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PARTE PRIMA
. TRA REAZIONE.ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA··.FILOSOFIA CON'TEMPORANEA SEZIONE PRIMA
IL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA · · SEZIONE SECONDA
SPIRITUALISMO PRAGMATISMO NEO-IDEALISMO
SEZIONE PRIMA
IL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA
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Nietzsche (1844-1900):
• • d ll'. a priori attivo, rappresentato a e 10rme a pnon e mtelletto. Tali forme non sono da intendere - ma così da Kant sono intese- come un a priori preformato e vuoto, sussistente prima e indipendentemente dai dati provenienti dalla sensibilità, che lo riempirebbero. Al contrario, le forme sono le leggi del contenuto, immanenti ad esso e da esso inseparabili, in quanto ne sono il principio produttivo. La lettura neocriticistica di Kant cancella la distinzione tra estetica e logica trascendentale, tra sensibilità e intelletto, interpretando in senso logicistico la teoria del trascendentale. Ciò significa, afferma Cohen nel primo volume del suo Sistema di filosofia, pubblicato nel 1902 con il titolo di «Logica della conoscenza pura», che «noi cominciamo col pensiero ... Questo non può avere nessuna origine fuori di sé. Noi, qui, cerchiamo di costruire la logica come dottrina del pensiero e questa logica è, dottrina della conoscenza».
Non esistono dati della conoscenza che non siano posti dallo stesso pensiero, il quale è di per sé ... produttivo di conoscenza, sicché le categorie in Produtttvtta.del cui esso si articola sono gnoseologicamente esau.. penstero .. . TT d' . . stive e non, come m 1'-.ant, semp11c1 con 1z10m della pensabilità del reale, incapaci di offrire una conoscenza senza l'apporto delle intuizioni sensibili. I marburghesi fanno cadere la distinzione, così cara a Kant, tra pensare e conoscere - e dunque tra analitica e dialettica trascendentale -, e concludono alla identificazione di essere e pensiero, con la Rifiuto .della. conseguenza d'1 n'f'mtare d'1 Kant anche 1a dottn· cosa tn se na dell a cosa m . se., Questa, mamm1ss1 . . 'b'l 1 e come presupposto realistico della conoscenza, è semmai da intendersi come il concetto limite che segna i limiti
dell'esperienza e insieme l'inesauribilità dell'oggetto dell'indagine· scientifica. Potrebbe sembrare che il riconoscimento della produttività del pensiero e l'identificazione di questo con l'essere rappresentino uno scivolamento del neocriticismo su posizioni idealistiche analoghe a quelle maturate nella filosofia post-kantiana da Fichte ad Hegel. Non è così: di contro ai Fichte e agli Hegel che identificano pensiero e soggettività in una metafisica del .so.ggett? ass~lut~, ~, più .i~ gen~ra~e, contro Contro ogm tipo d1 cosc1enz~ahsmo, I _filosofi d1 Mar~u:- l'idealismo e il go non fanno nessuna concessiOne alla soggettivi- coscienzialismo tà, sia intesa in senso idealistico, sia nel senso delle filosofie empiristiche e psicologistiche. Essi escludono dal pensiero qualsiasi elemento soggettivo, e lo risolvono nelle strutture logico-oggettive dei suoi contenuti, che hanno senso e valore indipendentemente dall'attività pensante soggettiva. Anche quando vengono usati i termini tradizionalmente riferiti alla soggettività, come coscienza, autocoscienza, atti" vità, questi vengono sempre ricondotti ad un significato puramente logico, indifferente ai processi di un io psichicamente determinato. Il pensiero di cui Cohen e Natorp parlano è il pensiero della scienza, la cui validità si misura soltanto sulla base dell'oggettiva pensabilità dei suoi principi. La conferma della lontananza del neocriticismo di Marburgo da ogni forma di coscienzialismo è data dal suo stesso privilegiare, nella linea del pensiero moderno che si svolge da Cartesio a Newton e a Kant, le scienze matematiche della natura. Per Cohen, e così anche per Natorp, la logica, che costituisce l'autocoscienza del pensiero, è sempre e soltanto logica . . l k . . , . . Prtmato del de11a matematica, e a stessa antlana umta ong1- pens'ero naria della coscienza, quell' «io penso» che tanto mate~atico aveva ispirato l'idealismo nelle sue elucubrazioni metafisiche, non è altro che «l'unità della coscienza scientifica». La stessa produttività del pensiero è spiegata da Cohen assumendo come punto d'appoggio il calcolo infinitesimale, che egli definisce «il prototipo di una ragione a priori», e acui aveva dedicato nel1883 un saggio, Il principio del metodo infinitesimale e la sua storia, assai importante da un punto di vista filosofico, molto meno da quello scientifico. Il calcolo infinitesimale testimonia della potenza produttiva del pensiero: operando con gli infinitesimi, che sono un puro prodotto della coscienza scientifica, il pensiero, attraverso operazioni logiche scevre di ogni supporto intuitivo, fa nascere gli enti geometrici, spiega lo spazio, il tempo, il movimento, fornendo la chiave che ci fa comprendere il passaggio dal mondo possibile al mondo reale. Pur essendo assolutamente preminente nell'opera di Cohen l'interesse logico-matematico, egli estende il criticismo anche agli altri ambiti della vita spirituale, completando il sistema filosofico con una Etica della
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SEZIONE PRIMA. IL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA CAPITOLO 2
volontà pura (1904) e una Estetica del sentimento puro (1912), anch'esse incentrate sulla ricerca delle condizioni a priori di possibilità e validità delle oggetMor~ler~~ tivazioni spirituali di cui si occupano, la morale, 1 es e appunto, e l'estetica. Come l'esperienza scientifica deve poter essere ricondotta ad una «conoscenza pura» - nel senso kantiano del termine «puro» -, così anche la morale trova fondamento su un «volere puro», e l'estetica su un «sentimento puro». Sul terreno dell'etica, Cohen, e d'accordo con lui Natorp, rivolgono una critica al materialismo storico del marxismo, sostenendo una sorta di «socialismo kantiano»: non la lotta di classe né le contraddizioni oggettive interne all'economia capitalistica spingono in direzione del socialismo, bensì l'imperativo morale kantìano che comanda dì volere l'umanità dì ogni persona come fine e non semplicemente come mezzo, .. e quindi richiede la trasformazione in senso so50 181 1 Un c ~mno cialista di una società nella quale il lavoratore è 1 o Cf.)
Non può sfuggire l'intonazione idealistica di questa filosofia delle forme simboliche. Queste forme, infatti, «non sono modi diversi in cui una realtà .Lebfo.rmhe esistente in sé si riveli allo spirito, ma sono inve1 s1mo1ce . . segue ne lla sua oggettlva· ce le . v1e ch e olspmto zione, cioè nel suo manifestarsi», vere e proprie tappe, si direbbe, di una nuova «fenomenologia dello spirito». Avverso ad ogni tendenza a dedurre le diverse forme simboliche dello spirito l'una dall'altra o a risolverle l'una nell'altra, attento anzi a rivendicare il significato specifico e il valore autonomo di ognuna di esse, Cassirer non rinuncia peraltro a scorgere nella . scienza il momento più alto e significativo di Il pnmato.della quel procedere di «una progressiva autoliberascmnza. zwne dll' e uomo» che e'l a eultura presa ne l suo insieme. Se, infatti, il «simbolizzare» costituisce, come si è visto, un progressivo distanziarsi dell'uomo dall'immediatezza empirica, una sua crescente capacità di mediarla attraverso il linguaggio, allora la libertà dell'uomo sarà tanto più completa quanto il linguaggio in cui essa si esprime sarà sempre meno
intuitivo e sempre più formalizzato ed astratto, qual è, appunto, quello della scienza, e della scienza fisicomatematica in particolare. Nonostante lo straordinario allargamento dei suoi interessi in direzione delle scienze dello spirito e dell'antropologia filosofica, Cassirer mantenne sempre una fervida attenzione ai problemi filosofici sorgenti dagli straordinari sviluppi della matematica e della fisica. Ne sono testimonianza gli scritti che egli dedica alla teoria della relatività, Sulla teoria einsteiniana della relatività del 1921, e alla fisica dei quanti, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna del1937. In questi saggi Cassirer è impegnato a K .. . . . . . d ll ani e 1a 11s1ca S?~tenere che le straordmane ~nnovaztom. . e a moderna f1s1ca moderna non sarebbero m contradd1z10ne con gli assunti fondamentali della gnoseologia kantiana. Da una parte, la teoria della relatività (v. CAP. 26*, PAR. 8.2), pur rinnovando radicalmente i concetti di spazio e di tempo, continua a concepirli come principi strutturali della. conoscenza, dall'altra essa rappresenta una conferma della teoria kantiana dell'oggettività fisica come costruzione concettuale, indipendente dai contenuti percettivi. Quanto alla fisica quantistica, Cassirer ritiene che il principio di indeterminazione di Heisenberg (V. CAP. 26*, PAR. 9), pur richiedendo il rifiuto del principio di causalità così come è stato formulato dal determinismo assoluto di Laplace, non sia incompatibile con la concezione kantiana della causalità intesa come principio metodico necessario a dare carattere sistematico alle conoscenze scientifiche.
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Il neocriticismo: la scuola del Baden ilhelm Windelband (1848-1915), il maggiore esponente del neocriticismo di Heidelberg, è tra i più importanti storici ottocenteschi della filosofia. La sua Storia della filosofia moderna (1878-80) è costruita secondo un esplicito punto di vista neokantiano. Kant viene presentato come il pensatore in cui si incontrano le diverse tendenze filosofiche del mondo moderno: il suo pensiero da una parte è il punto di confluenza delle indagini Windelba~d: che razionalismo ed empirismo avevano dedicauno stanco ll' . . , . ll d' .. . f' · della filosofia te a att1v1ta teoret1ca e a e 1sc1p1me lSlco-matematiche, nello sforzo di innalzarsi ad una prospettiva critica; dall'altra, il punto d'origine dell'idealismo assoluto che, per altro, avrebbe distorto in senso metafisica la filosofia kantiana, facendo maturare l'esigenza di un ritorno alle premesse del criticismo. Ciò che unisce i filosofi di Heidelberg ai neocriti1 neocriticisti: cisti di Marburgo, è la comune interpretazione un comune denominatore anti-psicologistica del kantismo, e l'attribuzione alla filosofia del compito di ricondurre la cono-
scenza alla struttura formale, che ne garantisca la validità oggettiva sulla base di principi trascendentali valevoli indipendentemente dalla dimensione psicologica della soggettività empirica individuale. Ciò che invece costituisce l'aspetto inconfondibile della filosofia del Baden, è l'aver posto al centro della propria attenzione il problema del valore. I principi a priori che fondano l'oggettività della conoscenza vengono ora intesi come «valori», il cui carat. . tere normativa è del tutto indipendente dalla lo- dun~ 11101501.118 . . "' · rea11zzazwne · l, .. el> riconosciuta la relatività della conoscenza storica, non c'è il rischio di concludere ad una forma più o meno esplicita di relativismo e di soggettivismo scettico? Lo storicismo di Dilthey vuole dare la risposta a queste domande.
tale che non patisce alcuna limitazione né di spazio né di tempo, e che viene, addirittura, ipostatizzato in una trascendenza metafisica,Dilthey, al contrario, afferma che il soggetto umano nel quale va ricercato il fondamento della conoscenza storica fa esso stesso parte, in quanto individuo concreto, empiricamente situato nella dimensione della temporalità, di quel mondo storico della cui conoscibilità è condizione. Come dire che la ragione, cui è affidato il compito di condurre l'indagine critica sul mondo storico, è essa stessa un prodotto del tempo, risolta com'è, interamente, entro l'orizzonte e il contesto storico in cui si trovano a vivere e a conoscere gli uomini reali.
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Dilthey
(1833-1911):
la critica della ragione storica
ilhelm Dilthey era nato nel 1833 a Briebrich, una piccola cittadina della Renania, figlio di un pastore della chiesa calvinista. Dopo gli studi liceali a Wiesbaden, egli aveva seguito corsi di teologia, filosofia e discipline storiche, prima all'università di Heidelberg, poi a Berlino, dove ebbe tra i suoi maestri Mommsen e il grande Ranke, Berlino alla metà del che gli apparve come l'incarnazione stessa dello secolo XIX spirito storico. Molti anni dopo cosi egli avrebbe ricordato quegli anni: . «Quando giunsi a Berlino all'inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso ... il grande movimento al quale si deve la costituzione definitiva della scienza storica e, attraverso di essa, delle scienze dello spirito in generale, era al suo culmine. Il secolo XVII produsse la scienza fisico-matematica, grazie alla collaborazione dei popoli più evoluti di allora, ma la costituzione della scienza storica è opera dei tedeschi ed ebbe il suo centro a Berlino, ove io ebbi l'inestimabile fortuna di vivere e di studiare in quel periodo». Fu l'ambiente berlinese a decidere della formazione spirituale di Dilthey, interamente raccolta intorno allo studio storico dell' «AufkHirung» - in particolare di Lessiilg - e del romanticismo tedesco nelle sue espressioni artistiche, religiose e filosofiche. FrutUno studioso della cultura to di questi interessi sarebbero stati gli studi su tedesca grandi figure di poeti e filosofi tedeschi dell'età moderna romantica che egli avrebbe condotto lungo l'intero arco della sua vita: dai saggi su Hamann (1865) e su Holderlin (1867) a quello su Goethe (1877), fino alla Vita del giovane Hegel del1905, in cui Dilthey propone un'interpretazione della formazione del pensiero hegeliano in chiave romantica e LJ.J
del 191 O aveva affermato che «lo storicismo trapassa in modo conseguente nell'estremo soggettivismo scet:c l~ tico», ricevendo peraltro da Dilthey stesso nel 1911, _J pochi mesi prima della morte di questi, una risposta o che respingeva l'accusa. Uno svolgimento in senso relativistico dello stodeismo possiamo senza dubbio trovare in altri esponenti della filosofia tedesca del tempo, come Simmel (V. PAR. 7) e, soprattutto, Oswald Spengler (1880-1936), autore di un celebre quanto inconsistente Tramonto dell'Occidente (1918-1922). Nello storicismo diltheyano finisce, invece, col prevalere una opposta tendenza che avrebbe consentito di scorgere in esso una tappa importante nella storia dell'ermeneutica conComunicabilità temporanea (v. CAP. 18, PAR. 2.1). Pur riconoscendo, tra le diverse epoche contro i filosofi delia scuola del Baden, la relatistoriche vità di ogni valore e di ogni situazione storica, Dilthey attribuisce ad ogni epoca storica la possibilità di comunicare, e quindi di confrontarsi, con età passate, e di progettare messaggi per le età future. Se, certamente, l'appartenenza di un individuo alla propria epoca storica lo condiziona, non lo determina però in modo tale da chiuderlo fatalmente entro i confini di quella. La coscienza della condizionalità storica di ogni valore, insomma, non implica necessariamente una conclusione scetticheggiante, quando tra l'uomo e la sua situazione storica sia garantito quell'intervallo che permetta all'uomo stesso, pur all'interno del suo orizzonte storico, di intendere e, in qualche modo, far propri i valori di età passate, e di progettare la comunicazione delle proprie idee, valori e scopi a uomini del tempo futuro, condizionati a loro volta da situazioni storiche ancora nuove e diverse. Indubbia è la radicale storicizzazione dell'uomo cui la filosofia diltheyana perviene: il carattere della storicità non appartiene solo all'oggetto delle scienze dello spirito, ma anche è proprio del soggetto che que. ste scienze costruisce, poiché anch'esso opera aluna ra d1cae1 ,. d' · · · h 1 d' · storicizzazione 1mterno 1una s1tuazwne sto n ca c e o con lZlOdell'uomo na e condiziona il suo operare. E in questo la «ragione storica» è ben diversa dalla «ragion pura» di Kant, le cui categorie stanno fisse nel cielo in temporale e metastorico dell' «apriori»: la «critica della ragione storica» è, in realtà, una «Critica storica della ragione» . Nemmeno la filosofia sfugge all'orizzonte della storicità. Nell'Essenza della filosofia del1907 Dilthey mostra come ogni sistema filosofico, al pari dell'arte e della religione, sia un' «intuizione del mondo» che af. . . • fonda le sue radici in un'esperienza vitale; essa, e011 dIZIOila 1Ila • l d · · · storica della come ogm a tro pro otto stonco, porta 1 segm filosofia della situazione storica in cui sorge e dell'Erlebnis della personalità che l'esprime. Con questa condizionalità storica della filosofia è, però, in contrasto la pretesa, comune a tutti i sistemi filosofici, nonostante il loro reciproco escludersi, di possedere una validità universale, indipendentemente dall'epo-
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ca storica in cui sono sorti. Dilthey affida a quella che egli chiama «filosofia della filosofia» il compito di risolvere questa antinomia, riconoscendo l'aspirazione della filosofia ad una validità universale senza che ciò confligga con la L . . 11 1 ·''dii a«losom stonc1ta e a f'I1 oso f.1a stessa. s·1tratta d'1mostrare della filosofia)) prima di tutto che è la pretesa metafisica del sistema filosofico di risalire ad un principio incondizionato della realtà, in forza del quale proporre un'interpretazione esclusiva ed assoluta del mondo, ad essere una pretesa illusoria, fondata sull'assolutizzazione di un aspetto della realtà a svantaggio degli altri. In questa direzione, Dilthey individua tre tipi di ricorrenti visioni metafisiche del mondo, ognuna T .. d' . val'd' ~ d'1 visioni re tipi l de11e qual1. trae la propna 1 1ta, dal tatto del fondarsi su uno dei tre aspetti dell'Erlebnis- rap- mondo presentazione, sentimento, volontà -, di cui però ha anche il torto di assolutizzare l'apparato categoriale: a. il naturalismo - dagli atomisti antichi ad Hobbes, dagli enciclopedisti settecenteschi al materia-. natura 1smo . . 11 1 hsmo moderno e a Comte - che, facendo esclusivo riferimento all'atteggiamento conoscitivo, riduce la realtà ai rapporti di causa ed effetto, escludendo le categorie di valore e di scopo; b. l'idealismo oggettivo - da Eraclito agli stoici, da Spinoza a Leibniz, da Goethe e Schelling a Schleier- che, facendo esclusivo riferi- L''dl ea 1.ISnlO macher ed Hegel . . • mento al sentimento e alla categona del valore, oggettivo interpreta la realtà come manifestazione di un principio infinito ad essa immanente, che si dispiega nell'ordine e nella bellezza delle forme finite; c. l'idealismo soggettivo - da Platone a Cicerone, dalla filosofia cristiana a Kant e a Fichte, da Maine de Biran a Carlyle - che, facendo esclusivo riferì- L''d 1. ' . .. ll · l ea ISnlO mento a11 atteggiamento vo 11t1vo e a a categona soggettivo di scopo, pone al centro del mondo la personalità libera dell'uomo e la sua capacità di piegare a sé la realtà delle cose. La «filosofia della filosofia», una volta portata a dissoluzione l'illusione metafisica presente in ognuno di questi diversi tipi di sistemi filosofici, ha come funzione ulteriore, questa volta di natura positiva, quella di mostrare che la validità universale di tali sistemi consiste nella presa di coscienza della loro 11 vaore 1 .. , E' • • stonc1ta. questa «autocomprenswne stonca universale della filosofia» che consente di scorgere nella mol- della filosofia teplicità dei sistemi una delle creazioni più importanti e più istruttive della vita. All'intolleranza del filosofo metafisica, che si chiude nel circolo del proprio sistema come se in esso tutto il mondo si esaurisse, fa riscontro la tolleranza del filosofo storicista, disposto a riconoscere in tutte le intuizioni del mondo «la sovranità dello spirito di fronte ad ognuna di esse, e· al tempo stesso la coscienza positiva del fatto che nelle diverse maniere di atteggiarsi dello spirito esiste per noi la realtà unica del mondo».
SEZIONE PRIMA. !L RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA CAPITOLO 2
Simmel
(1858-1918):
il fondatore della filosofia della vita
o storicismo conclude ad esiti esplicitamente relativistici ad opera di Georg Simmel, filosofo e sociologo tedesco destinato ad occupare un posto di qualche rilievo nella cultura filosofica del primo Novecento. Ad ascoltare le sue lezioni dell'università di Berlino, ove egli insegnò dal190 l al 1914, furono giovani studenti come Ernst Bloch e Gyorgy Luh1cs; alcuni temi del suo pensiero sarebbero stati ripresi tra le due guerre mondiali, dai filosofi dell'esistenzialismo; grande, infine, sarebbe stata la sua influenza sulla sociologia novecentesca. Eppure, Simmel fu per lungo tempo, durante la vita, vittima di sospetti e di discriminazioni a causa della sua appartenenza ebraica, in una realtà come quella della Germania guglielmina, nella quale i pregiudizi antisemiti erano particolarmente radicati, anche negli ambienti accademici; tanto più nei confronti di chi, come Siromel, non aderisse ad alcuna confessione religiosa. Nonostante il valore riconosciuto delle sue pubblicazioni e l'amicizia dimostratagli da Dilthey, egli ottenne la cattedra universitaria solo a quarantatré anni, in quella Berlino dove era nato e aveva svolto interamente la sua attività di studioso. Nello sviluppo del pensiero simmeliano si distinguono due momenti fondamentali, tra l'uno e l'altro dei quali interviene una svolta, decisiva dell'ultimo suo approdo. In un primo momento, partendo dall'impostazione critica kantiana ripresa dal neocriticiUna prima fase smo, Simmel si occupa del problema della fondadi pensiero: zione critica delle scienze storiche e sociali, e si soggettivismo relativistico misura con le posizioni di Dilthey da una parte, e con quelle della scuola del Baden dall'altra, riuscendo ad una sorta di soggettiviSIJ10 relativistico. Gli scritti più importanti che documentano questa prima fase sono: Sulla differenziazione sociale. Ricerche sociologiche e psicologiche del 1890, I problemi
capitoli metafisici, edita nel 1918, pochi mesi prima della morte, avvenuta a Strasburgo, nella cui università egli aveva insegnato a partire dal 1914. Del primo periodo della sua attività ci limiteremo ad accennare poche cose. D'accordo con Kant e col neocriticismo nel distinguere, all'interno del costituirsi del sapere, un fattore formale da quello materiale rappresentato dai dati empirici, egli rifiuta però, . in modo radicale l'appartenenza delle categorie Prnn~ fase: la . ' . dottnna delle ad un pmno trascendentale d1verso da quello em- categorie pirico e, di conseguenza, nega la loro apriorità e validità universale e necessaria, sostenendo che anch'esse sorgono dall'esperienza, rappresentando esigenze del soggetto destinate a variare a seconda delle situazioni e degli scopi che si prefigge la ricerca. Le scienze sociali non fanno eccezione: Simmel si propone di individuare le categorie che stanno a base della loro elaborazione concettuale, e che costituiscono i punti di vista relativi, secondo i quali la realtà sociale può essere considerata. Egli concorda con i
della filosofia della storia. Uno studio di teoria della conoscenza del 1892, Filosofia della moneta del 1900 e, infine, Sociologia. Ricerche sulle forme della socialilà del 1908. A partire da I problemi fondamentali della filosofia del 191 O, si apre l'ultima fase del pensiero simmeliano, quando Simmel si convince che la relatività delle scienze storico-sociali e del mondo che esse studiano, così come di ogni altra forma di sapere, trovino giustificazione solo se inquadrate in una prospetUna seconda tiva metafisica. Il punto d'arrivo di questo carofase: una filosofia della mino è una filosofia della vita di forte ispirazione vita romantica, documentata da scritti come Kant e
Goethe. Sulla storia della moderna visione del mondo del 1916, Il conflitto della civiltà moderna del 191 7 e, soprattutto, L 'intuizione della vita. Quattro
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Georg Simmel.
PARTE PRIMA TRA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
positivisti nel riconoscere alle scienze sociali un compito semplicemente descrittivo dei fenomeni sociali sulla base dell'esperienza, ma nega la loro pretesa di ricondurre detti fenomeni a leggf universali e necessa. rie, simili a quelle delle scienze naturali, e tali da Le scm~ze. consentirne la previsione. Se queste leggi certasoe~a 1 1 • • mente sussistono, esse non possono essere attmte attraverso l'osservazione empirica e, pertanto, esorbitano dai poteri della conoscenza scientifica. Le «leggi» che questa elabora posseggono una validità solo ipotetica, soggetta alla verifica della ricerca concreta. Ognuna delle discipline in cui il sapere sociale si articola -la morale, l'economia, la scienza della politica, e così via - ha le proprie strutture categoriali, le proprie specifiche procedure euristiche, che ne segnano la parzialità e la relatività alle esigenze del soggetto impegnato nella ricerca. Quanto alla fondazione della possibilità della conoscenza storica, Simmel tende ad estremizzare la tendenza, già emersa in una fase del pensiero diltheyano, a fondare tale conoscenza sulla psicologia. D'accordo con Dilthey nel ritenere che il sapere storico sia reso possibile dall'identità di soggetto ed oggetto, egli riconduce le categorie di cui si serve lo storico per «rivivere» e «ricostruire» la vita psichica deLa conosce~za gli uomini del passato, alle strutture psicologiche stanca d l . agl'1 mteress1 . . che ammano . la e soggetto, ossia sua ricerca, e che variano col variare delle situazioni storiche in cui si trova ad operare il ricercatore, Vano è parlare di obbiettività della storiografia, come se questa fosse il mèro rispecchiamento dei fatti storici «quàli sono realmente»: ciò che è storicamente «importante» non è né scritto nei fatti che vengono considerati, come vorrebbe il realismo storico, né stabilito in nome di valori trascendenti la storia, come pensano Windelband e Rickert, bensì viene deciso di volta in volta dallo storiografo, sulla base degli interessi che lo guidano. S~rive Simmel: «Che cosa {importante oggettivamente? Se si limita in realtà l'importanza all'avvenimento, particolare o ad altri elementi storici, è indubitabile che 'la si deve 'riporre in questo': esso è importante perché interessa chi lo considera».
Concluso che la validità del sapere storico-sociale non può riposare su di una verità assoluta, e che anzi ci sono tante verità quanti sono i punti di vista secondo cui la realtà può venire considerata, Simmel finisce col riconoscere il fondamento di validità Ac,?e1~1 ! del sapere storico-sociale, ma più in generale di pragma IS ICI f.' d'1sapere, ne lla sua ut11ta, .1. , oss1a . nell a ogm. , 10rma sua rispondenza alle esigenze pratico-vitali dell'uomo, incontrandosi cosi con gli orientamenti del pragmatismo filosofico (V. CAP. 6) e, prima ancora, con la tematica vitalistica di Nietzsche. Ed è proprio la consuetudine con lo studio di Nietzsche e, accanto a lui, di Schopenhauer, che avvia
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Simmel a quella seconda ed ultima fase del suo pensiero in cui, rompendo con l'orientamento La seconda fase: una antimetafisico dello storicismo diltheyano, egli metafisica elabora una metafisica immanentistica della vita. vitalistica Già in Dilthey la categoria della «vita» giuocava, con la teoria dell' «Erleben», un ruolo di grande rilievo, senza però assumere mai un significato metafisico. Essa era concepita come la dimensione in cui si esprime l'attività degli uomini, oggettivandosi nei prodotti storici. La novità che Simmel introduce consiste, viceversa, in una assolutizzazione della vita, che viene assunta come il principio incondizionato e infinito che sta all'origine di tutte le formazioni che costituiscono il mondo storico-culturale degli uomini. Questo non si spiega più con se stesso, ma rimanda ad un' «essenza» metafisica che, come è stato detto da Lukacs, non viene più ricercata nell'uno o nell'altro dei due termini, l'essere e la coscienza, l'oggetto e il soggetto, sulla priorità dell'uno o dell'altro dei quali sempre la filosofia s'era divisa; bensì, in nome di una specie di «terza via», nella «vita», con la quale- ed è lo stesso Simmel a dirlo - «noi ci troviamo nella posizione intermedia tra l'io e l'idea, tra soggetto e oggetto, tra persona e cosmo». Siamo sulla strada, se si guarda bene, che già aveva percorso Schopenhauer, il padre dell'irrazionalismo moderno. Che, al fondo di questa svolta della filosofia simmeliana, vi sia una ispirazione irrazionalistica, non v'è dubbio. La vita viene concepita come un pe. . renne fluire, un continuo autotrascendersi senza lrrazlonalismo ragione e senza scopo, che si esprime nella creazione di «forme» sempre nuove, costitutive di quei «mondi ideali» - scienza, arte, religione, diritto, economia, morale - in cui consiste la civiltà, la realtà spirituale degli uomini. L'irrazionalità intrinseca alla vita è evidenziata dalla contraddizione che questa nasconde in sé, e che così Simmel chiarisce: «In quanto è vita, essa ha bisogno della forma, e in quanto è vita, essa ha bisogno di più della forma. Alla vita è intrinseca questa contraddizione, di poter venir fuori soltanto in forme e tuttavia di non poter restare entro tali forme, ma di dover oltrepassare e rompere ogni forma che ha prodotto».
La vita è insieme più-vita e più-che-vita: è più-vita nel senso 'di uno scorrimento temporale continuo che trascende incessantemente tutti i limiti che via via viene ponendosi; più-che-vita, perché essa delimita la propria infinitudine in forme finite che, emergendo al dì sopra di essa, tendono a fissarsi in strutture permanenti e valevoli indipendentemente da essa, e ad opporsi così alla sua opera distruttrice. È qui che si nasconde il carattere crudele, tragico della civiltà, di ogni civiltà: come di lì a poco anche Freud, a suo modo, avrebbe scritto nel suo Al di là del principio del piacere (V. CAP. 24*, PAR. s), Simmel afferma,
SEZIONE PRIMA. IL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA CAPITOLO 2
ne L'intuizione della vita, che intrinseca alla vita è sempre anche la morte. Vanamente le forme tragico della civiltà ideali, che fanno la civiltà, cercano di perpetuarsi, subordinando ai propri valori spirituali la vita da cui pur sono sorti: irteluttabilmente questa, con la sua terribile forza distruttrice, riafferma il proprio primato, annientando per sempre quelle forme in cui, per un momento, si era venuta chiudendo. Sensibilissimo auscultatore della propria epoca un'epoca, non si dimentichi, nella quale, al di sotto delle splendide immagini della Belle Époque e degli apparenti equilibri europei, si andavano preparando e, anzi, si venivano ormai consumando le crudeltà della guerra imperialistica-, Simmel crede di scorgere nel «conflitto della civiltà moderna>> - titolo del Una ;t@tM·~ii§!"Wl7>~fii;,u,g;-&"W~~mJ·"'•,!ill·,.•~-~·-,..ill!-·.a;;·-l!J•·[òi·[;!;l, • .-m;;~~~!'iim~~~~i!llh'il~~ili!i!!i:!Oll·;,v;'~fl!!·i'l\l· iri•'l>llll!tJi,.lllllll
~ ~~s:aia~~fn~~:fF~o~~ea%~iriottico.
L )assassinio di Rosa Luxemburg !portiamo, dalla biografia della dirigente spartachista scritta alla vigilia della seconda guerra mondiale da Paul Frolich (Rosa Luxemburg, tr. it. di M. Vacafello, La Nuova Italia, Firenze 1970), il racconto della morte di Rosa Luxemburg e del suo compagno di partito Karl Liebknecht, ad opera di uno dei «corpi franchi» di militari controrivoluzionari, di cui si era servito il governo socialdemocratico tedesco per stroncare nel sangue la rivoluzione spartachista a Berlino nel gennaio 1919. «La sera del 15 gennaio verso le nove Karl e Rosa, insieme a Wilhelm Pieck vennero arrestati nel loro ultimo rifugio in Wilmersdorf (Mannheimer Strasse 53) da un drappello di soldati sotto il comando del sottotenente Lindner e dell'albergatore Mehring, membro del consiglio dei cittadini di Wilmersdorf. Gli arrestati dapprima dettero delle false generalità, ma vennero segnalati da una spia che aveva saputo ottenere la fiducia di Liebknecht. Karl venne portato prima al quartier generale del consiglio dei cittadini e poi all'hotel Eden. Qui fu presto raggiunto da Rosa Luxemburg e da Pieck accompagnati da una grossa scorta militare. All'hotel Eden l'assassinio di Karl e di Rosa era già stato deciso e organizzato sotto il comando del capitano Pabst. Al suo arrivo Liebknecht ricevette due c,olpi alla testa con il calcio di un fucile. Le bende necessarie gli vennero rifiutate. Rosa Luxemburg e Pieck vennero accolti con · grida selvagge e con insulti disgustosi. Mentre Pieck
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restava in un angolo del corridoio sotto sorveglianza, Rosa e Karl vennero trascinati dal capitano Pabst per un 'interrogatorio'. Dopo poco portarono via Liebknecht. Mentre abbandonava la casa venne abbattuto a colpi di calci di fucile dal soldato Runge. Poi venne trascinato in un'automobile su cui salirono il luogotenente capitano Horst von Pflugk-Harttung, il capitano Heinz von
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Pflugk-Harttung, i sottotenenti Liepmann, von Rietgen, Stiege, Schultz ed il soldato Friedrich, tutti appartenenti al corpo di Pabst. Avevano l'ordine, in apparenza, di trasferire i prigionieri nel carcere giudiziario di Moabit. Presso il Neuer See nel Tiergarten, in un posto poco Illuminato, la macchina ebbe, a quanto fu detto, una panne. Liebknecht, semisvenuto, venne trascinato fuori dalla
macchina e, scortato da sei uomini tutti armati di pistola senza la sicura e di granate a mano, venne portato un poco più in là. Dopo pochi passi, col pretesto che aveva cercato di fuggire, venne ucciso, cioè assassinato. Dopodiché la macchina fu di nuovo in grado di funzionare. Il cadavere venne portato a un pronto soccorso e consegnato come cadavere di uno 'sconosciuto'. Poco dopo Liebknecht, Rosa
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! SEZIONE PRIMA. IL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA CAPITOLO 3
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4 Il congresso della SPD a Jena: Rosa Luxemburg è la terza da sinistra.
Luxemburg venne portata fuori dall'albergo dal tenente Vogel. Davanti all'uscita aspettava Runge che aveva avuto dai tenenti Vogel e Pflugk-Harttung l 'ordine di abbattere Rosa Luxemburg: con due colpi di calcio del fucile le fracassò il cranio. Più morta che viva, Rosa venne gettata su una macchina. Alcuni ufficiali saltarono su. Uno la colpì alla testa con il calcio del fucile. Il tenente Vogella uccise con un colpo di pistola al cervello. li cadavere venne portato al Tiergarten e qui, per ordine di Vogel, venne gettato dal ponte Liechtenstein nel canale Landwer. Sarebbe ricomparso a riva nel maggio 1919». Un processo, assai simile ad una «cinica commedia giudiziaria», sarebbe stato tenuto successivamente, dal quale tuttavia la verità sarebbe trapelata lo stesso. «Il tribunale ... assolse interamente gli assassini di
origine nobile. Il sottotenente Liepmann venne consegnato. Il tenente Vogel ebbe due anni e quattro mesi di carcere per mancata sorveglianza e per occultamento di cadavere, il soldato Runge venne condannato anche lui a due anni di carcere per tentato omicidio. Vogel poté preparare la fuga, procurarsi un passaporto falso e scappare in Olanda il giorno dopo la condanna» . ... «Nel gennaio 1962 Pabst ritenne che era venuto il momento di presentare il suo ruolo nell'assassinio di Rosa e Karl come un'azione volta a salvare 'dal crollo l'occidente cristiano', e 'sostenibile anche dal punto di vista teologico-morale'. La sua versione, secondo cui si sarebbe trattato di una fucilazione eseguitasecondo la legge marziale, venne accolta 1'8 febbraio 1962 dal Bulletin dell'ufficio stampa e informazioni del governo federale».
Trotta, relativi all'arresto e all'uccisione della Luxemburg.
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PARTE PRIMA TRA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
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Il conflitto dei valori e il «disincantamento del mondo» n un saggio suo J'iù maturo del 1917, Weber sarebbe tornato sul concetto di avalutatività delle scienze storico-sociali per confermarlo, ma anche per estendere il compito di tali scienze alla critica «tecnica» dei valori, ossia all'esame, non già della loro validità o meno - che . . è cosa che esula dai compiti della scienza-, bensì . Cntdlc~ della loro realizzabilità una volta assunti come ((tecmcm> el • d 11' . . ' d 11 . d . valori scopi e azwne, e cwe e a sussistenza e1 mezzi necessari per conseguirli, e del prezzo, ossia delle conseguenze, di una loro realizzazione. L'acquisizione più importante, cui una cosiffatta critica tecnico-scientifica dei valori mette capo, è che la molteplicità dei valori in campo comporta un loro . . . rapporto reciproco di natura conflittuale: i mezcondfll~tua1111~ zi, infatti, che dall'analisi condotta dalle scienze e1 va on . . . . l . ll . . stonco-soc1a11 nsu tano servire a a rea11zzazwne di un determinato valore, si rivelano nel contempo un ostacolo o addirittura un impedimento alla realizzazione degli altri valori. Che i valori fossero relativi - perché privi di ogni fondamento antologico - e molteplici, già era risultato nel corso dell'indagine metodologica intorno al tema della «relazione ai valori» quale condizione della conoscenza storica. Ora cheil discorso si va trasferendo dalterreno dell'analisi metodologica a quello dell'esame delle condizioni dell'agire umano, si scopre che i valori, non solo sono molteplici, ma anche irriducibilmente in lotta gli uni con gli altri. Anche i punti di vista secondo cui condurre l'indagine storicosociale erano diversi tra loro, però rimaneva ben fermo che essi fossero tra loro integrabili; sul piano dell'agire, al contrario, dire di sì ad un valore significa dover necessariamente. dire di no a tutti gli altri, e quand'anche intervenisse un atteggiamento di compromesso tra valori diversi, il conflitto, incoercibile, risorgerebbe all'interno di esso. In Tra due leggi, un breve saggio del 1916, che porta il segno del drammatico clima del tempo, così Weber scriveva: « ... chi sta nel mondo (nei senso cristiano) non può sperimentare in sé null'altro che la lotta tra una pluralità di serie di valori, ognuna delle quali, considerata per sé, appare vincolante rispetto ai dovere. Egli deve scegliere quale di questi dèi vuole e deve servire, se l'uno o l'altro. Ma sempre si troverà in lotta contro uno o contro alcuni degli altri dèi di questo mondo, e soprattutto lontano sempre dal Dio dei cristianesimo - almeno da quello che ci è noto attraverso il Sermone della montagna».
Di questa drammatica crudeltà del mondo, ormai «disincantato» dopo il tramonto dei valori pretesi assoluti e trascendenti, e irriducibile ad un significato univoco e razionale, il sintomo più eloquente è
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rappresentato dal dualismo irriducibile che, nella sfera dei valori etici, oppone all' «etica dell'intenzione» l' «etica della responsabilità». La prima si vota in Etica modo intransigente ad un determinato valore co- dell'intenzione me ad uno scopo assoluto, cui tutto deve essere ed etica della sacrificato, senza alcuna considerazione dei mez- responsabilità zi occorrenti alla sua realizzazione, indifferente al fatto che esso risulti irrealizzabile nel mondo; è questa l'etica dell'idealista, che privilegia l' «agire razionale rispetto al valore»; la sua espressione più alta è, appunto, il Sermone della montagna. L'etica della responsabilità, al contrario, è attenta al rapporto tra mezzi e scopo ed alle conseguenze dell'azione; chi la segue è disposto ai compromessi, dà importanza alla realizzabilità dello scopo, è un «uomo di mondo», abituato al ragionamento critico ed al calcolo. Si tratta dell'etica che vuole un «agire razionale rispetto allo scopo», nel senso che non può avere la propria ispirazione in uno scopo considerato indipendentemente dai mezzi necessari per attenerlo. Diversissimo è il rapporto di queste due etiche con la sfera della politica. L'etica dell'intenzione è ad essa radicalmente antitetica e, comunque, indifferente, e qualsiasi rapporto con essa, quand'anche fosse possibile, non farebbe che inquinarne la purezza adamantina; l'etica della responsabilità, invece, per L d . h . ue et1c e l'.Importanza che d,a al rapporto mezz1-scopo ed eela politica alla realizzazione di questo, per l'attenzione reaUstica che pone alla situazione in cui si ha da agire, ha maggiori possibilità d'incontro con la dimensione politica, anche se Weber insiste nel sostenere che, comunque, la logica della politica rimane irriducibile all'etica, fosse anche quella della responsabilità. Il mondo della politica ha a che fare, infatti, con le forze irrazionali, oscure, con il male e la,violenza che occupano il mondo, e pertanto l'uomo politico non può non «sporcarsi le mani»: la sua logica non può non essere quella della forza e del dominio; del dominio di una parte degli uomini sugli altri, e della •. forza che occorre ad assicurarsi e a mantenere • 1 . . l d .. , l La pollica el que l dommw; questa, ne mon o c1v11e, e racco - valori ta nelle mani dello stato, unico abilitato ad usarla. La «professione» della politica, cui Weber avrebbe dedicato, un anno prima della morte, una delle sue celebri conferenze all'università di Monaco - appunto, La politica come professione -, non si risolve, peraltro, nell'irrazionalità del mondo in cui opera: anch'essa, come ogni altra attività umana, stabilisce un rapporto con dei valori; l'uomo politico «si dedica appassionatamente ad unà causa» e trova in questa il motivo del proprio agire, improntato al senso di responsabilità e al distacco dai propri interessi indivi-
SEZIONE PRIMA. IL RINNOVAMENTO DELLA FILOSOFIA TEDESCA CAPITOLO 3
duali. Trattandosi di attività pratica, non è possibile stabilire scientificamente la causa al cui servizio l'uomo politico si pone. La nazione o l'umanità? un' «idea» o i fini esteriori della vita quotidiana? il «progresso», oppure questa è parola priva di senso? Risposta di Weber: , «Quale debba essere la causa per i cui fini l'uomo poli-
tico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede»;
l'importante è che egli abbia una fede, e che la sua lotta sia in nome di un valore in conflitto con altri valori, senza di che la sua azione si ridurrebbe davvero all'uso del potere per il potere, della violenza per la violenza.
«Disincanto» e razionalizzazione capitalistica a relativizzazione dei valori, il fatto che, dati i punti di vista sempre inevitabilmente parziali della considerazione scientifica, non sia possibile offrire della storia una visione unitaria che consenta di coglierne il senso reale, sono gli elementi che fanno della riflessione weberiana una tra le più esplicite testimonianze di quella «crisi della ragione» che tante volte, dagli inizi del secolo in poi, . avrebbe contrassegnato lo svolgersi del dibattito Una ragwne f'l · !llormalizzata»... 1 oso f'1co e eulturale del Novecento. La f'd 1 uc1a, che era stata degli Hegel e dei Marx, di poter recuperare, sia pur per strade tra loro diverse, la coincidenza di realtà e razionalità, cede il posto ad una formalizzazione della ragione che lascia fuori di sé, abbandonata al dominio di forze oscuramente irrazionali, la realtà «disincantata» del mondo. Il «disincantamento del mondo», nel senso che di sopra abbiamo cominciato a chiarire, ha avuto inizio con i processi di «razionalizzazione» innescati dalla formazione e dallo sviluppo del capitalismo moderno. Motivato all'inizio dall'ispirazione etico-religiosa del calvinismo, lo spirito imprenditoriale capitalistico l'ha lasciata presto cadere per strada, sicché al posto del lavoro per la salvezza ha fatto la sua comparsa il
rappresentazione del dovere morale, l'ordinamento fio nalistico del mondo, e Dio come l'essere trascendente 00 nel quale è già perfettamente realizzato ciò che in noi vive come ideale morale da perseguire nella libertà. Il primato kantiano della ragion pratica e l'idea della riconciliazione di natura e libertà perseguita da Kant nella Critica del giudizio sono gli evidenti punti di riferimento di questa metafisica boutrouxiana, che si conclude infine nel misticismo della religione. Nell'ultimo suo scritto teorico importante, Scienza e religione nella filosofia contemporanea, Bou- . troux difende la trascendenza della religione nei 5 ~~e~ze e confronti della scienza. Se compito della scienza è re 191 one quello di spiegare i fenomeni, per la fede religiosa questi
zione pratica di controllo dell'esperienza, in vista del dominio dell'uomo sulla natura. Lungi dal dissolvere la libertà, la scienza moSci~~~z~~ derna, proprio attraverso le leggi con cui adattia1 e a mo le cose alla nostra intelligenza e le pieghiamo a compiere la nostra volontà, ce ne testimonia l'efficacia. Così Boutroux scrive al termine del suo saggio: «Originariamente, l'uomo vedeva ovunque soltanto il capriccio e l'arbitrio: quindi la libertà ch'egli si attribuiva non aveva efficacia alcuna. La scienza moderna gli fece vedere ovunque la legge, ed egli credette allora di vedere la propria libertà dissolversi nel determinismo universale. Ma un giusto concetto delle leggi naturali gli rende il possesso di se medesimo e, nello stesso tempo, gli mostra che la sua libertà può essere efficace e dirigere i fenomeni. Delle cose esteriori e interiori, le seconde soltanto dipendono da noi, diceva Epitteto; e aveva ragione nel tempo in cui parlava. Le leggi meccaniche della natura, rivelate dalla scienza moderna, sono la catena che lega l'esterno all'interno. Lungi dall'essere una necessità, esse ci affrancano e ci permettono di aggiungere una scienza attiva alla contemplazione in cui gli antichi erano rinchiusi».
«valgono per il loro significato morale, per i sentimenti che suggeriscono, per la vita interiore che esprimono e suscitano; e nessuna spiegazione scientifica può togliere ad essi questo carattere».
La critica della scienza e la filosofia della contingenza concludono dunque ad una metafisica della libertà. Si tratta di una costruzione che non presenta aspetti di grande originalità, giacché vi concorrono . . motivi che risalgono da una parte ad Aristotele Una meta.1151 c~ ed a Leibniz, dall'altra a Kant, a Schelling e, codella li berta ., • . Ad Anstote . le ed a me s,e, g1a v1sto, a Ravmsson. Leibniz, Boutroux deve la concezione della realtà come una scala gerarchica di esseri che culmina in Dio.
Nel fòro interiore della coscienza, dimensione cara, lo sappiamo, alle filosofie spiritualistiche, l'uomo vive il rapporto con Dio, come con l'Essere creatore nella cui perfezione trovano fondamento la tensione di ogni cosa verso forme sempre più alte, e gli sforzi dello spirito umano verso l'armonia, la bellezza, la bontà. Nella religione st realizza come una sintesi di istinto e d'intelligenza, nella quale l'uomo si innalza alla sua vita più alta e profonda.
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La degradazione del capitano Dreyfus nel cortile della scuola.
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PARTE PRIMA TRA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
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L)affare Dreyfus gli inizi dell'ultimo decennio dell'Ottocento si assiste in Francia, in risposta al profilarsi, sull'onda di sempre più forti lotte operaie, dell'avanzata dei socialisti, ad un avvicinamento della politica del governo alle posizioni conservatrici e autoritarie della destra, le cui componenti cattoliche s'erano, da parte loro, venute riaccostando alle istituzioni repubblicane. Non era stato senza significato che nel1892 papa Leone Xlii avesse indirizzato ai cattolici francesi un'enciclica, lnter innumeras sollicitudines, nella quale, pur impegnandoli ad adoperarsi per modificare la legislazione laicista ed anticlericale, diceva loro che «una volta che i nuovi governi sono costituiti, l'accettarli è cosa imposta dal bene sociale». A consolidare questa tendenza della politica interna del governo erano intervenuti gli attentati di ispirazione anarchica, che nel 1894 sarebbero culminati nell'uccisione del presidente della repubblica Sadi Carnot. Era, pertanto, inevitabile che, in questo nuovo clima politico del paese, si venisse radicaliàando lo scontro tra le opposte forze politiche e sociali in cui la Francia tradizionalmente si divideva: da una parte i quadri dirigenti dell'esercito, buona parte del clero cattolico, l'alta burocrazia dello stato e, dietro di essi, gli interessi dei proprietari terrieri e di parte della classe industriale, componenti tutte queste che rappresentavano la Francia militarista, clericale, in certi casi filomonarchica, sempre antidemocratica e antisocialista, antimassonica
· e antisemita; dall'altra, i sinceri repubblicani, le correnti laiche, radicali e socialiste, il ceto intellettuale fedele alle tradizioni democratico-illuministiche e, dietro queste forze politiche e culturali, la parte del mondo industriale interessata a prudenti innovazioni politiche e sociali, e, soprattutto, buona parte dei ceti medi, tradizionalmente legati, soprattutto nelle province, ai radicali. l socialisti e il movimento operaio, combattuti tra la logica della lotta di classe e l'esigenza di combattere le trame reazionarie, avrebbero oscillato tra disponibilità all'alleanza con la borghesia progressista e contrapposizione classista. La vicenda che negli ultimi anni del secolo avrebbe spaccato in quei due fronti contrapposti la Francia, è rappresentata dal cosiddetto «affare Dreyfus». Alfred Dreyfus, un capitano ebreo in servizio presso il Comando del corpo di Stato maggiore dell'esercito francese, viene accusato nel 1894 di aver sottratto alcuni documenti militari segreti e di averli consegnati ad agenti dell'ambasciata tedesca a Parigi. Deferito al Consiglio di guerra sotto l'accusa di alto tradimento, viene riconosciuto colpevole e condannato alla deportazione perpetua nella sperduta Isola del Diavolo, dopo un processo condotto dalle autorità militari in modo sommario e assai poco attendibile. Non doveva passare molto ·tempo perché emergessero i primi dubbi sulla colpevolezza del condannato, che sarebbero divenuti assai consistenti nel
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1896, allorché il rinvenimento di alcuni documenti da parte di un ufficiale del controspionaggio francese, convinse quest'ultimo, il tenente colonnello Picquart, che l'autore dello scritto attribu-ito nel '94 a Dreyfus, e in base al quale quest'ultimo era stato condannato, era da considerarsi opera di un altro ufficiale, il maggiore Esterhazy. Ma le autorità militari, favorite dal fatto che nel paese, anche per responsabilità della stampa d'Ìnformazione, si era diffuso un clima di esasperato nazionalismo militaristico che aveva trovato nell'ufficiale traditore, e per giunta ebreo, il proprio naturale capro espiatorio, elusero le richieste di incriminazione dello Esterhazy avanzate dal Picquart, che addirittura venne trasferito in Tunisia. E anche quando divenne
inevitabile sottoporre a giudizio lo Esterhazy, il Consiglio di guerra pervenne ad una scandalosa sentenza di assoluzione. Esistevano ormai tutte le condizioni perché si formasse nella parte sana del paese il «partito dei dreyfusardi». Scheurer-Kestner, vicepresidente del Senato, Jean Jaurès, prestigioso deputato socialista, George Clemenceau, capo del radicalismo francese, furono i primi più importanti promotori della 'campagna in difesa di Dreyfus, che ebbe il suo momento più alto nella pubblicazione sul quotidiano L 'aurore, che quel giorno - il 14 gennaio 1898 - ebbe una tiratura di trecentomila copie, di una lettera aperta indirizzata da Emile Zola al presidente della repubbflca. Il celebre romanziere, padre
SEZIONE SECONDA. SPIRITUALISMO, PRAGMATISMO, NEO-IDEALISMO CAPITOLO 4
~,;·•-;Gi.::r.;r.:.;l~,_,tt;v-1ii-m~i.i"'J1!'"'jt, ci consente di riconoscere l'insufficienza dell'intero ordine naturale ad appagare il bisogno di assoluto che, d'altra parte, si conferma nella propria ineliminabile necessità: «quanto è artificiale - scrive Blondel .. La ogni religione naturale, altrettanto è naturale l'atconl ra dd tztone d' Q ,l dd' . . . della finitezza tesa 1una re11gwne». uesta e a contra lZlOne che fa così inquieta l'azione umana: essa «non può rinchiudersi nell'ordine naturale; non ci sta tutta
intera. E nondimeno non può, da sola, oltrepassarlo». Se infatti naturale è l'attesa religiosa, soprannaturale è l'azione con cui Dio interviene a colmare il vuoto, altrimenti incolmabile, che si nasconde L' . 1 n~ll'a~ione de~l'uom.o. Certo, dipende dall'uomo di~:~~~ scwghere l'ultimo d1lemma: «Vorrà, sì o no, vivere, sino a morirne se si può dire così, consentendo ad essere soppiantato da Dio? ovvero pretenderà bastarsi senza di lui, approfittare della sua presenza necessaria senza renderla volontaria, trarre da lui la forza 'di fare a meno di lui, e volere infinitamente senza volere l'infinito?».
Ma una volta che ci si sia decisi per la prima di queste due possibilità, allora all'azione dell'uomo subentra quella di Dio. Nulla più vogliamo da parte nostra, «se non ciò che Dio vuole in noi e da noi»; è come se fossimo morti - «tanta gente vive come se non dovesse mai morire, è l'illusione; bisogna agire come morti, è la realtà». Questa totale rinuncia a se stessi per far vivere ed agire in sé solo Dio, decide del destino antologico non solo dell'uomo, ma di tutto il mondo, i cui fenomeni sono stati di volta in volta voluti dall'azione umana lungo il proprio cammino, e ai quali la volontà N . d' . . e11 avo1onta . . l l vo ente ora nnunCla; ne momento 1 nnune1are umanatuttoil a se stessa. L'annientamento di sé, la remissione mondo di tutte le cose nelle mani di Dio hanno il senso di una restituzione a Dio del suo privilegio divino ma, insieme, di una rivelazione più piena dell'essere. Alla luce del monito evangelico «dimitte omnia et invenies omnia», Blondel così scrive: «Se si perviene a Dio soltanto con l'oblazione di tutto che non è lui, si ritrova in lui la realtà verace di tutto che non è Dio. Non ci si presenta mai soli alla sua presenza, poiché nella confessione che lo riconosce per davvero si comprende l'omaggio e il dono dell'intero universo; ma non lo si ritrova mai solo, poiché dopo aver sacrificato all'Essere tutti gli esseri che non sarebbero senza di lui, si acquistano in lui tutti gli esseri che sono per opera dell'Essere».
Questa è la soluzione del problema della vita che Blondel propone sulla base del metodo dell'immanenza. Non è semplicemente l'aprirsi alla trascendenza, che da sola non basta a qualificare il Dio vivente della religione; è piùttosto l'accesso al soprannaturale in senso proprio, ossia alla rivelazione cristiano-cat- T d · · c rascen enzae . La blonde1·~ana des~nzwne 1og1-· sovrannaturale to l1ca. 1enomeno ca dello svolgers1 dell'azwne pretende dunque culminare in una moderna apologetica del cattolicesimo, impegnata ad assicurare il delicato equilibrio tra l'esternità all'uomo della rivelazione, quale gratuito dono divino, e l'appartenenza invece alla sua natura del bisogno e dell'attesa del soprannaturale. Nella Lettera del 1896 Blondel avrebbe così vigorosamente compendiato la sua posizione: «Se la nostra natùra non è in casa sua nel soprannaturale, il soprannaturale è in casa sua nella nostra natura».
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~r l SEZIONE SECONDA. SPIRITUALISMO, PRAGMATISMO, NEO-IDEALISMO CAPITOLO 4
!. La pubblicazione del suo capolavoro procura a Blondel più avversari che simpatie. Da una parte, le filosofie razionalistiche e laiche lo accusano di attentare all'autonomia dell'indagine filosofica con un soprannaturalismo che non esita a porre al centro della discussione filosofica, quasi si fosse nel medioevo, la giustificazione della religione cattolica. Dall'altra, i . teologi e le autorità ecclesiastiche sospettano nelTra due fuochi la metodologia blondeliana un pericoloso sci volamento su posizioni immanentistiche, lesive della soprannaturalità della fede cattolica, prossime all'eresia modernista che sta per sconvolgere la vita della Chiesa, e già si richiama al metodo apologetico introdotto dal filosofo francese. La pubblicazione nel 1904 di Storia e dogma, in cui Blondel cerca di conciliare la verità dei dogmi con il divenire della storia, avrebbe ancor più accentuata l'avversione degli ambienti cattolici tradizionalisti. Animato da spirito di obbedienza e di fedeltà alla Chiesa, il filosofo cattolico rifiutò di seguire il modernismo sulla strada dell'eresia, e dopo la pubblicazione della Pascendi si raccolse in un atteggiamento di grande riservatezza, rinunciando a scrivere sugli
Annali di filosofia cristiana, l'organo dei moder- Presa di nisti francesi cui aveva negli anni precedenti col- distanze dal laborato, e giungendo perfino ad impedire la de- modernismo dizione de L'azione, andata nel frattempo esaurita. Egli aveva ottenuto fin dal 1896 la cattedra di filosofia all'università di Aix-en-Provence, dove avrebbe insegnato fino al 1927, quando si sarebbe ritirato dall'insegnamento per ragioni di salute. Il lungo e quasi totale silenzio si doveva interrompere solo negli anni trenta, quando Blondel dava alle stampe una ponderosa Trilogia, che rappresenta la sistemazione del suo pensiero, frutto di quarant'anni di meditazione. Si tratta de Il pensiero (1934), de L'essere e gli esseri (1935) e del rifacimento de L'azione (1936-37), cui si dovevano aggiungere, pubblicati dopo la sua morte sopraggiunta nel 1949, tre volumi su La filosofia e lo spirito cristiano, di interesse essenzialmente religioso. Nella Trilogia, pur confermando metodo e conclusioni dell'opera del 1893, Blondel attenua il primato esclusivo dell'azione e recupera tematiche e dimensioni tipiche del realismo cristiano classico, in particolare di ispirazione agostiniana.
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La reazione antipositivistica in Francia. Lo spiritualismo Tra tutti gli esponenti dello spiritualismo tra Ottocento e Novecento - una corrente di pensiero piuttosto datata, e non solo nella sua versione francese -, colui che a noi sembra godere ancora di una qualche attualità è certamente Maurice Blondel, autore de L 'azione del1893, uno dei libri di filosofia più belli di quell'epoca. Chi volesse interessarsi a lui non potrebbe esimersi dal leggere il suo capolavoro, di cui esistono due edizioni italiane: la prima, a cura di E. Codignola, Vallecchi, Firenze 1921; la più recente, a cura di R. Grippa, La Scuola, Brescia 1970. Sul suo pensiero, si possono vedere: R. Grippa, Il realismo integrale di M. Bionde/, Bocca, Milano 1954; S. Cialdi, Genesi e sviluppo della filosofia di M. Bionde/, La Nuova Italia, Firenze 1973; AA.VV., Attualità del pensiero di Maurice Bionde/, Comunità di ricerca, Massimo, Milano 1976. Di quest'ultimo libro, che riporta gli Atti di un convegno di studi sul pensiero blondeliano tenutosi nel 1975, si può vedere in particolare la relazione svolta da S. Nicolosi, La presenza di Bionde/ nel Concilio Vaticano Il.
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Bergson (1859-1941): una filosofia del profondo
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Bergson e bergsonismo a filosofia di Bergson è stata a lungo consegnata, da una tradizione storiografica e culturale . che risale ai primi del Novecento, all'immagine · di un pensiero dai marcati caratteri irrazionali: stici, impegnato nella lotta contro i valori della scienza e dell'intelligenza, in nome di un diverso accesso alla realtà profonda delle cose, rappresentato dall'intuizione. Questa sarebbe da intendere come un atto immediato e quasi mistico, specie di sentiUna filosofia · · · • · · . a ·onal"st"ca? mento o 1sp1razwne Improvvisa, capace d·1 Im1 1 • mergerc1, • senza b'1sogno de11a 1at1ca ur Zl c · de11a n"fl essione critica e dell'analisi razionale, nel cuore della realtà. Questa interpretazione anti-intellettualistica dell'intuizione bergsoniana trovava conferma nella concezione irrazionalistica che Bergson sembrava proporre della realtà, intesa, secondo i modi delle filosofie della vita assai diffuse nell'epoca, come il prorompere creativo della vita al di là e di contro alle categorie della razionalità scientifica. Un esempio illuminante di questo modo di intendere l'insegnamento di Bergson è offerto dall'accoglienza che gli viene riservata, agli albori del secolo, da una certa cultura italiana, attraversata allora da forti tendenze spiritualistiche decadenti, prese tra un estetismo di origine dannunziana e un nietzscheanesimo mal digerito. Papini e Prezzolini, i fondatori del fiorentino Leonardo (v. CAP. s, PAR. 2), divulgano il La eu ltura · · italiana primo- p~n~1er? bergsomano. com~ un esen:plare punto novecentesca d1 nfenmento per ch1 vogha opporsi alla cultura positivistica, in nome di uno spiritualismo estetizzante e del primato dei valori «aristocratici» della vita e dell'arte nei confronti dei principi «plebei» della ragione e della scienza. Era, del resto, lo stesso Bergson a sembrar favorire una cosiffatta interpretazione della propria opera, quando affermava che l'occhio dell'artista scruta nella realtà più a fondo di quel-
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lo dello scienziato. Filippo Tommaso Marinetti, l'iniziatore del futurismo, affermava di credere con Bergson «che 'la vie deborde l'intelligence', cioè straripa, avviluppa e soffoca la piccolissima intelligenza». Si tratta di scrittori che, insieme a tanti altri, dovevano concorrere alla diffusione in tutto il mondo di quel fenomeno del «bergsonismo» che avrebbe fatto della filosofia di Bergson, specialmente à partire dalla seconda decade del secolo XX, una filosofia «alla moda», e dell'aula otto del Collegio di Francia, dove ogni venerdì egli teneva le sue lezioni, un luogo troppo piccolo per contenere l'innumerevole pubblico di studenti, di uditori provenienti da ogni parte del mondo, di dame dell'alta società parigina, che accorreva11 no per ascoltarlo. Il nitore e la nobiltà letteraria ccbergsonismon dei suoi saggi, ricchi di immagini e di metafore, scritti in una lingua che, pur volendo essere quella di tutti, riusciva perfetta e sapientemente evocativa, la grande suggestività della parola, «lenta, nobile e ritmica - come ebbe a scrivere un suo discepolo -, di una sicurezza straordinaria e di una precisione sorprendente, con delle intonazioni carezzevoli, musicali ... »: tutto concorse allora a fare della filosofia bergsoniana un «caso letterario», che nel 1928, con l'attribuzione del premio Nobel per la letteratura, avrebbe avuto un'autorevole ufficializzazione. Furono quelli gli anni in cui da una celebre indagine statistica risultò che in Francia Bergson era l'uomo più noto dopo Maurice Chevalier e prima del pugile Carpentier. L'equiparazione della filosofia bergsoniana ad una filosofia letteraria, che fa leva sulla «sensibilità» e sul «gusto», doveva concorrere a rafforzare la tendenza ad una sua lettura irrazionalistica ed antiscientifica, che ha segnato gran parte degli studi ad essa dedicati da fautori ed avversari. Da questo tipo di interpretazione anti-intellettualistica del suo pensiero lo stesso
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Bergson non seppe sempre difendersi a sufficienza, subendane perfino lui stesso l'influenza, come doveva accadere con Le Roy (v. CAP. 11, PAR. l) che, in alcuni saggi scritti tra i due secoli, vedeva nell'intuizione bergsoniana un'attività radicalmente antitetica a quella, ridotta a mero significato pragmatico, dell'intelligenza. Solo in questi ultimi decenni si è verificata una svolta negli studi storiografici, che ha consentito di .. delimitare con precisione la componente anti-inUna ~evrsr~ne tellettualistica del pensiero bergsoniano di comstorrografrca • . • ' prendere app1eno 11 rapporto d1 Bergson con la scienza, di riscoprire il carattere rigorosamente «scientifico» che ha voluto avere la sua filosofia, di cogliere, soprattutto, il significato nient'affatto immediatistico-irrazionale dell'intuizione come metodo della sua indagine. Anche sull'appartenenza di Bergson alla corrente spiritualistica francese è di nuovo ritornata la riflessione storica, non tanto per negarla e tornare a rimproverare a Bergson, come tante volte era successo in . . passato, un non avvenuto distacco dal naturali~~a 11 ~08.011 ~ smo d'ispirazione positivistica, quanto per sotto. l' ongma spmtuahstrca. 1meare · · 11ta · e 1a d'ff' . , del suo pens1ero 1 1co1tà di racchiuderlo, senza impoverirlo, entro il rigido ambito di un preciso schieramento. Nei confronti dello spiritualismo tradizionale che, per la preoccupazione di salvaguardare la spiritualità umana, finiva col
dimenticarne il radicamento nella materia, Bergson sottolinea la profondità di questo radicamento, appellandosi alle risultanze della ricerca scientifica. Ne L'evoluzione creatrice del 1907, l'opera sua più celebre, così egli scrive:
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«Il grande errore delle dottrine spiritualistiche è stato di credere che isolando la vita spirituale da tutto il resto, sospendendola nello spazio il più alto possibile dalla terra, la ponessero così al riparo da ogni attentato: come se con ciò non l'esponessero ad essere presa per l'effetto di un miraggio! Certo, ... esse hanno ragione di credere alla realtà L'~r~ore .dello assoluta della persona e alla sua indipendenza di fronte spmtuahsmo alla materia; - ma la scienza è là, a mostrare la solidarietà della vita cosciente e dell'attività cerebrale. Hanno ragione ad attribuire all'uomo un posto privilegiato nella natura, di ritenere infinita la distanza dell'animale dall'uomo; - ma la storia della vita è là, a farci assistere alla generazione delle specie per via di trasformazioni graduali ed a reintegrare così, almeno sembra, l'uomo nell'animalità».
Se nello spiritualismo francese, per altri versi così concentrato sul tema agostiniano-cartesiano dell'interiorità della coscienza, era emersa, soprattutto per merito di Boutroux e, in particolare, di Ravaisson, l'esigenza, filtrata attraverso Leibniz e Schelling, di ricongiungere spirito e natura, allora si può dire che Bergson abbia saputo dare ad essa rilevanza anche più grande, cercando di appagarla in base alle risultanze del pensiero scientifico.
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Tempo della meccanica e tempo reale. La durata
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~ emi Louis Bergson era nato a Parigi nel1859 in } una famiglia israelitica ddi o.riginde podl~cca. ~l · padre, musicista, e la ma re, 1r1an ese 1 nascl~.; ta, professavano ambedue la religione ebraica. - Il giovane Henri, dopo aver studiato al liceo Condorcet, distinguendosi nello studio delle discipline classiche e, soprattutto, di quelle matematiche, fu ammesso nel1878 alla Scuola normale superiore, ove, nonostante avesse come maestri Boutroux ed 01un i~izio lé-Laprune, i suoi interessi per la matematica e le spancenano sc1enze . de11 a natura lo apnrono . a11'.mfl uenza del positivismo e, particolarmente, di Spencer, che fu il filosofo della sua giovinezza. Licenziatosi nel18 81, fu professore di filosofia nei licei di Angers e ClermontFerrand, e dal1888 a Parigi nei licei Rollin ed Henri IV, dove avrebbe insegnato fino al 1897. Nel 1889 ebbe un notevole successo la pubblicazione del suo primo capolavoro, il Saggio sui dati immediati della coscienza, con il quale Bergson aveva ottenuto alla Sorbona il dottorato in filosofia.
Il nucleo fondamentale di questo scritto è costituito dalla dottrina del tempo come durata interiore, destinata a divenire il centro dell'intera filosofia bergsoniana. Ad essa Bergson perviene attraverso lo studio della meccanica, cui si era dedicato nella convinzione che le lacune. e le difficoltà accusate dall' evoluzionismo spenceriano fossero dovute, appunto, «al non aver approfondito le idee ultime della meccani, ca». Ma è per l'appunto, lo studio della meccani. ca a convincerlo dell'impossibilità di ridurre la La dottrma de1 realtà del tempo ai rapporti quantitativi secondo tempo i quali essa viene pensata dalla matematica e dalla meccanica stessa. Il tempo incluso nelle formule della meccanica, nei calcoli dell'astronomo e del fisico, al pari di quello che gli orologi dividono in particelle eguali, corrisponde ad un concetto spurio, prodotto dall'intrusione delle idee di spazio, numero e quantità. Esso si riduce a grandezza misurabile e quindi omogenea, del tutto simile a quella spaziale, e pertanto si distingue dal tempo reale della vita, cui Bergson
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SEZIONE SECONDA. SPIR!TUALISMO, PRAGMATISMO, NEO-IDEALISMO CAPITOLO 5
Ma «è per noi incredibilmente difficile rappreZ sentarci la durata nella sua purezza originaria». Ciò O Cl) dipende dal fatto che alle esigenze pragmatiche della C!J vita sociale, e in particolare del linguaggio, che di essa CC: è il veicolo indispensabile, si adatta molto meglio un ~ io i cui stati interiori siano ben definiti, solidifi- . . cati, numerabili e misurabili, insomma assimila- Lmgu ? ~9 10 • e 1 'l' . . . d . . . . quan1IIC8ZIOI1e b11 a punt1 spaz1a11, a oggetti matena11 esterm gli uni agli altri, e come tali facilmente esprimibili nella fissità delle parole. Nasce così quel tempo omogenéo della meccanica e della vita quotidiana, vera e propria «quarta dimensione dello spazio», immagine simbolica della durata reale, nel quale gli stati di coscienza vengono ad allinearsi l'uno accanto-dopo l'altro, in una successione-giustapposizione, che assume l'aspetto di un dispiegamento nello spazio. Quanto al modo secondo il quale ciò si veriCome si fica, non è difficile dire: basti considerare che ai genera la vari stati della coscienza che dura corrispondono spazializzazione precisi stati del mondo esterno. Scrive Bergson: della durata
riserva il nome di «durata». Questa è costituita di momenti diversi tra loro solo qualitativamente, irriducibili a misura, irripetibili, a differenza del tempo della meccanica caratterizzato dalla reversibilità. Alla meccanica non interessa l'intervallo di tempo nella sua inconfondibile differenza qualitativa, per cui un momento della nostra vita può valere assai più di una lunga successione di anni. Essa si occupa solo di misurare lo spazio percorso nell'intervallo di tem. . po, secondo il principio che due intervalli di temL'mterv~llo di po sono eguali quando due corpi identici, posti emi>O all'inizio di questi intervalli in situazioni identiche, e sottoposti entrambi a medesime azioni e influenze di ogni specie, avranno percorso lo stesso spazio alla fine di questi intervalli. Per la scienza l'intervallo di tempo non conta, tanto che, «se tutti i movimenti dell'universo si producessero due o tre volte più velocemente, non dovremmo affatto modificare né le nostre formule né i numeri che vi introduciamo».
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Il compito che nel Saggio Bergson si prefigge è «c'è uno spazio reale, senza durata, ma in cui certi quello di recuperare l'autentica dimensione del temfenomeni appaiono e scompaiono simultaneamente ai nostri po-durata, attraverso «un potente sforzo di astrazio- stati di coscienza. C'è una durata reale, i cui momenti eterone», che consenta alla coscienza di liberarsi dall' «os- genei si compenetrano, ma ciascun momento della quale può sessione» dell'idea dello spazio e di isolarsi dal mon- essere avvicinato ad uno stato contemporaneo del mondo do esterno, restituendosi a se stessa. È, infatti, la real- esterno e, per l'effetto di questo stesso avvicinamento, sepatà interiore della coscienza, considerata, secondo rato dagli altri momenti. Dal confronto di questè due realtà si genera una rappresentazione simbolica della durata, ricaDur.ata e quanto suggerito dallo stesso titolo del Saggio, cosc1enza ll . . . . l . vata dallo spazio. La durata assume così la forma illusoria di ne a sua purezza ongmana, a nve ars1 essa stes- un mezzo omogeneo, e il collegamento tra questi due termini sa come durata, pura temporalità extra-spaziale. Se - lo spazio e la durata - è la simultaneità, che si potrebbe Kant ha avuto ragione a sostenere l'idealità dello spa- definire come l'intersezione tra il tempo e lo spazio». zio, il suo torto è stato quello di assimilare ad esso il È soprattutto attraverso l'intermediario del motempo nel momento stesso in cui si provava a distinguernelo, concependolo anch'esso come forma mate- vimento che la durata assume la forma di un mezzo omogeneo, proiettandosi nello spazio. Nella perceziomatica dell'esperienza. . Mentre nello spazio i diversi elementi fisici che ne del movimento, infatti, siamo portati naturalin esso si distinguono, gli oggetti materiali, sono ester- mente a confondere quest'ultimo con lo spazio La perc~zlone . d'1 a su dd'1v1'der lo m . del mov1mento ni gli uni agli altri, separati da intervalli che ne fissa- percorso dal mob1'le, e qum no i contorni, e stanno tra loro in un rapporto di tanti momenti quante sono le posizioni spaziali. Così «giustapposizione», che consente di numerarli e mi- · facendo, sorvoliamo sul fatto che, se le posizioni sucsurarli, i fatti di coscienza, quali si svolgono nel tem- cessive del mobile occupano effettivamente un certo po reale, che Bergson chiama anche tempo «vissuto», spazio, non sono separati gli uni dagli altri, bensì si organizcolla quale si passa da una posizione alG' .. zano tra loro, si arricchiscono sempre più, si l'altra,«l'operazione operazione che occupa una certa durata e che ha una IUstapposlzlone «compenetrano» l'un l'altro, cosicché «nel più realtà soltanto per uno spettatore cosciente, sfugge allo spacompenetrazion: semplice di essi si può riflettere l'anima intera». zio. Non abbiamo qui a che fare con una cosa, ma con un La durata reale è pura successione senza esterio- progresso: il movimento, in quanto passaggio da un punto a rità reciproca di elementi, caratterizzata sì da una un altro, è una sintesi mentale, un processo psichico e quindi molteplicità di stati di coscienza, ma ben diversa, per inesteso». essere una «molteplicità qualitativa» priva di distinChe in questo consista la realtà del movimento zioni numeriche, da quella molteplicità che è propria appare evidente quando si pensi a ciò che si prova di ciò che si colloca nello spazio, che al numero è alla vista improvvisa di una stella cadente: invece riconducibile. S'approda, così, ad una radicale dualità: da una parte lo spazio e il mondo degli oggetti «in questo movimento estremamente rapido, la dissomateriali, dall'altra la durata, la vita interiore dell'io, ciazione tra lo spazio percorso, che ci appare sotto forma di una striscia di fuoco, e la sensazione assolutamente indivisiil mondo dell'anima.
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bile del movimento o della mobilità, si effettua da sé. Se non si pensa allo spazio percorso, un gesto rapido compiuto ad occhi chiusi si presenterà alla coscienza sotto forma di sensazione puramente qualitativa. In breve, nel movimento si devono distinguere due elementi, lo spazio percorso e l'atto grazie a cui lo si percorre ... Il primo di questi elementi è una quantità omogenea; il secondo, ha realtà soltanto nella nostra coscienza, è una qualità ... ».
È in base ad uno scambio, simile a quello che i f'lSlCl . . ch'1amano un 1enomeno r d'1 en dosmos1,· che noi mescoliamo tra loro questi due elementi, producendo così la spazializzazione della durata:
Un fenomeno di endosmosi
«da una parte attribuiamo al movimento la divisibilità stessa dello spazio che esso percorre, dimenticando che si può dividere una cosa, ma non un atto - e dall'altra ci abituiamo a proiettare questo stesso atto nello spazio, a disporlo lungo la linea che il mobile percorre, in una parola, a solidificarlo».
È da questa confusione tra spazio e movimento che sorgono i celebri sofismi di Zenone di Elea, spiegando alla lavagna i quali ai suoi studenti di Cler. . . mont-Ferrand Bergson era pervenuto, già negli 150115 1 1 z m d9 anni 1884-86, all'intuizione del tempo come duenon rata. Traducen do 1 'l movimento . . un mterva . 11o m spaziale divisibile all'infinito, ne deriva inevitabilmente che Achille mai potrebbe raggiungere la tartaruga. La verità è che «ogni passo di Achille è un atto semplice, indi visibile, e che dopo un certo numero di questi atti, Achille avrà superato la tartaruga. L'illusione degli Eleati deriva dal fatto che essi identificano questa serie di atti indivisibili e sui generis con lo spazio omogeneo che li sottende».
Achille supera la tartaruga, e ciò avviene perché, se è vero che ogni suo passo e ogni passo della tartaruga sono indivisibili in quanto movimenti, essi, in quanto spazio, sono grandezze differenti, «di modo che, sommando lo spazio percorso da Achille avremo ben presto una lunghezza maggiore alla somma dello spazio percorso dalla tartaruga e del vantaggio che aveva su di lui».
Non solo la percezione del movimento, ma ogni altra esperienza sensoriale che si riferisca al ripetersi di un ben determinato fenomeno esterno - una serie . di colpi di martello come il succedersi delle note ·c Lla ~1188 di una frase musicale -, è soggetta al separarsi pSIOOQIC d}} . '} d}} l , superficiale e e sensazwm e une a e a tre m una successione dispiegata nello spazio, così come separate sono le cause esterne che le producono. Ciò dipende dal fatto che, alla sua superficie, là dove si svolge l'esperienza percettiva, «il nostro io tocca il mondo esterno; e, sebbene si fondino le une nelle altre, le nostre sensazioni successive mantengono qualcosa dell'esteriorità reciproca che caratterizza oggettivamente le loro cause; ed è per questo che la nostra
vita psicologica superficiale si svolge in un mezzo omogeneo, senza che questa modalità di rappresentazione ci costi un grande sforzo».
Ma al di sotto di quest'«io superficiale», dagli stati ben definiti, si nasconde un «io profondo», nel quale la successione dei fatti psicologici - perce- L' . . fu- mo profondo!! · . sensazwm, · · sentimenti · . e 1·dee - 1mp · 11ca zwm, sione e organizzazione, ed ha l'aspetto confuso, infinitamente mobile del tempo-qualità, nel quale quei fatti si producono. Se il più delle volte noi viviamo alla superficie di noi stessi, in quell'io superficiale e, per così dire, materializzato, che è· come «l'ombra dell'io proiettata nello spazio omogeneo», ciò è perché - lo si è già accennato -un «io cosi rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare», sicché la coscienza finisce col preferirlo, perdendo di vista, a poco a poco, l'io profondo, o addi. . ra d'1calmente al- della Le es1genze . . do ne Il o spaziO, nttura pr01ettan vita terati, anche gli stati e modificazioni più profon- sociale di e personali di esso. Questa invasione dello spazio nel campo della coscienza pura, producendo la «solidificazione» della vita psicologica, ci consente di esprimerla attraverso il linguaggio, e quindi di comunicare con gli altri. I nostri stati di coscienza, anche quelli personali e profondi come il nostro proprio modo di amare e di odiare, nei quali tutt'intera è presente la nostra personalità, una volta espressi nelle parole e nei nomi con cui la società intera indica le impressioni provate in un caso determinato, perdono la loro colorazione particolare e vengono fissati nel loro solo aspetto banalmente oggettivo e impersonale: «la parola dai contorni ben definiti, la parola brutale, che immagazzina tutto ciò che c'è di stabile, di comune e quindi d'impersonale nelle impressioni dell'umanità, annulla o per lo meno ricopre le impressioni delicate e fuggitive della nostra coscienza individuale».
Questa operazione che serve alla vita sociale e ai suoi bisogni pratici, produce così l'occultamento della vita profonda dell'io: come dire che il processo di socializzazione dell'individuo s'accompagna inevitabilmente ad una sua progressiva spersonalizzazione, proprio perché, parlando, gli uomini si riducono a «pensare per 'idee generali'». Per restituire le idee, le sensazioni, le emozioni alla loro indefinibile vita reale nella corrente fluida della durata, occorre «un vigoroso sforzo di analisi» che vada, contro la tendenza dei nostri interessi . . a d'1soccultare «l.1 pro1on r do», come Occorre un pragmat1c1, rt'st · · sanno f are. I n una celebre a 1 a soprattutto gl1. artisti pagina del Saggio che ha fatto parlare della «profezia» che Bergson avrebbe fatto dell'avvento di Proust e della sua Ricerca del tempo perduto, così il filosofo francese scrive:
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«E se adesso qualche ardito romanziere, strappando la tela abilmente tessuta del nostro io convenzionale, ci mostra sotto questa logica apparente un'assurdità fondamentale, sotto questa giustapposizione di stati semplici una compenetrazione infinita di mille impressioni diverse che hanno già cessato di essere nel momento in cui le si nominano, noi lo lodiamo per averci conosciuto meglio di quanto ci conosciamo noi stessi. Ma non è così tuttavia, e per il fatto stesso di dispiegare i nostri sentimenti in un tempo omogeneo e di
esprimerne gli elementi in parole, non ci presenta a sua volta che un'ombra: solo che egli ha disposto quest'ombra in modo da farci sospettare la natura straordinaria e illogica dell'oggetto che la proietta; egli ci ha invitato a riflettere introducendo nell'espressione esterna qualcosa di quella contraddizione, di quella mutua compenetrazione che costituisce l'essenza stessa degli elementi espressi. Incoraggiati da lui, abbiamo scostato per un istante il velo che abbiamo interposto tra noi e la nostra coscienza: Ci ha rimessi alla presenza di noi stessi».
