiacciati dalla guerra e chiedevano una redistribuzione delle terre». Pausania, che per le guerre messeniche adopera, come sappiamo, ottime fonti (oltre che le elegie di Tirteo), rende esplicito questo nesso tra guerra, rovina economica di «alcuni» e richiesta di una redistribuzione delle terre. Nel momento di maggiore difficoltà militare, dopo il tradimento degli Arcadi e la vittoria spartana nella battaglia della Fossa Grande, i Messeni si arroccano sul monte Eira e si sostentano razziando le campagne sul confine tra Messenia e Laconia.

V. L’elegia politica

71

Impotenti di fronte a questa forma di lotta, gli Spartani presero la drastica decisione di vietare la semina di quelle zone, per vanificare l’effetto di quelle scorrerie: «ne conseguì – prosegue Pausania – scarsità di cibo a Sparta, e quindi lotta civile, giacché i proprietari di quei terreni non tolleravano che i loro fondi restassero improduttivi. E colui che compose questo conflitto fu Tirteo». In una delle più ampie elegie superstiti, quella citata dall’oratore Licurgo, Tirteo si rivolge in particolare ai giovani: li rimprovera di rimanere indietro nella lotta, e indica loro con veemenza lo scandalo del loro tenersi nelle file più riparate dello schieramento mentre combattenti più anziani e già canuti spirano feriti mortalmente, giacciono nella polvere e celano con le mani i genitali coperti di sangue mentre il nemico li ha già denudati (Fr. 7 Gentili-Prato). Par di capire che dunque proprio tra gli Spartiati più giovani, come al tempo dei Partenî, sia sorto quello spirito di ribellione cui accennano le fonti, e che esso si sia manifestato fra l’altro attraverso tale sottrarsi al combattimento che Tirteo stigmatizza. La richiesta di redistribuire le terre infrangeva alla base il kósmov spartano fondato appunto sulla ripartizione dei lotti decisa dallo Stato. Inoltre era, in quei decenni, la classica richiesta connessa all’emergere di figure tiranniche. Solone si vanta di non aver voluto agire «con violenza tirannica né voluto che buoni e cattivi avessero parti uguali della grassa terra» (Fr. 29b). Cipselo invece, tiranno di Corinto circa negli anni dell’arcontato di Solone, procede ad una distribuzione di terre ai danni della grande aristocrazia terriera dei Bacchiadi (Nicola Damasceno, Fr. 57 Jacoby). Sì che, nella successiva tradizione politica, tirannide e redistribuzione delle terre finiscono col divenire concetti strettamente collegati (Platone, Repubblica, 566E). Tirteo, invece, all’inquietudine della gioventù spartana oppone un richiamo allo spirito delle origini in accordo con la ‘restaurazione licurghea’ imposta al tempo della prima guerra messenica dai re Polidoro e Teopompo. La testimonianza decisiva è quella di Plutarco nella Vita di Licurgo (6 e 7), il quale mette in relazione Tirteo con l’aggiunta restrittiva operata da Teopompo e Polidoro alla rhetra di Licurgo (il responso delfico in cui Licurgo aveva sintetizzato la propria costituzione). Teopompo, informa Plutarco, vive 130 anni dopo Licurgo ed è il re sotto la cui guida – rievoca Tirteo – conquistammo «la spaziosa Messenia». Teopompo ha affrontato una situazione critica – in cui ancora una volta sono i più giovani tra gli Spartiati ad intaccare il predominio degli anziani sancito dal mec-

72

La lirica arcaica

canismo assembleare, dominato dalla Gerusìa. Allora, scrive Plutarco: «i due re Polidoro e Teopompo fecero questa aggiunta alla rhetra: “Se il popolo prende decisioni storte (ai¬ dè skoliàn o™ dâmov ai™roîto), gli anziani e i capi interrompano la seduta”. Ciò significa – commenta – che non avrebbero ratificato un bel nulla, ma si sarebbero bruscamente ritirati mandando a casa il popolo. Anche loro [come già aveva fatto Licurgo presentando le sue norme come un responso delfico] convinsero la città dicendo che gli dèi li avevano consigliati, come ricorda Tirteo in questi versi [Fr. 1: è una parte del componimento che Aristotele conosceva come Eunomia]: “Da Pito, dove parla Febo, hanno portato queste parole infallibili, responso del dio: che la prima decisione spetti ai re, prediletti dagli dèi, che hanno cura della seducente Sparta, poi agli anziani, quindi al popolo obbediente alle norme giuste”».

Negli estratti del VII libro di Diodoro Siculo (VII, 12,6) vi è un testo più ampio, che prosegue così: «e faccia [il popolo] buoni discorsi e agisca sempre con giustizia né prenda decisioni storte per la nostra città (mhdé ti bouleúein tñıde pólei skolión)». Qui il richiamo alla rhetra supplementare di Teopompo e Polidoro è chiarissimo. Tirteo ha dunque caldeggiato il ‘ritorno a Licurgo’, nel nome della politica restauratrice dei due sovrani. E lo ha fatto attraverso il veicolo caratteristico della comunicazione politica in una società di tipo spartano, nella cui assemblea, cui hanno accesso tutti gli «uguali», la parola è data però solo per deliberare sulle proposte degli anziani né vi è spazio per il dibattito ma solo per la ratifica o il rifiuto, e si richiedono riunioni rapidissime (Plutarco, Licurgo, 6, 5). In una tale comunità il luogo della comunicazione politica è il simposio, cornice tradizionale dell’elegia. Questo non vale soltanto per l’ambiente spartano. Nella stessa epoca, ad Efeso, Callino si rivolge ai partecipanti al simposio, e li esorta, con formulario epico, al combattimento «Fino a quando ve ne starete sdraiati? [nel simposio, appunto] (mécriv teû katákeisqe;)». Callino, di cui si è conservata, nell’Antologia di Stobeo, unicamente l’elegia che incomincia con quelle parole, aveva assistito all’ingrandirsi della potenza dei Lidî guidati da Gige: un evento epocale per i Greci d’Asia, che di lì a pochi decenni sarebbe stato al centro della produzione elegiaca di Mimnermo di Colofone.

V. L’elegia politica

73

2. Solone Al principio del VI secolo in Atene Solone ha un duplice veicolo di comunicazione politica: il discorso all’assemblea (a¬gorä) e l’elegia (di norma destinata alla cerchia politico-simposiaca propria delle aristocrazie). Al principio dell’elegia Salamina dichiara di aver scelto, in una eccezionale circostanza (la riproposizione di un conflitto del tutto impopolare in Atene), di esprimersi dinanzi al popolo, cioè in assemblea, non con un discorso ma con un canto (w¬ıdæn a¬nt’a¬gorñv qémenov: Fr. 2). Che Solone avesse composto anche discorsi in prosa (dhmhgoríai), o, meglio, che discorsi in prosa fossero stati raccolti nelle edizioni delle sue opere, si ricava dalla notizia bibliografica di Diogene Laerzio: «Ha scritto le leggi, demegorie, esortazioni a se stesso, elegie, lo scritto su Salamina e sulla costituzione degli Ateniesi; in tutto cinquemila versi, e giambi ed epodi» (Vite dei filosofi, I, 61). La notizia è ricavata, con qualche oscurità (non si vede perché «lo scritto su Salamina» sia distinto dalle altre elegie), da un pínax, da un catalogo bibliografico, che potrebbe risalire molto indietro nel tempo. È indicativa, in questo senso, l’indicazione della sticometria complessiva – cinquemila versi, chi sa perché escludenti i giambi e gli epodi –: anche Plutarco, quando cita al principio della Vita di Solone (8,1-3) l’elegia su Salamina, ne precisa la sticometria («è intitolata Salamina e comprende cento versi»). È anche indicativo che la lista «pinacografica» di Diogene non comprenda la voce «lettere», sebbene la biografia che Diogene dedica a Solone pulluli di sue lettere, ovviamente apocrife (a Pisistrato, Periandro, Epimenide, Creso ecc.), anzi sia in gran parte costituita dal testo di tali lettere. È chiaro che la lista delle opere aveva una sua provenienza distinta dai materiali con cui la biografia è costruita. Ciò non comporta, ovviamente, che tutto ciò che tale lista attribuiva a Solone fosse effettivamente di Solone. In particolare debbono guardarsi con sospetto quelle «demegorie», dal momento che solo nel IV secolo inoltrato vengono messi per iscritto e fatti circolare per iscritto discorsi assembleari dei politici. La provenienza di tali discorsi, ad un certo punto, a quel che pare, inseriti nel corpus, non è facile da stabilirsi. All’origine di una tale operazione ci debbono essere cenni ad una propria attività di «parlatore in pubblico» (a¬goreúein) quale quello che leggiamo al principio dell’elegia Salamina. La vicenda cui è legata quella elegia rinvia del resto ad una situazione di acceso dibattito politico cui è del tutto probabile che lo stes-

74

La lirica arcaica

so Solone abbia preso parte. Il racconto in cui Plutarco inquadra la citazione del primo distico dell’elegia Salamina ne pone la genesi appunto nel contesto del conflitto tra Atene e Megara per il possesso dell’isola. Conflitto logorante, che ha indotto gli Ateniesi ad una deliberazione drastica: il divieto, pena la morte, «di proporre a voce o per iscritto che la città dovesse rivendicare Salamina» (Vita di Solone, 8, 1). Non ha senso dubitare della storicità di questa notizia: non mancano casi di provvedimenti del genere in epoche successive. Ciò che invece è frutto di una combinazione fantasiosa di dati è la successiva notizia plutarchea, secondo cui Solone avrebbe infranto il divieto fingendosi pazzo: finzione che gli avrebbe consentito appunto di rivolgersi al popolo, presentandosi in veste di araldo appena giunto da Salamina, con una elegia anziché con un discorso. Tutto questo sembra costruito appunto sui due versi iniziali dell’elegia: «Sono l’araldo giunto dall’amata Salamina ed ho composto un canto anziché un discorso». La leggenda della finta pazzia – riportata anche da Diogene – potrebbe essere non troppo antica, dal momento che Demostene, nel 343 a.C., fa bensì riferimento all’elegia che a proprio rischio Solone cantò per salvare Salamina, ma non fa parola della finta pazzia (XIX, 252). L’esordiale annunzio «ho composto un canto anziché un discorso» è chiaramente rivolto ad un pubblico che ‘si aspetta’ un discorso, ad un pubblico cioè dinanzi al quale è normale pronunciare dei discorsi: un’elegia dunque eccezionalmente recitata dinanzi all’assemblea anziché nella appropriata cerchia. E forse proprio questa singolarità documentata dalle stesse parole esordiali, con cui il canto si autodefinisce, sarà stata all’origine della favola della simulata «follia». È stata invero una straordinaria iniziativa quella di Solone, di fare ricorso ad un insolito mezzo espressivo per infrangere il divieto: analogo in certo senso all’uso invalso tra gli oligarchi del tardo V secolo di dire attraverso la scena tragica quello che non era possibile dire apertamente all’assemblea. Anche gli altri tre distici che ci restano dell’elegia, citati da Diogene (I, 47) – il terzo dei quali parrebbe quello conclusivo – sono rivolti direttamente ad un pubblico di «Ateniesi»: sia nella polemica (auspicio di non essere più ateniese per non essere subito annoverato tra gli «Abbandonasalamina», Salaminafetøn) sia nell’esortazione («Ma andiamo a Salamina a combattere per l’isola amata, a respingere l’onta»). Il successo conseguito da Solone in quella vicenda, e certo anche la sua precedente notorietà, hanno favorito la sua elezione ad arconte, con poteri straordinari di «conciliatore» (diallaktäv), nel 594/3.

V. L’elegia politica

75

L’idea che possiamo farci della sua opera legislativa e delle innovazioni costituzionali che vengono collegate al suo nome è fortemente ‘inquinata’ dal tipo di fonti sulle quali si basa il grosso della tradizione superstite. Tale tradizione è costituita, in gran parte, da quattro antologie. Le prime tre – Aristotele, Costituzione di Atene, 5-12; Plutarco, Vita di Solone; Diogene Laerzio, Vita di Solone – sono delle antologie ‘commentate’, nelle quali i brani, talora ampi, citati sono trascelti secondo il filo espositivo del racconto e spiegati via via sulla base del racconto che fa da trama. Quanto alla quarta, si tratta dei tre brani soloniani presenti nel III e IV libro dell’Antologia di Stobeo. Uno dei quali – l’ampia elegia alle Muse (Fr. 1 Gentili-Prato), dalla discussa unità – manca nelle altre raccolte (Plutarco ne cita due versi). Le due sillogi più tarde sono fondate sull’immagine del Solone «saggio». In Diogene del resto la vita soloniana è inserita tra le vite dei «Sette Sapienti»: è una specie di romanzo epistolare dei Sette Sapienti, le cui lettere occupano gran parte di queste vite. Quanto a Stobeo, oltre alla programmatica elegia alle Muse, egli ci dà solo due brevi frammenti elegiaci (Frr. 18 e 19) sulla nullità delle ricchezze e sull’inesistenza della felicità. Due tipici temi sapienziali e atemporali. Le due antologie, in larga misura collimanti, di Aristotele e di Plutarco sono invece concentrate sull’opera del politico; essa è calata però, con le forzature che vedremo, nelle categorie politiche della matura democrazia di V/IV secolo. La tradizione alla quale entrambe attingono dev’essersi formata relativamente tardi, dal momento che non ha influenzato affatto l’unico autore di V secolo che abbia parlato significativamente di Solone, e cioè Erodoto. Per Erodoto, Solone è il poco probabile interlocutore di Creso (e ciò è nella linea della mitizzazione del «saggio»); ovvero il poeta non programmaticamente ostile ai «tiranni» (V, 113); o anche l’autore di leggi (II, 177): non il rifondatore dell’ordinamento ateniese e tanto meno il creatore della democrazia, ruolo che Erodoto attribuisce a Clistene. La tradizione cui attingono Aristotele e Plutarco (il fatto che citino spesso gli stessi brani di Solone conferma che si tratta di una fonte comune) trae origine dal dibattito, di fine V secolo, intorno alla pátriov politeía. Solone e la sua opera assumono così la funzione di simbolo di quella costituzione equilibrata, giusto mezzo tra i due radicalismi, oligarchico e democratico, che una parte delle forze moderate propugna (i cosiddetti «terameniani», cfr. pp. 413 sg.), scontrandosi con una corrente oligarchico-radicale tendente a porre già l’ordinamento soloniano in una luce negativa. Nei primi tempi dopo la scoperta della Costituzione di Atene (1890), il Wilamowitz giunse a prospettare che l’intero opuscolo aristotelico altro non fosse che la rielaborazione di uno scritto dello stesso Teramene. La tesi era difficilmente sostenibile: ma coglieva l’orientamento

76

La lirica arcaica

fondamentale dell’opuscolo. La prima ‘manipolazione’ dell’immagine di Solone consiste nel fare di lui un «cittadino della classe media» (mésov políthv). E poiché era noto che Solone discendeva, in realtà, da antica e nobilissima famiglia attica collegata alla dinastia regale di Codro (i Medontidi), la trovata che consente di fare di Solone un mésov è di distinguere tra «natura e fama» (che lo ponevano tra i «primi») e le sostanze familiari modeste che ne facevano appunto un componente della «classe media» (5,3). La prova viene cercata nelle elegie, là dove Solone «esorta i ricchi a non essere arroganti», ed i righi più ‘probanti’ vengono citati di seguito perché contengono un invito ai ricchi a calmarsi ed a «moderare la superbia» (Fr. 5). Naturalmente è una costruzione doppiamente fantasiosa: sia perché non bastano le critiche ai ricchi per collocare chi le formula in un altro ceto, sia perché l’accesso alla massima carica era, in quell’epoca, regolato «secondo il criterio della nobiltà e della ricchezza» (3,1); dunque il fatto stesso della nomina ad arconte pone Solone nel livello più alto della società attica del tempo. Ma, appunto, è la concezione aristotelica che esalta – anche in sede di teoria politica – il ruolo positivo della «classe media», vista come la classe dell’equilibrio. Nella Politica il procedimento viene esteso a tutti i «migliori legislatori»: essi provenivano tutti, Solone, Licurgo, Caronda, «dal ceto medio» (1296a18-20). Per Solone – dice qui brevemente Aristotele – «lo dimostra la sua poesia» (cioè il Fr. 5 citato nella Costituzione di Atene); per Licurgo la prova è che infatti egli non divenne re. In realtà Aristotele ha trasferito la ‘medietà’ soloniana dal piano della condotta politica a quello dell’origine sociale.

L’immagine soloniana costruita da Aristotele (o meglio che Aristotele ricavava dalle sue fonti) è un’immagine controversa, da rivendicare contro altre errate e deformanti: di qui il tono polemico con cui, sia nella Costituzione di Atene che nella Politica, Aristotele respinge le «accuse» contro Solone. Nel primo caso (Costituzione di Atene, 6,1-4) si tratta della seisácqeia, dello «sgravio dei debiti»: il provvedimento più caratteristico della legislazione soloniana, in forza del quale Solone è, nella tradizione democratica ateniese, il «liberatore». In forza dei poteri straordinari conferitigli, Solone cassò i debiti gravanti sui cittadini, esposti continuamente al rischio di diventare schiavi dei creditori, dal momento che le norme sino ad allora vigenti consentivano che le persone fisiche dei debitori fossero poste in pegno (e quindi asservite nel caso di insolvenza). È il provvedimento con cui i «teti» ed i ceti nullatenenti vengono definitivamente recuperati alla sfera della cittadinanza e vie-

V. L’elegia politica

77

ne innalzato uno steccato tra libertà e schiavitù. Orbene, in connessione con la promulgazione della seisàchtheia, ci furono delle speculazioni: molti ricchi, sapendo dell’imminente provvedimento, acquistarono terreni contraendo debiti che furono poco dopo annullati appunto in virtù della «cancellazione» soloniana. «I democratici – osserva Aristotele – sostengono che Solone fu ingannato dagli amici; ma quelli che vogliono calunniarlo sostengono che tra i profittatori ci fosse anche lui». Aristotele reagisce con l’argomento, che a lui pare decisivo perché ricavato «dalle poesie» di Solone (6,4), secondo cui il rifiuto, da parte di Solone, di assumere la tirannide proverebbe il suo totale disinteresse. Nella Politica (1273b35-1274a20) il dibattito è di ancora più ampia portata: da un lato ci sono coloro che vedono in Solone il realizzatore di una (auspicabile) costituzione «mista» (1273b39), risultante dall’armonico intreccio di elementi tradizionali ed aristocratici come l’Areopago ed elementi democratici come i tribunali popolari con giudici tirati a sorte; dall’altro ci sono coloro che condannano l’opera di Solone come fondatore della demagogia sfrenata consistente appunto nell’aver reso i tribunali popolari veri arbitri della comunità statale. L’opera di Solone sarebbe dunque all’origine di una deleteria linea democratico-radicale sviluppatasi «con Efialte, che mutilò i poteri dell’Areopago, e con Pericle, che addirittura stabilì un salario per i giudici popolari» (1274a7-9). Anche qui Aristotele respinge le accuse osservando che l’ordinamento soloniano garantiva il predominio dei signori con la limitazione dell’accesso alle cariche ristretto appunto ai possidenti (pentacosiomedimni, zeugiti e cavalieri). In un caso come nell’altro Aristotele si trova dunque di fronte a due interpretazioni: Solone demagogo e Solone «equilibrato» fondatore della politèia «mista». I due schieramenti interpretativi sono anche due schieramenti politici (nella Costituzione di Atene, 6,2 contrappone infatti i «democratici» a «quelli che lo vogliono calunniare»). A quale epoca risale questa divaricazione della tradizione? all’epoca evidentemente di riacceso dibattito intorno alla pátriov politeía, in concomitanza con le due oligarchie del 411 e del 403, in entrambe le quali è essenziale il ruolo di Teramene, propugnatore appunto di un modello di costituzione «mista». In quella temperie politica, che fu anche fucina di progetti costituzionali (ben due ne conosce Aristotele – Costituzione di Atene, 30 e 31 –, per il periodo dei Quattrocento), la figura di Solone è stata ‘adoperata’ – come punto di riferimento e come bersaglio polemico – dalle varie

78

La lirica arcaica

fazioni moderate e oligarchiche. È sintomatico ad esempio che i Trenta nel 403 abbiano proposto la cassazione non solo delle leggi di Efialte ma anche di alcune di Solone (35,2). Ed è appunto in una tale temperie che viene coniata, in funzione polemica verso il troppo «democratico» Solone, una costituzione di Draconte, riprodotta da Aristotele al principio della Costituzione di Atene (§ 4), tutta fondata sulla limitazione dei diritti politici ai soli possidenti, anacronisticamente definiti addirittura oçpla parecómenoi (4,2). Nella sua esposizione, corredata di testi soloniani, Aristotele fa propria l’immagine ‘terameniana’ del Solone mésov e antidemagogico. E la scelta di testi che propone è orientata perciò unicamente su questa linea. Si tratta infatti di due gruppi di poesie: quelle addotte a riprova della sua mesóthv (§ 5) e quelle che attestano il suo rifiuto di assumere la tirannide (§ 12). Questo secondo gruppo è scelto con il preciso intento di sfatare l’immagine di Solone demagogo, e perciò sono tutti frammenti in cui Solone parla del duro freno che ha saputo imporre alle pretese popolari: «venivano come ad un saccheggio, pieni di folli speranze [...] Vani pensieri! Ora furiosi contro di me mi guardano torvi, come si guarda un nemico» (12,3 = Fr. 29b); «Al popolo ho dato quanto bastava, senza nulla togliere o aggiungere alle sue prerogative» (12,1 = Fr. 7). Qui è l’aristocratico che si rivolge alla sua eteria, ai suoi «amici», come li chiama Aristotele, e chiarisce e giustifica il proprio operato e parla del demo, non di fronte al demo come nel caso di Salamina, considerato perciò essenzialmente come un ‘oggetto’ da dirigere. Tra i due gruppi di frammenti Aristotele inserisce un profilo della cosiddetta «Costituzione» di Solone, sulla cui storicità non ha dubbi. In un passo molto discusso (Costituzione di Atene, 7,1) nomina insieme tale «costituzione» – che avrebbe soppiantato in ogni campo quella di Draconte, tranne che per la repressione dei reati di sangue – ed il corpus delle sue leggi. Modernizzante appare la distinzione tra «Costituzione» da un lato ed un corpus di leggi dall’altro; e modernizzante, o più precisamente ispirata alla prassi seguita durante le convulsioni costituzionali della fine del V secolo, appare anche la nozione di una «Costituzione», quella soloniana, che ne soppianta un’altra, quella di Draconte (la cui storicità è poco difendibile). Allo scetticismo con cui si è guardato (Wilamowitz, Hignett) il complesso della «costituzione» soloniana, è subentrata, più di recente, una tendenza (Rhodes) a dar credito alla tradizione confluita nell’opuscolo aristotelico (ma assente in Erodoto), come se l’analisi storica della genesi di tale opuscolo non ci fosse mai stata.

V. L’elegia politica

79

Non era sfuggita l’analogia tra la presunta Bulè di quattrocento componenti, che sarebbe stata istituita da Solone (8,4), ed il consiglio di quattrocento oligarchi che prese il potere nel 411. Del resto erano gli stessi oligarchi al potere in quell’anno a richiamarsi, a proposito del loro Consiglio, ad una «legge di Solone» (Andocide, 1,111). Oltre tutto è rimasta senza risposta soddisfacente la domanda sulla funzione e sui poteri di un Consiglio elettivo, e «probuleutico» come sarebbe stata questa Bulè, in un periodo di grande prestigio e predominio politico dell’altro e ben più antico Consiglio, quello dell’Areopago. Immaginare una poesia di Solone come fonte delle parole con cui Plutarco (Solone, 19,2) assimila i due consigli che venivano così a crearsi alle due ancore di una nave (Stähelin) è sottile ma arbitrario. E non basta certo a garantire la storicità del sistema del doppio Consiglio.

3. La legislazione soloniana Quanto alla legislazione soloniana – che è l’opera durevole di Solone ben più delle elegie – essa pone problemi difficilmente solubili, ancora una volta incentrati sulla qualità della tradizione. Sia Aristotele (7,1) che Plutarco (Solone, 25,1-2) forniscono il dato antiquario – che ha affaticato gli interpreti – riguardante la collocazione materiale di tali leggi, incise su assi di legno ruotanti intorno a pilastri tubolari. I due termini (kúrbeiv e a¢xonev) che le due fonti adoperano per indicare il congegno utilizzato sono stati variamente interpretati. Certo, che questa massa di tavole lignee contenenti una circostanziata legislazione che toccava i campi più disparati, depositata sull’acropoli2, abbia impunemente superato il sacco di Atene e l’incendio dell’acropoli ad opera dei Persiani (Eschilo, Persiani, 810; Erodoto, VIII, 53; V, 77), sembra molto improbabile. È ragionevole pensare che per un verso le «leggi di Solone» siano state riscritte, ammodernate, ampliate nel corso dei due secoli che precedono l’opera di revisione legislativa inaugurata nel 410 dopo la caduta dell’oligarchia; e che per l’altro in modo consapevole (e anche mistificatorio) si sia voluto ricondurre a Solone tutta la normativa che veniva formandosi nella concreta e sempre più ricca prassi giudiziaria di quei due secoli, sotto la spinta, tra l’altro, di quel ceto di esperti e manipolatori del diritto che sono i logografi attici. Che cosa ad un certo punto circolasse sotto il nome di «leggi di Solone» non è facile stabilire se si considera il cenno di Pla-

80

La lirica arcaica

tone nel Fedro: «Scrisse dei trattati (suggrámmata) e li intitolò Leggi» (278C). Non è dunque plausibile pretendere di raccogliere i frammenti delle «leggi di Solone»: semmai di ciò che una tradizione bisecolare in cui il nome di Solone ha avuto una funzione carismatica ha raccolto e fatto confluire sotto il suo nome. E di ciò dovevano essere consapevoli soprattutto coloro che in vari momenti hanno confezionato – a cominciare da Aristotele – commenti Sugli a¢xonev di Solone (T 1-4 Ruschenbusch): proprio Aristotele, così largo di citazioni dalle elegie e dai giambi di Solone, di quelle leggi non ne cita mai verbalmente nessuna. Egli sa però cogliere, in quella massa di dati così discutibile, la norma «prima e più importante» (Costituzione di Atene, 9,1) che Solone aveva sancito: l’abrogazione delle premesse giuridiche della schiavitù per debiti. È ciò che fieramente Solone rivendicava a proprio merito quando osservava di aver così consentito il rientro in Attica di tanti Ateniesi ormai venduti come schiavi (Fr. 30,8-9). Coerenti con questo provvedimento epocale – che separava definitivamente, in Attica, il mondo dei liberi e quello degli schiavi –, sono quelle tracce di legislazione «soloniana» che riguardano i divieti di contatto anche fisico tra schiavi e liberi: «uno schiavo non deve praticare esercizi nel ginnasio né ungersi di olio nelle palestre; uno schiavo non potrà essere l’amante di un ragazzo libero né fargli la corte, altrimenti sia condannato a cinquanta colpi di frusta in pubblico» (Eschine, Contro Timarco, 138-139). Con una felice trovata Plutarco immaginerà, nel Simposio dei Sette Sapienti, un diverbio tra Esopo, l’ex-schiavo, e Solone: Solone rimprovera Esopo di aver fatto parlare corvi e cornacchie invece di «ascoltare la voce della dea», mentre Esopo rievoca polemicamente a Solone i divieti che egli aveva imposto agli schiavi (152CD). 4. La silloge teognidea Una raccolta di circa settecento distici elegiaci, divisa in due libri (dei quali il secondo conservato in un solo manoscritto, del resto rilevantissimo) è, oltre agli epinici di Pindaro, l’unica raccolta lirica superstite. Essa si presenta come di Teognide Megarese, probabilmente per la presenza, all’inizio, di un rilevante nucleo teognideo, ma comprende anche elegie o parti di elegie di altri autori, senza che ne sia fatto il nome e senza che appaia una plausibile ragione della col-

V. L’elegia politica

81

locazione di tali apporti ‘esterni’ nell’ambito della silloge. È una silloge dell’elegia arcaica, della cui natura composita possiamo renderci conto solo in alcuni casi data la conoscenza frammentaria che abbiamo degli altri autori. Comunque riusciamo a riconoscere cinque brani di Solone, due di Mimnermo, uno di Tirteo, forse tre di Eveno di Paro, un ampio brano di un poeta megarese di epoca successiva, un epigramma di Delo, per un complesso di circa centoventi versi, nonché un gruppo di versi (vv. 891-894) che sembra risalire all’epoca della guerra lelanzia. In certi casi sono stati trascelti due brani dal medesimo componimento di Solone e disposti in luoghi neanche contigui della silloge. È il caso di due gruppi, di sei versi ciascuno, tratti dai complessivi 76 della elegia di Solone alle Muse, che si trovano rispettivamente ai vv. 227-232 e 585-590. Dei cinquemila versi elegiaci di Solone noti alla fonte di Diogene Laerzio (I, 61) ce ne restano appena 219; di questo misero rimasuglio ritroviamo nel gnomologio teognideo ben cinque brani per complessivi 28 versi; ciò significa che il 13% dei superstiti versi elegiaci di Solone è compreso nella silloge teognidea; è dunque ovvio presumere che nella silloge ci deve essere molto altro materiale soloniano che non abbiamo modo di riconoscere. (Se la percentuale fosse uniforme si tratterebbe di circa 600 versi.) La stessa considerazione deve farsi per quel che riguarda i materiali provenienti da Tirteo, Mimnermo, Eveno ed altri autori, quale ad esempio l’anonimo dei vv. 773-782, dei quali non abbiamo altrimenti notizia. L’attribuzione di quei versi ad un anonimo autore megarese operante nel 480 a.C. (che dunque non può essere Teognide, adulto al tempo di Teagene di Megara, alla metà del Vl secolo) è sicura: chi scrive parla dell’imminente attacco persiano, invoca Apollo perché tenga lontano da Megara «l’esercito prevaricatore dei Medi» (v. 775) ed esprime la sua angoscia dinanzi alla «rovinosa divisione» tra i Greci (vv. 780-781). Quanto ad Eveno di Paro, anche lui un poeta del V secolo ma ormai influenzato dalla sofistica e quindi più tardo dell’anonimo, la sua presenza nella silloge si riconosce sulla base di un passo di Aristotele (Metafisica, 1015a28), che cita il v. 472 della silloge appunto come di Eveno. Di Tirteo sono stati scelti i due distici (vv. 13-16) del Fr. 9, che definiscono la a¬retä come virtù guerriera. Di Mimnermo, il Fr. 12 (Gentili-Prato) che formula l’invito edonistico a «rasserenare il proprio animo» indipendentemente dalle altrui dicerie ed un brano della elegia Nanno (Fr. 1), una elegia ‘storiografica’ riguardante tra l’altro i primordi della città

82

La lirica arcaica

natale del poeta, Colofone: in tutto una decina di versi (tutt’altro che pochi rispetto al pochissimo che di Mimnermo ci è conservato). Siamo dunque dinanzi ad una silloge che è talora drasticamente selettiva come un gnomologio (raccoglie singole sentenze racchiuse in un solo distico), talora invece seleziona più largamente il materiale, alla maniera delle antologie, offre cioè stralci significativi ed anche piuttosto ampi. All’interno di tale raccolta, di cui è arduo (e forse vano, se siamo di fronte ad un’antologia ‘scolastica’) cercare di scoprire il principio ordinatore, vi è un consistente nucleo proveniente dalle elegie di Teognide, l’irremovibile aristocratico megarese. L’apporto teognideo è particolarmente ricco al principio (nei primi 250 versi) e ai vv. 22-23 c’è il «sigillo» (sfrhgív) dell’autore, col suo nome: ciò spiega perché la raccolta abbia circolato sotto il nome di Teognide. Anche le parti teognidee debbono essere estratti da un più ampio corpus di elegie teognidee. Ai vv. 19-26 della raccolta figurano il nome e la città di Teognide con la misteriosa indicazione del «sigillo»: «Cirno, il mio sapiente sigillo sia imposto a questi versi, sì che nessuno mai li possa rubare né cambiarli in peggio. Così ciascuno dirà: “Di Teognide di Megara sono questi versi”. (Sarò) celebre tra tutti gli uomini; quanto ai concittadini, non posso piacere a tutti. E non c’è da stupirsene; neppure Zeus, quando piove o quando fa sereno, piace a tutti». Si è discusso molto sulla natura del «sigillo»: ci si è chiesti se consistesse nel ricorso frequente del nome di Cirno, il giovane destinatario delle elegie (anche nell’attuale raccolta ci sono decine e decine di brani connotati dalla presenza del vocativo «Cirno»); o se invece consistesse nella dichiarazione esordiale del nome dell’autore3; o se addirittura non si debba pensare ad un ritrovato analogo a quello di Eraclito (circa 540-480), il quale depositò un esemplare del suo Perì fúsewv nel tempio di Artemide ad Efeso: Teognide avrebbe potuto deporre il suo libro per difenderlo dalle manipolazioni nel tempio di Apollo a Megara (Young, Knox). È ipotesi ben fondata che sicuramente teognidei possano ritenersi a rigore solo i brani in cui ricorre l’invocazione a Cirno: brani che l’antologista ha trascelto, attingendo alla serie delle elegie ‘complete’ di Teognide. Se si isolano questi brani4, ne risulta una silloge concettualmente corrispondente alla descrizione datane da Senofonte in un frammento del suo scritto Su Teognide conservato da Stobeo (Antol., IV, 29,53, vol. V, p. 427 Hense): lì Senofonte commenta i due versi chiave del «sigillo» («Di Teognide di Megara sono questi versi») e osserva: «Questo poeta di nul-

V. L’elegia politica

83

l’altro ha parlato se non della virtù e della infamia degli uomini; anzi il suo scritto può definirsi un ‘Trattato sugli uomini’, allo stesso modo che un esperto di cavalli potrebbe scrivere un trattato ‘Sull’equitazione’. L’inizio della sua poesia – prosegue – mi sembra molto appropriato: incomincia infatti col definire cosa significhi essere bennati», e a riprova Senofonte cita i versi 183-190 in cui viene data una formulazione quasi razzistica dell’aretè aristocratica: come si fanno accoppiare montoni, asini e cavalli di buona razza, così bisogna fare con gli esseri umani; invece «la ricchezza ha mescolato le razze (ploûtov e¢mixe génov)» (v. 190). Questa visione del mondo sta alla base degli ammaestramenti via via indirizzati a Cirno: la aretè vale ben più della ricchezza, anzi aretè e giustizia si identificano (vv. 145-148); la ricchezza gli dèi la danno a chiunque, la aretè a pochi (vv. 149-150); la aretè è innata: «una testa di schiavo non è mai nata diritta, ma sempre storta, né da una cipolla può nascere una rosa o un giacinto, né da una schiava un figlio libero» (vv. 535-538). La definizione complessiva data da Senofonte allo scritto teognideo è dunque particolarmente adatta ai brani recanti il nome di Cirno. Il succo della paidèia aristocratica di Teognide era racchiuso nel precetto secondo cui la nobiltà si apprende solo dalla frequentazione dei nobili (v. 35) e l’amicizia non è che «esercizio di virtù». È indicativo della diffusione in Atene di questa summa del credo aristocratico in versi elegiaci il fatto che proprio quei versi (35-36) siano ripetutamente citati da Senofonte (Memorabili, I, 2,20; Simposio, 2,4) e, con tutto il contesto, da Platone nel Menone (95D). Vi allude almeno un paio di volte Aristotele nell’Etica Nicomachea (1170a12 e 1172a14). E dall’Accusa del sofista Policrate contro Socrate, quale possiamo ricostruirla in base alla replica del retore Libanio (I Declamazione, Apologia di Socrate, 88-92) apprendiamo che Teognide era uno dei poeti dei quali Socrate discuteva con gli scolari brani scelti: ed è notevole – per quel che riguarda il criterio di identificazione delle parti sicuramente teognidee della silloge – che il brano teognideo tirato in ballo da Policrate, il quale scriveva qualche anno dopo la morte di Socrate (399 a.C.), sia anch’esso uno di quelli in cui figura l’invocazione a Cirno (vv. 175-178). La silloge, giunta sino a noi attraverso il naufragio di lirici greci prodottosi nell’ultima età bizantina, è difficile stabilire quando si sia formata: di sicuro già esisteva e circolava, in una forma molto simile all’attuale, nel II secolo d.C., epoca cui risale il Papiro di Ossirinco 2380 (edito nel 1956), che comprende infatti i versi 254-278 nel

84

La lirica arcaica

medesimo ordine in cui appaiono nella silloge superstite. È dunque una silloge antica, non bizantina (come fu sostenuto dal Peretti e da altri). L’immissione nella silloge di così disparati autori, ad esempio del Fr. 6 di Solone, dal quale Plutarco ricavava che Solone si era schierato col «partito dei poveri» (Solone, 3, 2-3), ha fatto sì che la silloge pullulasse di pensieri tra loro contraddittori: incitanti al tirannicidio (vv. 1181-1182) o dissuadenti dal tirannicidio (v. 824); svilenti (v. 145) o esaltanti (v. 1117) la ricchezza e così via. Un testo in tali condizioni rendeva quasi irriconoscibile il pensiero genuinamente teognideo, così efficacemente sintetizzato, invece, da Senofonte nello scritto dedicato al poeta di Megara5. Il mondo in cui opera e compone Teognide è quello megarese sconvolto dai conflitti sociali connessi alla tirannide di Teagene. È arduo fissare una cronologia: il punto di riferimento è il tentativo di presa del potere da parte di Cilone in Atene, giacché Teagene era il suocero di Cilone (Tucidide, I, 126,3-5). Ma la cronologia dell’episodio ciloniano è tutt’altro che sicura e oscilla tra il 640 a.C. (data in cui Cilone figurava vincitore olimpionico: è la data presupposta da Aristotele, che nella Costituzione di Atene pone Cilone prima di Draconte) e il generico «prima di Pisistrato» di Erodoto (V, 71,2). Due volte, nella Politica (1305a18) e nella Retorica (1357b31), Aristotele nomina insieme le tirannidi di Pisistrato e di Teagene, ma ciò non vuol dire necessariamente che i due personaggi siano stati coevi. Se dunque, in un paio di distici che ricorrono due volte nella raccolta teognidea (vv. 39-42 e 1081-1083), l’autore, rivolgendosi a Cirno, paventa l’avvento di un uomo forte («Cirno, la città è incinta, io temo che partorisca un uomo il quale punirà la nostra cattiva tracotanza»), questo terribile parto può anche riferirsi all’avvento di Teagene, non necessariamente al profilarsi di altri potenziali tiranni dopo la sua caduta. Certo, del periodo di scontro sociale violentissimo tra possidenti e nullatenenti, esploso dopo la caduta di Teagene, abbiamo notizia efficace in alcuni luoghi della Politica di Aristotele e in Plutarco. «I poveri – racconta Plutarco – entravano nelle case dei ricchi e pretendevano di sedersi a tavola e mangiare sontuosamente. E se non avevano soddisfazione cominciavano ad alzare le mani e ad aggredire tutti i presenti» (Questioni greche, 295CD). Furono così numerosi in quel periodo i provvedimenti di espulsione a danno dei ricchi – osserva Aristotele – che gli esuli divennero una massa imponente e poterono rientrare con la forza delle armi (1304b34).

V. L’elegia politica

85

Tra questi esuli si è inquadrato anche Teognide: e perciò ha avuto credito l’ipotesi che il suo esilio avesse luogo appunto nel periodo, tremendo per l’aristocrazia, della democrazia radicale successiva alla caduta di Teagene. Ciò sembrava confermato dalla presenza di ripetuti lamenti di esuli sparsi qua e là nella silloge: «Per l’esule non c’è amico né compagno fidato: questo è il male più doloroso dell’esilio (vv. 209-210); Giunsi anche in Sicilia, io, e nella pianura di Eubea ricca di vigneti ed a Sparta la bella città dell’Eurota ricco di giunchi; e tutti, quando giunsi, mi accolsero con animo aperto. Ma da tutto questo non venne piacere al mio cuore: a tal punto nulla mi era più caro della terra patria (vv. 783-788); Tebe dalle belle mura abito, bandito dalla mia terra (vv. 1209-1210)».

A rigore però l’unico brano rivolto a Cirno in cui si fa cenno all’esilio appare ostile agli esuli: «Cirno non amare un esule, non fare affidamento in lui: anche se riesce a tornare in patria non è più l’uomo di prima» (vv. 333-334). Al principio del primo libro delle Leggi (630A) Platone cita un distico di Teognide (vv. 77-78) – quello in cui si proclama che vale tanto oro quanto pesa l’uomo che sa restare leale durante una guerra civile – e nell’attribuirlo a Teognide (anche qui c’è l’apostrofe a Cirno) indica Megara di Sicilia come città del poeta. Dunque, per Platone, i versi che parlano della terra siciliana come terra d’esilio (vv. 783-788) non erano teognidei: o, per meglio dire, probabilmente non figuravano nella raccolta nota a Platone. Lo scoliasta di Platone era disturbato dalla notizia dell’origine siciliana di Teognide e, forse anche perché disponeva della silloge teognidea quale l’abbiamo noi, proponeva una teoria combinatoria: Teognide, esiliato da Megara, si era recato in Sicilia ed aveva preso la cittadinanza dell’altra Megara, quella siciliana. Sostituitasi alla raccolta autentica (circolante probabilmente ancora al tempo di Aristotele), la silloge gnomologica ha reso definitivamente inattingibile la biografia di Teognide. Probabilmente già Plutarco (circa 45-120 d.C.) adopera la silloge e cita come teognidei versi non rivolti a Cirno (215-216: in Questioni naturali, 916C). Alla stessa epoca del resto risale il Papiro di Ossirinco 2380, di cui s’è detto prima. Una ulteriore modifica la silloge l’ha subita molti secoli dopo: furono estratti i distici inneggianti all’amore per i «bei

86

La lirica arcaica

fanciulli» e raccolti a parte. La piccola raccolta «pederotica», così isolata, sarebbe del tutto scomparsa: la sua sopravvivenza è dovuta ad un solo, molto notevole, manoscritto miscellaneo dell’inizio del X secolo (Parigino, Supplem. Greco 388) nel quale la breve raccolta (vv. 1231-1388) figura come «II libro» delle elegie accanto ad un centone omerico e alle «sentenze» attribuite a Focilide. Ancora la voce «Teognide» del lessico bizantino Suda parla di «sconcezze ed amori pederastici» sparsi qua e là e mescolati alle sagge sentenze di cui la silloge trabocca; dunque la fonte della Suda non conosce ancora il raggruppamento a parte di questi versi ‘scandalosi’. Uno solo dei brani raccolti nel «II libro» è rivolto a Cirno. Anche questo elemento è un tratto caratteristico del simposio aristocratico; allo stesso modo, per l’intrattenimento di una società maschile e che compone poesia per un pubblico maschile, viene praticato anche il topos dell’attacco alle donne. La composizione giambica (Fr. 7 West) di Semonide di Amorgo (fine VII secolo), incentrata sul paragone tra vari tipi di animali e vari tipi femminili, ne è un troppo celebrato esempio. Risente di elementi esiodei (l’‘invenzione della donna’ nell’episodio del vaso di Pandora) ed ha un parallelo in Archiloco e Ipponatte. Note 1 2

È l’interpretazione di Ernest Barker. Anassimene (Fr. 13 Jacoby) dice che fu Efialte a farle portare giù dall’acro-

poli. 3 Un sistema arcaico di ‘protezione’ testuale adoperato ad esempio da Eraclito, ma ancora da Erodoto e da Tucidide alla fine del V secolo. 4 È il criterio seguito dal West nella sua raccolta dei Theognidis Fragmenta, del 1978. 5 Una testimonianza preziosa, quella senofontea, di cui i moderni hanno rischiato di privarsi quando Axel Persson, studioso del testo di Senofonte, immaginò, senza buone ragioni, che il brano attribuito da Stobeo a Senofonte fosse in realtà uno scolio, magari ai Memorabili, I, 2,20.

VI POETI E TIRANNI DI LESBO E DI SAMO 1. Alceo L’esilio fu invece il segno sotto cui si svolse la vita di Alceo, e in certa misura anche di Saffo. Entrambi furono attivi alla fine del VII secolo, a Mitilene, il centro più importante e politicamente più inquieto dell’isola di Lesbo: nello scontro tra coalizioni, talora labili, di famiglie in lotta per l’egemonia sulla comunità e tra l’affiorare di controverse figure «tiranniche». Il «tiranno» è la figura negativa che campeggia nella poesia politica di Alceo: quando il suo gruppo è sconfitto, il capo della famiglia nemica diviene «il tiranno» e i perdenti vanno in esilio. Prima di Alceo il termine «tiranno» appare in un frammento di Archiloco – la prima apparizione del termine nel mondo greco –, secondo il sofista Ippia (Fr. 9 Diels-Kranz). In tale frammento (19 West) la «grande tirannide» è, con tutta probabilità, il regno di Gige. Ciò rivela l’ampiezza e la larga approssimazione propria del termine, dalla non chiara origine: il grande regno asiatico dei Lidi è infatti altra cosa rispetto alle figure più o meno durevolmente egemoni nelle piccole comunità del mondo greco (in Asia e in Europa), e queste ben poco hanno in comune con la tirannide siciliana del IV secolo (alla quale non di rado, implicitamente, si riferiscono, nell’età di Platone e di Aristotele, gli studiosi delle forme politiche). Aristotele mette bene in luce il nesso tra l’affiorare della tirannide nella comunità greca arcaica e le piccole dimensioni di tale comunità: «Allora – scrive – le città non erano grandi e il demo viveva nei campi, impegnato nei lavori agricoli: perciò i capi, quando acquisivano esperienza militare, tentavano di assumere la tirannide» (Politica, 1305a18-21). Aristotele prosegue portando gli esempi di Pisistrato tiranno ad Atene e di Tea-

88

La lirica arcaica

gene tiranno a Megara e perciò assume come fattore costitutivo della tirannide la «fiducia del popolo» verso i capi che si fanno tiranni, cementata – dice – dall’«odio contro i ricchi»: esempio insigne Teagene, la cui presa del potere passa – quasi caricatura della follia di Aiace – attraverso un gran massacro del bestiame dei ricchi, sorpreso al pascolo. (L’episodio ci dà anch’esso un’idea dell’entità e della natura della forza economica dei «ricchi», che viene spezzata se il loro bestiame viene sgozzato: un altro indizio della ‘piccolezza’ della comunità.) Aristotele ha in mente due casi concreti, Atene e Megara, di epoca successiva – metà VI secolo – rispetto alle ‘tirannidi’ di Lesbo; perciò nel suo ragionamento si mescolano due piani. Da un lato c’è la genesi della tirannide più arcaica: il demo è quasi assente, impegnato fuori dell’agglomerato urbano nei lavori agricoli, e i «capi» prendono il potere in una ‘città’, se così la si può chiamare, per così dire vuota, grazie ad una buona esperienza dell’uso delle armi1. Dall’altro c’è il nesso tirannide-demo in funzione antiplutocratica, congruente con l’immagine che Aristotele ha delle tirannidi ad Atene ed a Megara. La non perfetta armonia tra queste due visioni del fenomeno può dipendere dalla rapidità molto compendiaria con cui si snoda, non di rado, il ragionamento di Aristotele nelle sue «lezioni» (qual è appunto la Politica). È da notare del resto l’espressione che adopera per indicare i «capi» che si fanno avanti come aspiranti alla tirannide: prostátai toû dämou, espressione che, nella Costituzione di Atene, vale indifferentemente sia per Solone che per Pisistrato (28,2). È legittimo cogliere dunque, in questo schizzo aristotelico sull’origine della tirannide, la nozione di una arcaica elementarità del potere «tirannico» inteso come la prevalenza di una famiglia o di un gruppo raccolto intorno ad un capo con esperienza militare: quasi sinonimo di monarca, come è di norma ancora in Pindaro, in pieno V secolo (Pitica II, 86-88 e XI, 53).

Alceo adopera la nozione di «tiranno» in una accezione impropria e polemica. Anche in questo caso la fonte che ce ne dà notizia è Aristotele, il quale inquadra questa importante citazione da Alceo in una analisi tipologica del potere monarchico (Politica, 1285a30-b3). Un tipo di monarchia – osserva – è quella che «in epoca arcaica» si chiamava aisymnetèia, il cui detentore è l’aisymnètes. Era di fatto – nota – «una tirannide elettiva», in alcuni casi vitalizia, in altri a tempo determinato e con un obiettivo determinato. «Così ad esempio – prosegue – i Mitilenesi elessero una volta aisymnètes Pittaco con il compito di combattere gli esuli, capeggiati da Antimenide e da Alceo»; ed a sostegno della classificazione del potere di Pittaco nell’ambito della tirannide soggiunge: «Che fosse la tirannide il potere cui fu eletto Pittaco, lo dimostra Alceo: in uno dei suoi carmi conviviali infatti

VI. Poeti e tiranni di Lesbo e di Samo

89

rinfaccia ai suoi concittadini: ‘fecero tiranno Pittaco il bastardo, tiranno di una città senza fiele e dal greve destino, tutti pronti ad esaltarlo’ (Fr. 348 Lobel-Page)». Non ha altro indizio che l’invettiva di Alceo, ma subito dopo introduce una rettifica: in quanto «dispotica», quella forma di potere è «tirannica», ma in quanto «elettiva e fondata sul consenso» è assimilabile alla monarchia. Al contrario un’ampia documentazione, anche epigrafica, contribuisce a definire la figura dell’«esimnète» come una figura arbitrale: dai giudici di gara dell’Odissea (VIII, 258) ai magistrati elettivi di Megara, Calcedonia, Teos ecc.; è una figura più affine al «conciliatore» (diallaktès) Solone che non al «tiranno». È Alceo che, assumendo ormai il termine nell’accezione negativa, inveisce contro Pittaco «tiranno». La vicenda di Pittaco e di Alceo ci è nota attraverso una tradizione piuttosto ricca: soprattutto Diogene Laerzio, che dedica all’aisymnètes di Mitilene, poi assunto tra i «Sette Sapienti», una biografia nel I libro delle Vite dei filosofi, e Strabone (XIII, 617), che racconta con dettagli le lotte civili a Mitilene. «Mitilene – scrive Strabone – ha dato i natali a uomini famosi. Anticamente a Pittaco, uno dei Sette Sapienti, ed al poeta Alceo ed a suo fratello Antimenide, di cui Alceo dice che, combattendo al servizio dei Babilonesi, compì grandi imprese [...]. Loro coetanea fu Saffo: qualcosa di meraviglioso. Non si ha notizia infatti, in tutta la storia trascorsa, di una donna che possa starle, neanche lontanamente, alla pari per la sua poesia. In quell’epoca la città ebbe una serie di tiranni a causa delle divisioni tra i cittadini e le poesie di Alceo dette appunto sulla guerra civile (stasiwtiká) riguardano quelle vicende. Tra i tiranni ci fu anche Pittaco e Alceo imprecava contro di lui non meno che contro gli altri».

È sintomatica qui, come in Aristotele, la subalternità rispetto al testo di Alceo: Strabone se la cava combinatoriamente osservando che Pittaco, oltre che uno dei Sette, fu «anche» tiranno, però soggiunge, poco dopo, che «Pittaco si servì del potere monarchico per abbattere le posizioni di potere delle grandi famiglie (le chiama le dynastèiai), dopo di che – precisa – restituì l’autonomia alla città». Quanto agli «altri» tiranni, contro i quali ugualmente si rivolgeva Alceo nei suoi Stasiotikà, Strabone nomina «Mirsilo e Melancro e i Cleanattidi ed altri»2. Ma la successione di questi «tiranni», data la natura delle notizie disponibili, crea qualche problema. Da un lato Strabone nomina prima Mirsilo e poi Melancro; dall’altro Diogene Laerzio nomina solo Melancro e

90

La lirica arcaica

pone il benefico governo decennale di Pittaco di seguito all’abbattimento di Melancro realizzato da Pittaco «insieme con Alceo ed i suoi fratelli» (I, 74). Una qualche luce gettano sull’intricata materia – di cui è controversa anche la cronologia – alcuni frammenti di Alceo, e scolî alle sue poesie politiche, alcuni dei quali scoperti in anni recenti. Innanzi tutto vi è lo scolio conservato nel Papiro di Berlino 9569 in cui si leggono chiaramente parole in numero sufficiente per concludere che Alceo partecipava ad una congiura contro Mirsilo (evidentemente ormai «tiranno»), che tale congiura fu scoperta, che Alceo fuggì a Pirra (a pochi chilometri da Mitilene) e che quello fu «il primo esilio» di Alceo (Fr. 114 Lobel-Page). A questo «primo esilio» devono risalire i Frr. 129 e 130 Lobel-Page – resi noti nel 1941 – nei quali Alceo manda «maledizioni» (129,10) contro «il figlio di Irra», cioè Pittaco: l’ipotesi più convincente è che Pittaco abbia tradito i congiurati contro Mirsilo (Mirsilo è l’ultima parola leggibile del Fr. 129). Alla morte di Mirsilo Alceo esplode in un ferino grido di esultanza (Fr. 332 Lobel-Page): «Questo è il momento di bere, anche a forza: è morto Mirsilo!» (è il celebre esordio imitato da Orazio nell’ode per la morte di Cleopatra dopo Azio). Questo giubilo fa pensare che la morte (certamente violenta) di Mirsilo deve aver reso possibile il rientro di Alceo a Mitilene. La fase successiva dev’essere stata di violenti contrasti civili, se ha portato alla nomina di Pittaco (il quale, secondo Alceo, era stato dalla parte di Mirsilo) ad «arbitro» decennale della città. Aristotele precisa che il suo compito era di «combattere gli esuli capeggiati da Alceo e da suo fratello» e cita i versi in cui Alceo inveisce contro la città «senza fiele» (così detta forse perché ha dimenticato rapidamente che Pittaco era stato con Mirsilo) per aver proceduto a tale elezione. È chiaro dunque che, col governo di Pittaco, Alceo è andato nuovamente in esilio: ecco perché lo scolio parla di «primo esilio» di Alceo. È evidente che Melancro – nonostante la successione indicata da Strabone – va collocato prima di Mirsilo: contro Melancro infatti Pittaco ed i fratelli di Alceo hanno combattuto uniti (Diogene, I, 74), non si era dunque ancora prodotta la rottura verificatasi al momento della fallita congiura contro Mirsilo. La cronologia tradizionale di questi avvenimenti è controversa. La discussione rimane aperta e coinvolge anche il grande evento di politica estera verificatosi al tempo di queste «tirannidi»: la guerra tra Mitilene e Atene per il possesso del Sigeo, il promontorio della Troade all’imboccatura dell’Ellesponto, non lontano dall’isola di Lesbo. Il fondamento della cronologia tradizionale è Diogene (I, 75 e 79), il quale pone la morte di Pittaco, settantenne, nel 570 a.C. e precisa che prima di morire Pittaco visse dieci anni in ritiro dal potere (580-570) dopo essere stato per altri dieci alla guida della città (590-580). Diogene sembra collocare la guerra del Sigeo nel periodo in cui Pittaco e la famiglia di Alceo erano concordi, dunque al tempo della lotta contro Melancro o poco dopo. E ciò sembra con-

VI. Poeti e tiranni di Lesbo e di Samo

91

fermato dal fatto che anche Alceo ha preso parte alla guerra per il Sigeo ed in una poesia parla, senza farne un dramma, della perdita dello scudo nel corso di quel conflitto (Fr. 428 Lobel-Page). Alla guerra pose termine l’arbitrato di Periandro, tiranno di Corinto (Apollodoro, Fr. 27 Jacoby, citato da Diogene, I, 74). Apollodoro, il grande cronografo del II secolo a.C. alla cui dottrina probabilmente attinge Diogene anche per le date di Pittaco, forniva dunque un importante sincronismo tra Pittaco, Periandro ed il conflitto tra Atene e Mitilene. Se la cronologia ‘alta’ che colloca all’incirca intorno all’anno 600 a.C. l’arbitrato di Periandro (così ancora di recente il Bengtson nel repertorio dei trattati internazionali nell’antichità, nr. 106) viene messa in discussione e portata all’incirca nell’età di Pisistrato, a metà VI secolo, questo abbassamento coinvolge anche la cronologia di Pittaco e di Alceo. Alla base della cronologia ‘bassa’ vi è Erodoto (V, 94-95), il quale narra la guerra del Sigeo in una digressione retrospettiva, là dove parla di Ippia figlio di Pisistrato ritiratosi al Sigeo quando dovette lasciare Atene (510 a.C.). Erodoto rievoca la conquista definitiva del Sigeo da parte di Pisistrato e ricorda che il conflitto, prima del successo di Pisistrato, era durato «a lungo», ma non precisa quanto. Erodoto non chiarisce quanto indietro rispetto a Pisistrato debba porsi l’inizio del conflitto per il Sigeo, ma nel suo racconto, a riprova delle alterne vicende di quella guerra, ricorda anche la vicenda di Alceo che perdette le armi in battaglia e «raccontò la sua disavventura in un poema indirizzato ad un amico di nome Melanippo» (V, 95).

Nei due carmi dall’esilio editi nel 1941 (Frr. 129 e 130 LobelPage), Alceo fornisce una serie di elementi che illuminano la natura della lotta politica a Mitilene. Innanzi tutto dà elementi notevoli sul funzionamento dell’«eteria» (in 129,16 parla di hetàiroi) alla quale appartenevano, prima del tradimento, sia la famiglia di Alceo che Pittaco, riferisce anche il testo del giuramento al quale gli «eteri» si erano legati (129,16-20). Inoltre adopera terminologia politica preziosa per intendere le strutture politiche di Mitilene: gli «etèri» – scrive citando quel giuramento – si erano impegnati a liberare il dàmos (129,20); e nel secondo frammento (130,18-21) parla del suo «desiderio» di poter ascoltare la parola assembleare e di prendere parte al «Consiglio» (si ricostruisce abbastanza tranquillamente il termine bólla, eolico per boulä). Non bisogna equivocare su tali termini: questo dàmos – ha osservato il Berve nel saggio sulla tirannide greca – non comprende soltanto i ceti ‘inferiori’. Si può esser certi anzi che qui siamo dinanzi ad un uso di dàmos analogo a quello, forse più celebre, che ricorre nella rhetra di Licurgo (Plutarco, Vita di Licurgo, 6,2: dove il termine si restaura agevol-

92

La lirica arcaica

mente forse addirittura in connessione con agorà). E soprattutto va considerata la capitale testimonianza aristotelica che si è citata al principio di questo capitolo (Politica, 1305a18), dalla quale risulta evidente che i non possidenti non erano i frequentatori dell’agorà, luogo riservato ai signori in lotta per il predominio ed al loro seguito: è questa l’agorà di cui Alceo sente nostalgia dall’esilio. Ma l’esilio può anche condurre questa nobiltà guerriera eolica sulla strada del mercenariato al servizio dei grandi regni orientali. Quei regni incombono sulle città greche d’Asia. Dal Fr. 69 Lobel-Page risulta che i Lidi hanno dato «a noi» (evidentemente ad Alceo ed ai suoi amici) duemila stateri come incentivo per un attacco contro una città. Antimenide, il fratello di Alceo, ha combattuto al servizio dei Babilonesi (Fr. 350 Lobel-Page); in un altro frammento (48 Lobel-Page) sono nominate insieme Babilonia e Ascalona, ed in uno scolio, mal conservato nel Papiro di Ossirinco 1360 (Fr. 13), si legge distintamente il nome di Gerusalemme. Poiché l’impero neo-babilonese ha sostenuto campagne in Palestina nel 596 e nel 586 a.C., è evidente che il riferimento al servizio di Antimenide come mercenario costituisce anche un argomento in favore della datazione ‘alta’ di Alceo (Fritz Schachermeyr). Lo stesso Alceo parlava di un viaggio che lo aveva portato sino in Egitto (Fr. 432 Lobel-Page): non vi è contesto, è solo un cenno in Strabone (I, p. 37), ma è lecito pensare ad una vicenda simile a quella che ha portato Antimenide in Palestina. Nel trattato Sulla mimesi, a noi noto soltanto in una epitome, Dionigi di Alicarnasso passava in rassegna, tra l’altro, i poeti epici e lirici. E di Alceo notava l’ethos delle poesie politiche e soggiungeva che, se se ne rimuovesse la forma metrica, ne risulterebbe «oratoria politica» (II, p. 205 Usener-Radermacher). È un ragionamento che segue lo schema aristotelico, che però approdava a conclusioni opposte, sulla distinzione tra la poesia e la storiografia: anche se messa in versi, notava Aristotele, l’opera di Erodoto rimane opera storiografica. L’osservazione di Dionigi mira invece a mettere in luce come la poesia politica di Alceo si risolva in oratoria politica. La polarizzazione politica è un tratto caratteristico della contesa tra gruppi aristocratici per il predominio sulla comunità. Gli altri aspetti dell’esistenza che attraggono l’aristocrazia eolica sono tratteggiati in una pagina di Eraclide Pontico (Fr. 163 Wehrli) a noi nota nel riassunto di Ateneo (XIV, 624E). Col gusto tipico della scuola di Aristotele, Eraclide comparava, nel suo trattato Sulla musica, i caratteri delle varie stirpi greche, e definiva i tratti peculiari dell’ari-

VI. Poeti e tiranni di Lesbo e di Samo

93

stocrazia eolica come «sub-dorici»: rilevava una affinità sul piano dell’«orgoglio» e dell’«audacia» (termini che alludono all’ambito politico-militare); ma mentre nei Dori trovava «gravità ombrosa e chiusa», negli Eoli (evidentemente nelle forme d’arte che gli erano accessibili, e dunque in primo luogo nei poeti lesbici) metteva in rilievo una diversa «armonia», evidente nella loro propensione al bere (filoposía) e all’eros nonché ad ogni altro aspetto della «rilassatezza del vivere». Sono i motivi che è dato cogliere, accanto alla dominante nota politica, nelle superstiti tracce dell’opera di Alceo. A quella «rilassatezza del vivere» si rivolge il pensiero di Alceo in un carme dell’esilio di cui s’è già detto (130 Lobel-Page), là dove rievoca le gare di bellezza delle donne di Lesbo «dai pepli dal lungo strascico» (epiteto omerico) e la eco del grido sacro rituale che levano le donne nell’occasione festiva di quella gara. Questo frammento di vita quotidiana immette nel mondo al quale è legata l’attività educativa e compositiva di Saffo, che a queste gare di bellezza (kallisteîa) – che a Lesbo si svolgevano nel tempio di Era – veniva collegata dalla tradizione dotta nota ad un anonimo epigrammatista della Antologia Palatina (IX, 189, vv. 1-4). 2. Saffo Nella tradizione biografica Saffo e Alceo appaiono contemporanei: il sincronismo è sottinteso nel brano di Strabone sulla storia arcaica di Mitilene ed è esplicito nella tradizione cronografica (Eusebio, Marmo di Paro). In particolare la cronaca epigrafica detta Marmo di Paro, che giunge al 264/3 a.C. e dunque è stata compilata a metà del III secolo, registra un «esilio» di Saffo da Mitilene e lo pone «durante l’arcontato di Crizia ad Atene» ed «al tempo in cui i gamòroi [i proprietari terrieri di origine greca] detenevano il potere a Siracusa». Il sincronismo con le vicende di Siracusa si spiega nel contesto del cronografo, secondo cui Saffo fuggì da Mitilene «in Sicilia»3. L’arcontato del vecchio Crizia (avo del «tiranno») deve collocarsi in un anno tra il 604 e il 598 a.C.: dunque l’epoca in cui cadrebbe questo esilio appare molto vicina a quella in cui la tradizione confluita in Diogene e Strabone poneva i conflitti civili di Mitilene di cui fu partecipe Alceo. Il redattore del Marmo di Paro fa fuggire Saffo «da Mitilene»: che fosse originaria di Mitilene è notizia di Erodoto e di fonti biografiche (Papiro di Ossirinco 1800). Un’altra tradizione la faceva nascere ad Ereso (Dioscuride in un epigramma, compreso nel-

94

La lirica arcaica

l’Antologia Palatina, VII, 407, Suda). È però indicativo che monete di Mitilene recanti la testa di Saffo risalgano al V secolo a.C. mentre le più antiche monete di Ereso con la stessa immagine sono di età imperiale. Si capisce che dev’essere sorta ad un certo punto una rivalità campanilistica tra le due città. In questa discussione si inseriva anche l’invenzione di una omonima di Saffo (Ateneo, XIII, 596E): una invenzione che forse serviva a separare, in due persone diverse, da un lato la poetessa insigne e dall’altro la donna scandalosamente omosessuale. Separazione difficile da sostenersi dal momento che la passione irresistibile e dolorosa per le altre donne della sua cerchia è argomento dominante della poesia di Saffo. Anche nel caso di Saffo – come per la guerra del Sigeo – Erodoto conosce una cronologia più ‘bassa’, in quanto pone Rodopi, l’etera amata da Carasso, fratello di Saffo, sotto il regno egizio di Amasi (II, 134-135), cioè nel 569-525 a.C. Quanto al nesso biografico tra Alceo e Saffo, esso rischia di essere inquinato da una tradizione romanzesca analoga a quella che metteva in relazione Omero con Esiodo, Corinna e Pindaro, Pindaro e Simonide e così via. Naturalmente la fondatezza di tali connessioni non può essere negata comunque a priori4. Nel caso di Saffo e Alceo vi sono due frammenti che mettono in relazione affettuosa i due poeti di Mitilene, ma la loro interpretazione suscita perplessità. Il primo è il celebre rigo (Fr. 384 Lobel-Page) citato da Efestione (14,4) nel suo Manuale di metrica (II sec. d.C.): «Dal crine di viola, divina, dal dolce riso, Saffo». Qui le parole finali (mellicómeide Sapfoî) possono comportare anche una diversa separazione delle lettere (mellicomeidev Apfoi), tanto più che la forma di vocativo mellicómeidev, attestata dai manoscritti di Efestione, è probabilmente preferibile, come rilevò Paul Maas. In tal caso il seguente nome proprio sarebbe Apfoi (o Afroi prospettato da Pfeiffer), non quello di Saffo (per il quale, notava Maas, ci si aspetterebbe la grafia Yapfoi). Il celebre epiteto sul colore dei capelli rischia dunque di non spettare a Saffo. Ancora più problematica è l’altra attestazione. Essa proviene dalla Retorica di Aristotele (1367a7). Aristotele discorre in quel punto della lode e del biasimo, del disinteresse, del vergognarsi per le azioni turpi ecc. «Ci si vergogna – osserva – delle cose turpi, sia che le si profferisca, sia che le si compia, sia che ci si accinga a compierle. Per esempio quando Alceo disse “Vorrei dirti qualcosa ma me lo impedisce il pudore”, Saffo rispose “Se il tuo desiderio fosse di cose nobili e belle, e se la lingua non ti si confondesse per celare qualcosa di male, la vergogna non

VI. Poeti e tiranni di Lesbo e di Samo

95

riempirebbe i tuoi occhi ma parleresti apertamente di una cosa giusta”» (Fr. 137 Lobel-Page di Saffo).

È difficile sottrarsi alla deduzione che siamo di fronte ad un testo in cui figuravano Alceo e Saffo come protagonisti, l’uno in veste di pretendente, l’altra in veste di corteggiata riottosa. Il tema della faticosa passione di Alceo per Saffo era ben noto già ad Ermesianatte, il dotto poeta del III secolo a.C., il quale nel III libro della sua raccolta elegiaca intitolata Leonzio citava, tra i tanti esempi di poeti innamorati, il caso di Alceo: «Sai bene – scrive – Alceo di Lesbo a quante baldorie (kømoi) dovette sobbarcarsi, cantando il suo delizioso desiderio di Saffo» (vv. 47-49 del lungo frammento citato da Ateneo, XIII, 598B). Il riferimento è precisamente quello presupposto dall’episodio raccontato da Aristotele: l’amante che fa la serenata all’amata in una delle fasi di un kømov, e l’amata ‘amebeicamente’ risponde rintuzzando le avances. (Del resto non è affatto escluso che anche qui come altrove Aristotele sottintenda che la sua citazione deriva da un’opera in cui Saffo e Alceo figuravano come personaggi e che non intenda menomamente citare autentici frammenti dei due poeti.) L’intreccio biografico tra i due poeti si riscontra anche in raffigurazioni vascolari che sono precedenti alla Retorica aristotelica. Tradizioni del genere sono solo un segno dell’accanimento con cui si è elucubrato sulla biografia di Saffo, autrice che peraltro non risparmia le notizie autobiografiche, come quando ci fa sapere di avere una figlia amatissima, Cleide, che non cambierebbe con la ricchissima Lidia (Fr. 132 Lobel-Page): immagine piuttosto ovvia dato che la ritroviamo per esempio in Archiloco (Fr. 19 West). La morbosità con cui si è meditato su questa biografia ha sortito talora effetti comici: uno di essi è la seriosa recensione che il Wilamowitz dedicò nel 1896 in una rivista erudita di Gottinga («Göttinger Gelehrte Anzeigen») alle false e patetiche poesie ‘saffiche’ di Pierre Louys, Les chansons de Bilitis traduites du grec pour la première fois. Pierre Louys fingeva di tradurre componimenti di una poetessa contemporanea di Saffo, Wilamowitz inserì la propria recensione nel volume su Saffo e Simonide. Ma la constatazione della libertà con cui i lirici compongono ponendosi fittiziamente in un determinato ruolo biografico (onde ad esempio Ipponatte ‘fa’ il triviale mendicante senza esserlo necessariamente mai stato) avrebbe potuto servire da freno anche nel caso di Saffo. Quello che spicca, invece, nelle composizioni di Saffo per le don-

96

La lirica arcaica

ne del «tiaso» – la comunità dedita al culto delle Muse di cui essa è al centro –, è la testimonianza che il notevole corpus (ormai frammentario) reca sull’etica aristocratica in una città come Mitilene poco dopo l’età di Gige. La realtà che Saffo descrive comporta un elevato livello culturale da parte delle donne appartenenti all’aristocrazia, nonché un loro prestigio sociale che ha il suo corrispettivo soltanto a Sparta e a Creta. È difficile dire se si possa parlare senz’altro di «grado di istruzione pari a quello degli uomini della stessa condizione sociale» (Pomeroy). In un frammento (98b Lobel-Page) si fa probabilmente cenno ad eventi politici, dato che si leggono, di seguito, le parole Kleanaktída e fúgav: indubbiamente un riferimento alle vicende dei Cleanattidi. Ciò fa pensare ad un corpus poetico molto meno monocorde di quello che si immagini in base ai resti. Come Alceo mostra dimestichezza col testo esiodeo (Fr. 347 Lobel-Page), così – lo notò Bruno Snell – Saffo riprende (Fr. 31), nella descrizione delle conseguenze somatiche dell’amore infelice (venir meno delle forze ecc.), motivi riconoscibili in Archiloco (Fr. 191 West). Di recente è stata messa in luce (Di Benedetto) la presenza nel celebre frammento imitato da Catullo (carme 51: Ille mi par esse deo videtur ecc.) di terminologia e di nozioni mediche. È questo uno dei pochi componimenti di Saffo che conosciamo quasi per intero, per merito dell’autore del trattato Sul sublime (cap. 10) il quale ne dà ampia citazione. Vale la pena di notare che già l’autore del Sublime rilevava la base realistica (e¬k tñv a¬lhqeíav au¬tñv) della sintomatologia descritta da Saffo, e precisava che la bravura dell’autrice consisteva nel saper trascegliere i sintomi più acuti ed «esasperati». La cerchia intorno a Saffo sarà stata destinataria della maggior parte di questi componimenti: in altre cerchie ‘rivali’ (cui Saffo allude) vi sarà stata analoga circolazione. Ad un pubblico più vasto erano rivolti gli epitalami (Frr. 104-117 Lobel-Page). In epoca alessandrina tutto quanto era tramandato sotto il nome di Saffo fu raggruppato in nove libri in base al metro. Così nel I libro, il più ampio, di 1320 righi, furono sistemati i componimenti in strofe saffica, il primo dei quali era con ogni probabilità l’‘inno’ ad Afrodite, citato per intero da Dionigi di Alicarnasso nel trattato Sulla disposizione delle parole (cap. 23). È l’unico carme sicuramente completo a noi giunto, ed ha avuto il privilegio di una notevole serie di citazioni, oltre quella, integrale, di Dionigi, forse proprio per la sua enfatica posizione di apertura della intera raccolta. Posizione di apertura che era giustificata anche dall’iniziale invocazio-

VI. Poeti e tiranni di Lesbo e di Samo

97

ne ad Afrodite, che il tiaso di Saffo venerava come propria divinità protettrice. Contro l’interpretazione, spesso prospettata, secondo cui questo sarebbe un inno rituale composto per le cerimonie inerenti al culto di Afrodite, è stato obiettato (Wilamowitz) che tutta la parte centrale dell’ode ha carattere personalistico, riguarda un rapporto diretto, e quasi familiare, tra Saffo ed Afrodite. L’esordio dell’ode imita gli esordi degli inni rituali: di tali inni Saffo ne ha composti in onore di Adone (Fr. 140 Lobel-Page) e di Era, se – come sembra probabile – ha fondamento nella raccolta completa dei suoi canti la scena, descritta dall’anonimo epigrammatista (Ant. Palat., IX, 189), in cui Saffo innalza un canto per Era in occasione delle gare delle donne di Lesbo nel tempio della dea. In questa scena il coro danza e Saffo dà il segnale d’avvio (a¬párxei). È stato osservato (Calame) che se il coro non si limitasse a danzare, saremmo già di fronte ad un esempio di lirica corale. Invece in questa rappresentazione alessandrina dell’attività musicale di Saffo è tenuto ben presente il dato tradizionale secondo cui le composizioni di Saffo sono monodiche e non corali. Nondimeno in questo quadro Saffo ha funzione di corega, di guida del coro. Per lo meno sul piano musicale l’epigramma raffigura una prestazione di tipo corale. 3. Anacreonte La vicenda biografica di Anacreonte, quale può ricavarsi dalle varie fonti che vi fanno cenno, è legata al regno di due tiranni: Policrate di Samo (circa 533-522 a.C.) e Ipparco. Erodoto nomina Anacreonte in connessione con Policrate, in una strana scena: Orete, satrapo persiano, invia un araldo a Samo, ma tale araldo riceve una pessima accoglienza da Policrate che «si trovava sdraiato nella sala degli uomini ed era con lui anche Anacreonte di Teo». In ogni modo, prosegue Erodoto – «sia che egli a bella posta trattasse con noncuranza Orete, sia che ciò capitasse per caso, quando si presentò l’araldo di Orete e pronunciò il suo discorso, Policrate, che si trovava rivolto verso la parete, neanche si voltò» (III, 121). Quando poi Policrate fu ucciso, Anacreonte accettò l’invito di Ipparco a recarsi ad Atene. Secondo l’enfatica e filo-tirannica narrazione dell’Ipparco pseudoplatonico, l’invito di Anacreonte ad Atene si inserisce in una vera politica culturale di Ipparco (228BC), di cui sono un segno le norme introdotte nella recitazione, alle Panatenee, dei poemi omerici, lo stretto

98

La lirica arcaica

rapporto con Simonide di Ceo, l’invio di una nave a cinquanta remi incaricata di prelevare Anacreonte. Quando, nel 514, Ipparco fu ucciso, Anacreonte – che era stato il beniamino contesissimo tra le varie famiglie ateniesi (Platone, Carmide, 157E) – si ritirò in Tessaglia. Di questo periodo tessalo sono testimonianza epigrammi come i Frr. 198 e 199 Gentili. In seguito tornò ad Atene. Secondo il metricologo Efestione (Manuale, p. 74 Consbruch) in epoca alessandrina la raccolta delle opere di Anacreonte fu curata dal grande grammatico Aristarco, il quale la suddivise in cinque libri, è da presumere sulla base del metro (lo si ricava anche da un epigramma di Crinagora: Antologia Palatina, IX, 239). Compose elegie, giambi, anche partenî. Non sono suoi, ma risalgono ad epoca ellenistica, romana, forse anche bizantina 62 brevi poesie pubblicate per la prima volta da Henri Estienne nel 1554, dette Anacreontiche: fatue poesiole dall’immeritata fortuna, di argomento al solito frivolmente amoroso, imitate in tutta la letteratura europea dal Cinque al Settecento. Osservò il Wilamowitz che già verso la fine dell’età antica la fama di questi troppo facili componimenti dovette offuscare quella del vero Anacreonte: egli attribuiva addirittura a tale singolare fenomeno l’assenza di papiri di Anacreonte. In realtà nel 1954 Lobel ha pubblicato nel XXII volume dei Papiri di Ossirinco brani di una certa ampiezza dovuti ad Anacreonte, la cui sopravvivenza limita la portata della considerazione del Wilamowitz. Il meglio leggibile dei frammenti papiracei (Fr. 71 Gentili) si occupa della chioma di un fanciullo testé tosata («Ora dunque sei tosato e finita in dure mani tutta defluì la tua chioma nella nera polvere, dall’acuto ferro vinta», trad. di B. Gentili). Note 1 La ‘città’ è dunque poco più che una agorà circondata da alcuni edifici; Alceo, esiliato, sembra vivere ad assai poca distanza dai luoghi dai quali è stato bandito: Fr. 130 Lobel-Page. 2 È opinione prevalente che Mirsilo e Melancro siano esponenti della famiglia dei Cleanattidi e che quindi a ragione il Diels abbia eliminato, nel passo di Strabone, la congiunzione che si legge dopo il nome di Melancro. 3 Non è detto però che indichi senz’altro un soggiorno di Saffo a Siracusa; nel Fr. 35 Lobel-Page è nominata Palermo. 4 Difficilmente, ad esempio, si può dubitare della notizia (Diogene Laerzio, I, 60) secondo cui Solone discuteva ‘a distanza’ con Mimnermo: la puntuale citazione dei versi con cui Solone si rivolgeva a Mimnermo (Fr. 26 Gentili-Prato) è un documento inequivocabile.

VII LA MUSA ‘VENALE’ E ITINERANTE: LA LIRICA CORALE 1. Alcmane La lirica corale ha un destinatario più ampio ed una committenza il cui ruolo è determinante. Anche in questo ambito le testimonianze più remote conducono al mondo spartano. Dopo la seconda guerra messenica si colloca l’attività di un personaggio dai contorni incerti, Alcmane, autore di componimenti corali destinati a cori femminili (partenî): cori che rientrano nel sistema educativo dell’aristocrazia laconica e al tempo stesso svolgono una funzione per così dire comunitaria, di ‘iniziazione’ (o ingresso rituale nella comunità) che è proprio di ogni aspetto dell’educazione spartana. La nostra conoscenza di questo genere di produzione corale si fonda soprattutto su due grandi frammenti (1 e 3 Page), scoperti a distanza di un secolo circa l’uno dall’altro in due rilevanti papiri, il Papiro del Louvre E 33201 e il Papiro di Ossirinco 2387 (pubblicato nel 1957). Questi componimenti, e gli altri ancor più frammentariamente a noi noti, sono in dialetto laconico. Ma della origine laconica di Alcmane non tutti i dotti erano persuasi: la Suda registra anche la notizia di una sua origine lidia, un’idea che può aver trovato spunto nell’interpretazione in chiave autobiografica del Fr. 16 Page (dove si parla di qualcuno – il poeta? – che viene proclamato con enfasi originario della città di Sardi). Nella epitome di alcune Politèiai di Aristotele che va sotto il nome di un Eraclide, la prima notizia, nel riassunto della Costituzione di Sparta, riguarda Alcmane: «Alcmane era uno schiavo di Agesidas [ma si può pensare al più comune nome laconico Agesilas]; a causa delle sue ottime doti fu affrancato, e divenne poeta» (= Aristotele, Fr. 611,9 Rose). Questa notizia dell’epitome non è in contraddizione con quel-

100

La lirica arcaica

la di uno scolio ad Alcmane contenuto nel Papiro di Ossirinco 2389 (Fr. 9, colonna 1), secondo cui Aristotele sosteneva l’origine lidia e non laconica di Alcmane basandosi sul carme che per noi è il Fr. 16 (lo scolio ne cita appunto le prime parole conservate). Uno schiavo non poteva essere uno spartano di nascita. Anche Esopo in una tradizione deteriore era divenuto uno schiavo lidio. Questa coincidenza rende legittima la prudenza. E comunque sembra piuttosto stravagante la nozione di un padrone spartano che possiede uno schiavo (lidio) e lo affranca: nella società spartana, dove i servi hanno tutt’altra origine che non l’acquisto di ‘barbari’, un tale quadro biografico suscita difficoltà. D’altra parte anche Tirteo veniva ‘sottratto’ a Sparta e gli veniva, ad un certo punto, attribuita una origine ateniese. Alla base ci dev’essere in entrambi i casi l’idea che Sparta fosse culturalmente del tutto sterile. Da frammenti esigui che ci vengono da Plutarco sembra di cogliere la presenza, in Alcmane, di un interesse anche per l’ordinamento e per l’ethos spartano. In un componimento che è difficile classificare (Fr. 64 Page), Alcmane definiva la Tyche (nel senso di «buona fortuna») «sorella dell’Eunomia e della Persuasione, figlia della Previsione [nel senso di capacità preventiva di orientamento]», e in un altro rigo, anch’esso conservatoci da Plutarco (Licurgo, 21,6 = Fr. 41 Page), affermava la conciliabilità tra perizia artistica e impegno guerresco: evidentemente nel kòsmos spartano. Il caso di Alcmane, radicato nella realtà spartana e attivo nell’ambito del sistema educativo-rituale laconico, sta a sé nel quadro della lirica corale, la cui caratteristica è invece la subalternità rispetto ad una committenza varia, e perciò anche una notevole mobilità geografica. 2. Stesicoro e Ibico La prima figura in cui ci si imbatte è avvolta da nebbie: Stesicoro. Già nel nome questo personaggio rischia di svanire nel nulla: quel nome appare come un epiteto o come l’indicazione della professionale attività di istruttore e guida di cori; il vero nome sarebbe stato Tisia, secondo la Suda, alla voce «Stesicoro». Qui viene anche data la spiegazione dell’epiteto divenuto nome: per «primo» il poeta kiqarwıdíav coròn e¢sthsen. Si capisce che proprio queste indicazioni di «primo inventore» di un genere accrescono i sospetti. Questo alone mitico

VII. La Musa ‘venale’ e itinerante: la lirica corale

101

creatosi intorno al personaggio spiega l’estrema varietà di ipotesi che la dottrina antica ha prodotto intorno all’epoca in cui Stesicoro sarebbe vissuto e intorno alla sua città natale. Anche la materia epica trattata nei suoi componimenti, largamente affine a quella del ciclo, contribuiva a rendere poco identificabile, quasi sfuggente, l’autore. Così si oscillava tra coloro che ne facevano il figlio di Esiodo e dunque lo proiettavano in una imprecisata protostoria (Simonide, Fr. 564 Page, parla di «Omero e Stesicoro»), e coloro che ne facevano un locrese giunto ad Atene nell’età delle guerre persiane (nel Marmo di Paro, all’anno 485 a.C., viene istituito un sincronismo tra la prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici, l’arrivo di Stesicoro «in Grecia» e la nascita di Euripide). C’era poi chi istituiva un altro sincronismo, non meno sospetto, tra la morte di «Stesicoro» e la nascita di Simonide nell’Olimpiade che va dal 556 al 553 a.C. a significare, evidentemente, col solito ritrovato della traditio lampadis (il passaggio della «fiaccola» dalle mani di un autore a quelle del suo «successore» nello stesso genere letterario) il trapasso dall’arcaica alla ‘moderna’ lirica corale. A questa oscillazione di oltre tre secoli, cui si aggiunge la impenetrabile atemporale materia epica dei suoi canti, corrisponde una non meno ampia oscillazione geografica: chi lo faceva nascere ad Imera in Sicilia (così già Platone nel Fedro, 244A), chi a Matauro, chi a Locri. Quando Cicerone andò in Sicilia, ad Imera trovò una bella statua di Stesicoro raffigurato con un libro in mano (Verrine, Actio secunda, II, 87). Oltre tutto di Imera si proclamava, e si faceva chiamare Stesicoro, un ditirambografo di IV secolo a.C.2 Nell’età di Platone, dunque, chi si richiamava a Stesicoro ne presupponeva l’origine imerese. Il tentativo di trovare un punto d’appoggio, in questa tradizione evanescente ed ingannevole, individuando nei carmi di Stesicoro la fonte degli episodi mitici raffigurati sulle metope del tempietto di Era alla foce del Sele, risalente al 570-560 a.C. (Zancani Montuoro e Zanotti Bianco), non ha convinto3. Dinanzi ad una tradizione così disperante si può solo dire che sin dal tempo di Simonide (il quale era nato a metà del VI secolo) si assumeva che della lirica corale vi fosse stato un «primo inventore» (prøtov eu™retäv) e lo si chiamava genericamente col nome comune di «Stesicoro», «il maestro dei cori»: «un poeta chiamato Stesicoro», secondo la pertinente definizione del Wilamowitz. Sotto il suo nome venivano tradizionalmente convogliate composizioni corali di argomento epico, sulla cui effettiva origine si era evidentemente assai poco in chiaro.

102

La lirica arcaica

Di questa produzione lirico-epica che possiamo definire per comodità «stesicorea» i ritrovamenti di papiri ci hanno molto arricchiti in questi ultimi decenni: sono affiorati frammenti di composizioni di cui si aveva poco più che il titolo, come i Nostoi, l’Orestea, la Caccia al cinghiale Calidonio. Nel 1967 Edgar Lobel aveva pubblicato ampi frammenti della Gerioneide – sulla decima fatica di Eracle –, la cui imponente ampiezza (si è calcolato che l’intero componimento dovesse comprendere circa 1500 righi, tre volte e mezza l’amplissima Quarta Pitica di Pindaro) ha suscitato la legittima domanda relativa alla sua effettiva recitabilità: quale coro avrebbe potuto ragionevolmente danzare per circa quattro ore di seguito? Al ciclo tebano infine si riferiscono gli ampi frammenti sulla sventurata casa di Edipo e sulla lotta tra i suoi figli, Eteocle e Polinice, contenuti nel Papiro di Lille, pubblicato dall’Università di Lille nel 1977. Si è molto disputato sull’attribuzione o meno a «Stesicoro» di questo componimento (una trentina di righi discretamente leggibili erano una porzione appetitosa): strana discussione mirante ad attribuire o a negare un componimento (dal linguaggio oltre tutto necessariamente formulare) ad un autore la cui identità sembra dissolversi nel simbolo. Anche per Ibico le scoperte di papiri sono state decisive. Prima della pubblicazione, nel 1922, del Papiro di Ossirinco 1790, avevamo di lui ben pochi e poco illuminanti frammenti. Quel papiro ci ha dato quasi tre colonne di scrittura di un testo lirico in dialetto dorico: l’argomento riguarda il ciclo troiano, il penultimo verso – prezioso per l’identificazione dell’autore – contiene una invocazione a Policrate. Non può trattarsi che del tiranno di Samo, col quale infatti la Suda (alla voce «Ibico») mette in relazione Ibico di Reggio. Oltre che Anacreonte, dunque, anche Ibico sarebbe stato attivo alla corte di Policrate. «Ibico – così si esprime la Suda – Reggino di origine. Di lì si recò a Samo, quando vi regnava Policrate, il padre (?) del tiranno. L’epoca è quella di Creso, nella cinquantaquattresima olimpiade». Una tale cronologia (circa 564-561 a.C.) non si accorda con quella di Policrate (circa 533-522) e dunque non può essere accolta. Il dialetto dorico ben si addice al poeta di Reggio, e dunque l’attribuzione a lui del consistente frammento è molto plausibile. Un ulteriore argomento in favore dell’identificazione viene dal metro: dalla presenza, in particolare, di sequenze dattiliche, che si ritrovano negli altri superstiti frammenti, nonché in Stesicoro.

La più nota leggenda legata al nome di «Stesicoro» è la palinodia per Elena. Nell’Elena (Frr. 187-193 Page) «Stesicoro» narrava

VII. La Musa ‘venale’ e itinerante: la lirica corale

103

la ben nota vicenda di Elena, delle sue nozze con Menelao e della sua fuga a Troia con Paride. Per l’ardire di aver narrato un episodio universalmente noto l’autore sarebbe stato accecato ed avrebbe riacquistato la vista soltanto dopo aver ricantato la stessa vicenda discolpando completamente Elena: è «la cosiddetta Palinodia» ci informa Platone (Fedro, 243A), al quale dobbiamo la storiella ed anche alcuni versi: «non è vero questo racconto, tu non salisti sulle navi, né ti recasti alla rocca di Troia» (Fr. 192 Page). In questa Palinodia «Stesicoro» incolpava Omero dell’infamante racconto lesivo dell’onore di Elena; secondo uno scolio (Papiro di Ossirinco 2506, Fr. 26, colonna 1), in un’altra Palinodia incolpava Esiodo. Questa favola è indicativa del peso determinante che ha l’uditorio (sia il pubblico che il committente), nell’orientare i contenuti della lirica corale: forma d’arte destinata ad un consumo ‘sociale’ e composta su commissione al fine di soddisfare il bisogno di intrattenimento musicale di committenti più o meno ‘collettivi’. Nel caso dell’Elena le due palinodie stanno a significare che l’autore fu indotto ripetutamente a tener conto della reazione del pubblico. 3. «Denaro è l’uomo!» La composizione poetica diviene insomma una «merce», come si esprime Pindaro nella Seconda Pitica indirizzata a Ierone tiranno di Siracusa: «Ti invio questo canto come una merce fenicia, attraverso il grigio mare» (vv. 67-68). Pindaro compone in Beozia ed è seccato con Ierone che non lo ha invitato a celebrare la vittoria conseguita ad Olimpia nelle corse dei cavalli (468 a.C.). È qui la differenza sostanziale rispetto alla lirica monodica (Saffo, Alceo ecc.). Il lirico corale ha una lucida visione del mercato e del guadagno. Nella Seconda Istmica (circa 470 a.C.) Pindaro inquadra addirittura storicamente l’insorgenza del mercato: «Anticamente – così incomincia il suo canto – o Trasibulo [tiranno di Agrigento], gli uomini che salivano sul carro delle Muse con in mano la nobile lira (fórmigx), prontamente lanciavano i loro canti dolci come il miele in onore degli adolescenti [...] La Musa non era allora dedita al guadagno (filokerdäv) né era una mercenaria (e¬rgátiv). I canti soavi di Terpsicore allora non erano ancora in vendita (e¬pérnanto). Ora invece essa prescrive di osservare quel detto dell’Argivo, vicinissimo alla verità, che dice: DENARO, DENARO È L’UOMO!».

104

La lirica arcaica

La terminologia adoperata è quanto mai esplicita, dal momento che e¬rgátiv significa anche «prostituta», termine che è compreso anche nel verbo e¬pérnanto (da cui, appunto, pórnh). Callimaco in un frammento giambico si ricorda di questa espressione (non a caso il frammento callimacheo è citato negli scolî a questo passo di Pindaro) ed esclama con durezza: «Io non mantengo una Musa prostituta, come Simonide» (Fr. 222 Pfeiffer). Con la sua tirata Pindaro rende chiaro a Trasibulo cosa si aspetta da lui. Il prezzo è corrispettivo del prodotto fornito al committente e può essere frutto di contrattazione. Aristotele nella Retorica narra, in proposito, un aneddoto divenuto celebre, riguardante il poeta Simonide (556-468 a.C.), più anziano di Pindaro di una quarantina d’anni, come lui itinerante tra i più disparati offerenti, e noto per la tenace avidità (Aristofane, Pace, 697-698; Callimaco, Fr. 222 Pfeiffer): «Una volta il vincitore in una gara delle mule offriva a Simonide un compenso modesto, e lui si rifiutava di comporre il canto per la sua vittoria, fingendo di essere riluttante perché i muli costituivano un argomento di poesia un po’ modesto. Ma quando quello alzò il prezzo, prontamente compose ed il suo canto cominciava così: Salve o figli delle cavalle dai piedi veloci! Eppure – commenta maliziosamente Aristotele che cita questo caso a proposito del ricorso alle circollocuzioni – i padri di quei muli restavano pur sempre degli asini...» (1405b23-28).