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La libertà non è un problema onostante l'attenzione critica rivolta nel primo capitolo alla psico-fisica (v. CAP. 21*, PAR. 3), di cui vien rifiutata la pretesa di sottoporre a misura l'intensità delle sensazioni come se si trattasse di quantità; nonostante la delineazione nel secondo capitolo, dedicato alla nozione della durata, di una psicologia del profondo, il Saggio non è prima di tutto uno scritto psicologico, e tanto meno un testo psicologistico e soggettivistico. L'intento di Bergson è sin d'ora quello di fondare una «metafisica positiva» -così egli l'avrebbe definita qualche anno dopo -, che . sembra richiamarsi all'annuncio che Ravaisson DaIl a sc1enza c l d' .. alla netalisica aveva tatto ne 1868 (V. CAP. 4, PAR. 1), 1 un «posltl' vismo spiritualista»: partendo dalle nozioni offerte dalla scienza, come per esempio la nozione del tempo, raccogliere, come fanno le scienze positive, quei fatti, quei «dati immediati» capaci d'indicare la direzione che porti verso principi del reale non direttamente esperibili. L'ambizione di Bergson è insomma quella di aprirsi un varco dalla scienza alla metafisica, senza tradire quella fedeltà all'esperienza, quell' «empirismo» cui egli tante volte, durante l'intero arco della sua ricerca, si sarebbe richiamato. Egli sarebbe giunto, addirittura, a sostenere che la filosofia così intesa non sarebbe più stata, come in passato, la costruzione sistematica di un unico pensatore, ma, a somiglianza della scienza positiva, il prodotto di un'opera di collaborazione collettiva. Come s'è già avuto modo di vedere, questo «positivismo» bergsoniano è ben lungi dall'accettare la metodologia delle scienze matematiche e meccaniche, ché anzi i fatti, i dati immediati relativi alla vita interiore della coscienza richiedono, per poter emergere, un metodo ben diverso, interamente modellato sull'oggetto che esso è chiamato ad illuminare. Come vedremo in seguito, questo metodo sarebbe stato riconosciuto da Bergson nella «intuizione». Che già il Saggio sia un testo metafisicamente impegnato, lo dimostra il fatto che l'elaborazione della dottrina della durata interiore è funzionale alla trattazione, cui è dedicato il terzo ed ultimo capitolo, di
un tema tradizionale del pensiero metafisica, quale quello della libertà. Bergson sostiene che l'antica, interminabile disputa tra deterministi, che negano la libertà umana, e antideterministi, che sostengono L 'b . . ed anz1. pretendono d'1 def'1mr . lo, a Il erta 1'll'b 1 ero arb'1tno nasce dall'introduzione degli schemi spaziali nell'interpretazione della vita dell'anima. Una volta restituita la vita psicologica alla dimensione della durata reale, la libertà non sarebbe più neppure un problema, giacché essa si rivelerebbe alla coscienza come un'evidenza immediata. Il problema della libertà sarebbe in realtà nato da un malinteso, simile a quello che era stato all'origine degli antichi sofismi di Zenone: «come questi sofismi, il problema della libertà nasce dall'illusione per cui confondiamo successione e simultaneità, durata ed estensione, qualità e quantità».
Bergson concentra in particolare la sua critica su quella forma più precisa e recente di determinismo psicologico, rappresentata dalla concezione associazionistica dello spirito. Questo viene inteso «come una somma di stati psichici, il più forte dei quali Critica esercita un'influenza preponderante e trascina gli dell'associaaltri con sé», come un aggregato di fatti di co- zionismo scienza- sensazioni, sentimenti e idee-, ricondu- psicologico cibili ad una connessione causale del tutto simile a quella che la scienza stabilisce tra i fatti del mondo fisico. Ma in tal modo l'azione e il motivo dell'azione, i sentimenti e le volizioni vengono intesi come elementi tra loro esterni e di cui l'uno determinerebbe in modo meccanico l'altro. Ne consegue «una psicologia grossolana ... che ci mostra l'anima in preda ad una simpatia, ad una avversione o a un odio, come se fosse determinata da altrettante forze che pesano su di essa».
In realtà si tratta di quell' «io fantasma», ombra dell'io reale proiettata nello spazio, di cui abbiamo già detto. Di questa spazializzazione dell'io sono, del resto, corresponsabili anche i sostenitori del libero arbitrio. Deterministi e antideterministi concordano nel rappresentare la vita psicologica come un percorso
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tracciabile nello spazio, costituito da una serie MO di fatti di coscienza esterni gli uni agli altri, al termine del quale, ossia nel punto O, l'io si troverebbe di fronte a due direzioni, OX e OY, egualmente aperte.
duo, sarebbe in grado di prevederne in modo infallibile, come l'astronomo un'eclisse di sole, gli atti futuri, oppure quando affermano che ogni atto o fatto di coscienza è determinato in modo necessario dai suoi antecedenti psichici. A tutte queste teorie meccanicistiche ed associazionistiche diffuse nel pensiero positivistico, da Stuart Mill a Taine, Bergson contrappone la sua concezione della libertà che fa tutt'uno con quella della durata. La confutazione del determinismo sta nello stesso durare dell'anima: nel profondo di questa tutti gli stati psichici si compenetrano tra loro, sicché l'b . d' · l' · l La r erta come ognunoh 1 ess1 .rappresentad a ~ur~a mt.er~fl' ne autodetermi· senso c e tutto 11 contenuto e amma s1 n ette nazione in esso. La simpatia, l'avversione, l'odio ed ogni altro sentimento, qualora abbiano raggiunto una sufficiente profondità, non costituiscono pertanto un fattore isolato della vita dell'io, da cui questa sia determinata meccanicamente: «dire che l'anima si determina sotto l'influenza di uno qualsiasi di questi sentimenti, significa quindi riconoscere che si determina da sé». Questa autodeterminazione è la libertà. A differenza dello spiritualismo tradizionale che attribuisce alla libertà un carattere assoluto, per ob . · bb . . lr er1a e cm essa segnere e 1 comp~rtamentl oumam sem- automatismo pre e comunque, Bergson e dell'avviso che essa ammetta invece dei gradi. Riprendendo la distinzione tra io superficiale e io profondo, egli afferma che
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L'indeterminista afferma che in O l'io, di fronte alle due direzioni che indifferentemente gli si aprono dinanzi, esita, delibera, e alla fine sceglie liberamente una delle due, rimanendo l'altra egualmente praticabile, magari in un momento successivo nel quale l'io decidesse di tornare sulle proprie decisioni. Il determinista, al contrario, afferma che se l'io si è deciso per la direzione OX, ciò significa che, lungi dal trovarsi in uno stato di indifferenza, aveva una ragione per sceglierla, e che dunque l'altra direzione OY era sì apparentemente aperta, ma in realtà solo la prima era possibile. Una volta imboccata la strada della raffigurazione spaziale della vita dell'io, diviene così inevitabile il più inflessibile determinismo. Ma è tale raffigurazione che dev'essere rifiutata: «la linea MO, il punto O, il tratto OX e la direzione OY non esistono affatto». Chiedersi se l'io, essendosi deciso per OX, avrebbe o non avrebbe potuto optare per OY,
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«la maggior parte del tempo viviamo esteriormente a noi stessi .. La nostra esistenza si svolge ... nello spazio piuttosto che nel tempo: viviamo per il mondo esterno piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; siamo agiti piuttosto che agire noi stessi». 0
Ciò significa che il più delle volte noi non siamo liberi, e che anzi «sono molti quelli che vivono cosi, e che muoiono senza aver conosciuto la vera libertà». Ci lasciamo determinare da impressioni e da stati di coscienza spersonalizzati, separati gli uni dagli altri e cristallizzati, di cui è fatta quella specie di crosta esterna che ricopre il nostro io vivente:
«significa ammettere la possibilità di rappresentare adeguatamente il tempo attraverso lo spazio ... significa attribuire alla figura tracciata valore di immagine, e non più solo di simbolo; significa credere di poter seguire su questa figura il processo dell'attività psichica come la marcia di un esercito sulla carta».
«così l'atto segue l'impressione senza che la mia personalità sia interessata: sono un automa cosciente ... Si potrà vedere che la maggior parte delle nostre azioni quotidiane si compiono in questo modo, e che grazie alla solidificazione nella nostra· memoria di certe sensazioni, sentimenti e idee, le impressioni esterne suscitano in noi movimenti che, pur essendo coscienti e anche intelligenti, somigliano per molti aspetti ad atti riflessi»
In realtà quella figura non rappresenta il tempo nel suo scorrere, il progresso dinamico della coscienza che viene maturando, nel fluido compenetrarsi dei suoi stati, la deliberazione e l'atto che la traduce nella realtà, bensì simbolizza il tempo in quanto già trascorso, il processo della deliberazione ormai compiuto e ricostruito artificiosamente attraverso il suo dispiegamento in una successione spazializzata. Alla medesima falsificazione della durata reale dell'io pervengono i deterministi quando sostengono che un'intelligenza superiore in grado di conoscere in modo completo tutti gli antecedenti della vita di un indivi-
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Si tratta di azioni numerose, anche se per la maggior parte insignificanti, alle quali ben s'adatta il modello associazionistico che per l'appunto da esse, ma anche solo da esse, trae la propria unica validità. È nelle circostanze più importanti e solenni della vita, «quando è in giuoco l'immagine che daremo di noi agli altri, e soprattutto a noi stessi», che noi ri-
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prendiamo possesso di noi stessi, ci ricollochiamo di nuovo nella pura durata, e agiamo liberamente:
hanno quell'indefinibile somiglianza che talvolta si riscontra · tra l'opera e l'artista».
«... l'azione compiuta non esprime più allora un'idea superficiale, distinta, facile da esprimere e che ci è quasi esteriore: essa risponde invece all'insieme dei nostri sentimenti, dei nostri pensieri e delle nostre più intime aspirazioni, a quella particolare concezione della vita che è l'equivalente di tutta la nostra esperienza passata».
Certo una tale pienezza di libertà è rara, «anche in coloro che sono più abituati ad osservare se stessi e a ragionare su ciò che fanno». La nostra vita interiore passa attraverso gradi diversi di compenetrazione reciproca dei suoi stati e dunque gode di gradi diversi di libertà: «il fatto è che si passa per gradi impercettibili dalla durata concreta, i cui elementi si compenetrano, alla durata simbolica i cui momenti si giustappongono, e, di conseguenza, dall'attività libera all'automatismo cosciente».
Come dire che «siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra intera personalità, quando la esprimono, quando con essa
Materia e memoria l Saggio sui dati immediati della coscienza è
solo l'inizio della filosofia bergsoniana. Questa viene sviluppandosi nei capolavori degli anni successivi, Materia e memoria del 1896 eL'evoluzione creatrice del 1907, esplicitando sempre più chiaramente la propria portata antologica, irriducibile entro i confini di una psicologia descrittiva, al cui ambito sembrava limitarsi, in molte sue parti, l'indagine del Saggio. Ne L'evoluzione creatrice Bergson si sarebbe convinto che anche le cose hanno una loro durata e che, dunque, questa non s'esaurisce in una mera dimensione psicologica. Già però in Materia e memoria la dualità tempospazio, qualità-quantità, interno-esterno viene ripensata in nome dell'esigenza di riconoscere allo spazio, all'esteriorità, alla materia un ruolo ed una rilevanzaantologica che il Saggio ancora non sospettava. Nel testo del1889, infatti, l'accento del discorso si posava R' sul polo della durata interiore, e se veniva ricoi~:~:~~:~:~ nos~iuta ampiament~ l'incidenza della spazialità spazio-tempo su dt quella, essa vemva valutata come un fattore inquinante, dalla cui invadenza la critica filosofica avrebbe dovuto sforzarsi di purificare la realtà dell'anima, restituendola all'autenticità della pura temporalità. Ora, non avrebbe potuto Bergson indugiare in questa posizione, se non a rischio d'isolare la vita interiore dal mondo esterno al punto di privarla di quella ricchezza di contenuti che certamente le deriva dal rapporto col mondo delle cose. Un rischio siffatto poteva sembrare adombrato in quel passo del Saggio in cui viene indicata nel sogno la condizione privilegiata che,- sospendendo la . . . comunicazione tra l'io e le cose esterne, lo restiIl nschio di . ll d ., . isolare la 't tmsce a a pura urata, non pm mtsurata ma orinteri~r: mai soltanto «sentita». Egli ne parla come di un «istinto confuso» per il quale la coscienza addormentata s'immerge nella corrente indifferenziata che scorre nel fondo oscuro e ineffabile della sua nuda
esistenza. Una specie di regressione della coscienza che, come osserva Vittorio Mathieu, uno studioso di Bergson, avrebbe potuto anche soddisfare le esigenze del gusto estetico - il suono del flauto nel Preludio al pomeriggio di un fauno di Debussy ne appare una struggente espressione artistica -, ma non certo servire alla conoscenza riflessa della filosofia. La filosofia bergsoniana doveva muovere, insomma, verso un duplice riconoscimento: da una parte, che l'esperienza concreta dell'uomo si costruisce non già nell'astratta contrapposizione tra durata e spazio, bensì sulla loro unione reciproca, pur ri. manendo ben ferma la loro irriducibile opposi- Una .dup~ice . dall' altra, che lo spazto, . lungt, dall' essere preCiS8ZiOOe ztone; semplicemente e soltanto il responsabile della «nozione bastarda» del tempo della meccanica, costituisce ·uno dei due lati dell'essere, ineliminabile, senza del quale la realtà non sarebbe quello che è; destinato esso ad esser l'oggetto della scienza, così come l'altro, la durata, è l'oggetto della filosofia e della metafisica. In questo senso Bergson, lungi dal dispregiare la scienza, secondo quanto gli è stato spesso rimproverato, come se essa si riducesse a mera funzione pragmatica, riconosce ad essa il potere di cogliere uno dei due lati dell'assoluto. Egli rifiuta di Kant l'idea che la Valore scienza sia relativa ai modi umani di conoscere, teoretico e affermando che essa, nel suo dominio, ha un va- relatività della lore teoretico incondizionato, e ci fa conoscere la scienza realtà per quello che è. Essa comincia ad essere relativa solo quando, esorbitando dal proprio dominio, pretende di conoscere in base ai propri schemi la realtà della vita e della coscienza, che è, invece, riservata alla conoscenza metafisica. In Materia e memoria Bergson affronta dunque, come annuncia il sottotitolo - Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito - il problema del rapporto tra anima e corpo, mettendo a fuoco la domanda intorno alla quale si era venuta concentrando l'attenzione del-
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la psico-fisiologia del tempo (v. CAP. 21*, PAR. 2): quale sia la funzione del cervello nella vita della coscienza, e se davvero, come pensano gli scienziati influenzati dallo scientismo positivistico, le funzioni psichiche, anCerve Ilo e h l . , f' . l . l l' coscienza c e e pm so 1st1cate e comp esse, stano oca Izzabili nelle circonvoluzioni cerebrali. L'intento di Bergson è, naturalmente, quello di riaffermare il dualismo tra coscienza e materia, evitando però le rigidezze dualistiche dello spiritualismo tradizionale, nella prospettiva dunque «di attenuare di molto, se non di sopprimere del tutto, le difficoltà teoriche che il dualismo ha sempre sollevate». Si tratta, insomma, di «cogliere più chiaramente la distinzione tra il corpo e lo spirito e al tempo stesso di spingersi più a fondo nel meccanismo della loro unione», o, come anche meglio si può dire, di «collocarci all'interno dello spirito, ma nel punto di contatto tra lo spirito e la materia». Nel primo capitolo del libro viene affrontato il problema generale della materia del quale l'idealismo e il realismo hanno via via proposto soluzioni opposte, il primo riducendola alla rappresentazione che ne abbiamo, l'altro concependola come indipenden11 problema della materia te ed esterna alla nostra coscienza, una cosa che e il senso produrrebbe in noi delle rappresentazioni, ma comune che sarebbe di altra natura rispetto ad esse: da una parte Berkeley col suo «esse est percipi», dall'altra Cartesio che, riducendo la materia ad estensione e privandola di tutte le qualità sensibili con cui si presenta alla nostra percezione, l'ha collocata troppo lontana da noi. Bergson afferma di voler ignorare tutte le teorie sulla materia proposte dai filosofi, e di voler restare fedele alla concezione che ne ha il senso comune.
vimenti, che interagiscono tra loro in ognuna della loro parti elementari, secondo leggi costanti, che sono le leggi della natura. Venendo al problema dei rapporti tra anima e corpo, Bergson comincia col respingere ambedue le teorie prevalenti nel pensiero scientifico e filosofico contemporaneo, sia quella del parallelismo psico• d . . . d Il . . 1 rapport1tra .· f lSlCO, secon o cm g11 stati e a coscienza e g1l anima e corp 0 stati cerebrali sarebbero due diversi aspetti del medesimo processo, sia l'evoluzionismo materialistico che scorge negli stati di coscienza nient'altro che
Claude Debussy laude Debussy (1862-1918) è il musicista che, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, apre un capitolo interamente nuovo nella storia della musica europea. Da circa un quarto di secolo gli studiosi di Debussy rifiutano l'etichetta, che un tempo gli era correntemente attribuita, di «impressionista)) e riconoscono sempre più chiaramente il suo legame con le correnti culturali francesi ed europee che, nel clima del decadentismo fin
«Se ad una persona estranea alla speculazione filosofica dicessimo che l'oggetto che ha dinanzi, l'oggetto che vede e tocca, esiste solo nel suo spirito e per il suo spirito ... desteremmo in lui un grande stupore. Il nostro interlocutore continuerebbe a sostenere che l'oggetto esiste indipendentemente dalla coscienza che lo percepisce. Ma, d'altra parte, questo interlocutore rimarrebbe altrettanto stupito se gli dicessimo che l'oggetto è completamente diverso da ciò che si percepisce, che non ha nè il colore che gli attribuisce l'occhio, nè la resistenza che la mano incontra. Per lui, questo colore e questa resistenza sono nell'oggetto: non sono stati del nostro spirito, ma gli elementi costitutivi di un'esistenza indipendente dalla nostra. Per il senso comune l'oggetto esiste quindi in se stesso e, d'altra parte, è pittoresco in se stesso così come noi lo scorgiamo: è un'immagine, ma un'immagine che esiste in sé».
Bergson consente: la materia non è altro che un «insieme di immagini», che, però, non sono relative Le ad u~a coscie_n~a, come ci porterebbe a pensare ~l «immagini-cosen termme tradiziOnalmente consegnato ad un Sle le leggi gnificato soggettivo di contenuto mentale, bensì naturali esistono in sé, al di fuori della nostra coscienza: sono immagini-cose. Non si tratta, d'altronde, di immagini inerti, giacché esse sono anche azioni o mo-
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de sièc/e, dettero vita al movimento simbolista. Del simbolismo debussiano sono esempi assai suggestivi il poema lirico La Damoiselle élue per soprano, mezzosoprano, coro femminile e orchestra (1887 -88) su versi del preraffaellita inglese Dante Gabriele Rossetti, e l'opera Pelléas et Mélisande (1902), tratta dal dramma omonimo di Maurice Maeterlinck. Nella Damoisel/e é!ue gli echi stilnovistici conferiscono all'immagine della fanciulla angelicata gli estenuati
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degli epifenomeni, ossia dei prodotti del funzionamento del cervello. Ad entrambe queste teorie è comune la convinzione, del tutto erronea, che
osservazione offerto dagli studi di fisiologia e patologia della mente, soprattutto in ordine ai fenomeni di afasia, Bergson si convince che «lo stato psicologico debordi di gran lunga dallo stato cerebrale», e che la pretesa di conoscere gli stati mentali semplicemente in virtù di ciò che accade nel cervello equivale a quella di chi pensasse di poter comprendere un'opera teatrale solo dall'andare e venire degli attori sulla scena. Il fatto, indubitabile, che gli stati di coscienza siano «attaccati» ad uno stato cerebrale non significa che tra le due serie, psicologica e fisiologica, vi sia un
«se noi potessimo penetrare all'interno di un cervello che lavora e assistere allo spostarsi e all'incrociarsi degli atomi di cui è fatta la corteccia cerebrale, e se, d'altra parte, possedessimo la chiave della psicofisiologia, allora conosceremmo tutti i dettagli di ciò che accade nella coscienza corrispondente».
Nulla di più erroneo di questa conclusione: dall'esame che egli compie dell'amplissimo materiale di
1 C/aude Debussy con sua figlia Claudette.
2 Frontespizio de La Mer.
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languori che circondano di arcane suggestioni molte figure femminili della letteratura e della pittura simbolista. Mélisande è meno evanescente, ma la sua immagine è altrettanto carica di silenzio e di mistero. Altre splendide opere di Debussy come i tre Nocturnes per orchestra (Nuages, Fetes, Sirènes) e il
trittico sinfonico La mer (De /'aube à midi sur la mer, Jeux de vagues, Dia/ogue du vent et de la mer), che portano rispettivamente le date del1901 e del1905, insieme a molti dei suoi affascinanti Préludes per pianoforte, avevano potuto alimentare l'equivoco per cui si parlò a lungo di «pittura musicale» a proposito delle composizioni di Debussy.
Fondamentali sono, invece, nella musica di Debussy altri elementi: la mancanza di «sviluppo» (nell'accezione tradizionale, · classico-romantica, del termine); la mobilissima, vibrante, sensitiva trascrizione dei moti impercettibili dell'animo in una scrittura libera da ogni costrizione formale; la nuova concezione del timbro, per cui il suono isolato acquista un'importanza pari a quella delle altre componenti del linguaggio musicale (la melodia, l'armonia, il ritmo). Nell'orchestra debussiana i timbri non sono sentiti come dei mezzi o dei supporti materiali, ma comé degli assoluti, che vengono offerti alla nostra sensibilità acustica in maniera eminentemente magico-evocativa, non descrittiva o narrativa (si pensi al purissimo, meraviglioso attacco del flauto con cui si inizia il Prélude à l'après midi d'un faune(1894), ispirato al celebre poema di Stéphane Mallarmé). Ma ciò che lega in modo indissolubile l'arte di Debussy alla temperie culturale della sua epoca è una «percezione del tempo» interamente nuova, nella quale il fatto musicale non è
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percepito entro le coordinate di un tempo spazializzato, per mezzo di una forma esteriore preesistente, ma in un tempo-memoria che non può non richiamare alla mente la durée bergsoniana nella quale passato e presente si fondono nell'attualità del vissuto. L'epoca di Debussy è anche l'epoca di Proust. Musicalmente, questo nuovo senso del tempo è reso da Debussy con una scrittura melodica e armonica rivoluzionaria rispetto alla tradizione classico-romantica: i suoi «temi» non hanno una precisa direzione «vettoriale»; la sua musica non è fatta di una concatenazione di note di carattere «discorsivo», ma vive tutta nella vibrazione segreta, nell'attrazione «magica>> degli accordi, spesso giustapposti senza transizione e appartenenti a tonalità eterogenee che sembrano agire a distanza l'una sull'altra. Esempi mirabili in tal senso sono alcuni dei più famosi Préludes per pianoforte debussiani, come La cathédra/e engloutie, Brouillards, Danseuses de Delphes, e, nelle lmages per pianoforte (1905-1907), Et/a lune descend sur le tempie qui tut.
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parallelismo, così come per il fatto che l'abito sia attaccato ad un chiodo e che esso cada qualora si tolga il chiodo, non si direbbe mai che la forma del chiodo permette di prevedere quella dell'abito. Insomma, come Bergson avrebbe scritto in un saggio più tardo, «c'è infinitamente di più in una coscienza umana che nel cervello corrispondente». Non solo il rapporto tra mentale e cerebrale è assai più complesso di quanto creda il riduzionismo materialistico con i suoi tentativi di localizzare nel cervello le varie funzioni psichiche, ma esso non è neppure costante, poiché varia a seconda dei diversi livelli in cui si svolge la nostra vita psicologica. Quando questa tende ad esteriorizzarsi nell'azione, allora il nostro stato cerebrale contiene il nostro stato Vita mentale in misura maggiore, poiché degli stati psicologica e tracciati psichici il cervello disegna proprio la parte che è cerebrali capace di tradursi in gesti, atteggiamenti del corpo, in movimenti di locomozione. Al contrario, quando noi tendiamo ad interiorizzare la nostra vita psicologica, allentando l'attenzione alla realtà e distaccandoci dagli interessi pragmatici, per dilatare la nostra intera personalità al di là dei limiti imposti dall' azione, allora la ricchezza e la profondità dei nostri stati psicologici è tale da traboccare ben oltre i tracciati cerebrali che vi corrispondono. Per riprendere l'immagine teatrale: «a seconda della natura dell'opera rappresentata, imovimenti degli attori ci informano più o meno su di essa: quasi del tutto, se si tratta di una pantomima; quasi per nulla, se l'opera è una raffinata commedia».
In Materia e memoria Bergson pone al centro del discorso lo stratificarsi della vita psichica in una infinità di gradi che si sviluppano tra i due suoi modi di essere estremi ed opposti, la «percezione pura» e «la memoria pura»: l'unione tra spirito e corpo, tra vita psichica e cervello si stabilisce appunto attraverso quella infinità di gradi intermedi. Spieghiamoci. Contro la psicologia dominante, secondo la quale tra percezione e ricordo ci sarebbe solo una differenza di intensità, nel senso che il ricordo sarebbe una spe. cie di percezione più debole e più sbiadita, Bergltre dm~me~tl so n sostiene che la percezione è un momento :si~~~~: della vita della coscienza diverso per natura dal ricordo. Più precisamente nella vita psichica sarebbero da distinguersi tre momenti fondamentali: a. la memoria o ricordo puro; b. la percezione pura; c. il ricordo-immagine. a. la memoria costituisce la vita profonda della coscienza nel suo essere sganciata da ogni legame col corpo e nella sua estraneità all'azione. Essa è la durata pura di cui ha parlato il Saggio, in virtù della quale «il nostro passato ci segue tutt'intero, in ogni momento senza che noi ne siamo nemmeno coscienti»: tutto ciò che
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«abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla prima infanzia è là, chino sul presente, che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza».
Chi tendesse a risolvere la propria vita nella memoria pura, vivrebbe nel passato per il solo pia- L . . . esso, ma . datto all' azwne, . d'1men- pura a memona cere d1. vivere m e il tico dei bisogni del presente: si tratterebbe di un sognatore «sognatore», per il quale «i ricordi emergono alla luce della coscienza senza profitto per la situazione attuale». b. All'estremo opposto della vita di coscienza sta la «percezione pura». Al contrario di tanta tradizione filosofica che considera la percezione come unà funzione puramente teoretica, volta alla conoscenza disinteressata della realtà, Bergson sottolinea il carattere del tutto pragmatico della percezione. Essa è l'atto attraverso il quale il nostro corpo interviene sul siste- · ma di immagini costitutivo del mondo materiale, modificandolo ed adattandolo ai propri bisogni. A differenza di tutte le altre immagini, le cui azioni La percezione reciproche si verificano in modo assolutamente pura e gli determinato e conformemente a quelle che dicia- interessi mo leggi della natura, il nostro corpo è un'imma- pragmatici gine che si stacca da tutte le altre: essendo dotato di un sistema nervoso cerebrocentrico, esso è un centro d'azione capace di scegliere tra diverse reazioni possibili nei confronti delle eccitazioni che provengono dal mondo esterno. Il cervello, insomma, è un organo di scelta e di selezione tra le immagini-cose che costituiscono il mondo, e il criterio di questa scelta è da ricercarsi nell'interesse che noi, in quanto organismi viventi, abbiamo per ciò che è utile alla nostra vita e, al contrario, dannoso. La percezione consiste, per l'appunto, nella azione con cui io ritaglio, isolandole da tutto il resto, quelle immagini sulla cui «faccia» rivolta verso il mio corpo sono segnate le mie possibili scelte: percepire vuol dire, insomma, cogliere negli oggetti che circondano il mio corpo l'azione possibile del mio corpo stesso su di essi. «Quanto più grande è la capacità d'azione del corpo (simbolizzata da una maggiore complessità del sistema ner~ voso), tanto più vasto è il campo che la percezione abbraccia. La distanza che separa il nostro corpo da un oggetto percepito misura quindi realmente la maggiore o minore imminenza di un pericolo, la scadenza più o meno ravvicinata di una promessa. E di conseguenza, la nostra percezione di un oggetto distinto dal nostro corpo, separato da esso da un intervallo, non esprime mai altro che un'azione virtuale».
Tutto ciò ci aiuta a capire che la percezione è il momento della vita cosciente agli antipodi della memoria pura: in esso noi siamo del tutto fuori di noi stessi, immersi nel mondo delle cose, totalmente presi da quella che Bergson chiama «attenzione alla vita». La funzione selettiva del cervello non è rivolta solo al sistema di immagini che costituisce il mondo esterno, ma anche al mondo interiore della durata: «il corpo,
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sempre orientato all'azione, ha come funzione essenCelebre è l'immagine del cono arrovesciato, colla z o(/) ziale quella di limitare, in vista dell'azione, la vita quale Bergson raffigura l'endosmosi di memoria e perdello spirito». Per agire, noi abbiamo bisogno di di- cezione, o, come anche si può dire, di anima e corpo, in CJ menticare, giacché la memoria, la totalità della nostra cui consiste l'esperienza concreta degli uomini. cc::: U.J . esperienza passata, sarebbe di impedimento al00 L'((atten~lo- l'azione che, per essere rapida ed efficace, richiene alla v1ta)) d . . d' · · · 1 l'oblio e 1tmttatezza 1 onzzontl e concentrazwne ne e presente. Il cervello, lungi dall'essere, come pensa la psicologia scientifica, organo della memoria, è piuttosto «organo dell'oblio», e la sua funzione è di costringere «nel sottosuolo della coscienza» la vita profonda dell'anima. Il che permette di capire meglio perché, secondo Bergson, il cervello registri soltanto una parte di ciò che avviene nella coscienza, quello che, appunto, si esprime in gesti, atteggiamenti, movimenti del corpo, mentre tutto il resto gli sfugge. Chi tendesse a risolvere la propria vita nella percezione, assumerebbe atteggiamenti vicini a quelli propri degi animali inferiori, si ridurrebbe a vi10 . L'u °? vere nel puro presente e risponderebbe all'eccitalmpu1SIVO . • . d' . · zwne attraverso una reazwne tmme tata e tstmtiva: l'uomo che procedesse in tal modo sarebbe un «impulsivo», l'esatto contrario del «sognatore». La base AB del cono rappresenta la memoria pura, c. Ma in realtà la vita concreta della coscienza i ricordi di tutti gli avvenimenti della nostra vita passanon si colloca né sul piano della memoria pura né su ta, immobili nella loro virtualità inconscia: il vertice S, quello della pura percezione, che rappresentano punti in cui si concentra la percezione attuale del nostro limite astratti piuttosto che esperienze reali. La me- corpo, raffigura invece il nostro sempre mobile presen. . . moria pura in quanto tale è l'astrazione della te: esso avanza senza posa e, sempre senza posa, tocca il Due ((htrmt 1 >~ «vita di sogno», condannata al buio dell'inconpiano mobile P della nostra rappresentazione attuale 1 1 • e a11'tmpotenza as ra 1 scw · de11' mattlvtta; · · · ' e cos1' la per- dell'universo. In realtà la nQstra vita concreta non si cezione pura, escludendo ogni forma di memoria, sa- fissa né alla base né al vertice del cono, ma consiste rebbe una visione della materia altrettanto astratta piuttosto nella duplice corrente che va dall'una all'altra nella sua immediatezza e istantaneità. Nella realtà estremità, passando attraverso mille e mille livelli di vita psicologica, rappresentati da altrettante sezioni, concreta le cose procedono diversamente. Da una parte «non c'è percezione che non sia A'B', A''B", ecc., dello stesso cono, nei quali memoria e impregnata di ricordi. Ai dati immediati e presenti percezione si combinano in equilibri sempre nuovi e dei nostri sensi, noi mescoliamo mille e mille dettagli diversi. È così che Bergson, al termine di Materia e memodella nostra esperienza passata», e la stessa funzione . . pragmatica della percezione come azione virtua- ria pensa di aver soddisfatto alla duplice istanza che .1 tmco~d~- le non potrebbe esplicarsi senza utilizzare l'espeaveva mosso la sua riflessione: mantenere il dualismo mlmagmm . . . l . . . nenza passata, utl1e a 111ummare a sttuazwne irriducibile di spirito e corpo, e insieme cogliere il presente. Se il cervello sbarra la strada agli infiniti punto di contatto, il livello del loro incontro e della loro ricordi, non utili per l'azione presente, che si sono unione, evitando così il materialismo come un astratto accumulati nella nostra durata, esso richiama invece spiritualismo. Al materialismo Bergson obietta quelli che possono favorirla, ai quali Bergson, per di- che una lesione cerebrale può impedire il rapporto Contro materialismo e stinguerli dalla memoria profonda, dà il nome di «ri- dello spirito con la realtà, l'attualizzarsi del ricor- astratto cordi-immagini». do, ma non certo può distruggerlo, giacché la spiritualismo Dall'altra parte, la memoria non avrebbe la possi- memoria è pura spiritualità che non si conserva nel bilità di risalire dall'inconscio alla coscienza e di diven- cervello, bensì gode di una propria trascendenza metatare efficace, senza incarnarsi e, per così dire materia- fisica. Allo spiritualismo che si compiace di racchiude, lizzarsi, attraverso la percezione, in un ricordo-im- re la vita spirituale in una interiorità timorosa del ~ u?mo magine, e così tradursi in azione. Chi sa in modo contatto con la realtà materiale, egli replica ricordando d azione eqmt'l'b rato conc11are 'l' tra loro la prontezza e la che, solo incarnandosi nello schema sensoriale-motorio ricchezza della memoria con la precisione e la nettezza della corporeità, lo spirito può realizzare completadella percezione è «l'uomo d'azione», che si colloca tra mente la propria potenzialità, altrimenti destinata a smarrirsi nel sogno. gli estremi del «sogno» e dell' «impulsm>.
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La Francia di Vichy ra il maggio e il giugno 1940 si consumava la sconfitta francese di fronte alle truppe germaniche nella seconda guerra mondiale. Dopo che per oltre otto mesi dall'inizio delle ostilità - 1 settembre 1939 l'esercito franco-inglese s'era distinto nella cosiddetta «dréìle de guerre» («strana guerra»), mantenendosi inattivo all'interno della linea fortificata Maginot, e consentendo così a Hitler di impadronirsi, indisturbato, della Polonia, il 1O maggio 1940 il Fuhrer dava ordine alle sue truppe di invadere Belgio, Olanda e Lussemburgo, paesi neutrali, in modo da aggirare la linea Maginot e colpire la Francia sul lato più debole. Tagliate fuori dall'azione le truppe franco-inglesi dislocate nel nord-ovest della Francia, e infranta la debole resistenza avversaria, le divisioni tedesche entravano il 14 giugno in Parigi, abbandonata pochi giorni prima in tutta fretta dal governo francese. Frattanto, il 1Ogiugno Mussolini aveva dichiarato guerra a Francia ed Inghilterra, nella speranza di partecipare ai frutti della vittoria, in quella che ormai sembrava profilarsi come una «guerra lampo». Il 22 giugno, il nuovo governo francese, guidato dal maresciallo Henri Philippe Pétain, «eroe» della prima guerra mondiale, firmava l'armistizio con il comando tedesco, accettando le dure condizioni di capitolazione volute da Hitler. La Francia veniva divisa in due zone: il nord-ovest, compresa la regione di Parigi, veniva occupato dai tedeschi e posto sotto il loro diretto
controllo, mentre il sud-est veniva affidato dai vincitori all'amministrazione di un governo francese capeggiato da Pétain, e sostanzialmente subalterno ai tedeschi. Negli stessi giorni della capitolazione e della costituzione del governo collaborazionista di Pétain, un colonnello francese riparato in Inghilterra, Charles De Gaulle, si rivolgeva da Londra ai francesi, chiamandoli alla lotta contro i tedeschi e i collaborazionisti. Doveva essere, questo, il primo atto della resistenza antitedesca e antifascista in Francia. Stabilita la sede del proprio governo a Vichy, una piccola città termale della Provenza, il maresciallo Pétain dette fine alla Terza Repubblica, erigendo un regime autoritario di tipo militare-fascista che assunse la denominazione di «Stato francese», abbandonando quella tradizionale di «Repubblica». A sostegno del nuovo regime si disposero, oltre che le organizzazioni fascistiche sorte in Francia fin dal 1934, i proprietari terrieri, la burocrazia, le alte gerarchie della Chiesa cattolica e parte del clero, le gerarchie dell'esercito, parte del mondo industriale. La borghesia di tradizioni liberai-democratiche si riconobbe invece nell'azione di De Gaulle, che sarebbe culminata nella creazione di forze armate regolari francesi - «Forze francesi libere» -, integrate, al momento dello sbarco in Normandia, nelle file dell'esercito americano. Operai, contadini, piccolo-borghesi confluirono invece, in misura notevole, nel «maquis», il movimento
partigiano popolare, suddiviso in numerosissime organizzazioni, che a partire dal 1941 avrebbe condotto azioni militari contro tedeschi e collaborazionisti di Vichy, Per la terza volta nel giro di un settantennio, dopo la Comune del1871 e l'«affaire Dreyfus» di fine secolo, l'unità nazionale francese soffriva il suo trauma più profondo e drammatico, reso anche più violento dal contesto della guerra mondiale e dei regimi totalitari presenti in Europa. È stato detto giustamente che il regime di Vichy rappresentò allora il tentativo di rivincita nei confronti della Francia del 1936; quella del
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Fronte popolare, nei confronti della Francia dreyfusarda degli inizi del secolo e, ancora più radicalmente, di quella dei princìpi del 1789. Ne fu espressione simbolica la sostituzione del motto rivoluzionario: «LibertàEguaglianza-Fraternità» con quello d'ordine: «Lavoro-Famiglia-Patria». Una lunga tradizione ideologica discendente da De Maistre (v. cap. 9*, par. 4) fino a Maurras (v. cap. 21., par. 1), involgarita nella rozza retorica fascistica, sembrò tornare ad accendere «la fiaccola dei vinti della rivoluzione
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~-:çT';";,I-~"'/:..:.;..;;'&7:•••"""'"··~~'';' 1 Charles Chaplin nel film Tempi moderni. l 2 Manifesto pubblicitario del film Tempi moderni. ...
della catena di montaggio; Charlot che, esasperato dall'ossessiva ripetitività del lavoro che è costretto a compiere, impazzisce e viene portato in manicomio; Charlot su cui viene sperimentata una macchina alimentatrice che dovrebbe consentire agli operai di continuare a lavorare durante i pasti. Essa versa la minestra nella bocca, spinge tra i denti le vivande, mentre, tra una boccata e l'altra, una spugna asciuga le labbra di Charlot. Ma la macchina si guasta e, impazzita, comincia a prendere a schiaffi la tragica faccia terrorizzata del malcapitato, mentre gli rovescia la minestra sulla camicia, gli spinge dei bulloni in bocca, gli spolvera sale e pepe sugli occhi. E ancora: un operaio è stato afferrato e «inghiottito» da una macchina che, ora muovendosi ora arrestandosi, fa apparire tra gli ingranaggi ora i piedi ora la testa. Quando questa si affaccia, il prigioniero viene alimentato dai compagni, che gli versano la zuppa in bocca sporcandogli la faccia o, divenuti più abili, si servono di un pollo sviscerato come di un imbuto, con cui travasargli in bocca del latte. Uscito di manicomio, Charlot
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viene coinvolto in un corteo di scioperanti e, scambiato dalla polizia per un agitatore comunista - lui che, pur solidale con gli oppressi, resta comunque sempre prigioniero della propria solitudine di individuo isolato -,viene condotto in prigione. Le vicende successive vedono entrare in scena la fanciulla di strada, che Charlot salva dal carcere e di cui s'innamora. Rifugiatosi
insieme con lei in una baracca cadente, Charlot vuole procurarle un'esistenza felice e cerca lavoro. Per una notte fa il sorvegliante ai grandi magazzini, dove la ragazza, moderna Cenerentola, si pavoneggia indossando le pellicce in vendita; e quando arrivano i ladri spinti a rubare dalla fame, Charlot li accoglie a braccia aperte, ritrovandosi il giorno dopo di nuovo sulla
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strada. Ritornato in fabbrica e di nuovo uscitone distrutto, egli si avvia conia ragazza per la strada, incontro ad un avveniFe che spera migliore. Il film~vrebbe sollevato negli Stati Uiihi ostilità nei confronti di Chaplin, accusato di essere un comunista, tanto che negli anni in cui infuria nel paese il maccartismo, egli è costretto a lasciare gli Stati Uniti e a fare ritorno in Inghilterra.
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prattutto, dell'abito all'osservazione scientifica, della capacità di valutazione e di intervento critico sulle cose, che si può ottenere attraverso, per esempio, un'attività come quella del filare e del tessere. All'aula dei banchi immobili e dell'ascolto silenzioso, si sostituisce il laboratorio, nel quale «c'è un certo disordine; ... non c'è silenzio; le persone non sono obbligate a stare in certe posizioni stabilite, atenere le braccia piegate in quel dato modo, e i libri così e così. Si fa una varietà di cose e c'è la confusione, il brusìo che risulta dall'attività. Ma appunto dal lavoro, dal compiere azioni che hanno un dato fine e dal compierle in cooperazione con gli altri, risulta una disciplina speciale».
Questi i caratteri della «scuola attiva» deweyana, vero e proprio programma per una riforma democratica dell'educazione. La riunificazione di conoScuola.e scere e fare, il rifiuto dell'autoritarismo, la fundemocrazla . . 11zzante . . . d'1 prozwne del lavoro, socta e ms1eme
mozione della creatività individuale, tornano a fare della scuola il luogo in cui, finalmente, è data la possibilità di conseguire e di elaborare l'esperienza necessaria all'esercizio delle funzioni morali ed intellettuali richieste da una società democratica. Rimane, peraltro, in alcuni studiosi l'impressione che Dewey, ancora una volta condizionato dalla propria mentalità di tipo illuministico, non abbia saputo evitare l'errore del pedagogismo, ossia l'idea che un'educazione democratica, ed una scuola a questa cor. rispondente, siano di per sé sufficienti, o comunque Pedagoglsmo? posseggano un valore prioritario nella lotta contro le diseguaglianze e i privilegi dominanti nella società. Come se l'esperienza di quel lavoro che si svolge nel laboratorio scolastico, esente dalle divisioni e alienazioni che nella società reale lo fanno così spesso vivere come una maledizione, non fosse appunto per questo un'esperienza pur sempre ai margini della società.
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L'arte come esperienza el problema estetico e dell'arte, se si prescinda dalle poche pagine ad esso dedicate in Esperienza e natura del 1925, Dewey si è occupato espressamente solo in uno dei suoi maggiori scritti degli anni Trenta, L'arte come esperienza, nel quale, in coerenza con la lotta condotta fino allora contro ogni specie di dualismi, egli rifiuta le interpretazioni spiritualistiche del fatto estetico, che ne fanno una realtà trascendente l'esperienza comuContt~ohle ne, collocata in una dimensione «spirituale» ed este 1c e d . . spiritualistiche «eterea», appartenente a un «emplreo» quas1 irraggiungibile dall'uomo comune. Un dualismo questo, che ben si accorda con quelli che tradizionalmente separano anima e corpo, sensi e intelletto, spirito e materia, col conseguente disprezzo per la «carne» e svalutazione della materia. L'intento di Dewey è quello di sgombrare il terreno dalle «concezioni esoteriche» dell'arte che la pongono «su un remoto piedistallo», e di «ricostruire la continuità tra le opere d'arte, e i fatti, le azioni e le passioni di tutti i giorni», il loro radicarsi nell'esperienza dell'uomo comune. Come i geologi debboAr.te ed no rendere evidente il fatto che le cime dei monti espenenza . non gallegg1ano nel vuoto e nemmeno sono semplicemente adagiate sulla terra, bensì sono la terra in una delle sue manifestazioni, così il filosofo dell'arte ha il compito di mettere in luce che l'arte, pur sollevandosi per raffinatezza di elaborazione al di sopra delle trite esperienze ordinarie, è essa stessa esperienza, né più né meno di quelle. Una diffusa esteticità contrassegna, del resto, la
vita quotidiana degli uomini, in ogni momento nel quale questa, acquistando in intensità e felice. . mente compiendosi in una attività intellettuale o Este~ 1 ~ 8 e VIta .. . . e go d'1mento. Af~'1erma quot1d1ana f1s1ca, pro duce g101a Dewey: «Per 'comprendere' l'estetico nelle sue forme ultime e provate, bisogna cominciare dallo stato greggio; dai fatti e dalle scene che attraggono l'attenzione dell'occhio e dell'orecchio dell'uomo, suscitando il suo interesse e procurandogli godimento allorché guarda o ascolta ... Può imparare a conoscere le sorgenti dell'arte nell'esperienza umana chi osservi come la tesa eleganza del giuocatore di palla penetri la folla attenta; chi osservi il piacere della donna di casa nel curare le sue piante e l'assorto interesse del marito nel curare l'aiuola di verde davanti la casa; la gioia dello spettatore nell'attizzare la legna che brucia nel camino e nel contemplare le fiamme che divampano e i carboni che si rompono ... ».
Il parere di Dewey è che l'opera d'arte non faccia altro che sviluppare ed accentuare il valore specifico che già è presente in queste esperienze di quotidiano godimento. Ma quali sono le cause o, come meglio sarebbe dire, le ragioni storiche della separazione dell'ar... d 11 te dalla vita di tutti i giorni, e del trasformarsi Le 011 91111 zae a . separa1ez . oggett1. sc1ss1 . . dall' espenenza de11e opere d' arte m dell'arte terrena? La risposta di Dewey è così articolata: a. il moderno sequestro delle opere d'arte nei musei e nelle gallerie, segno tangibile della loro alienazione dalla vita comune, è stato l'effetto del nazionalismo e dell'imperialismo: ogni stato ha voluto i propri musei, ad esaltazione del proprio grande passato, oltre che per raccogliere il bottino di guerra strap-
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pato alle altre nazioni; b. il capitalismo moderno ha prodotto il fenomeno mercantile delle collezioni private di oggetti artistici, che così vengon rubati al godimento comune degli uomini; c. la meccanizzazione dell'industria e la conseguente produzione di massa hanno spinto l'artista ai margini della società, facendogli vivere la propria attività come isolata «autoespressione», sicché i prodotti artistici hanno assunto «l'aria di qualcosa di indipendente ed esoterico»; d. infine, tutti questi fattori hanno favorito lo sviluppo di filosofie dell'arte che hanno sanzionato l'isolamento dell'arte in una «regione disabitata» e la sua riduzione a pura contemplatività, come tale lontana dall'esperienza quotidiana. Il problema dell'estetica deweyana è di individuare le condizioni necessarie per restituire l'esperienza estetica alla vita reale degli uomini, riscattandone la continuità con i processi vitali normali, nella consapevolezza che questa restituzione non può ridursi Alienazione semplicemente ad un'operazione teorica: essa ridell'arte e alienazione del chiede «una profonda alterazione>> dei rapporti lavoro sociali, tale da attenuare sensibilmente le conseguenze della divisione sociale del lavoro e della meccanizzazione della produzione. Come dire che l'alienazione dell'arte potrà essere superata, e il recupero del senso della bellezza alla vita sociale ottenuto, solo nella misura in cui venga maturando una progressiva riduzione dell'alienazione del lavoro. Ma vediamo ora, brevemente, quali siano i caratteri principali dell'esperienza estetica e dell'arte: a. innanzitutto, sia la produzione che il consumo estetico comportano, come ogni altra esperienza, quella dinamica di emozioni che sempre inerisce al rapporto conflittuale tra l'impulso vitale in cerca di appagamento e l'ambiente in cui quest'ultimo ha da consumarsi. Ciò che contrassegna l'esperienza estetica è che essa non risolve quel conflitto, semplicemente dando espress·~'art~: sfogo all'emozione, come nel caso di chi dia libero e~;~~on: corso alla collera o del fanciullo che strilla, bensì 'esprimendo' l'emozione. A differenza dello sfogo che equivale a sbarazzarsi dell'emozione, l'espressione significa elaborarla, completarla, riordinando intorno ad essa il cumulo tumultuoso delle esperienze passate, in modo da dare felice compiutezza e massima espansione alla propria vita. Mentre nell'esperienza umana non ancora esteticamente liberata, una frattura esiste tra vita attuale da una parte e passato e futuro dall'altra, l'uno a produrre nostalgia, l'altro ansietà, nella situazione estetica l'essere si ricompone in unità:
zarsi nell'opera d'arte, ciò è in virtù della modellazione >LLJ di materiali oggettivi, impiegati come mezzi dell'e$ spressione: si tratta così di materiali fisici - il marmo LLl o dello scultore o i colori del pittore - come di materiali interni- immagini, ricordi, emozioni: come «per spremere il succo occorrono tanto la pigiatrice che i grappoli», così «per costituire un" espressione' di emozione occorrono tanto oggetti circostanti e resistenti quanto emozioni e impulsi interni». b. Nella modellazione dei materiali, l'artista non riproduce con esatta imitazione le cose, come se si trattasse di offrirne un'illusoria presenza, bensì opera una spietata selezione tra gli infiniti aspetti del complesso e variegato mondo in cui viviamo, ed La d 11 . . l . d Il h . . . mo e azrone astrae gl1e ement1 e e cose c e nsveg11ano 11suo dei materiali interesse, dal contesto altamente 'realistico' in cui essi si trovano inseriti. È tale, per esempio, il materiale da cui prendono spunto le 'nature morte': biancheria da tavola, tegami, mele, scodelle. «Ma una natura morta di Chardin o di Cézanne presenta questi materiali in termini di rapporti di linee, piani e colori», e «questo riordinamento non potrebbe verificarsi senza una certa misura di 'astrazione' dall'esistenza fisica».
E così «i nudi di Renoir dànno diletto senza suggerimenti pornografici. Le qualità voluttuose della carne sono conservate, accentuate perfino. Ma sono state astratte dalle condizioni di esistenza fisica di un corpo nudo ... L'estetico espelle il fisico e l'esaltare le qualità comuni alla carne e ai fiori scaccia l'erotico. La concezione che gli oggetti abbiano valori fissi e inalterabili è precisamente il pregiudizio da cui l'arte ci emancipa. Le qualità intrinseche delle cose emergono con stupefacente vigore e freschezza proprio perché vengon rimosse le associazioni convenzionali».
c. Quanto alla dibattutissima questione del rapporto nell'arte tra forma e contenuto, Dewey adotta una posizione assai simile a quella dell'estetica di Croce (V. CAP. 9, PAR. s) alla quale egli è vicino anche per la
«il passato cessa di travagliare e le anticipazioni del futuro non turbano, l'essere è completamente unito col suo ambiente e perciò completamente vivo».
Se questa esperienza estetica perviene a concretiz-
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Natura morta con mele di Pau! Cézanne.
PARTE PRIMA TRA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
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definizione dell'arte come espressione di un'emozione. Non si può parlare di una materia che sarebbe Forma e estetica di per sé, indipendentemente dall'elabocontenuto . . . ' 'l tt t tt t nell'arte raztone artlstlca: una cosa e 1 «sogge o» ra a o nella poesia, che è fuori e prima della poesia, altra cosa il «contenuto» che invece «è dentro di essa, anzi è la poesia stessa». Il contenuto artistico non è separabile dalla forma secondo la quale l'artista lo esprime, ed anzi esso, ciò che esso esprime, non è nulla indipendentemente dalla forma. Chi pretende di distinguere il contenuto dalla forma, confondendo in tal modo il contenuto col soggetto, si esonera inevitabilmente dalla comprensione di un'opera d'arte, giudicando «volgari», per esempio, i drammi di Ibsen, o arbitraria e capricciosa la distorsione della forma fisica di un oggetto richiesta dalle esigenze della forma estetica. «La giusta replica ... a tale incomprensione si trova in una osservazione di Matisse. Quando una signora si lamentò con lui dicendo di non aver mai visto una donna che somigliasse
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a quella da lui ritratta, egli rispose: 'Signora, questo non è una donna; questo è un quadro». d. La meccanizzazione della produzione e i processi di specializzazione scientifica tipici del mondo moderno hanno provocato la separazione tra arti utili ed arti belle. Mentre nelle prime il prodotto, per esempio una macchina, non ha in sé il proprio scopo e valore ma in altro cui esso serve, nelle arti belle il fine è intrinseco allo stesso processo di costruzione dell'oggetto. L'arte, in quanto interazione dell'uomo con l'ambiente che riesce ad una ricostruzione dell'esperienza, esaurisce in se stessa la popria finalità. Questa separazione della tecnologia dall'ar,, d d . . t Atte e te, Iegata com e a una etermmata congmn ura tecnolog· storica, non è però assolutizzabile e lascia aperta ta la possibilità d'una assunzione a valore estetico anche dei prodotti della tecnologia. Di conseguenza i prodotti dell'arte non coincidono necessariamente con i tradizionali oggetti artistici: statue, quadri e così via.
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La religione come religiosità , i religione Dewey non si era mai espressamente occupato, prima che nel 1934 tenesse presso la Yale University di New Haven tre conferenze ,,, sul problema religioso «alla luce della scienza e . ,~ della filosofia». Esse sarebbero state pubblicate nello stesso anno, riunite in un piccolo libro dal titolo Una fede comune, destinato ad uno straordinario successo di pubblico. Questo saggio deweyano può essere considerato il manifesto di una religiosità laica ed aperta, in espli. . . . cita polemid e concorrenza con le religioni traUna rehglo~lta dizionali, i loro contenuti di fede rigidi e dogmalmca t1c1, . . la loro pretesa d'1 10n c d . laztom . . soars1. su nve prannaturali che un Dio avrebbe affidato a quella o a quell'altra organizzazione ecclesiastica. Dewey sostiene che la dimensione religiosa non consiste, come insegnano le diverse religioni, in un oggetto, in un contenuto di credenze, in un~ esperien.. za speciale che si distingua da altre esperienze; Reh~l~ne e essa è piuttosto una qualità una funzione che {(rehg1oso» • • ' carattenzza tutte le espenenze umane e nessuna di esse in particolare. Ad indicarla è più appropriato l'attributo «religioso» che il sostantivo «religione». L'attributo, infatti, 1
«non denota alcuna realtà cui ci si possa specificamente riferire, cosi come ci si può riferire a questa o a quella religione storica, a questa o a quella chiesa esistente. Esso non denota nulla che possa sussistere per sé, o che possa
essere organizzato in una distinta e particolare forma di esistenza. Denota soltanto atteggiamenti che possono essere assunti di fronte a qualsiasi oggetto, e a qualsiasi scopo o ideale venga proposto».
Si tratta allora di stabilire quali siano questi atteggiamenti che costituiscono la religiosità dell'esperienza. La risposta di Dewey è cosi schematizza. . 1 . dendo la teona . d e1. va lon. preced ent e- Fede b1'l e: npren 'd r ne1 va or1 1 1 mente elalaborata, e svolgendola in una direzio- ea ne idealistica che sembra ridimensionare l'originaria impostazione naturalistica, egli afferma che religiosità è fede nei valori ideali che, anche se mai fossero per realizzarsi, meritano di essere reali, in quanto principi universali e permanenti che danno senso alla storia dell'umanità. Le religioni positive pretendono che gli ideali siano già incorporati, «in un certo senso soprannaturale e metafisico, nella stessa intrinseca struttura della realtà esistente». La religiosità, al contrario, non chiede di queste garanzie. Così scrive Dewey: «Ciò che io ho contestato non è ... la tesi che gli ideali sono connessi con la realtà esistente, e che essi stessi esistono, incarnati nell'umanità, come forze, ma bensì quella che la loro autorità e il loro valore dipendano da qualche loro previa e compiuta attuazione, come se gli sforzi degli esseri umani verso la giustizia, la conoscenza o la bellezza dipendessero, per la loro effettività e validità, dall'assicurazione della già esistente realtà sopramondana di un luogo dove i
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criminali sono trattati umanamente, dove non ci sono né schiavi né servi della gleba, dove tutti i fatti e tutte le verità sono già scoperti e posseduti nella conoscenza, e ogni bellezza è eternamente dispiegata in forma attuale».
Gli scopi e gli ideali che ci muovono e danno senso complessivo alla nostra esperienza, sono prodotti dell'immaginazione. Ciò non significa peraltro . . . che essi siano immaginari, privi di fondamento Glr_rde~~~~ nella «dura materia di cui è composto il mondo 1 l'immagtnazr dell'esperienza fisica e sociale». Rubando a Kant una sua espressione, si potrebbe dire che gli ideali assolvono ad una funzione regolativa di orientamento e di unificazione della vita, senza di che l'affaticarsi degli uomini lungo il cammino della storia non avrebbe alcun senso. Ma diciamo più chiaramente. La funzione dell'immaginazione, che non va confusa con la vana fantasia, è quella di produrre in noi, al di là del nostro interagire con l'ambiente per il . . lmmagn,~a~ 10 ~ ~ soddisfacimento dei vari bisogni particolari che e re IQIOSI1 a , d ll , ., s1 succe ono ne a nostra esistenza, un pm costante e profondo orientamento nella vita, tale da investire il nostro essere nella sua totalità e unificarlo
interiormente in un «sé tutto intero». Nella devozio>w ne a questo «sé medesimo unificato», frutto di una proiezione immaginativa, e agli ideali intorno ai quali w o esso prende consistenza, sta la funzione della religiosità nella umana esistenza. Essa, peraltro, si spinge anche oltre, a raccogliere, sotto i fini o valori ideali che dànno unità alla nostra personalità, l'intera realtà che l'immaginazione ci propone come un medesimo «universo», nel quale l'uomo si avverte dipendente dalla natura e insieme in attiva collaborazione con essa. Rifiutato il soprannaturalismo e il platonismo delle religioni positive e delle metafisiche trascendenti che, fantasticando di un Essere perfetto e immutabile in cui gli ideali sarebbero da sempre attuati, distolgono gli uomini dal duro impegno di realizzarli 12el .. mondo, Dewey non ha difficoltà ad accettare di 11 nome Dro usare lo stesso nome di Dio, a significare, da una parte la sintesi immaginativa dei valori ideali e di tutte le possibilità che si aprono come orizzonte dell'operare degli uomini, dall'altra il potere attivo che l'ideale esercita sulla realtà.
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Capitolo
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Dewey (1859-1952): un illuminista del ventesimo secolo Dewey ha avuto grande fortuna in Italia fin dai primi anni del secondo dopoguerra, quando si moltiplicano le traduzioni dei suoi scritti, e studiosi di filosofia e pedagogisti si confrontano col suo pensiero, avvertito come una salutare occasione per liberarsi della tradizione filosofica crociana e gentiliana, che aveva dominato la cultura italiana nei precedenti decenni. Proviamo qui a delineare una possibile pista di ricerca per chi provi interesse ad approfondire la conoscenza di questo filosofo americano. Introducendo alla lettura di Esperienza e natura (Paravia, Torino 1948), N. Abbagnano riconosceva nella filosofia deweyana molti punti di contatto con l'esistenzialismo positivo di ispirazione neo-illuministica alla cui elaborazione egli era allora intento. Per questo, si veda anche N. Abbagnano, Possibilità e libertà, Utet, Torino 1956, e Rivista di filosofia, Taylor, Torino 1960, n. 3, fascicolo interamente dedicato a Dewey. Esponenti del pensiero pedagogico orientato in senso laico-progressista, come Lamberto Borghi e Aldo Visalberghi, attribuiscono a Dewey il merito di aver liquidato, sul terreno della logica filosofica come su quello delle idee sull'educazione, il vecchio dualismo tra naturalismo scientifico e cultura umanistica, in virtù della sua concezione transazionale del rapporto uomo-natura. Visalberghi è autore di John Dewey, La Nuova Italia, Firenze 1951; Borghi, de L 'ideale educativo di John Dewey, La Nuova Italia, Firenze 1955. G. Preti (v. cap. 8, par. 4) è stato tra i primi a sostenere la legittimità di un avvicinamento del naturalismo umanistico deweyano alle concezioni del materialismo storico, concordi L. Geymonat (v. cap. 24, piste di ricerca) e M. Dal Pra, e in contrasto con le posizioni prevalenti tra i marxisti, come, per esempio, Lukàcs (v. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, pp. 786-87), il quale aveva scorto in Dewey folr~ l"~••n!ll t:h •l •l~4h di ~rlU.tl!- l'l~lli 111 Utrt("1JO t d! H.tflou
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._..( 1111/k rrftl sclenZlatl, pazzo e anormale. «La società che non può difendersi dalle verità enunciate da quelli, che per lei sono rivoluzionari e che minacciano la sua sicurezza, 'onestamente' rispondendo con argomenti razionali agli argomenti, ma solo opponendo la violenza e la materialità del suo esistere come dato di fatto, quando non li può imprigionare come delinquenti, può porre cosi la pregiudiziale della pazzia e non incaricarsene. Se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce, ma il ben peggiore calvario d'un'indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente, e avrebbe la soddisfazione di esser un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi».
Pochi giorni dopo aver inviato la tesi di laurea all'Istituto di studi superiori di Firenze, il 17 ottobre del 191 O, Michelstaedter si uccideva spa- 11 suicidio randosi un colpo di rivoltella. Non è facile ricostruire il significato e l'origine di questo gesto. Appena poco
«le masse di tristi e stupidi operai delle fabbriche che non sanno che un gesto, che sono quasi l'ultima leva della loro macchina»,
altrettanto grave è l'attentato all'integrità della persona per quanto riguarda il suo inserimento nella vita sociale. La protezione che la società, in modo sempre più sofisticato, garantisce aLbargh e, facendolo sentire in una «botte di ferrm - Michel taedter lo rappresenta sotto le sembianze d' un «gross signore», assai simile, è stato detto, a cert i ure e George Grosz avrebbe disegnato qualche anno dopo -, vien pagata con una radicale deresponsabilizzazione dell'uomo. Questi vien messo «sotto tutela, non ha voce; deve guardare, invece, d'andar diritto pel sentiero che gli hanno preparato, dove conduca non è cosa sua. Agli occhi porta come i cavalli da tiro i ripari perché non gli accada di guardar a destra o a sinistra. La sua previsione deve limitarsi a quella strada e a quel tratto prossimo per guardar di non incespicare».
Così reso dimentico e irresponsabile, «l'uomo sociale trae la vita ... ignorandola, fino a che Giove non lo libera». Chi, poi, provasse a ribellarsi a questa normaliz-
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Fotografia di Carlo Michelstaedter de/1907.
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più di un mese prima in una bellissima lettera alla madre, egli aveva dichiarato con grande vigore il suo impegno alla vita ea a1l'azione: «Ora è tempo che io agisca, ora è tempo che tu riceva e che io dia, che io per la mia forza riempia la tua speranza, che ti sia per la mia azione per le mie opere veramente l'uomo che hai sognato ... Io ho qualche cosa da fare a questo mondo, so quello che voglio fare ...».
Probabilmente, di contro a questa sua esigenza di azione e di testimonianza nel mondo - che in un frammento poco ricordato di un anno prima, Discorso al popolo, s'era configurato, sotto la suggestione della lettura di Marx, come volontà di partecipazione alla rivoluzione proletaria «sotto le bandiere della libertà popolare» e nella prospettiva dell' «avvento dell"uomo' e del suo regno» -, Michelstaedter percepiva la sordità di una società dominata dalla competizione e dalla violenza che correva verso i massacri della prima guerra mondiale, e così, forse, oscuramente provava l'incertezza di chi non sa bene come e dove
dare attuazione concreta ad una così urgente ed intensa volontà di azione e di dedizione. Con il conseguente timore di vedersi costretto a riconsegnarsi alla logica perversa della «comunella dei malvagi». C'è chi ha parlato di suicidio metafisica, «possente incarnazione di un pensiero che s'apre al nulla come al suo unico compimento», e dunque estrema accettazione delle conseguenze delle proprie idee. Mancano però gli elementi necessari a suffragare questa interpretazione. Ciò che, invece, sembra u · · d'rre 1~ · mo do atte~ · d'b'l ' h l'' · n gesto p.otersr 1 1 e e ~ e mt~nsrs- conetafisico))? srmo sforzo dr concentrazwne che rl comprmento de La persuasione aveva richiesto nell'ultimo mese di vita al suo autore, poté contribuire a compromettere l'equilibrio di un organismo, sì forte e sano, ma di conformazione nervosa assai delicata e sensibile. Intanto l'affermarsi in Italia dello storicismo crociano avrebbe condannato per lungo tempo all'inattualità ed all'oblio il messaggio «assoluto» del giovane studente goriziano.
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La «diarchia» Croce-Gentile e le voci dissonanti della prima metà del secolo a cultura filosofica - e non filosofica - della . prima metà del secolo sarebbe stata dominata . in Italia dalle prestigiose figure di Croce e Gentile, il cui idealismo immanentistico si sarebbe · imposto a lungo nelle stesse istituzioni culturali del paese. Anche quando, a partire dal 1924, si sarebbe consumata tra i due una definitiva rottura filosofico-politica, il contrasto tra storicismo crociano ed attualismo gentiliano avrebbe continuato ad ege. la d11tatura)) . . d'b . f'l f' d l L' idealistica .1 momzzare 11 1 attlto 1 oso rco e tempo. avfascis~~ vento del fascismo al potere avrebbe d'altronde favorito il consolidarsi di questa situazione, sia per l'adesione di Gentile al regime di cui egli sarebbe stato per lunghi anni il teorico più illustre, sia per il fatto che a Croce venisse consentito, unico tra gli intellettuali di orientamento antifascista, di proseguire nella propria attività di scrittore e pubblicista. Se non c'è dubbio che le premesse del successo dell'idealismo sono da riconoscere nella sua capacità, sperimentata soprattutto negli anni precedenti la prilsolamento m adgu ~rra d~ondiale,d~i rinnov amento .d~ ~ro_nte della cultura a ec mo 1 una me 10cre eu1tura posrtrvrstlca, italiana non si può nemmeno dimenticare che la sua egemonia avrebbe privato il paese della possibilità di confrontarsi e di nutrirsi delle novità scientifiche e filosofiche che intanto venivano maturando nella cul11
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tura mondiale. La svalutazione del sapere scientifico e l'identificazione della cultura con l'area delle discipline storico-umanistiche dovevano impedire la diffusione in Italia delle scienze umane, dalla sociologia alla psicologia sperimentale e alla psicanalisi, considerate prive di valore teoretico, discipline volgarmente empiriche e descrittive incapaci di cogliere la spiritualità e la storicità del mondo umano. La presunzione, di origine hegeliana, dell'assolutezza della filosofia idealistica congiurava poi a quella disattenzione che, tranne isolate e non frequenti eccezioni, avrebbe tenute lontane dal dibattito italiano le più importanti correnti filosofiche novecentesche, dal pragmatismo, in particolare nel suo filone Peirce-Dewey, al neopositivismo, dalla fenomenologia all'esistenzialismo, fino, naturalmente, al marxismo. Eppure non mancarono in quella stagione della filosofia italiana correnti di pensiero e figure di singoli pensatori estranee ed ostili all'idealismo imperante. Abbiamo già detto di Vailati, la cui opera doveva essere presto dimenticata, già negli anni subito successivi alla sua morte e a quella di Calderoni. Un orientamento anch'esso rivolto a sostenere il valore del sapere scientifico, e insieme la necessità di uno stretto nesso tra scienza e filosofia, lo ritroviamo De Sarlo nell'opera di Francesco De Sarlo (1845-1937) e
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PARTE PRIMA TRA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
della sua scuola di Firenze, la città dove questi insegna per lunghi anni filosofia teoretica nell'Istituto di studi superiori, e dove pubblica la rivista La cultura filosofica, nella quale tra il1907 ed il1917 conduce un'aspra battaglia contro l'idealismo. Di formazione positivistica, proveniente dalla medicina e dalla professione psichiatrica e fortemente interessato agli studi psicologici - è lui ad aprire nel . 1903 il primo laboratorio italiano di psicologia Contro 1 • l D S l . . .. . . posilivisti spenmenta e-, e ar o nmprovera m pos1t1v1stt ... di voler risolvere la psicologia nella mera descrittiva sperimentale, e di non vedere che le funzioni psichiche superiori rinviano a valorì trascendenti la dimensione psicologica, che pertanto richiedono una interpretazione filosofica che ne riconosca l'oggettività e l'indipendenza dalla nostra coscienza. Contro l'idealismo che sosteneva l'assolutezza ed immanenza degli atti spirituali, il filosofo fiorentino - in realtà nativo della Lucania- sviluppa, in scritti come I dati dell'esperienza psichica del1903 e Psicologia efilosofia del ... econtro 1918 d' l' . . l' . . l'idealismo , una sorta 1 rea 1smo spmtua 1st1co pmttosto invecchiato, culminante nel riconoscimento di Dio come fondamento trascendente dell'ordine razionale del mondo e dei valori spirituali dell'uomo. A riprendere l'istanza critica che animava l'interesse di De Sarlo per la conoscenza scientifica sarebbe stato un suo alunno, Antonio Aliotta (1881-1964), nato . a Palermo e professore di filosofia teoretica a Al lOtta p d . , d'1 un trentenmo, . f'mo al a ova e po1,. per pm 1951, all'università di Napoli. Suo merito principale è stato di aver diffuso, in un'ambiente culturale largamente ostile, la conoscenza dei risultati più recenti della scienza e della epistemologia, e delle correnti più vive della filosofia contemporanea, dalla teoria della relatività di Einstein all'empiriocriticismo e alla filosofia di Bergson, dal pragmatismo al neorealismo inglese di Moore e di Russell. In uno scritto del 1912, La reazione idealistica contro la scienza, egli riproponeva contro l'idealismo ma con spirito alieno da ogni dogmatismo scientifico, il valore conoscitivo della scienza e l'importanza, anche sul piano del pensiero filosofico, dello sperimentalismo' caratteristico delle procedure scientifiche. Sensibile all'influenza del pragmatismo senza mai essere propriamente un pragmatista, Aliotta venne elaborando, in scritti come La guerra eterna e il dramma dell'esistenza del 1917, Relativismo e idealismo del 1922, L'esperimento nella scienza, nella filosofia e nella religione del 1936, una concezione della realtà che, rifiutando ogni visione del mondo come tutto in sé concluso e immutabile, ne sottolineava piuttosto la problematicità, la relatività, il carattere aperto e rischioso. Non vi sono categorie fisse e immutabili su cui il pensiero possa fondare la realtà, e la verità, se Una filosofia sperimentalistica di certo non è, come vorrebbe l'idealismo, un prodotto della dialettica del pensiero, non è nem-
meno un modello in sé sussistente, indipendentemente dall'esperienza che costruttivamente ~li uomini vengono facendo del mondo e di se stessi. E l'esperimento il criterio di ogni verità, e questo vale non solo per la conoscenza del mondo della natura ma per tutte le verità scientifiche, filosofiche, morali e religiose che gli uomini vengono sottoponendo al cimento della vita, in quella storia concreta che è il mondo integrale dell' esperienza. Contro il monismo idealistico, Aliotta pone a base dell'esperienza la molteplicità dei centri individuali di coscienza che, appunto attraverso l'esperimento, devono sottoporre a verifica le proprie visioni parziali e mutevoli della realtà, procedendo, dai livelli del senso comune a quelli della scienza e della filosofia, a coordinarsi ed unificarsi in sintesi sempre più ampie e condivise, sempre più «vere», anche se mai definitivamente ed assolutamente vere. A partire dagli anni quaranta il filosofo napoletano doveva imprimere al proprio sperimentalismo un'intonazione spiccatamente spiritualistica e teistica, nel tentativo non facile di conciliare la visione dinamica di un mondo sempre incompiuto ed instabile, in movimento imprevedibile ed esposto al rischio dell'insuccesso, con la fede nell'assolutezza dei valori spirituali dell'uo- u . . . . l . . l . n esito m~, d1eu~ vemv~ cercata .a garanz1a ~n «postu. att spiritualistico umversah dell'az10ne», pnmo tra tutt1 quello d1 un Dio creatore. In Il sacrificio come significato del mondo del 194 7 Aliotta proponeva, non senza valersi di evidenti suggerimenti jamesiani (V. CAP. 6, PAR. 4.4), una fede che, senza negar di Dio infinitudine e onnipotenza, lasciasse spazio alla creatività dell'iniziativa umana, e indicava nel sacrificio l'origine della libera limitazione che Dio farebbe del proprio essere per consentire alle sue creature piena responsabilità e libertà. Illustre esponente di uno spiritualismo metafisica di stampo razionalistico ispirato ai grandi modelli classici, da Platone a Spinoza, da Kant a Schopenhauer, è stato Piero Martinetti (1872-1943), uno tra i maggiori filosofi italiani della prima metà del secolo dopo Croce e Gentile. Aostano di nascita, fu professore di . . filosofia all'università di Milano, dove insegnò dal Martmetti 1906 al 19 31, allorché preferi, insieme a pochissimi altri docenti universitari, abbandonare la cattedra, piuttosto che accettare di giurare fedeltà al regime fascista. Tra i suoi scritti più importanti ricordiamo
Introduzione alla metafisica. Teoria della conoscenza del 1902-04, La libertà del 1928, Ragione e fede del 1942. Spirito profondamente religioso, di una religiosità laica avversa ad ogni forma di dogmatismo ecclesiastico e confessionale, Martinetti seppe unire nella propria meditazione due motivi a prima vista tra loro incomponibili: da una parte la convinzione, formatasi anche attraverso lo studio delle antiche filosofie indiane Dualismo e e dell'amato Schopenhauer, di un profondo duali- unità del reale smo che separa il mondo empirico del molteplice
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e del mutamento, dolorosamente dominato dall'illusione e dal male, dalla realtà noumenica trascendente, nell'unione con la quale tutte le apparenze svaniscono e si sperimenta l'autentica libertà spirituale; dall'altra, l'altrettanto ferma, spinoziana certezza della profonda unità del reale, della presenza della divina assoluta Unità in ogni momento e in ogni grado costitutivo del mondo empirico. Per la prima di queste certezze Martinetti dissentì Contro d ll''d l' . . . d'1mat~1ce . hegel'lal'idealismo a . 1 e~ 1smo lmm_anentlstlC_o . manentistico na, m cm credette d1 scorgere 11 segno d1 un natura1m lismo incapace di cogliere il senso vero della vita spirituale, raccolto tutto nella tensione con cui la ragione si muove verso la perfetta unificazione del mondo nell'unità trascendente del divino. D'accordo con Kant nel dire che conoscere è unificare, egli venne proponendo, quale momento costitutivo essenziale della propria stessa filosofia, un'interpretazione platonico-religiosa del kantismo, imperniata sulla distinzione, introdotta appunto da Kant, tra Una leltura . ll · · d d'l' tonica di mte etto e ragwne propnamente etta, gra 1 uno 1 Pa Kant inferiore e l'altro superiore della razionalità. Mentre il primo dà luogo al sapere scientifico, capace di unificazioni soltanto parziali del molteplice empirico, la ragione propriamente detta si esprime nel sapere filosofico, che muove all'unificazione totale della molteplicità nell'«unica Idea divina». Come Kant ha insegnato, non è dato però alla filosofia di tradurre la coscienza profonda che si ha dell'Unità assoluta in conoscenza concettualmente L d esprimibile, sicché il momento più alto del filoso1 raz~o~~al: fare sta nella «fede»; s'intende quella fede raziona' le di cui Kant stesso ha parlato nella Critica della ragion pratica e ne La religione nei limiti della sola ragione. Martinetti sottolinea la portata metafisica del__ . la concezione kantiana dell'atto morale- che Kant ha avuto il torto di lasciare in ombra-,
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r-a seperare dai «molti», vittime della servitù delle passioni e delle illusorie apparenze e disposti a soggia~ cere all'arbitrio dei potenti, i rari spiriti, apparte- Una ~ concezione nenti non sempre alla categoria dei filosofi e dei aristocratica ~ sapienti ma non di rado all'umanità più semplice della vita amp10 respuo, sempre «cunoso e1 1att1, eg 1 uomini, delle date», convinto com'era che il lavoro dello storico richiedesse estremo rigore filologico e attenzione al particolare e al concreto. Non può dunque meravigliare che, una volta maturati, i suoi interessi filosofici fossero alieni da ogni propensione teologica e metafisica, cui indulge invece il «purus philosophus», immerso come un BudN01. ~Ila dha nella meditazione dei «massimi problemi», meIa 1s1ca . . a D'10 ed al mon do, tanto astratt1. e 1rrea . 11. re lattv1 quanto insolubili. Nel Contributo alla critica di me stesso, una specie di «autobiografia mentale» del 1915, Croce racconta della propria icapacita' di leggere i libri di Bertrando Spaventa che, egli scrive, «nonché inizianni all'hegelismo, piuttosto me ne stornarono». Il fatto era che «lo Spaventa proveniva dalla chiesa e dalla teologia; e problema sommo e quasi unico fu sempre per lui quello del rapporto tra l'Essere e il Conoscere, il problema della trascendenza e dell'immanenza, il problema più specialmente teologico-filosofico; laddove io, vinte le angosce sentimentali del distacco dalla religione, mi acquietai presto in una sorta di inconsapevole immanentismo, non interessandomi ad altro mondo che a quello in cui effettivamente vivevo ... Ciò che veramente mi suscitava interessamento, e mi costringeva a filosofare per brama di luce, erano i problemi dell'arte, della vita morale, del diritto, e più tardi quelli della metodologia storica, ossia del lavoro che mi proponevo di esercitare».
Per tutta la vita, l'occhio di Croce si sarebbe posato solo sui fatti e le vicende mondane degli uomini, in una sorta singolarissima, lui fieramente antipositivista, di superiore positivismo storicistico. E ancora contro il filosofo metafisica, che presume di aver scoperta una volta per tutte la verità, Croce avrebbe sempre umilmente protestato la inter. · b'l' c In D:na. ce1ebre pagma · lnterminabilita roma 11ta' d~1 f'l1. os_o1are. delfilosolare del 1908 cos1 egh s1 sarebbe d1ch1arato: « ... nessun particolare sistema filosofico può mai chiudere in sé tutto il filosofabile: nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva. Un sistema filosofico risolve un gruppo di problemi storicamente dati, e prepara le condizioni per la posizione di altri problemi, cioè di nuovi sistemi. Così è sempre stato, e cosi sarà sempre ... Ogni filosofo, alla fine di una sua ricerca, intravede le prime incerte linee di un'altra, che egli medesimo, o chi verrà dopo di lui, eseguirà. E con questa modestia che è delle cose stesse, e non più del mio sentimento personale, con questa modestia che è insieme fiducia di non aver pensato indarno, io metto termine al mio lavoro, porgendolo ai ben disposti come strumento di lavoro».
Croce era allora pressoché al termine della costruzione del suo sistema, la Filosofia dello spirito, e a coloro che lo invitavano al riposo per aver ormai compiuto il suo lavoro di filosofo, rispondeva che no, il suo sistema non era altro che una «serie di sistemazioni» di problemi accumulatisi nel suo spirito via via sin dagli anni della giovinezza, e che semmai si trattava di aprire le porte dell'intelletto «ai dubbi e alle voci delle nuove esperienze», in vista di sempre nuove fatiche e sistemazioni. Quello cui si deve rinunciare per sempre è l'idea che la verità sia qualcosa di fermo ed extrastorico, celato agli occhi degli uomini da un velo che vana-
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mente essi si sforzerebbero di strappare. Il conseguente, inevitabile scetticismo può essere debellato solo affermando il concetto della verità come storia, sempre posseduta e pur sempre in via di arricchirsi, e sostituendo dunque «alla triste immagine dell'umanità cieca, brancolante nelle tenebre, l'immagine eroica di lei, che ascende 'a claritate in claritatem'».
Questi, alcuni tratti fra i più significativi della filosofia crociana, che il suo autore stesso avrebbe definito come una forma di «storicismo assolu.. Uno SIOriCIStnO Uno stonc1smo, · · assoluto to». s1· bad'1, assa1· d'1verso da quello promosso in Germania da Dilthey (v. CAP. 2, PAR. 6). Quest'ultimo aveva preso le mosse dal problema critico, di ascendenza kantiana, della possibilità e del fondamento del sapere storico, ed era giunto, attraverso il rifiuto dell'idea romantico-hegeliana della storia come processo razionale in cui si celebra la coincidenza di finito e infinito, a riconsegnare il movimento storico alla finitudine degli uomini, intesi come individui empirici psichicamente e socialmente determinati. Tutt'altra l'origine e la qualità dello storicismo crociano: muovendo da un presupposto idealistico pacificamente assunto fin dall'inizio e mai veramente problematizzato, Croce rifiuta come naturalistica ogni considerazione dell'uomo nelle sue determinazioni empiricamente concrete, risolvendolo senza residui nella pura attività spirituale, nello spirito come universale concreto. In continuità sostanziale con lo storicismo romantico, egli ricerca le forme universali ed eterne, le strutture categoriali immutabili secondo le quali si svolge, necessario, il processo storico. «L'individuo - egli scrive - è poca cosa per sé, fuori del tutto»; e il tutto è la storia, ossia lo spirito universale che negli individui particolari sempre s'incarna, pur sempre trascendendoli. Viene così alla luce una delle più significative incertezze dello storicismo crociano: lo sforzo perennemente rinnovato di immergere, contro ogni tentazione teologizzante, le forme ideali dello spirito nel concreto del divenire storico, fino al punto di risolve. · re del tutto la filosofia nel pensamento dei fatti una mcertezza · l · b l' · · l' di fondo part1co an, sem ra trovare un suo 1m1te mva lcabile nel riemergere, .persistente, di un modo ancora teologico e metafisica di intendere lo spirito e il suo procedere nella storia. Come se l'aver preteso di definire una volta per tutte le categorie universali della storia restituisse per ciò stesso vigore ad un modo vecchio e tradizionale di intendere il sistema filosofico: non più provvisoria sistemazione sempre storicamente condizionata, bensì sistema definitivo, esauriente in sé tutta intera la pensabilità del reale. Croce stesso dovette sentire acutamente l'incombere di questo rischio di irrigidimento del suo pensiero in un sistema chiuso e totalizzante, il pericolo di
ridar vita in qualche modo al sovramondo delle categorie ideali ed eterne distinto dal loro temporalizzarsi nei fatti particolari del mondo storico. In una pagina del Contributo alla critica di me stesso così egli scrive: « ... e continuerò a filosofare, se anche, come certe volte mi vado non senza diletto immaginando, abbandonerò un giorno la 'filosofia', quella che si suoi chiamare filosofia in senso stretto o scolastico, il trattato, la dissertazione, la disputa, l'esame storico delle dottrine dei cosiddetti filosofi; perché questo appunto importa l'unità di filosofia e di storia: che si filosofa sempre che si pensa, e qualsiasi cosa e in qualsiasi forma si pensi. Anzi, la perfezione di un filosofare sta ... nell'aver superato la forma provvisoria dell'astratta 'teoria', e nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata».