In realtà non avrebbe molto senso tener dietro a queste storie di poesia-merce, di asini e di tariffe, se non ne emergesse un dato culturalmente rilevante: la posizione subalterna degli autori impegnati in questo genere di produzione rispetto ai ceti dominanti ed al potere politico. In un saggio discusso come il Pindaro del Wilamowitz vi erano le premesse perché questo aspetto della produzione lirica venisse posto in luce. Il saggio moderno consacrato alla documentazione della «venalità» della «musa lirica» è quello di Jesper Svenbro, La parola e il marmo (1976, 1984). Ancora pochi decenni prima Maurice Bowra (Pindar, 1964) preferiva parlare di «amicizia» tra poeti e committenti: interpretazione unilaterale che intende sublimare una realtà chiara e prosastica. Si capisce che la strumentale esaltazione simonidea della nobile prosapia dei muli può apparire un caso limite, anche se Aristotele lo inquadra molto compassatamente nella sua casistica; ma è difficile non pensare alla Pitica II di Pindaro definita «merce» dal suo stesso autore. La lirica corale

VII. La Musa ‘venale’ e itinerante: la lirica corale

105

nell’età di Simonide e di Pindaro è la forma d’arte di maggior consumo legata soprattutto alla committenza delle grandi aristocrazie e dei ‘tiranni’ (che ne rappresentano una variante). Nella città democratica, in cui la comunità, il koinòn, è di tutti, la forma d’arte – il cui committente sarà non a caso lo Stato stesso – è il teatro. Tanto è stabile, legata ad un unico soggetto collettivo, la forma d’arte teatrale, altrettanto è, di necessità, itinerante la lirica corale: alla ricerca di una committenza sempre nuova, esposta ad una imprevedibile concorrenza nonché al rischio della saturazione del mercato. I signori e i ‘tiranni’ e i loro figli e congiunti impegnano grandi risorse nella partecipazione sontuosa ai giochi panellenici (olimpici, pitici, istmici, nemei), e dell’investimento fa parte anche la ricompensa ai cantori ingaggiati per esaltare le vittorie dei committenti. L’ingaggio, finalizzato alla esaltazione delle vittorie ginniche dei signori – non a caso svilite da un ‘illuminista ionico’ come Senofane (Fr. 2, 11-12 Diels-Kranz: «la mia scienza vale ben più della forza fisica di uomini o di cavalli!») – costituisce una forma di dipendenza: dipendenza con aspetti di asservimento se si pensa alla immagine evocata da Imerio di Simonide che, costretto da Ierone a cantare, mescola il suo pianto alle note musicali (Orazione, 31,5). I cori, adeguatamente addestrati, cantano dinanzi ad un pubblico che si desidera impressionare con la sontuosità dello spettacolo. Ma soprattutto il pubblico deve sentir esaltare il signore o il tiranno: a questo servono le parole talora fumose, sempre esagerate, turgide e cariche di lambiccati riferimenti mitologici che il poeta ingaggiato avrà saputo escogitare. Il ricorso a sempre nuovi prestatori d’opera è nella natura delle cose e la concorrenza, trattandosi appunto di un rapporto di mercato, è la legge che regola l’intero meccanismo. Viaggiare alla ricerca di nuovi committenti è dunque una necessità. Oltre che venale e itinerante, la musa è però anche redditizia: «non manca di risorse» come dice il frammento adespoto 947A Page. Tanto che a un certo punto la nozione di ricchezza viene collegata strettamente alla nozione di poeta lirico: così nascono aneddoti come quello, celebre, su Arione, depredato dai marinai che lo trasportano da Corinto in Sicilia. 4. Simonide di Ceo Gli spostamenti di Simonide sono sintomatici dell’indifferenza verso la qualità del committente, che si ingenera negli autori che

106

La lirica arcaica

scelgono questo mestiere. Simonide era nato a Iulide nell’isola di Ceo, minuscola località di una minuscola isola delle Cicladi, di fronte all’estrema punta dell’Attica, località che una volta Plutarco cita, pensando alla sua piccola Cheronea, come esempio di patria piccola che può ugualmente dare i natali a grandi personaggi (Demostene, 1). Dopo prestazioni presso signori locali (Glauco di Caristo, Eualcida di Eretria) Simonide si è recato ad Atene, ospite di Ipparco, il figlio di Pisistrato, il raffinato fratello di Ippia. Secondo l’interessante racconto di Socrate nel pseudo-platonico Ipparco (228C), Ipparco, maniaco delle arti e benefico diffusore della cultura in Attica, aveva fatto venire ad Atene non solo Anacreonte – che fu prestigioso poeta ‘di corte’ –, ma anche il più giovane Simonide, per ottenere il cui assenso dovette «offrire un grande stipendio e molti doni». Con la tragica morte di Ipparco (514 a.C.) – che comunque non pose fine alla tirannide dei Pisistratidi, proseguita per altri quattro terribili anni sotto il governo di Ippia –, sia Anacreonte che Simonide lasciarono Atene. Un distico che esalta gli uccisori di Ipparco è tramandato come simonideo (Fr. 76 Diehl, non compreso nella raccolta di Page). A partire dal 514 Simonide passò al servizio degli Scopadi, grande famiglia nobiliare tessala, la cui sede avita era Crannon, e celebrò le loro vittorie nelle corse dei carri (Teocrito, 16, 42-47). Anche di questo soggiorno la conclusione fu tragica: la dimora degli Scopadi crollò e nessuno di loro scampò alla morte, l’unico sopravvissuto fu appunto Simonide (Callimaco, Fr. 64, 13-14 Pfeiffer). Quando, intorno al 490, poco dopo Maratona, Simonide torna in Atene il funzionamento politico della città è profondamente mutato, ma Simonide vi si adatta perfettamente. Secondo la Vita anonima di Eschilo, il suo epitafio per i caduti di Maratona fu preferito a quello composto da Eschilo (il quale era molto più giovane di Simonide e non aveva ancora conseguito la sua prima vittoria). Con le vittorie della coalizione greca nella seconda guerra persiana, Simonide, ancora ad Atene, si fa poeta panellenico e inneggia ai caduti delle Termopili (Fr. 531 Page) e alle vittorie dell’Artemisio (Frr. 532-535) e di Salamina (Fr. 563). Con tutta probabilità fu lui a comporre il distico della dedica che il re spartano Pausania fece incidere sul tripode destinato a Delfi in cui superbamente proclamava la vittoria sui Persiani come la sua personale vittoria (il che, come ricorda Tucidide, aveva suscitato una reazione di fastidio). Ad Atene si legò in modo particolare a Temistocle, ed entrò in contrasto

VII. La Musa ‘venale’ e itinerante: la lirica corale

107

con un altro poeta lirico dell’entourage di Temistocle, Timocreonte di Rodi (Aristotele, Fr. 75 Rose). Ad un certo punto Timocreonte fu allontanato da Atene «per simpatie filopersiane» (Plutarco, Temistocle, 21,7); al contrario Simonide aveva dato insistente prova del suo patriottismo. Plutarco (Temistocle, 5,6) racconta anche di un grosso favore (imprecisato) che Simonide pretendeva da Temistocle, e che Temistocle abilmente rifiutò osservandogli che non poteva elargire favori «contro la legge» (parà nómon), come lui non poteva poetare «contro musica» (parà mélov). Anche nella città democratica, comunque, il rapporto che Simonide instaura è con un determinato potentato: con Temistocle, come a suo tempo con Ipparco. Così quando la stella di Temistocle comincia ad offuscarsi, Simonide lascia Atene e si rivolge a quell’area del mondo greco dove la forma politica a lui più congeniale, la tirannide mecenatesca, non era mai decaduta: va in Sicilia, a Siracusa, presso il tiranno Ierone (476 a.C.). Quando, nel secolo seguente, Senofonte vorrà ambientare in un contesto credibile un dialogo sulla tirannide (lo Ierone) metterà in scena per l’appunto Ierone e Simonide. Qui il poeta trovò il suo ubi consistam, e restò alla corte di Ierone come poeta quasi ‘ufficiale’ fino alla morte (468/7 a.C.). Ateneo narra un realistico aneddoto sull’implacata avidità di Simonide anche in quest’ultima fase della sua vita: «A Siracusa quando Ierone gli faceva avere, con larghezza, quanto è necessario per la vita quotidiana, lui si andava a vendere quasi tutto quello che riceveva e per sé ne conservava ben poco» (XIV, 656D). 5. Pindaro e Bacchilide Pindaro (518-438 a.C.) ed il suo quasi coetaneo Bacchilide (che era un nipote di Simonide) ripercorrono, mezzo secolo più tardi, una trafila in tutto analoga a quella del loro predecessore. Ciò è tanto più notevole in pieno V secolo, mentre in Atene Frinico ed Eschilo danno vita ad un moderno teatro politico. Sono gli unici due lirici corali tramandati in modo significativo. Pindaro in una consistente tradizione manoscritta medievale, del XII e XIII secolo, che attesta la ininterrotta sua presenza attraverso il Medioevo bizantino; Bacchilide per merito dello spettacolare ritrovamento, nel 1896, di due rotoli di papiro ad Al-Kussîyah contenenti i resti di 14 epinici e di 6 ditirambi4. I due rotoli – che fu-

108

La lirica arcaica

rono magistralmente pubblicati dal Kenyon nel 1897 risalgono al I/II secolo d.C. È difficile comprendere i criteri coi quali sono raggruppati nel papiro gli epinici di Bacchilide. Nel caso di Pindaro, invece, la scelta dei suoi componimenti, che è sopravvissuta nella tradizione medievale, si fonda sul raggruppamento secondo la sede delle gare volta a volta celebrate (Olimpia, Nemea, Delfi ecc.). Bacchilide, conterraneo e nipote di Simonide, sembra averne seguito anche gli spostamenti. Ed è appunto al seguito di Simonide che si è spostato anche lui in Sicilia presso Ierone intorno al 476, anno in cui alla prestigiosa corte del tiranno di Siracusa, leader della grecità occidentale, dopo la vittoria di Gelone a Imera sui Cartaginesi, confluisce anche Pindaro. Entrambi avevano esordito, pur provenendo da ambienti assai diversi, rivolgendosi alle grandi casate tessale. Pindaro era nato a Cinoscefale in Beozia dalla influente famiglia degli Egeidi con legami in vari Stati greci ed era anche lui nipote di un maestro della stessa arte, Scopelino. Bacchilide si era formato accanto a Simonide. La più antica composizione nota di Pindaro è la Pitica X, scritta dal giovanissimo artista, appena ventenne, nel 498 a.C., per un giovane protetto dagli Alevadi, la potente casata tessala. Bacchilide, il cui XIV componimento è Per Aristotele di Tessaglia, fu poi anche in contatto con la corte macedone. Del resto già Simonide, dopo l’uccisione di Ipparco, si era rivolto, come s’è visto, agli Scopadi di Crannon. Nella grecità ‘nordica’ è a lungo vitale – come, in area opposta, a Siracusa – la forma politica della ‘tirannide’: la più propizia protettrice della Musa «venale». Per Pindaro il contatto con Atene è consistito essenzialmente nel legame con alcune grandi famiglie dell’aristocrazia. Innanzi tutto con Megacle ‘il giovane’, ostracizzato nel 487/6 (a lui appena ostracizzato e vincitore nelle feste Pitiche, nella gara dei carri, è dedicata la Pitica VII); quindi con Melesia, il padre del Tucidide avversario di Pericle (a Melesia si rivolge ripetutamente nelle Nemee IV e VI e nell’Olimpica VIII). Megacle, cacciato perché sospetto di collusione coi Persiani a Maratona (uno degli oltre quattromila òstraka recanti il suo nome vi aggiunge anche l’epiteto «il traditore», o™ prodóthv), era il nipote di Clistene. In realtà il sospetto di collusione coi Persiani aveva investito anche altri Alcmeonidi, tanto che Erodoto, devoto di Pericle, sente il bisogno di scagionarli (VI, 121-124). L’atteggiamento di neutralità, e di sottomissione a Serse, assunto da Tebe, e approvato da Pindaro, di fronte alla nuova invasione

VII. La Musa ‘venale’ e itinerante: la lirica corale

109

persiana (480/79) spiega la buona intesa con Megacle. Il Fr. 110 Snell di Pindaro («dolce cosa è la guerra per chi non ne abbia esperienza, ma chi la conosce trema in cuor suo vedendola approssimarsi») è in genere inteso come l’espressione del suo assenso rispetto alla scelta pro-persiana di Tebe. I suoi legami, del resto, erano saldi e durevoli proprio con l’aristocrazia tebana schieratasi con i Persiani. Ancora, anni dopo, nel periodo di suo massimo prestigio, Pindaro canta le gesta ginniche di rampolli di quelle famiglie ‘medizzanti’: la Istmica I è in onore di Erodoto tebano, figlio di quell’Asopodoro che aveva comandato a Platea la cavalleria tebana inserita nell’esercito persiano (Erodoto, IX, 69), e che perciò dopo la sconfitta persiana, quando Tebe aveva rischiato di essere distrutta dai confederati, aveva dovuto fuggire dinanzi alla richiesta del re spartano Pausania, il quale pretendeva la consegna dei capi della città alleata della Persia. Ciò non impedisce a Pindaro di esaltare il valore degli Egineti a Salamina (Istmica V) e di celebrare in un ditirambo la battaglia dell’Artemisio, dove «i figli degli Ateniesi posero il fulgido fondamento della libertà» ed Atene fu il «baluardo della Grecia» (Frr. 76 e 77 Snell), e di ottenere come compenso da Atene diecimila dracme (Isocrate, Sullo scambio, 166). Il rapporto di Pindaro con Melesia illumina efficacemente i legami extracittadini dei gruppi oligarchici. L’identificazione di Melesia, elogiato come educatore di atleti al termine delle Nemee IV e VI e nella terza antistrofe dell’Olimpica VIII (databile nel 460 a.C.), con il padre del politico che più di ogni altro, dopo Cimone, si oppose a Pericle, è dovuta a Wade-Gery. Essa è confermata tra l’altro dalla connessione con Egina sia del personaggio ammirato da Pindaro (egineta è l’atleta educato da Melesia e ad Egina probabilmente si svolge la festa per la quale Pindaro compone questa Olimpica) sia della famiglia di Tucidide di Melesia, il quale secondo la Vita anonima di Tucidide (§ 7) avrebbe praticato l’usura in Egina in modo deleterio per gli abitanti di quell’isola. Ecco perché dinanzi ad un pubblico egineta e certo non ben disposto verso gli Ateniesi Pindaro può ben concedersi di elogiare un personaggio non propriamente rappresentativo del potere democratico dominante in Atene in quegli anni. È uno di quegli aristocratici (Platone, nel Menone [94D] parla di «grande casata») allevati «nella musica e nelle palestre» come ricorda nostalgicamente l’oligarchico autore della Costituzione degli Ateniesi (1, 13): educatore di atleti ed in gioventù atleta egli stesso. È questo il

110

La lirica arcaica

mondo di sopravvissuti in cui Pindaro si trova a proprio agio, siano essi tessali, ateniesi, tebani, siracusani. Il rapporto con Ierone fu invece piuttosto tormentato. In Sicilia Pindaro si era recato nel 476 ed in onore della vittoria di Ierone nella corsa dei cavalli aveva composto l’Olimpica I – uno dei suoi componimenti più celebrati –; ma già nell’anno seguente era tornato in Beozia, evidentemente perché altri (Simonide e Bacchilide in primo luogo) avevano assunto presso Ierone il ruolo di poeti ufficiali della corte siracusana. Così, negli anni seguenti, Pindaro manda al suo protettore ‘epistole poetiche’, qual è ad esempio la Pitica III, forse del 474, che non è un’ode trionfale, ma consolatoria della grave malattia che ha colpito il sovrano. Nel 470 si ebbe la solenne inaugurazione ufficiale di Etna, la città fondata da Ierone, e affidata al figlio Dinomene, sul terreno da cui il tiranno aveva scacciato qualche anno prima con la violenza gli abitanti di Catania e di Nasso. Per questa occasione – cui è legato anche il viaggio di Eschilo in Sicilia e la messa in scena della sua tragedia Le Etnee – Pindaro compone la Pitica I, molto impegnativa e probabilmente recitata ad Etna: l’ode celebra anche la vittoria della quadriga di Ierone a Delfi. Per tale vittoria Bacchilide compose un’ode assai breve (la IV). Eppure due anni più tardi, nel 468, è Bacchilide, non Pindaro, che viene invitato da Ierone a celebrare la sua vittoria ad Olimpia nella corsa dei carri. Pindaro, amareggiato, gli manda ugualmente il suo componimento: è la Pitica II, quella che viene da lui assimilata ad una «merce fenicia». Non si può negare che Pindaro esageri: nello stesso anno indirizza a Ierone un iporchema (Fr. 105 Snell) e l’Olimpica VI ad un amico di Ierone. Ma la vicenda siracusana finiva così, nella delusione. Ormai Pindaro lavora per altri committenti, da Alessandro di Macedonia al re di Cirene Arcesilao (Pitiche IV e V), per signori rodiesi (Olimpica VII), corinzi (Olimpica XIII); ma è pronto anche ad entusiasmarsi per l’ordinamento degli Spartani, per il loro «consiglio degli anziani» e le «lance di giovani che primeggiano» ed «i cori e la Musa e Aglaia» (Fr. 199 Snell). Negli ultimi tempi, col deteriorarsi dei rapporti tra Tebe e Atene (soprattutto dopo la battaglia di Enofita), Pindaro manifesta ostilità verso Atene. Nell’Istmica VII sembra un riferimento anti-ateniese il cenno agli dèi che puniscono i presuntuosi e nella Pitica VIII (446 a.C.) le lodi ad un giovane egineta sono pronunciate in un momento in cui la disfatta inflitta da Tebe ad Atene a Coronea sembra incrinare alle basi l’impero at-

VII. La Musa ‘venale’ e itinerante: la lirica corale

111

tico: Pericle stenta a mantenere il controllo sull’Eubea mentre si profila una invasione spartana ed anche Egina spera per un momento di potersi liberare dal dominio ateniese. Allusivo è negli ultimi versi l’auspicio che Egina «possa seguire in libertà il corso del suo destino!» (vv. 97-98). È rilevante come affiori dunque una sostanziale ‘coerenza’, pur nell’ambito di una produzione sfacciatamente subalterna rispetto all’orientamento ideale dei committenti, da Pindaro espressa con l’odiosa formula «Musa, se ti pagano, la tua voce deve risuonare ora in un modo ora in un altro» (Pitica XI, 41-44). Coerenza che si fonda essenzialmente sul sistema di valori schematici e arcaici del suo universo mentale, quei valori che accomunano oligarchi e aristocratici in una ‘internazionalistica’ koinè ben più salda delle coalizioni possibili tra le fazioni democratiche. Questo ‘credo’ pindarico monolitico e senza incrinature trova la sua formulazione più convinta e più ampia nell’Olimpica II: «La ricchezza ornata di virtù dà la possibilità di tante imprese e alimenta una profonda ambizione di preda; è una stella chiarissima, la luce più vera per un uomo, purché chi la possiede conosca il futuro, sappia cioè che gli spiriti scellerati dei morti pagano il fio immediatamente, e le colpe commesse in questo regno di Zeus, qualcuno sotto terra le giudica con parole tremende e irrevocabili; invece i buoni hanno sempre il sole, di notte come di giorno, e ricevono una vita libera da travagli, non sommuovono la terra col vigore del braccio, né l’acqua del mare, per un magro alimento» (vv. 53-65).

È notevole come, in questa visione dicotomica dell’universo, siano tra l’altro presentati come «condanna» per i malvagi i mestieri vitali: sia l’agricoltura che il commercio. Vi è qui la sublimazione del parassitismo degli aristocratici dediti unicamente allo sport (ed eventualmente alla guerra). Queste sono le a¬retaí. Meno schematicamente il vecchio Simonide nei versi indirizzati a Scopas (Fr. 542 Page), che ci sono tramandati nel Protagora con l’eccezionale commento di Platone, riconosceva citando il saggio Pittaco: «arduo è diventare davvero agathòs».

112

La lirica arcaica

Note Edito da Emile Egger nel 1863. Una ‘vittoria’, in Atene, di questo Stesicoro, ai concorsi drammatici dell’anno 369/8 era registrata negli atti ufficiali con la consueta formula, ripresa di peso nel Marmo di Paro (§ 73). Un Ciclope di questo «Stesicoro secondo (o™ deúterov)» fu rappresentato alla corte di Filippo di Macedonia poco prima del 353 a.C. (Didimo, Commento alle Filippiche di Demostene, col. XII, 61). 3 Gli argomenti essenziali contro tale ipotesi li ha raccolti Page nell’edizione dei Poetae Melici Graeci (1962). 4 Oltre quarant’anni più tardi Medea Norsa rintracciò altri due frammenti appartenenti a quei due rotoli, e li pubblicò nel 1941. 1 2

IL TEATRO: UN MESTIERE NELLA POLIS

VIII VERSO NUOVE FORME D’ARTE 1. Tragedia e commedia Considerata nel suo insieme, come fenomeno dominante tra l’età in cui tutto è nell’epica e le nuove forme artistiche del V secolo (tragedia, commedia, oratoria), la produzione lirica costituisce una tappa di straordinaria elaborazione e diversificazione. È fenomeno di immediata evidenza che col sorgere e l’affermarsi della tragedia e col declino delle aristocrazie la lirica corale progressivamente si eclissa; allo stesso modo la beffa personalistica della commedia (la i¬ambikæ i¬déa) si afferma mentre si estingue la poesia giambica (che aveva avuto in Archiloco e Ipponatte i suoi esponenti di maggiore spicco); e lo sviluppo infine dell’oratoria politica nel quadro dell’ampliamento e del consolidamento delle istituzioni collettive della polis toglie ogni ragion d’essere a quella forma diffusissima di comunicazione politica che era stata l’elegia politica. Non si tratta di affermare una visione genetica di questo processo. Si tratta piuttosto di comprendere appieno l’ampiezza dello spazio intellettuale occupato dalla produzione lirica per tutta una fase storica ed in un ambito geografico amplissimo. È la fase storica che sfocia nell’accelerata democratizzazione dell’età della rivolta ionica e delle guerre persiane. Segno di tale democratizzazione è il mutamento della committenza: tragedia, commedia, oratoria hanno un committente collettivo, che è la intera comunità dei «liberi», non più l’élite degli agathòi secondo la retrograda concezione pindarica. Sul piano più propriamente ‘genetico’, di passaggio da una ad altra forma d’arte si può parlare solo con cautela. Aristotele in un capitolo molto discusso della Poetica (il IV), indica nei corifei del ditirambo1 il punto di partenza per la nascita della tragedia: l’arte

116

Il teatro: un mestiere nella polis

drammatica sarebbe nata «dall’improvvisazione», dall’improvvisazione «dei corifei che intonavano il ditirambo» per quel che riguarda la tragedia e «da chi guidava le processioni falliche» per quel che riguarda la commedia (1449a9-13). Molta dottrina etnografica e comparativistica è stata profusa per documentare forme ‘drammatiche’ – ovviamente di una rattristante elementarità – presenti nelle più varie culture e caratterizzate dalla presenza della maschera e della danza. Ciò ha dato un grande impulso alla conoscenza della preistoria delle forme drammatiche sviluppatesi nell’area culturale greca, ma non toglie alcun valore al nesso che Aristotele istituisce tra il ditirambo (o meglio tra l’«improvvisazione» del corifeo che si distacca dal coro) e la tragedia. Un esempio a suo modo significativo (non sul piano cronologico beninteso) è il IV ditirambo di Bacchilide, il Teseo, nel quale appunto il corifeo, nella parte di Egeo, dialoga col coro. Quando Aristotele prosegue osservando che «fu Eschilo per primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre le parti corali e a far primeggiare il dialogo» (1449a16-18), ha chiaramente in mente l’idea di una evoluzione alla cui origine c’è il distacco del corifeo dal coro ditirambico. Ciò che resta inespresso, nello scarno profilo tracciato da Aristotele, è il momento in cui al corifeo si è contrapposto un solitario attore non integrato in alcun modo nel coro. Decisiva è ovviamente, a favore della tesi aristotelica, la circostanza che il ditirambo sia una forma d’arte legata strettamente sin dall’origine al culto di Dioniso. Quando Archiloco, che pare abbia composto un ditirambo, nomina questa forma di arte, la definisce «canto di Dioniso» (Fr. 120 West). Naturalmente questa possibile connessione genetica tra ditirambo e tragedia non è in contrasto con la sopravvivenza del ditirambo come tale accanto alla tragedia, ed anzi regolarmente integrato nelle gare drammatiche annuali comprendenti appunto tragedia commedia e ditirambo. È stato calcolato, con buona verosimiglianza, da Eduard Meyer che, nel secolo che intercorre tra la riforma di Clistene (508) e la caduta di Atene (404 a.C.), debbono essere stati rappresentati in Atene dai quattro ai cinquemila ditirambi (i sei di Bacchilide sono dunque davvero un minuscolo campione), se si considera la presenza di cori ditirambici in molte altre occasioni festive e di culto al di là della solenne occasione delle gare drammatiche. Alla metà circa del IV secolo il ditirambo ebbe una sua trasformazione legata all’evoluzione della tecnica musicale, di cui ci riesce difficile comprendere la portata.

VIII. Verso nuove forme d’arte

117

Quanto alla commedia, Aristotele (1448a31) riferisce anche altre tesi intorno alla sua genesi: in particolare ricorda la rivendicazione dei Megaresi – sia quelli «di qui» sia quelli di Sicilia – che la commedia fosse nata presso di loro. Gli uni – dice – sostengono che la commedia sarebbe sorta «nel contesto della democrazia affermatasi presso di loro»; gli altri rivendicano un’origine siciliana perché siciliano era Epicarmo (attivo all’inizio del V secolo, autore di commedie di satira mitologica: Busiride, Le nozze di Ebe, Odisseo disertore ecc.). Quest’ultima tesi era piuttosto fragile: Epicarmo aveva in realtà elaborato letterariamente la farsa megarese. Questa fu forse uno degli elementi che contribuirono alla formazione della commedia, ma non può considerarsene l’antecedente. Vi manca il coro, e non a caso Epicarmo chiamava le sue opere drámata, non «commedie». Nella commedia attica al contrario il coro è elemento essenziale, e peculiare trovata è in ispecie la parabasi, dove è il poeta stesso che fa sentire direttamente la propria voce e parla di sé e della propria arte e si sfoga contro i suoi avversari, alla maniera dei poeti lirici e dei giambografi. È quasi superfluo soggiungere infine che, nonostante il loro declino, i vari generi di componimenti lirici sopravvissero come pratica letteraria, ed anzi ebbero nuova vitalità nella virtuosistica ripresa delle antiche forme poetiche sviluppatasi in età ellenistica. 2. Il dramma satiresco Questa forma di produzione teatrale strettamente collegata alla tragedia (un dramma satiresco è di norma il quarto pezzo che un poeta tragico ammesso alle gare fa rappresentare) aiuta a comprendere le origini della tragedia. Aristotele nella Poetica, oltre al ditirambo, indica infatti come precedente della tragedia anche tò saturikón, «l’elemento satiresco» (1449a20). La duplice spiegazione è fonte di imbarazzo per i moderni. Precisa Aristotele che inizialmente il metro adoperato era il tetrametro trocaico, e non il trimetro giambico, perché «la composizione aveva carattere satiresco, e un ruolo importante lo aveva la danza» (1449a23-24). Con questi termini Aristotele non intende riferirsi al dramma satiresco quale è noto nella sua forma perfezionata, bensì ad antecedenti satireschi della forma artistica risoltasi poi nella tragedia. La stessa parola «tragedia», del resto, va intesa con ogni probabilità come «canto

118

Il teatro: un mestiere nella polis

dei capri» (trágwn w¬ıdä) ed è opinione diffusa che i satiri o sileni – che nei drammi satireschi compongono il coro – avessero appunto un travestimento da capri (anche se questa ipotesi non trova conferma nelle rappresentazioni vascolari e plastiche). Gli Alessandrini ritennero di individuare in Pratina di Fliunte l’inventore del dramma satiresco: perciò nella biografia che la Suda dedica a Pratina egli è definito «il primo» (prøtov) che ne abbia composti (dei circa cinquanta drammi attribuitigli, ben 32 sono appunto satireschi). In realtà Pratina, di cui la Suda conosce la partecipazione agli agoni tragici ateniesi (in rivalità con Eschilo e Cherilo) intorno al 500 a.C., è da ritenersi piuttosto l’innovatore che l’inventore di questo genere di componimento. Non riusciamo, data l’estrema esiguità dei frammenti (tutti provenienti da Ateneo), a farci un’idea della sua opera. Colpisce comunque la presenza in Atene, e la partecipazione agli agoni, di questo peloponnesiaco di Fliunte: è stato osservato (Stoessl) che tale singolare presenza può essere indizio di un nuovo periodo di influenza spartana su Atene qualche anno dopo i successi conseguiti da Clistene. Il dramma satiresco è profondamente legato alle origini agresti della tragedia: «Il nocciolo dell’invenzione – osservò nel 1826 Friedrich Gottlieb Welcker, cui si debbono alcune importanti intuizioni sulla natura del dramma attico – sta nell’opposizione ovvero nel contrasto del vecchio coro satiresco campestre con la nuova tragedia cittadina, ovvero coi personaggi che agiscono sulla scena [...] L’azione aveva in genere colore tragico; ma i personaggi, in abbigliamento nobile e splendido, apparivano sotto libero cielo, trasferiti nella solitudine di paesaggi boscosi e circondati dai danzatori, travestiti da capri, appartenenti al corteggio del Dioniso campestre» (trad. di L.E. Rossi).

Negli agoni attici, la funzione del dramma satiresco, che veniva rappresentato di seguito alla trilogia tragica, era evidentemente di scuotere giovialmente il pubblico dal peso della rappresentazione tragica appena conclusa. Lo stesso fenomeno si osserva in altre civiltà teatrali: si può pensare agli exodia (in genere farse atellane) che, a Roma, tenevano dietro alle rappresentazioni tragiche, o, in età moderna, alle farse danzate e cantate («jigs») usuali dopo le cupe tragedie elisabettiane. Nel caso in cui, in luogo del dramma satiresco, il drammaturgo presentasse una quarta tragedia – è il caso dell’Al-

VIII. Verso nuove forme d’arte

119

cesti di Euripide nell’anno 438 a.C. –, essa era ‘a lieto fine’ e non priva di scene scherzose o senz’altro comiche, come, appunto, la scena di Eracle brillo e ostentatamente ghiottone. Dopo l’età di Pratina e di Eschilo, il dramma satiresco è venuto perdendo terreno. Aristotele nella Poetica parla, come sappiamo, dell’«elemento satirico» come germe della tragedia, ma del dramma satiresco come tale non fa parola. Se in epoca ellenistica esso ha avuto una rinascita, questa è avvenuta su basi e con funzioni diverse rispetto alle origini. Colpiscono ad esempio nell’Agen di Pitone gli espliciti riferimenti all’attualità (l’affare di Arpalo, il fuggiasco tesoriere di Alessandro). In età romana sarà ormai un prezioso gioco letterario non ignaro di influssi provenienti da altri generi legati al mondo idillico e campestre. Questo schema evolutivo mostra come il dramma satiresco abbia avuto soprattutto in epoca arcaica grande vitalità, in stretta connessione con il formarsi del genere tragico. Non sarà perciò un caso che come massimo autore di drammi satireschi venisse apprezzato proprio Eschilo, il drammaturgo più vicino alle fasi arcaiche della tragedia. Ciò risulta in particolare dalla Vita di Menedemo di Diogene Laerzio, dove si legge che Menedemo, il filosofo di Eretria vissuto tra IV e III secolo, poneva Eschilo al primo posto nel dramma satiresco; ed anche da un luogo di Pausania, dove le composizioni satiresche di Eschilo vengono poste addirittura al di sopra di quelle di Pratina, «inventore» del genere (II, 13,6). L’unico dramma satiresco entrato a far parte delle ristrette superstiti raccolte degli scenici fu il Ciclope di Euripide, dramma ricalcato sulla vicenda narrata nel IX libro dell’Odissea, ma ricco di divertimenti intellettuali, ben poco rappresentativi del genere. I papiri hanno consentito di ampliare le nostre conoscenze. Nel 1907 fu scoperto un consistente frammento dei Segugi (’Icneutaí) di Sofocle (Papiro di Ossirinco 1174). Il dramma, imperniato sulla vicenda narrata nell’inno omerico ad Ermes, si apre con il proclama di Apollo, mirante al recupero dei buoi che qualcuno gli ha sottratto, e prosegue con la buffa caccia al ladro da parte dei satiri capeggiati da Sileno e attratti dalla promessa di una ricompensa; intanto Ermes, appena nato, ha inventato la lira ed il suo suono è motivo dapprima di fuga, quindi di attrazione, per i satiri; ben presto è chiaro che Ermes si è servito della pelle dei buoi sottratti ad Apollo per costruire il meraviglioso strumento; il papiro si interrompe nel momento in cui i satiri invocano Apollo per rivelargli l’invenzione musicale e richiedere il compenso previsto. Il papiro, mutilo al principio e

120

Il teatro: un mestiere nella polis

alla fine, non reca né il nome dell’autore né il titolo: l’identificazione è basata sul verso 275 (= 281 Radt) che è citato da Ateneo (Deipnosofisti 62F) con il preciso riferimento: «Sofocle nei Segugi». La scoperta di alcune parti dei Diktuoulkoí di Eschilo (il titolo si riferisce al coro dei satiri e significa «quelli che tirano la rete») è avvenuta in due tempi: nel 1935 Girolamo Vitelli e Medea Norsa pubblicarono un breve frammento (PSI, XI, nr. 1209); nel 1941 Lobel ne pubblicò uno molto più ampio nel XVIII volume dei Papiri di Ossirinco (nr. 2161). Il frammento cosiddetto «fiorentino» proviene dall’inizio e contiene la scena da cui s’intitola il dramma: dei pescatori, ai quali probabilmente presto si univano i satiri capeggiati da Sileno, con una rete catturano l’arca in cui è Danae con Perseo fanciullo. Il frammento londinese è costituito da 68 versi distribuiti in due colonne: una nota sticometrica al rigo 2 della II colonna indica che quello segnalato è il verso 800: ciò consente di identificare i 68 versi superstiti come i vv. 765-832 del dramma. Indicazione preziosa per capirne l’ampiezza, dato che intorno al v. 800 lo svolgimento è ancora ben lontano dalla conclusione. Nella scena superstite lo sfrontato Sileno fa la corte a Danae tuttora terrorizzata, ma, visto lo scarso successo, comincia a fare ogni sorta di buffonerie per divertire il piccolo Perseo, sperando così di ingraziarsi la madre. Intanto il coro dei satiri spinge alle nozze e fraintende in pieno la disperazione di Danae («vedo questa donna – dice il coro ai vv. 824826 – bramosa del nostro amore; e ciò non fa meraviglia»). Due parole rare (o¢bria, qøsqai), che ai lessicografi (Fozio, Esichio) risultavano usate da «Eschilo nei Diktuoulkoí», si ritrovano entrambe a breve distanza (colonna II, righi 11 e 20) nel frammento londinese. Ciò ha reso certa l’attribuzione, sulla quale gli editori del frammento fiorentino si esprimevano con prudenza2.

Quanto al Ciclope è ovvio che esso abbia focalizzato l’attenzione degli studiosi, essendo l’unico superstite esemplare completo. Perciò è comprensibile che si siano volute vedere in questo dramma satiresco più cose di quante davvero ce ne siano. Quel che appare chiaro è l’intento consapevolmente parodico, ed il livello elevato, colto, della parodia. Non soltanto parodia di alcune situazioni tipiche della commedia – come ad esempio, all’inizio del dramma, le lamentele di Sileno costretto a lavorare come schiavo, insieme agli altri satiri, al servizio di Polifemo –, ma anche, e ancor più efficacemente, parodia della spregiudicatezza intellettuale dell’Atene contemporanea: ad esempio nella tirata di Polifemo rivolta a Odisseo (vv. 316-346). Qui campeggiano temi e motivi che fanno pensare alle paradossali ‘provocazioni’ di alcuni esponenti della coeva sofistica. Polifemo parla come

VIII. Verso nuove forme d’arte

121

il Callicle platonico. Con movimento di pensiero tipicamente sofistico dà una sua propria ‘definizione’ della divinità (v. 316: «la ricchezza, omuncolo mio, è dio per la gente che ragiona», dice, rivolto a Odisseo). Proclama con iattanza di non avere alcuna paura di una divinità tradizionalmente temutissima come Zeus (vv. 320-331: «Il fulmine di Zeus, o straniero, io non lo temo, né riesco a vedere in che cosa Zeus sia un dio più forte di me»). La legge scritta – altro tema caratteristico della sofistica – non ha alcun valore: «quelli che hanno inventato le leggi per rendere varia l’esistenza umana – prosegue Polifemo – che vadano ad impiccarsi: io certo non cesserò di trattarmi bene... e di divorarti!» (vv. 338-341). Le datazioni più varie sono state suggerite per il Ciclope: Gilbert Murray (1902) pensava ad un periodo anteriore addirittura all’Alcesti, prima cioè del 438. Georg Kaibel (1895) istituì un nesso – che poi ha avuto fortuna (ancora di recente lo dà per certo Dana Sutton, 1985) – tra l’accecamento di Polifemo e l’accecamento di Polimestore nell’Ecuba: l’indimostrabile accostamento portava Kaibel a datare il Ciclope non più tardi del 430 non parendo a lui ammissibile che Euripide parodiasse se stesso. Wilamowitz pensò ad una data successiva all’Ippolito (428). Recenti interpreti, come R. Seaford (1984), pensano all’ultima fase dell’attività euripidea: ad un anno tra il 411 e il 408.

Note 1 Di questa cornposizione corale, strettamente connessa al culto di Dioniso, è oscura l’etimologia del termine che la designa, nonostante appaia plausibile un nesso con i¢ambov e qríambov (Chantraine). 2 Un altro frammento satiresco pubblicato dal Lobel nel XVIII volume (1941) dei Papiri di Ossirinco (nr. 2162) è stato attribuito, con «ragionevole congettura», dall’editore al dramma eschileo elencato nella lista del Laurenziano 32.9 con il doppio titolo Qewroì h£ i¬sqmiastaí. Ciò è dovuto al contenuto del frammento (satiri giunti dall’Istmo e celebranti il culto di Posidone); inoltre al v. 30 ricorre il termine i¬sqmiastikän.

IX TEATRO DI STATO 1. Teatro e polis Accanto all’assemblea popolare ed ai tribunali il teatro è in Atene un pilastro del funzionamento politico della comunità. Sono le tre sedi in cui la comunità si riconosce tale, e nelle quali la comunicazione è davvero generale e immediata. Questo è il quadro che possiamo tracciare pensando all’Atene post-clistenica sorretta e caratterizzata dal principio della parità dei diritti politici. Ma non sarebbe giusto proiettare all’indietro questa immagine della città di Atene con le sue «tre sedi della parola», sino al momento stesso in cui furono istituite le pubbliche rappresentazioni di tragedie nel quadro di gare sovvenzionate dallo Stato. Tale istituzione, datata tradizionalmente nel 535 a.C., risale dunque a Pisistrato, il quale fu «tiranno» di Atene dal 561 al 527 a.C. Tutta la storia di Atene successiva alla cacciata dei Pisistratidi è caratterizzata dal costante sforzo di demonizzare la tirannide, di rappresentarla come il ‘luogo geometrico’ di tutti i valori negativi, e sarà proprio il teatro tragico – come vedremo – uno degli strumenti più validi e influenti di tale demonizzazione: nondimeno il potenziamento del teatro tragico e l’attribuzione di un carattere ufficiale, ‘statale’, ai concorsi dei tragediografi con la loro inserzione nell’ambito delle feste in onore di Dioniso (le «Grandi Dionisie» celebrate alla fine di marzo) sono dovuti proprio a Pisistrato. Del resto, nella tradizione più avveduta e meno indulgente verso il repertorio anti-tirannico, si era conservata la nozione della grandezza del governo di Pisistrato proprio dal punto di vista dell’incremento culturale e artistico di Atene. «Praticarono la virtù e l’intelligenza – scrive Tucidide dei tiranni di Atene – e, pur pretendendo dai cittadini soltanto la ventesima, ador-

IX. Teatro di Stato

123

narono splendidamente la città e nelle feste compivano splendidi sacrifici» (VI, 54,5). Che proprio ad una festa caratteristica del contado, come le Dionisie, Pisistrato abbia riservato attenzione e concesso prestigio è anche da intendersi dal punto di vista della ‘base sociale’ della tirannide in Attica: una delle forze che sorressero Pisistrato sono appunto i contadini1. Tutto questo riguarda, comunque, per così dire la ‘preistoria’ del teatro attico. Quello che meglio è dato di conoscere, e che mette conto di trattare, è invece il funzionamento del teatro nella città democratica. Del resto è proprio questa compenetrazione tra potere popolare e potenziamento del teatro che ha fatto sì che, nel V secolo, soprattutto ad Atene, città-guida della democrazia politica, il teatro avesse più che altrove uno sviluppo imponente. Se dunque è soprattutto del teatro ateniese che si dovrà parlare in seguito, ciò non dipende solo dal fatto che esso è quello che conosciamo meglio, ma anche dal fatto che tale prevalenza non è un capriccio della tradizione ma un dato fattuale. Anche da altri segni, del resto, Atene ci appare, rispetto alle altre città greche, il luogo di maggior acculturazione di massa: prova ne è non solo la fiera rivendicazione di Pericle nell’epitafio che Tucidide gli fa pronunciare (II, 41: «siamo il luogo di educazione dell’Ellade») ma anche un dato statistico come l’assoluta prevalenza di epigrafi attiche su quelle di altra provenienza per il periodo 480-322 a.C. Atene è anche il luogo dove si scrive di più, dove si avverte di più l’utilità di far ricorso allo strumento della scrittura. Ciò non toglie, si capisce, che anche altrove – soprattutto a Siracusa, il grande centro della grecità occidentale – ci fosse una significativa attività teatrale. Essa ci è documentata da sporadiche notizie, quale ad esempio il primo viaggio di Eschilo in Sicilia, quello del 470, quando, per celebrare l’insediamento ad Etna di Dinomene, figlio del tiranno di Siracusa Ierone, Eschilo mise in scena le Etnee (una tragedia non conservata). Un dato del genere è significativo anche a riprova del prestigio, fuori di Atene, della drammaturgia ateniese. Prestigio durevole, se si considera la grande richiesta di teatro euripideo da parte dei Siracusani e di altre città della Sicilia, di cui parla Plutarco negli ultimi capitoli della Vita di Nicia, quando racconta che pochi prigionieri ateniesi erano riusciti a riscattarsi recitando pezzi di tragedie euripidee. Naturalmente le strutture teatrali di cui Eschilo si è servito per la messinscena delle Etnee o nel suo secondo viaggio in Sicilia, quello del 456 conclusosi con la sua morte, non saranno servite unicamente per l’illustre

124

Il teatro: un mestiere nella polis

ospite ateniese. Ci sarà stata un’attività teatrale più o meno continua legata a tali istituzioni. E così quando osserviamo che sia Agatone che Euripide, due tragediografi non molto apprezzati dal pubblico ateniese, verso la fine della loro carriera, hanno deciso di trasferirsi in Macedonia alla corte del re Archelao (413-399 a.C.), gran corteggiatore degli artisti di altre contrade, dobbiamo pensare che i due non saranno stati gli unici ospiti del sovrano della Macedonia: dobbiamo immaginare una vivace attività ed una struttura che sarà stata un teatro di corte ad uso e consumo della élite macedone. È interessante constatare come questi tragediografi scontenti si siano adattati ad un ‘sistema’ così diverso dal teatro statale ateniese: Agatone restò in Macedonia sei anni e vi morì. Al IV secolo – allorché agoni drammatici cominciarono a celebrarsi nell’intero mondo greco e teatri sorsero un po’ dovunque – risalgono i resti, più o meno consistenti, di teatri in varie città. Notissimo quello, molto ben conservato, di Epidauro. Ma vi sono anche iscrizioni – per esempio a Samo, a Delfi, a Delo – che documentano attività teatrali nell’ambito di feste (a Samo, come ad Atene, in onore di Dioniso). Tutto questo, per quanto casuale e frammentaria sia la documentazione superstite, mostra che dunque quello di Atene è stato bensì il caso più rilevante e significativo, ma entro un mondo fortemente attratto da questo genere di manifestazione artistico-cultuale. Ciò aiuta a comprendere che, quando si considera il naufragio di autori drammatici di V e IV secolo a.C., tale considerazione non deve riguardare soltanto l’ambito ateniese.

2. Gli agoni: cifre sulla produzione teatrale ateniese Fare teatro è, in Atene, ma poi anche altrove, un’attività pubblica, un’attività strettamente e formalmente connessa al funzionamento dello Stato: un’attività perciò continuativa, che non contempla soste, interruzioni, silenzi più o meno prolungati2. Si tratta dovunque di un flusso continuo, sostenuto, oltre che da una perentoria domanda politica della città, dagli incentivi materiali e di prestigio previsti per coloro che in tale attività sono coinvolti; dagli attori ai coreuti, all’autore, al corego, al didascalo. Torneremo spesso su tali aspetti del «fare teatro». Ma già da queste considerazioni comincia a profilarsi un quadro nettamente diverso da quello che possiamo tratteggiare in altri campi – dalla storiografia alla filosofia – e molto simile ad un altro genere di produzione, l’oratoria, anch’esso strettamente connesso al non meno intenso funzionamento di ingranaggi della macchina statale (l’assemblea, i tribunali). Si può

IX. Teatro di Stato

125

dire perciò che la sopravvivenza di soltanto tre tragici (o meglio di pochissimi loro drammi), rispetto ai novantaquattro autori di tragedie di V e IV secolo di cui è sopravvissuta notizia3, sembra il frutto non solo di progressive e sempre più drastiche selezioni operate nel corso dei secoli successivi ma anche, e non meno, del caso: e nel caso rientra anche il ‘gusto’ di chi quelle selezioni operò. Al contrario non è casuale che siano state conservate le due grandi collezioni di Platone e di Aristotele: intorno a quei due corpora c’è un panorama di produzione filosofica che possiamo ricostruire in modo abbastanza preciso, e che consente di capire anche, in certa misura, le ragioni della loro prevalenza rispetto ad altre correnti di pensiero. E così nel campo della storiografia non diremo certo che, oltre Erodoto e Tucidide, ci sia stato, in Atene, nel V secolo un imprecisato, elevato, numero di autori, nella cui massa quei due sono magari casualmente emersi. Quanto alla produzione teatrale, è utile partire dall’organizzazione del teatro e dalle relative cifre. Le due date di partenza sono il 535 e il 488/7 a.C.: date nelle quali vennero poste sotto l’egida statale, e inserite tra i rituali della festa in onore di Dioniso (le «Dionisie»), rispettivamente le rappresentazioni tragiche e quelle comiche. (Vi erano anche i cori di uomini e fanciulli, per i quali ugualmente era prevista un’adeguata preparazione.) Quelle due date hanno un grande valore dal punto di vista ufficiale: non escludono affatto, ovviamente, che produzione e rappresentazione vi fossero in entrambi i generi già prima di quelle date; ciò è anzi del tutto presumibile. Gareggiano, alle Dionisie, tre tragediografi, ciascuno con tre tragedie e un dramma satiresco, e cinque commediografi, ciascuno con una commedia. Vengono perciò complessivamente rappresentati, ad ogni festival, nove tragedie, tre drammi satireschi e cinque commedie. Per quel che riguarda la commedia i concorrenti furono ridotti a tre in alcune fasi della guerra peloponnesiaca. Le Dionisie sono la grande festa, aperta anche agli stranieri. Ma nel calendario della città-spettacolo c’è un’altra scadenza, questa tutta ateniese, le «Lenee», la festa dionisiaca di fine gennaio. Dal 440 queste feste contemplarono gare di comici (cinque concorrenti); e dal 432 vi si affiancarono gare di tragediografi (tre, ma con due soli drammi per ciascuno). Ciò significa che soltanto negli ottanta anni che vanno dalla prima vittoria di Eschilo (484) alla resa di Atene (404), soltanto alle Dionisie furono messe in scena 720 tragedie (9 x 80) e 240 drammi satireschi (3 x 80): in tutto 960 drammi. Se vi

126

Il teatro: un mestiere nella polis

si aggiungono le circa 180 tragedie rappresentate alle Lenee si raggiunge un totale di 1140 drammi per i soli concorsi tragici. Ovviamente se si risale alla data d’inizio dei concorsi tragici (535 a.C.) ci sono altri cinquant’anni di gare, cioè altri 600 drammi circa. Oltre 1700 drammi, dunque, dall’inizio delle gare alla fine del V secolo. Gli autori del cui nome è rimasta traccia, sono, per questo periodo, una cinquantina. Alle soglie del Medioevo giunsero (e sopravvissero a quella pericolosa epoca) sette tragedie di Eschilo, sette di Sofocle, diciotto di Euripide. Per quel che riguarda la commedia, è facile calcolare per lo stesso periodo, tra Dionisie e Lenee, circa 600 commedie messe in scena: un intero genere letterario di cui sopravvivono solo nove commedie di Aristofane. (Le altre due, molto diverse dalle precedenti, Le donne in assemblea, del 392 e il Pluto del 388, cadono oltre il termine del 404 qui assunto come punto terminale per questa ricognizione.) Ovviamente se si volge l’attenzione al secolo successivo, la sproporzione aumenta. Basti pensare che di un solo autore, Menandro, la tradizione erudita antica conosceva almeno 105 commedie (Apollodoro di Atene, Fr. 43 Jacoby) e appena otto vittorie. Il che fa pensare ad una nutrita serie di altri autori – magari altrettanto prolifici –: ci dovevano essere infatti vincitori, ogni anno per ogni gara. Ma nulla di tutto questo ci è giunto, tranne gli spezzoni menandrei trovati nei papiri. Una selezione, piuttosto drastica, avveniva ben prima che avessero luogo le gare: avveniva nel momento in cui numerosi aspiranti concorrenti si presentavano all’arconte eponimo per «ottenere il coro» e l’arconte procedeva appunto ad una scelta. Questo era il momento forse più delicato di tutto il meccanismo. L’arconte «dava il coro» o lo negava, dopo aver considerato i canti (w¬ıdaí) che gli aspiranti concorrenti gli sottoponevano (Platone, Leggi, 817D). Essi forse gli fornivano anche un canovaccio dell’intero dramma. Non dovevano essere pochi, anche se è ovviamente un’esagerazione quella di Aristofane (Rane, 89-91), secondo cui si accalcavano in Atene «oltre diecimila giovani autori di tragedie, più avanti di oltre uno stadio, rispetto ad Euripide, in chiacchiericcio». Tutti, anche i tragediografi affermati, dovevano seguire ogni volta questa trafila: ma una volta – ricorda indignato il comico Cratino (Fr. 15 Kock) – fu negato il coro a Sofocle e dato a un certo Gnesippo. Per i funzionari cui era demandato il compito di assegnare i cori, il lavoro non era poco, se si considera che cori se ne dovevano assegnare non so-

IX. Teatro di Stato

127

lo per le Dionisie ma anche per varie altre feste annuali: dalle Targelie alle Panatenee alle Efestie (Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi, 3,4). Questa fase preliminare, insomma, al di là del significato che tutta l’operazione assumeva (e su cui torneremo), mostra che il materiale drammaturgico elaborato o in elaborazione era ancora più vasto di quello – già abbondantissimo – che è effettivamente approdato alle varie gare. Ma questo quadro non sarebbe completo, se non si tenesse conto di una realtà meno appariscente, ma significativa: quella dei teatri che potremmo definire ‘provinciali’. In vari demi dell’Attica vi erano piccoli teatri funzionanti soprattutto in occasione delle «Dionisie rurali», come quello di Icaria o di Torico; ma anche a Salamina ed al Pireo. Qui venivano rappresentate anche tragedie nuove, o in ‘ante-prima’, o repliche: Socrate andava, a quel che pare, al teatro del Pireo per la rappresentazione di «nuove tragedie» di Euripide (Eliano, Storia varia, II, 13). Conviene ora valutare un altro genere di cifre: quelle che ci permettono di considerare non già le misere raccolte superstiti dei tre tragici e di Aristofane, ma le più ampie raccolte, tendenzialmente ‘complete’, giunte ai dotti di Alessandria e da loro catalogate. Di Eschilo sono elencate, nel manoscritto laurenziano (32.9) che ne tramanda le sette tragedie, ben 72 titoli: un’altra decina ci è testimoniata altrimenti. Di Sofocle la ricca biografia contenuta in alcuni manoscritti ci informa che al grammatico alessandrino Aristofane di Bisanzio risultavano ben 130 tragedie (di cui 17, o forse solo 7, da lui stimate non autentiche). Quanto ad Euripide le fonti biografiche dicono che gli fu concesso il coro per 22 tetralogie: cioè 92 drammi (Varrone, che forse risaliva all’edizione alessandrina, ne riconosceva come euripidee 75: Gellio, Notti Attiche, XVII, 4,3). Dunque ai tre tragici superstiti è dovuto appena un quarto delle quasi 1200 tragedie rappresentate negli anni in cui essi furono attivi sulla scena. Per avere un’idea, molto approssimativa, del panorama che il teatro tragico offriva allo studioso, nel IV secolo, è utile considerare che nella Poetica di Aristotele figurano, a fronte di 23 citazioni da Eschilo, Sofocle, Euripide, 15 citazioni da altri tragici sia di V che di IV secolo. Quello che insomma emerge dall’insieme di questi dati è il carattere alquanto drastico della selezione affermatasi, legata, oltre tutto, ad un fattore quanto mai esteriore quale fu la predilezione per il numero tre (sono conservati, di età classica, tre tragici, tre storici; per Orazio, nelle Satire [I, 4,1-5], e per Velleio [I, 16,3], tre sono i comici per eccellenza dell’Atene classica: Eupoli, Cratino e Aristofane, e così via). Ha osservato

128

Il teatro: un mestiere nella polis

sensatamente Konrat Ziegler che siamo autorizzati a ipotizzare con notevole plausibilità che le opere dei tragici scomparsi (e si potrebbero fare nomi di grandi personaggi come Agatone, Crizia, Ione di Chio) «non saranno state da meno, sul piano formale e su quello della concezione poetica, rispetto alle tragedie dei tre» (Tragoedia, col. 1962). Avrà pesato il fattore delle vittorie conseguite: ma non sarà stato un criterio particolarmente sensato, se è vero – come osserva più volte Platone – che i non troppo esperti giudici dei concorsi poetici esprimevano il loro verdetto frastornati dagli applausi e dal baccano del pubblico e ne erano condizionati (Leggi, 659A; 700C). Quanto ad Euripide, che in vita di vittorie ne aveva conseguite ben poche, è nel IV secolo che incontra un favore notevolissimo presso il gusto dominante: ed è appunto verso la fine del IV secolo che viene affermandosi la ‘triade’. Essa diverrà ad Atene addirittura una «triade di Stato» (come vedremo nell’ultimo capitolo di questa parte), al tempo di Licurgo. A rigore proprio quello – tra i tragediografi – che appare essere stato uno dei più originali (tra l’altro per essersi allontanato dal repertorio mitologico fisso), cioè Agatone, è andato quasi completamente perduto. Eppure Aristofane nelle Rane lo pone accanto ai «tre» (vv. 83-84), e Platone, nel Simposio, quando vuol mettere emblematicamente insieme un tragico e un comico, sceglie Agatone ed Aristofane.

3. Il mestiere del teatro: apprendistato, routine, evoluzione drammaturgica Fare teatro è, invero, innanzi tutto un mestiere, una técnh. Ed è un mestiere ereditario. Della famiglia di Eschilo lavorano per la scena tragica i suoi figli Euforione e Bione (o Euaion, secondo una tradizione più attendibile), il nipote Filocle (che sconfisse Sofocle quando questi presentò l’Edipo re) ed i figli di quest’ultimo Morsimo e Melanzio; inoltre il nipote di Filocle, Astidamante e i pronipoti, recanti gli stessi nomi. Quanto a Sofocle ne ereditano il mestiere sia il figlio legittimo, Iofonte, che il figlio nato fuori del matrimonio, Aristone, nonché i figli e i nipoti di quest’ultimo che si chiamarono, sembra, tutti Sofocle. Il figlio ed il nipote di Euripide, tutti e due di nome Euripide, furono eredi della sua arte; e così anche Aristias figlio di Pratina e Araros figlio di Aristofane. Tutti questi discendenti-eredi hanno imparato l’arte nell’ambiente in cui sono nati; e l’hanno appresa empiricamente, con la pratica, dando una mano – come in ogni bottega artigiana – alla confezione dei dram-

IX. Teatro di Stato

129

mi dei loro maestri. Tale partecipazione è presupposta dall’erudizione antica che ha anche cercato di distinguere i contributi di bottega, giungendo magari a qualche esagerazione: come quando registra l’attribuzione dell’Antigone a Iofonte figlio di Sofocle4. Inversamente, una battuta di Aristofane nelle Rane allude a un notevole contributo di Sofocle all’attività drammaturgica del figlio: là dove Dioniso dichiara di non voler riportare sulla terra Sofocle «prima di aver appurato cosa sa fare Iofonte da solo» (vv. 76-79). In una tragedia di Euripide come l’Ifigenia in Aulide, rappresentata postuma dal figlio e fornita di ben due prologhi, ci si è ovviamente domandati se uno dei due fosse dovuto appunto ad Euripide junior (si è anche pensato a fabbricazione di attori). Quanto ad Aristofane, si sa dall’«Argomento»5 nr. 3 premesso all’ultima commedia (il Pluto del 388) che affidò la regia delle ultime sue commedie al figlio Araros «per conciliargli il favore del pubblico». A sua volta, lo stesso Aristofane aveva esordito «di nascosto venendo in aiuto di altri poeti», era «penetrato nei ventri altrui», aveva «profuso versi comici a fiumi» (Vespe, 1018-1020), aveva insomma, giovanissimo, lavorato per altri, perché, evidentemente, una tale cooperazione artigianale rappresentava – come in altre arti – il normale accesso al mestiere. Mestiere cui non era estranea una gratificazione economica, dal momento che un onorario spettava a tutti i concorrenti, vincitori e non (Aristofane, Rane, 367), a parte – si capisce – i premi per i vincitori. Che il premio per il vincitore non consistesse soltanto nella corona di edera ma anche in premi pecuniari si può ragionevolmente arguire dal fatto che tali premi fossero previsti per altre gare. Ad esempio in certe gare ditirambiche istituite ad Atene nel IV secolo il primo, secondo e terzo premio ammontavano rispettivamente a 10, 8 e 6 mine6. Dieci mine equivalgono a 1000 dracme: il salario giornaliero ammontava a 1/3 di dracma (due oboli). Quando poi il drammaturgo faceva anche l’attore – come è il caso ad esempio di Eschilo o di Sofocle o di Cratino –, otteneva ovviamente anche un pagamento in quanto attore. L’aumento del numero degli attori era stato – come teorizza Aristotele nella Poetica (cap. 4) – il veicolo del perfezionamento di questa tèchne: Tespi, il quasi mitico ‘primo’ tragediografo, affiancò un attore al coro; Eschilo (525-456 a.C.) introdusse un secondo attore e così rese predominante, nella tragedia, il dialogo: è così che dall’«oratorio drammatico» si passò alla vera e propria tragedia; Sofocle (496406 a.C.) introdusse un terzo attore, e così ottenne immediatamente

130

Il teatro: un mestiere nella polis

una clamorosa vittoria (nel 468 a.C.) contro un grande tragediografo affermato quale Eschilo; lo stesso Sofocle sembra aver fatto ricorso negli ultimi drammi a quattro attori. È una tèchne che si perfeziona, e che, quando ripensa se stessa, non cela – per bocca di Aristofane (circa 450-385 a.C.) nelle Rane – uno scherzoso raccapriccio di fronte alla immobile oscurità dei propri primordi. L’analisi critica, spietata, dell’arcaica tecnica drammaturgica è affidata da Aristofane al più ‘moderno’ dei tragediografi, ad Euripide (485-406 a.C.): «Da costui voglio cominciare – dice Euripide additando Eschilo al dio della scena, Dioniso –, e dimostrare che era un impostore, un imbroglione, e smascherare gli inganni che tendeva agli spettatori: imbecilli li aveva trovati, come erano stati cresciuti da Frinico» (vv. 908-910). Il teatro di Eschilo era statico, anzi immobile, prosegue Euripide (e Dioniso gli dà ragione): «Piazzava lì uno tutto coperto, un Achille o una Niobe, senza neanche mostrarne la faccia: nient’altro che decorazioni della tragedia, che non borbottavano una sola parola» (vv. 911-913). Né risultava ormai del tutto chiaro ciò che questi statuari personaggi profferivano: «Così lo spettatore stava lì ad aspettare quando Niobe avrebbe detto qualcosa; e la tragedia poteva ben andare avanti! DIONISO: Ma che disgraziato! Come mi lasciavo prendere in giro! [a Eschilo] Perché smani, ti arrabbi? EURIPIDE: Perché lo smaschero. Poi dopo averla tirata in lungo così, ormai a metà del dramma poteva buttare là una dozzina di paroloni grossi come buoi, pieni di cipiglio e di pennacchi: certi mostruosi spaventapasseri, che il pubblico non conosceva neppure [...] Di chiaro mai niente; Scamandri e fossati e sopra gli scudi aquilogrifoni battuti nel bronzo e parole che parevano cavalli imbizzarriti; che era un’impresa capirle. [...] ESCHILO: Ma tu, maledetto dagli dèi, che razza di cose facevi? EURIPIDE: Non certo ippogalli, per Zeus, né caprocervi, come te: quelli si ricamano sui tappeti. Anzi, appena ho ricevuto da te l’arte, tutta gonfia di bravate e di paroloni opprimenti, l’ho messa subito ad una cura dimagrante» (vv. 919-941: trad. di Dario del Corno [con lievi modifiche]).

Eschilo era ormai sentito, al di là del culto politico di cui fu oggetto (e di cui diremo), come troppo oscuro, troppo primitivo, francamente stucchevole: e scherzare su questo suo carattere aveva, evidentemente, effetto. (Ciò non impedisce che, nel seguito delle Rane, altri aspetti – quelli sofisticatamente intellettualistici e ‘socrati-

IX. Teatro di Stato

131

ci’ della drammaturgia euripidea – vengano dallo stesso Aristofane con troppo facile mossa esposti al ludibrio del pubblico di ‘Ateniesi medi’ che gremisce la platea.) Prendere in giro il vecchio santone del teatro attico non doveva essere così scandaloso dal momento che, a quel che pare, anche Sofocle andava dicendo che Eschilo scriveva in stato di ebrezza (Ateneo, Deipnosofisti, X, 428F). Ma la critica di Aristofane, sia pure espressa attraverso l’ambiguo Euripide delle Rane, è più tecnica: riguarda la regia di Eschilo: non saper muovere i personaggi sulla scena facendoli parlare poco e in modo incomprensibile significa, nel linguaggio «registico» di Aristofane, non saper tirare «i fili (tà neûra) della tragedia» (v. 862): espressione tipica di un’arte affine ma ‘inferiore’, quella del teatro delle marionette (Platone, Leggi, 844E). Nel contesto si parla anche di «misurazione» delle parole e dei metri, che servirà a giudicare e dirimere la contesa tra Euripide e Eschilo: vi è in questo linguaggio, in questa ossessione del «misurare» la consapevolezza teorica del sofisticato carattere artigianale del lavoro drammaturgico. Misurazioni che non devono apparire come una trovata più o meno maliziosa di Aristofane se si considera che quattro delle superstiti sette tragedie di Eschilo rispettano una misura che sembra intenzionale (sui 1070 righi) e che il solo Agamennone, conformemente alla maggiore complessità della costruzione, esorbita di molto rispetto a tale misura (1673 righi) e si adegua a quella che sarà infatti la normale lunghezza di un dramma in Sofocle ed Euripide. 4. Elementi costitutivi del dramma I drammi infatti, dopo le innovazioni tecniche di Tespi e di Eschilo, erano strutturati secondo uno schema rigoroso. Della tragedia gli elementi costitutivi sono: il prologo (la parte che precede l’entrata in scena del coro), la parodo (il canto di entrata del coro, pronunciato dai coreuti mentre si dispongono a prender posto nell’orchestra: i successivi canti del coro si chiamano stasimi); gli episodi (una o più scene comprese tra i due stasimi). Al tempo di Eschilo il coro era composto da dodici coreuti; Sofocle li portò a quindici; ‘portavoce’ del coro e sua guida è il corifeo. I dialoghi lirici che talvolta il coro intreccia con gli attori si chiamano commi. Una innovazione tecnica introdotta da Euripide fu di far cantare spesso parti liriche agli attori:

132

Il teatro: un mestiere nella polis

ciò in conformità con le novità – cui Euripide fu molto sensibile – che venivano intanto producendosi in campo musicale soprattutto per impulso di Timoteo (450-360 a.C.), il notevole musicista ditirambografo col quale Euripide ha collaborato componendo, a quel che pare, per lui il prologo della composizione lirica I Persiani (cfr. p. 230). Euripide introdusse anche la novità di far intervenire un dio, calato con un congegno sulla scena (deus ex machina), risolutore di drammi giunti ad un punto morto. Quanto alla commedia, la sua struttura è sostanzialmente analoga a quella della tragedia: si ritrovano anche qui prologo, parodo, episodi scanditi da canti corali, chiamati chorikà. Un episodio fisso, tipico della commedia, è l’agone (o agone epirrematico) in cui due avversari si minacciano e si insultano, e lottano per affermare il proprio punto di vista. Il più importante, impegnativo, e politicamente rilevante tra gli interventi del coro, in genere successivo all’agone, è la parabasi: gli attori si allontanavano dalla scena e i coreuti, deposte le maschere, si rivolgevano agli spettatori sfilando dinanzi a loro (donde il nome parabasi). Di contro a questa affinità strutturale vi è, ovviamente, una profonda diversità di contenuti: alle trame liberamente inventate dai comici (tra le quali vi poteva anche essere parodia del mito, ma non era l’aspetto preponderante) fa riscontro, invece, nella tragedia il predominio quasi incontrastato del mito, «elemento primo e anima della tragedia», secondo la definizione aristotelica (Poetica, 1450a38), il cui repertorio di base era costituito da Omero e dal «ciclo» epico (tragedie di argomento direttamente storico-politico come I Persiani di Eschilo sono casi isolati). Un repertorio ben noto al pubblico (della cui istruzione primaria i poemi omerici erano così gran parte), rispetto al quale si cimenta la tèchne di ogni singolo tragediografo, con innovazioni, creazioni di particolari nuovi, adozione di particolari rari o meno noti, riflessioni nuove a partire dalle medesime vicende. È lecito immaginare che se i drammi conservati fossero ben più numerosi dell’esigua scelta sopravvissuta, questo continuo ricorso al medesimo repertorio susciterebbe un’impressione di ripetitività, che infatti affiora in certe riprese di medesimi temi ed episodi da parte di Euripide, solo perché di Euripide si è casualmente conservata una scelta più ampia (Ecuba e Troiane, Fenicie e Supplici: è il tema del destino tragico delle donne dopo la presa di Troia e dopo la fine dei Sette).

IX. Teatro di Stato

133

5. Repertorio mitico e ‘catarsi’ Non si trattava di quella che il Vico definiva «disperata difficultà di potersi dopo Omero fingere caratteri, ovvero personaggi di tragedie di getto nuovi» (Principi di scienza nuova, libro III; sez. I; cap. IV). Era una scelta consapevole, inerente alla funzione nel senso più ampio didattica del teatro tragico. Per un verso il pubblico si dispone ad una migliore comprensione proprio in virtù del dominio ‘preventivo’ che ha della materia: accoglie con piena comprensione e maggiore diletto trame già note. Per l’altro può essere più efficacemente ammaestrato appunto attraverso una materia che fa parte delle sue forme mentali (allo stesso modo della sacra rappresentazione intorno alla cattedrale nel Medioevo occidentale). Non a caso Aristotele nella Poetica (1449b27-28), indica nella «catarsi» il fine della tragedia: o meglio nella «purificazione, che è propria delle passioni (pietà e terrore) che la tragedia mette in scena». È dunque un’‘educazione attraverso il mito’ che punta sul processo analogico onde lo spettatore identificherà se stesso con l’eroe sulla scena. È l’analogia, la naturale disposizione analogica del pensiero, il presupposto della catarsi. Nulla più del repertorio ‘ancestrale’ rappresentato dal mito era adatto a questa sapiente e impegnativa «terapia mentale». Anche quando, perciò, la tragedia tende – come è evidente in drammaturghi di consolidato successo come Eschilo e Sofocle – a propagare, attraverso l’ammaestramento scenico, i valori che tengono insieme, che cementano la polis, anche in questo caso il veicolo costituito dal grande e autorevole repertorio del mito appariva lo strumento migliore. In quel caso si verifica quel processo che Vernant e Vidal-Naquet hanno definito efficacemente (ma in forma troppo generalizzante): «L’universo tragico si colloca tra due mondi, ed è questo doppio riferimento al mito, concepito ormai come appartenente ad un tempo trascorso ma ancora presente nelle coscienze, e ai nuovi valori sviluppati con tanta rapidità dalla città di Pisistrato, di Clistene, di Temistocle, di Pericle, che costituisce una delle sue originalità e la molla stessa dell’azione. Nel conflitto tragico, l’eroe, il re, il tiranno appaiono ancora ben inseriti nella tradizione eroica e mitica, ma la soluzione del dramma sfugge loro. Essa non è mai data dall’eroe solitario, essa riflette sempre il

134

Il teatro: un mestiere nella polis

trionfo dei valori collettivi imposti dalla nuova città democratica» (Mito e tragedia, p. VII).

6. Un teatro politico Anche se quel «mai» e quel «sempre» andrebbero attenuati (basti pensare ad un dramma privo di risoluzione ‘collettiva’ o ‘politica’, come ad esempio l’Aiace di Sofocle), è però vero che il compito che la polis assegna al teatro (tragico in primo luogo) e che il teatro si accolla è appunto quello di farsi tramite e propagatore dei valori fondamentali della polis, scuola per gli adulti, secondo la netta dichiarazione dell’Eschilo delle Rane: «Per i fanciulli c’è il maestro, per gli adulti ci sono i poeti» (vv. 1054-1055). Il committente – che per lirici corali come Pindaro e Simonide era stato, volta a volta, Ierone o gli Scopadi di Tessaglia o Alessandro di Macedonia – è, per i tragici ateniesi, la città in quanto comunità politica che interviene attivamente nella formazione dei singoli. Il rapporto è capovolto: è la polis che deve assicurarsi i suoi drammaturghi, per questa funzione fondamentale della vita associata. Simonide aveva potuto passare da committenti come Ipparco, il figlio di Pisistrato, e Scopa II, signore di Tessaglia, ad un committente come Temistocle, per il quale celebrò le vittorie dell’Artemisio e di Salamina (480), pretendendo peraltro un alto prezzo su cui Temistocle cercò di contrattare (Plutarco, Vita di Temistocle, 5,6). Invece Frinico ed Eschilo – che portano sulla scena tragica drammi che assecondano la politica antipersiana di Temistocle – possono addirittura subire i contraccolpi di quelle scelte. Frinico, secondo la circostanziata notizia erodotea (VI, 21), per aver portato in scena nel 492 la Presa di Mileto due anni dopo la caduta della città-simbolo della rivolta ionica, fu colpito da una multa di mille dracme poiché aveva «ricordato le sventure della città»: torneremo su questo episodio (cfr. p. 146). La città impone nella organizzazione teatrale le stesse norme di ripartizione egualitaria tra tribù vigenti nella politica vera e propria; registra nei suoi atti ufficiali tutto il meccanismo agonistico (non solo i risultati degli agoni tragici e comici ma anche dei cori di uomini e di fanciulli), affida a durevoli documenti ufficiali (alcuni dei quali sono frammentariamente conservati) i nomi non solo dei drammaturghi, ma dei coreghi, cioè di quei cittadini benestanti e

IX. Teatro di Stato

135

‘patriottici’ che hanno voluto accollarsi le spese per la istruzione dei cori, per i loro sontuosi vestiti, per il flautista. Per tutte le altre necessità, dai premi alle retribuzioni di attori e poeti, la città provvede direttamente; inoltre paga il teatro ai meno abbienti (attraverso una sovvenzione chiamata appunto «contributo per gli spettacoli», theorikòn): concepisce insomma la partecipazione alla vita del teatro come un obbligo per tutti e fa in modo che tutti siano davvero in condizione di ottemperare a questo obbligo. Non solo il teatro è per tutti, ma è inconcepibile che qualcuno vi si sottragga. Quando in età a noi vicina si è riflettuto su questo originalissimo esperimento, su questo intreccio di arte e politica, si sono prodotte due reazioni di segno opposto. Storici liberali vi hanno visto il segno dell’onnivoro iperstatalismo degli antichi. In un capitolo della Città antica (1864) intitolato Sulla onnipotenza dello Stato, Gli antichi non hanno conosciuto la libertà individuale (libro III, capitolo XVIII), Fustel de Coulanges – riprendendo una impostazione dovuta al discorso di Benjamin Constant Sulla libertà degli antichi comparata con quella dei moderni (1818) – indica, tra l’altro, «l’obbligo per tutti di prender parte a tutti i riti della città» come uno dei tratti tipici di quella forma per così dire «liberticida» di libertà (invadente nella vita privata dei singoli) che fu la «libertà degli antichi». Fustel riprende l’intuizione di Constant (il cui bersaglio era il culto giacobino delle «repubbliche antiche»), ma dà fondamento storico a quella intuizione, quando osserva che la fonte di tale «libertà liberticida» è nel fondamento religioso della comunità cittadina o statale del mondo greco e romano. Storici conservatori o senz’altro statolatri imbevuti degli ideali della «democrazia germanica» (bismarckiana e guglielmina), come Wilamowitz ed Eduard Meyer hanno guardato con entusiasmo al modello ateniese: «l’arte non doveva più essere il bene di una classe privilegiata, ma del popolo» scriveva Wilamowitz7; «Solo l’impegno profuso sin dal 1808 dallo Stato prussiano nel campo della scienza – gli fa eco Meyer – si può paragonare ad un tale fenomeno»8. Pochi decenni più tardi, storici rivoluzionari-radicali, che erano stati scolari di quei maestri, hanno finito col vedere nel caso Atene l’anticipazione degli esperimenti di «arte per il popolo» tentati dalle rivoluzioni del XX secolo. Presso di loro resta in ombra l’elemento costrittivo e viene esaltato il fatto che arte di alto livello venisse messa a disposizione delle masse:

136

Il teatro: un mestiere nella polis

«Gli spettacoli teatrali ad Atene – scrive ad esempio Arthur Rosenberg – erano aperti gratuitamente a tutti i cittadini; le rappresentazioni si svolgevano dinanzi a molte migliaia di spettatori. Condizioni del genere esigevano da parte degli autori una serie di adattamenti: le opere dovevano essere evidentemente a forti tinte per impressionare le masse. Presso i moderni questa essenziale peculiarità del teatro ateniese è rimasta a lungo misconosciuta e gli antichi drammi greci sono tornati ad esercitare ai nostri tempi tutto il loro fascino solo quando si è cominciato a rappresentarli dinanzi alle masse: se non dinanzi a decine di migliaia di spettatori come ad Atene, comunque dinanzi a migliaia. Il merito principale della riscoperta del teatro greco da parte della nostra cultura spetta a Max Reinhardt» (Democrazia e lotta di classe nell’antichità, p. 124).

Rosenberg mette in chiaro il nesso tra le forme («le forti tinte») assunte dall’arte tragica e il suo esser destinata a grandi masse. Si trattava infatti dell’intera comunità. Una testimonianza di Platone parla di oltre 30.000 spettatori che hanno assistito alle tragedie messe in scena da Agatone nel 416 a.C. (Simposio, 175E). Si è discusso sull’esattezza di questa cifra, specie da parte degli studiosi che guardano in genere con sospetto a tutte le cifre tramandate. Dal modo in cui Platone si esprime («dinanzi a oltre 30.000 Greci») si dovrebbe pensare alle Dionisie (il riferimento a «Greci» fa pensare appunto alle rappresentazioni aperte anche agli stranieri, non riservate unicamente agli Ateniesi, come le Lenee). Ciò rende la cifra ancor più plausibile. Ci si interroga se a teatro fossero ammesse anche le donne; e si è cercato di calcolare quanti posti ci fossero nel teatro di Dioniso. È difficile raggiungere risultati certi. Quello che conta è che, con il suo originale sistema di teatro di Stato, la polis ateniese ha raggiunto un pubblico immenso, quale nessun altro teatro in epoca successiva ha potuto raggiungere nel corso di una unica rappresentazione (che era anche parte di un rito). La replica nel contado, attraverso le Dionisie rurali, di spettacoli già svolti in città dimostra l’impegno ad una diffusione capillare, ad una educazione di tutti attraverso il teatro. E a tale fine risponde una istituzione ‘assistenziale’ cui si è già fatto cenno – tipica della «democrazia parassitaria» ateniese –: il theorikòn. Questo sussidio di due oboli (equivalenti al salario quotidiano di un lavorante non specializzato) sembra che sia stato introdotto da Pericle (così si ricaverebbe da Plutarco, Vita di Pericle, 9,1). Ben presto tale fondo statale, mirante in origine a mettere tutti i cittadini, anche

IX. Teatro di Stato

137

i nullatenenti, in condizione di prender parte agli spettacoli, finì con l’assorbire tutte le eccedenze dell’amministrazione statale: nel IV secolo divenne una «cassa» di notevoli proporzioni, la cui amministrazione veniva affidata ad esperti finanzieri come Eubulo e Licurgo (lo statista che promosse l’edizione ‘statale’ della triade tragica EschiloSofocle-Euripide). E il demo difese strenuamente tale istituzione contro uomini politici come Demostene, i quali, pur in una situazione di progressivo declassamento di Atene al rango di potenza di second’ordine, puntavano ad un utilizzo di quella cassa assistenziale a fini militari (forse anche per infrangere le posizioni di potere degli amministratori del theorikòn). 7. Il controllo politico sul teatro La contropartita di un tale impegno statale nel funzionamento della macchina teatrale era il controllo esercitato sui contenuti del teatro. Con termine modernistico saremmo portati a parlare di censura ‘preventiva’. In realtà il meccanismo è più elastico. La notiziabase è quella delle Leggi di Platone, dove si fa riferimento al modo in cui i drammaturghi si sottoponevano alla scelta preliminare dell’arconte eponimo, il quale decideva a chi concedere il coro. Il modo in cui Platone si esprime è molto chiaro, anche se, probabilmente, accentua, portato dal suo discorso, l’elemento censorio: «saremmo completamente pazzi – fa dire Platone all’interlocutore Ateniese –, non solo noi, ma tutta la città, se vi autorizzassimo a fare ciò che avete appena detto [venire cioè in città e recitare liberamente drammi dinanzi al pubblico], prima che i magistrati abbiano valutato se avete o meno composto drammi che si possono recitare, adatti ad essere portati in pubblico». A questa ipotesi, presentata come inaccettabile, di un teatro non controllato dall’autorità politica, l’interlocutore Ateniese contrappone subito ciò che invece accade «ora», nella realtà concreta dello Stato ateniese: «ora invece, o figli delle Muse compiacenti, cominciate col sottoporre al vaglio degli arconti le parti liriche dei vostri drammi (tàv u™metérav w¬ıdáv), accanto alle nostre: e se parranno dello stesso valore o migliori, vi daremo un coro; altrimenti non possiamo» (817D). È chiaro – dalla successione di queste due formulazioni che l’esame delle odài è soprattutto un esame contenutistico e di opportunità politica («se siano adatte ad essere portate in pubblico»). Ov-

138

Il teatro: un mestiere nella polis

viamente è difficile stabilire come funzionasse in ogni singolo caso questo meccanismo: importante è che esso esistesse e offrisse all’autorità politica l’opportunità, ove l’avesse voluto, di servirsi del potere di concedere o meno il coro per incoraggiare determinati autori e scoraggiarne altri. E perciò vengono esaminate le odài, i canti lirici, perché costituiscono la parte più apertamente ideologica e politica del dramma (basti pensare al finale delle Eumenidi [458 a.C.] di Eschilo, dove si discute, pochi anni dopo la riforma di Efialte [461 a.C.], dei poteri dell’Areopago, cfr. p. 152). Se perciò Temistocle, arconte nel 492, e proteso a preparare Atene allo scontro con la Persia, da lui ritenuto inevitabile (così parla di lui Tucidide, I, 14,3), concede – da arconte – il coro a Frinico che vuol mettere in scena la Presa di Mileto, un dramma che addirittura rinuncia al solito repertorio mitologico, ma parla direttamente di politica (della sconfitta, due anni prima, della rivolta ionica contro i Persiani), questo è un esempio concreto del ruolo che l’arconte poteva esercitare, quando metteva in pratica la sua facoltà di scegliere i poeti cui concedere il coro. Che del resto Temistocle fosse in collegamento politico con Frinico è confermato dalla loro rinnovata collaborazione nel 476: allora, tre anni dopo la vittoria sulla Persia di cui Temistocle è stato l’artefice, Frinico presenta una tragedia, le Fenicie, sulla vittoria di Salamina, e Temistocle è il suo corego9. È beninteso un meccanismo ‘elastico’ il cui funzionamento è affidato al variare delle aggregazioni politiche, all’emergere o meno, in determinati momenti, di arconti su cui si potesse fare affidamento: anche se le idee ventilate, o solo caldeggiate, o solo alluse, nei drammi presentati non erano delle più conformi allo spirito dominante (c’era pur sempre un giudizio, o meglio la reazione, del pubblico, che non a caso ostinatamente negò il proprio plauso ad Euripide, drammaturgo molto lontano dallo ‘spirito dei tempi’). Così si spiega come autori contro corrente, come appunto Euripide, abbiano continuato (fin quasi alla fine della carriera) ad affrontare – nonostante gli insuccessi – la scena, e tragedie abbiano scritto esponenti oligarchici radicali come Antifonte e Crizia, costretti bensì a disertare lo scontro politico vero e proprio, a causa della inconciliabilità della loro visione politica con quella della polis democratica10, ma propensi a tentare per altra via – appunto attraverso la scena – di esercitare comunque una loro influenza, ‘a dire la loro’. Che anche il Teognide, collega di Crizia nel collegio dei Trenta «tiranni» che dominavano Atene nel 404/3, fosse tragediografo (preso in giro da Aristofane negli Acar-

IX. Teatro di Stato

139

nesi), mostra che dunque non si deve essere trattato di casi isolati (cfr. p. 199). Da questi esempi e da queste considerazioni emerge dunque che il teatro è sottoposto ad un filtro, ad un controllo politico che si verifica al momento della concessione del coro, ma che questo filtro non operò – né poteva – in maniera così rigida e unilaterale come le generalizzazioni sommarie rischierebbero di far credere. Né è superfluo ricordare che non si fronteggiano in Atene compatti ‘partiti’, ma gruppi variamente e talora occasionalmente collegati (pur nell’ambito delle due opzioni di fondo contrapposte: quella di chi accetta e quella di chi invece – come Crizia, Antifonte ed altri – rifiuta il compromesso tra demo e una parte dei possidenti, su cui si regge la democrazia ateniese). Può accadere perciò che un politico democratico ai primi passi, Cleone, si serva di un commediografo, Ermippo, per attaccare Pericle che del ‘compromesso democratico’ è, oltre che il capofila, il simbolo (Plutarco, Vita di Pericle, 33,8). Questo accadeva nel 430, alla vigilia della morte di Pericle e quando la lunga guerra con Sparta era appena incominciata. Quarant’anni prima (472 a.C.) Pericle era stato il corego di Eschilo, quando Eschilo aveva presentato i Persiani dove viene pronunciato ad un certo punto il caldo elogio di Temistocle (vv. 355 sgg.) (cfr. p. 146). Dell’importanza cruciale del teatro Pericle era ben consapevole: se aveva sostenuto le spese per tragediografi così illustri, aveva anche fatto le spese della virulenza dei commediografi. Tanto da spingersi, probabilmente, nel 440, l’anno in cui, stratego insieme a Sofocle, affronta con ferrea durezza la sedizione di Samo, ad un provvedimento di esplicita limitazione della libertà di espressione del teatro comico: il cosiddetto «decreto di Morichide» testimoniato in modo non chiarissimo da uno scolio agli Acarnesi di Aristofane (v. 67). Poco prima Pericle aveva fatto ostracizzare il proprio avversario più influente, l’erede in certo senso di Cimone, Tucidide figlio di Melesia. Si è prodotta insomma una stretta voluta da Pericle, che ha avuto chiari contraccolpi sul teatro comico, il più esplicitamente politico. Non è un provvedimento isolato. Nel 426 è Cleone, il rivale dell’ultimo Pericle, a mettere sotto accusa Aristofane per aver «parlato male della città in presenza di stranieri» (cioè alle Dionisie: Aristofane, Acarnesi, 502-503, 631). E ancora nel 415, non è chiaro se in qualche rapporto con il trauma della mutilazione delle Erme e del processo-monstre scaturitone, un esplicito divieto di attaccare nominalmente personalità politiche (o¬nomastì kwmwıdeîn) fu

140

Il teatro: un mestiere nella polis

sancito da un nuovo provvedimento formale: il «decreto di Siracosio»11. Ecco perché di fronte ad una così travagliata vita del teatro comico nella città democratica l’autore della Costituzione degli Ateniesi erroneamente attribuita a Senofonte così sintetizza il clima di più o meno strisciante (talora esplicita) censura: «Non consentono che si porti sulla scena comica il popolo o che se ne parli male, perché non vogliono apparire in una luce negativa. [Per l’autore tutto ciò che accade in Atene è dovuto in ultima analisi al demo: perciò per lui il vero motore della censura è il popolo stesso.] Ma privatamente lo richiedono, se uno vuol rivolgere attacchi personali, ben sapendo che chi viene schernito sulla scena non è uno del popolo o della massa, ma un ricco o un nobile o un cittadino influente, mentre pochi tra i poveri o tra la gente del popolo vengono scherniti sulla scena – e neanche questi se non quando siano eccessivamente intraprendenti o cerchino di contare più del popolo. Per attacchi contro tipi del genere non se la prendono» (2,18).

Questa testimonianza illumina le sparse notizie degli scolî: non è il demo il promotore del divieto dell’o¬nomastì kwmwıdeîn, ma, evidentemente, quei «signori» che hanno accettato il sistema e di fatto lo dirigono (già solo per le loro competenze tecniche e amministrative), ma che sono sempre in sospetto agli occhi del demo, di «emergere troppo», di «contare di più» (pléon e¢cein), come si esprime l’autore dell’opuscolo mutuando non senza una sfumatura parodica il gergo democratico. Non è casuale infatti che i due momenti in cui si è cercato di ‘imbavagliare’ il teatro comico fossero momenti in cui in seria difficoltà si trovavano proprio quegli esponenti «ben nati» del regime democratico che, aborriti dagli oligarchi conseguenti (come l’autore della Costituzione degli Ateniesi) non erano neanche poi tanto ‘amati’ dal demo: al tempo di Pericle nel momento più critico del suo regime (defezione di Samo), al tempo di Alcibiade, al tempo degli scandali delle Erme e dei misteri: due temi, questi, che avrebbero rappresentato più che un pascolo per i commediografi, una vera occasione di massacro. Il popolo, se libero di assecondare il proprio istinto profondamente ‘plebeo’, godrebbe di questo massacro dei signori sulla scena comica: di tutti indistintamente, anche dei suoi ‘alleati’, per quanto costoro si dissanguino in coregie, alla maniera di quel cliente di Lisia (discorso XXI), il quale – accusato di corruzione – non trova di meglio che

IX. Teatro di Stato

141

elencare le migliaia di dracme che ha sborsato in coregie nello spazio di dieci anni. Questo esprime l’autore della Costituzione degli Ateniesi; e ci aiuta a comprendere la genesi di quei decreti così come, per altro verso, il rischio che dovette correre Aristofane quando Cleone ormai affermato lo accusò dinanzi alla Bulè non già per aver parlato male di questo o di quel politico, ma per aver «parlato male del popolo»! È questo che il popolo non tollera e di fatto proibisce: ma a tal fine basta l’arma davvero micidiale dei tribunali. Difficile, delicato equilibrio risulta quello entro cui si possono muovere i commediografi: in bilico (come si ricava dalle undici commedie di Aristofane) tra una rappresentazione ironica del popolo (entro i limiti in cui il pubblico lo sopporta: perciò nei Cavalieri «Demo» alla fin fine è un buon diavolo, ma è «ingannato») ed una assunzione soprattutto dei politici come bersaglio (nei limiti in cui questo non si scontri con il sempre risorgente divieto dell’o¬nomastì kwmwıdeîn). Meglio si comprende perciò come, nella democrazia restaurata dopo la guerra civile del 404/3, la commedia abbia di colpo abbandonato – e questa volta definitivamente – quel costume dell’attacco personale che tanto aveva disturbato i signori della politica. Nella democrazia moderata e saldamente diretta dai politici di professione che costituiscono l’omogenea e sostanzialmente concorde «classe politica» che dirige Atene nel IV secolo (almeno sino alla fine della seconda lega navale) non c’è più spazio per l’o¬nomastì kwmwıdeîn. Il che colpisce tanto più, e lascia intendere che c’è una precisa direttiva (o provvedimento formale) che limita su questo punto la parola dei comici dopo la guerra civile, se si considera che, seguendo la carriera di Aristofane, noi possiamo constatare questa mutazione nella stessa persona. Tra le Rane (del 405) e le Donne in assemblea (del 392) c’è di mezzo appunto la guerra civile, il massacro dei ricchi ‘democratici’ (che dei lazzi comici come diletto del demo tante volte avevano fatto le spese): e l’autore sembra un’altra persona. E lo stesso può dirsi per il Pluto di pochi anni più tardi (388 a.C.). Non più un cenno esplicito a questo o quel politico ma, al più, generiche parodie del linguaggio politico corrente (Donne in assemblea, 171 sgg.). Se si pensa che con le Donne in assemblea siamo poco più di un anno dopo Coronea, in piena guerra corinzia, con una serie di ingredienti ghiotti per la commedia di un tempo (l’«antica» o archàia come viene chiamata quella del V secolo) – dai politici corrotti e pagati dalle potenze straniere (Elleniche di Ossi-

142

Il teatro: un mestiere nella polis

rinco, p. 7, 17-19 Bartoletti) ai generali incapaci e così via –, sembra impensabile che, nello stesso Aristofane pochi anni prima così pungente ed esplicito sia venuta meno la volontà di praticare come per il passato il proprio mestiere. C’è qualcosa di più oggettivo: è evidentemente il nuovo assetto della democrazia restaurata con i meccanismi autoprotettivi che la classe politica ha messo in atto dopo il trauma mai più dimenticato della guerra civile. Come vedremo nel capitolo su Demostene (§ 1), si afferma, con la democrazia restaurata, un ceto di politici professionisti, specializzati, così come specialisti sono i militari (non più politici che si improvvisano anche generali). Per parte sua il demo è sempre più espropriato della iniziativa politica da questi nuovi specialismi. Lo spazio per le aggressioni politiche dei commediografi (un tempo tanto gradite al demo) si era ormai volatilizzato. D’altra parte, la parola d’ordine con cui si era chiusa la guerra civile era stata la pacificazione, l’amnistia: e chi aveva voluto infrangerla, sia pure il «liberatore» per eccellenza – Trasibulo –, veniva portato in tribunale e condannato (Aristotele, Costituzione di Atene, 40,2). Note 1 La fazione che più lo aveva sorretto era quella dei cosiddetti Diàkrioi, abitanti soprattutto della zona collinosa dell’Attica settentrionale, la fazione che più lo aveva avversato era stata quella degli abitanti della zona costiera, i dinamici Paràlioi. 2 L’unica interruzione ad Atene in tutto il V secolo fu dovuta alla resa del 404 ed alla guerra civile. 3 Sono elencati nel I volume dei Tragicorum Graecorum Fragmenta raccolti da Bruno Snell. 4 Anecdota Oxoniensia, IV, p. 315 = T 160 Snell-Radt. 5 Le opere teatrali attiche sono in genere corredate, nella tradizione manoscritta, di riassunti della trama seguiti da notizie teatrali e antiquarie; questi «argomenti» sono detti hypothèseis. 6 Pseudo-Plutarco, Vite dei dieci oratori, 842A. 7 Introduzione alla tragedia greca, p. 77. 8 Storia dell’Antichità, V, 1, p. 745. 9 Plutarco, che ci dà questa notizia nella Vita di Temistocle (5,5), riferisce anche il testo della iscrizione commemorativa che Temistocle fece incidere a ricordo della comune vittoria, sua e di Frinico. 10 È il quadro delineato da Tucidide nei confronti di Antifonte: VIII, 68. 11 Scolio ad Aristofane, Uccelli, 1297.

X ESCHILO E TEMISTOCLE 1. Tra etica e diritto: Eschilo La centralità del teatro nella vita della polis risulta dal fatto che, a buon diritto, esso può definirsi, al tempo stesso, luogo di educazione collettiva, di dibattito etico e politico, di riflessione religiosa e, insieme, di divertimento nel senso più alto. Per chi cerchi di intendere unitariamente codesti vari aspetti e, insieme, il ruolo del teatro nel costituirsi e perfezionarsi della polis democratica, è illuminante la considerazione di Louis Gernet, secondo cui «la vera materia della tragedia è il pensiero sociale proprio della città, specialmente il pensiero giuridico in pieno travaglio di elaborazione»1. Gernet notava la presenza, nella tragedia, «di un vocabolario tecnico giuridico» e vi vedeva un indizio di «affinità» tra i temi prediletti dalla tragedia e la materia «di competenza dei tribunali», e, quel che più importa, il consapevole ricorso, da parte dei tragici, al lessico giuridico proprio al fine di farne emergere l’ambiguità e le incoerenze. «Incoerenze ed ambiguità – precisava – che rivelano discordanze insite nello stesso pensiero giuridico, che traducono i suoi conflitti con una tradizione religiosa e con una riflessione morale da cui il diritto è già distinto ma le cui sfere non sono chiaramente delimitate in rapporto alla sua». È quasi superfluo ricordare che al centro della tragedia attica del V secolo vi è il problema della giustizia, in tutti i suoi aspetti, riconducibili alle due categorie di «colpa» e di «responsabilità». Categorie eminentemente giuridiche, fondanti la riflessione giuridica al suo nascere. Nel V secolo ateniese, sviluppo del pensiero giuridico e sviluppo della tragedia vanno di pari passo. Il che aiuta a comprendere come mai proprio in quel secolo il dramma attico ab-

144

Il teatro: un mestiere nella polis

bia raggiunto i suoi livelli più alti. «Lo si vede nascere ad Atene – scrive Vernant –, fiorirvi e degenerare pressoché nello spazio di un secolo». È appunto il secolo che va dalla fine del VI alla fine del V, in cui quella maturazione di pensiero etico-giuridico giunge al suo compimento. Il secolo successivo, il IV, vedrà ormai all’opera il pensiero giuridico, divenuto organico corpus di norme, nell’oratoria giunta alla sua akmè ed il pensiero etico dispiegarsi nell’ambito della riflessione filosofica post-socratica (specializzata e lontana dalla vita cittadina, non mescolata ad essa come nelle Nuvole di Aristofane). Non vedrà più, invece, i fasti della tragedia: ben presto, per rivitalizzare i concorsi tragici, si farà ricorso al repertorio drammaturgico del secolo precedente. È per merito del documentato accostamento operato da Gernet tra pensiero giuridico ed il ben noto rovello dei tragici (e di Eschilo in particolare) intorno al problema della responsabilità e della colpa che l’immagine del dramma attico si riempie, per noi, di un concreto significato storico e sociale legato allo sviluppo della polis. Eschilo, che nasce ad Eleusi da antica famiglia di Eupatridi nel 525 a.C. e al tempo di Maratona (cui prende parte col fratello) è già un uomo adulto, è all’origine di questo sviluppo. La riflessione sulla responsabilità soggettiva e sulla colpa è l’architrave della sua drammaturgia. Egli esprime e porta sulla scena i dilemmi della giustizia nella duplice relazione con la comunità e con la divinità. È spettatore delle maggiori trasformazioni politiche di Atene, fino alla definitiva affermazione della democrazia (nel 462, con Efialte), ed è, col suo teatro, espressione dell’adeguamento dei ceti dirigenti ai nuovi valori. Se mettiamo a raffronto due valutazioni d’insieme del pensiero di Eschilo, l’una dovuta ad uno studioso di ispirazione idealistica (Bruno Snell), l’altra ad un filosofo materialista (Ludovico Geymonat), ne possiamo apprezzare la sostanziale identità: «L’uomo, abbandonato alle sue sole forze, trova in Eschilo ancora un saldo appoggio nella giustizia, ma già lo sentiamo onerato di un peso che potrà farsi troppo greve: può accadere che il terreno gli sfugga sotto i piedi. Da lontananze sempre più vaste parla il dio; l’uomo comincia a riflettere criticamente sul Divino e quanto più si affida alle proprie forze, tanto più solo rimane»2.

X. Eschilo e Temistocle

145

«Sebbene Eschilo s’ispirasse indubbiamente ad un vivo sentimento religioso e ad un profondo rispetto delle tradizioni patrie, possiamo riscontrare già in lui un incipiente distacco dalle concezioni proprie della religione popolare. Tale distacco traeva origine dal fatto che la religione tradizionale si presentava ai suoi occhi piena di problemi rispetto al suo ideale della giustizia. Gli dèi si mostravano potenti e felici, ma anche discordi e autori di male; il nesso tra la hy`bris e la nèmesis, ossia tra la umana tracotanza e il necessario castigo, non appariva sempre conforme a giustizia; la colpa stessa gravava sugli uomini come un peccato originale e si trasmetteva, tristo retaggio di dolori, di padre in figlio per una necessità inesorabile. E come giustificare l'umana libertà, schiacciata dal peso del fato, che incombe sugli uomini e perfino sugli dèi? I suoi eroi mitologici (Prometeo, Oreste, le figlie di Danao, la progenie di Edipo) ed il re persiano Serse appaiono nei suoi drammi come esempi di hy`bris punita; ma, al tempo stesso, fanno sentire con la voce dolente del poeta la propria ragione di uomini, ossia la volontà d’affermare l’autonomia della coscienza morale di fronte alla potenza inesorabile degli dèi e del destino»3.