In realtà, le tenaci sopravvivenze teologiche presenti nello storicismo crociano, che gli hanno impedito una radicale e coerente umanizzazione della storia, scaturivano inevitabilmente dalle sue stes- 11 peso delle premesse . . he: e, per ef'~'1etto d'1 queste idealistiche se premesse 1'dea11st1c che la storia, piuttosto che risultare operosa costruzione di uomini reali, 'in carne ed ossa', come per un verso lo stesso Croce non si stanca mai di ripetere, finisce col diventare il 'luogo' di autoproduzione dello «spirito».
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Tessera del Partito socialista italiano de/1907.
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Gli esordi enedetto Croce era nato nel1866 a Pescasseroli, un paesino di montagna in provincia de L'Aquila da una famiglia di .agiate con~izi~ni. Il ~adre, napoletano, era un ncco propnetano ternero e faceva lo scrupoloso amministratore dei propri averi. Il piccolo Benedetto crebbe a Napoli, dove avrebbe vissuto per tutta la vita, in un ambiente di onesti sentimenti cristiani e di idee conservatrici, an. . . cara legato al passato borbonico, all'ombra di un La la~~~~~~ ed~ padre che so leva ripetere, convinto, una massi5 1 pnml u ma diffusa tra la onesta gente di Napoli: « ... i galantuomini debbono badare alla propria famiglia e alle proprie faccende, tenendosi lungi dagli imbrogli della politica». Dalla madre egli apprese l'amore per i libri, il gusto della lettura, l'interesse per l'arte, gli antichi monumenti, la storia. Tra il 1875 e il 1882 seguì gli studi ginnasiali e liceali in un collegio di religiosi, prima come convittore poi come esterno, ricevendovi un'educazione del tutto coerente con quella familiare. . Gli anni del liceo furono quelli del suo primo 11 vde 11 1r nf,edno approccio con la filosofia, insegnatagli da un pio 11a e e ereligiosa sacerdote, che ma1· avre bb e saputo d'1 aver provocato col suo insegnamento il venir meno nel suo alunno della fede religiosa. Racconta Croce: « ... in quel tempo ebbe inizio la mia crisi religiosa, che tenni accuratamente celata in famiglia, e anche agli amici, come infermità vergognosa... Molta tristezza e vive ansie provai per quel vacillare della fede: cercai, come infermo la medicina, libri di apologetica, che mi lasciarono freddo ... e poi ... poi mi distrassi, preso dalla vita, senza più interrogarmi se fossi o no credente, continuando anche per abito o per convenienze esteriori alcune pratiche relìgiose; finché, a poco a poco, smisi anche queste, e un giorno mi avvidi, e dissi chiaro a me stesso, che ero fuori affatto delle credenze religiose».
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Un tragico avvenimento sconvolse, improvviso, la vita dell'adolescente: nel 1883, a Casamicciola, nell'isola di Ischia, dove la famiglia s'era riunita in vacanza, il terremoto t6Ise la vita ai genitori e alla sorella, e lo stesso Benedetto rimase lunghe ore sotto le macerie, «fracassato in più parti del corpo». Il giovane venne ospitato a Roma, in casa dello zio Silvio Spaventa, fratello del filosofo, che accettò di divenire suo tutore, nonostante i suoi non buoni rapporti con la famiglia Croce, avversa alle sue idee liberali e laiciste. . I tre anni che Croce trascorse a Roma furono i Gl anm romani . ., d l . . SUOI pm O OrOSl e CUpi: «Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl'incerti concetti sui fini e sul significato del •
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vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m'inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane». Né ad un giovinetto educato ad una visione apolitica della vita, era facile orientarsi i casa Spaventa, ove Silvio, autorevole uomo politico, riceveva deputati, professori, giornalisti, «tra dispute di politica, di diritto, di scienza, e con le prossime ripercussioni dei dibattiti e dei contrasti del parlamento». Eppure, durante il soggiorno romano si verifica un incontro che avrebbe contato moltissimo nella formazione intellettuale del giovane. Egli ascolta al- ,. l'università, con vivo interesse, le lezioni di filo- L 111cLonltr? 1 . morale d'1Antomo . Lab no . la (V. CAP. 22*, PAR. s), con amo a so f1a in quel momento ancora herbartiano, e dalla sua viva voce riscopre il senso dei valori della vita: « ... quelle lezioni vennero incontro inaspettatamente al mio angoscioso bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri, avendo perso la guida della dottrina religiosa e sentendomi nel tempo stesso insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche ... L'etica herbartiana del Labriola valse a restaurare nel mio animo la maestà dell'ideale, del dover essere contrapposto all'essere, e misterioso in quel suo contrapporsi, ma per ciò stesso assoluto e intransigente». Se le successive scelte culturali di Croce sarebbero state decisamente antipositivistiche, ciò si deve indubbiamente a questo culto ispiratogli da Labriola per i valori ideali, che i positivisti invece «trascinavano nel fango, o abbassavano a superstizioni ed . . allucinazioni». Come è vero che la scuola di rigo- Un~ va:~ 1 ~ 8 ~ 10110 . . d ll'h b . bb 'b . anllpOSIIIVISIICa e nsmo etico e er art1smo avre e contn mto antidecadente a preservare il giovane Croce dalle seduzioni del sensualismo e dell'estetismo decadente, che presto avrebbero trovato in D'Annunzio una rappresentazione efficace: «Il D'Annunzio ed io - avrebbe scritto più tardi - siamo spiritualmente di diversa razza». Dopo aver rinunciato agli studi universitari mai seriamente intrapresi, Croce fa ritorno a Napoli nel 1886, e si dedica a quelle ricerche erudite, da assiduo 'topo di biblioteca', di cui parlavamo all'inizio. Ed è solo nel1893 che egli perviene ai primi seri studi . filosofici che hanno come esito la pubblicazione, Arte e stona in quello stesso anno, di una memoria nella quale, come già annuncia il titolo, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte, vengono discussi i problemi della storia e dell'arte, destinati a rimanere al centro della riflessione crociana fino al termine della vita. La tesi avanzata in questo scritto è apertamente antipositivistica, sia perché si sostiene che la storia, pur essendo conoscenza, non è conoscenza scientifica, sia per il fatto che anche dell'arte si rivendica la natu-
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ra teoretica, contro i positivisti che la riducevano sotto il principio pratico del piacere. Che la storia non sia scienza, ma semmai abbia una natura assai simile a quella dell'arte, si evincerebbe dal fatto che la scienza elabora concettualmente la realtà, assumendo il particolare sotto il generale, mentre la storia, che viene intesa come attività essenzialmente narrativa, è invece rappresentazione del particolare, appunto come l'arte, dalla quale si distinguerebbe solo per l'oggetto, che in essa è il realmente accaduto, mentre nell'arte è il semplicemente immaginato. Croce avrebbe in seguito profondamente modificato sia il concetto dell'arte che, soprattutto, quello della storia e del loro rapporto, ma l'idea che ambedue queste attività siano di natura teoretica sarebbe rimasta per sempre assunto fondamentale del crocianesimo. Ma ciò che rende assai significativo questo esordio filosofico crociano è il fatto che in esso sono già . . ben delineati, oltre che gli avversari, i punti di 10 1 Gli ad~ ~ riferimento, gli autori prediletti, le scelte culturapre 11 e111 • h che saranno ancora del Croce maturo. Intanto è evidente, anche se generica, l'adesione all'ideali-
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smo. De Sanctis, insieme a Vico, è il suggeritore delle idee intorno all'arte e alla critica letteraria, mentre la triade dei valori ideali - vero, bello e buono -, destinata a rimanere, sia pur radicalmente modificata, nella Filosofia dello spirito della maturità, mostra ancora evidente la propria origine kantiano-herbartiana. Quanto ad Hegel, ancora scarsamente conosciuto, ne è assente ogni apprezzamento positivo che non sia quello relativo alle sue dottrine estetiche. L'atteggiamento sospettoso nei confronti di Hegel traeva probabilmente origine dall'avversione di Croce per la filosofia della storia, considerata responsabile di interpretazioni deterministiche, 11 s~spe\to inconciliabili con un'autentica ispirazione urna- su ege nistica. In uno scritto del 1895, così troviamo detto: «L'assunzione di un disegno prestabilito nella storia condurrebbe logicamente al fatalismo, all'accomodantismo e alla individuale neghittosità ... La storia la facciamo noi stessi, tenendo conto, certo, delle condizioni obiettive nelle quali ci troviamo, ma coi nostri ideali, coi nostri sforzi, con le nostre sofferenze, senza che ci sia consentito scaricare ques~o fardello sulle spalle di Dio o dell'Idea».
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I conti con il marxismo arebbe stato soltanto l'incontro con Marx e con il materialismo storico a far scoprire a Croce «quanta concretezza storica fosse, pur in mezzo a tanti arbitrii e artifizi, nella filosofia hegeliana». Ancora molti anni dopo, egli così avrebbe scritto: « ... attraverso quel sistema, io risentivo il fascino della grande filosofia storica del periodo romantico, e venivo come scoprendo un hegelismo assai più concreto e vivo di quello che ero solito d'incontrare presso scolari ed espositori, che riducevano Hegel a una sorta di teologo o di metafisica platonizzante».
L'occasione di avvicinare Marx ed il marxismo era venuta nel 1895, allorché Labriola, nel frattempo convertitosi al materialismo storico e al socialiL'incontro smo aveva inviato al suo allievo ancora manocon Marx .' . I .' del manvesto ~,. ;r, scntto, un suo saggw n memona dei comunisti. Croce racconta dell'entusiasmo allora provato: « ... infiammato dalla lettura delle pagine del Labriola, preso dal sentimento di una rivelazione che si apriva al mio spirito ansioso, non posi tempo in mezzo e mi cacciai tutto nello studio di Marx e degli economisti e dei comunisti moderni ed antichi». Il Machiavelli del proletariato
Una così forte impressione sorgeva non solo dalla scoperta di un insospettato hegelismo, ma anche dalle idee e dalla figura del Marx politico e
rivoluzionario, nel quale Croce avrebbe riconosciuto il «Machiavelli del proletariato»: «nella concezione politica poi, il marxismo mi riportava alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza, e ra satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell'89».
Anche a molti anni di distanza, egli avrebbe continuato ad ammirare in Marx «il socialista, che intese come anche ciò che si chiama rivoluzione, per diventare cosa politica ed effettuale, debba fondarsi sulla storia, armandosi di forza o potenza (mentale, culturale, etica, economica), e non già confidare nei sermoni moralistici e ciarle illuministiche».
Frutto degli intensi studi marxistici sarebbe stata la pubblicazione tra il 1896 e il 1899 di una serie di saggi, raccolti nel 1900 in volume col titolo di Materialismo storico ed economia marxistica. Lungo · · le 1ervore, c Verso 1a questi· anm,· peraltro, l'·mlZla ch~ per un liquidazione momento era sembrato dover concludersi con un del marxismo vero e proprio impegno militante socialista, s'era venuto smorzando, ed era subentrato un atteggiamento critico che, via via rafforzandosi, avrebbe condotto Croce ad una revisione così radicale del marxismo da culminare in una vera e propria sua liquidazione. Nel
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1899 egli avrebbe annunciato: «ho raccolto in un volume ... tutti i miei scritti sul Marx e ve li ho composti -come in una bara». Si era negli anni della cosiddetta «crisi del marxismo», e in seguito Croce si sarebbe attribuito, in modo assai discutibile, il merito di aver aperto la strada al revisionismo marxista dei Sorel (V. CAP. 5, PISTE DI RICERCA) e dei Bernstein (V. CAP. 22*, PAR. 4). Quattro sono le tesi principali che vengono argo.. mentate nei saggi 'marxisti' di Croce. La prima nmatenahs~o riguarda «il modo plausibile d'intendere e adopestonco rare il materialismo storico dei marxisti». Esso non è né una filosofia della storia, né una teoria scientifica, e nemmeno un metodo storiografico, bensì «semplicemente un canone d'interpretazione storica. Questo canone consiglia di rivolgere l'attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere meglio le loro configurazioni e vicende».
Non si tratta altro che di «un nuovo sussidio a intender la storia», di «un buon paio d'occhiali» che consentono di scrutare meglio nelle vicende storiche. Esso è certo un canone di «ricca suggestione», ma il suo uso non può essere che del tutto empirico: «un semplice strumento che ... può essere utile in molti casi, inutile in altri ... ». Ancora dopo molti anni, in uno scritto del 1937, Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia, Croce avrebbe ribadito di aver allora inteso il materialismo storico «come un empirico canone d'interpretazione, una raccomandazione agli storici di dare attenzione, che sino allora non si soleva dare, all'attività economica nella vita dei popoli ... ».
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La seconda e terza tesi elaborate da Croce si riferiscono a due concezioni fondamentali dell'economia marxistica, le teorie del valore-lavoro e della caduta tendenziale del saggio di profitto, ad ambedue le quali viene negato un autentico fondamento scientifico. Intanto, il rifiuto della prospettiva della caduta del tasso di profitto avrebbe condotto all'esclusione di una «fine automatica ed imminente della società capitalistica». Quanto poi al concetto del valore-lavoro, Croce sostiene che esso non è, come vorrebbe Marx, una legge storica della società capitalistica, poiché RT non tiene conto che anche il capitale concorre 11 10 " .dedlla alla formazione del valore delle merci. Esso si 1eona e1 . c . . d · , c valore-lavoro r11ensce pmttosto a una soc1eta astratta 10rmata solo di lavoratori, e assunta come termine di paragone e di misura della società reale, caratterizzata dal capitale privato. La dottrina marxiana del valore, e quella conseguente del plusvalore come tempo lavorativo estorto dal capitalista all'operaio, scaturiscono, insomma, da una sorta di «paragone ellittico» tra due diverse società, sono la «determinazione di quella particolare formazione di valore che ha luogo in una data società (capitalistica) in quanto diverge da quella che avrebbe luogo in una società ipotetica e tipica».
IJ..l Il Capitale di Marx non è né un libro di scienza o economica pura, né un libro di storia. Non di o scienza economica, perché non studia il concetto . oc 11 generale di valore, valevole per ogni tipo di so- Capttale o cietà e di attività economica individuale; non di storia, perché le indagini che vi si conducono, si riferiscono ad una società capitalistica astratta,
«dedotta da alcune ipotesi, che potrebbero anche non essersi presentate mai nel corso della storia ... In nessuna parte del mondo s'incontrano le categorie del Marx come personaggi vivi e corpulenti, appunto perché sono categorie astratte che, per vivere, hanno bisogno di perdere molti elementi e di acquistarne molti altri».
L'economia marxistica, in quanto studio delle variazioni che una astratta società lavoratrice subisce nell'organizzazione sociale capitalistica, può occupare un proprio posto solo se venga considerata una spietata analisi della «condizionalità sociale del profitto». «Marx ha saputo mostrare», scrive Croce, A che cosa si riduce «di che lacrime e di che sangue» grondi quel l'economia profitto che, nelle unilaterali e formalistiche marxista esposizioni di coloro ch'egli chiama i 'commessi viaggiatori del liberismo', pareva quasi nascesse per virtù miracolosa insita nel capitale. L'errore in cui l'autore del Capitale incorre è, semmai, quello di aver dato alla sua analisi, fondata sul procedimento del «paragone ellittico», il valore di una spiegazione scientifica, pretendendo di soppiantare con essa la «vera e propria teoria economica», la quale non potrebbe mai esser ridotta allo studio di una forma storicamente determinata di organizzazione economicosociale, avendo essa piuttosto come proprio oggetto la «natura economica dell'uomo», dalla quale dedurre i concetti di utilità e di valore. E, per l'appunto, la quarta ed ultima tesi del «revisionismo» crociano consiste nella proposta di una scienza filosofica dell'economia, fondata sulla definizione del concetto generalissimo di valore econo- , . mico, o utile. Sarebbe stato Croce stesso a soste- L utile c.ome . le dato dal marx1-. categona nere che 1.1 contn'b uto essenz1a ideale smo allo sviluppo della sua filosofia, sarebbe consistito proprio in questa scoperta dell'utile come quarto valore ideale, da collocare accanto alla tradizionale triade di vero, bello e buono. Nulla più di questo potrebbe rendere più evidente quanto Croce sia stato, in fondo, estraneo al marxismo, anche nel momento del maggiore entusiasmo per esso. Uomo di studi, alieno dall'impegnarsi nella militanza politica, abituato ad affrontare i problemi da un punto di vista strettamente culturale, Croce trasse dalle suggestioni del marxismo solo ciò che potesse servirgli ad affrontare meglio le questioni di metodologia storiografica, rimanendo estraneo all'esigenza marxistica di tenere uniti lavoro teorico e impegno pratico, a servizio della causa del socialismo.
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Il primo delinearsi della «Filosofia dello spirito»
assunzione dell'utile come momento distinto e autonomo della vita spirituale degli uomini, non poteva non modificare profondamente la precedente concezione crociana delle «idealità» - vero, bello e buono. L'utile appariva con troppa evidenza un valore inseparabile dall'attività umana, anzi un prodotto di essa, perché si potesse continuare a concepire gli altri valori nel modo plato. nico-herbartiano del passato, come norme ideali Dall' l1erbarl1Smo . d t' . l' . . , d bb " allo stor' ismo trascen en 1, cm att1v1ta umana ovre e s1orIC zarsi di adeguarsi. Anche il vero, il bello e il buono dovevano trasformarsi in valori immanenti all'operare umano nella storia, essi stessi prodotto dell'attività spirituale degli uomini. In questo senso, sembra giusto affermare che solo attraverso il «bagno» negli studi marxistici Croce perviene ad una coerente, piena storicizzazione della realtà umana, prima impedita dall'originario herbartismo. È questo, però, anche il momento della maturazione di quella opzione idealistica che, come sappiamo, caratterizzava da sempre la riflessione crociana. L'immanentizzazione dei valori di cui ora s'è detto non poteva significare, agli occhi di Croce, alcuna concessione a forme di storicismo relativistico. Storicismo e .d h . . 'de lismo Ess1 ovevano mantenere, an c e come espresswm 1 a dell'attività umana, un valore assoluto. Il che richiedeva che il soggetto della storia non potesse continuare ad essere, sia pur inteso come attività spirituale, l'uomo come mero soggetto individuale ed empirico, incapace, come tale, di fondare valori assoluti. Era, pertanto, nella logica del discorso intrapreso approdare all'idealismo assoluto, alla identificazione dello spirito umano con lo spirito universale e infinito, eredità dell'idealismo tedesco, e in particolare di Hegel. A questo esito Croce era incoraggiato, del resto, dall'influenza che su di lui veniva cominciando ad esercitare Giovanni Gentile, con cui a partire dal 1896 era cominciato uno scambio ininterrotto di idee, ,. . che avrebbe presto dato origine ad una lunga, L Influenza d1 f · · · «Entus1asta · G ntile raterna am1c1z1a. seguace dell''d 1 eae lismo hegeliano attraverso l'insegnamento di Spaventa e di Jaja»- come amava definirsi-, Gentile avrebbe spinto l'amico ad impegnarsi, in modo anche tecnicamente più raffinato, nell'elaborazione di una prospettiva filosofica idealistica, fino a convincerlo a misurarsi, come vedremo, direttamente con Hegel. All'interno di questo svolgimento in direzione 11 problema d ll''d l' · della atura e 1 ea 1smo asso luto, che s1· sare bb e compmto " nel sistema della filosofia dello spirito, non poteva non essere affrontato il problema della natura. Di esso Croce non si era occupato in precedenza direttamente, preso com'era dagli interessi per il
mondo storico umano. Certamente, egli ammetteva, quasi come un'evidenza del senso comune, l'esistenza di una natura materiale distinta e precedente l'at- u ... tività umana nelle sue varie espressioni, e senza pr"esmlzlale . upposto la quale queste non potrebbero emergere a costl- naturalistico tuire il mondo spirituale. Ancora nelle Tesi fon'" damentali di un'estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale del 1900, e di nuovo nell'Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale del 1902, con la quale inizia la fondazione della filosofia dello spirito, rimane ben fermo il presupposto di una realtà naturale dalla quale l'arte possa trarre la propria materia, sicché non si può ancora parlare di idealismo assoluto. Perché a questo si pervenisse, e la filosofia dello spirito divenisse tutt'intera la filosofia, senza più alcun residuo naturalistico, occorreva che da una parte Croce facesse i conti con Hegel, e dall'altra utilizzasse, in vista della risoluzione della natura in una costruzione dell'attività spirituale, gli esiti della ~~;~:asuo t «critica della scienza», che scienziati-filosofi comen ° me, per esempio, Mach (v. CAP. 11, PAR. 3), andavano in questi anni svolgendo. Questo cammino si sarebbe compiuto tra il 1904 e il 1906, quando Croce si sarebbe dedicato all'elaborazione del secondo volume della filosofia dello spirito, dedicato alla logica. Pur con il limite naturalistico che s'è detto, nella Estetica del 1902, come già nelle Tesi, è già delineata la struttura categoriale in cui si articola la vita dello spirito. Sensibilissimo all'esigenza di stabilire in modo netto le distinzioni, di «mettere a posto» i vari momenti e attività degli uomini nel fluire della struttura storia, Croce inizia col riaffermare la distinzione, La categoriale già consolidata nella sua precedente riflessione, dello spirito: tra attività teoretica e attività pratica. Il fatto teoria e prassi stesso di continuare ad ammettere la preesistenza di un mondo fisico richiede una tale distinzione che, comunque verrà sempre mantenuta da Croce anche quando Ilconcetto di natura sarà del tutto dissolto -, come un dato assolutamente ovvio del senso comune: l'attività teoretica è «visione o conoscenza» della realtà, quella pratica comporta invece una «modificazione» della realtà conosciuta. Naturalmente non si tratta di una distinzione assoluta, tant'è che Croce ammette un rapporto Nesso tra d'implicazione, peraltro unilaterale, tra le due atti- attività vità, sostenendo che l'attività pratica, pur autono- teoretica e ma e dunque non determinata dalla conoscenza, allività pratica tuttavia la presuppone, giacché non si potrebbe modificare ciò che prima non sia stato conosciuto. A sua volta, ognuna di queste attività si distingue al proprio interno in due gradi, tra i quali si ripete l'im-
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plicazione unilaterale secondo cui il primo, quello inferiore, non presuppone il secondo, che invece presuppone il primo. I due gradi dell'attività teoretica sono l'arte o conoscenza dell'individuale, e la logica o conoscenza dell'universale. Così scandisce l'Estetica: «La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza dell'individuale o conoscenza dell'universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d'immagini o produttrice di concetti». Quanto ai gradi dell'attività pratica essi sono la volontà economica e la volontà morale: la prima è attività meramente utile, volizione particolare, la l gradi dell~ seconda è attività che trascende l'orizzonte delprassi l''md·1v1·d uo come tale, ed e' vo l·1z10ne ' de11' umver' sale, ossia del bene. La vita dello spirito si esaurisce del tutto in queste quattro forme di attività, l'arte, la logica o filosofia, l'economia e la morale, cui corrispondono le categorie, rispettivamente, del bello, del vero, dell'utile e del buono. Il diritto e la politica, così come le scienze matematiche, fisiche e naturali, appartengono alla sfel gradi della aliività teoretica
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ra dell'attività pratica, e più precisamente al suo grado economico. Quanto alla religione, Croce nega che si tratti di una forma distinta e autonoma della vita Diritto, politica, spirituale: essa risulta, piuttosto, dal combinarsi di scienze, elementi poetici, filosofici, economici e morali, religione per cui di volta in volta essa è visione fantastica, leggenda, elaborazione concettuale di credenze e di dogmi, organizzazione ecclesiastica gerarchicamente e giuridicamente ordinata., idealità morale. Se nelle Tesi e nella Estetica Croce elabora la sua concezione dell'arte- sulla quale sarebbe ritornato per tutto l'arco della sua vita, con scritti come il Carattere lirico dell'intuizione artistica del 1908, il Breviario di estetica dell913, La poesia del1936 -,negli ultimi ,r, d !l . . La logzca . lFilosofia volumi della due volu~m· della F'll osoJw e o spmto, dello come sczenza del concetto puro del 1909, e la spirito Filosofia della pratica del1908, egli esaurisce l'indagine sulle altre forme dello spirito. Un quarto volume, Teoria e storia della storiografia, edito in tedesco nel 1915 e in italiano nel 1917, avrebbe completato il «sistema» crociano, mettendo in evidenza, al di là delle irriducibili distinzioni, l'unitarietà dell'attività spirituale. Cominciamo il nostro esame con l'estetica.
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L'estetica: «homo nascitur poeta»
Una conoscenza prelogica
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E anche qualora l'intuizione estetica sia intrisa di concetti, questi, «in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono pi~ concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi dell'intuizione». Tanto che un'opera d'arte potrà anche essere piena di concetti filosofici ma, in quanto opera d'arte, il suo risultato non può esser che un'intuizione. Si pensi, per esempio, ai Promessi sposi: .essi «contengono copiose osservazioni e distinzioni di etica; ma non per questo vengono a perdere, nel loro insieme, il carattere di semplice racconto o di intuizione».
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arte è intuizione, o rappresentazione dell'individuale: ciò significa che essa è una conoscenza immediata, pre-logica, non bisognosa di essere illuminata dai concetti universali dell'intelletto. «L'impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di un paese, delineato da un cartagrafo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa ... possono ben essere tutti atti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali».
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Ha, dunque, avuto torto Kant ad affermare che ant l'intuizione da sola è cieca, e ha bisogno dell'in-
telletto che le presti gli occhi:
«la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; ... non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi». Il carattere preconcettuale dell'intuizione vuole anche che essa si collochi al di qua della distinzione tra reale e irreale, vero e falso, che è compito dell'intelletto stabilire. Le immagini estetiche sono aggettivazioni della fantasia per la quale tutto è reale e niente è real~, così come per il fa~ciullo reale e finzione, ~~~~~~~!odella stona e favola fanno tutt uno. In questo senso la conoscenza - conoscenza estetica è come «il sogno della vita , teoretica», «il momento aurorale» della vita spirituale, rispetto all'intelletto scientifico che ne è il meriggio. E là dove subentri l'intelletto, vien meno, come già insegnava Vico, la fantasia. L'arte, momento aurorale dello spirito: che cosa significa precisamente? da quale «notte» sorge questa «aurora»? La risposta di Croce, è vincolata dalla perdurante ammissione di un'oscura esistenza materiale anteriore allo spirito, sicché l'intuizione-immagine . . emergere da que l fl usso d'1 sensazwm . . Da quale v1ene v1sta ? 11011 e di impress'ioni che costituisce l'oscura regione e. della nostra natura organica e psichica, quel «limite inferiore» in cui noi subiamo la natura fisica esterna. L'intuizione è la «forma» vittoriosa che risolve nella chiarezza luminosa dell'immagine l'informe «materia»
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dei contenuti psichici che si agitano in noi. Se in quanto conoscenza intuitiva l'arte si distingue in basso dalla sensazione e in alto dall'intelletto, . . . in quanto conoscenza essa non potrà mai essere 11 1 Apdra ,c ta confusa con le forme dell'attività pratica. Sono, e11ar1e pertanto, erronee le estetlc · he edomstlc · · he, che n-· ducono l'arte al piacere, le estetiche utilitaristiche, che la subordinano all'utile, quelle moralistiche che fanno del bello un veicolo per la predicazione del bene. L'altro punto fondamentale dell'estetica crociana è che l'intuizione estetica è sempre anche «epressione». Così Croce scrive: «L'attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell'abito di dare alla parola 'espressione' un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazioni dell'uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l'espressione, in una di .. queste manifestazioni, non può mancare all'intuizione, lntwzlon~ ed dalla quale è propriamente inscindibile ... Ad ognuno è espressione dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in quel punto che riesce, a formolare a se stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni passano allora, per virtù della parola, dall'oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l'intuizione dall'espressione. L'una viene fuori con l'altra, nell'attimo stesso dell'altra, perché non sono due ma uno».
«il fatto estetico si esaurisce tutto nell'elaborazione espressiva delle impressioni ... Che noi poi apriamo e vogliamo aprir la bocca per parlare o la gola per cantare, e cioè diciamo a voce alta e a gola spiegata quanto abbiamo già sommessamente detto e cantato a noi stessi; o stendiamo e vogliamo stender le mani a toccare i tasti del pianoforte o a prendere i pennelli e lo scalpello, eseguendo per così dire, in grande quei movimenti che già abbiamo eseguito in piccolo e rapidamente, e traducendoli in una materia dove ne restino tracce più o meno durature - è questo un fatto sopraggiunto, che ubbidisce a tutt'altre leggi che non il primo ... esso è produzione di cose e fatto pratico o di volontà».
Alla confusione tra espressione ed estrinsecazione tecnico-materiale dell'espressione, tra intuizione e cose fisiche utili alla sua riproduzione, risale anche
Il fascismo e le donne
E se taluni obbiettassero che si possono avere tanti e importanti pensieri nella mente senza riuscire ad esprimerli, Croce risponde che se li avessero davvero, li saprebbero anche esprimere: «se nell'atto di esprimerli, quei pensieri sembrano dileguarsi o si riducono a scarsi e poveri, gli è che o non esistevano o erano soltanto scarsi e poveri». Attenzione, però, a non confondere l'espressione artistica, che è un atto assolutamente spirituale e interiore, con la sua traduzione in cose fisiche quali, come nel caso della pittura, le tele e le mura spalmate di colori, o le pietre intagliate, come nel caso della scul. tura e dell'architettura, o le scritture e i fonograEs111~esslon7 ed fi, come in quello della poesia e della musica. es nnsecaz1one Una cosa e, l' espresswne, . . altra la sua estnnsecazione nella «materia». Questa è un'attività esterna a quella propriamente estetica e può seguire o meno a quest'ultima - e di solito la segue -; è una «tecnica» che risponde a bisogni pratici dello spirito che nulla hanno a che fare con l'arte, come quello, per esempio, di rendere possibile la riproduzione, per sé e per gli altri, dell'intuizione-espressione. Perché l'arte sia, non è necessario che le parole vengano declamate a voce alta, e la musica eseguita, e la pittura fissata sopra una tela:
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on l'avvento del fascismo al potere si arresta in Italia quel processo di emancipazione della donna che faticosamente si era venuto profilando, e che, durante gli anni della prima guerra mondiale, con l'inserimento massiccio delle donne nel lavoro e nella vita sociale, aveva visto maturare
condizioni favorevoli ad una possibile sua accelerazione. Viceversa, l'abolizione delle libertà democratiche, l'imposizione di un ordine sociale fondato sul principio della gerarchia, e l'affermarsi di un costume come quello fascistico, che fa riferimento alle «virtù» maschiliste della forza e del coraggio militaresco, eliminano ogni
SEZIONE SECONDA. SPIRITUALISMO, PRAGMATISMO, NEO-IDEALISMO CAPITOLO 9
l'idea, del tutto erronea, che esista un «bello di natura». In realtà, il bello è un valore spirituale che apparI tiene solo all'attività dello spirito, e se succede Il bello natma e che noi diciamo belle le cose naturali, ciò è solo perché in queste noi scorgiamo aiuti più o meno efficaci a fissare il ricordo delle nostre intuizioni, così come a questa funzione riproduttrice servono le tele, gli spartiti musicali, le pietre, il marmo e tutte le altre «cose artistiche» prodotte dagli uomini. Anche la suddivisione dell'arte in architettura, scultura, pittura, poesia letteraria, musica e così via, . non ha rilevanza estetica: dal punto di vista esteL'arteeleartr tlco, · ,.r, · d'1 non c,,e a1cuna d'f'" 1 1erenza tra L''lnJlnzto Leopardi, la nona sinfonia di Beethoven, il Mosè di
Michelangelo o la Primavera del Botticelli, ché ognuna di queste opere d'arte è indifferentemente intuizione-espressione. La diversità delle arti si riferisce esclusivamente alle diverse tecniche con le quali le intuizioni vengono tradotte «fisicamente». Analogamente, non hanno rilevanza estetica le distinzioni che si è soliti fare, all'interno di ogni singola arte, tra diversi «generi letterari e artistici»: lirica, dramma, romanzo, poema; e così, pittura sa. c d' · . . . d 1 genen era, pro1ana, 1 paesaggw; e v1a VIa, musica a letterari ed camera, da chiesa, da teatro, e architettura civile, artistici ecclesiastica, ecc. Si tratta di classificazioni di carattere pratico, che rispondono ad esigenze di utilità, ma appunto aventi un significato del tutto extrae-
~~~~~~hl,~--IDN:s.:Z.~:al'M~~~mt-"-èf#""4§@~~"'%i:H!f;,;rk#%it6,~:;rrr·p;H1'7-?.·n-'~&i.Bl.t~..,.,'•''"'~•··~~"'-fu~t;L.~'l.;;f:.. 2 Mussolini e alcuni gerarchi «benedicono» le prolifiche madri fasciste.
possibilità di avanzamento e di liberazione della donna. Il regime fascista scoraggia l'inserimento della donna nel lavoro e nelle attività sociali. Nel 1927, a fronte di una diminuzione dei salari maschili del10-20%,·quelli femminili vengono ridotti alla metà di quelli degli uomini. Un decreto governativo dello stesso anno esclude le donne dall'insegnamento delle lettere e della filosofia nei licei, mentre vengono
aumentate le tasse scolastiche a carico delle studentesse e alle insegnanti è preclusa la carriera di presidi e dirigenti scolastici. Infine con una legge del1933 vengono drasticamente limitate le assunzioni delle donne nel pubblico impiego. Sulla vecchia ideologia familistica secondo la quale la vocazione della donna sarebbe quella di dedicarsi interamente alla famiglia, viene innestata l'immagine
della fecondità femminile, destinata al rinvigorimento e all'accrescimento della stirpe, a dare figli alla patria. Anche le masse femminili, naturalmente; devono essere inquadrate, sia purin una condizione di subalternità rispetto agli uomini, nelle organizzazioni giovanili del regime, e lì educate a quella devozione alla patria e al suo duce che funge da tessuto connettivo della società. Se alle donne è consentito
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l'accesso a ruoli di comando, questo è possibile, in misura limitatissima, solo all'interno dell'organizzazione femminile di regime, dove l'esercizio delle funzioni di «capo» è rigorosamente modellato sull'immagine maschile. Anche su questo terreno della lotta per l'emancipazione della donna l'opposizione al regime fascista è del tutto clandestina e condotta quasi esclusivamente all'estero e da gruppi femminili di sinistra, in particolare comunisti. Era stata, del resto, una donna comunista come Camilla Ravera a condurre, fin dal 1921, su L'ordine nuovo di Gramsci, un discorso sulla servitù della donna che, sorpassando il limite economicistico tradizionale del movimento socialista e comunista, aveva. messo in luce gli aspetti anche culturali e di costume della miseria femminile. Ora, durante gli anni del fascismo, nasce nel 1936 in Francia, per iniziativa di un gruppo di donne antifasciste fuoruscite la rivista «Noi donne», che ancor oggi rappresenta uno dei portavoce più importanti del femminismo italiano.
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stetico. In realtà, ogni opera d'arte, in quanto esprime un'impressione del tutto individuale e sempre nuova, è assolutamente inconfondibile con qualsiasi altra, e nessuna sopporta di essere ricondotta ad un genere e a una classe. L'estetica crociana ha infine il suo compimento nella identificazione, che si richiama a Vico e ad Humboldt, dell'arte col linguaggio, sicché l'Estetica in quanto scienza dell'espressione, è per ciò stesso una Arte e {inguistica ?en~rale. A. meno infatt~ di.n~n vole: linguaggio mtendere 11 hnguagg10 come un em1sswne d1 suoni che non esprimono nulla, si deve riconoscere che esso «è suono articolato, delimitato, organato allo scopo dell'espressione», che anzi esso coincide con l'espressione. Contro ogni interpretazione che veda l'origine del linguaggio nella convenzione sociale e nelle operazioni logiche dell'intelletto, Croce ne riafferma con Vico l'originaria natura fantastica, espressione della spontaneità creatrice dello spirito. L'affermazione dell'intrinseca poeticità del linguaggio evidenzia il fatto che la poesia, l'espressione artistica, non è esclusiva dei poeti e dei grandi artisti, . . . . bensì è comune a tutti gli uomini. Se così non TLI Il l 91IUOffilnl c bb "b'l . . , sono 11poelill 10sse, non sare e comprens1 1 e come, m vntu del «gusto», noi possiamo riprodurre in noi, godendone, l'opera del genio. In realtà, nella misura in cui ogni uomo parla, esprime il suo vissuto in immagini, e pertanto è a suo modo poeta; ciò che lo differenzia dal grande poeta ed artista di genio è solo una differenza di quantità. Croce sostiene che «l'aver staccato l'arte dalla comune vita spirituale, l'averne fatto non si sa qual circolo aristocratico o quale esercizio singolare, è stata tra le principali cagioni che hanno impedito all'Estetica, scienza dell'arte, di attingere la vera natura, le vere radici di questa nell'animo umano».
In una pagina che mette in chiaro la distanza che separa fin d'ora il suo atteggiamento dalle tendenze irrazionalistiche, misticheggianti ed estetizzanti di tanta parte della cultura italiana del primo Novecento, che pure avrebbe accolto con simpatia la sua Estetica, Croce così scrive: «Si dice che i grandi artisti rivelino noi a noi stessi. Ma come ciò sarebbe possibile se non ci fosse identità di natura tra la nostra fantasia e la loro, e se la differenza non fosse di semplice quantità? Meglio che: 'poeta nascitur', andrebbe detto 'homo nascitur poeta'; poeti piccoli gli uni, poeti grandi gli altri. L'aver fatto di questa differenza quantitativa una differenza qualitativa ha dato origine al culto e alla superstizione del genio, dimenticandosi che la genialità non è qualcosa di disceso dal cielo, ma è l'umanità stessa. L'uomo di genio, che si atteggi o venga rappresentato come lontano da questa, trova la sua punizione nel diventare, o nell'apparire, ridicolo. Tale il genio del periodo romantico, tale il superuomo dei tempi nostri».
Non possiamo seguire da vicino i ripensamenti, gli sviluppi che la concezione crociana dell'arte cono-
sce nel lungo arco della vita del filosofo. Ci limiteremo ad alcuni dati essenziali. Nel Carattere lirico dell'intuizione artistica del 1908, e poi nel Breviario d'estetica dell912, Croce ha ormai liquidato i «residui naturalistici» presenti nell'Estetica del1902 ed ha maturato una forma di idealismo assoluto, che mutua da Hegell'idea della circolarità dello spirito, secondo la quale i quattro momenti della vita spirituale si presuppongono a vicenda, Circolarità dello spirito e e nessuno di essi rimanda ad una realtà esterna da superamento cui sia in qualche modo condizionato. Questo dei residui immanentismo asssoluto conduce ad una impor- naturalistici tante revisione della teoria estetica: l'intuizione-espressione non ricava più il suo contenuto da impressioni e stati psichici che rinviino ad una realtà naturale esterna, bensì dall'attività pratica presa nella sua immediatezza e indeterminatezza di passionalità e sentimentalità. In tal modo, il rapporto tra attività teoretica e attività pratica viene a far circolo: non è più soltanto la seconda a presupporre la prima, ma è questa stessa, nel suo grado intuitivo, a presupporre a sua volta la seconda. La nuova elaborazione si conclude nel riconoscimento della «liricità» dell'intuizione artistica. Questa viene ora interpretata come espressione di un sentimento: l'arte, per essere tale, presuppone nel poeta un uomo dalle grandi, gagliarde passioni, amorose, L'' 1 .. • , h . .1. .d . ll . 111 UIZIOilG pol1t1c e, c1v11, mora11, a espnmere ne e 1mma- «liricall gini poetiche. Non si tratta, ovviamente, della espressione pratica, ossia passionale delle passioni. Queste, per diventare poesia, devono tradursi in conoscenza, passare attraverso quel processo catartico che le risolva del tutto in immagini pure. Facendo proprio il linguaggio di Kant, così Croce chiarisce: « ... l'arte è una vera sintesi apriori estetica, di sentimento e immagine nell'intuizione, della quale si può ripetere che il sentimento senza l'immagine è cieco, e l'immagine senza il sentimento è vuota».
L'interminabile discussione, accesasi in particolare nell'Ottocento e che ha diviso i romantici dai classicisti, se l'arte vada ricercata nel contenuto o piuttosto nella forma, non ha senso, giacché essa consiste nella loro sintesi viva e concreta: in essa «il contenuto F , c l c , · . . ·orma e . e iOrmato e a 1orma e nemp1ta, ... 11 senttmento cmltenuto è sentimento figurato e la figura è figura sentita». E così si scopre che romantici e classicisti hanno torto ad opporsi gli uni agli altri, privilegiando gli uni l'effusione spontanea e violenta degli affetti, gli altri la pacatezza, la precisione e la chiarezza dell'immagine, poiché l'arte autentica è sempre insieme classica e romantica: «un sentimento gagliardo, che si è fatto tutto rappresentazione nitidissima». Opera d'arte fallita è così quella in cui il «tumulto sentimentale» non si rassereni nell'immagine, come anche quella in cui l'immagine sia un «vano fantasticare», «foglia secca in preda al vento
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dell'immaginazione e ai capricci del trastullo». In un saggio del 191 7, su Il carattere di totalità della espressione artistica, Croce avrebbe insistito sul carattere di universalità e cosmicità dell'arte. Nell'im. . . magine, che purè concreta e individuale, si riflette cosliliCita · · · dato «sub specie · m · t UI't'wd 11, le l' umverso mtero, nguar e ar nis», giacché il sentimento artistico non è qualcosa che possa distaccarsi dall'universo e vivere astrattamente come parte separata dal tutto. Nell'opera d'arte, «il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo; ed ogni schietta rappresentazionè artistica è se stessa e l'universo, l'universo in quella forma individuale, e quella forma individuale come l'universo. In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c'è tutto l'umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioi endo».
accanto all'espressione artistica, ad altre forme di espressione, quali l'espressione sentimentale o immediata, l'espressione prosastica, quella oratoria, appartenenti ai momenti extra-estetici della vita spirituale, logici e pratici. Egli ora sostiene che tali forme A . l . d cc rte)) e espressive, qua ora, pur nmanen o se stesse, non cdetteratura)) offendano la coscienza poetica e artistica, ed anzi, rivestendosi di una «bella forma», si armonizzino con essa, costituiscono, accanto all'arte, la «letteratura», di cui vien riconosciuta la preziosa funzione, quale parte importante della civiltà e dell'educazione. U«espressione letteraria», dando, attraverso le sue «belle» parole, decoro e misura ed equilibrio alle espressioni - di per sé o disordinate e convulse, o aride e sciatte-, del sentimento o dell'oratoria o della prosa scientifica,
Infine, ne La poesia del 1936, pur mantenendo intatta la teoria dell'arte come intuizione lirica, Croce, tempera il suo «giovanile radicalismo» e fa posto,
«si pone al fianco (della poesia) come amica di più breve stagione, che non si leva sino al suo capo, che non tenta neppure di levarsi, perché, col farsele pari, segnerebbe la propria morte».
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I conti con Hegel -~··
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ollecitato in questa direzione da Gentile, Croce
~_·.;./_._•..':._:-· nosciuto. ~tn~e~~~~r~~~\:~:~~~~~~~~~~ ~~~~!~~~i:~~~ In realtà, neppure allora egli divenne ~
,; · un «hegeliano». Il suo sistema filosofico era ormai delineato, e fu in base ad esso che egli venne 11 Hegel vivo)), distinguendo ciò che è vivo e ciò che è morto nella Hegel ccmorto)) filosofia di Hegel, come appunto si sarebbe intitolato un suo celebre saggio del1906 sul filosofo tedesco. In realtà si tratta di una vera e propria liquidazione dell'hegelismo, del quale si accetta soltanto l'ispirazione storicistica, l'identificazione di reale e razionale, la tendenza verso l'immanenza e la concretezza, «contro il dover essere che non è, contro l'ideale che non è reale». «Morta» è invece la distinzione tra fenomenologia e logica, e la stessa concezione teologizzante della logica come momento anteriore alla concreta vita dello spirito, «pensiero divino prima della creazione del mondo»; «morta» la filosofia della natura e così la filosofia della storia. «Viva», certo, è al contrario la dialettica degli opposti, ad insegnare che, «se il termine negativo non fosse, non sarebbe lo svolgimento; e la realtà, e con essa il termine positivo, cadrebbe», e che dunque «il negativo è la molla dello svolgimento, e l'opposizione è l'anima stessa del reale». Ma, come accade spesso a chi scopra qualcosa d'importante, Hegel ha esteso la dialettica degli opposti, al di là dei confini della sua validità, ritenendo che tutte le articolazioni della realtà fossero pensabili attra-
verso di essa. In tal modo egli ha finito col risolvere la realtà in una sintesi finale, la filosofia, nella Indebita quale si placano tutte le opposizioni, in una specie estensione di «fine della storia», che appare in stridente con- del!~ dialetii~a traddizione con l'originario assunto storicistico. degh opposti A questo «panlogismo» Croce contrappone il suo sistema filosofico, secondo il quale, come sappiamo, arte, filosofia, azione economica e volontà morale sono momenti tra loro distinti ma non opposti, in quanto ognuno di essi è un'espressione positiva, concreta Dialettica degli ed autonoma della vita spirituale. È necessario, opposti e dunque - ed è questa la riforma crociana della emesso dei dialettica-, integrare la dialettica degli opposti col distinti)) «nesso dei distinti»: l'opposizione opera solo all'interno di ognuna delle quattro forme (bello-brutto, vero-falso, utile-dannoso, bene-male), tra le quali corre, invece, un rapporto di distinzione. Sicché lo spirito è unità di distinti, ognuno dei quali è sintesi di opposti. La distinzione tra le forme non è infatti assoluta. Essa, lungi dall'escluderla, implica neces~ariamente l'unità, senza della quale lo spirito non sarebbe. Questo è dunque presente sempre e interamente in ciascu- . c · larmente dall' una all' al- 11dello c1rco1o e1erno na 10rma e si· svolge circo spirito tra, in una vichiana «storia ideale ed eterna»: l'intuizione, che è la forma estetica dello spirito, diviene materia del pensiero logico, dal quale sorge l'attività pratica, che a sua volta diviene, quale sentimento, materia di una nuova intuizione, e così sempre, in un circolo eterno.
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La logica: identità di filosofia e storiografia li anni dell'incontro-scontro con Hegel, sono gli stessi in cui Croce è impegnato nel delineare la sua logica come secondo grado della conoscenza, della quale una prima formulazione è rappresentata dai Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro del1905, ampliata e profondamente modificata nella Logica del 1909. La logica, o filosofia, è conoscenza dell'universale. Essa presuppone il momento intuitivo senza il quale non sarebbe - «se l'uomo non rappresenLa conoscenza dell'universale tasse cosa alcuna, non penserebbe; se non fosse spirito fantastico, non sarebbe neppure loico» -, ma anche lo trascende, ponendosi come conoscenza concettuale. Il concetto «sorge dalle rappresentazioni, come qualcosa che è implicito in quelle e deve diventare esplicito; come esigenza, di cui quelle pongono le premesse, ma che non sono in grado di soddisfare, né possono, neppure, affermare. Il soddisfacimento è dato dalla forma, non più meramente rappresentativa, ma logica della conoscenza; e ha luogo di continuo, in ogni istante della vita dello spirito».
I concetti della logica, o «concetti puri», come Croce kantianamente li chiama, sono «l'universale concreto»: «universali», in quanto «ultrarappresentativi», ossia trascendenti rispetto alle singole rappresentazioni, nessuna delle quali è in grado di adeguare il concetto; «concreti» in quanto «omnirappresentativi», ossia immanenti in ogni singola rappresentazione. I concetti, infatti, non fanno parte di un «altro mondo» rispetto a quello dell'esperienza umana, di cui costituiscono, usando ancora il linguaggio kantiano, i principi trascendentali. Se Kant aveva avuto torto ad affermare che le intuizioni senza i concetti sono cieche, ha avuto invece ragione a dire, all'inverso, che i concetti senza le intuizioni sono vuoti, ossia, taglia corto Croce, irreali. La filosofia, in quanto scienza dei concetti puri, è il pensamento di quelle forme universali e concrete chè, come si è visto, costituiscono la trama ideale della storia dello spirito. Fare filosofia significa dunque definire che cos'è arte, che cosa è logica, attività economica, attività morale; significa l'attìvità atLa filosofia traverso la quale lo spirito assume consapevolezcome za di sé come unità-distinzione, circolarità di metodologia della storia pensiero e azione. In questo senso, la filosofia, pur essendo una delle forme dello spirito, rispettosa della loro irriducibile autonomia, è in qualche modo sovraordinata alle altre, in quanto, pensando e definendo se stessa, pensa e definisce anche tutte le altre. Essa si configura come «metodologia della storia», in quanto rivolta a rendere consapevole di sé l'operare storico degli uomini.
Di grande rilievo è la parte della «Logica» in cui Croce si occupa delle scienze matematiche, fisiche e naturali, e del posto che esse occupano nella vita dello spirito. Rifacendosi in modo assai disinvolto- egli non nutrì mai un serio interesse per il sapere scientifico alla revisione che del pensiero scientifico si era venuta facendo nei decenni precedenti, e che aveva concluso, in particolare per opera di Mach, alla teoria della Gli natura «economica» della scienza, Croce nega che pseudo·conceHi ' il sapere scientifico appartenga alla sfera conosci- e l'ateorelici!a ; tiva dell'attività spirituale. I concetti scientifici delle scienze non hanno una portata teoretica; essi sono schemi, astratti o empirici, utili ad orientare la nostra azione nella realtà, in virtù dell'appagamento dei nostri bisogni pratici. Croce dà loro il nome di «pseudoconcetti». Non si tratta infatti di veri e propri concetti, poiché mancano di universalità e concretezza. Più precisamente, i concetti matematici sono universali ma son privi di concretezza, e quindi mancano di onnirappresentatività, mentre i concetti delle scienze naturali sono concreti in quanto si riferiscono a un gruppo di rappresentazioni, ma per ciò stesso mancano di universalità, non sono ultrarappresentativi. Una cosiffatta liquidazione del valore teoretico della scienza avrebbe esercitato una non positiva influenza sulla cultura italiana del primo cinquantennio del secolo, facendo da impedimento allo sviluppo delle ricerche scientifiche, in particolare di quelle rela- ,. ti ve alle scienze umane, come la psicologia, la Un m:~uenza sociologia, l'antropologia culturale. In un paese nega lva ancora arretrato dal punto di vista economico-sociale, già per questo scarsamente motivato agli interessi scientifici, l'egemonia culturale di Croce- e di Gentile -avrebbe contribuito in modo determinante all'approfondirsi 'di un solco sempre più profondo tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, tradizionalmente incomunicanti tra loro. Ma torniamo, ora, al rapporto tra filosofia e storia che, ad uno sguardo più attento, è destinato a rivelarsi vera e propria identità dei due termini. Se, infatti, Filosofia e i «giudizi definitori» della filosofia consistono storia: giudizi nell'enunciare i concetti universali della storia, e definitori e questi non sono reali al di fuori delle vicende giudizi particolari di essa, allora ne consegue che il giudi- individuali zio definitorio viene riassorbito nel «giudizio storico», con il quale si pensano i fatti particolari della storia, e che Croce dice anche «giudizio individuale». La filosofia sarebbe irriducibile a storia solo se avesse ragione Platone, che pensava gli universali come costitutivi di un mondo trascendente quello delle cose particolari. Ma se il bello, il vero, l'utile e il bene sono reali solo nelle fantasie, nei pensamenti e nelle volizioni
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concrete degli uomini, allora la filosofia, cessando di essere quella scienza ultramondana cui i metafisici di tutti i tempi l'hanno ridotta, si risolve davvero nella storia, e, i concetti universali che essa definisce, si rivelano reali solo in quanto predicati del giudizio storico individuale. Un qualsiasi giudizio definitorio .. d' - per esempio: «il bello è sintesi di immagine e 1 0111 1 -, non solo non sarebbe possibile 1~a1 e sentimento» 1~11eosostoria • d' " deIle mtmzwm . . . . da m 1pendentemente da11 a s1era cui esso emerge, onde chi scrive di estetica deve prima di tutto aver fatto esperienza, riproducendole in sé, delle opere artistiche degli uomini; ma esso infine si risolve senz'altro nei giudizi concreti, nei quali si afferma, per esempio, che la Trasfigurazione di Tiziano, o il David di Donatello, o Alla sera di Foscolo, sono belli. Insomma il concetto non può esistere separatamente dall'intuizione, e la filosofia, ossia la storia, è di essi la «sintesi a priori logica». È questa identificazione di filosofia e storia che avrebbe spinto Croce, dopo aver pubblicato i volumi della Filosofia dello spirito, e sempre dopo aver, anche in seguito, scritto di «astratta teoria», a volgersi con grande fervore al lavoro concreto del critico letterario e dello storico. Va delineandosi, dunque, quello che più tardi Croce avrebbe detto il proprio storicismo assoluto, e che già in Teoria e storia della storiografia del 1917, il quarto e ultimo volume della «Filosofia dello spirito», viene annunciato. Pur rifiutando ogni filosofia della storia, e la sua pretesa di ricercare il valore dei fatti storici in un disegno finalistico trascendente, invece che nei fatti storici stessi, come vuole l'identificazione di filosofia e storia, Croce accetta la tesi hegeliana che vuole la coincidenza di essere e dover-essere, di razionalità e
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realtà, e quindi l'irrealtà del male e del negativo. Il progresso storico, pertanto, non va inteso «come passaggio dal male al bene, quasi da uno stato all'altro, ma come passaggio dal bene al meglio, in cui il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio».
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Per la coscienza storica i fatti sono sempre buoni, «quando siano intesi nel loro intimo e nella loro concretezza». Essa «riconosce come di pari diritto la chiesa delle catacombe e quella di Gregorio VII, i tribuni del popolo romano e i baroni feudali, la lega lombarda e l'imperatore Barbarossa. La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice».
Chi attribuisce alla storia la funzione di assolvere e di condannare commette l'errore di confondere la coscienza storica con gli interessi pratici e passionali che dividono gli uomini in partiti avversi, che sulla medesima realtà esprimono avversi giudizi. Ciò non significa che tra la serena imparzialità dello storico e l'urgenza degli interessi pratici dell'uomo d'azione non vi sia, fatta salva la rispettiva autonomia, una relazione anche stretta, che Croce c .. . .d f"' d h l . , ontemporanmta mette m ev1 enza a 1erman o c e a stona e della storia sempre, anche quando si occupa delle età più antiche, storia contemporanea. Il che significa, appunto, che è sempre un interesse pratico del presente, civile, morale o politico che sia, che spinge lo storico a occuparsi del passato, nella comprensione del quale egli cerca risposta ai problemi del presente. Ed è così che quella circolarità del processo spirituale, eredità vichiana e insieme hegeliana, viene perfettamente saldandosi: come l'attività pratica presuppone la conoscenza storica, così questa sorge sotto lo stimolo dei pressanti bisogni dell'azione.
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La filosofia della pratica ome s'è già detto, la conoscenza storica è il presupposto dell'attività pratica, senza il quale questa non sarebbe possibile. Nell'eterno circolo dello spirito, il materiale della conoscenza si converte continuamente in alimento della vita pratica, infiammandosi ad opera di quella scintilla che è la volizione, la quale poi, a sua volta, costituisce la premessa di nuova conoscenza. A differenza del conoscere, che, di contro a quanto insegnano le filosofie pragmatistiche, vuole il rasserenamento dalle passioni e l'autonomia dagli interessi immediati della vita, il volere è il momento dello spirito in cui si agitano gli appetiti, i desideri, fermentano le passioni, erompono le cupidità, che trovano espressione nell'azione. Agire è sempre prendere par-
tito, entrare nella mischia, contrapporre l?assione a passione, forza a forza, volontà a volontà. E nelL'azione: l'azione che trova il proprio radicamento monda- radice no la realtà dello spirito, ed è da essa che trae il mondana della proprio nutrimento vitale, senza di che svanireb- realtà spirituale be nel nulla. È insomma l'attività pratica a creare sempre nuova vita, nuova realtà. Come nell'estetica intuizione ed espressione del• l'intuizione coincidono, così nella pratica non si v 1 . . . 'f'1cano vo11z10ne . ed azwne, e l' una non e, o ere e ag1re d1vers1 concepibile senza l'altra: un volere che non fosse anche agire, non sarebbe reale volere ma solo astratta velleità. Cose tra loro diverse sono invece azione ed accadimento. Mentre nella prima si esprime la volontà del
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singolo individuo, l'accadimento, ossia il risultato cui l'azione perviene, non è opera di questa volontà, ma CC A . piuttosto dell'insieme di tutte le volontà indivi0 accadimento z•one e dua l"1 o, megl"10, esso e' l' espressiOne . de11o spmto .. universale che attraverso queste volontà viene svolgendosi. In un riecheggiare del tema hegeliano dell' «astuzia della ragione», segno del riemergere di una filosofia della storia non mai ab bastanza combattuta, così scrive Croce:
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I giovani e i littoriali del fascismo
«L'azione è l'opera del singolo, l'accadimento è l'opera del Tutto: la volontà è dell'uomo, l'accadimento è di Dio».
Già sappiamo che l'attività pratica si distingue in due gradi, l'economia o volizione del particolare e la morale o volizione dell'universale. Contro tutte le forme di astratto moralismo e di idealismo da «anime belle», Croce, da una parte rivendica l'autonomia della volontà economica da quella morale, negando che essa . b possa essere tacciata d'immoralità, quando è semUt•1e e ene: . . l 1 1 contro il p11cemente «amora e» o «premora e», e cometa e moralismo in possesso di un proprio intrinseco pregio; dall'altra, con un forte senso della terrestrità dell'agire umano, afferma che la stessa azione morale, lungi dal porsi in antitesi rispetto al momento economico, include sempre in sé anche un significato economico. Il bene morale non sarebbe tale se non fosse anche utile, e il suo perseguimento accompagnato dal nostro individuale piacere; e assurdo è, pertanto, il concetto delle cosiddette azioni disinteressate: «quantunque - scrive Croce - una buona azione non sia unicamente il nostro individuale piacere, tale essa deve diventare: altrimenti come potremmo noi tradurla in atto? Fare è compiacersi di quel che si fa, nell'atto che si fa».
E, d'altronde, come potrebbe l'azione morale non rispondere ad un «libito individuale», se colui che la compie è pur sempre un individuo, e l'universale solo da degli individui può essere voluto? Certo, hanno torto gli utilitaristi a pensare che l'utile sia il solo movente dell'agire umano, giacché non vedono che «l'azione utile può o restare meramente personale o progredire ad azione universale-personale, etico-utile», dando espressione ad una nuova categoria spirituale, che essi non scorgono. Ma all'utilitarismo finiscono col dare man forte proprio coloro che, come Kant, vanno sognando di un'azione compiuta solo per il dovere, fuori di ogni utile personale. Alla categoria dell'economico vanno ricondotti sia il diritto che la politica. Quanto al diritto esso, in quanto sistema di leggi, assolve alla funzione, essenzial.. mente utilitaria, di garantire la disciplina e lo I! dlrlltO . . . 'le. Essvolg1mento ord'mato de11a conviVenza c1v1 so, infatti, attraverso le leggi in cui si sostanzia, riconduce a schemi generali- similmente a quanto, attraverso gli pseudoconcetti, fanno nel loro dominio le scienze naturali -le concrete volizioni umane, di per sé inconfondibili e sempre nuove, e le subordina al proprio
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in dal1920 il movimento fascista aveva dato vita ai Gruppi universitari fascisti(G.U.F.), destinati ad essere impiegati nell'attività squadristica contro le organizzazioni operaie e, all'interno delle università, contro gli studenti antifascisti. Una volta instauratosi il regime dittatoriale, i Guf ebbero il compito di «inquadrare la gioventù studiosa italiana, per educarla secondo la dottrina del fascismo». La più importante attività svolta dai Guf fu, certamente, quella dell'organizzazione, a partire dal1934, dei Uttoriali della cultura e dell'arte, che si sarebbero tenuti per sette anni, fino al1940. Si trattava di gare nazionali annuali, che si concludevano con la premi azione di un vincitore il Uttore- e la designazione di dieci classificati per ognuna delle discipline previste. Queste andavano dalle materie di carattere politico (dottrina del fascismo, corporativismo, politica estera ecc.) alle discipline propriamente culturali, come la critica letteraria, l'arte, la musica, il cinema, il teatro e così via. Le gare
consistevano in prove scritte e soprattutto in convegni, durante i quali i partecipanti, anche in contraddittorio tra loro e con gli stessi membri delle commissioni giudicatrici - formate da docenti universitari e da esperti, e presiedute da un gerarca del regime -, potevano esporre le proprie idee con una certa libertà, che in altre circostanze sarebbe stata impensabile. Alle gare nazionali partecipavano i giovani selezionati nei pre-Uttoriali, che si svolgevano presso i Guf delle ventisei città universitarie italiane. Nelle intenzioni del regime i Littoriali avrebbero dovuto concorrere al proprio consolidamento ideologico tra i giovani della classe dirigente del paese, ma in realtà essi finirono col giuocare, non raramente, un ruolo esattamente contrario a quello per cui erano stati istituiti. La possibilità di esprimere liberamente le proprie idee consentì a molti giovani, che già avevano maturato posizioni di fronda nei confronti di tanti aspetti del regime, magari in nome di una presunta originaria «purezza rivoluzionaria» poi
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... 1 Fotografia di alcune ragazze dei Gruppi universitari fascisti, vincitrici dei littora/i svolti nel1934. 2 11 manifesto per l'adunata Goliardi d'Italia del1927.
tradita del fascismo, di compiere, anche in virtù del confronto con altri giovani già in rotta col fascismo, il passo, più breve di quanto si potesse immaginare, verso posizioni francamente antifasciste. In effetti, i vari Guf locali, interessati ad ottenere nelle gare il più alto punteggio possibile, finivano col consentire la partecipazione dei giovani più brillanti, anche se tiepidi o addirittura dissidenti nei confronti del fascismo. D'altra parte, questi ultimi erano interessati a fare opera di propaganda antifascista in mezzo alla massa dei giovani, e dunque partecipavano volentieri ai Littoriali, e magari ne tornavano vincitori. Fu il caso questo, per esempio, di Antonio Amendola, figlio del capo deii'«Aventinm>, on. Giovanni Amendola, che nel 1935 fu littore per la critica letteraria, oppure di Giaime Pintor, futuro esponente della Resistenza e morto in
un'azione partigiana nel 1943, che partecipò, anche lui per la critica letteraria, ai Littoriali del1939 e del1940, in modo anticonformistico, riuscendo a classificarsi. Tra coloro che presero parte ai Littoriali con un'attitudine critica, furono anche Michelangelo Antonioni, Carlo Cassola, Giorgio Bassani, Vasco Pratolini. Ruggero Zangrandi. Quest'ultimo durante gli anni Trenta aveva dato vita, allo scopo di rinnovare dall'interno il fascismo, ad un movimento, Centro giovanile per il Fascismo universale, per poi giungere a posizioni apertamente antifasciste. In un suo scritto del 1947 - Il ed. ampliata del1962 -,Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Zangrandi racconta alcuni interessanti episodi relativi alle esperienze che il suo gruppo ebbe il modo di fare in occasione dei Littoriali del1937 a Napoli e del1938 a Palermo. «Al convegno delle arti figurative del1937, Antonello Trombadori e Michelangelo Piacentini di Roma, Raffaele De Grada di Milano, Renato Guttuso di Palermo, Franco Lattes (Fortini) di Firenze, Alberto Graziani di Bologna e alcuni altri, non saprei dire se d'intesa o meno, muovendo da posizioni estetiche apparentemente estranee alla politica, riuscirono a sviluppare, con un efficace 'giuoco di squàdra', un'azione di palese ispirazione antifascista. l commissari ... avvertirono il 'sovversivismo' delle tesi sostenute, in netto contrasto con quelle dominanti, per un'arte impegnata (nell'esaltazione dei valori della rivoluzione) e mossero decisamente al contrattacco.
Sicché il dibattito si trasformò in polemica accesa; cui presero parte molti dei presenti ... e culminò in un tumulto ... In forma anche più clamorosa, la manifestazione si ripeté l'anno dopo a Palermo, nello stesso convegno di arti figurative ... Prima che il convegno avesse inizio, c'era già un'atmosfera di attesa nella folla dei partecipanti e degli spettatori poiché, dopo l'incidente dell'anno avanti, molte voci erano corse. Ma ciò che più eccitò gli animi fu che parecchi dei primi oratori, sistematicamente, non fecero mai riferimento all'arte fascista (il tema proposto parlava, invece, dei 'caratteri di un'arte fascista') e presero subito a sviluppare tesi eterodosse. Bruno Zevi, che affrontò il tema dal punto di vista dell'architettura (di grande e bruciante attualità, in quegli anni in cui dominava la rettorica delle opere del regime progettate da Marcello Piacentini e dalla sua scuola), ebbe la cura di sostituire sempre, sottolineandola, l'espressione 'caratteri di un'arte moderna' a quella di 'caratteri di un'arte fascista'. E sostenne che un'arte moderna' doveva rompere con le tradizioni classicistiche e romane, per rifarsi piuttosto a uno studio del medioevo, 'come fonte espressiva delle libertà comunali' ... Anche questa volta il dibattito si trasformò in una manifestazione tumultuosa ... finché sopraggiunse, nel suo giro d'ispezione, lo stato maggiore del Guf con Mezzasoma alla testa, il quale non si limitò ... a prendere posto al tavolo della presidenza, ma prese anche la parola ... 'La premessa che
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dobbiamo fare', disse, 'è che qui siamo tutti fascisti, non è vero?' Al che, un terzo dei presenti abbandonò silenziosamente la sala». Ancora Zangrandi racconta: «L'unica delusione di Napoli ci fu data da Benedetto Croce, al momento della partenza. Non ricordo per suggerimento di chi ... si pensò ... di inviare una delegazione a rendere omaggio alfilosofo che raccoglieva, a quell'epoca, la quasi unanime simpatia dei giovani dissidenti e rappresentava per essi il simbolo e il faro dell'antifascismo. Il proponimento si rivelò ambizioso, più che imprudente. Colui che aveva avanzato la proposta e che si assunse l'incarico di condurre gli approcci si trovò di fronte a impreviste difficoltà ... Alla fine, mentre l'attesa di ora in ora era divenuta spasmodica, il nostro intercessore giunse trafelato e affranto in albergo, dove lo aspettavamo pronti a scattare, per comunicarci che il senatore non nutriva alcun desiderio di riceverei. Aveva inteso di noi -gli aveva detto - e non gli eravamo andati a genio. Può darsi che Croce avesse ragione. Ma fu, in ogni caso, un'occasione perduta anche per il suo spirito arguto. Poiché saremmo dovuti andare, una trentina, a rendergli visita a casa sua, in orbace, camicia nera e stivali». Coll'entrata in guerra dell'Italia nel1940 i Littoriali vennero sospesi, e molti dei giovani che vi avevano preso parte su posizioni critiche nei confronti del regime, si sarebbero incontrati di nuovo qualche anno più tardi, nella lotta della Resistenza.
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impero. Le leggi consistono in «atti volitivi che hanno per contenuto una serie o classe di azioni (le prescrizioni) e di reazioni (le sanzioni)». È vero che l'individuo, nella concretezza della vita pratica sempre calata in una situazione ben determinata, non vuole mai una classe di azioni», di per sé astratta e irreale, e sempre le sue volizioni sono atti individuati, singoli e irripetibili, che sfuggono alla previsione della legge; tanto che «l'uomo, che ha la memoria piena di leggi foggiate da lui e da lui accolte, pervenuto al punto dell'operare, fa una grande riverenza alle signore leggi, e si conduce di suo capo».
Ciò non significa però che una società - ed anche lo stesso individuo - possa fare a meno delle leggi. La . .. d loro utilità sta nel fatto che, in quanto schemi Ut11taee 11 1 . leggi general'dll'' 1 e ag1re, esse servono come preparazwne alla volizione reale: come, per prendere la mira, si comincia col mirare la regione dove si trova il punto che si vuol colpire, così, «per volere ed eseguire l'atto singolo giova di solito cominciar dal rivolgersi al generico, di cui quel singolo è caso singolo: rivolgersi, cioè, alla classe di cui quel singolo è componente».
modificato solo a partire dall'esperienza del fascismo e poi, soprattutto, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, facendo sempre più largo spazio al nesso della politica con la vita morale. Era, del resto, la stessa teoria crociana dei «gradi» dello spirito a volere un continuo passaggio dal momento puramente economico a quello morale, e dunque la ricerca di un punto di mediazione tra l'economicità insopprimibile della politica e i più alti valori etici. Già gli Elementi di politica del 1924, l'anno del delitto Matteotti, segnano un passaggio importan- P .. 1 · · dll p rece- etica·· OIIICaed te ne11 a concezwne croc1ana e o. s.tt a o. , d l , d , IOd'lVI'dUl. dentemente, e soprattutto negl1scnttl e peno o e stato bellico, egli aveva frequentemente insistito sul carattere per così dire «trascendente» dello stato rispetto agli individui, quasi questi fossero ridotti alla condizione di chi deve obbedienza e sottomissione, e di questo l'evocazione dell'immagine hobbesiana del Leviatano era potuta sembrare la più eloquente delle conferme. Ora, invece, la tendenza è quella di restituire la vera realtà dello stato agli individui concretamente operanti («lo stato siamo noi»), negando che esso si esaurisca senz'altro nella sua forma giuridico-istituzionale, fino al punto di riconoscere che l'esercizio dell'at-
Al momento dell'agire non ne avremo più bisogno, ma intanto la legge ci è servita come indicazione della direzione in cui guardare per incontrarsi con l'azione utile, che sarà sempre individuata. Quanto alla politica, Croce, sulla scia di una lunga tradizione del pensiero politico italiano, dà Machiavelli a Vico, ne ricerca i principi nella forza e nella volontà di potenza, contro le teorie giusnaturalistiche, ma anche contro la dottrina hegeliana dello «stato etico». La logica originaria cui l'azione politica ubbidisce è di natura premorale, e come tale va accolta, contro ogni idealismo da «anime belle». Gli stati, che .. . sono tra le istituzioni quelle in cui si esprime al La po1ltlca, g1l . , l l' 11 l l' . . ' dl stati, la forza pm a to 1ve o a po 1t1c~ta, sono potenze e tutto terrene perpetuamente m lotta tra loro per la sopravvivenza. Come Croce avrebbe scritto negli anni della prima guerra mondiale, le azioni politiche «non sono faccende private nostre, né trasformabili dal nostro tenero cuore, ma appartengono a quei Leviatani che si chiamano gli Stati, a quei colossali esseri viventi dalle viscere di bronzo, ai quali noi abbiamo il dovere di servire ed obbedire, ed essi da parte loro hanno buone e profonde ragioni di guardarsi in cagnesco, di addentarsi, di sbranarsi, di divorarsi, visto e considerato che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si muoverà sempre, la storia del mondo». Un realismo politico destinato ad attenuarsi
Un così crudo realismo politico, che non di rado assume i toni lucidamente angosciati di un senso tragico dell'accadere storico, avrebbe segnato la riflessione crociana fino, almeno, all'immediato primo dopoguerra, e si sarebbe progressivamente
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Giacomo Matteotti.
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tività politica, nel suo intrecciarsi con le più alte idealità della coscienza morale, può anche in determinate circostanze storiche, svolgersi al di fuori e perfino contro lo stato esistente, che è sempre lo stato-potenza, in nome dello stato-valore morale. Che è un modo assai significativo di dire no allo «stato etico», nel frattempo divenuto espressione ideologica del regime fascista, e alla sua pretesa di esaurire la vita morale nello spazio troppo anguVita morale e sto della vita politica e dello stato. Nel corso di stato: contro lo stato etico questo ripensamento del rapporto tra politica e morale, che peraltro non avrebbe mai rimesso in
discussione l'originaria amoralità della politica e la sua crudele durezza, così Croce giunge ad affermare: «... bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi; cosi fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone».
Ma per comprendere meglio questa evoluzione del concetto dell' «etico-politico», è necessario esaminare il pensiero di Croce in rapporto con le vicende storiche della società e dello stato italiano.
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Età giolittiana, guerra mondiale, fascismo: i conti con la politica a netta distinzione tra conoscenza e azione aveva condotto Croce, da una parte a sostenere la «apoliticità» dell'uomo di pensiero, nel senso che questi non può, in quanto tale, fare direttamente politica, dall'altra a riconoscergli però una propria funzione superiore di guida e di ispirazione nei confronti dell'uomo d'azione e del politico. A questo particolare modo di intendere la collocazione dell'intellettuale, assai congeniale ad una cultura co,. me quella italiana del primo Novecento in cui lmtellettu~l~ e diffusa era l'esigenza di un «partito degli intelletla pohtrca . . tualm (V. CAP. 8, PAR. 2), Croce s1 sarebbe attenuto con coerenza, almeno fino all'avvento del fascismo. Quando nel1903, con la collaborazione di Gentile, dà vita alla sua celebre rivista, La critica, attraverso la quale soprattutto avrebbe esercitato la sua egemonia sulla cultura italiana dei primi decenni del secolo, egli ritiene di aver trovato finalmente un equilibrio nuovo con se medesimo e la realtà. Nel Contributo alla critica di me stesso avrebbe così ricordato questa scelta: « ... nel lavorare alla «Critica» mi si formò la tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me, e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del tutto, come più volte mi era accaduto in passato, innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi».
L'impegno per la «rinascita dell'idealismo» e la battaglia antipositivistica, che preparano il primato culturale crociano lungo il primo quindicennio del secolo, rivelano i tratti conservatori e moderati, «aristocratici», che avrebbero per sempre caratterizzato la sua figura di intellettuale. La rinascita intelletUn .m11 elel!uale le e mora1e che egh· va proponendo, m · po1e. 1arlstoc l1 ra1ICOI> tua , l l l' , d' . d l miCa con a c asse po 1t1ca mgente e tempo, e' da lui stesso destinata a rimanere confinata nell'ambi-
to privilegiato del ceto intellettuale e della classe dirigente. E fortissimo sarebbe sempre rimasto in lui il sentimento della gerarchia sociale e dell'abisso incolmabile che separa l'aristocrazia della cultura, e con essa i ceti superiori, dalla rozzezza della «plebe», destinata, per!' eternità, ad adempiere, come egli scrive nel1914, «i suoi molteplici uffici, tra i quali anche di stimolare ed accrescere, nell'aristocrazia, la coscienza dell'aristocrazia». Per questa sua profonda convinzione antidemocratica e questo modo elitario d'intendere e fare cultura, Croce ebbe indubbiamente una qualche parentela, e una qualche simpatia con quelle tendenze . «idealistiche» e «spiritualistiche» chei «giovanot- 1ra~1!ortr con . deIle nv1ste . . f'1.orentme . d le nvrste tm (V. CAP. 8, PAR. 2) an avano fiorentine ... confusamente diffondendo, segnate da impulsi iconoclastici, antipositivistici e antilluministici, da conati mistici ed estetizzanti, da un vitalismo eroicizzante, da una rivolta contro l'Italia di Giolitti e di Turati. Non mancavano nella filosofia crociana temi e indirizzi che potevano accreditare quella parentela: l'affermazione dell'autonomia dell'arte e del suo carattere intuitivo e prelogico, la riduzione delle scienze naturali ad una funzione pragmatica, la ... alcunle . . . e 1. pnn. parente e ... . contro la ragwne . polem1ca 1.Il um1mst1ca cìpi dell'89, la dichiarazione di morte del socialismo, e ancora l'esaltazione antimoralistica della forza come fondamento del diritto e della politica. Ma è certo, però, che il crocianesimo non avrebbe mai potuto, senza forzature, essere confuso con l'irrazionalismo e l'imperialismo parolaio dei giovani ... e una intellettuali alla Papini: ad impedirlo era la conce- differenza di zione della storia come processo razionale, la ri- fondo vendicazione dello spirito come ragione, nemica sì dell'intelletto astratto di matrice illuministica, ma
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anche della cieca vitalità irrazionale della forza. Croce stesso, dopo alcun tempo di compiacente indulgenza nei confronti di questi «idealisti», fin dal1908, in uno scritto su Un carattere della più recente letteratura italiana, avrebbe rifiutato ogni rapporto con essi, rimproverandoli di avere dato vita ad una «grande industria del vuoto» e di «introdursi nella società di persone ... che hanno purtroppo in comune con essi la parola spirito, ma allo stesso modo che l'hanno in comune coi venditori d'acquavite».
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Ma nonostante questa importante dissociazione, il carattere intimamente conservatore del Croce uomo e filosofo, si sarebbe confermato, lungo tutto l'arco del suo itinerario, del quale ci limitiamo ora ad accennare solo alcuni momenti salienti, dalla polemica antimodernista, all'atteggiamento di fronte alla prima guerra mondiale, e all'esplodere della crisi dello stato liberale col trionfo del fascismo. Nell'infuriare del dibattito intorno al modernismo (V. CAP. 27, PAR. l) e al suo tentativo di conciliare il cristianesimo col pensiero e il mondo moderno, l'atteggiamento di Croce, e non diversamente quello an. che di Gentile, fu di profonda incomprensione e ~a pdole~ 1 ca ostilità. Per ambedue i filosofi idealisti la vera . . ant uno erms 1 a . . e, la f'l 1 osof'1a, mentre la re11g10ne vera e re11g10ne propria sarebbe una specie di filosofia imperfetta, nella quale secondo Croce, il pensiero si mescola col sentimento e la fantasia. Tra filosofia e religione non è possibile, dunque, alcuna confusione, e pertanto la pretesa del modernismo è da considerarsi inammissibile. Ciò che importa mettere in luce di questa posizione di Croce - e di Gentile - è il suo significato conservatore e classista: la filosofia è riservata alla classe intellettuale, mentre la religione- e non l'«ibrido» proposto dai modernisti, bensì la religione del papa e dei vescovi - è destinata alle moltitudini, La filosofia incapaci di innalzarsi altrimenti alla vita spiriper pochi, la religione tuale. Si tratta di una specie di «neo-averper i più roismo», attraverso il quale i due «dioscuri» dell'idealismo italiano mostrano di non pensare ad una riforma morale e intellettuale in grado di coinvolgere l'insieme della società italiana, ma di essere interessati esclusivamente ad egemonizzare il ceto intellettuale, consentendo alla Chiesa cattolica, in cui scorgono un'istituzione eminentemente conservatrice, di mantenere la propria influenza sulle moltitudini. A differenza della gran parte degli intellettuali italiani, non escluso Gentile, Croce assume nel 1914. 15 un'atteggiamento neutralista assai simile a Neutrallsta ... quello del Giolitti, che lo consegna per la prima volta dopo tanti anni alla solitudine e ad una perdita di influenza sul mondo culturale italiano. Ciò non significa che egli abbia rinunciato alla convinzione che la logica della politica, e degli stati,
sia quella della forza e della potenza, ché anzi avrebbe dissentito apertamente dalla propaganda dei paesi dell'Intesa, impegnati a sostenere la superiorità ·:· ma la ~uerra . . . d . f e una az1one de11 a eultura 1.11um1mst1Ca e emocratlca ranco- divina inglese rispetto all'idea dello stato-potenza tipica della tradizione germanica. Della guerra parla come di un' «idea eterna» operante necessariamente nella storia, addirittura come di un accadimento «tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico», mentre, a guerra finita, avrebbe ricordato che le «lotte degli Stati, le guerre, sono azioni divine», che gli individui devono saper accettare. Di fronte ad un conflitto, di cui sarebbe ipocrisia cercare legittimazioni di ordine etico superiore al di là della volontà di potenza dei protagonisti, l'unico spazio di moralità è costituito dal dovere di ognuno dei popoli in guerra tra loro «di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria». Tenendo ben fermo, peraltro, che «sopra il dovere stesso verso la patria, c'è il dovere verso la Verità», che non può essere sottomessa alle convenienze delle parti in conflitto. In sottintesa polemica con quanti tra gli intellettuali europei, da Simmel a Bou- ,. troux da N atorp a Bergson avevano consentito L mtellettuale d' . au dessus de ' . . . , . ''f' .. che la propna att1v1ta scient11ca 1osse con 1z10- la melée nata dalla passione nazionalistica, Croce afferma che l'intellettuale, nell'esercizio dell'attività teoretica e scientifica, deve continuare serenamente nella sua opera restando al di fuori della mischia, «come se la guerra non ci fosse». Ma questa goethiana olimpicità del saggio non sarebbe durata a lungo. La crisi del dopoguerra, il successo del fascismo, e più tardi del nazismo nella Germania dei Kant, dei Goethe e degli Hegel, avrebbero maturato in Croce la consapevolezza; della crisi profonda, della «malattia» che progressivamente si era venuta diffondendo nelle strutture fondative del mondo liberale moderno, e della conseguente Una nuovalezza . . , d' l .. consapevo drammatlca necessita 1 tornare a pensare e 1ondamenta categoriali della propria filosofia e della propria visione della storia. Esito di questa, presa di coscienza, maturata lentamente attraverso gli anni venti e trenta, sarebbe stata nel 1938 la pubblicazione de La storia come pensiero e come azione di cui tratteremo nel paragrafo successivo, un'opera di filosofia che rappresenta la formulazione di una «seconda filosofia dello spirito». Inizialmente, l'atteggiamento crociano di fronte al fascismo, come quello di gran parte della classe politica liberale, era stato di benevolenza e di appoggio, convinto com'egli era che esso fosse una salutare reazione al pericolo che per lo stato liberale era Un'iniziale rappresentato dalla tumultuosa avanzata delle benevolenza classi popolari e dallo spettro del bolscevismo. Una volta che quel periocolo fosse stato sventa-
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to, si dava per certo che il fascismo sarebbe stato facilmente riassorbito nei quadri di uno stato liberale opportunamente ricostituito e rinsaldato. Ancora agli inizi del 1924 Croce diceva che «il cuore del fascismo è l'amore alla patria italiana, è il sentimento della sua salvezza, della salvezza dello Stato». Neppure il delitto Matteotti gli avrebbe impedito di votare, nella sua qualità di senatore del regno, la fiducia al governo Mussolini, dopo che il capo del fascismo aveva dichiarato di voler «tornare alla legalità e alla regola costituzionale». È solo dopo il gennaio 1925, all'annuncio della instaurazione della dittatura, che Croce sarebbe passato all'opposizione antifascista. Egli avrebbe votato contro tutte le leggi liberticide imposte dal regime e . ancora nel 1929, unico in parlamento, avrebbe Il ~ass~gglo tenuto un discorso contro la conciliazione e il all'antifascismo . . concordato con la Ch1esa cattohca. Nel1925 ave-
va steso Una risposta di scrittori, professori e pubblici-
sti italiani, al manifesto degli intellettuali fascisti, composto qualche tempo prima ad opera di Gentile, iscrittosi al partito fascista fin dal 1923. Con questo atto, si consumava la rottura dell'unità del ceto intellettuale italiano che per un quarto di secolo si era raccolto in gran parte intorno ai due filosofi dell'idealismo, e insieme con essa si lacerava definitavamente la lunga amicizia personale tra Croce e Gentile. In realtà i dissensi tra i due si erano pub. blicamente manifestati molti anni prima, fin dal La,rot~u~a. di · dato 1. sempre pm . , d'lver- un am1cllla 19 13, ed avevano nguar genti orientamenti filosofici dell'uno e dell'altro. Ma di questo parleremo trattando del pensiero filosofico gentiliano. Fin d'ora, però, è opportuno anticipare che l'adesione di Gentile al fascismo non appare al suo vecchio amico un mero errore politico, bensì il fatale punto di arrivo dei suoi ben più antichi errori filosofici.
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Verso la «seconda filosofia dello spirito». La stoljia come pensiero e come azione '·~·· n primo riflesso delle drammatiche vicende del
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:·;· dop?g~erra itali,ano s~i comport~menti intell~t,
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:; tuah d1 Croce e da nconoscers1 nella sua pm '· vivace e attenta partecipazione alle vicende po- -: litiche del paese, di cui è già un segnale la sua partecipazione al governo Giolitti del1920-21 in qualità di ministro della pubblica istruzione. Egli era andato convincendosi che la crisi italiana, di cui vedeva quasi esclusivamente gli aspetti istituzionali, avesse la sua origine in una carenza di direzione politica dello stato, e che pertanto la sua soluzione andasse ricercata c.181. in un rinnovamento della classe politica, delle sue rr• del paese idee, della sua eticità. Di qui, sul terreno propriae mnovamento . . . teorico mente teonco, un nuovo modo d1 affrontare 11 rapporto tra politica e morale, di cui abbiamo già detto, e soprattutto l'evoluzione della teoria della storiografia, rispetto alla definizione che ne era stata data nel volume del1917. Si tratta del nascere di un nuovo modo di pensare lo studio della storia, nel quale l'istanza etica assume un rilievo sempre maggiore, e che doveva approdare alla nuova concezione della «storia etico-politica». Le quattro grandi opere storiche date alla luce in questi anni- La storia del regno di Napoli del 1924, La storia dell'età barocca del 1924-28, la Storia d'Italia dal 1817 al 1915 del 1928, e infine la Storia d'Europa nel secolo decimonono del 1932 -, sarebbero state gli splendidi esempi di questa rinnovata storiografia. Ma vediamo di che cosa si tratta. Durante il primo quindicennio del secolo Croce si
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era, in sostanza, sentito debitore nei confronti delle sollecitazioni del materialismo storico e, pur non concedendo nulla all'«economicismo» marxistico, aveva fortemente insistito sul momento economico-utilitario, non solo in sede di filosofia della pratica e di teoria della politica, ma anche nel modo di studiare gli avvenimenti storici. Ora egli si convince che «storia per eccellenza sia solamente quella etica o morale e, in alto senso, politica», storia della vita morale dei popo. li, i cui protagonisti però, egli afferma, conferman- La• ((Ston1~ • 1 . l . . , . l'b l e1ICO-pO IIC811 dos1 ne propno anstocrat1c1smo 1 era -conservatore, sono «i ceti o gruppi che si chiamano dirigenti, e gli individui che si dicono politici e uomini di stato». Non che, in questa storia etico-politica, siano assenti o trascurati gli aspetti attinenti alla vita economico-giuridico-sociale, ma questi vengono ormai presi in considerazione solo nella misura in cui un popolo «li volle o li respinse, li asserì o li abbatté, per un suo ideale etico e seguendo impulsi etici». Questa rmova scelta storiografica era, in fondo, legittimata dalla stessa teoria crociana della contemporaneità della storia: se è vero che lo storico muove sempre dagli interessi e dai problemi civili, morali e politici del presente, allora quale modo di fare . storia del passato poteva darsi diverso da quello Quale_stona . .. . , ll d l ~ . sotto il etlco-po11t1co, m un epoca come que a e 1asc1- fascismo? smo al potere, di perdita della libertà e di conseguente oscuramento della vita etica di un popolo? È noto che libri come la Storia d'Italia e la Storia d'Eu-
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rapa sarebbero stati negli anni trenta e quaranta sostanzioso nutrimento e scuola di libertà e di antifascismo per molte generazioni di giovani studenti e di studiosi. Tra tutti quelli della sua lunga vita, gli anni trenta furono per Croce segnati da un senso di solitudine e da una profonda angoscia esistenziale. Tollerasensazi~~: to dal.regime f~scist~, che per .cale~lata ,d~cisione d'isolamento non gmnse mm ad 1mped1rgh la hberta mtellettuale, sorvegliato per lunghi periodi dalla polizia, egli soffrì nel profondo la crisi generale, morale intellettuale e politica dell'Europa del tempo, ed ebbe, penosa, la percezione di una propria irrimediabile incapacità di agire sul presente: « ... il mio lavoro non si volge più a un mondo presente, in ricambio con esso, ma a un mondo avvenire, che forse s'interesserà di nuovo di certe cose e di certi ordini di concetti. Sicché ogni mio lavoro prende il malinconico aspetto di un testamento».
Questo egli scriveva nel1934. Quattro anni dopo usciva invece La storia come pensiero e come azione, che non era il testamento di un sopravvissuto, ma piuttosto il tentativo, come è stato scritto da Giuseppe Galasso in un recentissimo libro, «di trovare le ragioni di quel che accadeva; di superarle in una proiezione teoretica e storiografica che, senza indulgere a ingenue sicurezze e ingenui ottimismi, ridesse slancio di prospettive nuove agli ideali e ai bisogni morali e civili ora scossi da una crisi così rapida e grave».
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Questo nuovo scritto, insieme con La poesia del 1936, segnava il ritorno di Croce, dopo più di venti anni, alla filosofia, e quindi ad una nuova «sistemazione» del proprio pensiero. La preminenza riconosciuta alla storia etico-politica sopra ogni altra forma di storia speciale, quale quella dell'arte, o della filosofia, o della varia attività economica, richiedeva infatti un ripensamento del vecchio assetto categoriale Una nuova della «filosofia dello spirito» dei primi anni del sistemazione secolo. Allora Croce aveva negato che l'una o della filosofia dello spirito l'altra delle quattro forme dello spirito potesse venir considerata preminente rispetto alle altre, negando che per la dialettica della vita spirituale ci fosse bisogno di una specie di «superforma». Ora, invece, era venuta emergendo la tendenza ad assolutizzare il valore etico, riconosciuto come criterio direttivo della storia, e a fare della morale l'attività che tutte le altre forme dello spirito comprende in sé, reggendole e moderandole in modo da garantire l'unità e l'armonia della vita spirituale. Le linee portanti dello storicismo assoluto delineato in Teoria e storia della storiografia, vengono, certo, confermate: la risoluzione senza residui Tra conferm~t~ della realtà nella storia, la distinzione tra attività novt a teoretica e pratica, il carattere teoretico del giudizio storiografico, e dunque la sua neutralità e impar-
zialità, che esclude approvazioni e condanne e vuole solo comprendere, l'eternità delle categorie e insieme la loro immanenza al flusso perenne della realtà. La novità sta semmai, nel porre al centro dell'attenzione il rapporto tra storiografia e azione pratica, di cui già in Teoria e storia della storiografia si era colta, attraverso il tema della contemporaneità della storia, la circolarità. Questa viene ora accentuata e approfondita, si chiarisce come «il processo dialettico onde il pensiero storico nasce da un travaglio di passione pratica, lo trascende liberandosene nel puro giudizio del vero, e, mercè di questo giudizio, quella passione si converte in risolutezza di azione».
Dall'azione al pensiero, e di nuovo da questo a quella, in una circolarità che rende vano chiedersi quale sia, e se vi sia, un primo cominciamento della vita spirituale. Il discorso crociano si arricchisce poi di connotazioni nuove e originali, come quella della funzione «catartica» della storiografia, senza la quale questa non potrebbe nemmeno fungere da premessa La storiografia tra storia all'azione. Contro l'accusa allo storicismo di in- passata e generare negli animi il fatalismo, la santificazio- storia futura ne del passato, l'accettazione della brutalità del fatto in quanto fatto, Croce afferma che il pensiero storico opera, semmai, proprio nel senso contrario. «Noi- egli scrive- siamo prodotto del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt'intorno ci preme. Come muovere a nuova vita, come creare la nostra nuova azione senza uscire dal passato, senza metterei sopra di esso? Non v'ha che una sola via d'uscita, quella del pensiero».
Esso ci consente di convertire il passato in conoscenza, così ponendo la necessaria premessa per la nostra nuova azione e nuova vita. Insomma, la storiagrafia da una parte ci libera dalla storia passata «scrivere storie, notò una volta Goethe, è un modo di togliersi di sulle spalle il passato» - dall'altra ci avvia alla creazione della storia futura: «solo UJ10 strano oscuramento nelle idee può impedire di scorgere tale ufficio catartico che la storiografia adempie al pari della poesia, questa distogliendoci dalla servitù alla passione, quella dalla servitù al fatto e al passato».
Ma l'innovazione di maggior rilievo è, certamente, la nuova riflessione sulla storia come azione. Se la storia come pensiero è la «historia rerum gestarum», la storia come azione è invece, la storia vivente, la storia nuova che si va facendo, nella quale le categorie «che formavano i giudizi, operano non più come predicati di soggetti, ma come potenze del fare». In . me . pm . , la necess1ta . , carattenstlca . . delle aLaione storta co essa non v1ge «res gestae», il principio hegeliano della raziona- z lità del reale, per il quale ogni cosa accaduta ha in sé la propria ragione che sarebbe vano mettere in discussione, e che è compito dello storiografo comprendere
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per quello che è, bandendo da sé il «ridere» e il «lugere» e così il «detestari». La storia come azione è, al contrario, storia della libertà, affidata alla decisione della volontà. Essa gode si di razionalità, ma, diversamente da quella secondo cui giudichiamo del passato, questa consiste «in ciò che a ciascuno di noi, nelle condizioni determinate in cui è posto, la coscienza morale domanda di fare».
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Non, dunque, la razionalità dell'essere, bensì la razionalità del dover essere, in base alla quale diviene legittimo quello che in sede di storiografia legittimo non era, e cioè la messa in discussione di ciò che è, in . . . vista di ciò che vogliamo che sia, l'opposizione La razlonallta del bene contro il male dell'utile contro il dandover-ess:~~ noso, del bello contro n'brutto, del vero contro il falso, del valore, insomma, contro il disvalore. L'agire nasce, infatti, dallo scontento della situazione in cui ci si trova a vivere e che viviamo come male, e pertanto esso è sempre moralità, e vuole le accettazioni e le ripulse, le lodi e i biasimi, il «ridere», il «lugere», il «detestari». È nel riflettere sulla storia come azione che Croce giunge a modificare sostanzialmente la sua antica dottrina delle categorie, quella che i suoi avversari avevano ironicamente chiamato la «filosofia delle quattro . . parole». Secondo questa la moralità non sarebbe 11 unlal mdod ~ca che una forma tra le altre, collocata in un posto 0 11 de a rma · lare de11' att1v1ta · · ' de11 o spmto, · ' s1cc · he' acdelle categorie partlco canto alle opere di verità, di bellezza, a quelle della pratica utilità, vi sarebbero le «opere buone». Non è così: se moralità ora significa «creazione di nuova vita», secondo quanto cantava Goethe- «Viva chi vita crea» -, e nuova vita la creano, con le loro opere, il poeta come il filosofo, lo storico come l'uomo dedito alle azioni economiche, allora
Fuor di metafora, ciò vuol dire che ognuna delle forme particolari in cui lo spirito, quale organismo vivente, si specifica - l'arte, l'intelletto giudicante, la volontà economica -, «nell'impeto del suo pro1 · r h 'r · · d llmaee pno 1~re c ~ non p_uo 1a~s1. s~nza lmpeto», ten. e ra moralità ad usc1re dm propn confm1, mvadendo lo spazw delle altre, e cosi minacciando di soffocarle, mette a rischio l'unità spirituale e, con questa, anche se stessa. L'estetismo, l'intellettualismo, il vitalismo sono il male torbido e irrazionale che insidia dall'interno, come sua immanente negatività, l'affermarsi dello spirito. La moralità è, allora, «l'azione che mantiene nei loro confini le singole attività, che tutte le eccita ad adempiere unicamente il loro ufficio proprio, che si oppone in tal modo al disgregamento dell'unità spirituale, che garantisce la libertà, ... che fronteggia e combatte il male in tutte le sue forme e gradazioni».
Nonostante sia filtrato attraverso il linguaggio «astratto» della filosofia, non è difficile cogliere di questa pagina il suo riferirsi alla crisi spirituale dell'Europa del tempo, insidiata dal male dell'irrazionalismo vitalistico incarnato agli occhi del filosofo italiano in primo luogo nel regime mussoliniano, ma poi anche nel nazismo tedesco e nel comunismo stacrisi liniano. Proprio in un'epoca in cui il vecchio La spirituale mondo liberale, eredità ottocentesca, sembrava dell'Europa star tramontando nel cielo della civiltà moderna,
«le opere buone, in concreto, non possono essere se non opere di bellezza, di verità, di utilità. E la moralità stessa, per attuarsi praticamente, si fa passione e volontà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l'artista, e lavora con l'agricoltore e con l'operaio, e genera figli ed esercita politica e guerra».
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Aveva ragione Gentile glossando la copia in suo possesso della Storia come pensiero e come azione ad annotare che le quattro categorie si erano ridotte a tre: la moralità ha cessato, infatti di essere 'una' cate• • .. goria, per divenire il criterio che assicura, contro La 11ta: fliU • moraeh · 'd'1a a11' umta · ' de11a v1ta», · l' ar11 male che e, «111Sl e una · l · d 11 · · · l I categoria moma comp ess1va e a v1ta spmtua e. n una pagina giustamente famosa, Croce scrive che l'insidia del male non sorge già da non si sa quale realtà estranea, come nella fantasia mitologica il diavolo dall'inferno, bensì si nasconde all'interno della vita stessa che, nella sua stessa salute porta il pericolo della malattia, nella sua razionalità rinserra e domina l'irrazionale, sempre, una volta vinto, da vincere di nuovo.
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Benedetto Croce con Federico Chabod.
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per l'affermarsi di nuovi «giacobinismi», ben più terribili di quello di un tempo che si appellava all'astratta «umanità», perché impiantati sull'astratta economia e sull'astratta forza politica, Croce intende riaffermare il valore della razionalità, e il principio della libertà in cui quella sommamente si esprime. In uno scritto del1936 così l'aveva riproposto in tutta la sua portata contestatrice: esso «si oppone primamente e direttamente all'oppressione e falsificazione della vita morale, da qualunque parte si eserciti, da assolutisti o da democratici, da capitalisti o da proletari, da czar o da bolscevichi, e sotto qualunque finzione mitica, sia quella della razza ariana sia l'altra della falce e martello».
È all'interno di questa situazione storica di crisi della civiltà europea che Croce innalza la sua teoria della libertà ad una altezza che nei suoi intenti, avrebbe dovuto consentire di dar vita alla «formazione di
una nuova fede religiosa dell'umanità o dei popoli civili», capace di sostituire presso le classi intellet- La religione della libertà tuali e dirigenti, ma in prospettiva anche presso più ampi strati sociali, le vecchie religioni confessionali ormai alloro tramonto. Si tratta della ben nota ideologia crociana della «religione della libertà», attraverso la quale illiberalismo, da dottrina politica particolare, legata ad un particolare ordinamento economico e giuridico storicamente determinato, viene innalzato a valore universale e ideale, e la stessa borghesia, soggetto storico della rivoluzione liberale moderna, e concreta classe sociale, è trasfigurata in un concetto spirituale ed eterno. A rafforzare questa complessa operazione ideologica, Croce sarebbe anche ricorso, in un saggio del 1942, intitolato Perché non possiamo non dirci 'cristiani', alla teorizzazione della rivoluzione liberale come prosecuzione di quella cristiana, la più grande «che l'umanità abbia mai compiuta».
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L'ultimo Croce. I problemi del secondo dopo-guerra. «L'anticristo che è in noh>
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prende parte attivamente ai lavori dell'assemblea costituente, si oppone al governo tripartito di democristiani, socialisti e comunisti, e interviene in . difesa della laicità dello stato, opponendosi alUntmpegno l'' d . d . p .l . 11 . tlolitico diretto mtro uzwne e1 « att1 ateranensm ne a costituzione repubblicana. Presidente del ricostituito partito liberale, egli rimane sostanzialmente legato alla mentalità della vecchia classe politica liberale dello stato prefascista, abituata a distinguere tra liberalismo e democrazia, e a considerare i principi egualitari di quest'ultima quali espressione dell'astratto radicalismo di origine rousseauiana. Nella prefazione ad una nuova edizione della Storia d'Italia, Croce sosteneva nel 194 7 che il fascismo era da considerarsi una «parentesi», chiusa la quale il paese avreobe dovuto riprendere il cammino interrotto nel 1925, quello dello stato liberale erede della tradizione post-risorgimentale. Egli però percepiva, anche, che i partiti popolari, quello cattolico e quelli di ispirazione marxista, erano destinati ad esercitare un'influenza ben più rilevante di quanto fosse loro stato possibile nell'epoca prefascista, costringendo cosi le forze legate alla tradizione liberale a svolgere un ruolo in qualche modo marginale. E d'altronde, sulla scena internazionale, la sconfitta del fascismo e
del nazismo non aveva significato una piena restaurazione dei principi liberali, data la massiccia, invadente presenza dell'Urss e del comunismo internazionale. Si capisce, pertanto, perché quest'ultimo fosse destinato a divenire obbiettivo principale della polemica crociana. Quanto alla riflessione teoretica, il Croce più tardo va concentrando l'attenzione, fin dagli anni della seconda guerra mondiale, intorno al tema della «vitalità», la categoria nella quale viene ora ripensata . h'1ta d'1 s1gm . 'f'1cat1,. la veceh'1a categona . Il.tema ed arncc rt' della 1 1 economica dell'utile. VI a a Per la verità, da sempre Croce aveva sottolineato l'importanza della vita come spontaneità creatrice che sottende la vita spirituale, ma di questa vitalità aveva messo in evidenza l'aspetto luminoso, positivo, che già era stato al centro della riflessione filosofica di Goethe. Ora, la prospettiva si è profondamen- L'~:~!~co te modificata. Le atroci vicende della guerra, il ~~:la vitalità minaccioso clima postbellico della «guerra fredda», hanno messo in evidenza una componente «animalesca», «irrazionale» che opera, con terribile forza distruttiva, nel grembo della storia, e la vitalità si esplica come forza anche disordinata e selvaggia, rivelando, com'è stato detto, accanto a quello goethiano e con esso contrastante, un crudele aspetto biologicodarwiniano. In una serie di saggi degli ultimi anni della sua vita, come La fine della civiltà, L 'anticristo che è in
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SEZIONE SECONDA. SPIRITUALISMO, PRAGMATISMO, NEO-IDEALISMO CAPITOLO 9
noi, ambedue del 1946, Anima e corpo. La forma vitale tra le altre forme spirituali del194 7, e infine in Osservazioni intorno alla dottrina delle categorie, Intorno alla categoria della vitalità, Il peccato originale, tutt'e tre pubblicati nel 1952, Croce affronta, con un senso di crescente drammaticità il tema del rapporto tra vitalità e civiltà, animalità e spiritualità dell'uomo, spingendosi fino sulla soglia, che per altro non avrebbe varcato, di una radicale revisione della propria concezione della storia. Nella vicenda della civiltà egli scopre, con toni che talvolta sembrano richiamare di Freud la riflessione sull'impulso di morte, la presenza immanente di «spiriti inferiori e barbarici che, pur tenuti a freno, sono in ogni società civile, riprendono vigore e, in ultimo, preponderanza e signoria».
Si tratta di quella forza distruttiva che già Machiavelli aveva individuato nella Fortuna che, scrive . . ancora Croce, «interviene quando le piace e LaFVrrtu e strappa le tele tessute dalla Virtù», sicché «le sorIa ortuna . d ll . morale sono sempre m . penco . lo», e ti e a vita sempre in vista il rischio di ricadere nella barbarie primitiva di vichiana memoria. Ma egli avrebbe sempre rifiutato di pensare la «terribile» forza della vitalità come un principio esterno allo spirito, mera naturalità preesistente, che agirebbe sulle forme della vita spirituale, mettendone ' in forse autonomia e libertà. Pur ormai consape.Nes.suna. r~sa vole che la forza oscura, «cruda e verde e selvatirrrazronahstrca ll . , . ., ca>> operante ne a stona, e assai pm potente e minacciosa di quanto consentisse di pensare il suo precedente ottimismo storicistico, egli non recede dal pensarla come essa stessa, pur nella sua elementare primitività, una forma spirituale interagente con le altre, le quali da essa sono sì minacciate ma anche traggono l'energia loro necessaria per operare nel mondo.
Pertanto Croce sarebbe rimasto fedele fino alterb!d miné della vita alla sua idea della circolarità dello spirito, che neppure la aggressiva e prepotente vitalità cc ha il potere di rompere. Mai, dunque, egli avrebbe . Cd ceduto al pensiero, contro il quale certo ebbe dii c rrcol~ . 1 o SJllrl1o . r bru- èeeterno drammatlcamente a combattere, che la 10rza tale della vita potesse prevalere al punto di annientare la civiltà e l'umanità stessa dell'uomo. Se i più alti valori spirituali del bello, del vero e del buono possono pensarsi come se fossero propri di creature angeliche e non di uomini, indipendentemente dalla loro base mondana, dalla corporeità della spinta vitale, questa a sua volta non è separabile da quelli, quasi fosse «bestialità» disumana e preumana. Nello scritto su Il peccato originale così Croce avrebbe detto:
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«Non ci sono prima bestioni selvaggi, e poi uomini forniti di coscienza morale; ma uomini che sono l'uno e l'altro insieme, perché lo spirito è tutto in una volta e non si forma a pezzi».
Impossibile all'uomo è farsi tutto male o tutto bene: «coloro che si propongono questo fine, entrano in un processo di follia perché vorrebbero vivere contro la legge della vita. E questo dell'unità della vita, nel bene e nel male, è il vero 'peccato originale', che non ha redenzione per sangue che si versi dagli dèi o dai figlioli di Dio, almeno nella vita che noi conosciamo e che solo possiamo concepire».
Croce sarebbe morto serenamente la mattina del 20 novembre del 19 52, senza mai aver cessato di lavorare. In una delle sue ultime pagine, così egli aveva lasciato scritto: « ... la vita intera è preparazione alla morte, e non c'è da fare altro fino alla fine che continuarla, attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano. La morte sopravverrà a metterei in riposo, a toglierei dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che cosi interromperei, come noi non possiamo fare altro che !asciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare».
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Capitolo fo-··\ .-.-,j.oF"·,.-;~·§";:CcC;c;ZJ
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Croce
(1866-1952):
uno storicismo tragico
La sua concezione dell'arte, ispirata ai grandi modelli classico-romantici del passato, non consente a Croce di accostarsi in modo aperto alle espressioni di avanguardia della poesia e della letteratura contemporanee, ed in genere alle manifestazioni culturali dell'età della decadenza, in cui anzi egli vede il sopravvento di forze irrazionali e il venir meno di quell'equilibrio e serenità contemplativa da lui considerati caratteri essenziali dell'opera d'arte autentica. Di qui il suo atteggiamento diffidente, che si traduce in una voluta ignoranza o in valutazioni «stroncatorie», nei confronti di autori come Joyce, Kafka, Proust, Rilke, Musi!, e ancora, Mallarmé, Valéry, Pirandello. Un qualche interesse potrebbe avere l'accostamento di questa avversione crociana per la decadenza a quella non meno ferma espressa, da un versante teorico e culturale per tanti versi lontano e opposto, da uno studioso di estetica come il filosofo marxista Giorgy Lukàcs (v. cap. 24 par. 5) che ha in comune con il critico italiano anche il riconoscimento della grande arte narrativa di Thomas Mann. Salvo chiedersi, poi, il perché della condanna che lo stesso Lukàcs, in base al rigido spartiacque tracciato tra razionalismo e irrazionalismo, emette nei confronti anche della filosofia crociana, definita «liberai-reazionaria», e collocata, compresa l'estetica, nel versante irrazionalistico. In contrasto con queste posizioni così intransigenti, si può ricordare l'orientamento ben altrimenti aperto di un altro filosofo marxista tedesco, Ernst Bloch (v. cap. 24 par. 6), formatosi in un ambiente culturale dominato dall'espressionismo e dalle avanguardie letterarie ed artistiche. Egli, in dissenso col dualismo alquanto manicheo di Lukàcs, e invece di atteggiarsi, come Croce, a sentinella arcigna dei vecchi confini della ragione, si sforza sistematicamente di cogliere, nell'«irrazionalità» delle forme artistiche, letterarie e filosofiche della cultura borghese decadente, l'incubazione di una nuova ragione. Chi volesse studiare alcuni aspetti di questa problematica potrebbe vedere: di Croce, riguardanti le sue valutazioni del «decadentismo» italiano, il VI volume della Letteratura della Nuova Italia, Laterza, Bari 1929; di Lukàcs, oltre che la Distruzione della ragione, i Saggi sul realismo, Il significato attuale del realismo critico (tutti in tr. it., nelle ed. Einaudi), Thomas Mann e la tragedia dell'arte moderna (tr. it., Feltrinelli, Milano). Quanto a Bloch, non sono reperibili in traduzione italiana scritti relativi a problemi di estetica e critica letteraria; potrebbe sopperire la lettura di P. Chiarini, Romanticismo e realismo nella letteratura tedesca, Liviana editrice, Padova 1961, particolarmente pp. 113-119, e quella di S. lecchi, Utopia e speranza nel comunismo. Un'interpretazione della prospettiva di Ernst Bloch, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 186-192.
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Capitolo
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Gentile (1875-1944): un filosofo al potere
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«Purus philosophus». Gentile e Croce el pieno della polemica con Gentile, Croce così scriveva nel 1930: «In Italia non vive piu nell'animo degli uomini intelligenti la figura del 'Filosofo', del puro, del sublime 'Filosofo', di colui che, incurioso delle cose piccole, sta intento a risolvere il gran problema, il problema dell'Essere ... da anni e anni seduto al suo tavolino, rimirando il calamaio e domandandosi: Questo calamaio è dentro di me o è fuori di me?»
Attraverso questa satirica raffigurazione Croce voleva colpire dell'idealismo gentiliano l'ispirazione . fondamentale, che, fin dalle prime polemiche Un'ispi~azione pubbliche del 1913 egli aveva creduto di riconoteologrzzante ' . scere, quando aveva accusato 11 suo collega ed amico di tendenze «teologizzanti» e «mistiche», caratteristiche di quello che egli chiamava «purus philosophus». Non c'è motivo di meravigliarsi: un pensatore come Croce, così attento a cogliere e a rispettare nella vita spirituale degli uomini le distinzioni, così esclusivamente interessato alla realtà concreta e particolare dei fatti storici, così alieno dai «massimi problemi» ... della metafisica, che per il fatto stesso di risultare 0 crit'cngrm ~ella insolubili rivelerebbero di essere pseudoprobler a crocrana . . .. f'l f' a Gentile m1, non poteva nconoscers1 m una 1 oso 1a come quella gentiliana, caratterizzata dall'ossessione dell'unità dello spirito, cui vengono sacrificate tutte le opposizioni e le distinzioni della realtà, e che viene intesa, fichtianamente ancor più che hegelianamente, come soggettività assoluta, impegnata eternamente a risolvere in sé il proprio opposto, l'oggetto. Sulla scia dell'insegnamento di Donato Jaja, suo maestro di filosofia all'università di Pisa e a sua volta discepolo di Bertrando Spaventa, Gentile fin dagli esordi della sua riflessione filosofica aveva posto al centro della sua attenzione il problema gnoseologico del rapporto tra pensiero ed essere, soggetto e oggetto,
risolvendo in esso ogni altro problema, e proponendone una soluzione che, in forza della tradizione . idealistica tedesca discendente da Kant ad Hegel, Prrmato del . della problema . eoneludeva ad una nnnovata «metaf'ISica gnoseologico mente», di ascendenza spaventiana. Ed era, per l'appunto, all'influenza di Spaventa che Croce attribuiva l'inclinazione teologizzante dell'idealismo gentiliano, di quello Spaventa «che, venuto fuori dal seminario e dalla teologia, fu esclusivamente divorato dall'ansia religiosa dell'unità e rimase chiuso ad ogni altro interesse; tanto che lasciò cadere tutto il ricco contenuto del sistema hegeliano, e si restrinse a meditare, e quasi ad arzigogolare, sulle prime categorie della Logica e sulla relazione di Pensiero ed Essere».
In nome del principio idealistico della creatività dello spirito, Gentile aveva presto preso le distanze da Croce, rifiutando la distinzione tra conoscere ed agire, ammissibile ai suoi occhi solo da chi fosse ancora fermo a concezioni naturalistiche, che rifiutano di risolvere la realtà oggettiva nella attività creatrice dello spirito. Solo in questo caso sarebbe sostenibile distinguere tra un'attività teoretica che prende Contro la · come g1à · data, e l' a- distinzione atto d1· una realta, concepita crociana tra gire, con cui questa realtà viene da noi modifica- conoscere e ta. Ma chi, come l'idealista, abbia risolto nello fare spirito ogni altra realtà, come potrebbe non riconoscere nel pensare, ossia nell'attività con cui il soggetto pone contro a sé il proprio oggetto e in sé sempre lo risolve, il vero fare, l'autentico agire spirituale? Teoria e prassi si identificano dunque nell'unità dell'atto spirituale, con il quale l'io si pone come principio assoluto che nulla presuppone e tutto crea. In questa identificazione di conoscere e agire Croce avrebbe visto il segno del carattere irrazionalistico dell'idealismo gentiliano - « ... il vostro atto puro che voi chiamate Pensiero si potrebbe del Gentile: un . ' volonta' ... » -, irrazionalista? pan. 'h' c 1amarlo v·1ta, sentlmento,
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PARTE PRIMA TRA REAZIONE ANTIPOSITIVISTICA ED INIZI DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
che ne farebbe l'espre~sione più appropriat~ di .quell'attivismo vitalistico d1f~uso nella cultur~ 1tah~na ~el primo Novecent~, destmato. a trovare pm tard1 n~ll adesione di tanti mtellettuah e dello stesso Gentile al fascismo il suo fatale punto d'approdo. Del ~apporto della filosofia gentiliana col fascismo diremo successivamente. Per i!ltanto voglian;o m~_ttere in chiaro che le div~rgenze fra 1due esponent~ dell ~de~ lismo italiano vemvano da lontano: esse, mfattl, discendevano dalle d.iv~rse richieste c~e fi~ dall'inizio ognuno di ess1 nvolgeva alla filosofia. Ad essa Due diversi Croce era pervenuto, come s'è visto, per dare modi chiarimento e sistemazione ai fatti e ai problemi d'intendere il concreti degli uomini; al contrario Gentile dalla compito della d n f l t' 'l filosofia... filosofia era n~to,de a una 1 osod~a ~pe ?u a 1va! 1 cui problema ton amenta1e era 1nsa1 ue a1pnncipio assoluto, incondizionato del mondo. Mentre la definizione crociana della filo~o~ia ?ome ~etodolog~a della storia presupponeva l~ d1.stmzwn~ ~l a~tono~1a da essa delle diverse espresswm dello ~p.mto,, m Gent1le la filosofia, in quanto processo metaf1s1co d1 autocreazione dello spirito, .fi.niv~ col risolv~re in sé tutta la realtà costituendosi m sistema totahzzante, secondo l'im~agine classica del filosofare come ascesa verso l'unità. Questa così diversa mani~ra d'inte~dere l'uffici.o della filosofia emerge con partiColare evidenza nel diverso modo di apprezzare l'esperienza religiosa. Mentre Croce nega che la religione costituisca un momento distinto ed autonomo dell'attività spirituale, e se introduce nella propria visione della stori~ ~n>ntonaz~o.ne religiosa, ciò fa solo attraverso una lmclSSima «rehgwne della libertà», priva di ogni intonazione mistica ... edella e di ogni rilevanza propriamente teologica, Gentireligione le al contrario, riconosce, come vedremo, nella religio~e un ~om~nto eterno del processo spiritual~; di essa privilegia, pmtto~to c~e ~a compo ~ente et~ca, quella mistica e teologica, e mfme carattenzza la filosofia come essa stessa intrinsecamente religiosa, in quanto in essa, sintesi di particolare e universale, Dio si fa umano e l'uomo si fa divino. A Croce che gli rimprovera di aver dato vita ad una filosofia teologizzante «ancora tutta presa» - è lo stesso Gentile ,a scriverlo - «dal pensiero di Dio; di un Dio battezzato diversamente, ma che è pur sempre Dio, che riempiva il cervello dei teologi, e ne scacciava ogni altro pensiero», egli risponde:
A proposito di etichette: fuorviante può essere quella che accomuna i due filosofi italiani sotto la medesima denominazione di «idealisti neo-hegeliani». Non solo perché di Hegel, a guardar bene, . . rimane assai poco sia nello storicismo crociano - Filosofi · . - che nell' «l.deahsmo . e lo abb1amo v1sto attuale» neo-hegeliani? di Gentile - e tra poco lo vedremo -, ma anche perché l'idealismo dell'uno è così distante dall'idealismo dell'altro che, anche quando sembra che vogliano dire la medesima cosa, in realtà ubbidiscono ad esigenze e prospettive diverse. Si tratta in effetti, di atteggiamenti culturali profondamente dissimili: Croce è, nella sostanza, nonostante tutte le polemiche antilluministiche, rappresentante di un razionalismo mondano che all'illuminismo è ancora, sia pur genericamente, legato, e, per la distinzione ben ferma tra teoria e prassi, vorreb- . . be mantenere il discorso filosofico al di sopra dei f'llosofm e contrasti e della propaganda politica. Al contra- propaganda rio Gentile: per il fatto stesso di identificare praxis e pensiero, egli si fa portatore di un messaggio filosofico ispirato ad uno spirito missionario e pedagogico e anche un po' fanatico, che preme per tradursi in un programma di azione, e che ricorda l'idealismo etico di Fichte, ma insieme anche il profetismo filosoficopolitico di Gioberti.
«Filosofia, dunque, teologizzante? E perché no?... se teologizzare dovrà dirsi parlare comunque di Dio, non sarà poi un gran male, considerato c~e Dio,_ più che il pe~sier~ dei teologi è anche e soprattutto 1! pens1ero costante d1 ogm uomo che 'non si trastul~i c?n gi~?c.hi dell'intel~ige.nza, ma viva seriamente la sua v1ta m cu1 e Impegnato l umverso, e che gli fa sentire perciò il peso di una divina responsabilità. Del resto, che ?ontano i ~orni, le ~tichet~e, le ca!att,eristiche? L'importante e pensare:. to fronem. arete megh1ste (pensare è la virtù più grande), d1ceva Erachto».
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Rosario Garibaldi Bosco fondatore del Fascio di Palermo.
SEZIONE SECONDA. SPIRITUALISMO, PRAGMATISMO, NEO-IDEALISMO CAPITOLO lO
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La formazione di Gentile e la «rinascita dell'idealismo»
[~1 ~.
iovanni Gentile era nato nel 1875 a Castelve-~--J?_• t~an?, u~ paese d~lla Sicilia occ~d~ntal~ i~ pro}?- vmc1a d1 Trapam, da una fam1gha d1 p1ccola -; borghesia professionistica - il padre faceva il . ' ) farmacista -, che versava in non tranquille condizioni economiche, anche perché assai numerosa - Giovanni ebbe sei fratelli e tre sorelle. Compiuti gli . . . studi primari e ginnasiali a Campobello di Maza0811118 Stcthla ra e a Castelvetrano, il futuro filosofo, licenziatoa a discuo · d'1 Trapam,· usc1' ne l 1893 dal rmale Pisaa s1· a11'1ceo class1co no chiuso ambiente della provincia siciliana ed entrò alla scuola normale di Pisa, dove si era iscritto alla facoltà di lettere e filosofia. Nonostante che proprio nell'anno della sua partenza la Sicilia fosse incendiata dai moti dei Fasci, repressi dall'intervento dell'esercito coi metodi dello stato d'assedio, Gentile non mostrò mai, neppure successivamente, alcun interesse per il problema siciliano, segno di insensibilità per i problemi sociali e di un conservatorismo politico tipico dell'ambiente dei notabili di paese, in cui era cresciuto. A Pisa egli ebbe due maestri che incisero profondamente sulla sua formazione: l'italianista Alessandro D'Ancona, seguace della scuola storiografica positivi,. . stica, che lo educò ai severi studi filologici, e il 1 Ltnlluenza ~ filosofo Donato Jaja, discepolo di Spaventa e ultiJaJa mo superstite dell'hegelismo italiano dell'Ottocento. L'influenza di quest'ultimo fu decisiva per il futuro del giovane studente, che presto avrebbe deciso di dedicarsi interamente agli studi filosofici. Tra il 1897 e il 1900 vengono manifestandosi le diverse direzioni degli interessi di Gentile: dai problemi della storia e dell'arte, cui lo sollecitano i primi scritti filosofici di Croce, ai problemi della scuola e dell'educazione, dei quali fa diretta esperienza con l'inizio dell'insegnamento liceale della filosofia Gli studi sulla prima a Campobasso e, dal1900, a Napoli. Ma gli filosofia italiana e su studi che dovevano decidere dei suoi orientamenti Marx culturali, e stanno all'origine del suo idealismo filosofico sono, da una parte quelli dedicati alla filosofia italiana del risorgimento, in particolare aRosmini e Gioberti, e più in generale alla storia della filosofia italiana dall'età di Vico fino a Spaventa, dall'altra quelli rivolti al materialismo storico e alla filosofia di Marx. È stato giustamente detto in un recente saggio di Del Noce sulla filosofia gentiliana, che tra la tesi di u . - laurea del 1897, pubblicata l'anno successivo col ~~~g~lare titolo diRosmini e Gioberti, e i due scritti su Marx, ceto... Una critica del materialismo storico del1897 e La filosofia della prassi del 1899, pubblicati sulla scia degli studi marxistici di Croce, vi sarebbe una sottile
connessione ed un intreccio assai significativo: con questi scritti Gentile avrebbe infatti voluto mostrare che l'inveramento che la filosofia marxiana richiederebbe per essere liberata dalle sue contraddizioni, sarebbe rappresentato da quella rinascita dello spiritualismo e dell'idealismo verificatasi nell'età risorgimentale con le filosofie di Rosmini e Gioberti, e rinnovatasi successivamente con l'hegelismo di Spaventa e di Jaja, di cui Gentile si sente ora illegittimo erede. Come dire che al rovesciamento operato da Marx dell'idealismo hegeliano dovrebbe ora seguire il rovesciamento, di nuovo in senso idealistico, di quel rovesciamento, non per tornare ad Hegel qual era, ma per «inve- ... e il rovesciamento rarlo» a sua volta, anche col contributo della «filo- di un sofia della prassi» di Marx, nel nuovo idealismo rovesciamento gentiliano. Ma vediamo più da vicino questa elaborazione giovanile, cosi decisiva per le origini dell' «attualismo» idealistico di Gentile. In disaccordo con Croce che aveva negato portata filosofica al marxismo e ridotto il materialismo storico a semplice canone empirico di interpretazione storica, Gentile riconosce al materialismo storico dignità di filosofia della storia e, soprattutto, sottolinea l'importanza del concetto di «praxis», formulato da ~~~:~~~ca del Marx nelle Note a Feuerbach del1845. Giustamen- materialismo te, egli dice, in esse viene rivendicato, contro il storico materialismo settecentesco e dello stesso Feuerbach, il carattere attivo, produttivo del rapporto tra soggetto e oggetto, tra uomo e realtà. Questa non è un dato precostituito, che il soggetto dovrebbe limitarsi a registrare, riducendosi a mera intuizione contemplativa di esso, ma è al contrario un prodotto dell'attività umana stessa, della «praxis» intesa come soggettività. In realtà Gentile, a differenza di Croce che quantomeno aveva sentito la suggestione del Marx socialista e rivoluzionario, è del tutto estraneo alla problematica di Marx, tant'è vero che assume il concetto marxiano di praxis in un significato completamente diverso da quello suo proprio, tutto interno alla problema- 1~"1 M.ar~ 1 1 . d'1un 1'dea11smo . . che f a pensare a te 11amzza o tlca gnoseo loglCo Fichte, inteso com'è a sottolineare il carattere creativo del conoscere nei confronti del proprio oggetto. Marx non avrebbe dunque fatto altro che rivendicare, contro il materialismo del passato, la verità di quel principio che da sempre l'idealismo aveva sostenuto, secondo il quale conoscere e fare coincidono, nel senso che «quando si conosce, si costruisce, si fa l'oggetto, e quando si fa o si costruisce un oggetto, lo si conosce; sicché l'oggetto è un prodotto del soggetto».
Semmai la contraddizione che insidia la «filosofia della prassi» di Marx è quella di aver creduto di
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poter conciliare l'idea della prassi col mantenimento di una concezione materialistica che, in qualunque modo venga pensata, è con essa del tutto inconciUJ Lad.c~ntradd: liabile. Il materialismo storico non solo riduce la CJ IZIOne l . , . . , 'b'l Marx prax1s umana a mera «att1v1ta sens1 1 e», come dire ad «attività materiale», concetto intrinsecamente contradittorio, essendo l'idea di materia inseparabile da quella di passività, ma insieme pretende di attribuire alla materia i caratteri della storia, aggravando ancor più le proprie contraddizioni. Se «inverare» Marx significa dunque liberare il suo storicismo e la sua filosofia della prassi dal materialismo, restituendoli alloro significato originaria. . No al mente idealistico, allora a qùesto deve seguire anmatena 11smo e h l . . ll . ll' 'd d' alla rivoluzione c e a nnunc1a a a prospett1va e a 1 ea stessa 1 rivoluzione. La rivoluzione, infatti, non è compatibile con l'idea della realtà come storicità: essa è UJ ......1
!2:
«una negazione della storia, un negar valore a ciò che la storia ha consacrato come naturale movimento e sviluppo della società umana»;
essa tratta, scrive ancora Gentile, «i fatti storici come modificazioni accidentali - e quindi mutabili ad arbitrio- della natura, perennemente identica a se stessa». Non per caso, la rivoluzione per eccellenza, quella francese della fine del XVIII secolo, era stata preparata dalle dottrine materialistiche settecentesche, impermeabili con il loro meccanicismo, ad ogni idea della realtà come storia. Al pensiero rivoluzionario di Marx e al valore ideale della rivoluzione dell'89, Gentile viene contrap. ponendo rispettivamente lo spiritualismo di Ro51 .. . allo smini e Gioberti, inteso, spaventianamente, come spm1ua 1lsmo e . 'l d 11' 'd l' d' K d' al risorgimento npresa e sv1 uppo e 1 ea 1smo 1 ant e 1 Hegel, e l'idea del risorgimento quale autentico punto di riferimento della rinascita idealistica che, a sua volta, ora egli intende promuovere. Nel Rosmini e Gioberti egli sostiene che, chiusasi con l'età della restaurazione l'epoca dell'influenza politica e culturale francese, in Italia vanno sorgendo una nuova letteratura e una nuova filosofia che, connesse tra loro, avrebbero riaffermato i principi dello Contro spiritualismo e dell'idealismo in forte polemica l'illuminismo, sì alla tradizione col sensismo e col materialismo della cultura illustorica ministica francesizzante. Questa nuova cultura non poteva non significare; in polemica con lo spirito laico e antistorico dell'illuminismo, la rinascita del bisogno di concepire religiosamente la vita, e quindi il ritorno a quella concreta religiosità storica che l'illuminismo aveva demolito, e cioè la tradizione cattolica. Gentile, che, come vedremo, si sarebbe dichiarato, laicism~,0~ì1 ~ 1 ~ ancora alla vigilia della morte, filosofo a suo modo tradizione «cattolico», valorizza, differenziandosi nettamenreligiosa te dallaicismo di Spaventa, questa rinascita religiosa, storicamente necessaria a sconfiggere il sensismo materialistico ed ateo e a riaffermare, contro i
meccanismi in cui quest'ultimo lo imprigionava, la libertà e la realtà dello spirito. Con la medesima convinzione egli si identifica col liberalismo politico risorgimentale che contrassegna questa restaurazione spiritualistica e religiosa e la distingue da quella reazionaria del Metternich: è un liberalismo, certo, assai diverso da quello che s'ispirava ai principi dell'89, del tutto risolto com'è nella u 1.b . · d'1cazwne · della l'b n 1 erahsmo nven 1 erta' e dell''md'1pendenza estraneo a· della nazione italiana. Di questa sostanza roman- principi de;1,89 ti ca e nazionalistica del principio di libertà Gentile avrebbe nutrito anche in seguito il proprio liberalismo di stampo conservatore del quale, una volta completatolo con la dottrina dello «stato etico», non avrebbe avuto difficoltà nel 1923 a riconoscere nel fascismo, visto come ripresa e compimento del risorgimento nazionale, illegittimo erede e prosecutore. All'interno di questo inquadramento storico del pensiero italiano nell'età della restaurazione, Gentile propone la propria interpretazione della filosofia R .. 0a osmm1 e · · e d'1 G'10bert1.· Nonostante 1'l res1'duo Giobmf d1. Rosm1m a 1 platonizzante, presente in ambedue, della dottrina Gentile dell'intuito, che avrebbe dovuto, ai loro occhi, garantire la trascendenza dell'essere da ogni tentazione soggettivistica, i due filosofi italiani, ricondotti rispette, come già aveva suggerito Spaventa, a Kant e ad Hegel, rappresenterebbero nel loro stesso contrasto il
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•Y~!ll.l$1ltlin'TT~fi'.U.U! !lt»>>.toll'lo nfenmento, nspettandone l oggett1v1ta. Analogamente a quanto veniva argomentando negli stessi anni Boutroux (v. CAP. 4, PAR. 2) sul terreno filosofico, Poincaré si sforza di conciliare il riconoscimento della
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importanza del pensiero di Mach non si esaurisce nel campo dell'epistemologia; esso incide anche sulla formazione della cultura e della sensibilità mitteleuropea moderna, come testimonia in particolare l'opera del più grande scrittore austriaco dell'epoca, Robert Musil (1880-1942), autore di romanzi come l turbamenti del giovane Torless e L 'uomo senza qualità. Musil non si limita a dedicare nel 1908 allo scienziato e filosofo «viennese» la sua tesi di laurea - Contributo ad un giudizio sulle dottrine di Mach -, ma utilizza le tesi epistemologiche machiane, debitamente incrociate con altre influenze, quali, tra le altre, quella di Wundt (v. cap. 21 *• par. 3) e, soprattutto di
Nietzsche -, per costruire personaggi e vicende dei suoi romanzi e novelle. Se a Nietzsche egli deve, oltre che l'arte del «vivisezionare le anime», l'apprendimento degli strumenti necessari per la critica della cultura e della società nella prospettiva di una rifondazione dei valori, da Mach trae la messa in discussione del concetto di causalità, la riduzione del mondo a sensazioni, la desostanzializzazione delle cose e dell'io, la riduzione della distinzione tra fisica e psicologia, l'idea della scienza come strumento di adattamento dell'io al mondo. Elementi, tutti questi, che si ritrovano nella narrativa di Musil sotto forma di predominio di un mondo di immagini e di stati d'animo
SEZIONE PRIMA. FILOSOFIA ED EPISTEMOLOGIA CAPITOLO 11
convenzionale -, ma entro precisi limiti, che lasciano posto all'indagine metascientifica della filosofia. La scienza, dice Poincaré, si occupa solo delle relazioni . .. tra le cose, e non della loro realtà in se stessa 1 Un dl11 ICte · sc1entl1Ca . 'f' preromesso cons1'd erata: «quan do una teana comp d . . h . 'l l ten a msegnarc1 c e cosa s1a 1 ca ore, e' condannata». Pur mostrandosi spesso sospettoso, e persino
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avverso, alle tendenze antiintellettualistiche caratteristiche della «moda» filosofica francese del primo Novecento, Poincaré finiva col lasciar loro spazio, e col riconoscerne di fatto la legittimità, concorrendo, suo malgrado, e al di là delle sue effettive convinzioni, ad accreditare le interpretazioni convenzionalistiche del pensiero scientifico più estreme.
che si avvicendano in modo svincolato dall'oggettiva concatenazione dei fatti, di frantumazione dell'unità del personaggio nei singoli elementi psichici, di convincimento che la storia come adattamento ai fatti sia un prodotto del caso, di irrisione della presunta concatenazione causale necessaria degli eventi. E cosi come Mach insegnava che compito della scienza è quello di risalire, attraverso il procedimento induttivo fondato sul confronto, a leggi naturali nelle quali i dati particolari vengono schematizzati in una tipologia generale, analogamente nell'arte letteraria di Musil si astrae dalla vicenda del singolo individuo per descrivere piuttosto il comportamento possibile dell'uomo considerato come genere. Mach ha rappresentato per Musil il richiamo a tener ferma la componente teoretica e razionale dell'uomo, ad equilibrare quella opposta, che gli proponevano Nietzsche e il poeta-filosofo Maurice Maeterlinck. In un saggio scritto non molto tempo dopo la dissertazione su Mach, Note sull'appercettore e simili, lo scrittore austriaco insisteva sul dualismo tra intelletto e sentimento che scinde l'uomo interiormente; rifacendosi ad un tema
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caratteristico della psicologia di Wundt, egli trattava della appercezione, ossia della consapevolezza che l'io ha del mondo delle sensazioni, cui si accompagnerebbe, quale sorta di «secondo io» in difficile equilibrio con l'altro, un fattore emozionale destinato a favorire l'armonia ed il reciproco adattamento tra io e mondo. Un adattamento, peraltro, sempre precario e difficile, giacché l'appercezione, mediante la quale ci impadroniamo percettivamente ed intellettualmente del mondo, tende a funzionare separatamente dal fattore emozionale, come quando accade che non si provi alcun sentimento per i contenuti percettivi, o siano le nostre stesse emozioni ad apparirci estranee, ridotte ad essere oggetto d'una coscienza puramente intellettuale. E allora, rottosi l'equilibrio tra mondo esterno e mondo interiore, interviene quel disadattamento che provoca il disorientamento dell'individuo nel mondo, il dissolversi della sua individualità. Come si vede, Mach non solo occupa un posto di rilievo nella storia dell'epistemologia contemporanea, ma giuoca un suo ruolo anche nell'annunciarsi della crisi esistenziale dell'uomo del XX secolo.
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P ARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
L'empiriocriticismo tra discorso filosofico (Avenarius, 1843-1896) e discorso scientifico (Mach, 1838-1916) ·~"''c empiriocriticismo r~ppresenta.. un mom~nto
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importante n.ella ston~ della cntlca della scten~ za e della eptstemologta tra Ottocento e Noye. cento. Si è talvolta contestata la consu~tudme 1 di ricondurre a questo indirizzo di penstero sia la filosofia di Aven~rius, cui ri~al~ l'~so del terJ?ine, sia l'epistemologia dt Ma?h. Not.ntemamo c?e s1 possano mantenere co~nesst ~uesh. ~ue .a~t?r~ sotto la comune denominazwne dt empmocntlctstt, date le indubbie affinità ~el discorso che a~be~ue co~duco no intorno alla sctenza, a patto pero dt sottohneare con chiarezza la diversità de~le pr?spettiye in cui essi si collocano, e del· terreno m cm esercttano la loro competenza. Richard Avenarius - che era nato a Parigi da genitori tedeschi nel 1843, aveva insegnato a Lipsia nel1876 e dal1877 alla morte, nel 1896, era stato professore di filoso~ia induttiva a. Zurigo - fu Avenarius: un essenzialmente un ftlosofo. Se egh conduce un filosolo discorso critico intorno al pensiero scientifico, è al fine di stabilire una nuova filosofia, libera dai pregiudizi metafisici che; nonostante, t?~ anche a causa, del positivismo, contmuano a condlZlona~la. . Ernst Mach - che era nato a Turas, m Moravta, nel1838, e aveva stud~ato a Vi~nna, dove dal1895 al 1901 dopo lunghi anm trascorst a Praga come profes~ore di fisica sperimentale, avrebbe insegnato Mach: prima di storia e teoria delle scienze induttive - fu, invece, t~tto ~1110 prima di tutto uno scienziato, interessato sì alla screnzrato filosofia, ma non per costruire un sistema filosofico, bensì per pur~ficar~ la s?ienza ~a quei pregiu~i~i che proprio dalla ftlosofta onentata m senso metaftstco provengono. . . . . Prima di esammare tllavoro eptstemologtco machiana, diamo un rapido sguardo alla filosofia di AveJ.·.
narius. . a11a f'l1 oso f'ta, e, Jl compito che quest1. attn'b msce di risalire all'esperienza nella sua originarietà, liberandola dall'occultamento che il pensiero comune e lo stesso pensiero scientifico e filosofico ne compiono: il termine di empiriocrit.icismo a~ottat~ da J:venarius per designare la propna concezwne ftlosoftca, vuole appunto mettere in evidenza questo lavoro di Avenarìus e rielaborazione critica da affidarsi alla filosofia. l'esperienza La distinzione tra psichico e fisico, soggetto ed pura oggetto, interno ed esterno, spirito e materia, così ovvia per il pensiero comune ed oggetto di sempre ripetuti tentativi di riduzione da parte delle filosofie metafisiche, tradizionalmente contrapposte in filosofie materialistiche e filosofie spiritualistiche, non appartiene all'«esperienza pura», come Avenarius chia-
ma l'esperienza originaria, bensì sopravviene in virtù di un processo che egli chiama «introiezìone». Per esso l'esperienza viene come duplicata in due serie l'una all'altra contrapposte: da una parte le cose, dall'al- L'' . . . . delle cose, le pnme . tra le percezwm esterne mtr01ezrone alla coscienza, le seconde a questa appartenenti. Una cosiffatta fittizia interiorizzazione della realtà solleva tutti i mille falsi problemi tra i quali sempre si è dibattuta la metafisica, e dai quali neppure il positivismo, pur avverso ad essa, è riuscito a liberarsi. L'empiriocriticismo si propone appunto come un inveramento del positivismo, una filosofia capace di darsi il rigore scientifico che sempre le ha fatto difetto. L'esperienza pura è costituita da «fatti» in cui individuo e ambiente sono indiscernibilmente connessi e interagiscono tra loro, in una unità che si radica nei processi biologici dell'adattamento dell'or- E . . . . lementr e gamsmo all' amb'tente. In questo «dato» ongmacaratteri rio sono distinguibili - ma non separabili -, da una parte gli «elementi» o sensazioni propriamente dette- freddo, caldo, dolce, amaro, verde, rosso, e così via -, dall'altra i «caratteri», o relazioni tra l'io e l'ambiente -piacevole, spiacevole, bello, brutto, medesimo, altro, ecc. Al di fuori di elementi e caratteri non c'è niente di reale: tutto il resto, è prodotto artificioso delle categorizzazioni del pensiero metafisica. Ciò che rende interessante la riflessione di Avenarius dal punto di vista della critica della scienza, è per l'appunto, la sua interpretazione biologica, sullo sfondo dell'evoluzionismo darwiniano, dell'esperienza e delle stesse operazioni del pensiero scientifico. Nello scritto del 1876, Filosofia come pensiero del mondo secondo il principio del minimo dispendio Una
di forza. Prolegomeni ad una critica dell'esperienza pura, di cui le opere successive- Critica dell'esperienza pura del 1889-90 e Il concetto umano del mondo del1891 - rappresentano una più ma-
spiegazione biologica dell'esperienza
tura elaborazione, egli sostiene che le concettualizzazioni che lo scienziato formula dell'esperienza, elaborandola e schematizzandola, obbediscono, non ad una esigenza di ricerca della verità, bensì al bisogno di dominare meglio la realtà, e così favorire un più efficace adattamento dell'organismo all'ambiente. Di qui un'interpretazione «economica» della scienza, sulla base del «principio del minimo dispendio di forza», che richiama l'analoga conclusione cui, per altre vie, giungeva lo stesso Mach, nel medesimo giro di anni. La formazione scientifica origin~ria di Ma- M h· rdi ~> . , . 'd ac . eso ch era stata contorme al pm ng1 o sehema mec- meccanicistici canicistico, ancora imperante tra gli scienziati
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degli ultimi decenni dell'Ottocento. Incaricato nel 1861 di tenere a Vienna un corso di fisica per medici, egli si era sforzato, sulle orme di Helmholtz, di applicare anche ai fenomeni fisiologici gli schemi interpretativi della meccanica, ma furono proprio le difficoltà a . . procedere in questa direzione a costituire il primo 1510118 La r~~ segnale della necessità di procedere ad una revicnticadel . .. dl · · Al ·t 1 meccanicismo sto ne c~1t1ca e meccanf1c1smo.. tr~ spm e a avorare m questo senso urono, m pnmo 1uogo 1o studio della termodinamica, ma anche l'interesse per la considerazione storica dei concetti scientifici, che aiutò Mach a rendersi conto della relatività delle interpretazioni scientifiche dei fenomeni. In uno scritto del 1883 egli avrebbe riconosciuto che «la ricerca storica sullo svolgimento avuto da una scienza è indispensabile, se non si vuole che i principi che essa abbraccia degenerino a poco a poco in un sistema di prescrizioni capite solo a metà, o addirittura in un sistema di dogmi. L'indagine storica non solo fa comprendere meglio lo stato attuale della scienza, ma, mostrando come essa sia in parte 'convenzionale' e 'accidentale', apre la strada al nuovo».
L'incontro con le opere di Darwin offrì infine a Mach l'opportunità di riflettere sulla funzione biologica della conoscenza, e sull'esistenza di una contiL'incontro c~n nuità tra istinto e intelligenza, quali strumenti, Darwin ambedue, dell'adattamento del vivente all'ambiente. Frutto della revisione in senso antimeccanicistico della fisica moderna e della ricerca scientifica in genere è lo scritto del 1883, La meccanica esposta nel .. suo sviluppo storico-critico, nel quale vengono sotC~Itica ~el toposti a critica i principi newtoniani della dinanewtomanesnno . mtea, del. quah· s1• nega la pretesa d·1 va1ere come verità assolute. In particolare Mach rifiuta l'assolutizzazione dei concetti di spazio, tempo e movimento, ponendo alcune premesse della teoria della relatività di Einstein che, peraltro, avrebbe a suo tempo, paradossalmente, respinta. Convintosi dell'impossibilità di continuare a proporre la meccanica come fondamento di ogni altra branca della scienza, egli vien maturando quell'interpretazione «economica» del sapere scientifico che sarebbe apparso il suo più importante contributo all'epistemologia moderna. Funzione della scienza è quelL'' la di elaborare princìpi e metodi che, permettenInterpretazi~ne do «di descrivere in una sola volta e nel modo più economica . • d' ., . . d' . della scienza breve 11 maggwr numero 1 1att1», c1 .1spensmo dal ricorrere a sempre nuove espenenze, facendoci così risparmiare lavoro. Alla ricchezza inesauribile e mobile dell'esperienza la scienza ci consente di sostituire i suoi schemi costanti che non riproducono mai i fatti nella loro completezza ma
In particolare, «compito della scienza è ricercare ciò che è costante nei fenomeni naturali, gli elementi di questi, il modo del loro rapporto e la loro reciproca dipendenza».
Facendo questo, la scienza adempie al proprio scopo: «... sostituire, ossia economizzare esperienze mediante la riproduzione e l'anticipazione di fatti nel pensiero. Queste riproduzioni sono più maneggevoli dell'esperienza diretta e sotto certi aspetti la sostituiscono».
In termini di evoluzionismo biologico, ciò significa che la scienza ha consentito di «rimpiazzare l'adattamento esitante ed inconsapevole con un adattamento metodico più rapido e chiaramente consapevole». Conclude Mach: «Non occorrono riflessioni molto profonde per renderei conto che la funzione economica della scienza coincide con la sua essenza».
L'ampio riconoscimento del carattere economico dei concetti scientifici e del peso, nella loro formulazione, degli interessi e dei punti di vista soggettivi, non significa peraltro che nelle elaborazioni dello scienziato vengano accolti criteri arbitrariamente convenzionali. Analogamente a Poincaré, Mach sottolinea il fatto c . . . l . l . onvenz1one che 11 pens1ero, nel formulare e teone con e qua1l non significa si stabiliscono le connessioni tra i fatti dell'espe- arbitrio rienza, deve tener conto di quanto viene attestato dall'osservazione sperimentale, al cui controllo nessuna legge scientifica potrebbe mai sottrarsi, senza perde-
«solo in quegli aspetti che sono importanti per noi, in vista di uno scopo nato direttamente o indirettamente da un interesse pratico».
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Ernst Mach.
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re, per ciò stesso, ogni validità. La stessa relatività storica delle teorie scientifiche, che vieta di farne del~ le verità oggettive assolute, dipende dal fatto che esse debbono essere abbandonate ogni volta che l'assunzione di nuovi dati dell'esperienza, prima non considerati, lo imponga. L'epistemologia machiana ha il suo inquadramento filosofico in una teoria fenomenistica della realtà, esposta in saggi come Analisi delle sensazioni del 1886 e Conoscenza ed errore del 1906, e che per certi aspetti rinvia alla lezione dell'empirismo critico di Hume, se non a quella di Berkeley. Gli oggetti della . . scienza non sono presunte entità reali al di fuori 11 1 dii' Unotosota . bensi «sensazwnm, · · come Mach fenomenistica e espenenza, chiama gli «elementi» costitutivi dell'esperienza stessa. Non si fraintenda. Egli non vuole dare a questa espressione un significato soggettivistico: le sensazioni di cui egli parla non sono da intendere come stati psichici di un soggetto preesistente; esse si situano al di qua della distinzione tra psichico e fisico, o meglio appartengono al «fisico» o allo «psichico» a seconda del punto di vista secondo cui vengano considerate. Esse sono i dati originari di un'esperienza intesa in modo assai simile a come Avenarius concepiva quella che egli diceva «esperienza pura». Concordando con gli esiti critici delle analisi humiane, Mach afferma che così il principio di causalità
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come l'idea di sostanza debbono essere banditi dall'ambito del pensiero scientifico. Il primo, caro al meccanicismo compromesso in senso metafisico della fisica tradizionale, evoca un significato di relazione necessaria tra i fenomeni, che vanamente si cercherebbe di convalidare sulla base dell'esperienza: questa ci consente di parlare solo di «nessi funzionali» persistenti tra i fenomeni, ma comunque sprovvisti di . . ogni carattere di necessità. Quanto all'idea di so- 11 ~ ntorno dt . per pensare 1. «cor- 1U111e stanza, essa e, da escludere sta pi» che per pensare gli «io». «Non sono i corpi che generano le sensazioni, ma sono i complessi delle sensazioni che generano i corpi»; e così l'io non è una sostanza originaria, bensì anch'esso nient'altro che un gruppo persistente di sensazioni, che merita di essere studiato dalla fisiologia degli organi sensoriali e del sistema nervoso, allo stesso modo che la fisica studia i corpi inorganici. A differenza di Avenarius, poco conosciuto e poco apprezzato dai filosofi e, ancor meno, dagli scienziati, Mach ha riscosso un grande successo ed ha esercitato una forte influenza sulla epistemologia del Novecento, in particolare nei confronti del neopositivismo logico. Non è senza significato che il primo circolo neopositivista, nato nel 1929 a Vienna, abbia preso dal grande epistemologo viennese il proprio nome.
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Il dibattito epistemologico tra Ottocento e Novecento Sul convenzionalismo si possono vedere: P. Redondi, Epistemologia e storia della scienza, Feltrinelli, Milano 1978, e G. Rocci, Scienza e convenzionalismo, Bulzoni, Roma 1978. Molto utile anche l'antologia curata da P. Parrini, Fisica e geometria dall'Ottocento ad oggi, Loescher, Torino 1979. Su Poincaré: A. Cecchini, Il concetto di convenzione matematica in H. Poincaré, Giappichelli, Torino 1961. Su Mach: A. D'Elia, E. Mach, La Nuova Italia, Firenze 1971; S. Poggi, l sistemi dell'esperienza, Il Mulino, Bologna 1977; F. Adler, E. Mach e il materialismo, Armando, Roma 1978.
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Russell (1872-1970): uno (>
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Un a vita ben spesa no «scettico appassionato»: cosi un suo biografo ha detto di lui. In effetti, Russell ha condiviso dello spirito scettico l'attenzione e l'amore per le domande e la proposizione dei problemi, di contro alla presunzione di chi trova sempre per esse risposte e soluzioni. Egli fu sempre pronto a rimettere in discussione le proprie tesi, al punto che un filosofo amico, Charlie Dunbar Broad, ebbe una volta a dire bonariamente di lui che non smetteva di produrre «un sistema filosofico diverso ogni pochi anni». Convinto u s 1 del carattere necessariamente problematico di una " ocra e... filosofia che voglia modellarsi sul rigore della scienza, tanto da scrivere che «il valore della filosofia va in larga misura cercato proprio nella sua incertezza», Russell ha aborrito, pur provandone la tentazione - e forse proprio per questo-, il dogmatismo teologizzante delle filosofie sistematiche e totalizzanti, così come, sul terreno delle opinioni etiche e politiche, ha sempre combattuto il fanatismo e l'intolleranza, opponendo il suo spirito iconoclasta, irriverente, anticonformista. Di Socrate, che considerava figura superiore anche a quella di Cristo, egli amava il continuo interrogare e la saggia non-conclusività, ma, appunto perché scettico «appassionato», anche l'inesausta ricerca e l'intransigente passione della verità. Appassionato nell'impegno teoretico, altrettanto Russelllo è stato sul terreno della polemica e della lotta etico-politica. Durante l'intero arco della sua lunga esistenza di quasi centenario, egli ha combattuto senza v 11 . riserve i pregiudizi morali e religiosi; ha testimo... et:~el ~o::;~ niato le sue convinzioni pacifiste e antiimperialitempo ste, anche pagando di persona ·con il carcere e l'esclusione dal mondo degli uomini 'rispettabili'; ha lottato per la libertà e la felicità dell'individuo, contro ogni forma di autoritarismo e di totalitarismo. Egli appare, oggi, uno dei pochi grandi intellettuali di
matrice illuministica del novecento, un «Voltaire del nostro tempo», come è stato detto da altri. Bertrand Arthur William Russell era nato nel 1872 a Ravenscroft, nel Galles, da una famiglia della nobiltà britannica, ricca di un passato politico illustre. Il nonno paterno- John Russell-, di idee liberali, era stato più volte ministro e anche capo del governo inglese, e un lontano antenato aveva lottato nel Seicento contro gli Stuart in nome della libertà, e per questo aveva pagato con il patibolo. Perduti ambedue i genitori in tenerissima età, Bertrand visse fino a diciotto anni nella ricca casa della nonna paterna a Pembroke Lodge, ed ebbe un'educazione ispirata a rigidi principi puritani, ma anche aperta a idee liberali e progressiste, e un'istruzione accurata ma impartita a domicilio da insegnanti privati. Cresciuto nella solitudine, egli scopre la passione per gli studi storici e matematici, e già a quindici anni si emancipa dalla fede religiosa, sottoponendo a critica razionale i principi teologici cristiani. La lettura di Euclide e del Sistema di logica di Stuart Mill sono le sue principali, precocissime esperienze intellettuali. Trasferitosi a Cambridge nel 1890, conduce gli studi superiori di matematica e filosofia al Trinity College, aprendosi ai rapporti sociali, stringendo amicizie intellettuali - tra gli altri, con George Moore e Alfred Whitehead -, e sentendosi finalmente padrone di esercitare liberamente la propria intelligenza, ormai lontano dal chiuso ambiente familiare. Dopo una giovanile adesione all'idealismo hegeliano nella versione datane da Bradley, dominante allora nelle università inglesi, Russell se ne sareb- 0 11 ,.d l"smo . l ea l be emancipato, anche per l'.mfl uenza su d.1 lm. alarealismo esercitata da Moore, già avviato verso quel realismo che, in nome delle evidenze del senso comune, faceva dell'idealismo l'oggetto principale delle pro-
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prie polemiche. Nella sua autobiografia, Russell ricorda così quella sua conversione antiidealistica: «Per alcuni anni fui discepolo di Bradley, ma intorno al 1898 mutai i miei punti di vista, in gran parte a motivo delle argomentazioni di G.E. Moore ... io lo seguii con un senso di liberazione. Bradley aveva sostenuto che qualsiasi cosa in cui crede il senso comune è mera apparenza; noi passammo all'estremo opposto, e pensammo che è reale ogni cosa che il senso comune, non influenzato dalla filosofia e dalla religione, suppone che sia reale. Con il senso di fuggire da una prigione ci permettemmo di pensare che l'erba è verde, che il sole e le stelle esisterebbero anche se nessuno fosse consapevole di essi ... e fu così che il mondo, che era stato fino ad allora sottile e logico, d'improvviso diventò ricco, vario e solido».
Qualche anno prima, nel1895, terminati gli studi universitari, Russell, sotto la spinta di nascenti interessi per le problematiche politiche, si era recaInteresse per B . d' d . . l . ld la politica ... to a . er1mo per stu 1are a v1cmo a soc1a emocrazla tedesca, intorno alla quale avrebbe pubblicato nel 1896 il suo primo scritto, intitolato appunto La socialdemocrazia tedesca. Poco dopo, nel 1898, egli inizia ad insegnare presso il Trinity College, e tiene un corso sulla filosofia di Leibniz che, insieme . allo studio dei grandi matematici contempora... e la log1ca . We1ers . trass, Dede1cm . 1 • d matematica ne1, come e Cantor,. rappresenta il segnale di un suo crescente interesse per i problemi di logica matematica. Ma la svolta decisiva nella biografia intellettuale di Russell è rappresentata dall'incontro con Peano, il grande matematico italiano. Così egli racconta: «Fu al congresso internazionale di filosofia di Parigi, nell'anno 1900, che mi resi conto dell'importanza di una riforma logica nella filosofia della matematica. Me ne resi conto ascoltando le discussioni tra Peano di Torino e gli altri filosofi là riuniti. Non avevo letto in precedenza le opere di Peano, ma rimasi colpito dal fatto che, in ciascuna discussione, egli rivelava una maggiore precisione e un maggior rigore logico di chiunque altro. Andai da lui e gli dissi: 'Vorrei leggere tutte le sue opere. Ne ha delle copie con sé?'. Le aveva, e le lessi immediatamente tutte».
Da quel momento, con uno sforzo intellettuale intensissimo, che si sarebbe prolungato per più di un decennio e avrebbe messo a dura prova la sua resistenta nervosa, Russell si sarebbe dedicato alla costruzione di una logica delle relazioni, dai cui enunciati primi avrebbe dovuto potersi dedurre l'intero • edificio della matematica. Di questa logica, proL.oglca e · ' · d'l matematzca · del 1903 , e ne1· matematica posta ne I pnnclpl monumentali Principia mathematica del 1910-13 - esito questi ultimi di una collaborazione con Whitehead -, abbiamo già detto in altro capitolo (V. CAP. 24., PAR. 6). Qui ci limitiamo a ricordare che la nuova logica di Russell e la sua filosofia della matematica non sarebbero state possibili senza la rottura con la filosofia idealistica e senza il contributo di Moore. La dimostrazione che la matematica non sarebbe altro che
logica formale rappresentava, infatti, «un colpo fatale alla filosofia kantiana}} e, d'altronde, l'interpretazione della matematica, proposta da Hegel nella sua Logica, sarebbe stata definita da Russell un cumulo di «sciocchezze di una mente confusa}}, Quanto all'influenza di Moore, questi, con il suo realismo concettuale, vera e propria forma di realismo platonizzante, gli aveva insegnato che una logica rigorosa non è possibile se non ammettendo l'assoluta oggettività dei concetti e delle relazioni che la costituiscono, e dunque la loro indipendenza, non solo dall'esperienza, - il che anche Kant e gli idealisti avevan sostenuto - ma anche dall'attività del pensiero conoscente. Con gli inizi del secolo si accentua l'interesse per le vicende e i problemi politici: da un atteggiamento di simpatia per la politica imperialistica del governo inglese, egli si era convertito a posizioni progressiste e al pacifismo, che sarebbe diventato, negli anni della prima guerra mondiale, la bandiera della sua lotta c . . . I ., l l .. h onvers1one a1 pol1t1ca. n 10rte contrasto con e sce te po11t1c e pacifismo e al del suo paese, Russell viene allontanato dall'inse- .laburismo gnamento, cui fin dal 191 O era stato chiamato presso il Trinity College di Cambridge, e addirittura nel1918 fa l'esperienza di alcuni mesi di carcere per aver pubblicato un articolo contro la presenza delle truppe americane in Inghilterra. Queste vicende lo trasformano profondamente: si libera per sempre della mentalità e delle ambizioni tipiche della vita accademica, diviene un intellettuale «scomodm} e anticonformista, si converte dalliberalismo al laburismo. Nel1920-21 visita l'Unione Sovietica e la Cina, e rimane negativamente impressionato del «settarismm} e della «crudeltà mongolica}} del gruppo dirigente bolscevico, mentre lo entusiasma l'atteggiamento serenamente razionale dei cinesi di fronte alla vita, tanto più saggio e sano di quello degli occidentali. Sposatosi v· .. u m rss l e avutt. due f'tg11,. dec1'de con eragg1 per la secon da vota, Cina la moglie di aprire nel 1927 una scuola privata, ove educare i bambini secondo principi antiautoritari e anticonformisti. L'esperimento pedagogico non ha successo e Russell lo interrompe nel 1932, mentre anche il secondo matrimonio, come già il primo, si conclude col divorzio. Trionfato in Germania il nazismo, matura sentimenti antihitleriani e giudica i nazisti «odiosi moralmente e intellettualmente}}, Alla vigilia della seconda guerra mondiale, pur rimanendo di principi pacifisti, decide di sostenere lo sforzo bellico del proprio paese, convinto, sia pur dolorosamente, della necessità c . · h'1tle- nazismo antro 11 d1. contrastare anche con le arm1· la barb ane riana. Durante gli anni di guerra soggiorna negli Stati Uniti, dove era già stato precedentemente, tiene seminari in varie università, e a Chicago frequenta i filosofi neopositivisti europei, tra i quali Rudolf Carnap (v. CAP. 14, PAR. 1.4 e s), colà riparati in seguito alle persecuzioni naziste, e filosofi americani di grande
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
valore come Charles Morris rv. CAP. 14, PAR. 1.6). A New York sperimenta la componente oscurantista e retrograda della civiltà americana: invitato a tenere Amer'~~ una serie di lezioni al City College, ne viene im1 pedito per l'intervento del vescovo della chiesa episcopale che alimenta contro di lui l'accusa di «dissolutezza», di essere «un arido e decadente difensore della promiscuità sessuale» e un «corruttore». Inutilmente personalità quali Dewey, Einstein, Whitehead prendono le sue difese. Evidentemente, scritti come quelli che Russell aveva pubblicato negli anni precedenti, ispirati ad una visione spregiudicata dei problemi etici e sociali, da Matrimonio e morale del 1928 a La conquista della felicità del1930, fino a Educazione e ordine sociale del1932, oltre che le sue stesse vicende matrimoniali, avevano sollevato la reazione dei difensori della morale tradizionale. Rientrato in Inghilterra nel 1944, Russell sostiene nei primi anni della «guerra fredda» una posizione filoamericana, individuando nell'Urss la più grave minaccia alla pace internazionale, e attirandosi così gli attacchi di Radio Mosca che lo accusa di essere «un lupo filosofeggiante, che sotto l'abito da sera naT u sconde tutti gli istinti brutali d'una bestia». Il ~~atir~~i~ premio Nobel per la letteratura nel1950 è anche ' l'effetto del suo allineamento su posizioni integrate all'interno dell'occidente. Ma già durante gli anni Cinquanta il suo atteggiamento doveva cambiare radicalmente: gli esperimenti atomici americani, lo scatenarsi negli Stati Uniti della «caccia alle streghe» anticomunista, la condanna a morte dei coniugi Rosemberg, sono le vicende che lo convincono della necessità di tornare all'opposizione nei confronti dell' «establishement» occidentale. La minaccia della guerra atomica rianima le convinzioni pacifiste di Russell che conduce combattive campagne contro la corsa al riarmo. Nel 1957 egli indirizza una lettera aperta ai «potenti della terra», . . sperando di persuadere Eisenhower e Kruscev A1ccpotent1 h b' l ., d d della terra>> «c e avevano entram 1 mo .t? pm a gua ~gnare che da perdere da una pac1f1ca collaborazwne». Nel1961, per aver praticato i principi della disobbedienza civile nella battaglia pacifista viene condannato a due mesi di prigione, mentre nel1965 abbandona il partito laburista, non condividendo la politica estera incondizionatamente filoamericana del governo laburista. Sono già questi gli anni dell'intervento statunitense nel Vietnam, che egli condanna senza riserve. Nel1966 dà vita al tribunale contro i crimini di guer.b ra americani nel sud-est asiatico, che avrebbe 11 Tn una1e d l . 'l E' 'l . . Russell preso a Ull nome. questo 1 momento m cm, pur mantenendo un atteggiamento neutralista, Russell si convince che il pericolo dell'imperialismo bellicista venga soprattutto dagli Stati Uniti. La sua mentalità illuministica, animata da spirito di tolleran-
za, di solidarietà per i popoli oppressi, e da un grande amore per la libertà, se lo conferma sulle colpe della politica americana, gli impedisce però anche di allinearsi su posizioni filosovietiche. È lui a definire il governo della Germania orientale come «una tirannia militare imposta da forze armate straniere», ed anco-
Il Tribunale Russe!!
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n un articolo apparso su Le Monde del 15 ottobre 1966, così Bertrand Russell giustificava la fondazione del Tribunale da lui presieduto: cdi primo procuratore della Corte suprema degli Stati Uniti, Jackson, all'apertura del processo di Norimberga, dichiarò: 'La civiltà si chiede se la legge non ritardi al punto da essere completamente impotente a punire crimini tanto grandi
quali quelli commessi dalla Germania ... La civiltà si aspetta che questo tribunale faccia passare dalla parte della pace la forza del diritto internazionale, dei suoi precetti, dei suoi divieti e del suo sistema di sanzioni'. Il procuratore Jackson disse ancora a Norimberga: 'Ormai siamo sicuri che in avvenire, quando un uomo di legge o una nazione promuoveranno un processo per crimini contro la pace mondiale, non
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ra lui, pochi mesi prima della morte, invia un telegramma di protesta a Kossighin per l'espulsione di Solgenitzin dall'Unione degli scrittori sovietici. Il suo impegno civile e politico sarebbe proseguito fino al termine della vita. Ancora pochi giorni prima di morire condanna la politica di forza dello stato
d'Israele, sostenendo che le spaventevoli atrocità subite dagli ebrei durante la dominazione nazista «non giustificano i nuovi terrori». Russell muore nel1970. Nella sua autobiografia, compiuta nel 1969, troviamo scritto: «Ora se dormirò, dormirò contento».