Il dramma è anche il veicolo più efficace per affrontare un dibattito così arduo, dove ogni conclusione, per quanto provvisoria, può essere costantemente esposta alla confutazione. Il dramma è per sua natura una discussione aperta. L’autore non si identifica completamente con nessuno dei suoi personaggi. Talora, quando non ricorra, per giungere ad una conclusione, all’intervento divino, si può dire che i dilemmi morali vengano piuttosto esasperati che risolti. Provvisorietà delle conclusioni e costante riapertura dei medesimi temi, in una discussione senza fine che ricomincia ad ogni nuova rappresentazione, sono i tratti peculiari della rappresentazione scenica, del dialogo. È significativo che un analogo procedimento sia stato fatto proprio anche in ambiti diversi – ma, nella concreta vita di una piccola comunità come la polis, assai vicini – quali la storiografia (il dialogo tucidideo tra Melii e Ateniesi non ha vinti né vincitori) e nella filosofia a partire da Socrate (decisivo, in questo senso, quella sorta di dramma che ricomincia ogni volta daccapo che è il dialogo platonico). 2. Frinico. Temistocle e Pericle coreghi Eschilo è il solo tragediografo di cui si sia conservata una tragedia (I Persiani) di argomento esplicitamente politico. Già Frinico,

146

Il teatro: un mestiere nella polis

un po’ più anziano di lui, aveva fatto questo esperimento teatrale. Dopo l’età delle guerre persiane non si ha notizia di nuovi tentativi del genere fino al Mausolo di Teodette oltre un secolo più tardi (353 a.C.). Per la messinscena di tragedie di questo genere risultano impegnati, o come coreghi o come arconti che hanno concesso il coro, uomini politici molto noti e influenti: Temistocle e Pericle. Temistocle, arconte nel 492, assegnò il coro a Frinico che presentava la Presa di Mileto, e, corego nel 476, finanziò la rappresentazione delle Fenicie di Frinico incentrate sulla vittoria di Salamina. Nel 492 Temistocle drammatizzava la minaccia persiana e poté ritenere che una tragedia imperniata sulla repressione persiana della rivolta dei «fratelli» Ioni giovasse a tale obiettivo. Ma l’operazione si risolse in un disastro. La sconfitta di Frinico dovette avere un movente politico – anche se il racconto di Erodoto è edulcorato – e fu essa stessa un fatto politico: «Gli Ateniesi – così Erodoto (VI, 21) presenta le cose – mostrarono chiaramente il proprio sdegno per la presa di Mileto in molti modi e in particolare quando Frinico mise in scena il dramma La Presa di Mileto: il teatro scoppiò in lacrime ed all’autore fu inflitta una multa di 1.000 dracme con l’accusa di aver richiamato alla memoria sventure della città»: è un modo eufemistico per dire che il dramma ricordava agli Ateniesi il loro inefficace e poco convinto aiuto alla rivolta ionica. La punizione inflitta a Frinico fu molto dura, e chiaramente censoria fu la connessa disposizione registrata subito dopo da Erodoto: «e ordinarono che mai più nessuno mettesse in scena quel dramma». Non è difficile percepire, dietro questo racconto, lo scontro tra gruppi e la difficoltà incontrata da Temistocle nell’imporre la propria linea, difficoltà che si avverte nel corso stesso del conflitto. Ancora alla vigilia dello scontro di Salamina, Temistocle aveva rischiato di essere messo in minoranza, ed il suo piano sarebbe stato accantonato se egli non avesse fatto ricorso alla più spericolata e ambigua delle sue iniziative: quella di mandare da Serse il pedagogo dei propri figli a rivelare le intenzioni di fuga dei Greci, onde consentire a Serse di bloccarli e rendere inevitabile quello scontro navale al quale aspirava e nel quale confidava. È un episodio che Erodoto narra in ogni dettaglio (VIII, 75) e che contribuisce a costruire l’immagine dell’ambiguità temistoclea, di Temistocle che «inganna» il popolo (Erodoto, VIII, 110) per costruire il proprio potere: ed è proprio questo episodio che Eschilo valorizza grandemente nei Persiani (vv. 355-373), rappresentati vari anni dopo Salamina, nel 472, e per i qua-

X. Eschilo e Temistocle

147

li fu Pericle, venticinquenne, ad accollarsi la coregia (IG II/III2, nr. 2318, colonna 4,4). Non era la prima celebrazione, sulla scena tragica, del vincitore di Salamina. Era stato ancora una volta Frinico, pur così duramente colpito a suo tempo per aver operato in accordo con Temistocle, a portare sulla scena, alle Dionisie del 476, qualche anno dopo la battaglia, le Fenicie (così dette dal coro di donne fenicie), dove veniva ricordata la sconfitta di Serse. Riportando, quattro anni dopo, la stessa vicenda sulla scena e scegliendo proprio l’episodio del ‘finto’ tradimento di Temistocle, assunto addirittura – nel racconto che fa il messo alla regina persiana, Atossa – come vero inizio della catastrofe persiana, Eschilo prendeva posizione: prendeva posizione per Temistocle, per un Temistocle già in difficoltà, in qualche modo logorato dallo scontro con gli ex-alleati spartani per la costruzione a sorpresa, da lui voluta, delle «grandi mura» (mentre s’innalzava l’astro del filospartano Cimone, il figlio del vincitore di Maratona, Milziade, e vincitore egli stesso ad Eione nel 475). L’anno dopo (ma secondo il Chronicon di Eusebio nello stesso 472) Temistocle veniva colpito dall’ostracismo, mentre la condanna per alto tradimento, che gli veniva inflitta mentre era rifugiato ad Argo, sollevava alquanto strumentalmente appunto la questione del suo tradimento filopersiano (medismòs). Ciò fa meglio comprendere l’enfasi positiva con cui Eschilo dava rilievo proprio all’episodio del finto tradimento di Temistocle attribuendogli il principale merito nella vittoria di Salamina. Ad un tale gioco di allusioni politiche non deve essere estraneo il fatto che nel primo verso della sua tragedia, e dunque nella maniera più chiara ed efficace, Eschilo citasse le Fenicie di Frinico, la tragedia cioè che pochi anni prima aveva sancito dinanzi a tutta la città e nella circostanza più solenne il trionfo di Temistocle. Il primo verso di Frinico era tád’ e¬stì Persøn tøn pálai bebhkótwn (parole pronunciate da un eunuco, il quale annunciava la sconfitta mentre era intento a sistemare i seggi per i dignitari persiani); il primo verso dei Persiani, recitato dal coro dei vecchi consiglieri di Serse, era táde mèn Persøn tøn oi¬coménwn4. Il fatto che, nel seguito del racconto del messo, Eschilo dia spazio anche all’episodio del massacro di Persiani presso l’isoletta di Psittalia – ‘merito’ di Aristide (Plutarco, Vita di Aristide, 9) – non contraddice l’impianto filotemistocleo dei Persiani: è dalla vittoria di Salamina che Aristide condivide le principali scelte di politica estera di Temistocle, anche le più foriere di una rottura con Spar-

148

Il teatro: un mestiere nella polis

ta, come la costruzione delle mura e la fondazione della lega (Aristotele, Costituzione di Atene, 24,4). 3. Atene «salvatrice della Grecia» Il fondamento di quella politica era che Atene, essendo la vera artefice della vittoria sui Persiani, ‘meritava’ ormai l’impero. Non era una svolta da poco nell’orizzonte politico degli Stati greci, per i quali – Atene compresa – era ovvio, sino a qualche anno innanzi, che il comando spettasse comunque a Sparta, unica egemone. Ora la strategia temistoclea, mirante ad inchiodare la flotta persiana in uno scontro navale, si era rivelata vincente, anzi l’unica possibile. Dunque era risultato chiaro che la sconfitta persiana – avvenuta per merito delle navi – era dovuta ad Atene, unica detentrice di una vera flotta da guerra, per merito di Temistocle. Su queste concatenate considerazioni si fonda il ‘teorema’ «Atene salvatrice della Grecia» su cui si baserà dalla fondazione della lega (478) allo scoppio della guerra con Sparta (431), ed oltre, tutta la propaganda ateniese di ispirazione ‘democratica’: i principali assertori di questo teorema saranno, dopo la scomparsa di Temistocle, gli Alcmeonidi, Pericle in primo luogo, in questo davvero suo erede politico. Nella forma più compiuta e dialetticamente articolata questo teorema si trova nel settimo libro di Erodoto (cfr. p. 273), il quale si fa lì portatore puntuale e convinto della propaganda periclea del periodo pre-bellico: «So che la cosa è invisa ai più – dirà Erodoto – ma la dirò ugualmente: non si esagera se si sostiene che gli Ateniesi furono i salvatori della Grecia» (VII, 139). Il primo svolgimento di questa tesi si trova nel primo episodio dei Persiani di Eschilo, là dove Atossa, disturbata nel sonno da visioni incubatiche e allusive alla imminente sconfitta, interroga il coro dei dignitari persiani per avere notizie sulla città che il figlio ha «brama» di conquistare: «REGINA: Questo voglio sapere, amici: in quale parte della terra dicono che si trovi Atene? CORO: Lontano: dove tramonta il Sole, nostro Signore. REGINA: E mio figlio ha desiderio di catturare questa città? CORO: Così infatti tutta la Grecia diverrebbe suddita del re» (vv. 230-234). L’‘elogio di Atene’ prosegue fino alla fine dell’episodio – quando appare il messo e racconta, nella parte centrale del dramma, la sconfitta di Serse – e si incentra su tre aspetti: la tecnica bellica (gli Ateniesi sono temibili perché combattono corpo a corpo, non da

X. Eschilo e Temistocle

149

lontano), le risorse (le miniere del Laurion, «fonte dell’argento», sono il «forziere» dell’Attica), il regime politico (libertà politica e capacità di lotta contro i nemici sono fattori intimamente connessi). È quest’ultimo il concetto più rilevante e più enfatizzato, e perciò posto in conclusione del dialogo e dell’episodio: «REGINA: Ma quale capo (poimánwr) li comanda e guida il loro esercito (e¬pidespózei stratøı)?» (v. 241). La domanda è formulata in modo da apparire sufficientemente offensiva per la visione di sé di ogni buon ateniese democratico (despózein è il verbo del dominio regale e incontrollato). Perciò il coro risponde, facendosi interprete di tale prevedibile ‘riflesso condizionato’: «di nessun essere umano essi son detti schiavi o sudditi» (v. 242). Al che Atossa ritiene di avere buon gioco con un argomento per la sua mentalità ovvio: «Ma allora come possono reggere all’attacco di un esercito nemico?!» (v. 243). Al che il coro, quasi identificandosi ormai, in questo punto del dibattito, con le reazioni logiche ed emotive di parte ateniese, replica: «tanto bene ci riescono, che hanno fatto a pezzi un esercito di Dario grande e bello» (v. 244). Qui siamo in piena propaganda. È il nesso libertà politica/grandezza di Atene che Erodoto svolge nell’excursus su Atene, nel V libro delle Storie (cfr. p. 277), che si apre con Aristagora che giunge ad Atene divenuta «più grande» perché liberata dai tiranni (V, 66). Entrambi i temi-cardine di questo dialogo – Atene salvatrice della Grecia ed il nesso libertà politica/grandezza di Atene – sono concetti capitali della impostazione erodotea proprio là dove essa più si identifica con le ragioni della politica periclea. La presenza dunque nei Persiani di questi temi più caratteristici della propaganda periclea rendono ancora più significativa la presenza di Pericle, come corego, accanto a Eschilo nell’allestimento di questa tragedia. Della intonazione scopertamente propagandistica fa parte anche la singolarità lessicale per cui sia il messo (v. 255) che il coro dei dignitari persiani (vv. 798, 844) definiscono i Persiani «barbari» secondo una categoria di tipo razzistico propria del linguaggio politico-patriottico ateniese. 4. I «Persiani» Lo sviluppo dell’azione nei Persiani è quanto mai lineare. Il messo sopraggiunto mentre il coro illustra ad Atossa i pregi di Atene,

150

Il teatro: un mestiere nella polis

racconta il disastro, che presenta sin dalle prime battute come catastrofico (v. 255: «Persiani, l’esercito dei barbari è completamente distrutto»), e raccomanda il proprio racconto – rivendicazione tipica della storiografia – come fondato sulla visione diretta e perciò veritiero (vv. 266-267: «Presente ai fatti, non latore di discorsi uditi da altri, Persiani, vi dirò cosa ci è toccato»). Il racconto del messo è scandito dalle domande di Atossa e perciò risulta più movimentato di quanto non lo fosse, probabilmente, l’analogo racconto nelle Fenicie di Frinico. È in questo racconto drammatizzato che trovano posto le due rievocazioni dell’astuzia di Temistocle e dell’exploit di Aristide all’isoletta di Psittalia (cfr. p. 147). Dopo i lamenti conclusivi della regina, il coro riprende a parlare e ribadisce che Zeus ha «annientato» l’esercito persiano (v. 534) e che l’Asia tutta è «svuotata» (v. 549), e alla fine traccia un quadro apocalittico e assolutamente irreale della condizione dell’impero dopo Salamina: «Per tutta l’Asia non vengono più praticate le leggi persiane né viene pagato il tributo per imposizione dei satrapi, né s’inginocchiano reverenti: è morta l’autorità regale» (vv. 584-590). Riappare la regina in abito dimesso ed incita il coro ad invocare l’ombra di Dario, che infatti appare (v. 682). Gli ammonimenti che l’ombra del vecchio re rivolge, dopo aver tracciato un breve profilo di storia persiana (vv. 765-783), riguardano il divieto di mai più tentare una spedizione in paese greco («lì anche il suolo si allea con loro»: v. 792) e la empietà di Serse distruttore di templi (v. 810) come causa della sua sconfitta. Anche qui vi è un punto di contatto con l’impostazione erodotea, secondo cui non poteva regnare in Asia ed Europa un uomo che incendiava i santuari (VIII, 109). L’insegnamento di Dario è che «nessun mortale deve concepire pensieri che trascendano la sua condizione: la hy`bris, quando fiorisce, produce come suo frutto l’errore» (vv. 820-822). Anche Dario, come già il coro, si prospetta la rovina dell’impero quando parla delle proprie faticose e grandi conquiste ridotte ora a «preda di chi primo verrà» (v. 752). A sua volta il coro, quasi a ribadire conclusivamente questa diagnosi di catastrofe, accompagna lo svanire dell’ombra di Dario con un quadro della grandezza dei domini di un tempo «quando il provvido, invitto sovrano Dario pari agli dèi guidava la patria» (vv. 855-856). Il coro fa, come a suo tempo Ecateo quando voleva dissuadere dalla rivolta, il catalogo dei popoli già sudditi del re: dall’Asia alla Tracia alle isole dell’Egeo – ma per di-

X. Eschilo e Temistocle

151

re che tutto è perduto per i Persiani: «vinti, stremati da percosse di mare» (ultimo, reiterato, riferimento a Salamina) (vv. 852-907). L’attenzione dei moderni studiosi della tragedia eschilea è stata molto attratta dalle considerazioni di Dario, peraltro del tutto convenzionali, sulle conseguenze negative della hy`bris. È rimasto più in ombra il concetto che più insistentemente ricorre, senza tema di ripetizioni, in tutta la tragedia a partire dalla relazione del messo, e ancor più nella seconda parte: la proclamazione, cioè, propagandistica ed esagerata della rovina ormai irreversibile dell’impero persiano. È un elemento talmente insistente da non poter apparire che intenzionale. Tanto più in un momento in cui i «cimoniani» proclamavano la necessità di una ripresa e prosecuzione della guerra contro la Persia (presentata ancora come un pericolo e come il principale avversario), mentre Temistocle prima (sin da quando aveva fatto costruire di nascosto da Sparta le mura), e poi Pericle – i due politici il cui nome era legato ai Persiani – già orientavano Atene verso un diverso e più temibile avversario: l’ex alleata Sparta. In questa nuova divaricazione della scena politica ateniese l’insistenza dei Persiani sulla catastrofica rovina della Persia ha tutta l’aria di essere un sostegno alla linea temistoclea e periclea ed una presa di distanze dall’orientamento cimoniano5. 5. La caduta dell’Areopago: l’«Orestea» Anche quando la materia è ricavata dal mito accade che il drammaturgo si conceda una irruzione diretta nel dibattito politico. Ciò si verifica sia attraverso inaspettate variazioni del mito da cui traspaiono evidenti riferimenti attuali, sia attraverso lunghi ed espliciti interventi di personaggi autorevoli (spesso divinità), sia in entrambi i modi. Un esempio imponente è la conclusione dell’Orestea di Eschilo (Dionisie del 458 a.C.), l’unica superstite trilogia del teatro attico. Qui lo sviluppo nuovo è che Eschilo porta Oreste, per il giudizio definitivo intorno alla sua colpevolezza, davanti al tribunale ateniese dell’Areopago, competente per i reati di sangue. Siamo al termine della trilogia. L’Agamennone si è concluso con la morte di Agamennone e l’ingresso di Clitennestra ed Egisto nel palazzo. Le Coefore culminano nel matricidio: Oreste ha vendicato il padre, Agamennone, uccidendo la madre, Clitennestra, ed ora è in preda alla follia assillante delle «cagne» della madre, le Erinni vendicatrici; perciò fug-

152

Il teatro: un mestiere nella polis

ge a Delfi dal dio che gli ha ordinato il matricidio, per ottenere la purificazione. Le Eumenidi che si aprono a Delfi, dove per Oreste si è rivelata vana la consueta purificazione attraverso il sangue di animali, si spostano ad Atene: per volere di Apollo, Ermes accompagnerà Oreste ad Atene dove troverà i giudici «che hanno parole capaci di lenire questa vicenda» (v. 81). Questo tribunale è il tribunale dell’Areopago, istituito, secondo l’invenzione di Eschilo, da Atena appunto in questa occasione: esso dovrà giudicare per sempre i delitti di sangue (vv. 681-684). «Ad Eschilo non bastava – ha osservato il Lesky – ciò che l’antica saga raccontava della potenza di Apollo, che purificava il matricida con riti di espiazione o gli dava l’arco per difendersi dalle Erinni». Secondo l’antica saga attica Oreste veniva assolto dal giudizio dei dodici dèi. Una tradizione argiva poneva il giudizio su Oreste non già in Atene, ma in Argolide. (Naturalmente non interessa qui la rielaborazione romanzesca della vicenda di Oreste proposta, mezzo secolo dopo l’Orestea, da Euripide, nell’Oreste, del 408.) Eschilo ha trasformato la saga attica sostituendo al giudizio degli dèi quello del tribunale dell’Areopago. Perché questa novità? Tre anni prima che Eschilo componesse l’Orestea (messa in scena nel marzo 458), Efialte, con il sostegno di Pericle – cogliendo il momento in cui Cimone è impegnato al fianco di Sparta contro i Messeni nell’assedio di Itome – ha drasticamente ridotto il potere politico dell’Areopago (462/1). Soprattutto dopo le guerre persiane il vecchio consiglio degli arconti usciti di carica, detto appunto Areopago, aveva accentrato un notevole potere politico consistente in una sorta di «potere tutorio» sullo Stato e sulla stessa legislazione (Aristotele, che ne parla sia nella Politica che nella Costituzione di Atene, 25, parla di nomofulakía ovvero di fulakæ tñv politeíav). Tale potere era un «di più» (tà e¬píqeta, dice Aristotele nella Costituzione di Atene) rispetto agli originari poteri esclusivamente giudiziari dell’Areopago. Appunto questo «di più» fu abrogato dall’azione dei capi democratici, i quali per un verso restituirono le prerogative politiche agli organismi naturali (consiglio dei 500, assemblea popolare, tribunali ordinari), per l’altro limitarono ai soli reati di sangue l’ambito di competenza dell’Areopago. Efialte pagò con la vita nello stesso 461 la sua riforma: un sicario degli oligarchi, tale Aristodico di Tanagra, lo uccise in un agguato. Ciò dimostra che la riforma era stata un trauma nella vita politica di Atene: la riforma era passata nel momento in cui Cimone era fuori ed era in grave difficoltà per l’impopolare e fallimentare campagna contro gli iloti e i Messe-

X. Eschilo e Temistocle

153

ni; gli oligarchi avevano risposto con l’assassinio politico, uno strumento al quale fecero ricorso di nuovo, decenni più tardi, nel 411 per preparare un colpo di Stato. Dopo lo scontro tra Clistene e Isagora e la traumatica gestazione della riforma clistenica (507), la lotta di Efialte contro lo strapotere dell’Areopago era stata la più grave crisi politica patita da Atene. È dunque evidente che Eschilo vuol parlare dell’Areopago – e perciò inaspettatamente porta a compimento dinanzi a questo tribunale ateniese la fosca vicenda degli Atridi –, e vuole dare un solenne suggello alla nuova situazione. Vuol proclamare che l’Areopago è nato con una precisa competenza sui reati di sangue: lo fa dire, nel modo più solenne, ad Atena nel momento in cui sta per pronunciarsi il verdetto su Oreste. Lega perciò la nascita stessa dell’Areopago al più celebre ed al più difficile, sul piano giudiziario, tra i reati di sangue: il matricidio di Oreste. Come nella parabasi l’autore comico parla molto sul serio, ed il coro che la pronuncia rompe la finzione scenica, a sottolineare la serietà di quel che dice, deponendo addirittura le maschere, così nella tragedia è talvolta affidato a un dio (o ad un personaggio di prestigio) il compito di parlare alla città, quasi interrompendo (o lasciando in ombra) lo sviluppo del dramma. Qui nella scena culminante delle Eumenidi è Atena che – in un ampio ed elaborato intervento – istituisce l’Areopago, ne definisce i poteri, ne esalta l’importanza etica prima ancora che politica (vv. 681-710). Quel venerando consesso – le fa dire Eschilo – ha avuto, al momento della sua nascita, quei poteri che tutti gli Ateniesi sanno essere stati da poco ribaditi da Efialte in un duro scontro politico: non altri, né vi debbono essere sovvertimenti delle leggi (v. 693). Ma quel consesso, o meglio quel tribunale (bouleutärion dikastøn lo chiama Atena dal primo momento: v. 684) ha anche, pur dentro quei limiti, una funzione rilevantissima ed un’autorità enorme: trattiene i cittadini dal crimine incutendo paura e rispetto. E qui il discorso di Atena si fa direttamente politico: «Vi raccomando di salvaguardare e di venerare un ordinamento né anarchico né dispotico, di non escludere dalla città indistintamente qualunque forma di potere repressivo: quale uomo che non abbia un’autorità da temere si comporta con giustizia?» (vv. 696-699). Serbando dunque nell’ordinamento cittadino un elemento come l’Areopago, «baluardo di salvezza» (v. 701) e «protettore notturno del sonno dei cittadini» (vv. 705-706), gli Ateniesi avranno un sistema quale neanche gli Sciti o gli Spartani – ritenuti modelli di giu-

154

Il teatro: un mestiere nella polis

stizia – possono vantare. Viene qui istituito un nesso tra la definizione dei poteri dell’Areopago, il riconoscimento che vi sono delitti tremendi (il matricidio li simboleggia) per i quali è importante che viga intatta l’autorità del venerabile tribunale e la visione di una complessiva eunomia, di cui la perdurante vitalità dell’Areopago è parte irrinunciabile. Si coglie in tutto questo la volontà di suggellare solennemente, richiamando l’esigenza della concordia, le trasformazioni avvenute: di porle non in contrasto ma in armonia, secondo un procedimento tipico dell’ideologia democratica, con le tradizioni e i valori dominanti: «venga pure la guerra esterna – ammonisce Atena nella scena finale –, non la zuffa di uccelli domestici dentro la gabbia» (vv. 864-866). Nell’assassinio di Efialte Eschilo coglieva dunque, non a torto, i prodromi di un possibile conflitto civile. E contemplava come accettabile un conflitto esterno, che ormai (dopo la partecipazione di volontari ateniesi alla battaglia di Oinoe tra Argo e Sparta) non poteva che essere con Sparta. Ancora una volta dunque, e in un contesto ben più drammatico che al tempo dei Persiani, Eschilo si è collocato, nello scontro tra «cimoniani» e «temistoclei» (Efialte, Pericle), dalla parte di questi. Lo conferma il finale della tragedia, volutamente filoargivo: Oreste, appena assolto dall’Areopago col voto decisivo di Atena, scioglie un inno all’alleanza eterna di Argo, sua patria, con Atene. Da poco il filospartano Cimone è stato congedato in modo umiliante dagli Spartani che non vogliono Ateniesi all’assedio di Itome, e gli Ateniesi hanno reagito – come narra Tucidide – «lasciando perdere l’alleanza con Sparta risalente alla guerra persiana e alleandosi con gli Argivi, tradizionali nemici di Sparta» (I, 102,4). Quando dunque Oreste proclama: «giuro che mai un uomo argivo verrà qui a capitanare un esercito in guerra. Io sarò morto allora, ma contro chi osasse violare il giuramento, anche dalla tomba insorgerò» (Eumenidi, 765-769, trad. Valgimigli), questo giuramento doveva rievocare nella mente di tutti le formule di reciproca alleanza che Atene ed Argo si erano appena scambiate. 6. La fuga di Temistocle: le «Supplici» Argo – l’antagonista democratica di Sparta nel Peloponneso, l’alleata ‘naturale’ di Atene nella strategia temistoclea (e poi periclea) – ha un posto speciale nella drammaturgia di Eschilo, come nell’a-

X. Eschilo e Temistocle

155

zione politica di Temistocle. Con il giuramento di eterna alleanza verso Atene profferito da Oreste, si conclude l’Orestea (458) in concomitanza con il rinnovo dell’alleanza argivo-ateniese. Ad Argo ed alla sua democrazia ospitale verso gli esuli innalzano un vero e proprio inno le Supplici (quasi certamente del 463). Né sembra un caso che proprio nel momento di temporanea prevalenza dell’oligarchia ad Argo (467) Eschilo, coi Sette a Tebe – il dramma conclusivo della trilogia Tebana – rievochi una guerra sbagliata di Argo: il coinvolgimento voluto da Adrasto nella guerra fratricida di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, per il dominio di Tebe. Tale guerra è duramente condannata da Amfiarao – l’unico «giusto» dei sette, portato a combattere controvoglia, il quale, in un memorabile intervento politico, condanna coloro che «conducono un’armata straniera contro la propria città» (vv. 580-583: possibile allusione all’innaturale idillio argivo-spartano di quel momento). Alla comprensione delle Supplici ha giovato in modo decisivo la scoperta della loro esatta cronologia. Fino al 1952 questa tragedia era considerata il più arcaico dei drammi di Eschilo, forse addirittura precedente Maratona, il più vicino – si pensava – a quella che dovette essere la forma originaria della tragedia, poco più che il dialogo tra il coro e un attore. La scoperta di un papiro recante i resti della didascalia relativa appunto a questa trilogia (Papiro di Ossirinco 2256,3, pubblicato nel 1952) ha smentito quell’idea e modificato radicalmente la cronologia tradizionale. Risultava infatti che Eschilo aveva vinto, con quella trilogia, contro Sofocle, risultato secondo, e Mesatos, risultato terzo. Ma dalla Vita di Cimone di Plutarco (cap. 8) sappiamo che Sofocle esordì con una vittoria nel 468; d’altra parte nel 467 Eschilo vinse con i Sette a Tebe; dunque le Dionisie in cui Eschilo vinse – contro Sofocle – con le Supplici cadranno tra il 466 ed il 459 (nel 458 Eschilo vince con l’Orestea). È probabile che si tratti dell’anno 463. Nelle prime sillabe del papiro, infatti (e¬pì a¬r[), sembra preferibile riconoscere il nome dell’arconte dell’anno 464/3, Archedemide, piuttosto che l’inizio della forma e¬pì a¢rcontov (per lo meno a giudicare da una copia di atti ufficiali del teatro qual è la lunga epigrafe IG II/III2 2318, lista dei vincitori alle Grandi Dionisie, dove il nome dell’arconte non è mai preceduto dall’epiteto a¢rcontov). È vano – come talvolta è stato fatto – mettere in dubbio dati disponibili (la didascalia e la notizia di un erudito lettore di ottime fonti come Plutarco). Dà da riflettere, semmai, la constatazione di quanto fossero vani gli argomenti stilistici e metrici con cui si era decreta-

156

Il teatro: un mestiere nella polis

to che le Supplici fossero l’arcaicissimo tra i drammi dell’arcaico Eschilo. Non è inutile elencarli secondo la lista messa insieme da Wilhelm Schmid nel II volume (1934) del suo grande manuale storico della letteratura greca (p. 194): «Esordio con la parodo (Supplici, Persiani, Mirmidoni); impiego di due attori (Supplici, Persiani, Sette); mancanza della decorazione sullo sfondo della scena (Supplici, Persiani, Sette); più forte spicco delle parti liriche ed epiche; relativamente scarsa presenza dei docmi (scarsissimi nei Persiani, frequentissimi nell’Orestea); più imprecisione nella responsione strofica (massima nelle Supplici, minima nell’Orestea); più accentuato uso del tetrametro trocaico nel dialogo; maggiori tracce di dialetto ionico e di prosodia ionica (il maggior numero di casi di allungamento di vocale dinanzi a «muta cum liquida» è nei Persiani, il minor numero di casi è nelle Supplici e nelle Eumenidi) ecc.».

Ora sappiamo che tutte queste osservazioni non hanno peso. Isolata era rimasta la voce di uno storico, il Cavaignac, il quale aveva osservato in un saggio del 1921 che la posizione delle Danaidi, profughe e supplici ad Argo, appare analoga a quella di Temistocle profugo ad Argo dopo l’ostracismo (471/470 circa), ed aveva perciò proposto di spostare di molto la cronologia delle Supplici: appunto in una data successiva al 471/470. Ora la nuova datazione che si ricava dal papiro ha confermato l’intuizione del Cavaignac che è stata ripresa e approfondita quarant’anni dopo dallo storico inglese William Forrest. Essa consente di decifrare gli insistenti riferimenti politici presenti nelle Supplici, e trae appunto da tali riferimenti – divenuti così meglio comprensibili – non trascurabile conferma. Alla luce della nuova datazione infatti le Supplici si collocano in un momento cruciale della vita politica ateniese: tra la condanna in contumacia (466 a.C.?) per «alto tradimento»6, di Temistocle, rifugiato ad Argo ed ora braccato da sicari spartani e ateniesi, e la riforma di Efialte, varata l’anno dopo la rappresentazione delle Supplici nel 462/1. Ciò illumina due temi che dominano nella tragedia: l’enfasi sulla necessità che sia l’assemblea popolare a decidere anche su delicate scelte di politica estera (vv. 480-489; 517523; 600-624) e l’esaltazione di Argo terra ospitale per esuli ingiustamente braccati ed in pericolo di vita (vv. 985-988). Sono proprio questi ultimi versi – dove Danao, il re braccato con le figlie dai suoi conterranei egizi, esalta Argo «cui bisogna fare libagioni come agli

X. Eschilo e Temistocle

157

dèi dell’Olimpo» (vv. 980-981) – che richiamano la minaccia gravante sul vivente e notissimo rifugiato ad Argo, Temistocle, che, a seguito della condanna inflittagli può essere, come ogni àtimos, ucciso da chiunque: «Il popolo di Argo – dice Danao – decretò per me questa scorta di guerrieri armati, per mio onore, e per mia difesa: perché non mi toccasse di morire colto di sorpresa da inatteso colpo di lancia micidiale, ciò che costituirebbe per questo paese un fardello eterno» (vv. 985-988). È voluta – nelle parole che Eschilo fa dire a Danao – l’insistenza sull’elemento ‘sorpresa’, proditorio e ‘inatteso’ assalto di un sicario (a¬élptwv, qanœn láqoimi). Ciò poco si addice alla condizione di Danao, il quale deve temere piuttosto un assalto guerresco degli Egizi protesi a recuperare le riluttanti figlie di Danao, ma ben si addice a chi sia condannato, per tradimento, alla massima pena: in tal caso vigeva – come sappiamo da una precisa attestazione di Demostene (IX, 42-44) – la atimìa nel senso della legislazione draconiana, cioè la liceità per chiunque di farsi esecutore, nei confronti del condannato, della sentenza capitale. In tal caso la formula micidiale «e muoia àtimos» significava, come spiega compiaciuto Demostene, «che non è colpevole chi uccida uno di questi». È ovvio che questi accostamenti esigono cautela, e talvolta, come ha scritto Kenneth Dover, «possono risultare disastrosi», ma è fuor di dubbio che vi è nelle Supplici una insistenza – che ovviamente non ha nessun rapporto col mito di Danao e delle sue figlie – sul funzionamento dell’Assemblea popolare e sull’ambito e sul modo di esplicarsi della sovranità popolare; ed è legittimo affermare che una tale insistenza richiede una spiegazione. La vicenda è lineare. Il dramma si apre con un lungo intervento delle figlie di Danao, che costituiscono il coro. Esse sono fuggite, sotto la guida del padre, per sottrarsi alle nozze con i cugini, i figli di Egitto, e sono giunte ad Argo, dove chiedono protezione. Segue un ampio intervento di Danao che ammaestra le figlie sul modo in cui debbono rivolgersi agli stranieri per ottenere asilo. È un intervento di autopresentazione: nel primo verso che pronuncia Danao ripete più volte froneîn, «essere prudente», «aver senno», «pensare accortamente», si definisce subito oltre che «vecchio», «prudente nocchiero», dichiara la propria «capacità di valutare in anticipo» (promhqían)7. Danao raccomanda alle figlie di fermarsi ad attendere la gente del luogo nel sito sacro agli dèi dove è immaginata la scena iniziale («un altare è difesa più solida di un muro») e precisa anche il mo-

158

Il teatro: un mestiere nella polis

do in cui devono atteggiarsi: con il ramo di supplici sul braccio sinistro, senza iattanza nella voce, debbono far subito chiaro «che il loro esilio non è macchiato di sangue» (v. 196). Danao suggerisce anche gli argomenti che le fanciulle dovranno svolgere nell’illustrare la propria sorte: spiegheranno che esse fuggono, per mantenersi pure, le nozze che i loro cugini – di cui hanno orrore – vogliono imporre con la violenza. Il re di Argo, Pelasgo, sopraggiunge ed intreccia col coro un dialogo attraverso cui il pubblico apprende le remote premesse della vicenda. Ben presto Pelasgo si rende conto del rischio che comporta il concedere asilo alle supplici: il rischio di un conflitto con Egitto e i suoi figli protesi alla caccia delle spose riluttanti; perciò Pelasgo non nasconde al coro il proprio imbarazzo dinanzi alla prospettiva di doversi accollare un conflitto inatteso (v. 341), ma incalzato dal coro con l’argomento che la giustizia è la migliore difesa e che l’ira di Zeus protettore dei supplici sarebbe terribile, pur prevedendo un funesto conflitto, mostra di accedere alla richiesta delle supplici. Ma non può decidere da solo – questa è la novità intorno a cui ruota tutto il corpo centrale della tragedia –: deve chiedere il parere a tutto il popolo (vv. 365-369): «Voi non siete supplici presso il mio focolare: se è la città tutta quanta che si contamina, il popolo in seduta comune (xunñı) deve sforzarsi di trovarne il rimedio. Io non posso fare promesse di mia iniziativa: prima devo sottoporre questo problema a tutti i cittadini». È qui che incomincia la vera e propria paideia democratica che percorre l’intero dramma. Il coro risponde a Pelasgo incitandolo a decidere da solo: «Ma la città sei tu, tu sei il consiglio, capo non soggetto a controlli (a¢kritov), tu hai il dominio dell’altare, focolare dell’intero paese; senza altro suffragio che i cenni della tua fronte (monoyäfoisi neúmasi séqen)» (vv. 370-375). Intenzionale è l’accenno al voto: alla nullità del voto degli altri di fronte alla validità totalitaria del voto del solo sovrano che – secondo l’erronea ed ingenua impostazione del coro – soppianta e surroga la volontà di tutti gli altri. Così sono poste le premesse per la reazione di Pelasgo e per la risoluzione, assembleare, del dramma: «Te l’ho già detto prima: non potrei agire senza il popolo neppure se ne avessi il potere. Non posso permettere che un giorno, se capita qualcosa, il popolo mi dica: per onorare dei profughi hai rovinato la nostra città» (vv. 396-401). Il coro accetta questa impostazione e Pelasgo si avvia ad affron-

X. Eschilo e Temistocle

159

tare l’Assemblea popolare non senza aver prima istruito Danao, che affronterà con lui il popolo, sul modo in cui deve presentarsi: «Su, vecchio padre di queste vergini, prendi sulle braccia questi rami e deponili sugli altari degli dèi indigeni, perché tutti i cittadini vedano il segno della vostra venuta e la mia proposta non venga respinta: il popolo ama muovere critiche a chi lo comanda (a¬rcñv gàr filaítiov leåv). A vedere tutto questo nascerà compassione e odio verso i maschi che vi insidiano. Il popolo vi sarà benevolo: chiunque è ben disposto verso i più deboli (vv. 480-489). Io – conclude Pelasgo, rivolgendosi ora al corifeo – chiamerò in Assemblea il popolo e farò in modo che la comunità si disponga con favore. Insegnerò a tuo padre cosa dovrà dire»

ed il suo augurio finale è che «la persuasione» (peiqå) abbia la meglio (vv. 517-523). In un racconto composto prima dello scoppio della guerra peloponnesiaca, Tucidide era in grado di narrare, con ogni dettaglio, il penoso errare di Temistocle, esule dopo la condanna: allontanatosi da Argo, respinto dai Corciresi, era finito nella reggia di Admeto, re dei Molossi; Admeto non c’era in quel momento, e Tucidide precisa (stentiamo a capire donde ricavasse tutti questi dettagli) che fu la moglie di Admeto ad istruirlo, ad insegnargli come avrebbe dovuto farsi trovare al ritorno di Admeto: sull’altare, in guisa di supplice, con in braccio il figlio dell’ospite. È una scena parallela a quella di Pelasgo che istruisce Danao sul modo in cui accostarsi al vero sovrano, al popolo di Argo. Durante tutto il dibattito con il coro, Pelasgo ha insistito più volte su un concetto capitale per lo svolgimento di tutto il dramma: non si può decidere nulla senza il popolo (a¢neu dämou), giacché il popolo gli rinfaccerebbe la guerra non voluta che il re avrebbe attirato sulla città con decisione solitaria. Il succo di tanta insistenza è molto chiaro: le gravi decisioni di politica estera spettano all’Assemblea popolare; il voto popolare in materia è fermissimo, saldo «come un chiodo ben confitto» – dirà Pelasgo, quando respinge alla fine del dramma l’assalto degli Egizi – e non vi è autorità superiore al voto (vv. 945 e 965). Dette l’anno prima della riforma di Efialte, queste parole sono una presa di posizione sui poteri dell’Assemblea popolare: la riforma consistette appunto nel togliere all’Areopago una serie di competenze accumulatesi nelle sue mani (gli e¬píqeta, come si esprime

160

Il teatro: un mestiere nella polis

Aristotele) e nel restituirle al Consiglio dei 500 ed alla Assemblea. E che l’estensione alla politica estera della autorità assembleare costituisse oggetto di discussione proprio in merito alla questione di chi debba accollarsi decisioni le cui conseguenze riguardano tutta la comunità lo si ricava chiaramente dal pamphlet oligarchico sulla Costituzione degli Ateniesi, dove l’autore denuncia appunto le scappatoie dialettiche con cui l’Assemblea può sempre sgravarsi della responsabilità di una scelta errata in politica estera e caldeggia perciò che la decisione in questo campo sia riservata a pochi: «Il popolo – dice il cosiddetto ‘vecchio oligarca’ – può sempre addebitare la colpa a colui che presentò la proposta e dire ‘Io non c’ero’ oppure ‘Quest’accordo non mi piace’ [...] e trovano diecimila pretesti per non rispettare gli accordi che non gradiscono» (2,17). Nelle parole di Pelasgo e poi di Danao vi è al contrario l’idealizzazione del meccanismo assembleare. Dopo un lungo intermezzo corale, Danao torna dalle proprie figlie. Ha avuto successo: «è stato espresso il decreto definitivo del popolo» ed è nel senso desiderato dai profughi (vv. 600-601). In risposta il coro chiede a Danao di spiegare come funzioni l’Assemblea, come si manifesti il volere della maggioranza: «dimmi come si perviene ad una decisione, come diventa maggioranza (plhqúnetai) la mano vincente del demo (dämou kratoûsa ceír)» (vv. 603-604). È il vertice della paideia democratica delle Supplici (Danao fornirà subito dopo una spiegazione tecnica del funzionamento dell’Assemblea): è il celebre passo in cui appare per la prima volta, in attico, la parola democrazia, ma le due componenti della tanto controversa parola appaiono ancora distinte (dämou kratoûsa) e l’astratto non ha ancora preso forma ma si materializza nella «mano» (ceír) che esprime il voto. La nozione «mano» come veicolo della volontà popolare ritorna insistentemente nella risposta di Danao, che si apre con un e¢doxen ∫Argeíoisin che riecheggia palesemente l’esordio di tanti decreti attici (e¢doxen ∫Aqhnaíwn tñı boulñı kaì tøı dämwı): «l’aria è stata scossa dalle mani levatesi in massa ad approvare la proposta» di Pelasgo (riferita qui testualmente come in ogni decreto attico, dove il contenuto del decreto è espresso attraverso le parole, testualmente riferite, del proponente: o™ deîna ei®pen); alle parole del re «Il popolo di Argo ha approvato con le mani, senza che neanche si facesse ricorso alla chiamata con l’araldo» (vv. 605622). Naturalmente l’alimento della volontà popolare è la parola persuasiva: «il popolo – conclude Danao – ha ascoltato le suaden-

X. Eschilo e Temistocle

161

ti volute del discorso (dhmhgórouv eu¬piqeîv strofáv)» (vv. 623-624), e così si è realizzato l’auspicio di Pelasgo che si era avviato all’Assemblea confidando nel successo di peiqå. Con l’avallo popolare una decisione diventa incrollabile. Nell’ultima parte del dramma si produce un’improvvisa svolta: un messo di Egitto, seguito da alcuni sgherri, approdato ad Argo, tenta di trascinare le supplici e già le ghermisce violando lo spazio sacro dell’altare dove esse sono raccolte, ma riappare Pelasgo e mette in fuga il minaccioso invasore che brandisce il ricatto della guerra: e lo allontana appunto impartendogli una lezione di etica democratica. In quest’ultima tirata (vv. 938-965) – interrotto una sola volta dalla minaccia di guerra dell’araldo egizio – Pelasgo quasi si annulla nella decisione del popolo: «Che bisogno c’è che io ti dica il mio nome? Lo saprai col tempo tu e i tuoi sodali» (vv. 938-939). Ora Pelasgo accetta serenamente perfino l’ipotesi di una guerra: ora che la decisione di accogliere i profughi è stata presa non da lui solo, ma dal popolo. «Potrai portar via le donne soltanto col loro consenso [...] Questo ha stabilito il voto unanime [mía yñfov] della città, espresso dal popolo [dhmópraktov: è un neologismo di Eschilo costruito allo stesso modo di dämou kratoûsa ceír]: di non abbandonare le donne alla violenza. È come un chiodo ben piantato che non si può scardinare più. Non sono cose scritte su qualche tavoletta o sigillate nelle pieghe dei libri: tu stai ascoltando il linguaggio chiaro di un bocca libera. Scompari dalla mia vista!» (vv. 940-949).

Il tono sprezzante (e¬n ptucaîv indica l’intrigo) nei confronti delle insidiose scritture nascoste nei recessi di un rotolo può essere un riferimento a quei discutibili documenti pescati tra le carte del re spartano Pausania, che erano serviti agli Spartani ad imporre ad Atene, evidentemente a forze filospartane ateniesi, la liquidazione di Temistocle («sostenevano di aver scovato quelle prove [w™v huçriskon] – dice prudentemente Tucidide – nel corso dell’indagine a carico di Pausania»: I, 135,2). E certo nel finale della tragedia riappare e campeggia con un lungo intervento Danao: quell’intervento di cui s’è detto in principio, in cui rende grazie al popolo di Argo di averlo protetto contro l’insidia di un ignoto incombente sicario (vv. 987-988).

162

Il teatro: un mestiere nella polis

L’identificazione Temistocle/Danao doveva risultare spontaneamente chiara. Danao e le Danaidi rivendicano una remota connessione con Argo, che viene riconosciuta, dopo un serrato dialogo genealogico, anche da Pelasgo (v. 324: «sembra proprio che abbiate antichi legami con la nostra terra»). Il padre di Temistocle, Neocle, era vissuto assai lungamente ad Argo dove aveva messo profonde radici e stabilito amicizie. La notizia, risalente forse addirittura ad Ellanico, si trova nelle tardive cosiddette Lettere di Temistocle. Sempre secondo questa fonte, a Temistocle, stabilitosi ad Argo, era stata offerta la carica di stratego e di epistàtes: era ben nota la leggenda secondo cui a Danao era stato, poco dopo l’accoglienza accordatagli ad Argo, offerto di divenirne re. La vicenda per cui Danao divenne, da profugo, sovrano di Argo è diffusamene raccontata da un mitografo come Apollodoro, dal periegeta Pausania e da altri. Il prodigio che aveva persuaso gli Argivi a preferire Danao era stata l’apparizione di un lupo che aveva aggredito il toro di una mandria: la figura di Danao veniva assimilata a quella del lupo, ed anche questo richiamava il Lykomides Temistocle, discendente da un mitico Lykos (lupo) simboleggiante l’esilio e gli esuli.

Le vicende che avevano condotto alla fine di Temistocle e, poi, alla vittoria democratica di Efialte contro lo strapotere dell’Areopago sono parte di un unico conflitto di cui la vittoria della democrazia assembleare rappresentò il compimento. La liquidazione di Temistocle, attraverso il mostruoso processo per «alto tradimento», era stata realizzata dall’Areopago proprio attraverso l’esercizio di quei poteri «in più» che Efialte colpì. Tale liquidazione è chiaramente frutto della pressione spartana, che ottiene successo facendo leva sugli elementi più vicini a Sparta nei gruppi politici ateniesi: non è difficile pensare a Cimone, prosciolto proprio dall’Areopago dall’accusa di corruzione all’indomani della campagna di Taso (463). Poco dopo il notevole successo conseguito dall’Areopago con l’eliminazione di Temistocle, Cimone porta all’estremo la politica di intesa con Sparta (da Temistocle sempre avversata) aderendo alla guerra spartana contro gli iloti ribelli in Messenia. Il contrattacco democratico si realizza – in assenza di Cimone, invischiato nell’infelice campagna – con la caduta dell’Areopago e la riforma di Efialte (che non a caso la tradizione moderata, nota ad Aristotele, considera ispirata da Temistocle). Le Supplici si collocano in questo momento infuocato e per mille segni rivelano di esserne impregnate: momento drammatico in cui sono scomparsi quasi contemporaneamente dalla scena sia Te-

X. Eschilo e Temistocle

163

mistocle che il re spartano Pausania, lapidato nel modo più spietato dentro il sacro recinto di un tempio. 7. Il matricidio: la religiosità eschilea Certo, nella trilogia delle Danaidi non vi è solo questo. Non ci è facile valutarla completamente, dato che abbiamo soltanto le Supplici, che della trilogia costituivano il primo dramma (gli altri due erano gli Egizi e le Danaidi). Capiamo però che uno dei temi centrali, che avrebbe trovato sviluppo nel seguito (ma ignoriamo attraverso quali soluzioni) è quello del conflitto uomo-donna. Ci sfugge come Eschilo presentasse nello sviluppo della trilogia l’azione delle vergini odiatrici di Afrodite, ma avvertiamo anche qui – come nell’Orestea – il conflitto tra un codice ancestrale e un codice «civilizzato». Nell’Orestea, infatti, il significato della trilogia non si esaurisce nel pur chiaro ed enfatico impegno nell’attualità politica. Vi è lì un’altra linea di pensiero – quella del superamento del vecchio diritto familiare ad opera del diritto della polis –, che ugualmente attinge in una sfera meno contingente una più profonda «politicità». Al centro vi è un problema apparentemente insolubile. Oreste, per ordine di una divinità, Apollo, ha compiuto un crimine tremendo, il matricidio, per punire la madre assassina del padre, ed è perciò perseguitato da altre divinità, le Erinni, figlie della notte e vendicatrici della madre uccisa. Oreste sarà assolto da un tribunale cittadino. Con la sconfitta delle Erinni si spezza il cerchio della vendetta familiare. Tutto ciò non accade in modo lineare ed indolore, ed anzi il lento sviluppo dell’azione attraverso la trilogia accentua i momenti di esitazione e di smarrimento. Al termine delle Coefore, il cui momento cruciale è il dialogo tra Oreste che si accinge a colpire e la madre che argomenta disperatamente in propria difesa, non si intravede ancora la risoluzione rasserenante con cui si chiudono le Eumenidi e l’intera trilogia: nell’ultima scena delle Coefore Oreste è assediato dalle Erinni, dai cui occhi stillano gocce di sangue, che lo terrorizzano e lo accerchiano, ed è spinto dal corifeo a recarsi a Delfi, da Apollo (vv. 1049-1060); ma non è a Delfi che il suo tormento avrà termine, bensì ad Atene e per l’intervento di Atena. Il momento culminante dello scontro tra vecchio e nuovo diritto è nel penultimo episodio delle Coefore, nella scena del matricidio, quan-

164

Il teatro: un mestiere nella polis

do Oreste esita a colpire la madre che gli mostra i seni e lo invita a venerarli (ai¢desqai) e gli ricorda (vv. 896-898) il nutrimento vitale che ne ha tratto succhiandone il latte con le gengive (ou¢doisin) nel dormiveglia dei primi mesi di vita (brízwn). Oreste si ferma e invoca Pilade: «Pilade, che faccio? Avrò vergogna (ai¬desqø) di uccidere una madre?» [mhtéra, non tæn mhtéra, che significherebbe soltanto «mia madre»: bene intende Mazon]. E solo qui parla Pilade e dice tre soli versi in tutta la tragedia: «E dove finiranno i vaticini di Apollo e i responsi resi a Pytho, e la lealtà ai giuramenti? Considera che è meglio avere nemico chiunque fuorché gli dèi» (vv. 900902). Nel XXII dell’Iliade, quando tutti i Troiani sono fuggiti a precipizio dentro le mura perché si sa che sta tornando a combattere Achille, e solo Ettore resta fuori, spinto dagli dèi ad una sicurezza di sé che gli sarà fatale, anche Ecuba invoca il figlio mostrandogli il seno dall’alto delle mura, pregandolo di «averne rispetto» e rievocandogli il remoto legame biologico del nutrimento dato a lui infante; ed Ettore risponde contrapponendo al richiamo materno un argomento ‘politico’: la perdita totale di considerazione che gli toccherà di fronte ai Troiani se rientrerà rinunciando a combattere. Nelle Coefore il trauma del matricidio rappresenta la rottura col mondo ancestrale, simboleggiato, come ha scritto Lesky, dal «seno di tutte le nascite in cui la madre è tutto». Ma questa rottura dà l’avvio ad un travaglio il cui compimento sarà appunto politico, e si realizzerà nel trapasso dalla giustizia privata – una catena di delitti senza sbocco, quali quelli che si consumano nella reggia di Agamennone – alla giustizia del koinòn, della polis, sotto il patrocinio di Atena, la dea nata senza madre. E sempre per volere di Atena le Erinni sono mutate nelle «dee benevole», le Eumenidi. Si ha così un superamento del dualismo lasciato in piedi dalla teologia esiodea. In Esiodo, pur dopo la vittoria di Zeus, che segnava il prevalere del principio di giustizia, sopravvivevano le Erinni, le figlie della notte. Non scompariva dunque il principio del male, né era facile capire come coesistesse col nuovo ordine di Zeus. In Eschilo questo dualismo viene superato, sotto l’egida della divinità poliade, nell’ordine della polis: donde il valore politico e religioso al tempo stesso della processione che conclude l’Orestea e che accompagna le Erinni divenute «dee venerande» (Semnài) dall’Areopago alla loro dimora. In Eschilo il teologo è inseparabile dal cittadino che ha visto, adolescente, la fine della tirannide (nelle Coefore, 973, chiama «doppia tirannide» il regno di

X. Eschilo e Temistocle

165

Egisto e Clitennestra), che ha partecipato in gioventù al costituirsi dello spazio politico nell’ordinamento clistenico, che ha combattuto a Maratona (dove il fratello morì nella battaglia) e a Salamina, e adulto trasmette, attraverso il teatro, i valori fondanti della città democratica. Il che spiega l’assunzione postuma di Eschilo come poeta di Stato da parte dell’Atene periclea: «Dopo la sua morte – informa l’anonima Vita di Eschilo tramandata nel Laurenziano 32.9 – gli Ateniesi decretarono che chi intendesse mettere in scena drammi di Eschilo avrebbe ottenuto senz’altro il coro», e accadde così – come informa la stessa fonte – che, oltre alle tredici vittorie conseguite in vita, Eschilo ottenesse «non poche vittorie postume». I contenuti delle sue tragedie, come ribadisce Aristofane nelle Rane, apparivano alla comunità ed ai suoi dirigenti rassicuranti e normativi. 8. Il «Prometeo» e la giustizia di Zeus Ma il quadro qui tracciato del pensiero religioso di Eschilo rischia di risultare troppo semplicistico se ci si concentra unicamente sul punto di arrivo, le Eumenidi. È d’altra parte la stessa esiguità dei drammi superstiti rispetto all’intera produzione drammaturgica di Eschilo che contribuisce a suggerire questa immagine eccessivamente lineare. Ma c’è almeno un dramma, il Prometeo, anch’esso unico superstite della sua trilogia (di cui costituiva l’inizio) e di ignota cronologia, che sembra riportarci indietro rispetto alla stessa problematica esiodea e quasi esasperarla attraverso una riflessione che pone in discussione lo stesso presupposto della giustizia di Zeus. Zeus infatti, che ha trionfato nella lotta contro i Titani grazie all’aiuto di Prometeo, si accanisce su Prometeo, per punirlo di aver beneficato i mortali. Della brutalità con cui Zeus opera in questo esasperato conflitto con il Titano ribelle sono emblemi Kratos e Bia, la Violenza e la Forza, i due esecutori della volontà di vendetta di Zeus, che, all’inizio della tragedia, impongono ad Efesto di inchiodare Prometeo su di una rupe battuta dalle tempeste. Vi sono anche alcune novità rispetto al mito di Prometeo ricavate dalla saga di Achille. La principale è che Prometeo è detentore di un segreto micidiale, tale da poter infliggere a Zeus una fine analoga a quella che Zeus aveva inflitto a Crono: Prometeo sa da sua madre Themis (anche questa è una novità, perché la madre di Prometeo è Gea) che Teti – al cui amore Zeus aspira – darà al dio che si unirà con

166

Il teatro: un mestiere nella polis

lei un figlio più potente del padre. Ha in pugno un’arma terribile, ma si rifiuta, nonostante i tormenti che patisce, di rivelare il segreto. Varie divinità lo visitano: il coro delle Oceanine, che cerca di lenire il suo dolore; il loro padre Oceano, che cerca di ammansire Prometeo; un’altra vittima di Zeus, Io, cui Prometeo predice le vicissitudini cui va incontro e la discendenza che avrà, e alla quale rivela, per cenni, il suo temibile segreto. Zeus ha udito la rivelazione, ne è turbato e manda Ermes ad estorcere da Prometeo altri dettagli, ma invano. Alla fine Zeus colpisce col fulmine la rupe su cui Prometeo è inchiodato, e Prometeo – col cui lamento la tragedia si chiude – è schiacciato dall’immane peso. Da oltre un secolo sono stati sollevati dubbi sull’autenticità del Prometeo8. A parte la sorprendente semplicità di linguaggio così lontana dalle altre sei tragedie tramandate, la difficoltà maggiore è parsa consistere nell’immagine del tutto brutale di Zeus che campeggia dal principio alla fine: ben diverso da colui che – come si esprime il coro dell’Agamennone (vv. 176-177) – «ha aperto agli umani le vie della saggezza». Al contrario, nel Prometeo Zeus perseguita il Titano perché ha voluto portare l’umanità fuori dall’originario stato ferino (vv. 228-254). Quando parla di Zeus, Prometeo lo definisce, ossessivamente, «il tiranno» (vv. 222-225, 305, 310, 909, 942, 957, 996 ecc.), ed anzi al principio del suo colloquio con le Oceanine motiva l’adozione di questo termine richiamandosi ai tratti che gli Ateniesi ritengono tipici del tiranno (elencati ad esempio da Erodoto nel celebre dibattito «costituzionale»), e pedantescamente precisa, dopo aver ricordato l’ingratitudine di Zeus nei propri confronti: «del resto è insito nella tirannide questo difetto: di essere infidi proprio con gli amici» (vv. 224-225). Qualche perplessità può anche derivare dal fatto che, nel lungo intervento ‘profetico’ che rivolge a Io, ricco di preannunzi sulle vicende future e sulla discendenza dell’eroina, Prometeo non solo colleghi con un certo compiacimento mitografico (e alludendo alla necessità di un ben più ampio racconto) la ulteriore vicenda di Io e della discendenza di lei fino ad Eracle alla propria vicenda, ma addirittura preannunzi lo scioglimento dell’intera trilogia, quando osserva «da questa stirpe nascerà il coraggioso, celebre, arciere, che mi libererà da queste sofferenze» (vv. 871-873). Ed ancora alla fine del dramma, nelle parole aspre di Ermes a Prometeo vi è un cenno preciso persino all’espediente risolutivo che nel secondo dramma della trilogia consentiva la liberazione di Prometeo dalla rupe (v. 1027: «se non appare un dio pronto ad accollarsi le tue soffe-

X. Eschilo e Temistocle

167

renze ed a discendere nell’Ade», ciò che infatti faceva Chirone, alla fine del Prometeo liberato). Di Eschilo abbiamo un’altra tragedia che costituiva il principio di un trilogia (le Supplici), ma in nessuna parte di essa viene adombrato il successivo svolgimento: tanto che ci si interroga senza molto successo sul modo in cui Eschilo riusciva a trasformare le miti e terrorizzate Danaidi fuggiasche in assassine dei loro mariti. Ed abbiamo inoltre una trilogia completa, l’Orestea, l’unica superstite di tutto il teatro attico, ed anche qui nulla, nel corso dei primi due drammi, adombra la risoluzione finale: anzi, come si è già osservato, al termine delle Coefore Oreste viene spinto dal coro a recarsi a Delfi, ma non è a Delfi, bensì ad Atene che la sua vicenda troverà conclusione. C’è poi la narrazione ‘profetica’ che Prometeo rivolge a Io, dove le racconta per intero la vicenda delle Danaidi. Qui non colpisce tanto il fatto che Eschilo riassuma così diffusamente il contenuto di un’altra sua trilogia, quanto la presenza di sostanziali divergenze rispetto alle Supplici. La più rilevante è che, nel racconto di Prometeo, le Danaidi fuggiranno le nozze con i cugini per riluttanza verso l’unione con consanguinei (v. 855: «fuggendo nozze consanguinee»; vv. 858-859: «essi verranno, cacciatori di nozze interdette»), mentre nelle Supplici le Danaidi fuggono le nozze in quanto tali, hanno orrore del desiderio sessuale maschile in quanto tale. Certo, nulla esclude che la visione di questo mito si sia venuta modificando nella mente di Eschilo quando ha concretamente posto mano alla trilogia delle Danaidi: resta il fatto che la contraddizione tra Supplici e Prometeo riguarda l’aspetto centrale del mito delle Danaidi, e che Prometeo non si limita ad accennare, ma ritorna con insistenza sulla versione di quel mito che invece nelle Supplici viene accantonata. Oltre tutto, il dialogo con Io costituisce la parte centrale, preponderante, del Prometeo: dunque ciò che viene detto in questo dialogo ha particolare rilievo. Vi si parla tra l’altro, come s’è già detto, della discendenza di Io, che giunge fino ad Eracle, liberatore di Prometeo. C’era infine una incongruenza ‘topografica’, che deve aver disturbato già gli studiosi antichi. Nei manoscritti eschilei sono tramandate due «notizie» erudite, anonime, relative al Prometeo, la prima in forma di Hypothesis (argomento), la seconda come estratto da una Musikè Historìa; in entrambe si legge questa osservazione: «Non dice che Prometeo, secondo l’opinione comune, fu legato sul Caucaso, ma al limite estremo dell’Europa, sull’Oceano, co-

168

Il teatro: un mestiere nella polis

me si ricava da quello che dice a Io» (e infatti, il Caucaso figura, al v. 719, tra le tappe delle future peregrinazioni che Prometeo preannunzia a Io). Eppure al principio del Prometeo liberato – che viene considerato il secondo dramma della trilogia – il Titano figurava incatenato alle rocce del Caucaso (Fr. 199 Nanck) e l’aquila di Zeus aveva il compito di divorargli il fegato. Se dunque si era affermata – come ricaviamo dall’anonima notazione erudita – l’opinione corrente che già nel primo dramma della trilogia Prometeo fosse inchiodato a una rupe del Caucaso, ciò vuol dire che il cambio di scenario dal primo dramma al successivo creava qualche disagio. Che Eschilo avesse composto una trilogia su Prometeo i cui tre drammi s’intitolavano rispettivamente Prometeo legato (Promhqeùv desmóthv: è il titolo del dramma tramandatoci), Prometeo liberato (Promhqeùv luómenov), Prometeo che porta il fuoco (Promhqeùv purfórov) è deduzione moderna ricavata dal fatto che tutti e tre questi titoli ricorrono nel Catalogo dei drammi di Eschilo che figura, nel codice mediceo, al termine della Vita di Eschilo; e che il superstite Prometeo sia il primo dramma di tale trilogia è, ovviamente, una ipotesi, anche se del tutto legittima. Qualche complicanza viene dalla strana circostanza che anche il quarto dramma presentato da Eschilo nel 472 con i Persiani s’intitolava appunto Prometeo, come risulta dalla didascalia. Sulla base di una citazione del lessicografo Polluce (X, 64), il quale cita versi di un Promhqeùv purkaeúv (Prometeo che appicca il fuoco, non Prometeo che porta il fuoco come il purfórov) gli studiosi moderni hanno pensato che quello citato da Polluce fosse il quarto dramma (satiresco) dell’anno 472. Qualcuno9 ha anche identificato il purfórov e il purkaeúv come quarto dramma del 472. Ma quel dramma secondo la didascalia si chiamava semplicemente Prometeo. E forse non era necessariamente un dramma satiresco come invece doveva essere il purkaeúv, dove Prometeo scherzava con dei satiri (si poteva presentare anche una quarta tragedia, come fece Euripide con Alcesti).

Che il Prometeo giunto a noi con le altre sei tragedie di Eschilo sia in realtà dovuto ad un altro tragediografo (ciò che si sarebbe indotti a pensare soprattutto per la concezione – ben diversa rispetto ad Eschilo – che questo autore ha del mito delle Danaidi e della natura di Zeus) è ipotesi lecita. Oltre tutto, Eschilo era autore di vari Prometei tra i quali forse la tradizione antica non si orientava

X. Eschilo e Temistocle

169

più perfettamente. «Troppo facilmente – ha osservato WinningtonIngram a proposito della paternità del Prometeo – noi assumiamo, grazie ad Aristofane e ad Aristotele, che tre soli furono i grandi tragediografi e tutti gli altri invece non furono che dei modesti sceneggiatori». Note 1 J.P. Vernant, Le moment historique de la tragédie en Gréce [1968], in J.P. Vernant-P. Vidal Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, p. 5. Vernant fa riferimento a corsi universitari di Gernet rimasti inediti. 2 Die Entdeckung des Geistes [1948], trad. it., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1964, p. 162. 3 Storia del pensiero filosofico e scientifico, I, Garzanti, Milano 19732, p. 117. 4 L’intenzionale richiamo era segnalato dal grammatico Glauco di Reggio nella sua opera Perí Ai¬scúlou múqwn (su cui cfr. lo Scolio a Euripide, Ecuba, 41). 5 Anche in seguito noteremo il riproporsi di un tale atteggiamento da parte di Eschilo: né pare da respingere il circostanziato racconto di Plutarco, Vita di Cimone, 8, secondo cui nel 469/8 Cimone con gli altri nove strateghi sarebbe stato investito del giudizio nei concorsi tragici di quell’anno e avrebbe dato la palma a Sofocle, allora esordiente, anziché ad Eschilo. 6 Si data in base all’ascesa al trono di Artaserse I (Tucidide, I, 137). 7 Che è – sia detto in inciso – la virtù precipua di Temistocle nel celebre ritratto che traccia Tucidide quando racconta della sua fine (I, 138,3). 8 Il primo fu Westphal, nel 1856, ma la discussione è proseguita e prosegue fino ad anni recentissimi. 9 Ad esempio Wilhelm Schmid, vol. II, p. 203, n. 13.

XI SOFOCLE TRA PERICLE ED ALCIBIADE 1. Carriera pubblica Negli anni del massimo predominio di Pericle nella vita pubblica ateniese – gli anni subito successivi all’ostracismo di Tucidide di Melesia – Sofocle (497/6-406 a.C.) riveste, a breve distanza di tempo, due cariche politiche di estremo rilievo in Atene, entrambe in circostanze eccezionali. Nel 443/2 è componente, e presidente, del collegio dei dieci ellenotami, gli amministratori della cassa federale della lega delio-attica: un collegio reclutato, anche in tempi di democrazia radicale, soltanto tra componenti della più alta classe di censo, i pentacosiomedimni. Il suo nome, con l’indicazione del demo, si legge chiaramente nella lista dei tributi della lega, dell’anno 443/21. È un anno rilevante per gli amministratori dell’impero, i quali procedono, proprio in quell’anno, alla nuova valutazione dei tributi: non a caso nel 443/2 ci sono ben due segretari del collegio, uno dei quali resta in carica per due anni di seguito, contro la prassi, ampiamente attestata, di non iterare nessuna delle cariche relative alla cassa federale. Nel 441/40 Sofocle è nel collegio degli strateghi, capeggiato da Pericle, e con Pericle prende parte alla dura campagna di repressione contro la defezione di Samo2. Sul ruolo di Sofocle nella campagna samia disponiamo anche di una fonte contemporanea: di un ampio brano del libro di memorie del suo coetaneo, anche lui tragediografo, Ione di Chio, riferito da Ateneo nel XIII libro dei Deipnosofisti (pp. 603-604). Ione racconta di una allegra serata trascorsa a Chio con Sofocle «al tempo in cui, stratego, era in rotta per Lesbo» (p. 603F). Nel racconto di Ione il severo poeta dell’Antigone appare impegnato in una serata di allegre bevute e di caccia ai

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

171

baci dei bei fanciulli, garbatamente auto-ironico sulle proprie scarse capacità militari. Naturalmente non sappiamo fino a che punto tutto questo sia dovuto alla malizia del racconto di Ione, il quale non amava né Pericle né la democrazia ateniese, ma qui vuol dimostrare simpatia per Sofocle. Possiamo senz’altro ammettere che, scherzando inter pocula, soddisfatto per esser riuscito a baciare il fanciullo-coppiere, lo stratego Sofocle abbia ricordato una battuta di Pericle («Sai fare il poeta, non lo stratego», 604D); ma la frase di Pericle non va sopravvalutata come prova di un rapporto non buono tra i due, come ha suggerito Victor Ehrenberg, in un saggio di molti anni fa, dedicato appunto al rapporto tra Sofocle e Pericle. Resta il fatto che proprio da Pericle deve essergli stato affidato il compito di sbarcare a Chio e poi a Lesbo con una parte della flotta, per controllare due isole che potevano essere contagiate dalla ribellione di Samo. È soprattutto l’aver avuto accesso, a così breve distanza di tempo, e proprio in quegli anni, a quelle due rilevanti magistrature, che colloca, con ogni probabilità, Sofocle nell’entourage di Pericle. 2. Sofocle ed Erodoto In questo entourage ci sono – per quel che riusciamo a vedere – Anassagora, Protagora, Ippodamo di Mileto, Erodoto, Fidia e Aspasia. Protagora, Ippodamo ed Erodoto sono impegnati a vario titolo nella fondazione della colonia panellenica di Turii (cfr. p. 269), voluta da Pericle (444/3): Ippodamo fece il piano regolatore (Diodoro, XII, 10,7), Protagora scrisse le leggi della nuova colonia (Diogene Laerzio, IX, 50), Erodoto ne assunse la cittadinanza, e nel preambolo delle sue Storie si proclamò «turio». Ed è appunto Sofocle che rivolge un’ode di saluto ad Erodoto in partenza per la nuova colonia. Plutarco ne tramanda l’inizio nel trattato Se la politica si addica agli anziani (785B), il che ci consente di datare l’ode, giacché proprio nei primi versi Sofocle precisava di avere, in quel momento, cinquantacinque anni. Questa fortunata combinazione ci consente dunque di osservare Sofocle in rapporto con l’ambiente pericleo nel momento in cui si attuava una delle più impegnative iniziative della politica estera di Pericle, e proprio negli anni dell’intenso impegno di Sofocle nella vita pubblica. Se dunque la Vita sofoclea anonima (§ 6) parla di un «tiaso consacrato alle Muse» che

172

Il teatro: un mestiere nella polis

Sofocle raccolse intorno a sé «attingendo alle persone colte» (e¬k tøn pepaideuménwn), sembra lecita l’ipotesi che si sia trattato di un circolo in cui poterono incontrarsi appunto i personaggi in vista dell’Atene artistica e politica gravitante intorno a Pericle e ad Aspasia, tra i quali, come è noto, appunto Erodoto. Dell’opera di Erodoto – nota in Atene per le pubbliche letture fattene dallo storico – Sofocle ha inserito alcuni particolari nelle sue tragedie. È, da parte sua, un omaggio a Erodoto. Meglio lo si comprende se ci si pone nell’ottica dell’autore di teatro. Egli produce drammi su drammi, quasi ogni anno, destinati ad essere subito consumati e presto soppiantati, nell’attenzione del pubblico, dai nuovi, quelli della prossima gara. È un autore dunque di opere per così dire ‘effimere’ che guarda all’opera dello storico come ad un’opera ‘durevole’ e durevolmente presente nella memoria del pubblico. Il tragediografo ha voluto di tanto in tanto riprendere motivi, episodi, sentenze dell’opera erodotea – di un’opera da lui sentita come affine spiritualmente –, ed inserirli, anche senza una straordinaria pertinenza, in alcuni drammi. Non deve perciò stupire che, ad una lettura meditata (ma le opere teatrali non erano destinate a lettura meditata), tali citazioni appaiano quasi forzate, se non stravaganti. È il caso, ad esempio, della più celebre: la ripresa, da parte di Antigone, delle parole che Erodoto fa pronunciare alla moglie di Intaferne, uno dei congiurati contro Dario. Dario ha offerto alla donna di scegliere chi debba essere messo a morte della sua famiglia, il marito o il fratello o i figli, tutti sospettati di aver congiurato contro il re, ed essa – racconta Erodoto (III, 119,6) – non ebbe dubbi nel chiedere la salvezza del fratello dicendo: «Mio re, di marito io posso averne un altro, se la divinità lo vuole, e altri figli, se perdo questi; ma, non essendo più in vita mio padre e mia madre, un altro fratello non potrei più averlo in nessun modo». Antigone svolge il medesimo ragionamento, e, poiché non ha né marito né figli, presenta la sua scelta in forma di ipotesi, il che rende ancora più evidente l’intenzionalità della citazione: «Se io fossi madre, e si trattasse dei miei figli, o se il mio sposo, morto, marcisse insepolto, io non mi accollerei questa pena in contrasto coi miei cittadini. In omaggio a quale principio dunque dico questo? Di marito, morto uno, ne avrei un altro, e avrei anche un figlio, da un altro uomo, se perdessi questo: ma ora che la madre e il padre riposano nell’Ade, non c’è altro fratello che possa fiorirmi» (vv. 905-912).

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

173

Il ragionamento è parso stravagante, e certo sembra costruito apposta per incastonare la citazione erodotea, da parte di un personaggio – Antigone – che è in una condizione del tutto diversa da quella della moglie di Intaferne. Altrettanto voluto è, nell’Edipo a Colono, il riferimento ad una notizia erodotea sull’Egitto (II, 25). Essa è fornita inaspettatamente da Edipo nel biasimo che rivolge ai figli che lo hanno abbandonato mentre le figlie lo hanno seguito nella sventura: «La loro natura e il loro modo di vita è in tutto simile a quello degli Egizi! Lì i maschi stanno a casa a tessere, e le loro donne vanno sempre fuori a procurare il necessario per vivere» (vv. 337-341). La sortita etnografica di Edipo disperato e deluso dai figli non ha molto senso. Molti studiosi moderni, incoraggiati da un estemporaneo giudizio di Goethe, hanno cercato di togliere ad Antigone quello strano ragionamento, dichiarando spuri quei versi e rimuovendoli, in tutto o in parte, dal contesto. «Pagherei qualche cosa – diceva Goethe in una conversazione del 28 marzo 1827 riferita da Eckermann –, se un valente filologo ci dimostrasse che è interpolato e non genuino. Dopoché l’eroina, nel corso del dramma, ha esposto magnificamente le ragioni del suo atto e mostrata tutta la nobiltà della sua purissima anima, quando poi va alla morte, esce in un motivo assolutamente infelice e che quasi rade il comico. Ciò che ha fatto per il fratello, ella dice, non l’avrebbe fatto, se fosse stata madre, per i figlioli morti, non l’avrebbe fatto per il marito morto. [...] Questo è il nudo senso almeno di questo luogo, che, in bocca all’eroina che va alla morte, distrugge il sentimento tragico, e mi sembra molto ricercato, e mi sa persino di calcolo dialettico. Come dicevo, avrei piacere che un buon filologo ci dimostrasse che quel passo è spurio»3.

Però già Aristotele conosce quei versi (Retorica, 1417a32-33); e comunque il caso, analogo, dell’Edipo a Colono dovrebbe scoraggiare quei tentativi. L’Antigone è dello stesso anno (442) dell’ode ad Erodoto. Secondo la notizia contenuta in un «Argomento» risalente al grammatico Aristofane di Bisanzio, il successo dell’Antigone precedette infatti di poco la strategia di Sofocle (441/40) ed anzi fu causa della prestigiosa elezione. Saggezza erodotea è presente anche altrove in Sofocle. Una celebre lettura erodotea fu certamente quella sul-

174

Il teatro: un mestiere nella polis

l’incontro tra Creso e Solone (cfr. p. 282): esaltazione del saggio legislatore ateniese che aveva certo in Atene una appropriata cornice. Il punto culminante del celebre dialogo tra il saggio ateniese ed il sovrano lidio è il rifiuto di Solone di proclamare Creso «felice»: non posso dirti felice finché non avrò saputo che hai concluso felicemente la tua vita (I, 32). È, alla lettera, quello che dice Edipo (o forse il coro: vi è incertezza nella tradizione) al termine dell’Edipo re. Immancabile, più d’uno studioso ha sospettato che si tratti di aggiunte di attori, sebbene lo stesso pensiero sia espresso da Deianira al principio delle Trachinie. Insomma quei riferimenti ad Erodoto sono innegabili, proprio perché così vari, insistenti, e diffusi nell’opera superstite. Ad una parte del pubblico dovevano riuscire comprensibili, ragion per cui Sofocle se li è consentiti. Talora possiamo intuire una qualche ragione biografica, come nel caso dell’Antigone, omaggio ad Erodoto nell’anno in cui lo storico partiva per Turii. Altre volte possiamo solo formulare generiche considerazioni, e comunque constatare che ancora nell’ultima sua tragedia, rappresentata postuma, l’Edipo a Colono, Sofocle ha voluto ricordare lo storico ateniese di adozione che gli era stato vicino negli anni periclei. 3. L’esperimento ‘pericleo’ Ma che vuol dire, nei tardi anni ’40 del V secolo, dopo la liquidazione politica di Tucidide di Melesia, per un pentacosiomedimno come Sofocle, essere «pericleo»? Ione di Chio, che considera con bonaria ironia Sofocle e con antipatia l’impero di Atene, schizza di Sofocle politico questo riduttivo ritratto: «In politica non valeva molto, né si dava molto da fare: se ne occupava alla maniera di un Ateniese di buona famiglia» (Ateneo, 604D; Ione adopera il termine tecnico indicante i ceti alti, chrestòs; dice esattamente: «se ne occupava come un chrestòs»). «Un buon carattere», dirà di lui appena morto, e con una punta di ironia, Aristofane nelle Rane (v. 82). In realtà il ceto dirigente che guida l’Atene democratica è per lo più costituito di gente «ben nata». Per cui il giudizio di Ione può significare semplicemente che Sofocle faceva politica come era usuale che la facessero molti altri chrestòi: accettava appunto il fatto irreversibile (tale sembrava) del sistema democratico e ricopriva un certo numero di cariche (per esempio quelle riservate alle classi al-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

175

te). Trovava perciò il contesto più favorevole proprio nell’Atene periclea. Finita infatti la contrapposizione con Tucidide di Melesia, erede politico di Cimone, l’unificazione, anche dei ceti alti, intorno alla democrazia «guidata» fu il carattere precipuo degli anni del dominio incontrastato di Pericle, fino allo scoppio della guerra nel 431. Una mente critica ostile al predominio popolare, qual è lo storico Tucidide, esprime soddisfazione per l’equilibrio realizzato da Pericle (II, 65: «di nome era una democrazia, di fatto il governo del primo cittadino»), ed accentua proprio l’elemento di dominio sul popolo anziché del popolo affermatosi in quegli anni: «[Pericle] non era guidato dal popolo, ma, piuttosto, lo guidava [...] e quando lo vedeva troppo tracotante lo spaventava coi suoi discorsi fin quasi ad atterrirlo, e quando al contrario vedeva i cittadini timorosi senza motivo, a sua volta era lui ad innalzarli d’animo». Tucidide vagheggia questo ideale del popolo-oggetto e del politico plasmatore: il regime pericleo, quale egli lo descrive, dev’essere apparso rassicurante ai chrestòi; non a caso, alla fine, creò scontento tra i democratici radicali come Cleone, affiorante alla politica negli ultimi anni di Pericle. È nel quadro di questo esperimento di democrazia guidata aperta alla collaborazione delle classi alte che Sofocle, come Nicia, Alcibiade e tanti altri «ben nati», può definirsi politicamente «pericleo». 4. Sofocle e Pericle: «Aiace» e «Antigone» È prevalsa a lungo, nella storiografia moderna, l’immagine di Sofocle interprete dello «spirito» dell’Atene periclea. Nel 1954 apparve il saggio di Ehrenberg, intitolato appunto Sofocle e Pericle, rivolto essenzialmente a ridimensionare questa tesi, a stabilire semmai, soprattutto attraverso l’analisi dell’Antigone, una tensione tra il politico (Pericle) – realista e tutore dei valori statali –, ed il poeta (Sofocle), lontano dalle durezze realpolitiche e portato ad affermare soprattutto i valori umani delle «leggi non scritte», di cui in certo senso Antigone sarebbe il simbolo, e che si porrebbero quasi fatalmente in antitesi rispetto alle leggi positive dello Stato (di ogni Stato, parrebbe di capire). Antigone è forse, nell’esigua schiera della superstite produzione sofoclea, la tragedia cui è toccato, più che ad ogni altra, il compito di impersonare i ‘veri’ pensieri di Sofocle. Non a caso Ehrenberg, nel

176

Il teatro: un mestiere nella polis

proporre la sua interpretazione, si contrapponeva ad un’altra, assai celebre e fortunata, interpretazione, fondata anch’essa sulla lettura dell’Antigone: quella di Hegel. Per Hegel, il contrasto – distruttivo per entrambi – tra Creonte ed Antigone, l’uno simboleggiante lo Stato, l’altra la famiglia, rinviava ad una superiore unità, nella quale la cellula (la famiglia) e l’organismo (lo Stato) dovrebbero essere in armonia, non in opposizione4. Hegel – ha osservato Ehrenberg – faceva di Sofocle un hegeliano: laddove – prosegue – Sofocle non aspira affatto a tale superiore composizione, egli sa che «Antigone deve morire perché sia distrutto il mondo di Creonte, perché trionfi l’ordine di Antigone, cioè, potremmo dire, dello stesso Sofocle». Ciò che però resta poco chiaro, in una tale impostazione, è perché debba ritenersi che «l’ordine di Creonte» ci riporti a Pericle. In questo presupposto, Ehrenberg resta hegeliano, assume – appunto secondo l’impostazione hegeliana – che Creonte sia «lo Stato»: e quindi, in età periclea, lo stesso Pericle, al quale addirittura alluderebbe Antigone, al principio della tragedia, quando chiama Creonte «lo stratego». Al contrario Creonte è il tiranno, è dunque la negazione di quello che, nella mentalità ateniese, è l’ordine della comunità statale. È stato osservato che il protagonista fisso e demonizzato del teatro tragico ateniese è appunto il tiranno (Lanza). Forse bisogna evitare di applicare in modo meccanico questa constatazione; certo è però che nell’Antigone la centralità negativa del tiranno è dominante. Creonte vieta ogni forma di sepoltura per Polinice. È qui il suo arbitrio: non solo vieta la sepoltura entro i confini della città, Tebe, contro cui Polinice aveva rivolto le armi, ma qualunque sepoltura. L’insensato divieto si esercita dunque su di un terreno, quello appunto della sepoltura, quanto mai delicato e sacrale, come ben sa Sofocle, memore della riflessione erodotea (III, 38) sull’orrore che ogni popolo prova per l’infrazione delle proprie usanze funerarie. Basterebbe questo elemento per chiarire che Creonte non è ‘lo Stato’ e tanto meno Pericle, ma il tiranno: il folle che, come Cambise in Erodoto (il quale cercava di imporre ai Greci i modi di sepoltura degli Indiani, e viceversa) viola i diritti di sepoltura. Antigone, sorella di Polinice, infrange ripetutamente il divieto di Creonte, finché non viene sorpresa dalle guardie e condotta dinanzi al sovrano. Creonte farà applicare nei suoi confronti, pur nel raccapriccio del figlio Emone, la pena capitale prevista dal suo feroce editto. Nel dialogo in cui Creonte ed Antigone sono di fronte, Antigone afferma la celebre distinzione tra i «proclami» di

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

177

Creonte (v. 453) e le «leggi non scritte e stabili degli dèi» che «nessun essere umano può violare» (vv. 454-455). È un punto cardine della caratterizzazione di Antigone. Ma va osservato che l’intrepida antagonista di Creonte non oppone le leggi scritte a quelle non scritte, bensì gli editti del tiranno Creonte («i tuoi editti») alle leggi divine che, quand’anche non scritte, hanno durevole validità. Pronunciata la condanna di Antigone, Creonte va incontro alla propria rovina. Ha un aspro contrasto col figlio Emone, che ama Antigone e cerca, senza successo, di mostrare a Creonte che tutta la città disapprova il suo operato. In questo contrasto con Emone, Creonte impersona paradigmaticamente il tiranno. «È forse la città che deve dirmi quali ordini debbo emanare?» chiede al figlio (v. 734); Emone gli risponde con la celebre sentenza in cui si riconosce la città antica: «Non è città quella che è di uno solo» (v. 737), cui Creonte oppone l’ideologia del tiranno: «La città non è forse di chi la domina?» (v. 738). A distogliere Creonte dalla sua cecità tirannica sopraggiunge Tiresia, l’indovino, che gli addita i segni sinistri indicanti che la città è ormai contaminata a causa del cadavere insepolto di Polinice. Ma Tiresia viene scacciato e lancia contro Creonte una terrificante maledizione. Scosso, alfine, Creonte avrà solo il tempo di assistere al suicidio di Emone, che si trafigge sul cadavere di Antigone, e di apprendere, frastornato e ammonito dal coro, del suicidio della propria moglie Euridice. Anche l’Aiace, la tragedia che si suole ritenere di qualche anno precedente l’Antigone, ruota intorno ad un divieto di sepoltura. Reso folle da Atena, Aiace, esasperato perché le armi di Achille sono toccate a Odisseo, ha massacrato inermi armenti, credendo di massacrare gli Achei. Al principio della tragedia Atena vorrebbe che Odisseo gioisse alla vista dell’umiliazione del suo nemico: ma Odisseo è riluttante e ne ha solo pena. Quando Aiace, ritornato in sé e agghiacciato per la vergogna di cui si è coperto, si darà la morte, Menelao vorrà impedirne la sepoltura con l’argomento che Aiace è stato da sempre un nemico ed alla fine un pericoloso nemico: dargli sepoltura sarebbe un insensato atto di debolezza. Qui Menelao formula, in un’ampia tirata oratoria, la teoria della «paura» (dèos) come necessario fondamento dell’ordine: «Neanche nelle città le leggi sarebbero rispettate, se non ci fosse il timore. Chiunque, anche l’uomo più forte, deve sapere che non può scampare alla punizione, per lieve che sia la sua infrazione [...] La città

178

Il teatro: un mestiere nella polis

dove è lecito compiere eccessi e fare quello che pare a ciascuno passerà prima o poi dal vento in poppa al baratro. Credimi: ci deve essere una salutare paura» (vv. 1073-1084).

Alla fine sarà Odisseo ad ottenere che gli Atridi recedano dal rigido diniego, e darà sepoltura ad Aiace, pietosamente aiutando Teucro e Tecmessa, fratello e moglie dell’eroe suicida. È notevole come sia il nesso timore/rispetto delle leggi (illustrato da Menelao) sia la rivendicazione dell’indiscussa validità delle leggi non scritte (propria di Antigone) trovino rispondenza in uno degli svolgimenti capitali dell’epitafio pronunciato da Pericle nel 430, secondo la rielaborazione che ne dà Tucidide: «Nelle relazioni private non siamo affatto aspri, ma nella vita pubblica è il timore [dèos] che ci impedisce di trasgredire la legge: il timore dei magistrati volta a volta in carica, e il timore delle leggi. Soprattutto di quelle leggi che garantiscono assistenza a chi subisce un torto, e di quelle che, quantunque non scritte, per generale consenso portano infamia, se violate» (II, 37,3).

Certo si può sottilizzare sulla rispondenza al vero del Pericle tucidideo: sta di fatto che è l’unico che conosciamo (già Plutarco non ha saputo caratterizzarlo diversamente). Egli è da un lato il duro politico che liquida Tucidide di Melesia e guida la repressione di Samo (cui ha partecipato anche Sofocle), dall’altro – e al tempo stesso – l’assertore dell’Atene idealizzata dell’epitafio. Pericle è stato, nella sua cerchia, suscitatore di una circolazione di idee, anche critiche, anche audaci, per le implicazioni che comportavano. Ed in questo non si è lasciato vincolare dal proprio interesse immediato come politico: basti pensare agli incidenti, così rischiosi per la sua popolarità, causatigli dalla inquietante libertà di pensiero propria di persone a lui vicine, come Aspasia o Anassagora. Il suo rapporto con la comunità democratica si è svolto per così dire su due piani: quello della critica spregiudicatamente praticata e portata all’estremo, nel suo entourage, e quello di una verità più semplice, calata dall’alto, per l’educazione politica del demo (lo rivela garbatamente lo stesso Pericle ad Alcibiade ancora apprendista della politica, nel dialogo riferito da Senofonte, Memorabili, I, 2,40-46). Tale educazione si è sforzato di impartirla egli stesso, nei suoi rari e

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

179

significativi interventi oratori, dei quali Tucidide ha saputo darci l’esempio ideologicamente più rilevante nell’epitafio. Il teatro sofocleo – per lo meno l’Aiace e l’Antigone, che cadono appunto negli anni periclei – è un altro dei tramiti attraverso i quali i valori maturati nel livello più alto, sia pure attraverso quei colossali burattini che sono i personaggi del mito, vengono trasmessi alla comunità: è uno dei canali dell’educazione politica dell’Atene periclea. Perciò l’insistente ricorso, in quelle tragedie, della riflessione sulle leggi e sulla polis. Perciò, nel primo stasimo dell’Antigone, vediamo Sofocle prospettare e insieme criticare pensieri della coeva sofistica («l’uomo è la cosa più bella della natura»: vv. 332-333), e troviamo l’esaltazione delle risorse straordinarie del pensiero umano «veloce come il vento» e al tempo stesso la nozione del suo limite («non ha escogitato come evitare la morte»); e da ultimo l’auspicio di una armonia tra leggi e insegnamento divino. Rare volte la democrazia politica è stata intesa, come nell’Atene periclea, non già come l’esercizio del prevalere di una astratta ‘maggioranza’ aritmetica quanto come la sede per la trasmissione (certo non sempre idilliaca né priva di traumi) di contenuti e di valori: sotto l’impulso di una élite che Pericle ha saputo guidare, armonizzare con la città, esaltare nelle sue capacità creative. Tra gli interpreti di una tale élite vi è Sofocle, il quale di quei valori si è fatto tramite sulla scena, cioè nella sede più influente per la formazione delle coscienze nella città antica. 5. «Edipo re»: la falsa equazione Edipo-Pericle Non è casuale perciò che Sofocle appaia – per lo meno in alcune delle poche tragedie superstiti – così vicino al Pericle dell’epitafio e ad Erodoto. Alla città, al demo – che nella sua concezione della democrazia deve essere «guidato» – Pericle destina l’immagine composta dell’epitafio, paga di valori certi, non dilemmatica o distruttivamente critica come quella che percorre il teatro euripideo. Ma destina anche una rasserenante educazione (didaskalìa definisce egli stesso le sue parole: Tucidide, II, 42,1) ad accettare il dolore (II, 44). Perché della coesione sociale di una comunità fanno parte anche l’accettazione della sofferenza e della sconfitta (quasi sempre inspiegabile) dell’uomo giusto – è il caso dei tanti incolpevoli infelici che popolano la scena –, la nozione del limite, e – insieme – la

180

Il teatro: un mestiere nella polis

fiducia nella validità e nell’efficacia di leggi superiori a quelle scritte, sentite come leggi ‘naturali’ o se si vuole dovute agli dèi, immuni dunque dall’opinabilità e vulnerabilità della legislazione positiva. È il filo conduttore che collega i tre stasimi dell’Edipo re. Nel primo vi è la nozione della superiorità del sapere divino, unita però alla rivendicazione di una conoscenza verificata, non autoritaria, come può essere quella misteriosamente assertiva di un indovino: «Zeus ed Apollo sono capaci di intendere e conoscono gli eventi degli uomini. Ma che, tra gli uomini, un indovino sia da più di me, non è giudizio veritiero. Un uomo può avere più o meno conoscenze [sophìa] di un altro, ma io, prima di aver visto che una parola è esatta, mai assentirò alle dicerie malevole» (vv. 498-506). È il tema della conoscenza come premessa di qualunque azione, indicata nell’epitafio come caratteristica degli Ateniesi (Tucidide, II, 40). Il secondo stasimo contiene la denuncia del tiranno, visto come colui che ha infranto il limite «saziandosi» di una conoscenza eccessiva, che lo esalta per poi precipitarlo nell’abisso della necessità, «e qui non ha più fermo piede che lo regga». Al tiranno si oppone la «buona gara», l’emulazione (pàlaisma) «giovevole alla città», che il coro chiede agli dèi non sia mai spenta (vv. 872-880). È il quadro del civile e reciprocamente rispettoso gareggiare che, secondo Pericle, connota quell’unicum che è, a suo dire, il sistema politico ateniese (Tucidide, II, 37). Il terzo è il più strettamente legato alla risoluzione tragica della vicenda, alla rivelazione che distrugge la vita di Giocasta e segna il destino di Edipo. È il canto della disperazione nichilista: «Progenie dei mortali, pari al nulla io valuto la vostra vita. Di felicità non più che un apparenza hanno gli umani, e anche questa, appena avuta, subito declina» (vv. 1186-1192). Edipo, che nel corso di tutta la tragedia ha cercato e temuto quella verità che Giocasta ha intuito ben prima di lui, ne ha ormai avuto la irreparabile conferma: si è scoperto d’un tratto, insieme, parricida e sposo incestuoso della propria madre; e deve essere compianto. Il coro che al principio si era dichiarato diffidente verso gli indovini (cioè verso Tiresia, che nel primo episodio aveva detto in modo sibillino quanto bastava per allarmare Edipo), il coro che poi si è ritratto dinanzi alla metamorfosi di Edipo da sovrano premuroso in tiranno, ora che tutto si è chiarito, non condanna il vinto Edipo ma piange la condizione umana in generale, e trae dalla illusione di felicità che è propria dell’uomo la drastica equazione tra la vita e il nul-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

181

la. È il tema erodoteo della suprema felicità della morte, che rende Solone incomprensibile – prima ancora che odioso – all’arrogante ed insicuro Creso. È il tema del terzo stasimo dell’Edipo a Colono: «Non nascere: questa è la parola migliore. Oppure, quando si è nati, tornare al più presto là donde sei venuto» (vv. 1224-1227). Approdo concettuale che Sofocle formula serenamente – e ciò è tipico della sua capacità di armonizzare – proprio nel dramma suo ultimo, in cui ripescando un’antica leggenda locale dell’Attica, dà requie al vagare senza luce di Edipo, chiamato tra gli dèi e dotato di un culto eroico, a Colono, nel bosco delle Eumenidi. Paiono dunque davvero inutilmente avventurosi gli sforzi profusi a più riprese a sostegno di una ipotizzata identificazione Edipo-Pericle. Oltre tutto non siamo in grado di stabilire se l’Edipo re fosse rappresentato prima o dopo la morte di Pericle, avvenuta durante l’epidemia pestilenziale del 429. A chi ha pensato che la pestilenza con cui si apre la tragedia alludesse appunto al contagio che aveva martoriato Atene nell’ultimo anno di vita di Pericle (opinione tuttora in voga) si è obiettato che qualunque drammaturgo avrebbe evitato il doloroso richiamo (Weil), e soprattutto che la «peste» dell’Edipo re ha tratti generici, che comunque la fonte più ovvia, per una situazione come quella che la tragedia offre al principio (una città in preda alla peste perché il sovrano ha compiuto una infrazione sacrale) è l’inizio dell’Iliade. Poco persuade anche il terminus ante quem escogitato da Friedrich Marx, secondo cui la esclamazione faceta w® póliv póliv di Diceopoli al principio degli Acarnesi di Aristofane (v. 27) sarebbe parodia (nel gennaio del 425) dell’analoga esclamazione di Edipo nel serrato dialogo con Creonte al v. 629 dell’Edipo re. Ma póliv póliv ricorre anche nell’Andromaca di Euripide (v. 1222: e dieci versi prima w® póliv): e dunque nulla esclude che il bersaglio di Aristofane sia quello consueto, cioè appunto Euripide, non Sofocle. E comunque Diceopoli – il cui nome significa «città giusta» – esclamando in quel modo scherza sul proprio nome.

6. Sofocle probulo e la crisi del 411 La diretta partecipazione di Sofocle alla vita politica proseguì anche dopo la morte di Pericle. Una notizia di Plutarco, di cui non vi è ragione di dubitare, attribuisce a Sofocle una nuova strategia, questa volta insieme con Nicia (Vita di Nicia, 15,2). Ciò sembra confermato da un passo della Vita anonima (§ 9), che attesta la parte-

182

Il teatro: un mestiere nella polis

cipazione di Sofocle alla campagna contro gli Anei, che ebbe luogo nel 428, anno nel quale fu stratego anche Nicia (Tucidide, III, 51). Il contesto plutarcheo mostra Sofocle, ormai quasi settantenne, in atteggiamento di deferente cordialità nei confronti del più giovane, ma politicamente più autorevole, Nicia. Così Sofocle ci appare impegnato, nel dopo-Pericle, accanto al più ortodosso erede della politica periclea. È notevole, per la comprensione dell’atteggiamento di Sofocle, dedito alla vita cittadina tanto quanto Euripide se ne è tenuto ai margini, il fatto che alla fine dell’estate del 413 egli abbia accettato di entrare a far parte del collegio dei dieci probuli. A costoro – dopo il disastro della flotta ateniese a Siracusa – fu affidato il compito, secondo la precisa notizia di Tucidide, di «preordinare le decisioni politiche» (VIII, 1,3). Che uno di quei dieci fosse Sofocle sembra ricavarsi dalla Retorica di Aristotele (1419a25), anche se non sono mancati studiosi che hanno pensato ad un altro Sofocle: sembra però che si tratti del poeta, dato che nell’immediato contesto è citata ripetutamente l’Antigone. La figura dei probuli merita attenzione e può suscitare qualche equivoco. In genere si tratta di una magistratura che ha poteri superiori a quelli del Consiglio, ed è, secondo Aristotele, tipica delle oligarchie (Politica, 1299b30-38). Proprio il suo carattere di corpo ristrettissimo, cui il normale consiglio cittadino viene a subordinarsi, ne fa un organismo adatto agli ordinamenti oligarchici. Nel caso però dei dieci «anziani», come li definisce Tucidide, scelti in Atene all’indomani del disastro siciliano per far fronte ad una situazione eccezionalmente grave, si deve osservare che non si tratta di un organismo inteso come permanente, ma, appunto, legato ai provvedimenti straordinari richiesti dal grave momento: primi fra tutti, precisa Tucidide, la ricostruzione di una flotta, il controllo sugli alleati, l’approvvigionamento della città; il popolo, commenta, come suole nei momenti di pericolo «era pronto ad una condotta disciplinata». Vi è dunque, nell’inverno 413/2, una consapevole autodisciplina popolare, sotto la guida dei dieci autorevoli anziani, quale l’ottantacinquenne Sofocle, depositari della generale fiducia. Questo stato di cose è durato un anno e mezzo, fino all’instaurazione, nel maggio-giugno del 411, dell’oligarchia detta dei «Quattrocento». Ci sono due racconti sulla presa del potere da parte oligarchica: quello di Tucidide e quello di Aristotele nella Costituzione di Atene. Quello tucidideo è tutto rivolto a cogliere la dinamica profonda, sostanziale, del colpo di Stato, e perciò pone l’accento sull’azione occulta eppur efficace dei con-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

183

giurati e lascia in ombra i livelli formali dell’operazione. Il racconto aristotelico, proprio perché inquadrato in una storia delle trasformazioni costituzionali dello Stato ateniese, riguarda essenzialmente le forme giuridiche attraverso cui fu possibile instaurare un regime oligarchico in Atene. Così apprendiamo, dal resoconto aristotelico, che il progressivo esautoramento dei tradizionali organismi democratici avvenne appunto attraverso un allargamento da dieci a trenta del collegio dei probuli (Costituzione di Atene, 29,2). Va da sé che i congiurati hanno potuto così collocare i propri uomini in tale organismo provvisorio, incaricato – secondo il decreto di Pitodoro, citato da Aristotele – di un unico compito ampio e meritorio: «fare proposte per il bene della città». Sia Tucidide (VIII, 67,2) che Aristotele (29,4) concordano nell’attribuire ai trenta commissari un unico provvedimento, quanto mai liberale nella forma, in realtà letale per il sistema democratico: l’abrogazione delle «accuse di illegalità». Questo provvedimento, che rendeva illimitata la libertà di parola, rese possibile agli oligarchi – che ormai minacciosamente sempre più egemonizzavano l’assemblea – di presentare e far passare impunemente (senza incorrere, per l’appunto, in una accusa di illegalità) la disposizione da sempre agognata: l’abrogazione del salario per le cariche pubbliche. Così veniva demolito il fondamento della democrazia costruita da Efialte e Pericle. Dalla stessa assemblea che abrogò il salario per le cariche pubbliche emerse, in un modo che Tucidide e Aristotele descrivono in maniera diversa, il nuovo organismo di quattrocento commissari da cui l’effimero esperimento oligarchico prese il nome. I probuli furono dunque ben presto travolti ed il loro ruolo, dopo che fu caduto ogni vincolo alla libertà di parola, divenne nullo. Essi scomparvero dunque dalla scena dopo avere, per passività o paura o ingenuità politica o per tutte queste ragioni insieme, creato le premesse formali perché il colpo di Stato avesse un andamento legale. «Dovevano restaurare lo spirito pericleo – scrisse Wilamowitz nell’Introduzione alla tragedia greca – e invece per debolezza passarono la mano all’oligarchia». Caduta l’oligarchia, dopo circa quattro mesi di governo inefficace, nella tarda estate del 411, alcuni dei capi fuggirono nel campo spartano, altri, come Antifonte, restarono in Atene e furono condannati a morte. Alcuni dei fuggiaschi – non sappiamo perché – tornarono dopo un po’ in Atene ed affrontarono un processo: per esempio Aristarco, che aveva fatto cadere la fortezza di Oinoe in mano ai Tebani, tornò ad Atene ed ebbe un regolare processo (Senofonte, Elleniche, I, 7,28). Anche Pisandro, uno dei maggiori responsabili, ritornò e tentò di coinvolgere nel processo, di cui ignoriamo l’esito, anche il vecchio ex-probulo Sofocle.

184

Il teatro: un mestiere nella polis

Aristotele, nel passo della Retorica in cui attesta che Sofocle era stato tra i probuli, riferisce anche il drammatico scambio di battute che si svolse tra i due, evidentemente in tribunale: «Sofocle, alla domanda di Pisandro, se fosse stato d’accordo anche lui, come gli altri probuli, sulla instaurazione dei Quattrocento, riconobbe di sì. Allora Pisandro: “E come? Non ti parve che fosse una pessima cosa?”. Sofocle ammise anche questo. E Pisandro: “Allora ammetti di essere stato partecipe anche tu di questa pessima impresa!”. “Sì – rispose Sofocle –, perché in quel momento non c’era di meglio”» (1419a25-29).

È in questo clima, caratterizzato dalla restaurazione democratica, dalle rinnovate vittorie navali, dalle speranze tutte puntate su Alcibiade ancora esule ma da più parti invocato, che si colloca il Filottete, l’unica tragedia superstite di Sofocle per la quale sia attestata con esattezza la data di rappresentazione: le Dionisie del 409. 7. «Filottete» e il rientro di Alcibiade in Atene È una cerimonia politicamente importante, quella delle Dionisie di quell’anno, perché comprende l’incoronazione di Trasibulo di Calidone, uno degli uccisori di Frinico (esponente dei più in vista tra i Quattrocento). È conservato il decreto, proposto da Erasinide (che poi fu uno degli strateghi delle Arginuse) nel quale sono descritte le modalità della cerimonia che sta per svolgersi «in occasione delle gare alle Dionisie» (IG I2 110). L’attentato contro Frinico era stato un episodio traumatico, e, sul momento, alquanto oscuro: uno dei due attentatori era stato catturato, ma non aveva fatto nomi (Tucidide, VIII, 92,2). Solo in un secondo momento, caduta l’oligarchia e trascorso anche il cosiddetto periodo dei «Cinquemila», fase di trapasso verso la piena restaurazione democratica, era emerso il nome di Trasibulo Calidonio, un meteco di sentimenti democratici, che ricevette, come ricompensa per il meritorio attentato, il prezioso dono della cittadinanza ateniese. Invero le cose non si erano mai chiarite del tutto, tanto che – si disse – qualcuno aveva pagato il promotore del decreto che premiava Trasibulo Calidonio per farvisi includere almeno come congiurato («benefattore»). Così, secondo Lisia, era potuto accadere che un certo Agorato, il quale divenne poi un manutengolo dei Trenta, si era tro-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

185

vato a figurare tra quelli che avevano dato una mano a far fuori Frinico (Lisia, 13, 72). Comunque la cerimonia delle Dionisie del 409 tagliava corto con tutte queste beghe, e suggellava, con la corona concessa a Trasibulo, il ripristino, da poco compiutosi, della piena e tradizionale democrazia. La restaurazione democratica era avvenuta per gradi. Teramene, che aveva pilotato abilmente la liquidazione dei Quattrocento (del cui collegio peraltro aveva fatto parte egli stesso), aveva tentato di frenare il processo di ritorno al passato; ma le grandi vittorie navali conseguite dalla flotta ateniese nello stretto dei Dardanelli – Sesto, Abido, Cizico (marzo 410) – resero inevitabile tale processo. Esse erano state conseguite da quei marinai e da quei comandanti che all’oligarchia non si erano mai piegati ed anzi avevano costituito immediatamente, nell’isola di Samo, una specie di contro-Stato, una sorta di Atene in esilio con suoi organismi politici e con un suo collegio di dieci strateghi. Una duplicità di poteri per cui, per quegli anni, risultano ben due collegi: gli strateghi «di Samo» e quelli «dell’oligarchia». A Samo erano state ben presto aperte le porte ad Alcibiade, l’esule, condannato in contumacia per lo scandalo dei misteri, il quale – dopo una breve esitazione ed intuendo la sostanziale ostilità dei Quattrocento nei suoi confronti – si era tenuto fuori dalla trama oligarchica. Già subito, alla caduta dei Quattrocento, Teramene si era affrettato a far votare un decreto per il ritorno di Alcibiade (Tucidide, VIII, 97,3; Cornelio Nepote, Vita di Alcibiade, 5,4). Ma Alcibiade non aveva gradito di ritornare per concessione dell’abile e alquanto compromesso «coturno», come Teramene veniva soprannominato per la straordinaria ambiguità politica (il coturno è un calzare che si adatta ad entrambi i piedi). Era rimasto con la flotta, ed era divenuto ben presto il vero artefice delle nuove vittorie ateniesi: più efficace, e clamorosa, l’ultima, quella di Cizico, nel marzo 410. Durante la battaglia era morto Mindaro, il navarco spartano. Dopo la rotta il suo vice aveva mandato a Sparta un disperato messaggio, che però fu intercettato dagli Ateniesi e diede loro la nozione esatta della gravità della sconfitta spartana: «Mindaro è morto – diceva il dispaccio –, la ciurma ha fame, non sappiamo cosa fare» (Senofonte, Elleniche, I, 1,23). Poco dopo Alcibiade entrava trionfalmente a Bisanzio. Atene riebbe il dominio sugli stretti; impose un dazio a tutte le navi in transito dal e per il Mar Nero; le casse dello Stato si riempirono di nuovo. Sparta chiese la pace. Il rifiuto opposto dagli Ateniesi, persuasi di poter conseguire ormai

186

Il teatro: un mestiere nella polis

una piena vittoria, fu dovuto – secondo Eforo (Diodoro, XII, 53) – al prevalere dell’orientamento di Cleofonte, nuovo capofila della democrazia radicale. La restaurazione democratica – cui contribuì direttamente Trasillo, uno dei capi del contro-Stato di Samo, rientrato in Atene dopo Cizico –, e la ripulsa delle proposte spartane di pace sono tra loro collegate, e son dovute alla rinnovata persuasione di vittoria che pervade, in quei mesi, Atene. Ma, appunto, il grande assente, nella città nuovamente dotata dei suoi ordinamenti e nuovamente protesa alla vittoria da vent’anni ostinatamente perseguita, era l’artefice dei successi di quei mesi: Alcibiade. Alcibiade, che aveva rifiutato di tornare quando glielo offrivano i congiurati del 411, che ha rifiutato di tornare per grazia di Teramene, ora che la sua popolarità è alle stelle esita ancora: rientrerà infatti in Atene soltanto nella primavera del 408. Ciò che, evidentemente, lo ha trattenuto, e lo trattiene anche ora – nonostante che la situazione gli sia politicamente favorevole, la sua eteria si sia ricostituita, e la città lo invochi – è la delicata questione della condanna per empietà: la macchia per la quale pretende il pieno risarcimento e su cui pretenderà di parlare – una volta rientrato – in una solenne cerimonia ripetuta sia dinanzi all’Assemblea che dinanzi al Consiglio (Elleniche, I, 4,13-20). Alcibiade sa che una condanna per empietà rischia di non estinguersi mai, di ridiventare un domani operante (come infatti capiterà ad Andocide, pur dopo l’amnistia generale del 403, e proprio per gli stessi reati): finché la macchia non è lavata chiunque potrà nuocergli. Sa che quando Pisandro avrebbe voluto coinvolgerlo, nel 411, nei preparativi del colpo di Stato, c’era stata una levata di scudi da parte dei Kerykes e degli Eumolpidi – le potenti famiglie sacerdotali di Atene –, i quali avevano reagito con veemenza all’ipotesi di un rientro di Alcibiade, ed avevano scongiurato di non farlo rientrare tale era l’enormità dei suoi misfatti nella faccenda dei misteri (Tucidide, VIII, 53,2). Ecco perché Alcibiade ha considerato con sospetto l’eventualità di rientrare in forza di un semplice provvedimento di ‘amnistia’, per giunta ispirato da Teramene. Mai come in questa faccenda politica e religione si sono intrecciate dal primo momento. Nei mesi in cui campeggia il problema Alcibiade e si sviluppa l’azione per il suo rientro (di lì a poco sarà eletto stratego pur assente) ma sussistono ancora le sue remore, Sofocle mette in scena (Dionisie del 409) il Filottete: un dramma il cui tema richiama con immediatezza alla mente di tutti il problema del giorno. La trama è molto sem-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

187

plice. Filottete, l’eroe che ha ereditato da Eracle il prodigioso e micidiale arco, è stato abbandonato dai Greci – durante la rotta verso Troia – nell’isola di Lemno, perché reso inavvicinabile dalla piaga purulenta e maleodorante procuratagli dal morso di un serpente. Verso la fine della lunga guerra però – ed è qui che ha inizio l’azione nel dramma di Sofocle – essi debbono mandarlo a prendere perché, secondo un vaticinio – il vaticinio di Eleno, figlio di Priamo e prigioniero dei Greci – solo per opera sua Troia potrà essere conquistata. Quattro volte si ripete, nel corso del dramma, la medesima situazione: Filottete si accinge a partire, ma ogni volta la partenza è impedita. L’eroe si rifiuta ostinatamente di raggiungere Troia. Aborre l’astuto Odisseo, che a suo tempo lo ha fatto relegare a Lemno; instaura invece con Neottolemo, figlio di Achille, che ha da poco lasciato Sciro e si reca a Troia, un rapporto di fiducia. (Odisseo e Neottolemo sono i due eroi che Sofocle immagina incaricati del recupero di Filottete.) Alla fine, quando nulla sembra poter vincere la riluttanza e le remore di Filottete, Eracle – calato sulla scena da un adeguato congegno (è il cosiddetto deus ex machina con cui spesso Euripide, ed anche l’ultimo Sofocle, risolvono un dramma giunto ad un punto morto) – risolve la difficile situazione e induce Filottete ad accettare di raggiungere il campo dei Greci a Troia. Filottete è dunque l’eroe che, pur decisivo per la risoluzione del grande conflitto, non vuol tornare. Il tratto principale della tragedia sono appunto i ripetuti tentativi falliti di far ritornare l’eroe nel campo acheo. L’analogia con Alcibiade – che ha lasciato varie volte cadere la possibilità di tornare ad Atene, pur ora che il suo rientro è desiderato da tutti e patrocinato da ex-avversari come appunto Teramene – è evidente. Anche per Filottete, come per Alcibiade, ci sono tutte le condizioni per il rientro, ma manca la volontà dell’interessato. L’analogia era accentuata dal fatto che Filottete a Troia non era neanche giunto: Alcibiade si era trovato in una situazione simile quando era stato richiamato, appena sbarcato in Sicilia. Né va dimenticato che una variante del mito (Dione di Prusa, 59, 4) sapeva di ambascerie troiane miranti a sollecitare un passaggio di Filottete al nemico: anche questo evocava Alcibiade, passato per qualche tempo a collaborare con Sparta contro la sua città. Che la scelta del mito di Filottete da parte di Sofocle fosse in relazione con la tormentata vicenda del rientro di Alcibiade è stato, di tanto in tanto, prospettato, soprattutto nell’Ottocento. Poi è prevalso il pregiudizio di tipo idealistico, secondo cui la ricerca di riferi-

188

Il teatro: un mestiere nella polis

menti attuali intaccherebbe la poesia, e l’ovvia constatazione è stata accantonata. In realtà Sofocle, col Filottete, è intervenuto autorevolmente, e con molta chiarezza, sul tema del giorno: la necessità e l’urgenza del ritorno di colui che, solo, può rendere possibile la vittoria. Il suo è un appello, lanciato nella più solenne circostanza, alle Dionisie in cui si celebrava la restaurazione della democrazia, e lanciato dal più venerato e autorevole poeta, vecchio amico di Pericle, gloria degli anni migliori di Atene. È lo stesso tasto su cui tre anni più tardi, dopo il secondo allontanamento di Alcibiade, batte Aristofane, quando nelle Rane fa dire conclusivamente ad Eschilo, richiesto di un buon consiglio per la città, che «se si è allevato in città un cucciolo di leone, bisogna adattarsi ai suoi costumi» (vv. 1431-1432: il cucciolo è Alcibiade, l’erede di Pericle, facilmente identificabile attraverso l’immagine del leone). Retrospettivamente Tucidide dirà che, allontanando per ben due volte Alcibiade, gli Ateniesi avevano mandato la città alla rovina (VI, 15,4). È molto significativa questa scelta, da parte di Sofocle, proprio in considerazione delle sue recenti vicissitudini politiche: il coinvolgimento, senza molta convinzione, nella crisi del 411 («non c’era di meglio») e l’imbarazzante processo di Pisandro. Il ritorno di Alcibiade appariva a lui – come ad Aristofane, come a Tucidide – una garanzia non solo di vittoria militare, ma anche di freno contro il predominio di un Cleofonte. Era l’ultima incarnazione della linea periclea5. 8. Il finale del «Filottete»: la figura di Neottolemo Nella scena finale, che è forse la più scopertamente allusiva, Neottolemo proclama con sicurezza: «è destino che Troia cada la prossima estate» (vv. 1340-1341). È facile vedere in queste parole – che non hanno rispondenza nel mito – il segno delle diffuse speranze in una rapida vittoria, dopo le richieste spartane di pace. E ancora. Neottolemo promette che, se Filottete ritorna, sarà «guarito», sarà liberato dalle conseguenze della sua macchia: allo stesso modo che Alcibiade potrà, rientrato, lavarsi della macchia inflittagli per la profanazione dei misteri, per cui era stato condannato. «Questa tua malattia – dice Neottolemo – ha un’origine sacrale: perché tu ti sei accostato al custode di Crise, al serpente che, celato nell’erba, vigila e sorveglia il sacro recinto» (vv. 1326-1328).