Un'immagine della guerra del Vietnam.
si sentiranno più opporre l'argomento secondo cui una tale azione è da respingere perché senza precedenti'. Ricordandomi di queste parole, ho acquistato la certezza della necessità che la civiltà fosse di nuovo solennemente difesa da un Tribunale incaricato d'indagare sui crimini che una grande potenza militare sta attualmente commettendo ai danni di un piccolo popolo. Sono ormai anni che una piccola nazione di contadini costituisce l'oggetto degli attacchi di un colosso industriale. C'è niente di più atroce del martellamento per via aerea di un popolo di agricoltori sprovvisto di aerei da guerra? La rivoluzione vietnamita è uno degli elementi del processo storico attraverso il quale popoli affamati, sfruttati hanno cominciato a rivendicare il loro diritto alla vita. Ricorrere alla forza, ai mezzi più brutali, per stroncare lo slancio di questa lotta per la vita: ecco l'obbiettivo che gli Stati Uniti si sono proposti. In due riprese, e ogni volta alla fine di una lotta accanita, nel1946 e nel1954, i vienamiti hanno negoziato per ottenere la propria indipendenza. Ma tutt'e due le volte la loro buona fede è stata tradita, i trattati solenni che avevano concluso sono stati violati, ed essi hanno
pagato questa violazione con incalcolabili conseguenze. Non si ricorderà mai abbastanza che tra il 1954 e il 1959 morirono più vietnamiti di quanti non ne siano morti dopo il 1960. Le attività degli Stati Uniti e dei loro amici di Saigon hanno causato, perciò, nel Vietnam un maggior numero di perdite di vite umane nel corso dei cosiddetti «anni di pace» che dal momento in cui i vietnamiti hanno scelto la via della resistenza armata, pur tenendo conto del numero totale dei morti dovuti ai bombardamenti della parte nord del paese, cominciati da venti mesi. Gli stessi americani ci hanno fatto sapere che otto milioni di vietnamiti sono stati raccolti, con la violenza, nei campi di lavoro, nel sud del paese. Gli stessi americani ci hanno fatto sapere che circa 1400 tonnellate di esplosivo cadono ogni giorno sul Vietnam del nord, nel cui cielo essi effettuano in media 650 voli settimanali, e che il tonnellaggio delle bombe sganciate su questo infelice paese supera già quello degli esplosivi lanciati durante la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea. Nessuno poi ignora che, sia a nord che a sud del 17" parallelo, sperimentano tutta una serie di armi nuove, dai gas paralizzanti alle «scatole» di microbi, passando per il supernapalm, i prodotti
defoglianti, ecc. Quanti sono dunque gli occidentali che ignorano questi fatti, di cui il cinema, la stampa, la televisione li informano quasi ogni giorno? Chi di noi non ha visto le fotografie? Chi non ha letto le cifre? Sappiamo tutti che la lotta dei vietnamiti per l'indipendenza nazionale e per la trasformazione della loro società è del tipo di quelle dei David contro i Golia. Ed è proprio perché tutti lo sappiamo che il mio appello per la formazione di un Tribunale internazionale contro i crimini di guerra ha un senso . ... Il Tribunale funzionerà come una commissione d'inchiesta. l dati raccolti saranno esaminati in modo sistematico e sottoposti, ogni qualvolta lo si reputi necessario, a controlli scientifici. È evidente che non sarà possibile costringere i testimoni della difesa a presentarsi davanti al Tribunale. Tuttavia il governo degli Stati Uniti e il presidente Johnson sono stati invitati ufficialmente a farsi rappresentare. Gli unici crimini su cui il Tribunale dovrà pronunciarsi sono quelli che, per la loro evidenza, hanno giustificato la sua convocazione; di conseguenza, sarà impossibile al Tribunale mettere sullo stesso piano le violenze commesse dal presunto aggressore per
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perpetrare la propria aggressione e quell~ commesse dalle vittime per resistere a tale aggressione. Solo chi è incapace di fare una distinzione tra l'insurrezione del ghetto di Varsavia e l'attività della Gestapo, tra le lotte dei partigiani jugoslavi, dei patrioti norvegesi o dei 'maquisards' francesi e le guerre d'invasione scatenate dalle armate naziste, si stupirà del fatto che il Tribunale rifiuti di mettere sullo stesso piano il comportam.ento degli invasori americani e quello dei vietnamiti, vittime di tale invasione. lo sono convinto che il Tribunale, svincolato com'è dall'obbligo di tener conto delle complicazioni dei rapporti tra stati e da ogni preoccupazione di Rea/-Politik, offrirà alla coscienza della specie umana la possibilità di esprimersi con la massima libertà. Bisogna che sia in grado di operare come un vero Tribunale rivoluzionario, capace cioè, e nelle discussioni e nelle decisioni, di tradurre le aspirazioni di quanti sono ben decisi a far sì che l'orrore e l'ingiustizia non continuino a circolare impuniti per il mondo per il solo motivo che le vittime sono dei deboli, mentre coloro che li praticano controllano la maggior parte delle risorse della terra».
PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
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···········::··:··:·::·::::·:::::;;:;::;;:;;;;:;;::;;;;];;;:;;;:::··
Gnoseologia ed epistemologia e la logicizzazione della matematica costituisce il contributo di gran lunga più importante di Russell sul terreno teoretico, di qualche rilevanza sono anche i numerosi scrittì che egli, tra il 1912 e il 1927, dedica alla trattazione dei problemi gnoseologici ed epistemologici, con particolare riferimento al rapporto tra le evidenze del senso comune e il discorso scientifico. !problemi della filosofia del 1912, La nostra conoscenza del mondo esterno del 1914, L'analisi della mente del1921, e infine L'analisi della materia e Sintesi filosofica del 1927, sono i saggi più rilevanti dedicati a queste problematiche. Su di queste Russell sarebbe ritornato in scritti più tardi, come Significato e verità del1940 e La conoscenza umana, le sue possibilità e i suoi limiti del 1948. Pur non arrivando mai a sostenere, come invece facevano i neopositivisti del circolo di Vienna (v. CAP. I4l, che le questioni metafisiche siano prive di senso, tuttavia Russell colloca la filosofia in uno spazio «positivistico» e antimetafisico, convinto com'è che essa debba condividere della scienza il rigore e anzi proporsi essa stessa come una scienza, abbandonando . . così il dogmatismo della metafisica, in alcun moLa 11osom:tra 1 1 d .1. b'l · D' a1tra par te 1a teologia e o conc11a 1 e con 1a sc1enza. scienza filosofia non può non spingersi a formulare ipotesi sulla struttura dell'universo e sul posto che in essa occupa l'uomo, ipotesi che, peraltro, nonostante la scientificità assunta dalla filosofia come proprio criterio, la scienza non potrebbe mai far proprie, non essendo in grado né di comprovarle né di confutarle. In questo senso la filosofia versa in una situazione difficile, collocata com'è in «Una terra di nessuno tra la teologia e la scienza»: come la prima, essa si avventura in speculazioni su argomenti che non sono stati ancora accertati, né forse lo saranno mai; come la scienza, essa richiede di affidarsi esclusivamente ai procedimenti della ragione, rifiutando qualsiasi principio d'autorità. Questa problematicità del filosofare, e la necessità di tener conto delle continue novità proposte dagli . sviluppi della fisica novecentesca, spiegano le inFedelta al • f requentl· camb1ament1 · · d·11potes1 · · ne11a realismo certezze e 1 empiristico riflessione gnoseologica ed epistemologica di Russell, che peraltro mai avrebbe abbandonato le convinzioni realistiche ed empiristiche acquisite fin dalla giovanile amicizia con Moore. Per esse ogni conoscenza, anche quella logico-matematica, presuppone direttamente o indirettamente l'esperienza, e l'esistenza del mondo esterno è da considerarsi un dato irriducibile del senso comune e della scienza. Contro il privilegiamento della soggettività e l'antropocentrismo delle filosofie idealistiche, Russell osserva che
l'uomo arriva a conoscere una ben piccola parte dell'universo, e che, come in passato, anche nel futuro «vi saranno innumerevoli età senza conoscenza». Meglio, egli afferma, avrebbe fatto Kant a chiamare «controrivoluzione tolemaica» la sua «rivoluzione copernicana», «giacché egli aveva cercato di restituire all'uomo quella posizione di centralità da cui Co- A "d . . · l d · L' antu"dea11sm? nln eahsta p~rmco o aveva etro~1zzato». viscerale11 11 d1 Russell, del resto, pnma ancora che una poslzione razionalmente motivata, è un convincimento quasi istintivo, come ben risulta da dichiarazioni come questa: «Il tentativo di umanizzare il cosmo, che è a fondamento della filosofia che si autodefinisce 'idealismo', non mi piace, indipendentemente dalla questione se è sbagliato o no. Non ho voglia affatto di pensare che il mondo sia il risultato delle elucubrazioni di Hegel e nemmeno del suo Prototipo celeste».
Il realismo russelliano non è comunque senza incrinature e ripensamenti. Già ne I problemi della filosofia, ove Russell si mantiene ancora abbastanza vicino ad un realismo di tipo platonico e al punto di vista del senso comune, sono presenti rilievi critici sulla piena attendibilità di quest'ultimo, e la stessa esistenza del mondo esterno è considerata non Qualche più che «l'ipotesi più semplice». Il fatto stesso ripensamento che si dica che le nostre conoscenze riposano sul- intorno al l'esperienza sembrerebbe, dato il carattere sog- realismo gettivo e «privato» dell'esperienza, doverci costringere nelle strettoie del solipsismo e dello scetticismo. Più tardi, Russell avrebbe riconosciuto che il mondo qual è conosciuto attraverso la fisica, è ben diverso da come è colto dalla percezione sensibile: ad esempio, la 'materia' qual è concepita da Einstein e dalla meccanica quantistica è cosa ben diversa da come appare nell'esperienza comune. Ma, se è vero che «l'oggetto della nostra diretta esperienza non può essere l'oggetto esterno col quale ha a che fare il fisico ... nondimeno, unicamente ciò che è oggetto della nostra esperienza diretta ci dà ragione di credere al mondo del fisico».
Si fa strada l'idea che alla conoscenza, sia comune che scientifica, concorrano, per quanto riguar· le, s1a · f atto- psicologia riSICa e . gm . , nel momento sensona da la pnma ri oggettivi di ordine fisico che fattori fisiologici e psicologici, sicché la fisica richiede un supplemento di psicologia: E' •
«ciò che è empiricamente verificabile non è la pura fisica in isolamento, ma la fisica più un dipartimento della psicologia. Questa, pertanto, è un ingrediente essenziale in ogni parte della scienza empirica».
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D'altra parte non sembra che i dati sensoriali
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dell'osservazione empirica siano identificabili con gli oggetti della fisica: «le molecole non hanno colore, gli atomi non fanno rumore, gli elettroni non hanno sapore e i corpuscoli non hanno odore».
Per uscire da queste difficoltà, relative al rapporto tra senso comune e conoscenza scientifica, Russell elabora una teoria «costruttivistica» della conoscenza e un correlato «atomismo logico», che si sforza di conciliare, non senza qualche difficoltà, con il proprio empirismo e realismo di fondo. Prendendo ispirazione dall'empiriocriticismo, e in particolare da Mach, egli propone, fin da La nostra conoscenza del mondo esterno, la teoria, a sfondo fenomenistico, dei «sensibilia». •. • La materia viene ridotta a un complesso di dati 1 'd l«sensJbJJa»e · . · , · · . ·smo sensona11, cons1 erat1 pero, non come sensazwm 1 l1 JllOII l , d , 'l h neutrale re atlve a un soggetto senz1ente - 1 c e avrebb e significato lo scivolamento in una forma di soggettivismo idealistico e solipsistico -, bensì come «elementi atomici» oggettivi e non riducibili a fatti della mente. Anzi, la mente stessa, come vien argomentato in Analisi della mente, lungi dall'essere un'entità sostanziale qualitativamente diversa dai dati fisici, è, non diversamente dagli oggetti fisici, un insieme, una «costruzione» di sensibilia, che differiscono da quelli costitutivi della materia solo per la diversa relazione in cui sono ordinati. Ne consegue che il mondo- che spiritosamente Russell, a sottolinearne il carattere 'discreto', dice assomigliare ad «un mucchio di pallini» - è da considerarsi costituito da elementi o eventi «neutri» che, a seconda dei contesti in cui si trovano collocati, ora sono fatti fisici, ora fatti mentali. Sulla base di quest'interpretazione della realtà cui Russell dà il nome di «monismo neutrale», egli L'atomismo propone quell' «atomismo logico», che segna l'inlogico e fluenza su di lui esercitata da Wittgenstein, suo Wittgenstein discepolo nel 1912 al Trinity College. Si tratta di una filosofia del linguaggio secondo la quale quei «pallini» o «fatti atomici» che sono i dati sensoriali, fungerebbero da fondamento della verità di quegli «atomi linguistici» o «proposizioni atomiche» che, a loro volta, costituirebbero gli elementi semplici e originari, non ulteriormente riduci bili, del linguaggio. Le proposizioni atomiche sono la descrizione di un fatto, attribuiscono una qualità ad una cosa, o affèrmano che tra due cose sussistono certe relazioni. Un esempio del primo caso: «Socrate è ateniese»; uno del secondo: «Socrate è marito di Santippe». La verità di queste proposizioni si può stabilire solo riferendosi all'esperienza, che sola può accertare il «fatto» che Socrate sia effettivamente nato ad Atene e sia stato sposato con Santippe. La proposizione: «Socrate è ateniese e marito di Santippe» è invece una proposizione «molecolare», risultante dalla combinazione di due proposizioni atomiche. Quanto più le proposizioni si fanno complesse, tanto più è
indiretta la conoscenza che esse offrono - Russell la chiama conoscenza «per descrizione» -, in quanto solo le proposizioni elementari o atomiche si riferiscono direttamente ai dati dell'esperienza. Come si vede, siamo di fronte ad una teoria linguistica fedele allo stesso empirismo che ispira tutta intera la concezione russelliana della conoscenza e della scienza, e che il filosofo inglese considerò sempre l'orizzonte dell'intera propria riflessione. Da buon relativista, peraltro, egli riconosce che anche l'empirismo, come ogni altra ipotesi filosofica, non è del tutto soddisfacente, e va soggetto a critiche non infondate. Basterebbe ricordare la contraddizione cui esso va incontro, quando afferma, come sua tesi fondamentale, che «tutta la nostra conoscenza fattuale è basata sull'esperienza»: un'affermazione questa, che non è basata sull'esperienza, e mai potrebbe esserlo. Ciò non toglie, osserva Russell, che l'empirismo sia, comunque, l'atteggiamento filosofico, tra tutti gli altri, il meno inadeguato.
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Bertrand Arthur William Russe!!.
PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
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Etica e religione: un «immoralista» spirata com'è ad un atteggiamento anticonformi. sta e libertario, anche la riflessione di Russell sui • problemi etico-religiosi della vita sociale e individuale degli uomini è contrassegnata dallo stes. so spirito critico che accompagna lo sviluppo della scienza, anche se egli ritiene che sia impossibile discutere sui valori in base a criteri rigorosamente .. scientifici, e che l'adesione a dei valori piuttosto Relattvl~~o che ad altri sia una questione di «differenza di e tco gusti», e non di verità oggettive. Di conseguenza egli rifiuta ogni dogmatismo morale e religioso che pretenda di sottomettere la vita umana a valori assoluti. Egli afferma di non poter «porre, come Kant, la legge morale sullo stesso piano dei cieli stellati»: le norme che disciplinano i comportamenti degli uomini sono infatti relative alle circostanze storiche in cui gli uomini si trovano, e sono pertanto destinate a modificarsi nel tempo. Questo relativismo, che conduce Russell a scontrarsi con l'autoritarismo delle morali e delle religioni che pretendono per sé e per i loro principi l'eternità, non richiede però di assumere l'atteggiamento d'indifferenza scettica di chi si pone al di sopra della mischia, e nemmeno di sottomissione, solo perché prevalente, alla qualunque opinione emergente tra gli uomini in un determinato momento storico, secondo i modelli di uno storicismo giustificazionista. Al contrario, Russell ha sempre fatto del proprio relativismo etico un motivo in più di battaglia per l'affermazione di ideali morali avvertiti come giusti, anche se minoritari rispetto ad un'opinione pubblica diversamente orientata. L'impegno coraggioso con cui Russell sostiene le proprie convinzioni etiche non viene compromesso nemmeno dal riconoscimento impietoso e disin~~:i~~~~~~ cantato della assoluta fragilità e casualità dell'es~ stenza umana, condannata alla morte e alla dlstruzione, in un mondo anch'esso destinato ad estinguersi per sempre. Così egli scrive:
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«So che alla mia morte dovrò imputridire e che nulla del mio 'ego' sopravvivrà. Non sono giovane e amo la vita, ma disdegno di abbattermi al pensiero dell'annientamento. La felicità non è meno vera, anche se deve finire. Il pensiero e l'amore non perdono il loro valore se non sono eterni. Parecchi uomini hanno affrontato il patibolo con fierezza; la stessa fierezza ci dovrebbe insegnare a riflettere senza tremare sul destino dell'uomo nell'universo. Anche se le finestre spalancate dalla scienza al primo momento ci fanno rabbrividire, abituati come siamo al confortevole tepore casalingo dei miti tradizionali, alla fine l'aria fresca ci rinvigorirà».
Nei confronti del fenomeno religioso, l'atteggiamento di Russell è agnostico e di fatto ateo. Egli rimprovera alle religioni confessionali, e in particolare al cristianesimo, di avere imposto una visione della vita dominata dallo spirito di sottomissione e dall'intolle-
ranza, dalla paura, dalla repressione dell'istinto di felicità e della gioia di vivere. In un celebre saggio Tra del1927, Perché non sono cristiano, egli scrive che agnosticismo e ateismo la religione è , che era stata la posizione assunta dal neo-positivismo e ripresa in Inghilterra da Ayer, secondo cui i cosiddetti giudizi morali sarebbero espressione di pure emozioni e, pertan. .. to, privi di ogni valore razionale, Rare rivendica Raz10nahta del l d' · raz10na · 11ta, ., a lSCOrSO mora le una sua propna . d1scorso . 'b'l ll d' d' morale nconosc1 1 e ne a sua natura 1 1scorso prescrittivo, e altrettanto rigorosa di quella che caratterizza i discorsi indicativi, tant'è che la prescrizione morale può essere formulata nella forma deduttiva del sillogismo aristotelico. Per fissare bene la differenza tra proposizioni indicative e proposizioni prescrittive o imperative, Rare distingue la componente «frastica» - dal Proposizioni fi · d' d · h indicative e greco razein = m 1care, es1gnare -, c e esse prescrittive hanno in comune, dalla componente «neustica» - dal greco neuo che significa 'far cenno col capo
in segno di assenso' - da cui dipende la loro differenza. Dati, per esempio, i due enunciati: 'Tu stai per chiudere la porta' (indicativo) e 'chiudi la porta!' (prescrittivo), si ha che la parte frastica è costituita dalla frase: 'il tuo chiudere la porta nell'immediato futuro', mentre gli elementi neustici sono costituiti rispettivamente dal 'sì' per gli enunciati indicativi, dal 'prego' per quelli prescrittivi. 'Il tuo chiudere la porta nell'immediato futuro, prego' corrisponderebbe al 'chiudi la porta!'; 'il tuo chiudere la porta, sì' al 'tu stai per chiudere la porta'. Scrive Rare: «Quando si pronuncia un enunciato contenente una frastica e una neustica, si ha una situazione che potremmo, per cosi dire, rappresentare scenicamente come segue: l. colui che parla fa notare o indica quello stato di cose di cui afferma la realtà o comanda la realizzazione; 2. egli fa un cenno col capo, come per dire 'le cose stanno così', oppure 'fallo'. Egli dovrà tuttavia accennare col capo in modo diverso, a seconda che col suo cenno intenda asserire o comandare». Ma aver chiarito la natura prescrittiva del discorso morale - che, peraltro, già consente di rifiutare il naturalismo etico di chi pretenderebbe ridurre i concetti etici a concetti fattuali -, non è però sufficiente ad esaurire l'analisi del discorso morale. Occorre Universalità aggiungere che la prescrizione morale, per essere della riconosciuta tale, deve poter essere, come aveva prescrizione insegnato Kant, universalizzata, a differenza de- morale gli altri imperativi che l'universalizzabilità non
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richiedono. Mentre il fatto che io, in una determinata circostanza, dica ad una persona: 'esci!', non esclude che, in un'altra situazione, possa dirle, altrettanto legittimamente: 'non uscire!', la prescrizione morale, come sarebbe il comandare: 'devi restituire il denaro affidatoti in deposito', implica l'obbligatorietà per tutti del comportamento in questione, indipendentemente dal variare delle circostanze. Nel1981 Rare ha pubblicato un nuovo lavoro di filosofia morale, Il pensiero morale, nel quale, pur senza rinunciare del tutto alla metaetica, è sceso ad affrontare per la prima volta «questioni morali sostanziali», delle quali la metaetica non si occupa, entrando cosi nel merito dell'etica prescrittiva. In ' . . K~nt e particolare, egli riprende la grande tradizione 11 l Ulii8r1Sffi0 de11' ut11tansmo 'l' . . mg . lese nsa . lente a H urne, etlco Bentham e Stuart Mill, riconciliandola con l'etica di ascendenza kantiana. Ai suoi occhi Kant avrebbe, non già rifiutato, bensì arricchito l'etica utilitaristica, innalzandosi dalla prospettiva benthamiana, ancora limitata al «maggior numero possibile», a quella dell' «universalità».
In polemica con l'intuizionismo etico risalente a Moore (v. PAR. 2.0 che nei suoi Principia ethica del 1903 aveva sostenuto che del «buono» si può avere solo l'intuizione, essendo esso una nozione semplice e indefinibile relativa a qualità irriducibili delle cose, Rare ritiene che l'intuizione sia sì un «livello» della condotta morale, ma ancora «ingenuo», non sufficiente a guidare chi si trovi ad affrontare situazioni dilemmatiche, nelle quali scelte tra loro alternative risultino all'intuizione egualmente vincolanti dal punto di vista dell'obbligazione morale. All'inDue livelli della tuizionismo, che così va in crisi, si deve sostitui- valutazione re una dottrina etica che sappia individuare un morale livello superiore di valutazione morale, capace di sciogliere i dilemmi della vita morale. Questo livello è costituito dal «pensiero critico», ossia dalla capacità di discutere razionalmente le situazioni, in modo da far emergere come moralmente prioritaria una scelta che intuitivamente non risulterebbe tale. L'utilitarismo è, conclude Rare, l'espressione teorica più convincente del livello critico dell'esperienza morale.
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Il neo-positivismo e la filosofia analitica inglese Una importante introduzione al neo-positivismo logico resta, nonostante risalga al 1953, F. Barone, Il neopositivismo logico, 2 voli. Laterza, Bari 1986. A questo potrebbe essere accompagnato Il neoempirismo, un'ampia antologia a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969. Una buona antologia, di livello scolastico, è anche quella a cura di M. Trinchero, Il neopositivismo logico, Loescher, Torino 1978. Altri scritti apparsi successivamente sono: R. Egidi, l/linguaggio delle teorie scientifiche, Guida, Napoli 1979; H Fleig, Il Circolo di Vienna e l'avvenire dell'empirismo logico, Armando, Roma 1980. Un giudizio alquanto severo è stato espresso sul neo-positivismo da L. Kolakowski, nello scritto del 1966 - quando l'autore era ancora un esponente del marxismo polacco- La filosofia del positivismo, Laterza, Bari 1974: nella sua pretesa di salvare l'autonomia della scienza, esaurendo in e"ssa qualsiasi forma di appropriazione intellettuale del mondo, il neo-positivismo finirebbe con l'essere «Un atto di fuga dai problemi impegnativi, che si cerca di dissimulare con una concezione della scienza che considera in blocco tali problemi del tutto privi di significato». In Italia chi ha diffuso per primo la conoscenza del neo-positivismo e ne ha discusso dall'interno validità e limiti, è stato L. Geymonat (v. cap. 24, pista di ricerca). Di lui si può a questo proposito vedere: La nuova filosofia della natura in Germania, Torino 1934; Studi per un nuovo razionalismo, Torino 1945; Saggi di filosofia neorazionalistica, Torino 1953; Filosofia e filosofia della scienza, Feltrinelli, Milano 1960; Sapere scientifico e sapere filosofico, Firenze 1961; Vienna dei paradossi. Contrasti filosofico e scientifici nel Wiener Kreis, li poli· grafico, 1991. Il maggior studioso italiano della filosofia analitica è D. Antiseri, del quale si può vedere: Dal neopositivismo alla filosofia analitica, Abete, Roma 1966; Dopo Wittgenstein: dove va la filosofia analitica, Abete, Roma 1968; La filosofia del linguaggio: metodi, problemi e teorie, Morcelliana, Brescia 1972; La filosofia analitica. L'analisi del linguaggio nella Cambridge-Oxford Philosophy, Città Nuova, Roma 1975. Da suggerire sono anche: AA.VV., La svolta linguistica in filosofia, Città Nuova, Roma 1975, e AA.VV., Gli atti linguistici, Feltrinelli, Milano 1978.
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Popper (1902): ovvero, un rivoluzionario in epistemologia e un riformista in politica
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Popper e il neo-positivismo on è quasi più necessario oggi tornare a smentire l'opinione, ormai abbandonata quasi da tutti, che voleva Popper partecipe del neo-positivismo, o comunque compagno di strada degli studiosi raccolti intorno a Schlick nel Circolo di Vienna. Troppe erano le cose che lo separavano da loro, fin da quando pubblicava nel1934, per l'appunto con il loro aiuto, quello che doveva rimanere il suo capolavoro, la Logica della ricerca, ripubblicata in lingua inglese nel 1959 col titolo di Logica della scoperta scientifica. Era stato in quest'opera che egli lontananza clal · • d' 1 'l · · · Mo·positivismo a~eva. s.ottoposto a. cntl~a ra 1ca e 1 «pnnclpl? d1 venflcazwne» d1 Schhck, e negato la propombilità del metodo induttivo che, nella prima fase della sua storia, il neo-positivismo aveva posto a base del sapere scientifico. D'altronde, mai egli mostrò di condividere l'atteggiamento pregiudizialmente antimetafisico dei Neurath e dei Carnap, e, se criticò l'iniziale rigidezza neo-positivistica nell'intendere i «protocolli» come proposizioni definitive e assolute, più tardi avrebbe rifiutato l'evoluzione in senso convenzionalistico e sintattico impressa da Neurath e Carnap al neo-positivismo, riproponendo in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica del 1963, l'idea kantiana della verità come principio regolati vo della ricerca scientifica. È stato del resto Popper stesso a scrivere in La ricerca non ha fine, la sua autobiografia del 197 4: «Oggi tutti sanno che il positivismo logico è morto ... Chi l'ha ucciso? ... Credo di dover ammettere le mie responsabilità. Ma non lo feci di proposito: la mia unica intenzione era di mettere in luce quelli che mi sembravano alcuni errori fondamentali».
Karl Raimund Popper era nato a Vienna nel 1902 e da studente aveva seguito le lezioni di Schlick e di Hahn, che lo avviarono a fare dei problemi epistemo-
logici il centro principale dei suoi interessi, inizialmente rivolti alla psicologia ed alla psicanalisi. Non bisogna dimenticare che la Vienna del primo dopoguerra era la città di Freud e di Alfred Adler (v. CAP. 29, PAR. 2.2); essa era però anche un centro di elaborazione delle teorie L'' d' . del. marxismo, per le quali Popper . m11uenza 1 ebb e un gwvam1e quanto passeggero entus1asmo. Einstein Ma a Vienna circolavano anche altre idee rivoluzionarie, come la teoria della relatività di Einstein, alla cui suggestione egli non si sarebbe viceversa mai più voluto sottrarre. Ad essa, alla sua capacità di mettere radicalmente in discussione l'immagine newtoniana del mondo, ossia la teoria scientifica che aveva trovato conferme più di quanto uno scienziato avrebbe mai potuto in passato sognare, ad Einstein, Popper avrebbe dovuto la spinta che lo avrebbe condotto a quella concezione «fallibilista» della scienza che, come vedremo, rappresenta il suo maggior contributo all'epistemologia contemporanea. È stato Popper stesso, del resto, a riconoscere nella sua autobiografia che quella di Einstein è stata «a lungo andare, forse, l'influenza più importante di tutte» sulla sua riflessione. Insegnante per alcuni anni di matematica e fisica nelle scuole medie, fin dal 1932 egli aveva terminato la stesura del suo capolavoro, nel vivo di un confronto condotto in piena indipendenza con alcuni esponenti del Circolo, in particolare con Carnap. Mentre 11 con1ronto co 1 Neurath, recensendo l'opera al momento della Circolo di sua pubblicazione, avrebbe definito l'autore «op- Vienna positore ufficiale» del Circolo, Carnap avrebbe riconosciuto qualche anno dopo il contributo che Popper aveva dato con le sue critiche al cosiddetto processo di liberalizzazione delle teorie neo-positivistiche da Carnap stesso promosso. Intanto la pubblicazione dell'opera aveva dato grande notorietà europea al suo autore: nel 1935 questi si era recato in Inghilterra, dove aveva tenuto delle conferenze alla presenza di
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
Moore, Russell, Ayer, Ryle ed altri studiosi. Poco dopo, nel 193 7, lasciava per sempre l'Austria, per sfuggire, date le sue origini ebraiche, all'incombente minaccia nazista, che l'anno successivo si sarebbe concretizzata nell'Anschluss. Egli avrebbe vissuto e insegnato filosofia fino al 1945 in Nuova Zelanda, per trasferirsi subito dopo a Londra, che sarebbe divenu-
ta la sua nuova patria, e dove vive tuttora, ormai da molto tempo profondamente assimilato alla cultura e alla mentalità britannica. A Londra ha insegnato per lunghi anni, prima logica all'università, poi logica e metodologia scientifica alla Scuola di economia e di scienze politiche, di cui è a tutt'oggi professore emerito.
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Il mito dell'induzione e il «principio di falsificabjlità» l contributo fondamentale che Popper ha dato alla epistemologia contemporanea è costituito dalla formulazione del «principio di falsificabilità», che egli propone di sostituire al principio neo-positivistico di verificabilità. A tale esito egli perviene partendo dalla soluzione di quello che riconosce come «un problema filosofico fondamentale», e cioè il problema dell'induzione. 11 ,. ,.Prdobl~ma In l'induzione, procedimento inferenziale du 1 1 m UZIOne cherealtà, . . . l . , . d pretend e nsa 1lfe a asserztom partlco an attinte all'osservazione ad asserzioni di valore universale, è privo di ogni validità e fallisce il suo scopo: « ... qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi».
Un solo caso in contrario offertoci da ulteriori osservazioni, basterebbe a contraddire l'asserzione universale cui ci eravamo illusi di essere pervenuti. Per non parlare del fatto che, se dovessimo, come dovremmo, fondare la validità del principio d'induzione, in quanto asserzione universale, sull'esperienza, si aprirebbe un regresso all'infinito, giacché per giustificare le inferenze induttive necessarie a fondarlo, «dovremmo assumere un principio induttivo di ordine superiore, e cosi via». Già Hume, del resto, aveva messo in chiaro tutte le contraddizioni inerenti al procedimento induttivo. Ma se l'induzione non esiste, allora non ha senso porre a base degli asserti scientifici il principio di verificazione, poiché nessun asserto può mai essere «verificato» una volta per tutte e assunto come 1 10 " ~d~t~zzd~ verità assoluta e definitiva. Sarebbe necessario de1 prmc1p1o 1 . ,. d . l . h verificabilità poter rea11zzare un m uztone comp eta, 11 c e, come si sa, è impossibile. Del resto la storia della scienza è li a provare che le diverse teorie scientifiche sono state sempre messe in crisi da teorie scientifiche nuove, che le hanno profondamente modificate o addirittura sostituite, a loro volta destinate al medesimo esito. Si deve riconoscere che il cammino della ricerca scientifica è esattamente opposto a quello indicato, da
Bacone in qua, dalla epistemologia tradizionale: non dai dati dell'osservazione alle teorie esso procede, ma all'inverso dalle teorie, o «congetture» come Popper ama dire, alloro controllo attraverso i dati dell'osservazione e dell'esperimento. Si deve finalmente capire che il modo di procedere dello scienziato è ~c~~~~~~~o è quello ipotetico-deduttivo, e che dunque bisogna ipotetico· liberarsi da quell' «osservativismo» risalente al mi- deduttivo to baconiano, secondo cui la scienza nascerebbe dall'accumularsi di sempre nuove osservazioni empiriche. In Congetture e confutazioni, che è lo scritto nel quale Popper aggiorna il suo lavoro di filosofo della scienza, cosi egli scrive: « ... sfido quanti ... credono che le teorie siano il risultato di osservazioni, a cominciare ad osservare qui e ora, e a mostrarmi il risultato delle osservazioni. Direte forse che è scorretto e che, qui e ora, non c'è nulla di notevole da osservare. Ma anche se conduceste tutta la vostra vita annotando, taccuino alla mano, quel che osservate, e infine lasciaste per testamento l'importante libretto alla Royal Society, chiedendo che ne estraggano della scienza, questa potrà anche conservarlo come curiosità, ma certamente non come fonte di conoscenza. Esso resterebbe forse dimenticato in qualche sotterraneo del British Museum ... ma più probabilmente finirebbe tra la spazzatura».
In realtà, per poter osservare, dobbiamo avere già in testa una ipotesi ben definita, secondo la quale selezionare le osservazioni da fare, utili per poter decidere di essa. La necessità di questa procedura Popper aveva sperimentato a Vienna con i suoi studenti di fisica, quando, prendendo li come cavie, aveva un giorno loro proposto di osservare:
« ... temo che qualcuno di voi, invece di osservare, provi il forte impulso a chiedermi: 'ma che cosa vuoi che osservi?'. Se questa è la vostra risposta, allora il mio esperimento è riuscito ... Charles Darwin lo sapeva, quando scrisse: 'come è strano che nessuno veda che ogni osservazione non può non essere pro o contro qualche teoria' ... ». Aveva torto dunque il solito Bacone, quando proponeva che lo scienziato, prima di cimentarsi nella ricerca, purificasse la mente da tutti i pregiu-
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Necessità dei ((pregiudizh1
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dizi che essa contiene. In un saggio del 1963, Problemi, scopi e responsabilità della scienza, Popper sostiene che
confuterebbe. In altre parole, una teoria che ambisca a valere scientificamente, deve poter essere controllabile. Scrive Popper:
«l'idea che noi possiamo, ... in via preparatoria rispetto alla scoperta scientifica, purgare la nostra mente dai pregiudizi - cioè da idee e teorie preconcette - è ingenua e sbagliata. Soprattutto dalla ricerca scientifica impariamo che alcune delle nostre idee ... sono pregiudizi. Scopriamo che una delle nostre credenze è un pregiudizio solo dopo che il progresso della scienza ci ha portato ad abbandonarla; non esiste infatti nessun criterio in grazia del quale potremmo riconoscere i pregiudizi in anticipo rispetto a questo progresso».
«(il criterio di falsificabilità) non implica che le teorie inconfutabili siano false, e non implica neppure che siano prive di significato. Ma implica che, finché non possiamo dare una descrizione dell'aspetto che ha una possibile confutazione della teoria, allora quella teoria è al di fuori della scienza empirica. Il criterio di confutabilità o falsificabilità può anche esser chiamato criterio di controllabilità. Infatti controllare una teoria ... significa tentare di coglierla in fallo. Così, una teoria, di cui sappiamo in anticipo che non può esser colta in fallo o confutata, non è controllabile».
E aggiunge che la regola 'purgatevi dai pregiudizi' significa in sostanza 'purgate la mente da tutte le teorie': «ma la mente, così purgata, non sarà una mente pura: sarà solo una mente vuota». La verità è, invece, che «noi operiamo sempre con teorie, anche se spesso non ne siamo consapevoli». Osservazioni prive di una componente teorica non ne esistono: «tutte le osservazioni ... sono ... compiute alla luce di questa o di quella teoria». Popper dà un'interpretazione biologico-culturale degli inizi della ricerca scientifica, individuandoli nelle «aspettazioni deluse» e nei «problemi» che da queste delusioni sorgono, e chiedono di essere risolti:
Che, sulla base di questa concezione «fallibilista>> della scienza, lo scienziato non debba andare in cerca di conferme, ma piuttosto di smentite della propria teoria, o di quella di altri - ma quest'ultima cosa gli è certamente più facile! -, non significa, natural. 1 . d . d' ., d . .1 l cat1 h mente, c e 1 at1 1 con1erma, quan o smno 1 corroboranti risultato di un controllo severo della teoria, ossia del fallimento del tentativo di falsificarla, non contino. In questo caso essi sarebbero da definire «dati corroboranti», tali cioè da validificare la teoria, e anzi da consolidarla. N on mai però in modo definitivo: potrebbe intervenire un ulteriore controllo a falsificarla.
«lo asserisco che ogni animale è nato con molte parole, che è dotato fin dalla nascita di qualcosa che corrisponde da vicino alle ipotesi, e così alla conoscenza ipotetica. E asserisco che abbiamo sempre una conoscenza innata - innata in questo senso - da cui partire, anche se può ben darsi che di questa conoscenza innata non possiamo fidarci affatto. Questa conoscenza innata, queste aspettative innate, se disilluse, creeranno i nostri primi problemi, e l'accrescimento della conoscenza che ne segue, si può descrivere come un accrescimento che consiste interamente nelle correzioni e nelle modificazioni della conoscenza precedente».
È in base a queste convinzioni epistemologiche che Popper, fin dalla Logica della ricerca, sostituisce al programma neo-positivistico di «verificazione» - come s'è visto, impossibile - delle proposizioni, volto a u distinguere quelle «sensate» da quelle «insensate», nprogramm; un programma di «demarcazione» - come egli lo !demarcazione:> chiama -, capace di distinguere in modo rigoroso le proposizioni scientifiche da quelle non-scientifiche, senza che queste - che poi sono, prima di tutto, le proposizioni metafisiche - debbano, peraltro, esser considerate prive di senso. Il criterio di demarcazione che Popper propone è, come s'è già annunciato, il celebre principio di falsificabilità o confutabilità. Si tratta del criterio ubbidendo al quale lo scienziato sottopone l'ipotesi che è venuto formulando ad osservazioni ed esperimenti, nel tentativo di invalidarla, ossia falsificarla, o comunque di coglierne i pnnc1p1o d1 · d b 1. O · lt lalsific bTt' 11 8 punt1 e o 1. vv1amente, per poter essere acco a a come valevole scientificamente, l'ipotesi deve poter essere falsificata, ossia deve poter esserci un'osservazione che, qualora divenisse da possibile effettiva, la 11
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Ritratto di Albert Einstein.
P ARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
Vi enna a vecchia capitale dell'impero asburgicp non fu soltanto, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, il grande centro della splendida cultura di quell'epoca, illustrata da personaggi come Klimt e Kokoschka, Mahler e Schonberg, Musil e Roth, Mach e Freud e Schlick. Essa è stata anche, negli anni che vanno dal primo dopoguerra agli anni Trenta, la città che in diversi momenti ha segnato emblematicamente alcune fasi cruciali della storia politica e sociale dell'Europa. 1919: Vienna, la rossa. È la città della prima giovinezza di Popper, dove un vasto proletariato industriale assicura al partito socialdemocratico austriaco una forte maggioranza di consensi. Proclamata nel novembre 1918 la repubblica democratica, i socialdemocratici tengono la direzione del paese, sostenuti anche dai Consigli degli operai e dei soldati, nati subito dopo la conclusione della guerra e fortisimi nella capitale. Cancelliere della repubblica è il socialdemocratico Karl Renner, confermato alla guida di un governo di coalizione dalle elezioni alla Costituente del 1919, che consacrano la vittoria dei socialdemocratici, seguiti però da vicino dal partito cristiano-sociale, espressione dell'Austria contadina e borghese. Una avanzata legislazione sociale, perseguita dal 1918 al 1920, assicura ai socialdemocratici l'egemonia sul movimento operaio, tanto che il neonato partito comunista austriaco sarebbe
rimasto una forza piuttosto marginale e non determinante. Vengono introdotti per legge i sussidi didisoccupazione, la limitazione del lavoro in fabbrica a otto ore, il diritto alle ferie pagate - una conquista assolutamente unica -, la tutela del lavoro femminile e infantile, le assicurazioni contro le malattie, mentre il forte movimento sindacale conquista i delegati di fabbrica ed impone la creazione di organismi sindacali per operai e impiegati. Anche quando il governo sarebbe passato, a partire dalla fine del 1920 nelle mani dei cristiano-sociali alleatisi con la destra conservatrice, l'amministrazione della capitale sarebbe rimasta ai socialdemocratici, che ne avrebbero fatto negli anni Venti e Trenta la città più progressista d'Europa. In grado di utilizzare un bilancio comunale assai robusto, ottenuto attraverso la pesante tassazione della ricchezza, gli amministratori
andarono famosi per la costruzione, nel sobborgo di Helligenstein alla periferia della città, del Kari-Marx-Hof, una sorta di città operaia, costituita di sessantamila alloggi popolari, ognuno di essi fornito - fatto assai raro allora - di una propria stanza da bagno. Viene sviluppato anche un ampio programma culturale ed educativo che prevede l'insegnamento secondario generalizzato, la creazione di una università del partito aperta ai lavoratori, l'utilizzazione della scienza statistica e della psicologia sociale a servizio della parte più debole della società. Gli anni Venti vedono anche la creazione nei quartieri . popolari dei consultori di psicanalisi, ad opera di Wilhelm Reich, un discepolo di Freud (v. cap. 29 par. 2.3). 1934: Vienna insanguinata. La piccola repubblica austriaca, scissa internamente tra una capitale «rossa» di due milioni di cittadini e una «provincia» moderata e contadina di
appena quattro milioni di abitanti, doveva presto giungere a drammatiche scadenze. Già sul finire degli anni Venti si erano venute rafforzando tendenze pangermaniste e fasciste, che più tardi, dopo l'ascesa al potere di Hitler in Germania, avrebbero lavorato per l'annessione dell'Austria alla Germania. Frattanto, i cristiano-sociali, sempre più risucchiati da tendenze conservatrici e reazionarie, avevano modificato nel 1929 la costituzione in senso autoritario, rendendo il governo sostanzialmente autonomo dal controllo e dal voto del parlamento, mentre la crisi economica mondiale doveva investire in pieno la repubblica ed acuire sensibilmente i conflitti sociali. Nel 1932 era asceso alla guida del governo Engelbert Dollfuss, un cristiano sociale di tendenze reazionarie e facistizzanti, deciso a trasformare la repubblica in uno stato corporativo, cattolico ed antisocialista.
SEZIONE PRIMA. FILOSOFIA ED EPISTEMOLOGIA CAPITOLO 15
1 Il «Karl Marx Hofi>.
2 Una parata militare a Vienna alla presenza di Hitler.
Ostile alla prospettiva di una unificazione dell'Austria con la Germania, sostenuta dai nazisti austriaci, Dollfuss si incontrò neli 'estate del 1933 con Mussolini, col quale contrattò le garanzie offerte dal governo italiano circa l'indipendenza austriaca con l'impegno a reprimere con la forza il movimento operaio austriaco ed il partito socialdemocratico, che nelle elezioni del 1930 si era notevolmente rafforzato. Dollfuss, che già qualche mese prima aveva messo fuori legge il piccolo partito comunista, poteva contare sull'appoggio della Heimwehr, il movimento paramilitare fascista che si era andato organizzando negli ultimi anni. l socialdemocratici avevano commesso l'errore di non rispondere con la mobilitazione di massa e lo sciopero generale alla decisione del governo del maggio 1933, gravida di significati minacciosi per la democrazia, di esautorare il parlamento e di governare a forza di decreti legge, sicché quando Dollfuss decise di colpire direttamente l'opposizione socialista, attraverso l'utilizzazione della Heimwehr in azioni violente, arresti sistematici di oppositori, l'imbavagliamento della stampa, il divieto di manifestazioni di piazza già il primo maggio del 1933 era stata vietata la tradizionale manifestazione sul Ring -, la demoralizzazione già serpeggiava tra le file socialdemocratiche e nel mondo operaio. È in questo quadro che si svolgono i fatti sanguinosi del febbraio 1934, quando a
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Linz, nella Stiria, avviene la prima risposta armata degli operai alle provocazioni della Heimwehr, mentre la rivolta si accende anche a Vienna. Asserragliati nei quartieri della cintura rossa della città, gli insorti, organizzati militarmente nel Republikanischer Schutzbund (Lega per la difesa della repubblica), combattono per tre giorni accanitamente, lasciando sul terreno milleduecento morti e cinquemila feriti. Stroncata la resistenza operaia con una repressione tanto feroce da indurre le ambasciate di Francia e Inghilterra ad intervenire per arrestarla, Dollfuss mette al bando tutte le organizzazioni del movimento operaiò, impone il partito unico nella forma di un Fronte patriottico che riunisce tutti i partiti conservatori, e fa
promulgare nel maggio 1934 una nuova costituzione, di ispirazione corporativa clerico-fascista. Poche settimane dopo però, il 25 luglio, cadeva vittima di un attentato organizzato dai nazisti austriaci; era questo il segnale che presto l'annessione dell'Austria alla Germania hitleriana sarebbe stata messa all'ordine del giorno. 1938: l'Ansch/uss. Sarebbe bastato che si verificasse quell'avvicinamento tra l'Italia di Mussolini e la Germania nazista che avrebbe fatto desistere il dittatore italiano dall'opporsi all'assorbimento dell'Austria nello stato tedesco. Fu l'impresa etiopica a spingere in questa direzione: isolata internazionalmente, l'Italia ottenne l'amicizia della Germania, che in cambio
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della protezione promessa ebbe via libera verso I'Anschluss. Il 12 febbraio 1938, Kurt Schuschnigg, il successore di Dollfuss, si reca in Germania, dove è costretto da Hitler a firmare un accordo che consegna l'economia austriaca nelle mani tedesche, e ad impegnarsi a nominare ministro degli interni del governo austriaco Seyss-lnquart, il capo dei nazisti austriaci. Questi, appena un mese dopo, costringe Schuschnigg alle dimissioni ed invia un telegramma a Hitler invitandolo ad intervenire militarmente in· Austria per «salvarla dal caos». Il 12 marzo le truppe tedesche entrano in Vienna, ed il giorno dopo l'Austria viene unita al Reich come sua Ostmark (marca orientale).
PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
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n «razionalismo critico» e il problema della verità /
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ur negando che la falsificazione di una teoria
:. p~rt~ senz'altro all~ fonnulazio~e di .una teoria
,; m1ghore, capace d1 dare una sp1egazwne anche .· delle osservazioni e dei dati sperimentali che ·, hanno avuto l'efficacia di falsificare la precedente; pur ritenendo anzi che il progresso scientifico non sia garantito da alcuna legge necessaria, tanto da . aver patito non infrequentemente arresti e diffiLa stona sostenevano che le proposizioni scientifiche riposerebbero sull'attività psicologica del ~ soggetto che le enuncia, con la conseguenza di psicologism~r: metterne a rischio la validità obbiettiva e di logicismo giungere ad esiti scettici, dall'altra i «logicisti» come i neo-kantiani della scuola di Marburgo (V. CAP. 2, PAR. 2) - rivendicavano quella validità oggettiva, affermando che le proposizioni logiche e matematiche ~lgono in sé, indipendentemente dalle condizionalità psichiche o storiche della coscienza, ma così non sfuggendo al rischio di collocarsi in una posizione dogmatica. È all'interno di questa problematica che doveva maturare - ne sono il documento le Ricerche logiche del 1901-02 (vol. I, Prolegomeni alla logica pura e vol. II, Ricerche sulla teoria e fenomenologia della conoscenza) - una prima formulazione della fenomenologia come del punto di vista capace di superare l'alternativa tra logicismo e psicologismo. Negli anni di Gottinga e di Friburgo si assiste alla maturazione della filosofia fenomenologica, che ha la sua esplicitazione ne La filosofia come scienza rigorosa del 1911 e, soprattutto, nelle Idee per una
timo avrebbe però sancito la rottura tra i due, provocata da una rielaborazione heideggeriana del metodo fenomenologico che metteva in discussione i fondamenti stessi della fenomenologia husserliana. Gli anni Trenta sono i più travagliati della vita di Busserl: in seguito alla conquista hitleriana del potere, viene radiato, lui ebreo, dal corpo accademico dell'università di Friburgo, e condannato ad una Gr1 . T solitudine solo in parte mitigata dalla collaboraanm renta zione di Eugen Fink, il suo fedele assistente. Pur privato della cittadinanza tedesca, rifiuta l'alternativa dell'esilio volontario: solo la morte, sopraggiunta nel 1938, gli risparmia, probabilmente, un più tragico destino di perseguitato. Eppure, è in questi anni tormentati che la fenomenologia husserliana raggiunge la sua più alta e suggestiva espressione, che doveva fare di Busserl uno dei pensatori fondamentali del Novecento. Due conferenze tenute nell935 con grande risonanza a Vienna e a Praga, rispettivamente su La filosofia nella crisi dell'umanità europea e su La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, successivamente rielaborate ed ampliate, avrebbero dato corpo all'ultimo grande scritto di Busserl, pubblicato parzialmente nel1936, e integralmente solo nell954 a sedici anni di distanza dalla morte dell'autore, con lo stesso titolo della lezione di Praga. In quest'opera Busserl sostiene che il processo di disumanizzazione e tecnicizzazione, cui sono andate soggette, a partire da Galilei, le scienze europee, La crisi è giunto ormai ad un momento che sembra pre- delle scienze ludere - ed egli ne vedeva forse il segnale più europee drammatico nell'affermarsi del naturalismo bio-
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913, scritto nel quale Busserl procede ad una fondazione trascendentale della fenomenologia che, per la sua intonazione idealistica, destinata ad accentuarsi nelle Meditazioni cartesiane del1929, avrebbe provocato discussioni e dissensi tra i suoi discepoli. Fin dagli anni di Gottinga si era infatti costituito un vero e proprio movimento fenomenologico, attraversato da tendenze che interpretavano e sviluppavano liberamente il pensiero husserliano, entrando spesso anche in conflitto con esso. Particolare importanza avrebbe avuto il rapporto di Busserl con Beidegger, che sarebbe stato per alcuni anni a Friburgo suo assistente ed amico. La pubblicazione nel 1927 di Essere e tempo di quest'ul-
Maturazione della fenomenologia. Contrasti con i discepoli
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SEZIONE SECONDA. LA CRISI DELLA RAGIONE CAPITOLO 17
logico del nazismo - al precipitare della civiltà europea nella barbarie di un'irrazionalismo ammantato di razionalità tecnologica. Solo il recupero della soggettività umana, reso possibile dalla filosofia fenomenologica, quale fondamento irriducibile di ogni forma di sapere e di agire, potrà salvare l'Europa dal nubifra-
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gio, restituendo all'uomo quell'autonomia di fronte al mondo, in cui consiste la sua libertà, della quale lo aveva privato la sua riduzione naturalistica ad oggetto fra gli altri oggetti del mondo. Ma vediamo ora più da vicino lo svolgimento del pensiero husserliano.
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Tra psicologismo e logicismo: le origini della fenomenologia n uno scritto del1891, La filosofia dell'aritmetica, che sviluppava la dissertazione Sul concetto di numero del 18 87, Husserl aveva sostenuto, sotto l'influenza di Brentano, che per spiegare la formazione dei princìpi e dei concetti dell'aritmetica, bisognasse ricondurli alle operazioni psichiche che starebbero a loro fondamento. Cosi, il concetto di numero, o molteplicità determinata, avrebbe, per esempio, come suo corrispettivo psicologico Un Husserl psicologista e quell'attività unificante della coscienza cui Husla critica di serl dà il nome di «collegamento collettivo», atFrege traverso cui una serie determinata di unità discrete viene raccolta in un tutto numerico. In una recensione del saggio husserliano, Gottlob Frege (V. CAP. 25*, PAR. 3), accusava Husserl di essere caduto in una posizione psicologistica. In quanto logicista, Frege osservava che, per determinare il concetto di numero, è del tutto irrilevante ricercarne l'origine nei processi mentali che precedono la sua enunciazione, i quali mai potrebbero essere invocati per la dimostrazione di un teorema o per apprendere una qualsiasi proprietà dei numeri, e concludeva con la frase famosa: «occorre sapere che cosa sia il mare del nord, non come ne sorga la nozione». Sollecitato da questa critica freghiana, e in particolare dalla lettura della Dottrina della scienza di Bernhard Bolzano (1781-1848), un filosofo e matema. . . tico praghese che aveva elaborato una teoria antioggeillvlta · log1st1ca · · de11a logtca, · Husserl cerca negl'1anm· scientifica e ps1co soggettività successivi una via che consenta di evitare cosi lo psicologismo come la posizione dei logici puri, nella convinzione che l'oggettività scientifica non sia di per sé incompatibile con il costituirsi degli oggetti logico-matematici sulla base di operazioni soggettive. Così egli avrebbe più tardi ricordato quegli anni: « ... mi trovavo sempre più turbato dalla questione di principio, che è quella di sapere come l'oggettività della matematica e di ogni scienza in generale sia compatibile con un fondamento psicologico della logica. Mi trovai quindi costretto a riflessioni critiche di ordine generale sull'essenza della logica e principalmente sui rapporti tra la soggettività della conoscenza e l'oggettività del contenuto di essa».
Frutto di questo lavoro di ricerca furono i due volumi delle Ricerche logiche, nel secondo dei quali fa la sua prima apparizione la teoria dell'intenzionalità della coscienza, in forza della quale Husserl sarebbe giunto a sciogliere, appunto, il contrasto tra oggettività delle verità logiche e soggettività dell'attività psicologica. Per questo era però necessaria una rifondazione della psicologia su basi non più empirico-descrittive, quali quelle sulle quali Brentano aveva costruito la sua teoria della coscienza. Egli, che pur aveva inteso combattere le posizioni riduzionistiche di chi negava l'autonomia della vita psichica rispetto ai livelli fisici e fisiologici, aveva finito, a parere di Husserl, col comprometterla, ricollocando la coscienza in quella di·mensione naturalistica dell'uomo come unità psi- 1 11. . d' .. h l .d d d l nsu ICienza 1 co-ftstca, c e a n uce a essere una parte e una psicologia mondo oggettivo. La stessa preziosissima teoria empirica dell'intenzionalità finisce col perdere, nel quadro di questa «naturalizzazione della coscienza», tutta la sua potenzialità filosofica. Tanto che la pretesa brentaniana di fondare su tale psicologia empirica la validità del pensiero logico avrebbe meritato interamente la severa critica dei logicisti. Si capisce allora perché Husserl, nel primo libro delle Ricerche, riaffermi con grande vigore la trascendenza degli «oggetti logici» che, come diceva Bolzano, sono immutabili «verità in sé» -, rispetto al fluire temporale dei processi psichici, e si faccia sostenitore di una «logica pura». Senza per questo far proprio il platonismo implicito nel punto di vista logicistico. Quale, allora, la riforma husserliana? Essa consiste nel formulare un nuovo concetto di coscienza, tale da richiedere la relatività ad essa degli oggetti logici, matematici e, in generale, scientifici, senza per questo dover negare o mettere a rischio, di questi oggetti, la trascendente «inseità». Perciò Husserl riprende il concetto brentaniano di intenzionalità, rinnovanèlone radicalmente il significato: mentre in Brentano l'og- Rilormulazione getto dell' «intendere» della coscienza è immanen- del concetto di te ad essa, essendo non altro che il fatto psichico intenzionalità stesso nettamente distinto dalla realtà oggettiva
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
esterna, Husserl afferma che, in virtù dell'intendere, la coscienza si trascende in direzione dell'essere, che mai potrebbe risolversi in essa, ma piuttosto ad essa si manifesta come qualcosa di diverso da essa e ad essa irriducibile. Il che, d'altronde, non significa che, dell'essere che così si manifesta alla coscienza, si possa parlare se non in quanto, appunto, si manifesta ad essa. La teoria husserliana dell'intenzionalità vuoi farla finita con l'idea, ancora presente in Brentano, che si possa parlare di coscienza e mondo oggettivo come di due realtà che sussisterebbero anche prima di entrare nel rappbrto conoscitivo. È da questo pregiudizio che discende anche la falsa alternativa tra psicologismo e logicismo, che viene superata con l'affermazione della correlatività tra oggettività dell'essere e soggettività della coscienza. Più tardi, Husserl avrebbe perfezionato la teoria dell'intenzionalità, - non più riferita soltanto agli oggetti logico-matematici -, distinguendo, in ogni esperienza vissuta (Erlebnis ), la noesis, ossia il dirigersi . . della coscienza verso l'oggetto - il percepire, . . NoesJsenoem1 1,1mmagmare, 1'Ides1'derare, ecc. -, d' a1 noemz,. che invece sono le diverse manifestazioni dell'oggetto - il percepito, l'immaginato, il desiderato, ecc. -, le quali, pur rivelando l'essere dell'oggetto «in carne ed ossa», non ne esauriscono, peraltro, e non ne potrebbero mai esaurire, la trascendenza. Alla ricerca fenomenologica - ché di questo or~ mai si tratta, anche se Husserl continua ad usare l'espressione brentaniana di «psicologia puramente descrittiva»- è estraneo il problema, che divide idealisti e realisti, se le «cose» intenzionate dalla coscienza come l'altro da sé, esistano o meno fuori della coscienza. Il solo compito dell'indagine è quello di descrivere ciò che alla coscienza effettivamente si dà, il fenomeno in quanto è l'essere stesso delle cose che si manifestano. Ma che cosa è ciò che si dà alla coscienza intenzionale? Husserl distingue due diversi tipi di intuizione, cui corrispondono due diversi tipi di contenuti noematici: a. «l'intuizione empirica», che si rivolge all'oggetto particolare, dato 'hic et nunc', che c'è ma avrebbe potuto anche non esserci, è così ma avrebbe Intuizione . . questo suono, questo .. potuto essere altnmentl: ) enl 1111ca ... . l co1ore, questo tnango o cos1, e cos1, d'1segnato, e così via; b. «l'intuizione categoriale» - che successivamente sarebbe stata detta «intuizione eidetica» - con la quale, invece, vien colto l' «oggetto ideale», la «specie», di cui gli oggetti particolari, dati nell'esperienza, non sono altro che i casi particolari: non questo suono, o colore, o triangolo, bensì il suono, il colore, il · triangolo. Tali oggetti universali non vanno confusi con le rappresentazioni generali di cui sempre hanno parlato gli empiristi: queste risultano un processo di
astrazione dai casi particolari dell'esperienza, mentre le «specie», anche se in connessione con ... e intuizione eidetica gli oggetti empirici, sono intuite a priori, e costituiscono quelle strutture immutevoli dell'esperienza, che sono oggetto del sapere scientifico. All'empirismo Husserl contrappone un punto di vista che potrebbe esser detto platonico: non solo la conoscenza dell'universale non potrebbe mai esser ricavata da quella dei fatti particolari, ma anzi è questa ad esser resa possibile da quella. I fatti particolari non sono altro, infatti, che «esemplificazioni» delle specie, e l'intuizione empirica che se ne ha, riposa, pertanto, sull'intuizione a priori di quest'ultime. A questi due tipi diversi di intuizione corrispondono due diversi livelli della coscienza: la coscienza empirica, naturale, immersa nel commercio con le cose reali, sensibili, spazialmente e temporal- Coscienza empirica e mente situate, da una parte; la coscienza «pura», coscienza «intenzionale» - che Husserl presto chiamerà co- fenomenologica scienza «fenomenologica» - dall'altra, che è l'universale essenza di ogni coscienza possibile, correlativa agli «oggetti ideali» dati nell'intuizione categoriale. Ma così siamo ormai alle soglie della filosofia fenomenologica.
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Husserl in compagnia di Heidegger.
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SEZIONE SECONDA. LA CRISI DELLA RAGIONE CAPITOLO 17
In un saggio del 1911, La filosofia come scienza rigorosa, Husserl avrebbe proposto l'atteggiamento fenomenologico della coscienza come condizione di quel rigore scientifico, che sempre la filosofia nella sua storia ha preteso di acquisire senza mai riuscirvi veramente.
La scienza fenomenologica pura, in quanto ricerca di «essenze» - come ora Husserl chiama le specie -, rappresenta, appunto, vera e propria «scienza nuova», la raggiunta rigorizzazione della filosofia. Le Idee del 1913 ne sono l'ormai matura esplicitazione. Vediamo.
4 '""""'"""""""""""""""" """ """""""'"'""""""""""""'"""""""""""""""·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'·'•'·'·'·""''"'""""""""""""""'"'·'"·',",',,·.,. . . .·, ·,·,·,·
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La filosofia fenomenologica: epochè ed essenze eidetiche erché la filosofia divenga una scienza rigorosa, è necessario liberarsi dai presupposti del naturalismo. L'atteggiamento fenomenologico è infatti . incompatibile con l'atteggiamento naturalistico della coscienza che deve, come Husserl ama dire, esser «messo tra parentesi». , . L'atteggiamento naturalistico di fronte al mondo, Lat1eggmmen1o . . ll' naturalistico carattenstlCo de uomo comune ma anche dello scienziato, è cosi raffigurabile: a. esso consiste in un «essere-nel-mondo», del tutto dimentichi della originarietà della coscienza, che viene assimilata alle cose del mondo fisico, del quale noi stessi ci sentiamo parte. Scrive Husserl : «io, uomo reale, sono un oggetto, come gli altri, del mondo della natura; compio degli atti (cogitationes), ma essi, in quanto appartengono a questo oggetto umano che sono io, sono accadimenti della stessa realtà naturale». E ancora: «grazie a un rapporto empirico con un corpo, la coscienza diventa coscienza umana e animale, e solo così può occupare un posto nello spazio e nel tempo della natura».
L'atteggiamento naturalistico è insomma l'insieme delle «certezze» che accompagnano la nostra vita quotidiana: innanzitutto, la certezza dell'esistenza di un mondo spazio-temporale, del quale noi uomini, come tanti altri esseri viventi e non viventi, facciamo parte, con i nostri pensieri, i nostri stati di coscienza, i nostri desideri e volizioni. b. In quanto essere naturale, io sono interessato all'esistenza del mondo delle cose, che stanno di fronte a me come termini dei miei bisogni, possibili «oggetti d'uso»: «Grazie ... al vedere, al toccare, all'udire, ecc., le cose sono in una certa ripartizione spaziale qui per me, mi sono alla mano, ... sia che io presti o non presti loro attenzione, sia che io mi occupi o no di esse nel pensiero, nel sentimento, nella volontà. Anche esseri animali come gli uomini sono qui per me; io li guardo, li vedo, li sento avvicinare, stringo loro la mano e, parlando con loro, comprendo immediatamente quali siano le loro rappresentazioni e i loro pensieri, quali sentimenti si muovano in loro, che cosa essi desiderino e vogliano. Che io presti o non presti loro attenzione anch'essi mi sono alla mano ... ». '
L'atteggiamento naturalistico non è di natura contemplativa, bensì eminentemente pragmatica: il mondo delle cose mi è dinanzi
«anche come mondo di valori, mondo di beni, mondo pratico. Davanti a me trovo le cose fornite di caratteri di valore, come di proprietà fisiche, belle e brutte, piacevoli e spiacevoli, gradite e sgradite, ecc ... E, come per le mère cose, ciò vale naturalmente anche per gli uomini e gli animali che mi circondano ... Essi sono miei 'amici' o 'nemici', miei 'inferiori' o 'superiori', 'estranei' o 'parenti', ecc.»
c. Infine, nell'atteggiamento naturalistico il mondo si presenta del tutto staccato dalla soggettività e dal flusso della vita vissuta in cui quella consiste, ridotto a inerte «natura», data una volta per tutte, e una volta per tutte definita e compiuta. Con un'analisi per qualche aspetto simile a quella con cui Bergson aveva parlato del «morcelage» (=spezzettamento) caratteristico del mondo materiale, Husserl tratta delle cose fisiche come di entità ritagliate via dal continuum dell'esperienza vissuta, e cosi cristallizzate nell'immobilità di un'esistenza trascendente e separata dal movimento vitale della coscienza, da cui esse sono state come sradicate. d. È su questa trascendenza cristallizzata della natura come mondo rigido e precostituito che anche lo scienziato costruisce le sue teorie, le quali presuppongono quell'ingenuo dogmatismo che è caratteristico della coscienza comune. Le scienze positive sono scienze di «fatti»; ma esse hanno per oggetto non le cose che realmente percepiamo, bensì quelle che otteniamo in virtù di una astrazione che le fa tanto esatte quanto separate ed inerti. L'accesso all'atteggiamento fenomenologico, il solo capace di disoccultare il senso perduto del mondo, richiede la «neutralizzazione», la «messa fuori azione», o «messa in parentesi» dell'atteggia. mento naturalistico. Si tratta di quell'operazione L'epoche che Husserl, mutuando il termine dall'antico scetticismo greco, chiama anche «epochè», o anche «riduzione fenomenologica»: «Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all'essenza dell'atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia sotto l'aspetto ontico: dunque, l'intero mondo naturale, che è costantemente qui per noi, alla mano ... ».
Ciò peraltro non significa che il mondo scompaia dinanzi alla coscienza e cessi di sussistere: non lo po-
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
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trebbe tollerare la natura intenzionale della coscienza che, come s'è già detto, è sempre coscienza di qualcosa, e non potrebbe mai risolversi in coscienza di nulla. L'epochè significa soltanto la sospensione dell'opinione, considerata ovvia dal pensiero comune e dagli scienziati, che il mondo esista come realtà precostituita e già conclusa, ossia come natura trascendente l'esperienza vissuta: « ... io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista,
Il regime nazista e il controllo dei mass-media
non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso propr.io l'epochè fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita praticonaturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente ... ».
Il passaggio all'atteggiamento fenomenologico significa la restituzione del mondo ad una considerazione puramente contemplativa, libera da ogni preoccupazione pragmatica, in forza della quale esso viene . reintegrato nella vita della coscienza, quale puro , L a11eggiamenlo r h ., .· . d , . fenomenologico «1enomeno» c e pm non nnv1a a un esistenza naturale. Lo sguardo del fenomenologo, «spettatore disinteressato», si rivolge alle esperienze vissute (Erlebnisse) della coscienza, per coglierne l'intenzionalità e far emergere da esse, attraverso l'intuizione eidetica, quelle forme permanenti che nelle Ricerche logiche venivano chiamate «oggetti ideali» o «specie», e che ora, dal termine platonico eidos, vengono dette «essenze eidetiche». L'epochè, operando sulle diverse regioni del mondo e sui «fatti» che le costituiscono, - dai fatti fisici a quelli biologici e psicologici, fino alle manifestazioni culturali e storiche umane (economia, politica, arte, religione e così via) -, e che sono oggetto delle diverse scienze positive, dà luogo a corrispondenti «scienze eidetiche regionali», che Husserl chiama anche «ontologie regionali», ognuna delle quali coglie e descrive, al di là dei fatti particolari, l'essenza eidetica del fenomeno che concerne il proprio ambito. L . Per esempio, alla fenomenologia della religione 11 e ~:~~;~~ interessa stabilire, al di là di fatti particolari come questo rito o questa credenza - che possono interessare storici, etnologi o sociologi -, che cosa sia la religiosità, ossia quel quid che fa d'una molteplicità di fenomeni, dei fenomeni religiosi. E così, la considerazione fenomenologica dei fatti fisici, o sociali, o politici, dà luogo alla descrizione dell'eidos della fisicità, della socialità, della politicità, e quindi alle scienze eidetiche del mondo fisico, della società, della politica. Va da sé, poi, che la descrizione fenomenologica può, all'interno di ciascuna «antologia regionale», ulteriormente specificarsi, avvicinando fenomeni sempre più circoscritti. E così possono costituirsi - ne è ricca la storia del movimento fenomenologico - fenomenologie della percezione, dell'immaginario, del corpo, dell'amore, della malattia mentale, e così via.
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iportiamo dalla Storia del Terzo Reich di William Shirer, un giornalista americano vissuto durante gli anni Trenta in Germania, una pagina relativa al controllo della stampa, della radio e del cinema da parte del regime hitleriano nella persona di loseph Goebbels, ministro della propaganda e uomo fedelissimo al Fuhrer. «Ogni mattina, i redattori dei quotidiani di Berlino e i corrispondenti di quelli stampati in altre città del Reich si riunivano al ministero della propaganda per farsi dire dal dottor Goebbels, ò da uno dei suoi aiutanti, quali notizie stampare e quali tacere, come scrivere le notizie e come intitolarle, quali campagne rimandare o quali lanciare, e qual era l'articolo di fondo desiderato per quel giorno. A evitare malintesi,
venivano fornite, assieme alle istruzioni orali, direttive scritte giornalmente ... Per fare il redattore nel Terzo Reich, un giornalista doveva essere, anzitutto, politicamente e razzialmente 'illibato'. La legge per la stampa del Reich del 4 ottobre 1933 ... stabiliva che tutti i redattori dovessero possedere Ja cittadinanza tedesca, essere di origine ariana e non sposati con ebrei ... ». Uno dei primi giornali costretti a smettere la loro attività fu la Vossische Zeitung. Essendo stato fondato n~l1704 e annoverando tra i suoi collaboratori del passato nomi come Federico il Grande, Lessing e Rathenau, era diventato il più importante giornale della Germania, paragonabile al Times di Londra e al New York Times. Ma era un
SEZIONE SECONDA. LA CRISI DELLA RAGIONE CAPITOLO 17
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1 Un'immagine di Goebbels.
2 Il capo della propaganda radiofonlca Glassmeier.
giornale liberale, e apparteneva alla casa editrice Ullstein, ditta ebrea. Dovette cessare la sua attività il 1o aprile 1934, dopo 230 anni consecutivi di pubblicazione. Il Berliner Tageblatt, altro giornale liberale di fama mondiale, resistette un po' più a lungo, fino al1937, ma il suo proprietario, ebreo, era stato costretto a cedere la sua cointeressenza al giornale nella primavera del1933. Anche il terzo grande giornale liberale tedesco, la Frankfurter Zeitung, continuò ad essere stampato dopo essersi disfatto del proprietario ebreo e di tutti i redattori ebrei ... In questa situazione ... era inevitabile il sopraggiungere di una mortale monotonia nella stampa nazionale. Perfino un popolo così irreggimentato e così propenso ad accettare l'autorità, alla fine si stancò di questi quotidiani. Diminuì la diffusione perfino dei fogli nazisti più importanti quali il Volkischer Beobachter del mattino e Der Angriff della sera. E la tiratura complessiva di tutti i giornali cadde rapidamente a misura che questi, uno dopo l'altro soccombevano o venivano
rilevati dagli editori nazisti ... Presto la radio e il cinema furono pur essi imbrigliati al servizio della propaganda dello stato nazista. Goebbels aveva sempre considerato la radio (la televisione non era ancora arrivata) il più efficace strumento di propaganda della moderna società e, servendosi della sezione radio del suo ministero ... si assicurò un completo controllo sulle trasmissioni asservendole ai propri fini. Il suo compito fu reso più facile dal fatto che in Germania, come in altri paesi europei, la radiodiffusione era un monopolio posseduto e diretto dallo stato ... Il cinema rimase in mano a imprese private, ma il ministero della propaganda ... controllava ogni settore di questa industria, il suo compito essendo quello ... 'di elevare l'industria cinematografica al di sopra dei principi economici liberali ... mettendola così in grado di assumere quei compiti che essa è tenuta ad adempiere nello stato nazionai socialista'. Il risultato in entrambi i campi, fu quello di affliggere il popolo tedesco con programmi radiofonici e film altrettanto vuoti e tediosi che
i quotidiani e i periodici. Anche un pubblico abituato ad accettare senza proteste che si stabilisse dall'alto cos'era adatto per lui, finì per ribellarsi. Gli spettatori si astenevano in massa dall'andare a vedere i film nazisti, e affollavano le sale dove si davano i pochi film stranieri (per lo più film di Hollywood di seconda categoria) che Goebbels permetteva fossero proiettati sugli schermi tedeschi. Verso la metà del decennio 1930-40, i film tedeschi venivano così frequentemente fischiati, che il ministro degli interni dell'epoca pronunciò un severo monito contro 'il comportamento sedizioso del pubblico dei cinematografi'. Similmente, i programmi radio venivano così apertamente criticati, che il presidente della Camera per la radio ... dichiarò che tale atteggiamento era 'un insulto alla cultura tedesca' e non sarebbe stato più tollerato. In quel tempo un ascoltatore tedesco poteva ancora sintonizzare la radio su una stazione straniera senza rischiare la testa, come avvenne più tardi una volta iniziata la guerra. Ed erano forse parecchi a farlo ... lo stesso avrei dovuto sperimentare quanto sia facile essere ingannati da una stampa e da una radio insincere e censurate, in uno stato totalitario. Sebbene, a differenza di quasi tutti i tedeschi, io potessi prender visione giornalmente dei giornali stranieri ... e sebbene ascoltassi regolarmente la BBC e altre trasmissioni straniere, la mia attività richiedeva che impiegassi giornalmente molte ore nello spoglio della stampa
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tedesca, nell'ascolto della radio locale, in colloqui con funzionari nazisti e frequentando le adunate del partito. Sorprendeva, e talvolta impressionava, constatare come, nonostante avessi modo di conoscere la situazione e malgrado l'innata diffidenza verso le notizie di fonte nazista, una costa(lte somministrazione, per anni e anni, di falsificazioni e deformazioni, avesse un certo effetto sulla mente e spesso la fuorviasse. Nessuno, se non è vissuto per anni in un paese totalitario, può rendersi conto di quanto sia difficile sfuggire alle paurose conseguenze della propaganda ben studiata e incessante di. un regime. Spesso, in una casa o in un ufficio tedesco, e talvolta durante una conversazione occasionale con uno sconosciuto al ristorante, in una birreria o in un caffè, mi è capitato di trovarmi di fronte alle asserzioni più strane da parte di persone apparentemente istruite e intelligenti. Era chiaro che esse stavano ripetendo automaticamente qualche assurdità sentita alla radio o letta sui giornali. Qualche volta si cedeva alla tentazione di farlo notare, ma si era accolti in questo caso da un tale sguardo di incredulità, da una tale reazione di silenzio (come se si fosse bestemmiato contro l'Onnipotente) che si capiva quanto fosse inutile perfino tentare di prendere contatto con una mente ormai deformata, per la quale la realtà delle cose era divenuta quella che Hitler e Goebbels, cinicamente incuranti della verità, indicavano come tale».
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La radicalizzazione dell' epochè e l'idealismo trascendentale
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sottolinearlo. Ambedue si propongono un co-
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zwne dt una sctenza umversale. Ambedue nconoscono nell'acquisizione dell'evidenza il loro Ep~~~~i~ termine ad quein. Ambedue, infine, concludono cartesiano al riconoscimento dell'originarietà e del primato della coscienza. Ma per un certo verso l'epochè husserliana è meno radicale del dubbio cartesiano, per un altro lo è di più. Lo è di meno perché essa non comporta, a differenza di quanto succede nel procedimento di Cartesio, l'annullamento del mondo sotto i colpi del dubbio, ma solo la sospensione della tesi naturalistica, che continua a sopravvivere sotto lo sguardo fenomenologico che la descrive. Viceversa, l'epochè appare più radicale quando si pensi che, mentre il dubbio cartesiano è solo provvisorio e destinato presto a lasciar posto alla certezza assoluta, l'esercizio dell'epochè, al contrario, deve continuamente essere rinnovato, in quanto rappresenta l'atteggiamento, attraverso il quale soltanto la verità del mondo si fa evidente. In secondo luogo, mentre il dubbio cartesiano conduce, attraverso il proprio scioglimento, alla validificazione delle scienze fisico-matematiche, l'epochè, insieme con l'«ovvietà» del mondo della coscienza comune, mette in discussione anche tutte le scienze che su quell'ovvietà sono fondate. La radicalità dell'epochizzazione si rivela interamente in quella che possiamo indicare come la sua seconda tappa, che consiste nella messa in parentesi anche delle scienze eidetiche, costituitesi, lo si è visto, con la «riduzione» del mondo naturale. Tale ulLa secon da . 'd . , . h' t d 11 d d d' epochizzazione tenore n uzwne e ne tes a a a oman a 1 assoluta evidenza che la fenomenologia avanza, e che mai potrebbe essere assicurata dalle intuizioni eidetiche che, anche se comportano la messa in parentesi dell'ingenua fiducia nel mondo naturale, continuano a riferirsi ad esso, sia pur trasfigurato nelle essenze ideali. Queste sono pur sempre oggetti mondani. Occorre allora risalire a ciò che mai potrebbe esser messo «in parentesi», poiché è esso stesso a por. re le parentesi; a ciò che costituisce il «residuo» ll res1duo ., l . . 'd 'b'l . ~ d t fenomenologico 1enomeno og1eo 1rn uc1 1 e, 11 on amen o assolutamente extramondano della realtà, l' «essere assoluto» che nulla 're' indiget ad existendum, di nessuna 'cosa' ha bisogno per esistere. La «coscienza pura nel suo essere assoluto»: «questa è ciò che ci rimane come residuo fenomenologico, e rimane, sebbene abbiamo neutralizzato il mondo inte-
ro, con tutte le cose, gli esseri viventi e gli uomini, compresi noi stessi».
La radicalizzazione del metodo della riduzione fenomenologica conduce dunque ad una forma di «idealismo trascendentale»: la coscienza pura, ben lungi dall'essere un «frammento della natura, del u 'd . , l'. . l . l n 1 ea 11smo mondo reale» - come lo e 10 pstco og1eo,. q~e - trascendenta. l'unità psicofisica che è l'animale uomo -, s1 nve- lo. ... la come principio costitutivo, condizione trascendentale della natura, di quel mondo oggettivo che non è realtà per se stante, bensì semplicemente il correlato della coscienza, oggetto della sua intenzionalità. Così, in una specie di rinnovata rivoluzione copernicana, «si rovescia la concezione comune dell'essere. L'essere che per noi è il primo - il mondo della natura -, è in sé il secondo, ossia è quello che è solo 'in rapporto' al pri?1o - la coscienza pura ... La realtà, tanto quella delle cose smgolarmente prese, quanto quella del mondo intero, manca essenzialmente (nel nostro senso rigoroso) di a~tosufficienza. Ess~ non è in se stessa qualcosa di assoluto e, m secondo luogo, s1 collega ad altro; no, essa non è nulla in senso assoluto, non ha alcuna 'essenza assoluta', ma ha l'essenzialità di qualcosa che per principio è soltanto intenzionale, soltanto consaputo, oppure rappresentabile, realizzabile in apparizioni possibili».
La coscienza trascendentale è la sintesi, in una medesima «unità di senso», dei diversi modi di «adombramento» e di «apparizione» delle cose. Se è vero che questo idealismo trascendentale ha in comune con il trascendentalismo kantiano il problema critico della fondazione a priori del mondo oggettivo dell'esperienza, non è men vero che be~ diversi sono i percorsi e gli esiti di queste due grand1 esperienze teOretiche. Non solo vien meno nella d' 0 da fenomenologia la distinzione tra fenomeno e co- ~;1 e;~e~~ntiano sa in sé, ma anche il soggetto, posto da Kant a fondamento della conoscenza è, agli occhi di Husserl, ancora troppo un io mondano, compromesso, nonostante la sua apriorità e formalità trascendentale, con la psichicità dell'essere umano. Ma soprattutto, mentre il soggetto trascendentale kantiano è situato al di fuori del tempo, una delle strutture costitutive della coscienza pura husserliana è, per l'appunto, la temporalità. Non si tratta, naturalmente, del tempo oggettivo in cui si trovano ad esser collocate le cose quali sono sp~ri~entate all'i?terno dell'attegg~amento na~u- Tempo rahsttco. Questo e un tempo estramato dalla vtta oggettivo ... della coscienza; in esso il passato è fermato una volta per tutte nel «già compiuto» e il futuro è semplicemente un «non ancora». Nessuna meridiana, nessun orologio, nessun al-
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le
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tro mezzo fisico, che servono a misurare il tempo oggettivo, e che Husserl chiama anche tempo cosmico, potrebbe mai riuscire a misurare il tempo fenomenologico. Questo è la forma unitaria che abbraccia tutti gli Erlebnisse in quella «corrente d'esperienza» che è costitutiva della coscienza pura. In essa il presente, l'attualmente vissuto, raccoglie in sé, attraverso un processo continuo di «ritenzionh> e di «protenzioni», ... e l empo 'l d 'l f I · · · lenomenologico 1 pashsato e 1 uturdo. n ?gm a~tlmo presente, v1a VIa c e, trascorren o, viene vissuto, sono come trattenuti - ritenzione - gli attimi appena trascorsi e vissuti, sicché il passato continua a vivere come presenza del già vissuto, mentre, a sua volta, il futuro vive già nell'attimo presente in virtù dell'aspettativa- protenzione - con la quale il presente anticipa ciò che sta per avvenire. In questa tensione dello scorrimento temporale consiste la vita della coscienza trascendentale, che si
rivela come un perenne «vivere oltre», come un trascendersi nella direzione di una possibile forma finale. A differenza di Bergson che voleva la coscienza tanto più autentica ed originaria quanto più immersa nella durata temporale, Husserl, in virtù della concezione intenzionale della coscienza, ne descrive il movimento come un protendersi dal flusso temporale verso Temporalità e essenze che, pur emergendo ne, nella loro invarian- intenzionalità; za trascendono il tempo. Insomma la temporalità distanza da della coscienza si rivela tensione verso il compi- Bergson mento di sé. Una mèta ideale questa che, pur irraggiungibile, non consente alla coscienza- e qui sta la ragione della epochizzazione più radicale - di rimanere legata alle antologie regionali: essa, nel rinnovare di continuo la riduzione fenomenologica, si trascende verso sempre nuovi orizzonti, al di là di ogni essenza particolare, in direzione di un senso finalmente compiuto e totale dell'essere .
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Le «Meditazioni cartesiane»: verso un esito spiritualistico?
·"1 dio sviluppo della fenomenologia nella direrione un idealismo trascendentale connotato da
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' jj: forti accentuazioni «egologiche», e perfino con possibili esiti di tipo fichtiano,.se~brerebbe tro-
=.:· vare conferma nelle due lezwm che Husserl
tenne nel 1929 nell'Anfiteatro Descartes della Sorbona, a Parigi, e che sarebbero state pubblicate in francese nel 1931, con il titolo di Meditazioni cartesiane. Se prima di allora l'idealismo trascendentale husserliano aveva avuto il suo principale punto di riferimento, certo non pacifico, nella fondazione kantiana, u da quel momento fu Cartesio l'interlocutore prineo-cmtesian~ vilegiato della riflessione husserliana, tanto che lo stesso Husserl poté esordire alla Sorbona, presentando la fenomenologia come una specie di neocartesianismo, e sia pur precisando subito come si trattasse di uno «sviluppo radicale dei motivi cartesiani», che portava «a negare quasi tutto il contenuto dottrinale comunemente noto della filosofia cartesiana». A Cartesio viene attribuito il merito di aver aperto la strada alla filosofia fenomenologica, con l'assula soggettività, l' «ego cogito», quale evidenc.lo c11e e, mere , d' . . . ., d . . vivo... z~ 1mme 1ata e ongmana, 10n amento e pnnclpw del sapere. Anche se il filosofo francese aveva compromesso quasi subito un così promettente inizio, incorrendo nell'errore di identificare la coscienza pura trascendentale con la «res cogitans», così riducendola ad esistenza mondana, come se fosse un : .· =c.=.::u."~.c..=:'.:'' .. _""'·l
La vicenda della fenomenologia nel mondo contemporaneo va ben oltre i confini del pensiero di Husserl e della cultura strettamente filosofica. Per quanto riguarda il settore degli studi filosofici, molteplici sono gli indirizzi e le tendenze che si rifanno in qualche modo ad un aspetto o all'altro dell'insegnamento husserliano, pur differenziandosene spesso anche profondamente, e dando luogo così a sviluppi contrastanti del pensiero fenomenologico. La fenomenologia si presenta, pertanto, come un vasto movimento che mai Husserl sarebbe riuscito a controllare, e nei confronti del quale, anzi, egli assunse sempre un atteggiamento di non riconoscimento e di rifiuto.
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Ad alcuni autori ispiratisi ad Husserl dedichiamo nel testo ampio spazio, come, per esempio, ad Heidegger, a Sartre, a Merleau-Ponty. Qui ci limitiamo ad accennare all'opera di un pensatore tedesco, Max Scheler (1874-1928), che durante gli anni Venti e Trenta ebbe a confrontarsi col pensiero di Husserl, proponendo una interpretazione dell'etica secondo il metodo fenomenologico, per molti versi interessante. Scheler osteggia lo sviluppo in senso trascendentale ed idealistico impresso alla fenomenologia dalle Idee del1913 e, in sintonia con gli orientamenti della scuola fenomenologica di Gottinga- che si era raccolta intorno ad Husserl negli anni del suo insegnamento in quella città-, privilegia il tema del «ritorno alle cose stesse» e la polemica antipsicologistica delle Ricerche logiche, nella prospettiva di una antologia che riconosca la precedenza dell'essere sul conoscere. In una direzione analoga si colloca del resto un altro pensatore tedesco del tempo, Nicolai Hartmann (1882-1950), autore nel 1921 di un'opera sui Principi di i.Jna metafisica della conoscenza, nella quale si sostiene che la fenomenologia, lungi dall'esaurire in sé il compito filosofico, non è altro che un procedimento metodologico descrittivo dei fenomeni, preliminare alla costruzione della filosofia come antologia. Scheler è soprattutto interessato alla fondazione di una fenomenologia dei valori etici che, pur rifiutando di ridurli a contenuti empirici dati a posteriori, nemmeno li riassorba nelle strutture trascendentali della coscienza ma, piuttosto, li riconosca come entità oggettive, trascendenti rispetto agli atti con cui la coscienza li apprende. Si profila così un'etica «materiale», distante così dall'empirismo come dall'astratto formalismo dell'idea kantiana del dove~e. Contro l'intenzionalità husserliana, che faceva l'oggetto correlativo alla coscil:mza, Scheler identifica l'attività intenzionale con la vita emozionale della coscienza, con il sentimento puro, irrazionale ma non riducibile a sensibilità empirica, attraverso il quale si compie l'intuizione eidetica di quelle «essenze» della sfera etica, che sono appunto i valori. Viene respinta l'idea dell'indagine fenomenologica come sguardo disinteressato, puramente teoretico, e rivalutata, sulle orme di Pascal, la dimensione del «cuore» come fonte di rivelazioni non meno reali di quelle offerte dalla ragione teoretica. Chi volesse familiarizzarsi con questa tematica, potrebbe vedere il saggio più importante di Scheler, coevo delle Idee di Husserl, Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valoridel1913 (ed. it. Bocca, Milano 1944), insieme con due brevi scritti sull'etica scheleriana, non recenti ma ancora significativi: L'etica di Max Scheler, in C. Luporini, Filosofi vecchi e nuovi, Sansoni, Firenze 1947, e Scheler e il problema dei valori, in E. Paci, Pensiero, esistenza, valori, Bocca, Milano 1940. Per il lettore che fosse interessato ad un esame più ampio delle più recenti filosofie di provenienza e di ispirazione fenomenologica, indichiamo qui di seguito autori e scritti tra quelli più significativi, e accessibili al lettore italiano. Di area francese sono Paul Ricoeur (1913) ed Emmanuel Levinas (1905): filosofi ambedue di ispirazione religiosa, essi muovono, come già Sartre e Merleau Ponty, da un intreccio di tematiche fenomenologiche ed esistenzialistiche. Del primo, che giunge a collocarsi sul terreno delle filosofie ermeneutiche (v. cap.
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Capitolo
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17 18, par. 2.1 ), si possono vedere Finitudine e colpa del 1960 (t r. it. Il Mulino, Bologna 1970), Dell'interpretazione. Saggio su Freud del1965 (tr. it. Mondadori, Milano 1967), Il conflitto delle interpretazioni del1969 (tr. it. Jaca Book, Milano 1977) e, infine, La metafora viva del 1975 (tr. it. Jaca Book, Milano 1981). Di Levinas, sensibile all'influenza dell'ultimo Heidegger e di Kierkegaard, si suggerisce la lettura di Totalità e infinito del1961 (tr. it. Jaka Book, Milano 1980). In Italia, dopo l'attenuarsi dell'interesse per le filosofie esistenzialistiche, protagonista della ripresa della fenomenologia husserliana negli anni cinquanta, è stato Enzo Paci (1911-1976), cui si deve l'originale tentativo di una integrazione reciproca di fenomenologia e marxismo, attraverso lo sviluppo del tema del «mondo-della-vita» nella direzione di una «intenzionalità dei bisogni». Di questo autore è da leggersi, innanzitutto, Funzione delle scienze e significato dell'uomo, Il Saggiatora, Milano 1963. Del rapporto tra fenomenologia e marxismo si era occupato in termini critici anche il filosofo vietnamita Tran-Duc-Thao nel suo Fenomenologia e materialismo dialettico, composto tra il1942 e il1951 (tr. it. Feltrinelli, Milano). Dopo un primo tentativo di integrare il marxismo con spunti fenomenologici, egli aveva finito col concludere che «le analisi fenomenologiche concrete possono svilupparsi pienamente solo nell'orizzonte del materialismo storico». Per una visione complessiva del movimento fenomenologico sul terreno propriamente filosofico, sonda vedere: J. F. Lyotard, La fenomenologiadel1954 (tr. it., D'Anna, Firenze 1973); P. Chiodi, Esistenzialismo e fenomenologia, Comunità, Milano 1963; C. Sini, La Fenomenologia, un'antologia Garzanti, Milano 1965; G. Forni, Fenomenologia, Marzorati, Milano 1973; S. Zecchi, La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea La Nuova Italia, Firenze 1978; S. Zecchi, La fenomenologia, un'antologia Loescher, Torino 1983. -
Ma la fenomenologia ha esercitato, come dicevamo, una vasta influenza anche su settori della cultura diversi da quello strettamente filosofico. Orientamenti fenomenologici sono presenti nell'ambito degli studi di psicologia; significativa è l'apparizione di una psichiatria fenomenologica (v. cap. 29, par. 3.3), con tutto un nuovo approccio allo studio della malattia mentale; importanti tracce il metodo fenomenologico ha lasciato in settori come quelli di epistemologia, sociologia, estetica. Anche scrittori e romanzieri hanno avuto nella fenomenologia un punto di riferimento per la loro attività letteraria: basterebbe pensare agli scrittori francesi del cosiddetto Nouveau Roman, come Michel Butor (1926) o, soprattutto, Alain Robbe-Grillet (1922), autore di romanzi impostati sull'esercizio dello «sguardo», sulla «descrizione ottica» freddamente oggettuale delle forme e delle cose. Robbe-Grillet avrebbe trasferito anche nel cinema questo suo modo di guardare alla realtà, fin da quando nel1961 scrive la sceneggiatura del film di Alain Resnais, L 'anno scorso a Marienbad. Infine la fenomenologia è stata utilizzata anche negli studi di storia delle religioni e nel campo stesso della teologia e della esegesi delle sacre scritture. Significativa per quest'ultimo settore la proposta di «demitizzazione» del messaggio cristiano di Rudolf Bultmann (v. cap. 26, par. 3), legato in qualche modo alla fenomenologia per l'influenza che su di lui esercita Heidegger. Chi volesse documentarsi su questo così ampio panorama, e trovare utili indicazioni bibliografiche, potrebbe vedere il li volume del già citato La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea di S. Zecchi.
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Capitolo
18
Heidegger, Gadamer e l'ermeneutica
Heidegger (1889-1976): il pastore dell'essere ............ ,,.,,, .. ,,,, .. ,.,,,,,,,,,,,::::;::;::::::ì:::ìii:=::::·"
Esistenzialista o ontologo? ppare oggi piuttosto datata l'interpretazione, risalente agli anni Trenta e Quaranta e particolarmente diffusa nella Francia dei Sartre e dei Marcel, di Heidegger come filosofo dell'esistenzialismo. Del grande filosofo tedesco si conosceva allora soprattutto il capolavoro del1927, Essere e tempo, incentrato sull'analisi, secondo il metodo fenomeUna no.logico, dell'esistenza umana -:- l' «ess~rci» (~a interpretazione sem) -,secondo la celebre espresswne heldeggenadatata na. Il problema antologico, che pur era già presente, fondamentale, nell'indagine di Heidegger, veniva trascurato dagli interpreti, ad esclusivo vantaggio dell'analisi esistenziale. Fermo restando l'indubbio contributo dato dalla filosofia heideggeriana allo sviluppo dell'esistenzialismo europeo, cui essa fornisce tematiche, analisi e linguaggio - basti pensare a temi come quello, kierkegaardiano, dell'angoscia, o ad espressioni come quella dell' «essere-nel-mondo» -, non si può oggi non tener Il P. 10 conto di quanto lo stesso Heidegger ha affermato nrna f'm da11 a ce lebre Lettera su ll'umamsmo · del 194 7. dell'antologia In essa, a mo' di risposta a L'esistenzialismo è un umanismo di Sartre (v. CAP. 22, PAR. 7), egli negava che Essere e tempo potesse essere inscritto nell'orizzonte di una antropologia esistenzialistica e ne rivendicava il significato primariamente antologico: non il problema dell'esistenza dell'uomo, bensì quello prioritario del «senso dell'essere» stava al centro della domanda filosofica, e se in quello scritto si parlava solo dell'esserci, ciò era pur sempre in vista dell'apertura del problema dell'essere in generale. La pubblicazione negli anni successivi degli scritti fino allora inediti degli anni Trenta e Quaranta avrebbe
in effetti confermato l'intento fin dall'inizio antologico dell'itinerario heideggeriano, sicché la svolta (Kehre) che lo stesso Heidegger, in una conferenza tenuta a Roma nel1936 su Holderlin e l'essenza della poesia, annuncia di aver maturato, più che un capovolgi- L 1, 1 . mento e, pmttosto, come e, stato detto, uno svolgl-. a .e 1re mento della strada che già nel1927 egli aveva intrapre-
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Martin Heidegger nel suo studio.
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so. Gadamer (v. PAR. 2.1), il filosofo dell'ermeneutica che a buona ragione può esser considerato il prosecutore dell'opera di Heidegger, così parla della svolta del suo antico maestro: «Questa sua esperienza intellettuale egli la definì la Kehre, non nel senso teologico di una conversione, ma nell'accezione che gli derivava dal proprio dialetto. La Kehre è la curva della strada che si inerpica su per la montagna. Qui non è il viandante a girarsi, ma è la strada stessa che si
volge nella direzione opposta, per portare in alto. Verso dove? Nessuno potrà dare una facile risposta a questa domanda. Non a caso Heidegger ha intitolato I-Iolzwege una delle sue più importanti raccolte di lavori tardivi. Gli I-Iolzwege sono sentieri che non proseguono e costringono il viandante a salire verso l'inesplorato o a ritornare sui suoi passi. Ma la vetta rimane».
E la vetta, sebbene nascosta al viandante, è, fuor d'ogni dubbio, l'essere.
1.2
La formazione giovanile. L'incontro con Husserl
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artin Heidegger era nato nel1889 a Messkirch, doveva essere un'esperienza decisiva per il destino nel Baden, da una famiglia cattolica di umili filosofico di Heidegger, il quale già dalla lettura delle , .'.-/.·~.• . condizioni sociali: il padre faceva il sacrestano Ricerche logiche e delle Idee era stato sollecitato ,. . r • e, per arrotondare le entrate, l'artigiano, mentre a distaccarsi dal neokantismo di Rickert. Nella L mcontro con . deIl a quale egl'1 peraltro lascm . m . Husserl la madre era di origini contadine. L'ambiente fìenomenolog1a, in cui crebbe era imbevuto di un forte spirito cattolico ombra la tematica trascendentale, vede affermato, in integralista, avverso alla diffusione delle idee liberali, avversione al neokantismo, l'interesse per il concreto e reso anche più agguerrito dalla crescente influenza e l'attenzione ai «vissuti» della coscienza, in significadel protestantesimo. Da quanto è stato possibile tiva sintonia col clima culturale che aveva caratterizUna zato la Germania degli anni precedenti la prima guerformazione ricostruire della prima giovinezza del filosofo, ra mondiale. Egli stesso cosi lo ricorda: cattolica sembra potersi concludere che questi condividesintegralista se le tendenze conservatrici, nazionalistiche ed «Non è possibile descrivere adeguatamente quel che antisemite di tanta parte del movimento cristia- portarono gli anni tra il 191 Oe il 1914; si può al massimo no-sociale dell'epoca. Ne farebbe testo il suo primo cercare di chiarirlo attraverso una scelta di nomi e di avveniscritto del 1910, dedicato all'encomio di una gloria menti: la seconda edizione, raddoppiata, della Volontà di locale del XVII secolo, il monaco agostiniano Abra- potenza di Nietzsche, la traduzione delle opere di Kierkeham a Sancta Clara, predicatore ufficiale della corte gaard e di Dostoievskij, l'incipiente interesse per Hegel e Schelling, le poesie di Rilke e di Trakl, gli scritti completi di imperiale di Vienna, noto per le sue convinzioni anti- Dilthey». ebraiche e nazionalistiche spinte al fanatismo più estremo. La fenomenologia poté apparire ad Heidegger coDopo un breve periodo di noviziato tra i gesuiti, me la prospettiva che avrebbe consentito di aderire che avrebbe dovuto concludersi con la carriera sacer- alla concretezza di quello «spirito vivente che è essendotale, e aver frequentato dal1909per tre anni i corsi zialmente spirito storico», che egli, non senza qualche di teologia dell'università di Friburgo, Martin prende suggestione dello storicismo diltheyano, riteneva orun'altra strada, che l'avrebbe condotto agli studi pro- mai di dover contrapporre al formalismo trascendenpriamente filosofici. Dal 1911 egli segue, ancora a tale dei neokantiani. Divenuto assistente ed amico di Husserl, tra il Friburgo, i corsi di filosofia di Rickert (V. CAP. 2, PAR. 4), . . . col quale si laurea nel 1913, mentre già nel 1915 1916 e il1922 egli collabora così assiduamente all'iml pmm studi . la l'b docenza, d'1scutendo una d'Isser- presa fenomenologica da identificarsi completamente filos re· ottiene 1 era 11 0 tazione su La teoria delle categorie e del significa- con essa, al punto che Husserl era solito ripetere: «La to in Duns Scoto. Tiene alla facoltà di teologia dell'u- fenomenologia siamo io e Heidegger e nessun altro». niversità di Friburgo, a partire dal 1916, alcuni corsi Chiamato nel1923 all'università di Marburgo, vi di filosofia antica e di logica, ma nel1919, prendendo insegna fino al 1928, quando succede ad Husserl, ~li ~nni di miche occasione dall'infuriare della polemica antimo- su proposta di quest'ultimo, nella cattedra di Fri- ar urgo dernista, abbandona oltre che la facoltà anche la chie- burgo. A Marburgo, dove è ancora forte l'impronta sa cattolica, adducendo l'inconciliabilità delle proprie del neocriticismo di Cohen e di Natorp (V. CAP. 2, PAR. 2), «convinzioni gnoseologiche coinvolgenti la teoria del Heidegger conosce Bultmann (v. CAP. 26, PAR. 3), il teoloconoscere storico» con il «sistema» del cattolicesimo. go della «demitizzazione», che molto avrebbe risentiNel 1916 era arrivato all'università di Friburgo . to della sua influenza, e dal quale lui stesso sarebbe Husserl, e l'incontro con il padre della fenomenologia stato suggestionato. Sono gli anni questi, durante i
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
quali egli lavora ad Essere e tempo, l'opera che avrebbe deciso del suo definitivo distacco da Husserl e lo avrebbe consacrato tra i più grandi filosofi del Novecento. Il retroterra filosofico e teologico di questo grande libro è immenso, e ne sono documento i corsi universitari tenuti da Heidegger a partire dal 1916, che percorrono un orizzonte amplissimo, includente l'intero arco di svolgimento della filosofia occidenta-
le: i presocratici, Platone, Aristotele, Agostino e il neoplatonismo, l'antologia e la mistica medie- La do~n~mda . . . metafiSica vah, CartesiO, Kant, Hegel. Una stona al centro della quale campeggia la domanda metafisica per eccellenza, quella relativa al senso dell'essere. Questa domanda, insieme alla perplessità che già l'accompagnava in Platone, Heidegger intende riproporla ad un'epoca che sembra dimentica della sua assoluta inevitabilità.
1.3
La domanda sull'essere e l'esistenza n Essere e tempo Heidegger accetta la fenomenologia husserliana solo in quanto metodo, esprimibile nel motto: «la parola ai fatti stessi!». Egli condivide con Husserlla convinzione che fenomenologia significhi «lasciar vedere», «disoccultamento» di «ciò che innanzitutto e per lo più non si manifesta; di ciò che, in contrapposto a ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta, è nascosto, ma tuttavia è tale da appartenere a ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta, in quanto ne esprime il senso e il fondamento».
Della fenomenologia di Husserl Heidegger rifiuta però l'epochè, e la conseguente riduzione del senso di «ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta» ad «essenze ideali» collocate fuori del tempo e dello spa zio, o addirittura a quel residuo ultimo dell'epoRifiuto chè che è la «coscienza pura». Egli è convinto dell'epochè e della coscienza infatti che il «senso dell'essere» non sia disgiunpura gibile dalla temporalità, e che la coscienza pura husserliana non possa venir assolutizzata, se non a rischio di identificarla con una astratta e disincarnata 'ragione' eguale per tutti. Alle «antologie regionali» ed al «coscienzialismo trascendentale» di Husserl Heidegger contrappone l' «antologia fondamentale», ossia quella ricerca intorno al senso dell'essere, che - non l'ha capito la . Ontol?g 1a ed metafisica tradizionale - include inevitabilmente esiStenza . . ., · 11nnvw a que ll' ente corposamente reale che s,mterroga sull'essere: l'uomo come esistenza concreta. L'esistenza, che Husserl metteva in parentesi, diviene il luogo fondamentale dell'antologia fenomenologica heideggeriana. Ma, per capire, dobbiamo vedere più da vicino. Come in ogni problema, anche in quello intorno al senso dell'essere in generale si devono distinguere tre termini: a. ciò che si domanda, l tre termini b. ciò a cui si domanda, della domanda metafisica c. ciò che si trova domandando. Nel nostro caso, ciò che si domanda è l'essere,
ciò che si trova è il «senso» dell'essere, ciò a cui si domanda non può che essere un ente, giacché l'essere è sempre proprio di un ente. Un ente, dunque, ha da essere «interrogato», ossia «inquisito intorno al suo essere». La domanda, allora, è questa: «Presso quale ente deve esser carpito il senso dell'essere? Da quale ente deve prender le mosse l'aprimento dell'essere? Il punto di partenza è indifferente, oppure esiste un ente determinato che può vantare al proposito un primato? Qual è questo ente esemplare ed in qual senso esso può vantare un primato?».
La risposta di Heidegger è: questo ente è l'uomo. A differenza di tutti gli altri enti - cose, vegetali, animali -, che sono già quello che sono, semplici «presenze» additabili come qualcosa di statico e , inerte che «sta dinanzi» e può esser solo oggetto ?11,011 ente che 1 d1 ncerca, l' uomo e' un ente 1'l cm mo do d'1 essere e uomo è appunto la ricerca, e dunque non si riduce a quella realtà «semplicemente-presente» con cui la metafisica occidentale ha finora identificato l'essere. Il «primato» di cui l'uomo gode consiste nel fatto che esso si interroga sull'essere o, per dir meglio, nel fatto La pre- ·one , 'b'l . . h, comprens1 che ad esso e poss1 1 e questo mterrogars1 pere e dell'essere nella sua essenza di uomo è già da sempre inclusa un'oscura apprensione dell'essere. Scrive Heidegger: o
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«In quanto cercare, la posizione di un problema implica un orientamento preliminare derivante dal cercato. Il senso dell'essere deve quindi, in qualche modo, esserci già aperto. Noi ci 111uoviamo cioè già sempre in una comprensione dell'essere. E da essa che scaturisce l'esplicito problema del senso dell'essere e la tendenza verso la sua determinazione concettuale. Noi non sappiamo cosa significhi essere, ma tuttavia se chiediamo: Che cosa è essere?, ci muoviamo in una comprensione dell"è', senza tuttavia essere in grado di determinare concettualmente che cosa significhi questo è».
Il movimento con cui l'uomo si interroga sull'essere, ne fa un «esserci» (dasein) il cui esclusivo modo di essere è l' «esistenza». Le cose 'sono' ma no,11 'esistono': esse, come s'è già detto, son «là», davanti a noi, «si danno» in una inerte presenzialità, mentre «exsistere» significa «star fuori», «emergere», «spor-
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gere da». L'uomo esiste, appunto, in quanto esso continuamente si «oltrepassa» in direzione delle «possibilità» di essere che sempre gli stanno aperte diL'esistenza: un nanzi. L'essere dell'uomo non è un dato di fatto, modo di essere bensì possibilità, progetto: l'uomo è l'ente che esclusivo dell'uomo «ha sempre da essere il proprio essere come proprio». Il ci dell'esserci (dasein), d'altronde, sta ad indicare che l'oltrepassamento in cui consiste l'esistere non è un puro movimento autodeterminantesi in un orizzonte di infinite possibilità, bensì è sempre «si-
tuato», muove da una concreta situazione che costituìCC sce la sua radicale finitezza. ~ In base a queste considerazioni preliminari Heic.!J degger riconosce dunque che la risposta alla domanda: oL.L1 «che cosa è l'essere in generale», può essere data .. u..J solo dopo aver studiato l'essere dell'esserci ed An.ahtlca. :c . L' .. . . l esistenziale averne scoperto 11senso. «ana1Itlca esistenzia e» e antologia è il fondamento dell'antologia, e ad essa è necessario innanzitutto por mano. In questo, ma solo in questo, consiste l' «esistenzialismo» heideggeriano.
L' «essere-nel-mondo»: «finché esso vive lo possieda la Cull."a>> ompito di un'analitica esistenziale non è quello · di dedurre «categorie»: queste sono infatti modi di essere delle cose, mentre i modi di essere di quell'ente che è l'esserci son detti da Heidegger «esistenziali» e di questi soltanto ha da occuparsi l'analisi dell'esistenza. Gli «esistenziali» sono le determinazioni universali costitutive dell' «es> -e della componente «rivoluzionaria» del partito nazista. Nelle ore e nei giorni successivi sarebbe seguito a Berlino e nel resto della Germania il massacro degli altri capi e di centinaia di componenti delle SA. Si trattò di un regolamento di conti all'interno del partito, voluto dal Fi.ihrer per assicurarsi l'appoggio definitivo del grande capitale industriale e finanziario e dell'esercito, senza il quale il nuovo regime non avrebbe potuto consolidarsi. Rohm, con i suoi progetti di una «seconda rivoluzione» che avrebbe dovuto dar luogo all'abolizione del capitalismo privato e ad una specie di statalismo economico, oltre che alla formazione di un esercito popolare organizzato intorno alle SA, naturalmente era inviso a capitalisti e generali, che imposero come condizione del loro ulteriore appoggio alla dittatura la liquidazione di una componente del nazismo così loro avversa. Per portare a compimento questa operazione, Hitler poté valersi dell'appoggio di Himmler, capo delle SS, e di Goering, che fabbricarono le prove di un inesistente complotto di Rohm per impadronirsi del potere. Riportiamo da La vita quotidiana a Berlino di Jean Marabini il racconto drammatico di questa vicenda: «Scortato da un drappello di SS, Hitler si reca sul Tegernsee, a Wiessee, dove, in un albergo, Rohm sta passando la notte con i
suoi intimi. Per il capo delle SA il giorno che sorge è quello di un 'appuntamento' al vertice in cui si tratta d'intendersi una volta per tutte con il Fuhrer sul futuro della rivoluzione delle camicie brune. Si stupisce nel vederlo comparire sulla porta, è sconvolto dal suo vociferare. Le SS di Himmler irrompono nelle stanze degli uomini delle SA, li abbattono sul posto o li fanno prigionieri. Hitler getta una vestaglia sulle spalle di Rohm e gli ordina di vestirsi.
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Egli viene sospinto sotto la minaccia di un revolver sull'autobus di linea requisito d'autorità. Con pochi fedeli viene condotto nella prigione di Stadelheim. l capi SS di stanza in Baviera prenderanno uno dopo l'altro i capi delle SA accorsi da tutta la Germania per la riunione generale prevista tra i due leader. Moriranno senza capire, nel cortile della prigione ... Rohm l'hanno tenuto per ultimo. Gli danno una pistola. 'Venga Adolf in persona a fare il lavoro'. Non
si serve dell'arma contro se stesso, né contro i due membri delle truppe d'intervento entrati nella sua cella per eliminarlo ... Dopo la morte violenta di Rohm, si organizza il massacro in Germania e nella capitale. l giorni dal 30 giugno al 2 luglio 1934 sono giorni di carneficina. Il generale delle SA di Berlino viene fucilato insieme ad altri al campo di esecuzione della scuola militare di Lichterfeld, nella periferia sud della città. l berlinesi sentono echeggiare
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Inaugurazione della sede delle SA 11Hermann Goering».
le scariche, che si ripeteranno senza requie. Le SS tirano sugli uomini dei reparti d'assalto a cinque metri di distanza. Arrivando dai quattro punti cardinali, i prigionieri attendono il loro turno. In coda per la morte. Nelle strade, i passanti tacciono, sconcertati. Osservano i camion delle SS che solcano le strade della città carichi di uomini spaventati, sconvolti, in abiti civili. Nessuno riesce a dormire. Nel suo ufficio della Prinz-Aibrecht-Strasse,
2 Hitler con alcuni dei suoi generali. 3 Schleicher con la moglie.
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Heydrich è costantemente in contatto telefonico con le caserme in cui avvengono le fucilazioni. Con una matita blu metodicamente traccia un segno sui nomi dell'elenco che ha redatto di persona. Allineati contro il muro per l'esecuzione, gli uomini urlano, singhiozzano, vociferano, sputano sulla faccia degli antichi camerati, urlano 'Viva Hitler!'. l cadaveri vengono accatastati alla rinfusa ... l muri sono rossi di sangue, il suolo ne è intriso. Una delle vittime è Gregor Strasser, i cui figli son figliocci del Fuhrer. Nella zona ovest di Berlino, nel quartiere residenziale di Neubabelsberg, l'ex-cancelliere von Schleicher in salotto ascolta la radio insieme alla moglie. 'Qualcuno suona, i padroni di casa aprono la porta, degli individui col volto coperto da sciarpe di lana abbattono la coppia a raffiche di mitra, e · immediatamente ripartono nell'auto che li attende col motore acceso', racconterà una cameriera nascosta in un armadio. Si sbarazzano anche del generale von Bredow, che serbava documenti compromettenti per Hitler. Dopo aver eliminato gli incendiari del Reichstag, gli assassini non riescono più a trovare von Papen nella sua casa berlinese, ma frugano nei cassetti, uccidono il segretario Base e Klausener, capo dell'Azione cattolica. Von Papen, che è una volpe astuta, con assoluta tempestività si è rifugiato da Hindenburg, nella Prussia orientale, da dove tornerà in seguito ... per esprimere a Hitler le congratulazioni del vecchio maresciallo: 'Avete salvato la Germania!'.
PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NovECENTO
La metafisica occidentale e l', egli contrappone che «siamo su un piano in cui c'è principalmente l'essere». L'umanesimo, per il suo rifiuto di porre la domanda sull'essere, è un prodotto di quella stessa metafisica che esso pretenderebbe combattere. L'umanesimo, scrive Heidegger, «nel definire l'umanità dell'uomo, non solo non interroga la relazione dell'essere all'essenza dell'uomo, ma impedisce perfino tale interrogativo, in quanto né lo conosce né lo comprende, a causa della sua provenienza dalla metafisica».
Nel trentennio successivo alla Lettera, conclusosi con la morte avvenuta nel 1976, Heidegger affida a scritti come Sentieri interrotti del 1950, Cosa significa pensare? del 1954, Identità e differenza del 1957, ' . L ultnna I . verso z'll'znguaggzo . de11959 , e ancofilosofia n cammzno ra Il problema della cosa del 1962 e La questione del pensiero del 1969, la sua ultima filosofia, tutta incentrata nella ricerca di una comprensione non metafisica dell'essere. Al centro di questa ricerca sta il riconoscimento della storicità dell'essere. Con la fine della metafisica l'essere non si lascia più pensare come «stabile presenzia1ità»; esso appare come «evento», come «accadere» (Ereignis, ereignen), nel senso che ad esso appartiene, non quale carattere accidentale o proprietà, ' . bensì quale modalità costitutiva, il «darsi», l' «eL «eventuarsm . Q ,d ., dell'essere ventuarsm. uesta «eventua11ta» non e a pensare come data una volta per tutte, sempre identica a sé. L'accadere dell'essere è sempre nuovo e diverso a seconda delle sempre nuove e diverse epoche storiche: «Si dà essere solo di volta in volta nei singoli modi di determinarsi del suo destino storico». Nell'epoca della metafisica l'essere si dà, nascondendosi, nella forma dell'ente; nell'epoca postmetafisica, nella forma dell'evento. Il fatto che l'essere «accada» comporta un rapporto di inseparabilità tra essere e uomo. Heidegger pensa questo rapporto come un «aver bisogno» Rapporto tra , . essere e uomo dell uomo, un «consegnarsm ad esso da parte dell'essere, senza di che l'essere non potrebbe accadere. In una densa pagina del1955, così egli chiarisce il proprio pensiero:
«Diciamo troppo poco dell'essere in se stesso quando, dicendo l'essere, lasciamo fuori il suo essere presente all'uomo, misconoscendo così che quest'ultimo entra esso stesso a costituire l'essere. Anche dell'uomo diciamo sempre troppo poco quando, dicendo l'essere (non l'essere dell'uomo), poniamo l'uomo per se stesso e solo in un secondo tempo lo mettiamo in relazione con l'essere. Ma diciamo anche troppo se intendiamo l'essere come ciò che abbraccia in sé tutto e ci rappresentiamo l'uomo soltanto come un ente particolare fra altri (piante, animali) ponendolo poi in rapporto con l'essere; infatti già nell'essenza dell'uomo è contenuta costitutivamente la relazione a ciò che, proprio attraverso tale rapporto, che è un rapportarsi nel senso di aver bisogno, è determinato come essere e quindi sottratto al suo preteso in sé e per sé».
Contro ogni prometeismo umanistico, Heidegger afferma che una comprensione post-metafisica dell'essere solo dall'essere può venire. Essa richiede: a. un nuovo modo di esercitare il pensiero; b. un nuovo linguaggio, estraneo alle modalità espressive del pensiero metafisica. a. rispetto al pensare tecnologico, esclusivamente rivolto a calcolare e programmare l'uso e il consumo delle cose - e il cui predominio esclusivo rappresenta per l'umanità un pericolo «più grande di una terza guerra mondiale», quello di vivere «tra il tintinnio del denaro e il valere dei valori ... in continuo scambiare e contrattare», nell'ignoranza del «peso e rango 11 . Nel caso, per esempio, del delirio schizo- incomprensibilìn frenico se è possibile comprenderne il contenuto, e i limiti della ' . ancorché bizzarro e stravagante, appare VIceversa r>sicopatologia del tutto impenetrabile la modalità secondo cui questo contenuto emerge alla coscienza dello psicotico. Di fronte a questi casi di incomprensibilità non ~i~a~e che ripiegare sulla «spiegazione» fondata sul pnncipiO di causalità che dunque appare ineliminabile anche nel ' . lavoro interpretativo della psicopatologia. Libero docente di psicologia fin dal1916, Jaspers, frattanto convertitosi agli studi filosofici, ottiene nel 1921la cattedra di filosofia presso l'università di La lmmazione Heidelberg, che avrebbe tenuta fino al1937. Plato- filosofica ne Plotino Cusano, Bruno, Spinoza, Kant, Schellidg, Hegel: sono le letture fondame~tali .del giovane filosofo che, però, è in Kierkegaard e m N1etzs?he c~e scopre gli autori che avrebbero ispirato la sua f1losofta dell'esistenza. A differenza di Heidegger, egli valorizza di Kierkegaard il carattere personale, «esistentivo~>, del suo filosofare, scoprendovi l'essenza stessa della filosofia. Nel primo grande scritto filosofico, Psicologia delle visioni del mondo, pubblicato nel1919, sono già presenti le tematiche tipiche dell'esistenzialismo jaspersiano, che sarebbero state sviluppate negli scritti succes- Gli scritti sivi da La situazione spirituale del nostro tempo del Ì 931 al capolavoro del1932, Filosofia, in tre volumi rispettivamente dedicati ai tre momenti in cui, come vedremo, si scandisce la ricerca filosofica: a. «orientamento nel mondo»; b. «chiarificazione dell'esistenza»; c. «metafisica».
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Opere successive importanti sono Ragione ed esistenza del1935, Nietzsche del1936 e, infine, Filosofia dell'esistenza del1938, anno nel quale il governo hitleriano proibisce ad Jaspers di pubblicare. . Già nel1937, messo di fronte alla scelta di divorziare dalla moglie perché ebrea- Gertrud Mayer, fe. . delissima ed amatissima, che aveva sposato nel Antmazlsta 1910 - oppure d'1 d'1metters1. da11a cattedra, Jaspers non esita a lasciare l'insegnamento, che avrebbe ripreso solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Egli aveva nutrito anche in precedenza sentimenti antinazisti, e quando nel 1945 torna ad insegnare ad I-Ieidelberg, tiene un corso sulla «colpa della Germa1 d nia» nel quale avanza la tesi della colpevolezza 11 La c~~~maeni: politica individuale dei tedeschi di fronte ai crimi' ni del nazismo, e addita ai connazionali come sola via di «redenzione» quella che avrebbe dovuto condurre, superato il nazionalismo rivelatosi così pernicioso nella storia tedesca, ad una confederazione europea e infine mondiale. Ma già nel1948, in dissidio col gover-
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no tedesco-occidentale cui rimprovera una politica di «delirio nazionalistico», lascia la Germania e si trasferisce a Basilea, nella cui università avrebbe insegnato per lunghi anni, e dove sarebbe morto, esule e sempre più convinto dei propri ideali cosmopolitici, nel1969. Anche negli anni dell'esilio Jaspers non desisté dall'intervenire sulle vicende del tempo con saggi politico-filosofici di grande rilevanza, come La bomba atomica e il futuro dell'umanità del 1958 e con scritti di attualità politica, come Dove va la repubblica . .. federale? del 1967. Pure la produzione filosofica Altn sentii è intensa, anche se Filosofia del 1932 è destinata a rimanere la sua maggiore opera. Pubblica nel1948 La fede filosofica, nel 1950 Introduzione alla filosofia e, infine, nel1957 un grosso volume su I grandi filosofi, che avrebbe dovuto rappresentare la prima parte di una vasta opera di storia del pensiero filosofico e religioso. Nel1947 Jaspers aveva pubblicato Sulla verità, prima parte di una vasta logica filosofica, destinata a rimanere incompiuta.
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Dall' «essere-nel-mondo» al «naufragio» dell'esistenza n quanto ricerca dell'essere, la filosofia si articola, come s'è detto, in tre gradi, ognuno dei quali rappresenta un movimento di trascendenza dell'uomo, sotto la spinta di «impulsi esistenziali» ad oltrepassare ogni limite ed ogni ostacolo. Il primo di questi gradi è a. l' «orientamento nel mondo», per il quale l'impulso è: «conoscere il mondo per vedere . d che cos'è l'essere!». Quanto agli altri due gradi, b. l tregrale d 1 . dll'. filosofare la «Ch"1an'f'1cazwne e esistenza» e c. la «metaf'1sica», gli impulsi che li promuovono suonano rispettivamente: «attraverso il mondo in cui sono attivo, io giungo ad essere me stesso: tutto ciò dipende da me!»; «io posso cercare Dio!}}, a. La prima modalità dell'esistenza è quella di «esistere nel mondo» come un «esserci» tra gli altri «esserci»: io nel mondo «ci sono» come «ci sono» le cose, e mi trovo accanto ad esse, oggettivato in una situazione determinata e particolare. Orientarsi nel mondo significa sforzarsi di ricondurre la realtà ad una totalità conclusa, di risolverla in un sistema capace di darci l'essere che abbiamo l'impulso a cercare. La scienza è la prima forma che l'orientamento nel mondo assume; ma essa è destinata a ' . ·Lo~~entamento ., ll. L' onentamento . . ·f' ne l mon do e, ' nel mondo 1a 1re. SC1ent11co infatti, caratterizzato da una ricerca dell'essere che sempre si risolve in un «sapere di oggetti che ci sono»; in una conoscenza di cose che stanno davanti ai nostri occhi come oggetti, quando invece l'essere in quanto totalità del mondo non può mai essere un oggetto.
Pertanto l'orientamento scientifico si rivela un processo infinito, mai destinato a concludersi, in quanto il mondo come totalità rimane sempre al di là di esso. Per quanto si facciano sempre più ampie e abbraccianti le sintesi scientifiche e sempre più vasti gli orizzonti, mai in quelle sintesi e in questi orizzonti potrebbe essere incluso il «tutto-abbracciante»: sarebbe come tentare di raggiungere camminando l'orizzonte fisico, che invece inesorabilmente sempre si sposta in avanti. Assumere consapevolezza che «nel processo dell'indagine oggettiva noi ci accostiamo, volta per volta, ad apparenti totalità, le quali però non ci si dimostrano mai come l'essere pieno ed autentico, ma devono, invece, essere oltrepassate in estensioni sempre nuove»;
rendersi conto, insomma, che «l'essere ci trascina in tutti i sensi verso l'infinito», significa passare dall'orientamento scientifico all'orientamento filosofico, dalla scienza alla filosofia. Questa consiste 0181 1181 . 1scie,~za · . . dll mnanz1tutto ne l prender cosc1enza e o «scacco» 8810SOia cui è condannato ogni tentativo del sapere umano di affermare e conoscere l'essere. b. Al trascendimento nel mondo, che è caratteristico dell' «intelletto scientifico», succede il trascendimento del mondo, che è opera della «ragione filosofica». In una pagina di Filosofia, ricca di spunti trascendimento di ascendenza kantiana, così Jaspers preannuncia del mondo il «salto» dall'oggettività mondana al costituirsi dell' «esistenza»:
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«Se chiamo mondo tutto ciò che, attraverso l'orienta
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
mento conoscitivo, può essermi accessibile come un contenuto che tutti possono conoscere in termini logicamente vincolanti, allora nasce il problema se la totalità dell'essere si esaurisce nell'essere del mondo, e se il pensiero conoscitivo si conclude con l'orientamento nel mondo. Ciò che nel linguaggio mitico si chiama anima e Dio, e nel linguaggio filosofico esistenza e trascendenza, non è mondo. Queste realtà non sono nello stesso senso in cui sono le cose del mondo, ossia come qualcosa di conoscibile, ma potrebbero essere in un'altra maniera. Se non sono sapute, non per questo sono nulla; se non sono conosciute possono comunque essere pensate. Qui nasce quel problema che costringe la filosofia a prendere una decisione fondamentale: 'che cosa c'è di fronte all'essere del mondo preso nel suo complesso?'».
La decisione cui qui si allude è il «salto» attraverso cui io trascendo il mondo dell'oggettività e il . . . mio stesso esserci come essere-nel-mondo, e mi Il COSIIIUirSI l' · · 'b'l' dell'esistenza rea 1zzo come «esistenza», ossia come «possi 11tà» di essere. Ciò che c'è di fronte al mondo nel suo complesso sono, appunto, io stesso come esistenza inoggettivabile: come tale, pur apparendo nel mondo, non appartengo al mondo ma solo a me stesso. La «chiarificazione dell'esistenza» è opera della ragione. Pur ispirandosi a Kant e alla sua concezione della ragione come pensamento dell'essere inoggettivabile e inconoscibile, Jaspers intende la ragione, per distinguerla dall'intelletto scientifico anonimo e impersonale, come attività incarnata e personale, ragione «esistentiva». Essa è infatti parte integrante e costitutiva dell'esistenza singola, e insieme a questa La chiarificazione rappresenta i due poli tra i quali si svolge la dell'esistenza. ricerca filosofica: senza la ragione l'esistenza si La ragione ridurrebbe a cieco e inerte esserci, senza l'esistenza la ragione sarebbe vuoto e astratto intelletto. Coessenziali l'una all'altra, ragione ed esistenza non giungono però mai a compenetrarsi fino a coincidere, il che significa che, nonostante il «rischiaramento», l'esistenza è destinata sempre a conservare in sé un fondo impenetrabile e oscuro. Nemico del misticismo irrazionalistico che, smarrendo la ragione, perde con essa anche la filosofia, Jaspers rifiuta nondimeno quel razionalismo idealistico che pretenderebbe risolvere la realtà nell'assoluta trasparenza dei concetti. L'analisi esistenziale jaspersìana è tutta giuocata sulla distinzione tra esserci ed esistenza, tra situazione e libertà. In quanto mèro esserci, l'uomo è cosa tra le cose, essere-nel-mondo immerso nella temporalità, chiuso in una situazione più o meno angusta al cui interno Esistere comporta una «rottuEssercl. ed esso vive e muore. ll' .d l d . 'f' esistenza ra» aperta ne esserci e mon o, s1gm ICa, come suggerisce la parola stessa, emergere, uscir fuori da, distinguersi. Se l'esserci è datità e necessità -l'esserci non può che essere quello che è -, l'esistenza è possibilità: possibilità di oltrepassare il mèro esserci, e dunque esercizio di libertà. Ma questo trascendimento dell'esserci non signi-
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fica che l'esistenza possa annullare l'esserci e la situazione in cui l'esserci è calato. Al contrario, l'esistenza è segnata da una radicale finitudine proprio perché è vincolata ad una determinata situazione storico-mondana, da cui mai potrebbe distaccarsi, e che co- F' . d' 11111 · · .. damento de11a sua stonc1 · 't'a. La dell'esistenz u me stltmsce 1'l 10n stessa ricerca filosofica, intrinseca all'esistenza, a prende avvio dalla determinatezza di una situazione. Proprio all'inizio di Filosofia, Jaspers così scrive: «Quando pongo domande come queste: che cos'è l'essere? perché esiste qualcosa invece che il nulla? chi sono io? che cosa veramente voglio? in tutti questi casi non do luogo
Hiroshima 1945
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iportiamo alcuni passi del diario che racconta con terribile essenzialità i momenti che precedettero e seguirono all'esplosione della prima bomba atomica. «Il 6 agosto 1945 era un giorno come tanti altri, per una città del Giappone. l bambini si recavano a scuola, dopo la vacanza domenicale, gli uomini cominciavano ad affluire dalla periferia per andare al lavoro, le donne cercavano di affrontare il problema di un magro pasto quotidiano. Nove minuti dopo
le sette, ora locale, suonò l'allarme aereo. Un unico 8.29 volava altissimo nel cielo. Sorvolò la città due volte, poi alle 7,25 si allontanò e scomparve ... Alle 7,31, a Hiroshima, suonò il cessato allarme. La vita riprese in sordina, come in sordina s'era interrotta. Dai rifugi contraerei, volti sparuti, resi scarni e sofferenti da più di tre anni di guerra, uscirono di nuovo alla luce del mattino. Alle 7,47 a bordo dell' Eno/a Gay si verificarono i circuiti elettronici dell'ordigno. Alle 7,50 l' Enola Gay sorvolò la
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ad un cominciamento assoluto. Io pongo queste domande a partire da una situazione».
Jaspers insiste fortemente su questa finitudine situazionale dell'esistenza fino a dire che «il mio io è identico con il luogo della realtà in cui mi trovo», consacrando cosi la completa coincidenza dell'esistere con la situazione da cui esso sorge. Quando, dunque, si dice che l'esistenza, in quanto possibilità, è libertà e scelta, non si deve intendere per libertà il poter scegliere tra l'essere se stessi e il non esserlo, quasi che la libertà fosse uno strumento nelle nostre mani. Io non posso scegliere se non ciò
che già io sono, e la libertà autentica implica la necessità: essa è decidere di divenire ciò che si è, appropriarsi della situazione in cui siamo, «amor fati», come ha insegn~to Nietzsche. Più che decisione, essa è accettazione, e la scelta eredità. Quando Jaspers L l'b . . . realta, vuo le che a 1 erta para l d1. «esistenza poss1'b'l 1 e», m per possibilità s'intenda lo svolgersi 'fatale' della situazione in cui ognuno di noi è posto nel mondo. D'altronde, è anche possibile che io non prenda alcuna decisione e lasci che altro - le cose esterne, le vicende del mondo, la mia cieca impulsività, la volontà degli altri - decida per me. Ma, in questo caso, io
1 L'equipaggio del 852 che sganciò la bomba atomica su Hiroshima. 2 Hiroshima dopo la deflagrazione della bomba atomica.
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costa dell'isola di Scikoku. Alle 8,09, da uno squarcio di nubi ... apparve Hiroshima. «Abbassate gli occhiali» ordinò Tibbets. Alle 8, 11, con una virata di circa novanta gradi da nord verso ovest, L' Enola Gay si portò sulla rotta di lancio, a un'altezza di novemilacinquecento metri uscendo improvvisamente dalle nubi. Ora sarebbe stata visibile la Terra. Alle 8,14 e 17 secondi, il maggiore Tom Ferebee inquadrò nel proprio obbiettivo un ponte sul fiume Ota. Alle 8,15 e 2 secondi, sull' Enola Gay, il
radiosegnale preannunciò di 15 secondi lo sganciamento della bomba ... Alle 8,15 primi e 17 secondi, Little Boy scivolò nell'aria. L'esplosione avrebbe dovuto verificarsi dopo quarantatré secondi. Tibbets cominciò a contare mentalmente sino a quarantatré, mentre eseguiva una rapida virata di centocinquantotto gradi. Trascorsero i quarantatré secondi. E fu la luce, un lampo accecante che abbagliò trecentomila persone e cancellò dalla città ogni ombra, sin nei recessi
più nascosti. Alla luce segui l'esplosione: solo a quaranta o cinquanta chilometri da Hiroshima fu possibile udirne il boato, per quelli più vicini si trasformò in silenzio. Il calore - dai trecento ai novecentomila gradi liquefece i tetti delle case, annientò le persone fissando le loro ombre sull'asfalto, a irrefutabile prova della scomparsa di un essere umano. A quattro chilometri da Hiroshima la gente sentì quel calore sul viso e ne ebbe la pelle ustionata. La raffica dell'esplosione si
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sprigionò dalla sfera di fuoco alla velocità di milletrecento chilometri orari e, in un raggio di molti chilometri quadrati, le case ancora in piedi vennero . sradicate dalle fondamenta. Quest'onda d'urto premette con la forza inconcepibile di settemila tonnellate per centimetro quadrato. Poi enormi gocce d'acqua color pece, prodotta dalla vaporizzazione dell'umidità, riportarono a terra la polvere radioattiva dispersa nell'atmosfera. Un vento infuocato rifluì verso il centro dell'esplosione a mano a mano che l'aria, al di sopra della città, diventava più rovente. Sollevò le onde del fiume Ota sommergendo coloro che vi avevano cercato refrigerio e salvezza. C'erano cinquantun templi nella città di Hiroshima: il fuoco li distrusse tutti. Dall'istante dell'esplosione erano passati solo pochi minuti. Nel cielo, a undici miglia di distanza, due onde d'urto colpirono successivamente la superfortezza volante che aveva sganciato la bomba, scuotendo la con violenza. Un pilota si volse a guardare indietro: 'Dio mio, che abbiamo fatto!', fu il suo unico commentO>>.
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rinuncerei ad esistere, ridotto alla cecità del mio puro esserci oggettivo: «o sono io a decidere (esistendo), o si decide su di me (e allora, privo dì esistenza, divento un semplice materiale nelle mani di un altro)».
Intendere la libertà dell'esistenza come scelta tra diverse po;sibilità tutte egualmente praticabili, signi. . . . fica esser fermi ad una visione astratta ed oggettiLe poss1b1hta . . dell e poss1'b'l' , come quan do c1. s1. ch'Ieast v1st1ca 11ta, 11 ra e de: «che devo scegliere? qual è l'alternativa? perché fu scelto cosi?». In una pagina del suo capolavoro, così Jaspers argomenta: «Non posso stare in ogni luogo, ma debbo stare interamente in un solo luogo per poter stare in qualche luogo. Ma questo solo luogo non è per nulla un luogo generico. Posso appartenere solo a un popolo, posso avere solo questi genitori, posso amare una sola donna; tuttavia posso in ogni caso tradire. Può sembrare che ci siano anche altre possibilità in astratto: perché non debbo appartenere ad un altro popolo se il volto del mio popolo contraffatto e mendace, mi appare estraneo? Posso non voler riconoscere i miei genitori: non è colpa mia se essi sono come sono. Mi sono ingannato nell'amore oppure esso è divenuto cosa morta: posso amare un'altra donna. La vita è cosi ricca, cosi piena di nuove possibilità e di imprevisti sviluppi. Questo dice la considerazione astratta; ma essa porta fuori strada ... In realtà essa mi strappa dall'autentico essere per divenire essa stessa il mio essere. Tradirei me stesso se tradissi gli altri, se non fossi deciso ad assumere incondizionatamente il mio popolo, i miei genitori, il mio amore: io debbo loro me stesso».
Scaturisce da questo modo d'intendere l'esistenza quella che potremmo chiamare la morale jaspersiana della fedeltà: la fedeltà a se stessi, al «dovere» di essere se stessi, realizzando le possibilità costitutive del proprio io. Non termina qui peraltro il lavoro di chiarificazione dell'esistenza. Abbiamo appena ora insistito sulla finitezza dell'esistenza che, pur trascendendo il semplice essere-nel-mondo dell'esserci, non può non ' . continuare a manifestarsi nel mondo, all'interno L essere-m- d 11 f' . . d'b'l . . situazione e la e. a 1m~ez~a. mtrasc~n 1 1 e de11a .s1tuaz10n~. colposità Esistere s1gmf1ea soffnre dell'angustia della situazione, che potremo anche modificare attraverso l'azione, ma non certo per sopprimere, in generale, l'essere-in-situazione. Jaspers parla, analogamente ad Heidegger, di una «colposità» originaria ed inevitabile che contrassegna la natura finita dell'esistenza: riecheggiando motivi kierkegaardiani, egli afferma che esistere significa limitazione, e limitazione peccato in quanto, assumendo le possibilità insite nel mio esserci, io mi separo dalle infinite possibilità di essere che sono oltre il limite. Si tratta di una colpevolezza radicale quanto ineludibile e impurificabile che sta a fondamento delle colpe evitabili ed espiabili della vita. Ma per cogliere fino in fondo questa finitezLe situazionilimite za dell'esistenza, occorre chiarire quelle che Jaspers chiama «situazioni-limite», che l'uomo non
può che subire, impotente com'è a modificarle, e che pertanto segnalano l' «impossibilità» dell'esistenza, la sua destinazione al «naufragio». Esse sono immutabili, definitive, incomprensibili: «situazioni come quella di dover esser sempre in una situazione, di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere irrimediabilmente la propria colpa, di dover morire ... Esse non mutano in sé ma solo nel loro apparire; nei confronti del nostro esserci hanno un carattere di definitività. Sfuggono alla nostra comprensione, cosi come sfugge al nostro esserci ciò che sta al di là di esse. Sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo !imitarci a guardarle in faccia con coraggiosa chiarezza, senza poterle spiegare o giustificare in base a qualcosa. Esse sussistono con l'esserci stesso».
E se come esserci noi possiamo evadere da esse «chiudendo gli occhi», a coglierle nella loro drammatica realtà è soltanto l'esistenza: «sperimentare situazioni-limite ed esistere, sentenzia Jaspers, è la stessa cosa», cosicché «diventiamo noi stessi solo se entriamo ad occhi aperti nelle situazioni-limite». Ad occhi aperti, e nel silenzio di una ragione rassegnata di fronte all'inesplicabile e all'inevitabile. c. L'esperienza delle situazioni-limite ci rivela, d'altronde, che nel momento stesso in cui ci riferiamo al nostro esserci decidendo di assumerlo nella sua radicale finitezza, noi avvertiamo più o meno .. oscuramente le altre infinite possibilità che stan- La , il «me» personale, è un prodotto della riflessione, un oggetto della coscienza e, come tale, esiste solo fuori, nel mondo, è un essere del mondo come l'Ego di altri. Solo in questo modo si riesce davvero, contro ogni inclinazione intimistica all'interiorità-rifugio, ad immergere l'uomo nel mondo, rendendo «tutto il loro peso alle sue angosce, alle sue sofferenze, e alle sue rivolte» e si evita «di tirare ancora una particella dell'uomo fuori del mondo e stornare così l'attenzione dai problemi reali».
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Gli scritti di psicologia fenomenologica. L'immaginazione. La nausea
ornato a Parigi, Sartre si dedica tra il 1936 e il 1940 alla stesura di alcuni saggi di psicologia
(L'immaginazione; Disegno di una teoria delle ~~ emozioni; L'immaginario) in cui, sulla base M. della fenomenologia e anche ispirandosi alla psicologia della Gestalt (v. CAP. 29, PAR. 1.3) sottopone a stringente critica i princìpi della psicologia francese ancora dominante nelle università. Già nel 1927 se ne era cominciato a liberare, sotto l'influenza della lettura del Trattato di psicopatologia di Jaspers (v. CAP. Psicologia 20, PAR. 2), che alla psicologia di matrice positivistiscientifica e psicologia le· ca contrapponeva una lettura dei processi psiconomenologica somatici fondata sul metodo già fenomenologico della «comprensione». Ma solo ora, in forza della scoperta di Husserl, Sartre è in grado di mostrare l'insostenibilità di una psicologia che, modellata sulle procedure delle scienze naturali e del metodo induttivo, interpreta i fenomeni psichici alla stregua dei fatti fisico-naturali e li spiega meccanicisticamente in base alle relazioni causali. La fenomenologia favorisce nella scienza psicologicà una vera rivoluzione, consentendo di cogliere in processi psicologici come l'emo-
zione e l'immaginazione, modalità della coscienza di rapportarsi al mondo, atti intenzionali, atteggiamenti originali costitutivi dell'esistenza umana che la psicologia fenomenologica ha il compito, appunto, di «comprendere», ossia di scoprire nel loro significato. Ne L'immaginario del 1940, il più maturo di questi scritti, Sartre, contro l'errore caratteristico della filosofia moderna e della psicologia scientifica, di considerare l'immagine alla stregua di una cosa e di attribuirle un contenuto simile a quello della percezione (l'immagine come impressione «rinascente» ), mostra come immaginazione e percezione siano . . . essenz1a . lmente d'1vers1. e 1rn . 'd uc1'b'1- .Percezrone e atteggiamenti ·nazione li l'uno all'altro, dalla cui dialettica la coscienza è rmmagr strutturalmente segnata. Mentre l'atteggiamento percettivo è coscienza realizzante, in quanto il suo oggetto è colto come reale ed essa è rivolta tutta verso di esso, l'immaginazione è invece coscienza irrealizzante in quanto intenziona il suo oggetto come assente, dato «a vuoto». La negazione è inseparabile dall'immagine, anzi la costituisce, in quanto la coscienza, per poter immaginaré, «deve poter formare e porre degli
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oggetti affetti da un certo carattere di nullità in rapporto alla totalità del reale». E se immaginare significa «costruire un oggetto in margine alla totalità del reale», allora ciò comporta «tenere il reale a distanza, liberarsene, in una parola negarlo»: per immaginare la persona amata che è lontana e di cui ho nostalgia, devo negare il mondo in cui questa persona è assente. L'immaginazione si rivela, dunque, come possibilità di «rinculo» rispetto al mondo, come possibilità di nientificarlo nell'atto stesso in cui essa lo pone come totalità: in questo sta la libertà della coscienza. Se, infatti, la coscienza esistesse semplicemente «in-mezzo-al-mondm>, come un esistente tra altri, senza possibilità di immaginare, di cogliere il mondo come totalità, essa sarebbe ridotta a cosa tra le cose, sottoposta inevitabilmente all'azione delle diverse realtà, priva, dunque, di libertà. La coscienza, viceversa, è potere di . . immaginare, di emergere dalle «pastoie» del /mmagmazrone d . . . h' l . e libertà mon ano m cm nsc ta, attraverso a vtta percettiva, di bloccarsi e, quindi, è libertà. Una libertà da non confondersi con l'onnipotenza e l'indifferenza dell'arbitrio: se, infatti il potere dell'immagine significa per la coscienza poter trascendere il proprio esserenel-mondo, resta fermo che si tratta di un potere che la coscienza può esercitare in quanto essa «rimane nel mondo», ossia in quanto si trova in una situazionenel-mondo, all'interno della quale soltanto essa può produrre la motivazione (per esempio, la nostalgia della persona amata lontana) dell'atto irrealizzante. «Cosi, benché, per la produzione d'irreale, la coscienza possa apparire momentaneamente liberata dal suo 'esserenel-mondo', è invece questo 'essere-nel-mondo' quel che costituisce la condizione necessaria dell'immaginazione». Ci siamo soffermati su questo scritto sartriano perché in esso, attraverso una rielaborazione della fenomenologia husserliana, ed una appropriazione anche terminologica (la coscienza come essere-nel-mondo) di tematiche heideggeriane, vengono elaborate alcune categorie fondamentali (coscienza e nulla, situazione e libertà) che saranno al centro dell'opera maggiore del primo Sartre, L'essere e il nulla del1943. Ma già col primo romanzo del1938, La nausea, «verità e sentimenti metafisici» vicini alla problematica di questi anni avevano trovato una loro mirabile espressione letteraria nel protagonista della storia, L Antoine Roquentin, aggredito da una «malattia» a nausea... che si insinua a poco a poco fino a diffondersi come un'infezione: la nausea. Si tratta di un'esperienza emotiva ma non meramente psicologica, forte anzi di una vera e propria portata antologica, per la quale la coscienza scopre la gratuità e l'assenza di significato delle cose, la loro nuda contingenza, e di esse prova disgusto, come del cibo quando già siamo sazi. È a partire dalle cose, scoperte nella loro ingiustificabile esistenza, che la nausea si manifesta:
Illustrazione per La nausée di Sartre, eseguita da Mario Prassinos.
« ... la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto intorno a me. Fa tutt'uno col caffè, son io che sono in essa ... ». Si tratta di un'esperienza in cui le cose si destrutturano, perdono il significato che loro attribuiscono gli uomini, razionalmente rassicurante, di utensili che chiedono di essere usati, e si rivelano invece come pure esistenze estraniate e prive di senso. «Le cose si sono disfatte dei loro nomi. Son lì ... e sembra stupido chiamarle sedili o dire qualsiasi cosa su di esse: io sono in mezzo alle Cose, le innominabili. Solo, senza parole, senza difesa, esse mi circondano, sotto di me, dietro di me, sopra di me. Non esigono nulla, non si impongono, sono lì». E sono le loro qualità a provocare la nausea: molli, flaccide, esorbitanti, appiccicose, dolciastre, vera e propria «marmellata» dell'essere in cui Roquentin rimane a poco a poco «invischiato». La sua coscienza si lascia intrappolare dalle cose, rimane ~~:c'i~nza «impastoiata» nel mondo, smarrendo quell'in- reificata tenzionalità che, come abbiamo visto nell' Immaginario, le permetteva di realizzarsi come libertà, trascendimento delle cose. La nausea è, dunque, il reificarsi della coscienza, il suo lasciarsi inghiottire dalla «fatticità», è l'uomo schiacciato nel mondo, che si lascia vivere, anch'esso, come le cose, gratuitamente, nell'indifferenza, e si sente «di troppo», scaduto kafkianamente a esistenza di mollusco o di insetto. «Vedo la mia mano che si chiude sul tavolo. Essa vive - sono io -. Si apre, le dita si spiegano o si tendono. È posata sul dorso. Mi mostra il suo ventre grasso. Sembra una bestia rovesciata». -
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L'essere e il nulla
~ ~ e a costitUisce, . 1su- una corsa perare la propna «mfehcita» e, come la coscienza perpetua hegeliana al termine del suo cammino, compiersi nella sintesi di soggetto e sostanza, di per-sé e in-sé? La risposta di Sartre è negativa: il per-sé si protende non verso una trascendenza che esso non è, bensì verso un trascendente che esso è come proprio futuro, ed è questo che toglie ogni possibilità di arresto a questa fuga perpetua: «Noi corriamo verso noi stessi e, per ciò stesso, siamo l'essere che non può raggiungersi». È come «un asino che tira un carretto e che tenta di prendere una carota fissata in cima ad un bastone anch'esso legato alle stanghe. Ogni sforzo dell'asino per afferrare la carota ha per effetto di far avanzare tutto il carretto e la carota stessa che rimane sempre alla stessa distanza dall'asino». Ma l'essere dell'uomo non si esaurisce nell'essere per-sé: l'uomo è costituito anche da un'altra struttura ontologica, la dimensione dell'intersoggettività, che Sartre chiama l'essere-per-altri, «un essere che è , · essere senza essere-per-me». L' esistenza · L essere-per· 1'l mw altri degli ·altri non potrebbe mai essere colta per via gnoseologica, attraverso delle dimostrazioni, e il solipsismo sarebbe per questa via inevitabile; se lo possiamo evitare è perché «il mio rapporto con l'altro è prima di tutto e fondamentalmente una relazione di essere ad essere, non di conoscenza a conoscenza». Io incontro realmente l'altro, e non semplicemente delle «ragioni» per credervi, partendo dalla mia stessa interiorità e dalla concretezza della mia esistenza, per esempio dalla esperienza concreta e interiore della vergogna: vergognarsi è sempre vergognarsi di fronte a qualcuno, apprendersi quali si appare ad altri, riconoscersi come gli altri ci guardano. Sartre attribuisce ad Hegel, dalla cui analisi del rapporto servo-padrone nella Fenomenologia si lascia profondamente condizionare, il merito di avere capi-
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to che la relazione io-altri si pone come reciproca negazione interna, e quindi come inevitabile CC conflittualità. Con finezza di analisi psicologica (5!5 egli esamina la «dialettica» delle relazioni intersoggettive da cui emerge una inedita e modernissima reinterpretazione dell'hobbesiano «homo homini lupus». Questi i punti essenziali dell'analisi: a. anche se l'altro appare al mio sguardo inizialmente come un «oggetto», è subito chiaro che non si tratta di un oggetto tra gli altri, ché infatti esso mostra . di avere propri rapporti - dai quali io sono escluQualcuno nu · . deruba del mio so - con le cose del mw mondo, del quale dunmondo que io non posso più sentirmi unico e insostituibile organizzatore. È «l'apparizione tra gli oggetti del mio universo di un elemento di disgregazione di questo universo>>, di un oggetto che «mi deruba del mondo» e che, pertanto, è in competizione con me. b. Ma il conflitto io-altro esplode drammatico quando l'altro alza gli occhi e «mi guarda»: io allora scopro l'altro come soggetto e, simultaneamente, il suo sguardo mi oggettiva riducendo il mio essere ad un «essere-visto-da-altri». «Non sono più padrone della situazione», i progetti dell'altro trascendono i . miei e li neutralizzano, mi scopro «trascendenza Qualcuno 1111 l . l'b , , . guarda trascesa», a m1a 1 erta e come negata, m1 sento veduto come io non riesco a vedermi, e definito come si definisce una cosa. Sotto lo sguardo dell'altro il mio statuto antologico è sconvolto e io mi ritrovo in quella situazione di disagio e pericolo in cui si trova Josef K., il protagonista del Processo di Kafka: come lui io sento che ne va della mia libertà. c. È vero che da questa esperienza di vergogna e disagio cui mi condanna lo sguardo reificante dell'altro - vera e propria reincarnazione del mito di Medusa io cerco di riscattarmi facendo a mia volta l'altro oggetto del mio sguardo e rovesciando cosi, con un Tra vergogna !' · de11a m1a · l'b ' e orgoglio atto d'1 orgogl'wsa af'1ermaz10ne 1 erta, la situazione: ma cosi il conflitto si perpetua e, nell'oscillazione tra vergogna ed orgoglio, l'altro rimane irrimediabilmente separato da me come io da lui. d. Inutilmente le due coscienze esperiranno i diversi tentativi di superamento della reciproca negazione e di realizzazione di un'unità in cui la soggettività dell'una sia fondamento della soggettività dell'altra. Sartre dedica pagine penetranti all'esame del fallimento dei due atteggiamenti opposti in cui quei tentativi si esprimono: da una parte l'amore e la sessualità masochista come sforzo di assimilare l'altro a sé rispettandone la soggettività e la libertà, dall'altra l'indifferenza, il desiderio sessuale, la sessualità sadica e l'odio, tentativi di aggettivazione e annullamento delL'amore fallisce perché quanto più io vavam. S1OfZI. d'l l'altro. l . l , , , d ll' l ,, . . unificazione onzzo a soggett1V1ta e a tro tanto pm m1 nduco all'oggettività dell'essere-amato e viceversa: il mio sguardo si incontra con lo sguardo dell'altro e 1~
Un moderno ((homo homini lupus»
invece di specchiarvisi lo oggettiva !asciandosene oggettivare. Quanto al tentativo di annullamento dell'altro attraverso le pratiche di aggressività, esso fallisce perché la soggettività dell'altro riemerge dopo ogni tentativo di reificarla e mi ricorda la mia inevitabile oggettività. Esemplare è la citazione sartriana di un episodio di un romanzo di Faulkner, in cui lo sguardo della vittima sul sadico suo aguzzino sancisce la sconfitta di quest'ultimo: la potenza intollerabile di quello sguardo segna il trionfo della libertà della vittima che consegna il carnefice all'oggettività dell'essere-guardato. «L'inferno sono gli altri»: questa esclamazione di uno dei personaggi di A porte chiuse del 1945 potrebbe essere il sigillo di queste pagine di Essere e nulla.
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Sartre con in mano una copia di un giornale dell'estrema sinistra.
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LU L'essere umano è condannato anche come essere- nullato e l'in-sé progettato l'uomo non può che cc per-altri a quella irrimediabile mancanza di essere e essere e rimanere nulla. Se «la passione dell'uo- Una c> ensamenio disinvolta affermazione che «l'uomo è ciò che si dell'idea di fa» e che «l'esistenza precede l'essenza». Occorre- libertà e va superare la rigida abbiezione antimaterialisti- recupero della ca del 1946 e, sia pur confermando il rifiuto del dialellica materialismo dialettico engelsiano, riconoscere, materiale nell'ambito dell'universo storico-sociale, la dialettica materiale costitutiva dell'essere umano, la moltitudine dei precedenti e delle condizioni operanti su di esso
«non può rivelarsi agli inizi che ai rivoluzionari, cioè agli uomini che si trovano in situazione di oppressi, e ha bisogno di loro per manifestarsi al mondo».
Questo primo confronto col marxismo teorico, culminando nella tesi che si può, anzi si deve, essere rivoluzionari senza essere materialisti, non avrebbe mai condotto Sartre a recuperare la filosofia marxista, se non fosse maturata negli anni successivi una profonda revisione del suo esistenzialismo relativamente, in particolare, a due temi: a. quello dell'uomo come «passione inutile»; b. quello della libertà e dei suoi condizionamenti. a. Se in L'Essere e il nulla la nozione dell'esistenza di Dio veniva respinta perché contraddittoria, si persisteva però nel definire l'uomo in relazione a Dio, proposto come irrealizzabile sintesi di per-sé e in-sé, kantiana idea razionale che continuava a «regolare» l'esistenza umana. Di qui conseguiva la conclusione «cataLa rin . strofista>> dell'uomo come «Dio mancato», dispe11 ~~~~88~1~ rante sigillo dello scritto del1943. La svolta urnainutili» nistico-positiva iniziata con L'esistenzialismo è un umanismo esigeva, pertanto, la liquidazione di questa prospettiva: l'accettazione senza riserve della condizione umana nella sua essenziale finitezza, la piena conversione dell'uomo a se stesso, vogliono che egli
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Sartre, Beauvoir e Fide! Castro a Cuba ne/1960.
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fin dalla nascita, costitutive della passività del suo essere-già-fatto senza rinunciare, nel contempo, ad affermare la sua libertà: se l'uomo non può essere semplicemente «ciò che si fa», rimane pur vero che esso «è ciò che egli fa di ciò che lo si è reso». Occorreva, dunque, che, pur confermando la precedenza dell'esistenza sull'essenza intesa in senso teo-
logico-metafisico o, comunque, come «natura umana» già data e immutabile, si riconoscessero nella , loro precedenza e potere di condizionamento pla((es_sere • .h d . ,. SSIVOll que11 e «essenze» temporal1 e stonc e a cm 1m- dell'uomo dividuo è «agito» e che, come «praxis sociale cristallizzata delle generazioni precedenti», costituiscono i «caratteri materiali del suo essere passivo».
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n marxismo-leninismo: una filosofia di stato bbiamo già detto (v. CAP. 22*, PAR. 6.3) delle ambiguità presenti nel pensiero di Lenin, oscillante tra una componente «sovietista» e libertaria, espressasi in un saggio come Stato e rivoluzione, e la componente «giacobina», virtualmente autoritaria, del primato del partito sulla classe. L'affermarsi con la rivoluzione d'ottobre del primo stato socialista, e la necessità del suo consolidamento nel bel mezzo delle drammatiche vicende della guerra civile, avrebbero favorito, già durante la vita del capo bolscevico, e poi soprattutto con l'inizio dell'epoca staIdentificazione liniana, lo sciogliersi di quell'ambiguità con l'afdel partito con lo stato fermarsi della dittatura del partito e la sua identisocialista ficazione, anche teorizzata, con lo stato socialista. Questo, invece che deperire progressivamente, viene viceversa potenziandosi, accentuando progressivamente la sua funzione coercitiva nei confronti della società civile, fino a negare di quest'ultima ogni libertà d'espressione, in un paese in cui lo zarismo ne aveva impedito da sempre crescita ed articolazione. Non solo. Tra il1926-29- gli anni della lotta per il potere e dello scontro tra opposte strategie del partito comunista sovietico, conclusisi col prevalere della opzione di Stalin per la costruzione del socialismo in un paese solo e l'eliminazione dell'opposizione di Trotzkij, uno degli artefici, accanto a Lenin, dell'ottobre, e di Bucharin - e i11934-38 - gli anni delle Dalla dittatura «grandi purghe» e dei processi staliniani che del partito alla dittatura del avrebbero liquidato fisicamente l'intero gruppo Capo dirigente della rivoluzione del '17 -, la dittatura del partito si sarebbe progressivamente trasformata in dittatura del comitato centrale, e questa nella dittatura di un uomo solo. E intanto lo stato, strutturato secondo una rigida organizzazione piramidale, veniva riproducendo e perpetuando in se stesso, a garanzia della massima centralizzazione del potere, una burocrazia ipertrofica, socialmente privilegiata.
Josip Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin (1879-1953), primo segretario del partito fin dal1924, e dal1929 capo supremo ed unico dello stato sovietico, è colui che fa del marxismo-leninismo, cristal- s . . · una 10rmu " lazwne · lIzzato 111 che non avrebb e po- la1m tuto essere più dogmatica, la dottrina ufficiale dello stato, e del partito l'organo di controllo anche della produzione della cultura e della scienza, delle quali viene proclamata, appunto, la «partiticità». Celebre quanto esiziale è rimasta, a questo proposito, l'opera di censura e di mortificazione di ogni spirito critico svolta tra gli anni Trenta e Quaranta da Andrey Alexandrovic Zdanov (1896-1948), ideo. sta1Imano, . . . del Zdanov logo del regime rozzo teonzzatore cosiddetto «realismo socialista», assunto quale principio direttivo della produzione e della critica artistica e letteraria. Autore di testi di scarsa originalità, dai Principi delleninismo del1924 alle Questioni delleninismo del 1926, caratterizzati dalla tendenza a semplificare, in . . modo spesso rozzo, e a ridurre ad una scolastica 1 e'1 . 'f'Icata le tematlc . he ch e 111 . Lemn . avevano Sta'" p!etn Diamatn avuto un ben diverso svolgimento, Stalin codifica in Materialismo dialettico e materialismo storico del 1938 la filosofia del «Diamat» - abbreviazione del russo dialekticeckij materializm -, proponendola come filosofia ufficiale del movimento comunista internazionale. Sulla base di definizioni assiomatiche e secondo un procedimento semplicisticamente deduttivo, che sembrano ignorare la complessità dei problemi, viene proposto un marxismo dalle marcate ascendenze u d 11 . a .. . generale e generale naorm . engelsmne e 1emmane, quale d ottnna e definitiva, esaustiva della realtà intera, sia del definitiva mondo della natura - materialismo dialettico che della società umana - materialismo storico. La dialettica che presiede allo svolgimento rigidamente
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>, e che al partito rivoluzionario si richiedeva «una strategia ed una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre 1917».
E in un discorso del1926 al comitato centrale del suo partito aveva ribadito: «Nei paesi a capitalismo avanzato la classe dominante possiede delle riserve politiche e organizzative che non possedeva per esempio in Russia. Ciò significa che anche le crisi economiche gravissime non hanno immediate ripercussioni nel campo politico ... L'apparato statale è molto più resistente di quanto non si può credere, e riesce ad organizzare nei momenti di crisi forze fedeli al regime più di quanto la profondità della crisi potrebbe lasciar supporre».
Ma sarebbe stato solo nella riflessione in carcere che Gramsci sarebbe andato a fondo su questa tematica, elaborando da queste premesse antieconomicistiche ed antimeccanicistiche le linee essenziali della propria teoria politica e del proprio marxismo. Nei Quaderni si registra un modo nuovo rispetto allo stesso Marx, di intendere la «società civile» e i suoi rapporti con lo stato. Mentre per Marx, ancora legato ad Hegel, la società civile si esauriva nella dimensione dei rapporti economico-sociali, e quindi era pura struttura, in Gramsci essa si fa ricca di compo-
nenti sovrastrutturali, che ne fanno una realtà complessa ed articolata, irriducibile ai rapporti puramente economici, che pure ne costituiscono la base. La chiesa, i partiti politici, i sindacati, le associazioni, la stampa e i mass-media, la scuola ne sono momenti istituzionali costitutivi; ed è attraverso di essi che La «società civile» e il si elaborano e si diffondono le ideologie, median- problema del te le quali la classe politicamente dominante nello consenso stato può godere del consenso nella società, e così realizzare la propria «egemonia», senza la quale il suo dominio non potrebbe resistere a lungo. Gramsci, insomma, giuoca tutto il suo discorso sul nesso che si stabilisce tra «consenso», «dominio» ed «egemonia». Solo là dove - ed è il caso della Russia del 191 7 '-- «lo stato è tutto» e la società, invece, è «primordiale e gelatinosa», il dominio può anche fare a meno, almeno in grande misura, del consenso, e mostrarsi nel suo volto brutalmente coercitivo; e, proprio per 11 ca~o della questo, lì, la rivoluzione socialista si è potuta Russia ... configurare come, prima di tutto, conquista, attraverso un colpo di forza militare, del potere centrale dello stato. Ma non può essere così nei paesi capitalistici avanzati, dove lo stato è intrecciato con una «robusta struttura della società civile», e il dominio si vale, attraverso gli strumenti ideologici disseminati nella società, dei meccanismi del consenso, capaci di coinvolgere le classi subalterne. Qui, la rivoluzione . . proletaria richiede che la classe sociale rivoluzio- ... e.d el~ P1.8?51 . . . d' d' . d . cap11a 1s 1c1 nana sta capace, pnma ancora 1 1vemre om1- avanzati nante, ossia di conquistare il potere statuale, di ottenere il consenso della società, di farsi classe «dirigente», in virtù di una nuova concezione del mondo, di nuovi valori, di una nuova cultura che, per andare oltre ogni ottica particolaristica ed ogni interesse corporativo, si dimostrino capaci di dare soluzione ai
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grandi problemi nazionali, come per esempio in Italia la questione meridionale, e quindi abbiano la forza di persuadere le più larghe masse popolari. La classe operaia deve essere insomma in grado di conquistare - attraverso quella che Gramsci, con gergo militaresco non inconsueto nella tradizione del linguaggio marxistico, chiama «guerra di posizione» per distinguerla dalla «guerra manovrata» - «la robusta catena di fortezze e di casematte» che stanno dietro la «trincea avanzata dello stato». Solo cosi La «guerra di essa potrà diventare classe egemone, e dunque posizionell e la questione legittimata all'esercizio del dominio politico. dell'egemonia Quello che Lenin aveva rimandato al dopo la conquista del potere politico, va secondo Gramsci realizzato prima, quale condizione senza la quale il dominio, ottenuto attraverso la conquista dello stato, non potrebbe che essere puramente repressivo. Egli afferma infatti che, anche una volta che la classe operaia sia divenuta, in virtù della rottura rivoluzionaria, classe dominante, «deve continuare ad essere anche dirigente». Non solo, come si vede, siamo qui in ben altra dimensione da quella dello stalinismo, a cui la filosofia politica gramsciana appare completamente estranea,
3.4
ma col concetto di egemonia Gramsci riesce anche ad evitare quell'aspetto di autoritarismo che continuava a caratterizzare il corrispondente concetto leniniano di «dittatura del proletariato», nel quale era l'affermazione del puro dominio ad apparire ancora prevalente. Implicito in tutto questo è un modo nuovo e originale d'intendere il rapporto tra strutture e sovrastrutture, col quale cade ogni possibile fraintendimento economicistico. Fare la rivoluzione socialista non può significare semplicemente abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla quale, come per incanto, dovrebbero nascere nuove sovrastrutture, rappresentanti il riflesso ideale dei rapporti sociali di produzione rivoluzionati. Gramsci con · sottol'mea, v1ceversa, · riforma 1,.Importanza La grande energ1a 'Jtell 11 1 . . d 11 l b . d d l l n pnmana e a e a orazwne, a parte e pro eta- moralee ua e e riato, di una cultura superiore che, consentendogli di prendere coscienza di sé, della propria autonomia, gli può anche dare la forza di trasformare la struttura della società. Questo, in sostanza, egli vuol dire quando afferma che la rivoluzione può determinare una radicale trasformazione dei rapporti economico-sociali tra gli uomini, solo in quanto sia innanzitutto una «riforma intellettuale e morale».
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La funzione degli intellettuali. Il «moderno Principe» a questa riforma richiede allora un nuovo tipo di intellettuale, «organico» alla classe operaia, che le permetta di esercitare il ruolo dirigente cui essa è chiamata. In questo senso, ogni classe egemone ha avuto sempre i propri intellettuali organici che le hanno consentito di organizzare il L'intellettuale consenso, come, per fare un solo esempio, i chieorganico rici medievali che, nella società feudale, rappresentarono i «funzionari» della classe aristocratica. Gramsci sostiene che solo gli intellettuali, con la loro capacità di direzione, sono in grado di innalzare la classe operaia e le masse che si raccolgono ' . Lautocoscienza • d . . . . d. . critica mtorno a ess~, pnm1. ~ra tuttl 1 co~ta m1, a quell' «autocoscienza cntlca» necessana per avviare il processo rivoluzionario. «Autocoscienza critica - egli scrive - significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali: una massa umana non si distingue e non diventa indipendente per sé, senza organizzarsi (in senso lato) e non c'è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l'aspetto teorico del nesso teoriapratica si distingua concretamente in uno strato di persone· specializzate nell'elaborazione concettuale e filosofica».