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

189

Nel Filottete di Euripide, invece, il morso del serpente era presentato come un incidente occorso mentre Filottete mostrava ai Greci l’altare di Crise, su cui era necessario che facessero sacrifici per conseguire la vittoria (lo si ricava dal riassunto di Dione di Prusa, 59, 9). Neottolemo prosegue: «E sappi che non avrai tregua dal tremendo male – finché il sole sorgerà e calerà come suole –, se non verrai tu, spontaneamente, sulla piana di Troia: e là, incontrati i figli di Asclepio, sarai alleviato da questo male» (vv. 1329-1334). Ricordata la profezia di Eleno, secondo cui Filottete dovrà «la prossima estate» vincere Troia «con queste armi e con me», cioè combattendo al fianco di Neottolemo, il giovane figlio di Achille rivolge, al termine del suo ampio ed eloquente discorso, un vero e proprio appello a Filottete: «Ora che sai tutto questo, dammi retta, di buon grado. È bello l’ulteriore vantaggio che ne avrai: giudicato, tu solo, il migliore tra i Greci, venire tra le mani risanatrici e poi, conquistata Troia fonte di lacrime, averne fama suprema» (vv. 1343-1347). È l’appello pressante ad Alcibiade perché ritorni e sia lavato della sua macchia, e la lusinga grande per l’ambizioso Alcmeonide: «di essere giudicato, tu solo, il migliore tra i Greci». In questa perorazione di Neottolemo è ormai chiaro che la profezia di Eleno prevede che non solo le armi ma Filottete in persona sono indispensabili per assicurare la vittoria ai Greci. Durante tutta la tragedia questo dato è stato mantenuto volutamente incerto, tanto che è sorta la questione, assai disputata, se Sofocle non oscilli, in modo incongruente, tra l’una e l’altra veduta: una oscillazione giudicata da taluno addirittura «urtante» (Tycho von Wilamowitz). Non si tratta di incongruenza: Sofocle fa emergere un po’ per volta il contenuto del vaticinio di Eleno, «si serve abilmente per i suoi fini di queste esposizioni parziali» (Perrotta); fa in modo che solo alla fine emerga – e venga così particolarmente enfatizzato – che è necessario Filottete in persona, non solo il suo arco, per vincere: un Filottete che ritorni «spontaneamente» (vv. 1332, 1343). L’allusione alla necessità della presenza in Atene di Alcibiade non potrebbe essere più chiara. La replica di Filottete è segnata dalla iniziale incertezza. È certo della schiettezza di Neottolemo; si chiede perciò come potrà dubitare delle sue parole, e si domanda se deve cedere; poi ha il sopravvento in lui la considerazione più forte: «Mie pupille, che avete visto di tutto, come sopporterete anche questo? di vedermi al

190

Il teatro: un mestiere nella polis

fianco degli Atridi, artefici della mia rovina, e del deleterio figlio di Laerte?» (vv. 1354-1357). E soggiunge, piuttosto singolarmente, se si considera che, nella nuova situazione, i suoi ex-nemici sono nelle sue mani, hanno bisogno di lui per emergere da una guerra senza via d’uscita: «Non è il dolore dei mali passati che mi morde, ma i mali che ancora dovrò patire da costoro: che già mi sembra di vedere. Coloro cui l’indole fu madre di cattiveria sono disposti al male, sempre» (vv. 13581361). È un tipo di preoccupazione che, se si adatta fino a un certo punto a Filottete (che fino a questo momento ha proclamato di detestare Odisseo e gli Atridi per ciò che gli hanno fatto), rende bene la preoccupazione dominante di Alcibiade, il quale teme di poter essere – ritornando in Atene – bersaglio di nuove persecuzioni da parte dei suoi nemici di sempre. Nella scena del ritorno di Alcibiade, quale la leggiamo nelle Elleniche (I, 4,18-19) descritta da un testimone oculare, il pensiero dominante dell’esule che finalmente, dopo otto anni, approda al Pireo è il timore di un agguato da parte dei suoi «nemici»: «Quando la nave fu attraccata, Alcibiade non ne discese subito: temeva i suoi nemici. In piedi sul ponte si guardava intorno e scrutava se ci fossero i suoi amici e i suoi parenti. Visto Eurittolemo, suo cugino, e gli altri parenti e amici con lui, solo allora discese dalla nave, e si inoltrò verso la città, scortato da coloro che avevano il compito di impedire a chiunque di attentare contro di lui».

E nel discorso che pronuncia per respingere solennemente l’accusa di empietà (è la questione che più gli preme), Alcibiade dedica non poche considerazioni al comportamento dei suoi nemici, su cui esprime un giudizio (I, 4,16: «la città li aveva dovuti sopportare perché non disponeva di altri politici migliori di loro») collimante nella sostanza con quello espresso da Sofocle nel corso del processo contro Pisandro. Nel seguito della sua replica, ormai parlando non più a se stesso ma a Neottolemo, Filottete gli chiede come può lui, vittima non meno dello stesso Filottete dei soprusi degli Atridi, proporgli e proporsi di tornare a combattere. Dovranno entrambi abbandonare i Greci al loro destino: «devi restartene a Sciro, e mandare i malvagi in malora». Nel contrasto che segue, Filottete ritorna sul suo as-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

191

sillo («vuoi consegnarmi ai miei nemici?»: v. 1386) e Neottolemo – dopo aver fatto ricorso ad argomenti di scarsa presa – si rassegna: «Che faremo se io non riuscirò a convincerti di nessuna delle cose che dico? La cosa più semplice è, per me, che io smetta di parlare, per te di continuare a vivere, come ora vivi, senza salvezza [àneu soterìas; Giuseppe Lombardo-Radice traduce accentuando ancor più l’elemento sacrale insito nell’espressione: «senza redenzione»]» (vv. 1393-1396).

Ma quando, leale come sempre, Neottolemo sta adeguandosi al definitivo rifiuto di Filottete, appare Eracle, l’antico compagno d’armi di Filottete, il quale ordina ad entrambi di raggiungere «la piana di Troia». Ripete a Filottete che, giunto a Troia, per prima cosa sarà liberato dal male, poi, «proclamato il primo di tutto l’esercito», sconfiggerà la città nemica e deporrà il bottino sulla pira di Eracle. A Neottolemo ricorda che dovrà combattere fianco a fianco di Filottete: «Né tu senza di lui hai la forza di prendere Troia, né lui senza di te. Ma, come due leoni che puntano sulla stessa preda, vi proteggerete a vicenda» (vv. 1434-1437: ancora una volta il leone). Poi c’è l’ammonimento conclusivo, di fatto le ultime parole che Eracle pronunzia, con le quali il dio invita i due «leoni» alla «pietà verso gli dèi» quando saccheggeranno la terra dei vinti: «ché tutto il resto viene dopo nella stima di Zeus: la pietà non muore coi mortali» (vv. 1442-1443). Filottete saluta la sua grotta e dichiara finalmente di piegarsi alla volontà superiore che lo conduce a Troia. L’insistenza conclusiva sulla eusèbeia verso gli dèi nel momento della vittoria trovava un appiglio nel mito al più per Neottolemo, spietato nella vittoria; molto meno per Filottete. L’ammonimento si addice invece, per più ragioni, ad Alcibiade. Egli era stato condannato per asèbeia: e infatti nel discorso apologetico che pronuncerà dopo il rientro insisterà proprio su questo punto: «proclamò di non aver commesso empietà» (Elleniche, I, 4,20). Il suo nome, poi, era notoriamente legato ad uno dei più efferati massacri compiuti dagli Ateniesi negli anni precedenti: quello dei maschi adulti di Melo. La proposta di ucciderli e di fare schiave tutte le donne ed i fanciulli era stata sua, come sappiamo da Plutarco (Vita di Alcibiade, 16,5-6), ma non da Tucidide che pure tanta attenzione ha rivolto alla vicenda di Melo e che molto insiste sulla bestiale efferatezza di Cleone reo di voler infliggere a Mitilene un trattamento analogo. Non era stato più dimenticato quel massacro: cui Alcibiade aveva

192

Il teatro: un mestiere nella polis

voluto, poi, alla maniera sua, quasi porre rimedio con un gesto che suonava invece maggior derisione (aveva voluto un figlio da una schiava melia e lo aveva allevato in casa sua). La propaganda avversaria aveva contribuito a tener vivo il ricordo del grave episodio: Lisandro, dopo Egospotami, prima ancora che Atene cadesse, aveva voluto restituire ai Melii superstiti la loro isola; e quando tutto era perduto ormai, gli Ateniesi – racconta un testimone oculare – «temevano di dover subire la sorte che avevano inflitto ai Melii» (Elleniche, II, 2,3). Di tale sorte, tutti lo sapevano, la responsabilità era stata di Alcibiade. Raccomandargli «pietà nella vittoria» era dunque più che mai sensato, da parte del vecchio Sofocle (partecipe trent’anni prima della repressione di Samo), nel momento in cui la vittoria sembrava davvero a portata di mano. 9. Gli altri «Filottete» Sofocle ha apportato alcune modifiche alla trama offerta dal mito: mito che era stato già portato sulla scena, molti anni prima, secondo moduli più tradizionali, sia da Euripide (432 a.C.) che da Eschilo. Un Filottete lo aveva scritto anche Antifonte: anche lui prima di Sofocle, se il tragediografo che porta questo nome ed il sofista (che fu condannato a morte nel 411) sono la stessa persona. Il raffronto tra il Filottete di Sofocle e le omonime tragedie di Euripide e di Eschilo è possibile grazie ad un letterato di età flavia, Dione di Prusa, il quale disponeva di tutte e tre le tragedie e in due suoi discorsi (il LII e il LIX) le riassume e talora le parafrasa. Una prima versione della vicenda era già nella Piccola Iliade (cfr. p. 30). La novità più rilevante introdotta da Sofocle consiste nell’aver affiancato Neottolemo, giovane e leale, a Odisseo, maturo e senza scrupoli, nel tentativo mirante a recuperare Filottete: nell’aver cioè costituito una coppia di personaggi antitetici e nel far risaltare, sempre più chiaramente nello svolgimento del dramma, la personalità leale di Neottolemo ed il rapporto di fiducia che viene a crearsi tra il giovane e incorrotto combattente, da un lato, ed il riluttante protagonista dall’altro. Nella Piccola Iliade era il solo Diomede che andava a prendere Filottete, in Eschilo il solo Odisseo, in Euripide Odisseo e Diomede insieme: una coppia che opera come tale anche in altre missioni (ad esempio quella del decimo libro dell’Iliade). La felice escogitazione di Sofocle può avere anche un significa-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

193

to allusivo-attuale. Gli spettatori potevano riconoscere in Odisseo il troppo abile e spregiudicato Teramene, detto anche ‘dexiòs’, prima (in quanto leader dei Quattrocento) avversario di Alcibiade, quindi promotore del suo rientro: ma promotore ‘deluso’, dal momento che al suo decreto Alcibiade non ha prestato ascolto per quasi due anni. E nel giovane Neottolemo potevano ravvisare il più giovane Trasillo, il promotore del giuramento di fedeltà alla democrazia dei marinai di Samo, il restauratore della democrazia in Atene dopo i mesi di egemonia terameniana, il vincitore, con Alcibiade, ad Abido (i due leoni che debbono marciare fianco a fianco secondo la profezia di Eracle). Il prestigio di Trasillo è grande nel momento in cui Sofocle metteva in scena il Filottete: rientrato in Atene dopo Abido, aveva respinto con successo l’improvviso attacco di Agide, il re spartano che da Decelea si era spinto fin sotto le mura di Atene (Elleniche, I, 1,33), e, ritornato in Asia, aveva avuto un caloroso incontro di piena riconciliazione dopo i passati attriti con Alcibiade (Elleniche, I, 2,17). Un episodio che deve aver rinsaldato la persuasione che le sorti di Atene fossero ormai nelle mani, strettamente unite, di entrambi. Così Sofocle prende le distanze da Teramene/Odisseo e si schiera per la democrazia restaurata, per una democrazia che abbia però in Alcibiade una guida sicura. E un comprensibile, e forse necessario, chiarimento da parte dell’ex-probulo indotto nel 411 ad avallare l’avventura oligarchica di cui proprio Teramene era stato uno dei maggiori artefici. 10. L’ultimo periodo. Sofocle devoto di Asclepio Dopo la restaurazione democratica, sia Euripide che Agatone – di cui Aristotele ci ha conservato un giudizio ammirativo nei confronti dell’autodifesa di Antifonte (Etica Eudemia, 1232b6-9) – lasciarono Atene e furono accolti a Pella, alla corte di Archelao di Macedonia. Nello stesso periodo anche Crizia, compromesso, come suo padre Callescro, coi Quattrocento, si ritirò in Tessaglia. Anche Socrate pare che sia stato sollecitato da Archelao (così sostengono Plutarco ed altre fonti); ma non si mosse da Atene, conformemente ad un suo atteggiamento che nell’Apologia platonica rivendica come una virtù civica. Anche a Sofocle si offrì questa possibilità. Una notizia biografica (Vita, § 10) sostiene che «molti so-

194

Il teatro: un mestiere nella polis

vrani» volevano Sofocle alla loro corte, ma che lui era molto «attaccato ad Atene» e non volle lasciare la città. Non è difficile intravedere anche qui una sollecitazione di Archelao, e si sarebbe perciò indotti a pensare che tale sollecitazione, se c’è stata, risalga allo stesso periodo in cui se ne giovarono Euripide ed Agatone. Questo voler restare in Atene è dunque una scelta coerente con quella, manifestata nel Filottete, di unire la propria voce autorevole a quella di coloro che, in un momento decisivo, invocavano il rientro di Alcibiade. Sofocle non lascia Atene, ma continua a ‘far politica’ cercando di mantenersi coerente con le proprie origini periclee. Nel 406, novantenne, Sofocle presentava il coro e gli attori nel cosiddetto «proagone», nell’Odeon, qualche giorno prima delle Dionisie: da poco si era saputo della morte di Euripide e Sofocle volle apparire in abito di lutto, con i coreuti e gli attori privi della consueta corona6. È probabile che Sofocle sia morto in quello stesso anno. Nelle Rane infatti, presentate alle Lenee (gennaio 405), Aristofane ha dovuto modificare qua e là delle scene e far cenno alla men peggio della morte di Sofocle, appena avvenuta, per non far perdere di mordente e di attualità alla commedia. Come Edipo dell’ultima sua tragedia, fatto oggetto di culto a Colono, anche Sofocle ebbe, dopo morto, culto eroico e fu, in quanto eroe, denominato Dexíwn, «Colui che ha accolto», per avere «accolto nella propria casa Asclepio» (Etymol. Magnum, p. 256, 6), cioè il suo culto, quando fu introdotto in Atene intorno al 420 ed aver inoltre instaurato un altare per il dio che risana. Era anche sacerdote di un eroe salutifero di nome Halon (Vita, § 11). Si conservano epigrafi della seconda metà del IV secolo (IG II2 1252 e 1253) in cui si premiano dei devoti che hanno ben meritato del culto di Dexìon. Nel Filottete Sofocle immagina non il solo Macaone, ma entrambi i figli di Asclepio presenti a Troia (v. 1333), ed Eracle, alla fine della tragedia, annuncia a Filottete che verrà Asclepio in persona a curarlo. Nell’Atene sottoposta in due riprese (430 e 427) al flagello della peste il credito dei medici ippocratici, della nuova medicina scientifica, era stato scosso. Il fallimento della nuova medicina è alla base del trionfale ‘ingresso’ di Asclepio nel 420 e del rilancio del suo culto. Tucidide ed Euripide hanno sentito il fascino della nuova medicina scientifica, e vi hanno attinto nozioni e fraseologia. È caratteristico di Sofocle che abbia creduto, anche in questo campo, di conciliare la novità con la tradizione: se ha accolto Asclepio, si è anche aperto – come si ri-

XI. Sofocle tra Pericle ed Alcibiade

195

cava dalla descrizione della peste nell’Edipo re – all’insegnamento ippocratico (Antigone, 361). Note Lista XII, r. 36. La lista degli strateghi di quell’anno è in un frammento dell’attidografo Androzione, il quale componeva una storia dell’Attica circa un secolo dopo questi avvenimenti: Fr. 38 Jacoby. 3 Colloqui con Eckermann, trad. di Eugenio Donadoni, II, pp. 203-204. 4 Lezioni di estetica, parte II, sezione II, capitolo 1. 5 Anche l’Eschilo delle Rane, subito dopo aver alluso favorevolmente ad Alcibiade, raccomanda una condotta della guerra in tutto e per tutto periclea: vv. 14631464. 6 L’aneddoto è nella anonima Vita di Euripide (p. 135, 42 dei Biographi Graeci di Westermann) e non ci sono ragioni serie per dubitarne. 1 2

XII EURIPIDE, ANTIFONTE E CRIZIA 1. La vittoria postuma di Euripide Le ultime gare teatrali prima della caduta di Atene si svolsero tra gennaio e marzo del 405. Il peso economico della guerra era tale, gravante soprattutto sui ricchi, che un decreto stabilì che una contribuzione («liturgia») non lieve, quale appunto il finanziamento dei cori, venisse suddivisa tra due coreghi (synchoregòi), sia per i cori tragici che per quelli comici. La notizia è di ottima fonte: Aristotele (Fr. 630 Rose), il quale la riferiva alle sole Dionisie. L’anno seguente (405/4) non ci furono gare teatrali: era l’anno di Egospotami, dell’assedio, della morìa per fame (Elleniche, II, 2,21) e della caduta di Atene in mano a Lisandro (aprile 404). Poi ci fu il regime dei Trenta e la guerra civile. La disposizione che alleggeriva il peso gravante sui coreghi non fu più rimessa in vigore. I nomi dei due coreghi, Gnathis e Anaxandrides, che cooperarono nell’unico anno (406/5) in cui ci si poté dividere l’impegnativa prestazione, sono conservati in una epigrafe onoraria (IG II2 3090) trovata ad Eleusi (i due erano entrambi eleusini e si facevano pubblicità nel loro demo); essa ci dà anche i nomi dei due vincitori, che furono Aristofane e Sofocle (morto qualche mese prima). Questo documento ha suscitato varie ipotesi. Alcuni hanno pensato che la synchoregìa fosse operante ancora per qualche anno, e quindi hanno pensato di datare il documento nel 401, anno in cui una antica notizia erudita pone la vittoria postuma dell’Edipo a Colono di Sofocle (è questa la datazione generalmente accolta). Altri hanno pensato di inquadrare il documento tra le attestazioni di agoni locali in alcuni demi dell’Attica: questo rientrerebbe nell’attività teatrale di Eleusi; si può osservare però che le poche altre attestazioni su agoni ad Eleusi riguardano un’epoca alquanto più tarda, a parte la difficoltà di ipotizzare una estensione della

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

197

synchoregìa anche agli agoni locali. In realtà la notizia aristotelica parla chiaramente di una eccezionale adozione della synchoregìa alle Dionisie cittadine del 405. Sembra dunque preferibile ritenere, col più recente editore dei documenti teatrali ateniesi, Mette, che il documento in questione riguardi appunto le Dionisie di quell’anno. Non dovrà stupire che i due synchoregòi siano entrambi di Eleusi: niente di più naturale che – dovendo collaborare alla stessa «liturgia» – fossero dello stesso demo. Ne discende – è la conclusione tratta anche dal Mette – che il dramma postumo di Sofocle vincitore nel 405 sarà appunto l’Edipo a Colono, messo in scena dal nipote, Sofocle il giovane, dopo la morte del vecchissimo poeta. Sarà stata dunque una deduzione arbitraria – forse dovuta ad una replica – la notizia registrata dal II «Argomento» dell’Edipo a Colono, secondo cui la tragedia era stata rappresentata ben quattro anni dopo la morte di Sofocle, nel 401. Ciò appare, del resto, di per sé poco verosimile. Sarebbe lecito, infatti, chiedersi perché mai gli eredi di Sofocle, tragediografi anch’essi, avrebbero mantenuto così a lungo inedito il dramma postumo del drammaturgo più amato dal pubblico e tante volte vincitore: è molto più plausibile che presentassero al pubblico la tragedia, già pronta, il più presto possibile. L’anticipazione alle Dionisie del 405 della vittoriosa rappresentazione dell’Edipo a Colono comporta che non può più collocarsi in quella data – come si era soliti – la vittoria postuma di Euripide alle Dionisie con la trilogia Ifigenia in Aulide, Alcmeone a Corinto, Baccanti, di cui dà notizia l’«Argomento» dell’Ifigenia in Aulide. E poiché nel febbraio-marzo del 404, un mese prima della caduta di Atene, non vi furono gare, sola data possibile per la vittoria postuma di Euripide è quella delle Dionisie del 403: sotto il governo dei Trenta, o, per essere più precisi, dei «Dieci» che subentrarono ai Trenta dopo la morte di Crizia (gennaio 403).

Euripide è morto, quasi ottantenne, in Macedonia, alla corte di Archelao, dove si era ritirato due anni prima rompendo definitivamente con l’ambiente ateniese; è morto tra la fine del 407 e l’inizio del 406, com’è chiaro dalla notizia riguardante il gesto di Sofocle di presentarsi in abiti di lutto, al proagone del 406, per onorare la memoria di Euripide appena scomparso. Alla corte di Archelao Euripide aveva composto e messo in scena drammi, alcuni dei quali, come l’Archelao, di celebrazione della famiglia regnante. Non sappiamo come fossero organizzate le rappresentazioni teatrali alla corte di Pella: se, ad esempio, venisse imitato l’uso ateniese, per cui ogni autore presenta un gruppo di quattro drammi. Certo è che dopo la morte di Euripide suo figlio (o, secondo un’altra notizia, suo nipote) poté portare in scena tre sue tragedie: si può pensare che anche

198

Il teatro: un mestiere nella polis

in Macedonia Euripide continuasse a comporre secondo i modelli organizzativi del teatro ateniese. Anche questa circostanza della lontananza da Atene rende poco probabile l’ipotesi che già alle Dionisie del 405 potesse essere allestita la rappresentazione dei drammi che Euripide stava componendo nel suo ‘esilio’ macedone. Sofocle invece era morto in Atene, le sue carte e i suoi eredi erano lì. 2. Oligarchi e teatro tragico Sarebbe anche strana una vittoria postuma di Euripide nello stesso torno di tempo in cui, nei concorsi comici, Aristofane trionfava – letteralmente trionfava, tanto da ottenere subito una replica – con le Rane, cioè con una commedia che è un attacco distruttivo contro Euripide. È un attacco che colpisce sia per il momento in cui viene sferrato (Euripide è appena morto), sia per la violenza, che non risparmia nessun lato del bersaglio: tanto più impressionante, se lo si confronta con il tono inopinatamente affettuoso con cui, nella stessa commedia, Aristofane parla di Agatone (v. 84: «buon poeta, rimpianto dagli amici») già bistrattato, insieme con Euripide, nelle Tesmoforianti (del 411 o 410), proprio perché giudicato imitatore di Euripide. L’attacco postumo di Aristofane ad Euripide piacque tanto da guadagnare ad Aristofane il primo premio contro una commedia di attualità politica molto solleticante, quale doveva essere il Cleofonte di Platone comico, giunto terzo. Il momento era dunque decisamente sfavorevole per presentare postumi drammi di Euripide – già da qualche anno assente dalla scena ateniese – e portarli alla vittoria. È invece l’arconte Pitodoro, insediato dai Trenta, il ‘rinnegato’ degli atti ufficiali ateniesi, quello il cui anno (404/3) fu indicato poi nei documenti con la parola «anarchia», che dà il coro ad Euripide il giovane per la rappresentazione alle Dionisie (febbraio-marzo 403) di Ifigenia in Aulide, Alcmeone a Corinto, Baccanti (e magari ne propizia la vittoria). Non è difficile immaginare quale inconsueta rappresentazione dev’essere stata quella in cui Euripide colse la sua quinta (e postuma) vittoria. Poco più di un mese prima, al principio dell’anno, c’era stata la battaglia di Munichia tra le truppe dei Trenta e quelle dei fuorusciti guidati da Trasibulo: una vera e propria battaglia campale nell’ambito della guerra civile. Erano morti nello scontro alcuni capi dei Trenta, come Crizia e Carmide. E po-

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

199

co dopo «tutto il demo se n’era andato», come dice, senza alcuna enfasi, Aristotele (Costituzione di Atene, 38,3) e come confermano le fonti di più varia ispirazione. Rimuovere il demo, anche a costo di spopolare l’Attica riducendola a livelli di oliganthropìa spartana, era per l’appunto il progetto dei Trenta. È dunque in una Atene semideserta che si svolgono le spettrali Dionisie in cui Euripide, per una non incomprensibile ironia della storia, coglie quel successo che l’Atene della normalità gli aveva in genere negato. A rendere ancor più inquietante l’atmosfera avranno contribuito le terrificanti scene delle Baccanti, il dramma della obnubilazione della ragione. Non stupisce l’insperata fortuna postuma toccata, in quella circostanza eccezionale, al drammaturgo avversato dalla città democratica. Questa vicenda non sembra doversi ritenere frutto unicamente di una occasionale sindrome di circostanze. Essa può anche inquadrarsi nel più generale fenomeno della speciale attenzione che esponenti oligarchici hanno rivolto alla scena tragica come veicolo del loro altrimenti impopolare discorso politico, improponibile all’assemblea. Nelle mani di personaggi come Crizia e – come vedremo – dello stesso Euripide, il teatro tragico era anche uno strumento di critica, ideale e mediata attraverso il linguaggio del mito, dei fondamenti stessi della città democratica. Tragediografi erano almeno due dei Trenta, Crizia e Teognide. Tragediografo fu Antifonte (Vite dei dieci oratori, 833C: non si vede perché si debba dubitare di questa notizia), quell’Antifonte, vera ‘mente’ – secondo Tucidide – del colpo di Stato del 411, che aveva peraltro completamente rinunciato alla diretta comunicazione politica assembleare (Tucidide, VIII, 68,1). E il nipote di Crizia, Platone, alieno dalla politica in gioventù, quando vigeva il regime democratico, si era anche lui cimentato con le tragedie, come il celebre zio. Le cui tragedie sopravvissero alla damnatio memoriae perché incorporate nella raccolta euripidea, sì da essere talora attribuite appunto ad Euripide. Ci si può chiedere se le didascalie recassero il nome di Crizia o quello di Euripide, il quale magari avrà chiesto il coro per lui: certo – ha osservato Wilamowitz – l’episodio illumina bene la cerchia entro cui Euripide va collocato. 3. ‘Meteco’ in patria Dei politici mancati, che hanno scelto il teatro tragico per far giungere alla città la loro voce critica, Euripide è in certo senso l’e-

200

Il teatro: un mestiere nella polis

sempio più alto, e a noi meglio noto. È qui la chiave del suo insuccesso, oltre che dell’accanimento con cui lo ha combattuto Aristofane: un commediografo che ha scelto di investirsi del ruolo di interprete della parte ‘sana’, come si suol dire, del pubblico ateniese, che ha costruito il successo sulla auto-identificazione col ruvido, patriottico e benpensante contadino di Acarne. Il carattere dominante della biografia euripidea è dunque in questo rifiuto della vita pubblica nella città democratica: tanto quanto la partecipazione alla vita pubblica, fino all’estrema vecchiezza, era stata, per Sofocle, una scelta per così dire naturale. Si afferma con lui quell’ideale «da meteco» contro cui si rivolgerà assiduamente, nel secolo successivo, la pedagogia politica di Demostene. Euripide è a¬prágmwn, si tiene cioè da parte rispetto alla vita pubblica. È un atteggiamento che porta a sottrarsi alle prestazioni cosiddette «volontarie» per la comunità. Ciò finisce con l’attirare imbarazzanti processi per «scambio» (antìdosis): un cittadino puntiglioso vorrà prima o poi rifilare all’a¬prágmwn incombenze gravose chiedendo, in caso di rifiuto, lo scambio dei patrimoni. È ad Euripide infatti che capita il primo caso noto di «scambio». Sappiamo da Aristotele (Retorica, 1416a29-35) che il cittadino che lo chiamò in causa si chiamava Hygiainon; e possiamo anche dedurre che il processo ebbe luogo dopo il 428, dato il cenno ostile che Hygiainon volle fare all’Ippolito coronato, che è appunto del 428. A parte una ambasceria a Siracusa, di cui troviamo notizia ugualmente nella Retorica di Aristotele (1384b15-16), non abbiamo altra traccia di una sua attività pubblica. L’unico contatto, documentato, di Euripide con una personalità politica, prima del suo ritiro in Macedonia, è l’epinicio per la vittoria di Alcibiade nelle gare delle quadrighe alle Olimpiadi del 4161. I giochi olimpici del 416 ebbero particolare rilevanza: nel quinto anno della sempre più incrinata pace di Nicia, videro l’espulsione degli Spartani dai giochi in seguito a provocazioni che poco avevano a che fare con lo sport (Tucidide, V, 50,2). Questa presa di posizione di Euripide nei confronti di Alcibiade merita attenzione sia per l’anno che per la circostanza in cui si verifica. Poco importa se davvero nel «giovane nobile pastore» che nelle Supplici – una tragedia tra le più ‘politiche’ di Euripide – Adrasto dice di vedere in Atene (vv. 190-191) sia davvero da ravvisare Alcibiade, come pensava Wilamowitz. È rilevante che Euripide abbia celebrato Alcibiade nel suo aspetto più «tirannico» (o che tale

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

201

appariva ai vigili democratici ateniesi), quello del patito delle corse di cavalli, e nello stile démodé delle aristocrazie: quello dell’epinicio di tipo pindarico. È l’ultimo caso testimoniato di un tale uso pindarico (Wilamowitz). L’Alcibiade che Euripide celebra è l’Alcibiade prima maniera: non il vincitore di Cizico che tornerà in patria acclamato dalla democrazia restaurata, ma il giovane aristocratico che si affaccia alla politica dopo essere stato nella ‘scuderia’ di Socrate accanto a personaggi (Crizia, per esempio) non meno di lui protesi ad una politica tutt’altro che ortodossa; il giovane che, pur scontrandosi con l’eterna accusa di essere «troppo giovane», aspira ad essere il nuovo Pericle; lo spregiudicato che riesce gradito alle allegre brigate della gioventù aristocratica, che vediamo all’opera in una notte di divertimento metafisico nel Simposio platonico, ma che in qualche altra notte, un po’ meno filosofica, semina il panico tra i bravi Ateniesi – tutti religione e assemblea – facendo loro trovare oscenamente mutilate le Erme brulicanti ad Atene ad ogni angolo di strada. In imprese del genere può trovarsi coinvolto accanto a personaggi come Crizia e Andocide, e pagare cara la bravata con un esilio di anni e con la rovina politica. Che Euripide, quasi settantenne, abbia voluto scrivere per lui, vincitore ad Olimpia coi carri, è un fatto che getta molta luce sulle relazioni e sugli ideali politici dell’apolitico poeta. 4. Euripide filopericleo? La sua prima vittoria Euripide l’ha ottenuta piuttosto tardi: nel 441, secondo la notizia della cronaca epigrafica detta Marmo di Paro. Non sappiamo però con quali tragedie. Del decennio successivo a quella prima vittoria sono conservate tre tragedie: Alcesti del 438, Medea del 431, Ippolito del 428. Sporadici riferimenti all’attualità sono più o meno immediatamente percepibili. Nel 431, nella Medea, messa in scena poche settimane prima dell’entrata in guerra e della paventata invasione spartana dell’Attica, il terzo stasimo è un inno alla bellezza dell’Attica, «sacra terra mai devastata (apòrthetos)» (vv. 825-826). Il coro paventa che Medea, la quale già medita di uccidere i figli avuti da Giasone per vendicarsi di lui e del suo tradimento, possa trovare riparo e asilo in Attica: è questo il pretesto su cui imbastisce l’inno all’Attica. Il cenno alla terra «mai devastata» risente della discussione coeva intorno ai prevedibili

202

Il teatro: un mestiere nella polis

danni per le campagne a seguito dell’invasione spartana e sembra esprimere preoccupazione rispetto alla non molto popolare decisione di lasciar devastare l’Attica (Tucidide, I, 143,4). Proprio su questo punto la popolarità di Pericle avrebbe presto subìto duri colpi, e si sarebbero manifestate le prime incrinature del fronte interno (Tucidide, II, 59 e 63,2). Sarebbe però semplicistico classificare i drammi euripidei del periodo della guerra archidamica (431-421) in termini tout court politici. Per esempio ravvisare una fase patriottica o addirittura periclea nei drammi di quegli anni, specie nei primi. Contro deduzioni affrettate su questo terreno ha messo in guardia Günther Zuntz in un saggio del 1955 intitolato appunto Le tragedie politiche di Euripide e più di recente Peter Burian in un saggio sulle Supplici. Altri aspetti, pur essi certo indirettamente politici, dominano la produzione euripidea. È da dire poi che gli sforzi di additare qua e là puntuali riferimenti hanno risultati contraddittori e in ultima analisi deludenti. Un esempio istruttivo è quello degli Eraclidi, più celebre quello delle Supplici. Negli Eraclidi – datati in genere nel 430 – i figli di Eracle sono perseguitati da Euristeo, re di Argo, già nemico del loro padre, e trovano riparo in Atene, dove ottengono la protezione di Demofonte, figlio di Teseo e sovrano della città. Demofonte respinge dapprima gli argomenti, quindi l’attacco, dell’esercito argivo. Alla fine Euristeo è messo a morte. Il coro è composto di cittadini ateniesi, ed appoggia l’azione di Demofonte: nel terzo stasimo, pronunciato prima che il messo porti la notizia della vittoria, il coro si proclama certo dell’aiuto di Zeus («Zeus è mio alleato, non ho paura»: vv. 766-767). Dedurre che attraverso queste parole del coro Euripide voglia proclamare giusta la politica dell’Atene contemporanea (non solo dell’Atene di Demofonte) è una forzatura. Nel medesimo contesto il coro si mostra indignato per il comportamento di Argo – di Argo, non di Euristeo – e giunge a proclamare in forma generale che è intollerabile dover sottostare «alle pretese di Argo» (v. 765). Qui i conti non tornano più: Argo è infatti in una posizione di neutralità più che benevola verso Atene; e dunque in un’ottica immediatamente attualizzante quelle dure parole contro Argo risulterebbero incongrue rispetto alla presunta esaltazione – attraverso la figura di Demofonte – della politica periclea. C’è poi da dire – lo ha ricordato opportunamente Lesky – che troppo alla leggera sono stati accantonati, senza che vi fosse una risposta sod-

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

203

disfacente, i seri quesiti sulla natura del testo a noi giunto col titolo Eraclidi, sollevati dal Wilamowitz oltre un secolo fa. Sulla base di ampie citazioni che l’Antologia di Stobeo (IV/V secolo d.C.) presenta come tratte dagli Eraclidi, ma che negli Eraclidi quali noi li leggiamo non figurano, il Wilamowitz aveva prospettato l’ipotesi che l’insolitamente breve testo pervenutoci (1055 versi: circa 500 di meno rispetto alla media delle altre diciotto superstiti tragedie euripidee) potesse ritenersi non più che un rifacimento abbreviato per una tarda rappresentazione. Una tale eventualità – che è plausibile – rende ancor meno solido il terreno per chi voglia attribuire valori allusivi a questa o a quella parte del testo. Quanto alle Supplici – di cui si parlerà più diffusamente in seguito – è da rilevare che si dispone di interpretazioni che vi vedono un intervento (circa nel 424) in favore dell’assunzione da parte di Alcibiade, allora esordiente, di una posizione dominante al pari di Teseo «giovane nobile pastore» (così Wilamowitz nella introduzione all’Eracle); ma anche di interpretazioni di segno opposto, che vedono nel v. 160 («il clamore di gente giovane mi fece perdere la testa») un cenno ostile ad Alcibiade (Diano, nel saggio del 1958 sulla catarsi tragica). Il Diano trovava altre tracce di polemica contro Alcibiade nei vv. 949-954 («mortali infelici, quale fine ha l’acquistare di cui voi parlate, se non è che di lance?») e poneva la tragedia – di cui si ignora la data – nel 416, secondo il suggerimento di Wilhelm Schmid. Quanto a Schmid, gli basta il cenno del messo (vv. 680-683) alla cavalleria attica nella mitica battaglia per pensare ad un’allusione alla non felice battaglia di Mantinea, del 418, causata dalla politica di Alcibiade, nella quale la cavalleria attica aveva avuto un ruolo. E si potrebbe continuare ricordando ipotesi sempre più azzardate, come quella dell’inserzione di un vero e proprio «appello elettorale» nel corpo della tragedia.

5. Dalla critica della guerra al ritiro in Macedonia Più sensato è tenersi a quello che Euripide dice esplicitamente. Un dato chiaro è che negli ultimi anni della guerra archidamica e poi nell’anno della repressione ateniese contro Melo, Euripide dedica due tragedie di argomento e andamento molto simile (l’Ecuba, databile in base alla parodia aristofanea nelle Nuvole del 423, e le Troiane, del 415) al tema della sorte infame che tocca ai prigionieri di guerra – in genere donne, perché i maschi vengono di preferenza uccisi, non asserviti – nel passaggio dalla libertà alla condizione servile. È – come vedremo – un aspetto essenziale della sua riflessione sia sulla guerra che, ancor più, sulla schiavitù.

204

Il teatro: un mestiere nella polis

È stato osservato che nel 415 Euripide mette in scena non solo le Troiane ma un’intera trilogia troiana, nel momento in cui parte, tra contraddittori stati d’animo, la grande armata ateniese alla volta di Siracusa. Al disastro di quella spedizione ed allo spreco di vite umane che essa comportò Euripide dedicò un epicedio, secondo la precisa testimonianza di Plutarco (Vita di Nicia, 17,4), il quale lo cita, e ne rileva un’intonazione faziosamente filo-ateniese. È forse sintomatico dell’atteggiamento euripideo nei confronti della guerra il fatto che nel 412, quando ormai si combatteva nuovamente su tutti i fronti e addirittura sul suolo attico, e la situazione sembrava precipitare verso il disastro, egli abbia ripreso ancora una volta il mito troiano, per mettere in scena questa volta una Elena dove si sostiene che tutta quella interminabile guerra micidiale era stata combattuta per un vano simulacro: la vera Elena si trovava in Egitto, era sempre stata lì ed era anche una sposa fedele. Non conosciamo la data dello Ione. Se una delle date proposte – il 411, che è anche la più probabile – cogliesse nel segno, risulterebbe meglio comprensibile il finale, in cui Atena preannuncia solennemente a Ione che da lui discenderanno i capostipiti delle quattro tribù attiche (vv. 1575-1588; c’è una lacuna, l’enumerazione doveva essere ancor più circostanziata). Sarebbe infatti significativa una tale enfasi sulla origine e sul glorioso futuro delle quattro tribù gentilizie nel momento in cui i Quattrocento – dando corpo ad un antico desiderio di revisione delle basi stesse della democrazia ateniese – mettevano in discussione la costituzione clistenica (Aristotele, Costituzione di Atene, 29,3), fondata sulle geometriche tribù territoriali, che avevano scompaginato l’antico potere gentilizio. «I suoi figli – dice Atena a Creusa parlando di Ione, lì presente e finalmente riconciliato con la madre dopo il riconoscimento reciproco –, in numero di quattro, tutti della stessa radice, daranno nome al territorio e alle relative tribù, che abitano la mia acropoli. Geleone sarà il primo, poi verrà [...lacuna...] gli Opleti, gli Argadi, e una tribù l’avranno gli Egicori, così chiamati dalla mia egida» (vv. 1575-1581). Dopo di che ricorda che i figli di quei quattro capostipiti sono destinati a grandi imprese, a popolare l’Asia e l’Europa e le isole «forza di questa terra» (v. 1584). Nel seguito del suo ampio intervento Atena stabilisce una inusitata parentela tra Dori e Ioni. Prosegue infatti annunciando a Creusa un figlio, che questa volta essa avrà non già da Apollo, come è stato il caso di Ione, ma dal suo umano marito, Xuto.

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

205

Questo figlio sarà Doro, «da cui la città dei Dori [cioè Sparta] avrà onore di canti» (v. 1590). L’innovazione consiste nel fare di Doro e Ione dei fratelli, sia pure di padre diverso, mentre nella restante tradizione Doro è fratello di Xuto, non di Ione. Gli anni subito precedenti e subito successivi al 411 sono per Euripide anni di attività quasi febbrile. Tra il 412 e il 408 – oltre alle due tragedie sicuramente datate (Elena 412 e Oreste 408) ed alle Fenicie, che uno scolio alle Rane pone tra quelle due –, c’è una serie di drammi, di cui però sono conservati solo frammenti: Andromeda, Antiope, Ipsipile, Enomao, Crisippo. Con le Tesmoforianti – che alcuni studiosi pongono nel 411, altri nel 410 – Aristofane mette in scena una commedia tutta rivolta contro Euripide ed Agatone: ma soprattutto contro Euripide, la cui drammaturgia viene qui consapevolmente fraintesa e quindi messa alla berlina. Un frammento della Melanippe Desmotis (492 Nauck2) sembra reagire a queste aggressioni dei comici: «odio i buffoni che hanno bocche sfrenate». Non conosciamo la data di questa tragedia, ma il fatto che questa sferzata di Euripide contro i «buffoni» figuri nell’ambito di una tragedia che esaltava una eroica figura femminile – accecata e incarcerata dal padre, ma alla fine salvata dai figli –, può significare davvero che quel frammento replichi all’insulsa e petulante accusa di disprezzo per le donne su cui si imperniano le Tesmoforianti. Comunque, poco dopo l’Oreste (408), Euripide – e presumibilmente nello stesso periodo anche Agatone – lascia Atene e si stabilisce a Pella, alla corte di Archelao. Aristotele, che conosceva bene, per via familiare, le cose di Macedonia, accenna a qualche spiacevole attrito tra Euripide e personaggi di corte: «Decamnico fu il promotore della congiura contro Archelao, e colui che per primo aizzò i congiurati. La ragione del suo rancore contro il re era che Archelao lo aveva consegnato al poeta Euripide perché lo facesse frustare: Euripide infatti si era risentito contro di lui per una battuta sul suo pessimo alito» (Politica, 1311b30-34). Ma ciò ha importanza relativa. Resta il fatto, eccezionale per un Ateniese di spicco, dell’abbandono della propria città e della adozione di una nuova stabile dimora alla corte di un sovrano. Di un sovrano che per giunta era anche il portatore di un «programma» culturale: un programma di grecizzazione accelerata dall’alto (alla maniera di Federico di Prussia o di Pietro il Grande). Il trasferimento di Euripide a Pella è dunque una scelta, non ha nulla in co-

206

Il teatro: un mestiere nella polis

mune con le occasionali presenze per esempio di un Eschilo nella Siracusa di Ierone. Euripide ha lasciato Atene, perché ha deciso di rinunziare al suo difficile e scomodo dialogo con il pubblico ateniese. Né sarà casuale che se ne sia andato tra il secondo esilio di Alcibiade ed il processo degli strateghi delle Arginuse, in uno di quei momenti di montante oscurantismo, di cui aveva fatto le spese Anassagora negli ultimi anni di Pericle. Dal 441, quando, quarantaquattrenne, aveva conseguito la prima vittoria, gli era toccato il primo posto solo quattro volte. La città democratica lo aveva respinto. Aveva avuto per lui soprattutto insofferenza: quell’insofferenza mista ad incapacità, o scarsa volontà, di intendere, di cui Aristofane si è fatto, con accanimento addirittura postumo, interprete implacabile. 6. Legge e natura: critica dei rapporti familiari Attacchi come le Tesmoforianti o le Rane non sono semplici «buffonerie». Intendono colpire – ed hanno perciò facile gioco – l’inquietante critica euripidea ai postulati dell’Ateniese medio. Aristofane denuncia gli aspetti più intellettualistici e urtanti del teatro euripideo: un teatro che dà spazio a donne inquiete e ad uomini asociali, che sottopone a discussione luoghi comuni consolidati della vita familiare e sociale. Per dire in una parola tutto il suo disprezzo verso Euripide, Aristofane dice di lui che «chiacchiera seduto accanto a Socrate» (Rane, 1491-1492). E nelle Nuvole – che si concludono con la scena tipicamente oscurantista in cui un ‘sano’ ateniese mette a fuoco la casa di Socrate – mostra gli scolari del filosofo pieni di ammirazione per Euripide che in una tragedia ha parlato dell’incesto tra due fratelli (vv. 1370-1372). È ovvio e facile, per Aristofane, colpire sul punto che fa maggiore impressione, fare appello ai tabù più reattivi, pescando nell’ampia produzione euripidea che affrontava, da vari punti di vista, il nucleo elementare dei rapporti interumani. Nell’Eolo – altra tragedia perduta di cui però conosciamo meglio il contenuto grazie all’«Argomento» tramandato parzialmente nel Papiro di Ossirinco 2457 – Macareo ad un certo punto cercava di convincere il padre Eolo a consentire il matrimonio tra fratelli. Era, nel mito, una situazione-limite, cui, ad esempio, Omero accenna in un unico verso dell’Odissea (X, 7). Euripide se ne serve per una discussione di principio: Macareo chiedeva al padre perché vigesse, invece, il criterio

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

207

della ricchezza. Tutto ciò non poteva che urtare, diversamente dal tranquillizzante turpiloquio aristofaneo. Anche Sofocle si era cimentato con questo tabù, ma costruendo l’intero Edipo re intorno all’inconsapevolezza di Edipo. Come variante di questa tematica, su cui è tornato più volte, Euripide introduce quello che potremmo definire il motivo della ‘moglie di Potifar’ (la quale nell’Antico Testamento cercava di sedurre il casto Giuseppe, e da lui respinta si vendicava accusandolo a torto). Questo tema – adottato poi dal romanzo – appariva nella prima e molto deplorata versione dell’Ippolito, l’Ippolito velato, dove Fedra dichiarava direttamente al figliastro Ippolito la propria passione e, respinta, trascinava nella rovina il giovane devoto di Artemide e spregiatore di Afrodite. Nella successiva versione del dramma – quella che ci è conservata, l’Ippolito cosiddetto «coronato», del 428 – Fedra non è più la spregiudicata cretese che affronta aggressivamente l’uomo che vuole conquistare (il quale, per la legge, è anche suo figlio): è una donna languente che si macera intorno alla tematica socratica secondo cui basta conoscere il male per evitarlo (vv. 376-383) e che, riflettendo sui propri sentimenti, constata che la ricetta socratica non basta. Qui, in questa nuova versione, è la vecchia nutrice che, con zelo mal riposto, si incarica di informare il rigido e inorridito Ippolito. Dopo di che il dramma precipita, col suicidio di Fedra e la falsa e rovinosa accusa ai danni del figliastro2. Ma se la reazione incontrollata di Teseo, marito di Fedra e padre di Ippolito, provoca l’ingiusta morte del giovane, la gelosia come follia campeggia nella Medea, cui si addice la fulminante definizione di Spinoza nell’Etica: «La gelosia è l’odio verso la persona amata congiunto al desiderio». L’irriflessiva passione diviene oggetto di discussione relativizzante ed etnografica nell’Andromaca, dove, tra Ermione sposa di Neottolemo ed Andromaca già moglie di Ettore ed ora schiava prediletta di Neottolemo, si svolge un dibattito sulla visione del matrimonio nel mondo greco e nel mondo orientale. Qui Andromaca – che è il personaggio ‘positivo’ del dramma – porta notevoli argomenti in favore della poligamia, accettata come fenomeno non traumatico nel mondo cosiddetto barbarico; essa appare molto più umana e ragionevole della gelosia feroce e aggressiva di Ermione (vv. 184-231). Con tono duro e sprezzante, Ermione, che non tralascia di ricordare ad Andromaca la sua condizione di schiava, le rinfaccia di aver accettato di unirsi ed aver figli da Neottolemo, il cui padre, Achille, le aveva ucciso Ettore.

208

Il teatro: un mestiere nella polis

Qui Euripide, come più ampiamente nell’Ecuba, tocca un aspetto importante e doloroso della psicologia dello schiavo: la sottomissione e la capacità di provare anche affetto per il padrone-dominatore. Ermione fa risalire questa ‘perversione’ dell’odiata rivale alla sua origine barbara: lì «il padre e la figlia, la madre e il figlio si uniscono, e così la sorella e il fratello, e nessuna legge lo impedisce» (vv. 170-176). Nella replica Andromaca, che è fiera della propria passata condizione regale (v. 204), ricorda con tenerezza di aver amato insieme con Ettore le persone da lui amate, «quando – come si esprime – Cipride lo deviava altrove», e di aver allattato i «piccoli bastardi» che così nascevano (vv. 222-225); quindi invita Ermione a relativizzare il proprio punto di vista: «Se tu fossi la donna di un signore della Tracia sepolta tra le nevi, dove un solo uomo è comune a più donne, le uccideresti tutte?» (vv. 215-218). Sulla irrilevanza, dal punto di vista della natura, della nascita legittima o illegittima, Euripide tornava nella perduta Antigone, di incerta datazione: «del bastardo, il nome è riprovevole, ma la natura è uguale» (Fr. 168 Nauck2). Il presupposto è, evidentemente, la scoperta della convenzionalità della legge, portata alle più rigorose conseguenze dalla corrente sofistica. Un orientamento di pensiero che può avere, beninteso, gli esiti più vari: dal totale relativismo, al rispetto – alla maniera di Erodoto – dei più disparati nòmoi, alla brutale deduzione di un Callicle che dunque nessun nòmos merita rispetto ma solo la forza ha il diritto di prevalere e farsi legge, alla rivendicazione di una legge di natura più alta e profonda e durevole delle singole «leggi scritte», rivendicata con diversi accenti da Antigone e da Pericle. È l’intuizione – quest’ultima – forse troppo rasserenante di un «diritto naturale», che però, ad una critica acuminata, finisce sempre con l’apparire la proiezione ipostatizzata di un determinato diritto. Euripide, proprio per il suo incessante sperimentalismo, per il suo riproporre, da varie visuali e su vari terreni, il fondamentale dilemma dei sofisti tra «legge» e «natura», sembra piuttosto inclinare per un relativismo che sgretola le certezze, molto simile, in questo, al dialogo programmaticamente sempre aperto della dialettica socratica. Ma è questa, com’è chiaro, una impostazione irritante per l’Ateniese medio, per un pubblico di cui il cliente di Lisia sa di raggiungere la corda giusta, quando racconta compiaciuto in tribunale tutti i dettagli dell’agguato che ha teso, spalleggiato dagli amici, all’amante di sua moglie, colto sul fatto e sgozzato nudo sul posto,

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

209

a tutela – come spiega – di tutti i mariti (Lisia, I, 47). E infatti, con tutta la grossolanità che gli imprime Aristofane nelle Rane, Eschilo rinfaccia ad Euripide (vv. 1045-1051) di aver reso altrettante Stenebee e Fedre le donne oneste, e di essere stato perciò giustamente vittima egli stesso, nella vita privata, di un tale scadimento dei costumi: allusione – che nelle Rane ritorna anche altrove (v. 944) – al legame che avrebbe unito la moglie di Euripide al musicista Cefisofonte, amico e collaboratore di Euripide. Insomma, invece di assolvere al compito fondamentale del teatro di Stato ateniese, e cioè di istillare e trasmettere e tener vivi, anzi imporli impressionando la fantasia, i valori costitutivi e fondanti della polis, Euripide li mette in discussione e, per così dire, psicoanalizza il suo pubblico. Aristofane coglie con grande lucidità questo sottrarsi del teatro euripideo ai suoi compiti politici istituzionali: «Ma come – chiede Euripide nel dibattito che si svolge nelle Rane –, quella vicenda a proposito di Fedra l’ho forse inventata io?» «No! – risponde Eschilo – non è affatto fittizia; ma il poeta deve nascondere ciò che è riprovevole, non esibirlo, né portarlo sulla scena» (vv. 1052-1054). 7. Legge e natura: critica dei rapporti sociali Ma le potenzialità critiche della distinzione legge/natura sono, a rigore, illimitate. Esse coinvolgono, ben oltre il piano dei rapporti familiari e sessuali, i fondamenti stessi, sociali e religiosi, della polis: le distinzioni cardinali tra schiavi e liberi, tra Greci e barbari. Per ridicolizzare Euripide, Aristofane gli fa dire nelle Rane: «Nelle mie tragedie, invece, parlavano non meno degli altri sia la donna che lo schiavo» (v. 949). Risultava infatti disturbante che gli schiavi, così significativamente presenti nei drammi euripidei, parlassero non già per descrivere i propri turbamenti intestinali (come Xantia nelle Rane) ma per svolgere pensieri elevati, notevoli. Come ad esempio la nutrice di Fedra, che al principio dell’Ippolito riflette sulla condizione umana e adombra l’inesistenza di un mondo ultraterreno: «E se del viver nostro altro è più bello, folta nuvola d’ombra lo nasconde. Ma un cieco amore tuttavia ci tiene, di questo, qual che sia, raggio che brilla sopra la terra, poi che non provammo altra vita giammai e di sotterra sappiamo nulla e ci lasciam portare inutilmente da favole vane» (vv. 191-196; trad. di Carlo Diano). Concessione notevole alla intelligenza critica di una anziana schiava: fatta qui consapevole di uno degli approdi del pensiero eu-

210

Il teatro: un mestiere nella polis

ripideo, qual è appunto il dubbio radicale sull’esistenza degli dèi, la volta che i singoli eventi umani appaiono governati non già da una finalità ma dalla cieca casualità di Tyche. Anche Taltibio, che è un servo (hyperètes) di Agamennone, al cospetto di Ecuba, ormai schiava, annichilita per terra dopo che le hanno portato via la figlia da immolare sulla tomba di Achille, esprime tutta la sua incredulità nei confronti di Zeus: «Zeus, che devo dire? che tu guardi gli esseri viventi, o che invece è una falsa convinzione quella di chi crede davvero che esiste la razza degli dèi, mentre invece è Tyche che regola le cose umane?» (Ecuba, 488-491). Che è il dilemma di alcuni versi dell’Ipsipile, ricostruiti felicemente da Diano, dove la risposta, apparentemente implicita, è ormai chiara: «Vano errare degli uomini, che fanno essere ad un tempo e la Tyche e gli dèi. Perché, se c’è la Tyche, che bisogno c’è degli dèi? E se il potere è degli dèi, la Tyche non è più nulla» (Supplementum Euripideum, a cura di Von Arnim, Fr. 63). Ma se vi è una tragedia che può considerarsi, da cima a fondo, una tragedia sulla schiavitù, questa è l’Ecuba. Inestricabile rispetto al tema ‘schiavitù’ è quello della opposizione «barbaro»/greco, per la ragione che la gran parte degli schiavi che gli Ateniesi hanno sott’occhio nella loro quotidiana esistenza sono di origine «barbara» sì che nella coscienza comune i due concetti finiscono col collimare. Ecuba, Andromaca, Troiane si prestano perfettamente alla riflessione su schiavitù e barbarie, perché le donne di Troia, principesse o anonime donne del coro, sono al tempo stesso «barbare» ed ex-libere ridotte in schiavitù. Né va trascurato che gli sviluppi drammatici della guerra accrescevano l’attualità di tale riflessione sui vinti in guerra ridotti in schiavitù. (Le schiave troiane del coro dell’Ecuba accennano, tra l’altro, alla loro prossima condizione di schiave in Atene: vv. 466-475.) L’Ecuba (che è bersaglio degli sberleffi di Aristofane nelle Nuvole, e sarà dunque di non molto precedente il 423, data in cui fu rappresentata quella commedia) risente probabilmente anche dell’episodio grave di Mitilene (427): quando l’assemblea popolare ateniese approvò, in un primo momento, la proposta di far uccidere tutti i maschi adulti della città ribelle e di vendere come schiavi tutte le donne e i bambini, e solo l’abile e accorata eloquenza di Diodoto riuscì a far mutare l’insano deliberato. L’episodio dovette fare a lungo scalpore, se si considera il racconto pieno di patetismo che Tucidide (III, 49), solitamente così compassato, dedica alla risoluzione della vicenda: e narra della tri-

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

211

reme, latrice del più umano contrordine, lanciata all’inseguimento senza requie della precedente, riluttante latrice del messaggio di morte, e dell’arrivo quasi simultaneo delle due navi nel porto della città vinta, e della sentenza di morte profferita e subito annullata dal sopraggiungere della seconda trireme – un tema che parrebbe degno di un dramma di Euripide. Nell’Ecuba vengono ampiamente sviluppati i due problemi capitali dello status servile. Innanzi tutto il fatto, decisivo, che prima di essere asservito, lo schiavo è stato un libero: constatazione che mette in crisi il presupposto più caro ai teorici dello schiavismo – quale sarà Aristotele nel secolo seguente –, e cioè la distinzione «naturale» tra schiavi e liberi. È il tema ampiamente svolto da Polissena, la giovanissima figlia di Ecuba, che i Greci hanno deciso di sgozzare sulla tomba di Achille affinché il defunto eroe propizi il loro ritorno in patria. Polissena si impone di accogliere come una buona ventura la morte imminente, che le eviterà le umiliazioni della schiavitù (vv. 342-378); e tutta la scena della sua uccisione ruota intorno a questa sua aspirazione a preservarsi libera fino al momento in cui Neottolemo le taglia la gola. Ancora nel momento in cui Odisseo la strappa dalle braccia di Ecuba, Polissena paventa di dover «morire schiava pur essendo nata libera» (v. 420). Il suo atto di ribellione e di riaffermazione di libertà si verifica nel momento in cui sta per consumarsi il sacrificio umano. Neottolemo ordina ad un gruppo di giovani di immobilizzare la vittima, ma Polissena in quel momento parla e ordina ai suoi carnefici di non toccarla: «Porgerò il collo con cuore fermo, uccidetemi libera, perché io muoia libera» (vv. 549-550: l’enfasi è su questo concetto, com’è chiaro dalla ripetizione eleuthèran, eleuthèra nello stesso verso). Agamennone, che presiede al sacrificio, ordina che questa volontà sia rispettata, e Neottolemo ha un momento di smarrimento dinanzi al corpo scoperto di Polissena; poi sceglie di colpire «i canali della respirazione» (v. 567). E Polissena muore «con dignità», euschèmon (v. 569), coprendo, mentre cade, quelle parti che occhi di uomini non devono vedere (v. 570). L’ambiguità della condizione dello schiavo, del mondo degli schiavi, nel quale tendono a sopravvivere, pur nella nuova condizione brutalmente livellatrice, le originarie gerarchie, è il filo conduttore della seconda parte della tragedia3. Qui Ecuba, già prostrata dalla perdita di Polissena, viene raggiunta, nel modo più improvviso e brutale, dalla prova della morte del figlio ancora fanciullo Po-

212

Il teatro: un mestiere nella polis

lidoro, a suo tempo affidato al re tracio Polimestore, buon amico di Priamo, e da Polimestore fatto a pezzi ora che Troia è caduta. Col suo gesto Polimestore ha inteso non solo impadronirsi degli ingenti tesori che Polidoro aveva con sé, ma fare un gesto che ritiene propiziatore di amicizia verso i Greci vincitori. A questo punto Ecuba, con la complicità dello stesso Agamennone – il cui legame con Cassandra sta ad indicare il nesso di morbosa interdipendenza che si insinua nel rapporto schiavo/padrone – trama la vendetta. E nel realizzare l’agguato – nel corso del quale centinaia di schiave troiane immobilizzeranno e accecheranno Polimestore con le sue fibbie mentre altre ne sgozzeranno i figli – Ecuba è da capo la regina: la regina che dà ordini alle sue schiave e alle altre donne; e come regina, e perciò dirigente della sommossa, parlerà ad Agamennone per giustificare il proprio operato in una sorta di processo imbastito dal re acheo, il quale simula così di prestare ascolto alle rimostranze rabbiose di Polimestore, bramoso di far punire le schiave assassine (vv. 1252-1253). Ma abilmente, nel corso stesso del suo dire, Ecuba ritorna nel suo ruolo di schiava, che si rivolge al suo padrone Agamennone. E così, dopo aver guidato una cruenta sommossa – la prima sommossa di schiavi raccontata in lingua greca –, conclude con rispettosa umiltà smorzando i toni, abile e remissiva: «Non voglio offendere i padroni» (v. 1237). È un altro segno della straordinaria capacità euripidea di studiare, mentre ne compiange la condizione, il processo di degradazione dello schiavo – quel processo appunto cui Polissena è riuscita a sottrarsi – sintetizzato nelle parole aspre del coro quando definisce Cassandra «profetessa baccante» e «concubina» di Agamennone (vv. 121-122). È in certo senso ciò che Ermione rinfaccia ad Andromaca: come fa a giacere con Neottolemo, figlio dell’assassino di Ettore (Andromaca, 170-173); e che spiega richiamando la abietta natura dei «barbari». Ma il dominato si costruisce, pur nella catastrofe personale, una sua sempre nuova, anche se sempre più ridotta, «felicità», cui si aggrappa. Al principio della tragedia, quando le si presenta Odisseo che deve portar via Polissena, Ecuba si oppone e risponde, come se questo potesse interessare Odisseo: «Basta morti. Di questa figlia io godo, e in lei dimentico i mali». Ma dalla progressiva resa e dalla coatta vicinanza fisica e sottomissione al padrone può anche nascere audacia inaudita. Perciò il coro commenta, dopo le parole di Ecuba: «Sopraffatto dalla violenza, lo schiavo tenta l’impossibile» (vv. 332-333).

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

213

8. Paternalismo oligarchico e critica della schiavitù L’altro aspetto della schiavitù affrontato da Euripide nell’Ecuba è la riduzione dello schiavo a merce, l’obbrobrio dell’«acquisto per denaro» di un essere umano. È un tema della discussione sulla schiavitù che attraversa la società schiavistica della Grecia classica, come è chiaro ad esempio dalle indagini di Teopompo di Chio, il quale – mezzo secolo più tardi – poneva proprio a Chio la nascita della figura e della condizione dello schiavo-merce; nonché dalla riflessione di Platone sulla schiavitù di tipo ilotico (Leggi, 776C), l’altra forma di schiavitù storicamente affermatasi nel mondo greco. Nelle comunità in cui si era affermata la democrazia politica sulla base del presupposto dell’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini nati liberi e di sesso maschile, proprio la tutela del privilegio della democrazia aveva approfondito il baratro tra liberi e schiavi. In Atene questo fenomeno datava dal momento in cui Solone aveva abrogato la schiavitù per debiti: mentre recuperava alla libertà ceti immiseriti che stavano scivolando nella dipendenza – ha osservato Moses Finley – si apriva un baratro, rimasto incolmabile, tra libertà e schiavitù. Gli schiavi, nella città democratica, sono la base dell’economia domestica e dell’economia pubblica (miniere). La servitù di tipo ilotico – così definita perché ha negli iloti spartani l’esempio più noto, e che per certi versi potrebbe definirsi un rapporto di dipendenza di tipo «feudale» – garantiva ai servi un lotto di proprietà ed una sia pure subalterna sfera di autonomia: questa forma era rimasta caratteristica di vaste e rilevanti aree del mondo greco, dominate da forme politiche aristocratiche e paternalistiche. In queste comunità non vi era l’abisso polare schiavo/libero ma una specie di piramide di vari status, al vertice della quale era l’aristocrazia dominante. Non dovunque – in queste aree – la condizione dei servi era dura come nel caso degli iloti in Laconia. Non a caso i difensori del sistema (tipicamente ateniese) della schiavitù-merce additavano proprio la durezza della condizione degli iloti della Laconia per affermare la superiorità dell’altro sistema (ad esempio Callistrato aristofaneo, in Ateneo, 263E). L’insistente ricorso, nell’intervento di Polissena al principio dell’Ecuba, alla equivalenza doùlos/argyrònetos sembra rinviare appunto a questo dibattito. Quando tratteggia la propria prossima condizione e le incombenze che le toccheranno quando sarà «comprata in cambio di oro» (v. 360) o verrà accoppiata del tutto ca-

214

Il teatro: un mestiere nella polis

sualmente ad un altro «schiavo comprato» (v. 365: doùlos onetòs), Polissena parla di una realtà ben più moderna della preda suddivisa tra i capi nel mondo omerico. E conia, in questo passo, adoperandone entrambe le componenti, il termine argyrònetos, che, nella discussione cui si riferisce Teopompo, è appunto il termine tecnico per indicare lo «schiavo-merce». Euripide idealizza, e pone in una luce positiva, il rapporto paternalistico, di fiducia e devozione tra padrone e schiavo. Significativamente, in entrambi i passi in cui esprime formulazioni radicali ed esplicite sulla inconsistenza della distinzione libero/schiavo (Elena, vv. 728-733; Ione, vv. 854-856) – e sono formulazioni messe in bocca a schiavi –, questi stessi schiavi proclamano il dovere della lealtà verso i padroni. Il vecchio schiavo di Creusa, che nello Ione proclama «Una sola cosa reca vergogna allo schiavo, il nome di schiavo; per tutto il resto, se è di nobile natura, non è inferiore in nulla ai liberi» (vv. 854-856), nei versi subito precedenti si dice pronto a condividere tutte le scelte di Creusa, anche le più arrischiate e discutibili. Ed il vecchio servo dell’Elena, che rivendica di avere «mente di libero» (vv. 730-731), sviluppa questo pensiero dopo aver proclamato «è cattivo chi non onora i padroni e non gode delle loro gioie e non soffre dei loro mali» (vv. 726-727). È la rivendicazione di quel rapporto di solidarietà affettiva, o se si vuole di affetto in cambio della protezione, che veniva messo in rilievo – in polemica con la brutalità della schiavitù-merce – dai sostenitori dell’altra forma di dipendenza. Una tale teorizzazione ci è nota dall’XI libro di Posidonio (Fr. 87 Jacoby), ma risale certo alle discussioni di V e IV secolo, di cui è un sintomo l’indagine di Teopompo intorno al ‘luogo’ dove la schiavitù-merce era sorta. Il non aver inteso questo nesso – nella concezione euripidea – tra il riconoscimento della ‘pari umanità’ dello schiavo e l’accentuazione del rapporto paternalistico tra schiavi e padroni ha posto gli interpreti moderni dinanzi ad aporie in realtà inesistenti. Anche qui è preziosa la critica che Aristofane rivolge al suo abituale bersaglio polemico. Quando, nelle Rane, Euripide si vanta di aver fatto finalmente parlare sulla scena gli schiavi e le donne, Dioniso gli risponde duramente: «E non bisognava metterti a morte perché avevi osato questo?». Ma ad Euripide che replica: «No di certo: l’ho fatto perché era una cosa democratica», Dioniso ribatte: «Quanto a questo poi, lascia perdere, mio caro» (vv. 950-952). Tutto dunque può pretendere di sostenere il sottile e sofistico Euripide eccetto

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

215

che sia intonato con il funzionamento della democrazia il dare la parola agli schiavi e alle donne: cioè ai due soggetti per definizione esclusi dalla democrazia come la si intende ad Atene, alle non-persone della democrazia ateniese. E infatti la unilateralità del modo in cui la città democratica pratica quel principio di uguaglianza su cui dice di fondarsi viene rilevata, nell’Atene di Euripide e dei sofisti, proprio da quei critici radicali del sistema che dal sistema si tengono fuori. E tra questi critici può certo annoverarsi lo stesso Euripide, cui dunque – non a torto dal suo punto di vista – Aristofane/Dioniso ribatte: tutto puoi dirti fuorché «democratico»! Ecco perché vi è una sostanziale e verbale identità tra la dilatazione euripidea dell’uguaglianza ben oltre i limiti vigenti nella polis (Alessandro, Fr. 52 Nauck2: «In principio, quando fummo generati, la terra ci formò tutti di uno stesso aspetto: uguale parto generò il nobile e il non nobile») e la provocatoria formulazione di Antifonte: «per natura tutti, in tutto e per tutto, siamo stati fatti uguali, e barbari e greci» (Sulla verità, Fr. 7B, colonna 2 Diels-Kranz). Significativa questa puntuale ripresa da Antifonte. Egli è il grande assente dai verbosi rituali assembleari, la «mente» del colpo di Stato del 411, e, insieme, l’autore della più pungente e circostanziata contestazione dell’egualitarismo zoppo della polis democratica. Giacché l’apparente paradosso degli avversari e dei critici del «sistema» ateniese consiste appunto in questo poter essere al tempo stesso assertori dell’uguaglianza e ostili alla «democrazia realizzata»: essa si è infatti storicamente realizzata – in Atene e altrove – sulla restrizione sempre più rigida del privilegio della cittadinanza (che è anche lo status di piena libertà politica) e sulla demonizzazione sempre più enfatica del concetto di «barbaro» (coinvolgente anche gli schiavi, in pratica tutti gli esclusi dalla comunità democratica); un sistema che, non a torto, parve al conservatore Wilamowitz, ammirato, come una gilda di cittadini-guerrieri-maschi adulti. 9. Le «Supplici» e la critica della democrazia Ma Euripide considera il sistema anche dall’interno, nel suo concreto funzionamento, non solo dal punto di vista delle drastiche esclusioni su cui è basato. Non si tratta del tema, banale, dell’avversione verso i «demagoghi». Certo, si possono segnalare passi come Ecuba, vv. 131-132, do-

216

Il teatro: un mestiere nella polis

ve Odisseo, che è il prototipo del parlatore d’assemblea, viene definito «mellifluo adescatore del popolo» (hedylògos democharistès); o come Oreste, v. 772 («cosa terribile il popolo, quando ha dei capi farabutti»), che già Filocoro, l’antiquario ateniese dell’età di Alessandro, credeva di dover riferire a Cleofonte. Ma si potrebbero anche opporre a queste altre uscite, come la replica di Pilade alle parole di Oreste: «Ma quando ha un buon capo, sempre il popolo si comporta bene» (v. 773). È sterile battere questa strada. Vi è invece – come s’è detto in principio – un dramma prediletto dall’analisi moderna, quando si volge all’Euripide ‘politico’: le Supplici. Qui viene impostato infatti, in modo quasi didattico, il quesito dei pro e dei contro del sistema democratico-assembleare. Il dibattito è invero alquanto avulso rispetto allo svolgimento della vicenda. Le madri dei sette caduti sotto Tebe, supplici ad Atene, capeggiate da Adrasto, contano sull’intervento di Teseo per ottenere i corpi dei loro figli caduti. Ma da Tebe giunge un araldo che ha il compito di chiedere l’espulsione di Adrasto. L’araldo tebano però, prima di eseguire il suo compito, chiede: «Chi è il tiranno di questa terra?» (v. 399). Com’è noto, «tiranno» è parola ambigua nel linguaggio tragico e può significare semplicemente «il sovrano», «il signore». Qui però essa viene volutamente intesa nel suo valore più negativo, perché possa scaturirne il dibattito sui ‘princìpi’ che Teseo accende replicando con durezza: «Incominci con un falso, straniero, se cerchi qui un tiranno». Sembra una allusione al dialogo tra Atossa ed il coro nei Persiani di Eschilo, dove Atossa si informa su Atene e ad un certo punto chiede: «Chi è il loro capo, chi comanda il loro esercito?» ed i vecchi consiglieri persiani rispondono: «Di nessun uomo schiavi né sudditi si chiamano». Atossa incalza: «Ma allora come possono reggere un attacco nemico?», e il coro risponde «Tanto lo possono, che hanno liquidato un esercito bello e grande di Dario» (vv. 241-244). Così nei Persiani il discorso è chiuso, e resta dimostrata la superiorità del sistema politico ateniese sul dispotismo. Invece in Euripide il discorso è appena avviato. Teseo impartisce subito una lezione di democrazia al suo interlocutore e gli spiega, con un gergo molto caricato, tipico dei retoricissimi epitafi, che ad Atene «il demo comanda grazie alla rotazione dei magistrati annuali, né dà più spazio al ricco, ma anzi anche il povero ha una parte uguale» (vv. 406-409: l’identità con le parole dell’epitafio pericleo [Tucidide, II, 37,1] è tale da far pensare ad una consapevole citazione). Una tale

XII. Euripide, Antifonte e Crizia

217

proclamazione però non risulta affatto risolutiva. Seguono infatti due ampie tirate: quella dell’araldo tebano, che mette in bell’ordine gli argomenti che condannano il regime popolare (vv. 409-425), e quella di Teseo, che si effonde in un ampio quadro degli inconvenienti della tirannide (vv. 426-456). Dopo di che Teseo si ricorda che l’araldo dev’essere giunto ad Atene per una qualche precisa ragione, non per discutere di politica, e gli chiede: «Ma tu perché sei venuto qui?», e la vicenda riprende il suo corso, sino al prevedibile trionfo di Teseo e della buona causa delle supplici e di Adrasto (sovrano peraltro posto in genere in luce non molto positiva nell’ambito della leggenda dei Sette: nei Sette di Eschilo, ad esempio, suo pessimo consigliere è Tideo, vituperato dall’eroico Amfiarao). Ma il punto più rilevante del dialogo è che esso rimane un perfetto dialogo tra sordi. Gli argomenti dell’araldo sono le tipiche riserve contro il potere popolare e si sintetizzano nella taccia di amathìa e nella domanda «come può il povero – quand’anche non fosse ignorante – occuparsi della cosa pubblica, impegnato com’è in altre occupazioni per vivere?» (vv. 420-422). Quello della incompetenza (amathìa) è l’argomento classico, è il quesito sempre ritornante della riflessione socratica, è il presupposto della conclusione negativa cui perverrà Platone a proposito del sistema vigente nella sua città. Ma ciò che più colpisce è che Teseo lascia senza risposta il celebre e temibile quesito intorno alla competenza del demo, e invece, alla maniera di Otanes nel dialogo erodoteo ambientato in Persia, passa ad illustrare gli enormi danni del governo di uno solo. Non è poco notevole che tale conclusione aperta, aporetica, intorno alla topica obiezione antidemocratica venga tratta sulla scena, dinanzi a tutta la città, non in un cenacolo filosofico. Il che nessun oratore avrebbe osato dalla tribuna. 10. La «democrazia realizzata» Il sistema era dunque vulnerabile nei suoi fondamenti teorici; giustificabile era – come osservò Crizia – solo dal punto di vista dell’egoismo di un ceto. Contro un tale sistema la critica si poteva dunque rivolgere in molti modi: tra gli altri, il dialogo socratico ed il teatro euripideo. La libertà di critica ed il gioco dell’intelligenza hanno portato entrambi a trarre deduzioni che hanno forse sgomentato gli stessi artefici. Di qui l’inquieto sperimentalismo euripi-

218

Il teatro: un mestiere nella polis

deo. Esso non poteva che risultare sgradito al «popolo di Atene»: come infatti avvenne. Se è vero che nel teatro di Stato ateniese «il corpo sociale ricompone la propria unità» (Lanza), disturbante doveva risultare una drammaturgia come quella euripidea, che riproponeva continuamente il problema degli esclusi dalla polis, con un rigore che poteva minarla. L’Ateniese medio preferiva ovviamente Aristofane, che, al principio delle Nuvole, fa esclamare al protagonista: «Maledetta guerra! Non mi è neanche più lecito picchiare gli schiavi!» (vv. 6-7). Dottrinario conseguente e governante spietato, Crizia attaccò quel sistema con le armi. Ma invano. Giacché quello era davvero il sistema politico degli Ateniesi, come egli stesso nel suo opuscolo aveva spiegato4. Che ad uno sbocco quale fu il regime di Crizia avessero mai pensato coloro – Socrate ed Euripide ad esempio – della cui critica il capo dei Trenta si era nutrito, nulla lo lascia pensare. Perciò uccidere Socrate adducendo il motivo che era stato maestro di Crizia – in realtà perché giudicato ateo, come Euripide, e perciò guardato con sospetto – resta pur sempre un gesto tipicamente intollerante della «democrazia realizzata» dal «popolo di Atene». Note 1 Ne danno notizia Plutarco, nella Vita di Alcibiade (§ 11), il quale ne cita anche dei versi, ed Ateneo (I, 3E). Nella Vita di Demostene (§ 1) Plutarco ribadisce che l’opinione prevalente attribuisce l’epinicio ad Euripide, ma segnala anche il dubbio sollevato da qualcuno: dubbio evidentemente dovuto alla diversa circolazione di questo componimento rispetto alla collezione delle tragedie; Bowra ha osservato, sensatamente, a questo proposito, che non c’era, di Euripide, un libro di epinici. 2 Una situazione affine ritornava ancora nella Stenebea, e forse nel Peleo, entrambe non conservate. 3 È un fenomeno che, secoli dopo il filosofo Posidonio studiò su scala molto più grande, analizzando il caso concreto delle rivolte degli schiavi in Sicilia. 4 Si tratta della Costituzione degli Ateniesi tramandata con le opere di Senofonte: si veda, più oltre, il capitolo su Crizia.

XIII ARISTOFANE E SOCRATE 1. Socrate, idolo polemico A rigore il primo, a noi noto, che suggerisse di eliminare Socrate fisicamente era stato Aristofane, nel finale delle Nuvole, che si concludono appunto con la scena dell’incendio al «pensatoio» del filosofo. Nel celebre libro sui Greci e l’irrazionale, Dodds fece un’osservazione molto semplice ma molto pertinente: che cioè nelle intenzioni di Aristofane gli spettatori «dovevano divertirsi al cospetto dell’incendio, poco curandosi che Socrate morisse nell’incendio». In realtà tutta la scena finale è terribilmente aggressiva. Il vecchio e ‘sano’ ateniese di campagna, Strepsiade, che, per liberarsi dai debiti procuratigli dal figlio snob come sua madre, è andato a farsi erudire nel «pensatoio» socratico, alla fine della commedia capisce quanto quel luogo sia deleterio, fonte di corruzione e di ateismo, e con l’aiuto gagliardo di un servo va ad appiccare il fuoco alla dimora di Socrate, facendosi beffe delle invocazioni disperate delle vittime. Socrate fa appena in tempo a dire che muore soffocato, uno scolaro va in fuoco e geme: ma lo scatenato giustiziere – che prima di passare alle vie di fatto ha invocato un processo contro Socrate (v. 1482) – li apostrofa come atei e perciò giustamente messi a morte, e intanto incita il servo a picchiare senza pietà i malcapitati: «Come avete potuto osare di offendere gli dèi e scrutare la sede della luna? (al servo) Prendilo! Buttalo giù! Picchia! per mille ragioni, ma soprattutto perché hanno offeso gli dèi» (vv. 1506-1509). E col richiamo all’ateismo delle vittime del benefico incendio, la commedia si chiude. L’attacco è ancor più impressionante, se si considera che nella stessa tornata ne era stato inscenato un altro: la commedia classificata seconda, il Conno di Amipsia, era anch’essa

220

Il teatro: un mestiere nella polis

rivolta contro Socrate1. Le Nuvole – rappresentate alle Dionisie del 423 – furono classificate al terzo posto, il che indispettì profondamente Aristofane: l’anno seguente protesta con gli spettatori, nella parabasi delle Vespe, e li rimprovera perché non hanno capito i pensieri «nuovissimi» della sua commedia dell’anno prima (Vespe, 1044-1045). È anzi piuttosto duro, nei confronti del pubblico: lo taccia di «tradimento» e senza eufemismi gli rinfaccia di «avere la testa confusa» (v. 1045). Sembra che alle Nuvole Aristofane tenesse molto, dato che volle rimetterci le mani per ripresentarla. È tramandata appunto la redazione rimaneggiata, con una nuova parabasi, dove si fa riferimento (v. 553) al Maricante di Eupoli (commedia rappresentata nel 421). Sulla effettiva rappresentazione della seconda stesura l’erudizione antica fornisce notizie contrastanti. Il I «Argomento» (secondo la numerazione dell’edizione Dover) parla di rifacimento incompiuto e di rinuncia «non si sa per quale ragione» ad una nuova rappresentazione. Il II «Argomento» invece, che contiene quasi esclusivamente materiale tratto dalle Didascalie, parrebbe far riferimento ad una seconda rappresentazione nel 422, anch’essa infelice – perlomeno così è stato in genere inteso –: ma forse vuol solo dire che non ottenne nemmeno il coro, e infatti prosegue osservando che perciò Aristofane «neanche in seguito portò più sulla scena il rifacimento». Sta di fatto che nelle Didascalie Callimaco trovava le Nuvole presenti unicamente alle Dionisie del 423 (Fr. 454 Pfeiffer) ed Eratostene spiegava ciò correttamente: «infatti le didascalie registrano solo le commedie effettivamente rappresentate».

Nel 423, quando alle Dionisie furono rappresentate ben due commedie contro di lui, Socrate aveva poco più di quarantacinque anni (la sua data di nascita si pone nel 470, in base agli «oltre settant’anni» che gli fa dichiarare Platone nell’Apologia). Era già un personaggio rilevante nel panorama intellettuale ateniese, ed aveva preso parte, l’anno prima, alla battaglia di Delion tra Beoti e Ateniesi (424). Aristofane, all’incirca venticinquenne, aggrediva sulla scena quello che gli appariva il maggiore responsabile della moderna e rovinosa educazione dei giovani. Sembra un anziano lodatore del tempo andato; e invero si immedesima perfettamente in una tale veste. Già nel 427, nella commedia con cui aveva esordito, i Banchettanti, aveva tuonato contro l’educazione moderna: trattava della diversa riuscita di due fratelli educati appunto l’uno all’antica e

XIII. Aristofane e Socrate

221

l’altro dai nuovi maestri. Incominciava cioè la sua carriera con un primo attacco nella direzione sviluppata poi nelle Nuvole. È Aristofane stesso che nella parabasi delle Nuvole istituisce un rapporto di stretta connessione e affinità tra Nuvole e Banchettanti: addirittura (vv. 528-536) a significare lo stretto rapporto tra le due commedie, evoca l’immagine di Elettra che va in cerca del fratello. La commedia dell’esordio non è conservata, ma dal modo in cui Aristofane vi fa riferimento possiamo farci un’idea della schematica rozzezza con cui era trattata la materia: il figlio educato all’antica è «il virtuoso», l’altro è «l’invertito» (Nuvole, 529). 2. Le «Nuvole» e i processi per empietà Ma le Nuvole non erano lo sfogo più o meno virulento di un fanatico della vecchia educazione. Erano un’aspra e pubblica denunzia, il cui risultato poteva essere anche l’apertura formale ai danni di Socrate di un procedimento «per empietà» (dìke asebèias) in base al decreto di Diopìte, varato qualche anno prima per colpire Anassagora (Plutarco, Vita di Pericle, 32) e ancora in vigore2. L’ipotesi di processare Socrate viene prospettata nel finale (vv. 14811482), quando Strepsiade si accinge all’incendio del «pensatoio»: «Ah che aberrazione! Come ero pazzo quando rifiutavo gli dèi per colpa di Socrate! Ma tu, amato Ermes, non avercela con me, non mi colpire, abbi compassione se sono uscito di senno per colpa di un vaniloquio. Consigliami tu: presento un’accusa (graphèn) contro di loro e li porto in tribunale? O che altro vuoi tu? Sì, sì (finge di ascoltare la statua di Ermes): altro che vie legali, la cosa migliore è metterla subito a fuoco la casa dei ciarlatani. Qui, qui, Xantia! Prendi una scala...» (vv. 1476-1486).

La denuncia dell’ateismo di Socrate percorre le Nuvole dal principio alla fine: ateismo consistente nel non credere negli dèi della città, universalmente accettati, e venerare invece entità celesti. Quando, al principio, Socrate appare al vecchio Strepsiade, che vuole frequentare il pensatoio per imparare a truffare in tribunale, è sospeso in un canestro e contempla il sole. Al vecchio che lo sollecita: «Ma tu che stai facendo? Ti prego, dimmelo!», Socrate risponde: «Percorro l’aria ed esamino il sole» (vv. 224-225). Strepsiade pronto: «Allora è da un canestro che tu disprezzi gli dèi!»;

222

Il teatro: un mestiere nella polis

e Socrate: «Non avrei mai potuto studiare a fondo il mondo celeste (tà metèora pràgmata) se non avessi sospeso il mio spirito» (vv. 226-229). Subito dopo il vecchio si lascia sfuggire un giuramento «in nome degli dèi» (v. 246). È l’occasione per far sviluppare a Socrate, lungo quasi duecento versi, una lezione sul rifiuto degli dèi tradizionali e sulle entità celesti da venerare come divinità: «Per quali dèi stai giurando? – si indigna Socrate – Innanzi tutto sappi che qui da noi gli dèi non hanno corso» (vv. 247-248), e subito incalza: «Vuoi sapere la verità in materia di dèi?» (vv. 250-251); e dopo alcuni scherzi banali e giochi di parole pronunzia la solenne invocazione alle nuvole, all’aria e all’etere, vere divinità (vv. 264-266). Le nuvole, evocate, appaiono; esse costituiscono il coro (donde la commedia prende nome), che intreccia subito con Socrate una conversazione di tono elevato, punteggiata dagli stolti interventi di Strepsiade, in rappresentanza del buon senso. Dalle nuvole Socrate è definito «sacerdote delle parole vuote e meteorosofista» (vv. 359360). Alla fine della lunga scena Strepsiade, per opportunismo, bramoso di apprendere l’oratoria truffaldina, accetta, giurando, l’ingiunzione di Socrate: «Non venererai altri dèi fuorché quelli che onoriamo noi: il Chaos, le Nuvole, la Lingua» (vv. 423-424). Perciò quando torna dal figlio a insistere perché vada a scuola da Socrate, è lui, Strepsiade, che riprende il giovanotto: «Che fai? giuri per Zeus? Zeus non esiste!», «Chi dice questo?» «Socrate di Melo» risponde (vv. 825-830), fingendo di confondere Socrate con Diagora di Melo, il poeta tacciato di ateismo e perciò condannato a morte qualche anno dopo, nel 415. E ancora nella scena finale, Strepsiade prima fa abiura del suo ateismo, poi, quando ormai la casa di Socrate è in fiamme e Socrate, vedendolo sul tetto, gli chiede allarmato: «Ma che fai lì sul tetto?», il vecchio gli rinfaccia sbeffeggiandolo le sue divinità e gli ripete per scherno le prime parole che il filosofo ha detto alla prima sua apparizione: «Percorro l’aria ed esamino il sole!» (vv. 1502-1503). L’atto d’accusa è dunque drastico e insistente: Socrate è colpevole perché studia tà metèora, le entità celesti, e perciò non crede negli dèi, e per giunta insegna tutto questo; inoltre è, come gli altri sofisti, maestro di perversa dialettica. Era quanto bastava per essere incriminati a norma del decreto di Diopìte. Dunque il cenno finale della commedia – quando Strepsiade chiede ad Ermes se convenga presentare una denuncia (graphè) – era un preciso riferimento, che non poteva sfuggire agli spettatori.

XIII. Aristofane e Socrate

223

Del resto il decreto di Diopìte non era rimasto inoperante. Aveva avuto subito una vittima illustre, il filosofo Anassagora, l’indagatore dei fenomeni celesti di cui Socrate era stato scolaro ed era ritenuto seguace, il filosofo che, a causa dei suoi rapporti col mondo del teatro, era chiamato, secondo Vitruvio, «scaenicus» (VIII, pr. 1: a meno che la definizione non vada riferita allo stesso Euripide). Anassagora era stato messo in salvo da Pericle, che lo aveva fatto fuggire sottraendolo così ad un rischiosissimo processo «per empietà». In realtà – osserva Plutarco – il vero bersaglio di Diopìte era lo stesso Pericle: infatti – osserva – l’attacco ad Anassagora venne mosso contemporaneamente all’azione giudiziaria promossa da Ermippo, un altro commediografo interprete del conservatorismo democratico, il quale non solo attaccava sulla scena la vita privata di Pericle presentato come «re dei satiri» (Fr. 46 Kock) ma riuscì a trascinare in tribunale Aspasia – la donna intorno a cui si raccoglieva il circolo intellettuale pericleo – sostenendo che «riceveva donne libere per il piacere di Pericle» (Vita di Pericle, 32,1). Tutto questo accadeva al tempo del processo di Fidia, accusato di malversazione nelle spese per l’Athena Parthènos: un altro attacco indiretto a Pericle (che a Fidia aveva dato mano libera per i suoi grandi lavori), degli anni 432/1. Il sincronismo tra i tre processi è ben chiarito da Plutarco, ed è confermato da Eforo (Diodoro, XII, 38-39)3.

3. Le «Nuvole» bersaglio dell’«Apologia» platonica Socrate fu processato e condannato a morte nel 399, circa due anni dopo la definitiva vittoria dei democratici, capeggiati da Trasibulo e Anito, il quale fu poi il principale accusatore di Socrate. Sotto i Trenta Socrate era rimasto in città, mentre ne fuggivano o ne erano allontanati tutti coloro che non accettavano il regime di Crizia; e con Crizia aveva anche avuto più d’uno screzio. È probabile che tutto questo, come anche i rapporti di amicizia che vi erano stati tra Socrate e Crizia prima della guerra civile, abbia avuto il suo peso nella vicenda del processo, ma non pare sia emerso come nota dominante. Ne parlò tempo dopo il retore Policrate in un pamphlet retrospettivo intitolato Accusa contro Socrate. Invece l’accusa depositata nel 399 non faceva parola di questo; diceva semplicemente, secondo il testo della graphè riferito da Diogene Laerzio (II, 40): «Socrate, figlio di Sofronisco, è colpevole di non credere negli dèi della città e di introdurre nuove entità soprannaturali; inoltre è colpevole di corrompere i giovani. Si chiede la pena di morte».

224

Il teatro: un mestiere nella polis

Nell’Apologia di Socrate, Platone riferisce in breve il capo d’accusa (24B) – che si ritrova in forma analoga al principio dei Memorabili di Senofonte – e dedica tutta la prima parte del discorso a dimostrare che il fondamento di una tale accusa e la sua prima e più pericolosa formulazione era nell’attacco sferrato da Aristofane con le Nuvole (19C): attacco che, come si è visto, si incentrava sulle medesime imputazioni sollevate poi da Meleto (di cui Anito e Licone erano i synègoroi, pronti cioè a sostenere in tribunale l’accusa depositata da Meleto). Ed è molto probabile d’altra parte che a sua volta anche Meleto si sia richiamato – nel mettere sotto accusa Socrate – al decreto di Diopìte, che, mirando ad Anassagora, tacciava di empietà chi mettesse in discussione gli dèi di Stato o indagasse sulle entità celesti. E infatti Socrate, nel corso dell’Apologia, chiede insistentemente ai suoi accusatori se non lo abbiano scambiato per Anassagora, date le accuse che gli rivolgono (26D). Socrate insiste a lungo, al principio dell’Apologia, sugli effetti di gran lunga più gravi, rispetto all’odierna accusa, che quella sistematica denigrazione di un tempo aveva ottenuto. Avverte che anche la parola può uccidere. La replica ai comici, dei quali nomina soltanto Aristofane, e agli altri «antichi accusatori» occupa la prima parte dell’Apologia (18B-24B): «Giacché io – spiega – di accusatori attivi presso di voi ne ho avuti molti, e da antica data, e operanti per molti anni, e del tutto menzogneri. Costoro io li temo più di questi che si sono messi con Anito, sebbene, beninteso, anche questi siano pericolosi. Ma quelli lo sono di più, amici miei, perché prendendovi in cura da quando eravate ragazzi vi hanno persuasi delle false accuse che ripetevano contro di me: che c’è un certo Socrate, il quale è uno che la sa lunga, si occupa dei corpi celesti e delle cose che stanno sotto terra, e rende più forte il discorso più debole» (18B).

Queste sono esattamente le tre caratteristiche della scuola di Socrate denunciate nelle Nuvole, e Socrate le ripeterà ancora una volta al termine della prima parte dell’Apologia (23D). Anche la ricerca di «ciò che è sotto terra» viene infatti denunciata da Aristofane. È al principio della commedia, quando Strepsiade entra nel pensatoio e vede gli scolari emaciati, pallidi, che guardano fisso per terra, alcuni addirittura piegati in due con la faccia per terra, e chiede a quello che gli ha aperto la porta: «E perché guardano per terra quelli?». «Loro indagano su ciò che c’è sotto terra» è la risposta,

XIII. Aristofane e Socrate

225

e Strepsiade: «Allora cercano le cipolle! Non vi preoccupate, io so dove ce ne sono di bellissime...» (vv. 187-190). «Coloro che hanno diffuso una tale immagine di me – prosegue Socrate – sono i miei accusatori pericolosi. Infatti chi li ascolta immagina che, facendo ricerche del genere, si neghino gli dèi4. Accusatori di questo genere sono molti e mi hanno già calunniato per tanto tempo, e per giunta si sono rivolti a voi quando voi, giovanissimi, alcuni addirittura fanciulli, eravate in un’età in cui si è particolarmente disposti a credere: e hanno potuto svolgere le loro accuse perfettamente indisturbati, come in un processo in contumacia, dove non c’è la parola della difesa» (18C).

Questa insistenza sull’epoca in cui gli attuali adulti, presenti in tribunale, erano giovanissimi o fanciulli, è una chiara indicazione cronologica, un salto all’indietro che vuol riferirsi ad un’epoca abbastanza precisa, nella quale questi «accusatori temibili» erano molto attivi. Le Nuvole erano state rappresentate circa vent’anni prima. Il riferimento si viene ulteriormente e progressivamente precisando. Socrate dapprima osserva che di quegli antichi accusatori è difficile ricostruire anche il nome «a meno che non si tratti di qualche commediografo» (e infatti è proprio il teatro comico un luogo dove le accuse sono mosse senza che sia data la parola alla difesa); quindi fa il nome di Aristofane e addita la perfetta identità tra l’accusa di Meleto e le Nuvole5. «Cominciamo dal principio – dice Socrate. Vediamo: qual è l’accusa da cui è nata la calunnia sul mio conto? prestando fede alla quale Meleto ha presentato questa denuncia contro di me? Ecco. Come si fa per le accuse vere e proprie, bisogna che io vi legga la loro accusa giurata: “Socrate è colpevole perché passa il suo tempo ad indagare sulla realtà sotterranea e su quella celeste e nell’arte di rendere più forte il discorso più debole, e queste cose le insegna anche agli altri”. Suona press’a poco così. Ma questa roba voi l’avete vista nella commedia di Aristofane: dove c’è un Socrate che gira in tondo sospeso in un cestino, e dichiara di “marciare per l’aere” [aerobatèin: è citazione dal v. 225 delle Nuvole] e dice molte altre sciocchezze, di cui io non m’intendo né molto né poco» (19AC).