Come potrebbe, senza l'opera di questi mediatori della «riforma intellettuale e morale», attuarsi, per fare un esempio classicamente gramsciano, quell'al-
leanza tra contadini e operai che, agli occhi di Gramsci, costituisce l'architrave della rivoluzione italiana? I contadini si trovano sotto la tutela culturale e politica della Chiesa cattolica e della borghesia latifondistica, e da questa tutela, una delle «fortezze e casematte» più importanti dell'attuale società, occorre emanciparli, disgregando «il blocco intellettuale che è l'armatura intellettuale flessibile ma resistentissima del blocco agrario». Naturalmente il nuovo intellettuale non potrebbe mai confondersi con gli intellettuali tradizionali, chiusi nel «casto» sentimento aristocratico di Intellettuale organico e una loro presunta estraneità agli interessi di clas- intellettuale se; l'intellettuale organico nasce dalla massa e tradizionale rimane a contatto con essa: «anche il grande intellettuale deve tuffarsi nella vita pratica, diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura, se vuole continuare a dirigere; deve democratizzarsi, essere più attuale: l'uomo del Rinascimento non è più possibile nel tempo moderno, quando alla storia partecipano, attivamente e direttamente, masse umane sempre più ingenti».
Del resto, Gramsci, che ha riflettuto molto sulla società di massa e sullo sviluppo del capitalismo moderno, ha una percezione assai ampia della professione intellettuale, in cui include, oltre che le funzioni
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tradizionali di produttore e diffusore di una generale visione del mondo, anche quelle, non più conli «moderno trapposte al lavoro manuale, di organizzazione Principell dell'economia e del lavoro: «In Ògni paese lo strato degli intellettuali - aveva scritto già nel 1926 in Alcuni temi della questione meridionale è stato radicalmente modificato dallo sviluppo del capitalismo. L'industria ha introdotto un nuovo tipo di intellettuale: l'organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata. Nelle società dove le forze economiche si sono sviluppate nel senso capitalistico, fino ad assorbire la massima parte dell'attività nazionale, è questo secondo tipo di intellettuale che ha prevalso».
A questi strati di lavoratori intellettuali anche pensa Gramsci, quando parla di una funzione dirigente cui il nuovo «blocco sociale» deve saper assolvere. Infine, il discorso gramsciano sugli intellettuali si compie nella teorizzazione di quell' «intellettuale collettivo» che deve essere il partito. Gramsci lo definisce il «moderno Principe» e gli affida un compito altissimo, no-n: solo politico ma ideale e morale. A differenza che in Machiavelli, il principe moderno non può coincidere con un individuo concreto, ma può essere solo un organismo nel quale si concretizza
la volontà collettiva della classe rivoluzionaria, in quanto tende a farsi universale e totale. È questo uno degli aspetti del pensiero politico gramsciano più datato, indubbiamente assai prossimo al leninismo ed alla sua concezione totalizzante del partito, di cui vien celebrata la coesione, la centralizzazione, la disciplina, quali segni della sua «assolutezza». Una assolutezza che Gramsci configura in termini addirittura religiosi: «Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume».
Dove, evidentemente, l'empito religioso con cui il partito viene assolutizzato, al di fuori e contro ogni prospettiva pluralistica, è il segno, per l'appunto, di una laicizzazione della vita degli uomini non ancora del tutto compiuta.
d. N.·uovo . . ·····.·.·.·~.····.Ine l·'O'
""'" di /.11 urnn.
Il Partito Comunlsta Italiano. è costituito r1uni1n1 ~!l ~~n~~e~m~
La prima pagina del quotidiano comunista «Ordine Nuovo».
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3.5
Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce :..~t ec?ndo ,una p~osrettiva c~e era già. stata.di La-
~~
t bnola, e convmc1mento d1 Gramsc1 che 11 mar-
W xismo rappresenti una filosofia del tutto auto-
;: sufficiente, ~o~ b.is~gnosa. di essere ricondotta ad altre tradlZlom d1 pens1ero, come era costume dei teorici della Seconda Internazionale, che, quando non interpretavano l'insegnamento di Autosufficienza Marx secondo schemi positivistici, lo filtravano, del marxismo come facevano gli austro-marxisti, attraverso un ripensamento della filosofia kantiana. Con grande energia, Gramsci rivendica del marxismo, contro chi come Croce pretenderebbe di ridurlo ad un semplice criterio pragmatico di ricerca storica, la dignità di una vera e propria «visione del mondo», autonoma e totalizzante, in grado di affermare la propria egemonia sulla cultura tradizionale. Si legge nei Quaderni: « ... la filosofia della praxis - così, labriolanamente, egli preferisce chiamare il materialismo storico - basta a se stessa, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà». ~·
Essa ha dunque tutte le carte in regola per neutralizzare i tentativi che si vanno facendo di «riassorbirla e incorporarla come ancella alla cultura tradizionale». E Gramsci pensa in primo luogo all'opera filosofica di Croce, con la quale egli lungamente si misura. E si è anche a lungo discusso sulla natura di questo rapporto di Gramsci con il crocianesimo. Tutti, o quasi, d'accordo nel riconoscere che il generale clima antipositivistico e idealistico caratteristico della cultura italiana del primo Novecento ha favorito, e in qualche modo influenzato, la battaglia del giovaIl rapporto con G . . . . . . la filosofia ne ramsc1 contro 11 marx1smo meccamc1st1co e crociana materialistico-volgare predominante, e che Croce, in particolare, avrebbe rappresentato per Gramsci, col suo storicismo assoluto, qualcosa di simile a quello che la filosofia classica tedesca aveva rappresentato per Marx, gli studiosi si sono invece divisi sulla questione della coerenza marxistica gramsciana, se essa abbia o no ceduto nel confronto con l'idealismo crociano. Non è questo il luogo per affrontare una così complessa questione storiografica, tra l'altro intrecciata in modo indissolubile con la valutazione della valenza politica del gramscismo. Ci limitiamo, pertanto, ad illustrare i dati certi del rapporto di Gramsci con la filosofia crociana. Intanto, è lui stesso a riconoscere il debito contratto nella propria formazione giovanile con il filoso-
fo idealista, tanto dà riconoscere di essere stato, almeno fino al 191 7, «tendenzialmente piuttosto crociano», e di aver partecipato «in tutto o in parte al movimento di riforma intellettuale e morale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuole dire». E ancora negli anni del carcere l'autore dei Quaderni è disposto a riconoscere a Croce il merito di avere, «nella sua attività di pensatore, ... studiosamente cercato di espungere dalla sua filosofia ogni traccia e residuo di trascendenza e di teologia e quindi di metafisica, intesa nel senso tradizionale»; il merito di aver polemizzato con l'idea della filosofia come «sistema» chiuso e definitivo, e di aver visto che i problemi che il filosofo deve risolvere non sono quelli eterni e immutabili della metafisica, bensì quelli proposti dal processo storico sempre in via di svolgimento; ed egualmente egli riconosce «gli sforzi del Croce per fare aderire alla vita la filosofia idealistica, e ... la sua lotta contro la trascendenza e la teologia nelle loro forme peculiari al pensiero religioso-confessionale». Ma in modo altrettanto netto bisogna dire che Croce non è riuscito nel suo intento in modo conseguente: «la sua filosofia rimane una filosofia speculativa e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla più grossolana scorza mitologica». Il carattere speculativo ed astratto dello storicismo crociano risulta dall'aver Croce fissato aprioristicamente le distinzioni, in cui si articola il processo storico, in concetti posti al di fuori di esso e resi immutabili, quando invece la filosofia della praxis vuole che i concetti siano risolti nel concreto movimento della realtà, e il pensiero reso immanente alla praxis. La dialettica, da espressione delle Una filosofia speculativa; contraddizioni sociali, diventa una pura dialetti- una dialettica ca concettuale e Croce torna a far camminare puramento l'uomo sulla testa invece che sui piedi. A parole concettuale egli restituisce all'uomo il ruolo di creatore e produttore di storia, ma si scopre poi che non si tratta dell'uomo preso nel concreto della sua realtà sociale, bensì dell' «uomo universale», in cui si nasconde il vecchio «Spirito santo speculativizzato». Rispetto all'operazione compiuta da Marx nei confronti di Hegel, Croce «ha rifatto a rovescio il cammino», tor-
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nando a tradurre «in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis». Conseguenza ne è la concezione della storia come storia puramente etico-politica (v. CAP. 9, PAR. 10). Certo, la storia etico-politica non è «una futilità da respingere senz'altro», e Croce, teorizzandola, ha Storia avuto il merito di reagire all'economicismo deotico·politica e terministico. Ma, se è vero che la filosofia della priorità dell'economico praxis non esclude affatto la storia etico-politica - il tema dell'egemonia ne è un segnale -, resta ben ferma però, agli occhi di Gramsci, «la priorità del fatto economico, cioè della struttura come punto di riferimento e di impulso dialettico delle superstrutture». Solo la filosofia della praxis, che è ancora agli inizi e aspetta di essere compiutamente elaborata, si rivela uno storicismo umanistico veramente assoluto, la «mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero», che identifica del tutto filosofia e storia, filoCentralità del!a sofia e praxis mondana dell'uomo. È ispirandosi praxls alle Tesi su Feuerbach (v. CAP. 16*, PAR. 6) che Gramsci pone, infatti, al centro della storia la praxis degli uomini reali, attraverso la quale essi conoscono-modificano il loro mondo e insieme con esso il mondo della natura. Si capisce, pertanto, la riluttanza di Gramsci alla definizione del marxismo come «materialismo storico», e il suo insistere che, semmai, occorra «poFilosofia della sare l'accento sul secondo termine storico e non praxis e materialismo sul primo di origine metafisica». La filosofia delstorico la praxis è infatti incompatibile con quel materialismo che concepisce la natura come una realtà del tutto separata dalla coscienza e preesistente ad essa, e che finisce col fare della coscienza l'epifenome-
no della sostanza-materia, rendendo in tal modo inconcepibile la praxis come espressione della soggettività creatrice dell'uomo. Questo materialismo, che era stato teorizzato anche da Engels, e da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo, e popolarizzato dal sovietico Bucharin in un celebre manuale del 1921 - Teoria del materialismo storico. Saggio popolare di sociologia marxista -, è in realtà fondato su di una credenza di origine religiosa: « ... tutte le religioni hanno insegnato e insegnano che il mondo, la natura, l'universo è stato creato da dio prima della creazione dell'uomo e quindi l'uomo ha trovato il mondo già bell'e pronto, catalogato e definito una volta per sempre».
Il rifiuto di un materialismo come questo, che pretenderebbe dare dignità filosofica alle ingenuità del senso comune, non significa, peraltro, dare ragione all'idealismo, che da Berkeley in poi ha preteso di fare del mondo oggettivo una produzione del pensiero. L'originalità della filosofia della praxis, il suo non poter coincidere «con nessun sistema del passato comunque esso si chiami», consiste per l'appunto nell'escludere così il materialismo metafisica co- Una me anche l'idealismo. Le Tesi su Feuerbach- cui interpretazione idealistica secondo alcuni studiosi Gramsci guarderebbe delle resi su con un occhio inconsapevolmente influenzato Feuerbach? dall'idealismo italiano, e più precisamente dal Gentile de La filosofia di Marx- hanno insegnato che il materialismo marxistico consiste nello scoprire che il mondo esterno esiste in quanto è implicato nell'atti.. vità teorico-pratica degl uomini reali, degli uomini cioè concretamente inseriti nel processo produttivo, là dove pulsa il cuore della storia.
La cognata di Gramsci, Tatiana Schucht.
Gramsci a Ustica con un gruppo di confinati ne/1927.
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n marxismo occidentale
essa in uso da Merleau-Ponty ne Le avventure della dialettica (v. CAP. 21, PAR. 5), questa espressione «marxismo occidentale» serve ad indicare le nuove interpretazioni del marxismo che andarono configurandosi nell'Europa degli anni Venti, ad opera di due intellettuali, l'ungherese Lukacs e il tedesco Korsch, i quali, indipendentemente l'uno dall'altro, esposero in due celebri libri, ambedue pubblicati nel 1923, rispettivamente Storia e co. scienza di classe e Marxismo e filosofia, una letLu~acs ~ tura di Marx per molti aspetti «eterodossa» riorsc spetto sia al marxismo ~econdinternazionalista alla Kautsky per intendersi -, e sia a quello di ascendenza engelsiano-leniniana, che di lì a pochi anni si sarebbe irrigidito nella filosofia del Diamat. Mentre, però, la rottura appariva totale nei confronti del marxismo evoluzionista ed economicista della socialdemocrazia tedesca, non proprio così era per il marxismo di Lenin, con il quale così Lukacs come Korsch condividevano il ritorno alle origini dia. lettiche ed hegeliane del pensiero di Marx, il priNo al '"?rxismo mato del politico sull'economico e la sottolineasecondmterna. . zionalista tura della prax1s come elemento determmante della rottura rivoluzionaria. Tant'è che all'origine il marxismo dei due pensatori in questione, proprio per aver essi visto nella lezione dell'ottobre russo una confutazione pratica e insieme teorica del marxismo «ortodosso», non intese di certo opporsi frontalmente alleninismo, di cui soprattutto Lukacs condivideva non pochi aspetti. Ciò non significa che anche nei confronti delleninismo non apparissero da subito, evidenti e non certo secondarie, le divergenze, che andavano dal rifiuto della engelsiana dialettica della natura, in nome di una concezione della dialettica come riferibile 1 distingro ~a solo al rapporto soggetto-oggetto costitutivo del enm mondo degli uomini, alla negazione della teoria della conoscenza come rispecchiamento. Atteggiamenti, tutti questi, che concorrevano a sottolineare del marxismo occidentale la vocazione fortemente umanistica e «idealistica». A questo proposito, senza voler in alcun modo diminuire l'indubbia originalità della riflessione lukasciana e korschiana, è stato osservato come anche nel marxismo italiano, sia quello di Labriola che sopratG . . tutto quello di Gramsci, risuonassero accenti as:~n1115~1 e 11 sai simili a quelli degli autori dei due scritti del arxismo 1923 , un po ' per la comune ongme . . hegel'1ana e, occidentale» nel caso di Gramsci, per la forte incidenza teorica che anche su di lui, come su Lukacs e Korsch, aveva avuto l'accelerazione rivoluzionaria dell'ottobre del 'l 7. Da tutto questo alcuni studiosi si sono
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: 2. JAHRGANG
NUMMER 21
'HALBMONATSSGHRIFT
Paul Levi: Zehn Jahre Max Adlor: Ole Idee der Republik O. Jenssen: OJalektlk der Revolutlonen Halnrich StrObel: Dle deutsche Revolutlon F'rfedrfch Ebort und die Republlk Théodor Oan: Ole deutsche un d d le runlsche Revolutlon
Otto Leichtcr DI e unrevolutlonAra Revolutlon A. Gurland: Dte Rolle der K PO. In der deut·
acheo Revolutlon Glosscn
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SOZIAt.IPISCHE PO:UTIK UNO WIR'TSCHAF.T l. l A U 8 S C H E Y l! Jt L A O S 8 U C H H A N D L UN O O. M. O. H.. (V •r Slind·Poal nn•tnlt D orli n·Schl5ncb•rll)
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Il frontespizio della rivista «Der Klassenkampfi! (La lotta di classe).
sentiti autorizzati ad includere nei confini del «marxismo occidentale» anche il marxismo italiano. Solo in un secondo momento, con l'affermarsi dello stalinismo in Urss e nel movimento comunista internazionale, i due grandi esponenti dell'hegelomarxismo degli anni Venti avrebbero veduto approfondirsi di molto le distanze dal marxismo ufficiale del mondo comunista, mentre i loro rispettivi comportamenti pratici e teorici si sarebbero profondamente differenziati tra loro. Mentre Korsch, di . cui per motivi di spazio dobbiamo rinunciare ad K~~s:h, Lultacs esporre il pensiero, avrebbe fin dal 1926 rotto :,a:n~ana definitivamente col partito comunista tedesco, dal quale del resto era stato espulso per non aver voluto ritrattare le proprie posizioni, e si sarebbe allontanato per sempre dall'impegno direttamente politico, pur rimanendo nell'area teorica del marxismo, Lukacs venne invece facendo autocritica nei confronti delle posizioni espresse in Storia e coscienza di classe, e, pur non aderendo mai propriamente e senza riserve al marxismo-leninismo ufficiale dei paesi comunisti,
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
ed anzi manifestando in più di un'occasione, soprattutto sul terreno specificamente politico, dissensi e coraggiose prese di posizione, avrebbe mantenuto fino in fondo la propria fedeltà al mondo comunista. Nel frattempo al «marxismo occidentale» venivano iscrivendosi, nei decenni che intercorsero tra le due
guerre mondiali, anche altre e diverse posizioni ed altri e diversi pensatori di scuola hegelo-marxista . 131 1 e in forte dissonanza con la filosofia ufficiale del- fr:~c~~o~081. l'Urss, come, per fare l'esempio più illustre, Ernst Bloch, o del tutto estranei ad essa, come gli esponenti della cosiddetta scuola di Francoforte (v. CAP. 25).
Lukacs (1885-1971): un comunista tra umanesimo estalinismo 5.1 ' " """""'"" ' '""'"""'"""""'" '"'"" ""' """"'""'"'"' "'"""""'"""'""""'"'"' """'"'""'""""""'""'"'""""' '""""''"'""
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Un uomo di cultura mitteleuropea
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yorgy Lukacs nasce a Budapest nel ebraica; 1885 da una ricca famiglia borghese di origine suo : Hl: padre, di professione banchiere, era stato insit• .'d~ gnito dall'imperatore Francesco Giuseppe di un :~ titolo nobiliare, il che dava diritto anche al giovane Gyorgy di far precedere il nome da un von. Appassionatosi fin dal liceo agli studi filosofici, egli, conseguita, per seguire la volontà paterna, la laurea in giurisprudenza nel 1906, ma anche il dottorato in filosofia nel 1909, soggiorna tra il 1909 e il 191 Oa Berlino dove segue le lezioni di Simmel (V. CAP. 2, Tra Simmel... PAR. 7), da cui è profondamente influenzato, ed ha come compagno di studi Ernst Bloch. Subito dopo, ad Heidelberg, conosce Weber (v. CAP. 3), subisce l'influenza di Rickert e della filosofia dei valori (v. CAP. 2, PAR. 4), mentre è forte anche l'attrazione per lo storicismo diltheyano (V. CAP. 2, PAR. 6). Il clima è dunque quello della «filosofia della vita», secondo il filtro della quale si accosta per la prima volta ad Hegel, e in particolare allo Hegel della Fenomenologia. Il tema che domina i suoi pen... cd Hegel s1en . . e, , da una par te, que 11o s1mme . l'1ano de11a tensione tra l'impulso oscuro ed impetuoso della vita e le forme in cui questa non può non esprimersi ma nelle quali non può nemmeno arrestarsi, dall'altra quello di origine romantico-hegeliana della perdita dell'unità ,. d' originaria, del sentimento doloroso della scissioLm11 uenza 1 d ll' . . . ll 'f' . l la componente che consente di «mettere sui piedi» il «rosso e caldo» annuncio profetico dell' homo novus. Di qui l'insistente richiamo alle Tesi su Feuerbach, e in particolare alla celebre XI tesi, che Bloch interpreta non già come rifiuto pragmatistico della filosofia, bensì come rivendicazione di una filo- L'X . . h . c d Il . . d' . . ltes1 su so f1a ? .e' ~n 1or~a e a smte.sl 1 teona e ~rax1s, Feuerbach non s1 hmlta ad mterpretare Il mondo, soggracendo in tal modo al «già-stato», ma ne promuove, al contrario, la trasformazione attraverso l'annuncio di un «non-ancora-avvenuto».
6.3
Hegel e la «malia dell'anamnesi» bbiamo già accennato del recupero blochiano della dialettica hegeliana. E ad Hegel Bloch dedicava nel 1949, proprio all'inizio del suo insegnamento a Lipsia, quel bellissimo volume che è Soggetto-Oggetto. Come già Lukacs nel 1923, anche lui rivendicava le radici hegeliane di Marx, ma a differenza del vecchio amico che avrebbe in seguito fermato la sua attenzione esclusivamente sul giovane Hegel, attento a salvaguardarne l'identità razionale contro i tentativi di catturarlo a significati mistiLo Hegel ci ed esistenzialistici, egli estendeva il suo inteblochiano e resse a tutto Hegel, anche a quello del sistema quello di Lukacs della maturità, qella Logica e della Filosofia della storia, anche disponibile - fatto insolito per un marxista e comunista - ad ascoltare le voci dei Kierkegaard e degli Schelling, quando risuonassero a difesa degli orizzonti aperti del futuro e del nuovo. Non credeva Bloch nella vecchia distinzione engelsiana, divenuta catechismo nel Diamat, tra il metodo dialettico di Hegel, che costituirebbe l'aspetto rivoluzionario del suo pensiero, e il sistema, al contrario conservatore e reazionario, e all'opposto sosteneva che la componente progressista e quella conservatrice segnerebbero, entrambe e in egual misura, sia il meto-
do che il sistema hegeliano. Esse infatti sarebbero riconoscibili rispettivamente, quella progressista, nell'avere Hegel avvertito, in tanti momenti della sua opera, che la dialettica non è un puro giuoco di concetti riproducentisi per partenogenesi, ma ha a che fare con forze e bisogni reali, staremmo per dire «materiali», da cui trae origine la sua «tendenza esplosiva», e Ciò che è nell'aver saputo aprire tante volte il suo sistema rivoluzionario e alla pressione della realtà sempre nuova e can- reazionario in giante; quella conservatrice, invece, nell'aver il fi- Hegel losofo di Stoccarda fatto del sistema l'esposizione totalizzata di una realtà una volta per tutte compiuta e realizzata, senza più alcun futuro, con la conseguente riduzione anche della dialettica al ripetersi, in un circolo chiuso di tesi antitesi e sintesi, dell'identico Logos, costituito fin dall'inizio come l'in-sé del mondo. In effetti, Bloch sa bene che in Hegel è dominante quest'ultima ispirazione, frutto della «malia dell'anamnesi», che da sempre ha sedotto la metafisica occidentale: da quando Platone teorizzava il sapere L . . . . . e rammemoramento d'1 dell'anamnesi a malia come ntorno alle ongm1 un'idea premondana, e lo stesso Aristotele, il filosofo del dispiegarsi della potenza nell'atto, definiva la sostanza come «ciò che l'essere era». In ogni caso, la
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realtà è nel passato, tutta data ed immobile, e il compito degli uomini resta quello, retrospettivo, di registrada. E così, in Hegel «il divenire non è ... nient'altro che lo sviluppo pedagogico di un teorema bell'e fatto, sulla lavagna del soggetto apprendente ... ; sicché, in fondo, nulla di nuovo accade sotto il sole sotto il sole immobile dello spirito del mondo che si ripet~ eternamente nella parola originaria e nell'archè. La dialettica si ribella, anzi strepita come nient'altro al mondo, tuttavia il suo circolo di circoli riporta ogni incremento delle figure del mondo nei già visti arsenali di quell'antico, primordiale In-sé, che può essere benslla cosa più povera di determinazioni, ma ciò che più decide, che decide in anticipo sul contenuto».
Se questo è il carattere anamnestico prevalente nell'idealismo hegeliano, allora non basterà, ad una prospettiva teorica che voglia essere rivoluzionaria, capovolgere quell'idealismo in materialismo, secondo l'operazione tipica della tradizione marxi- materialismo Un stica. Occorrerà, invece, dar forma ad un materia- aperto al lismo veramente dialettico, che riapra alla praxis ((possibilen umana quella dimensione del «possibile», e quindi del futuro, che Kierkegaard aveva ragione a riabilitare di contro al necessitarismo hegeliano. Solo così potrà proporsi come credibile l'utopia e la speranza nel comunismo.
6.4
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Speranza e fenomenologia dell' «utopico» d è appunto la speranza che viene tematizzata nel più importante libro di Bloch, il celebre Principio speranza. Da chiarire subito è il fatto che la speranza non viene proposta dal filosofo dell'utopia quale esperienza puramente psicologica e soggettiva; di essa egli cerca, lo vedremo più fondamento tardi, il fondamento oggettivo nella stessa struttu11 materiale della ra dell'universo, nel cuore della materia, dando speranza forma così ad una cosmologia, ad una filosofia della natura, per molti versi dissimile da quella consacrata in campo marxista da Engels. Innanzitutto, della speranza ha da mettersi in evidenza il carattere strutturalmente umano. Fin dagli scritti giovanili Bloch aveva parlato della «stolta triLa speranza è stezza degli.animali», per essere essi «cr~ature se~ degli uomini za prospettiva», abbandonate ad una «lstantaneltà senza luce»; solo degli uomini è invece il protendersi verso il futuro, irrequieti, l' «oltrepassare», il «trascendersi», come vedremo, «senza trascendenza». Ciò dipende dal fatto che l'essere umano è incompiuto, segnato dal vuoto della privazione e della mancanza; il che ha dato modo all'esistenzialismo, la filosofia che riflette l'agonia del mondo borghese, di far passare l'angoscia e la disperazione come stati antologici, rivelatori del nulla che sarebbe costitutivo dell'esistenza. Ma questa è solo mistificazione ideologica: «la mancanza per il borghese di una via di uscita viene estesa alla situazione umana in generale, all'essere in quanto tale».
E invece, quando il sentimento della propria incompiutezza sia lasciato alla propria spontaneità, non deviato da ideologie nichilistiche interessate, è la speranza a rivelarsi come «la più umana di tutte le emozioni», quella che rivela lo statuto antologico dell'uomo, tanto che
la speranza come statuto antologico dell'uomo
«la mancanza di speranza appare ... la cosa più insostenibile, la più insopportabile per i bisogni umani». Per questo
«da tutti i pulpiti si predica di nuovo la speranza, anche se rinserrata nella pura interiorità o nell'attesa dell'al di là».
Il Principio speranza è in gran parte una specie di fenomenologia che descrive le diverse forme ed esperienze della «coscienza anticipante», come Bloch chiama la coscienza dell'uomo in quanto, mossa dal desiderio e dalla speranza, . anticipa il futuro. Vengo- Una .. no passati m rassegna 11 sogno notturno, i «sogni fenomenologia ad occhi aperti», gli archetipi della coscienza, le della coscienza fiabe, il cinema, il teatro, i romanzi d'appendice, anticipante la moda, i viaggi, le utopie di varia natura che prospettano un mondo migliore, e così via. Tutte avventure e strati della coscienza che ne rivelano, esplicitamente o meno, in modo talvolta illusorio e mistificato, la struttura antologica fondamentalmente utopica. Quanto ai sogni, la riflessione di Bloch ne prende spunt? per affrontare l'esame di una dimensione, l'inconsclo, che molta importanza riveste agli occhi di chi, come lui, è impegnato a far emergere la componente utopica della vita della coscienza. Il riferimento a Freud è, naturalmente, d'obbligo: al padre della psicanalisi Bloch non rimprovera di aver messo in evidenza il carattere regressivo, rivolto verso il passato, dei sogni notturni, nei quali, effettivamente, emergono, L'errore di camuffati, contenuti rimossi che si riferiscono al Freud; sogno «già-statm>. L'errore di Freud, derivante da una notturno e concezione antropologica di tipo «anamnestico», sogno ad occhi è consistito nell'identificare senz'altro l'inconscio aperti con la vita regressiva della psiche, sicché «nell'inconscio di Freud non c'è nulla di nuovo». Per ovviare a questo errore, e mettere allo scoperto strati inconsci che, viceversa, denunciano atteggiamenti «anticipanti» della coscienza, il filosofo tedesco procede a distinguere qualitativamente dal sogno notturno il «sogno a occhi aperti», che Freud avrebbe avuto il torto di intendere come semplice momento preliminare del primo. Al contrario, l'atteggiamento dell'io è profon-
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
damente diverso dall'uno all'altro: nel sogno notturno l'io rimane passivo, premuto dal riemergere del «giàstato», mentre nel sogno diurno esso, con grande forza immaginativa, esprime contenuti latenti della coscienza che, a differenza di quelli, «non-più-consci», esaminati da Freud, costituiscono invece il «non-ancora-conscio>> e, in quanto tali, si riferiscono al «nonancora-avvenuto», anticipandolo. Il sogno ad occhi aperti ha dunque a che fare con la dimensione dell'utopico: esso raffigura «l'ideale di ciò che un uomo vorrebbe utopicamente essere o diventare». E questo è tanto più vero nelle epoche della vita - la gioventù - e della storia - i tempi delle rivoluzioni e dei grandi fermenti sociali -, nelle quali più forte e consapevole è la tensione verso il «nuovo». Analogamente critica è l'attenzione blochiana alla teoria degli archetipi di Jung (V. CAP. 29, PAR. 2.3), anche nella quale emerge la disposizione anamnestica di tutto il pensiero psicanalitico, essendo gli archetipi che
lo psicologo svizzero colloca nella notte arcaica della psiche, «del tutto regressivi e privi di futuro». Ad essi Bloch ama contrapporre gli archetipi che, non . · · JL'errore di . h'1 m1t1, necessanamente coIl egat1. con g11. ant1c ng· 11• d' . Il . d 11 u ' g . vengono pro dottl 1 contmuo ne a stona a a archetipi coscienza utopica. E, tra i vari esempi che egli porta, parla della danza sulle macerie della Bastiglia, musicata da Beethoven nella sua settima sinfonia. Quanto alle fiabe, il loro nascere dalla fantasia popolare ne fa l'espressione più significativamente utopica delle aspirazioni millenarie degli oppressi: la liberazione dal lavoro e dalla fatica, l'uscita dalla miseria, la felicità, la giustizia, l'abbondanza. Que- . b . sto il significato latente di archetipi come il paese Fm e 0 utop~a di Cuccagna, la lampada di Aladino, il giovane povero che sposa la figlia del re, nei quali è possibile cogliere il significato universale della vita degli uomini, stretti nelle angustie del presente e ansiosi di un mondo nuovo e migliore.
6.5
Speranza e materia
~
ome già accennato, la speranza, e la tensione
~ utopica che la sostiene, non traggono la loro
:· legittimità dall'essere semplicemente una pas'· sione e una struttura psicologica dell'uomo. Es, se affondano le loro radici nella storia stessa dell'universo materiale, che costituisce come il loro correlato oggettivo, senza del quale esse sarebbero impossibili, o quantomeno condannate a rivelarsi degli inutili e velleitari conati, espressioni di una astratta . soggettività. Il loro radicarsi nella materia è del L~ ~osclenz~ resto documentato dal fatto che il potere anticiantlclpante e Il . , . corpo vivente pante della coscienza non e, come teonzzano le filosofie idealistiche, intenzionalità puramente ideale, bensì movimento suscitato da bisogni concreti, da desideri che urgono, e che hanno fondamento nel «corpo vivente». E il corpo dell'uomo non è estrapolabile dal mondo materiale di cui è una parte. È vero anche, per altro, che la speranza sarebbe di nuovo illusoria e l'utopia perderebbe concretezza, confondendosi con l' «utopistico», se il mondo materiale fosse un tutto organicamente perfetto, in cui nulla avesse da compiersi, un cosmo esaurito e conmateri~::"110~~d~ eluso; in esso non vi sarebbe posto per il futuro, un tutto e dunque per la speranza. Pertanto Bloch rifiuta, concluso non solo l'immagine dell'universo meccanico elaborata lungo i secoli che vanno dal Seicento cartesiano all'Ottocento positivistico, ma anche la filosofia engelsiana della natura egualmente compromessa in una concezione fissa e deterministica della realtà. Quello che Bloch dice dell'uomo - «l'uomo è ciò
che ha ancora molto davanti a sé» - egli lo potrebbe ripetere anche della natura, che concepisce come percorsa da un impulso originario, una sorta di «fame» di essere, che la mantiene sempre incompiuta, protesa al nuovo ed al futuro di un «non-essere-ancora». Un cosiffatto punto di vista richiede l'acquisizione, contro ogni forma di determinismo, della categoria di «possibilità», e Bloch non esita per questo a recuperare l'antico concetto aristotelico di materia come d)mamis, potenza che aspira all'attualità della forma. Materia e fame Solo che Aristotele intendeva la materia-potenza di essere. un ancora come passiva, come il «basso» che atten- aristotelismo di de la forma come qualcosa che penetra in essa «sinistra~> dall' «alto», lasciando così aperta la strada all'ammissione di un principio divino trascendente, già bell'e realizzato, datore delle forme alla materia. Occorre viceversa concepire la materia come attività che si dà da se stessa le forme, traendole da sé, e per questo è necessario riprendere quel filone di pensiero di ispirazione panteistica - Bloch in un saggio del 1952 lo aveva chiamato «aristotelismo di sinistra» - che da Avicenna discende, attraverso Averroè, David di Dinant, Bohme, fino a Bruno, Spinoza e Schelling. Siamo in presenza, come si vede, di un tentativo, per la prima volta condotto, diciamo così, da «sinistra», in funzione di una prospettiva rivoluzionaria, di riabilitare una tradizione di pensiero che, per essere in conflitto con l'immagine della natura prodotta dalla scienza moderna, è stata sempre dalla cultura progressista di stampo illuministico considerata irra-
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zionale, anacronistica e, in questo senso, «reazionaria». È come se, al fondo di questa operazione blochiana, vivesse la convinzione che il modello di una natura «disantropomorfizzata», ridotta a macchina, offerto dalla meccanica moderna, fosse come il segno dell'affermarsi del dominio borghese e di un suo potere arbi. trario di manipolazione della materia inerte del Un'operazione d · ·d d 1 controcorrente mon ?• cud~.s1 odvess~ contrapporre un mo o a ternativo mten ere 1 rapporto uomo-natura, a1l'insegna di una loro riconciliazione e armonia, secondo l'insegnamento marxiano di una > dell'uomo. Una natura, insomma, non più «colonizzata» e misurata alla stregua di un valore di scambio, bensì promossa ad una feconda collaborazione con l'uomo. E tutto questo, in vista di realizzare l' «utopia concreta». In una singolare commistione di Schelling con . Marx, Bloch sostiene che in quel «laboratorio» Tra ScheIlMarx mg e che e , la matena · m · v1a · d'11ormazwnec · 1a «matena · in fermento», egli dice-, dorme il «volto dell'uomo», e che è scritta nella storia del mondo la possibilità - ma solo la possibilità - che esso abbia a sorgere e compiersi. «risurrezione della natura significa- egli dice in un'in-
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tervista del1974- accelerare il sorgere del sole, predisporre il cammino entro il processo del mondo, entro l'ancor sempre presente possibilità, entro la categoria della possibilitas e l'altra categoria della potentia dell'uomo, cioè del potere di trasformare il mondo in senso marxiano ed in un senso che va bene al di là di Marx, ovvero di estrarre dal mondo il volto dell'uomo che in esso dorme e che vi ha una cosi difficile esistenza».
Ciò non è garantito né da una necessità inscritta nel mondo, né da una provvidenza celeste che del corso del mondo predisponga il buon esito: questo è soltanto, rischiosamente, nelle mani degli uomini. L'ottimismo umanistico di Bloch nulla concede all'ideologia delle «mirabili sorti e progressive», ed anzi . . afferma che «l'annichilamento e la rovina sono il RISC 1110 e . h' d' , . l speranza nsc 10 costante 1 ogm espenmento processua e, la bara che accompagna costantemente la speranza». L'ottimismo si alimenta non della certezza dei risultati ma solo del fervore della speranza. Nel1921, in un saggio su Thomas Mi.intzer così Bloch, con accento drammatico, aveva parlato del faticoso procedere della storia: « ... un duro, minaccioso viaggio, un dolore, un camminare, un cercare la patria nascosta; pieno di tragici travagli, ribollente, irto di salti, di esplosioni, di solitarie promesse, carico in maniera discontinua della coscienza della luce».
Non che Bloch rifiuti l'idea del progresso nella storia, senza di che questa non avrebbe più senso della risacca del mare; egli anzi ammette, d'accordo col rifiuto hegeliano del falso infinito di un movimento senza fine, un èschaton (=ultimo) della storia, che,
da marxista qual è, individua nella disalienazione dell'uomo e nella sua pacificazione con sé, gli altri e la natura. Non condivide però l'idea rettilinea ed uniforme di progresso, bandiera del pensiero borghese illuminato ma anche del marxismo deterministico, secondo cui la storia procederebbe de claritate in claritatem. Al contrario, il procedere avanti della storia non avviene senza continui ritorni indietro, senza che sentieri prima aperti con fatica vengano Paro,~r.e~ 501 • e . . bb d . . . 11Cir1VIel l mterrottl e a an onatl, per essere magan npre- della storia si più tardi e percorsi per un tratto ancora; e così il tempo della storia non è, come il tempo cronologico, la «fila indiana del prima e del poi». In esso il futuro è anche nel passato, per cui questo non è sempre irrimediabilmente perduto, ma può tornare, sicché può accadere che i vinti di ieri divengano, risorgendo, i vittoriosi di domani. Scrive Bloch: «c'è un'antica canzone che mi ritorna ancora sempre in mente ... , che io ho ripetuto nel mio modo di filosofare. L'antica canzone che i contadini tedeschi battuti cantavano dopo la battaglia di Frankenhausen, quando la miseria antica ricadde su di loro moltiplicata. Quelli che ancora sopravvivevano, i cui occhi non erano stati ancora cavati e le cui lingue non erano state ancora strappate, cantavano questa canzone: 'Battuti ritorniamo a casa. I nostri nipoti condurranno a miglior fine la lotta'».
Il tempo storico è multiversum, afferma Bloch, e vuol dire che, pur coesistendo nel medesimo tempo cronologico e in esso intersecandosi, vi sono tempi storici diversi qualitativamente gli uni dagli altri, quello delle periferie del mondo sfasato rispetto a quello delle metropoli, e così quello di un paese, di multiversum un popolo, di una civiltà, rispetto a quelli di altri del tempo paesi e altri popoli e altre civiltà. Unico sì il termi- storico ne -l' humanum - della storia, ma molteplici, e di pari dignità, le esperienze e le culture dislocate negli spazi e nei tempi diversi della storia universale. Consapevolezza questa, che è vaccino nei confronti di ogni boria eurocentrica e di ogni razzismo. Scrive Bloch: « ... per essere giusti verso il gigantesco materiale extraeuropeo, non si può più lavorare secondo una linea retta ... , senza una nuova e complessa molteplicità del tempo ... Le vive culture extra-europee possono essere rappresentate, secondo un concetto storico-filosofico, senza violenza europeizzante o anche soltanto senza quel tentativo di livellamento di quanto hanno prodotto per la ricchezza della natura umana».
E ancora: «per quell'humanum in divenire, ultimo, preminente punto d'arrivo del progresso, tutte quante le culture della terra, insieme alloro sostrato ereditario, sono esperimenti e testimonianze variamente importanti. Esse non convergono perciò in una cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura dominante, preminentemente classica, che per la sua qualità ... sarebbe già canonica. Le passate, presenti e future civiltà convergono unicamente in un humanum non ancora sufficientemente manifesto, ma sufficientemente prevedi bile».
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P ARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
Un diario ungherese iportiamo alcuni stralci del reportage che uno scrittore polacco, Wiktor Woroszylski, ebbe a compiere per una rivista polacca, sugli avvenimenti di Budapest dal 30 ottobre all'11 novembre 1956, di cui egli fu testimone diretto. Comunista fin dalla prima giovinezza, Woroszylski si sarebbe schierato, dopo il trauma ungherese e gli esiti negativi dell'ottobre polacco del medesimo anno, con l'opposizione comunista polacca che, a cominciare dagli anni Settanta, avrebbe contribuito al crescere di quell'insofferenza operaia per il regime esistente che negli anni successivi si sarebbe espressa nel movimento di Solidarnosc. La traduzione del testo è di Wlodek Goldkorn e di Giovanna Tomassucci. martedì 30 ottobre 1956 ... Marian, qui già da qualche giorno, sembra straordinariamente sconvolto. Faccio fatica a cavargli di bocca il racconto di quello che ha visto. È stato testimone, insieme a Krzystof, dell'assalto al comitato civico del partito, dov'era asserragliato un gruppo di Ah v, poco più di duecento persone. Ahv: sono' le formazioni in divisa dellà polizia politica. Molto elitarie, lautamente pagate (lo stipendio di un funzionario Ah v- un avosz- equivale a dieci salari medi operai), legate per la vita e per la morte al sanguinario regime di Rakosi. Le spietate squadre dell' Ahv avevano tenuto il paese in una morsa di ferro e di terrore quale da noi non si è mai conosciuto ... Quando il 23 ottobre I'Ahv aprì il fuoco su un'inerme manifestazione civile, la
Un momento della rivolta antisovietica a Budapest ne/1956.
misura fu colma. Scoppiò l'insurrezione, cui aderirono immediatamente l'esercito e la polizia. L'Ahv, sciolto ufficialmente dal governo Nagy, non si sottomise alla decisione e continuò a seminare morte e provocazione. Allora l'ondata dell'ira del popolo si abbatté su Budapest. Marian racconta che la folla, appoggiata da alcuni carri armati ungheresi, prese d'assalto la fortezza degli avosz. Si difendevano con tutte le loro forze, i loro colpi fecero cadere più d'uno sul terreno. Ma in breve furono trascinati fuori dall'edificio e allora ... A Marian tremano le labbra, è molto pallido. - Non avevo finora mai visto un linciaggio. Li hanno appesi per i piedi, qualcuno è stato fatto letteralmente a pezzi. Poi è arrivata la Guardia nazionale - il settore organizzato dell'insurrezione - che ha difeso dalla folla i prigionieri che restavano. Ma quelli che non aveva fatto in tempo a difendere ... ... Affrettiamo il passo. In fondo alla strada si è radunata un po' di gente. Prima che arriviamo, sbuca da una via traversa un motorino con due ufficiali ungheresi. In un attimo, come in un trucco di carte, si sparpaglia un mazzo di volantini bianchi. Il motorino inverte la marcia e scompare. Poco a poco i volantini ricadono sul selciato. Il testo ciclostilato è breve, la stampa non è venuta bene, non riusciamo a capirne il senso con le poche parole di ungherese che sappiamo. Ci accostiamo al gruppetto che abbiamo intravisto da lontano. Sono ragazzi, alcuni tengono in mano i volantini: - Sprechen Sie Deutsch? Par/ez vous
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francais? Do you speak eng/ish?- Parlano un po' di russo -l'unica lingua straniera insegnata a scuola. Quando vengono a sapere chi siamo, ci invitano in un appartamentino dalle pareti tappezzate di foto di famiglia. Arriva il padrone di casa - un operaio tarchiato e coi baffi. Stringendoci la mano pronuncia uno dei più diffusi cognomi ungheresi. Ci offriamo a vicenda le sigarette, uno dei giovani comincia a spiegare il volantino. È stato scritto dal gruppo dell'artiglieria contraerea, contiene soprattutto la richiesta del ritko dei russi da Budapest entro domani a mezzogiorno. - È quello che vogliamo tutti - commenta il nostro giovane traduttore. - È la cosa più importante. Gli.altri fanno cenno di sì col capo. Il padrone di casa; incerto, ci chiede della Polonia con uno sguardo pieno di speranza ... ... la base del governo si sta allargando di ora in ora. Il sostegno di alcuni dei gruppi più importanti dell'insurrezione, le cui richieste verranno fatte proprie dal governo, è una conferma. Le più immediate sono: il ritiro dell'esercito sovietico dall'Ungheria, la legalizzazione dei partiti
politici, libere elezioni, la condanna dei colpevoli... Marian racconta di nuovo quello che ha visto al mattino. La cosa non gli dà pace così cerca una risposta dai compagni comunisti ungheresi. Dopo un attimo di silenzio comincia a parlare uno di loro: - Credeteci, non siamo dei sadici. Ma quella gente lì, non riusciamo a rimpiangerla. Prende la parola il canuto compagno Zoltan Szanto, membro del direttivo del partito dei lavoratori ungheresi, eletto pochi giorni fa. È stato ambasciatore a Varsavia. - Stiamo vivendo una tragedia enorme, tragedia del popolo e del partito. Sono stati compiuti delitti contro il popolo. l comunisti ne erano colpevoli. Il popolo ha voltato loro le spalle con ragione, e noi dobbiamo finalmente andare con lui. È già tardi: come partito abbiamo perso quasi tutto, ma dobbiamo andare col popolo, non possiamo moltiplicare la menzogna di cui ci siamo ricoperti. - E loro, che ne succederà? - Loro ... quelli là ... Beh, non ce n'è più qui, nel paese, sono partiti. mercoledì 31 ottobre ... Tentiamo di afferrare il senso degli innumerevoli
SEZIONE TERZA. LE VIE OCCIDENTALI DEL MARXISMO CAPITOLO 24
PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
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6.6
La promessa del serpente. Marxismo e cristianesimo
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l materialismo blochiano, proprio per voler es-
Jrr~;, sere coerentemente marxistico, rifiuta ogni 't[~ compromissione con le semplificazioni econo-
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listica, cui si deve l'ideologia dell'homo oeconomicus. Bloch non dimentica neppure per un momento che Marx concepiva il comunismo come fine dell'economia politica. Ed è, del resto, lo stesso suo modo Contro di intendere i bisogni e i desideri dell'uomo, l'economicicompresi quelli «spirituali», che egli radica nella smo: non di solo pane ... materialità del corpo vivente, riconoscendoli quali espressioni di una «fame» che tormenta la materia universale, a preservare il suo pensiero da ogni rischio di riduzionismo economicistico. Non di solo pane è infatti la fame degli uomini ... Parafrasando una celebre espressione di Leibniz, Bloch afferma che «niente è nella sovrastruttura che non sia già stato prima nella struttura, se non la sovrastruttura stessa», volendo con questo dire che «l'uomo e non l'economia, come è accaduto finora, deve essere la misura di tutte le cose»; e che, se è vero, come è vero, che «l'essere sociale condiziona la coscienza, e sono le circostanze che formano l'uomo, allora queste circostanze devono portare il segno dell'uomo».
Non può dunque meravigliare che Bloch faccia gran posto, nella sua filosofia dell'utopia e della speranza, alla religione. Non che egli venga meno al suo rigoroso, intransigente ateismo; solo che ritiene che proprio nella religione, o più esattamente nella reli. gione ebraico-cristiana, e proprio nel suo filone Atmsmo e . , · 1 ·' crisl"anesimo pm sotterraneo e nascosto, s1a presente a pm 1 sconvolgente ribellione e negazione del Dio creatore e padrone del mondo e dell'uomo. È Bloch ad affermare provocatoriamente, nel libro provocatoriamente intitolato Ateismo nel cristianesimo, che «solo un ateo può essere un buon cristiano, e solo un cristiano può essere un buon ateo». Dobbiamo cercar di capire il senso di questo duplice paradosso. Innanzitutto Bloch è avverso a quelle forme di ateismo «triviale», eredi di un illuminismo «fattosi fisso e statico», che alla giusta demistificazione Negare la della trascendenza teologica accompagnano la religione ed ereditarne la negazione anche di quel «fondato trascendere» tensione fondato sull'uomo e sul contenuto del mondo utopica che è appunto costitutivo della tensione utopica dell'essere umano. Della religione, egli dice, va rifiutata risolutamente l'ammissione di un Dio creatore e padrone del mondo, poiché da essa discende la giustificazione dell'ordine attuale delle cose e la dele-
gittimazione di ogni ribellione all'esistente e di ogni apertura al nuovo; ma insieme va conservato di essa quel formidabile semenzaio di speranze in un mondo migliore e di protesta di fronte alle ingiustizie del mondo attuale, che con la religione è stato coltivato dagli uomini, e che è venuto fruttificando lungo la storia, nonostante i tentativi, certo spesso riusciti, dei preti, di disinnescare la protesta, volgendo le umane speranze verso una consolatoria meta oltremondana. La religione va insomma negata ma anche «ereditata», per quel che di eretico e antipretesco gli uomini hanno saputo esprimere in essa. Scrive Bloch in Atei-
smo nel cristianesimo: «l'ateismo e la concreta utopia sono insieme, nello stesso atto fondamentale, l'annientamento della religione e la sua speranza eretica che cammina su piedi umani».
Bloch ritiene di essere perfettamente fedele alla lezione marxiana. È vero, infatti, che Marx ha parlato, giustamente, della religione come «oppio dei popoli», ma questa frase non va staccata, come fanno i marxisti volgari, dal contesto, altrettanto vero, in cui è ., d 1, M . . . rel.1g10sa . co11ocata, dove s1. d'Ice che «la m1sena e, o· e e la a arx insieme l'espressione della reale miseria e la protesta contro di essa», e che «la religione è il sospiro della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore». Dal che emerge quanto nella religione si esprime di quella «fame» che sprona l'uomo al futuro. Ma non della religione in genere, quanto del cristianesimo biblico si appassiona la riflessione blochiana, giacché solo in esso, in quanto religione dell'Esodo e del Regno, sembra esprimersi appieno la portata totalizzante della speranza utopica. Profondo conoscitore del testo biblico, egli distingue dalla Bibbia di ispirazione teocratica, redatta dai «signori della gerarchia ecclesiastica», e nella quale l'uomo vien rappresentato quale un mendicante «steso bocconi ai piedi di uno strapotente che è tanto più trascendente in quanto è solo a regnare», la «Bibbia dei poveri», quella 1 B'bb' d . ~ ,A . che «SI. scagl'1a contro 1. poveri .a l la el de1. pro1et1 mos ed Isa1a, signori con il loro Dio sacerdotale», e fa appello alla rivolta. È la Bibbia che ha ispirato le grandi eresie popolari e le guerre dei contadini italiani, inglesi, francesi e tedeschi, fino all'insurrezione delle Cevenne, «appena novant'anni prima della rivoluzione francese»; la Bibbia di Thomas Miintzer, l'anti-Lutero, il teologo condottiero della guerra dei contadini tedeschi del1525, cui fin dal1921 Bloch aveva dedicato uno dei suoi saggi più veementi (Thomas Miinzer teologo
della rivoluzione). Con l'abilità di un «detective», Bloch dipana il «filo rosso» che corre attraverso il libro sacro, da Gia-
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cobbe a Mosè, da Giobbe ai profeti, fino al Gesù della resurrezione, e che descrive il maturare della prospettiva escatologica di una liberazione, tutta umana ((Un . nuovo na e mon dana, de1· d'1seredatl· e degl'1 oppress1· da1 cle 1o, u d · · de1· trom· terrestn,· e da que11a loro lm· nuova terra» omm10 magine speculare che è il trono celeste, nella prospettiva della profezia di Isaia che scongiurava «un nuovo cielo, una nuova terra, affinché non ci si ricordi più della precedente». Ad un capo di questo filo sta l'episodio del serpente, il Prometeo della Bibbia, e il grido ribelle -l' «eritis sicut deus, scientes bonum et malum» -, col quale si invitano gli uomini ad uscire dal «parco degli animali» - come Hegel aveva chiamato il paradiso terrestre -, per intraprendere il lungo viaggio della storia che Dalserpe~~es~ porti verso la realizzazione dell'«homo abscondi' " tus» che ognuno porta dentro di sé, in potenza. All'altro capo, Gesù, nel quale, non il farsi uomo di Dio si celebra, ma al contrario il farsi dio del figliuolo dell'uomo - «Chi vede me, vede il Padre» -, la realizzazione dunque della «promessa del serpente». Al Gesù di Paolo, di Lutero e di Calvino, e della chiesa di Roma, che chiama gli uomini alla penitenza della croce, all'umiltà, al genuflettersi davanti al Contro la signore celeste e ai suoi rappresentanti in terra, penitenza della croce, la principi o prelati che siano, a quel mendicare che resurrezione è la preghiera, Bloch contrappone il Gesù che non fa della croce la sua scelta, il Gesù, invece, della resurrezione, simbolo dell' èschaton, dell'avvento del-
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l' , una modificazione profonda del modo di intendere il rapporto tra partito e masse contadine e operaie, rispetto al modello leninista. Pur mantenendo al partito le funzioni di sintesi e di guida che ne legittimano l'esistenza, ne viene contestata, in linea di
principio, l'esternità rispetto al proletariato, la il pretesa di autolegittimazione e autoregolamenta- «Bombardare quartier zione, al riparo dal movimento reale delle masse. generale>! A queste viene, viceversa, restituito il compito di protagoniste del processo della propria emancipazione, del quale il partito non deve essere che lo strumento. Tanto che, qualora il partito tenda a separarsi e sovrapporsi alle masse, queste devono essere chiamate a «ribellarsi» ed a «bombardare il quartier generale». Dopo la morte di Mao, il gruppo dirigente cinese si è allontanato progressivamente dal maoismo, sia sul terreno teorico che su quello delle scelte politiche ed economico-sociali, tornando a privilegiare, in una direzione sempre più lontana dal radicalismo egualitario di Mao, una «modernizzazione» del paese che scontava la riproduzione di gerarchie e diseguaglianze, in nome delle esigenze di uno sviluppo economico T ., . . d . 'd . ramonto del sempre pm approssimato a1 mo e111 occ1 enta11. maoismo A tale «liberalizzazione» del sistema economico non si accompagnava peraltro una corrispondente apertura del sistema politico, in cui si andavano anzi riaffermando quei processi di centralizzazione burocratica del potere contro cui, a suo tempo, Mao aveva promosso la «rivoluzione culturale». I fatti della piazza Tian An Men del giugno 1989 hanno rappresentato il segno drammatico della gravissima involuzione del sistema politico e sociale cinese.
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Un'immagine della rivolta popolare di piazza Tien An Men.
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Sweezy (1910): la rivoluzione emigra nel Terzo Mondo
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nche se già la rivoluzione del 1917 in Russia aveva rappresentato nella storia del movimento socialista di ascendenza marxista un evento straordinario, traumatico nei confronti delle previsioni consentite dalle teorie di Marx e di Engels, essa aveva avuto comunque caratteri che consentivano di riconoscerla come una rivoluzione che ubbidiva pur sempre ai principi fondamentali del marxismo. Era avvenuta in un paese nel quale uno sviluppo capitalistico era avviato da tempo sia nelle campagne che nelle grandi città, anche se ancora lontano dalla maturità raggiunta dai paesi capitalistici occidentali, sicché la Russia poteva apparire pur sempre come l' «anello debole» della «catena» del capitalismo mondiale nell'età dell'imperialismo. Il partito che aveva guidato quella La rivoluzione rivoluzione era saldamente ancorato al proletariacinese: to di fabbrica di cui era espressione, e la classe un'anomalia operaia urbana era stata protagonista degli avveninella teoria menti dell'ottobre. Non altrettanto si può dire delmarxista della la rivohtzione cinese: questa era stata guidata da rivoluzione un partito radicato nella realtà contadina, dalla fine degli anni Venti privo di ogni rapporto col proletariato urbano, in un paese costituito da un immenso mare contadino e segnato da una rilevante arretratezza economica. Apparivano assenti dunque tutte le condizioni che il pensiero marxista aveva da sempre condiderato indispensabili per la realizzazione di una rivoluzione socialista, tanto che da alcune parti si è sostenuto che addirittura il maoismo non sarebbe da considerare nemmeno una variante del marxismo, per aver esso capovolto la tesi marxista, secondo la quale nella città, e non nelle campagne, sarebbe il motore e insieme il teatro principale del movimento rivoluzionario. Il fatto paradossale è però che l'abbandono di molte delle premesse ritenute essenziali dal marxismo ortodosso - nel senso il più ampio possibile di questo termine - ha rappresentato la condizione che ha conContributi del sentito a Mao Tse-Tung ed al partito comunista maoismo al cinese di realizzare obbiettivi riconosciuti da tutti pensiero come appartenenti al programma del socialismo marxista rivoluzionario di ispirazione marxista. E d'altronde non si può disconoscere che anche sul terreno teorièo, il maoismo, che - non bisogna dimenticarlo molto deve al patrimonio culturale della tradizione confuciana e taoista, ha contribuito per alcuni aspetti ad arricchire e ad aggiornare il pensiero marxista. Non può dunque meravigliare che anche nella riIITerzo Mondo: flessione di ispirazione marxista maturata nei nuovi soggetti paesi occidentali in questa seconda metà di secorivoluzionari lo, siano emersi orientamenti che hanno accreditato le prospettive rivoluzionarie marxistiche, so-
prattutto facendo riferimento ai paesi del Terzo Mondo, considerati come portatori di nuovi soggetti rivoluzionari, diversi dalla classe operaia dei paesi sviluppati. È il caso, per esempio, del neomarxista statunitense Paul Marlor Sweezy, uno studioso di economia, per alcuni anni professore di economia ad Harvard, fondatore nel1949, in collaborazione con Leo Huberman, di una celebre rivista marxista, la Monthly Review. Come altri giovani economisti americani, Sweezy si era accostato fin da giovane al pensiero marxia- s no, soprattutto per l'incapacità della scienza eco- a;:r~J~ al nomica borghese di spiegare le origini della crisi marxismo capitalistica del1929 e di proporre un valido programma per la ripresa. In un ambiente profondamçnte ostile al marxismo, egli vi aderì, pur procedendo ad una revisione del pensiero economico di Marx, non priva di suggestioni della «nuova economia» borghese, discendente dalle idee riformiste dell'economista inglese John Mainard Keynes. A Sweezy si devono in particolare due scritti, che hanno dato un notevole contributo alla riflessione intorno ai problemi dello sviluppo economico capitalistico e del pensiero economico marxista: La teoria del-
lo sviluppo capitalistico. Princìpi dell'economia politica marxiana del 1942 e, in collaborazione con Paul Baran, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana del1966. Nel primo di questi due saggi, che è in gran parte una pregevole esposizione del pensiero economico marxiano, veniva avanzata una tesi circa l'origine delle crisi che accompagnano lo sviluppo capitalistico, che nel Capitale monopolistico sarebbe stata sviluppata e sostenuta anche più nettamente. Si tratta della cosiddetta spiegazione «sottoconsumistica» delle La teoria del crisi, che Sweezy tende a sostituire alla teoria del- sottoconsumo la caduta tendenziale del saggio di profitto, secon- sostitutiva di do la quale Marx aveva creduto di scoprire l'origi- quella della ne delle crisi all'interno dello stesso modo di pro- caduta duzione capitalistico (v. CAP. 16*, PAR. 8). Secondo in- tendenziale del saggio di vece la teoria del sottoconsumo l'origine delle cri- profitto si sarebbe da ricercare, non tanto all'interno del modo di produzione capitalistico, quanto nella «tendenza ad espandere la capacità di produrre beni di consumo più rapidamente della domanda dei medesimi», dal che conseguirebbe l'altra inevitabile tendenza alla stagnazione del modo di produzione capitalistico. Nel Capitale monopolistico la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto viene definitivamente accantonata- con la motivazione che essa, valida in regime di concorrenza, sarebbe stata invalidata dallo
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P ARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
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sviluppo monopolistico del capitalismo -, e sostituita con l'ipotesi del sottoconsumo. Sweezy integra questa LLJ · ipotesi ammettendo che una espansione dell'economia $ capitalistica, o quantomeno il contenimento del ricn schio della depressione cronica e del ristagno irre1 !allori versibile, sarebbero resi possibili dall'intervento antagonistici · del di fattori «antagonistici» che riuscirebbero, almesottoconsumo no in parte, a compensare lo squilibrio tra offerta e domanda dei beni, favorendo l'assorbimento del «surplus» 1 prodotto: tra i più importanti, le spese militari, la pubblicità che stimola i consumi, gli sprechi, gli investimenti pubblici, la spesa sociale. Il giudizio che Sweezy e Baran danno del sistema capitalistico, che essi esaminano guardando alla sua versione statunitense, caratterizzata ormai dal dominio incontrastato delle grandi corporazioni mo11 sistema nopolistiche, insiste sul fatto che la razionalizzacapitalistico tra dissipazione e zio ne che esso induce nella produzione, sottrae nristagno dola al libero mercato e sottoponendola ad una gestione scientificamente organizzata, ha come esito finale una irrazionalità complessiva, messa in evidenza dalla dissipazione di una parte non piccola della ricchezza prodotta e dall'incombere del ristagno. Eppure, gli autori del Capitale monopolistico ritengono che, fermando l'attenzione esclusivamente ,. . sugli Stati Uniti d'America, «la prospettiva di L mtegraz'?"e un'efficace azione rivoluzionaria per rovesciare il del proletanato • . . Il l . . d .l . industriale Sistema s1a esigua». pro etanato m ustna e, mdicato dal marxismo come titolare dell'iniziativa rivoluzionaria, appare integrato nel sistema: N
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«Gli operai dell'industria sono una minoranza sempre più esigua della classe lavoratrice americana, e i loro nuclei organizzati nelle industrie di base si sono in larga misura integrati nel sistema come consumatori e sono diventati membri ideologicamente condizionati della società».
È vero che il sistema produce una massa di nuovi oppressi: «i disoccupati e gli incollocabili, i lavoratori agricoli emigrati, gli abitanti dei ghetti delle grandi città, gli studenti che hanno finito le scuole, gli anziani che vivono con le misere pensioni di vecchiaia, in una parola gli esclusi, quelli che per il loro limitato potere d'acquisto sono incapaci di fruire delle soddisfazioni del consumo, quali che esse siano».
possibili affossatori fuori dalle mura delle proprie opulente centrali metropolitane, nella periferia povera e sfruttata del proprio impero. È nella natura, infatti, del capitalismo di essere un sistema globale che tende ad estendere il proprio dominio su tutto il mondo, dividendosi in un centro - i paesi sviluppati del «nord>> del mondo - nel quale si concentra l'accumulazione dei capitali e il più alto tasso di dLa ~.eriferia • • 'J' • • d d l d e1 1mpero consumi, e m una per11ena - 11 «SU » e mon o capitalistico -, destinata a fungere da terra di dominio e di . sfruttamento da parte delle «metropoli» capitalistiche, costituita com'è di «decine di colonie, neocolonie e semicolonie condannate a rimanere nella loro degradante condizione di sottosviluppo e di miseria». È qui, in questa dicotomia del sistema capitalistico mondiale, che si aprono, secondo il punto di vista dei due economisti americani, le condizioni Le condizioni della di una rivoluzione socialista, destinata ad assu- rivoluzione mere proporzioni mondiali. Così essi concludono socialista il loro saggio, che, ricordiamolo, risale al 1966: mondiale «Gli Stati Uniti dominano e sfruttano in vario grado tutti i paesi e territori del cosiddetto mondo libero e incontrano conseguentemente vari gradi di resistenza. La suprema forma di resistenza è la guerra rivoluzionaria per uscire dal sistema capitalistico mondiale e avviare la ricostruzione economica e sociale su basi socialiste. Dalla fine del secondo conflitto mondiale questo tipo di guerra non è mai venuto meno, e i popoli rivoluzionari hanno conseguito una serie di storiche vittorie nel Vietnam, in Cina, in Corea, a Cuba e in Algeria. Queste vittorie, insieme con la sempre più evidente incapacità dei paesi sottosviluppati di risolvere i loro problemi nell'ambito del sistema capitalistico mondiale, hanno gettato i semi della rivoluzione in tutti i continenti: in Asia, in Africa, nell'America latina. Alcuni di questi semi attecchiranno e matureranno rapidamente, altri attecchiranno e matureranno lentamente, altri ancora non fioriranno forse se non dopo un lungo periodo di germinazione. In ogni caso è chiaro che tali semi hanno attecchito oltre ogni possibilità di essere estirpati. Non è più semplicemente retorico parlare di rivoluzione mondiale: l'espressione descrive un fenomeno che è già realtà e che diventerà sempre di più la caratteristica dominante dell'epoca in cui viviamo».
Ma si tratta di gruppi che, «malgrado i! loro numero impressionante, sono troppo eterogenei, troppo sparpagliati e frazionati per costituire una forza coerente nella società. E l' oligarchia, mediante sussidi ed elargizioni, sa come tenerli divisi e impedire che diventino un sottoproletariato di miserabili affamati».
Sarebbero pertanto chiuse le strade della rivoluzione se non fosse che il capitalismo produce i propri
' Per «surplus» Sweezy intende «la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari a produrlo». Egli sostituisce questo concetto a quello marxiano di «plusvalore».
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Un ghetto nero a New York.
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Althusser o918-1990).' un nuovo modo di leggere Marx 9.1
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n rifiuto del marxismo umanistico e storicistico
a lettura di Marx secondo una prospettiva umanistica e storicistica è stata dominante nella storia del marxismo teorico del Novecento, da Gramsci a Lukacs, da Korsch a Bloch, favorita così dall'operazione di riannodamento del rapporto Marx-Engels intrapresa da Lenin come, più tardi, dall'impatto fortissimo che avrebbe avuto sul dibattito marxista la scoperta degli scritti giovanili di Marx, in particolare i Manoscritti del1844. Negli anni succeduti al XX congresso del Pcus, poi, un clima diverso, indotto dal processo sia pur timido di destalinizzazione, aveva incoraggiato nei paesi dell'est europeo la ripresa di un più aperto dibattito culturale, La tradizione e diversi pensatori marxisti di quei paesi avevaumanistica e storicistica del no avanzato interpretazioni del marxismo in pomarxismo lemica con lo stalinismo e particolarmente sensioccidentale bili ai temi antropologici e del destino della persona umana nel socialismo. Si possono così ricordare filosofi come i polacchi Leszek Kolakowski (1927), autore nel1960 di L'uomo senza alternativa, e Adam Schaff (1913), cui si deve Il marxismo e la persona umana del1965, o il cecoslovacco Karel Kosik (1926), la cui Dialettica del concreto del 1963 riprendeva, in una diversa situazione storica e culturale, il tema, caro al giovane LulG:ics, della realtà umana come «totalità concreta» fondata sulla praxis. Ma era stato particolarmente in Francia che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si era avuta una svolta umanistica e personalistica del dibattito all'interno del pensiero marxista, di cui si era fatto interprete, in polemica con le posizioni ufficiali del partito coGaraudy: un · francese, assa1· l'1g10 · a11''1sp1razwne · · d'1 socialismo dal mumsta volto umanon Mosca e poco sensibile alle esigenze di una ripresa creativa della ricerca marxista, il filosofo Roger Garaudy (1913), negli anni Cinquanta uno dei più sospettosi custodi dell'ortodossia della filosofia di partito. Autore di numerosi saggi - Dio è morto del 1962, Karl Marx e Dall'anatema al dialogo del1965, Marxismo del XX secolo del1966, e ancora, nel197173, Riconquista della speranza e L'alternativa -, Garaudy, che nel1970 sarebbe stato espulso dal partito, aveva attaccato duramente il cosiddetto «socialismo reale» in nome di un «socialismo dal volto umano» e, sul terreno teorico, aveva insistito sulle radici hegeliane, addirittura fichtiane, del marxismo, e ne aveva promossa una lettura in chiave personalistica, che lo aveva portato ad aprire un dialogo e un confronto con
le posizioni cristiane. Questi approdi della filosofia marxista francese traevano le loro più lontane premesse dal vivace dibattito che, prima ancora della seconda guerra mondiale, fin dagli anni Trenta, aveva caratterizzato la filosofia francese dell'epoca, e che poi si era ulteriormente intensificato negli anni del dopoguerra. Eventi come il «Fronte popolare» del1934 e, più tardi, la resistenza antinazista negli anni della guerra avevano posto le condizioni politico-culturali di un avvicinamento e, comunque, di un confronto positivo tra forze intellettuali marxiste e non; lo stesso pensiero cattoli- u . . l mamsmo e co francese d1 que tempo, rappresentato da per- marxismo in sonalità come quella, per fare l'esempio più illu- Francia minante, di Mounier (v. CAP. 21, PAR. 3), si orientava verso un confronto con il marxismo su di un terreno comune di affermazione dei valori dell'umanesimo. In sede più propriamente filosofica, la fenomenologia, l'esistenzialismo, l'attenzione allo Hegel della Fenomenologia dello spirito, che allora erano le tendenze prevalenti negli studi filosofici delle giovani generazioni di intellettuali, venivano interagendo con le suggestioni degli scritti del giovane Marx, favorendo così la crescita di esistenzialismi marxisteggianti o di marxismi esistenzializzanti - esemplare il caso di Sartre -, e comunque connotati da forti inflessioni umanistiche. Di tutta questa tradizione culturale e filosofica francese, il marxismo di Louis Althusser è la più radicale delle negazioni. È suo carattere genetico, infatti, quello di rifiutare assolutamente le concezioni umanistiche e storicistiche del marxismo, in forza di una u . d' . . le ed me . d'1ta d'1 Marx, lettura na 1ne 11a lettura del tutto ongma di Marx specificamente del Marx del Capitale, interpretato come «scienziato», fondatore della scienza abbiettiva della storia, finalmente in grado di sottrarre lo studio della società e dei suoi processi oggettivi agli approcci soggettivistici, come tali deformanti, dell'ideologia e della filosofia. Innanzitutto, Althusser riconosce una netta discontinuità nel cammino teorico di Marx, in particolare tra il Marx giovane- 1842-1844- quale si esprime dalla tesi di laurea ai Manoscritti economico-filosofici e alla Sacra famiglia, e il Marx della matu- La discontinuità rità - 1857-1883 -, impegnato nella stesura dei del percorso libri del Capitale. In mezzo, vi sarebbe il periodo teorico della «maturazione teorica» - 1845-1857 -, du- marxiano rante il quale, in opere come il Manifesto, Miseria
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PARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
della filosofia ed altre, Marx si sarebbe impegnato «a trovare, foggiare e fissare una terminologia e una sistematica concettuali adeguate al suo intento teorico rivoluzionario». In contrasto con il «marxismo occidentale» che aveva insistito su una sostanziale continuità del percorso marxiano, Althusser parla di una vera e propria «rottura epistemologica», ossia di «una discantiUna rottura · , , · h bb . · , · . _ologica nmta qua11tat1va teonca e stanca», c e sare e ep1s1em .mtervenuta a un certo punto amo d'f' d' 11eare ra 1calmente la problematica marxiana, e di cui egli crede di rinvenire i documenti nelle Tesi su Feuerbach e, particolarmente, nell'Ideologia tedesca dei 1845. Quale la natura di questa rottura? Il giovane Marx, ancora un «ideologo» condizionato dai filosofemi feuerbachiani, aveva fatto del tema dell' «alienazione» la chiave secondo cui intendere il comunismo: questo sarebbe la liberazione dell' «essenza» dell'uomo dalla sua alienazione nel mondo dello stato, della religione edelle merci, la piena riappropriazione che l'uomo realizzerebbe di sé, riconciliandosi con la propria essenza perduta. La rottura con Feuerbach e il delinearsi del materialismo storico avrebbero dato fine a questa «filosofia dell'uomo» come Dalla 1tlilosolia soggetto protagonista della storia e dell'avvento dell'uomO>> alla 11scienza della del comunismo, e avrebbero avviato Marx, divesocietà}} nuto, da «ideologo», «scienziato», alla fredda analisi delle strutture impersonali ed oggettive secondo cui procede, indipendentemente da ogni intenzionalità, il movimento della società. Alle nozioni care al marxismo umanistico, quali quelle di «uomo», «essenza umana», «soggetto», «alienazione», «individuo reale», «rapporti interumani vissuti», Marx avrebbe saputo sostituire quelle, oggettive, di «formazione sociale}}, «modo di produzione», «forze produttive», «rapporti di produzione», «sovrastrutture», «ideologie», fondando così per la prima volta una scienza della società e della storia. Scrive Althusser in Per Marx:
attraverso il quale un principio tenderebbe ad una meta prestabilita, bensì «un processo senza soggetto né fine», e pertanto assolutamente estraneo ad ogni idea di intenzionalità. Vedremo successivamente come Althusser neghi anche il carattere di linearità con cui lo storicismo di tipo ottocentesco, col suo mito del progresso, aveva pensato il movimento della storia, come se questo si svolgesse in una dimensione temporale uniforme . In opposizione alle deformazioni umanistiche e storicistiche, compito odierno di un marxismo che voglia rimanere fedele al rigore teorico marxiano, è allora quello di dar voce a quella «filosofia marxista», che è presente, ancora però soltanto implicitamente, nella «scienza» marxiana.
«Non è possibile conoscere qualcosa degli uomini se non alla assoluta condizione di ridurre in polvere il mito filosofico (teorico) dell'uomo. Ogni pensiero che si richiamasse dunque a Marx per restaurare in un modo onell'altro un'antropologia o un umanismo filosofici, non sarebbe teoricamente altro che polvere». Egualmente severo è Althusser con le interpretazioni storicistiche di Marx avanzate dagli hegelo-marxisti, cui sarebbe sfuggito che già il giovane Marx «non è mai stato hegeliano, ma dapprima kantiano-fichtiano, poi feuerbachiano», e che «lungi dall'accostarglisi, Marx non aveva cessato di allontanarsi da Hegel». Contro la Ma soprattutto il marxismo storicistico non ha lettura di Marx degli compreso che per il Marx maturo la storia non è, hegelo-marxisti come ha pensato lo storicismo hegeliano - di cui egli si sarebbe limitato a rovesciare l'assunto idealistico in uno, all'opposto, materialistico-, un processo
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Louis Althusser ne/1976.
SEZIONE TERZA. LE VIE OCCIDENTALI DEL MARXISMO CAPITOLO 24
In vista di questo, Althusser, con riferimento alla psicanalisi, propone una lettura «sintomale» di Marx, ossia una lettura che, andando oltre il testo consiUna lettura d ll . d' l l . . 01naie» di erato ne a sua 1mme 1atezza ettera e, sapp1a 115 1 m Marx interpretare i silenzi, le sviste, i vuoti di discorso, il «non-detto» presenti in esso, come «sintomi» di un discorso più profondo, di problemi e domande mai
formulate eppure presenti inconsciamente, che chiedono di essere esplicitate, in modo che venga ad essere pienamente liberato il potenziale filosofico presente nel Capitale. Esito di questo lavoro di lettura critica dei testi marxiani è la filosofia marxista come «teoria delle pratiche teoriche», investita della funzione di distinguere la «scienza» dall' «ideologia».
9.2
Rapporti con lo strutturalismo lthusser era nato nel 1918 a Birmandreis, in Algeria, da una famiglia francese di origine conta?ina. Frequentat~ la ~cuoia. p.rimaria ~d Algen, aveva prosegmto gh stud1 m Franc1a, con il programma di iscriversi alla Scuola normale superiore. Richiamato sotto le armi, era stato fatto prigioniero nel 1940 dai tedeschi, e aveva trascorso quattro anni in un campo di concentramento in Germania. Tornato a Parigi nel1945, si era laureato in filosofia nel 1948, e nello stesso anno aveva iniziato un'attività d'insegnamento alla Scuola normale. Nel frattempo, egli aveva rotto col proprio passato di militante cattolico, e si era iscritto al partito comunista francese. Il suo nome, che già aveva firmato nel 1964 un saggio di rilievo su Freud e Lacan, sarebbe divenuto famoso nel1965, in occasione della pubblicazione dei due libri in cui egli propone la sua lettura di Marx: Per Marx e, in collaborazione con alcuni suoi discepoli, tra i quali Étienne Balibar (1942), Leggere il Capitale. Da quel momento egli sarebbe stato al centro di un acceso dibattito, durante il quale da più parti gli sarebbe stato contestato il rifiuto dell'umanesimo marxista; lo stesso partito comunista francese • l raptlortl co 1 · bb d. . Pc! avre e de 1cato nel 1966 al1'argomento una mtera riunione del suo comitato centrale, conclusosi con la riaffermazione del carattere u.manistico dell'insegnamento di Marx. Negli anni successivi sarebbero apparsi di lui numerosi saggi, tra i quali Lenin e la filosofia del 1969, Elementi di autocritica del 1974, Posizioni e Su Marx e Freud del1976, e infine
l
Cosa non può più sopravvivere nel partito comunista del1978, un duro attacco al partito, a cui peraltro non si era più iscritto negli ultimi anni, per il suo rifiuto di aprire un vero dibattito politico al proprio interno. L'esistenza di Althusser era stata tormentata fin dalla giovinezza da disturbi psichici intermittenti che, . nel 1980, sarebbero esplosi drammaticamente in Una VIta ~" 11'Ia e ne11' om1c1 · 'd'10 de11 a mogl'1e, drammatica un accesso d'1 10 Hélène Rytman, sua ispiratrice e collaboratrice di tanti anni, cui lo stringeva un forte legame. Riconosciuto «incapace di intendere e di volere», avrebbe trascorso diversi anni in ospedali psichiatrici, prima
di poter tornare nella sua dimora parigina dove, in un progressivo degrado psichi co e morale, si sarebbe spento nel1990. L'ambiente culturale nel quale prende avvio la lettura althusseriana di Marx è costituito dallo strutturalismo, che, come sappiamo (v. CAP. 23), era venuto imponendosi nella cultura francese tra gli anni L'' 11 . . su Al thus- strulluralista 111 uenza . Cmquanta e Sessanta. Ch e esso eserc1t1 ser una reale influenza, risulta da quanto egli scrive in Leggere il Capitale circa la necessità di far scomparire l'uomo quale soggetto, quando si voglia conoscere scientificamente la società: «La struttura dei rapporti di produzione determina dei luoghi e delle funzioni che sono occupati e assunti dagli agenti di produzione, i quali sono solo gli occupanti di questi luoghi, nella misura in cui sono i 'portatori' di queste funzioni. I veri 'soggetti' (nel senso di soggetti costituenti del processo) non sono dunque, contrariamente a tutte le apparenze, le 'evidenze' del 'dato' dell'antropologia ingenua, gli 'individui concreti', gli 'uomini reali', bensì la definizione e la distribuzione di questi posti e di queste funzioni. Quindi i veri 'soggetti' che definiscono e distribuiscono sono i rapporti di produzione (e i rapporti sociali politici e ideologici). Ma poiché sono dei 'rapporti', non si potrebbero pensare nella categoria di soggetto; e se per caso ci si azzarda a ridurre questi rapporti di produzione a dei rapporti tra uomini, cioè a rapporti umani, si farebbe torto al pensiero di Marx che indica con la massima profondità ... che i rapporti di produzione (così come i rapporti sociali politici e ideologici) sono irriducibili a qualsiasi soggettività antropologica».
E se è vero che la scienza della società ha a che fare con gli uomini, non è con gli «uomini concreti», bensi «con gli uomini in quanto adempiono certe funzioni determinate nella struttura: portatori di forzalavoro, rappresentanti del capitale». Dal punto di vista della teoria, gli individui sono irrilevanti; essi sono semplici effetti della struttura. Il legame di Althusser con lo strutturalismo è confermato anche dalla suggestione che su di lui Importanza di hanno esercitato autori come Nietzsche e Freud, Nietzsche e di in modo non dissimile da quello per cui questi Freud stessi autori sono stati cosi importanti - lo si è visto - anche per lo strutturalismo. Il cammino althusseriano di ritorno a Marx non fu mai dimentico
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P ARTE SECONDA FILOSOFIE DEL NOVECENTO
che, nel frattempo, erano accaduti Nietzsche e Freud, dai quali non si poteva più prescindere da parte di chi volesse intendere il «vero Marx»; parlando una volta del marxismo esistenzialistico di Sartre, Althusser ebbe a dire che, nonostante che il filosofo della Critica della ragione dialettica pensasse dopo Marx e Freud, in realtà egli era un «ideologo premarxista e prefreudiano». In scritti successivi, in particolare in Elementi di autocritica, Althusser avrebbe sostenuto di aver troppo concesso nei saggi del 1965 alla suggestione att~v~~;~ dello stru!turalis_mo, ma che si s~rebbe .trattato di Spinoza un semphce «alhneamento termmologlCO» e che, nella sostanza, il suo pensiero ne sarebbe stato indipendente. Egli avrebbe insistito piuttosto sull'importanza avuta da Spinoza nel proprio cammino verso Marx: «se non siamo stati strutturalisti, possiamo adesso confessare perché: ... siamo colpevoli di una passione ben altri-
menti forte e compromettente: siamo stati spinoziani».
Attraverso quella che egli chiama la sua «svolta attraverso Spinoza» - uno Spinoza interpretato materialisticamente -, Althusser ha imparato a capire «la svolta di Marx attraverso Hegel»; è, infatti, il filosofo olandese a consentirgli, con la sua critica antisoggettivistica e antiteleologica - si pensi alla «Appendice» al primo libro dell'Ethica (V. VOL. 2, CAP. 16, PAR. 4) -, di capire la mistificazione rappresentata dalla coppia «soggetto/fine» costitutiva della dialettica hegeliana, e di comprendere di conseguenza l'operazione marxiana di ridurre la storia ad un «processo senza soggetto e senza autore». Ed ancora a Spinoza egli attribuisce il merito di avergli insegnato, meglio di quanto potesse fare lo strutturalismo, quella nozione di «causalità strutturale» che sta alla base del suo marxismo teorico, come ora vedremo subito. Dobbiamo esaminare infatti la teoria della struttura sociale, quale Althusser ritiene sia ricavabile dai testi marxiani.
9.3
La struttura sociale -~-
1[
l Capitale marxiano ha condotto l'analisi di una formazione sociale concreta, la società capitali;·•;.:,; bstica, che vi et ne i?!esa come un a ~>. E se è vero che tali virtù e abilità «s'imparano anche in famiglia, in chiesa, nell'esercito, nei bei libri, nei film, e persino allo stadio ... nessun apparato ideologico di Stato come questo (la scuola) dispone per altrettanti anni di un ascolto obbligatorio (e sarebbe il meno: gratuito) di cinque o sei giorni su sette per otto ore al giorno, da parte di tutti i ragazzi che sono sottoposti alla formazione sociale capitalistica».