E prosegue, confutando un’accusa che non era compresa nella graphè di Meleto, ma che invece viene sbandierata al principio delle Nuvole (v. 98): e cioè il far soldi con la scuola. «Che io cerchi di educare gli uomini per ricavarne denaro – obietta –, neanche questo è ve-

226

Il teatro: un mestiere nella polis

ro» (19DE), e contrappone se stesso ai sofisti più celebrati: Prodico, che Aristofane gli affianca appunto nelle Nuvole (v. 361), Gorgia, Ippia, i quali si arricchirono col loro mestiere. E sempre in questo ambito, riguardante il presunto profitto tratto dall’insegnamento, rientra l’ulteriore precisazione che Socrate fa poco dopo, quando ammette che sono i giovani più ricchi che gli vengono dietro: ciò avviene, spiega, perché sono quelli che hanno più tempo (23C). Nell’Apologia, dunque, la confutazione degli attacchi contenuti nelle Nuvole è seria e circostanziata. Per quanto classificate al terzo posto, a giudizio di Platone esse avevano avuto una notevole efficacia. 4. Il Socrate ‘anassagoreo’ delle «Nuvole» Il Socrate delle Nuvole è molto anassagoreo. Aristofane, tratteggiandolo così (e cogliendo un tratto autentico), accentuava ulteriormente il richiamo al recente processo «per empietà», svoltosi otto anni prima, contro il filosofo amico di Pericle. Presentando un Socrate anassagoreo, aggrava, per così dire, la denuncia e rende ancor più vulnerabile la posizione di Socrate. Gli accenni al fondamento anassagoreo della visione socratica del mondo fisico sono diffusi nei punti chiave delle Nuvole. Si tratta di riferimenti alle concezioni fondamentali del filosofo di Clazomene, qui presentate come caratteristiche dell’insegnamento socratico. In primo luogo la nozione del «vortice». Tre volte – dapprima quando Socrate istruisce Strepsiade (vv. 380-381), poi quando Strepsiade istruisce il figlio Fidippide (v. 828), infine quando Fidippide ritorce l’insegnamento socratico contro il padre (v. 1471) – Aristofane attribuisce, in punti cardinali della commedia, a Socrate la concezione anassagorea e la esprime in modo che ne risulti enfatizzato l’aspetto antireligioso: «Non c’è più Zeus, al suo posto regna il Vortice (Dìnos)». Il vortice, espresso appunto col termine dìnos, è – nel pensiero di Anassagora – il ‘veicolo’ con cui il Nous mette in moto la realtà: «Anassagora per primo – dice Clemente Alessandrino – pose l’intelletto (tòn noûn) al vertice della realtà, neppure lui però s’è occupato della causa efficiente, ma descrive dei vortici inintelligenti (dínouv tinàv a¬noätouv) che lui coniuga con l’inerzia e la inintelligenza del Nous» (Stromat., II, 14 = 59 A 57 DielsKranz). Naturalmente il vortice fu un elemento essenziale della co-

XIII. Aristofane e Socrate

227

smogonia degli atomisti: ma il pensiero di Democrito fu noto in Atene alquanto dopo il 4236. Alla scuola di Socrate dunque Strepsiade e Fidippide hanno imparato la fisica di Anassagora. Un altro chiaro riferimento è nelle prime parole che Socrate pronuncia alla sua prima apparizione, là dove spiega a Strepsiade perché se ne stia sospeso in un cestello. Lì ha un’uscita che si comprende solo se si pensa alla teoria anassagorea delle omeomerie: non avrei potuto indagare sul mondo celeste – dice – «se non mescolassi la mente sottile (leptèn) all’aria altrettanto sottile (homòion aèra)» (vv. 229-230). La nozione di aria più o meno «sottile» – e della diversa percezione a seconda della diversa «sottigliezza» dell’aria – è in Anassagora (59 A 92 DielsKranz). Socrate si è sistemato in alto, evidentemente dove l’aria è più «sottile»: così come «sottile» è la mente, partecipe del Nous, che infatti per Anassagora è «la più sottile (leptòtaton) e la più pura di tutte le cose» (59 B 12 DK). D’altra parte quando Strepsiade, nella sua rozzezza, cerca di spiegare al figlio che cosa insegnano i socratici, non ne vanta solo l’abilità avvocatesca, anzi per prima cosa gli dice: «Sostengono che il cielo è un forno, che ci avvolge tutt’intorno, e noi siamo carboni» (vv. 95-97). Negli Uccelli (vv. 1000-1001) Aristofane presenterà uno scienziato contemporaneo, l’astronomo Ippone, come seguace di questa teoria. Questa idea del cielo incandescente veniva fatta risalire ad Ippone – filosofo magnogreco più giovane di Empedocle –, al quale alludeva Cratino nei Panopti (Fr. 155 Kock). Anassagora aveva sviluppato e fatto propria questa idea sostenendo che il sole sarebbe una massa incandescente di pietra (o di metallo) «poco più grande del Peloponneso» (59 A 19-20 DK). È interessante osservare che anche Ippone per aver sostenuto una tale tesi fu accusato di «empietà» (38 A 2 DK). In realtà questo Socrate anassagoreo di Aristofane era, a suo modo, ‘vero’. Nel Fedone Socrate, rievocando il proprio itinerario mentale, parla chiaramente della propria iniziale adesione alle concezioni anassagoree (97B-98B), dalle quali si era poi venuto distaccando. Ed è notevole che in quella pagina del Fedone Platone faccia pronunciare un ampio riassunto dei capisaldi del pensiero di Anassagora, qua e là collimante con testi anassagorei conservati (per esempio col frammento 12 sulla natura del Nous). Una conferma indiretta di tale periodo anassagoreo nell’itinerario socratico viene anche dall’insistenza con cui nell’Apologia Socrate prende le di-

228

Il teatro: un mestiere nella polis

stanze da Anassagora rimproverando a Meleto di averlo scambiato col filosofo di Clazomene: «Meleto, in nome di questi dèi di cui stiamo ora parlando, spiegami più chiaramente, e spiegalo anche a questi signori, giacché io non riesco a capire: tu sostieni che io insegno che esistono comunque degli dèi – e dunque che io credo negli dèi e non sono affatto ateo e perciò almeno questa accusa è infondata –, ma non credo negli dèi della città bensì in altri? ed è appunto questo che mi rimproveri, di credere in altre divinità? O invece sostieni che secondo me non ci sono affatto dèi e che appunto questo io insegno agli altri? MELETO: Questa seconda cosa: che tu non credi affatto negli dèi. SOCRATE: Ma perché dici questo, egregio Meleto? Dunque neanche il sole e la luna sono divinità per me come lo sono per tutti? MELETO: Questo no, giudici. Lui sostiene che il sole è pietra e la luna terra. SOCRATE: Ma caro Meleto, credi di svolgere l’accusa contro Anassagora? Ed hai così poca considerazione di costoro, che ci stanno ascoltando, e li credi così analfabeti da ignorare che sono i libri di Anassagora che traboccano di tesi del genere? E secondo te i giovani imparerebbero alla mia scuola quello che volendo possono comprare, per una dracma al massimo, nell’orchestra, e poi ridere di Socrate ove davvero barattasse per sue quelle teorie, oltre tutto così strane?» (26CE).

Insomma Meleto avrebbe proceduto, secondo la vibrata confutazione di Socrate, esattamente come gli «antichi accusatori» e le persone da costoro influenzate: non sapendo precisare che cosa davvero insegni Socrate «attingevano al generico repertorio degli attacchi contro i filosofi» (23 D). In realtà – ha osservato il Dover – il Socrate più che settantenne che replica a Meleto è lontano ormai – come concezione filosofica – da quegli esordi anassagorei, che pur ricorda nel Fedone (anche lì con l’intonazione apologetica mirante ad accentuare il successivo distacco) e che erano evidentemente ancora nozione recente e circolante nella sua cerchia quando, ventiquattro anni prima, Aristofane metteva in scena le Nuvole. «Aristophanes in Socrate depingendo proxime ad verum accessit» è la VII tesi di dottorato di Kierkegaard: il primo che abbia intuito la serietà delle Nuvole, la commedia che denuncia la centralità di Socrate rispetto agli altri esponenti del movimento intellettuale di quegli anni. Socrate fu l’unico – ha osservato Diano – a trovare il punto dal quale bisognava muovere perché il discorso iniziato da Anassagora potesse essere continuato.

XIII. Aristofane e Socrate

229

5. Gli attacchi ad Euripide Ovviamente il poeta dei socratici è – nelle Nuvole – Euripide. Fidippide, divenuto uno scolaro modello del pensatoio socratico, impartisce al padre, che vorrebbe fargli cantare un’aria di Simonide o almeno di Eschilo, una lezione sulla poesia da apprezzare e su quella da rifiutare (vv. 1361-1376): Simonide è «un cattivo poeta», Eschilo è «il più grande chiassone, incoerente, magniloquente» (che è il giudizio su Eschilo di Euripide nelle Rane). E quando il padre lo invita a cantare un’aria «di questi moderni», Fidippide si mette subito a cantare una tirata di Euripide, dall’Eolo, quella dell’incesto tra Macareo e la sorella Canace (cfr. p. 206). Per il vecchio Strepsiade è il colmo, non riesce più a discutere col figlio ma passa a picchiarlo in un crescendo di reciproche botte. Ed è a questo punto che si attua la svolta risolutiva: Strepsiade si persuade che non ha senso parlare con questa gente e concepisce il disegno del rogo risolutore. Il nesso Socrate-Euripide viene ribadito anche nella commedia tutta consacrata all’attacco postumo contro Euripide, le Rane, dove lo si annovera tra quelli che passano il tempo seduti a chiacchierare con Socrate (vv. 1491-1492). Su Euripide Aristofane ritorna con accanimento. Le Rane, del 405, sono il grande attacco postumo, ma già cinque anni prima le Tesmoforianti (da alcuni datate nel 411, da altri nel 410) erano tutte rivolte contro di lui, rappresentato come personaggio farsesco e alla fine laido; e già negli Acarnesi, del 425, la più antica commedia a noi giunta, un’intera scena è dedicata a ridicolizzare Euripide, la sua nullità, il suo modo di atteggiarsi prima ancora che di poetare. Come si è visto, la repugnanza ideologica di Aristofane verso Euripide è totale e spiega bene l’accostamento (negativo) Euripide-Socrate. L’ateismo di matrice anassagorea è solo un aspetto, anche se molto importante: ed è interessante osservare che – secondo una notizia del biografo Satiro, indirettamente confermata da Aristotele (Retorica, 1416a29) – anche ad Euripide era toccata una denuncia per «empietà», ed a presentarla era stato Cleone. Su questo punto dunque Aristofane e Cleone si trovano dalla stessa parte. Ma di Euripide non solo i contenuti paiono ad Aristofane criticabili in modo severo, ma anche le innovazioni artistiche, in particolare il crescente peso concesso alla musica nelle parti liriche, il diverso rapporto tra musica e parola. Euripide era aperto agli sviluppi della musica contemporanea: collaborava con Cefisofonte, inco-

230

Il teatro: un mestiere nella polis

raggiava Timoteo, il grande innovatore musicale della nuova generazione, per i cui Persiani, ditirambo drammatico, aveva composto il preludio. La nuova musica veniva accantonando il principio di una nota per ogni sillaba. Euripide accolse questa novità: ad esempio un papiro dell’Oreste, con notazioni musicali (Vindobon. Gr. 2315), presenta un w™v cantato su due note: donde la parodia esasperata delle Rane, dove Eschilo canta eieieieieieilìssete (v. 1314) estenuando per ben sei note la prima sillaba. In vari cori delle più tarde tragedie di Euripide si osserva un vero e proprio arretramento della parola rispetto alla musica: il filo concettuale è labile, sembra talvolta di trovarsi dinanzi ad una successione poco sensata di parole; la musica ha preso il sopravvento. Anche questo aspetto delle innovazioni introdotte, o accolte, da Euripide viene deriso da Aristofane, che affida ancora una volta ad Eschilo il compito di cantare una tirata priva di senso, di cui anche il contenuto è – nella sua modestia – parodico rispetto agli umili soggetti di certi canti euripidei: una vecchia si è risvegliata, dopo un momento di assopimento, si trova derubata del gallo e canta perciò, invocando ogni sorta di aiuto (persino i Cretesi, figli dell’Ida), la propria disperazione (Rane, 1331-1363). La ripetizione della stessa parola (1336: fónia fónia derkómenon), dovuta alla musica, è parodia del frequente ricorso a tale ritrovato in monodie come quella dello schiavo frigio nell’Oreste (vv. 1453-1473). 6. La ‘riforma’ delle «Rane» Ma le Rane non si limitano a singoli aspetti; intendono svolgere una completa liquidazione postuma del teatro euripideo. L’occasione è appunto la notizia della scomparsa di Euripide (fine 407-inizio 406 a.C.). Dioniso, dio del teatro e protagonista delle Rane, mentre su di una nave impegnata nella battaglia delle Arginuse leggeva per conto suo l’Andromeda di Euripide, è stato preso da un desiderio fortissimo, irresistibile, di Euripide. E poiché Euripide è morto, ha deciso di andare nell’Ade, travestito da Eracle (un esperto di irruzioni negli inferi) per meglio penetrare nel regno infernale. La trama della commedia era dunque schematica e punteggiata, nella prima parte, dagli incidenti di viaggio: Dioniso si recava nell’Ade; lì trovava in atto una contesa tra Euripide, appena arrivato, ed Eschilo; Dioniso prendeva parte alla contesa – il cui oggetto era il trono

XIII. Aristofane e Socrate

231

della poesia tragica – nella veste, a lui soprattutto spettante, di giudice, e dava, dopo varie gare, la palma ad Eschilo. La morte di Sofocle, sopravvenuta mentre la commedia era forse già in allestimento, non poté ovviamente essere ignorata: non poteva andare in scena una commedia ormai arretrata rispetto alla nuova situazione del teatro tragico; gli spettatori si sarebbero necessariamente chiesti che fine avesse fatto Sofocle nell’Ade! Del resto l’esigenza vitale di non presentare commedie già invecchiate avrà imposto quasi sempre – per esempio in anni ricchi di novità e di sorprese come quelli della guerra – aggiornamenti più o meno sensibili. È il caso, tra tanti altri che possiamo presumere facilmente, della Pace di Aristofane (421) alla notizia della morte simultanea di Brasida e Cleone (autunno 422). La revisione in extremis delle Rane fu intuita da Van Leeuwen e Wilamowitz; i progressi nell’analisi sono dovuti a Eduard Fraenkel, Drexler, Gelzer, Russo. La trovata di Aristofane fu di mutare, con aggiunte stringate, l’obiettivo del viaggio di Dioniso. Il dio del teatro va infatti nell’Ade – così si presenta la vicenda nella forma ritoccata – per riprendersi Euripide (v. 69), perché – dice – «ho bisogno di un poeta bravo; di bravi non ce n’è più [è morto anche Sofocle] e quelli che ci sono non valgono niente» (vv. 71-72). Per puntellare questo nuovo, più ambizioso, proposito deve mostrare che la scena tragica è ormai deserta: perciò si libera, con un giudizio sospensivo, di Iofonte (v. 75) e, con una notizia vaga, di Agatone (v. 85: «se n’è andato nel paese dei beati»). Di Sofocle si riparla solo un’altra volta (vv. 786-794) per dire che ha dichiarato di volersi tenere «di riserva» al fianco di Eschilo (v. 792). Così la contesa resta quella originaria tra Eschilo ed il sopraggiunto ‘teppistico’ Euripide, e si risolve – dopo una serie di prove, il cui ordine è stato modificato – con la vittoria di Eschilo e la sua partenza dall’Ade (nuovo finale)7. Far intravedere Sofocle, senza però coinvolgerlo sul serio, salvava la commedia dal punto di vista teatrale, ma per altro verso restava un ripiego. C’era un Sofocle di troppo. Con Sofocle ormai anche lui nell’Ade, l’opposizione più ovvia era quella tra Sofocle ed Euripide: quella che per tanti anni era stata visibile sulle scene ateniesi, e che rappresentava la polarità fondamentale dell’Atene di Pericle e di Alcibiade, divisa tra esaltazione ed autocritica dei propri valori. Occasione mancata, dunque, proprio perché il proposito di Aristofane andava oltre la pur raffinata tematica dello scontro arti-

232

Il teatro: un mestiere nella polis

stico. Al di là delle prove tecniche infatti (pesa del linguaggio, lirica ecc.), Aristofane ha di mira il tema più generale dei valori di cui il teatro tragico è portatore (notevole, ad esempio, il serrato scambio di battute sul valore educativo del teatro: vv. 1049-1056). E si può ben immaginare quali potenzialità avrebbe sprigionato, quale più attuale dibattito avrebbe comportato l’eventuale scontro non già con l’antico e indiscusso Eschilo ma tra i due grandi contemporanei appena scomparsi. 7. La politica delle «Rane» Il compito che Eschilo nelle Rane indica come proprio dei poeti – educare gli adulti – e che esemplifica con notevole schematismo quando indica nei poemi di Esiodo e di Omero rispettivamente un trattato di agricoltura ed un’arte della guerra (vv. 1033-1035), Aristofane lo proclama, parlando in prima persona, nella parabasi: «È giusto che il coro dia insegnamenti utili alla città» (686-687). E infatti la parabasi delle Rane è tra i testi più espliciti sul piano politico. È un intervento che ben poco differisce, nei contenuti e nel linguaggio, da quello che si potrebbe svolgere all’assemblea su di un problema attuale e delicato: quello della pacificazione8. Il suo intervento è un plaidoyer in favore della piena riabilitazione di coloro – ed erano tanti – che, avendo ricoperto cariche e pubbliche funzioni sotto i Quattrocento, erano da cinque anni in una sorta di limbo politico; e inoltre in favore di una generale remissione di tutte le condanne all’atimìa (privazione dei diritti politici). Aristofane prosegue comparando l’immobilismo onde si lasciano marcire tanti cittadini, per questioni ormai passate, in una condizione di estranei alla città, con la pronta immissione nella cittadinanza degli schiavi adoperati come combattenti alle Arginuse e dei Plateesi a suo tempo scacciati dagli Spartani. Non vuole mettere in discussione quei provvedimenti – «sono le sole cose sensate che avete fatto!» (v. 696) – ma ora bisogna «dismettere l’ira», e promuovere, «mentre la città è in preda ai flutti» – dice citando Archiloco – una generale reintegrazione dei diritti. Questa vera ‘demegoria’ anticipa di pochi mesi la cassazione delle atimie che sarà sancita, nell’emozione dopo Egospotami, con un decreto promosso da Patrocleide (Andocide, Sui misteri, 7380). È un esempio concreto che toglie valore alla prospettiva, cal-

XIII. Aristofane e Socrate

233

deggiata dagli interpreti di orientamento estetizzante, di una commedia aliena da effettive finalità politiche e tautologicamente paga della propria comicità. La commedia parla di politica e fa direttamente politica. Come fa Ermippo, che attacca Pericle sulla scena e Aspasia in tribunale; come fanno quei comici – di cui Plutarco non precisa il nome – i quali «ingiungevano dalla scena a Pericle di giurare che non avrebbe assunto la tirannide», che chiamavano «Pisistratidi» i giovani che si raccoglievano attorno a lui, e lo definivano «sproporzionato (asy`mmetros) rispetto alla democrazia» (Vita di Pericle, 16,1). Si può anzi dire che la commedia detta «antica» (archàia) prenda corpo e vigore e prestigio – in una parola, si affermi come forma artistica in Atene – nella generazione precedente quella di Aristofane, proprio in questa contrapposizione a Pericle: in questo manifestare allarme di fronte al personaggio dai molti volti e dalle inquietanti amicizie, così «asimmetrico», appunto, rispetto a quella democrazia che pure era, per tanti versi, una sua creazione. 8. L’impegno politico e culturale di Aristofane Aristofane – che non ha visto da adulto l’Atene di Pericle ma quella dei suoi eredi – si è gettato a capofitto in questo ruolo politico. Ma lo ha fatto non già come bravo mestierante della scena bensì soprattutto come critico della vicenda contemporanea. Ciò è evidente dall’interesse grandissimo che dimostra – oltre che per le prese di posizione di fronte alla politica quotidiana – per il dibattito ideale: di qui l’enfasi su Socrate e su Euripide. Non già come stravaganti dalla cui rappresentazione grottesca trarre effetti comici (lo facevano già altri), ma – sotto la necessaria patina comica – come avversari da combattere con le loro armi e sul loro terreno. Perciò il vecchio Cratino, che queste sottigliezze forse non le amava molto, aveva coniato il neologismo euripidaristophanìzein (Fr. 307 Kock), per dire che quei due, in fondo, erano molto più simili tra loro di quel che potesse apparire in superficie. È indicativo il rimprovero che, indispettito per la sconfitta delle Nuvole, Aristofane rivolge agli spettatori: di non aver capito i «pensieri nuovissimi» che lui, con quella commedia, aveva «seminato» (Vespe, 1044). I «pensieri nuovissimi»: ecco ciò di cui è fiero, non «le solite buffonate» (tà eiothòta), come chiama nel primo verso delle Rane il consueto

234

Il teatro: un mestiere nella polis

armamentario della commedia. Certo, pratica anche quelle; sa che sono necessarie, e che, ad esempio, Magnete era finito emarginato dalla scena perché non sapeva più «motteggiare, fare scherzi» (Cavalieri, 525). Perciò preferisce, per lo più, affidare la regia delle proprie commedie ad altri. Evidentemente perché al regista, al didàskalos, spettava un lavoro che ad Aristofane interessava ben poco: ad esempio per l’appunto quello di ‘insaporire’ qua e là, con quegli scherzi, le battute degli attori. Lo si capisce dalla parabasi della prima commedia di cui Aristofane è stato anche regista, i Cavalieri (424): dalla lunga tirata in cui spiega perché si sia deciso ora per la prima volta, nel 424, a «chiedere il coro per sé», a fare cioè anche il regista della propria commedia. Perché – spiega – «la regia è la cosa più difficile di tutte» (v. 516), come è dimostrato ad esempio dal progressivo insuccesso di un Magnete, il quale le aveva provate tutte, aveva messo in scena le smorfie, i travestimenti, le onomatopee più varie, ma alla fine non faceva più ridere (vv. 521-525). Da un papiro pubblicato nel 1968 da Lobel abbiamo appreso che Platone comico – un commediografo coetaneo di Aristofane – «finché affidava ad altri la regia delle proprie commedie» ebbe successo, quando però volle fare lui stesso il regista, coi Rabduchi, ebbe un clamoroso disastro (Papiro di Ossirinco 2737). Alla regia dunque Aristofane per lo più rinuncia: e non perché non ne sia capace. La prima volta in cui si presentò, giovanissimo, coi Cavalieri, alla ribalta come regista ebbe il primo premio. Vi rinuncia evidentemente perché la sente come un peso; vi rinuncia, anche se sa che, rispetto al regista, il ruolo di chi non chiede il coro ma si limita a scrivere il testo della commedia è come quello del rematore rispetto al timoniere (Cavalieri, 542-544): e infatti è il regista che figura come vincitore. (Anche se, ovviamente, il nome dell’autore non rimane affatto ignoto: ciò è evidente da quanto Aristofane afferma nella parabasi dei Cavalieri, dove dice dei tanti che lo andavano a trovare per chiedergli come mai non si fosse fatto ancora avanti per chiedere il coro.) Comunque l’immagine adottata nella parabasi delle Nuvole (vv. 530-531) per indicare la propria rinuncia alla regia («ero ragazza e non mi era lecito partorire; perciò esposi il mio frutto, che un’altra donna raccolse») sta ad indicare che la rinuncia alla regia implicava anche la rinuncia alla paternità ufficiale della commedia. Nel delegare la regia ad altri, Aristofane ha per così dire un pri-

XIII. Aristofane e Socrate

235

mato: almeno a giudicare dalla documentazione superstite. Per le undici commedie tramandate, una sua regia in prima persona risulta chiaramente soltanto per i Cavalieri (424) e per la Pace (421). Ha affidato la regia a Callistrato o a Filonide (anche lui commediografo) per Banchettanti (427), Babilonesi (426) – entrambe non conservate –, Acarnesi (425), Vespe (422), Lisistrata (411), Rane (405); ed anche per le commedie sue più tarde, successive al 388, il Cocalo e l’Eolosicone, si liberò della regia affidandola al figlio Araros, «per raccomandarlo agli spettatori» – dice l’«Argomento» III del Pluto (388) –: appunto perché, assumendone la regia, il figlio Araros concentrava su di sé l’attenzione e l’eventuale successo. Nulla si sa di preciso della regia di Nuvole (423), Tesmoforianti (411 o 410), Donne all’assemblea (392), Pluto (388). Nelle notizie didascaliche conservate negli «Argomenti» sono ogni volta ricordati altri due titoli (oltre la commedia aristofanea) ed altri due commediografi, ma per loro non è indicato anche un regista. Almeno rispetto a questo campione, il caso di Aristofane resta isolato. Dei due registi cui sappiamo che Aristofane si è affidato – Callistrato e Filonide –, Filonide è abbastanza noto anche come commediografo, autore tra l’altro di una commedia contro Teramene, intitolata Coturni («coturno» era il soprannome spregiativo affibbiato a Teramene). Essa rispecchia – com’è chiaro dal titolo – un giudizio che collima con quello che, in piena serietà, Dioniso pronuncia nelle Rane (commedia di cui fu appunto Filonide il regista) quando Euripide annovera Teramene tra i suoi «scolari»: «Teramene? Abile quello, e capace di tutto: se va a capitare in mezzo ai guai o vicino ai guai, subito eccolo fuori dai guai» (vv. 968-970)9. Con Filonide c’è un rapporto di collaborazione. Nel 422 Filonide presenta le Vespe e vince col Proagone: sia che il Proagone fosse suo sia che glielo avesse «regalato» Aristofane (sono state prospettate dai moderni entrambe le possibilità), resta il fatto che Aristofane affidava la regia della sua commedia ad un poeta che concorreva nella medesima gara, il che mostra che si fidava pienamente della sua lealtà. Del resto i registi sapevano bene che, a mettere in scena pungenti commedie politiche in una città così incline ai processi come Atene, si correvano seri rischi: è molto probabile, ad esempio, che la denuncia di Cleone contro Aristofane (dopo i Babilonesi) abbia coinvolto anche il regista Callistrato. La collaborazione tra autore e regista è insomma un aspetto, il più accentuato, di un fenomeno di collaborazione tra ‘artigiani’. Un altro esempio

236

Il teatro: un mestiere nella polis

è l’aiuto prestato da Eupoli ad Aristofane quando componeva i Cavalieri (e che ad un certo punto gli rinfacciò: «quei famosi Cavalieri io li ho composti con lui e glieli ho regalati», Fr. 78 Kock). In questo mondo di artigiani della parola e della scena, che esercitano dalla scena comica un grande e temuto influsso, Aristofane è stato un precocissimo protagonista, il quale ha dato vita ad una battaglia di idee – pedagogiche, politiche, letterarie, antifilosofiche –, ed ha potuto contare, in ciò, sull’aiuto costante di bravi registi. Egli ci appare come il più intellettualmente raffinato – e interessato al dibattito intellettuale dell’Atene contemporanea – tra i commediografi del tempo. Perciò Platone, che nell’Apologia, subito dopo il processo a Socrate, denuncia la sua responsabilità morale nell’uccisione di Socrate, assume poi Aristofane nell’élite che conversa con Socrate nel Simposio, quando ripensa – decenni dopo – la scena intellettuale di Atene degli anni felici della pace di Nicia (il Simposio è ambientato appunto nel 416). E probabilmente proprio questa ‘superiorità’ concettuale sulla media dei comici ateniesi gli ha procurato, alla fine, il privilegio di essere l’unico superstite della commedia «antica». 9. Aristofane nella lotta politica ateniese L’attribuzione ad Aristofane di una collocazione nel panorama degli schieramenti politici ateniesi ha tenuto a lungo occupati i moderni. L’insuccesso di questi sforzi è dovuto all’impiego, più o meno consapevole – tipico della storiografia ottocentesca –, della moderna categoria di democrazia in rapporto alla realtà ateniese del V e IV secolo. Ciò risultava particolarmente fuorviante di fronte ad un personale politico in sostanza tutto reclutato tra le classi alte (compreso il vituperatissimo Cleone, che apparteneva al ceto dei cavalieri)10. Sfuggiva la caratteristica peculiare del sistema ateniese fondato sul patto tra demo e «signori» i quali accettano, e perciò dirigono – divisi da profonde rivalità di gestione e di linea politica –, un sistema, quello democratico, che però nessuno di loro mette più in discussione. Chi invece quel sistema avversa per principio, e dalle fondamenta, non fa politica o meglio persegue con altri mezzi e per altre strade i suoi fini politici. Questi ultimi sono gli «oligarchi»11. Se si perde di vista questo presupposto, si apre una catena di equivoci terminologici e concettuali, in forza dei quali si classifi-

XIII. Aristofane e Socrate

237

cano tra gli «oligarchi» una serie di capi politici ateniesi, da Aristide a Cimone a Tucidide di Melesia a Nicia, che invece hanno rappresentato altre possibili ipotesi di conduzione del sistema democratico – talora vincenti, più spesso soccombenti – nell’età che va da Temistocle alla caduta di Atene nel 404. Grossolana classificazione che ha il suo corrispettivo nella incomprensione del carattere composito della base sociale della democrazia ateniese: carattere composito per cui il «sistema» è fuori discussione sia per il contadino di Acarne (il protagonista degli Acarnesi, Diceopoli), che però è furioso contro la guerra (voluta da Pericle e proseguita da Cleone), sia per il nullatenente che dal bottino di guerra si ripromette sempre più laute sovvenzioni statali. Annoverato dunque tra gli «antidemocratici», o addirittura senz’altro tra gli oligarchi, per la furiosa campagna anti-Cleone, Aristofane sembrava entrare in contraddizione con se stesso quando esaltava «il popolo rematore baluardo della città» (Acarnesi, 162163). A questo punto i rimedi erano vari: da quelli di chi dava vita a qualche immaginario partito ‘moderato’ in cui arruolare Aristofane (Maurice Croiset, Aristophane et les partis à Athènes) a quelli che pessimisticamente concludevano (è il caso di Gomme) per una inconoscibilità della veduta politica di Aristofane, se non addirittura per una sua inesistenza. 10. «Uccelli» e «Lisistrata»: dagli ermocopidi al colpo di Stato In realtà l’impegno politico di Aristofane non solo c’è – come è chiaro da un testo capitale quale la parabasi delle Rane, di cui s’è già detto – ma è al centro della sua drammaturgia: ciò che del resto è peculiare della commedia antica. Punto di partenza, ancora una volta, la sua avversione verso quei critici – che incontrano simpatia nei milieux oligarchici – i quali mettono in discussione i fondamenti etico-politici della città. Per Aristofane, che ha vissuto per intero, e negli anni della maggiore produttività e maturità intellettuale, la lunga crisi della democrazia ateniese, l’ordinamento tradizionale della città non è menomamente in discussione. Ciò è evidente in modo particolare nelle commedie del periodo in cui si è venuta maturando la crisi politica di Atene, dagli scandali misteriosi del 415 al colpo di Stato del 411. Ciò vale sia per gli Uccelli (Dionisie del 414), spesso interpretati come una commedia di pura evasione, sia

238

Il teatro: un mestiere nella polis

– e ancor più – per la Lisistrata (Dionisie del 411), la cui rappresentazione precede di poco più che un mese il colpo di Stato. L’ideazione degli Uccelli si colloca nel pieno della crisi politicoreligiosa provocata in Atene, nel luglio 415, dalla sacrilega mutilazione delle erme diffuse per tutta la città (che ignote mani avevano private del fallo in una notte di novilunio) e dalla notizia, trapelata poco dopo, che aristocratici miscredenti nell’euforia del vino usavano mimare, in case private, le cerimonie più riservate dei misteri eleusini. Sia per le persone implicate che per il valore di complotto che fu loro attribuito, i due oscuri episodi avevano scatenato un’autentica «caccia alle streghe»; essa fu indirizzata soprattutto verso le «eterie» (i clubs ‘segreti’ aristocratico-oligarchici più o meno tollerati dal regime democratico) e verso la persona di Alcibiade, visto sempre più con sospetto a causa dell’eccezionale influenza acquistata in città specie dopo la decisione, da lui caldeggiata, di tentare, in grande stile, la conquista della Sicilia. L’inchiesta giudiziaria si nutrì di delazioni e di sordidi tradimenti. Dapprima si trattò di denunce estorte agli schiavi (tra gli accusati della prima ondata ci fu appunto Alcibiade, che cercò invano di ottenere un processo subito); poi ci fu la denuncia di un meteco, di nome Teucro – il quale denunciò molti (tra cui Antifonte) e anche se stesso a patto di ottenere l’impunità; poi fu la volta di una donna di nome Agariste, che tirò daccapo in ballo Alcibiade dicendo che aveva mimato i misteri in casa di Carmide (parente di Crizia, poi dirigente dei Trenta con Crizia). Infine vi fu la celebre e sordida denunzia di Andocide (presso la cui casa l’erma era rimasta stranamente intatta): egli si lasciò persuadere a fare comunque dei nomi, perché una manciata di colpevoli venisse offerta al demo, denunciati questa volta non già da personaggi discutibili (schiavi, meteci ecc.) ma da un nobile di antica schiatta, la cui discendenza si faceva risalire fino ad Odisseo, affiliato ad una eteria (quella di Eufileto) nella quale la sua cinica delazione seminò il panico e la morte. In cambio Andocide ebbe salva la vita ma fu bollato da un marchio d’infamia che non gli diede più requie: passò la vita nel tentativo di riabilitarsi. Sul momento però questo atto di degradazione estrema del costume giudiziario placò l’inquietudine popolare ormai polarizzata sull’idea del complotto oligarchico. Sul teatro comico un contraccolpo di questo clima fu il decreto di Siracosio che poneva dei limiti agli attacchi personali, quanto mai rischiosi in un clima così micidiale di delazione e di sospetti. Alle

XIII. Aristofane e Socrate

239

Dionisie (febbraio-marzo) del 414 gli Uccelli di Aristofane ed i Comasti di Frinico12 – un comico quasi coetaneo di Aristofane – affrontarono però, ciascuno a suo modo, lo spinoso argomento. Frinico – come si ricava dai pochi frammenti – attaccava Teucro, il delatore: «non voglio offrire a Teucro il prezzo delle denunce» si legge nel Fr. 58 Kock. Non era un gesto da poco fare questo nome: Andocide lo farà, ma molti anni dopo, quando racconterà la dolorosa vicenda nel discorso Sui misteri (I, 11); Tucidide, che pure scriveva per i posteri, non volle lasciare scritto alcun nome. Quanto ad Aristofane, egli impianta tutta la commedia su di un personaggio ‘positivo’, Pistetèro – «colui che non tradisce gli etèri (i compagni di eteria)» e su di una trama che esprime smarrimento e volontà di fuga: la fuga appunto di Pistetèro da Atene nel mondo degli uccelli, dove fonda una nuova città, Nefelococcugia («la città delle nubi e dei cuculi») e riesce a mantenerla immune sia dall’invasione della sicofantia ateniese che dalle pretese degli dèi. Pistetèro è, secondo quel che significa il nome, l’esatto contrario di un Andocide. Il senso di quel nome è, nel gergo politico ateniese, molto chiaro: è il contrario di prodwsétairov («colui che tradisce gli etèri»), termine ricorrente nel noto canto conviviale che rievocava la lotta sfortunata degli Alcmeonidi contro Ippia dopo l’uccisione di Ipparco (Aristotele, Costituzione di Atene, 19,3)13. Ed anche il senso dell’avventura di Pistetèro è subito chiarito: lascia Atene perché vi imperversano i processi (vv. 40-41). La parabasi però, dopo un’ampia «teogonia» vista dall’ottica degli uccelli, si concede più esplicite allusioni, in linguaggio meno metaforico. Qui il coro degli uccelli – in attesa che Pistetèro ed Evelpide, suo accompagnatore, si muniscano di ali – rivolge agli spettatori un pungente invito nel caso che vogliano unirsi anche loro alla città aerea. E ne approfitta per fare un campionario di tipi, tra i quali non mancano figure attuali: Teucro, il delatore, qui chiamato, con allusione facilmente decifrabile, «Frigio» (v. 762: invece Frinico ne faceva senz’altro il nome); Patrocleide (v. 790), il paladino degli àtimoi; «il figlio di Pisia», sempre pronto ad aprire a tradimento le porte della città per far rientrare gli àtimoi (vv. 766-767). Nella parabasi, dunque – che rappresenta per così dire il ‘momento della verità’, il momento in cui si parla chiaro –, sembra proprio che la città aerea, costituita con la dispersione delle eterie, stia per diventare il ricettacolo di un’accozzaglia di figuri politicamente indesiderabili. Poi il gioco comico ricomincia, e Pistetèro, sconfitta persino l’arroganza

240

Il teatro: un mestiere nella polis

degli dèi, raggiungerà l’apoteosi facendosi consegnare da Zeus la Regalità con l’aiuto del losco Prometeo. Molto più esplicita è la Lisistrata, in una situazione del resto assai più grave. È il racconto di un colpo di Stato, certo di un benefico colpo di Stato, messo in scena mentre Atene, sotto la cappa del complotto, impotente dinanzi ad assassini politici regolarmente impuniti (Tucidide, VIII, 65-66), vive gli ultimi giorni di regime democratico prima della presa del potere da parte dei Quattrocento. Secondo i calcoli del Meritt, nell’anno attico 412/1 le Lenee capitarono in febbraio e le Dionisie il 7-11 aprile 411; a metà maggio ebbe luogo l’assemblea dominata da Pisandro che portò alla nomina di trenta commissari con poteri straordinari (i quali soppiantarono i probuli): il colpo di Stato era ormai incominciato. Gli attentati misteriosi e impuniti con cui i complottatori avevano fatto preparare il terreno dalle eterie si erano avuti nei mesi precedenti. Non ci sono argomenti cogenti per porre la Lisistrata alle Lenee piuttosto che alle Dionisie: in un caso come nell’altro il clima era già quello della crisi. Il colpo di Stato che Aristofane mette in scena non è evidentemente quello di Pisandro e degli altri congiurati; ma Pisandro è sentito come incombente sulla scena politica e definito seccamente «ladro», al v. 490, e le sue trame denunciate con asprezza dalla protagonista, Lisistrata. Lisistrata si asserraglia nell’acropoli, e con lei le donne ateniesi, per imporre la pace immediata; sequestrano il tesoro dello Stato e improvvisano un rigoroso sciopero sessuale contro i mariti. Analoga astinenza viene imposta dalle donne spartane, capeggiate da Lampito, che Lisistrata ha inviato a Sparta al principio della commedia. Nonostante l’intervento dei probuli – la magistratura eccezionale instaurata nel 413 – e le incertezze serpeggianti nel campo femminile, Lisistrata consegue pieno successo e impone, a Spartani e Ateniesi ormai estenuati dal desiderio e pronti ad ogni concessione, l’immediata stipulazione della pace, di cui prescrive nel dettaglio le condizioni. Il ruolo di allarmati difensori delle istituzioni in pericolo è affidato al coro dei vecchi ateniesi. Nella parabasi essi denunciano con toni allarmati il complotto, quello delle donne si capisce, ma ne parlano come di un complotto oligarchico; e le loro parole, pur riferite alla ribellione delle donne, assumono a prima vista il valore più generale di grido d’allarme per la democrazia in pericolo: «Per gli uomini liberi non è più possibile dormire tranquilli. Prepariamoci

XIII. Aristofane e Socrate

241

– dice il coro –; tutto ciò mi puzza di ben altre faccende molto più gravi (pleiónwn kaì meizónwn pragmátwn). E soprattutto, sento odore della tirannide di Ippia. Ed ho paura che degli Spartani, riunitisi a complottare in casa di Clistene, inducano con l’inganno le donne a togliermi il salario: il salario di cui io vivo» (vv. 614-625)14. E il corifeo risponde: «Tutto questo, cittadini, è stato tramato per instaurare una tirannide (e¬pì turannídi). Ma non ce la faranno, perché io mi difenderò, e porterò d’ora in poi ‘il pugnale in un ramo di mirto’15, e presiederò in armi l’agorà e starò così [si mette in posa come nel celebre gruppo dei tirannicidi] vicino a lui» (vv. 630-634). In questa parabasi manca la consueta parte in cui il poeta parla in prima persona; perciò la denuncia del coro dei vecchi ha uno spicco ancora più grande: sta in luogo dell’allocuzione diretta del poeta. Essa è, come si vede, tutta intessuta di espressioni tratte dal repertorio antitirannico e rievocanti il tirannicidio, mentre rinnova l’impegno alla lotta e adopera tirannide e oligarchia come sinonimi, secondo un consolidato linguaggio democratico: allo stesso modo che nel 415 – racconta Tucidide –, esplosa la psicosi del complotto oligarchico, la gente pensava atterrita alla terribile tirannide di Ippia (VI, 53,3 e 60,1). Perciò il ricordo del 415 è così insistente nella Lisistrata. È il probulo – e già questo è notevole – che nella sua prima apparizione istituisce il paragone tra il turbamento attuale e l’inquietudine altrettanto febbrile del 415, quando il demagogo Demostrato strepitava perché si salpasse e, sinistro presagio, sui tetti vicini, le donne innalzavano i lamenti lugubri per Adone (vv. 387-398). Se l’apparizione del probulo è di per sé significativa e chiaramente intesa a caricare la scena di significati politici attuali, ancor più rilevante è che questo commissario incaricato della salvezza della città istituisca subito un raffronto con quella non lontana crisi, che aveva suscitato apprensioni analoghe a quelle attuali. Poi è Lisistrata stessa che riparla della cacciata di Ippia, per scacciare il quale ci vollero gli Spartani: e ne parla nel suo importante discorso finale (vv. 1150-1156). E ancora nella scena conclusiva, dove Ateniesi e Spartani, esasperati dal desiderio, ostentano i loro organi e paiono quasi delle erme animate, il coro dei vecchi dice: «Mettetevi il mantello; che non vi veda qualche ermocopide!» (v. 1094). È una scena troppo a lungo protratta, e che apparirebbe quasi immotivatamente oscena se non fosse invece così palesemente allusiva, ed anzi addirittura resa esplicita dalla battuta dei vecchi.

242

Il teatro: un mestiere nella polis

L’allarme per il pericolo oligarchico, incombente come al tempo degli ermocopidi (quando appunto si temette – come si esprime Tucidide – un «complotto oligarchico e tirannico») trova così efficace ed abile espressione. La commedia è disseminata di riferimenti, uno dei quali è che Lisistrata si aggiri con una guardia del corpo. Ma è il fine stesso perseguito da Lisistrata col suo colpo di Stato ‘benefico’ che si comprende appieno nel clima di quei mesi di crisi, in cui si avvertiva che ‘doveva succedere qualcosa’. L’incalzante proposito di pace immediata – che si spinge fino a toccare, sulla scena, un tema delicato come quello delle concessioni territoriali da fare a Sparta – suona come una precisa proposta: prevenire gli oligarchi e realizzare subito quella pace immediata che per gli oligarchi artefici del complotto era il fine precipuo e poteva essere la carta vincente. Per tutto il tempo del loro governo infatti essi non faranno altro che offrire a Sparta trattative di pace (Tucidide, VIII, 70,2; 71,3; 89,2; 90,2). Una soluzione impossibile, certo; e perciò affidata, nell’invenzione comica, alle donne, cioè a dei non-soggetti politici della città democratica. 11. Aristofane ‘cimoniano’ e lo scontro con Cleone Altre prese di posizione ancora si potrebbero indicare, che denotano ‘lealismo’ verso la politica cittadina: dal silenzio sul processo degli strateghi alla stoccata contro Teramene; dal rispettoso trattamento di Nicia (a parte un demagogico cenno pungente alla sua esitazione a salpare per la Sicilia: Uccelli, 639), all’elogio – dopo tanti attacchi – dell’«eroe Lamaco» caduto in Sicilia (Rane, 1039), all’autorevole invito ad agevolare il rientro di Alcibiade (Rane, 1431: per bocca di Eschilo). Ciò che invece ha polarizzato l’attenzione degli interpreti è il durissimo scontro con Cleone. Esso costituisce, dall’anno dei Babilonesi (426) alla morte di Cleone (422), una ossessione per Aristofane e, insieme, un tema dominante della sua produzione. L’origine di questa avversione implacabile è personale. Dopo la rappresentazione dei Babilonesi, Cleone portò Aristofane dinanzi alla Bulè, evidentemente con l’intento di avviare un procedimento contro di lui (Acarnesi, 379). Non deve essersi dunque trattato di un vero e proprio «processo» dal momento che non sembra – dalle parole di Aristofane – che la Bulè abbia autorizzato un ulteriore procedimento

XIII. Aristofane e Socrate

243

presso una delle corti ordinarie. E d’altra parte Aristofane non parla dell’esito di un processo. L’accusa che Cleone gli muoveva era di «aver parlato male della città alla presenza di stranieri» (Acarnesi, 503), accusa che era stata poi propalata in lungo e in largo (Acarnesi, 630-631): probabilmente proprio perché non si era giunti ad un vero e proprio processo, il potente uomo politico aveva voluto comunque danneggiare – con tali attacchi – il giovanissimo commediografo (che gli doveva essere ben noto, poiché proveniva dallo stesso demo). C’era una scena, nei Babilonesi, che doveva aver irritato molto Cleone: quella in cui l’influente politico era costretto dai cavalieri ateniesi a vomitare cinque talenti da lui indebitamente estorti agli alleati (Acarnesi, 6). Ovviamente Cleone aveva impostato l’accusa in termini politici: Aristofane scredita la città quando, per giunta, tra il pubblico ci sono alleati e stranieri (cioè alle Dionisie). In un’altra scena il coro degli alleati, rappresentato dagli schiavi di un mulino, esprimeva le proprie lamentele. Ma certo Aristofane non metteva in discussione l’impero, così come non ha senso pensare che aizzasse gli alleati contro Atene (nessun commediografo lo avrebbe fatto, se non al prezzo di una immediata impopolarità). Il senso della commedia doveva essere un altro: e cioè la denuncia dell’inasprimento del tributo – che Cleone triplicò portandolo a 1460 talenti –: un provvedimento che è del 425, e contro cui Aristofane rivolge il suo sarcasmo ancora nei Cavalieri (v. 313: Cleone sta in vedetta sugli scogli in caccia di tributi come di tonni), ma che probabilmente Cleone avrà caldeggiato già prima del 425, onde nei Babilonesi veniva costretto a vomitare i maltolti talenti. Quello che Aristofane pensa a proposito del tributo e degli alleati è detto con chiarezza nella commedia forse più profondamente politica, le Vespe (del 422), dove si discute in modo approfondito del tributo e dei tribunali. Qui la discussione, molto seria, si svolge nell’agone tra padre e figlio: tra il vecchio Filocleone invasato della sua professione di giudice e incapace di capire di essere una marionetta nelle mani di Cleone, ed il giovane Schifacleone (due nomi davvero parlanti!) che interpreta il pensiero del commediografo: «SCHIFACLEONE: Ascoltami, vecchio mio, e non aggrottare la fronte. Fai un conto semplice, non coi sassetti, ma sulle dita: quanto è il tributo che ci viene dalle città alleate; e ancora le imposte, le decime, i depositi, quello che si ricava dalle miniere, e poi i mercati, i porti, le rendite, le confische. Tutto viene press’a poco duemila talenti. Togli da questa somma il

244

Il teatro: un mestiere nella polis

salario di un anno per seimila giudici – tanti sono, non di più, in tutta Atene –, e vedi che a noi ne vengono soltanto 150 talenti. FILOCLEONE: Allora il nostro salario non è neanche la decima parte delle entrate! [...] E tutto il resto dove va a finire? SCHIFACLEONE: A quei tali che vanno blaterando: “Mai tradirò la marmaglia ateniese! combatterò sempre per il popolo!”. E sono quelli che tu, padre, fai che ti comandino, solleticato da quelle paroline. E loro cinquanta talenti alla volta si fanno pagare i servizi che rendono agli alleati, altrimenti li minacciano: “O sborsate il tributo, o abbatterò la città col mio tuono”» (vv. 655-671).

E il giovane seguita ad infierire sulla ingenuità paterna: gli dimostra che gli alleati coprono di regali i grossi politici «e a te non danno nemmeno un capo d’aglio»; gli fa toccare con mano che miseria siano i tre oboli del suo salario di giudice: «eppure te li sei guadagnati a prezzo di tante fatiche, remando, combattendo, e marcendo negli assedi» (vv. 684-685). Il punto è insomma che i proventi dell’impero non vanno – come sarebbe giusto! – ai bravi popolani che hanno tanto faticato a costruirlo quell’impero, ma ai capipopolo più spregiudicati, quelli che – come appunto Cleone – più degli altri vanno ostentando il proprio radicalismo democratico. Insomma, incalza Schifacleone, «tu e tutti quanti potreste essere ricchi» e invece venite ingannati da questi famosi «amici del popolo» (vv. 698-699). Vero difensore del popolo (a¬lexíkakov tñv cårav: Vespe, 1043) è invece, e si proclama, Aristofane: e lo ripete con le stesse parole in due commedie consecutive nella parabasi, le Vespe appunto e la Pace, dell’anno seguente. «Il poeta dice – canta il coro delle Vespe – che sin da quando incominciò ad istruire un coro, i suoi attacchi non sono stati rivolti mai contro la gente; con un coraggio da Eracle lui ha sempre attaccato i pezzi grossi (toîv megístoiv)» (vv. 1029-1030). E naturalmente il personaggio mostruoso, ampiamente descritto, che sta a simboleggiare questi «pezzi grossi», è Cleone, dotato degli attributi più ripugnanti. (È quasi superfluo dire che un tale Cleone è storicamente inattendibile, anche se la sua immagine ne è rimasta impregnata.) E tutta la tirata è ripetuta nella Pace, dove ribadisce di non aver mai deriso «la gente comune» (i¬diåtav a¬nqrwpískouv), ma appunto i mégistoi: quei mégistoi che, per quanto si proclamino votati alla causa popolare, al popolo non dispiace che siano tenuti sotto pressione dalla commedia, come ben sa l’autore della Costituzione degli Ateniesi quando parla del teatro comi-

XIII. Aristofane e Socrate

245

co, il quale ricorda quanto sia accetta la satira di personaggi popolari quando si tratti di persone che «cercano di porsi al di sopra del demo» (II,18). E infatti il problema cruciale nella città democratica su cui soprattutto intervengono i comici, ed Aristofane in particolare (con in più tutta la carica del suo odio personale contro Cleone) è appunto quello del rapporto, sempre sotto controllo, mai indiscutibile, del demo coi suoi capi. Di qui la funzione di «protettore del popolo» (a¬lexíkakov) che Aristofane si assume – ovviamente con tutta la necessaria carica pedagogica che è tipica dell’oratoria politica. Di qui la sua salda fiducia nel demo, al quale fa dire in un passo cruciale dei Cavalieri – dove appunto il personaggio Demo si rivolge ai chiomati cavalieri: «Non c’è sale sotto le vostre lunghe chiome, se credete che io non so quello che faccio. Io apposta faccio lo scemo [...] E lascio pure che un ladro faccia il capo; ma, quando è pieno, lo prendo e lo schiaccio» (vv. 1121-1130). E infatti alla fine della commedia il vecchio Demo, così facilmente ingannato da servitori senza scrupoli, splendidamente ringiovanisce. Ecco perciò la formale auto-identificazione di Aristofane col suo eroe più riuscito, con Diceopoli, il protagonista degli Acarnesi: una identificazione realizzata con il chiaro ritrovato di far narrare a Diceopoli come fossero capitate a lui le vessazioni che Cleone ha inflitto al poeta; una identificazione sulla cui importanza ideologica e politica ha posto bene l’accento lo storico inglese Geoffrey de Ste. Croix. Diceopoli lo dice subito nel lunghissimo discorso politico che pronuncia poco prima della parabasi: lui gli Spartani non li può vedere perché anche a lui hanno devastato le vigne con le scorrerie che fanno in Attica da quando c’è la guerra (vv. 509-512); ma, appunto, questa guerra non è stata, ancora una volta, una forzatura dei capi, di quel Pericle Olimpio che si è impuntato per motivi veramente da poco a vessare Megara? Una guerra inutile, assurda, rovinosa per i contadini e giovevole in fondo soltanto per i profittatori, e in primo luogo per quei capi – come Cleone – che ne ricavano prestigio oltre che guadagni. Onde Diceopoli, il cui nome significa appunto «città giusta», stipula alla fine una pace personale con Sparta, visto che i tromboni della tribuna non ne hanno alcuna intenzione. Che motivi veri di odio c’erano tra le due città? Sparta ed Atene possono vivere in pace, hanno reciproci motivi di gratitudine, come spiega Lisistrata alle due parti: Cimone non si era a suo tempo precipitato a Sparta con quattromila opliti e l’aveva salvata dai Messeni? E la tirannide terribile di Ippia, sostenuto dai Tessali, non l’avevano in

246

Il teatro: un mestiere nella polis

realtà abbattuta gli Spartani? (Lisistrata, 1137-1156). Cimone, appunto: un nome-simbolo che ben rappresenta lo stile politico e l’orizzonte politico caro ad Aristofane: niente affatto un oligarca – non va dimenticato che proprio Crizia, lui sì un nemico della democrazia, ne criticava la spedizione ad Itome (Plutarco, Vita di Cimone, 16,9) –, ma un ricco signore, «educato nelle palestre e nella musica» (e non da torbidi maestri come Socrate), che sapeva mettere le sue ricchezze e i suoi orti a disposizione del popolo; non un demagogo a buon mercato come Pericle che per accattivarsi il popolo usava il denaro dello Stato, o, peggio, come Cleone ed altri, venuti dopo Pericle, che quel denaro – e quello degli alleati – lo facevano fluire nelle tasche proprie e dei propri scherani. Giacché questa appunto, come si diceva in principio, era la divaricazione che ha attraversato, nel tardo V secolo, la democrazia ateniese: una divaricazione tra diverse ipotesi di condotta di un sistema concordemente accettato da coloro che si impegnano – come Cimone, come Tucidide di Melesia, come Nicia, come a modo loro Aristofane e la gran parte dei commediografi – nella politica cittadina. 12. Dopo la guerra civile Ed ecco perché quel nuovo e diverso Aristofane che ci è dato conoscere dalle sue superstiti commedie del IV secolo – le Donne all’assemblea (392) ed il Pluto (388) – ci appare come ‘pacificato’, pronto a farsi eleggere dai suoi demoti nel Consiglio dei Cinquecento (IG II2 865), al più impegnato nella satira delle utopie sociali. Non c’è più la parabasi, ed il poeta non ha più molto da dire al suo pubblico. Non sappiamo come abbia attraversato la bufera della guerra civile, certo non vi fa cenno quando, dieci anni dopo, mette in scena le Donne all’assemblea. Due commedie non sono molto per avere un’idea del secondo ventennio della produzione aristofanea: quello appunto successivo alle Rane (405-386). Esse capitano però in un periodo di grandi tensioni politiche, che va dallo scoppio della cosiddetta guerra corinzia (che di nuovo impegnò Atene ed i suoi venali politici) alla pace di Antalcida; ma neanche una lontana eco desta tutto questo nel commediografo, pur nel vigore degli anni: tra i quaranta (o poco più) che aveva al tempo delle Rane ai sessanta (o giù di lì) che aveva quando affidava al figlio il Cocalo e l’Eolosicone. Certo anche le Donne all’assemblea sono satira antifilosofica, ma

XIII. Aristofane e Socrate

247

bonaria, ora che la città si è depurata di un corpo estraneo come Socrate. Ed è facile far ridere sulle idee comunistiche che vanno predicando gli ultimi e meno originali esponenti della sofistica in giro per le città dopo la dispersione del circolo socratico. Per esempio quel Falea di Calcedone, che tanto irritava Aristotele con l’idea della proprietà fondiaria comune e dei matrimoni misti tra ricchi e nullatenenti miranti appunto ad abbattere le barriere di classe (Politica, II, 1266-1267). Il bersaglio di Aristofane è l’utopia comunistica nella sua forma più completa – la comunanza di tutti i beni (non solo della terra come voleva Falea) e dell’amore –: concetti che, inquadrati in tutt’altro contesto, ispirano, com’è noto, la Repubblica platonica. L’assurdità del tutto dovrebbe risaltare dal fatto che l’iniziativa è ancora una volta (come già nella Lisistrata) delle donne: l’iniziativa di un decreto che sancisca i nuovi princìpi. Sulla comunità delle donne è facile imbastire una pochade, specie quando – come accade nella commedia – si fanno avanti anche le vecchie a rivendicare la propria porzione di eros. E comunque il discredito diventa completo quando si dimostra, in conclusione, che scettici e partigiani dei nuovi princìpi si trovano tutti d’accordo quando risuona l’annuncio della tavolata comune. L’ultima volta che presentò una commedia a proprio nome (ma sappiamo che ciò non era accaduto molto spesso), Aristofane mise in scena una favola sulla ricchezza: il Pluto. Nell’Atene senza impero, dissanguata dalla guerra e affetta da un diffuso pauperismo, l’inquietudine per la disuguaglianza economica era endemica. E infatti il problema di come tenere a bada i nullatenenti costituisce, nel IV secolo, la principale preoccupazione dei gruppi dirigenti: non solo dei politici (come Eubulo e Demostene) ma anche dei facitori d’opinione (come Isocrate e Senofonte) e dei teorici della politica (come Aristotele). La storia, raccontata nel Pluto, di Cremilo, vecchio e onesto contadino che rimette in funzione Ploutos, il dio della ricchezza, e mette in fuga Penìa, la povertà, che si allontana imprecando «mi rimpiangerete», è – in questo clima – poco più che una favola consolatoria a lieto fine. I suoi personaggi – soprattutto i due vecchi che la occupano dal principio alla fine, l’uno schiavo (Carione) e l’altro suo padrone (Cremilo), ma tra loro così spiritualmente intrinseci e familiari – sono già personaggi della commedia «nuova» (cfr. p. 584). Un antico trattatista che leggeva ancora il Cocalo osservava infatti: «Qui il poeta introduce ratti di fanciulle e riconoscimenti risolutori e tutto il restante armamentario in cui Menandro si è ispirato a lui»16.

248

Il teatro: un mestiere nella polis

Note Conno era il nome di un citaredo, a suo tempo maestro di Socrate. Ecco il testo del decreto, riferito da Plutarco: «Sono passibili di denuncia e vanno processati coloro che non credono negli dèi e che tengono lezioni intorno alle entità celesti». 3 Né sembra esservi ragione di anticipare di vent’anni il processo di Anassagora in base ad una non chiara notizia di Demetrio. 4 È appunto il nesso «esamini tà metèora/allora disprezzi gli dèi», che Aristofane stabilisce sin dal primo scambio di battute tra Strepsiade e Socrate: vv. 225-228. 5 Donde le elucubrazioni dell’erudizione antica, in particolare dell’«Argomento» V, sul rapporto intercorso tra Aristofane e Anito, il quale avrebbe addirittura commissionato le Nuvole. 6 Democrito stesso scrisse di essere passato in Atene del tutto inosservato [68 B 116 Diels-Kranz] e comunque è dopo quella data che vanno poste le sue opere principali; né è credibile che Aristofane avesse nozione della personalità alquanto nebulosa di Leucippo, di cui si sapeva così poco che Epicuro negava addirittura che fosse mai esistito. 7 Un’idea simile era stata sviluppata da Aristofane nel Gerytades, di qualche anno precedente, dove, ancora una volta, venivano a confronto vecchia e nuova arte, ed una commissione di «moderni» andava nell’Ade a rilevare l’allegoria dell’arte antica. 8 È significativo che Aristofane – il quale ha composto le Rane mentre era in atto il processo-monstre contro gli strateghi delle Arginuse (autunno 406) – non abbia una sola parola esplicita da dire su quella ecatombe senza pari nella storia di Atene: evidentemente si allinea con quella scelta dell’assemblea popolare, o ritiene comunque prudente non farvi cenno. 9 Parrebbe un cenno, molto discreto, alla vicenda del processo degli strateghi, dove Teramene, a rigore responsabile vero del mancato soccorso ai naufraghi, si era abilmente trasformato da potenziale accusato in implacabile accusatore degli strateghi addebitando a loro la grave mancanza. 10 Teopompo, Fr. 93 Jacoby (= Scholio ad Ar., Cavalieri, 225 + Scholio ad Ar., Cavalieri, 226: è probabile che entrambi gli scolî derivino da Teopompo). 11 I più chiari interpreti di questo stato di cose sono, per noi, Tucidide, quando descrive come maturò il colpo di Stato oligarchico del 411, e l’opuscolo sul sistema politico ateniese intitolato Costituzione degli Ateniesi. 12 La didascalia attribuisce i Comasti ad Amipsia; è opinione moderna che Amipsia portasse in scena una commedia di Frinico (Bergk, Meineke). 13 Il coraggio manifestato in favore dei compagni di fazione è definito filétairov da Tucidide (III, 82,4). 14 Si sa che, secondo un antico programma oligarchico, il primo provvedimento preso dai Quattrocento, nell’assemblea di Colono a fine maggio, fu appunto quello di abrogare i salari per gli uffici pubblici; i dettagli sono in Tucidide, VIII, 67,3 e Aristotele, Costituzione di Atene, 29,5. 15 Citazione del celebre canto simposiale in onore dei tirannicidi, ma anche allusione alla necessità di difendersi dai misteriosi assassinî politici impunemente perpetrati negli ultimi tempi. 16 Prolegomena de comoedia, XI, 69 Dübner. 1 2

XIV NOTA SULLA PROGRESSIVA SELEZIONE DEI TESTI SCENICI 1. Le repliche La grande epigrafe incisa in tempi diversi tra il 346 e la fine del IV secolo a.C. (IG II2 2318), dove erano registrati i vincitori dei concorsi teatrali alle Grandi Dionisie a partire dal marzo del 533 a.C., dà – sotto l’arcontato di Teodoto (387/6 a.C.) – la notizia dell’instaurazione di rappresentazioni annuali di «vecchie tragedie»: «Sotto Teodoto per la prima volta gli attori tragici rimisero in scena un vecchio dramma» (rigo 203). Un’altra epigrafe (IG II2 2319-2322 dell’anno 278 a.C.), murata nell’interno di un tempietto votivo, contiene i risultati completi degli anni 341 e 340 e in parte quelli del 339 a.C. Di qui apprendiamo che tutte e tre le volte fu messa in scena come «vecchio dramma» una tragedia di Euripide: la prima volta l’Ifigenia (forse l’Ifigenia in Aulide), la seconda volta l’Oreste sempre a cura del celebre attore Neottolemo; nel 339 l’attore era Nicostrato ma non si legge più il titolo della tragedia. Non è azzardato pensare che Euripide fosse il più rappresentato in queste riprese di repertorio, dato che lo troviamo in scena per tre anni di seguito e con la regia di due diversi attori. Ma, ovviamente, si replicavano anche gli altri grandi del secolo precedente, dal momento che, ad esempio, Eschine – l’antagonista di Demostene – quando in gioventù aveva fatto l’attore, tra l’altro aveva recitato nell’Antigone di Sofocle (come Demostene ricorda più volte: 18,180; 19,247). D’altra parte dalla Vita di Eschilo, compresa nel manoscritto Laurenziano che ne tramanda le tragedie, si apprende di un decreto ateniese che assicurava il coro al regista che fosse disposto a rappresentare tragedie di Eschilo1. Quanto alla commedia, le riprese entrarono in uso molto più tar-

250

Il teatro: un mestiere nella polis

di. All’anno 340/39, nella grande epigrafe delle vittorie dionisiache, si legge: «gli attori comici rimisero in scena per la prima volta un vecchio dramma» (col. 15 ed. Mette). 2. Licurgo Dai non molti dati disponibili su queste tardive repliche si intravede comunque che, per i tragici, già al principio del IV secolo era in via di formazione il ‘canone’ poi affermatosi, la triade Eschilo, Sofocle, Euripide. Ma si capisce anche che, per la buona conservazione dei testi dei tre tragici, questa serie continua di riprese non deve essere stata molto giovevole. Perciò un provvedimento fatto varare da Licurgo – l’oratore e amministratore più autorevole di Atene alla metà circa del IV secolo – intese porre un freno agli abusi compiuti dagli attori sui testi dei grandi tragediografi rimessi così spesso sulla scena. Licurgo, il cui provvedimento risale probabilmente alla prima fase della sua carriera, precedente l’assunzione della direzione delle finanze (339/8), è da considerarsi anche il codificatore del ‘canone’ dei tre grandi tragici: «fece innalzare – si legge in un’ottima fonte – tre statue bronzee dei tre poeti, Eschilo, Sofocle ed Euripide, e dispose che venisse allestito un esemplare delle loro tragedie e fosse conservato in edificio pubblico, che inoltre il segretario cittadino [della Bulè] diffidasse gli attori dal discostarsi da quel testo» (Pseudo-Plutarco, Vite dei dieci oratori, 841F). Non risulta che analoghi provvedimenti siano stati presi per il testo dei comici. Non è possibile stabilire quale efficacia abbiano avuto queste disposizioni (anche se è eccessivo il pessimismo del Wilamowitz sul «nessun peso che si dava alle leggi nell’Atene demostenica»): esse mostrano però che le manipolazioni di attore stavano riducendo le tragedie dei tre ‘grandi’ in uno stato deplorevole. Per esempio si sarebbe tentati di mettere in relazione appunto con l’arbitrio degli attori il fatto che proprio l’Ifigenia in Aulide (se, come si ritiene, è l’Ifigenia che fu rappresentata da Neottolemo nel 341 a.C.) abbia ben due prologhi, uno dei quali, assai insolitamente, in anapesti. (Un fenomeno analogo è attestato dall’«Argomento» I del Reso: «sono tramandati due prologhi».) Nel caso dell’Ifigenia in Aulide, comunque, va ricordato che fu messa in scena postuma dal figlio (o dal nipote) di Euripide, e che dunque sin dalla prima rappresentazione potrebbe essere stato confezionato il nuovo prologo.

XIV. Nota sulla progressiva selezione dei testi scenici

251

3. L’approdo ad Alessandria È difficile immaginare con quali criteri venisse costituito il testo ‘ufficiale’ ateniese dei tre tragici. Non mancano però elementi che inducono a pensare che fosse allestito con cura: tra l’altro la personalità stessa di Licurgo, vicino ad un centro come l’Accademia (era stato scolaro di Platone), dove era ormai autorevolmente attivo Aristotele studioso della tragedia attica. Con Aristotele – del quale Strabone (XIII, 1,54) afferma che fu il primo a collezionare libri al punto che la biblioteca del Liceo sarebbe stata il modello di quella, gigantesca, di Alessandria – incomincia lo studio sistematico del teatro attico. Ciò potrebbe aver portato – in ambiente ateniese – alla costituzione di un buon testo dei tre tragici: stimato così pregevole da indurre Tolomeo III Evergete (246-221) ad impadronirsene con l’inganno, se si deve prestar fede ad una notizia di Galeno (Commento al terzo libro delle «Epidemie» di Ippocrate, II, 4)2. Aristotele ha inoltre promosso la raccolta dei documenti ufficiali ateniesi relativi al teatro (Didascalie) nonché ricerche biografiche intorno agli autori teatrali. Il nesso che porta dalla scuola di Aristotele alla filologia alessandrina è stato per così dire materializzato nella persona di Demetrio Falereo, lo scolaro di Aristotele fuggito, per ragioni politiche, da Atene e passato al servizio di Tolomeo I. È a lui che si attribuisce il ‘trasferimento’di conoscenze da Atene ad Alessandria che diede l’impulso alla dottrina ed alle cure testuali dei dotti alessandrini. Il peso dunque delle scelte compiute nel tardo IV secolo – prima ancora che si consolidassero le istituzioni culturali di Alessandria – è stato determinante. 4. Il lavoro degli Alessandrini Una notizia che figura nell’introduzione al trattato Sulla commedia di Tzetzes, l’erudito bizantino di età comnena (1110-1180), suddivide così i ruoli dei dotti alessandrini intorno al corpus degli scenici: Alessandro Etolo avrebbe curato l’edizione dei tragici; Licofrone (l’astruso poeta dell’Alessandra) il testo dei comici; Eratostene avrebbe prestato loro il sussidio della sua dottrina sterminata; e Callimaco compilò le liste bibliografiche-biografiche dell’imponente materiale (pínakev). Dagli scolî ad Aristofane – che costituiscono una collezione notevolissima – si capisce che un’edizione

252

Il teatro: un mestiere nella polis

del comico ateniese fu curata dal grammatico Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.), lo scolaro di Zenodoto e di Callimaco; a lui si deve infatti la definizione delle caratteristiche ortografiche del testo superstite. Nel lavoro di classificazione confluito nei pínakev callimachei rientrava ovviamente anche la decisione in merito ai difficili problemi di autenticità. Possiamo arguire ad esempio che Callimaco includesse – difficile dire se dubbiosamente o meno – il Radamanto (di Crizia) tra le tragedie di Euripide: forse perciò in un papiro contenente «Argomenti» di tragedie euripidee in ordine alfabetico (Papiri della Società Italiana per la ricerca dei papiri [= PSI], XII, 1286) c’è anche l’«Argomento» del Radamanto3. Secondo uno scolio all’Andromaca (al v. 445) Callimaco trovava quella tragedia – evidentemente in esemplari a lui accessibili – fornita di due indicazioni, di fonte documentaria (didascalie?): che l’Andromaca non era stata rappresentata in Atene, e che come autore non figurava Euripide, ma Democrate4. Ma non sappiamo Callimaco verso quale attribuzione propendesse. Per quel che riguarda la collezione dei comici, nonostante non ci sia stata qui una ‘strettoia’ della tradizione, come poté essere per i tragici l’operazione compiuta da Licurgo, ugualmente si affermò la tendenza a privilegiare una triade: Eupoli, Cratino, Aristofane per la commedia «antica» (Orazio, Ars poetica); Menandro, Difilo, Filemone per la commedia «nuova». Forse – osservò Ziegler – influì anche una mistica devozione verso la «triade». Comunque qui il materiale incominciava da un’epoca più recente: è difficile immaginare produzione comica di elevato valore letterario precedente l’età della guerra del Peloponneso. La commedia d’altra parte fu per gli Alessandrini oggetto di indagini antiquarie di enormi proporzioni; ce ne può dare un’idea la raccolta degli scolî ad Aristofane, nei quali ben 64 volte è citato con ampiezza Didimo: l’ultimo ‘grande’ dell’erudizione alessandrina; di lui è conservata una parte significativa del Commento a Demostene e di qui capiamo il suo modo di lavorare ed il tipo di notizie (soprattutto storico-antiquarie) che i redattori dei superstiti scolî hanno potuto ricavare da lui. È ovvio che la commedia «antica» – così esplicita nei suoi continui riferimenti all’attualità politica e culturale – si prestasse molto più della tragedia a questo genere di commenti. Un nome che spicca, in questa attività, prima di Didimo, è il nome di Callistrato detto «aristofaneo», scolaro di Aristofane di Bisanzio.

XIV. Nota sulla progressiva selezione dei testi scenici

253

5. Le sillogi Quando si sono formate le sillogi giunte fino a noi per merito di un ristretto manipolo di manoscritti medievali? È evidente che il fine precipuo delle grandi istituzioni culturali proliferate nel mondo ellenizzato dopo l’egemonia culturale di Alessandria (Pergamo, Atene, Roma) era di serbare il più possibile nella sua integrità questo patrimonio di «classici». Ma è altrettanto chiaro che – contemporaneamente – il mondo della cultura e della scuola è stato, quasi di necessità, percorso da una spinta in senso contrario: quella alla selezione antologica di autori e, nell’ambito di un autore, di testi «esemplari». È un processo lungo che non è facile localizzare in modo preciso in una determinata epoca, e che può a lungo coesistere con la circolazione e la conservazione delle raccolte ‘intere’ (fintanto che questa conservazione è ancora possibile). Le crisi politiche e le guerre altamente distruttive del mondo ellenistico (prima e dopo l’irrompere di Roma) hanno causato non solo perdite umane raccapriccianti ma anche distruzioni di beni, e di libri. Pergamo, dopo essere stata teatro della traumatica fine della monarchia attalide (133 a.C.) e quartier generale di Mitridate cinquant’anni dopo, era stata infine depredata dei suoi libri dal triumviro Antonio in favore di Alessandria (Plutarco, Vita di Antonio, 58), la cui Biblioteca, sempre secondo Plutarco (Vita di Cesare, 49), aveva subìto danni durante la campagna cesariana del 48 a.C. E già erano in arrivo, dopo la non molto lunga pace augustea, nuove catastrofi, di cui la caduta di Roma nelle mani di Alarico – che accese la fantasia di Agostino – è come il coronamento. Così, quando i grandi depositi della cultura ellenistico-romana si furono volatilizzati, in vita rimasero, in virtù della loro diffusione necessariamente ‘capillare’, appunto le sillogi, pensate infatti per la scuola ma anche per i colti (Seneca aveva probabilmente una scelta di Euripide sottomano quando componeva le sue tragedie) e per i «semicolti». Qui il segreto della loro durevolezza. Centri nuovi ed aree di elevata acculturazione, qual è l’Africa nell’età da Apuleio ad Agostino, possono aver continuato ad alimentare la circolazione di opere che ormai erano rimaste (ed hanno continuato a rimanere) fuori delle sillogi. In questo caso possiamo seguire la relativa ‘vitalità’ dei testi estranei alle sillogi per merito dei papiri tuttora emergenti dal suolo egiziano; ma ci rendiamo conto che questa vitalità non poté durare molto oltre la separazione dell’Egitto dall’impero d’Oriente.

254

Il teatro: un mestiere nella polis

È dunque legittimo chiedersi se non abbia visto giusto il Wilamowitz quando, nell’Introduzione alla Tragedia Greca (1906-10), indicò nella matura età antonina e nel predominio atticistico l’epoca in cui si sarebbero formate le sillogi degli scenici, rimaste normative fino alla rinascita della cultura greca in epoca bizantina. E invero un’antologia – se ha avuto fortuna – può alla fine risultare determinante parecchio dopo essere stata confezionata. La formazione di una tale silloge, almeno nel caso di Aristofane, è ben più che un’ipotesi. Sin dal 1838 Otto Schneider aveva rilevato che un commento confezionato da un grammatico Simmaco intorno all’anno 100 d.C. (ricostruibile attraverso gli scolî) riguardava appunto le 11 commedie della scelta giunta a noi. Dunque, per Aristofane, sarà stato quello l’atto di nascita della silloge ‘vincente’. 6. Le collezioni superstiti Perché è giusto parlare, per gli scenici, di scelta consapevole, di silloge confezionata da una mente che obbediva a determinati criteri e intenti, e non di casuale agglomerato di testi salvatisi per caso? Perché sono ancora visibili i criteri della scelta compiuta. Innanzi tutto il numero dei drammi prescelti. Non può essere frutto del caso che siano sette sia per Eschilo che per Sofocle. Sono dieci per Euripide, autore di gran lunga più letto e imitato. Tanto più letto che di lui giunsero ai dotti bizantini da un lato la silloge di dieci tragedie (Alcesti, Medea, Ippolito, Andromaca, Ecuba, Troiane, Fenicie, Oreste, Baccanti, Reso), tutte fornite di scolî (il che conferma l’origine scolastica della silloge), dall’altro uno spezzone di una edizione ‘completa’ in cui le tragedie erano disposte in ordine alfabetico (‘Elénh, ’Hléktra, ‘Hrakleîdai, ‘Hraklñv, ‘Ikétidev, ’Ifigéneia h™ e¬n Au¬lídi, ’Ifigéneia h™ e¬n Taúroiv, ºIwn, Kúklwy). Queste nove non sono fornite di scolî. Nella tradizione medievale le due collezioni sono mescolate. Frutto di scelta appaiono anche i contenuti. Sembra quasi – ha osservato Paul Mazon – che «varie di queste tragedie siano state scelte, presso l’uno o l’altro tragediografo, per consentire un paragone con drammi, di analogo argomento, dei suoi rivali». Si scopre anche il proposito di trascegliere nell’ambito dello stesso autore tragedie che possono raccordarsi tra loro dal punto di vista tematico: Edipo re, Antigone, Edipo a Colono (tre su sette) nel caso di Sofo-

XIV. Nota sulla progressiva selezione dei testi scenici

255

cle; Andromaca, Ecuba, Troiane (tre su dieci) nel caso di Euripide; per Eschilo, che di norma presentava trilogie tematicamente unitarie, bastò includere nella silloge l’intera Orestea. Ancora: per tutti e tre i tragici sono state scelte opere della piena maturità: per Eschilo addirittura nessun’opera scritta prima dei suoi 54 anni (i Persiani del 472 sono la più antica tramandata); analoga la situazione per Sofocle (nato nel 496) se si considera che difficilmente può dirsi che siano tramandate tragedie anteriori all’Antigone (che è del 441). Invece per Aristofane la scelta ha privilegiato le commedie dell’esordio (ben cinque su undici: Acarnesi, Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace). Scolastico è anche il criterio di porre in prima posizione i drammi didatticamente più istruttivi e linguisticamente più facili: così il Pluto, la commedia aristofanea più recente, era la prima nella silloge di Simmaco. In questa silloge il criterio della scelta era del tutto evidente: si trattava delle commedie più profittevoli per l’insegnamento, riguardanti personaggi notissimi della storia e della letteratura quali Socrate, Euripide, Cleone. Dunque c’erano già in Simmaco le premesse per l’affermarsi di quella nozione della superiorità ‘intellettuale’ di Aristofane rispetto agli altri comici, cui Aristofane deve, probabilmente, il privilegio di essere – alla fine – sopravvissuto, unico in tutto il mare magnum della commedia greca. È molto probabile che per prima si sia venuta riducendo la conoscenza della tragedia, più difficile e meno imitata della commedia. La commedia predomina negli interessi letterari del mondo ellenizzato dall’età antonina (e atticistica) al IV/V secolo d.C.: da Luciano ad Alcifrone, ad un patito della commedia (specie media e nuova) come Ateneo (in età severiana), a Sinesio, ad Aristeneto. Si legge e si imita sia l’a¬rcaía che la néa ed in ispecie Menandro, che nel IV secolo d.C. è letto ancora in Occidente (in Gallia da Ausonio). D’altra parte già in Galeno (II secolo d.C.) – che scrive un trattato sulla commedia – la conoscenza della tragedia appare ormai di seconda mano, mediata da glossari. I papiri, che ci inondano di testi menandrei, non ci hanno però dato sinora, di Aristofane, testi di una qualche entità fuori delle 11 commedie della silloge (a parte citazioni, dal Gerytades, dal Poliido ecc. in raccolte di scolî). Ci hanno dato anche frammenti dai Plutoi di Cratino, dai Demi e dai Prospaltioi di Eupoli. Ciò conferma che si è continuato a leggere a lungo molta commedia, ma di Aristofane già molto presto non si leggeva, in sostanza, più di quanto Simmaco aveva incluso nella sua ben dosata antologia. Quanto ai tra-

256

Il teatro: un mestiere nella polis

gici, i papiri hanno dato e continuano a dare soprattutto Euripide quasi con la stessa abbondanza con cui ci hanno dato Omero, e, ad una certa distanza, Demostene. Ai papiri dobbiamo anzi il radicale incremento della conoscenza di tragedie euripidee assenti sia dalla silloge che dallo spezzone dell’edizione completa: Antiope, Cretesi, Ipsipile, Melanippe, Telefo ecc. Proprio tale ricchezza spiega come mai nell’epoca, di molto impoverita (perduti Menandro e gli altri comici tranne Aristofane), in cui si sono formate le raccolte bizantine, fosse invece ancora disponibile per Euripide, oltre alla silloge, anche un cospicuo spezzone (E-K) dell’edizione completa. Nel prosieguo dell’età bizantina, rischi di ulteriori impoverimenti si sono profilati anche per corpora modesti, quali sono appunto quelli degli scenici (non solo per opere monumentali come Diodoro e Polibio). Si sono infatti costituite delle sotto-scelte minori, su cui si è concentrata la cura dei dotti: le cosiddette «triadi» (Prometeo, Sette, Persiani per Eschilo; Aiace, Elettra, Edipo re per Sofocle). Probabilmente allo stesso modo si spiega la formazione anche per Aristofane di un corpus ridotto: sette commedie (quelle del codice Veneto Marciano Z 474). Qui sono assenti Acarnesi, Tesmoforianti, Lisistrata e Donne all’assemblea; la dimensione è quella delle due raccolte di Eschilo e Sofocle (sette drammi). Quello che certo non recupereremo è la musica che accompagnava la rappresentazione, e spesso ne era l’elemento dominante. Perciò la nostra conoscenza del dramma attico è impoverita ab origine di un elemento capitale. Note 1 Un ‘incentivo’ che forse indica una minore propensione di registi e attori a rimettere in scena l’arcaico tragediografo: sta di fatto che l’unico attore di cui sappiamo con precisione che abbia messo in scena Eschilo è un Licimnio di cui parla Alcifrone nelle sue fittizie lettere (III, 12). 2 Wilhelm Schmid pensa, senza motivo, che l’esemplare ateniese sottratto da Tolomeo Evergete sarebbe quello licurgheo. 3 Crizia, infatti, è una ‘riscoperta’ degli Atticisti, nel II secolo d.C.: è in quell’epoca che Polluce è in grado di citare come di Crizia una frase della Costituzione degli Ateniesi pseudosenofontea ed Erode Attico, dotto amico di Marco Aurelio, imita la prosa del «tiranno». Ma sarebbe importante capire sulla base di quale documentazione avvenisse una tale ‘riscoperta’. 4 Un Democrate di Sicione, autore di venti tragedie, è attivo alla fine del IV secolo (è il nr. 124 della raccolta curata da Snell dei frammenti dei tragici).

LA STORIOGRAFIA TRA RICERCA E POLITICA

XV ECATEO: LA LAICIZZAZIONE DELLE «GENEALOGIE» 1. Ecateo nella rivolta ionica L’opera di Ecateo, greco d’Asia, nato a Mileto da nobile famiglia intorno alla metà del VI secolo, è andata perduta. Uno dei più importanti testimoni su di essa è Erodoto, vissuto parecchi decenni più tardi. Ma il modo, per lo più implicito, con cui Erodoto si giova dell’opera del suo predecessore (esplicito è, in genere, quando ne dissente e lo critica) può risultare fuorviante. Ecateo ci appare per la prima volta in una circostanza drammatica: nel momento in cui la Ionia sta per insorgere contro i Persiani, nel 500 a.C., e Aristagora, uno dei capi della rivolta1, raduna i compagni di lotta dopo aver ricevuto fortunosamente da Istieo, signore di Mileto, il messaggio che invita all’insurrezione. «Ma – scrive Erodoto – Ecateo, il prosatore, non voleva che ci si imbarcasse in una guerra con il re dei Persiani e a tal fine faceva il catalogo di tutti i popoli su cui regnava Dario e della sua forza militare» (V, 36). Fondamento del giudizio sulla opportunità politica è dunque, per Ecateo, la considerazione dei rapporti di forza. In questo primo suo intervento, direttamente politico ma svolto con mentalità di periegeta («il catalogo di tutti i popoli su cui regnava Dario»), si saldano l’esperienza del viaggiatore e indagatore del mondo conosciuto con gli obiettivi del politico, che mette a frutto le conoscenze per valutare le concrete opportunità. È un primo nesso, nel mondo greco, tra storiografia e riflessione politica. Forse Erodoto si è ricordato di questo «Catalogo» quando ha elencato i popoli che gli invasori persiani hanno portato contro la Grecia (VII, 61-80). Erodoto non presenta, in genere, Ecateo sotto luce molto benevola (tanto che si è dubitato della storicità degli interventi che gli attribuisce in questa circostanza), e forse nell’imponente catalogo dei popoli che i re persiani portarono alla scon-

260

La storiografia tra ricerca e politica

fitta vi è, anche, una implicita polemica verso l’argomento dissuasivo che Ecateo avrebbe a suo tempo brandito. La prima reazione di Ecateo all’incitamento di Istieo non ebbe successo. «Poiché non riusciva a persuaderli – prosegue Erodoto – come secondo suggerimento consigliava di assicurarsi prima la supremazia marittima. Ma, soggiungeva Ecateo, non vedeva come altro questo sarebbe accaduto (sapeva che le risorse dei Milesî erano modeste), se non trafugando il tesoro che Creso di Lidia aveva donato come ex-voto al santuario dei Branchidi: così sperava seriamente che sarebbero riusciti a conseguire la supremazia sul mare, giacché avrebbero trovato il modo di utilizzare quelle somme e avrebbero impedito ai nemici di saccheggiarle loro. Quelle somme erano enormi, come ho mostrato nel primo dei miei lògoi» (V, 36).

Neanche questo ulteriore parere di Ecateo ebbe successo. Aristagora ed i suoi decisero di dare inizio comunque alla rivolta. Ma è segno dell’alto prestigio intellettuale di Ecateo, il quale era anche rampollo di antica nobiltà milesia, il fatto che Aristagora, quando si è recato – poco dopo – a Sparta, abbia portato con sé per meglio illustrare le ragioni della rivolta una carta geografica che con tutta probabilità era quella disegnata da Ecateo. È ancora una volta Erodoto che narra l’incontro tra Aristagora e Cleomene re di Sparta e trova il modo così di descrivere largamente il contenuto e la conformazione di quella carta, che rappresentava un notevole passo avanti rispetto all’altra tracciata sempre in Ionia da Anassimandro: «Giunge dunque Aristagora, tiranno di Mileto, a Sparta – racconta Erodoto – quando era al potere Cleomene. Secondo quel che raccontano gli Spartani, Aristagora andò al colloquio con Cleomene avendo con sé una tavoletta di bronzo su cui era stata incisa la Periegesi di tutta la terra e inoltre tutti i mari e tutti i fiumi» (V, 49). Nell’abile discorso che rivolge a Cleomene, Aristagora sottintende, per così dire, le argomentazioni di Ecateo, e infatti si sforza di minimizzare il numero dei barbari enfatizzando il valore degli Spartani, che – prevede – sicuramente vinceranno «perché hanno il primato nel valore militare». Dopo di che utilizza la descrizione della terra che si era portato con sé per invogliare gli Spartani a combattere in Ionia e nelle regioni vicine e cerca di attirarli con il miraggio della ricchezza:

XV. Ecateo: la laicizzazione delle «Genealogie»

261

«Gli abitanti di quella terra hanno ricchezze superiori a quelle di tutti gli altri uomini: oro, argento, bronzo, vesti ricamate, animali da soma e schiavi. Queste ricchezze, se ne avrete desiderio, potrete averle. Essi sono disposti e confinano tra loro nel modo che ora ti dirò. Con gli Ioni, che sono qui – e parlando gli mostrava via via ciò che nominava sulla tavoletta iscritta –, confinano i Lidi, che abitano una terra fertile e più di tutti posseggono argento. Di seguito ci sono i Frigi, verso Oriente, che più di tutti hanno ovini e frutta. Con i Frigi confinano i Cappadoci, che noi chiamiamo Siri. Loro vicini sono i Cilici, che giungono sino a questo mare qui, dove si trova l’isola di Cipro» (V, 49).

E la «periegesi» di Aristagora si conclude con una domanda cattivante ma inverosimile: «Potendo senza pena dominare su tutta l’Asia, cos’altro potreste preferire di meglio?» (V, 49). Riutilizzato per attirare gli Spartani, l’argomento ‘periegetico’ di Ecateo non ebbe alcun successo sulla prudente immaginazione di Cleomene di Sparta. Non era servito a dissuadere Aristagora e tanto meno poteva servire ad attrarre il re di Sparta in una impresa immane. Ma Ecateo riappare ancora alla fine della rivolta ionica, quando ormai, racconta Erodoto, «venivano prese le città», cadevano cioè l’una dopo l’altra nelle mani dei Persiani. Allora Ecateo contrastò il suggerimento disperato di Aristagora – di andarsi a rifugiare in Sardegna o per lo meno in Tracia nel fortilizio di Istieo –, e suggeriva invece di arroccarsi nell’isola di Lero – non molto lontana da Mileto, e lì attendere che Dario si ritirasse da Mileto (V, 124-125). Consiglio ingenuo, per lo meno nella forma in cui lo presenta il non benevolo Erodoto il quale addirittura tace il nome di Ecateo quando narra (VI, 42) della sistemazione «benefica» che, alla fine della rivolta, Artaferne impose agli Ioni dopo una trattativa con i rappresentanti delle varie città. Da un’altra tradizione sappiamo che tra quei legati c’era anche Ecateo2. 2. Nascita del pensiero ‘laico’ I ‘consigli’ che Ecateo fornisce allo scoppio della rivolta – e della cui storicità si è talora dubitato – hanno però un valore che va ben oltre l’occasione in cui furono formulati. Essi sono l’espressione di un pensiero laico: tributario ormai di quell’illuminismo ionico che ha nella critica del suo coetaneo Senofane una delle sue più

262

La storiografia tra ricerca e politica

moderne manifestazioni. In Ecateo questa laicizzazione diviene programma e metodo nel celebre esordio delle Genealogie: «Ecateo di Mileto così parla. Questo scrivo come a me sembra essere vero, giacché, secondo quel che pare a me, i racconti dei Greci sono molti e risibili» (Fr. 1 Jacoby). «Secondo quel che pare a me» è la parola d’ordine dell’individuo svincolato dalle catene della tradizione e dell’autorità: autorità che, nelle monarchie orientali, si estende anche alla ‘verità’ storica. Lì il potere è anche formalmente l’unico ‘storico’: «Così parla Dario» nella famosa iscrizione di Bisutun, che narra le imprese di Dario, e un millennio prima «Così parla Hattusili». Quello che Hattusili o Dario «dicono» è la storia. Dalle loro iscrizioni rupestri e monumentali essi «parlano» in prima persona a ribadire la loro centralità che è quasi unicità, nell’universo degli eventi. Perciò l’esordio delle Genealogie di Ecateo, «Così parla Ecateo», ha un evidente significato polemico e di liberazione. Si contrappone alle grandi epigrafi storiche dei re in nome della relatività, soggettività (e molteplicità) del giudizio. Dopo di lui quel «come sembra a me» è diventato il punto di riferimento obbligato del fare storia della prassi storiografica. Così Erodoto, nel momento in cui delimita la propria materia e chiarisce che non tratterà l’era mitica, prende le distanze da quell’incerta materia con un’espressione prudente che allude alla presa di posizione di Ecateo: «Questo dicono i Persiani ed i Fenici. Io non starò a dire che le cose andarono così o altrimenti» (I, 5). E Tucidide nel celebre capitolo (I, 22) in cui descrive il proprio metodo di lavoro dirà, contrapponendosi ai suoi predecessori, di non aver raccontato i fatti che narra «informandosi dal primo capitato» (e allude ad Erodoto), né «come sembra a me» (che è la citazione letterale dall’esordio di Ecateo). Rivendicherà dunque di essere andato ben oltre il livello solitario e impressionistico della critica di Ecateo. Ma ciò non toglie nulla alla grandezza di quella iniziale rottura nei confronti del dominio autoritario, rappresentata dalla solenne proclamazione di Ecateo. L’importanza, nella storia umana, di quella rottura la comprendiamo tanto più pienamente, se consideriamo che molto presto, con Erodoto, il terreno naturale di fioritura della storiografia diventa Atene, la città della parola e dello scontro tra più ‘verità’. È però altrettanto importante rilevare che ad Atene, proprio nella persona di Erodoto – il greco d’Asia distaccatosi dal mondo del dispotismo – la storiografia è divenuta, nel senso più alto, strumento propagandistico della demo-

XV. Ecateo: la laicizzazione delle «Genealogie»

263

crazia ateniese. Segno dunque che, di per sé, l’attività storiografica è una nuova forma di rapporto col potere. 3. La scoperta del passato: le «Genealogie» Una conseguenza della laicizzazione della storia è la scoperta del passato storico. Di contro alla tradizione di tipo orientale, dove «parla» unicamente il sovrano ed assomma, per così dire, in sé tutti gli eventi (al punto che nella tradizione egizia, il faraone è sempre lo stesso faraone il cui regno incomincia ogni volta dall’anno I), lo sforzo genealogico di Ecateo stabilisce una cronologia, una impalcatura cronologica del passato il cui scopo si può definire con una espressione di Erodoto (I, 171,2) ripresa e variata da Tucidide nel proemio: «spingersi il più possibile indietro con l’akoè». Deucalionidi, Argonauti, Danaidi, Eracle ed Eraclidi, saga tebana, sono le «generazioni di eroi» che vediamo allinearsi attraverso gli scarsi frammenti superstiti delle Genealogie. Erodoto, che leggeva Ecateo e lo utilizzava, dice (II, 143) che, secondo la sua ricostruzione, tra la generazione precedente la sua e gli dèi ci sarebbero state in tutto sedici generazioni. Questo raccontava Ecateo in Egitto, a Tebe, ai sacerdoti del tempio. I sacerdoti negavano che si potesse riannodare una genealogia umana alla divinità, e per tutta risposta lo introdussero nel tempio di Karnak, immenso, e gli mostrarono trecentoquarantacinque statue: esse rappresentavano altrettante generazioni di sacerdoti, in cima alle quali vi erano pur sempre esseri umani. «Dovette essere – ha scritto Theodor Gomperz, il grande storico del pensiero greco – pressappoco come se il soffitto della sala in cui si trovava si fosse innalzato in quel momento sul suo capo a perdita d’occhio. La sfera della storia umana si ampliava per lui smisuratamente». Anche ad Erodoto – giunto anche lui in Egitto sulle tracce di Ecateo – quei sacerdoti inflissero la stessa enumerazione, «eppure non aveva esposto la sua genealogia». A Solone avevano additato il fenomeno in forma più poetica: «voi Greci siete sempre fanciulli e un greco vecchio non esiste» (Platone, Timeo, 22B). 4. La «Periegesi» Ma, pur avendo guadagnato una così ampia nozione di «passato», Ecateo non tentò un racconto di imprese disposte lungo una

264

La storiografia tra ricerca e politica

traiettoria temporale. La forma naturale dell’esposizione rimase per lui la periegesi: come quando, per dimostrare la difficoltà della rivolta, interveniva «facendo il catalogo di tutti i popoli su cui regnava Dario». Un sapere pratico dunque: quel sapere pratico che è, presumibilmente, bersaglio del duro giudizio di Eraclito (Fr. 40 Diels-Kranz) quando, accostando, non a torto, Senofane ed Ecateo come esempi di vana polumaqíh, sentenzia: «il molto conoscere (polumaqíh) non affina il pensare (nóon ou¬ didáskei)». Visione pratica del sapere di cui sono un segno il ricorso da parte di Ecateo alla «periegesi dei popoli su cui domina il gran re» per parare l’incauta iniziativa della rivolta, nonché l’uso della carta geografica da parte di Aristagora come arma di convinzione nei confronti di Cleomene di Sparta. Coronamento della visione pratica del sapere è appunto la carta geografica, che Ecateo ha disegnata, ed alla cui illustrazione è rivolta la Periegesi. Questa carta presupponeva una accurata attività di misurazione, che Ecateo esprime, quando ad esempio tratta di un golfo della Libia in termini di «giorni di navigazione» (Fr. 332 Jacoby). Colpisce il tono sprezzante con cui Erodoto (IV, 36) parla di coloro che disegnano carte geografiche – ed ha in mente in primo luogo quella di Ecateo –: «Io rido quando vedo tanti che disegnano immagini della terra, e nessuno che le sappia commentare in modo ragionevole: gente che disegna l’Oceano tutto intorno alla terra, raffigurata a sua volta rotonda come se fosse tracciata col compasso, e presentano l’Europa e l’Asia di dimensioni uguali!». (Appunto la Periegesi di Ecateo era divisa in due libri: l’uno riguardante l’Europa, l’altro l’Asia.) Questo tono è tanto più sorprendente se si considera l’enorme debito di Erodoto nei confronti della Periegesi di Ecateo. «Quasi alla lettera Erodoto trasferì nel secondo libro della sua opera intere parti della Periegesi di Ecateo di Mileto, pochissimo qua e là mutando» notava Porfirio, il dotto pensatore e filologo discepolo di Plotino, nel III secolo d.C. E adduceva come esempi i racconti erodotei sulla fenice, sulla caccia al coccodrillo ed altro ancora (Ecateo, Fr. 324a Jacoby). Ma vi è anche una affinità più profonda che lega Erodoto al suo predecessore. Erodoto esordirà infatti nel suo lavoro di «ricerca» – come la chiama – ricalcando il modello della Periegesi di Ecateo. In alcuni casi, ricalcherà le sue orme, seguirà le sue stesse tappe: lo ricorda egli stesso quando rievoca la visita al tempio di Karnak a Tebe di Egitto. Quando ci raffigura Ecateo che recita la propria ge-

XV. Ecateo: la laicizzazione delle «Genealogie»

265

nealogia a quei sacerdoti, ce lo fa apparire impegnato in una di quelle letture che saranno poi, anche per lui, il modo di divulgazione abituale della propria opera. Stabilire con precisione sulla base dei frammenti superstiti l’ambito coperto dalla Periegesi di Ecateo non è facile: certo descriveva ampiamente l’Occidente dalla Spagna alla Sicilia, ma anche la costa del Mar Nero e la Scizia, l’intera Asia Minore, la Persia, l’India e il Nord Africa (Libia ed Egitto), e infine l’Etiopia, estremo limite meridionale del suo universo. Sembra un mondo ‘più grande’ di quello erodoteo. Il distacco di Erodoto da Ecateo (dal modello da lui rappresentato) dev’essere avvenuto quando Erodoto ha operato il salto verso la storia, riplasmando i lògoi della sua periegesi dentro la cornice più propriamente storica dei Persiká. È in quel momento che Erodoto definisce nel proemio (I, 1-5) i limiti ‘in alto’ della propria materia: riserva a sé la storia più propriamente umana (infatti incomincerà con Creso) e prende le distanze dalla ‘Hrwología di Ecateo proclamando di non avere, in materia, una propria «veduta» da esprimere (allusione alla celebre espressione posta al principio delle Genealogie). Instaura così una sorta di polemica continuazione rispetto ad un predecessore: incomincia là dove Ecateo si arrestava. È da pensare che l’ispirazione ad adottare un tale procedimento gli sia venuta dall’epica, dalla consolidata prassi del ciclo consistente appunto nel «dire seguitando» rispetto ad un altro predecessore. È un modello che si è affermato nella successiva tradizione storiografica (lo vedremo in funzione anche nel difficile rapporto di Tucidide nei confronti di Erodoto). Per ben comprenderlo bisogna tener conto dell’elemento agonistico, un tratto che certamente deriva dall’epica: continuazione ed emulazione sono indissolubili. Il che spiega come mai la polemica, la critica, lo sforzo di dimostrare di aver ‘fatto meglio’ siano quasi d’obbligo nei confronti dell’autore che si è assunto come punto di riferimento (magari non dichiarato ma evidente) della propria continuazione. Note 1 Genero del tiranno di Mileto, Istieo, Aristagora governa da «tiranno» la città di Mileto durante la forzata assenza del suocero, trattenuto alla corte del Gran Re. 2 Eforo, cui risale Diodoro Siculo, X, 25,4.

XVI ERODOTO: DALLA «PERIEGESI» ALLA STORIA POLITICA 1. Il novellista itinerante Congiunto del poeta epico Paniassi, che era anche un indovino, Erodoto racconta, ormai in prosa, tutto il raccontabile: ben oltre i limiti di ciò che poi si è inteso essere oggetto di un’opera storiografica. Sin dall’antichità fu usuale considerare Erodoto il vero iniziatore del genere storiografico (Cicerone, De legibus, I, 5), ma è probabilmente alquanto arbitrario. Egli è certamente, stando alle nostre conoscenze, il primo ad adoperare – e forse ha coniato – il termine historìe, ma è abbastanza chiaro che per lui tale parola non indica ciò che siamo soliti intendere con il termine «storia», bensì – in senso assai più largo – ogni umana «ricerca». Ed egli definisce perciò, al principio della sua opera, il proprio lavoro come «esposizione della ricerca» (i™storíhv a¬pódexiv). Ricerca che, chiarisce subito, non riguarda soltanto «le gesta umane» (tà genómena e¬x a¬nqråpwn) ma anche i grandi monumenti e le realizzazioni materiali frutto dell’opera umana (e¢rga megála te kaì qwmastá). Ed è notevole come, in quelle prime importanti righe del proemio, Erodoto ricorra a termini il più possibile vaghi e onnicomprensivi (genòmena, erga) proprio a significare l’assenza di ‘cancelli’, di limiti della sua «ricerca». È un genere di indagine non ancora ‘codificato’, per cui – ad esempio – Tucidide non ricorrerà mai, pur collegandosi per tanti versi ad Erodoto, alla parola historìa e sentirà come antecedente del proprio lavoro Omero non meno di Erodoto. Tucidide distingue anzi in un celebre passo (I, 20) i poeti (intende gli epici) e i «logografi» non già per l’oggetto del loro racconto ma per la forma (versi in un caso, prosa nell’altro) e per una certa più accentuata tendenza dei «poeti» alla esagerazione. Non altro. In questo immenso spazio senza confini si inoltra Erodoto, che ha alle spalle l’esperienza dei periegeti ionici, ed una serie di viaggi, che

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

267

lo hanno portato da Samo (III, 60) all’Egitto (tutto il II libro è sull’Egitto: Erodoto vi fu sia prima che dopo la rivolta del 460-454), da Babilonia (I, 178) alla Scizia (IV, 16), al Bosforo (IV, 85), a Taso (VI, 47). E costruisce con empirica libertà una materia varia e piuttosto labilmente connessa, che fa oggetto di pubbliche letture. Che i viaggi nascessero da una sua attività mercantile è congettura. Che le letture gli procurassero compensi – almeno in Atene – è attestato. È questo un dato molto rilevante per la comprensione dell’opera di Erodoto: la sua destinazione alle pubbliche letture. L’opera ha assunto alla fine la struttura di un imponente racconto scritto (più o meno organico), ma è venuta formandosi attraverso una serie di singole unità narrative (lògoi) autonome e diffuse dall’autore attraverso il veicolo, normale per tutta l’epoca arcaica, della pubblica recitazione. In questa duplicità o ambivalenza originaria è racchiusa la gran parte dei problemi e delle aporie più o meno apparenti riguardanti l’opera di Erodoto: da quello più generale (qual è l’oggetto della sua opera?) a quello più specifico (se tutti i lògoi da lui composti siano conservati e se l’opera debba ritenersi compiuta o incompiuta). Le più significative testimonianze sulla recitazione sono nell’opera stessa di Erodoto. Innanzi tutto quando si duole dell’incredulità con cui certe sue letture sono state accolte: per esempio quella sul dibattito costituzionale svoltosi in Persia nella crisi successiva alla morte di Cambise (III, 80: «furono detti in quell’occasione discorsi che alcuni Greci hanno ritenuto incredibili, e nondimeno furono detti»; VI, 43: «Sto per dire qualcosa che stupirà molto quelli tra i Greci che non hanno creduto che Otanes abbia esposto ai sette persiani la tesi secondo cui in Persia bisognava affermare la democrazia»). Ma anche quando adduce una realtà geografica o topografica evidentemente nota agli ascoltatori per illustrarne un’altra più remota: quando ad esempio paragona la posizione della Tracia rispetto alla Scizia con quella del ben più piccolo Capo Sunio rispetto all’Attica (IV, 99). È un procedimento mirante a rendere percepibile una nozione che resterebbe ‘astratta’ attingendo alla esperienza concreta di un determinato pubblico. Non meno indicativo è lo stile: uno stile caratteristicamente ‘novellistico’, in cui dominano l’andamento anulare e la composizione anulare. La cellula di un tale andamento stilistico si può osservare in moltissimi casi; ad esempio nella novella di Gige e della moglie di Candaule (I, 11): «[A] Gige venne, chiamato dalla regina; [B] infatti era solito andare dalla regina quando lei lo chiamava; [A’] quando dunque Gige venne dalla regina ecc.». È lo stile del-

268

La storiografia tra ricerca e politica

la recitazione, in cui il racconto lentamente progredisce sulla base di siffatte riprese le quali costituiscono un solido puntello recitativo. È giusto pensare ad una serie di letture ‘settoriali’: Erodoto stesso fa riferimento alla reazione di «alcuni» Greci. Meno credibile è l’immagine, formatasi nella tradizione più tarda e rispecchiata da Luciano (Erodoto o Aezione), secondo cui lo storico avrebbe scartato come «macchinosa e antieconomica l’idea di andare errando per leggere la sua opera, a turno, ora agli Ateniesi ora ai Corinzi o agli Argivi o ai Lacedemoni» preferendo invece presentarsi ad Olimpia e lì essere «non spettatore ma attore, cantando le sue storie ed ammaliando i presenti, al punto che i suoi libri furono chiamati Muse, dato che anch’essi sono nove». Visione fantastica e idealizzante, che rispecchia tuttavia il dato tradizionale e bene attestato delle ‘letture’ erodotee. Questo tipo di diffusione, ben documentato nel corpus ippocratico, si presenta ancora a Tucidide (non di molto più giovane di Erodoto ed inizialmente da lui molto influenzato) come ipotesi del tutto usuale. Quando riflette intorno al probabile insuccesso di pubblico della propria opera Tucidide osserva infatti: «Probabilmente il mio racconto risulterà poco dilettevole in una pubblica lettura, perché privo di finalità artistiche» (I, 22,4). Prevede cioè di affrontare la pubblica lettura (akròasis) come destinazione naturale di un’opera storiografica. Si può anzi dire che certe parti più arcaiche, più chiaramente influenzate da Erodoto dell’opera tucididea, sono anche stilisticamente strutturate in modo confacente per l’appunto alla recitazione. La trasformazione si è prodotta con la svolta che ha portato Tucidide a concentrarsi esclusivamente sui meccanismi politici del presente ed a farsi perciò narratore di un unico, compatto e monografico tema. Così è nato il libro di storia. La onnivora «ricerca» (historìe) erodotea aveva nelle rapsodiche e parziali letture il suo naturale strumento di divulgazione (e la labile unità dell’intero come necessaria contropartita); la compatta e unitariamente ispirata monografia tucididea segna invece il passaggio ad una nuova, più elitaria forma di diffusione. 2. Vita di Erodoto L’immagine, che si è sin qui evocata, di Erodoto novellista itinerante meglio si comprenderà se si tien conto della sua biografia. Tra i pochi dati certi vi è la nascita ad Alicarnasso, città della Caria i cui dinasti sono fedeli sudditi del re di Persia, in un’epoca che

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

269

Dionigi di Alicarnasso, quattro secoli più tardi, poneva «poco prima delle guerre persiane» (Su Tucidide, 5) e che una fonte cronografica nota a Gellio poneva nel 484 costruendo forse un sincronismo tra l’akmè, i quaranta anni, dello storico ed il fatto rilevante della sua vita, la sua partecipazione alla fondazione della colonia panellenica di Turii (444/3). Erodoto non è dunque testimone delle guerre persiane, che costituiscono la parte maggiore del suo racconto, ma piuttosto delle crisi e delle lotte civili prodottesi in una città come Alicarnasso nell’età successiva alla sconfitta persiana. In tali conflitti la famiglia di Erodoto ebbe la peggio: Paniassi perse la vita nel tentativo di abbattere Ligdami, figlio di Artemisia che aveva retto Alicarnasso in rigorosa fedeltà a Serse. Erodoto fuggì da Alicarnasso con la sua famiglia e trovò riparo a Samo; probabilmente contribuì, qualche anno dopo, alla caduta di Ligdami. Dal 454 Alicarnasso appare nelle liste delle città che pagano tributi ad Atene. È difficile stabilire da quale momento abbia avuto inizio il rapporto di Erodoto con Atene: il momento in cui tale rapporto emerge chiaramente è appunto la fondazione di Turii (444/3), allorché Pericle – promotore della colonia – ha mobilitato intorno all’iniziativa alcune delle migliori forze intellettuali: dall’architetto Ippodamo di Mileto, al sofista Protagora, allo stesso Erodoto, il quale in quella occasione assunse la cittadinanza della nuova colonia1. A Turii Erodoto era giunto da Atene. Sofocle gli aveva dedicato un epigramma2. Secondo la breve notizia della Suda, a Turii Erodoto sarebbe morto, e sarebbe stato sepolto nell’agorà. Poiché la vita politica della colonia è stata presto caratterizzata da ostilità nei confronti di Atene – al punto da toglierle, nel 434, il rango di «metropoli» – ci si è chiesti se Erodoto, il quale visse almeno fino al 430/29, sia davvero rimasto a Turii sino alla morte, o sia tornato ad Atene. Certo, le difficoltà politiche sorte nella colonia non sono, da sole, un argomento decisivo. D’altra parte la conoscenza da parte di Erodoto di dettagli riguardanti i primi tempi del conflitto peloponnesiaco – come ad esempio l’uccisione di Eurimaco, figlio di Leontiade, da parte dei Plateesi dopo l’attacco tebano contro Platea nella primavera del 431 (VII, 233) –, parrebbe un argomento a favore della presenza di Erodoto in Atene in quel torno di tempo. Forse ancor più indicativo in questo senso è che Erodoto attesti con precisione che gli Spartani, pur devastando l’Attica in lungo e in largo, si erano sempre astenuti dal toccare il demo di Decelea (IX, 73). C’è da dire anzi che l’espressione erodotea («al tempo della

270

La storiografia tra ricerca e politica

guerra tra Spartani e Ateniesi, pur devastando gli Spartani il resto dell’Attica, si astennero dal toccare Decelea»), fa pensare che Erodoto abbia in mente più d’una delle invasioni annuali delle truppe spartane in Attica svoltesi dal 431 al 425: e che dunque egli sia stato anche oltre il 430 testimone del conflitto peloponnesiaco. Gli altri cenni erodotei alla guerra peloponnesiaca potrebbero ulteriormente spostare la data di morte di Erodoto. Innanzi tutto il cenno all’eccidio degli ambasciatori peloponnesiaci in transito dalla Tracia verso la Persia, compiuto dagli Ateniesi con la complicità di Sitalce nella tarda estate del 430 (VII, 137: lo racconta anche Tucidide [II, 67], con molti dettagli e forse con il consueto proposito di rettificare qualche inesattezza di Erodoto). Qui Erodoto non si limita a raccontare in breve l’episodio – inquadrandolo in una vicenda di massacri di ambasciatori che gli Spartani dovevano espiare sin dal tempo dell’invasione di Dario – ma precisa che la tragica fine dei legati spartani altro non era che il ridestarsi a distanza di decenni dell’ira divina causata dall’eccidio dei legati persiani inviati a Sparta da Dario nel 490 e uccisi dagli Spartani, e soggiunge che questa è la spiegazione che ne danno gli Spartani: «molto tempo dopo, al tempo della guerra tra Peloponnesiaci ed Ateniesi, si ridestò l’ira di Taltibio [l’araldo di Agamennone, venerato a Sparta], come sostengono gli Spartani». È piuttosto difficile che Erodoto abbia potuto prontamente conoscere – a Turii o ad Atene – il pensiero degli Spartani sull’episodio, in un periodo di assenza di contatti tra le due città in guerra. Infondato è comunque il criterio tendente a ricavare deduzioni biografiche da ciò che Erodoto non dice e avrebbe magari potuto dire. Siamo in realtà di fronte ad un’opera nella quale Erodoto ha operato integrazioni e aggiornamenti sulla base di episodi recenti connessi in modo che a lui parve significativo a personaggi o ad eventi di cui s’era già occupato nella sua «ricerca». È chiaro che tali aggiunte hanno un carattere del tutto saltuario e occasionale: sono significative quando ci sono, non quando mancano. Arguire ad esempio da VI, 91 – dove Erodoto parla della cacciata degli abitanti di Egina da parte di Atene ma non ricorda la successiva loro espulsione dell’anno 424 (Tucidide, IV, 57) – che dunque Erodoto sarà morto in ogni caso prima del 424 è arbitrario. Un altro esempio ci porta a trattare anche la questione della ‘pubblicazione’ dell’opera di Erodoto. Nel gennaio/febbraio del 425 Aristofane, negli Acarnesi, allude scherzosamente al lògos ero-

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

271

doteo su Babilonia (vv. 65-93, 509-539). Ciò significa – come ha suggerito Jacoby – che per quella data l’intera opera di Erodoto era ‘pubblicata’? (il che comporterebbe, per chi – come Jacoby – crede ad una pubblicazione postuma, che Erodoto fosse comunque già morto?) Difficile crederlo. Il ragionamento si basa su una visione troppo modernistica e libresca. In realtà Erodoto ha ‘pubblicato’, se così si può dire, la sua grande opera in prosa via via che ne recitava – magari più volte dinanzi allo stesso pubblico o a pubblici diversi – le varie parti: soprattutto le parti più fortunate e più celebrate. Alla rappresentazione degli Acarnesi gli Ateniesi – o comunque una parte di essi – erano in grado di cogliere l’allusione scherzosa per la semplice ragione che avevano in mente le mirabolanti narrazioni contenute nel lògos su Babilonia udite e commentate ed apprezzate e – perché no? – discusse nelle pubbliche letture. Le stesse aggiunte che via via Erodoto ha operato rapsodicamente qua e là saranno dovute, tra l’altro, proprio a queste parziali letture e riletture. È un sistema di diffusione che probabilmente ha proceduto di pari passo con il progressivo ampliamento della serie di lògoi, i quali intanto prendevano posto in una ‘cornice’ esteriore che li ‘fissava’ da un punto di vista librario. Così deve aver proceduto Erodoto sino all’ultimo. Un Erodoto rientrato ad Atene e pienamente coinvolto, come vedremo, nella propaganda periclea alla vigilia del conflitto, attivo con le sue letture ora ‘aggiornate’ con dettagli ricavati dai fatti della nuova guerra da poco scoppiata – una presenza senza dubbio ‘ingombrante’ –, meglio ci fa comprendere il tormentoso esordio di Tucidide, nonché la perplessità di lui intorno al destino della propria opera (il cui successo è portato a collocare in un futuro piuttosto lontano), ed anche il sarcasmo con cui tratta «il successo effimero in una pubblica lettura». Pensando alla possibile compresenza dei due storici nell’Atene dei primi anni di guerra, meglio capiamo anche l’insistenza con cui, senza mai nominarlo, Tucidide corregge – quando può – sviste o errori di Erodoto, nonché lo spazio notevolissimo che riserva proprio a quegli episodi del nuovo conflitto, cui Erodoto ha fatto cenno nei suoi ultimi «aggiornamenti»: l’aggressione tebana a Platea (che a rigore non rientra nel conflitto ma lo precede di qualche settimana) e l’eccidio degli ambasciatori spartani. La grande ricchezza di dettagli che in entrambi i casi Tucidide fornisce sembra avere come implicito destinatario il cenno sommario che, aggiornando i suoi lògoi, Erodoto ha voluto fare ad entrambi gli episodi.

272

La storiografia tra ricerca e politica

3. Erodoto e Atene Nel momento in cui partiva per Turii, Erodoto aveva già un solido rapporto con l’entourage pericleo, impegnato nella difficile difesa di un’immagine ‘positiva’ di Atene e del suo impero. Tale impegno si fa tanto più intenso quanto più ci si approssima allo scoppio del conflitto. Sempre più spesso, quando le ambascerie ateniesi affrontano dibattiti con i rappresentanti di altre potenze, sono costrette a snocciolare i luoghi comuni, gli argomenti triti e ritriti secondo cui la legittimazione dell’impero è nella vittoria sui Persiani. Quando ricorrono a tali argomenti, gli Ateniesi sono i primi a riconoscerne il logoramento ed il fastidio che suscitano: «La nostra ambasceria – diranno al congresso di Sparta [432 a.C.] in replica all’attacco dei Corinzi – non aveva come compito quello di replicare ai vostri alleati [...]. Ma poiché ci siamo resi conto che ci sono duri attacchi nei nostri confronti, siamo venuti qui a parlare, non certo per replicare alle recriminazioni [...]. A proposito dell’intero discorso che ci riguarda, intendiamo dimostrarvi che non senza ragione abbiamo ciò che ci siamo conquistati, e che la nostra città merita ogni considerazione. La storia più remota che bisogno c’è di rievocarla? Ne fa fede la tradizione più che la diretta esperienza degli ascoltatori. Le guerre persiane invece e le altre imprese di cui siete direttamente consapevoli, anche se può dar fastidio sentirsele rinfacciare ogni volta, sono gli eventi cui è necessario richiamarsi. Giacché quando compivamo quelle imprese il rischio veniva corso per il bene degli altri: se di quel bene anche a voi toccarono i frutti, non è giusto privarci del vanto che ne viene a noi, se può giovarci. Non ne parleremo dunque quasi dovessimo farci perdonare qualcosa, ma per mettere in chiaro con quale città avrete a che fare se la vostra decisione non sarà saggia. Diciamo dunque che a Maratona fummo i primi ad affrontare il barbaro; e quando tornò, e noi non eravamo in grado di affrontarlo in battaglia campale, ci imbarcammo in massa e lo affrontammo con le navi a Salamina: il che impedì che, attaccando con la flotta le città una dopo l’altra, mettesse al sacco il Peloponneso, giacché certo voi non eravate in grado, neanche coalizzandovi, di opporvi ad una flotta così grande. E la prova più chiara di quanto ciò sia vero l’ha portata proprio il nemico: sconfitto sul mare, non disponendo di un’altra flotta uguale a quella, subito, col grosso dell’esercito, ripiegò. Tale fu l’importanza di Salamina» (Tucidide, I, 73).

E che fosse davvero un ritornello sempre meno tollerato questo della vittoria sul «barbaro», Tucidide lo farà emergere con estrema

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

273

crudezza in un punto nevralgico della sua opera: al principio del celebre dialogo tra gli Ateniesi invasori ed i Meli aggrediti (nel 416 a.C.). Lì gli Ateniesi, che non hanno un gran pubblico su cui esercitare la loro propaganda giacché i colloqui si svolgono in forma riservata, parlano subito chiaro e buttano via preliminarmente come un vecchio arnese la retorica della vittoria nella «guerra patriottica»: «non vi infliggeremo una infida lungaggine di parole sostenendo che a buon diritto esercitiamo il dominio perché a suo tempo sconfiggemmo i Persiani» (Tucidide, V, 89). Sapiente invenzione narrativa (il colloquio si era svolto a porte chiuse e quindi Tucidide non poteva conoscerne il contenuto), con la quale Tucidide mette in scena gli Ateniesi i quali, accingendosi alla più brutale delle aggressioni dettata unicamente dalla logica di potenza, smascherano essi stessi per primi il carattere strumentale della loro consueta giustificazione «storica» dell’impero. Erodoto invece quella giustificazione la fa sua; e se la accolla, lui non ateniese, in piena sintonia con la politica di Pericle; e la esprime con impressionante fedeltà alla lettera, non solo ai concetti, della tirata dei legati ateniesi al congresso di Sparta. Sembra quasi di cogliere nelle sue parole un certo oltranzismo schematico che si compiace di ripetere una formula. Colloca questo atto di fede nel suo racconto più elaborato e efficace, quando sta per narrare l’invasione di Serse e l’epopea di Salamina. Lì fa una pausa enfatica (VII, 139) e ‘prende posizione’. Sa di «parlare di politica» e non di storia remota, sa di schierarsi in uno scontro attuale, quello sulla legittimità dell’impero imposto sulle rovine di una lega «paritaria». Sa di dire cose ormai impopolari, e le dice tutte d’un fiato: «A questo punto – così esordisce – sono costretto dalla necessità (a¬nagkaíhı) ad esprimere una veduta odiosa ai più, ma che ritengo vera e che perciò non tacerò. Se gli Ateniesi, temendo l’imminente pericolo, avessero abbandonato la loro terra, o anche, rimastivi, si fossero arresi a Serse, per mare nessuno si sarebbe azzardato a fronteggiare il re. E se nessuno – incalza – avesse affrontato Serse per mare, sulla terraferma sarebbe accaduto questo. Per quante difese e fortificazioni venissero costruite sull’Istmo da parte dei Peloponnesiaci, gli Spartani, abbandonati dagli alleati, si sarebbero trovati soli: i loro alleati infatti non per loro volontà ma per necessità sarebbero stati preda della flotta del barbaro, una città dopo l’altra».

Sono le stesse parole degli ambasciatori ateniesi i quali dicono più brevemente (Tucidide, I, 73): «Lo affrontammo [il barbaro] con

274

La storiografia tra ricerca e politica

le navi a Salamina: il che impedì che, attaccando con la flotta le città una dopo l’altra, mettesse al sacco il Peloponneso». Ma Erodoto prosegue nel suo ragionamento serrato tutto fondato su una concatenazione di frasi ipotetiche come in un’arringa assembleare o giudiziaria, dove predominano il periodo ipotetico ed il ragionamento «per assurdo»: «Ma se gli Spartani si fossero trovati soli, alla fine sarebbero stati sconfitti: magari dando grandi prove di valore. O avrebbero fatto questa fine, o, prima di arrivare a quel punto, vedendo tutti gli altri Greci piegarsi al gran re, si sarebbero accordati anche loro con Serse. E così, in un caso come nell’altro, la Grecia sarebbe caduta sotto i Persiani: non vedo infatti quale utilità mai avrebbero avuto le fortificazioni all’Istmo mentre il re aveva il dominio assoluto del mare. Se dunque uno definisse gli Ateniesi “salvatori della Grecia”, non si discosterebbe dal vero: giacché la bilancia avrebbe alla fine pencolato nella direzione della scelta che avrebbero fatto gli Ateniesi. E poiché – conclude trionfalmente abbandonando la forma ipotetica – scelsero che la Grecia restasse libera, facendo tale scelta furono loro, e loro soltanto, a spingere all’azione gli altri Greci non ancora asserviti ai Persiani, ed a respingere, dopo gli dèi, il gran re».

Netta è la conclusione, ben preparata con un ragionamento non privo di riconoscimenti per gli Spartani e persino per i loro alleati (dei quali si dice che si sarebbero piegati per forza maggiore): senza l’audacia di Atene la libertà della Grecia sarebbe finita, è Atene che «ha scelto che la Grecia restasse libera». È la risposta anzi la puntuale ritorsione nei confronti della propaganda di Sparta e dei suoi alleati, i quali – come annota Tucidide (II, 8,4) – appunto alla vigilia della guerra «andavano preannunciando che avrebbero liberato la Grecia». Erodoto, cui secondo una tradizione attendibile (Diillo, Eusebio) il popolo di Atene tributò un premio «per le sue storie», ha vissuto questo scontro politico-propagandistico e, nella generale ondata anti-ateniese, ha voluto ribadire, in un’opera di vasta risonanza anche politica, che tutta la Grecia, ed in primo luogo gli Spartani, erano debitori verso Atene della loro «libertà». Era fatale che, scrivendo un vasto ed appassionato racconto della guerra alla quale Atene doveva l’impero e su cui aveva poi fondato la propria immagine ed il proprio mito, Erodoto venisse portato – come dice – «dalla necessità» a toccare il tasto scottante. Ma la sua non è opera partigiana, nonostante l’immagine ostile e riduttiva che ha cercato di darne Plutarco nell’opuscolo Sulla malignità

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

275

di Erodoto, offeso per quel che Erodoto scrive della ‘sua’ Beozia al tempo dell’invasione persiana. Ad esempio, l’immagine di Sparta quale appare nel dialogo tra Serse e Demareto, il re spartano fuggito in Persia per beghe dinastiche, è l’immagine di uno Stato libero il cui unico sovrano è la legge: «pur essendo liberi – dice Demareto, che a Serse parla con grande franchezza –, essi non lo sono del tutto, hanno un padrone che temono più di quanto i tuoi sudditi temano te: la legge» (VII, 104). Vero è che si tratta pur sempre della legge considerata in rapporto con la guerra («è una legge – prosegue infatti Demareto – che ingiunge sempre e soltanto la stessa cosa: di non fuggire dinanzi al nemico, qualunque ne sia il numero»). Nel giudizio che Erodoto dà sul ruolo che rispettivamente hanno avuto Sparta e Atene nella sconfitta della Persia la valutazione di Sparta è molto misurata. Leonida è ammirevole per la determinazione suicida con cui affronta coi suoi uomini l’ondata persiana alle Termopili, ma – precisa Erodoto – c’era anche, in tale sua decisione, il proposito di «acquistare gloria per i soli Spartani» (VII, 220), sì che fu lui stesso ad esortare gli alleati impauriti ed esitanti ad abbandonare le Termopili. Anche qui, quando il racconto lo porta a narrare l’episodio il cui lustro è tutto a vantaggio di Sparta, Erodoto fa una pausa e riflette sul comportamento dei protagonisti ed esprime con enfasi la sua gnòme, una gnòme della quale si dichiara preliminarmente «oltremodo persuaso» (tæn gnåmhn pleîstóv ei¬mi): ma essa è riduttiva e freddamente razionalistica nei confronti del disperato sacrificio spartano. Quando invece parla di Argo – la sola città peloponnesiaca che con Atene abbia buoni rapporti, tanto più preziosi quanto più si avvicina la guerra tra Sparta e Atene – il suo tono si fa molto prudente e comprensivo, pur di fronte all’episodio dell’aperta intesa degli Argivi con Serse nell’imminenza della guerra persiana: «Se davvero Serse mandò un araldo ad Argo e davvero gli ambasciatori di Argo giunsero fino a Susa per chiedere ad Artaserse una alleanza non posso dirlo con sicurezza, e non voglio dire altro a loro proposito, se non quello che dicono gli Argivi stessi. Io so questo: che se tutti gli uomini mettessero tutte insieme in un posto le sventure di ciascuno col proposito di scambiarle con quelle del vicino, dopo aver guardato bene in quelle altrui ognuno si riporterebbe a casa soddisfatto le sue, che aveva portato con sé. Se questo è vero, neanche degli Argivi si può dire che abbiano compiuto l’azione più turpe» (VII, 152).

Assidua è d’altra parte la rivendicazione da parte di Erodoto della lealtà di Atene nei confronti di Sparta durante l’intera condotta della guerra: è un altro tema della propaganda periclea. Quando narra del fallito tentativo congiunto, spartano e ateniese, di ottene-

276

La storiografia tra ricerca e politica

re l’intervento di Gelone tiranno di Siracusa nel conflitto imminente contro la Persia, Erodoto mette in luce l’ambizione di Gelone il quale non solo rinfaccia alle due città di non averlo aiutato nella lotta contro i Cartaginesi, ma pretende il comando supremo: o almeno della flotta se non anche delle truppe di terra (VII, 160). Ed allora Erodoto dà la parola agli Ateniesi i quali, pur consapevoli della loro superiorità sul mare, dichiarano che solo a Sparta cederebbero il comando: «Quando tu hai chiesto il comando di tutte le forze sia marittime che di terra, noi abbiamo taciuto: sapevamo che lo Spartano era in grado di risponderti sia per sé che per noi. Ma ora che, vistoti negare il comando supremo, chiedi di poter comandare la flotta, eccoti la risposta: neanche se lo Spartano te ne concedesse il comando noi lo consentiremmo. Giacché esso ci spetta nel caso che gli Spartani non vogliano esercitarlo. Agli Spartani, se lo vogliono, noi non lo disputeremo: ma a nessun altro consentiremo di comandare la flotta. Invano avremmo costruito la maggiore flotta se dovessimo poi cederne il comando, noi, Ateniesi, a dei Siracusani: noi che siamo il popolo più antico, il popolo che non ha mai mutato sede, e di cui l’epico Omero ha detto [Il., II, 552-554] che mandò a Troia l’uomo più bravo nel disporre e disciplinare un esercito» (VII, 161).

Così l’ambasciatore ateniese cita con orgoglio, al tiranno di Siracusa, i versi che si diceva Pisistrato avesse fatto interpolare nel Catalogo delle navi. Ma il senso di tutta quella abile tirata è ancora una volta politico. È la dimostrazione della lealtà ateniese nei confronti di Sparta sul delicato tema del comando supremo. Anche della flotta essi erano dunque pronti a lasciare il comando agli Spartani: a quegli Spartani il cui supremo comandante Pausania – Erodoto non tralascia di notarlo (V, 32) – aveva sognato, dopo la vittoria, di sposare una principessa persiana preso dalla «smania» (èros) di diventare «tiranno di tutta la Grecia». Un tema, quello del «tradimento» (medismòs) di Pausania, che come ritorsione polemica era riesploso proprio alla vigilia del conflitto peloponnesiaco su iniziativa della propaganda ateniese (Tucidide, I, 128-134). 4. La svolta storiografica: i «Medikà» Ma è Pericle il grande incontro nella vita di Erodoto ed anche il motore della svolta storiografica onde la sua opera ha preso la forma

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

277

attuale. Per comprendere cosa significhi Pericle per lui, basti pensare che Erodoto giunge addirittura a dar notizia, nella forma più enfatica, a conclusione dell’excursus sugli Alcmeonidi del sogno che Agariste madre di Pericle fece pochi giorni prima di partorirlo. «Da Ippocrate nacquero Megacle II e Agariste, che prendeva nome dalla Agariste figlia di Clistene. Agariste sposò Santippo figlio di Arifrone. Quando era incinta fece un sogno: le parve di generare un leone. E pochi giorni dopo diede a Santippo un figlio: Pericle» (VI, 131). È ben più che uno schieramento in favore di Pericle e degli Alcmeonidi, che pure vi è, chiarissimo, in quel contesto. Lì Erodoto ha appena terminato il racconto della vittoria ateniese a Maratona, che si conclude con il dettaglio gustoso (e non del tutto innocente sul piano propagandistico) degli Spartani che giungono troppo tardi in Attica e chiedono di potere per lo meno «vedere i Persiani» e vengono accompagnati a Maratona a rimirarne i cadaveri (VI, 120). Subito dopo Erodoto passa a discutere una diceria infamante per gli Alcmeonidi – che cioè avrebbero, a Maratona, fatto un cenno d’intesa ai Persiani, coi quali erano d’accordo perché riportassero Ippia, figlio di Pisistrato, sul trono. È una calunnia – osserva –; e la confuta ricordando l’instancabile impegno degli Alcmeonidi per la cacciata dei tiranni. È nel clima della vigilia di guerra del 431 che sono fioriti, di provenienza spartana, attacchi agli Alcmeonidi, miranti a colpire proprio Pericle. Ad esempio la vecchia storia del massacro di Cilone e dei suoi, trucidati dagli Alcmeonidi sull’altare di Atena sull’acropoli (Tucidide, I, 126): un episodio che anche Erodoto narra e data «prima del tempo di Pisistrato» (V, 71). L’esaltazione di Pericle e della sua nascita anticipata da un preannunzio soprannaturale ha un significato preciso in questo clima e in questo momento. Che un contatto così coinvolgente con l’esperienza davvero unica dell’Atene periclea abbia determinato una svolta nell’opera che Erodoto veniva costruendo, è del tutto comprensibile. L’enorme spazio che il racconto delle guerre persiane (libri VI-IX con i prodromi della rivolta ionica nel V) occupa nell’economia dell’opera e l’impianto ‘atenocentrico’ del racconto sono i frutti di tale svolta. Così un’opera che si veniva sviluppando come una successione di lògoi geografici esteriormente collegati dentro l’impalcatura di una «Storia persiana» ha trovato il suo baricentro: lo ha trovato nell’epico racconto del conflitto greco-barbaro, risentito come attuale in forza della sua grande attualità politica, strumento di legittimazione storicoideologica dell’Atene periclea e della sua politica imperiale.

278

La storiografia tra ricerca e politica

Erodoto ha incominciato come Ecateo. Da buon viaggiatore-periegeta veniva elaborando una serie di autonomi lògoi sul mondo abitato dai «barbari» (Lidia, Persia, Scizia, Egitto ecc.), come parti di una Descrizione della terra (Períodov Gñv). Il ‘passaggio alla storia’ si è prodotto per lui nel momento in cui filo conduttore è divenuta una Storia Persiana (Persiká) in cui i lògoi già composti hanno trovato posto più o meno agevolmente: compreso il primo, il lògos di Creso, dedicato alla storia della Lidia, che ‘precede’ la storia persiana (è con la vittoria di Ciro il Grande su Creso che incominciano i Persiká) e che perciò figura in apertura dell’opera. Così si è formata la prima parte (I-V, 27). Quando il racconto giunge ai regni di Dario e di Serse si produce una ulteriore – e definitiva – modificazione: la vicenda del conflitto con i Greci, dalla rivolta ionica alla fine della seconda guerra persiana (V, 28-IX), diventa talmente preponderante da trasformare i Persiká in Mhdiká, in storia appunto delle guerre persiane. Esse diventano come si è detto il baricentro della narrazione, non già uno degli eventi che hanno caratterizzato il regno di quei due sovrani. Anche questa seconda parte è costruita sulla base di una tessitura di singoli lògoi (la rivolta ionica, la spedizione di Dario, Maratona, la seconda invasione, Salamina ecc.): ma mentre nella prima parte i lògoi etnografico-geografici si acconciano in modo esteriore e piuttosto labile al filo conduttore, nella seconda parte (nei Mhdiká) la coerenza tra singoli lògoi e disegno generale è ben più compiuta. Il risultato d’insieme è comunque abbastanza ambiguo, tanto da rendere possibili entrambe le interpretazioni, se ancora molti secoli più tardi il patriarca bizantino Fozio, nella sua Biblioteca, definiva l’opera di Erodoto come una storia persiana costruita intorno alla successione dei re. E l’ambiguità era accentuata probabilmente dalla incertezza sulla compiutezza o meno dell’opera. Nell’Ottocento ci si era accaniti alla ricerca di preannunci non esauditi, riscontrabili nell’opera erodotea, i quali venivano addotti come prova della sua incompiutezza: più celebre di tutti quello relativo alla conquista di Ninive ed ai re babilonesi di cui si sarebbe dovuto parlare «nei lògoi assiri» (I, 184), che però non ci sono. Se però si considera la natura, la progressiva composizione e la destinazione dell’opera erodotea, questo genere di osservazioni perde molto del suo valore. Il problema è piuttosto un altro: come mai il racconto prosegue oltre la disfatta persiana? Superato quel primo, possibile finale, il racconto sembra avviarsi verso un nuovo punto conclusivo («finale

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

279

protratto») e invece si arresta con la notizia della presa di Sesto. Davvero Erodoto intendeva fermarsi al racconto della conquista ateniese di Sesto del 478 – ultimo episodio del IX libro –? e perché? È molto probabile che quell’episodio non avesse nulla di epocale; e probabilmente ha visto giusto Wilamowitz quando osservò che la cosiddetta «Pentecontetia» tucididea (il breve racconto del cinquantennio 478-431 che Tucidide inserisce – come vedremo – nel suo I libro) è divisa in due parti, la prima delle quali va dalla presa di Sesto alla formazione della lega delio-attica ed ha la funzione di completare il monco racconto erodoteo della seconda guerra persiana. Nondimeno l’opera erodotea ha un suo ‘ultimo’ capitolo palesemente conclusivo (IX, 122). Esso prende spunto, come spesso accade in Erodoto, da un nome: dal nome di Artaicte, il persiano fuggito da Sesto assediata ma poi catturato e crocifisso dagli Ateniesi. L’avo di Artaicte, Artembares, aveva proposto a Ciro il Grande di lasciare i territori aspri della Perside e trasferire i Persiani nei territori più piacevoli e accoglienti della pianura. Ciro risponde che lo facciano pure ma perderanno l’impero: perché da una terra molle nascono uomini molli e non è mai accaduto che la stessa terra desse bei frutti e bravi guerrieri. I Persiani gli obbedirono e «preferirono vivere su una terra sterile piuttosto che essere servi di altri coltivando una pianura opulenta». Cos’è mai questa chiusa, ché certamente di una chiusa si tratta? È un epilogo efficace, che ha influenzato l’altro grande libro greco sulla Persia, la Ciropedia di Senofonte, che ugualmente si conclude con un capitolo a sé stante (della cui autenticità inutilmente si è dubitato), dove il regno austero di Ciro il Grande viene messo a paragone con la decadenza e il rammollimento dei costumi sotto i sovrani seguenti. Epilogo dei Persiká, dunque, l’ultimo capitolo erodoteo: adatto piuttosto al filo originario dell’opera erodotea, quello della «Storia persiana». La sopravvivenza – sia pure in una collocazione inadatta – di un epilogo del genere, è di per sé un dato prezioso. Esso ci consente di osservare che si è conservata incorporata nell’opera quella che altro non è se non una possibile conclusione, adatta a certi lògoi o a gruppi di lògoi, non all’intera opera vista come un tutto compatto intimamente coerente. È la dimostrazione di quanto sia rimasta pur sempre labile, nelle intenzioni dell’autore, l’unità dei lògoi erodotei anche quando sono stati connessi nell’attuale struttura. Per un’opera nata per la recitazione, e tuttora scomponibile nelle sue unità recitative, è dunque rimasto imperfetto l’assetto finale librario. (Per analoghe considerazioni sull’epica, cfr. p. 23.)

280

La storiografia tra ricerca e politica

5. Erodoto tra sofistica e tradizionalismo etico L’Atene che Erodoto ‘incontra’ è l’Atene di Pericle: cioè non solo l’Atene imperiale impegnata in un difficile conflitto di potenza, ma anche, al tempo stesso, l’Atene in pieno rinnovamento spirituale, in piena critica dei valori tradizionali sotto l’impulso in primo luogo della sofistica. L’immagine di Erodoto è parsa non di rado bifronte: da un lato il portatore di valori tradizionali, il seguace della religione tradizionale, dall’altro l’acuto osservatore della relatività delle leggi umane in sintonia con uno dei concetti cardine della sofistica. Questo secondo aspetto merita attenzione. Per vie sue, originali, quelle dell’etnografo dalla ricchissima esperienza, Erodoto è giunto a porsi, con chiara consapevolezza, il problema che occupa le menti di molti esponenti della sofistica: quello della varietà, e dunque della relatività, dei nòmoi (che i sofisti tendono a contrapporre, negativamente, alla phy`sis). La conclusione – tipicamente «strutturalistica» – di Erodoto è invece che Cambise è pazzo perché ha osato deridere le cose che altri popoli ritengono sacre (III, 38). Durante il soggiorno a Menfi – in Egitto – Cambise «aveva scoperchiato antiche sepolture ed esaminato i cadaveri, con la stessa empietà era penetrato nel santuario di Efesto e si era messo a sghignazzare facendosi beffe della sua immagine [che aveva l’aspetto di una mummia in piedi con gli avambracci liberi] [...] Penetrò persino nel tempio dei Cabiri, dove solo al sacerdote è consentito entrare, e anche qui si fece beffe delle statue dei Cabiri e poi le bruciò. Le statue dei Cabiri sono simili a quella di Efesto, del quale dicono che i Cabiri siano figli» (III, 37).

Il fatto è che – commenta Erodoto – per ogni popolo le proprie usanze sono le migliori: «Se uno proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutti i costumi esistenti, i migliori, ciascuno, dopo averci ben pensato, sceglierebbe i propri: a tal punto ciascuno ritiene di gran lunga migliori i propri. Perciò solo un pazzo può mettere in ridicolo queste cose. Che questo sia l’atteggiamento di tutti gli uomini per quanto riguarda i costumi – prosegue – lo si può congetturare da molti indizi: in particolare da questo che ora dirò. Dario al tempo del suo regno mandò a chiamare i Greci che erano alla sua corte e chiese loro a che prezzo avrebbero accettato di mangiare i loro avi defunti: e quelli risposero che non lo avrebbero fatto a nessun prezzo. Dopo di che Dario chiamò alcuni Indiani appartenenti alla

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

281

popolazione dei Callatii, che hanno l’abitudine di mangiare i genitori defunti, e chiese loro – alla presenza dei Greci, i quali, per mezzo di un interprete, capivano ciò che dicevano i Callatii – a quale prezzo avrebbero accettato di bruciare i loro genitori defunti; quelli si misero ad urlare ingiungendogli di non bestemmiare. Tale è la forza del nòmos – conclude Erodoto – in un ambito come questo, e a ragione – soggiunge –, secondo me, Pindaro disse che il nòmos è il sommo sovrano» (III, 38).

È significativo che Erodoto faccia qui ricorso, a suggello del suo rispettoso relativismo etnografico, al motto di Pindaro che era adoperato – secondo la testimonianza platonica (Gorgia, 484B) – dal sofista Callicle in ben altro senso: nel senso cioè del predominio della legge di natura rispetto alle varie singole usanze dei singoli popoli. Si può pensare che il ricorso al medesimo testo (in sé alquanto oscuro e di tradizione controversa) a sostegno di due tesi opposte rifletta per l’appunto quei serrati dibattiti attorno alla legge, alla natura, e quindi alla giustizia che la sofistica suscitò. All’influenza della sofistica si è fatto risalire anche il dibattito costituzionale, la discussione a tre sulla migliore forma di costituzione (democrazia, oligarchia, monarchia), che Erodoto mette in scena poco dopo, nello stesso III libro, quando descrive la crisi esplosa alla morte di Cambise ed il travaglio da cui emerse il nuovo sovrano, Dario. Si è addirittura pensato all’esistenza di un’opera di ambiente sofistico dalla quale Erodoto trarrebbe i concetti dialetticamente espressi nell’«agone» delle costituzioni; e si è fatto ripetutamente il nome di Protagora. Contro una tale impostazione aveva opportunamente obiettato Felix Jacoby che proprio l’insistenza di Erodoto sulla incredulità del pubblico nei confronti di quel suo racconto deve far pensare che Erodoto attinga ad una tradizione, probabilmente ad una tradizione persiana, e che, semmai, abbia dato forma di elegante dibattito perì politeíav a proposte ed istanze che furono effettivamente prospettate. Ciò che si sforza di mettere in luce, e che – lamenta – «non è stato creduto», è che alla fine della dinastia fondata da Ciro il Grande, nel disordine provocato dal tentativo di usurpazione del «falso Smerdi» sia emersa l’esigenza di tornare all’originario e ‘paritario’ ordinamento persiano: ordinamento egualitario vigente beninteso soltanto nell’ambito del popolo dominante (i Persiani), su cui tanta ammirazione riverserà Senofonte nel primo libro della Ciropedia e che, ‘tradotto’ in terminologia politica greca, poteva anche essere definito ‘uguaglianza’, o anche ‘democrazia’.

282

La storiografia tra ricerca e politica

Ancora una volta è dunque l’etnografo Erodoto, il conoscitore dei popoli e dei loro nòmoi che affiora in questo celebre dibattito tanto a lungo ritenuto meramente ‘sofistico’ (oltre che del tutto arbitrario e fantasioso). Anche in questo caso la conoscenza dei nòmoi consente ad Erodoto di capire ciò che gli altri non intendono o fraintendono. Giacché, mentre i sofisti – e Callicle in specie – oppongono una unica phy`sis alla pluralità dei nòmoi (convenzionali e perciò caduchi e comunque non degni di grande interesse o rispetto), per Erodoto, per l’etnografo Erodoto, sono proprio i nòmoi, i singoli nòmoi che ciascun ethnos ha così cari, che meritano, tutti, rispetto, e sono, tutti, ugualmente validi in quanto espressione, per ciascun popolo, della sua specifica tradizione e cultura. Ed è qui la radice di quel ‘tradizionalismo’ etico che è stato spesso inteso come il segno della arretratezza, della arcaicità, se non della ‘ingenuità’ di Erodoto (contrapposto, in ciò, alla machiavellica modernità di Tucidide). Erodoto ben conosce il sommovimento intellettuale che la riflessione sofistica ha prodotto: non ne è affatto ignaro ma non ne è abbagliato. Ha troppo profonda esperienza «degli uomini e della loro mente», come l’omerico Odisseo, per accedere al drastico illuminismo dei sofisti – un illuminismo spregiatore delle tradizioni che può avere, se giunge ad inverarsi nell’azione politica, le tragiche conseguenze del governo di Crizia, novello Cambise. La rottura dei nòmoi, delle tradizioni che costituiscono il cemento e il fondamento di una comunità è dunque per lui la vera hy`bris: è quella infrazione dell’ordine che in tutta la sua opera egli rimira con sofoclea e rassegnata partecipazione. È la radice di quella alterna vicenda, che Erodoto racchiude nella iniziale visione olimpicamente sconsolata «delle città un tempo grandi che ora sono piccole e di quelle che al tempo mio erano grandi ma prima erano piccole»: vicenda forse priva di senso, che Erodoto chiosa con la considerazione che «la felicità dell’uomo non resta mai nello stesso punto». È la considerazione che induce il suo immaginario Solone, nell’improbabile dialogo con Creso re di Lidia, a suggerire al suo interlocutore estasiato dalla propria ricchezza varie forme di sollecita morte come ipotesi di autentica felicità. A Solone – celebre per i molti viaggi compiuti «col fine di conoscere gran parte della terra» e che dunque finisce con l’essere Erodoto medesimo –, a questo ‘metastorico’ Solone, Creso, ossessionato dal problema della felicità, chiede quale sia l’uomo più felice da lui veduto. E Solone gli nomina un ignoto ateniese, Tello: perché Tello ha avuto figli bravi

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

283

e buoni ed ha visto nascere i figli dei suoi figli e tutti rimanere in vita [il che è segno di buona sorte in un’epoca dalla elevata mortalità infantile], e perché lui stesso è uscito di scena morendo per la sua città. Creso dapprima si rassegna, è disposto a figurare almeno come secondo nella lista del suo stravagante interlocutore, torna a chiedergli chi sia allora il più felice dopo Tello. «Cleobi e Bitone» gli risponde Solone, perché come ricompensa della pietà filiale li colse la morte nel sonno: «Felice del loro gesto e del loro buon cuore, la madre aveva pregato la dea di concedere loro ciò che per l’uomo è più bello ottenere. Dopo questa preghiera di lei, i due giovani, compiuti i sacrifici e il banchetto. si addormentarono nel santuario stesso né più si svegliarono». Creso si indigna: «ma insomma ospite ateniese, tu disprezzi tanto la mia ricchezza da pospormi addirittura a dei privati!». E Solone gli sviluppa un ragionamento quasi pedantesco intessuto di cifre: quanti giorni dura una vita, mediamente calcolata di settant’anni? tralasciando i mesi intercalari sono circa ventiseimiladuecentocinquanta giorni; «e nessun giorno porta all’uomo cose simili al giorno seguente; e dunque l’uomo non è che il suo destino (pân e¬sti a¢nqrwpov sumforä). Certo oggi tu, Creso, mi appari ricco: ma io non posso dire di te ciò che tu desideri io ti dica, finché non avrò saputo che hai concluso felicemente la tua vita» (I, 32). Riferita all’individuo, è la stessa visione dell’alterna, insondabile, vicenda delle città, con cui si concludeva il proemio, ed in cui si racchiude il bilancio di Erodoto-Odisseo: la sostanziale inconoscibilità della vicenda storica e dei suoi fattori. Giacché, se la vicenda del singolo ha un termine che consente, alla fine, un giudizio, la vicenda storica è per sua natura indefinita: e a nessuno sarà dato di valutarla e di capirla nel suo insieme «vedendone la conclusione». Ecco perché, inevitabilmente, Erodoto rinvia ad un fattore esterno: la divinità, che misteriosamente si esprime coi suoi tortuosi oracoli, una divinità che Erodoto non identifica col sistema degli dèi di Omero e di Esiodo ma che preferisce definire «divinità» senza una differenziazione personale. L’altra strada sarà quella tucididea: l’ansia di capire le leggi umane della vicenda umana, l’orgoglio di averle scoperte e di poter «prevedere» gli eventi. Sono le due strade che batteranno gli storici a venire: l’una dubbiosa sulla probabilità di afferrare davvero il «senso della storia», l’altra fiera di aver fatto sprigionare dall’interno stesso degli eventi una «filosofia della storia». Non è un caso che la prima discenda dall’amplissimo orizzonte

284

La storiografia tra ricerca e politica

dell’infaticabile viaggiatore di Alicarnasso; e la seconda scaturisca dall’analisi esasperatamente approfondita di un singolo ‘grande’ avvenimento che giganteggia nel ben più angusto orizzonte di un aristocratico ateniese. Il che fa sì che Erodoto abbia, tra l’altro, ai nostri occhi il merito enorme di rappresentare come effettivamente ragionassero, e con quali categorie, i sovrani, i sacerdoti, gli uomini e le donne che popolano la sua storia, che peso avessero gli oracoli, gli indovini, i pregiudizi, gli «errori» – direbbe il Leopardi – nell’esistenza di gente anche socialmente e intellettualmente elevata. Non ci dà cioè il quadro di una umanità superumanamente ‘tutta politica’ quale emerge – salvo temporanee parentesi di ‘follia’ – dal racconto tucidideo. 6. Da Erodoto a Tucidide In una descrizione della storiografia greca del V secolo la polarità Erodoto-Tucidide finisce sempre col riproporsi. Polarità in genere intesa come trapasso dalla fanciullezza alla maturità del pensiero e della prassi storiografica. Nulla di più errato. La differenza sostanziale, sul piano del metodo, consiste invece nella diversa concezione del rapporto con le fonti e nella diversa visione, ancora una volta, della possibilità di costruire infine il racconto vero. Erodoto riferisce versioni correnti o accreditate, nonché il frutto della sua esperienza diretta (l’occhio – dice – è superiore all’orecchio). La sua opera di registrazione di tradizioni e di notizie – che non rifugge neanche da quelle più stravaganti – ha messo in salvo una messe sterminata di materiale preziosissimo3. Fornisce all’indagine moderna un intero laboratorio di dati non disgiunti dalla distinzione tra ciò che si deve alla propria osservazione e ciò che si deve alle tradizioni del luogo (così ad esempio in II, 99 a proposito dell’Egitto). In un notissimo passo del VII libro precisa, dopo aver riferito dell’ambasceria di Argo a Serse e della affettuosa risposta di Serse alla vigilia dell’invasione: «non ho riferito altro se non quello che su se medesimi riferiscono gli Argivi» e soggiunge «Io ho il dovere di dire ciò che mi è stato detto, non di crederci (e questo vale per tutto il mio racconto)» (VII, 152). Il procedimento tucidideo sarà del tutto opposto. Alle spalle del suo racconto vi è un accurato raffronto tra contrastanti testimonianze: raffronto faticoso e delicato di cui Tucidide mena gran vanto nel

XVI. Erodoto: dalla «Periegesi» alla storia politica

285

proemio del suo I libro, quando ricorda la faziosità delle testimonianze propria dei testimoni oculari (I, 22). Ciò che, però, egli ci dà è ogni volta il risultato del suo giudizio: un’unica, e per lui definitivamente vera, versione dei fatti. Ci esclude dal suo laboratorio; che in virtù di un tale procedimento abbia ottenuto un grande prestigio come ‘scientifico’ rinnovatore del genere storiografico è ben noto. (Polibio seguirà il suo esempio: piuttosto che fornirci una aperta discussione su dati controversi preferirà dare una acrimoniosa discussione sui vizi e le poche virtù degli storici precedenti.) Ma anche questa innovazione tucididea è dovuta alla svolta che nella sua opera ad un certo punto si è prodotta. Quando ha preso a trattare la storia della guerra in corso, difficilmente avrebbe potuto dar conto, passo passo, delle versioni contrastanti degli innumerevoli, anche minuscoli, episodi via via raccontati. Quando però racconta la storia greca arcaica – e ciò accade in alcune parti, quelle più antiche del I libro – Tucidide ci appare alquanto al di sotto della destrezza del suo predecessore. Colpisce l’ingenuità con cui ha creduto che davvero Pausania, re di Sparta, nel momento del suo massimo potere, dopo la vittoria sulla Persia, pensasse di sposare la figlia del Gran Re e gli scrivesse quelle lettere di cui ci trascrive per intero l’inverosimile testo. Molto più prudentemente Erodoto segnalava che Pausania aveva cercato di avere in sposa la figlia di un dignitario persiano, e aggiungeva «se è vero quello che si dice» (V, 32). Note 1 Perciò si definisce Thourios nelle prime righe della sua storia, come sappiamo da una citazione aristotelica, Retorica 1409a29. 2 È citato da Plutarco nell’opuscolo Se la politica si addica agli anziani, 785B, che forse era un canto di beneaugurante accompagnamento (propemptico) per l’occasione. Sofocle, nato nel 496, aveva allora 55 anni (cfr. p. 171): dunque Erodoto è andato a Turii non subito, ma poco dopo la fondazione della colonia. 3 Ancora di recente ha trovato conferma la notizia da lui fornita dell’esistenza di miniere d’oro non soltanto sulla costa tracia ma anche nell’isola di Taso.

XVII TUCIDIDE E IPPOCRATE: DALLA «RICERCA» ALLA «PROGNOSI» 1. Cimone e le miniere del Pangeo Cimone aveva aperto ad Atene le fonti dell’oro: l’oro delle miniere del Pangeo, la preziosa montagna della Tracia costiera, quasi di fronte all’isola di Taso. Taso controllava da tempo assai remoto lo sfruttamento di quelle miniere. Entrata nella lega delio-attica, venne presto in contrasto con la città egemone, Atene, appunto per le miniere d’oro: «accadde che i Tasii defezionassero – narra Tucidide (I, 100) – venuti a contrasto per gli emporii sulla costa tracia e per le miniere che loro sfruttavano». E adopera una parola piuttosto ambigua (e¬némonto) che vuol dire «sfruttavano» ma che indica un possesso di fatto: non a caso all’inizio del suo racconto usa lo stesso termine per indicare l’occupazione temporanea e lo sfruttamento di un territorio fertile da parte dei nomadi (I, 2). Il conflitto tra Atene e Taso durò circa tre anni (466-464 a.C.), e rischiò di trasformarsi in un conflitto generale, perché Taso, pur di non cedere le sue preziose risorse, invocò – ed ottenne – la promessa di una invasione spartana nell’Attica. La guerra fu impedita dal tremendo terremoto del Peloponneso, che provocò la rivolta degli iloti e la logorante «terza» guerra messenica, in cui Sparta fu duramente impegnata per anni. Fu Cimone, il figlio di Milziade, a piegare la resistenza dei Tasii i quali, alla fine, dopo un estenuante assedio in cui avevano perfino usato le trecce delle loro donne per farne corda, «cedettero», come precisa Tucidide (I, 101), agli Ateniesi «sia la costa che le miniere». Queste miniere, che avevano abbagliato Erodoto, in momenti di sfruttamento molto intenso avevano prodotto addirittura una somma colossale: ottanta talenti d’o-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

287

ro, che i Tasii avevano versato come tributo a Serse. La più ricca miniera era quella di Skaptesyle1, di cui parla appunto Erodoto (VI, 46). Miniere aurifere erano anche nell’isola di Taso, secondo Erodoto; i moderni ne hanno a lungo dubitato, ma recenti scavi hanno confermato la notizia. Lo Stato ateniese affidò l’appalto dello sfruttamento delle miniere aurifere del Pangeo ad esponenti della famiglia di Cimone: Oloro, il padre di Tucidide, e Tucidide stesso. Oloro era un discendente dell’omonimo re la cui figlia, alla fine del VI secolo, aveva sposato Milziade, il vincitore di Maratona e padre di Cimone. Tucidide, discendente di Cimone, è erede della tradizionale influenza in Tracia della famiglia di Milziade. Quando parla di sé, piuttosto a lungo, nel quarto libro (cap. 105), dove racconta la propria vicenda di stratego in Tracia nel 424 a.C., è questo il primo dato che fornisce su se stesso: «Tucidide aveva in quella zona della Tracia l’appalto delle miniere d’oro, e perciò aveva influenza sui prìncipi della terraferma». (Secondo una tradizione attendibile aveva anche possedimenti in Tracia, nella zona appunto delle miniere.) Nello stesso contesto, Tucidide soggiunge che tutto ciò era ben noto anche agli Spartani e lo rendeva temibile: in virtù di tale influenza infatti egli era addirittura in grado di «raccogliere truppe ausiliarie dalla Tracia», di ottenere cioè la diretta collaborazione militare dei potentati locali non già in quanto generale ateniese, ma in quanto ‘principe tracio’ egli stesso come lo era stato a tutti gli effetti il suo avo Milziade al tempo in cui era vassallo di Dario (circa 513 a.C.). E dimostra perciò, con una certa ostentazione, per tutto il corso della sua opera, una straordinaria conoscenza del mondo tracio, dei suoi complicati intrecci dinastici e delle sue beghe2. E ben due volte, nel primo e nel quarto libro, racconta la tormentata vicenda della colonizzazione di Amfipoli (I, 100 e IV, 102): città di cui riferisce – in modo per noi poco chiaro – anche le modifiche intervenute nelle strutture murarie e nella struttura dell’agorà (IV, 103,5; V, 10,6 e V, 11,1). Del legame familiare di Tucidide con la dinastia di Milziade e Cimone la tradizione biografica antica considerava «massimo indizio» proprio il «possesso di beni in Tracia e le miniere di Skaptesyle». Così ad esempio argomentava Didimo, l’universale erudito di età augustea, citato da Marcellino (Vita di Tucidide, 14). Tale legame era ribadito nel modo più chiaro e solenne, dalla sepoltura «tra le tombe della famiglia di Cimone», come annotava, tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C.,

288

La storiografia tra ricerca e politica

l’erudito Polemone di Ilio (circa 220-160 a.C.) nel suo trattato Sull’acropoli. Polemone, il quale trascriveva il testo dell’epigrafe posta sulla tomba – «Tucidide figlio di Oloro, del demo di Alimunte» –, precisava anche che nessuno che non fosse della discendenza di Milziade poteva essere sepolto lì; e nello stesso contesto notava che Tucidide aveva un figlio di nome Timoteo, sepolto evidentemente anche lui nell’area delle «tombe cimoniane». Questa discendenza di Tucidide, che si riesce a seguire fino ad un Liside figlio di un Timoteo di Alimunte (PA 9571), attivo circa il 298/7 a.C., dev’essere uno dei tramiti – forse il più ovvio – attraverso cui alcune notizie sul grande storico, ivi compresa forse l’identificazione della tomba, sono giunte alla tradizione biografica antica. Tra Liside e Polemone c’è poco più di mezzo secolo. Tradizione biografica che – qualunque giudizio se ne voglia dare – è in realtà molto ricca, inconsuetamente ricca rispetto all’attenzione che viene in genere concessa ai prosatori dalla erudizione antica.

2. Vita e carriera pubblica: Tucidide stratego in Tracia Tucidide era nato ad Atene, nel demo di Alimunte: un demo la cui unica rilevante famiglia a noi nota è, per quest’epoca, la famiglia di Tucidide. Ciò ha fatto pensare che essa potesse avere un particolare rapporto con l’arcaico culto di Demetra Thesmophoros, che aveva sede appunto nel demo di Alimunte. Sulla data di nascita vi erano tradizioni contrastanti. Apollodoro di Atene3, che era di qualche decennio più giovane di Polemone, poneva l’akmè di Tucidide – i suoi quarant’anni – nell’anno dello scoppio della guerra peloponnesiaca (431 a.C.). In tal modo l’anno di nascita di Tucidide dovrebbe essere il 471 a.C. Ma proprio il fatto che si sia voluto porre l’akmè dello storico (spesso recuperata congetturalmente dai dotti antichi) nell’anno d’inizio della vicenda da lui narrata mette in sospetto: tanto più che un’altra tradizione erudita – riferita da Marcellino (Vita di Tucidide, 34) e forse risalente a Didimo – dava Tucidide per «più che cinquantenne» nell’anno della morte, che quella medesima tradizione poneva all’incirca nel 403 a.C. In tal caso Tucidide sarebbe nato non molto prima del 454 a.C. Per una tale data propendono anche i moderni, i quali osservano che nel 424/3 Tucidide fu stratego, e che per accedere a tale carica in Atene bisognava avere per lo meno trent’anni. Anzi uno stratego appena trentenne – avverte lo stesso Tucidide quando presenta Alcibiade la prima volta che lo nomina (V, 43) –

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

289

era sentito come troppo giovane: il che dovrebbe indurre comunque ad arretrare alquanto rispetto alla data del 454. Al collegio dei dieci strateghi si accedeva attraverso elezioni. Era quella infatti, insieme con l’ipparchia (il comando della cavalleria), l’unica carica elettiva nella democrazia ateniese, per il resto fondata sulla procedura ultraegualitaria del sorteggio. Era perciò la composizione del collegio degli strateghi lo specchio fedele, anno per anno, degli equilibri politici: ed ogni gruppo o fazione portava al successo i propri uomini. L’elezione, perciò, di Tucidide alla massima carica militare per l’anno 424 ce lo fa apparire come un personaggio politicamente rilevante ed impegnato seriamente nella lotta politica della sua città. Il fatto poi che si sia fatto destinare, come sua specifica zona di operazioni, insieme al collega Eukles, in Tracia, dove erano i suoi tradizionali interessi minerari ed i suoi forti legami coi potentati locali, fa capire che i legami dei singoli uomini politici con le varie aree dell’impero erano un fattore che aveva un certo peso nelle scelte strategiche di Atene. Quando Tucidide ed Eukles giunsero in Tracia presero posizione rispettivamente ad Amfipoli (Eukles) e a Taso (Tucidide): ciò corrispondeva, evidentemente, a precise disposizioni concordate alla partenza nel supremo collegio, se Tucidide precisa che Eukles era giunto «da Atene con la specifica incombenza di curare la difesa di Amfipoli» (IV, 104,4). Era l’anno della spettacolare e fortunata campagna di Brasida in Tracia4. Brasida riuscì in ciò che a nessun comandante spartano era fino ad allora riuscito: condurre una lunga spedizione per terra operando parecchio lontano dalle basi di partenza (IV, 78,4), un’impresa che ancora nei primi anni della guerra era ritenuta impossibile per una potenza terrestre. Brasida seppe in realtà mescolare abilmente arte militare e arte politica, e puntò soprattutto a provocare defezioni degli alleati di Atene. Anche ad Amfipoli seppe giocare su entrambi i terreni: piombò sulla città dopo un’audace marcia notturna, ma evitò l’assalto frontale preferendo trattare con le forze interne alla città più sensibili ad una trattativa ed inclini a sganciarsi da Atene. Presto cominciò a farsi il vuoto intorno a Eukles, all’insufficiente suo contingente, ai non molti Ateniesi che vivevano ad Amfipoli. Tucidide – che poté attingere poi alla testimonianza degli Ateniesi allontanatisi dalla città al momento della resa – ha ricostruito con cura le fasi che portarono alla defezione di Amfipoli. Inizialmente l’elemento filo-ateniese prevalse e impose che si inviasse a Tucidide, che era a Taso, una urgente ri-

290

La storiografia tra ricerca e politica

chiesta di aiuti immediati. Brasida aveva all’interno della città i suoi informatori; ritenendo che l’intervento di Tucidide – personaggio influente in tutta la zona – potesse capovolgere la situazione, offrì condizioni di resa particolarmente favorevoli (l’impunità e la salvezza dei propri beni per chiunque intendesse abbandonare la città). Così la fazione a lui favorevole poté imporre, nelle ore in cui Tucidide stava sopraggiungendo con sette triremi, la capitolazione. Tucidide fece appena in tempo a salvare il porto di Amfipoli, Eione, alla foce dello Strimone (IV, 106-107), la città che a suo tempo Cimone aveva conquistato aprendo ad Atene le porte dell’aurifero Pangeo. Subito dopo capitolarono Myrkinos, Galepso, Esime in Calcidica e in Tracia. Ad Atene l’impressione per la perdita di Amfipoli fu grande (IV, 108, 1). 3. La tradizione biografica antica. Tucidide in Atene Tucidide proseguì la sua attività di stratego «in Tracia» nei mesi successivi (il comando scadeva nel giugno-luglio del 423). Il suo racconto degli ulteriori sviluppi militari nella zona è quanto mai minuzioso, anche per il periodo povero di fatti d’arme della «tregua annuale» (423/2) stipulata, per parte ateniese, da alcuni strateghi dello stesso collegio, tra cui Nicia. Che Tucidide abbia continuato a seguire le vicende della guerra stando in Atene o comunque nel campo ateniese sembra chiaro non soltanto dalla natura del suo racconto della partenza dell’armata ateniese alla volta della Sicilia, nel 415 a.C., o dall’affresco penetrante della psicologia di massa in Atene di fronte al colpo di Stato oligarchico del 411 a.C., ma anche da una esplicita testimonianza di Aristotele (Fr. 137 Rose), secondo cui Tucidide assistette, in Atene, al processo contro Antifonte, celebratosi pochi mesi dopo la caduta dell’oligarchia del 411. Questa testimonianza, nonché la natura stessa del racconto tucidideo relativo alla politica interna di Atene, contrastano con una tradizione diffusa e consolidata già nel III secolo a.C., secondo cui, dopo l’anno in cui fu stratego ed in ragione dell’insuccesso della difesa di Amfipoli, Tucidide sarebbe stato esiliato o si sarebbe sottratto auto-esiliandosi ad una sicura condanna. L’esilio sarebbe durato circa 20 anni e sarebbe finito con il richiamo degli esuli dopo la pace del 404 o con l’amnistia generale del 403. Tale tradizione deriva da una notizia autobiografica che si trova in un capitolo di

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

291

discussa autenticità e di controversa interpretazione (V, 26), il cosiddetto «secondo proemio», definito a suo tempo da Eduard Schwartz – uno dei maggiori studiosi dell’opera tucididea – una «compilazione» dell’editore postumo di Tucidide. L’autore di questo capitolo parla di un esilio di vent’anni (nel caso di Tucidide gli anni dell’esilio dovrebbero essere a rigore diciannove), trascorsi nel Peloponneso, o meglio «presso i Peloponnesiaci». In realtà, stranamente, la tradizione biografica antica, da quando – dopo Aristotele – comincia a parlare di un periodo di esilio di Tucidide, lo colloca nei siti più vari, mai però nel Peloponneso. Lo storico Timeo (356-260 a.C.) lo collocava in Italia ed anzi sosteneva che in Italia Tucidide fosse anche morto ed avesse avuto sepoltura. Circa mezzo secolo più tardi – come si è detto al principio di questo capitolo – l’antiquario Polemone di Ilio sostenne di aver trovato in Atene, presso le «tombe cimoniane», la sepoltura di Tucidide. Così cadeva ovviamente la teoria di Timeo. Da quel momento i dotti antichi dileggiano lo storico siciliano per questa invenzione «risibile», come la definisce Marcellino, e ‘spostano’ l’esilio di Tucidide in Tracia; ma si dividono in vari gruppi: quelli che immaginano che dalla Tracia, e precisamente dai suoi possedimenti di Skaptesyle, ad un certo punto Tucidide sia rientrato in Atene (magari per trovarvi la morte per mano omicida: così Didimo); quelli che immaginano che in Tracia morisse (sempre di morte violenta: così Plutarco) e che le sue ossa fossero poi trasportate ad Atene; quelli infine che non solo lo lasciavano morire in Tracia ma pensavano che la tomba scoperta da Polemone fosse in realtà un cenotafio (del che indicavano anche un contrassegno esterno: argomento certo non trascurabile). Insomma l’intera tradizione biografica formatasi dopo Aristotele e arricchitasi dopo la scoperta di Polemone prescindeva da ciò che si ricaverebbe dal «secondo proemio» (V, 26) ove lo si considerasse autobiografia tucididea. E, pur così discorde, era concorde su un dato: che per lungo tempo Tucidide era vissuto – e forse sino alla morte – a Skaptesyle in Tracia. Un dato, questo, in sé del tutto credibile, e che potrebbe derivare dagli eredi stessi di Tucidide. Un dato che, comunque, toglierebbe valore alla tesi secondo cui Tucidide sarebbe vissuto dopo il 422 in condizioni di esiliato, dal momento che Skaptesyle risulta – ancora nel 411/409 – sotto l’autorità ateniese ed i lingotti d’oro delle miniere della zona, di cui Tucidide aveva l’appalto, affluiscono regolarmente, in quegli anni, nel-

292

La storiografia tra ricerca e politica

l’ambito delle «entrate annuali», nelle casse dello Stato ateniese (IG I2 301). Un esiliato non avrebbe potuto viverci, esposto continuamente al pericolo di essere impunemente ucciso. 4. Le «inedite carte tucididee» È insistente, nella tradizione, l’accenno ad una morte violenta di Tucidide. È anche lo stato di conservazione dell’opera di Tucidide che fa pensare ad una improvvisa scomparsa dell’autore. Ma, appunto, in che condizione era l’opera quando l’autore scomparve? Parti non rifinite, o addirittura solo abbozzate si alternavano a parti compiute e del tutto elaborate. In genere la compiutezza della stesura era contrassegnata in modo formale dalla presenza del nome dell’autore al termine di ciascun anno di guerra. Accade però che tale contrassegno manchi in blocco per gli anni tra la pace di Nicia (421) e la ripresa delle ostilità in Sicilia (415), il periodo della «pace incerta» tra la prima e la seconda fase del conflitto: una parte che infatti presenta frequenti tracce di imperfezione (dati incoerenti, ripetizioni, contraddizioni ecc.) e dunque è da ritenersi tra le meno compiute. Comunque c’era per lo meno una stesura, un racconto, che giungeva fino alla conclusione del conflitto. Ne dà notizia, subito in principio, il cosiddetto «secondo proemio» che si apre con una vera e propria notizia bibliografica, di mano redazionale: «Anche queste cose ha scritto il medesimo Tucidide Ateniese giungendo fino al momento in cui gli Spartani abbatterono l’impero di Atene e presero le grandi mura ed il Pireo» (V, 26,1). Ed è ovvio che Tucidide avesse redatto per lo meno una prima stesura dell’intero racconto: aveva infatti incominciato a scrivere – come informa al principio dell’opera – sin dai primordi del conflitto, anzi addirittura dalle prime avvisaglie di attrito diplomatico-militare che preludevano alla guerra; e non aveva mai smesso di raccogliere materiali per il suo racconto avendo presto capito che anche la pace di Nicia era solo una pausa provvisoria. La parte di racconto successiva al 411, fino alla sconfitta del 404, in realtà esiste, e si trova al principio delle Elleniche di Senofonte (I-II, 3,10). Essa incomincia ex abrupto ed in modo del tutto oscuro per chi tenti di leggerla come opera a sé; inoltre presenta brani complessi, ampi, e ben rifiniti, forniti di efficaci discorsi diretti (come ad esempio il resoconto del-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

293

l’allucinante processo contro gli strateghi vincitori alle Arginuse) e brani molto più sommariamente redatti (come ad esempio quello sulla conclusione del conflitto). Era anch’essa solo parzialmente compiuta. Senofonte aveva avuto la ventura, per circostanze che ignoriamo, di entrare in possesso delle «inedite carte tucididee» e le aveva pubblicate «pur potendosene appropriare», dice una fonte erudita (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 57). È perciò probabilmente proprio lui che nel «secondo proemio» parla di Tucidide e di se stesso, e del proprio – ben noto – esilio «presso i Peloponnesiaci». Senofonte ha poi costruito le sue Elleniche, con successivi blocchi ai quali si è aggregata, o è stata aggregata, anche la parte finale dell’opera tucididea: forse perché recava come titolo Paralipomeni di Senofonte a Tucidide (Xenoføntov Qoukudídou Paraleipómena), un titolo che in una parte della tradizione è sopravvissuto come titolo delle Elleniche nel loro insieme. Ciò ha fatto sì che, da un certo momento in poi, le edizioni tucididee abbiano circolato ormai prive della parte finale: è la condizione in cui le conosce già la tradizione antica5, ed è la condizione in cui la tradizione manoscritta giunta a noi presenta l’opera di Tucidide. 5. Struttura Dopo che avvenne il distacco dei Paralipomeni, confluiti nell’opera di Senofonte, circolarono come libri tucididei gli attuali otto. È una suddivisione tardiva, che non ha però offuscato del tutto quella originaria, nella quale ad ogni anno di guerra corrispondeva un libro recante al termine il nome dell’autore. Gli attuali libri II, III e IV contengono infatti ciascuno il racconto di tre anni di guerra: il che vuol dire che, ad un certo momento – quando con la grande Biblioteca Alessandrina il rotolo librario divenne di più grande formato –, furono uniti tre vecchi libri per costituire un solo più grande rotolo. Le cose cambiano alquanto nella seconda parte dell’opera. Qui i libri VI e VII dell’attuale suddivisione comprendono esattamente l’intero racconto della guerra di Atene contro Siracusa – la cosiddetta «campagna siciliana» (415-413 a.C.) –, a prescindere dalla ripartizione in anni di guerra (il XVI anno di guerra, ad esempio, è suddiviso tra la fine del V e l’inizio del VI libro). È dunque evidente che nella suddivisione e nel raggruppamento della ma-

294

La storiografia tra ricerca e politica

teria della seconda parte si è tenuto conto di un elemento contenutistico rilevante: la presenza appunto di una amplissima, circostanziata e quasi ininterrotta narrazione (solo qua e là il racconto si sposta su altri teatri di guerra) tutta dedicata alla campagna di Atene in Sicilia. Essa copre appunto i libri VI e VII: di conseguenza tutto il resto – prima o dopo questi due libri – è servito a formare, rispettivamente, i libri V e VIII, la cui unità contenutistica è ovviamente assai meno evidente. Nonostante l’evidente presenza di una «monografia» così facilmente identificabile all’interno del racconto – quella sulla campagna siciliana – l’unità e uniformità dell’intero racconto è garantita da un tratto costante e significativo: la numerazione progressiva degli anni di guerra, numerati appunto progressivamente fino al XXI (dove finisce il libro VIII) a significare che si tratta appunto di un’unica guerra iniziatasi nella primavera del 431 con l’invasione spartana dell’Attica e conclusasi, oltre un quarto di secolo più tardi, con la resa di Atene allo spartano Lisandro. Orbene una tale idea del conflitto è peculiare di Tucidide. Essa diverge dall’idea corrente nelle fonti antiche (oratori, Platone), secondo cui la guerra «decennale» (431-421, conclusasi con la «pace di Nicia»), la guerra contro Siracusa (415-413, conclusasi con la dura sconfitta di Atene), la «guerra deceleica» (413-404, conclusasi con la resa di Atene), furono in realtà tre distinte guerre, l’ultima delle quali appunto definitivamente rovinosa. È chiaro d’altra parte che la visione tucididea ‘unitaria’ – divenuta usuale tra gli studiosi moderni – non poteva essere chiara a Tucidide dal primo momento, cioè già nei primi anni della pace di Nicia (421-415) allorché non era certo ovvio ritenere effimera quella solenne stipulazione di pace valida addirittura per un cinquantennio. Nasce così la «questione», che ha affaticato gli studiosi. Quando Tucidide – dopo aver concluso il racconto della guerra ‘decennale’ – si rimise all’opera e proseguì il racconto del conflitto includendovi addirittura anche il racconto di un periodo di ‘pace’, quello appunto che precedette l’attacco in grande stile di Atene contro Siracusa? È la questione riguardante la struttura dell’opera e le fasi della sua composizione. La risposta prevalente tende a considerare la conquista, da parte di Tucidide, della nozione unitaria dell’intero conflitto come effetto della campagna siciliana: solo quando ha visto riaprirsi il conflitto a seguito dell’intervento di Atene, e poi di Sparta, a Siracusa, e poi in Attica con l’occupa-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

295

zione spartana di Decelea, Tucidide ha compreso che la pace di Nicia era stata soltanto un temporaneo compromesso che nulla risolveva della vera questione sul tappeto, a risolvere la quale peraltro la grande guerra era stata scatenata: la questione dell’egemonia. Da questa premessa scaturisce che intuizione dell’unità dell’intero conflitto e individuazione della vera e più profonda causa del conflitto – l’impossibile coesistenza di due grandi potenze, Atene e Sparta, entrambe ugualmente egemoniche – vanno di pari passo. Proprio perché capisce che la ‘vera causa’ è assai più profonda delle dispute su particolari controversie e coinvolge la sopravvivenza stessa di una delle due grandi potenze ormai in rotta di collisione, e dalla stessa dinamica imperiale portate ad un radicale e risolutivo conflitto che ‘semplifichi’ lo scenario internazionale: proprio perché capisce tutto questo – e lo capisce perché vede farsi sempre più precario l’equilibrio stabilito dalla pace del 421 e sempre più gagliarde le forze intenzionate in entrambi i campi a liquidare quella pace – Tucidide intuisce che il conflitto è in realtà un unico conflitto solo temporaneamente sospeso con la pace di Nicia. Naturalmente è difficile stabilire in modo preciso se già l’aggravarsi della tensione all’indomani della pace o solo la rischiosa avventura di Atene in Sicilia abbiano spinto Tucidide a questa svolta. È difficile stabilire in modo preciso quando Tucidide si sia rimesso a scrivere: non vi sarebbe nulla di strano nel pensare che ciò sia avvenuto già piuttosto presto. Piuttosto è da rilevarsi che le principali conseguenze della svolta del pensiero tucidideo (la scoperta dell’unità del conflitto) si sono prodotte nella struttura composita del I libro. È qui che si osserva in modo chiaro il subentrare di una visione che accentua l’importanza della «causa verissima» (I, 23) rispetto alle dispute spesso pretestuose che avevano costituito la causa ‘occasionale’, se non il pretesto, del conflitto: dispute e pretesti cui inizialmente Tucidide aveva riservato un peso e uno spazio narrativo notevolissimi. La scoperta della «causa vera» – consistente nell’allarme spartano per l’affermarsi di un sempre più aggressivo imperialismo ateniese – ha come conseguenza l’immissione nel corpo del I libro (originariamente tutto dedicato ai «pretesti»: il conflitto corinzio-corcirese e la defezione filospartana di Potidea) di una densa e rapida rievocazione delle tappe che avevano segnato la crescita dell’impero di Atene dopo la vittoria sulla Persia: è la cosiddetta «Pentecontetia» o «Storia del cinquantennio» (478-431) che figura nel bel mezzo del I libro

296

La storiografia tra ricerca e politica

(I, 89-118) e ne spezza l’unità. Essa è posta tra la vicenda di Corcira e quella di Potidea, e mira ad inverare, narrando vicende che nessun altro storico aveva raccontato (I, 97), la nuova tesi generale secondo cui appunto la crescita di Atene – insopportabile per Sparta – aveva, alla fine, reso inevitabile la guerra. 6. La «questione tucididea» La disputa intorno alle fasi di successiva elaborazione dell’opera tucididea si suole far nascere con il saggio di Franz Wolfgang Ullrich, Beiträge zur Erklärung des Thukydides, Hamburg 1845 e 1846. Per Ullrich, il quale valorizzava giustamente la iniziale dichiarazione tucididea di aver cominciato a scrivere prestissimo (I, 1: «subito ai primi sintomi del conflitto»), doveva essere disturbante il quesito: dove erano andati a finire i materiali che certamente Tucidide aveva continuato a raccogliere giorno per giorno negli anni 411404? Eduard Schwartz nel 1906 (Charakterköpfe aus der antiken Literatur) definiva «un indovinello» il fatto che il racconto tucidideo si interrompesse bruscamente nel bel mezzo del 411. Un benemerito studioso delle Elleniche senofontee, Ludwig Breitenbach, aveva formulato, nel commento alle Elleniche pubblicato a Gotha nel 1853, l’ipotesi più sensata: che cioè Senofonte avesse trovato «in scriniis Thucydidis» il materiale e le stesure, piuttosto grezze, che Tucidide aveva messo insieme per gli anni finali della guerra (411404 a.C.). Ma questa era una isolata intuizione. In genere il presupposto era che Tucidide, pur avendo incominciato a scrivere molto presto, non avesse lasciato nulla per gli anni 411-404. Ciò imponeva ai teorici della «questione tucididea» di scaglionare in un arco di tempo amplissimo, quasi trent’anni, la stesura di un’opera incominciata bensì molto presto e tuttavia lontanissima, alla morte dell’autore, dalla conclusione. Troppi anni insomma erano disponibili per la composizione di un’opera troppo incompleta. Di qui l’idea di una lunga stasi compositiva all’interno di quel trentennio di attività storiografica. Un’altra premessa, discutibile, era la distinzione tra libri «perfetti» (il VI e il VII soprattutto, dei quali si era addirittura immaginata la concezione, da parte di Tucidide, come monografia autonoma: di ciò fece giustizia Schwartz) e libri «imperfetti» (il V e l’VIII) e perciò composti dopo. Distinzione fondata invero su di un

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

297

equivoco, dal momento che Tucidide venne componendo – e lo ribadisce continuamente in modo quasi ossessivo nelle formule che pone al termine di ogni anno – per anni di guerra, non per «libri». Gli attuali libri sono il frutto di una suddivisione alessandrina, ritoccata in epoca successiva, e coesistente con un’altra tardiva suddivisione – anch’essa di origine erudita – in tredici libri, meno influente della divisione in otto, ma abbastanza scrupolosamente rispecchiata dagli scolî superstiti. Così all’interno dei cosiddetti libri «imperfetti» (V e VIII) ci sono – accanto a parti in forma del tutto provvisoria – parti compiutamente elaborate: come la campagna di Mantinea (418/7 a.C.) nel XIV anno (= V, 57-81) o il racconto del colpo di Stato oligarchico nell’estate del XXI anno (= VIII, 61-91) ovvero, nei Paralipomeni, il racconto delle Arginuse e del processo degli strateghi nel XXVI anno (= Elleniche, I, 6 e 7). Ma analoga alternanza di parti elaborate e parti ancora da elaborare si osserva anche fuori dei libri V e VIII. Per esempio nel I, dove il conflitto commerciale con Megara, pur così rilevante tra le contese che precedettero lo scoppio delle ostilità, è appena citato; o nel IV, dove figurano in immediata successione (IV, 118-119), quasi costituiscano un unico testo, tre documenti (una bozza di accordo, un decreto attico, una lista di firme spartane e ateniesi) riguardanti la «tregua annuale», ma tra loro indipendenti e inconcepibili nella loro attuale collocazione. Salutare disordine che aiuta a comprendere la provvisorietà del racconto del IX anno di guerra (= IV, 117-135). L’impianto dell’opera è, come si è detto, per anni e per stagioni, non per «libri»: la comprensione di ciò toglie valore ad uno dei criteri più cari ai cultori della «questione tucididea»: l’assenza cioè di discorsi diretti dei protagonisti come sintomo di incompiutezza narrativa. Criterio che, infatti, se applicato agli «anni» e non ai «libri» cessa dall’essere significante. Così, ad esempio, anche nel XVIII anno (= VI, 94-VII, 18), nel cuore cioè dei perfettissimi anni «siciliani» i discorsi diretti mancano del tutto: e nessuno ha mai pensato che quella parte del racconto fosse ‘imperfetta’. C’è, semmai, un rarefarsi del ricorso, da parte di Tucidide, a quello strumento, così presente nei primi libri. Basti pensare che nel lunghissimo XIX anno (= VII, 19-VIII, 6), in cui culmina e si conclude la campagna siciliana, vi sono unicamente le allocuzioni di Nicia e Gilippo alle rispettive truppe prima della battaglia decisiva nel porto grande di Siracusa.

298

La storiografia tra ricerca e politica

L’immagine che ci si può fare della composizione tucididea è dunque molto meno meccanica e molto più sfumata. Si è trattato di una composizione assidua, incominciata molto presto e mai del tutto dismessa, se non forse per qualche tempo dopo la pace di Nicia. Se c’è un merito di cui Tucidide è ben fiero, questo è proprio l’intuizione dell’unità del conflitto, maturatasi in lui di pari passo con l’accentuarsi di una valutazione sempre più pessimistica della tenuta della pace e con il consolidarsi in lui della persuasione che la guerra sarebbe durata fino al tracollo di una delle due grandi potenze. L’assidua elaborazione di questa «opera di tutta la vita» è stata accompagnata da un altrettanto assiduo ritorno indietro, foriero di aggiunte, ritocchi, aggiornamenti disseminati per l’intera opera: li si potrebbe definire dei perfetti ‘falsi indizi’, croce e delizia per i critici analitici desiderosi di facili certezze. 7. Tucidide ‘erodoteo’ La Pentecontetia non è l’unica digressione che interrompe il racconto assai poco lineare del I libro. È però di certo la più estranea al corpo del racconto, tanto da indurre un critico antico non benevolo nei confronti di Tucidide, Dionigi di Alicarnasso, a prospettare un vero e proprio riordinamento della materia contenuta nel I libro (Su Tucidide, 10-11; Lettera a Pompeo Gemino, 8). Altre, e ancora meno essenziali, digressioni si addensano verso la fine del libro, rendendolo ancora più sproporzionato nei confronti del racconto della guerra (rispetto al quale esso dovrebbe avere, nel suo insieme, funzione di proemio). Quando infatti le ostilità sembrano ormai imminenti, il filo del racconto si arresta nuovamente in una ampia digressione illustrativa delle provocatorie richieste che le due potenze si scambiano al fine di formalizzare la rottura: gli Spartani chiedono ad Atene di scacciare gli eredi (cioè Pericle!) di coloro (gli Alcmeonidi) che oltre un secolo prima avevano massacrato Cilone e i suoi; e gli Ateniesi replicano con la non meno provocatoria e generica richiesta di espiare l’uccisione del re Pausania avvenuta per mano degli efori mezzo secolo prima (I, 128-134). Dopo di che accade che il racconto della morte violenta di Pausania susciti il racconto della morte in esilio di Temistocle (I, 135-138): un episodio che non ha nulla a che vedere con le trattative della vigilia del conflitto e che chiaramente appartiene ad un altro contesto (I, 135,2). Solo a questo

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

299

punto il racconto giunge alle soglie della guerra, che infatti viene raccontata a partire dal principio del II libro. Tutta questa elefantiasi di digressioni è stilisticamente «erodotea»: in Erodoto infatti è abituale l’immissione di excursus che prendono le mosse da meri pretesti forniti via via dal racconto. Ma è erodotea anche in un senso più profondo: in quanto proprio queste parti digressive che ingombrano il finale del I libro (Cilone, Pausania, Temistocle) sono con tutta probabilità brani di un’altra opera storica alla quale Tucidide attendeva quando la guerra – la «grandissima» guerra di cui si vanta di aver sùbito ai primi sintomi capito l’importanza – lo distolse dalla prosecuzione di tale iniziale progetto e focalizzò la sua riflessione appunto sul conflitto. Un’opera che non possiamo immaginarci se non come una «storia greca» di tipo erodoteo, mirante con ogni probabilità a proseguire il racconto erodoteo che si interrompe coi fatti dell’anno 478. Prova ne è il fatto che, sia pure in forma molto compendiaria, Tucidide mostra, con la schematica Pentecontetia, di aver svolto ricerche miranti a ricostruire quel periodo (478-431): un periodo che – lamenta – «nessuno storico ha finora raccontato» ed è perciò come un «sito abbandonato» (I, 97,2). Poi ci fu la folgorazione della guerra, e Tucidide lasciò andare le indagini erudito-antiquarie con cui veniva puntigliosamente qua e là rettificando ‘errori’ e sviste del suo grande predecessore, e il lavoro storiografico divenne per lui, in modo prepotente e totalizzante, la storia del presente: unica storia che è davvero possibile raccontare, come teorizza audacemente al principio del proemio. 8. L’«archeologia» Di questo travaglio dà conto la non breve premessa al I libro che si suol definire «archeologia» ovvero «storia arcaica» (I, 1-23). Qui presupposto è, appunto, l’impossibilità di «trovare» (heurèin) – il che nel linguaggio storiografico coniato da Tucidide significa valutare dal punto di vista della grandezza e quindi comprendere – la storia passata. Essa può essere in qualche modo attinta attraverso indizi (tekmèria). E di una tale storia ‘indiziaria’ del passato Tucidide offre immediatamente un saggio, in quei primi venti capitoli del I libro, dove ripercorre l’intero arco della storia greca, dal primo apparire di popolazioni nomadi fino alla vigilia del conflitto, incen-

300

La storiografia tra ricerca e politica

trando il racconto (che non può neanche propriamente definirsi racconto) sulla crescita delle forze materiali: ricchezza, flotte, popolazione e quindi entità degli eserciti e distruttività delle battaglie. La conclusione, via via sempre più chiara, è la minore «grandezza» di tutta la storia passata – comprese le mitizzate guerre persiane risoltesi in appena due battaglie navali e due terrestri – rispetto alla attuale guerra, «grandissima» appunto perché sopraggiunta nel momento in cui le grandi potenze in lotta erano al vertice delle loro forze economiche e militari. La storia è dunque essenzialmente storia delle guerre, delle guerre in quanto «rivelatori» del livello raggiunto dalle forze materiali: la guerra «misura di tutte le cose», si potrebbe dire adattando alla realtà storica considerata da Tucidide la formula protagorea. Un abisso separa questo schizzo essenziale e orientato dalle accurate e talora alquanto ingenue pagine sulla rovina dello spartano Pausania accecato dal successo e sulla sconfitta di Cilone insipiente nell’identificare la festa di Zeus in occasione della quale l’oracolo gli consigliava di tentare il colpo di Stato. È, l’«archeologia», l’inveramento storiografico della decisione tucididea di abbandonare la tradizionalissima storia greca ‘erodotea’ e di concentrarsi sul grande evento del presente, e, magari, a partire da esso cogliere le leggi della politica e più in generale del divenire storico. A metà strada tra storiografia e teoria della storia, l’«archeologia» tucididea racchiude in sé alcune tra le più importanti acquisizioni concettuali e di metodo. Innanzi tutto vi è la chiara nozione del rapporto tra eventi storici e coscienza del loro significato: «Chi presti fede alla mia ricostruzione – scrive alla fine dell’‘archeologia’ (I, 21) – potrà ritenere che questi eventi siano stati adeguatamente trovati in base agli indizi più evidenti: nei limiti, s’intende, in cui ciò è possibile per fatti così remoti. So bene – soggiunge – che gli uomini, finché ci sono dentro, stimano ogni volta grandissima la guerra che stanno combattendo, ma poi, quando è finita, mitizzano la grandezza del passato. E nondimeno, questa guerra, per chi assuma come criterio di valutazione appunto le imprese compiute, apparirà più grande di quelle passate».

Vi è qui già una riflessione matura sul rapporto tra «io narrante» e fatti storici, sulla ‘distanza’ tra io narrante e fatti storici, sulle rela-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

301

tive conseguenze, nonché – più in generale – sulle categorie del «pensare la storia», che non trova riscontro nella successiva riflessione storiografica. È come un punto avanzato, un punto d’arrivo, del pensiero antico, rimasto senza sviluppo fino ad epoche assai recenti. Vi è perciò anche nella «archeologia» una notevole libertà rispetto a un ‘genere’ – quello storiografico – non ancora propriamente consolidato: non a caso Tucidide ostenta di considerare propri ‘predecessori’ indifferentemente sia Omero che Erodoto, e forse addirittura più il primo che il secondo. Fonda la critica storica del corpus omerico, considerato da lui appunto come una fonte sull’età arcaica al pari di altre fonti documentarie o monumentali. E studia i dati del Catalogo delle navi contenuto nel II libro dell’Iliade al pari delle epigrafi sulla famiglia di Pisistrato: «Per tornare quindi alla spedizione contro Troia – scrive –, rivolgiamoci piuttosto alla testimonianza omerica: se vi si deve prestar fede anche in questo caso, effettivamente tale spedizione fu la più grande rispetto a tutte le precedenti, meno grande, ovviamente, rispetto a quelle attuali: s’intende che, in quanto testimonianza poetica, quella omerica tende ad enfatizzare la grandezza, e nondimeno, proprio alla luce di tale testimonianza, quella spedizione appare ridimensionata. Omero dice infatti che l’intero corpo di spedizione era di 1200 navi, che le navi dei Beoti avevano 120 uomini, quelle di Filottete 50, intendendo, credo, indicare le navi più grandi e le più piccole: per lo meno non dà altre misure nel Catalogo delle navi».

Questi tre dati numerici gli bastano per imbastire un ragionamento indiziario che ha molta plausibilità: «Che tutti fossero – così prosegue – al tempo stesso rematori e combattenti lo dimostra il modo in cui si esprime a proposito delle navi di Filottete, giacché definisce ‘arcieri’ tutti i rematori. D’altra parte non è probabile che si fossero imbarcati molti altri oltre i sovrani ed i maggiorenti, soprattutto se si considera che si erano accinti alla traversata con tutta l’attrezzatura militare e che le navi di cui disponevano non erano ‘catafratte’, ma, piuttosto, costruite arcaicamente alla maniera dei pirati. Se dunque si fa una media tra le navi più grandi e quelle più piccole, si evince che ad imbarcarsi non furono poi tanti, specie se si considera che provenivano da tutta quanta la Grecia» (I, 10).

302

La storiografia tra ricerca e politica

Anche il dato archeologico, al pari di quello letterario, va, per Tucidide, ‘relativizzato’, rapportato alle categorie del soggetto che analizza, e non è dunque parlante di per sé. Al punto che il dato archeologico può addirittura avere torto a fronte della pur discutibile fonte poetica. Celebre l’analisi delle rovine di Micene: «Dubitare che quella spedizione [è sempre la spedizione dei Greci contro Troia] fosse della grandezza di cui narrano i poeti adducendo che Micene era una piccola città (come del resto qualunque altra di quel tempo in confronto alle attuali dimensioni urbane) significherebbe servirsi di un falso indizio. Perché, allo stesso modo, anche dell’odierna Sparta, se fosse ridotta ad una città morta e ne sopravvivessero soltanto i templi e le fondamenta degli edifici, difficilmente, a distanza di tempo, i posteri crederebbero che fosse della potenza militare di cui la tradizione serberebbe il ricordo. Eppure gli Spartani occupano due quinti del Peloponneso e dominano sull’intera regione e su molti alleati fuori di essa: ma, appunto, Sparta sembrerebbe inferiore alla sua effettiva grandezza dal momento che non è costituita da una concentrazione urbana ricca di templi e di sontuosi edifici ma da un insediamento per villaggi secondo lo schema arcaico del mondo greco» (I, 10).

È un esempio efficace di ciò che è stato definito «archeologia del futuro», della capacità cioè di prevedere quale sarà l’aspetto di un insediamento umano oggi vitale, quando – un domani – sarà ridotto ad un sito archeologico, ad una «città morta», e quali deduzioni errate gli storici rischieranno di trarne. Ma l’indagine tucididea nell’«archeologia» va oltre. Si spinge molto avanti nella riflessione intorno all’origine stessa della società, intorno al passaggio dalla fase del nomadismo alle prime società stanziali, passaggio che Tucidide vede in stretta connessione con i processi di accumulazione e stratificazione sociale. Adombra una forma primitiva di organizzazione sociale in cui la schiavitù è ancora assente: «Ciascuno coltivava il proprio terreno quel poco che era necessario alla mera sopravvivenza, non si verificava perciò accumulazione né si procedeva a far piantagioni, per l’incubo che, in assenza oltre tutto di mura difensive, sopraggiungesse qualcuno a saccheggiare» (I, 2).

Nell’antropologia tucididea la principale classificazione è tra no-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

303

madi e stanziali e sono proprio le terre più povere – esempio insigne l’Attica – a costituire il presupposto per stanziamenti duraturi. Così Tucidide svolge, piuttosto che un racconto, una descrizione di processi: un profilo dei rapporti sociali, economici e statali fondato su di una visione abbastanza lineare di sviluppo (delle forze materiali), di cui il presente rappresenta il culmine ed il compimento, la «pienezza dei tempi». 9. La peste: il ‘metodo’ tucidideo e la temperie ippocratica In un’opera, come quella tucididea, che si pretende esclusivamente politica e giovevole, soprattutto, anche in futuro, all’analisi politica (I, 22,4), campeggia una amplissima descrizione sintomatologica della micidiale epidemia che colpì Atene nel secondo anno di guerra, e che si suole, con approssimazione, definire la «peste». Merita attenzione questa deroga – in realtà solo apparente – rispetto alla linea ispiratrice dell’intera opera. In realtà vi è – nella visione tucididea – un nesso profondo tra i due piani: un nesso che si sustanzia nella affinità di metodo tra indagine medica e indagine scientifica della politica. Tucidide, che si tiene così rigorosamente lontano dalla terminologia erodotea riguardante l’attività storiografica, vuol dare nel modo più chiaro l’immagine di sé come di un ‘sintomatologo’ della politica e della storia: un ippocratico che trasferisce lo studio dei «sintomi» dall’ambito patologico a quello più largamente umano. È appunto tale scelta rigorosa di un metodo – di quel metodo che si veniva affermando con lo sviluppo della medicina ippocratica – che induce lo storico ad affrontare il problema capitale: quello della diversa conoscibilità, appunto in base alla diversa qualità e affidabilità dei sintomi, del presente e del passato; problema cui è consacrata tutta la prima parte del libro I, la cosiddetta «archeologia». L’identità di approccio, sul piano del metodo, tra indagine medica e indagine storico-politica, risulta con chiarezza dall’accostamento di alcune dichiarazioni ‘programmatiche’ collocate da Tucidide in punti cruciali del racconto: «Intorno al contagio ciascuno potrà esprimere la sua opinione, medico o privato [...] Io ne descriverò la natura e i sintomi in base ai quali uno possa, se ritorna, riconoscerlo, essendone avvertito. Presupposto

304

La storiografia tra ricerca e politica

della mia esposizione è che io stesso fui affetto dal morbo, e vidi altri ammalati» (II, 48,3: premessa alla descrizione della ‘peste’). «Se, quanti vorranno vedere con precisione i fatti passati o orientarsi, un domani di fronte agli eventi – quando stiano per verificarsi, uguali o simili, in ragione della natura umana – riterranno utile questa mia opera, ciò mi basterà» (I, 22,4).

Ed il richiamo alla sostanziale fissità della natura umana, presupposto ‘fisico’ della prevedibilità dei comportamenti attraverso i sintomi, ricorre anche altrove: al principio della digressione che Tucidide dedica alla sintomatologia della guerra civile prendendo spunto dal conflitto esploso a Corcira (III, 82-84): «E accaddero molte e terribili cose nelle città in preda alla guerra civile, cose che avvengono e sempre avverranno finché la natura umana sarà la stessa, ma che si intensificano, si attenuano e prendono forma differente a seconda del concreto e specifico andamento dei singoli rivolgimenti» (III, 82,2). Formulazioni nelle quali la nozione di «sintomo» e la nozione di «vista» sono in genere collegate. Nel proemio al primo libro questo nesso è evidente nella frase cruciale in cui si chiariscono i limiti della conoscibilità del passato: «I fatti precedenti e quelli ancora più antichi era impossibile trovarli chiaramente per il gran tempo passato, ma, sulla base dei segni (tekmäria) cui mi trovo a prestar fede spingendo il più possibile indietro il mio sguardo (e¬pì makrótaton skopoûntí moi), non li ritengo grandi» (I, 1,3). Il campo di applicazione dell’analisi sintomatologica è dunque anche il passato, ma lì i «segni» visibili e fededegni sono scarsi o, peggio, ingannevoli. La novità concettuale è che anche il presente e lo sviluppo degli eventi (il ‘futuro’) si conosce per «segni»: segni che rendono possibile – se rettamente intesi – la «previsione». E perciò la prima notizia che Tucidide ci dà nel primo rigo della sua opera, subito dopo aver dichiarato il proprio nome e il proprio tema, è di aver «previsto» (e¬lpísav) la grandezza eccezionale del conflitto ancora nel momento della sua «incubazione» (eu¬qùv kaqistaménou). Previsione («pronostico»), segni («sintomi»), diagnosi: sono gli strumenti adottati da Tucidide per l’analisi dei fatti umani, e sono gli strumenti caratteristici della nuova medicina, quella detta appunto ippocratica, affermatasi in Atene nell’ultimo trentennio del V secolo in forte polemica contro la vecchia medicina magico-divi-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

305

natoria fondata su affrettate analogie. È significativo ad esempio l’uso di e¬lpív nei trattati compresi nel corpus ippocratico: in particolare nel Prognostico (7,7; 15,7; 19,6 ecc.), dove il termine, insieme con e¬lpízw, ricorre di frequente ad indicare in modo del tutto ‘neutrale’ la «prognosi»; ma anche in altri scritti compresi nel corpus, quali le Epidemie, il Morbo sacro ecc. Il procedimento medico, analogico e diagnostico, quale è descritto nelle Epidemie e nel Prognostico, presenta evidenti affinità col ‘metodo’ tucidideo. Dinanzi ad un malato che presenta determinati sintomi, il medico deve essere in grado di riconoscere sia la malattia che il successivo decorso (entità entrambe non visibili) e a tal fine si gioverà – oltre che dei ‘sintomi’ – dei casi simili già studiati. È perciò che nelle Epidemie vengono descritte e classificate tante ‘cartelle cliniche’. Ecco dunque perché il medico – come si legge nel Prognostico – è uno che sa dire «le cose presenti passate e future» (I, 2-3), allo stesso modo che il politico, fatto esperto dalla lettura di un’opera come quella di Tucidide, sa «vedere con precisione i fatti passati e orientarsi, un domani, di fronte agli eventi quando stiano per verificarsi» (I, 22,4). L’adesione di Tucidide al linguaggio, oltre che al ‘metodo’, ippocratico è dunque piena ed espressa in modo esplicito: tra l’altro con l’inserzione del lungo excursus sui sintomi della «peste». Ciò ha tanto più valore in un momento in cui, dinanzi al flagello della «peste», la nuova medicina ha subìto uno scacco, dal punto di vista del prestigio, non avendo saputo fermare il male; il che ha favorito il ‘ritorno ad Asclepio’ (il cui culto viene introdotto solennemente in Atene nel 420 a.C.), cioè all’antico dio-guaritore modello della medicina ‘magica’. Espressioni di sapore ‘difensivo’ che si leggono in trattati ippocratici come quello Sull’antica medicina fanno ritenere appunto che il conflitto tra nuove pratiche scientifiche e vecchi procedimenti fosse tutt’altro che sopito: «È difficile raggiungere sempre nell’arte la certezza assoluta, benché molte forme della medicina, di cui dirò, siano giunte appunto ad una tale esatta penetrazione. Non dico perciò che si debba rifiutare l’antica medicina, quasi non esistesse o non fosse stata bene indagata [...] ma che piuttosto, partendo da una profonda ignoranza essa è giunta vicinissima alla certezza per forza logica, e che perciò si debbano ammirare le sue scoperte» (§ 12).