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Critica dello stalinismo na stretta connessione con la sua concezione cialismo sovietico - che le radici dello stalinismo son dell'ideologia caratterizza l'atteggiamento criti- da ricercare, non semplicemente nella dimensione co di Althusser di fronte allo stalinismo. Egli ideologica, bensì nel modo con cui si è preteso di dissente dalla ricerca delle cause di questa «de- costruire il socialismo in Urss, distinguendo, secondo viazione» nella sfera puramente giuridica, co- un procedimento tipico dell'economicismo, un primo me se lo stalinismo fosse consistito semplicemente in momento, di costruzione delle «basi materiali» del quelle che il rapporto Kruscev aveva chiamato «viola- socialismo, dal momento successivo del rivoluziona. zioni della legalità socialista». Proprio perché, in mento dei rapporti sociali di produzione, il quale, o cost~u~rone una qualunque formazione sociale strutture e so- avviene contestualmente allo sviluppo delle forze prodel socrahsmo . . ' . in urss vrastrutture sono m un reCiproco rapporto d1 de-- duttive, o è destinato a non verificarsi affatto, nella terminazione, si deve riconoscere - e qui Althus- riproduzione inevitabile, e difficilmente reversibile, ser mostra di esser vicino alla critica maoista del so- di una gerarchizzazione autoritaria della società.
Crisi odissoluzione del marxismo? l 0.1
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La dissoluzione del marxismo d'opposizione dell'est on c'è dubbio che, tra il fallimento delle esperienze di «socialismo reale» nei paesi del patto di Varsavia e nella stessa Urss da un lato, culminato negli sconvolgenti avvenimenti del 1989-91, e dall'altro lato, la crisi del pensiero marxista, debba correre un rapporto assai stretto, se è vero, come gli stessi Marx ed Engels avevano sostenuto, che una teoria va giudicata dagli effetti conseguiti ai tentativi di una sua realizzazione pratica. Non è senza significato che negli stessi paesi socialisti, come in particolare la Polonia, l'Ungheria e la Cecoslovacchia, anche prima del crollo di quei regimi comunisti, e in conseguenza dell'arresto del pur Da timido e limitato processo di destalinizzazione un'opposizione seguito al XX congresso del Pcus, si fosse regimarxista ad una strato il declino di quel marxismo d'opposizione antimarxista che alle prospettive dL una ripresa creativa del pensiero marxista, fuori dai dogmatismi del marxismo-leninismo di stato, aveva legato la propria sorte. In particolare, dopo il fallimento, in conseguenza
dell'intervento militare sovietico del 1968, del riformismo comunista rappresentato dalla «primavera» di Praga, l'opposizione ai regimi comunisti in Cecoslovacchia, come anche in Ungheria o in Polonia, avrebbe visto cadere l'ispirazione marxista che l'aveva animata inizialmente, e si sarebbe venuta caratterizzando sempre più visibilmente in'un senso amarxista se non, addirittura, antimarxista. Significativi appaiono, a questo proposito, itinerari, assai diversi tra loro ma destinati, sembra, ad incontrarsi nei loro ultimi esiti, quali quelli di filosofi come il polacco Leszek Kolakowski, (192 7) e l'ungherese Agnes Heller (1929). Il primo era partito da una revisione del marxismo in senso decisamente critico ed antiistituzionale. In polemica esplicita con lo stalinismo, egli ave. va rivendicato il carattere «intellettuale» del t del • marxtsmo
Le origini della scuola e origini della scuola di Francoforte risalgono ai primi anni della repubblica di Weimar, quando nel 1923 era nato, nella città tedesca sul Meno, grazie al mecenatismo di un ricco industriale, Hermann Weil, l'Istituto per la ricerca sociale, che fu fin dall'inizio affiliato all'università e riNascita conosciuto ufficialmente dal ministero dell'istrudell'lstituto per la ricerca zione, nonostante fosse costituito da un gruppo sociale di studiosi per lo più di esplicito orientamento marxista. Il primo direttore effettivo dell'Istituto fu Karl Gri.inberg, uno studioso marxista austriaco, fondatore nel 191 O di una rivista, l'Archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio, cui avevano collaborato studiosi come Lukacs e Korsch, e che per alcuni anni sarebbe divenuta l'organo dell'Istituto. Erano quelli i tempi delle speranze in una imminente rivoluzione in occidente, e Gri.inberg non fece mistero della volontà di raccogliere l'attività dell'Istituto intorno allo studio della società capitalistica, nella prospettiva del suo prossimo superamento nel socialismo. Contemporaneamente veniva però rivendicato il carattere antidogmatico e aperto del marxismo professato dai membri dell'Istituto, e dichiarato il rifiuto di qualsiasi forma di affiliazione politica. Di fronte all'alternativa offerta dal militare nelle file della socialdemocrazia, integrata nelle istituzioni della repubblica weimeriana, o dall'affiliarsi al partito comunista legato alla politica di Mosca, gli studiosi di Francoforte preferirono la scelta, per la quale sarebbero stati talvolta rimproverati di aristocraticismo intellettuale, di dedicarsi ad una attività puramente teorica. Perché si possa parlare della nascita di quell'indirizzo che avrebbe preso il nome di scuola di Francoforte è necessario, comunque, attendere gli inizi degli anni Trenta, quando, appunto nel 1931, è Max Horkheimer ad assumere la direzione dell'Istituto. Si
deve, infatti, in primo luogo all'opera di questo intellettuale, professore di filosofia sociale all'università di Francoforte, la formulazione di quelle scelte teoriche ed operative che avrebbero caratterizzato da allora in poi l'attività dell'Istituto, e che già vengono proposte nella prolusione accademica da lui tenuta in quello stesso 1931 su La situazione attuale della filosofia
sociale e i compiti di un istituto per la ricerca sociale. Da una parte l'assunzione, sotto l'influenza in . . . particolare della lukacsiana Storia e coscienza di La dlre~lone di . . . Horlrotestante e docenti di facoltà universitarie, spesso impegnati callolica: storie anche in forme dirette di attività pastorale. Il t>arallele mondo cattolico si è espresso invece più che attraverso personalità singole, con correnti e movimenti. Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), mentre da un lato ha raccolto i fermenti di rinnovamento c · · · ne l peno · do pre: Vaticano Il Concilio che avevano 1at1eato ad 1mpors1 11 cedente, ha segnato una svolta senza precedenti che ha inciso in profondità sul terreno teologico ed i cui frutti vànno maturando. Un esempio tipico riguarda la scelta a favore dell'ecumenismo, cioè il passaggio dal rifiuto polemico al dialogo e alla collaborazione con le altre confessioni cristiane. Il Concilio si è espresso in questo senso aprendo la chiesa cattolicoromana ad importanti esperienze ecumeniche. Il mondo protestante aveva iniziato questo cammino in precedenza, nella Conferenza di Edimburgo del 191 O, sviluppando, successivamente, tra le diverse confessioni partecipanti, varie forme di collaborazione pratica e di approfondimenti teorici, soprattutto attraverso due organismi «Vita e Azione» e «Fede e Costituzione». Nel 1948 ad Amsterdam, si era riunito, per la prima volta il Consiglio mondiale delle Chiese, che continua periodicamente i suoi incontri e a cui partecipano ora anche esponenti cattolici come osservatori.
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SEZIONE PRIMA. IL DIBATTITO TEOLOGICO CAPITOLO 26
In conseguenza dell'apertura ecumenica, negli studi teologici ed esegetici è ormai del tutto consueto e naturale conoscere a fondo la produzione teologica anche di autori di altre confessioni e questo vale in . , maniera ancora più forte per gli studi di critica kome b'bl' Una ~ culturale 1 1co-testuale. S'1 sta creando, d'1 1atto, a l'1ve11o teologico, una k.oiné culturale del tutto nuova, tanto più vera e reale quanto più diversificata al suo interno non da antichi contrasti confessionali, ma dalla ricerca di nuovi cammini in relazione alle sfide della realtà contemporanea. Due tratti connotano significativamente la maggior parte della ricerca teologica del nostro secolo. Il primo è costituito dalla convinta e sempre più larga applicazione dei metodi di critica storico-esegetica alla Bibbia e ai testi dell'antichità cristiana. La
consapevolezza della storicità e quindi dei limiti, dei condizionamenti linguistici, filosofici, sociali che sottostanno ad ogni formulazione, è largamente acquisita. La· storia si è inoltre imposta come tema di St . riflessione specifico, sia in virtù della riscoperta m~~~a~gio di questa dimensione nel messaggio biblico, che biblico si può configurare proprio come «storia della salvezza», sia per l'importanza che ha assunto il tema del futuro (utopia- Regno) e il suo rapporto col presente. In secondo luogo, se si esclude Barth, la teologia contemporanea appare largamente caratterizzata Una dall'impostazione antropologica: non Dio, ma impostazione l'essere umano viene preso come punto di par- antropologica tenza della riflessione teologica ed ha in essa una posizione centrale.
Barth o886-1968).' la teologia dialettica 2.1
«L'Epistola ai Romani>> i può dare alla teologia del Novecento un preciso inizio: la pubblicazione nel 1919 (seconda edizione riveduta nel 1922) de L 'Epistola ai Romani di Karl Barth. Diversi anni dopo, ripensando alla risonanza tanto vasta e inaspettata del suo scritto, egli si paragonò ad uno che, salendo a tentoni le scale di un campanile afferra, invece della . ringhiera, una corda, e sente che la grande camUn suono d1 • , d' 1 · 1 campana pana s1 e messa a suonare sopra 1 m e non so o per lui. La sorpresa era giustificata dal fatto che questo scritto rappresentava una rottura radicale col pensiero teologico dominante; Barth si trovava ad aprire un nuovo corso dando voce, senza saperlo, ad esigenze diffuse ma ancora non esplicitate né tematizzate. Da quasi un secolo la scena era dominata infatti dalla teologia liberale, i cui principali esponenti furono Albrecht Ritschl (1882-1889), Adolf von Harnach (1851-1930) ed Ernst Troeltsch (1856-1923). Essa traeva le sue radici in parte dalla concezione hegeliana del Cristianesimo inteso come l'espressione più alta della religione, ed in parte, ancora maggiore, dal . pensiero di Schleiermacher (V. CAP. 5*, PAR. 5), che La teologia 'd l . d' liberale aveva cons1 erato a cosc1enza ~ome punto 1 partenza fondamentale ed esclus1vo per pensare la relazione uomo-Dio, ed aveva indicato nel sentimento di dipendenza dall'Assoluto l'essenza della religiosità. Il discorso teologico che prendeva le mosse da queste posizioni era volto alla ricerca della sintesi tra le istanze culturali del momento e gli elementi del messaggio cristiano che apparivano in qualche modo conciliabili con queste. In quest'ottica la figura di Cri-
sto era presentata accentuando, a volte in modo esclusivo, il carattere di Maestro piuttosto che quello di Salvatore. Harnack, l'esponente di maggior rilievo, maestro di Barth all'Università di Berlino, ne La storia dei dogmi del 1886-89, interpretava il cristianesimo in chiave kantiana, riconducendolo all'ideale morale. I miracoli venivano considerati come il prodotto della mentalità magica e superstiziosa dei primi discepoli, e l'intera elaborazione dogmatica del cristianesimo primitivo era spiegata come «ellenizzazione>> del messaggio originario di Gesù. Karl Barth, che era nato a Basilea nel 1886, si formò in quest'ambiente, studiando teologia a Berna, Tubinga, Marburgo, Berlino. Vari elementi contribuirono però a far maturare il suo pensiero in una direzione nuova: in primo luogo il contatto con i pastori zurighesi Leonard Ragaz (1868-1945) e Hermann Kutter (1863-1931) fortemente impegnati in campo sociale; poi l'impatto della prima guerra mondiale in cui fu travolto il clima fino ad allora dominante di ottimismo e di fiducia nel progresso, ed infine le prime esperienze di attività pastorale. Tra il 1911 e il 1921 egli esercitò, infatti, il ministero a Safenwill, un paese operaio dell' Argovia, confrontandosi con i problemi della gente e con le esigenze della predicazione. Egli avvertiva tutta l'impossibilità che ha l'uomo a «parlare di Dio»; la verità di Dio non si può ricavare dalla storia, dalla coscienza, dal pensiero speculativo. Per chi crede che Dio abbia parlato nella storia umana, l'atteggiamento primario, basilare, l'unico possibile, è l'ascolto. In questo riferirsi assoluto alla
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Parola che è il patrimonio della Bibbia, Barth brucia con fuoco purificatore il pensare e il dire dell'uomo su Dio. Ne L'Epistola ai Romani egli parte dall'unica premessa che Dio è Dio, e quindi il totalmente Altro. Quando Dio viene concepito in modo metafisica, non lo si sottrae a una qualificazione che ne fa un'enImpossibilità di parlare di Dio: fasi e un prolungamento dell'umano: occorre inla differenza vece sottolineare, con Kierkegaard, l'infinita difqualitativa ferenza qualitativa tra tempo ed eternità, la distanza e la separazione, in sé incolmabile, tra Dio e uomo. La tematica della Bibbia è proprio il rapporto tra questo Dio irraggiungibile, nascosto, e l'uomo. In particolare, in Gesù Cristo si ha una vera e propria tangenza dialettica: egli è il punto di inserzione in cui il mondo sconosciuto del Padre tocca il mondo umano, come la tangente il cerchio. Barth intende dunque accostarsi alla Scrittura con un metodo, certo non ignaro del lavoro dell'esegesi, ma soprattutto preoccupato di far parlare Dio senza troppe mediazioni umane, e consapevole che, Come in fondo, i problemi dell'apostolo Paolo sono gli accostarsi alla Parola: Jlositivo stessi che ha il lettore moderno. Ora, dal momene negativo to che non è possibile una conoscenza immediata e diretta di Dio, occorre procedere con un metodo adeguato, caratterizzato da un procedimento dialettico: ogni affermazione positiva deve essere integrata e corretta da una negativa. La struttura de L'Epistola ai Romani può essere cosi individuata in due serie di movimenti contrapposti, di tipo teologicamente positivo e negativo: i primi procedono dall'alto verso il basso, gli altri vanno in senso inverso. Il movimento iniziale, creato dall'apriori divino, è quello della notte, che appare al tempo stesso come traviamento umano e come conseguenza del giudizio di Dio: tutto nella storia è sotto il segno dell'ira divina, tutto è perduto. La salvezza è possibile solo se Dio è il totalmente Altro e vuole intervenire. La fede è, allora, al tempo stesso uscita dalla notte del nihilismo ed entrata nella notte della negazione; mentre mette a nudo l'uomo col suo limite e il suo vuoto, lo colma di una relazione di figliolanza con Dio; il credente, l'uo-
mo nuovo, resta l'uomo «simul peccator et iustus». Barth passa poi ad esaminare movimenti che vanno dall'uomo verso Dio e tra essi il più importante: la religione. Questa, nel porsi come valore in sé, è realtà negativa, tragicamente corrotta; nella misura in cui invece evidenzia il peccato e fa sperimentare la crisi radicale di tutte le possibilità umane, ha un valore catartico positivo. La Chiesa è la personificazione dell'atteggiamento religioso e ne condivide le caratteristiche. Nella «Chiesa della carne», nell'istitu- Ch' zione (anche non degenerata), avviene la «sop- ca;~esaedCeln.a · d'1 que l Vange lo che e' man11estazwne ·~' · presswne» dello spiritouesa sfolgorante della divina trascendenza, rivelazione del Dio nascosto e vivente. Nella «Chiesa dello spirito» si continua il movimento di Dio che si rivela, e questa può intersecare la chiesa visibile. Falso è l'aspetto visibile della Chiesa quando vuol fare a meno di quello invisibile; ugualmente falso quello invisibile quando vuole contrapporsi e assolutizzarsi di fronte a quello visibile. Vero è l'aspetto visibile nella misura in cui accetta di mettersi in crisi in vista dell'altro. La valorizzazione del paradosso, l'affermazione appassionata della libertà e sovranità di Dio, l'opposizione sistematica della prospettiva dell'uomo a quella di Dio, appaiono essere le caratteristiche più rilevanti della prima fase del pensiero barthiano, che conoscerà una successiva evoluzione. Nel 1921 Barth fu nominato professore onorario di teologia riformata all'Università di Gottinga e qui, l'anno successivo, fondò la rivista Tra i tempi, alludendo, nel titolo, al tempo intermedio tra la pentecoste e la conclusione definitiva della storia nel Regno di Dio. Il pensiero di Barth si impose molto rapidamente come termine di. confronto per i teologi La teo1og1a. . . . . h . . . contemporanei, sia per 1 gwvam c e m1Zlarono a dialettica muoversi in consonanza con la sua prospettiva, sia per gli oppositori. Si formò, attorno alla rivista, la corrente della «teologia dialettica» in cui inizialmente si ritrovarono uniti teologi che successivamente presero itinerari molto diversi: Emil Brunner, Rudolf Bultmann, Paul Tillich.
2.2
L'opposizione al nazismo e la «Dogmatica ecclesiale» el1932 Barth iniziò la composizione della Dogmatica ecclesiale a cui lavorerà per tutta la sua vita. L'impegno di studioso non gli impedì di prendere chiare posizioni in un periodo così cruciale nella vita della Germania. Ai molti che identificavano il compito della Chiesa nell'appoggio e nell'adesione alla vita etnico-nazionale, Barth opponeva il riferimento e l'adesione alla Scrittura, unica
«maestra», e a Dio come unico sovrano: l'insegnamento della teologia non doveva subire interferenze e deviazioni, cosi come inalterato e senza interru- 0. 1 nte a zioni proseguiva il canto dei benedettini nei loro H:tl~~ monasteri. Tali posizioni non derivavano da passività: Barth fu l'unico professore tedesco di teologia a rifiutare il giuramento ufficiale al Fiihrer e per questo perse la sua cattedra a Bonn.
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Nell'autunno del1933, un gruppo di pastori lanciò un appello contro la mentalità pagana che il nazismo stava diffondendo, respingendo l'attacco alla Bibbia ebraica, portato avanti dal movimento dei cristiano-tedeschi; da qui nacque il primo nucleo di quella . che verrà chiamata la «Chiesa confessante» che, La}. In una prima accezione è inteso in senso fabulistico, al modo della concezione illuministica; in una secon. . da esprime una prospettiva utopistica. Il terzo · 'f'tcato, 1 'l pm ·, l argamente usato, 1a c r11enmen·c · . .l .d1vers1 . d' s1gm 1 1l l , SIQiliiCa 11'' . h ff l , d 11 1 · umito» to a mterpretazwne c e ne o re a stona e e religioni, intendendolo come fonte inesausta di significati. In questo caso il mito ha una valenza altamente positiva: occorre solo liberarne la ricchezza, al di là delle inevitabili scorie. Il mito ha una correlazione profonda con l'esistenza: non si tratta cioè di una scienza primitiva impegnata nel tentativo di spiegare fenomeni naturali incomprensibili, ma di una elaborazione che, per sua natura intrinseca, si riferisce all'uomo, alla finitudine e alla misteriosità della vita. Il mito non è dunque da eliminare criticamente, ma da interpretare esistenzialmente; dichiarare mitico un contenuto significa . sottoporlo ad un processo ermeneutico che ne ~ 1110 ed faccia emergere il senso genuino. Relativamente eSis enza .. . . a1. testl. b'bl' 1 1c1,. la demtttzzazwne e, una estgenza che nasce prima di tutto dal conflitto tra immagine mitologica del mondo propria della Scrittura e immagine attuale, frutto dell'affermarsi del pensiero scientifico. Il compito della teologia è allora quello di rivelare il senso esistenziale dei contenuti neotestamentari espressi in forma mitica; questo implica e suppone 1
una precedente comprensione filosofica dell'esistenza. A Bultmann sembra che, al momento, il pensiero del primo Heidegger offra gli strumenti e le prospettive più adaguate per una tale opera. Per comprendere in modo nuovo l'uomo e la storia occorre pensarli alla luce del concetto di «esistenza»: con questo termine si indica il fatto che l'essere umano non è subordinato al determinismo causale come gli altri essere naturali, è responsabile di se stesso, deve assumere il La com11rensione proprio essere. La vita è storia costruita attraver- filosofica so le decisioni, e l'uomo è volontà, è «esistere per dell'esistenza: la scelta}}, Si può allora distiguere tra esistenza esistenza inautentica che si comprende e si affida a ciò che inautentica e è tangibile e di cui può disporre, ed esistenza autentica autentica che si comprende a partire dal futuro. Nel primo caso l'uomo è pensato come ragione tesa ad una conoscenza dell'oggetto che si traduce in dominio, tecnica, manipolazione. Nel secondo caso l'uomo è compreso come storicità, poter essere, libertà, decisione, e la conoscenza che si realizza è di tipo esistenziale e non oggettivante. Essa implica relazione interpersonale ed è configurabile nelle sue dinamiche con termini quali appello, avvenimento, incontro, esigenza, istante. Il rapporto tra i due modi di comprendere l'esistenza (la conoscenza esistenziale e quella oggettivante) deve essere «dialetticO}}, perché di fatto non può esistere l'una senza l'altra. Allo stesso modo, l'interpretazione esistenziale della storia non può prescindere dalla contemplazione oggettivante del passato. Quest'ultima deve fare uno scrupoloso accertamento dei fatti, anche se non è in grado di coglierne, come fa invece l'altro tipo di conoscenza, il «sensO>} storico. Ora, dal momento che l'uomo è egli stesso un pezzo di storia, vi è implicato, non può considerarla nello stesso modo con cui considera il mondo della natura. Non può essere cioè spettatore neutrale, deve entrare in dialogo con essa. Quando si avvicina ad un testo L'interpretazio· antico non lo fa in modo casuale ma pone al testo ne esistenziale precise domande; si crea un rapporto vitale con della storia. 1 l'argomento, possibile perché esiste una «precom- testi: ruecom· prensione}}, un interesse previo. Se poi ci si acco- prensione e sta a testi biblici la precomprensione richiesta è comprensione del tutto particolare e riguarda il problema di Dio. Chi legge e interpreta deve avere consapevolezza che è mosso dal problema esistenziale di Dio, qualunque sia la forma che esso assume nella sua coscienza: si tratti della questione della salvezza, della liberazione dalla morte, della esigenza di sicurezza di fronte ad un destino capriccioso o della ricerca della verità in un mondo enigmatico. Si tratta comunque sempre di interrogativi dell'uomo su se stesso e sul senso della sua esistenza.
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PARTE TERZA AI CONFINI DELLA FILOSOFIA
cc
Bultmann afferma che l'interrogativo su Dio e su se stessi sono, al fondo, identici: che è come dire che è l'uomo il «punto di annodamento» della rivelazione di LU Dio in quanto egli ha una relazione previa con Lui, su o :r: cui può innestarsi la rivelazione in Cristo, secondo la z celebre espressione di S. Agostino che Bultmann cita: o ro «Tu nos fecisti ad Te, et cor nostrum inquietum est, donec requiescat in Te». Quale è allora il senso dell'esistenza umana che emerge dalla Bibbia? Anche il Nuovo Testamento distingue due modi diversi di esistenza dell'uomo: una prima inautentica, non redenta che vive di ciò che ha di presente e di disponibile. Il tentativo umano di creare da soli il proprio futuro finisce per rimanere prigioniero di ciò che è transitorio e destinato alla morte, per fallire nel proprio auto-affermarsi, nel Il passaggio suo farsi Dio. L'esistenza credente, autentica, è dall'inautentico all'autentico: la invece aperta all'invisibile e si accoglie come dolede nella no, come realtà creaturale; questa accettazione è grazia possibile attraverso la fede nella grazia che viene incontro all'uomo come amore e gli apre il futuro. Vivere escatologicamente, essere nuova creatura è vivere queste dimensioni di esistenza. La riflessione filoIJ.J
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4.1
sofica ha potuto intuire ed esprimere la differenza tra esistenza inautentica ed autentica, ma non è in grado di offrire la forza per fare il passaggio dall'una all'altra. Questo è reso possibile in virtù della forza che viene dalla rivelazione dell'amore di Dio nell'evento di Cristo. Il paradosso della fede consiste nell'identificare un avvenimento storico con l'evento escatologico. L'avvenimento salvifico è concentrato completamente nella croce e nella resurrezione di Cristo. E l'incontro con Cristo è possibile solo con una conoscenza storica esistenziale nella quale ci si lascia interpellare da un evento del passato. Non ha impor- Nell'evento storico CJUello tanza la conoscenza storica che intende risalire escatologico: alla vita e alla personalità del Gesù storico di cui, questa è la tra l'altro, in questo senso, è dato di conoscere lede pochissimi elementi. Ciò che conta è il Cristo della fede che è presente nel kérigma, nella parola di Dio annunciata nella predicazione: questa svela una nuova comprensione dell'esistenza ed invita ad una «decisione», perché Cristo è la parola decisiva di salvezza e l'azione escatologica, definitiva, di Dio nei confronti degli uomini.
Bonhoeffer (1906-1945): il cristianesimo in un mondo «adulto» ...................................... ,................ ························ .............. ·········································································································· ...... ,, .. ,,,, ... ,,.,,,,,,,,,,,,,p;;;;::::····
La vita come testimonianza
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n una lettera al padre, Dietrich Bonhoeffer, confrontando le loro generazioni, osserva come la :t sua fosse caratterizzata dall'incompletezza e ;;i dalla fr amm~nt~rf~età. Vi sono però fr~I?me~ti ,'"": senza a cun s1gm 1cato e valore, ed altn m cm è possibile distinguere come era impostata e progettata la struttura completa dell'opera da cui derivano, e la cui importanza può durare nei secoli. Ucciso a 39 , anni, nel campo di Flossenburg per la sua parteciUnorlera . 11 . . . B h f"' h frammentaria pazwne a a resistenza antmaz1sta, on oe 1er a indubbiamente prodotto un'opera «frammentaria», una parte notevole della quale è costituita dalle lettere scritte in carcere, ma di tale qualità che nel frammento si intravede, a volte, la bellezza del tutto, altre volte si delineano nuove strade da percorrere; sempre emerge una estrema onestà intellettuale ed il coraggio di porsi gli interrogativi più inquietanti, in un confronto esigente e radicale con la realtà moderna nelle sue caratteristiche positive e nei suoi drammi. Nato a Breslavia il 4 febbraio del 1906 da una famiglia luterana dell'alta borghesia, non particolar-
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mente impegnata in campo religioso, Bonhoeffer compì gli studi a Berlino, dimostrando grande versatilità nelle diverse discipline ed in particolare nella musica. Avendo preso la decisione di studiare teologia, seguì i corsi presso l'università di Tubinga. Nell'inverno 1924-25 ebbe modo di leggere e apprezzare gli scritti di Barth: l'importanza di questo incontro la si può comprendere da quanto egli stesso scriverà nel 1944, caratterizzandosi come, «teologo moderno», cioè passato per il rinnovamento barthiano, pur conservando l'eredità délla teologia liberale. Nel1927 si laureò con una tesi dal titolo Sanctorum communio. Dopo h . . , pastorale a Barcellona, ne l Tra Bart e un anno d1. att1v1ta .81 gospel 11 1930, ottenne la libera docenza con il libro Atto ed ((socr essere, in cui esaminava la filosofia kantiana e l'antologia di Heidegger, arrivando a concludere la loro inadeguatezza se considerate come strumenti utili per esprimere Dio nella sua rivelazione: questa infatti non può essere formulata né in categorie di azione, né in categorie di essere. Successivamente trascorse un anno a New York che fu di grande importanza, perché da un
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lato egli contribuì a far conoscere in America la teologia dialettica, dall'altro venne in contatto con un cristianesimo molto diverso da quello tedesco. Pur rifiutandone tanti aspetti, in cui gli sembrava venissero vanificati temi fondamentali della riforma (come l'idea di peccato e di redenzione), fu attratto dalla corrente del «social gospel» (vangelo sociale) per la serietà con cui affrontava il tema del regno di Dio in relazione ai problemi sociali concreti di questo mondo e intuì, uno fra i pochissimi, in tutta la sua gravità, il problema razziale per la società americana. Inoltre questa permanenza fu l'inizio di una serie di contatti ed attività ecumeniche in cui si impegnerà per tutta la sua vita. Nel 1933, l'anno della conquista hitleriana del potere, nel luglio, la Chiesa cattolico-romana concluse un concordato col Terzo Reich; nel settembre il Sinodo evangelico «bruno» (così chiamato per le numerose divise delle Sturm-Abteilungen), dominato dai «cristiano-tedeschi», accettava l'ideologia nazional-socialista e includeva negli statuti il «paragrafo degli . 11ce d1mento . . h . d' l' d' . d' . d' delle Chiese ar~a~m c e ~mpe 1va or _mazwne 1 paston 1 tedesche al ongme ebra1ca. Nel febbra10 del1933 Bonhoeffer Fliilrer aveva criticato in una conferenza l'aspirazione del popolo tedesco a trovare un Fiihrer, che inevitabilmente rischia di diventare un Verfiihrer (un seduttore); in un articolo, pubblicato in giugno, egli invocava, data la gravità della situazione la convocazione di
un concilio evangelico che potesse prendere una posizione autorevole. Dopo aver trascorso due anni a Londra, occupandosi delle comunità tedesche ivi residenti, Bonhoeffer accettò di dirigere, a Finkenwalde, un seminario affidatogli dalla Chiesa «confessante», che si opponeva all'orientamento della Chiesa ufficiale e maggioritaria. Nel contempo, tenne lezioni all'Università di Berlino. Nel1936, privato dal governo della libe- 6;~~~~rti con la ra docenza, si dedicò completamente agli allievi confessante di Finkenwalde e quando nel 19 37 il seminario venne chiuso, continuò questa attività a Koslin e Gross-Schlonwitz. Recatosi nel1939 in America per un ciclo di conferenze, e ricevuta, appena sbarcato, una lettera che gli dava la certezza dell'imminente scoppio della guerra, rientrò immediatamente in patria, per vivere questo periodo difficile vicino al suo popolo; riteneva di non aver diritto di partecipare ad una futura ricostruzione se prima non avesse condiviso le prove del periodo della guerra. Pur avendo sostenuto posizioni pacifiste - desiderava perfino andare in India a conoscere Gandhi -, sin dall'inizio delle ostilità si avvicinò alla resistenza e fu messo a conoscenza del piano per rovesciare il regime. Motivò questa sua posizione con l'immagine dell'auto guidata aa un conducente impazzito che attra-
Dietrich Bonhoeffer (secondo da destra) nel campo di concentramento di Tegei.
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PARTE TERZA AI CONFINI DELLA FILOSOFIA
versa una strada affollata: non basta occuparsi delle vittime lasciate al suolo, occorre impedire all'uomo di guidare. La collaborazione di Bonhoeffer all'attività del gruppo guidato dall'ammiraglio Canaris, si Con la . nel tenere contatti. a11' estero resistenza espl'1co, soprattutto antinazista con gli alleati, servendosi delle sue numerose conoscenze dovute all'attività ecumenica e di studioso. Nel frattempo lavorava ad un'opera sull'etica, di cui ci rimangono saggi e abbozzi composti in epoche diverse, ripresi, rielaborati, non portati a termine. Questi scritti furono dati alle stampe a Monaco nel
4.2
1949, col titolo Etica da Eberhardt Bethge, che ha curato la pubblicazione di tutta l'opera inedita dell'amico. Bonhoeffer fu arrestato nell'aprile del1943 a Berlino e imprigionato a Tegel. Continuò con estremo impegno la sua attività di riflessione ed elaborazione che consegnò a numerose lettere. Queste sarebbero state raccolte e pubblicate nel19 51 a Monaco con La morte un titolo tratto dalla espressione di una lettera, Resistenza e resa. Trasferito a Buchenwald e successivamente a Flossenburg, qui fu impiccato all'alba del 9 aprile del1945.
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L'etica: tra ultimo e penultimo a ricchezza di spunti, le rapide e penetranti analisi, la profondità di indagine in varie direzioni, se ha sempre attratto i lettori di Bonhoeffer, ha però favorito anche letture selettive: lo si è interpretato, di volta in volta, in chiave cattolicizzante, luterana, radicale (precursore della teologia della morte di Dio). Si è anche parlato di dualità non· conciliata per indicare la compresenza di elementi che vanno in direzioni diverse e talvolta antitetiche. In realtà ci si trova davanti ad una ricerca esigente, sempre più lontana da compiutezze accademiche, in un confronto continuo con situazioni concrete e questioni essenziali. Queste considerazioni di carattere generale, val~ gono in particolare per l'Etica. Sotto questo titolo sono raccolti diversi tentativi di elaborare un'etica che non dipenda direttamente da principi o norme, caratterizzata piuttosto dall'interesse per l'azione, la sperimentazione e la creatività. Trattandosi di un'etica cristiana, questo avviene all'interno dell'ascolto della paPor , . rola di Dio, parola che si è espressa in Cristo nel re 1e1ICa d .' . B h f~ l l sotto il segno mo o pm compmto. on oe ter vuo e superare e di Cristo note posizioni dell'autonomia e dell'eterononia in una unità superiore che chiama «cristonomica». Porre l'etica sotto il segno di Cristo assume una precisa valenza critica: viene rifiutata ogni teoria dell'azione basàta platonicamente sul primato dell'idea o, kantianamente, sull'apriori del dovere. Il riferimento all'essere di Cristo rende possibile costruire un'etica delle situazioni concrete; il bene è prospettato nel suo intrinseco legame alla vita e alla storia. In tutta l'Etica viene elaborato il tema della responsabilità, che non può non tradursi anche in un impegno nella politica. Bonhoeffer si interroga sul ,. compito che incombe ai cristiani e alla Chiesa in L 1mpegno d t . . . . . l, . . nella politica e ermmate s1tuaz10m- naz1smo o rea ta asstmllabili - e polemizza con quanti evitano di affrontare sofferenze per una causa giusta perché, a loro dire, potrebbero soffrire in buona coscienza solo per una
esplicita confessione della fede in Cristo. Ad essi egli oppone il testo evangelico «Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Egli denuncia come la Chiesa sia stata muta quando avrebbe dovuto gridare perché il sangue degli innocenti gridava al cielo. Dietro questi atteggiamenti esistono però anche carenze a livello teorico: Bonhoeffer rifiuta, nella dottrina luterana dei due regni, una netta separazione che finisce per paralizzare l'intervento nella sfera mondana. Il Dio che si è rivelato in Cristo è infatti Signore di tutti e due i regni: l'autorità deve essere dunque giudicata non solo in riferimento alla Legge ma anche al Vangelo. La carenza di impegno può essere anche letta in collegamento ad un'altra posizione tipica del protestantesimo: la teoria della radicale corruzione della natura umana. Bonhoeffer ravvisa un vero vuoto teorico nell'aver, di fatto, eliminato il concetto di «naturale», !asciandolo alla Chiesa cattolica. In tal modo, per mancanza di strumenti concettuali adeguati, non si è riusciti a dire una parola chiara su questioni scottanti. «Dinanzi alla luce della grazia tutto ciò che è naturale e umano era sommerso dalle tenebre del peccato, perciò non si osava più prestare attenzione alle diversità esistenti nella sfera dell'umano e del naturale, per timore di sminuire la gratuità della grazia».
Bonhoeffer tenta una nuova teorizzazione del «naturale», in un quadro interpretativo più vasto, caratterizzato da una nuova terminologia: egli parla di realtà «ultime» e «penultime», rifiutando l'im- ~na.:~~a 1 magine tradizionale di una realtà divisa in due } o
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Riti religiosi presso il Santuario della Madonna di Pierno a Potenza.
SEZIONE SECONDA. LE SCIENZE UMANE DEL NOVECENTO CAPITOLO 28
meno - da ciò che è semplicemente «natura». Di Edward Burnett Tylor (1832-1917), considerato l'ìniziatore dell'antropologia culturale come scienza autonoma, è rimasta celebre, e tuttora in una certa misura attuale, la definizione della cultura, proposta nel suo saggio sulla Cultura primitiva del1871, come di «quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società».
In questo senso, qualsiasi popolo e gruppo umano, «primitivo» o «civilizzato» che esso sia, possiede una propria cultura, che va da un certo modo di cuocere le vivande alla produzione della poesia o della musica. Potrà sembrare inutile ricordare, data l'ovvietà della precisazione, che l'antropologia culturale intrattiene rapporti strettissimi di reciproco condizionamento con la linguistica, l'archeologia, la psicologia e la psicanalisi, la psichiatria, la storia.
5.2
Le fasi del suo sviluppo
~il ,:i.
presupposti dell'etnologia e dell'antropologia culturale fi.ne del Settecento, quando, dopo 1 pnm1 secoh dalle scoperte geo~;' grafiche, che avevano visto moltiplicarsi memo"(. rie e resoconti di missionari e viaggiatori europei su popolazioni primitive ed ignote delle terre extraeuropee, si vanno organizzando i primi studi com. . . d parativi del ricco materiale di notizie ed osservaongmltar o· • • l U f . . . illuministiche zwm racco to. na unzwne Importante m questo senso venne svolta tra il 1799 e il 1806 dalla «Società degli osservatori dell'uomo», sorta in Francia su ispirazione degli «idéologues» (V. CAP. 9*, PAR. 2), allo scopo di coordinare le ricerche di tutti coloro - geografi, biologi, fisiologi, psicologi, studiosi della lingua che si occupavano secondo specifici punti di vista dell'uomo, finalmente assunto come «oggetto» di studio. Ma sarebbe stato solo nella temperie della cultura positivistica che l'antropologia culturale sarebbe sorta all'autonomia di una vera e propria scienza. Sarebbe occorso per questo, in particolare, l'apporto delle teo. rie evoluzionistiche; la pubblicazione nel 1859 [) · · delle specze · d'D · sarebb e stata snodoarwm:uno decisivo de11'0rzgme 1 arwm in questo senso determinante. La storia dell'uomo, il cui carattere evolutivo sembra esser reso evidente dal confronto tra «selvaggi» e «civilizzati», viene ormai considerata come un semplice capitolo della storia della natura. Questa prima antropologia evoluzionistica si fondava sul presupposto - assunto, a differenza di come erano state formulate le tesi darwiniane sul terreno delle scienze biologiche, indipendentemente da adeguate verifiche empiriche- che tutte le etnie in cui l'umanità si è venuta distinguendo, sarebbero passate attraver, . so una medesima linea di sviluppo, segnata da tapunantropo1ogm . d .d . ..l evoluzionistica pe success1ve proce entl a un llllZla e e comune stato selvaggio. Ciò faceva ritenere che fosse possibile ricostruire la conoscenza dei popoli preistorici sulla base dell'osservazione delle popolazioni primitive oggi esistenti, che, infatti, non sarebbero state altro che un esempio, appunto, di stato arcaico di sviluppo.
~r·:ii).· .
risal~on? ~Ha
Se lo schema evoluzionistico unilineare seguito dagli antropologi evoluzionisti, che abbiamo già detto aprioristico ed empiricamente poco giustificato, corrispondeva alla convinzione pseudoscientifica della superiorità della civiltà dell'uomo bianco europeo, assunta come punto d'arrivo della evoluzione dell'umanità, questo non significa che essi avvalorassero le opinioni razziste, messe in circolazione da scritti fantasiosi e «patologici» come quello, datato 1854, E . . • • ) .VO1UZIOIIISmO d1 Joseph Arthur de Gobmeau (1816-1882 , Sag- unilaterale 0 gio sull'ineguaglianza delle razze umane, che razzismo tanta influenza avrebbe avuto sul formarsi delle teorie razziste del nazismo. Aveva anzi un significato antirazzista il presupposto caro all'antropologia evoluzionistica, di una unità psichica comune all'intero genere umano, da cui discendeva che le differenze culturali tra un'etnia e l'altra sarebbero da considerare quali effetti di un loro ineguale stadio temporale di sviluppo, e non già un riflesso di ineguali capacità congenite. Tra tutti gli studiosi di quest'epoca il più significativo, accanto a Tylor, è senz'altro l'americano Lewis Henri Morgan (1818-1881), autore di un celebre La società antica del1877, che tanta influenza avrebbe esercitato su Marx e soprattutto su Engels (v. CAP. 16*, PAR. 10.2). Fondandosi sull'uso del metodo comparativo, consentito dall'ipotesi dello sviluppo unilineare dell'umanità, egli, dallo studio delle tribù irochesi dell' America settentrionale, aveva tratteggiato uno schema di sviluppo dei gruppi umani cadenzato in tre M . da un certo organ stad1,. ognuno de1. qua11. carattenzzato tipo di economia e da determinati rapporti di parentela. Ad uno stadio selvaggio originario, basato sulla caccia e sulla raccolta, sarebbe seguito uno stadio barbarico, in cui sarebbero stati introdotti l'allevamento e la coltivazione, fino all'inizio dello stadio civile, segnato dall'introduzione della macchina. Il merito maggiore da riconoscersi a Morgan è senza dubbio quello di aver dato inizio, con uno scritto del 1871,
Sistemi di consanguineità e di affinità nella famiglia
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PARTE TERZA AI CONFINI DELLA FILOSOFIA
cn o m 1gene, e~senz1a mente ora11, e qum ~ esposte ad una rap1da scomparsa sotto la presstone dell'invadente civiltà occidentale. Egli stesso avrebbe condotto svariate ricerche presso gli eschimesi e tra gli indiani della Columbia britannica. Naturalmente, tutto ciò comportava, contro il deduttivismo della precedente tradizione di studi, la rivendicazione della necessità di aderire ad un severo procedimento induttivo, che rompesse con le grandi ipotesi indimostrabili. Boas accetta il punto di vista «diffusionista», ma anche in questo caso con una sana diffidenza per ogni suo irrigidimento dogmaticamente sistematico. Pertanto egli condivide il metodo secondo cui, in Dilfusionismo e d' d l . . . , vero e proprio «stile di vita», insieme affettivo e ideologico, sul quale si modellano le istituzioni e i comportamenti degli individui a quel popolo . . appartenenti, e che l'antropologo avrebbe il comBene d1ct: 1 • d" . . d ,. modelli di ptto. ~ «n~tyere» a11 .mterno attraverso un.a sor: cultura ta dt mtmzwne estetica. Anche la Benedtct, s1 pone, come Kardiner, la domanda di come e fino a qual punto il modello sociale venga interiorizzato dall'individuo, ed è tra i primi antropologi ad affrontare il problema delle malattie mentali, che riconosce tali, non in quanto comportamenti presi in se stessi, bensì relativamente alla cultura d'appartenenza del malato, rispetto alla quale esse costituiscono una forma di «devianza». Ella sostiene che individui considerati anormali in una cultura, potrebbero in un'altra esser giudicati del tutto normali. La Mead, anch'essa scolara di Boas e della stessa Benedict, è autrice di libri famosi e importanti, dal giovanile ma già significativo L'adolescenza in Samoa del 1928 a Maschio e femmina del 1949. L'interesse di questa ricercatrice, impegnata in indagini in Oceania e nella Nuova Guinea, è concentrato soprattutto sui temi della sessualità, che affronta attraverso un'ottica decisamente culturalistica.
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Studiando i comportamenti dei fanciulli e in particolare delle fanciulle samoane nel passaggio dell'adolescenza, la Mead scopre che questa età, così problematica e critica presso gli adolescenti occidentali, trascorre serena e priva di turbamenti a Samoa, sicché ne esce smentita l'idea che vorrebbe le difficoltà psicologiche della pubertà provocate da fattori biologici. Viene confermata viceversa la tesi secondo cui i comportamenti degli individui sarebbero condizionati esclusivamente dai modelli culturali dominanti in una determinata società. Facendo riferimento esplicito a Freud, la Mead sostiene che durante l'età evolutiva l'individuo viene assimilando, in modo prevalentemente inconscio, i caratteri e valori della cultura dominan- Mead: comportamenti te che, quando siano, come avviene nelle società individuali e più complesse, molteplici e magari tra loro con- modelli traddittori, pongono le premesse dell'esplodere culturali delle nevrosi che, invece, sono ignorate nelle società più semplici, nelle quali la struttura biopsichica dell'individuo può adeguarsi ad un modello unico e coerente di comportamento, non inducente sollecitazioni discordanti e disorientanti. Anche le differenze di comportamento tra maschio e femmina, che sembrerebbero fondate su predisposizioni biologiche, vengono considerate dalla antropologa statunitense indotte da una istituzionalizzazione dei ruoli femminile e maschile imposta dalle diverse culture. La scuola di «personalità-cultura» ha avuto tra gli altri il merito di aver favorito la nascita dell'etno-psichiatria, un interessante filone di ricerca, cui ha dato vita una non facile collaborazione di antropologi e psichiat~i. _Il problema into~no al ~uale. è sorta L'etna· questa dtsctphna e che, a parttre dagh anm Sessan- P51·chiatria ta, ha dato vita ad accesi dibattiti nei congressi internazionali di psichiatria e psichiatria sociale, è quello del criterio secondo cui stabilire una linea, quanto si voglia mobile e flessibile, che consenta di distinguere il «normale» dal «patologico». Antropologi e psichiatri partivano spesso da premesse assai lontane tra loro: se i primi - si pensi alla Benedict- erano orientati almeno inizialmente a ricondurre le cosiddette malattie mentali a fattori esclusivamente culturali, per cui il «malato» non sarebbe che un «deviante», incapace di adeguarsi ai modelli culturali della società di appartenenza, gli psichiatri a loro volta, soprattutto quelli organicisti (v. PAR. s.z), impermeabili alla influenza delle teorie psicodinamiche intro. . .. b' . d . Antropo1ogm e dotte da11 a pstcana 11St, erano a 1tuat1 a app1tcare psichiatria le loro rigide classificazioni diagnostiche, costruì- organicistica te sulla base dei valori assolutizzati del proprio mondo culturale, anche a comportamenti dettati da culture diverse. E così, per esempio, gli stati di «trance» caratteristici dei riti di «possessione», che nella cultura occidentale vengono facilmente giudicati come casi patologici interessanti appunto lo psichiatra, rivelano, presso certe tribù africane oppure a Bahia ed a Rio, di
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SEZIONE SECONDA. LE SCIENZE UMANE DEL NOVECENTO CAPITOLO 28
essere manifestazioni .
tanto i primitivi non si preoccupano di ricercare, come noi facciamo, le connessioni causali, ciò dipende dal fatto che le loro rappresentazioni collettive evocano immediatamente l'azione di forze mistiche. Eguali alle nostre sono le impressioni sensibili da cui i primitivi partono, ma subito la loro mentalità «opera una svolta brusca e si mette su un cammino che noi non prendiamo». Per questo è così difficile per noi comprenderla. In conseguenza delle numerose critiche mosse contro questa così netta separazione tra mentalità primitiva e pensiero «civile», Lévy-Bruhl avrebbe in seguito modificato parzialmente le proprie enunciazioni, come attestano in particolare I quaderni, pubblicati postumi nel 1949. Non di una vera e propria . separazione si tratterebbe, bensì del fatto che, Att . .. pur essendo presenti. ne l pnm1t1vo amb ed ue le delenuazrone dualismo logiche - così come, del resto, nell'uomo cosiddetto civile-, in esso prevarrebbe la mentalità mistica su quella, per così dire, naturalistica, cui peraltro anche il primitivo ubbidirebbe, ogni volta che non sia in giuoco l'evento magico e l'azione sovrannaturale. Oltre che nel settore antropologico, nel quale è stato soprattutto suggestivo l'invito ad avvicinare il mondo primitivo rispettandone l'alterità e sforzandosi di mettersi nella sua ottica, le intuizioni di LévyBruhl hanno esercitato una sensibile influenza anche sulla psicologia e sulla psichiatria del secolo, per aver egli insistito sulle affinità che sussisterebbero tra i comportamenti del primitivo e quelli del bambino e del malato mentale.
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Capitolo QE:":C'""", «numinoso». È davvero una diversissima origine culturale che divide i due grandi della psicologia del profondo: Freud, il positivista, che conosce solo i determie Freud: nismi causali e intende la scienza dell' «anima» Jung una diversa alla stregua delle scienze naturali; Jung, lo spiri- appartenenza tualista, che è «andato a lezione» di Dilthey, ac- culturale cogliendone la distinzione netta tra lo «spiegare» delle scienze della natura e il «comprendere» delle scienze dello spirito (v. CAP. 2, PAR. 6)
2.4
Jung: la struttura della personalità a veniamo ora ad illustrare il modo junghiano, assai complesso, di concepire la struttura della personalità, o psiche, come Jung preferisce dire. Egli comincia col distinguere tre livelli o sistemi, separati tra loro ma interagenti: l'>, indotta dalla struttura sociale in cui esso si trova a vivere, e che è compito non facile della terapia analitica sciogliere, onde liberarne le energie imprigionate dell'uomo. Essa è èostituita di più strati, fungenti da linee di difesa inconsce nei confronti degli impulsi non tollerati dalla società, e che rendono rigida e stereotipa la condotta della persona: uno superficiale, che rende disponibile l'individuo nei confronti del ruolo e delle responsabilità che riveste nella vita sociale, un altro sottostante, corrispondente al rimosso freudiano, costituito dagli impulsi aggressivi e perversi conseguenti alla repressione sociale. Più profondo ancora, si nasconde il «nucleo biologico» costitutivo della natura originaria dell'uomo, soffocato dalle strutture sovrastanti. Su queste premesse teoriche, Reich conduce a Vienna e soprattutto a Berlino la sua battaglia per la liberazione sessuale. Nel 1931 promuove «Sexpol», l'Associazione per una politica sessuale proleta- 8 1 · che sare bb e gmnta · · · >, caratteristica dei primi quattro mesi di vita, dopo i quali subentrerebbe la «posizione depressiva», destinata a sopravvivere per tutto il primo anno di età. Quest'ultima è caratterizzata dal fatto che l'oggetto non è più parziale poiché la madre è percePosizione pita come oggetto totale, la scissione tra oggetto paranoide 0 buono e oggetto cattivo svanisce, sicché pulsione posizione libidica e pulsione di morte si riferiscono al me- depressiva desimo oggetto. L'angoscia sorge, questa volta, dalla percezione fantasmatica della possibilità di distruggere la madre, a causa della pulsione sadica di cui essa anche è oggetto. I disturbi nevrotici e psicotici del bambino più grande e dell'adulto dipenderebbero, secondo la Klein, dal ripresentarsi, non superate, di queste «posizioni» della primissima infanzia.
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PARTE TERZA AI CONFINI DELLA FILOSOFIA
Aspetti della psichiatria contemporanea 3.1
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La psichiatria ottocentesca ià discorrendo dell'opera rinnovatrice di Philip- todo clinico-descrittivo, è lo psichiatra tedesco, autope Pine} (V. CAP. 9*, SCHEDA: PINEL E LE ORIGINI DELLA re nel1883 di un celebre Manuale di psichiatria, cui si PSICHIATRIA), abbiamo accennato ai difficili esordeve un sistema di classificazione delle malattie mendi della psichiatria tra la fine del Settecento e i tali che avrebbe a lungo influenzato la psichiatria, primi anni dell'Ottocento. Potremmo far riferi- anche ben dentro il corso del Novecento. Egli distinmento anche all'opera del medico italiano Vincenzo gue le patologie mentali in due grandi quadri princiChiarugi (1759-1820), autore del primo trattato italia- pali: da una parte la «dementia praecox», la «catatono di psichiatria, Della pazzia in genere ed in ispecie nia» e l' «ebefrenia», destinate a concludersi nel decadel1793, e direttore dell'ospedale psichiatrico Sanbo- dimento della personalità, ossia nell'idiozia, e dall'alnifazio di Firenze, nella quale città egli tenne il primo tra la «psicosi maniaco-depressiva», non destinata incorso universitario di psichiatria. vece a questo esito distruttivo. Coerentemente organiIl primo compito cui dovette assolvere la psichia- cista, egli faceva risalire queste malattie a cause escluKraepelin: tria ottocentesca fu quello della classificazione sivamente endogene, attinenti a patologie cerebrali o classificazione a disfunzioni metaboliche. Nonostante gli indubbi delle sindromi delle diverse sindromi (famiglie di sintomi) psicosuoi contributi alla chiarificazione nosologica delle psicopatolo· patologiche, al di là della distinzione abbastanza giche ed ovvia tra «pazzia», che interviene nel corso delsintomatologie, Kraepelin considerava ancora il maeziologia la vita di un individuo normale a sconvolgerne lato mentale come se fosse una specie a parte, tanto organicistica e deteriorarne la mente, e «deficienza mentale» da far apparire, come è stato detto, l'ospedale psichiache segna un individuo fin dalla nascita. Oltre che dal trico quasi alla stregua di un giardino zoologico. carattere descrittivo-classificatorio, la psichiatria otto- Quanto poi al criterio prognostico secondo cui distincentesca è poi contrassegnata da una dominante ten- guere le forme psicotiche, non solo esso appare non denza organicistica a ritenere che, anche in assenza di corretto scientificamente, ma ha valso per lungo temlesioni cerebrali rilevabili all'osservazione, la malattia po a rafforzare l'idea fatalistica, poco propizia allo mentale sia determinata da modificazioni neurologi- · sviluppo degli sforzi terapeutici, che certe malattie che, e pertanto sia una malattia somatica. mentali, come la demenza precoce, fossero sostanzialEmil Kmepelin (1856-1926), sostenitore del me- mente incurabili.
3.2
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La psichiatria e la psicanalisi avvento della psicanalisi ha rappresentato anche nella storia della psichiatria un momento decisivo di svolta e di rinnovamento, al punto che oggi non è più pensabile uno studio e un intervento psichiatrico che non si valgano del punto di vista psicodinamico. Nonostante che Freud si fosse interessato solo marginalmente delle psicosi e ritenesse inapplicabile la terapia psicanalitica ai malati mentali per la difficoltà di stabilire con loro un rapporto colloquiale e di mettere in atto il transfert affettivo, gli sviluppi successivi della psicanalisi - si pensi, per fare un solo esempio, all'opera della Kleinhanno reso possibile l'estensione, anche alle patologie psicotiche, di interpretazioni psicogenetiche, alternative o integrative di quelle somatiche. Il rapporto degli psichiatri con la psicanalisi non
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è stato certamente facile, soprattutto agli inizi, quando il radicato orientamento organicistico li spingeva a rifiutare in blocco le teorie freudiane come una . 1nterven11 . d . . 'd . . h' d'ff d sor~a 1 anno~t~stma «ept emta pstc tca» 1 u- psicoterapeutici sast nella medtcma; ma progresstvamente anche in psichiatria nella clinica psichiatrica si è venuto adottando procedimenti psicoterapeutici, magari in alternanza con le tradizionali terapie elettrocovulsivanti e, più recentemente, con gli psicofarmaci. Tra i primi ad aprirsi ad un rapporto collaborativo con la psicanalisi nascente è lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler (1857-1939), direttore dell'ospedale psichiatrico BurghOlzli di Zurigo, al quale abbiamo già accennato trattando dell'opera di Jung, di cui nei primi anni del secolo era stato il maestro. È stato merito di Bleuler modificare in modo sostanziale l'in-
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terpretazione kraepeliniana della demenza precoce, individuandone il carattere principale nella dissociazione delle varie funzioni psichiche, e perciò dandole il nome, tuttora in vigore, di «schizofrenia». A lui si deve lo studio nella patologia psicotica, oltre che del tipo particolare di pensiero e di comportamento dello schizofrenico che chiama «autismo», anche dell'ambivalenza, il che evidenzia come
L'opera di Bleuer
Il ritratto di Dorian Gray di I. Le Lorraine Albright.
nello schizofrenico sia tutt'altro che assente la dinamica affettiva. Pur tentando di utilizzare, anche per la spiegazione della sintomatologia psicotica, molti dei meccanismi con cui Freud aveva spiegato l'insorgere dei sintomi nevrotici, Bleuler rimase però sempre incerto sulla eziologia della psicosi, ritenendo si possibile che la causa dei sintomi fosse di natura psichica, ma senza abbandonare mai l'idea dell'origine organica della malattia in se stessa. Chi, tra gli psichiatri provenienti dalla scuola di Breuler, ha dato un importante contributo agli scambi tra psichiatria e punto di vista psicodinamico è senza dubbio Jung, innanzitutto per aver ipotizzato che alcn CL. l'origine della malattia schizofrenica vi fosse l'azione di un «complesso» (v. PAR. 2.4 J capace per la sua fortissima carica emotiva di sopraffare la coscienza, ma Jung: anche di provocare processi metabolici patologici dinamiche responsabili a loro volta di causare danni difficil- psichiche e mente reversibili al cervello, con i riflessi sulle danni cerebrali funzioni psichiche superiori che si rilevano nel quadro della schizofrenia. Non una patologia organica sarebbe, dunque, alla prima origine del disturbo psichico, come vorrebbe la psichiatria organicistica, ma, all'inverso, una dinamica psichica sarebbe responsabile dei danni cerebrali probabilmente soggiacenti alla patologia psichiatrica. Jung ha offerto anche un contributo interessante alla descrizione della personalità anormale con la sua distinzione dei tipi psicologici (v. PAR. 2.4), che riconosce nello schizofrenico il tipo introvertito e, viceversa, nell'isterico il tipo estrovertito. Anche di qualche r· . . 1 •• · Jung · h'1ana tra le 10rmac OQICI n.1evanza e, la connesswne eIPIJJSICO riproduzione zioni fantasmatiche dello schizofrenico e la ripro- degli archetipi duzione degli archetipi dell'inconscio collettivo (V. PAR. 2.4), anche se questo induce lo psichiatra svizzero a privilegiare unilateralmente i fattori endogeni della malattia mentale, rispetto all'influenza dei fattori ambientali e sociali. Un caso interessante di procedimento psicanalitico che, pur rielaborato in modo originale, mostra invece di essere capace di risalire al «vissuto» del malato, consentendo al terapeuta di riviverlo in qualche modo insieme con il paziente, è, viceversa, quello rappresen. tato dalla tecnica terapeutica elaborata dalla psi- L' espenmento . sv1zzera . M arguen.1e Sechehaye ne l trat- della canal1sta tamento di una giovane schizofrenica, conclusosi sechehaye con la guarigione di questa. Il documento, estremamente significativo, di questa esperienza è costituito dal Diario di una schizofrenica, pubblicato nel1950 sotto il nome della Sechehaye, ma in realtà frutto della collaborazione della stessa paziente che, una volta guarita, rievoca la storia della propria malattia. La tecnica, messa in opera dalla psichiatra svizzera, e da lei denominata tecnica della «realizzazione simbolica» ·_ sotto questo titolo era già apparso nel
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PARTE TERZA AI CONFINI DELLA FILOSOFIA
194 7 uno scritto teorico della Sechehaye -, era consistita nell'utilizzazione, al fine di stabilire un contatto con l'inconscio di Renée, e in sostituzione di un impossibile c'olloquio verbale con lei, di gesti fortemente carichi di significato simbolico e di forza rievocativa del «vissuto» della malata. Costei, psicologicamente regredita alle condizioni di vita dei primi mesi dell'infanzia, aveva il desiderio di «prendere il latte» dalla madre-analista, ma insieme, sotto la
3.3
coazione del «vissuto» rimosso del suo passato reale di lattante, avvertiva tale desiderio come La tecnica della rea· colpevole e gravido di angosciose minacce. Il ge- lizzazione sto col quale la terapeuta offre a Renée una me- simbolica la - simbolo del seno materno! - da mangiare, rappresenta l'inizio del viaggio della guarigione, della restituzione di Renée alla «meravigliosa realtà». Quello che Renée stessa chiama «il miracolo delle mele».
················::·:::::::::::::::::!:::::::··· ..
La psichiatria fenomenologico-esistenziale stilità e riserve nei confronti della psicanalisi non dovevano provenire soltanto dalla psichiatria tradizionale; la psicopatologia fondata da Jaspers (v. CAP. 20, PAR. 2) e, soprattutto, la psichiatria a indirizzo fenomenologico-esistenziale promossa da discepoli di Bleuler, come lo svizzero Ludwig Binswanger (1881-1966) e il francese di Una origine polacca Eugen Minkowski (1885-1972), prospettiva l>sicodinamica hanno rimproverato alla psicanalisi, di cui peralantifreudiana tro hanno condiviso la prospettiva psico-dinamica, l'adozione di un metodo naturalistico che, oggettivando la personalità del paziente, impedirebbe di comprenderne il «vissuto» interiore. Già la Psicopatologia generale del 1913 di Jaspers, aveva rappresentato, sotto l'influenza di Dilthey ma anche di Husserl, il primo tentativo di una «psicologia descrittiva» degli stati d'animo dei malati mentali, in cui, però, veniva mantenuta la separazione, estranea alla fenomenologia, della sfera soggettiva dall'oggettività. Sono invece Binswanger e Minkowski a dar vita ad una vera e propria indagine . fenomenologico-esistenziale dell'esperienza psiBms~~anger ~ chica «anormale». Gli scritti più significativi del Mmkowslu . . fienomenolog1ca . pnmo sono p er un ,antropo logza del1955, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo e Ricordi di Sigmund Freud, ambedue del1956, e Melanconia e mania. Studi fenomenologici del 1960. Quanto a Minkowski, ricordiamo Studio psicologico e analisi fenomenologica di un caso di melancolia schizofrenica del 1923, Il tempo vissuto del1933 e, infine, il Trattato di psicopatologia del 1966. I due psicologi rifiutano sia l'organicismo della psichiatria tradizionale che la psicanalisi. A questa . rimproverano una visione naturalistica e mecca,. Rl~resa. nicistica della vita psichica, per cui l'uomo viene deIl 1n1enzmna 1 l· 'd l d' .h . h' h tà husserliana n otto a natura e e sue mamtc e pstc tc e della coscienza vengono spiegate secondo lo stesso principio causale adottato dalle scienze oggettive in ordine ai fenomeni naturali. In tal modo ci si lascerebbe sfuggire la dimensione globale del comportamento umano,
solo all'interno del quale sono dati i fenomeni psichici e psicopatologici, e in particolare il carattere progettuale dell'esistenza dell'uomo. Soltanto l'assunzione del punto di vista husserliano della coscienza intenzionale e dell'intuizione delle essenze eidetiche consentirebbe di comprendere i significati inerenti ai «vissuti» degli altri. Mentre Binswanger coniuga, nella propria Daseinsanalyse (analisi dell'esserci), il riferimento ad Husserl con la teoria heideggeriana dell'essere-nel-mondo (v. CAP. 17, PAR. 4), Minkowski pone al centro della propria indagine psichiatrica l'attenzione al «tempo vissuto», operando una singolare connessione tra la fenomenologia e la dottrina del tempo di Bergson (V. CAP. s, PAR. 2), resa possibile dall'essere ambedue queste teorie centrate sulla visione dei «dati immediati». Intorno al tema heideggeriano della «possibilità dell'esistenza di darsi alle sue possibilità», Binswanger costruisce la sua interpretazione delle malattie mentali come di possibilità esistenziali mancate, «forme di fallimento, di mancata riuscita dell'e- La malallia sistenza umana». Solo in questa prospettiva il mentale come fallimento di sintomo p~icotico, incomprensibile e insensato possibilità all'osservazione esterna e neutrale dello psichia- esistenziali tra tradizionale, rivela senso ed appare intelligibile, una volta restituito a segno del progetto esistenziale fallito del paziente. Non è vero che questi, come ha pensato Freud, si sia ritirato narcisisticamente in un'egocentrica solitudine; i suoi comportamenti stereotipi e mascherati sono piuttosto il segnale di modalità inadeguate di comunicazione, di un «essere nel mondo» e di un «essere-con-gli-altri» irrigiditi, che hanno fallito come possibilità di libertà. Compito del terapeuta allora è quello di stabilire con il paziente quel rapporto profondo di empatia che consenta la comprensione dell'intenzionalità comunicativa del sintomo. Minkowski, a sua volta, cerca la spiegazione della situazione schizofrenica in una profonda alterazione della percezione del tempo interiore congiunta ad un vacillare del fondamento dell'edificio psichico che,
568
SEZIONE SECONDA. LE SCIENZE UMANE NEL NOVECENTO CAPITOLO 29
Tempo vissuto e blocco dello slancio vitale
ancora con Bergson, egli individua nello «slancio vitale» rivolto verso l'avvenire. Lo schizofrenico percepisce il tempo come frantumato e uniforme, e il suo fluire come impedito dalla minaccia di un
evento catastrofico che sta per abbattersi sulla sua vita, sicché anche lo slancio verso l'avvenire è bloccato e impossibile la formazione di desideri e la stessa azione.
3.4
Dalla psichiatria sociale all' «an ti psichiatria» uello della psichiatria sociale è un indirizzo relativamente recente- il primo congresso internazionale si è tenuto nel1964 -, fondato sulla convinzione che i condizionamenti dell'ambiente sociale abbiano un'efficacia determinante per la salute psichica degli individui e nell'insorgere dei disturbi nevrotici e psicotici, così come anche per l'attivazione di efficaci procedimenti terapeutici. Come dire che, se di società ci si ammala, di società si può, però, anche guarire. Una prima anticipazione di questo orientamento è rintracciabile nell'opera dello psichiatra statunitense Harry Stack Sullivan (1892-1949), la cui strategia teorica, esposta in Teoria interpersonale della psichiatria del1953, è consistita nel subordinare l'attenzione dello studioso della personalità rivolta ai rapporti e ai conflitti «intrapsichici», alla considerazione dei rapporti e dei conflitti «interpersonali», considerati prioritari nella determinazione del destino dell'individuo. Più esattamente, egli, ponendosi agli antipodi Sullivan: conflitti delle posizioni di Jung, negava addirittura che vi interpersonali e fosse qualcosa di intrapsichico, in quanto tutto 1>sicosi della vita psichica di un individuo, pensieri fantasie sentimenti, avrebbe la sua origine nei suoi rapporti interpersonali. In particolare, Sullivan sottolineava l'importanza dei rapporti intrafamiliari tra genitori e figli, e riteneva che i disturbi psichici, comprese le psicosi, avessero la loro origine nel carattere insoddisfacente di questi rapporti. Il limite maggiore dell'impostazione sullivaniana è sembrato consistere nel mancato interesse di questo psichiatra per l'influenza che la società nel suo insieme, al di là delle specifiche relazioni familiari, esercita anche sull'insorgenza delle malattie mentali. Una vera e propria psichiatria sociale doveva svilupparsi successivamente, ad opera di autori francesi come Roger Bastide (1898-1974), sociologo ed antropologo, autore nel 1965 di una Sociologia delle ~:~~c~~~~~~ malattie mentali, e di psichiatri americani, come teoria del Gregory Bateson ( 1904-1980), cui fa riferimento «doppio la celebre scuola di Palo Alto in California. Gli legame» studiosi californiani hanno ripreso e sviluppato, in particolare, la teoria di Bateson del «doppio legame», quale strumento utile alla spiegazione della genesi del disturbo mentale. Essa consiste nell'ipotiz-
zazione di una situazione in cui tra due persone strette da un rapporto intimo di convivenza- come potrebbe essere quello intrafamiliare - passi una comunicazione caratterizzata dalla contradittorietà di messaggi che l'una di esse invii ripetutamente all'altra - del tipo: «tu non devi mai credere a quello che ti dico». La persona destinataria del messaggio è messa nella condizione di non poter replicare al doppio messaggio e di accumulare un senso così intenso di incertezza e un'ansia talmente forte da poter dar luogo a comportamenti di tipo psicotico. Se l'ambiente sociale debba essere considerato una invariante, cui l'individuo psichicamente disturbato abbia in qualche modo ad adattarsi, onde recuperare la salute mentale, o viceversa questa richieda una trasformazione delle strutture sociali, ha costituito la problematica che spesso si è trovata al centro del dibattito interno agli studi di psicologia e psichiatria sociali. E questo concorre a spiegare come dallo sviluppo della psichiatria sociale possa essersi sviluppato, durante gli anni Sessanta e Settanta, quel movi- Dalla psichiatria mento, piuttosto eterogeneo al suo interno, cui si sociale all'an· è soliti dare il nome, in certi casi deviante, di tìpsìchìatrìa «anti-psichiatria». Esso ha avuto in personaggi come il sociologo statunitense Erving Goffman (1922), lo psichiatra ungherese ma di formazione americana, Thomas Szasz (1920), i francesi Gilles Deleuze ( 1925) e Fèlix Guattari (1930-1992), autori nel1972 de L 'Anti-Edipo, in cui conducono addirittura una difesa filosofica della schizofrenia, ma soprattutto negli psichiatri inglesi Ronald David Laing (1927-1989) e David Cooper (1931-1986), i suoi esponenti più significativi. Nel movimento antipsichiatrico sono distinguibili due componenti, peraltro inseparabili, l'una di natura pratica ed antiìstituzionale, consistente nella critica dell'organizzazione manicomiale, l'altra teorica, impegnata nella messa radicale in discussione del concetto di malattia mentale, corrente nell'opinione comune e nel «sapere» psichiatrico. Quanto al primo aspetto, esso ha avuto il suo esordio nel saggio di Goffman, Asylums del 1961, nel quale l'autore circoscrive il concetto di «istituzione totale» - carcere o manicomio che sia - come del regime chiuso e formalmente organizzato, in cui gruppi di persone, tagliate fuori dalla società per un considere-
569
PARTE TERZA AI CONFINI DELLA FILOSOFIA
vole periodo di tempo, sono costrette a vivere perché «diverse» e socialmente· indesiderate. Il movimento antipsichiatrico ha sostenuto che il manicomio, lungi dall'essere un luogo di cura, risponde ad esigenze di natura «politico-sociale», assolve ad una funzione Cf) meramente custodialistica, ed è responsabile di C'L. La lotta un processo di reificazione dell'internato, le cui 1--contro sofferenze psichiche, invece di essere curate, venz l'istituzione C;;:,;;;>A1t:W&\:
Il regime nazista e il controllo dei mass-media
274
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
282
316
316 Una filosofia dell'esistenza La carriera intellettuale. Il nazismo e la colpa della 318 Germania Dall'«essere-nel-mondo» al «naufragio» 319 dell'esistenza
l
3 SCHEDA
0
0
Hiroshima 1945
320
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTI INTERDISCIPLINARI
324
Capitolo 1 8 - - - - - - - - - - - - -
l.l 1.2
1.3 1.4
1.5 1.6 1.7 1.8 1.9
2.1 2.2 2.3 2.4
2.5 SCHEDE
Heidegger, Gadamer e l'ermeneutica Heidegger (1889-1976): il pastore dell'essere Esistenzialista o ontologo? La formazione giovanile. L'incontro con Husserl La domanda sull'essere e l'esistenza L' «essere-nel-mondo»: «finché esso vivdo possieda la Cura» Il banale e l'autentico. «Essere-per-la morte» Temporalità e storicità: «destino», «tradizione», «popolo» Heidegger e il nazismo: una grande filosofia e la barbarie La metafisica occidentale e !'«oblio dell'essere» L'ultimo Heidegger: «ormai solo un Dio ci può salvare» Gadamer (1900! e la filosofia ermeneutica. L'uomo: un «animale interpretante» Ermeneutica: da «arte» dell'interpretazione a antologia filosofica Le premesse di un'antologia ermeneutica La teoria dell'esperienza ermeneutica Essere e linguaggio L'ermeneutica come «filosofia pratica»
284
Capitolo21 _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _~-
284 285 286 287 291 294 294 298
l
2 3 4 5
0
327 329 333 336
325
Il Concilio Ecumenico Vaticano Il Simone Weil: tra passione politica, contraddizioni, ricerca dell'assoluto
330
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
342
340
Capito/o22 _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ __
:;;;p;i;';Ct+>Pt~'\\/\\?1'
La morte a Ulsgaard La notte dei lunghi coltelli
325
Un paese dai grandi contrasti politici e culturali Maritain (1882-1973): da Bergson a Tommaso d'Aquino Mounier (1905-1950): un cristiano scomodo Marcel (1889-1973): l'essere come «mistero» Merleau-Ponty (1908-1961): il mondo come ambiguità
SCHEDE'··
300
302 303 305 307 308
La filosofia francese tra le due guerre ed oltre. Personalismo cristiano, esistenzialismo, fenomenologia
288 296
585
Sartre (1905-1980): • • una vita tra i libri, un uomo tra gli uommt 343 L'infanzia e l'alienazione nelle parole 343
li
INDICI
344 Alla ricerca del concreto 345 La scoperta di Husserl Gli scritti di psicologia fenomenologica. 346 L'immaginazione. La nausea 346 L'essere e il nulla La svolta del dopoguerra: i rapporti con i comunisti 351 354 Esistenzialismo e marxismo «Questioni di metodo» e «Critica della ragione 356 dialettica» Il «Maggio» francese e il post-marxismo sartriano 360
2 3 4 5 6 7 8 9
SCHEDE ,
8
Budapest 1956 l dannati della terra
352 358
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTI INTERDISCIPLINARI
361
4 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 6.1 6.2 6.3 6.4 6.5 6.6 7 8
Capitolo
23------------Lo strutturalismo: ossia la «ragione nascosta» Lévi-Strauss 0908): «il·gesto di dissolvere l'uomo» Lacan (1901-1981): la «cosa» freudiana Foucault (1926-1984): forme di sapere e sistemi di potere
9.1 9.2 362' . 9.3 362 99.5.4 364 9.6 368 10.1 372 10.2
La Quinta Repubblica francese
370
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTI INTERDISCIPLINARI
377
Lo strutturalismo nella generazione post-sartriana francese 2
3 4
,
o
SCHEDA
8
391 Lukacs (1885-1971): un comunista tra umanesimo e stalinismo Un uomo di cultura mitteleuropea 392 Il primo marxismo lukacsiano. Il recupero della totalità 393 L'autocritica. Un «gesuita della rivoluzione»? 396 Il secondo marxismo lukacsiano 398 Il terzo marxismo lukacsiano 402 Bloch (1885-1977!: utopia e speranza nel comunismo Un percorso del tutto singolare 404 L'utopia concreta e il marxismo 405 Hegel e la «malia dell'anamnesi» 406 Speranza e fenomenologia dell'«utopico» 407 Speranza e materia 408 La promessa del serpente. Marxismo e cristianesimo 412 Mao Tse-Tung (1893-1976): il marxismo di una rivoluzione contadina 413 Sweezy (1910): la rivoluzione emigra nel Terzo Mondo 417 Althusser (1918-1990!: un nuovo modo di leggere Marx Il rifiuto del marxismo umanistico e storicistico 419 Rapporti con lo strutturalismo 421 La struttura sociale 422 Contro il teoricismo: la politicità della filosofia 423 Dopo il '68. Gli apparati ideologici di stato 424 Critica dello stalinismo 425 Crisi o dissoluzione del marxismo? La dissoluzione del marxismo d'opposizione dell'est 425 Marx e la fine del «socialismo reale» 428 Il marxismo occidentale
SCHEDE:.,::,·>,
8
«Gramsci vivo)) l processi di Mosca Un diario ungherese Leggere Marx in Urss
384 400 410 426
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
431
Le vie occidentali del marxismo Capitolo
24--------------Il marxismo dall'età della Terza Internazionale al crollo del «socialismo reale»
l
2 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5
Il marxismo-leninismo: una filosofia di stato La Terza Internazionale
Gramsci (1891-1937!: un precocissimo critico dello stalinismo Un marxista creativo Una vita aspra Le «casematte» della società. Una riforma intellettuale e morale La funzione degli intellettuali. Il «moderno Principe» Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce
380 380 381
Capitolo
l
2 3 4
382 383
5.1
386
5.2 5.3 5.4
387 389
5.5
586
25-------------La scuola di Francoforte. Gli intellettuali «disorganici» del marxismo 433 Le origini della scuola 433 Capitalismo di stato e totalitarismo 434 I francofortesi, il marxismo ed Hegel 436 Teoria critica della società e psicanalisi 438 Horkheimer (1895-1973) e Adorno !1903-1969! La «Dialettica dell'illuminismo»: dalla «ratio» cartesiana alle tragedie del XX secolo Horkheimer post-marxista Adorno: musica e società Adorno: la critica antipositivistica e il dissenso da Husserl ed Heidegger Adorno: l'arte e la sua funzione utopicorivoluzionaria
439 443 444 445 446
INDICE GENERALE
Marcuse (1898-1979!: l'uomo tra integrazione e utopia Tra Hegel e Marx Tra Marx e Freud L'uomo unidimensionale L'ultimo Marcuse Habermas 0929!: per una ragione critica I rapporti con la scuola di Francoforte La critica del neo-positivismo e della ragione tecnologica L'agire comunicativo La «ricostruzione» del materialismo storico Per una nuova razionalità
6.1 6.2 6.3 6.4 7.1 7.2 7.3 7.4
7.5
458 459 460 460 462
,, __:.\.
SCHEDE
0
447 449 454 456
Arnold Schonberg Auschwitz
440 452
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
463
Capitolo
La teologia cattolica l 2 3
Il modernismo I nuovi fermenti in Germania e Francia Teilhard de Chardin (1881-1955): il rapporto tra evoluzione e teologia Rahner 0904-1984): la teologia antropocentrica von Balthasar (1905-1988): la teologia estetica Metz (1928): la teologia politica La teologia della liberazione Verso un futuro ecumenico: le teologie dai «terzi» mondi
4 5 6 7 8
Ai confini della filosofia
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
507
3.1 3.2 4.1 4.2 4.3 5.1 5.2
5.3 6 7.1 7.2
., 1
-
2t . - h; t:r} a•·~~ d;' ··~··~
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ii.~ l~
Linguistica, sociologia, scienza del diritto e della politica, antropologia culturale 510
26 _____________
SCHEDA ••'
0
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Capitolo
468 468
Introduzione Barth 0886-1968!: la teologia dialettica 469 «L'Epistola ai Roinanh) L'opposizione al nazismo e la «Dogmatica 470 ecclesiale)) Bultmann (1884-1976!: la «demitizzazione» del cristianesimo 472 Vita ed opera 473 Demitizzazione ed interpretazione esistenziale Bonhoeffer (1906-1945!: il cristianesimo in un mondo «adulto» 474 La vita come testimonianza 476 L'etica: tra ultimo e penultimo 477 La fine della religione Ti/lich (1886-1965!: un autore di «frontiera» Oltre Barth e la teologia liberale 478 Il metodo della correlazione 479 Tra apologetica e apertura ecumenico-universalistica 482 La teologia della «morte di DiO)) 483 Moltmann (1926); la teologia della speranza 484 Escatologia e speranza 486 Verso una teologia della croce
2.1 2.2
_ -rtiWlifi if fJ®Ptl'ir~f lililtfW:&J;#jlflif!j 1
AM~~ •-- - · -..- - ·;u,aqe efil;gt~':J&l .w:;fffiili!fM jkif!WJ.mTh»a
Il dibattito teologico
La teologia del mondo protestante
504
494 502
l:ll,1lflll~~~~~••••••••taRRIIIIIta,~'t··
Capitolo
494 496 498 500 501
Cardenal: un impegno per la liberazione Maria di Magdala, tre donne fuse in una
~~t: l•t:2 .-~ -
8 • :L
490 490 492
SCHEDE
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27
Introduzione. Scienze umane e filosofia La linguistica de Saussure (1857-1913): lo strutturalismo linguistico Le scuole linguistiche di Copenhagen e di Praga Chomsky (1928): una linguistica «neo-cartesiana)) La sociologia Dall'Ottocento al Novecento Durkheim (1858-1917): il «Cartesim) della sociologia Weber (1864-1920): la sociologia «comprendente)) La sociologia americana Mannheim 0893-1947): la sociologia della conoscenza Scienza del diritto e della politica Kelsen (1881-1973): il positivismo giuridico Il pensiero politico e un dibattito americano L'antropologia culturale Le origini. «Culturm) e «natura)) Le fasi del suo sviluppo Il diffusionismo Boas (1858-1942): il particolarismo storicistico La scuola di «personalità-cultura)) Malinowsky (1884-1942): il funzionalismo Radcliffe-Brown (1881-1955): lo strutturaifunzionalismo Lévy-Bruhl (1857-1939): il pensiero dei primitivi
2.1 2.2 2.3
3.1 3.2 3.3 3.4
3.5 4.1 4.2 5.1 5.2
5.3 5.4 5.5 5.6 5.7 5.8
510 511 513 514 516 517 520 522 524 526 528 530 531 532 532 533 535 536 537
SCHEDA'
-· - "--
Jules lsaac: la necessità di non dimenticare
480
PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
489
587
0
Il pregiudizio eurocentrico
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PISTE DI RICERCA E SUGGERIMENTIINTERDISCIPLINARI
539
INDICI
Capitolo
29 ______________ Psicologia, psicanalisi post-freudiana, psichiatria e movimento antipsichiatrico 541 La psicologia
1.1 1.2 1.3 1.4 1.5
2.1 2.2 2.3 2.4
Strutturalismo e funzionalismo Il comportamentismo La psicologia della «Gestalt» Piaget (1896-1980): epistemologia genetica e psicologia Il cognitivismo La psicanalisi posi-freudiana L'istituzionalizzazione della psicanalisi Adler (1870-1937): una psicologia sociale Jung 0875-1961): con Freud, contro Freud Jung: la struttura della personalità
541 543 54 5 548 551
2.5
Jung: lo sviluppo della personalità. Il «Sé» Reich (1897-1957): sessualità e rivoluzione Klein (1882-1960): la psicanalisi dei bambini Aspetti della psichiatria contemporanea La psichiatria ottocentesca La psichiatria e la psicanalisi La psichiatria fenomenologico-esistenziale Dalla psichiatria sociale all' «antipsichiatria»
2.6
2.7
3.1 3.2 3.3 3.4
560 562 565 566 567 568 569
SCHEDE :e.::::?e_\\'i')O\>'i/{)(::\''>;->;;ct\\)\"\:NXh·;;;z+.Li