306

La storiografia tra ricerca e politica

Se la crisi determinatasi nella nuova medicina con la peste è stata superata, ben maggiore danno è venuto alla pratica medica, in una città come Atene, dall’impoverimento conseguente al declino politico-militare. Ad esempio nel Pluto di Aristofane (388 a.C.) la nozione che i medici se ne sono andati perché la città si è impoverita è molto chiara. Ad un certo punto dell’azione si pensa di invocare l’opera di un medico per ridare la vista al dio della ricchezza, ma questa idea viene scartata da Cremilo, il protagonista, con la battuta «Che medico c’è ancora in questa città ? Non li pagano, e l’arte è finita» (vv. 407-408). Nel IV e nel III secolo quegli straordinari artigiani si sono man mano trasferiti nelle nuove sedi del potere: innanzi tutto nelle corti ellenistiche. Meno agevole è stabilire come questa pratica, così ricca di risultati anche sul piano della elaborazione scritta (l’ampia raccolta nel corpus ippocratico ne è monumento insigne), si sia venuta formando. Evanescente è la figura di Ippocrate e convenzionale l’attribuzione a lui degli scritti raccolti nel corpus, composti in dialetto ionico e frutto di una elaborazione nel tempo che trascende i limiti della vita del singolo ‘maestro’. Su Ippocrate le testimonianze a lui più vicine nel tempo si riducono, in sostanza, a due luoghi platonici (Protagora, 311B e Fedro, 270CD). Nel Protagora viene istituito un paragone tra colui che ricorre a pagamento all’opera di un sofista (nel caso particolare Protagora) per riceverne un insegnamento sulla cui validità Platone esercita la sua critica e colui che ricorre, a pagamento, all’opera di «Ippocrate di Cos, l’Asclepiade» per giovarsi della sua opera di medico. Ciò denota unicamente la grande notorietà di Ippocrate. Nel Fedro viene attribuito ad Ippocrate un concetto che non trova rispondenza in nessuno degli scritti compresi nel corpus, nonostante la ricchezza e varietà delle materie trattate (dalla chirurgia alla dietetica alla farmacologia) e delle concezioni mediche affioranti in una raccolta così composita. Si tratta della nozione secondo cui non si può trattare della natura del corpo «indipendentemente dalla natura del tutto». Secondo Platone un tale procedimento corrispondeva alla sua idea della dialettica (comprensione dei particolari in un solo concetto e divisione dell’insieme nelle sue specie naturali). Quanto questa idea risenta del pensiero platonico è difficile stabilire in assenza di riscontri nel corpus. Molte informazioni sulle dottrine di Ippocrate sono venute, alla fine dell’Ottocento, dalla scoperta del cosiddetto «Anonimo Londinese»: si tratta di un manoscritto conte-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

307

nente ampi brani di una storia della medicina compilata da Menone, scolaro di Aristotele. L’opera di Menone ha in parte deluso le aspettative; essa si concentra essenzialmente sulla dottrina ippocratica riguardante le cause delle malattie; ma le teorie che l’anonimo espone sono risultate tra le più marginali tra quelle contenute nel corpus (in particolare quella sui «venti» circolanti nell’organismo e occludenti la libera circolazione del respiro, determinati dal cibo eccessivo e indigesto). Ciò ha spinto i moderni alle più varie ipotesi: per esempio che Menone partisse da opere erroneamente attribuite ad Ippocrate da Aristotele; ovvero che l’Ippocrate cui l’anonimo si riferisce sia soltanto il nipote del grande medico di Cos. Bisogna dunque rassegnarsi a considerare il corpus ippocratico nel suo complesso, sia pure isolando come personalità distinte e di maggiore spicco gli autori dei trattati più importanti: L’antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il prognostico, Il regime delle malattie acute, Il morbo sacro, Le epidemie, Fratture e articolazioni, Gli aforismi, Il regime e così via. Il problema della loro attribuzione andrebbe impostato partendo dalla considerazione delle prime fasi di trasmissione del corpus, e soprattutto dalla domanda: che cosa giunse agli Alessandrini e in quali condizioni? È da pensare che agli Alessandrini sia giunta una raccolta consistente, ma anonima, di letteratura medica di V e IV secolo; e che l’attribuzione ad Ippocrate sia dovuta non già a documenti, ma al lavoro critico di quei dotti; si capisce che le attribuzioni avranno risentito dell’idea che, nelle varie fasi del lavoro erudito di quasi tre secoli, essi si sono via via fatti delle dottrine ippocratiche. Ciò spiega il carattere arbitrario e a volte contraddittorio di tali attribuzioni. Il trattato Sulle arie, le acque, i luoghi merita una considerazione a parte per l’enorme influsso che ha avuto sulla successiva etnografia greca e romana. Lo svolgimento ruota intorno a due tesi principali: a) le malattie sono in rapporto causale con le condizioni climatiche, geografiche, idriche, dietetiche dei vari luoghi; ovviamente alla univocità delle caratteristiche dei luoghi corrisponde una molteplicità di manifestazioni patologiche: ciò dipende dalla costituzione fisiologica dei singoli individui; b) l’ambiente naturale e le strutture sociali sono i fattori entro i quali prende forma l’assetto individuale e collettivo dei vari popoli. La prima tesi non è in realtà del tutto nuova: essa è già in alcuni

308

La storiografia tra ricerca e politica

luoghi erodotei, come ad esempio nella descrizione del Panionion (I, 142), o del contributo del clima alla particolare sanità di cui godono gli Egiziani e i Libici (II, 77). La seconda tesi ha invece ben maggiore rilievo in quanto superamento scientifico della polarità istituita dalla sofistica tra «natura» e «legge»: una antitesi che la sofistica esasperava partendo da una generica e astratta nozione di «natura». L’impostazione ippocratica è invece completamente innovativa preferendo parlare non più di una generica e onnivalente «natura» ma di singoli, concreti e tra loro ben diversi e diversamente efficaci «ambienti». Così l’antitesi fúsiv/nómov si risolve piuttosto in una sintesi, in ragione appunto della intuizione secondo cui i nómoi, lungi dall’essere arbitrarie costruzioni umane in contrasto con le esigenze di natura, in realtà si conformano alle diverse e concrete condizioni ambientali. Questa impostazione sarà alla base di tutto il successivo pensiero etnografico greco e romano: dagli studi di Posidonio e di Cesare sulle regioni popolate dai Celti all’opuscolo di Tacito sulla Germania. (Ed era già operante, in nuce, nella intuizione erodotea secondo cui determinate forme politiche sono particolarmente confacenti a determinate comunità, la cui fioritura si ha appunto in presenza di determinate forme politiche in luogo di altre: per esempio gli Ateniesi, i quali «quando erano dominati da un tiranno non erano mai superiori in guerra ad alcun vicino ma una volta liberati dai tiranni divennero di gran lunga i primi» [V, 78].) È quasi superfluo osservare che una tale visione rischia facilmente di mutarsi nell’idea di una sorta di ‘predestinazione razziale’ dei vari popoli, in un determinismo etologico-razziale premessa del razzismo. Ma nel trattato ippocratico gli elementi ambientali e quelli umani sono in genere convergenti e mai esclusivi. Così ad esempio a proposito del topico tema della ‘indolenza’ degli Asiatici, vengono chiamati in causa sia il clima che le istituzioni politiche: «Quanto alla mancanza di ardire e di coraggio, la causa principale per la quale gli Asiatici sono più imbelli degli Europei e di costumi più molli, risiede nelle stagioni, che non fanno grandi mutamenti né verso il caldo né verso il freddo, ma scorrono uniformi. Non si verificano così [per gli Asiatici] quelle improvvise scosse della mente e violente alterazioni fisiche per cui è probabile che il temperamento si inasprisca e partecipi di passionalità irriflessa più che nel caso di chi vive sempre sotto il medesimo clima.

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

309

Per queste ragioni – riepiloga – mi sembra che le popolazioni dell’Asia siano più deboli, e inoltre – soggiunge – per le istituzioni (kaì proséti dià toùv nómouv)».

E prosegue osservando come la monarchia, che non rende gli uomini «signori di se stessi» ma «sudditi», sia causa di inettitudine e di fiacchezza: tanto che persino quei pochi barbari d’Asia che «non sono soggetti a despoti ma vivono liberi e per se stessi si affaticano, sono tra tutti i più valorosi» (Arie, acque, luoghi, 16). 10. Concezione politica e modello statale Sarebbe sostanzialmente falsa una caratterizzazione dell’opera tucididea che non desse alla riflessione sulla politica il posto centrale che le spetta. La profondità e la modernità dell’«archeologia», il fecondo influsso del metodo ippocratico non devono far dimenticare infatti che l’idea base che sorregge il lungo racconto della guerra, dei suoi presupposti, dei suoi meccanismi visibili e occulti, è appunto la persuasione di fare opera durevole per il politico, il quale sarà posto – presumibilmente – di fronte a realtà «uguali o simili» in un futuro non prevedibile (I, 22). Ma non è solo questo, pur preponderante, aspetto che fa dell’opera tucididea un’opera squisitamente politica, bensì anche – e non meno – il continuo riaffiorare, attraverso il racconto e l’analisi di personaggi e situazioni cruciali, del problema che potremmo definire del «miglior governo»: il problema che è al centro della riflessione politica ateniese per lo meno da Solone ad Aristotele. Tappe di questa riflessione sono innanzi tutto i due testi capitali legati alla figura di Pericle: l’epitafio per i morti nel primo anno di guerra (II, 35-46) ed il profilo del ruolo politico e costituzionale di Pericle nella città democratica (II, 65). Se il primo è un testo che molto concede alle esteriori esigenze della circostanza celebrativa ed alle regole del genere «epitafio» – onde è difficile dire sino a che punto l’elogio pericleo di Atene e del suo sistema politico corrisponda all’autentico pensiero tucidideo –, il secondo è certamente l’espressione delle vedute tucididee in una fase matura (il capitolo presuppone la conclusione negativa della guerra) ed è un chiaro apprezzamento dell’equilibrio stabilitosi durante il lungo predominio di Pericle tra meccanismi democratico-assem-

310

La storiografia tra ricerca e politica

bleari e dominio quasi istituzionalizzato di un «primo cittadino»: «di nome era una democrazia, di fatto però il potere era nelle mani del primo cittadino». Che davvero in questa formulazione sia da vedersi una scelta in favore di un potere monarchico parve a Thomas Hobbes, appassionato ammiratore e traduttore di Tucidide: «mostra di apprezzare il governo di Atene – scrisse Thomas Hobbes nella prefazione alla sua traduzione di Tucidide – quando esso consisteva nella mescolanza dei pochi e dei molti [VIII, 97]; ma ancora più mostra di apprezzarlo quando regnava Pisistrato [VI, 54,5] (non considerando che si trattava di potere usurpato), e quando, agli inizi di questa guerra, il governo sotto Pericle era democratico di nome, ma in effetti monarchico [II, 65,9]».

Questo è un Tucidide troppo hobbesiano. Il ritratto poi non è privo di forzature, giacché, ad esempio, Tucidide non parla di «monarchia» a proposito di Pericle, ma, piuttosto, di «primo cittadino». Hobbes ha però il merito di mettere in luce il tono di schietto apprezzamento che Tucidide adopera nei confronti della «virtù e saggezza» di Pisistrato e di Ippia quando parla del loro governo precedente l’attentato. In realtà non è in direzione di un potere monarchico che si evolve il pensiero politico tucidideo – è un tipo di scelta che si produrrà semmai nel secolo successivo –: dalla constatazione della degenerazione democratica dopo la morte di Pericle (II, 65,10), Tucidide è, semmai, indotto ad orientarsi in senso oligarchico-moderato. Lo si ricava dall’altro suo giudizio sul sistema politico ateniese, formulato nell’ottavo libro quando narra dell’effimero esperimento del «governo dei Cinquemila»: di quella breve fase cioè, succeduta al governo oligarchico dei «Quattrocento» (411 a.C.), durante la quale la pienezza dei diritti politici fu riservata ad un corpo di cinquemila cittadini selezionati sulla base del censo (capaci di armarsi a proprie spese). È una fase politica che Tucidide caratterizza come «equilibrata mescolanza» (metría xúgkrasiv) tra i «molti» e i «pochi» (secondo una visione positiva della nozione di «mescolanza» che avrà interessanti sviluppi filosofici nel secolo seguente), e che definisce «la prima forma di buon governo che gli Ateniesi, al tempo mio, si siano dati» (VIII, 97,2). Comunque anche qui Tucidide non si esprime sulla miglior forma politica in assoluto: dice che quello fu il miglior regime realiz-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

311

zatosi – a sua memoria – in Atene. Sparta gli appare pur sempre – come appariva a tanti aristocratici ateniesi – la naturale incarnazione dell’«eunomia» (I, 18). Ma – e qui si coglie la aderenza del suo giudizio politico alla realtà concreta – non ha senso per lui ipotizzare, per una città come Atene, una qualunque rottura della continuità democratica, e tanto meno una imposizione forzata del modello spartano, quale era vagheggiata da dottrinari come Crizia, e forse dallo stesso Antifonte, da Tucidide tanto ammirato (VIII, 68). Perciò l’avventura oligarchica del 411, pur voluta da persone di prim’ordine come Antifonte, lo riempie sì di ammirazione, ma anche di incredulità, per avere costoro tentato di «togliere la libertà agli Ateniesi cent’anni dopo la cacciata dei tiranni». Ma soprattutto – è questa la sua diagnosi – la vittoria dell’oligarchia significa immancabilmente lo sgretolamento dell’impero, e quindi la rovina, ben presto, dello stesso esperimento oligarchico. 11. Necessità e responsabilità Al centro dell’opera tucididea è infatti il problema della fine di una grande potenza. Tucidide non viene, come Erodoto, da un mondo che aveva visto imperi ed eserciti immani disfarsi e che aveva trasformato questa secolare esperienza in olimpica saggezza. Il suo orizzonte è ristretto, e tale ristrettezza lo ha anche spinto ad una orgogliosa polemica verso il grande predecessore. Il suo oggetto di analisi è una città, la sua città. Ed appunto vivendone la parabola, Tucidide si è venuto persuadendo che la sconfitta di Atene, la fine del suo impero, e soprattutto la sua riduzione a potenza di secondo rango erano state dovute ad una «necessità»: necessità inerente alla dinamica stessa dello scontro tra le grandi potenze, alla nozione stessa, totalizzante, di «dominio», onde l’alleanza diviene egemonia e l’egemonia sopraffazione. Ma se la nozione di «necessità» sembra rinviare a qualcosa di oggettivo e quindi tale che renda superfluo il giudizio su ciò che di tale necessità è frutto, la riflessione tucididea non sembra tuttavia appagarsi di una tale constatazione, e ritorna anzi, insistentemente, sulla questione: se l’impero sia di per sé inconciliabile con una morale, e se in particolare l’impero di Atene sia andato in rovina proprio perché fondato e retto – come affermavano i suoi avversari – in antitesi

312

La storiografia tra ricerca e politica

con la legge morale. Ogni volta che pone l’accento sulla «necessità» dei processi storici che descrive, Tucidide sembra lasciare in ombra questo problema; esso però riemerge, ogni volta che il racconto porta il suo autore ad accostarsi alle violenze che di quella impersonale «necessità» sono il frutto, sin quasi a costituire un filo, il filo parallelo rispetto a quello realpolitico, che sottende il racconto. La riflessione non è sempre condotta in prima persona – come quando, nel terzo libro, Tucidide considera il nefasto intreccio tra guerra esterna e guerra civile –, ma anche, e forse più spesso, attraverso la parola dei protagonisti principali, gli Ateniesi. Metterli a confronto con la più piccola e la meno agguerrita delle loro vittime – gli abitanti dell’isola di Melo, colpevoli appunto di non essere sudditi di Atene, quantunque isolani, e dunque pessimo esempio per gli altri isolani e possibile fattore di disgregazione dell’impero – è una soluzione drammatica che può accostarsi a quella erodotea di esprimere il succo dell’intera sua opera mettendo a confronto subito in principio, e contro ogni plausibilità cronologica, Creso e Solone. È difficile stabilire quando Tucidide abbia concepito e redatto il celebre dialogo tra Melii e Ateniesi (V, 85-112), ed oziosa la disputa se certi riferimenti alla possibile rovina di Atene debbano intendersi come profezie post eventum e quindi come indizi cronologici riguardo alla composizione. Non c’era invero bisogno di attendere il 404 per prospettarsi la possibile fine dell’impero. La possibilità di una catastrofe era ben presente a qualunque politico ben consapevole: sia perché l’affermarsi stesso di Atene era stato una forzatura rispetto ad una lunga ed ininterrotta guida spartana del mondo greco (e la forzatura poteva in qualunque momento rivelare la sua debolezza), sia perché la natura tendenzialmente distruttiva del conflitto in corso era evidente da quando la pace del 421 si era rivelata un compromesso transitorio. Nel corso del dialogo la parola dei Melii appare la meno credibile, protesa com’è a difendere sofisticamente una tesi impossibile, quella dell’utilità per gli Ateniesi di una condotta remissiva e clemente. Facile bersaglio della dialettica implacabile dei loro interlocutori, ai quali peraltro non è ignota la sorte cui potrebbero andare incontro. «Se sconfitti» minacciano i Melii (V, 90) «voi andrete incontro ad una punizione tremenda», e sottintendono: tanto più quanto più spietati vi sarete rivelati in occasioni come questa. «Anche se il nostro impero sarà spento» replicano gli Ateniesi «noi non ne paventiamo la fine»: e spiegano che è meglio cade-

XVII. Tucidide e Ippocrate: dalla «ricerca» alla «prognosi»

313

re sotto i colpi della grande potenza avversaria che non soccombere all’assalto dei sudditi ribelli. Ma se non sarà la considerazione dell’utile a distogliere gli Ateniesi dal proposito di estinguere lo scandalo dell’indipendenza di Melo, ai Melii non resta che appellarsi alla speranza (V, 102) – contro cui facilmente gli Ateniesi riversano il loro sarcasmo –, ed infine all’ipotesi di un aiuto degli dèi in quanto garanti del giusto (V, 104). La replica degli Ateniesi porta la riflessione ad un punto estremo: non solo tra gli uomini ma, a quel che se ne sa, anche tra gli dèi vige il principio del dominio del più forte (ou© a£n kratñı a¢rcein); «questa legge» essi osservano «non l’abbiamo stabilita noi, né siamo stati noi i primi a valercene; l’abbiamo ricevuta da chi ci ha preceduti e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, ed essa avrà valore eterno: e sappiamo bene che anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pari alla nostra, vi comportereste come noi». È insomma una «necessità» quella cui gli Ateniesi obbediscono stroncando la scandalosa neutralità melia. E, come sempre in contesti analoghi, essa viene motivata da Tucidide con un riferimento ad una immutabile «natura umana». Non è molto sensata la domanda: da che parte sta Tucidide rispetto ai dialoganti. Ha senso piuttosto osservare che, nello scontro delle argomentazioni, i Melii restano alla fine disarmati e mantengono, conclusivamente, la loro posizione unicamente in forza di una considerazione di puro azzardo: che cioè nessuno mai spontaneamente ha ceduto, pur potendo combattere. L’argomentazione degli Ateniesi risulta dunque la più rigorosa, né Tucidide escogita per i Melii ulteriori, adeguate repliche. La strage dei Melii poté apparire, sul momento, non più che una dolorosa necessità. Eppure quella strage sembra aver insidiato per anni l’inconscio collettivo degli Ateniesi, se riemerge – incubo non placato – nel momento della disfatta, nella notte insonne dopo Egospotami: «Non commiseravano soltanto i morti, ma ancor più se stessi: pensavano che sarebbe toccata loro la stessa sorte che a suo tempo avevano inflitto agli abitanti di Melo, coloni di Sparta» (Elleniche, II, 2,3). Chi ha scritto queste parole – probabilmente Tucidide se è a lui che risale questa parte delle Elleniche – ha una chiara nozione della «responsabilità», e sa che non c’è errore nel valutare il giusto (cioè il veramente utile) che rimanga impunito in quella vicenda di verità che è la politica.

314

La storiografia tra ricerca e politica

Note Nelle fonti ricorre spesso anche la forma Skaptè Hyle. Ad esempio delle congiure di palazzo contro il re Pittaco nella minuscola città di Myrkinos (IV, 107), e persino delle particolarità onomastiche (il genitivo Goaxios, grafia corretta del nome di un principotto i cui figli uccisero il filo-ateniese Pittaco). 3 Autore, in pieno II secolo a.C., di una straordinariamente ricca e accurata Chronikè Sy`ntaxis riguardante anche notizie di storia letteraria. 4 A Brasida gli efori spartani avevano volentieri affidato il comando di una rischiosa spedizione in Calcidica sollecitata da Perdicca, re di Macedonia, in funzione anti-ateniese, perché così l’ingombrante guerriero sarebbe stato allontanato da Sparta (IV, 81, 1). 5 Dionigi di Alicarnasso rimprovera a Tucidide l’interruzione ex abrupto del suo racconto. 1 2

XVIII SENOFONTE: UN CAVALIERE NELLA GUERRA CIVILE 1. La guerra civile La democrazia come sistema accettato anche da una parte delle classi alte, già logorata dalla troppo lunga guerra con Sparta, resse fino al disastro siciliano. Si aprì allora un periodo (411-404 a.C.) nel corso del quale per ben due volte i fautori dell’oligarchia presero il potere, in concomitanza con le due catastrofi militari. Nella primavera del 404, dopo il disastro di Egospotami, ci fu la resa incondizionata di Atene. Atene perse la flotta, l’impero, l’autonomia politica. Lisandro, il vero vincitore, non solo dettò le condizioni di pace ma, entrato in città mentre venivano distrutte le «grandi mura», pretese di essere presente – cosa inaudita – all’assemblea popolare che decise l’abrogazione del regime democratico ed il passaggio dei poteri ad un comitato di trenta oligarchi. Non era un esito scontato. Alle Arginuse (406 a.C.) Atene aveva dimostrato una ancora allarmante capacità di vincere. E si era intensificata perciò l’azione di chi puntava alla disfatta. Innanzi tutto il processo contro i generali vincitori alle Arginuse orchestrato da Teramene (Senofonte, Elleniche, I, 7,4 e 8). Poi il tradimento, causa non ultima della sconfitta di Egospotami: allorché uno stratego, Adimanto, «fu accusato – come scrive Senofonte – di aver tradito le navi» (Elleniche, II, 1,32), accusa che viene confermata da Lisia (14,38) e da Demostene (19,191). Erano, in certo senso questi tentativi di porre fine alla guerra con ogni mezzo, perfino col tradimento, già i prodromi della guerra civile. Essa divampò poco dopo l’installazione dei Trenta, tra i quali primeggiavano alcuni, come Teramene, che avevano intensamente lavorato alla disfatta. Mentre la prima oligarchia, quella dei «Quattrocento», era stata liquidata per la sua incapacità di fare sia la pace che la guerra, la

316

La storiografia tra ricerca e politica

seconda cadde a seguito di una ferocissima guerra civile, la cui memorabile efferatezza traspare ancora dalla amareggiata ironia del fittizio epitafio platonico del Menesseno: «Se è proprio fatale che ci siano guerre civili, ognuno dovrebbe desiderare di averne, nella propria città, una come questa. Con quanta benevola fraternità s’incontrarono quelli del Pireo e quelli della città!» (243E). Il nuovo regime era nato nel momento più favorevole, quello della resa incondizionata e della perdita dell’impero e della flotta, pilastri della democrazia. Inoltre poteva contare su una coalizione di grandi famiglie: tutt’altro che poche, se si considera che ad esempio nella prima oligarchia ben quattrocento personalità avevano costituito il direttorio oligarchico. E tra la prima e la seconda, ad appena sette anni di distanza, vi è una sostanziale continuità spesso anche nelle persone, a cominciare dai principali esponenti Crizia e Teramene. Essi rappresentavano quella parte dei «signori» che con la democrazia non erano scesi a patti, e che, più o meno rigorosi nei comportamenti, da essa si erano tenuti lontani. Non tutti col rigore di Antifonte – che si era sempre astenuto dalla tribuna e dai tribunali –; alcuni con la tortuosità di Crizia, che era stato capace di farsi promotore del decreto per il richiamo di Alcibiade dall’esilio1. Tutti protesi comunque alla realizzazione di un modello che essi ritenevano di tipo spartano: limitazione dei diritti politici ad uno strato ristretto e selezionato, unico autorizzato a portare armi, assimilabile in certo modo agli Spartiati (i Trenta redassero una lista di 3000 Ateniesi cui concedere tale prerogativa); spopolamento di Atene (l’allontanamento in massa del demo, di cui parlano concordemente le fonti); attacco a fondo contro i ricchi, anche se meteci, che avevano sorretto, guidato o anche solo accettato il sistema democratico. 2. Senofonte nella guerra civile Non si dovrà pretendere che tutti gli aderenti al nuovo regime fossero dei consapevoli dottrinarî. Decisiva fu l’impronta che diedero al regime Crizia ed altri come lui, che avevano riflettuto sulle «Costituzioni»2. Ma sarebbe errato ricondurre a lui solo le scelte compiute dai Trenta: Crizia muore nello scontro intorno a Munichia con gli uomini di Trasibulo (dicembre 404-gennaio 403); ma l’esperimento continua, secondo le linee da lui tracciate, anche dopo la sua scomparsa. I cavalieri ateniesi, quei cavalieri che già Aristofane aveva de-

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

317

scritto insofferenti del radicalismo democratico di Cleone, si schierarono con i Trenta, furono anzi tra i loro più accaniti e sanguinari sostenitori. Dei 3000, questi 1000 selezionati e ricchi militari iperarmati furono i più oltranzisti. Erano un corpo speciale di combattenti scelti, in grado di pagarsi cavallo e armatura, provenienti dalle due classi soloniane più ricche (euporòtatoi), in servizio permanente e perciò armati di tutto punto anche in tempo di pace. Era il corpo militare più affine, per reclutamento e per struttura, all’omologo corpo spartano. Senofonte era uno di loro, ed alla grande passione della sua vita – essere in una armata a cavallo – ha dedicato ben due trattati tecnici di una certa efficacia e che denotano grande pratica: L’arte equestre (Perì i™ppikñv) e L’arte di comandare la cavalleria (¿Ipparcikóv). Quando racconta la vicenda dei Trenta, perciò, Senofonte fornisce in sostanza un diario della cavalleria dei Trenta (Elleniche, II, 3,11-II, 4,43). Registra minutissimi dettagli riguardanti i cavalieri: che «gli scudieri strigliavano i cavalli facendo baccano» (II, 4,6)3 e che nei primi scontri con Trasibulo fu ucciso un cavaliere di nome Nicostrato il quale era soprannominato «il bello» (II, 4,46); che, dopo la caduta del Pireo in mano dei ribelli, «i cavalieri dormivano nell’Odeon accanto ai loro cavalli e ai loro scudi» (II, 4,24); che Lisimaco, uno dei due ipparchi, fece uccidere alcuni contadini durante una sortita senza lasciarsi smuovere dalle loro proteste e che «molti cavalieri protestarono» (II, 4,26); che a loro volta in una sortita gli uomini di Trasibulo «catturarono un cavaliere, Callistrato, della tribù Leontide e lo uccisero» (II, 4,27), e così via. Dei due ipparchi, entrambi affiancati ai Trenta nel comando, ne nomina sempre solo uno, Lisimaco, e gli addebita le più gravi efferatezze con un tono vagamente delatorio: dall’arresto dei cittadini di Eleusi al massacro dei contadini inermi (II, 4,26: «fu Lisimaco, l’ipparco, ad ammazzarli»).

Dopo mesi di guerra civile, la pacificazione fu merito del re spartano Pausania, che Senofonte denunzia come «invidioso di Lisandro» (II, 4,29) e «segretamente favorevole» a Trasibulo (II, 4,31). Nell’atto di pacificazione, la celebre «amnistia» del 403, fu sancito che i seguaci dei Trenta si ritiravano ad Eleusi, i democratici si insediavano ad Atene: l’Attica si divideva in due Stati. In quello oligarchico di Eleusi si raccolsero gli irriducibili, anche perché una clausola dell’atto di pacificazione precisava che era escluso dall’amnistia «chiunque avesse ucciso o ferito di sua mano» (Aristotele, Costituzione di Atene, 39,5). Questo compromesso resse un paio

318

La storiografia tra ricerca e politica

d’anni, dopo di che nel 401/400 si diffuse ad Atene l’allarmante voce di arruolamenti di «mercenari» da parte dei superstiti Trenta ad Eleusi: Eleusi fu attaccata, i capi convocati a colloquio – rivela Senofonte – ed uccisi a tradimento (II, 4,43). Senofonte è l’unico autore che ci racconti con questi dettagli l’episodio. Non fa nulla per velare l’odiosità del gesto compiuto dai democratici così come aveva messo in luce gli insuccessi militari di Trasibulo e chiarito che la ‘vittoria’ democratica era dovuta al favore di Pausania. Massacrati gli ultimi oligarchi fu rinnovato l’accordo di pacificazione. Mal sopportati rimasero comunque i cavalieri che avevano servito sotto i Trenta, né mancò l’occasione per liberarsene. Nell’autunno del 400 Sparta chiese, per un proprio corpo di spedizione in Asia, l’apporto di 300 cavalieri ateniesi, e l’assemblea popolare ne mandò appunto 300, «di quelli che avevano servito sotto i Trenta – precisa Senofonte –, sperando che ci lasciassero la pelle» (Elleniche, III, 1,4). Lisimaco, l’ipparco nominato da Senofonte in sinistri contesti, fu portato in tribunale per estorsione (Isocrate, 18,7). Mantiteo, un altro di loro, verrà portato in tribunale qualche anno più tardi essenzialmente per essere stato cavaliere sotto i Trenta (Lisia, XVI) e si difenderà penosamente dicendo che il suo nome figurava erroneamente nella lista. 3. Senofonte lascia Atene In questa nuova situazione Senofonte prese la decisione più celebre, e più gravida di conseguenze, della sua vita: accettò l’invito di Prosseno, che arruolava mercenari in Beozia ed in Attica per conto di Ciro in vista di una misteriosa campagna, che poi risultò essere diretta al cuore dell’impero persiano, nel quadro del conflitto dinastico tra Ciro e suo fratello, Artaserse. Era infatti Ciro che arruolava mercenari in tutto il mondo greco – i celebri Diecimila4. È noto, lo racconta lo stesso Senofonte, come l’invito di Prosseno sia stato colto al volo. Senofonte non fu il solo cavaliere che avesse servito sotto i Trenta ad imbarcarsi nell’impresa di Ciro: il capo della cavalleria dei Diecimila era anche lui un cavaliere ateniese, Licio, figlio di un celebre oligarca, Polistrato (Anabasi, III, 3,20), il quale aveva ricoperto posti di responsabilità nell’oligarchia dei Quattrocento. Era anzi, quella di Polistrato, una famiglia di cavalieri oligarchi e filospartani, come sappiamo da un discorso conservatosi nel corpus delle orazioni di Lisia (XX: Per Polistrato).

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

319

Senofonte si recò da Socrate a chiedere consiglio. Ma Socrate fu molto perplesso: imbarcarsi con Ciro, un vecchio nemico di Atene, colui che aveva finanziato la flotta di Lisandro consentendo a Sparta di vincere Atene sul mare, poteva essere un gesto molto impopolare. Meglio chiedere consiglio ad Apollo delfico. Senofonte superò con un inganno le esitazioni di Socrate – chiese all’oracolo a quali dèi sacrificare per fare un buon viaggio (Anabasi, III, 1,4-8) – e scomparve da Atene, per sempre. Due anni più tardi, mentre era ancora in Asia, fu raggiunto dalla notizia della propria condanna all’esilio (Anabasi, VII, 7,57). E così restò in Asia, e si mise al servizio di Tibrone, quel Tibrone spartano al quale gli Ateniesi avevano così volentieri ‘regalato’ – nella speranza di liberarsene per sempre – i 300 cavalieri già in servizio coi Trenta. In realtà, già durante la ritirata dei Diecimila, Senofonte ha mostrato una costante propensione a cercare diversivi, e nessuna seria intenzione di tornare ad Atene: quando ormai i mercenari erano in salvo ha preferito avventurarsi in una guerra tra re-banditi in Tracia tirandosi dietro circa metà degli originarî diecimila. Sapeva evidentemente, già prima della formale sentenza, che il ritorno ad Atene gli era precluso: ed è sintomatico che abbia lasciato Atene nel 401, proprio mentre crollava la effimera ‘repubblica di Eleusi’, dove non è escluso che avesse trovato rifugio dopo la fine della guerra civile nel 403. E poiché l’esilio è la condanna caratteristica per i reati di sangue, è lecito pensare che la condanna all’esilio si riferisse a qualcosa che era accaduto appunto quando Senofonte combatteva la guerra civile nella cavalleria dei Trenta. D’altra parte l’accordo del 403 escludeva dall’amnistia proprio coloro che avevano «ucciso o ferito con le proprie mani», e notoriamente i cavalieri erano stati tra i più brutali esecutori delle condanne a morte volute dai Trenta e si erano anche distinti in episodi di gratuita brutalità (che Senofonte addebita ogni volta all’altro ipparco, Lisimaco). Tutto fa pensare insomma che l’esilio di Senofonte fosse in relazione con le violenze commesse dai cavalieri. 4. La campagna in Asia Per un cavaliere ateniese, lasciare la città ed avventurarsi in Asia al seguito di un signore persiano era una scelta di vita. Era una de-

320

La storiografia tra ricerca e politica

cisione dettata dal proposito di imprimere un altro corso alla propria esistenza. Senofonte raggiunse Prosseno e Ciro a Sardi, nell’interno dell’Asia, in Lidia. Presto fu chiaro che l’obiettivo della campagna dell’intraprendente Ciro non era la Pisidia ma il trono del fratello Artaserse. Ciò nonostante, Senofonte rimase fermo nella decisione di non ritornare comunque, e mantenne fino a Cunassa una singolare posizione di privato, «né stratego, né ufficiale, né soldato» (Anabasi, III, 1,4), quasi un ‘giornalista al seguito’. L’impresa temeraria di andare a spodestare il re di Persia nel cuore del suo impero, nella mitizzata città di Babilonia, accostò il cavaliere ateniese ad una realtà di dimensioni inusitate: si favoleggiava di un esercito regio di oltre un milione e duecentomila uomini (I, 7,11), il che induceva facilmente al ricordo delle masse sterminate di Serse, di cui aveva narrato Erodoto, infrantesi contro i minuscoli eserciti delle città greche. I mercenari greci, coi quali Senofonte viveva, si sentivano il nerbo dell’armata di Ciro. Eppure questa volta, diversamente che nelle epiche battaglie di cui narrava Erodoto, l’esito fu ben più prosastico: a Cunassa, alle porte quasi di Babilonia, nel settore del fronte in cui operavano i mercenari, essi ottennero la vittoria; ma ciò non determinò le sorti dello scontro. Ciro riuscì a ferire il fratello avventandoglisi contro al grido di «eccolo!» (tòn a¢ndra o™rø: I, 8,26), ma fu ucciso da un soldato nemico, ed i suoi si dispersero o si arresero. Il campo dei Greci fu saccheggiato; dopo di che le enormi masse che si erano affrontate nella piana mesopotamica furono risucchiate dall’immensità dello spazio circostante, e scomparvero dalla vista dei Greci. In uno straordinario racconto che ha un che di illusionistico, Senofonte raffigura la scena in cui, come d’incanto, il nemico non c’è più ed i mercenari greci, non riuscendo più a trovare né amici né avversari, non hanno del tutto chiaro se abbiano vinto o abbiano perso. Nelle piccole e accanite battaglie combattute fra Greci – qualche migliaio, talora qualche centinaio, di uomini da entrambe le parti – nulla del genere si era mai verificato. Non lieto presagio fu trovare il campo devastato (I, 10,18); dopo di che affamati ma persuasi (o quasi) di essere risultati vincitori, i mercenari trascorsero una notte di attesa. Qui finisce il primo libro dell’Anabasi, il diario in cui Senofonte narra l’odissea dei mercenari greci. Il secondo si apre nel segno della progressiva acquisizione di consapevolezza dell’esito della battaglia combattuta il giorno prima. Essa prende corpo attraverso successivi incontri: prima Procle, sa-

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

321

trapo amico, dal quale apprendono che Ciro è morto; poi i messi del vincitore. L’aspetto paradossale della situazione affiora quando i mercenari si mettono a discutere con il messo di Artaserse e di Tissaferne, Falino, greco di origine, se davvero abbiano perso e se si debbano arrendere (II, 1,7-23). Di questi poco arrendevoli interlocutori Tissaferne decide di liberarsi con l’inganno: col solito inganno, consistente nell’offrire trattative e catturare a tradimento i capi nemici (II, 5,32). Ma l’armata mercenaria non fu decapitata. Ed è qui, al principio del terzo libro, che entra in scena Senofonte, protagonista di una notte di incubi e di un drammatico consiglio di guerra di schietto sapore omerico (III, 1,4-47), al termine del quale nuovi capi vengono eletti dai contingenti e Senofonte stesso da privato giornalista assurge al rango di stratego ed intraprende la difficile ritirata, collegialmente diretta dai nuovi strateghi, al di sopra dei quali si colloca – anche se Senofonte non lo dice in modo chiaro – la suprema autorità dello spartano Chirisofo. Attraverso il deserto assolato della Mesopotamia, le montagne gelide dell’Armenia e del Caucaso, affrontando popoli più o meno ostili – dai Carduchi agli Armeni, agli Sciti, ai Colchi – ma sempre lontani dalle consuetudini dei Greci, i circa diecimila mercenari giungono alla costa del Mar Nero, raggiungono il mare (IV, 7,24). Alla fine del quarto libro questi avventurosi Greci, e Senofonte con loro – raggiunta Trapezunte nel paese dei Colchi – parrebbero giunti al termine delle loro peripezie, bisognosi unicamente delle navi per rientrare velocemente nelle rispettive città. E invece si apre qui una nuova e intricata vicenda, il cui racconto incomincia al principio del quinto libro, con una specie di proemio ‘intermedio’ tutto autobiografico (V, 3,7-13). A lungo i mercenari stazionano a Trapezunte in attesa di navi, che lo spartano Chirisofo si incarica di ottenere. In questa lunga attesa serpeggia lo scontento: ripetutamente si insinua che Senofonte voglia fondare una colonia (VI, 4,14) – e invero Senofonte dissemina nel racconto indizi che confermano questa diceria: ad esempio nel libro precedente, quando osserva che secondo lui «sarebbe stato bello aggiungere territorio e potenza all’Ellade fondando [nel Ponto] una polis» (V, 6,15). Solo una parte dei mercenari si imbarca; gli altri procedono lungo la costa del Mar Nero. Le successive tappe, che comportano scontri, difficoltà, saccheggi, improvvisate alleanze sono: Cerasunte, Kotyora, Sinope, la Paflagonia, Crisopoli, Bisanzio. Solo a Bisanzio i mercenari si sentono in paese greco (VII, 1,29): «È la pri-

322

La storiografia tra ricerca e politica

ma città greca da noi raggiunta» proclama Senofonte alle truppe. Ad Eraclea (VI, 2) la faticosa unità dell’armata non aveva più retto e le truppe si erano divise in tre corpi accrescendo le proprie difficoltà e rischiando di soccombere all’attacco delle popolazioni bitiniche e delle truppe di Farnabazo (VI, 4-5). A Bisanzio i mercenari, e Senofonte in particolare, vengono a trovarsi nel vivo di disaccordi tra i comandanti spartani; a questo punto si verifica un ulteriore diversivo, che ha dell’inverosimile: sotto la spinta di Senofonte i Greci, tranne gli uomini di Neone, subentrato nel comando a Chirisofo, accettano di arruolarsi agli ordini di un principe tracio, Seuthes, impegnato nel recupero del proprio regno, in lotta con altri banditi-pastori del suo genere (VII, 2). Seuthes è largo di promesse, offre festini ma stenta a pagare; alla fine, quando ha recuperato il suo regno, offre mandrie perché non ha denaro. Intanto allo scontento crescente delle truppe per questo barbarico trattamento si aggiunge una inattesa richiesta: Tibrone, comandante spartano destinato a combattere in Asia contro Farnabazo, fa giungere ai mercenari greci impelagati con le mandrie di Seuthes la proposta di arruolarsi con lui. Rapidamente Senofonte, pur non del tutto insensibile al fascino di Seuthes e del suo mondo, decide di assecondare i desideri dei suoi uomini. Dalla Tracia l’armata, alquanto malconcia e ridotta di numero, torna in Asia, ed a Pergamo passa agli ordini di Tibrone (VII, 8,24). Tutto questo racconto, nel corso del quale il peso di Senofonte – nel sapiente dosaggio narrativo – appare via via crescente, e brilla il suo spirito di indipendenza verso gli invadenti e dovunque dominanti Spartani, Senofonte lo ha diffuso con lo pseudonimo di Temistogene Siracusano (Elleniche, III, 1,2): nome che appariva già a Plutarco (Sulla gloria degli Ateniesi, 345E), ma certo già molto prima, appunto uno pseudonimo. Difficile stabilire con certezza il perché di questo trucco: forse perché si trattava del libro di un esule; ma forse anche per dare più forza all’efficacia apologetica del racconto. È infatti l’Anabasi la lunga, implicita, patriottica apologia di un condannato all’esilio, che ha trovato scampo, e cercato gloria, nella vita pericolosa del mercenario. Onde, alla fine, Senofonte si dà la parola addirittura su grandi temi storico-politici, quale il vasto affresco della guerra del Peloponneso (VII, 1,26-27), che certo assai poco avranno appassionato i suoi uomini, protesi alla soluzione di immediati ed empirici problemi di sussistenza.

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

323

5. Rientro in Grecia e fine Dall’arrivo a Sinope (VI, 1) il peso di Senofonte era venuto crescendo; a lui, prima che allo spartano Chirisofo, era stata fatta la proposta di diventare unico comandante (lo diverrà in Tracia, durante la campagna per Seuthes). E come «capo dei Cirèi» (Kureîoi, i mercenari arruolatisi con Ciro) egli ha consegnato i suoi uomini a Tibrone. In Asia, con l’esercito spartano e alleato è rimasto anche dopo: con Dercillida, quindi con Agesilao, impegnato in una finalmente vittoriosa campagna contro Tissaferne (396-394). E ad Agesilao si è legato in modo durevole: in lui ha trovato quel solido punto di riferimento che non aveva potuto trovare in Ciro. Con Agesilao è tornato in Grecia nel 394 quando il re è dovuto rientrare, a puntellare le posizioni spartane nella guerra corinzia mentre, a Cnido, Conone distruggeva la flotta di Sparta (la notizia giunse ad Agesilao sulla via del ritorno). Così Senofonte fu, a Coronea, col re spartano che combatteva contro gli Ateniesi. Di qui, e dalla notizia di Diogene Laerzio di una condanna di Senofonte «per laconismo» (Vite dei filosofi, II, 51), è sorta l’ipotesi moderna secondo cui l’essere stato a Coronea con gli Spartani avrebbe determinato la condanna all’esilio. Dal rientro in Grecia, dove Agesilao premiò il fedele amico e collaboratore col dono di una casa e di una tenuta a Scillunte, in Elide (ne parla lo stesso Senofonte nel «proemio intermedio» dell’Anabasi), il racconto della vita di Senofonte diventa il racconto di una vita privata. A noi noto dalla modesta e pedestre biografia di Diogene, che però ha il merito di risalire, per alcuni dati biografici, ad un’ottima fonte, quale il discorso dell’oratore Dinarco rivolto contro il nipote e omonimo di Senofonte. Per le notizie letterarie, Diogene dipende da Demetrio di Magnesia, dotto di età ciceroniana. Demetrio traeva dalle sue fonti la notizia che Senofonte «pur potendosi appropriare dei libri inediti di Tucidide, li pubblicò» (Diogene Laerzio, II, 57). Così sappiamo del nesso tra le due opere. Dinarco parlava di dettagli privati: i nomi dei figli e della moglie, i donativi di schiavi fattigli da amici spartani, la fuga da Scillunte, dopo la vittoria tebana del 371 a Leuttra ed il crollo del dominio spartano sul Peloponneso, il ritiro, con i figli e pochi servi, prima a Lepreo, quindi a Corinto (la città di Dinarco). Poiché i figli di Senofonte, nella battaglia di Mantinea (362 a.C.), erano nella cavalleria ateniese, se ne deduce che, nel frattempo, era stato revocato l’esilio inflitto al padre. Sul preciso momento della revoca si

324

La storiografia tra ricerca e politica

sono avanzate congetture fondate sul presupposto che Senofonte fosse stato condannato a seguito di una formale accusa di «laconismo» (magari per essere stato a Coronea con Agesilao) e che quindi occorra fissare il momento della revoca seguendo l’andamento dei rapporti spartano-ateniesi nei decenni che intercorrono tra Coronea e Mantinea. Ma non è criterio valido cercare i riflessi, nella vicenda di un singolo, della situazione politica generale, oltretutto così poco lineare e così diversa dalla schematica polarità del periodo della guerra peloponnesiaca. Revocato l’esilio, Senofonte non era più nella condizione di esule, ma non sembra che abbia ripreso dimora in Atene, o, per lo meno, la tradizione biografica lo raffigura nel Peloponneso fino alla morte. In ogni caso, in Atene era ormai onorato, come mostrano gli innumerevoli encomi per il figlio Grillo – morto a Mantinea (Eforo, Fr. 85 Jacoby) – composti «per compiacere il padre» (Aristotele, Fr. 68 Rose). Se l’esilio ventennale di cui si parla nel «secondo» proemio dell’opera tucididea è quello inflitto a Senofonte, avremmo in tal caso un preciso indizio cronologico: revoca dell’esilio nel 380/379. In quel «secondo» proemio, comunque, non si parla di rientro in Atene dopo l’esilio, ma solo di cessazione dello status di esiliato. Per quel che riguarda la data di morte, la tradizione biografica, mentre concordemente mostra di conoscere un Senofonte «vecchissimo», fornisce contrastanti e poco attendibili indicazioni, che oscillano tra il 360 (raddoppio dell’akmè, posta generalmente nell’anno di Cunassa) e il punto terminale delle Elleniche (362). Gli unici indizi validi sono, al solito, quelli interni: Senofonte mostra di conoscere Tisifono al potere a Fere (Elleniche, VI, 4,37), dunque il brano è successivo al 357. 6. Il «diario» di Senofonte L’opera di Senofonte è eminentemente diaristica. Si può dire anzi che il diario, l’annotazione immediata di cose viste e udite, sia la forma in cui il suo pensiero naturalmente si dispone. Ciò vale per l’opera storiografica, ma in parte anche per le opere su Socrate. Naturalmente il termine diario va inteso nel senso di una più o meno assidua annotazione condotta nel vivo degli avvenimenti, cui tiene dietro, anche parecchi anni dopo, una rielaborazione definitiva. È difficile immaginare diversamente come possa Senofonte aver registrato la massa minuziosa delle notizie quasi quotidiane intorno al-

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

325

la vicenda dei Diecimila, che riversa nell’Anabasi. Ed è proprio per questa sua natura di «Diario o Giornale» – osservò Leopardi – che l’Anabasi è punteggiata di notizie cronachistiche e dati numerici («procede giorno per giorno segnando le marce e contando le parasanghe») ed è per la stessa ragione che «l’opera si chiude con una lista effettiva, o somma dei giorni, spazi percorsi, nazioni, ecc., lista indipendente dal resto per la sintassi». Leopardi riteneva, come è giusto, autentiche quelle preziose notizie finali, che dall’Ottocento in poi si sogliono rigettare come aggiunte tardive, inautentiche. Il diario incominciato nell’Anabasi prosegue nelle Elleniche. Queste – nella loro forma definitiva – sono composte di tre parti: 1) il «Supplemento» a Tucidide (I-II, 3,10), che nella tradizione manoscritta reca talvolta ancora il vecchio titolo Paraleipòmena; 2) il resoconto sul governo dei Trenta o meglio il diario della cavalleria dei Trenta (II, 3,11-II, 4,43, cfr. p. 317); 3) il racconto delle vicende politiche e militari degli Stati greci a partire dalle campagne dei comandanti spartani inviati in Asia (III, 1,3-VII). Se si prescinde dal «Supplemento» a Tucidide, fatto di materiale tucidideo, tutto il resto è – come l’Anabasi – la trascrizione dell’esperienza diretta dell’osservatore. È il racconto di ciò che Senofonte ha visto nella straordinaria sua esperienza: come cavaliere sotto i Trenta, quindi con Ciro e nella ritirata attraverso l’Asia, la Tracia, e ancora l’Asia, quindi al servizio dei comandanti spartani e di Agesilao. La prima tappa è stata l’edizione delle carte tucididee finite in suo possesso. Poi vi è stata l’Anabasi, che nelle Elleniche è presupposta e sommariamente riassunta (III, 1,1-2), e arricchita della rivelazione che quel racconto era stato pubblicato con lo pseudonimo di Temistogene Siracusano. Tra l’inizio del III libro delle Elleniche e la conclusione dell’Anabasi vi è infatti una saldatura perfetta: in Elleniche, III, 1,6, Tibrone si aspetta l’arrivo dei «Cirèi» e perciò è soltanto col loro arrivo che incomincia la campagna contro Tissaferne. L’antefatto è nell’Anabasi, dove Tibrone offre ai «Cirèi» di arruolarsi con lui ed essi volentieri accettano (VII, 6,1). E così dei «Cirèi», delle memorabili parole del loro capo, del loro decisivo apporto alla campagna spartana, si continua a parlare ancora nel III delle Elleniche: come se davvero avesse senso, in una storia generale della politica greca, continuare a seguire la vicenda di questo gruppo di mercenari ormai integrati all’interno dell’esercito della grande potenza (Sparta) protagonista del racconto. Ha senso solo perché è uno di quei mercenari, Senofonte, che continua ad essere anche il narratore. Lassa è invece la sutura tra la fine del II e il III libro

326

La storiografia tra ricerca e politica

delle Elleniche: c’è qui anzi uno iato di vari anni (403-399). Esso è sommariamente colmato, in fine di libro, con poche frasi che si limitano a rievocare il massacro dei capi oligarchi catturati a tradimento, poche frasi che coprono il periodo 403-401, e, al principio del libro seguente, con un riassuntino dell’Anabasi che surroga il racconto degli anni 401-399. È chiaro dunque che ad un certo punto il diario della cavalleria dei Trenta è stato innestato – da Senofonte quando ha deciso di dar corpo ad una Storia greca – tra il «Supplemento» a Tucidide e una parte del «diario dei Diecimila»: quella parte che, riguardando la grande politica, non più semplicemente il solitario brigantaggio di quei disperati, poteva aspirare a presentarsi come parte di Elleniche. Ma, appunto, il diario della cavalleria dei Trenta terminava – com’era ovvio – con il ritiro dei residui oligarchi ad Eleusi: e infatti nulla, a parte l’agguato del 401, Senofonte ha da raccontare per i due anni seguenti. Ecco perché, senza sforzarsi di costruire un nuovo racconto, si è limitato a connettere le parti già composte.

E così il suo lungo diario si è venuto dislocando in due diverse opere. Ed ha dato vita ad un’opera composita, le Elleniche, le quali – nonostante la loro origine diaristica, il loro rispecchiare in modo immediato nulla più che il punto d’osservazione del loro autore, ciò che è appunto caratteristico di un diario, nonostante i vuoti che presentano ed il nessuno sforzo dell’autore per colmarli – hanno avuto la ventura di fondare un genere storiografico, le Elleniche appunto (cioè la storia degli Stati greci raccontata secondo la prospettiva dell’egemonia via via vigente), e di assurgerne addirittura a modello. Tutto era nato dall’edizione delle carte tucididee: cioè di un’opera che – per parte sua – era venuta crescendo su se stessa ed aveva via via perso il carattere originario di monografia su di una guerra per diventare, contro l’intenzione stessa dell’autore, quasi una storia generale. 7. I «Memorabili» Diario ed apologia del proprio operato sono, in Senofonte, strettamente legati: infatti il più completo ed esplicito diario – l’Anabasi – lo ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Temistogene perché avesse più efficacia la carica apologetica di cui quell’opera è impregnata. Apologia resa necessaria dall’ostilità con cui tutta la faccenda era stata accolta: al principio (quando Socrate aveva espresso perplessità), durante il suo svolgimento (per gli attriti, gli odî, le

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

327

invidie scoppiate durante la lunga marcia: l’arcade Sofeneto scrisse anche lui una sua Anabasi da cui Senofonte usciva alquanto male); ma soprattutto per la valutazione che autorevoli scrittori come Isocrate continuavano a dare, in opere di successo, intorno alle persone che in quella impresa asiatica dell’usurpatore Ciro subornato da Sparta si erano cacciate. Anche le Memorie Socratiche (Apomnemonèumata, in quattro libri, i cosiddetti Memorabili) hanno un obiettivo apologetico, non semplicemente quello, ovvio ed esplicito, di difendere Socrate dai capi d’accusa che ne determinarono la condanna e probabilmente anche da quelli messi insieme dal retore Policrate nella sua Accusa contro Socrate; ma quello, che si manifesta non appena il ragionamento prende corpo, di affermare l’innocenza di Socrate e del suo entourage in modo particolare rispetto alle due inquietanti figure di Alcibiade e di Crizia. L’accusatore (Policrate) era stato esplicito: «avendo frequentato Socrate, Crizia e Alcibiade avevano fatto molto male alla città» (I, 2,12). Questo era il punto delicato: era stata dunque quella una «scuola di tiranni»? Non era una questione accademica: specie per uno come Senofonte che quella «scuola» aveva frequentato e si era arruolato con Crizia, e che solo in virtù di un tempestivo autoesilio aveva evitato i rigori della democrazia restaurata. Perciò la difesa che egli svolge è cauta, né si limita alla «apologia» iniziale (I, 2,1248), ma prosegue attraverso vari dialoghi di argomento politico, buona parte dei quali si concentra a conclusione del I libro (ben tre dialoghi con Antifonte, il «cervello» del colpo di Stato del 411, come aveva rivelato Tucidide) e nel III libro (dialoghi con un anonimo ipparco, molto simili nel contenuto a ciò che scrive Senofonte nel suo Hipparchikòs; con Pericle il giovane, vittima di Teramene nel processo delle Arginuse; con Glaucone e con Carmide, che era stato uno dei «dieci del Pireo» sotto i Trenta). La linea che Senofonte vuol far emergere in questo apparentemente caotico libro di memorie socratiche, è innanzi tutto che il rapporto di Socrate con la politica era tutt’altro che immediato: al punto che presenta Antifonte, noto per il suo rifiuto della politica, mentre incita Socrate a fare politica in prima persona (I, 6,15). E quanto ad Alcibiade e Crizia, di loro viene precisato che si erano dati alla politica quando si erano ormai staccati da Socrate. «Se hanno fatto qualcosa di male alla città non li difenderò» (I, 2,13) concede: dopo di che procede ad una sistematica equiparazione dei due personaggi (le cui ambizioni ed i cui propositi volutamente identi-

328

La storiografia tra ricerca e politica

fica parlando dei due sempre al duale). Isolato il loro caso, recupera e assume come interlocutori positivi personaggi come Glaucone, congiunto di Crizia, e come Carmide, morto nella battaglia contro Trasibulo in cui trovò la morte anche Crizia (Elleniche, II, 4,19). Carmide viene addirittura incitato da Socrate a darsi alla politica: era un timido che si teneva lontano dalla tribuna e Socrate lo spinge ad affrontare il tumulto e l’assemblea popolare (III, 7). Viene così rivendicata la legittimità del milieu socratico in cui rientrano sia il giovane Pericle che i maggiori esponenti dei Trenta. Il libro è dunque dominato dal tema del rapporto di Socrate con la politica e coi politici, in particolare con quei politici scomodi che erano stati i Trenta e i loro amici. Dà anche dettagli che non abbiamo da altra fonte: che cioè i due incaricati dai Trenta di elaborare il nuovo ordinamento legislativo (nomothètai) erano stati Crizia e Caricle, e che una delle iniziative prese subito da questi nomoteti era stata di vietare «l’insegnamento dell’arte della parola» (I, 2,31). Senofonte legge questo provvedimento in funzione anti-socratica, e fa del disaccordo su questo provvedimento l’occasione di attrito tra Socrate e i Trenta5. A questo proposito è notevole che Senofonte, là dove vuol mettere in luce la distanza tra Socrate e Crizia giunto al potere, riconduca l’ostilità di Crizia verso Socrate ad una vicenda privata: alla critica apertamente rivolta da Socrate alle pubbliche smanie amorose di Crizia verso Eutidemo, un bel ragazzo di cui Crizia era preso. Socrate era stato sprezzante, gli aveva detto in pubblico, e presente lo stesso Eutidemo, «sembri un maiale che vuole strofinarsi contro qualche sasso» (I, 2,30). Crizia ne serbò rancore e manifestò questo rancore quando fu al potere. È una disinvolta spiegazione in termini di erotikà pathèmata di un evento in genere caricato di valore politico: alla maniera di Tucidide nella digressione sulle vere cause del tirannicidio di Armodio e di Aristogitone (VI, 54). Cruciale è infine il dialogo tra Crizia e Caricle da un lato, Socrate dall’altro: esso delimita in modo chiaro l’ambito del dissenso – non sui fini ma sui metodi – tra Socrate e i due nomothètai dei Trenta. E poiché, come è noto, non dei Trenta ma della democrazia restaurata Socrate è caduto vittima, il bilancio dei Memorabili è presto fatto: è una rivalutazione molto accorta dell’ambiente di coloro che in vario modo con l’esperienza dei Trenta si erano ‘contaminati’ ed un implicito ma non perciò meno chiaro atto d’accusa contro il nuovo regime, al quale peraltro lo stesso Senofonte doveva la sua vita randagia.

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

329

8. L’«Economico» Una delle accuse che Policrate aveva rivolto a Socrate era di aver esaltato il lavoro. Socrate trasceglieva i versi peggiori dai poeti – ad esempio il verso 311 delle Opere di Esiodo («Nessun lavoro è vergogna, l’inerzia invece è vergogna») – e così legittimava qualunque lavoro, anche un lavoro «turpe». Il tema del lavoro è svolto in uno dei passi chiave dei Memorabili, quello di Eracle al bivio (II, 1,2034), dove la polemica contro l’edonismo di Aristippo di Cirene prende le mosse appunto dal medesimo contesto esiodeo (Opere, 288). È notevole che Policrate, l’accusatore che si è fatto interprete del risentimento del democratico medio contro Socrate, abbia denunciato come insegnamento colpevole l’esaltazione indiscriminata del lavoro. Il lavoro, il mestiere manuale («banausico»), se è occupazione permanente da cui trarre da vivere, è – nella visione del democratico medio – una condanna indegna dei liberi, del demo dominatore dell’Assemblea e dei tribunali, aspirante alla paga statale: quel demo che i Trenta, nel loro progetto laconizzante, hanno cercato di sradicare e disperdere. Coerente con una visione ostile al demo urbano e insieme retrospettivamente critico rispetto al cardine della strategia imposta da Pericle durante la guerra – lasciar devastare le campagne anche a costo di esasperare i contadini e arroccarsi dentro le mura – è uno dei nuclei concettuali dell’Economico, l’altra maggiore opera socratica di Senofonte, là dove Socrate esalta il ceto dei contadini di contro a quello degli artigiani: «Abbiamo rigettato i cosiddetti mestieri artigiani (banausikàs tèchnas) – dice – perché è risultato che rovinano il corpo e indeboliscono l’animo. La prova più chiara di ciò è, come dicemmo, questa: se i nemici invadessero le campagne e noi ponessimo separatamente agli agricoltori e agli artigiani l’alternativa: correre a difendere le campagne ovvero, abbandonati i campi al loro destino, far la guardia alle mura – ebbene in tal caso quanti lavorano la terra deciderebbero, io credo, di correre a difendere le campagne; quanto agli artigiani, invece, preferirebbero non scendere in lotta, ma restare fermi, senza esporsi alle fatiche e ai pericoli, come vuole la loro educazione. Abbiamo pure stabilito che per l’uomo dabbene non c’è arte né lavoro superiore all’agricoltura, dalla quale si traggono i mezzi per vivere» (VI, 5-9).

330

La storiografia tra ricerca e politica

9. La «Costituzione degli Spartani» e la «Ciropedia» Senofonte assume realtà politiche concrete a sostegno della propria riflessione sul miglior ordinamento. Nell’opuscolo sulla Costituzione degli Spartani si tratta appunto di Sparta, il modello sempre vagheggiato dai critici della democrazia. Nella Ciropedia è lo Stato persiano alle sue origini: esso viene considerato dal punto di vista di alcune sue durevoli istituzioni, il sistema educativo in primo luogo, e inoltre visto attraverso l’intero svolgimento della vita di Ciro il Grande, il sovrano che in trent’anni di regno (559-529 a.C.) trasformò in impero etnicamente composito il regno originariamente limitato alla Perside. È una novità rilevante, se si considera che la riflessione politica platonica e, più tardi, quella aristotelica avranno pur sempre come teatro lo Stato-città. Che si tratti di un’unica riflessione che si sviluppa, è chiaro dalla intenzionale ripresa, al principio delle due opere, della medesima formula: «Ho pensato talvolta che Sparta, città tra le meno popolate, fu la più potente e la più rinomata in Grecia; e mi sono meravigliato di come ciò sia accaduto. Ma quando ho considerato gli ordinamenti spartani, non mi sono più stupito (Costituzione degli Spartani, 1,1); Ho pensato talvolta quanti regimi democratici sono stati abbattuti da chi preferiva qualunque altro regime piuttosto che la democrazia; e ancora quante monarchie e oligarchie sono state distrutte dalle fazioni popolari, e che, di quanti hanno tentato di farsi tiranni, alcuni furono fatti fuori immediatamente, altri invece – indipendentemente dalla durata del loro governo – sono stati ammirati come saggi e felici [...]. Considerando tutto questo mi ero convinto che un nato uomo su qualunque animale può governare fuorché su altri uomini. Ma quando ho riflettuto che c’era stato Ciro [...] fui costretto a ravvedermi ecc.» (Ciropedia, I, 1,1-3).

Perché Ciro? Nell’ambiente socratico non doveva essere una novità. Ben quattro trattati del socratico Antistene prendevano nome appunto da Ciro: Ciro o della regalità (Diogene Laerzio, VI, 16) doveva riguardare Ciro il Grande, il quale del resto già nei Persiani di Eschilo, dove l’ombra di Dario espone una specie di storia della Persia, appare come modello di aretè in opposizione alla hy`bris di Serse (Persiani, 768-772). Quanto a Senofonte, la sua esperienza del mondo persiano non era né mediata né libresca. Si era venuta for-

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

331

mando negli anni passati nel corpo di spedizione del giovane Ciro, poi – sempre in Asia – al seguito dei generali spartani e di Agesilao. E comunque nella non lunghissima memoria storica dei Greci, Ciro era il creatore di quella monarchia, la cui ingerenza era stata un filo conduttore nella storia delle libere poleis. Il tema centrale è quello dell’educazione dei governanti che in un passo della Ciropedia (I, 2,15) – su cui torneremo più oltre – viene senz’altro definita politèia, «ordinamento politico». Esso è il problema principale in una società dove il principio di uguaglianza fa sì che l’accesso alle cariche non venga affatto precluso agli a¬paídeutoi (coloro che sono privi di una adeguata formazione). È questa aporia il filo conduttore di tutta la riflessione sulla politica che si svolge in Atene tra il VI e il IV secolo: da Teognide, recitato nei simposi degli aristocratici, alla Costituzione degli Ateniesi, a Socrate, ai socratici tra i quali in primo luogo Platone e Senofonte. Naturalmente c’è una grande distanza tra chi addita la soluzione semplice e collaudata di ripristinare il predominio dei «bene educati nella musica e nella ginnastica» come vorrebbe il principale interlocutore della Costituzione degli Ateniesi (I,13) e coloro che, come Socrate, di questa vecchia soluzione non si appagano e pongono continuamente, a sé e agli altri, il quesito: che cosa si debba insegnare al politico. L’arte del parlare e convincere, come pensavano i sofisti? o la «virtù», come tendeva a rispondere Socrate, lasciando aperto l’ulteriore approfondimento di che cosa essa fosse? Per il Senofonte della Costituzione degli Spartani, essa è poco più che l’arte militare con tutte le connesse preparazioni fisiche e psicologiche da attuarsi appunto attraverso il modello educativo di Licurgo. Per il Platone della Repubblica essa si sustanzia nel governo dei filosofi contemplatori delle idee eterne, validamente assistiti dalla casta dei guerrieri educati in un modo che anche Senofonte avrebbe potuto sottoscrivere. Per il Senofonte della Ciropedia si tratta di tentare una sintesi – da realizzarsi sempre attraverso una serrata educazione di Stato – tra addestramento alla «giustizia» e alla «saggezza» (I, 2,6-8) e addestramento venatorio-militare (I, 2,10-14). Ecco perché in quasi tutte le sue opere Senofonte non fa che studiare l’arte di comandare: dall’Economico al libro sui compiti dell’ipparco (¿Ipparcikóv) all’Anabasi (dove, nella celebre galleria di ritratti di generali uccisi, alla fine del II libro, la loro valutazione è fatta in ragione delle loro capacità di comando), alla Ciropedia. Qui vi è come un punto di arrivo. È questa come una summa della riflessione di Senofonte nei vari campi (educazione, politica, mo-

332

La storiografia tra ricerca e politica

rale, arte militare, caccia, equitazione ecc.) che ha trattato separatamente nelle altre sue opere. In particolare nella Ciropedia si nota un divario e un approfondimento, pur tra le molte affinità di fondo, rispetto ai contenuti dell’educazione vagheggiati nell’opuscolo su Sparta. Di educazione statale, comunque, si doveva trattare: educazione programmata, diretta, controllata dallo Stato, in totale espropriazione della privatezza e negazione della individualistica paidèia familiare praticata in Atene. Nell’epitafio il Pericle tucidideo aveva proclamato appunto i vantaggi di questa individualistica varietà e i buoni risultati conseguiti anche in assenza di una possessiva, monocorde e totalizzante educazione di Stato: «La cura degli interessi privati – aveva detto Pericle in quel discorso – procede per noi di pari passo con l’attività politica, ed anche se ognuno è preso da preoccupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza della politica (tà politikà mæ e¬ndeøv gnønai)» (Tucidide, II, 40,2); e osservava poco prima: «ci disponiamo ad affrontare i pericoli vivendo in modo disteso (r™aqumíaı!) anziché nell’esercizio della fatica» (II, 39,4). Era il credo dell’Atene periclea che Tucidide aveva avuto il torto – agli occhi di Senofonte, nonché di Platone – di fare proprio. Nel Menesseno Platone farà una spietata ed abile parodia del celebre epitafio. Per Senofonte l’epitafio è il bersaglio polemico da cui prende l’avvio la Costituzione degli Spartani. Subito in principio, assolti i preliminari rituali, il Pericle tucidideo aveva detto «viviamo in un sistema politico che non imita gli usi e le leggi degli altri: noi non copiamo da nessuno, piuttosto siamo noi un modello per gli altri» (II, 37,1). Senofonte apre la Costituzione degli Spartani con la proclamazione dell’assoluta originalità delle leggi di Licurgo: «lungi dall’imitare le altre città, semmai sorretto da concezioni opposte a quelle dominanti altrove, Licurgo fece progredire Sparta nella felicità» (I, 2). Pericle aveva sprezzantemente alluso al costume spartano della «cacciata degli stranieri», delle xenelasìai (II, 39,1); Senofonte indica nelle xenelasìai l’istituzione che serba gli Spartani incontaminati da corruttrici influenze esterne (14,4). Pericle aveva esaltato la «rilassatezza» dell’educazione ateniese, aliena dal culto dell’esercizio snervante (II, 39,1); Senofonte indica appunto nella meléth pónwn, sapientemente graduata da Licurgo, la chiave della «virtù» spartana. E così alla celebre proclamazione di Pericle «amiamo il bello nella sobrietà e il piacere di filosofare senza languori» (II, 40,1), Senofonte (10,4) oppone che soltanto Sparta cura, in quanto potere pubblico (dhmosíaı), la armoniosa formazione dei cittadini (tæn kalokagaqían).

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

333

È qui il nodo della divergenza: «in quanto potere pubblico». «Invece di permettere che ciascuno, secondo il proprio estro (i¬díaı), affidi i propri figli a degli schiavi pedagoghi», Licurgo affidò questo compito ad un alto magistrato, il «prefetto dei fanciulli», il paidonòmos, il quale li governava secondo una rude ed egualitaria disciplina (2,2). Una tale educazione statale, negatrice dell’arbitrio individualistico vigente nelle altre città, è strettamente connessa, nel pensiero di Senofonte, al problema cruciale della politèia: la necessità cioè di prevenire la devianza, appunto attraverso la manipolazione delle coscienze curata dallo Stato in nome della virtù, piuttosto che essere costretti a posteriori a punire i reati che volta a volta i cittadini avranno commesso obbedendo agli impulsi di una educazione incontrollata. «In quasi tutte le città – scrive nel secondo capitolo della Ciropedia – ciascuno è lasciato libero di educare i propri figli come gli pare, di modo che, da adulti, essi vivono a loro piacimento; solo a educazione ormai avvenuta li pongono dinanzi ai divieti: non rubare, non saccheggiare, non entrare a forza in casa altrui, non battere chicchessia ingiustamente, non commettere adulterio, non disobbedire ai magistrati e così via. E prevedono pene per coloro che commettono una di queste trasgressioni» (I, 2,2).

L’educazione deve avere invece una efficacia preventiva. Perciò prosegue: «Le leggi vigenti in Persia, invece, si propongono – con azione preventiva – di impedire che sin dall’origine i cittadini siano capaci di desiderare di compiere ciò che è male o ciò che è turpe». E qui illustra il sistema educativo persiano fondato sulla suddivisione in quattro classi di età, dai fanciulli agli anziani, ciascuna sottoposta a specifiche terapie etiche e ginniche. Simbolo di questo sistema è la «piazza della libertà», posta di fronte alla reggia (I, 2,3), dove alle quattro classi è riservata la quarta parte della piazza. Si comprende come esperimenti siffatti di educazione alla virtù abbiano acceso la fantasia dei giacobini francesi ed europei instancabili costruttori di «alberi della libertà» nelle piazze d’Europa. Ciascuna classe è sottoposta alla disciplina etico-militare di pedagoghi di Stato, cui spetta di decidere se ciascuno abbia il diritto di passare alla vita comunitaria inerente alla classe seguente o invece debba essere scartato. È un ordinamento analogo a quello di Licurgo descritto nella Costituzione degli Spartani, con in più la novità che la prima formazione è tutta rivolta all’apprendimento del-

334

La storiografia tra ricerca e politica

la «giustizia»: «i fanciulli nelle scuole primarie trascorrono il tempo imparando la giustizia come da noi i rudimenti dell’alfabeto» (I, 2,6). Si tratta di un complicato sistema para-giudiziario, nel quale i fanciulli vengono calati, intessuto di continui ‘processi’ celebrati dai loro pedagoghi col fine di perseguire tutto ciò che è contrario alla giustizia: furto (che invece a Sparta era quasi esaltato se compiuto con bravura al fine della sopravvivenza fisica), maldicenza, violenza e soprattutto l’ingratitudine. Una delle novità della perfetta educazione persiana è appunto che colpa estrema è considerata il non serbare né manifestare gratitudine: «quando i pedagoghi si rendono conto – governando questa comunità di fanciulli – che qualcuno pur potendo manifestare la propria gratitudine non l’ha fatto, lo puniscono duramente» (I, 2,7). Per il resto la società persiana descritta nel primo libro della Ciropedia è analoga a quella spartana voluta da Licurgo: sia perché coinvolge una minoranza (i Persiani appunto che Senofonte calcola in numero di 120.000 al tempo suo: Ciropedia, I, 2,15) dominante su una vasta congerie di popoli cui non è esteso il beneficio dell’ordinamento vigente tra i dominatori; sia per l’importanza attribuita alla caccia, «l’esercizio più autenticamente assimilabile alla guerra» (I, 2,10), sia per il meccanismo di passaggio da una classe d’età all’altra, sia per il ruolo direttivo degli «anziani» (la gerusìa spartana), i quali hanno poteri giudiziari e politici, sia nella pretesa di «uguaglianza», contraddetta però da una crescente diversificazione per censo. Come infatti tra gli Spartiati vi sono i più ricchi e i meno ricchi – e questi ultimi ordiscono congiure contro i più fortunati (Elleniche, III, 3,5-11) – così in Persia solo i rampolli di coloro che possono permettersi di non mandare i propri figli ad esercitare un mestiere (I, 2,15) percorrono la gratificante e formativa trafila che ne farà degli anziani perfetti governanti. Senofonte accenna a questo aspetto della realtà persiana solo di passata, ma ciò basta a far capire i limiti entro cui l’«uguaglianza» vige davvero. Quell’uguaglianza che Otanes voleva ripristinare alla morte di Cambise (521 a.C.), e che «gli altri Greci» – diceva Erodoto (III, 80) – non hanno capito in cosa potesse consistere. Era stato invece, quello di Otanes, un tentativo di ripristinare, beninteso nell’ambito dei soli Persiani, popolo ormai dominante su di un immenso impero, quell’ i¢son e¢cein (Ciropedia, I, 3,18) che li aveva caratterizzati nella fase ascendente della loro potenza (cfr. p. 281). Otanes combatteva frontalmente soprattutto il potere monarchi-

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

335

co: ne dimostrava l’aberrazione alla luce di ciò che era stato il regno di Cambise, designato successore da Ciro nella scena conclusiva della Ciropedia. Era dunque bastato il breve e aberrante regno del secondo sovrano per gettare un’ombra su tutta la costruzione: la proposta di Otanes ed il dibattito stesso in cui essa ha luogo sono un segno di come quella costruzione, facente perno intorno al potere monarchico della famiglia affermatasi come egemone nell’ambito dell’aristocrazia persiana, non fosse ancora sentita come definitiva e indiscutibile da una parte di quella aristocrazia di «uguali». Nella visione di Senofonte, invece, la figura carismatica di Ciro è il fattore principale nell’ambito del «buon ordinamento»: e la stessa educazione virtuosa austera ed egualitaria che descrive ha importanza e merita apprezzamento in quanto produce figure come quella di Ciro il Grande. È Ciro con il suo potere carismatico (I, 1,4: «otteneva obbedienza anche da chi non lo aveva mai visto e da chi sapeva che non lo avrebbe mai visto!») l’epicentro di tutta la costruzione, il personaggio che permette a Senofonte di dare una risposta positiva al quesito posto in apertura: se davvero sia possibile governare sugli esseri umani, per loro natura indocili e ostili al potere. «Ma quando ho pensato che c’era stato Ciro, persiano, il quale aveva avuto obbedienti a sé infiniti uomini, e città, e popoli, allora fui costretto a ravvedermi e capii che non è tra le cose impossibili e ardue governare gli uomini, per chi lo faccia conoscendo l’arte di governare» (I, 1,3). Il modello statale che dunque Senofonte propone, con la Ciropedia, è dato dalla coppia sovrano carismatico-homòtimoi: una società di tipo laconico guidata da una aristocrazia di uguali dai quali è espresso un sovrano che sintetizza in sé i valori di quella aristocrazia e ne è il prodotto migliore. La novità rispetto al caso spartano non è tanto nella prevalenza della figura del sovrano: anche nella Sparta del suo tempo è decisiva, per Senofonte, la figura di Agesilao, sovrano che spicca ben al di sopra degli altri «uguali». La novità è nella estensione di quel modello ad un grande impero. È il modello cui si sforzerà di conformarsi Alessandro Magno; esso prenderà corpo nei regni ellenistici, e, per questo tramite, sarà fonte di ispirazione del principato romano, anch’esso fondato sul difficile equilibrio per cui una famiglia ‘carismatica’ domina – col consenso dell’aristocrazia – un impero plurinazionale. Il grande impero recava in sé i germi della decadenza? Quando, alla fine del settimo libro, Ciro conquista Babilonia, invita i suoi a praticare la vecchia educazione persiana (VII, 5) ed impone ai suoi

336

La storiografia tra ricerca e politica

funzionari se stesso come modello (VIII, 1). E lungo tutto il suo racconto, esplicitamente didattico soprattutto nel I libro, Senofonte insistentemente segnala che «ancora adesso» vige in Persia quella politèia (I, 2,15). Eppure, nell’ultimo capitolo, Senofonte tratteggia la irreparabile decadenza di quel sistema di valori che aveva fatto la grandezza del regno persiano: «Subito dopo la morte di Ciro, i suoi figli furono in lotta tra loro; e subito città e nazioni si ribellarono e cominciò una generale decadenza» (VIII, 8,2). E come esempio adduce l’esperienza dei generali greci fatti uccidere da Tissaferne, che aveva raccontato nell’Anabasi: prova di come ormai i Persiani non mantengano più la fede alla parola data. Ma, appunto, la decadenza è generale, e colpisce, tra l’altro, proprio quell’organizzazione educativa (VIII, 8,13) che invece nei libri precedenti era indicata come vigente. E lo era, ciò che colpisce non meno, per Senofonte, ancora nel I libro dell’Anabasi (I, 9,3). È intervenuto dunque un ripensamento radicale. Il capitolo finale toglie valore all’intera costruzione precedente. Allo stesso modo, nella Costituzione degli Spartani, il penultimo capitolo inopinatamente avverte che la ammirevole paidèia di Licurgo si è corrotta: «Se uno mi chiedesse se a me pare che le leggi di Licurgo siano rimaste immutate, non avrei proprio il coraggio di dire di sì. So bene, ad esempio, che un tempo la scelta degli Spartani era di restare in patria con modeste pretese, facendo soprattutto vita collettiva, piuttosto che essere armosti6 in altre città e corrompersi in preda all’altrui adulazione. Un tempo, lo so, sembrava quasi che avessero il terrore di possedere l’oro: adesso alcuni addirittura si vantano di possederlo. So che un tempo si procedeva alle ‘cacciate degli stranieri’ e non era consentito soggiornare all’estero: proprio perché non si voleva che, a contatto con gli stranieri, i cittadini diventassero dei malfattori; ora è noto che sono proprio i cittadini più in vista che fanno di tutto per essere continuamente armosti all’estero. C’era un tempo in cui il loro fine principale era di essere stimati degni; ora si danno da fare soprattutto per ottenere il comando, non per esserne degni. E perciò un tempo i Greci andavano a Sparta per chiedere di guidarli nella lotta contro coloro che apparivano gli oppressori; mentre ora, invece, molti cercano di coalizzarsi per impedire che siano gli Spartani i nuovi dominatori. E dunque non c’è da stupirsi degli attacchi che vengono loro rivolti, dal momento che, chiaramente, essi non obbediscono né al dio, né alle leggi di Licurgo» (Costituzione degli Spartani, 14).

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

337

Con la Ciropedia così come con la Costituzione degli Spartani Senofonte intendeva proporre dei modelli di perfetto ordinamento. Nella sostanza è sempre il medesimo modello, più o meno idealizzato, nel caso della Ciropedia visto nel suo inveramento in uno Stato di grandi proporzioni. Nell’opuscolo su Sparta ad un certo punto osservava che «tutti la esaltano, ma nessuna città vuole imitarla» (10,8). Tanto più perciò è significativa la sconfessione. Quanto al mondo persiano, Senofonte ne ha fatto diretta esperienza nei sette cruciali anni della sua vita (401-394 a.C.). È probabile che con l’ultimo e imprevedibile capitolo della Ciropedia, egli abbia voluto prendere le distanze da tale modello, così approfonditamente studiato ed esaltato nell’opera sua maggiore, in concomitanza con l’acutizzarsi della ventata anti-persiana in Atene (appelli di Isocrate, disgusto per i crimini di Artaserse III Ochos salito al potere nel 358 a.C.). Senofonte deve aver ritenuto utile uniformarsi a questo clima. Inoltre ha probabilmente intuito l’imminente crisi dell’impero achemenide – ciò che sfuggirà fino all’ultimo ad un Demostene il quale in Persia non c’era mai stato e che considerava la Persia un dato ‘eterno’, immutabile, della politica greca. 10. I «Pòroi» Lungo la linea di ricerca del miglior ordinamento si collocano i Pòroi. All’indomani della guerra sociale (357-355 a.C.) e del fallimento della seconda lega delio-attica, ma con la mente rivolta al fallimento della prima, Senofonte prende le mosse dalla usuale giustificazione della politica imperialistica democratica («a causa della povertà delle masse erano stati costretti ad essere ingiusti con la città») per proporre un progetto economico-politico che consenta all’Attica di sopravvivere autarchicamente, senza impero, ed alimentandosi soltanto «dalla propria terra, donde è più giusto». I Pòroi (le Risorse dello Stato ateniese) sono la vera Athenàion Politèia di Senofonte: e qua e là nello stile e nelle acute osservazioni geopolitiche sembrano riecheggiare l’Athenàion Politèia (forse di Crizia) tramandata nel corpus senofonteo. Qual è il disegno che Senofonte ha concepito per attuare il programma autarchico di «nutrirsi della propria terra»? Quello di puntare non già sull’agricoltura, pur redditizia a causa del clima mite, ma sulla più preziosa risorsa del suolo attico, i suoi «frutti eterni», come si esprime: sul

338

La storiografia tra ricerca e politica

marmo, ricercatissimo all’estero (1,4), e soprattutto sulle miniere d’argento. Senofonte sa che i paesi si dividono in produttori di grano e produttori di metalli, e che le grandi chances dell’Attica consistono appunto nei suoi metalli, laddove per il grano essa sarà sempre dipendente dalle potenze che dominano gli stretti e dall’Egitto. Ragion per cui già nei Memorabili Socrate spiegava a Glaucone, il fratello di Platone smanioso di darsi alla politica, che un buon politico deve conoscere direttamente le miniere (III, 6,12). Con un massiccio acquisto di schiavi pubblici ed il massimo sfruttamento delle miniere ad opera dello Stato – è questa la proposta di Senofonte – il bilancio sarà risanato, Atene potrà vivere senza vessare alleati o sudditi; non sarà forse l’incarnazione dell’eunomìa (intanto – come sappiamo – si sta incrinando ai suoi occhi anche l’eunomìa spartana), ma la sua trasformazione dimostrerà che anche un brutto regime si può migliorare. L’approdo è opposto a quello di Crizia, che molti decenni prima aveva descritto la democrazia ateniese come un regime immodificabile, non passibile di miglioramenti parziali, perfetto nella sua negatività (Ath. Pol., 3,8-9). Grandi masse di «schiavi di Stato», autarchia, sfruttamento del suolo, progressiva eliminazione delle masse immiserite vera dinamite sociale delle città greche: siamo dunque coi Pòroi di fronte ad un ulteriore adattamento del modello «laconico», non più utilizzato come eunomìa ideale ma calato nella concreta situazione economica, geografica, culturale di Atene. Siamo così giunti al termine della parabola senofontea, ben lontani dalla astrattezza ideologica votata al fallimento, con cui i Trenta avevano tentato di imporre quel modello ad una realtà aliena. Ora, invece, alla metà del IV secolo, il saggio Eubulo seguirà in Atene una politica economica molto vicina al modello tratteggiato da Senofonte in questo ultimo suo scritto. 11. Senofonte e Atene Il duro bilancio negativo con cui Senofonte conclude la Costituzione degli Spartani non può essere destinato ad un pubblico spartano. D’altronde parrebbe poco probabile immaginare un’intera produzione letteraria in attico, come quella di Senofonte, destinata ad un ambiente parlante dorico. Parla di Sparta rivolgendosi ad altri. La dura critica al sempre più chiaro abbandono del costume spartano avito ha come destinatario l’unico pubblico che Senofon-

XVIII. Senofonte: un cavaliere nella guerra civile

339

te può aver avuto di mira: quello ateniese. E invero con le sue molteplici opere – ricordi socratici, opere storiografiche, trattati tecnici – Senofonte, come il suo coetaneo Isocrate, ha inteso intervenire nella politica e presso l’opinione pubblica della sua città. È infondato lo stupore di quei moderni, secondo cui Senofonte, in vecchiaia, si sarebbe ricordato di destinare alla sua città i suoi pensieri di riformatore. Tutta la sua opera è destinata ad Atene, come del resto quella per certi versi analoga di Isocrate: sia che tratti di storia ateniese (Panatenaico) sia che parli di Archidamo o di Evagora. È il nuovo strumento del discorso «scritto» nella sua più varia accezione, che si afferma attraverso l’opera di questi due «esuli» (Isocrate è un «esule interno» che si astiene dalla tribuna). Ad Atene sono destinate anche opere quali l’Agesilao, la Costituzione degli Spartani, e ovviamente l’Anabasi, le Elleniche, i Memorabili, e persino Ierone (cfr. p. 107) e la Ciropedia, che sembrano proporsi di assuefare la mentalità ateniese, così risentita su questo punto, all’emergere e affermarsi di altre forme di regalità. Con la diffusione del discorso «scritto» e lo svuotamento della tribuna i politici e i ‘pedagoghi sociali’ ateniesi – vicini o lontani, esuli avventurosi o cittadini umbratili, chiusi in una scuola filosofica o erranti presso sovrani vicini – scrivono ormai liberamente senza più ricorrere ai filtri, ai luoghi comuni, alle autocensure dell’oratoria assembleare. Isocrate, Senofonte ed il nipote di Crizia, Platone, di poco più giovane di loro, si rivolgono, ciascuno a suo modo, agli stessi destinatarî non senza reciproche polemiche: come quando Isocrate definisce i «Cirèi» dei falliti senza patria (Panegirico, 146) e Senofonte gli replica nell’Anabasi (VI, 4,7); o quando Platone nelle Leggi ridicolizza la Ciropedia di Senofonte, dicendo che Ciro non aveva avuto la benché minima paidèia (694C) e Senofonte gli risponde, su altro terreno, che Socrate non aveva mai discettato di fisica o di musica (Memorabili, I, 1,11). Polemiche e allusioni che confermano l’omogeneità del destinatario cui i tre ‘socratici’ si rivolgono. E parlano sempre dello stesso tema: della forma migliore di ordinamento politico. Perché si rivolgono ad una città – Atene – che, pur avendo mostrato in molti campi il massimo di vitalità e dinamismo, è stata portata al disastro militare dal regime democratico ed al massacro civile dal dominio oligarchico: una solida ragione dunque per considerare insoddisfacente la soluzione di restaurare «il vecchio ordinamento» e sempre attuale l’arduo problema del «miglior ordinamento».

340

La storiografia tra ricerca e politica

È nei Pòroi, dunque, il compimento dell’itinerario mentale e politico del cavaliere Senofonte: un uomo d’azione fattosi scrittore per inopinate circostanze, il quale ha vissuto, come il suo coetaneo e non amato compagno di demo Isocrate, l’intera parabola della grandezza e decadenza di Atene. Egli era stato educato, le sue amicizie lo avevano portato ad amare Sparta come un modello alternativo all’‘inverecondo’ sistema politico democratico. Compromessosi nella guerra civile, fattosi soldato di ventura, alla fine egli si era trapiantato a Sparta – unico a fare davvero una tale scelta tra gli oligarchici sognatori di Sparta di cui Atene pullulava (Alcibiade, anche lui esiliato, non vi si era mai radicato): e qui gli era toccato di vedere incrinarsi il suo mito, mentre Atene, la città democratica, replicava i suoi disastrosi fasti imperial-democratici con la seconda lega marittima. È dinanzi a questa duplice evoluzione ed alle dure lezioni dell’esperienza che, giunto al termine della sua vita, Senofonte ha immaginato una forma di ordinamento sociale che fosse in qualche modo una sintesi dei due modelli tra i quali si era consumata la sua tormentata vicenda di politikòn zòon. Ma il suo orizzonte non è rimasto angustamente cittadino. Come soldato di ventura pronto a cambiar patria e capace di radicarsi in paesi lontanissimi dalla sua polis, come ammiratore di monarchi e idealizzatore di una grande unità statale come la Persia, ed anche come versatile poligrafo che riversa in tante e diverse opere essenzialmente il suo diario, Senofonte è – assai più di tanti suoi contemporanei – un moderno personaggio proto-ellenistico. Note 1 Teramene glielo ricorderà quando tra i due cominceranno gli attriti: «anche tu ed anch’io abbiamo parlato ed agito tante volte per compiacere la città» (Elleniche, II, 3,15). 2 In particolare Crizia era autore di Costituzioni degli Spartani, degli Ateniesi, dei Tessali, sia in versi che in prosa. 3 Perché questa operazione provochi baccano lo spiega nell’Arte equestre (5,1). 4 E forse uno stravolgimento di ciò fu all’origine della voce secondo cui ad Eleusi «arruolavano mercenari». 5 Trascura l’episodio di Leone di Salamina enfatizzato da Platone nella sua Apologia di Socrate (cfr. p. 482). 6 ‘Governatore’ imposto dagli Spartani alle città suddite.

XIX CRIZIA E LA ‘LACONIZZAZIONE’ DELL’ATTICA 1. Il cliché del ‘genio del male’ Figura dominante nella memoria inorridita che Atene ha serbato dell’esperienza dei Trenta, imposti da Lisandro trionfatore nel 404, Crizia è come il simbolo di una sorta di anima negativa della città che, con la fine dei Trenta, si volle espulsa per sempre. Uniche voci dissonanti in tale coro di generale condanna, quella di Platone, che di Crizia era nipote, e quella di Aristotele, che nella Costituzione di Atene riesce a parlare, a lungo, dei Trenta senza mai nominare Crizia, che di quel governo fu l’animatore. È notevole che un altro socratico, Senofonte, che di Crizia fu seguace in quello sciagurato governo, sia stato poi il narratore – tutt’altro che neutrale – di quella vicenda. Accanto alla sublimazione di Crizia come genio del male vi è dunque una linea socratica molto più sfumata nel giudizio: anche perché i nuovi reggitori democratici, che avevano combattuto Crizia, avevano, poco dopo, mandato a morte Socrate, accusandolo, tra l’altro, di aver allevato Crizia. Così Platone, nell’autobiografica Settima lettera, finisce col porre sullo stesso piano il governo di Crizia e quello di Trasibulo. Né riesce a parlare del governo dei Trenta senza ricordare il grande discredito in cui era ormai caduta la tradizionale democrazia in Atene, quando essi si affermarono (324C-325B). 2. Crizia prima dei Trenta: il 411 Crizia discendeva da una delle più nobili e ricche famiglie dell’aristocrazia ateniese. Suo padre Callescro fu – secondo Lisia – nel

342

La storiografia tra ricerca e politica

411 a.C. uno dei più influenti componenti del governo oligarchico dei Quattrocento (Contro Eratostene, 66); l’avo di Callescro, che si chiamava anche lui Crizia, era stato in stretto rapporto con Solone. A questa dinastia erano collegati anche Carmide, che fu tra i Trenta, e – come si è detto – Platone, che coi Trenta fece le sue prime esperienze politiche. Crizia era cugino del padre di Andocide, rampollo della famiglia che pretendeva di essere la più antica dell’Attica. Non ci sono ragioni per non credere alla testimonianza del discorso Contro Teocrine (confluito nella raccolta demostenica), secondo cui non solo Callescro ma anche Crizia – il quale nel 411 aveva quasi cinquant’anni – era coinvolto nel governo dei Quattrocento. L’anonimo oratore fornisce anche un dettaglio: che Crizia aveva il compito di «ricevere» l’improvviso sbarco spartano ad Eezioneia, sbarco che non ebbe più luogo perché il regime dei Quattrocento cadde, travolto dai rovinosi rovesci militari. Già in questa precisa testimonianza è racchiusa un’immagine radicale di Crizia: il tentativo di far sbarcare a sorpresa gli Spartani fu infatti il gesto estremo della fazione più oltranzista, sconfessata da altri esponenti dello stesso regime, come ad esempio Teramene, i quali, dissociandosi da quel gesto, poterono sopravvivere politicamente alla caduta dei Quattrocento. L’addebito a Crizia di essere stato, allora, esponente della fazione oltranzista può essere nella tradizione successiva l’effetto della demonizzazione di cui Crizia fu oggetto dopo la fine dei Trenta. Non va dimenticato però che proprio Crizia dev’essere stato il promotore, nel 404, del provvedimento che colpiva «coloro che a suo tempo avevano contribuito ad abbattere il muro di Eezioneia o comunque avevano agito contro i Quattrocento» (Aristotele, Costituzione di Atene, 37,1). Non pochi esponenti del governo dei Trenta, a cominciare da Teramene, erano già stati tra i Quattrocento: anche Crizia dovette partecipare ad entrambe le oligarchie. 3. Il governo di Crizia Ma a rigore quello del 411 non era stato il suo esordio politico. Già nel 415 Crizia si era trovato tra gli accusati di aver mutilato le erme, su denuncia di un cugino di Alcibiade. Lo stesso Alcibiade, com’è noto, fu coinvolto nello scandalo. Giovani o quasi giovani dell’alta società, frequentatori di Socrate, ma per nulla intenzionati a li-

XIX. Crizia e la ‘laconizzazione’ dell’Attica

343

mitarsi a discettare sulla politica, sì piuttosto a farla, e animati dalla più grande ambizione, Crizia e Alcibiade esordiscono, in certo senso, insieme, accusati dello stesso sacrilegio. Le loro vite continueranno a lambirsi nei momenti cruciali: nel 411, quando alcuni promotori del colpo di Stato sollecitavano un’intesa con Alcibiade, ritenuto un potenziale alleato, dal momento che dai democratici era stato costretto all’esilio; alla caduta dell’oligarchia, quando Crizia, postosi – è da presumere – al seguito di Teramene e perciò sopravvissuto alla sconfitta del regime, di intesa con Teramene (suffragante Theramene dice Cornelio Nepote, Vita di Alcibiade, 5, 4) propose un decreto per il richiamo di Alcibiade, che rimase inoperante. Crizia non poté restare a lungo in Atene, dopo la piena restaurazione democratica. Fu probabilmente Cleofonte, l’ultimo capo della democrazia radicale del tempo di guerra, a farlo scacciare da Atene (così va inteso un cenno di Aristotele, Retorica, 1375b32): comunque al tempo del processo contro gli strateghi vincitori alle Arginuse, Crizia era già esiliato in Tessaglia (Senofonte, Elleniche, II, 3,36). A quel tempo anche Alcibiade si era allontanato una seconda e definitiva volta da Atene, indigesto pur sempre per la democrazia che, pure, nel 411 si era rifiutato di contribuire ad abbattere. Quando infine, nella primavera del 404, Crizia tornerà in Atene, sulla scia della vittoria spartana, sarà lui a chiedere insistentemente a Lisandro la liquidazione fisica di Alcibiade, vivo il quale – a suo dire – l’oligarchia sarebbe stata comunque in pericolo (Plutarco, Alcibiade, 38,5). Pochi mesi più tardi Crizia stesso e Carmide morirono nello scontro a Munichia con gli uomini di Trasibulo, promotore, con l’aiuto tebano, di quella riscossa democratica che probabilmente Alcibiade non sarebbe più stato capace di provocare. Il regime da lui creato durò ancora nove mesi. Queste due vite partono da un medesimo ambiente, da uno stesso ceto, e potrebbero in un certo periodo apparire intercambiabili: eppure c’è qualcosa che le incanala verso scelte diverse. C’è qualcosa che porta Alcibiade a non ritornare in Atene sull’onda del complotto oligarchico, né col decreto di Crizia e Teramene, e che alla fine ne farà agli occhi di Crizia e di Lisandro il simbolo di una possibile riscossa democratica, lui isolato e da tempo messo da parte dagli stessi democratici. Questo qualcosa è la scelta di Alcibiade, della sua famiglia, sin dai tempi di Clistene e poi di Pericle, e di numerose altre famiglie nobili di Atene, di stringere un patto non scritto col demo, di accettazione del regime democratico. Così gli approdi oppo-

344

La storiografia tra ricerca e politica

sti, e alla fine contrapposti, dei due più rilevanti «puledri» della scuderia socratica, rappresentano con straordinaria chiarezza il dato centrale della storia politica di Atene: lo scontro nell’ambito stesso dell’aristocrazia e delle classi possidenti tra la democrazia ed i suoi avversari, in coerenza con l’atto di nascita del sistema e cioè con l’operazione con cui Clistene – come si esprime Erodoto (V, 66) – «aveva fatto entrare il demo nella sua eteria». L’unicum della democrazia ateniese è rappresentato appunto da questa scelta che una parte non piccola dei ceti nobili e possidenti compie in direzione della democrazia politica e dal conseguente ‘patto’ col demo. Per un reciproco vantaggio, beninteso: dal momento che imperialismo democratico, politica estera aggressiva e di sfruttamento degli alleati, dinamismo economico legato alla valorizzazione dei meteci ben si accordano con gli interessi economici del «popolo sovrano» non meno che dei ceti possidenti che si adattano al sistema. Ciò spiega perché Crizia ed i suoi, giunti al potere e liberatisi di Teramene, abbiano per un verso infierito sui possidenti1 (tanto che il cliché sopravvissuto nella tradizione attica rappresenta il governo dei Trenta essenzialmente come una proscrizione sistematica ed un massacro dei ricchi), e per l’altro abbiano consapevolmente provocato l’espulsione del demo, o di una sua gran parte, dalla città nell’illusione di spopolare l’Attica, e, ridotto il demo in uno status da perieci, instaurare un regime agricolo-pastorale di tipo laconico. E infatti Socrate, nel dialogo che ha con Crizia da poco giunto al potere, al principio dei Memorabili di Senofonte, lo definisce un pastore che ha deciso di decimare il suo gregge. E Flavio Filostrato (II sec. d.C.) nella Vita di Crizia così descrive il suo progetto: «collaborò con gli Spartani in un piano incredibile, in base al quale l’Attica, svuotata dal gregge umano, veniva adibita al pascolo per gli ovini» (Vite dei sofisti, I, 16). Il bersaglio dei Trenta è dunque duplice: eliminare fisicamente quei «signori» che avevano consentito alla democrazia di funzionare, fornendole le proprie capacità di governo (e l’arte della parola); espellere dalla città il demo nell’illusione di mutare alle basi la struttura economica dell’Attica. In una parola, «laconizzare» l’Attica. È questo il disegno di Crizia, intorno al cui perseguimento si svolge non solo la sua non breve azione politica ma anche, e non meno, la sua riflessione politica quale emerge da un’ampia e rilevante opera letteraria. Essa è conservata in modo frammentario (la raccolta dei frammenti è nel Diels-Kranz, nr. 88). Di un gruppo di sue tragedie sappiamo che circolarono comprese nella raccolta eu-

XIX. Crizia e la ‘laconizzazione’ dell’Attica

345

ripidea: è probabile che un fenomeno del genere sia effetto della damnatio memoriae postumamente inflittagli, che deve comunque aver influito sulla circolazione e conservazione delle sue opere. 4. Le «Politèiai» Innanzitutto vi sono le Costituzioni (Politeîai) in prosa: degli Spartani, degli Ateniesi, dei Tessali. Che scrivesse anche Politèiai in versi (Politeîai e¢mmetroi) è notizia che ricaviamo da un cenno di Giovanni Filopono nel commento al trattato di Aristotele Sull’anima; e si può pensare che i circa trenta versi che Ateneo (432D) cita come tratti dalle sue Elegie, e che riguardano i costumi simposiaci degli Spartani, derivino appunto da una Costituzione degli Spartani in distici elegiaci. Come mai Crizia abbia voluto trattare la stessa materia in elegie ed in prosa è difficile spiegare in modo soddisfacente. È molto probabile comunque che le Elegie di argomento politico fossero destinate alla recitazione simposiaca: un modello era Teognide. Era dunque un modo di ricollegarsi alla antica prassi aristocratica. Quanto alle Costituzioni in prosa esse consentono una considerazione più approfondita se, come è probabile, tra di esse va inclusa anche la Costituzione degli Ateniesi tramandata tra le opere di Senofonte. Prima però va chiarito in che senso deve intendersi il termine politèia, dovuto probabilmente allo stesso autore. Non si tratta dell’organica trattazione, equamente suddivisa in storia costituzionale e sistematica antiquaria, che ci è documentata dalla Costituzione di Atene di Aristotele, e che dovette costituire lo schema delle moltissime altre politèiai elaborate dalla scuola di Aristotele. Per capire cosa intendesse Crizia quando prometteva di descrivere la Politèia di una città o di un popolo (egli scrisse appunto una Politèia dei Tessali), un termine di paragone ci è offerto dalla Costituzione degli Spartani di Senofonte: un profilo molto sintetico del «sistema» politico, del costume civile, considerato in alcuni suoi aspetti essenziali, degli ordinamenti militari in quanto specchio e rivelatore al tempo stesso della validità e dei difetti del sistema. Si può dire anzi che nei limiti ristretti in cui ci è nota, per frammenti, la Costituzione degli Spartani di Crizia appare talora puntualmente riecheggiata da quella omonima di Senofonte. Le parole, ad esempio, con cui Senofonte incomincia la vera e

346

La storiografia tra ricerca e politica

propria trattazione subito dopo il preambolo («A proposito dunque della generazione dei figli, per incominciare dal principio, ecc.») sono all’incirca le stesse con cui incominciava Crizia (Fr. 32 DK: «Incomincio dalla generazione dei figli, ecc.»). Entrambi seguitano poi elogiando Licurgo, che ha prescritto alle donne un vigoroso regime ginnico e alimentare «perché – come si esprime Crizia – anche la madre, non solo il padre, del nascituro fosse vigorosa ed addestrata nella ginnastica». Analogie contenutistiche se ne riscontrano anche a proposito del «disarmo» degli iloti (Crizia, Fr. 32; Senofonte, Costituzione degli Spartani, 12,4). 5. La «Costituzione degli Ateniesi»: Crizia in Tessaglia Analoga impostazione si osserva nella Costituzione degli Ateniesi. Essa è tramandata tra gli opuscoli di Senofonte per la semplice ragione che, evidentemente, editori postumi la trovarono tra le sue carte. È stata attribuita a Crizia da August Boeckh, con un argomento difficilmente eludibile. Boeckh notò che il lessicografo Polluce dice (errando) che Crizia adopera il verbo diadikàzo nel senso di «faccio il giudice per un intero anno»: un errore che non può che essere nato dal fraintendimento di un passo della Costituzione degli Ateniesi (3,6: diadikázein a¬nágkh di∫ e¬niautoû). Senofonte, che da Crizia trae ispirazione per la Costituzione degli Spartani, nel suo opuscolo sulle Risorse di Atene (Póroi) sembra riecheggiare alcuni concetti della Costituzione degli Ateniesi (di Crizia) soprattutto nella iniziale descrizione delle peculiarità geografiche dell’Attica. Anche nei Póroi dunque, in quella che a buon diritto può ritenersi la sua politèia di Atene (dove il lato descrittivo è strettamente legato a quello propositivo), Senofonte attinge alle Politèiai di Crizia. La Costituzione degli Ateniesi è un dialogo, la cui forma dialogica è stata obliterata nel corso della tradizione. Il carattere dialogico della discussione riaffiora limpidamente ad esempio nel finale, quando viene avviata l’analisi della politica estera ateniese. Lì un primo interlocutore – cui è affidato il compito di suscitare ogni volta la discussione su di un nuovo tema – osserva: «Secondo me c’è ancora un altro campo nel quale gli Ateniesi si comportano male: quando ci sono città divise da lotte civili, loro si schierano sempre con gli elementi peggiori»; e l’altro – lo spregiudicato analista che domina il

XIX. Crizia e la ‘laconizzazione’ dell’Attica

347

dialogo – replica: «Ma lo fanno a ragion veduta! Se si schierassero con i migliori, sceglierebbero di non appoggiare quelli che nutrono le loro stesse aspirazioni». Nulla di più naturale, del resto, che il socratico Crizia, il quale – come ricorda Senofonte – si era indirizzato verso Socrate in ragione delle proprie ambizioni politiche, scrivesse non solo elegie ma anche dialoghi sulle forme politiche dominanti (Atene, Sparta). Lo conferma esplicitamente una notizia di Filostrato. Ritiratosi in Tessaglia durante il periodo di esilio – scrive Filostrato – Crizia «rendeva più gravi ai Tessali le oligarchie dialogando coi potenti del luogo e attaccando la democrazia in generale ed in particolare gli Ateniesi come coloro che più di ogni altro sono in errore (w™v pleîsta a¬nqråpwn a™martánontav)». È un riferimento alla Costituzione degli Ateniesi che incomincia appunto con la denuncia degli «errori che agli occhi di tutti i Greci commettono gli Ateniesi (aÇ dokoûsin a™martánein toîv a¢lloiv √Ellhsin)» e culmina nella proclamazione della immodificabilità in meglio di qualunque forma di democrazia (3,8-9).

Nell’opuscolo gli interlocutori paiono non essere né ad Atene – città di cui parlano come di un luogo lontano («lì i poveri paiono contare più dei ricchi») – né a Sparta – dove infatti i dialoganti rievocano di essere stati tempo addietro (1,11: «a Sparta il mio schiavo ha avuto paura di te») –: evidentemente si tratta di uno di quei dialoghi che Crizia ha avuto – come attesta Filostrato – in Tessaglia «coi potenti del luogo». Che Crizia in Tessaglia componesse Politèiai è confermato poi dal fatto che – oltre alle due Costituzioni di Sparta e di Atene – ha composto appunto una Costituzione dei Tessali, nella quale, come si può ricavare dall’unico frammento superstite, mostrava conoscenza del loro stile di vita. D’altra parte il soggiorno in Tessaglia (circa 409-404) dev’essere servito a Crizia anche per fare esperienza diretta di un tipo di ordinamento che aveva alcuni punti di contatto con l’ordinamento della Laconia. Crizia s’immischiò anche, a quel che pare, nei conflitti tra i «penesti» (un ceto per molti versi affine a quello degli iloti spartani) ed i Tessali loro dominatori. Lo ricorda Teramene con intonazione molto polemica nel discorso che gli fa pronunciare Senofonte (Elleniche, II, 3,36). Qualunque sia stata, in quella lotta, la sua parte effettiva, l’esperienza in Tessaglia lo ha messo in contatto con una società di tipo laconico funzionante, in condizioni originali, specifiche, fuori dal contesto spartano. Ciò deve averlo ulteriormente spinto a perseguire – giunto al potere in Ate-

348

La storiografia tra ricerca e politica

ne – il suo disegno di sradicare con la forza le basi della democrazia e di instaurare il novus ordo spartano.

Anche se l’Atene di cui qui si parla, dominatrice del mare, può sembrare ancora indenne dalla sconfitta siciliana del 413 (ma le grandi e ripetute vittorie navali ateniesi del 411/10 poterono dare ai contemporanei l’impressione di un riconquistato dominio dei mari) nulla impedisce di pensare che Crizia scegliesse di ambientare il suo dialogo sul sistema politico ateniese in una situazione storicopolitica non immediatamente attuale, ma recente e viva nel ricordo di tutti: quella appunto del predominio marittimo di Atene. È ben noto del resto che la sfasatura tra cronologia fittizia e cronologia reale è assai frequente nei dialoghi ‘socratici’ di Platone e di Senofonte: nel Simposio senofonteo, ad esempio, la data esplicita è il 422/1, ma nel dialogo vengono piuttosto chiaramente presi di mira gli attacchi di Policrate contro Socrate, risalenti al 393/2. Che vicende abbia poi avuto questo opuscolo non è difficile immaginare. Nei mesi del governo di Crizia circolò certo alla luce del sole, ciò che prima non sarebbe stato possibile, se non in cerchie molto ristrette. Senofonte, da buon cavaliere nemico del popolo e amico dei Trenta, si sarà portato con sé in esilio questo amaro libro sulla sua città, si sarà nutrito di questa lettura congeniale. Passati i decenni è difficile che la damnatio di Crizia e del suo scritto avesse ancora la bruciante attualità di un tempo. Si può pensare che abbia ripreso ad essere letto, e che si sia avuta una duplice forma di circolazione: come di Senofonte (nell’ambito della raccolta completa dei suoi scritti) e come di Crizia. La tradizione ‘autonoma’ non dovette avere una grande vitalità, ma ancora Polluce – il che non stupisce in una compilazione lessicografica – sembra rispecchiarle entrambe. 6. L’oligarca intelligente La discussione che si svolge nella Costituzione degli Ateniesi è tripartita. Una prima parte, la più ampia, è anche esteriormente delimitata con una chiara ripresa anulare delle formule adoperate in principio: qui vengono affrontati i fondamenti della democrazia nella sua più generale accezione (il fatto cioè che le cariche non vengano affidate in base ad un vaglio delle competenze); quindi vengono affrontati alcuni aspetti salienti caratteristici della situazione

XIX. Crizia e la ‘laconizzazione’ dell’Attica

349

ateniese: il nesso impero-sviluppo marittimo, il carattere di rapina che ha ormai assunto il rapporto con gli alleati, l’ordinamento militare e i suoi punti deboli. La seconda parte riguarda la lentezza della macchina giudiziaria, ingranaggio vitale della democrazia ateniese: la conclusione è che non ci sono rimedi a questi difetti, migliorare la democrazia significa abbatterla. La terza parte riguarda la politica estera: anch’essa è regolata dal principio non contraddetto secondo cui la democrazia sceglie sempre la peggior causa, e confermato dai rari casi in cui la scelta di una buona causa ha portato Atene all’insuccesso. Il dialogo si svolge – come s’è accennato – tra un detrattore rigoroso, tradizionalista, della democrazia, ed un oligarca ‘intelligente’ il cui proposito è non già di portare acqua alla condanna dei valori democratici, per lui ovvia, bensì di far emergere, col ragionamento, l’intima coerenza dell’odioso sistema. Coerenza che ne fa un sistema perfetto nella sua negatività: e perciò appunto non riformabile, pena lo snaturamento. Rifulge l’abilità con cui ogni volta il secondo interlocutore sembra quasi compiacersi della perfezione, della logica perversa del sistema che sta in realtà condannando. Ma al di là della bravura ‘socratica’ nel mettersi dalla parte della tesi avversata proprio per farne emergere la fallacia, spiccano nel corso del dialogo formulazioni esplicite che rendono chiare alcune importanti concezioni politiche dell’interlocutore principale, col quale – con ogni evidenza – l’autore stesso si identifica. «Io al popolo la democrazia gliela perdono – dice avviandosi alla conclusione della prima parte –; è comprensibile che ciascuno voglia giovare a se stesso. Chi invece, pur non essendo di origine popolare, ha scelto di operare in una città governata dal popolo piuttosto che in una oligarchia, costui è pronto ad ogni malazione, e sa bene che gli sarà più facile occultare la sua ribalderia in una città democratica anziché in una città oligarchica» (2,20).

L’attacco al personale politico di origine nobile o possidente, che, nondimeno, ha accettato la democrazia, non potrebbe essere più netto e minaccioso. Gli studiosi moderni si sono spesso domandati a chi si riferiscano queste parole ed hanno pensato per lo più ad Alcibiade. Non ha senso riferirle ad una singola persona, esse hanno di mira l’intero ceto dei ‘ben nati’ che hanno messo le loro capacità e le loro competenze al servizio della democrazia, che hanno legato, indi-

350

La storiografia tra ricerca e politica

spensabili leaders, la propria sorte a quella della democrazia e saranno, infatti, il principale bersaglio di Crizia giunto al potere. Così come erano stati bersaglio della sua denuncia storico-politica i vari Temistocle e Cleone arricchitisi sfacciatamente con la politica (Fr. 45). Circa mille e cinquecento tra i cittadini più ricchi furono messi a morte, secondo Aristotele, nei primi tempi del regime dei Trenta. Anche l’altro obiettivo di Crizia, quello di ridurre il popolo in una condizione di dipendenza equiparabile alla «servitù», secondo il modello laconico, trova rispondenza in una dichiarazione propositiva che l’autore formula a conclusione della premessa generale sui fondamenti della democrazia: «Se è il buon governo che tu cerchi, allora lo scenario è tutt’altro: vedrai i più capaci imporre le leggi, e la gente per bene la farà pagare alla canaglia, e sarà la gente per bene a prendere le decisioni politiche, e non consentirà che dei pazzi siedano in Consiglio o prendano la parola in Assemblea. Così in poco tempo, con saggi provvedimenti del genere, finalmente il popolo cadrebbe in schiavitù» (1,9).

Il fine che i dialoganti mostrano di perseguire è di «abbattere la democrazia in Atene» (3,12). Come ottenere questo risultato? Nelle ultime battute del dialogo viene puntigliosamente confutata la prospettiva secondo cui tale abbattimento potrebbe essere opera degli àtimoi, di coloro cioè che per varie ragioni (anche politiche, per esempio per aver svolto compiti militari sotto i Quattrocento) hanno perso i diritti. Sembra un riferimento al decreto di Patrocleide, che, per favorire la riconciliazione dopo il disastro di Egospotami (estate 405), restituì appunto i diritti agli àtimoi2. Dalle ultime battute della Costituzione degli Ateniesi emerge una chiara insoddisfazione per un provvedimento del genere: gli àtimoi sono pochi e per giunta non tutti condannati per motivi politici, non è da provvedimenti del genere che si può attendere «che la democrazia ateniese corra qualche pericolo» (3,13). Lo scritto si chiude con queste parole; il senso è pienamente intellegibile se lo si mette in relazione con ciò che viene proclamato nella prima parte, là dove si parla dei punti deboli di Atene sul piano strategico e si dichiara nettamente che l’unica via di salvezza per liberarsi della democrazia può venire dall’intesa col nemico (2,15). Quell’intesa che appunto Crizia ha tentato forse già nel 411, quando si accingeva – pare – ad accogliere le navi spartane al molo di Eezioneia (cfr. p. 342); e che gli è alfine riuscito di stabilire al mo-

XIX. Crizia e la ‘laconizzazione’ dell’Attica

351

mento della capitolazione nell’aprile 404. Quando gli Spartani entrarono in città, imposero il richiamo degli esuli e la modifica del regime in senso oligarchico: per volere di Lisandro Atene fu allora governata per qualche tempo da cinque «efori» – mai termine fu scelto con intento più eloquente –, uno dei quali era appunto Crizia. È così che cominciò il regime dei Trenta. 7. Altre opere Il presunto mutilatore delle erme, o per lo meno frequentatore della gaia compagnia che aveva organizzato la sacrilega bravata, era anche il divertito teorizzatore – sotto la protezione del tono scanzonato del dramma satiresco – dell’invenzione umana degli dèi. Necessari garanti dell’ordine sociale essi furono inventati da uomini scaltri e previdenti: tale è il contenuto della lunga tirata che Crizia faceva pronunciare a Sisifo, nell’omonimo dramma satiresco che faceva probabilmente parte della tetralogia tragica i cui primi tre drammi erano Tennes, Radamanto e Piritoo. Ancora nell’età di Ateneo (496B) questi drammi venivano citati come «o di Euripide o di Crizia il tiranno». Quanto al Sisifo, i medesimi versi Sesto Empirico li cita come di Crizia, il dossografo Aezio come di Euripide. Il destino di questa tetralogia, salvatasi perché finita tra quelle di Euripide, fu intuito chiaramente dal Wilamowitz. Non c’è nessuna ragione per dubitare che quei drammi siano di Crizia: ad una sua attività come tragediografo allude Platone nel dialogo che prende nome da Crizia (108B). Abilmente l’audace teoria, che induceva Sesto Empirico a classificare Crizia tra i maggiori esponenti dell’ateismo, veniva messa in bocca a Sisifo, l’ingannatore per eccellenza. Ciò metteva al riparo l’autore. Nella sua ampia tirata Sisifo tracciava in realtà un profilo dell’origine della società umana secondo una periodizzazione che ha come riferimento la nascita della legge. «C’era un tempo in cui la vita umana era senza un ordine, e ferina, e schiava della forza: non vi erano premi per i buoni, né punizioni per i malvagi. Dopo di che, a me pare, gli uomini istituirono delle leggi che sancivano punizioni, perché la giustizia fosse unica sovrana e soggiogasse il sopruso. Così chi compiva un’infrazione veniva punito. In seguito, poiché l’esistenza di queste leggi dissuadeva dal commettere aperta-

352

La storiografia tra ricerca e politica

mente dei crimini, ma la gente li compiva ugualmente di nascosto, allora, mi sembra, un uomo accorto e saggio inventò per gli esseri umani il timore degli dèi» (Fr. 25).

Questa concezione sarebbe inconcepibile senza la critica dell’antropomorfismo delle varie religioni dovuto ai Silli di Senofane di Colofone, il poeta dell’‘illuminismo’ ionico, che tanto influsso aveva avuto, ad esempio, sul razionalismo di Ecateo: «Gli Etiopi – scriveva Senofane – dicono che i loro dèi hanno il naso camuso e sono neri, i Traci che hanno gli occhi azzurri e i capelli rossi (Fr. 16 Diels-Kranz). Ma se i buoi, i cavalli, i leoni avessero le mani, o potessero disegnare e costruire monumenti alla maniera degli uomini, i cavalli disegnerebbero gli dèi come cavalli e i buoi come buoi e raffigurerebbero i loro corpi simili al proprio» (Fr. 14).

A Crizia era dovuta anche una raccolta di Proemii per discorsi all’assemblea (Dhmhgorikà proofimia). Si è pensato che, come le analoghe esercitazioni di Antifonte, fossero strumenti per l’addestramento oratorio: una concessione alla prassi retorico-politica cittadina. Note Primo fra tutti il ricchissimo Nicerato, figlio di Nicia. Un provvedimento che era nell’aria già da tempo, e che veniva caldeggiato dai moderati non senza cautele per timore di irrigidimenti democratici, come quando se ne fa solennemente propugnatore Aristofane nella parabasi delle Rane (gennaio 405) là dove chiede il perdono per coloro che collaborarono coi Quattrocento, e soggiunge: «dico che non ci devono essere àtimoi in città» (vv. 686-692). 1 2

XX I ‘TUCIDIDEI’: FILISTO E TEOPOMPO 1. Filisto Nel discorso in cui chiede la punizione esemplare dei ribelli di Mitilene, Cleone – secondo Tucidide – dice: «le città cui capita improvviso e del tutto inaspettato il successo sono portate alla hy`bris» (III, 39,4: ei¢wqe d∫ ai©v a£n málista [...] a¬prosdókhtov eu¬pragía e¢lqhı e¬v uçbrin trépein). Filisto, in un passo della sua Storia della Sicilia citato da Clemente Alessandrino (Miscellanea, VI, 2,8), riprendeva alla lettera questa gnome: ei¬åqasi gàr málista oi™ parà dóxan a¬prosdokätwv eu® práttontev ei¬v uçbrin trépesqai (Fr. 67 Jacoby). Filisto leggeva dunque ed imitava Tucidide, al punto che ne riprendeva di peso intere frasi. Clemente, l’apologista cristiano di età severiana, polarizzato sul tema dei «furti», dei «plagi» che a lui paiono un tratto caratteristico degli autori greci, inquadra anche questo esempio tra gli altri «furti». In altri casi la sua esemplificazione è discutibile, non certamente in questo: Filisto era generalmente giudicato, da chi era in grado di leggerlo, «pusillus paene Thucydides» (Cicerone, Ad Quintum fratrem, II, 11,4): un Tucidide in formato ridotto. Questo giudizio si fondava soprattutto su confronti stilistici; per esempio Dionigi di Alicarnasso nel trattato Sulla mimesi (3,2) istituiva un raffronto tra Senofonte equilibrato e apprezzabile imitatore di Erodoto, e Filisto imitatore «sfrenato» di Tucidide. Ma il retore Teone (che probabilmente era un contemporaneo di Quintiliano) riteneva sostanziale la dipendenza anche contenutistica di Filisto da Tucidide: diceva che Filisto «aveva trasferito dall’opera di Tucidide nella sua Storia della Sicilia tutta la ‘guerra attica’ [cioè la campagna di Atene contro Siracusa]» (Progymnasmata, 1 = T 14 Jacoby). L’espressione è, molto probabilmente, esagerata, dal mo-

354

La storiografia tra ricerca e politica

mento che Plutarco nella Vita di Nicia, in gran parte incentrata sulla spedizione ateniese in Sicilia, ha voluto far ricorso sia a Tucidide che a Filisto, stimandoli entrambi fonti di primaria importanza, ma non tra loro coincidenti. Un esempio della divergenza tra Filisto e Tucidide ci viene da una notizia del periegeta di età antonina Pausania. Nella descrizione del cimitero ateniese del Ceramico, Pausania (I, 29,12) ricorda, tra le altre, l’epigrafe commemorativa dei caduti ateniesi in Sicilia, e nota che il nome di Nicia era stato omesso; nello spiegare l’omissione avverte: «lo scrivo negli stessi termini di Filisto», e precisa: Demostene – l’altro comandante ateniese – firmò la resa per gli altri ma non per sé ed anzi tentò di suicidarsi, Nicia invece si consegnò spontaneamente al nemico. In Tucidide questa notizia della omissione del nome di Nicia manca; vi è però un elogio di Nicia come colui che «meno di ogni altro greco al tempo mio avrebbe meritato una tale fine» (VII, 86,5) che parrebbe – come notò Jacoby – una «protesta» contro l’impietosa esclusione di cui gli Ateniesi lo fecero oggetto post mortem. Filisto era nato intorno al 430 a.C. (comunque non molto dopo), dal momento che aveva potuto assistere – come scriveva nella sua Storia della Sicilia – «da testimone oculare» (o™ratäv) alla campagna ed alla sconfitta ateniese a Siracusa (Plutarco, Nicia, 19,6) negli anni 415-413. Ma la sua attività storiografica – i 13 libri che i bibliotecari di Alessandria divisero in due parti, Perì Sikelíav e Perì Dionusíou – si sviluppò assai più tardi. La carriera di Filisto si era svolta nella cerchia e in stretta connessione con la ascesa di Dionigi I (familiarissimus Dionysii tyranni lo definisce Cicerone, De oratore, II, 57; la Suda ritiene di sapere che fosse addirittura parente di Dionigi). Filisto è stato accanto a Dionigi nei difficili processi contro i generali siracusani sconfitti dai Cartaginesi (406 a.C.); lo è – poco dopo – al momento della presa del potere e dei conflitti con le grandi famiglie siracusane; figura nella tradizione (Diodoro, XIV, 8,5) come colui che si oppone alla fuga di Dionigi in difficoltà (404 a.C.) con il famoso detto che assimilava l’abbandono della tirannide alla discesa da un cavallo in corsa. Improvvisa sopravvenne la rottura con Dionigi nel 386. Nel racconto plutarcheo della Vita di Dione (11,5-6) viene fornita una versione dei fatti che avrebbero portato a tale rottura: Leptine, fratello di Dionigi, aveva dato in moglie a Filisto una propria figlia combinando il matrimonio (dinasticamente non irrilevante) all’insaputa del tiranno, la cui reazione sarebbe stata infatti durissima

XX. I ‘tucididei’: Filisto e Teopompo

355

(incarcerazione della donna, esilio di Filisto). L’anno d’inizio dell’esilio di Filisto è indicato con esattezza da Diodoro (XV, 7,3), che certamente lo ricavava da Timeo. Quanto alle ragioni dell’improvvisa rottura tra Dionigi ed il fedele Filisto, è stato osservato (Laqueur) che essa è avvenuta poco dopo il primo soggiorno di Platone a Siracusa (388/7), e che già in quella occasione deve essersi profilato il conflitto tra il gruppo di Dione (congiunto del tiranno e molto legato a Platone) e quello di Filisto: l’esilio di Filisto potrebbe anche essere il risultato dello scontro tra i due gruppi. Tale scontro è ben noto e documentato per il periodo successivo, ma nulla esclude che si fosse manifestato già prima. Basti pensare alla opposta caratteristica di Dione conquistato dal pensiero platonico e alieno ormai dalla diffusa e sfibrante sensualità dominante a corte – quale emerge dalla Settima lettera di Platone –, e di Filisto, immerso pienamente in quel clima, amante della madre di Dionigi e marito di una sua nipote – quale emerge dal racconto plutarcheo (Dione, 11). L’attività storiografica di Filisto è messa in relazione con il periodo dell’esilio: il nesso è istituito da Plutarco nel trattatello Sull’esilio, dove anche indica l’Epiro come località nella quale Filisto, esiliato, si sarebbe ritirato (605C). Secondo Plutarco (Dione, 11,7) tale esilio durò fino alla morte del vecchio Dionigi (367/6 a.C.); in un contesto più vago Diodoro (XV, 7,3) parla di una riconciliazione di Dionigi con Filisto e con Leptine avvenuta «in seguito» e di un rientro e reintegrazione di entrambi «nell’antica benevolenza». Da varie fonti si ricava che già nel 383 Leptine comanda truppe (e muore in battaglia) al servizio del fratello Dionigi. Ma questo non significa che anche per Filisto l’esilio si sia presto interrotto. La tradizione è divisa anche sui luoghi in cui Filisto si ritirò esiliato: l’Epiro o l’Adriatico secondo Plutarco, Turii secondo Diodoro. Anche se è congetturale, la connessione dell’attività storiografica di Filisto con il forzato esilio è molto plausibile. È difficile stabilire invece in quale data successiva al 386 Filisto abbia effettivamente incominciato a scrivere la Storia della Sicilia. La Suda parla di 11 libri e dà un unico titolo: Sikelikà. Diodoro (XIII, 103,3) parla di due «sezioni» (suntàxeiv): sette libri sul periodo dalle origini alla caduta di Agrigento in mano cartaginese (405 a.C.) – circa ottocento anni di storia –, e quattro sull’età successiva – la storia contemporanea di cui lo stesso Filisto era stato protagonista. Anche Cicerone parla di duo corpora (Ad Quintum fratrem, II, 11,4) e Dionigi di Alicarnasso (Lettera a Pompeo Gemino, 5) dà un titolo a ciascuno dei due

356

La storiografia tra ricerca e politica

corpora: Sulla Sicilia il primo (libri I-VII) e Su Dionigi il secondo (libri VIII-XI). In un secondo momento, quando ormai era certamente ritornato a Siracusa, Filisto ha composto altri due libri sul secondo Dionigi e ne ha narrato i primi quattro anni di regno, fino al 362 (Diodoro, XV, 89,3). L’opera non è conservata, ma possiamo farcene un’idea dalle vite plutarchee di Nicia e di Dione (anche se, ovviamente, Plutarco non segnala sistematicamente ciò che ricava dalle sue varie fonti), nonché dal racconto diodoreo, dal momento che Eforo, fonte di Diodoro, si servì di Filisto. Sul credito di cui Filisto poté godere pesò la ostilità di Timeo nei suoi confronti. Timeo voleva dimostrare la «rozzezza» (Plutarco, Nicia, 1) e l’«insipienza» (Diodoro, V, 6,1) di Filisto come storico: però se ne serviva anche lui. Presso Dionigi il giovane, Filisto ha avuto la funzione di punto di riferimento del gruppo di potere ostile a Platone e a Dione, proteso a sottrarre il giovane tiranno all’influenza del filosofo ateniese. Qualunque idea ci si faccia dell’identità del Filistídhv nominato da Platone nella Terza lettera (315E) – nome che alcuni vorrebbero mutare in Fílistov –, il racconto plutarcheo, esplicitamente risalente a Timeo (Dione, 14,5), fa emergere in modo evidente il contrasto tra Filisto e gli amici di Platone e Dione, e lo sforzo degli uni di prevalere sugli altri nel ‘catturare’ la mente di Dionigi il giovane. Nella lotta contro Dione, diventata nel 356 scontro armato, Filisto, comandante della flotta di Dionigi contro i ribelli siracusani guidati da Dione, ebbe la peggio e, per non cadere prigioniero del suo avversario, si uccise (Diodoro, XVI, 16,3)1. La scelta di Tucidide come modello storiografico, da parte di Filisto, è un fatto rilevante nella storia della diffusione del testo tucidideo. Il frammento 67 Jacoby di Filisto, citato – come s’è visto – da Clemente a riprova dei «furti» che Filisto commetteva nei confronti del suo modello, è per noi la prima traccia della presenza e della notorietà dell’opera di Tucidide. Tanto più interessante in quanto non sembra proprio che Filisto sia stato ad Atene durante il suo esilio iniziatosi nel 386: dunque il suo uso dell’opera tucididea, attestato dalla testimonianza di Teone, denota una diffusione ormai dei libri siciliani di Tucidide in ambiente magnogreco. Ovviamente non si era dovuta attendere la ‘edizione completa’ curata da Senofonte per conoscere, di Tucidide, i libri compiutamente rifiniti – quali appunto quelli siciliani – che saranno stati già diffusi, in vita, dallo stesso Tucidide. Ha osservato Jaeger che quan-

XX. I ‘tucididei’: Filisto e Teopompo

357

do Isocrate, nell’Areopagitico, dice che «per la paura» (dià tò dediénai) «noi Ateniesi fummo costretti ad assumere una posizione dominante tra i Greci» (§ 6), palesemente ricalca un concetto sviluppato da Tucidide nel discorso dei legati ateniesi al congresso di Sparta (I, 75,3: u™pò déouv, «per la paura», fummo costretti a portare Atene al rango di dominatrice). L’Areopagitico si può datare nell’anno 357 a.C. Una ventina d’anni più tardi Aristotele, quando nella Costituzione di Atene (29,1; 32,2; 33,2) riecheggia chiaramente alcune valutazioni di Tucidide sulla vicenda del colpo di Stato dei Quattrocento, fa proprio il giudizio tucidideo sul breve governo dei Cinquemila. Si può ritenere che la diffusione del testo tucidideo ‘completo’ curato da Senofonte abbia ridestato l’interesse per l’opera di Tucidide: in particolare per il racconto dell’VIII libro – quello adoperato da Aristotele per il racconto dei Quattrocento –, che certo Tucidide non aveva ‘pubblicato’ in vita (tale è la sua palese incompiutezza). È lecito chiedersi come mai per raccontare la vicenda dell’assedio di Siracusa Filisto abbia pensato di far ricorso ad uno storico ateniese: oltre tutto quelle erano vicende che Filisto aveva «visto», e certo egli rivendicava tale autopsia nel corso del racconto. Ha avuto peso il prestigio di Tucidide come narratore fededegno, ma anche la nozione – che probabilmente risultava a Filisto – che anche lo storico ateniese fosse stato o™ratäv (testimone oculare) di quella vicenda, dal punto di osservazione ateniese. Anche per Aristotele Tucidide merita di essere utilizzato come fonte – a proposito del processo contro Antifonte celebrato in Atene nel 411 – perché «testimone diretto» (Fr. 137 Rose: se audiente locuples anctor scripsit Thucydides). L’idea di un Tucidide esule per vent’anni e per vent’anni escluso dalla conoscenza di ciò che accadeva in campo ateniese (non solo nella città di Atene, ma ovviamente anche nel campo ateniese a Siracusa) non si era ancora affermata. Affiora per la prima volta, a nostra conoscenza, in Timeo, il quale era nato a Tauromenio intorno all’anno della morte di Filisto, forse poco dopo, e visse esule in Atene per quasi un cinquantennio, all’incirca tra il 316 ed il 266. Timeo – che compose la più grande storia dell’Occidente prima di quella di Polibio – riteneva di sapere che Tucidide fosse morto esule in Italia (Fr. 135,136 Jacoby): una tesi che eruditi come Didimo definivano, un secolo e mezzo più tardi, «ridicola» (Marcellino, Vita di Tucidide, 26 e 33).

358

La storiografia tra ricerca e politica

2. Teopompo L’evento determinante nella seconda metà del IV secolo è l’avvento di Filippo II sul trono di Macedonia (359-336 a.C.). Il posto che il sovrano macedone conquistò nella coscienza greca fu enorme; egli dominò l’azione politica di Demostene e l’opera storica di Teopompo. Entrambi sentirono non solo l’importanza ma la novità del fenomeno Filippo: l’uno denunziandone la folgorante crescita, il dirompente attivismo, il modo inedito di fare politica, smisurato rispetto ai ritmi biologici della polis; l’altro addirittura interrompendo una tradizionale attività storiografica e dando vita ad un nuovo genere storiografico che da Filippo appunto prende nome. Nell’oratoria assembleare di Demostene si avverte la coscienza del fatto nuovo rappresentato da Filippo e dal suo irrompere, in funzione di regista, nella politica greca. La risposta demostenica a questo nuovo fattore è di tipo tradizionale: non tanto nel senso di un attaccamento nostalgico ai valori e ai modelli della Grecia delle città – questo è piuttosto un cliché in cui concordano sia i detrattori che gli ammiratori di Demostene –, quanto nel senso che Demostene ha ritenuto ancora valido lo strumento tradizionale dello scontro interstatale e della lotta per l’egemonia tra le città greche, cioè la ‘carta’ persiana. Ben consapevole della tradizionale posizione preminente e in certi momenti direttiva della Persia nella politica greca, Demostene ha creduto che proprio la grande potenza persiana avrebbe tenuto gli Stati greci a riparo dal fattore nuovo dell’espansionismo macedone. L’atteggiamento di Teopompo è tutt’altro. È innanzi tutto la sua esperienza personale a determinarlo. Nato a Chio circa il 378/6 da famiglia simpatizzante per Sparta e quindi schierata con gli oligarchi, Teopompo già da ragazzo ha patito l’esperienza dell’esilio («dovette lasciare la sua città insieme con suo padre» dice la notizia di Fozio, Biblioteca, 176). Ha conosciuto direttamente e drammaticamente l’esperienza della accanita lotta delle fazioni cittadine dominata da schieramenti tanto vecchi quanto profondamente radicati. È stato esule ad Atene, dove ha ascoltato Isocrate subendone l’influenza come scrittore (Dionigi di Alicarnasso, Lettera a Pompeo Gemino, 6,9); ha apprezzato l’opera storica di Tucidide, ormai circolante per merito di Senofonte, ed ha concepito il disegno di completarne il racconto componendo appunto le Elleniche che incominciavano con l’anno 411.

XX. I ‘tucididei’: Filisto e Teopompo

359

È stato esule anche in Macedonia ed ha avuto diretta conoscenza di Filippo – com’è chiaro anche dal celebre passo, citato da Polibio (VIII, 11), che realisticamente tratteggia la figura del sovrano macedone che si presenta talora ubriaco in pubblico – e di Alessandro. Anche questo indirizzarsi verso la Macedonia, verso la corte di Pella cui s’indirizzavano intanto i quotidiani, ossessivi, strali di Demostene e dei suoi, si inquadra bene in un orientamento isocrateo. Alessandro, nel 332, lo ha «riportato in patria» propiziandone autorevolmente il rientro con un messaggio personale ai magistrati e alla città di Chio. «Alessandro gli propiziò il ritorno con le sue lettere ai Chii» nota Fozio, che forse attinge all’opera stessa di Teopompo, il quale parlava molto e molto enfaticamente di sé. Alla morte di Alessandro (323) Teopompo fu nuovamente scacciato da Chio: la notizia biografica di Fozio ce lo raffigura randagio, approdato alfine in Egitto, ma respinto da Tolomeo – il quale giudicava Teopompo «un intrigante» – e «salvato da alcuni amici», che vollero intercedere per lui presso Tolomeo. Nella lotta politica della sua città Teopompo si calò senza riserve. Non sappiamo in dettaglio l’andamento delle sue vicissitudini politiche, ma è molto probabile che i due momenti indicati dalla antica biografia – esilio al seguito del padre e rientro per opera di Alessandro – siano soltanto il punto iniziale e terminale di una vicenda caratterizzata da ripetuti rientri ed esili2. Vi è una serie di citazioni dalle cosiddette Lettere da Chio indirizzate da Teopompo ad Alessandro (è Ateneo che ci conserva questi frammenti), che mostrano Teopompo nel vivo dello scontro politico della sua città, proteso a rivolgere accuse contro un avversario di nome Teocrito, del quale denuncia lo scandaloso e rapido arricchimento (Ateneo, VI, 230EF): «adesso beve da tazze d’oro e d’argento ed ha sulla sua tavola suppellettili preziose, lui che un tempo non aveva neanche vasellame di bronzo, ma di terracotta sbreccata». Ebbene questo faziosissimo figlio della polis seppe capire il nuovo che nella storia del mondo greco portava Filippo di Macedonia. E la percezione della grandezza di Filippo si traduce in lui nella capacità di comprenderne la dimensione «demonica», il miscuglio di atrocità e storica grandezza. Ne risultava un giudizio che ad esempio a Polibio – cui dobbiamo il riassunto dell’esordio delle Filippiche teopompee – sembrava assurdamente contraddittorio:

360

La storiografia tra ricerca e politica

«Dice di essersi accinto all’impresa [di scrivere le Filippiche, la storia appunto del regno di Filippo] perché l’Europa non aveva mai prodotto un uomo così grande come Filippo figlio di Aminta. E nondimeno subito dopo, nello stesso proemio, e poi per tutta l’opera, non fa che rappresentarlo incontinente con le donne sì da essere causa della rovina della propria casa, ingiusto e bizzoso oltre ogni dire con gli amici e gli alleati, responsabile di aver ridotto in schiavitù con l’inganno e la violenza tantissime città, patito del vino puro tanto da apparire spesso in pubblico, dinanzi agli amici, in pieno giorno, in stato di ubriachezza» (Polibio VIII, 11 = Fr. 27 Jacoby).

La capacità di Teopompo di intuire il carattere demonico del potere, in particolare di un personaggio geniale e repugnante, motore di storia come pochi altri nel suo secolo, è fuori dell’orizzonte polibiano. Del resto anche nella storiografia moderna Filippo ha atteso a lungo il suo interprete: fu Droysen a capovolgere la visione classicistica, che vedeva nella vittoria del sovrano macedone l’inizio della decadenza della grecità, ed a porre proprio la monarchia di Filippo all’origine del nuovo mondo – «l’età moderna dell’antichità» – per Droysen simboleggiato appunto dall’Ellenismo. Filippo era per lui – nella prima edizione (1833) della Storia di Alessandro il Grande – colui che aveva fatto nascere una «nazione», appunto la nazione macedone, attraverso la riforma delle istituzioni militari: esattamente come i grandi riformatori prussiani nell’età delle «guerre di liberazione» contro il dominio napoleonico. Nella descrizione teopompea di Filippo ci sono molti degli ingredienti caratteristici del ritratto del tiranno: «incontinente» (akratèstaton), «ingiusto» (adikòtaton), «traditore, ingannatore» (metà dòlou) e «violento» (kài bìas). Ha i caratteri della smodatezza nel male pubblico e privato, gli aggettivi con cui è descritto sono sempre al superlativo; però, con uno scarto totalmente insolito rispetto alla mentalità greca ed alla tradizione storiografica greca, Teopompo concludeva con un giudizio addirittura estatico: «mai l’Europa produsse un uomo così grande». Era una novità importante, che rompeva con lo schema moralistico della polis, la quale non ha posto per il tiranno ed avvia i suoi cittadini ad un’educazione politica – quella impartita dal teatro tragico – incentrata sul concetto che il tiranno è portatore di rovina per sé e per la comunità. Un non remoto modello del superamento di un tale cliché del tiranno come personaggio meramente negativo, del dubbio sulla na-

XX. I ‘tucididei’: Filisto e Teopompo

361

tura irrecuperabile dei personaggi che avevano tentato di mettersi al di sopra della polis e che ne avevano pubblicamente ed esplicitamente rifiutato la morale, era nella sofferta e insistente riflessione di Tucidide – un autore che Teopompo aveva meditato e continuato – sulla figura di Alcibiade. Riflessione che in Tucidide approdava all’insolito (per la mentalità media) bilancio, secondo cui Atene era andata incontro alla mortale sconfitta del 404 per aver rifiutato Alcibiade ed i suoi smodati vizi da tiranno (VI, 15). Nel suo giudizio, incomprensibile per Polibio, Teopompo distingueva tra la valutazione morale di Filippo ed il giudizio sul significato storico della sua opera. È questa fondamentale novità che fa di Teopompo uno dei massimi storici del suo tempo. Essa trova il suo inveramento nella conversione di Teopompo dalle tradizionali Elleniche ad un genere totalmente nuovo, le Filippiche: una storia ‘generale’, incentrata però non più sulla politica degli Stati greci o addirittura sulle vicende della polis che, volta a volta, aveva avuto l’egemonia, ma sulla politica del sovrano macedone. L’itinerario di Teopompo come storico rispecchia dunque fedelmente la sua svolta ideale. Il suo esordio è interno alla tradizione e rispettoso del prestigio culturale di Atene: una storia greca «a partire da Tucidide», che vuol essere anche un «Supplemento a Tucidide», le Elleniche, in dodici libri. Un racconto delle vicende degli Stati greci dal 411 al 394, cioè dalla battaglia di Abido – che Teopompo chiamava «seconda battaglia di Cinossema» – alla battaglia di Cnido.

Quando Teopompo si accinse a quest’opera, già circolava, ed era disponibile, il Tucidide ‘completo’ messo in circolazione da Senofonte, il quale aveva messo in ordine, completato e reso pubbliche le parti lasciate da Tucidide in abbozzi più o meno compiuti: quelle parti, riguardanti appunto gli anni a partire dal 411, che sono poi state incorporate nelle Elleniche senofontee. Come mai, a distanza di non molti anni dal compimento di questa operazione editoriale di un personaggio ormai tornato ad essere bene accetto in Atene quale Senofonte, Teopompo ha deciso di rifare il racconto degli anni a partire dal 411, degli anni cioè per i quali la redazione (cfr. pp. 292-93 e 296) del racconto tucidideo era dovuta a Senofonte? Sembra difficile negare che si tratti di una scelta, di una decisione, che ha di mira Senofonte. Si è pensato che la polemica contro Senofonte consistesse nell’assumere come punto terminale il 394, la sconfitta della flotta

362

La storiografia tra ricerca e politica

spartana a Cnido ad opera di una flotta persiana comandata dall’ateniese Conone: un punto terminale rilevante, in certo senso la fine dell’egemonia indiscussa di Sparta conseguente alla vittoria del 404, una sconfitta che nel racconto senofonteo rimaneva quasi inosservata (Elleniche, IV, 3,10-13). Teopompo avrebbe dunque voluto «protestare» – così scrisse il Wilamowitz – contro questa scelta narrativa, politica, storiografica, di Senofonte. Al Wilamowitz fu obiettato che a rigore Teopompo non aveva scelto il 394, si era semmai interrotto a quell’anno – preso ormai dal progetto di scrivere su Filippo –: e dunque non si deve caricare di particolari significati quel 394 assunto come punto terminale (Jacoby). Aveva ragione, nella sostanza, Wilamowitz. Non tanto perché il 394 fosse davvero, per Teopompo, l’anno epocale (comunque ben altro rilievo che non Senofonte egli dava alla battaglia di Cnido ed alla ricostruzione delle mura di Atene), quanto perché l’idea stessa di rifare ciò che Senofonte aveva fatto – e con ben altra ricchezza di particolari e con una nuova prospettiva – era senza dubbio una ‘risposta’ a Senofonte. Senofonte era un personaggio controverso, e controversa era la natura del suo Tucidide completo: c’era chi insinuava che avesse anche accarezzato l’ipotesi di appropriarsi delle carte del suo grande predecessore (Diogene Laerzio, II, 57). Coetaneo di Isocrate – il maestro, in Atene, di Teopompo –, frequentatore come Isocrate dell’entourage di Socrate, nato nello stesso demo di Isocrate, cavaliere come lui per censo, Senofonte ha avuto un destino ben diverso da Isocrate nel momento cruciale della fine della guerra e del dominio dei Trenta: Isocrate, la cui azienda paterna era andata a rotoli già durante gli ultimi anni di guerra, si è avvicinato a Teramene – tanto da rischiare, secondo una tradizione biografica (Vite dei dieci oratori, 836F), di essere trascinato nella rovina di Teramene –; Senofonte ha militato fino all’ultimo nella cavalleria dei Trenta e con la restaurazione democratica ha dovuto scomparire da Atene imbarcandosi nell’avventura dei «Cirèi». Isocrate non ha mancato, nel Panegirico (dell’anno 380 circa), di bollare quei Greci che si erano imbarcati con Ciro come gentaglia cui era ormai precluso di vivere nelle proprie città (Panegirico, 146), e Senofonte gli ha replicato nell’Anabasi (VI, 4,7-8) che i mercenari non si erano affatto arruolati per necessità o per disperazione. E la polemica è durata fino agli anni Cinquanta del IV secolo, quando – sfasciatasi la seconda lega marittima – Senofonte ha replicato al discorso isocrateo Sulla pace con i Pòroi.

XX. I ‘tucididei’: Filisto e Teopompo

363

L’ispirazione isocratea di alcune scelte fondamentali operate da Teopompo nelle Elleniche – ad esempio l’assunzione della vittoria di Conone a Cnido come fatto decisivo – risulta anche dal raffronto con l’Areopagitico di Isocrate, là dove l’oratore, in una digressione (64-65), traccia il profilo della crisi finale dell’impero ateniese fino alla sconfitta ed oltre e strettamente congiunge «il ritorno degli esuli» con «la vittoria navale di Conone» e questa vittoria appunto pone a conclusione di quel ciclo della storia di Atene. Per un continuatore dell’opera tucididea – quale Teopompo esplicitamente si propone con la scelta del 411 come punto di inizio – protrarre il racconto oltre il 404/3, cioè oltre l’anno che per Tucidide era il naturale compimento del conflitto, significava anche sviluppare in modo originale, quasi portare alle estreme conseguenze, l’intuizione tucididea della «unità dell’intero conflitto», dell’intera fase storica iniziatasi nel 431 ed anche prima, vista – come Tucidide sempre più chiaramente la vede – come un unico grande conflitto. Con la scelta di procedere fino alla sconfitta spartana di Cnido, Teopompo si rivela interprete coerente, e creativo, di Tucidide: più tucidideo di Tucidide, si potrebbe dire. Egli ha osservato infatti che neanche il 404, a rigore, poteva considerarsi una data veramente conclusiva, dal momento che, dopo qualche anno di pace, si sono riprodotti schieramenti internazionali – simili agli intrecci e agli scontri dei primi anni della pace di Nicia –, ben presto sfociati, daccapo, in una lunga guerra, la cosiddetta «guerra corinzia», in cui Atene e Sparta, con diversi alleati, si sono daccapo trovate in campi contrapposti. Il che poteva indurre ad applicare i concetti di «pace infida» e di «unico conflitto» ben oltre lo stesso limite del 404, in omaggio al principio squisitamente tucidideo che una guerra tra le stesse potenze e con la stessa posta in gioco è un’unica guerra. Note 1 Secondo Plutarco (Dione, 35-36), il quale risale a Timeo, Filisto fu catturato vivo e massacrato. 2 È la plausibile ipotesi di Felix Jacoby, che opportunamente ricorda a questo proposito i continui disordini e scontri civili a Chio.

L’ORATORIA ATTICA

XXI PERSUASIONE E DEMOCRAZIA 1. Le occasioni della parola Sarebbe arbitrario fissare un inizio dell’arte del discorso, come soleva la tradizione antica. Essa indicava – sulla scia di Aristotele (Cicerone, Brutus, 46) – in Corace e Tisia siracusani, affermatisi nel momento della caduta dei tiranni, i primi autori di manuali (técnai) oltre che confezionatori essi stessi di discorsi giudiziari. Ma la trattatistica teorica, in questo campo, diversamente che nel campo scientifico e filosofico, non ha fatto che dare sistemazione ordinata a pratiche già esistenti, non ha inventato nulla, né impostato nuovi problemi. Già gli eroi dell’Iliade, i quali parlano continuamente, appaiono esperti nell’elaborare una strategia oratoria. I grandi discorsi presbeutikoí con cui nel IX libro gli abili e ben assortiti ambasciatori di Agamennone cercano di ammansire Achille e indurlo a tornare alla lotta, erano considerati modelli degni di studio da un maestro esigente come Quintiliano (Inst. Orat., X, 1,46). E la celebre «contesa» che occupa il primo libro appare – dal punto di vista dell’arte del discorso – come un grande torneo oratorio inquadrato in un contesto para-giudiziario. Qui campeggia il grande discorso di Nestore (I, 254-284), il quale fa ricorso invano ad argomenti caratteristici dell’oratoria, per esempio periclea e demostenica: dal «modello degli antenati» all’escamotage ‘pacificatorio’ secondo cui entrambi i contendenti hanno torto, e così via. Nello «scudo di Achille», così riccamente descritto nel XVIII libro, la cornice del tribunale (vv. 497-508) si presenta in modo preciso e anche più ‘moderno’: lì non sono più i re i signori della giustizia, ma una corte di anziani; la discussione tra i due contendenti avviene inoltre dinanzi al popolo raccolto in assemblea (e¬n a¬gorñı), che ascolta e incoraggia – intervenendo così attivamente nel dibattimento – i due contenden-

368

L’oratoria attica

ti, ma vi è di più. In Omero si avverte già chiara la consapevolezza del grande vantaggio che comporta il dominio della parola e della duttilità di questa vera e propria arma, nel poema, per eccellenza, delle armi. Non ci sorprende perciò di ritrovare nel racconto omerico un campionario ricco di interventi oratori ivi compreso il provocante discorso agitatorio di Tersite. Le occasioni in cui parlano gli eroi dell’Iliade sono in genere, ma non esclusivamente, assembleari: dei soli capi o dell’intero esercito. Anticipazione diretta di quello che, nel V e IV secolo, sarà – oltre al tribunale – l’altro luogo caratteristico dove si esplica l’oratoria: dall’assemblea popolare detentrice della sovranità all’assemblea degli uomini in armi che eleggono i sovrani di Macedonia, alle ‘minori’ assemblee di singoli corpi combattenti, siano essi la «grande armata» dislocata da Atene in Sicilia nel 415-413 o un corpo di mercenari ‘plurinazionali’ come i «Diecimila» dell’Anabasi senofontea. Sedi tutte che finiscono col funzionare secondo il modello dell’assemblea omerica che delibera dopo aver ascoltato gli elaborati discorsi di coloro che usualmente «si levano a parlare» (non tutti indistintamente, anche se ciò – dal caso Tersite – parrebbe teoricamente possibile: ma anche nelle città democratiche di fatto parlano i detentori della parola, i r™ätorev appunto). Questa matrice – l’assemblea degli uomini in armi dinanzi ai quali parlano i capi – è riconoscibile anche nelle più mature democrazie: la cui struttura di base, consistente appunto nella limitazione ai maschi in età militare dell’accesso all’assemblea deliberante, discende direttamente da quel modello. Ciò comporta varie conseguenze, alle quali conviene, sia pure brevemente, accennare. In primo luogo la sostanziale identità – al di là delle contrapposizioni propagandistiche e dei clichés – del meccanismo assembleare in comunità come Sparta e Atene: differenti non già politicamente (in entrambe è sovrana l’assemblea dei liberi adulti in età militare: semmai a Sparta vi è un ben maggiore peso sociale delle donne rispetto ad Atene), ma differenti dal punto di vista delle composizioni sociali. Ma questa assemblea dei maschi adulti in età militare, nel caso di comunità quasi ininterrottamente in guerra, quali sono le città greche di V e IV secolo, rischia di frantumarsi, la volta che grandi corpi di spedizione operino a lungo lontani dalla polis di partenza. Sparta ha cercato sempre di evitare ciò non solo rifuggendo da campagne terrestri troppo lontane dalle proprie basi, ma soprattutto adottando un sistema di severo controllo politico sui capi – fosse-

XXI. Persuasione e democrazia

369

ro anche i re – impegnati in campagne militari1. Ad Atene invece si è qualche volta, e in momenti decisivi, creata una duplicità di sedi decisionali: per un verso l’assemblea cittadina, che, da lontano, continua a deliberare – anche se svuotata di uomini, impegnati in massa sulle navi – e si dimostra spesso poco informata sui problemi della guerra in corso e quindi avventata nelle decisioni; per l’altro l’assemblea degli uomini in armi, spesso pensosi soprattutto della loro propria salvezza, potenzialmente in contrasto con le velleitarie decisioni dell’assemblea popolare, e destinatari perciò della appassionata ed abile oratoria dei generali (i quali nel V secolo sono anche dei politici e spesso degli abili oratori). È il caso della lunga spedizione condotta da Atene contro Siracusa (415-413 a.C.), durante la quale Nicia fa i conti quotidianamente con la volontà delle truppe: e profonde tesori di oratoria per ottenerne l’assenso, mentre, all’altra assemblea, quella che risiede ad Atene, destina altre orazioni, sotto forma di lettere, e cerca, senza successo, di far comprendere la difficoltà estrema in cui è ridotta l’armata imbottigliata in un assedio che si sta rivelando una trappola. Destina dunque alle due assemblee di Ateniesi – quella vicina e quella lontana – due opposte forme di oratoria: parenetica e incitatrice alla lotta la prima, destinata ai combattenti, preoccupata invece la seconda tanto da evocare il sospetto di disfattismo (mellonikiân2, dirà, scherzando su di lui, Aristofane negli Uccelli [v. 640], che sono appunto del 414). 2. I politici che non scrivono Ma nulla è conservato della grande fioritura oratoria che ha necessariamente accompagnato, ad esempio in Atene, l’evoluzione politica interna (basti pensare all’impegno di Temistocle per il riarmo navale o alla lotta contro l’Areopago) e l’espansione imperiale. Nulla è conservato perché quei politici – anche se abili oratori – non hanno messo per iscritto e tanto meno hanno diffuso in forma scritta i loro discorsi pubblici. È un primato di dispersione di un patrimonio, tanto più urtante se paragonato alla cura con cui sono stati conservati gli inutili discorsi di imitazione dei retori greci di età romana. Di Temistocle – che Tucidide giudica «abile nell’esporre i suoi piani» (I, 138,3) –, di Pericle, di Nicia, di Alcibiade non abbiamo i discorsi, non perché siano andati perduti, ma perché non furono mai trascritti. All’inizio del secolo precedente, Solone (arconte nel 594) aveva fatto ricorso all’elegia per fissare durevolmente concetti politici che ritene-

370

L’oratoria attica

va utile diffondere anche in ambienti relativamente chiusi come i clan aristocratici. Ma nel V secolo il discorso che il politico pronuncia all’assemblea raggiunge immediatamente, finché l’assemblea è un organismo vitale, tutti i potenziali destinatari: non si concepisce che viva in forma scritta oltre l’occasione in cui è stato pronunciato, vive in sua vece il decreto (se c’è stato) in cui ha preso corpo la decisione che la parola dell’oratore ha sollecitato. Nel Fedro platonico (‘ambientato’ nel periodo felice della pace di Nicia, non molto prima della fuga di Fedro da Atene, denunziato come profanatore dei misteri) si parla molto di oratoria, tra l’altro si prende garbatamente in giro Lisia, l’oratore che con la sua bravura ha quasi stregato Fedro, e si discute del singolare fenomeno per cui dei politici, anche dei grandi politici del passato, non è rimasta oratoria scritta. La domanda ha senso perché, intanto, si va sempre più affinando l’oratoria, necessariamente scritta, giudiziaria. Fedro formula un’ipotesi: «I politici più in vista – dice – e i cittadini più influenti si vergognano di metter per iscritto i discorsi, anzi di lasciare qualcosa di scritto, temendo di avere fama di sofisti» (257D). Socrate gli replica che, al contrario, i politici, lungi dall’essere così schivi, sono «maniaci» della diffusione scritta dei loro discorsi perché non solo fanno incidere il loro nome nei decreti, ma «vi premettono ogni volta la lista dei loro ammiratori: approvato dal Consiglio, ovvero dall’assemblea, ovvero da entrambi»; in certi casi – prosegue – il testo dei decreti è «lunghissimo» e l’oratore «vi esibisce tutta la sua bravura»; e conclude: «cos’altro ti sembra questo [il decreto] se non un discorso scritto?» (257E-258A). Socrate si riferisce, con questa replica alquanto paradossale, alle ampie, talora amplissime motivazioni che, nei decreti attici, precedono la vera e propria formulazione della decisione presa: talora essi sembrano dei veri e propri discorsetti, e sono in realtà una sintesi, un riepilogo degli argomenti principali svolti dall’oratore. Sono conservate epigrafi contenenti decreti promossi da celebri oratori di IV secolo (Demade, Licurgo, Egesippo, Democare, ecc.), e in alcune le motivazioni svolte dagli oratori occupano 40 o 50 righi. Naturalmente questa essenziale registrazione – cui si richiama Socrate per ironizzare una volta di più sulla vanità dei politici – non serba nulla, neanche l’ombra, della struttura argomentativa, dell’intelaiatura logica, insomma della elaborazione oratoria del discorso effettivamente pronunziato. Fonte primaria sull’oratoria politica, dell’età in cui oratoria politica non è conservata, è la storiografia. Si trattò di una innovazione di Tucidide, secondo Marcellino, al quale dobbiamo molto di ciò

XXI. Persuasione e democrazia

371

che sappiamo del lavoro erudito degli Alessandrini su Tucidide. Su questo terreno Erodoto era stato poco più che un principiante (Vita di Tucidide, 38). In realtà nell’opera tucididea i discorsi dei protagonisti sono di gran lunga più frequenti che in Erodoto; ma – ciò che più conta – in Tucidide vi è lo sforzo consapevole di rispecchiare, pur nella rielaborazione, le parole effettivamente pronunziate. Egli è talmente fiero della cura dedicata a questo aspetto del racconto, da riservare un capitolo introduttivo (I, 22) alla spiegazione dei criteri seguiti. Anche se si esprime in modo cauto, tanto da risultare quasi oscuro, è certo che rivendica di essersi «attenuto il più possibile al senso generale delle cose effettivamente dette (e¬coménwı oçti e¬ggútata tñv xumpáshv gnåmhv tøn a¬lhqøv lecqéntwn)». E ciò ha un’importanza enorme per la conoscenza dell’oratoria politica nell’età della guerra del Peloponneso. Legittimamente perciò Cicerone, nel tracciare un profilo storico dell’oratoria (Brutus, 27-29), indica nei discorsi di Pericle, di Alcibiade e degli altri politici-oratori la cui parola è registrata nell’opera tucididea i primi oratori di cui siano conservati gli scritti. I protagonisti dell’opera tucididea infatti non parlano in modo uniforme, come avviene di norma nei discorsi fittizi della storiografia retorica: il corpus imponente dei discorsi compresi nell’opera tucididea – di Pericle, di Cleone, di Alcibiade, di Nicia – costituisce così, oltre che una preziosa documentazione storica, un concreto campionario di tecnica retorica. Una r™htorikæ técnh realizzata attraverso gli esempi: dal grande discorso epidittico, quale l’epitafio pericleo, ai discorsi di ambasciatori (presbeutikoí), agli agoni oratori dinanzi ad una assemblea oscillante (lo scontro tra Cleone e Diodoto intorno alla punizione da infliggere a Mitilene), ai serrati dibattiti dialogici (Spartani contro Plateesi, Ateniesi contro Meli), al pezzo di bravura demagogica (Atenagora siracusano), ai discorsi parenetici dei generali nelle varie fasi delle campagne o nell’imminenza delle battaglie. Ma tutto questo è legato a situazioni reali, sono memorabili registrazioni di scontri assembleari realmente accaduti. Basta ricordare, per tutti, lo straordinario discorso «demostenico» di Cleone, che vuole che si usi il pugno di ferro a Mitilene e sceglie la linea di strapazzare l’uditorio – esattamente come è solito fare Demostene – al quale rinfaccia di atteggiarsi a «spettatore» dei discorsi dei politici con lo stesso spirito con cui assiste ai tornei oratori dei sofisti e di essere ridotto invece a mero «ascoltatore» dei fatti, degli eventi politici e militari (III, 38,4-7). Subito do-

372

L’oratoria attica

po, Tucidide colloca la replica di Diodoto, il quale deve compiere una difficile rimonta oratoria, e risalire la china dinanzi a un’assemblea che appare ormai soggiogata dal precedente intervento. Prende ormai corpo quella forma del discorso politico (dhmhgoría), che è per noi documentata in modo diretto soltanto dalle demegorie demosteniche: concatenazione argomentativa di luoghi comuni, frasi ipotetiche, perentorie ingiunzioni e proclamazioni di principio (puntellate dai vari ei¬kóv, crä, díkaion, prosäkei, deî ecc.) che dà all’intervento oratorio la parvenza di una costruzione logica rigorosa. Tutto un armamentario che si affina intanto – mentre i politici continuano a non scrivere – nel grande laboratorio in perenne attività costituito dalla vita giudiziaria ateniese, matrice di una fiorentissima oratoria giudiziaria. 3. L’oratoria assembleare: capi e gregari Vi è un che di paradossale in questo sviluppo dell’oratoria. I suoi meccanismi argomentativi si perfezionano e si codificano, ma in vista di una produzione che – nei suoi aspetti più ‘alti’ ed impegnativi (l’oratoria politica) – resta essenzialmente una produzione orale: una produzione cioè che si consuma nell’occasione assembleare ma non aspira ad una circolazione scritta e a una duratura sopravvivenza, evidentemente perché pur sempre ritenuta dai suoi artefici non meritevole di conservazione. L’unica raccolta a noi giunta è infatti il piccolo corpus di diciassette «demegorie» demosteniche (il che è probabilmente dovuto al fatto che Demostene elaborava, in tutto o in parte per iscritto, anche i suoi interventi assembleari). A giudicare dalle notizie disponibili era anzi quella demostenica, già per gli Alessandrini, l’unica superstite raccolta di oratoria politica ateniese. Poco conta qualche presbeutikóv nella raccolta di Iperide. Certo, considerata nel suo concreto dispiegarsi l’oratoria politica attinge una notevole varietà di livelli, anche se coloro che parlano all’assemblea sono in genere oratori professionali: il comune cittadino democratico, piuttosto che intervenire, vigila all’assemblea, commenta, mormora, protesta, si esalta, secondo una prassi che ci è ben nota dall’autodescrizione di Diceopoli al principio degli Acarnesi di Aristofane. Nulla vi è di così esclusivo come la parola nella città democratica regno della parola. Le discussioni all’assemblea riguardano spesso la medesima situazione concreta, pur nelle quotidiane modificazioni. Il politico deve tenerne conto, ma non vi si

XXI. Persuasione e democrazia

373

lascia invischiare, anzi per lo più ne rifugge per ricondurre il dibattito sui concetti e sulle scelte generali: lo vediamo, in concreto, nei discorsi politici di Demostene, il quale sembra svolgere – a distanza di tempo e pur tra tante variazioni – sempre lo stesso discorso. Si capisce che in una tale situazione non è abituale preparare ogni volta per iscritto e per intero il proprio intervento. E poi, all’assemblea, il leader non si logora nella routine quotidiana. Manda avanti i gregari. Ciò dipende, tra l’altro, dalla necessità, per i capi, di evitare le gravi conseguenze (esclusione dall’attività politica) di eventuali ripetute condanne nei processi «per illegalità», così frequenti nello scontro tra le fazioni. Ma dipende anche dall’opportunità, per il grande leader, di non sciuparsi in continue, talvolta rischiose apparizioni, che potevano suscitare nel pubblico «assuefazione e sazietà»: ben lo sapeva Pericle, il quale si faceva vedere all’assemblea solo nelle grandi occasioni, «come la nave Salaminia», secondo l’efficace espressione dell’aristotelico Critolao (Plutarco, Vita di Pericle, 7,7). In genere – prosegue Plutarco – «mandava avanti altri retori ed amici»: come del resto farà Demostene nel secolo successivo, quando affiderà a «retori minori» la rischiosa battaglia per la devoluzione del theorikòn ad usi militari. Su questa prassi è modellata la struttura stessa dei gruppi politici ateniesi: non partiti in senso moderno, ma clan, gruppi ruotanti intorno ai grandi personaggi di maggiore spicco ed a famiglie influenti, in rivalità per l’egemonia dentro la cornice democratica, da tutti accettata (fuorché da coloro che ricorrono a mezzi illegali e si pongono perciò fuori della lotta politica). In questi gruppi politici vi è un’ovvia ‘divisione dei ruoli’: i «retori minori», come li chiama Iperide ironizzando sull’entourage di Demostene, oltre che incaricati dell’ordinaria routine assembleare (sostenere e far approvare decreti, contrastare iniziative di altri gruppi ecc.) sono – la definizione è sempre di Iperide – «signori del tumulto e dell’urlo» (Contro Demostene, colonna XII, 14-16): applaudono, commentano, influenzano il pubblico, minacciano gli avversari a sostegno del loro capo. La vicenda della campagna demostenica per l’impiego bellico della cassa del theorikòn è, sotto questo aspetto, istruttiva. Demostene ha battuto più volte su questo tasto senza mai approdare ad una proposta formale, che presentava dei rischi dato che un decreto vietava esplicitamente l’uso del theorikòn per altri fini fuorché quelli istituzionali. Nel 348, quando Atene si è mossa per aiutare Olinto contro Filippo, Demostene ha fatto presentare quella proposta da Apollodoro, un suo seguace, del quale sono conserva-

374

L’oratoria attica

ti alcuni discorsi giudiziari confluiti nella raccolta demostenica. L’assemblea approvò la proposta, ma, puntualmente, un gregario del campo avverso, Stefano, impugnò il decreto «per illegalità» e la spuntò3. Apollodoro poteva permettersi di subire una condanna «per illegalità», non il suo leader. Nell’età della guerra peloponnesiaca, un esempio significativo del rapporto capi-gregari è quello delle assemblee che portano alla decisione di attaccare Siracusa, ben documentato dal resoconto tucidideo. Tutto è cominciato con una campagna, orchestrata da Alcibiade, di contro all’ostilità dell’altro leader del momento, Nicia, l’artefice della pace che porta il suo nome. Si tengono varie assemblee in cui l’orientamento bellicista tende ad affermarsi e infine prende corpo nella designazione dei comandanti cui affidare la spedizione. Nicia, sino a quel punto prudente, è costretto a scoprirsi dall’abile mossa avversaria che coinvolge anche lui nel comando (Tucidide, VI, 8,4). Si decide a parlare e svolge una serie di argomenti intorno ai rischi che la spedizione comporta; non attacca direttamente e nominalmente Alcibiade, ma allude alla sua ambizione con il solito giro di frase dell’oratoria assembleare: «Se c’è qualcuno che vi spinge a salpare, pensoso soprattutto del proprio interesse ed è per giunta ancora giovane per assumere un comando...» (Tucidide, VI, 12,2). Dopo che Nicia ha parlato, una serie di anonimi oratori va alla tribuna per caldeggiare la spedizione e cancellare l’effetto – sull’Assemblea – del discorso di un leader prestigioso ed influentissimo come Nicia (Tucidide, VI, 15,1). Dopo di che va alla tribuna Alcibiade. L’Assemblea, che pure non lo ama incondizionatamente, è ormai matura per la sua replica, che infatti sarà tutta orientata a respingere prima l’allusione personale e poi gli argomenti politici di Nicia: «Più che ad altri – così incomincia – il comando spetta a me, Ateniesi. Devo cominciare di qui dato che è a me che Nicia ha voluto alludere. Del resto io mi reputo del tutto degno del comando» (VI, 16,1). Tono tracotante, che si spiega con l’isolamento in cui ha finito col trovarsi Nicia, dopo il suo intervento. Per Nicia la partita è persa. Non può che ripiegare sulla linea di invocare il massimo di preparazione possibile, che peraltro non precisa in che misura debba concretarsi. Ed allora è facile ai «retori minori» incalzarlo e metterlo alle corde facendo stabilire proprio a lui l’entità del corpo di spedizione e il numero delle navi. Alcibiade non deve scomodarsi a parlare, può assistere all’umiliazione di Nicia, costretto a trattare alla pari con i «retori minori» che lo incalzano. Gente di cui Tucidide non si degna neanche di fa-

XXI. Persuasione e democrazia

375

re il nome; dice semplicemente: «un tale, rivolgendosi direttamente a Nicia, gli disse di smetterla di traccheggiare ecc.» (VI, 25,1); è da Aristofane (Lisistrata, 391) e da Plutarco (Vita di Nicia, 12,6) che sappiamo che questo «tale» era Demostrato, un rozzo politico di terz’ordine noto come instancabile bestemmiatore (Eupoli, Demi, Fr. 97 Kock). Naturalmente non è necessario che Demostrato fosse già inquadrato tra i «retori minori» al servizio di Alcibiade: poteva benissimo, con interventi come questo, aspirare ad entrare nel suo entourage, o, occasionalmente, per una convergenza di interessi, scegliere di collaborare in quella circostanza con lui. Ecco dunque un caso concreto di funzionamento dell’assemblea e di impegno oratorio a diversi livelli rispetto ad una decisione politica molto impegnativa. Probabilmente nessuno rimpiangerà la perdita dei frequentissimi interventi assembleari del tipo di quello di Demostrato il bestemmiatore. Possiamo ragionevolmente ritenere che il livello medio dell’oratoria dei gregari fosse del tutto mediocre. Ciò che invece rappresenta una perdita è la scomparsa – dovuta, come s’è detto, alla riluttanza dei politici a «scrivere» – della grande oratoria assembleare che ha animato, nella parola dei maggiori leaders, la lunga e intensa storia della democrazia ateniese. In sostanza disponiamo unicamente della parafrasi tucididea di alcuni importanti discorsi del periodo 431-411 e del resoconto molto efficace, dovuto ad un testimone oculare come Senofonte, di tre interventi del periodo della guerra civile (404/3). Un insperato sussidio, che manca però per tutto il resto, tranne che – in modo unilaterale – per l’età demostenica. Solo ad un certo momento il sempre più perfezionato bagaglio di elaborazione tecnico-retorica ha trovato un campo di applicazione in un surrogato dell’oratoria politica: nell’oratoria politica ‘fittizia’, ‘pensata’ per occasioni assembleari immaginarie, di cui gli opuscoli di Isocrate – composti tra il 380 e il 339 a.C. – sono l’esemplificazione più significativa. Ma era chiaro a tutti che si trattava di oratoria destinata alla lettura e alla meditazione semiprivata. Già i critici antichi notavano che, per l’enormità dei periodi, gli opuscoli isocratei non erano recitabili a voce sostenuta all’aperto dalla tribuna. Ben diversi anche in questo, oltre che nella misura strabocchevole rispetto ai tempi ‘reali’ dell’oratoria politica, dalle demegorie demosteniche, a torto considerate, anch’esse, da una autorevole tradizione di studi (Wilamowitz, Schwartz), come esemplari di oratoria politica fittizia (cfr. p. 439).

376

L’oratoria attica

4. L’oratoria giudiziaria: cliente e consulente Elaborata per iscritto è invece stata, sin da epoca remota, l’oratoria giudiziaria: l’oratoria di consumo, prodotta per usi pratici e contingenti. In quanto praticata da tecnici – i quali lavorano a pagamento per i clienti – questa oratoria, come quella politica, si giova dello sviluppo della técnh, ma, molto più dell’oratoria politica, è nella maggioranza dei casi (anche quando i logografi sono dei rinomati logografi) prodotto di routine: di quella mastodontica routine giudiziaria che è l’alimento della città democratica. (I grandi processi politici sono l’eccezione.) Questo genere di produzione costituisce la parte più consistente dell’oratoria superstite. È come se avessimo fasci di comparse di bravi avvocati. Per capire come mai si sia conservata soprattutto questa ‘quotidiana’ produzione di routine, conviene considerare più attentamente come essa nasca, come venga elaborata ed a quali esigenze risponda. La premessa è la prassi giudiziaria ateniese, secondo cui il diretto interessato – accusato o accusatore – è tenuto a pronunciare personalmente la propria arringa. È questo che fa sì che i più ricorrano, a pagamento, all’aiuto di oratori professionali, detti appunto «logografi». Recitano in tribunale discorsi redatti da altri: sono in certo senso come delle maschere. L’aiuto del logografo consente di aggirare la norma: Quintiliano – che ne parla secoli più tardi – definisce questa una vera e propria «frode» (Inst. Or., II, 15,30). Si spiega così il carattere, avvertito come non limpido, del mestiere di logografo, nonché l’ambiguo rapporto tra cliente e consulente. Inoltre, ogni causa è un caso a sé, anche se, ovviamente, si inquadra in una tipologia procedurale; ed ha bisogno di un discorso ad hoc, adatto allo specifico oggetto della controversia. Ecco perché ciascuno di questi discorsi dev’essere redatto quasi per intero per iscritto: perché in genere dev’essere mandato a memoria e recitato da una persona diversa da colui che lo ha composto; e inoltre ogni controversia richiede specifici ragionamenti. Si comprende perciò come, in una vita giudiziaria intensa come quella ateniese, si sia venuta accumulando nel tempo una massa di discorsi scritti di argomento giudiziario della più varia qualità e provenienza. Una modesta parte confluì in raccolte, di cui sono giunti a noi soltanto degli spezzoni. Vita giudiziaria intensa. È quasi una caratteristica peculiare dello stile di vita ateniese. L’autore della Costituzione degli Ateniesi trac-

XXI. Persuasione e democrazia

377

cia un quadro quasi comico dell’attività giudiziaria perenne in cui sono impegnati gli Ateniesi, tanto che gli alleati costretti a venire ad Atene per risolvere pratiche e processi sono costretti ad attese persino di un anno (il che giova molto agli affittacamere, che hanno così degli inquilini da spremere). Secondo i calcoli di Schifacleone, nelle Vespe di Aristofane (vv. 661-662), circa seimila Ateniesi l’anno sono impegnati come giudici nei molteplici tribunali a tempo pieno, di cui la città è dotata da quando è stato frantumato il potere accentratore dell’Areopago: una cifra altissima, su di una popolazione che si è calcolata di circa 16.000 opliti e cavalieri e 12.000 teti intorno al 425. Una cifra evidentemente necessaria a far fronte alla grande domanda di attività giudiziaria, e perciò anche di consulenza logografica che risulta, tra l’altro, dalla efficace descrizione aristofanea della vita del logografo. Nelle Nuvole, quando Strepsiade è stato accettato nella scuola di Socrate e si accinge ad imparare l’arte del discorso, che gli consentirà di tenere a bada i suoi creditori, il coro delle Nuvole gli prospetta i vantaggi che gli verranno dall’apprendimento di quell’arte: «Alle porte di casa tua folle di persone siederanno, in attesa di poterti consultare, di potersi abboccare con te, e ti verranno a chiedere un parere su affari e processi per controversie riguardanti parecchi talenti» (Nuvole, 466-475). Passo illuminante, anche perché aiuta a comprendere la varietà di ‘usi’ di cui è suscettibile un logografo: consultazioni, abboccamenti, pareri. Anche Tucidide, quando rievoca l’attività di Antifonte, il quale faceva il logografo – una scelta da ‘meteco’ – perché non intendeva far politica nel sistema democratico, dice di lui che era «bravissimo nell’aiutare chi venisse a consultarlo» (VIII, 68,1). Ma, beninteso, la sua attività non si limitava alla consulenza: si esplicava anche nella compiuta redazione di discorsi scritti (ne sono infatti conservati sei, tutti relativi a processi per omicidio). La consulenza poteva consistere nella riscrittura di un canovaccio già preparato dal cliente, ovvero nell’inserzione di parti nuove (esordio, epilogo, ragionamenti particolarmente elaborati), o anche – ed è questo il caso su cui più frequentemente ci si sofferma – nella integrale composizione del discorso per il cliente. Per lo più si trascura, quando si considera l’oratoria giudiziaria ateniese, l’apporto attivo del cliente. Eppure questo apporto è, dopo tutto, essenziale, dato che – anche quando il discorso è tutto scritto dal logografo – è pur sempre il cliente che racconta all’avvocato i fatti suoi e gli fornisce la trama su cui imbastire il discorso. È merito di Kenneth Ja-

378

L’oratoria attica

mes Dover aver messo in luce la complessità del rapporto clienteconsulente, a partire dal caso concreto del corpus lisiaco. Ma dalla complessità di questo rapporto discendono varie implicazioni. Ne vedremo alcune, che hanno rilievo per meglio intendere la natura delle superstiti raccolte di oratoria giudiziaria: una massa di discorsi di interesse talora modestissimo, che hanno ben presto circolato sotto il nome di celebri logografi, o di personaggi che avevano fatto anche questo mestiere (Lisia, Antifonte, Isocrate per un certo periodo della sua vita, Demostene, ecc.). Alcuni dati ‘economici’ non vanno trascurati. Innanzi tutto il logografo va pagato, ed è tanto più elevato il compenso quanto più ampia sarà la sua prestazione: perciò il cliente ha tutto l’interesse a consultare l’esperto, ma anche ad impadronirsi in qualche modo, anche rudimentale, di quella tecnica ed a fare quindi, in certa misura, da sé. Fiorisce perciò un commercio librario di discorsi già confezionati ed usati. Siamo certi che questo commercio esistesse, dato che Aristotele smentiva Afareo, il figlio adottivo di Isocrate – il quale negava che suo padre avesse mai fatto il logografo – dicendo che presso i librai c’erano «fasci» (désmai) di discorsi giudiziari di suo padre (Fr. 140 Rose). Esiste quindi questo commercio evidentemente perché ci sono degli acquirenti. E sono, come è chiaro, i clienti, o meglio i potenziali clienti che cercano di attrezzarsi per ridurre in parte la propria dipendenza dal logografo: usando discorsi già tenuti in cause simili alla propria, onde potersi recare dal consulente almeno con una traccia di discorso già pronta. Proprio dal costume dei librai trarrà origine quella classificazione per tipi di cause che vige in tutte le raccolte superstiti e che fu adottata dagli Alessandrini. È la classificazione più pratica che i librai potessero adottare per offrire quel ricco materiale ai loro frequentatori. Numerosi probabilmente, e rispetto ai quali non sono che un modesto campione – in un arco di tempo di quasi un secolo – quelle poche centinaia di Ateniesi qualunque passati alla storia perché protagonisti delle cause cui si riferiscono le orazioni acquistate dalla Biblioteca di Alessandria. Quando Demostene, ventenne, nel 364 fece causa ai suoi tutori, Afobo e Onetore, sostenendo che avevano saccheggiato il suo patrimonio, si affrettò ad attingere a quello che veniva considerato il maggior esperto in cause di eredità, Iseo: e infatti possiamo osservare che al principio del discorso d’accusa contro Afobo (27,2) e in conclusione di quello contro Onetore (30,37) riprende alla lettera alcuni svolgimenti da un discorso di Iseo (8,4-6 e 12). È evidente che si è procurato quel discorso e lo ha messo a frutto per la

XXI. Persuasione e democrazia

379

sua causa: non era ancora un logografo, era un giovanotto e il maturo Iseo, nel suo campo, una celebrità. Una tradizione sosteneva che Demostene, negli anni della sua formazione, aveva «frequentato» Iseo (Vite dei dieci oratori, 844B): un’idea che sarà nata semplicemente dalla constatazione che – alle prese col suo processo sull’eredità – egli ne aveva utilizzato alcuni discorsi. Quello di Demostene è un caso che ci è ben noto perché il giovane in lotta coi suoi ex-tutori divenne poi un personaggio (ed un logografo) rinomato. Ma non sarà mai apprezzato abbastanza il fatto, ovvio, che da questi tecnici del discorso e più o meno esperti della legislazione vigente, i «logografi» appunto, è dipeso non solo il successo ma la sicurezza materiale e talora la vita di migliaia e migliaia di clienti. 5. I librai e la formazione delle raccolte È dunque un commercio fiorente quello dei «fasci di discorsi giudiziari», come si esprime Aristotele. E, appunto perché redditizio, sottoposto ad un fattore che non è possibile trascurare: l’intervento dei librai, anch’esso dettato da criteri di convenienza economica. Sulle copie di discorsi già usati che mettevano in vendita, essi avevano tutto l’interesse a porre il nome di logografi celebri: resili più ‘pregiati’, li avrebbero venduti ad un prezzo più elevato. Erano tantissimi a fare quel mestiere: in fondo una categoria indefinita, se anche lo Strepsiade delle Nuvole aristofanee può diventarlo. Isocrate, quando non faceva più quel mestiere, diceva con disdegno: «sono tantissimi quelli che confezionano discorsi per i clienti» (Sullo scambio, 41). Meglio dunque per un libraio far passare, se possibile, a torto o a ragione, per arringa d’autore quella che un povero diavolo gli aveva venduto dopo averla messa insieme con l’aiuto di un logografo di terz’ordine. Né vi era del resto da parte dei logografi un particolare impegno a rivendicare la paternità dei propri prodotti, data la natura non proprio esaltante del loro mestiere. Tanto poco esaltante che Isocrate fece di tutto per farlo dimenticare, ed Eschine lo rinfaccia a Demostene in tutti e tre i discorsi superstiti (1,94 e 170; 2,180; 3,173 e 200). Va da sé perciò che nessuno di loro ha mai pensato di allestire collezioni, da affidare alla posterità, dei propri discorsi logografici. Ne avevano un’idea così strumentale, che quando un cliente protestò con Lisia per il discorso che aveva comprato, dicendo che alla rilettura lo convinceva sem-

380

L’oratoria attica

pre meno, quello gli rispose: «ma tu devi leggerlo una volta sola, davanti ai giudici!» (Plutarco, Sulla loquacità, 5). Alla base del caos di attribuzioni prodotte dal commercio librario vi è anche un altro fattore. Se ha avuto successo, specie poi se ha collaborato anche lui alla stesura, il cliente ha tutto l’interesse a farsi passare senz’altro per autore: così può sperare che altri vengano a consultare lui. Al contrario il libraio, dinanzi all’auto-attribuzione di un cliente dal nome del tutto insignificante, ha mano libera a metterci lui il nome dell’autore. E lo farà, come sappiamo, tenendo d’occhio le quotazioni dei logografi più in voga ben più che l’accertamento filologico del vero autore di quelle più o meno misere pagine. È facile immaginare che, con l’andare del tempo, si saranno venute gonfiando – in base a questo processo – le collezioni dei logografi più rinomati. Non sarà un caso che agli Alessandrini sia pervenuta una collezione di ben 425 discorsi recanti il nome di Lisia e di almeno un centinaio di Dinarco (la lista di Dionigi, Dinarco, 10-13, è mutila). Dinanzi a queste masse di discorsi già classificati secondo le attribuzioni impostesi nel commercio librario, gli studiosi alessandrini ed i loro scolari non poterono fare altro che pretendere di distinguere gli autentici dagli inautentici con criteri cosiddetti stilistici (per ragioni stilistiche, ad esempio, Dionigi di Alicarnasso riteneva autentici solo 233 di quei 425 discorsi di Lisia): adottarono cioè il meno sensato dei criteri utili rispetto ad un materiale caratterizzato dal notorio ed esplicito proposito degli autori di adeguarsi volta a volta alla personalità, alla cultura e allo status del cliente! Del resto anche i moderni continuano talora a parlare di «grazia» e «semplicità» di Lisia, o di «irruenza» e «patetismo» di Demostene, ma poi debbono constatare che «semplice» (non si sa se anche «grazioso») era ritenuto anche Andocide (Vite dei dieci oratori, 835B). Ed è ben singolare osservare un grande conoscitore dell’oratoria giudiziaria come Louis Gernet attribuire senz’altro a Demostene l’orazione XXXVII, Contro Panteneto, risalente al 346/5, periodo in cui è lecito chiedersi se Demostene facesse ancora il logografo, per la risolutiva ragione che lo stile di quel discorso sarebbe «al tempo stesso elastico e solido». Criteri stilistici che nelle mani dei critici antichi produssero talora anche risultati dannosi come ad esempio l’eliminazione dal testo del discorso Contro Neera (LIX della raccolta demostenica) di espressioni ritenute troppo esplicite sul piano sessuale per la ragione che tali espressioni sarebbero estranee allo stile di Demostene. Ma quel discorso, sebbene incluso nella raccolta demostenica, è in realtà costituito da

XXI. Persuasione e democrazia

381

un breve intervento di Teomnesto e da una ampia synegorìa di suo cognato Apollodoro (il satellite di Demostene). E perciò sarebbe stato a rigore necessario chiedersi se quelle espressioni fossero inconsuete anche per Apollodoro: e oltre tutto in un contesto incentrato per larga parte sulla vita da prostituta che Neera a suo tempo aveva condotto ed ora, sistematasi, preferiva far dimenticare. Mai forse vi fu campo in cui i criteri stilistici hanno, con maggiore certezza che in questo, fatto fallimento. Ma il disastro maggiore è che gli studiosi alessandrini ed i loro scolari si misero volonterosamente all’opera con la loro critica «stilistica» assumendo pur sempre come base di partenza – senza confutarle alla radice – le attribuzioni di partenza, assolutamente inaffidabili, con cui quelle collezioni erano loro pervenute. Né può dirsi che la tutela dei curatori e degli eredi, ammesso che ci sia davvero stata, avesse, in alcuni casi almeno, protetto le collezioni degli autori più insigni. Basti pensare che nonostante le proteste di Afareo, agli Alessandrini giunse un corpus isocrateo farcito di orazioni giudiziarie. Eppure Isocrate stesso nel discorso Sullo scambio proclama di non aver mai fatto il logografo! Quale ragione migliore per condannarle in blocco? E invece prudentemente gli Alessandrini dei 60 discorsi giunti loro come isocratei ne respinsero come inautentici molti ma non tutti (ne accettarono chi 28 e chi 25); a noi ne sono giunti 21, compreso un manipolo di discorsi giudiziari che ci impone il quesito: perché mai alla fine gli Alessandrini abbiano decretato proprio di quelli l’autenticità. E quanto a Demostene, morto in malo modo, ma il cui culto fu postumamente tenuto vivo dal nipote Democare, non si può proprio dire che la collezione dei suoi discorsi sia stata messa insieme con il criterio di includervi solo i pezzi autentici, dal momento che essa comprende discorsi che a prima vista vanno attribuiti al suo amico Apollodoro (per esempio il LIX Contro Neera) ed uno che difficilmente sarà suo perché è un attacco contro di lui (il LVIII Contro Teocrine). Ovviamente il caso più impressionante – dove più chiara è stata la deleteria influenza dei librai che hanno gonfiato la collezione del logografo più celebre – è quello della collezione di Lisia. Qui possiamo osservare che, dai 425 discorsi disponibili ancora per Dionigi di Alicarnasso nell’età di Augusto, la raccolta superstite è ridotta a 31 discorsi, dei quali uno solo può ritenersi sicuramente di Lisia perché pronunciato personalmente da Lisia (il XII Contro Eratostene) nel processo che intentò contro gli uccisori di suo fratello subito dopo il rientro in Atene dei democratici di Anito e di Trasibulo.

382

L’oratoria attica

Più prudente degli Alessandrini, Aristotele, che conosceva bene lo scempio compiuto dai librai ateniesi, quando, nella Retorica, cita discorsi giudiziari – o anche l’Epitafio attribuito a Lisia –, non indica mai l’autore, ma ricorre a generiche perifrasi (1410a17-20; 1411a30-36). I dotti antichi sapevano quale terreno minato fosse la logografia dal punto di vista dei possibili criteri di attribuzione: uno certamente da escludersi era quello della coerenza, dal momento che il logografo non deve aderire, o tener fede al proprio pensiero (ammesso che ne abbia uno) ma alla causa, agli interessi, al punto di vista del cliente. Così ad esempio non escludevano – sulla base del materiale tramandato – che Demostene avesse composto i discorsi contrapposti dei contendenti nella stessa causa, Formione e Apollodoro (Plutarco, Vita di Demostene, 15), sebbene, per giunta, Apollodoro fosse notoriamente un suo amico e seguace. Allo stesso modo hanno raccolto sotto il nome di Lisia – che di sicuro fu perseguitato dai Trenta e li avversò e ne perseguì giudiziariamente almeno uno, Eratostene – discorsi come il XXV (Per un cittadino accusato di avere attentato alla democrazia), che è la difesa di un povero diavolo compromessosi col regime dei Trenta. Non ci sono motivi politici né stilistici che parlino pro o contro l’autenticità di nessuna delle 31 orazioni superstiti: non si vede come possano esservene stati pro o contro le altre 400 che non abbiamo. Tutte potrebbero essere di Lisia, ma purtroppo sappiamo che i criteri in forza dei quali esse – tutte! – gli furono attribuite, ben prima che i dotti se ne occupassero, erano assolutamente insani, quando non si trattava di consapevoli false attribuzioni. In queste condizioni l’unica procedura corretta è quella di considerare l’insieme delle orazioni giudiziarie superstiti come una raccolta – più o meno arbitrariamente suddivisa tra vari autori quali più quali meno celebri – preziosa, come tale, allo stesso titolo che la documentazione epigrafica, per la conoscenza dell’ordinamento giuridico, della vita economica e della morale media dell’Atene di V e IV secolo. Note 1 Senofonte nella Costituzione degli Spartani nota che ci sono sempre degli efori affiancati ai capi militari, nella funzione, si potrebbe dire, di «commissari politici». 2 «Esitare a vincere»: gioco di parole tra Nikíav e nikân. 3 Lo racconta Teomnesto, cognato di Apollodoro, nel discorso Contro Neera, ultimo della collezione giudiziaria raccolta sotto il nome di Demostene: LIX, 4-5.

XXII LISIA: UN METECO NELLA GUERRA CIVILE 1. Meteci e democrazia ateniese I meteci sono parte essenziale del sistema democratico ateniese. «La città ha bisogno dei meteci – scrive l’autore della Costituzione degli Ateniesi (1,12) – a causa della grande quantità di tecniche che essi praticano e a causa della flotta». Essi costituiscono, in Atene, una specie di seconda città o città di riserva. Sono presenti in numero considerevole: nel censimento del 316 a.C. risultarono 21.000 cittadini e 10.000 meteci (entrambe le cifre si riferiscono ai soli maschi adulti), ed al principio della guerra del Peloponneso, oltre un secolo prima, è stato calcolato che la loro consistenza numerica era all’incirca la stessa. La loro presenza in una città come Atene è preziosa per il funzionamento del meccanismo politico-economico della democrazia dei soli liberi: né solo sul piano «dei molti mestieri e della flotta», ma anche perché i più ricchi di loro garantiscono una serie di «liturgie» e di offerte più o meno spontanee di contributi in momenti difficili. La ‘bestia’ xenofoba che si annida nell’animo di ogni corpo sociale che – come Atene – fonda la concessione dei diritti politici sulla ‘purezza’ delle origini (sono Ateniesi solo i nati da genitori entrambi ateniesi) può sempre esplodere, in modo più o meno ricattatorio, nei confronti dei residenti che non siano, appunto, cittadini ‘purosangue’. E dunque le generose e più o meno spontanee elargizioni sono anche, per i meteci, specie se molto ricchi, la contropartita del quieto vivere e la garanzia di poter proseguire, in una città a ciò propizia per la sua forza economica e militare, i propri commerci e le proprie attività industriali (a loro volta giovevoli al potenziamento della flotta, pupilla e fondamento della democrazia imperialistica ateniese). Quando, nel 403/2, Lisia, me-

384

L’oratoria attica

teco e figlio del ricchissimo Cefalo, ha voluto – non senza ragione – rievocare le benemerenze sue e della sua famiglia nei confronti di Atene, ricorda «tutte le coregie che abbiamo sostenuto e i contributi che abbiamo versato [...] e i cittadini ateniesi che abbiamo riscattato dalle mani dei nemici» (12,20), e soggiunge anche, tratteggiando così le caratteristiche che rendono i meteci tollerati e graditi: «abbiamo sempre fatto quello che ci veniva richiesto, ci siamo dimostrati sempre molto equilibrati, non ci eravamo fatti nemici». In realtà Cefalo, il padre di Lisia, era venuto a suo tempo ad Atene da Siracusa su richiesta insistente di Pericle (Lisia, 12,4); si era trapiantato nella capitale dell’impero, ed aveva dato vita ad un’industria quanto mai giovevole alla politica imperiale, una grande fabbrica di scudi in cui lavoravano perlomeno 120 schiavi (Lisia, 12,19). Viveva in una splendida casa al Pireo, dove Platone ambienta la Repubblica (singolare omaggio a Lisia ed alla sua famiglia, vittima dei Trenta, da parte del nipote di Crizia): al principio della Repubblica Socrate e Glaucone, il fratello di Platone, stanno per rientrare dal Pireo ad Atene, ma vengono persuasi a restare in casa di Cefalo, dove si svolge poi l’importante dialogo. Questa cornice consente a Platone di nominare anche i figli ancor giovani di Cefalo: Lisia ed i suoi fratelli Eutidemo e Polemarco, quest’ultimo vittima appunto nel 404/3 del massacro dei meteci progettato e attuato dai Trenta poco dopo la presa del potere. 2. I meteci bersaglio dei Trenta: l’arresto di Lisia Si trattò, da parte dei Trenta, di una scelta messa in atto con durezza e determinazione, pienamente coerente con l’analisi della Costituzione degli Ateniesi sull’importanza vitale dei meteci per il funzionamento del sistema democratico. Da un testimone ‘interno’ al regime dei Trenta, qual è Senofonte, apprendiamo (Elleniche, II, 3,21) che ci fu una formale deliberazione (e¢doxe), presa dalla addomesticata Bulè (Lisia, 12,25), su iniziativa di Pisone e Teognide, il poeta tragico entrato a far parte dei Trenta, in forza della quale «ciascuno dei Trenta doveva arrestare un meteco (eçna eçkaston), metterlo a morte, e confiscare le sue ricchezze» (Elleniche, II, 3,21). Fu anche stabilito per ciascuno dei Trenta quale dovesse essere la sua vittima. Questo sembra emergere chiaramente dalla diretta contestazione di Lisia ad Eratostene (il quale aveva appunto eseguito

XXII. Lisia: un meteco nella guerra civile

385

l’incombenza di arrestare suo fratello Polemarco): «Dal momento che era unicamente nelle tue mani salvare o meno Polemarco, perché procedesti al suo arresto?» (12,26). Quanto a Teramene – il quale già manifestava crescente dissenso – gli fu riservato il ‘trattamento di favore’ di «scegliere lui chi volesse» (Elleniche, II, 3,22). Secondo il racconto di Senofonte, egli si sarebbe aspramente rifiutato osservando che questo comportamento era più abietto di quello dei sicofanti (contro cui si era inizialmente rivolta, tra la generale soddisfazione, la repressione dei Trenta: Elleniche, II, 3,12): «Quelli almeno lasciavano in vita coloro che spogliavano dei loro beni; e noi uccideremo degli innocenti per impadronirci dei loro beni?» (II, 3,22). Lisia, nel discorso d’accusa contro Eratostene, pronunciato dopo la caduta dei Trenta, rievoca con precisi dettagli la seduta in cui i Trenta decisero l’azione contro i meteci: «Furono Teognide e Pisone che parlarono, nell’ambito dei Trenta [una seduta ‘riservata’ precedente quella nella Bulè, di cui in 12,25], a proposito dei meteci: sostennero che tra loro vi erano alcuni i quali non gradivano la costituzione1. Soggiunsero che sarebbe stato un ottimo pretesto: avere l’aria di colpire degli avversari politici, ma in realtà fare soldi; la città era allo stremo ed il governo aveva bisogno di danaro. Non ebbero difficoltà a convincere gli astanti: per loro non era nulla ammazzare degli esseri umani, ma fare soldi era ciò cui tenevano di più2. Decisero dunque di arrestarne trenta3, e che di questi due fossero poveri. Così fecero per poter sostenere che l’operazione non era stata compiuta per avidità di danaro, ma che si era agito nell’interesse della costituzione: fecero i loro bravi calcoli [eu¬logístwv non eu¬lógwv conviene leggere] come se si trattasse di un’operazione qualunque» (12,6-7).

Dalla ricostruzione di Lisia sembra che l’attuazione di questo progetto sia stata immediata. Nel seguito del racconto egli dà un quadro efficace della notte di terrore in cui i Trenta andarono a prendersi personalmente ciascuno la sua vittima: «Suddivisesi dunque le case delle vittime, si misero in strada. Me, mi trovarono che avevo ospiti a cena: li cacciano e mi consegnano a Pisone. Una parte degli aggressori irrompe nella fabbrica e si mette a fare la lista degli schiavi. Chiedo a Pisone se è disposto a salvarmi la vita se gli do soldi. Risponde: Sì, se la somma è forte. Gli dico che sono pronto a dargli un talento d’argento. Affare fatto. Sapevo che era uno spergiuro miscredente: comunque, data la situazione, mi parve indispensabile pretendere che si impegnasse con un giuramento. Dopo che ebbe giurato

386

L’oratoria attica

(aggiungendo una serie di maledizioni su di sé e sui figli se avesse tradito l’impegno), io entro nella mia stanza e apro la cassaforte. Pisone se ne accorge, entra anche lui, vede quello che c’è dentro, chiama due sgherri e dà ordine di svuotare la cassaforte. Giudici! Dentro non c’era solo quello che avevamo pattuito: c’erano tre talenti, quattrocento ciziceni, cento darici e quattro coppe di argento. Allora gli chiedo di lasciarmi almeno il necessario per il viaggio. Mi risponde: Ringrazia se ti salverai la pelle! Mentre usciamo incontriamo Melobio e Mnesiteide, altri due dei Trenta, che escono dalla mia fabbrica: ci trovano proprio sulla porta e chiedono dove stiamo andando. Pisone risponde che andava a casa di mio fratello per fare anche lì una perquisizione. Lui lo lasciano andare, a me danno l’ordine di seguirli da Damnippo. Pisone mi si avvicina, mi bisbiglia di non dire nulla e di star tranquillo, mi raggiungerà lì. A casa di Damnippo troviamo Teognide che tiene già altri in custodia. Mi consegnano a lui e se ne vanno. In questa situazione decisi di rischiare: il pericolo di lasciarci la pelle c’era già. Chiamo Damnippo e gli dico: ‘Tu sei mio amico ed io sono in casa tua. Io non ho fatto nulla. È per i miei soldi che mi vogliono ammazzare. Aiutami. Usa l’autorità che hai per salvarmi’. Lui accettò. Però pensava che fosse meglio accennarne a Teognide, molto venale, secondo lui. Mentre loro parlavano, decisi che quello era il momento – conoscevo la casa, sapevo che aveva due porte. Pensai: se riesco a scappare, sono salvo; se invece mi prendono, ma Teognide si è fatto convincere da Damnippo a farsi comprare, ugualmente sono salvo; in caso contrario mi fanno fuori: ma è esattamente ciò che mi tocca se resto qui. Perciò tentai la fuga, mentre loro controllavano l’entrata che dà sul cortile. Tre erano le porte che bisognava superare per mettersi in salvo, tutte e tre erano aperte! Arrivo da Archeneo, l’armatore. Lo mando in città [Lisia abitava al Pireo nella casa paterna] a prendere notizie di mio fratello. Quando torna mi riferisce che Eratostene l’aveva arrestato per la strada e condotto in carcere. Saputo questo, la notte seguente mi misi in mare per Megara. A Polemarco [il fratello arrestato] i Trenta diedero l’ordine loro abituale: di bere la cicuta, senza neanche notificargli per quale accusa dovesse morire. Va da sé che non ci fu né processo né giudizio. E quando fu trasportato morto fuori dal carcere, vietarono persino che il corteo funebre partisse da una delle nostre tre case» (12,8-18).

La dinamica di quella notte di terrore, quale è descritta da Lisia, conferma che l’operazione comportava una vittima per ciascuno: Lisia, sorpreso con degli ospiti, viene «consegnato» a Pisone (12,8). Pisone stesso quando annuncia che intende andare a ‘dare uno sguardo’ alla casa di Polemarco (12,12) – probabilmente una

XXII. Lisia: un meteco nella guerra civile

387

trovata estemporanea per liberarsi dell’impegno preso con Lisia di salvargli la vita – non manifesta l’intenzione di arrestare lui Polemarco: sarà infatti Eratostene che lo arresterà incontrandolo per la strada (12,16), appunto perché Polemarco ‘spettava’ a lui, e «unicamente nelle sue mani» – come dice Lisia poco dopo – era la sua eventuale salvezza (12,26). Lisia vive al Pireo, nella casa paterna; in quella notte non si è mosso dal Pireo, e già solo nelle strade del Pireo ha visto all’opera quattro dei Trenta: Pisone, Melobio, Mnesiteide e Teognide. Teognide poi, quando sopraggiunge Lisia arrestato, ha già in custodia vari arrestati in un punto di raccolta che è la casa di Damnippo: evidentemente altri meteci, dato che i meteci erano l’obiettivo di quella retata. Tutto questo conferma che i bersagli prescelti non erano soltanto dieci ma, appunto, secondo la precisa testimonianza di Senofonte, uno per ciascuno dei Trenta. Coloro coi quali Lisia ha cercato di ‘trattare’, in quella notte, per la propria salvezza – prima Pisone, poi Damnippo – o lo hanno consapevolmente ingannato o hanno preso tempo cercando di coprirsi. E infatti un condannato a morte scampato ad un regime di terrore rappresenta un grande pericolo per quel regime. In particolare Lisia vivo è un pericolo per i Trenta: perché ha visto come è stata organizzata la caccia notturna (invece il sistema dei Trenta è di far scomparire le vittime nel nulla), e un domani – in una situazione comunque ‘normalizzata’ – disporrebbe di tutte le premesse per perseguire (già perché congiunto dell’ucciso) gli assassini di Polemarco. Lisia ha potuto rendersi conto del meccanismo dell’operazione ‘meteci’ e sa meglio di chiunque altro come e contro chi rivalersi per la morte di Polemarco. Nel diritto attico è fondamentale che di un reato sia individuabile un preciso responsabile – un generico soggetto come per esempio un ‘regime’ difficilmente sarà un imputato –, e che a perseguirlo sia una persona avente causa, un congiunto. Lisia ha potuto osservare il meccanismo della ‘preda individuale’ – lui stesso è stato «consegnato» a Pisone –, ha la precisa notizia dell’arresto di Polemarco da parte di Eratostene, e in quanto fratello dell’ucciso saprà contro chi rivalersi. Di qui l’importanza del processo che, caduti i Trenta, Lisia intenterà contro Eratostene. Uno dei pochi casi in cui – proprio perché era sopravvissuto un testimone imbarazzante come Lisia – era (e fu) possibile perseguire legalmente un crimine del ‘regime’ e infrangere quella barriera, difficilmente vulnerabile a distanza di tempo con le normali procedure, costituita dalla collettiva e dunque generica correità di tutti: che era stata, non a caso, la linea di condotta imposta ogni volta da Crizia.

388

L’oratoria attica

3. Lisia con i ‘liberatori’: la ‘pacificazione’ Rifugiatosi a Megara, Lisia, le cui ricchezze ed il cui credito dobbiamo immaginare di ampiezza tale da reggere persino alla razzia dei Trenta, ha finanziato in modo consistente la lotta armata organ